Nuove dipendenze. Da chi dipenderai domani? 8835887100, 9788835887102

Le addiction si ritrovano nelle forme più diverse e non sempre sono legate a una sostanza stupefacente. Le nuove dipende

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Nuove dipendenze. Da chi dipenderai domani?
 8835887100, 9788835887102

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Saggi Epoké

Danilo Lazzaro

Nuove dipendenze Da chi dipenderai domani?

edizioni epoké

ISBN 978-88-31327-06-0 ©2020 Edizioni Epoké Edizioni Epoké. Via N. Bixio, 5 15067, Novi Ligure (AL) www.edizioniepoke.it [email protected] Editing e progetto grafico: Edoardo Traverso In copertina: illustrazione di Alice Miglietta I edizione Finito di stampare nel mese di febbraio Print on Web, Isola del Liri (FR) Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta o archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore.

INDICE Prefazione di Giorgio Schiappacasse p. 9 Introduzione Premiamo il tasto “fare qualcosa” p. 15 Capitolo uno Oltre l’alcool p. 31 Capitolo due Oltre i social p. 61 2.1 Comunicare per esistere: la dipendenza dai social media p. 72 2.2 Hikikomori. Ne hai mai sentito parlare? p. 80 2.3 The incel community, gli involontariamente celibi p. 93

Capitolo tre Oltre il gioco. p. 107

Le interviste Nota metodologica p. 127 Vanessa Fieschi p. 130 Daria Ubaldeschi p. 133 Giulia Calamai p. 141 Ernesto De Bernardis p. 150 Maria Carlucci p. 160 Domenico Trocino p. 171 Giorgio Schiappacasse p. 176 Valentina Usala p. 182

Postfazione p. 193 Bibliografia p. 209 Vietato l’accesso ai minori p. 217 Ringraziamenti p. 226 Danilo Lazzaro p. 228 7

Prefazione

Dott. Giorgio Schiappacasse1 È con piacere che scrivo queste righe di introduzione a un libro che è frutto dell’impegno dell’autore e dei tanti che hanno messo a disposizione, come dono prezioso, la loro esperienza, un lavoro personale e di squadra. L’autore scrive in modo fresco e spontaneo, a volte non convenzionale, ed è proprio per questo che i concetti espressi arrivano in modo diretto, come frutto di consapevolezze maturate sul campo, e ci provocano a non rimanere passivi ma a riflettere e a darci da fare! Il panorama dei problemi correlati all’uso delle sostanze psicoattive (siano esse legali o illegali) – e ai comportamenti compulsivi assimilabili – è così ampio e complesso da poter ritenere che tutti noi, le nostre famiglie e comunità siano toccate, in modo diretto o indiretto, da questi problemi (detti correlati) e Dirigente medico di 2° livello delle farmaco-tossicodipendenze presso il Dipartimento salute mentale e dipendenze. È stato direttore dell’U.O. SER.T Ponente di Genova.

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dalle loro conseguenze, come ad esempio gli incidenti stradali oppure i “problemi” degli adolescenti. Negli Stati Uniti, patria del consumismo, overdose da pain killer (farmaci antidolorifici su base oppioide) e consumo di psicofarmaci nella popolazione generale sono “un’emergenza normale” e il nuovo tsunami in arrivo riguarderà le dipendenze tecnologiche, anche queste non facilmente contrastabili soprattutto perché riguarderanno tutto il sistema. Questi comportamenti di “dipendenza tossica” sono attivati e sostenuti da una triade semplice: seduzione, disistima e insoddisfazione. Diamoci un’occhiata più da vicino: • seduzione, seduzione e seduzione, ovvero l’illusione di poter eliminare le proprie difficoltà o sofferenze con un elemento o “atto magico” esterno che promette soluzioni a tutto, in un attimo, e che si pensa di poter controllare a proprio piacimento. • disistima di sé: io “esisto” o sto bene solo in funzione di qualcos’altro fuori da me. È un processo graduale e progressivo di espropriazione indebita della propria autostima. • insoddisfazione cronica: si attiva verificando che l’elemento esterno non è in grado di dare quella soddisfazione assoluta che sembrava promessa. Strano a dirsi, ma questo porta a incrementare le dosi, o a passare ad altra dipendenza che utilizza le stesse premesse, piuttosto che a cambiare strada. Vi ricorda qualcosa? Cosa dite di Pinocchio, del Gatto e la Volpe e del Paese dei Balocchi? Com’è finita? Già! Niente di nuovo sotto il sole. Ciò che possiamo placidamente rilevare in questi anni è la crisi del “sistema educativo” che aveva fatto da 10

riferimento costante alle generazioni precedenti. Le minacce ecologiche, l’insicurezza nel mondo economico, la precarietà dei percorsi lavorativi, la confusione dei riferimenti culturali, la perdita di contatto con le proprie radici, la crescente volgarità e scadimento etico del sistema delle comunicazioni, l’iper-consumismo hanno lasciato soli tutti noi. In particolare i genitori, la scuola e infine i nostri giovani. Educare è una vera e propria mission impossible! Perché è scomodo, richiede pazienza, presenza e coerenza. Si tratta di elementi sempre più fuori moda e purtroppo i risultati si vedono in ogni campo. Anche le esperienze di “reciprocità” così importanti nello sviluppo di una consapevolezza personale partecipativa, in particolare nei percorsi formativi dei giovani, sono entrate in crisi schiacciate da realtà sempre più virtuali, spesso auto-centrate. Lo slogan di oggi è “tutto e subito, evitando le fatiche della vita”, perché quello che è maggiormente assente è la prospettiva di un domani, del futuro. In altri termini, parafrasando un vecchio detto: “l’erba voglio esiste, è un tuo diritto, prendila!” (veramente lo ricordavo diverso, e voi?). Guardate che così facendo rischiamo davvero di perdere l’allenamento, per noi e per i nostri figli. E questo perché viviamo in una società sempre più finta, di plastica, una vera e propria pubblicitocrazia condizionata da un consumismo esasperato, con una perdita dei valori di riferimento (etica del lavoro, del risparmio, dell’impegno, della famiglia, della parola data, della condivisione e dell’onore) che avevano guidato le generazioni precedenti. A proposto della pubblicità, la vera “spacciatrice di illusioni” oggi, ecco cosa scrive Frédéric Beigbeder, un pubblicitario pentito: «Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che 11

vi fa sognare cose che non avrete mai... io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma2». Avete capito? Abbiamo così accumulato in questi anni un debito educativo di cui tanto si parla, forse più importante di quello economico, e la droga della “passività” impera nei nostri territori. E la solitudine? Anche di più! Ma, scusate, non siamo noi quelli dell’era della iper-comunicazione? Avrò capito male! Strano, vero? Questa vera “emergenza educativa” è sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere, ma «a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale e sociale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà e la responsabilità dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale»3. L’unico farmaco-rimedio possibile (ma non lo compri certo in farmacia) consiste nell’impostare percorsi di partecipazione, attiva e consapevole, su molti livelli, a partire dai problemi da cui le persone e le famiglie sono toccate e coinvolte direttamente e da cui traggono motivazione tornando a essere protagoniste attive nei territori. Beigbeder, F., Lire 26.900, Feltrinelli, Milano, 2001 Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.

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Una volta i ragazzi – e un po’ tutti noi – dovevano essere estirpati dai campi per essere mandati a scuola. Oggi è il contrario, dobbiamo tornare a sperimentarci e impegnarci davvero sul campo. È necessaria una nuova consapevolezza e l’impegno di tutta la comunità se vogliamo recuperare il debito educativo accumulato (chissà cosa dice l’Europa?). Ecco i compiti per casa. Due spunti concreti che vi invito ad approfondire: 1. Conoscere e riflettere sull’esperienza islandese: in Islanda, il rapporto tra Stato e persone ha permesso a un efficace programma nazionale di ridurre i tassi di consumo eccessivo di alcol e droghe tra adolescenti riavvicinando le famiglie e aiutando i ragazzi a vivere in modo più sano da ogni punto di vista. Occorre sapere infatti che fino a due decenni fa la dipendenza da droghe e alcol in età adolescenziale era un problema che affliggeva l’Islanda, mentre oggi non lo è più. Gli interventi sono stati assai concreti, come l’introduzione di limitazioni orarie, in particolare d’estate, una maggiore collaborazione tra istituti scolastici e genitori, e soprattutto la creazione di attività extrascolastiche (sportive, culturali e artistiche, di impegno civico) che coinvolgessero gli adolescenti a tempo pieno. In questo modo si permetteva ai giovani di stare insieme, garantendo loro un senso di benessere psicofisico, lo stesso che ricercavano utilizzando droghe e alcool. Per i giovani meno abbienti il governo ha predisposto incentivi statali. È stato un lavoro duro, ha richiesto tempo, ma ha portato ottimi risultati. Nessun altro Paese penserà che questi benefici valgano i sacrifici. 13

2. Conoscere, sostenere e sviluppare le realtà di auto mutuo aiuto impegnate nel campo delle dipendenze (ma non solo) che fanno dello scambio esperienziale costante, della gratuità, dell’ auto-responsabilità, dell’autonomia e della territorializzazione i loro capisaldi. Cito le principali e vi invito a dare un’occhiata: Alcolisti Anonimi e il sistema dei 12 passi (Narcotici Anonimi, Giocatori Anonimi, Overeaters Anonymous, Co-dipendenti Anonimi, Debitori Anonimi, Sex Addicted Anonymous) e relativi gruppi per i familiari (Alanon, Famigliari Anonimi, Gamanon), Club degli Alcolisti (o Alcologici) in trattamento, Genitori insieme (gruppi di auto mutuo aiuto per genitori di adolescenti in difficoltà). Molto si può fare partendo dal basso! Informiamoci e ricordiamoci che tenere un metodo nella vita di tutti i giorni non guasta affatto e permette, spesso, di trasformare il problema in risorsa. Termino con un proverbio cinese che mi pare interpreti bene lo spirito dell’autore: «il tempo migliore per piantare un albero era vent’anni fa, l’altro tempo migliore è adesso». Buona lettura, e grazie Danilo per l’occasione di scambio e riflessione che ci hai regalato.

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INTRODUZIONE

Premiamo il tasto “fare qualcosa” Affinché questo nuovo libro abbia veramente senso, avrò bisogno del vostro aiuto. Per una volta non chiederò di comprarne una copia, di partecipare ad una presentazione oppure di mettere un “mi piace e condividi” sulla pagina social del mio illuminato editore. Questa volta vi chiederò un piccolo azzardo, qualcosa di più, perché oggi, in questo preciso momento, è giunta l’ora di premere un pulsante nuovo, sconosciuto, il tasto “parlane con”. Come dite? State facendo fatica a trovarlo? È quello piccolo, vicinissimo a quell’altro, minuscolo, che si chiama “devi fare qualcosa”. Proprio di fianco a “muoviti!”. Ma questa scommessa, fantastica e totalmente utopica, come starà pensando il solito pessimista seduto nell’ultima fila, avrà successo solamente se riusciremo a condividere i pensieri e i contenuti di queste pagine con un amico, meglio ancora se con un figlio oppure con uno studente. Ci siamo lasciati poche righe fa e già ci troviamo immersi in questa nuova avventura letteraria dal titolo ND - Nuove dipendenze. Da chi dipenderai domani? Come? Dite che somiglia a quello precedente, NSP - Nuove sostanze psicotrope. Come ti drogherai domani? Bravi. Come 15

sempre vi trovo preparati ed attenti. Quindi non mi resta che spiegarvi il perché. Ancora una volta ho deciso di puntare su di un titolo friccicariello (ovvero provocatorio, per i lettori “diversamente napoletani”) ragionando a lungo su come introdurlo, non senza percepire una leggera inquietudine. Questo perché, dopo diverse presentazioni del precedente libro, ho iniziato a realizzare che il focus delle discussioni – sempre più spesso – non riguardava più soltanto la “droga”, la “bottiglia” oppure le “macchinette”, ma si spostava, con maggiore insistenza, verso le pieghe del vissuto delle persone. Una vita normale, fatta di punch e giornale, come direbbe Vinicio Capossela, ma anche di abitudini e piccole manie che – per diverse ragioni, talvolta – finiscono per agglomerarsi fino a sfociare in vere e proprie patologie. Uno dei padri del racconto moderno, Guy de Maupassant, è famoso per aver composto questo verso: «Il nostro più gran tormento nella vita proviene dal fatto che siamo soli e tutte le nostre azioni e i nostri sforzi tendono a farci fuggire da questa solitudine4». Fuggire da questa solitudine. Un aforismo bellissimo e struggente, non credete? Ma soprattutto vero e concreto come un pugno nello stomaco. Attraverso pochi cenni della sua penna, un uomo, scomparso all’alba del 1900, è riuscito a descrivere un concetto attuale e calzante, mai come oggi. Nelle prossime pagine, grazie anche alla partecipazione di alcuni esperti, proveremo ad accostarci alla sensazione descritta da Maupassant, a quel vuoto che ancora oggi ci porta a dipendere da qualunque cosa sia in grado di alleviarci dal tormento e dall’abbandono. 4

Maupassant, G., Racconti, Rizzoli, Milano, 2008.

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Ecco una piccola anticipazione dei loro contributi. Una psicoterapeuta ha voluto descrivere la dipendenza così, come «uno stato illusoriamente rassicurante, confortante e confortevole, quindi ricercato; una sorta di oggetto transizionale tardivo e tossico, che ha lo scopo di sostituire la dipendenza totalizzante del bambino dalla madre ma in modo disfunzionale. È annullante, toglie il pensiero e le responsabilità in quanto si diventa schiavi di qualcosa o qualcuno che in questo modo diviene contenitore della proiezione delle nostre parti più negative e rifiutate. Crea un piacere che, per quanto tossico, soprattutto all’inizio, viene percepito come curativo rispetto a dolori interiori, mentali, al punto che la richiesta rivolta dalla persona al curante di potersi disassuefare diviene paradossale». Un informatico, invece, ne ha parlato in questi termini: «almeno inizialmente, risponde a un bisogno dell’individuo che nel tempo non riesce più a controllare, per tutti i meccanismi fisici e mentali che si innescano. Probabilmente, le persone che diventano dipendenti non riescono a trovare nelle relazioni sociali, piuttosto che nel lavoro o nei loro hobby, qualcosa che li gratifichi completamente. Negli ultimi anni gli standard sociali sono aumentati notevolmente, richiedono successo, visibilità, elevate prestazioni in tutto: se non ci si sente all’altezza, se si vuole rincorrere la società, o se si vuole fuggire da essa, è facile incorrere nell’uso di sostanze o abitudini da cui poi non si riesce più a liberarsi». Un politico ci ha detto che «l’abitudine genera tranquillità, almeno momentanea. La dipendenza è quella scelta abituale che ci evita di riflettere, ma ci tranquillizza e genera piacere, almeno apparente. In realtà io credo che la felicità sia raggiungibile solo quando siamo privi di dipendenze, privi da schiavitù, completamente liberi, ma per far questo occorre una 17

enorme capacità di adattamento. Nella società odierna siamo ogni giorno sottoposti a un’enorme quantità di stimoli e stress indotti dalla società che ci circonda. Per contrastare questo stress ci sono molti metodi: alcuni decidono di leggere, fare sport, fare shopping, giocare alle macchinette, fumare sigarette ecc... Queste attività, quando vengono ripetute costantemente, entrano nella nostra routine quotidiana e non riusciamo più a farne a meno. Quando si assumono sostanze psicotrope, oltre alla dipendenza dell’abitudine vi è una dipendenza fisica. Le dipendenze psichiche e fisiche sono difficili da combattere, ma sono convinto che, battuta quella psichica, la dipendenza fisica possa essere combattuta molto più facilmente. Viviamo in una società sempre più incline ai cambiamenti, pertanto dobbiamo abituare le persone ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti così da ridurre le dipendenze. Combattere la paura del cambiamento dev’essere la priorità». Un ingegnere viaggiatore e sperimentatore ci ha confidato di aver sempre percepito la dipendenza «come una prigione, qualcosa in cui ci si trova senza neanche rendersi conto, tale da poter cambiare la percezione della realtà e le proprie priorità. Sono cresciuto negli anni Ottanta: allora dipendenza significava droga e la droga era l’eroina. Per tanti anni tutto è stato o bianco o nero. Qualsiasi sostanza che non fosse un buon bicchiere di vino ti catalogava come un tossico; poi, crescendo, i contorni si sono fatti meno netti, come in quasi tutti gli aspetti della vita, e ho sviluppato il concetto che le droghe in sé non sono il male, e che l’abuso di esse è frutto del mondo in cui viviamo. Nonostante l’approccio relativistico, ritengo sia importante fissare dei limiti ben definiti che non vanno mai oltrepassati». Niente male come inizio, vero? Profili professionali divergenti. Punti di vista comuni. Consapevolezza che il nostro 18

cammino non è affatto tracciato. Al contrario, risulta disseminato da crepacci cosi profondi da renderne, talvolta, impossibile il ritorno. Arrivati a questo punto, immagino sarete curiosi di conoscere il mio punto di vista. Se fossi uno scrittore serio proverei a rompere il ghiaccio impressionandovi con una minuziosa analisi geopolitica del fenomeno “afferente la massiva transizione di una parte del mercato verso il controllo di nuove potenziali forme di dipendenza”. Proseguirei certificandovi che “il gotha delle multinazionali – lecite e illecite – è attualmente impegnato a riconfigurare il proprio core business, spostando il focus principale dalle dipendenze tradizionali verso i nuovi cavalli di battaglia del mercato” e ancora che “le mafie, in perfetta simbiosi tra loro, stanno seguendo con attenzione gli sviluppi di quegli stessi mercati, confortate da nuovi opzioni d’investimento in un mercato totalmente lecito”. Potrei tentare di concludere citando Machiavelli, Einstein o addirittura Marx e il loro pensiero, che si sublima semplicisticamente nel concetto “la storia si ripete” ma suggerisce anche una riflessione: possiamo comprendere e prevedere il futuro della dipendenza analizzando il passato? Sono soltanto parole. Lo pensate voi (con una punta di ragione) e non ho nessun problema ad ammetterlo io stesso. Cercheremo, quindi, di fare qualcosa in più delle solite chiacchiere. Bene! È davvero arrivato il momento di schiacciare il famoso tasto “parlane con” per provare a osservare la situazione da punto di vista differente, per farci qualche domanda, anche stupida, senza paura. Andiamo!

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Quello che reclama la società E allora stica’ Trova ciò che ami e lascia che ti uccida Domani vai sicuro come sempre A scuola se ti chiedono: “Il futuro dov’è?», tu digli Presente Salmo, Cabriolet, dall’album Playlist (2018)

L’autore del libro, come da convenzione, è obbligato a muovere la prima mossa e accettare la sfida! Partiamo quindi dalla mia storia. Mi chiamo Danilo. Ho 46 anni e questo è il mio curriculum. Sono nato in una calda estate degli anni ’70. A quel tempo la mamma lavorava in fabbrica e papà faceva il manovratore in ferrovia, guidava una Simca color cielo e fumava Chesterfield Blu. Pochi soldi e tante soddisfazioni. Una piccola casa in affitto. Una storia italiana come tante. In vacanza si andava al fiume, in tenda. La cacca si faceva dentro un buco e si copriva con la calce. La scuola elementare si raggiungeva a piedi, le medie in bicicletta e le superiori in motorino. Tutto regolare. Il concetto di bullismo non esisteva, gli stronzi, invece, erano gli stessi di oggi. A volte le prendevo. Giocavo male a pallone ma facevo splendide impennate con la vespa. A 18 anni la mia missione era diventare famoso suonando il basso negli “illuminati” Radical Distortion, un gruppo di sedicenti rockers per niente profumati, bravi e famosi. La nostra peculiarità era quella di muoverci in branchi, a bordo di Fiat Panda 750 CL rigorosamente di colore bianco e perennemente in riserva. Manco a dirlo, erano tutte delle nostre madri. Nessuna di quelle macchine si è salvata5. 5

Colgo l’occasione per fare un mega-saluto ai Radical e alla Fiat!

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A 19 anni un inaspettato e fortuito momento di lucidità (morale e intellettuale) mi ha permesso di diplomarmi geometra con un pregiatissimo 44/60. Voto che, ancora oggi, viene citato dai miei compagni di classe per descrivere una grossa ruberia oppure una riprovevole botta di culo6. A 25 i primi sospetti sul fatto che avrei dovuto necessariamente lavorare per vivere e a 30 ho iniziato a dipingere nella mai sopita speranza di accumulare denaro a fiumi. A 35 anni mi sono laureato e masterizzato per fare felice “la famiglia”. Pare che il relatore della tesi abbia detto «È bella, l’hai fatta davvero tu?» ma fossi in voi non ci metterei la mano sul fuoco. A 40 anni per una serie di casualità e di incontri – tanto casuali quanto graditi – ho iniziato a scrivere libri e articoli, molti dei quali su droghe e dipendenze. Pare che il direttore di un giornale abbia detto «È bravo, ma secondo me i libri glieli scrive la moglie, che ha studiato». Anche in questo caso si trattava di un amico prezzolato7. A 46 anni vi tocca questo libro, per il resto non garantisco. Sarà la volta buona in cui diventerò ricco e saggio? Vedremo! Per il momento partiamo. It’s time to go! La premessa è frivola e smitizzante? Non è abbastanza premessa, con la P maiuscola? Abbiate fede, ho le mie buone ragioni, e poi l’autore è davvero così. Provate a lasciarvi andare, fidatevi di me. Il meglio deve ancora arrivare, anche perché quello che leggerete è maledettamente importante e non nasce dal desiderio di mostrare “il fenomeno da circo” oppure “il tipo che ha fatto un’esperienza” ma, al contrario, tenta di smontare dubbi e domande che spesso rivolgiamo all’amico più addentro alla materia. Colgo l’occasione per fare un mega-saluto alla mitica 5a R del celeberrimo G. C. Abba di Genova! 7 Colgo l’occasione per fare un mega-saluto alla mitica casa editrice Epoké! 6

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Facciamo un patto. Al termine di queste pagine, dopo aver ragionato – insieme, allo stesso livello – sul perché sia meglio non dipendere da nessuna sostanza o comportamento, sarete liberi di dirmi se ho centrato l’obbiettivo oppure no. Potrete dire: hai scritto un sacco di boiate, oppure darmi una pacca sulla spalla ed offrirmi una birra. Senza esagerare, eh! Perché? Il perché lo sanno tutti! Il trend topic del 2019-2020 sarà quello di non dipendere da niente e da nessuno, fatta eccezione di mariti&mogli multimilionari (vecchissimi) e sui quali scriveremo un libro a parte. Fermi tutti. Prima di entrare nel vivo dei nostri argomenti, vorrei raccontarvi ancora qualcosa di me. Come dicevo, sono nato nel 1973 e all’età di 18 anni ho patito la mia prima dipendenza. Roba da ragazzini penserete voi, come darvi torto. Ed è proprio da una situazione così banale che vorrei prendere spunto per descrivere quello che scientificamente viene definito il punto zero, il disagio iniziale. Facciamo qualche passo indietro e descriviamo un normalissimo episodio di vita di un adolescente. Immaginate un “me” pieno di capelli e ormoni, tendenzialmente annoiato e ribelle come lo può essere un abitante del Basso Piemonte da poco maggiorenne, vestito come uno spaventapasseri, camicia a quadrettoni e maglia degli Iron Maiden con le inseparabili Reebok Pump da basket, nere – fighissime, avrei aggiunto allora. Per farla breve, grazie a una serie di fortunate coincidenze, il classico vicino di casa, impietosito dalla mia condizione di “non-sciupafemmine”, si offriva di insegnarmi a suonare il basso elettrico. Il suo basso. Un Ibanez in mogano con tracolla arcobaleno – mortale, avrei aggiunto allora. Lui non lo sapeva, ma quella sua disponibilità, quella impercettibile gentilezza, avrebbe sancito la mia passione per le quattro corde. 22

Primo livello Trovarsi in un limbo emozionale. Senza riferimenti. Qualcuno vi offre un’alternativa a quel silenzio assordante. Voi state sorridendo. Va bene! Perché parlare di dipendenza è una cosa seria, da fare indossando un sorriso, sempre. Andiamo avanti. Andiamo avanti perché a 18 anni su certe cose non ci si poteva scherzare. Andava bene la mamma, le tette grosse della sorella, persino la lunghezza del proprio pisello. Ci stavano. Ma certi argomenti erano davvero off limits. E quelle cose erano le passioni. Entusiasmi che, nel bene e nel male, descrivevano il nostro mondo, con regole inflessibili. Un modo di esistere e farsi sentire. L’adolescenza, dal latino alere. Nutrire. Un giovane uomo in cerca di nutrimento, che va sfamato, un involucro dentro al quale l’ansia fa a pugni con l’incertezza. Dove gli ormoni ti squassano il cervello, ti cambiano la voce e l’odore. Dove tutto ti fa vergognare. Dove ti addormenti guardando i film di Jerry Calà e alla fine sei pervaso da una specie di esaltazione. Dove ti addormenti promettendo a te stesso “ce la farò anche io!” e al risveglio ti domandi “ma a fare cosa?”. Dove reclami la libertà di correre senza avere la forza di camminare. Senza averne il fiato. «Tra tutte le stagioni della vita, l’adolescenza è quella in cui si dispiegano, nel modo più potente e insieme disordinato, inquieto, confuso, eccitante, appassionato, malinconico, rischioso, tutte le potenzialità dell’esistenza, sconosciute prima dell’adolescenza e poi gradatamente assopite fino alla loro estinzione nell’età adulta, quando l’abitudine prende il sopravvento sulla creatività e il bisogno di sicurezza sui margini residui di felicità, che non si ha più il coraggio di catturare perché lo slancio adolescenziale si è già da tempo congedato». E ancora «Gli 23

adolescenti non hanno bisogno di un biglietto da visita per riconoscersi. A loro basta guardarsi negli occhi. Non hanno bisogno di prenotare per tempo cene con amici e conoscenti a cui presentarsi con gli abiti giusti. Non hanno parole e comportamenti di convenienza. In loro la vita ha i tratti dell’immediatezza che li veste come capita, li fa incontrare dove capita, li fa mangiare e bere quel che capita, perché il bello per loro è il puro e semplice stare insieme, senza fedeltà, naturalmente, perché non c’è uno scopo da raggiungere, un obiettivo da realizzare, ma solo quello di sperimentare la potenza della vita spingendola fino a quel limite dove neppure il rischio è davvero fino in fondo calcolato». È così che descrive l’adolescenza un filosofo vero, il Prof. Galimberti8, ed era cosi che mi sentivo anche io. Come una di quelle bombe dei cartoni animati. Nera e con il teschio bianco dipinto sul fianco. Pronta a esplodere o, sarebbe meglio dire, a implodere. Immagino che tutti conoscerete il principio degli ordigni a orologeria. Carica esplosiva, miccia e detonatore. Come nei film, no? Ecco, di quel particolare periodo ricordo che impedirmi di esistere e manifestare le mie passioni equivaleva a innescare il mio conto alla rovescia, ad appiccare la fiamma alla mia miccia. Uno stoppino corto ed esile che non arrivava a toccare l’esplosivo solo grazie a una serie (casuale e fortuita) di avvenimenti. Seguono alcuni esempi: • Imparare a suonare una canzone degli Iron Maiden: + 1 cm di miccia; • Una corsa in moto con impennata perfetta: + 5 cm di miccia; Galimberti, U., “Giovani folli e liberi”, www.d.repubblica.it, 22 settembre 2014.

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• Baciare la tipa con la lingua: almeno 10 cm; • Prima volta in macchina: beh, siamo sul metro! Erano piccole cose che aiutavano le bestioline come noi a sopravvivere, a scaricare quella maledetta e inspiegabile pressione. In quelle attività i bipedi odorosi riversavano un’intensità sconosciuta perfino ai più determinati capitani d’azienda. Non mi credete? Bene! Provate a guardare una puntata di X Factor o di Amici. Guardate gli sguardi di quei bambini, di quei ragazzi, di quelle giovani donne. Determinati, lucidi. Fanno paura da quanta fame hanno. Fame di arrivare. Dedizione. Metodo. E non fatevi trovare sulla loro strada. Vi asfalterebbero. La stessa luce che, a quell’età, abbiamo intravisto anche noi. Una volta, di sfuggita, da dietro. Ma sappiamo di cosa si tratta. Ecco, loro quella luce ce l’hanno a 16 anni. Fa impressione vero? Altri esempi marginali? Malala Yousafzai (17 anni) la più giovane a riceve il Nobel per la pace, stessa età di Ciara Judge, Émer Hickey e Sophie Healy-Thow, scopritrici di un batterio determinante per affrontare la scarsità di cibo nel mondo e vincitrici del Grand Prize del Google Science Fair. Mark Zuckerberg, terzo uomo più ricco al mondo, ha inventato Facebook a 20 anni. Mi fermo. Solo per non offendere e per non deprimermi. È questa l’intensità di cui parlo. Torniamo a noi e a quella stupida storia del basso. Otto ore al giorno, mattino, pomeriggio, sera. Non era quella la cosa importante. Mi interessava solo di stare chiuso nella mia stanza a suonare, far saltare le corde e scoppiare l’amplificatore. Le mie erano mani morbide e inesperte, certo, ma avevano scoperto la formula magica della felicità e nessuno avrebbe più potuto portarmela più via. La miccia si era magicamente allungata e la bomba era quasi disinnescata. Ce l’avevo fatta, da solo! Nulla 25

mi avrebbe portato a desistere. Nemmeno lo sguardo terrorizzato della mia vicina di casa Natalina, arzilla ottantenne tutto pepe che quando mi incrociava sulle scale mi incitava a continuare «perché le facevo taaaanta compagnia».

Secondo livello Condividere la formula magica con altre persone. Socializzare. Continuate a sorridere. Va bene così. Andiamo avanti. Dopo aver imparato a suonare da solo, era necessario cercare una band. Mica facile. Senza macchina e senza soldi. Si suonava con quelli che si trovavano nella mia stessa condizione. E così tra un pugno e un calcio, un manipolo di perfetti sfigati fondava i Radical Distortion! Mica spicci. Gruppo democratico – per quello che riguardava il numero dei componenti – che settimanalmente conviveva in simbiosi per qualche ora attaccato allo stesso amplificatore, misurandosi con un misto di eccitazione, stupore, amore e fastidio. Eravamo una bellissima molecola composta da disadattati che prendevano a suonare le stesse tre canzoni, dalle 14 alle 18 di ogni sabato, nel retro di una parrocchia retta da un parroco futurista che ci lasciava sfogare senza pietà e limitazione. Don Pino. Forse l’unico vero punk del gruppo, sicuramente un Uomo di Chiesa vero, un prete con due palle di marmo che aveva ben chiaro come tenere i ragazzi lontani dalla cattiva strada. Poche cerimonie con lui. Il piano prevedeva qualcosa da mettere in mano al giovane, fosse una vanga, una scopa oppure una chitarra, per lui non faceva differenza. E camminare. Eravamo felici, una massa di barbari onanisti che avevano trovato un loro equilibrio nel gridare dentro a un microfono, 26

in una stanzetta di tre metri per tre, tutti attaccati al medesimo amplificatore da messa, robusto oltre ogni ragionevole sospetto. Quelle cineserie di oggi, con noi, sarebbero durati mezzo pomeriggio. Quello no, non mollava mai. Forse lo staranno studiano alla NASA, adesso. Nel disco Chi vuole essere Fabri Fibra? del 2009, c’è un pezzo dal titolo Donna famosa, nulla di particolare se non fosse per il finale (parlato) dove Fibra, rivolgendosi al pubblico, dice: «Questa cosa la dico sempre ma, cazzo, è vera; per la vostra carriera, per il vostro futuro, ragazzi, veramente, fate quello che pensate voi sia giusto per la vostra carriera, non quello che vi dicono gli altri di fare, perché se ce la fate gli altri sono invidiosi!». La prima volta che l’ho ascoltato mi ha fatto venire i brividi. Era riuscito a scattare la fotografia dei miei vent’anni! Fate voi. In quel periodo di grazia, io avevo vinto tutto. Dalla cameretta al garage, dal garage alla sala prove… il passo era stato breve e obbligato. Ce l’avevo fatta, e che godimento! Tutto perfetto, fino a quando tutto è finito. Puff ! Niente più Radical Distortion, niente prove il sabato, niente corde rotte, niente «Danilo abbassati» e «Leo stai fermo con quel rullante che non si sente un cazzo!» «Paolo ma come fai a dimenticarti l’assolo che tanto sai fare solo quello?» Insomma, basta, stop, fine del gioco. Game over, Radical. Il gruppo, così come si era unito si era sciolto, senza un perché. Piccoli scazzi. Senza una ragione, quella sera dopo aver suonato le solite tre canzoni ce ne siamo andati tutti a casa. Sapevamo che non ci saremmo più rivisti. E senza una ragione, la mattina successiva, quando mi sono svegliato con le orecchie che ancora mi fischiavano, avrei voluto scomparire. Non esistere più. E ho avuto paura. Per la prima volta, nella mia pancia, 27

nella mia testa, ho sentito un vuoto fortissimo, abbagliante. Sapore di ferro in bocca. Mi sono sentito in astinenza da qualcosa. Come avrei fatto senza il gruppo? Cosa avrei fatto? Cosa mi sarebbe successo? Vi posso assicurare che in quella cameretta da bambino, per la prima volta, in quel mattino di sole, mi sono sentito solo, inerme, vuoto, inutile. Avrei voluto morire. E ho avuto paura. Avrei davvero voluto morire.

Terzo livello Preclusione del sogno. E adesso perché non state più ridendo? Forse perché avete un figlio adolescente oppure perché è successo anche a voi? Oppure vi starete chiedendo: ma l’astinenza non è quella dei drogati? che esagerazione ‘sta storiella del basso. Proprio mentre scrivo queste pagine un 19enne di Torino si è gettato dal quinto piano della sua abitazione a causa del divieto imposto dalla madre di utilizzare il PC. È successo di sabato pomeriggio. Adolescenza, dal latino alere. Nutrire. Certo, se adesso sono qui a scrivere, una ragione per continuare a vivere da qualche parte l’avrò trovata. Forse quella stessa sera, sul sedile posteriore dell’Alfa 33 di mio padre con la fidanzatina dell’epoca, oppure dopo un paio di pinte fresche di Guinness al Lucrezia, nei vicoli di Genova, con il mio amico Federico Valente. Quello che vi posso giurare è che quella sensazione di freddo, di morte, che mi ha attraversato come una lama in quel pomeriggio di sole non l’ho più dimenticata. La custodisco preziosamente dentro di me. Raccogliendo del materiale per questo libro ho trovato alcuni scritti del famoso giornalista americano Andrew Solo28

mon, che nel suo libro Il demone di mezzogiorno ha scritto «È un dolore che prende il sopravvento su tutte le altre sensazioni fino ad annientarle. Corrode la psiche come la ruggine il ferro, fino a provocare un cedimento strutturale dell’anima9». Ora penserete che io non sia abbastanza rispettoso verso chi patisce ben più gravi sciagure. A chi è davvero colpito da problemi più seri. Che abbia scritto una fesseria e me ne dovrei scusare. Consideratelo fatto. Chiedo solo un piccolo piacere. Un minimo sforzo. Perché di questo è fatto il mio scrivere. Provate a non sottovalutare le minuscole cose intorno a voi, i minimi segnali, gli scricchiolii impercettibili. Le cadute di piccoli sassi. Perché non esistono gradi di dolore. Esistono solo sensibilità diverse. Forse questa diapositiva di temporanea sfiga e desolazione nella mente di un ragazzino non è il modo migliore per aprire un trattato sociologico, ma a noi che importa? Abbiamo solo voglia di esserci, di sfogare il nostro essere, di farci sentire. E i Radical che fine hanno fatto? Vent’anni dopo il nostro urlatore è diventato un “vero” cantante e musicista di successo, il batterista gira l’Italia realizzando alcune delle più famose app per cellulare per una multinazionale e uno dei nostri innumerevoli chitarristi – poi laureato in fisica – continua a calzare, con la noncuranza di allora, gli stessi mocassini neri su calzino bianco da sessantenne che già all’epoca sfoggiava con fierezza punk. E come dimenticare Gigi. Piccoletto, con la sua Fender Stratocaster sempre lucidissima. Tossiva spesso e sorrideva ancora di più. Un male bastardo ce lo ha strappato dopo pochi anni, se l’è portato via, lontano dall’affetto dei suoi cari. Se devo piangere a comando penso alla custodia della tua chitarra che 9

Solomon, A., Il demone di mezzogiorno, Mondadori, Milano, 2013.

29

trascinavi a fatica. Pesava più di te. Ecco, giovane Fox, colgo l’occasione per dedicarti questo capitolo e confessarti una cosa che non ho mai avuto il coraggio di dirti: facevi davvero schifo a suonare (come noi d’altronde). Nonostante questo, se i Pink Floyd ti avessero conosciuto, con un cuore così grande, ti avrebbero certamente portato in tournee con loro! E poi ci sono io. Che provo a tenervi compagnia con queste pagine.

30

CAPITOLO UNO

Oltre l’alco ol L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è un’agenzia delle Nazioni Unite nata con l’obbiettivo di innalzare al più alto livello possibile la salute di tutte le popolazioni. Cosa si intende esattamente con il concetto di salute? Uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale oppure, semplicemente, l’assenza di infermità e malattie? Tra le sue funzioni, questa agenzia specialistica è impegnata «a fornire una guida sulle questioni sanitarie globali, indirizzare la ricerca sanitaria, stabilire norme e standard e formulare scelte di politica sanitaria basate sull’evidenza scientifica» e ancora «garantisce assistenza tecnica agli Stati Membri, monitora e valuta le tendenze in ambito sanitario, finanzia la ricerca medica e fornisce aiuti di emergenza in caso di calamità. Attraverso i propri programmi, l’OMS lavora anche per migliorare in tutto il mondo la nutrizione, le condizioni abitative, l’igiene e le condizioni di lavoro1». Ma cosa c’entra la salute con la dipendenza? C’entra eccome! Perché una condizione di sudditanza tende a modificare il www.salute.gov.it/portale/rapportiInternazionali/dettaglioContenutiRapportiInternazionali.jsp?lingua=italiano&id=1784&area=rapporti&menu=mondiale

1

31

benessere fisico e il comportamento psicologico dell’assuntore. È proprio l’OMS a descrivere il concetto di dipendenza – in maniera acritica ed oggettiva – come una condizione psicofisica derivante «dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici talvolta di evitare il malessere della sua privazione2». In poche parole: chi sviluppa l’interazione non potrà fare a meno di “accettarla”, sebbene perfettamente consapevole del fatto che, quella stessa sostanza, cagionerà conseguenze dannose se non letali. Oltre a questo primo livello, si sviluppa un convincimento, più strisciante: il timore di non essere in grado di vivere in maniera normale (ovvero svolgere le proprie mansioni, rapportarsi con i simili) senza l’aiuto della “pozione magica”. In questo momento starete pensando all’abuso di farmaci, alla vita misera dei tossici, nascosti nei vicoli bui delle metropoli intenti a iniettarsi dosi di eroina, ai fumatori di crack delle baraccopoli oppure agli sniffatori di colla nelle periferie africane. In realtà mi sto rivolgendo a me stesso. Ai vecchi amici di bevute. A chiunque sia in grado di trasformare la serata in un gran premio alcolico. A chi “butta giù” per sciogliere la tensione, per festeggiare una vittoria o dimenticare una sconfitta. Semplicemente a chi non può fare a meno di quella sensazione di euforica leggerezza. Questo perché, a parere dell’Istituto Superiore di Sanità Epidemiologia «Il consumo di alcol è un importante problema di salute pubblica, classificato in Europa come terza causa di malattia (e decesso prematuro) dopo il fumo e l’iper2

http://www.psychoarea.it/disturbi-psicologici/eta-adulta/dipendenze/

32

tensione arteriosa […]. La classificazione statistica internazionale delle malattie […] indica oltre 200 condizioni per le quali il consumo di bevande alcoliche è un fattore di rischio evitabile inclusi numerosi disturbi neuropsichiatrici, le malattie croniche, i tumori, gli infortuni e le situazioni che provocano ogni anno numerosi morti e feriti che sopravvivono con disabilità permanenti3». Ribadisco, terzo “agente provocatore” di patologie e decessi prematuri. Non la chiamerei quindi una dipendenza a bassa intensità. Come dici, sto esagerando? Un buon bicchiere di vino è un piacere della vita! Un brindisi non ha mai ucciso nessuno. Sono d’accordo con te, a patto che il bicchiere non contenga un litro di vino e i brindisi della serata siano meno di tre. E per avere una visione più nitida delle cose, lasciamo parlare i numeri e le statistiche. Scorrendo sul sito dell’Istituto nazionale di statistica ho recuperato alcuni dati sul consumo, o meglio sull’abuso, di alcool in Italia, derivanti da una ricerca condotta nel 2017 su un campione di circa 21 mila famiglie (per un totale di circa 49 mila individui) 4. Ecco ciò che dicono: «Nel 2018 il 66,8% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno, percentuale in aumento rispetto al 65,4% del 2017. La percentuale dei consumatori giornalieri di bevande alcoliche è pari al 20,6%, in diminuzione rispetto a quanto osservato dieci anni prima (27,4% nel 2008). In aumento la quota di quanti consumano Scafato, E., Ghirini, S., Gandin, S., Vichi, M., Scipione, R. (e gruppo di lavoro CSDA – Centro Servizi Documentazione Alcol), Valutazione dell’Osservatorio Nazionale Alcol sull’impatto del consumo di alcol ai fini dell’implementazione delle attività del Piano Nazionale Alcol e Salute. Rapporto 2018, Istituto Superiore di Sanità, 2018. 4 https://www.istat.it/it/archivio/alcolismo 3

33

alcol occasionalmente (dal 40,6% del 2008 al 46,2% del 2018) e quella di coloro che bevono alcolici fuori dai pasti (dal 25,4% del 2008 al 30,2% del 2018)». Avete letto bene, 11 anni. E questo perché l’Italia ha il primato di consumatori più bassi della comunità europea. Quante domande mi frullano in testa in questo momento! Quali sono i rischi legati al consumo, al bere? Quali le conseguenze? Facciamo un danno solo a noi stessi? Quanto costa allo Stato il nostro vizietto? Secondo il sito alcol.info ogni anno «sono attribuibili, direttamente o indirettamente, al consumo di alcool: il 10% di tutte le malattie, il 10% di tutti i tumori, il 63% di tutte le cirrosi epatiche, il 41% degli omicidi, il 45% di tutti gli incidenti, il 9% delle invalidità o delle malattie croniche5». A questo va aggiunto che «il 10% dei ricoveri è attribuibile all’alcool; nell’anno 2000 tale numero è stato stimato in 326.000 di cui 100.000 con diagnosi totalmente attribuibile all’alcool (relazione al parlamento del Ministro della Salute). Ogni anno in Italia circa 40.000 persone muoiono a causa dell’alcool per cirrosi epatica, tumori, infarto del miocardio, suicidi, omicidi, incidenti stradali e domestici e per incidenti in ambienti lavorativi». Numeri da guerra civile. Ma i più attenti si saranno accorti che si tratta di numeri riferiti all’anno 2000 e che tra le righe si fa menzione a una relazione al Parlamento su alcol e problemi correlati. Proviamo quindi a dare un’occhiata a qualcosa di più recente, magari al report relativo all’anno 2017 trasmesso al Parlamento il 21 marzo 2018 in grado di fornire «un aggiornamento dei dati epidemiologici sul consumo di bevande alcoliche nella popolazione italiana nel corso del 2016 e descri5

https://alcol.info/alcolismo-statistiche.htm

34

vere le azioni di prevenzione messe in atto dal Ministero e dalle Regioni durante il 2017, per contenere il fenomeno correlato al consumo rischioso e dannoso di alcol6». Anche dalla lettura di questo documento ufficiale la musica non pare cambiata. Leggendo meglio: «Aumenta il consumo occasionale e fuori pasto. A fronte di una riduzione del consumo di vino durante i pasti, si registra un progressivo aumento di consumo di bevande alcoliche occasionale e al di fuori dei pasti, condizione ancor più dannosa per le patologie e le problematiche correlate». I dati contenuti nel report, relativi al 2016, mostrano «una diminuzione rispetto all’anno precedente dei consumatori giornalieri, mentre cresce la quota dei consumatori occasionali di alcol (dal 42,2% del 2015 al 43,3% del 2016) e quella di coloro che bevono alcolici fuori dai pasti (nel 2014 erano il 26,9%, nel 2015 il 27,9%, nel 2016 risultano il 29,2%)».Viene inoltre perimetrata la superficie dei consumatori più esposti: «nel 2016 del 23,2% per gli uomini e del 9,1% per le donne di età superiore a 11 anni, per un totale di circa 8.600.000 individui (M=6.100.000, F=2.500.000) […] nel 2016 non si sono attenuti alle indicazioni di salute pubblica. Le fasce di popolazione più a rischio per entrambi i generi sono quella dei 16-17enni (M=49,3%, F=40,0%), che non dovrebbero consumare bevande alcoliche e quella dei “giovani anziani” (65-75 anni). Circa 800.000 minorenni e 2.700.000 ultrasessantacinquenni, infatti, sono consumatori a rischio per patologie e problematiche alcol-correlate». Da quello che si evince, da una prima lettura, la percentuale dei consumatori maschi è assolutamente superiore rispetto alle femmine. Ciò accade trasversalmente con l’esclusione (athttp://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?menu=notizie &id=3327

6

35

tenzione) dei minorenni, dove i numeri paiono equivalersi. Perché? Dopo aver snocciolato i numeri, noiosi ma necessari a comprendere le dinamiche di quella che più che una dipendenza si sta rivelando uno stile di vita, è necessario tentare di capire. Come abbiamo visto per gli stupefacenti, le fasce di abuso riguardano i giovani (18-24 anni) e restano i numeri a confermarci e introdurre alcuni argomenti meritevoli di approfondimento, ovvero l’assunzione massiva di alcolici, anche detto binge drinking, l’assunzione residuale attraverso modalità singolari, anche dette playful drinking, e infine il disturbo da uso di alcool, anche detto AUD ovvero alcohol use disorder. Ma cosa significano esattamente? Chi è un binger e chi un player? Quando “il bicchierino” diventa patologia? Cosa vuol dire farsi un Eyeballing? Niente paura. Proveremo a spiegare tutto! Partiamo dal binger, ovverosia da colui che assume più bevande (B-drinker) oppure più cibi spazzatura (B-eater) nell’arco di un intervallo di tempo normalmente breve o molto breve. Secondo l’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, un B-drinker è colui che consuma una grande quantità di alcol (stimato in circa 12 grammi di alcool puro) in una “sessione”, ovvero nel corso di una serata oppure di un pomeriggio. Questo comportamento, che porta ad accumulare una forte concentrazione di alcool nel sangue in brevissimo tempo, rappresenta un’abitudine “spansa e rafforzata” tanto che, nel 2015, ha riguardato il 15,6% fino ad arrivare al 17% del 2016 dei giovani (18-24 anni). Scommetto che alcuni di voi, in questo preciso momento, saranno impegnati a fare i conti. Quanti grammi di alcool ci saranno stati nei 3 mojito che ho bevuto ieri sera? Un grammo oppure dieci? Boh! Allora: 12 grammi di alcool puro corrispondono, in media, a 6 consumazioni. Per farla ancora più breve 6 negroni, oppure 6 36

chupito e via dicendo. Per rendere la cosa ancora più “reale” vi chiedo di dare un’occhiata alla tabella ufficiale del Ministero. In questo prospetto sono indicati i livelli teorici di alcolemia raggiungibili dopo l’assunzione di un’unità alcolica, calcolati in base al sesso, al peso corporeo e allo stomaco vuoto o pieno. Si tratta di livelli indicativi e si riferiscono a un’assunzione entro i 60-100 minuti precedenti. Facendo riferimento ai B-drinker, per conoscere il valore di alcolemia raggiunto è necessario sommare i valori indicati per ciascuna unità alcolica consumata! Beh! Come dite? Dopo aver letto la Tabella 1.1, sei consumazioni di fila non vi sembrano più così poche? E qui ritorniamo alle prime righe del capitolo. Cosa c’è di male a farsi un buon bicchiere di vino? Nulla. Ma qui mi pare che si stia parlando di una storia diversa. Non abbiamo voglia di assaporare un buon vino, una buona birra artigianale, ma vogliamo distruggerci in una sorta di guerra alcolica con il nostro (povero) fegato. La sfida (tra noi e il fegato ovviamente) è a chi molla prima ed il trofeo è una splendida ubriacatura immediata con conseguente perdita di ogni freno inibitorio. Siamo belli da impazzire e loquaci! Tutto gira intorno a noi! Almeno per un paio di ore. Perché sappiamo benissimo come finirà la serata. Nel migliore dei casi abbracciati a ballare con la tazza del bagno. Nel peggiore… beh, quello lo voglio lasciare alla vostra esperienza. Fa ridere? Boh! Ditemelo voi. Anche perché, secondo me, nei casi più estremi è una specie di braccio di ferro. Una sfida che suona come una “cagata pazzesca”. Due energumeni (parliamo sempre di noi e del nostro fegato) che gonfiano i muscoli e si urlano in faccia, l’uno contro l’altro. Alla fine, chi vince emette un urlo gutturale e l’altro si alza dal tavolo con il braccio a tracolla. Dolorante e battuto. La gente intorno urla felice. Si sono divertiti a guardare due perfetti coglioni (ops, un’altra parolaccia). 37

38

330 125 80 40

cc cc cc cc

Superalcolici Champagne/spumante Ready to drink MIX

UNITÀ ALCOLICA DI RIFERIMENTO (in cc) (Bicchiere, lattina o bottiglia serviti usualmente nei locali) 40 cc 100 cc 150 cc sommare i componenti

5

8

10

12

18

25

30

35

45

60

11

2,8

5

birra leggera

birra normale

birra speciale

birra doppio malto

vino

vini liquorosi-aperitivi

digestivi

digestivi

superalcolici

superalcolici

superalcolici

champagne/spumante

ready to drink

ready to drink

0,05

0,32

0,46

0,73

0,92

0,42

0,40

0,26

0,32

0,37

0,47

0,63

0,31

0,10

0,20

0,06

0,56

0,90

1,12

0,51

0,49

0,32

0,39

0,45

0,58

0,77

0,37

0,12

0,24

0,18

0,09

0,28

0,58

0,43

0,34

0,29

0,24

0,37

0,38

0,84

0,67

0,42

0,29

0,04

0,17

0,08

0,26

0,53

0,40

0,31

0,27

0,22

0,34

0,35

0,78

0,62

0,39

0,27

0,04

0,17

0,07

0,22

0,46

0,35

0,27

0,23

0,19

0,29

0,31

0,67

0,54

0,34

0,24

0,03

Livelli teorici di alcolemia

0,39

45

0,14

0,07

0,21

0,43

0,33

0,25

0,22

0,18

0,28

0,29

0,63

0,50

0,32

0,22

0,03

80

ready to drink

ready to drink

champagne/spumante

superalcolici

superalcolici

superalcolici

digestivi

digestivi

vini liquorosi-aperitivi

vino

birra doppio malto

birra speciale

birra normale

birra leggera

birra analcolica

BEVANDA

DONNE

0,5

5

2,8

11

60

45

35

30

25

18

12

10

8

5

3,5

Peso corporeo (Kg) 60 65 75

0,26 0,42 0,53 0,24 0,23 0,16 0,19 0,22 0,29 0,38 0,18 0,06 0,12

0,32 0,52 0,65 0,29 0,28 0,20 0,24 0,27 0,35 0,47 0,22 0,07 0,15

0,03 0,19

0,03

0,11

0,06

0,16

0,35

0,26

0,21

0,18

0,15

0,21

0,22

0,48

0,39

0,24

0,17

0,02

0,10

0,05

0,15

0,33

0,24

0,19

0,16

0,14

0,20

0,20

0,45

0,36

0,22

0,16

0,02

0,09

0,04

0,13

0,28

0,21

0,16

0,14

0,12

0,17

0,18

0,39

0,31

0,19

0,14

0,02

Livelli teorici di alcolemia

55

0,23

45

STOMACO PIENO

BEVANDA

55

Peso corporeo (Kg) 65 70 75 80

STOMACO VUOTO

90

BEVANDA

UOMINI

55

65

Peso corporeo (Kg) 70 75 80

STOMACO PIENO

** Esempi: donna, peso 45 Kg, ha assunto a stomaco vuoto 1 birra leggera ed 1 aperitivo alcolico. Alcolemia attesa: 0,39+0,49 = 0,88 grammi/litro; donna, peso 60 Kg, ha assunto a stomaco pieno 2 superalcolici (60°). Alcolemia attesa: 0,35+0,35 = 0,70.

0,5

3,5

birra analcolica

Gradazione alcolica (Vol. %)

BEVANDA

Peso corporeo (Kg) 55 60 65 75

STOMACO VUOTO

90

0,08

0,04

0,12

0,26

0,20

0,15

0,13

0,11

0,16

0,17

0,36

0,29

0,18

0,13

0,02

80

Se si assumono più unità alcoliche, per conoscere il valore di alcolemia raggiunto è necessario sommare i valori indicati per ciascuna unità alcolica consumata **

riferiscono ad una assunzione entro i 60-100 minuti precedenti

Tabella 1.1 – La tabella ufficiale del Ministero della Salute relativa alle percentuali di alcolemia successive all’assunziodi bevande alcooliche. Fonte: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_newsAree_463_listaFile_itemName_3_file.pdf Ine valori di ALCOLEMIA, calcolati in base al sesso, al peso corporeo e all’essere a stomaco vuoto o pieno, sono solo indicativi e si

Birra Vino Vini liquorosi-aperitivi Digestivi

Gradazione alcolica (Vol. %)

Gradazione alcolica (Vol. %)

Gradazione alcolica (Vol. %)

2,8

5

champagne/spumante

ready to drink

ready to drink

0,63

0,31

0,10

0,20

0,77

0,37

0,12

0,24

0,58

0,18

0,09

0,28

0,53

0,17

0,08

0,26

0,46

0,17

0,07

0,22

0,43

0,14

0,07

0,21 ready to drink

ready to drink

champagne/spumante

superalcolici

60

5

2,8

11

0,38 0,18 0,06 0,12

0,47 0,22 0,07 0,15

0,35

0,11

0,06

0,16

0,33

0,10

0,05

0,15

0,28

0,09

0,04

0,13

0,5

3,5

5

8

10

12

18

25

30

35

45

60

11

2,8

5

birra analcolica

birra leggera

birra normale

birra speciale

birra doppio malto

vino

vini liquorosi-aperitivi

digestivi

digestivi

superalcolici

superalcolici

superalcolici

champagne/spumante

ready to drink

ready to drink

0,15

0,08

0,24

0,48

0,36

0,28

0,24

0,20

0,31

0,32

0,71

0,56

0,35

0,25

0,04

55

0,13

0,06

0,19

0,41

0,31

0,24

0,21

0,17

0,26

0,27

0,6

0,48

0,30

0,21

0,12

0,06

0,18

0,38

0,29

0,22

0,19

0,16

0,24

0,25

0,55

0,44

0,28

0,19

0,03

0,11

0,06

0,17

0,36

0,27

0,21

0,18

0,15

0,23

0,24

0,52

0,41

0,26

0,18

0,01

0,10

0,05

0,16

0,33

0,25

0,19

0,18

0,15

0,21

0,22

0,49

0,39

0,24

0,17

0,01

Livelli teorici di alcolemia

0,03

0,09

0,05

0,14

0,30

0,22

0,17

0,15

0,12

0,19

0,20

0,43

0,35

0,22

0,15

0,01

90

ready to drink

ready to drink

champagne/spumante

superalcolici

superalcolici

superalcolici

digestivi

digestivi

vini liquorosi-aperitivi

vino

birra doppio malto

birra speciale

birra normale

birra leggera

birra analcolica

BEVANDA

UOMINI

5

2,8

11

60

45

35

30

25

18

12

10

8

5

3,5

0,5

0,09

0,05

0,14

0,30

0,22

0,17

0,15

0,12

0,18

0,18

0,41

0,33

0,20

0,14

0,02

55

Peso corporeo (Kg) 70 75 80

0,08

0,04

0,11

0,25

0,19

0,15

0,13

0,10

0,15

0,16

0,34

0,28

0,17

0,12

0,02

0,07

0,04

0,11

0,23

0,17

0,14

0,12

0,10

0,14

0,15

0,32

0,26

0,16

0,11

0,02

0,07

0,03

0,10

0,22

0,16

0,13

0,11

0,09

0,13

0,14

0,30

0,24

0,15

0,10

0,01

0,06

0,03

0,09

0,20

0,15

0,12

0,10

0,08

0,12

0,13

0,28

0,22

0,14

0,10

0,01

Livelli teorici di alcolemia

65

STOMACO PIENO

0,26

0,06

0,03

0,08

0,18

0,14

0,11

0,09

0,08

0,11

0,11

0,25

0,20

0,12

0,09

0,01

90

0,08

0,04

0,12

La tabella fornisce informazioni volte a favorire una autovalutazione dei livelli di alcolemia (concentrazione di alcol nel sangue) conseguenti all’assunzione delle più comuni bevande alcoliche; lo scopo principale è quello di contribuire ad identificare o calcolare le quantità di alcol che determinano il superamento del limite legale fissato per la guida e di promuovere una guida sicura e responsabile. A tal fine è importante sapere che: - esiste un legame diretto tra livelli crescenti di alcolemia (concentrazione di alcol nel sangue) e rischio relativo di causare o essere coinvolti in un incidente grave o mortale; - le alterazioni delle capacità alla guida sono direttamente influenzate dalla quantità di alcol consumata e si manifestano con l’assunzione di tutti i tipi di bevande alcoliche, senza distinzione; - tutte le quantità di alcol, anche quelle minime o moderate, pongono l’individuo in una condizione di potenziale rischio; - a parità di quantità di alcol consumate, individui differenti possono registrare variazioni anche notevoli nei livelli di alcolemia, in funzione: del genere (con differenze tra maschi e femmine), dell’età, della massa corporea (magrezza o obesità), della assunzione o meno di cibo (se a stomaco pieno o a digiuno), della consuetudine con cui si assume alcol, della presenza di malattie o condizioni psico-fisiche individuali o genetiche, della assunzione di farmaci anche di uso comune (es. aspirina, antistaminici, anticoncezionali, antinfiammatori, antipertensivi, anticoagulanti, antibiotici, farmaci per il sistema nervoso). Di conseguenza, a fronte delle molteplici variabili che possono influenzare il livello individuale di alcolemia, è nella pratica impossibile calcolare con precisione la quantità esatta di alcol da assumere senza

AVVERTENZE PER UNA CORRETTA LETTURA DELLA TABELLA

** Esempi: uomo, peso corporeo 75 Kg, ha assunto a stomaco vuoto 2 birre speciali. Alcolemia attesa: 0,41+ 0,41 = 0,82 grammi/litro; uomo, peso corporeo 55 Kg, ha assunto a stomaco vuoto 1 birra doppio malto ed 1 superalcolico di media gradazione (45°). Alcolemia attesa: 0,71+0,36 = 1,07 grammi/litro.

Gradazione alcolica (Vol. %)

BEVANDA

Peso corporeo (Kg) 65 70 75 80

STOMACO VUOTO

** Esempi: donna, peso 45 Kg, ha assunto a stomaco vuoto 1 birra leggera ed 1 aperitivo alcolico. Alcolemia attesa: 0,39+0,49 = 0,88 grammi/litro; donna, peso 60 Kg, ha assunto a stomaco pieno 2 superalcolici (60°). Alcolemia attesa: 0,35+0,35 = 0,70.

60

11

superalcolici

Gradazione alcolica (Vol. %)

39

Secondo il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura dell’Istituto superiore di sanità, quella del binger italiano – in media maschio, giovane e del Nord – è una «moda preoccupante, venuta dai Paesi nordici e sempre più diffusa anche in Italia, con punte oltre il 21% negli uomini della Provincia autonoma di Trento, dove si registra anche il maggior numero di bevitori fuori pasto (15% di tutti gli intervistati)7». E ancora: «Secondo la fotografia scattata dalle Asl, il 42% dei 18-34enni che fanno binge drinking consuma bevande fuori pasto: una percentuale che scende al 16% nella fascia di età tra i 35-49 anni e al 9% tra i 50-69enni. Inoltre, il 60% dei giovani che ha fatto un uso smodato di alcol negli ultimi 30 giorni concentra nel week-end il consumo di bevande alcoliche». Una pratica così solenne e prettamente post-adolescenziale, ma che riguarda in forma residuale anche il 5% delle persone tra i 65 ed i 69 anni, non può essere altro che comune a noi maschi che, in quel magnifico periodo della nostra vita, adoriamo distinguerci in peggio! Secondo quanto rilevato dalle ricerche, infatti, appena il 2% delle femmine è interessata a questa modalità di consumo e sussistono forti differenze tra Nord e Sud Italia: «Il sistema Passi evidenzia nette differenze tra regioni settentrionali e meridionali: mentre in Trentino il binge drinking riguarda circa il 24% dei ragazzi nella fascia di età tra 18-34 anni, in Emilia Romagna interessa un giovane su dieci8». La regione più virtuosa è la Campania, con il 3% di binge drinker. Un gradiente tra Nord e Sud esiste anche nel consumo abituale di vino o birra. Mentre in Trentino e in Emilia-Romagna il 69% degli intervistati ha dichiarato di 7 8

https://www.epicentro.iss.it/alcol/adp08_passi Ivi.

40

aver consumato almeno un’unità alcolica (circa un bicchiere di vino) negli ultimi 30 giorni, in Campania lo ha fatto solo il 48% del campione analizzato. Questa tipologia di assunzione porta con sé numerosi effetti negativi, sia a breve che a lungo termine. I primi scaturiscono dopo pochi minuti dall’assunzione con nausea, incoscienza fino al coma etilico con strascichi infiammatori su pancreas e stomaco, irregolarità cardiaca e un grave calo della glicemia. Il comportamento a lungo termine può condurre all’epatite alcolica, e anche il sistema immunitario può risultare compromesso, lasciando il bevitore più esposto a gravi infezioni e virus. Proseguendo nella narrazione, esiste poi un’assunzione residuale anche detta playful drinking, letteralmente “bevuta giocosa”. Si tratta di una forma di assunzione più strisciante, in dose minori, ma capace di provocare danni e alterazioni. Il nome stesso evoca il gioco e il divertimento. In effetti si tratta di assunzioni goliardiche e che spesso avvengono quando l’assuntore è già in avanzato stato di intossicazione. Non cito questi “metodi” per evocare una sorta di emulazione ma, al contrario, per rendervi edotti dai danni che questi giochetti tra amici possono provocare e che, a mio avviso, sono assolutamente da evitare. Avete mai sentito parlare di eyeballing? Si tratta di una pratica che consiste nell’applicare gocce di alcool sul bulbo oculare come se fosse un collirio, permettendo in questo modo una rapida assunzione degli alcolici tramite la mucosa della cornea e una rapida ubriacatura. Nonostante le premesse, alcune ricerche mediche smentirebbero tutto: pare infatti che l’assorbimento per via orale sia più rapido e che il contatto dell’alcool con il bulbo e la cornea possa provocare danni permanenti agli occhi. In pratica risulterebbe solo doloroso e per nulla efficace. E se davvero siete 41

scettici possiamo entrare nello specifico. Nell’alcool è infatti presente l’etanolo (anche detto alcool etilico) il quale, oltre a essere tossico, risulta irritante per le mucose e capace di causare lesioni e, nei casi più gravi, la lacerazione con necessità di trapianto della cornea. Addentrandoci nel mondo grottesco delle ubriacature alternative, esistono numerose leggende metropolitane per ubriacarsi presto e bene (parliamone). Una di queste consisterebbe nell’utilizzare un tampax imbevuto di alcool da inserire nella vagina oppure, per i ragazzi, nell’ano. Come per l’eyeballing, l’assorbimento sarebbe agevolato dal contatto con le mucose e in aggiunta esisterebbe la leggenda secondo cui si risulterebbe negativi ai controlli alcolimetrici. Fortunatamente si tratta di una grossa fake news. Anche in questo caso i vantaggi non esistono, né riguardo la velocità di assorbimento né per la presenza di alcool nel cavo oro-faringeo… Detta facile l’alito vinoso rimarrebbe invariato perché la circolazione dell’alcool interessa sempre i polmoni e di conseguenza il respiro. E una bella sniffata ce la vogliamo precludere? Per gli amanti del nasino direttamente dagli USA arriva il Palcohol, l’alcool, o meglio il cocktail, in polvere da diluire in acqua o succo di frutta. Non fatevi ingannare dal simpatico gioco di parole (pal = amico) che nasconde un pericoloso incentivo al consumo di alcool, veloce e low cost, destinato, neanche a dirlo, ai più giovani. Il Palcohol, approvato dal governo federale nel marzo del 2015, seppur legale negli Stati Uniti è stato vietato da diversi stati come Lousiana, South Carolina, Vermont e Massachusetts, preoccupati dal possibile aumento di consumo derivante dalla facilità di assunzione anche in luoghi dove l’uso è vietato, come carceri, scuole, concerti e stadi. In tutta sincerità ho trovato diversi video sull’assunzio42

ne tramite sniffata delle bustine di alcool in polvere ma – incuriosito dal prodotto – non ho individuato nessuna piattaforma che lo mettesse in vendita, quindi a oggi non saprei aggiungere altro. Sul prossimo fenomeno sono invece un poco più preparato. Si tratta della drunkoressia, termine coniato nel 2008 dai media popolari del «New York Times» per descrivere «la pratica della restrizione delle calorie in modo da poter consumare più alcol e non aumentare di peso9» ovvero la tendenza a consumare molti drink, utilizzano le calorie contenute nell’alcool per alimentarsi e ridurre il senso di fame. In un’intervista rilasciata nell’agosto 2013, Gianni Testino, Vicepresidente della Società Italiana di Alcologia e responsabile del Centro Alcologico Ligure all’ospedale San Martino, la drunkoressia viene descritta come una patologia «che coinvolge ragazze con tendenze all’anoressia. Avendo compreso che essendo l’alcol ipercalorico (anche se sono calorie vuote, ovvero senza valori nutritivi) serve a ridurre l’appetito. In questo modo tendono a non alimentarsi più, sostituendo il cibo con drink alcolici10». Una vera e propria «malattia che le famiglie tendono ancora a nascondere per paura o per vergogna». Ecco la vera pericolosità di alcune dipendenze. Già letali singolarmente tendono ad accoppiarsi, aumentando la loro pericolosità rendendo il trattamento davvero difficile. In questa Kershaw, S., “Starving themselves, cocktail in hand”, «New York Times», 2 marzo 2008; Smith, R., “Drunkorexia slimmers skip means for alcohol”, «Daily Telegraph», 2008; Stoppler, M.C., “Drunkorexia, manorexia, diabulimia: New eating disorders?”, «MedicineNet», 2008. 10 Casali, L., “Eyebaling e drunkoressia, così i giovani si distruggono anche a Genova”, ilsecoloxix.it, 5 agosto 2013. 9

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particolare fattispecie troviamo alcool-dipendenza e disturbo alimentare. Un interessante articolo11 pubblicato nel novembre 2016, la dottoressa Maria Carlucci12 ci conferma che, sebbene non risulti ufficialmente riconosciuta dalla medicina, la drunkoressia è una vera e propria patologia caratterizzata da comportamenti debilitanti derivanti da un mix letale di anoressia, alcolismo e talvolta di attività sportiva. Si saltano i pasti per evitare di incamerare calorie. Si beve per compensare la carenza calorica. Spesso ci si focalizza su un ossessivo esercizio fisico per «modificare il peso, la forma o il tono muscolare e si associano sensi di colpa nel caso in cui l’esercizio viene posticipato o cancellato […]. Le donne, spesso, cercano di bruciare drasticamente quantità eccessive di calorie, per ridurre il peso corporeo e la percentuale di grasso13». Sempre secondo quanto riferito dalla dottoressa Carlucci «la drunkoressia è ormai approdata anche in Italia, infatti, uno studio italiano del 2014, su un campione di circa 3000 soggetti, dimostra come questo sia un fenomeno comune anche tra i giovani adulti italiani con una prevalenza del 32.2% e riguarda anche la popolazione maschile, non solo quella femminile, come quanto riportato dai media […]. Allo scopo di fornire benefici per la diagnosi, il trattamento e il recupero, sarebbe auspicabile approfondire maggiormente tale fenomeno e capire quali siano i fattori psicologici che muovono i giovani in quehttps://www.stateofmind.it/2016/11/drunkoressia-definizione/ Psicologa laureata in psicologia cognitiva, perfezionata in psicologia giuridica e psicologia dell’età evolutiva, psicoterapeuta cognitivo e cognitivo-comportamentale in formazione presso la sede di Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto. 13 https://www.stateofmind.it/2016/11/drunkoressia-definizione/ 11 12

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sta nuova tendenza. Potrebbe quindi, essere utile individuare i soggetti più a rischio ed attuare adeguati e mirati programmi di educazione e prevenzione». Ovviamente non potevamo lasciarci scappare l’occasione di provare a contattare la dottoressa che ha accettato con entusiasmo di rilasciare un’intervista che leggerete nel capitolo dedicato. E dopo il consumo massivo/residuale che succede? O meglio, cosa succede a un bevitore che si espone a un consumo massivo di alcool per un periodo prolungato? Esiste davvero un punto in cui il binge drinking può trasformarsi in una vera e propria patologia? Utilizzando il buon senso possiamo trovare una prima risposta. Il reiterato consumo di sostanze è propedeutico allo sviluppo di patologie cerebrali croniche da ricaduta, caratterizzate dalla ricerca compulsiva di alcool, da una mancanza di controllo sul consumo della sostanza e da un rapporto malsano di dipendenza con il bere. Ma affidiamoci alla parola degli esperti, ad esempio al National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism, secondo cui, negli Stati Uniti, oltre 16 milioni di persone sono affette da un disturbo da uso di alcol e circa 1,5 milioni di queste sono alla ricerca del corretto trattamento della dipendenza14. E in Italia? Secondo un articolo dell’Azienda Socio Sanitaria Territoriale Fatebenefratelli-Sacco dal titolo “Il disturbo da uso di alcol” «ci sono 8.643.000 (M=6.082.000, F=2.562.000) consumatori a rischio (dati ISTAT 2016) che bevono più delle dosi consentite o utilizzano la modalità binge drinking, consumano 5/6 o più bicchieri di bevande alcoliche in un’unica occasione. L’alcol è causa di oltre 200 diverhttps://dieteasier.com/2018/12/18/i-figli-di-genitori-che-hanno-undisturbo-da-consumo-di-alcol-hanno-piu-probabilita-di-sposarsi-sottoi-25-anni-con-una-persona-che-ha-lo-stesso-disturbo/

14

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se malattie ed è classificato come il terzo fattore di rischio di malattia e morte prematura, dopo il fumo e l’ipertensione15». E ancora: «L’alcolismo come effetto di un “malessere sociale” non è prerogativa delle classi meno abbienti o meno acculturate o di particolari ambienti trasgressivi, come spesso anche i media comunicano». Il bere troppo e male, in situazioni di stress o conviviali, di aggregazione o di profonda solitudine, è un’abitudine diffusa in tutti i livelli sociali e si sta allargando in modo allarmante tra i giovani, che tendono ad associare le bevande alcoliche ad altre sostanze tossiche (cocaina, ecstasy, cannabis). Vorrei poter riassumere questi dati in maniera semplice e diretta. Alla domanda “esistono dosi accettabili di alcool?” vorrei rispondere cosi: non esiste l’uso e l’abuso ma un consumo a basso, medio ed alto rischio. E nell’alcool il consumo sarà sempre superiore ad un rischio zero. Quando si supera la soglia dell’alto rischio si finisce tra una platea di bevitori eccessivi e dipendenti, in una condizione di disagio compatibile a ricadute patologiche sia sulla salute mentale che fisica. Non solo, l’abuso “del bere” è in grado di produrre disservizi e infortuni lavorativi, malesseri familiari e conflitti sociali e giuridici spesso insuperabili. Ne vale la pena? Secondo una classificazione pubblicata sul sito dell’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale (ASST) Fatebenefratelli-Sacco di Milano, questa nuova modalità di definire «il bevitore a rischio, eccessivo o alcoldipendente prevede che, in base agli 11 punti riportati, una persona abbia un disturbo da uso di sostanze: lieve se nel corso dell’anno sono comparsi 2-3 sintomi, mohttps://www.asst-fbf-sacco.it/news/info/il-disturbo-da-uso-di-alcol; Emanuele Scafato e Silvia Ghirini - Osservatorio nazionale alcol (Cnesps-Iss) - Centro Oms per la ricerca sull’alcol

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derato se sono comparsi 4-5 sintomi e grave se sono comparsi 6 sintomi o più». Ecco la lista dei sintomi16: • La sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto; • Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza; • Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per es., recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per es., fumando “in catena”), o a riprendersi dai suoi effetti; • Craving o forte desiderio o spinta all’uso della sostanza; • Uso ricorrente della sostanza che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa; • Uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza; • Importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o ridotte a causa dell’uso della sostanza; • Uso ricorrente della sostanza in situazioni nelle quali è fisicamente pericolosa; • Uso continuato della sostanza nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza; 16

https://www.asst-fbf-sacco.it/news/info/il-disturbo-da-uso-di-alcol

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• Tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti: a) il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato; b) un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza; • Astinenza, come manifestata da ciascuno dei seguenti: a) la caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza (riferirsi ai Criteri A e B dei set di criteri per Astinenza dalle sostanze specifiche); b) la stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza. Quando ho iniziato a scrivere questo libro mi sono posto due condizioni: non emettere giudizi su situazioni o su persone; non dispensare soluzioni improvvisate. perché ogni singola forma di dipendenza descritta in questo libro scaturisce da una serie di complessità cliniche, genetiche e fisiologiche che si accompagnano, talvolta, con disturbi personali e psichiatrici. Il Disturbo da Uso di Alcol (DUA) è una di queste malattie. L’ansia, la depressione, l’infelicità spesso accompagnano e alimentano il desiderio di bere. La riabilitazione è lunga e difficile. Il rischio di ricaduta, proprio perché legato a doppio filo a manifestazioni psichiatriche, è sempre dietro l’angolo. E le donne ne sono maggiormente colpite rispetto agli uomini. Non è difficile comprendere come si possa sentire un uomo oppure una donna in condizioni simili, colpiti da patologia psicologica e dipendenti da alcool. Non serve aggiungere altro se non a porci importanti interrogativi. Le soluzioni esistono ma sono costose in spendita di tempo, denaro e applicazione e non immediate perché associate a diverse aree di intervento. Si parla infatti di triplice approccio: biologico, con interventi medi48

ci, psicologico e sociale. È quindi necessario l’intervento di più professionisti che operano di concerto per cercare di sanare la parte “malata” di competenza. Esistono linee guida in grado di combinare diagnosi e cura, l’intervento medico e quello psicologico, per sanare la parte fisica e tentare di estirpare la voglia di bere, per far riconoscere al paziente le situazioni a rischio da evitare e per prevenire le ricadute. Ma come ho scritto bisogna anche intervenire sull’aspetto sociale. Sulle motivazioni che portano l’adolescente, l’uomo o l’anziano – sia esso maschio o femmina – ad abusare dell’alcool, a cercare una soluzione sul fondo della bottiglia. Ora sorriderete perché farò riferimento a un sito che sembra c’entrare davvero poco con il nostro discorso. In realtà, tra i molti che ho visitato per collezionare questo libro, è quello che mi è parso quello più capace di descrivere in pochissime parole il “momento”. Si tratta di “Alimentazione bambini, il sito che ti aiuta a nutrire meglio il tuo bambino” dove il concetto viene fissato con estrema sintesi «L’adolescenza è un periodo di grandi sconvolgimenti ormonali, fisici ed emotivi, di passaggio dall’essere bambini al mondo degli adulti, e proprio in questo periodo della vita per ragazzi e ragazze è fondamentale essere parte di un gruppo e dunque sposare tutte le scelte e le mode che “il gruppo” impone, anche quelle che poi così corrette o così sane non sono. E tra le mode, o meglio cattive abitudini, diffuse tra i nostri adolescenti vi è l’eccessivo consumo di alcol, il cui potenziale pericolo viene valutato solo, purtroppo con rammarico, nel corso di un evento drammatico o degli anni quando ci si rende conto dei danni che questa sostanza ha creato al proprio corpo17». http://alimentazionebambini.e-coop.it/attualita/adolescenza-e-alcoleffetti-e-cattive-abitudini/

17

49

Ci sono tutti gli ingredienti di cui abbiamo parlato e che secondo me vengono magnificamente descritte da una delle menti più affascinati e lucide del nostro tempo, il filosofo Umberto Galimberti, professore ordinario di Filosofia della Storia e Psicologia all’università Ca’ Foscari di Venezia: «I giovani di oggi non hanno né sogni, né speranze, né fiducia in se stessi. Come dice bene Miguel Benasayag in un libro molto bello, ‘L’epoca delle passioni tristi’, il futuro per loro non è più una promessa, ma una minaccia. Io non so se sia proprio una minaccia, di certo non offre motivazioni: perché lavorare, studiare se il futuro non promette niente?18». In una sua intervista, alla domanda sulle vie di fuga ricercate dai giovani ha risposto: «Viviamo perché qualcosa ci attrae. Se il futuro non promette niente si vive nell’assoluto presente senza guardare avanti. Se il mondo è indifferente nei loro confronti è chiaro che vivono più di notte che di giorno. E l’alcolismo o la droga, prima di essere un vizio o un eccesso, sono anestesie: un ‘non voler esserci’19». Famosa è la sua frase «siamo seduti su una bomba» in riferimento alla incompresa condizione giovanile che Galimberti descrive così «Perché i loro genitori sono animati da quella stupida virtù che si chiama speranza. ‘Auspico, mi auguro, spero sono parole inutili, da eliminare. Servono a consolare gli adulti e a non farli sentire in colpa per non aver saputo creare le premesse per dare ai figli un futuro. La realtà dei giovani oggi è quella del nichilismo di cui parlava Nietzsche: manca lo scopo, manca la risposta al ‘perché’, tutti i valori si svalutano, e https://questionediprincipi.wordpress.com/2012/01/22/lintervista-galimberti-il-filosofo-che-non-parla-di-speranza-ai-giovani/ 19 Ivi. 18

50

aggiungeva: mi capirete tra 50 anni20». E se il problema nasce da questa età di passaggio, se sappiamo dove intervenire, perché non lo stiamo facendo? Perché lo stiamo facendo male? O forse loro rifiutano di farsi informare? Insomma, di chi è la colpa? Citando ancora una volta quell’intervista di Galimberti «Non a tutto c’è rimedio. Quando dico che siamo seduti su una bomba significa: smettiamo di sperare perché non abbiamo creato le condizioni per la realizzazione dei giovani. Quanti curricula mandano senza risposta, quanti sono i contratti precari, quanti non studiano né lavorano? Questa generazione eroderà la ricchezza accumulata genitori, la prossima… non lo so». Quindi, come nelle migliori famiglie, esiste un problema e qualcuno sta cercando di risolverlo, come confermato anche dal Piano Sanitario Nazionale che pone tra i suoi obbiettivi prioritari quello di informare «allo scopo di prevenire malattie legate all’adozione di stili di vita non corretti21». Anche per questo motivo è stato istituito un osservatorio – oggi denominato Centro Nazionale Dipendenze e Doping (CNDD) – impegnato a informare e prevenire. Ed è lo stesso osservatorio a definire l’alcool «uno dei principali fattori di rischio e di malattia e tra le prime cause di mortalità prematura e di disabilità evitabili. Ogni anno l’alcol causa nel mondo 3,3 milioni di morti. Il consumo di bevande alcoliche è complessivamente responsabile di mortalità prematura, disabilità e insorgenza di oltre 230 patologie che costano alla società almeno 17 milioni di anni di vita persi. Incidenti, malattie cardiovascolari e cancro sono le tre categorie 20 21

Ivi https://www.iss.it/?p=49

51

che contribuiscono per oltre il 90 % alla mortalità attribuibile direttamente o indirettamente al consumo di alcol. L’alcol è responsabile di numerose problematiche sociali ed è il primo fattore di rischio emergente rispetto a tutte le sostanze illegali per episodi o atti di violenza, criminalità, maltrattamenti familiari verso il partner o verso i minori, per perdita di produttività e di lavoro, e, non ultimo recentemente indicato come fattore concorrente alla maggiore suscettibilità all’insorgenza di malattie infettive (come per esempio la tubercolosi, l’AIDS e la polmonite)22». Ma, tralasciando il teorico, cosa è stato fatto in Italia in questi ultimi anni? Non si è rimasti con le mani in mano. Ecco i maggiori progetti nazionali realizzati a cadenza annuale: • nel 2018 “Guadagnare Salute – Rendere facili le scelte salutari”, una serie di informazioni e strumenti per la prevenzione delle malattie croniche attraverso stili di vita salutari; • nel 2016 una campagna di comunicazione dal titolo “C’è chi beve e chi si diverte. E tu?” con l’intento di smantellare il modello comportamentale che associa l’atto del bere a successo, svago e fascino e proporre l’alternativa di un divertimento senza uso di alcolici; • le campagne “Io non sbando” e “Non perderti in un bicchiere” presso scuole medie, licei e università; • la campagna itinerante del 2013 dal titolo “Elementare ma non troppo” dedicata alle famiglie e ai professori delle elementari indirizzata verso la prevenzione dal consumo di droga e alcool; 22

https://ofad.iss.it/2018/05/03/alcohol-prevention-day-2018/

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• nel 2012 “La vita è sempre una anche se hai bevuto” sui rischi connessi tra l’abuso di alcool e la guida in stato di ebbrezza; • Tra il 2010 ed il 2011 una serie di spot, video e audio dal titolo “Pensa a guidare” realizzata da Ania con la collaborazione di campioni del mondo calcistico; • nel 2009 “Ragazzi vediamoci chiaro” e “Io dissuado” realizzata dal ministero della Salute e da Ania – Fondazione per la sicurezza, diffuse attraverso stampa, banner internet e affissione della locandina nelle principali discoteche italiane; • dal 2004 al 2008 “Guido con prudenza” realizzata dalla Fondazione per la sicurezza stradale, i sindacati dei locali da ballo e la Polizia Stradale sulle condotte di guida da tenere sulla designazione di un guidatore astemio per ogni serata; • il sistema SISMA, «volto a misurare/stimare l’impatto del consumo di alcol sullo stato di salute della popolazione e il carico di morbosità e mortalità alcol-correlata contribuendo alla predisposizione dei dati utili alla Relazione annuale del Ministro alla salute ai sensi della Legge 125/2001»; • il programma per il riconoscimento e per l’intervento rapido sul consumo di sostanze alcoliche” condotto dal 2011 dall’’Istituto superiore di sanità e finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con l’obiettivo di «potenziare le abilità professionali, le conoscenze, le attitudini e le motivazioni degli operatori sanitari impegnati nell’assistenza sanitaria primaria, mettendoli in condizione di incrementare la padronanza d’uso di strumenti e procedure efficaci di identificazione preco53

ce del rischio alcol-correlato e di intervento qualificato offerto ai pazienti con consumo rischioso e dannoso di alcol23». Video televisivi, campagne scolastiche, banner per le testate web, annunci sui giornali più letti dal target di riferimento, collaborazioni con il mondo musicale, spot radiofonici e la creazione di app per smartphone. Dite che è stato fatto poco? Non direi. Dite che non è stato fatto abbastanza? È possibile. E se il vecchio slogan “prevenire è meglio che curare” è attuale nel 2019, perché nelle piazze e fuori dai locali vediamo ancora così tanti ragazzi ubriachi? Perché in questa industria esiste una costante: il bere e diverse variabili su cui dobbiamo assolutamente ragionare, come famiglia, scuola e società. I genitori devono rivestire un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella formazione dei ragazzi, l’alcool si inizia ad assumere per imitazione quindi essere coerenti è il più efficace degli insegnamenti. E come dare il buon esempio? Da zero all’adolescenza: evitando di acquistare alimenti che contengano alcool, in modo da non abituarli al sapore prima del tempo, di consumare alcoolici a tavola, facendolo in maniera assolutamente moderata, di acquistare alcoolici come regalo a un parente o amico. Nell’adolescenza la maggior parte dei ragazzi assume alcool per imitazione e curiosità. Si beve perché l’amico beve, per sentirsi vicini, per condividere un rito di iniziazione, perché nei locali circolano bevande gradevoli al palato prodotte proprio per loro. Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato finale non cambia. Arrivati all’adolescenza non si può più scherzare. Le regole del gioco devono essere chiare. E devono essere i genitori a 23

https://www.epicentro.iss.it/alcol/IniziativeItalia

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dettarle, con chiarezza e intransigenza. Questo deve avvenire non prima che gli stessi genitori abbiano ben chiari i rischi che potrebbero potenzialmente correre i propri figli. Solo dopo potranno discutere di precauzioni. L’alcool può uccidere e il rischio è zero solo se il consumo è zero! Pertanto non si guida o non si lavora dopo aver bevuto. Chi beve troppo nasconde un problema, che non sarà certamente l’alcool a risolvere. Non credo di avere la formula magica da consegnare ai genitori per evitare che i propri figli possano eccedere nel bere o nel dipendere da qualcosa. Non credo neppure che esista. Credo invece che certi modi di vivere possano allontanare certe curiosità e certi eccessi. Due soggetti che si mettono in relazione devono godere di fiducia e rispetto reciproco. Deve essere chiaro da subito. Tutti dovrebbero ricevere gratificazioni solo dopo aver fatto qualcosa per meritarsele. Ma che non siano ricompense a orologeria, il cui abuso potrebbe innescare un rapporto malsano sia in famiglia che in società. Si tratta di atteggiamenti che tendono a far scomparire la bellezza del risultato in favore di un qualcosa. È il meccanismo letale del “bevo per” da cui è difficile uscire. Bevo per essere sciolto, per poter andare a conoscere quella ragazza, per dimenticare la giornata di lavoro. Quanti genitori hanno il coraggio di dire al proprio figlio “non serve bere due birre per conquistare quella ragazza, serve solo a puzzare di alcool e sembrare ancora più goffo”? Invece, caro Danilo, perché non tiri fuori dal garage la bicicletta bella – ferma da qualche anno – e inizi a fare un pochino di movimento per essere più in forma? Oppure ti andrebbe di provare a imparare a suonare la chitarra? Potrei prestarti la mia, per iniziare. Ti assicuro che funziona alla grande con le ragazze. 55

Proprio ieri sera mi è capitato di rivedere La prima cosa bella di Paolo Virzì. Davvero emozionante. Nel film, Valerio Mastrandrea interpreta un professore di lettere, Bruno Michelucci, che, infelice e depresso, tenta di lasciare la fidanzata. Tutto questo accade mentre Bruno fa ritorno alla sua città di infanzia, Livorno, dove si ritrova con la sorella per accudire la madre malata. In ogni scena del film Bruno cerca di procurarsi droga, farmaci o alcool da chiunque sia in grado di poterlo aiutare, fino a quando non si reca in ospedale e inizia a dialogare con il medico curante della madre: «Dottore, mi scusi, non ci sarebbe un farmaco legale che colmi un po’ di vuoto, un po’ di scontento, uno di quei farmaci oppioidi?» «Senti Bruno, hai mai provato con un bel bagno al mare?» Un bagno al mare. Ed è proprio cosi si conclude il film, con il nostro Bruno che decide di farsi un benedetto bagno insieme alla fidanzata e, finalmente, sorride. Sono favole? Certo. Da qualche parte bisogna pure iniziare e mi scuso della banalità. Forse è semplicemente la frase che mi sarebbe piaciuto sentirmi dire a 16 anni. Tutto qui. Un altro punto sul quale ritengo sia necessario spendere alcune parole riguarda i soldi in tasca. Tornando al discorso di prima, non bisogna negare il piacere di meritarsi qualcosa. Soldi o considerazione, non fanno differenza. Ogni cosa va guadagnata e meritata, secondo le proprie capacità. Alcuni studi hanno dimostrato che «i ragazzi che hanno circa 15 euro in tasca la settimana non bevono e rientrano prima di mezzanotte, chi ne ha fino a 30 inizia a bere almeno un’unità alcolica ogni settimana e a rientrare tardi, mentre chi ne ha oltre 50 tende a bere più di cinque unità alcoliche e a rincasare molto tardi24». 24

https://www.ok-salute.it/salute/alcol-e-giovani-il-ruolo-dei-genitori/

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Niente di diverso rispetto a ciò che succede nel resto del mondo, anzi. E se prima abbiamo parlato di variabili, dobbiamo considerare anche quelle economiche, quelle dell’industria dei locali che per sopravvivere devono scegliere tra la ristorazione di massa e quella di eccellenza. Nel primo caso anche attraverso un ventaglio di prodotti a bassissimo prezzo e qualità. I clienti (spesso di giovane età) che dovrebbero poter disporre di informazioni complete e di qualità nei prodotti, non sono in grado scegliere consapevolmente, annebbiati dalle scarse disponibilità economiche e dalla voglia di strafare. Vi rifaccio la domanda: di chi è la colpa? Del consumatore? Del venditore? E perché non dello Stato che in questo quadro economico ricopre un ruolo ambivalente? Facciamo ordine, perché è troppo semplicistico far finire tutto “in caciara”. La colpa è di tutti, quindi di nessuno? No, ognuno ha una parte di colpa residua che sommata genera il danno. Mi spiego meglio. Al primo livello: la giusta prevenzione che, fornendo le “prove”, dovrebbe costituire il primo riferimento su cui determinare le scelte appropriate. A chi spetta questo onere? Allo Stato che dovrebbe istituire vere e proprie figure – con comprovata esperienza nel settore – opportunamente formate alla comunicazione in grado di poter operare nelle scuole in maniera pratica. Tangibile. Al secondo livello le associazioni di categoria, con un costante monitoraggio degli esercizi commerciali al fine di evitare il moltiplicarsi di servizi tali da limitare i fenomeni di abuso crescente, soprattutto da parte delle fasce deboli. Si tratta di pura demagogia? È sicuramente un nuovo approccio, difficile ma realizzabile a mio parere, attraverso una vera limitazione degli orari di vendita degli alcolici e del controllo dell’età minima con pesanti sanzioni ai trasgressori. Vi 57

faccio un esempio. Quando avevo 18 anni, la maggior parte dei miei coetanei beveva senza freni e poi si metteva alla guida della propria vettura. Molti incidenti e pochissimi controlli. Il controllo del palloncino era qualcosa che si vedeva nei film americani. La faccenda è andata avanti fino ai primi anni del 2000, quando i controlli delle forze di polizia (anche a seguito di una legislazione più stringente) hanno decisamente cambiato l’approccio. Chi si mette al volante completamente ubriaco, oggi, sa di avere poche possibilità di farla franca. La prevenzione (a scuola e nella società) e la repressione (da parte dei deputati ai controlli stradali) lavorando di concerto hanno cambiato i costumi degli italiani. Da “esuberanza adolescenziale” a “delitto sociale”. Chi guida ubriaco mette in pericolo la vita di chi si trova sulla strada insieme a lui. In poco meno di vent’anni si è stigmatizzato un comportamento diffuso… da fichissimo a povero sfigato! E vorrei aggiungere un’altra cosa. Volete sapere cosa ha cambiato il mio approccio al “bere e guidare”? Una frase. Una semplice frase, proferita di domenica mattina da un caro amico, grande nuotatore e batterista: il dottor Music (suo pseudonimo). Dopo aver letteralmente accartocciato la fiammante Delta integrale del padre contro un terrapieno ci raccontava, acciaccato, demoralizzato, ma con dovizia di particolari, tutta la storia. Fino a quando se ne usciva con la famosa frase: «Ho fatto un casino con la macchina, ma qualcuno se l’è vista pure peggio! Avresti dovuto vedere la fila di gente nel parcheggio del soccorso stradale». La cosa mi colpiva a tal punto che, quello stesso pomeriggio, mosso dalla curiosità di vedere cosa restasse del “mostro nero” del mio caro amico (poco, anzi pochissimo) avevo inforcato la mia vespetta rossa in direzione parcheggio del soccorso stradale. 58

Aveva ragione Davide. La sua Delta integrale, coperta da un telo, era davvero distrutta. E c’era anche un sacco di altra gente che si aggirava per il piazzale, come aveva detto lui. Il titolare dell’officina accompagnava i clienti verso i mezzi incidentati. Erano davvero tanti. Tra questi, una mezza alfa 164 verde bottiglia, nuovissima e distrutta, divisa in due. Al fianco un uomo di mezza età con gli occhi gonfi di chi aveva dormito poco, la guardava quasi con affetto. Scambiava occhiatacce con gli occupanti di un’utilitaria parcheggiata poco distante, una donna e un ragazzo in stampelle, seduto sul sedile anteriore, con lo sportello aperto. Il giovane aveva una zampa rotta, un cerotto sul sopracciglio e un occhio nero. Conciato male, ma vivo. Non ho saputo resistere e mi sono avvicinato. Dentro la mezza 164 alla rinfusa c’erano guanti in lattice, una fisiologica e fazzoletti sporchi. Il sedile in velluto macchiato, il volante in pelle pregiata piegato come una camera d’aria sgonfia. L’odore era quello del sudore e del ferro tagliato. O almeno a me così è parso. Il padre del ragazzo, immagino, mi è passato vicino e mi ha guardato, senza dire nulla. Chissà a cosa stava pensando. Un’immagine che mi è rimasta nella testa per anni. Ogni volta che ho fatto una cazzata in macchina mi ricordavo di quell’odore e se chiudo gli occhi, anche in questo momento, mi pare ancora di sentirlo. Incredibile. Torniamo a noi. Torniamo al nostro mondo dove gli adolescenti bevono perché sono adolescenti, i commercianti vendono alcolici ai minori solo per far quadrare i conti e la scuola fa i salti mortali per cercare di rimanere aperta. Perché questa è la verità. E se vogliamo essere credibili dobbiamo iniziare a fotografare il mondo reale. Un mondo che puzza di sudore e ferro.

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CAPITOLO DUE

Oltre i social Dici che sono depresso, che non sto nel contesto, che profumo di marcio. Ma se ti porto nel bosco, mi dici portami in centro Perché lì non c’è campo, poi vai fuori di testa come l’ultima volta Takagi & Ketra feat. Lorenzo Fragola e Arisa, L’esercito del selfie, 2017

«Le scoperte di ogni generazione vengono confutate dalla tecnologia di quella successiva». È quanto sostiene Dan Brown nel libro Il simbolo perduto1 e non poteva esserci migliore inizio per rompere il ghiaccio e chiacchierare di qualcosa che è ovunque e costantemente in divenire. E poi diciamocelo, come è possibile contraddire il “vecchio” Dan, allevato da un professore di matematica e da una devota musicista, nel costante tentativo di conciliare scienza e fede? E proprio in questo secolo le scoperte si sono rincorse, come api operose, pronte a impollinare pistilli e che hanno generato a loro volta invenzioni ad alta ricaduta tecnologica. Parliamo di migliaia di scoperte 1

Brown, D., Il simbolo perduto, Mondadori, Milano, 2009

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fondamentali, che hanno effettivamente cambiato vita e abitudini del pianeta2. E chi l’avrebbe mai detto che, in un solo secolo, la tecnologia (dal greco tékhne-logìa) ci avrebbe letteralmente trasformato da una società di produzione a una società di informazione? Mi spiego meglio, come è stato possibile che il “trattato sistematico di un’arte” (ovvero la traduzione letterale del termine greco), al fine di raggiungere uno scopo, sia diventata così pervasiva e diffusamente incontrollata da determinare, addirittura, l’avvento di una nuova generazione? Seguendo come sempre un incerto filo logico, in questo capitolo scritto a quattro mani con l’amica hacker Vanessa Fieschi (nome in codice Stalker V) ragioneremo sull’arte del saper fare e su come si sia sublimata al punto tale da permettere all’uomo di raggiungere uno scopo prefisso anche senza saper fare. Ma non basta: l’uomo è così evoluto che i congegni digitali lo accompagnano in ogni posto e momento. Sono addirittura parte integrante del nostro abbigliamento. Siamo arrivati ad affidare a quei piccoli oggetti (di silicio, cobalto e coltan) tutta la nostra vita. Dall’agenda degli appuntamenti al controllo dell’automobile. E non voglio aggiungere altro. Sempre più integrati con la tecnologia e la rete, andiamo verso l’internet of things (letteralmente “internet delle cose”), un’evoluzione dell’uso della rete dove oggetti (“cose”) comunicano e accedono a diversi tipi di informazione, acquisendo, tramite il collegamento globale, anche una sorta di “intelligenza”. Questo processo sta trasformando la società, cancellando e creando lavori, introducendo nuovi slang musicali, cambiando Al link di seguito sono riportate tutte le maggiori scoperte del ’900 in ordine cronologico: https://www.scuolissima.com/2015/05/scoperte-scientifiche-tecnologiche-novecento.html 2

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il modo di esprimersi. Alcuni mutamenti sono palesi, altri più sottili e richiedono un occhio critico e attento. Tra i più evidenti troviamo quelli connessi a smartphone e social media: a marzo 2018 i dati parlano, per l’Italia, di 34 milioni di utenti con un profilo online (circa il 57% della popolazione italiana). L’88% di questi utenti accede ai social network attraverso dispositivi mobili. La connessione tra i due è quasi scontata: vivono di mutua assistenza, lo smartphone consente una connessione a Internet 24 ore su 24, praticamente ovunque, e chi non è social è “fuori dal mondo” (perché tutte le notizie, si sa, ormai passano da lì). Trascorriamo circa 6 ore al giorno online, delle quali quasi 2 utilizzando una piattaforma social media3. Ma perché usare i social (e internet) ci piace così tanto? Lo psichiatra Tonino Cantelmi spiega: «In chat si può essere chiunque e il suo contrario, non si sentono i giudizi degli altri, non c’è morale (se non la netiquette prevista), non ci sono silenzi e non c’è lo spettro più terribile: la solitudine4» . Fin dagli albori dell’informatica si è cercato di ricreare nel virtuale un mondo che in qualche modo risultasse, o almeno apparisse, migliore di quello fisico. Un posto dove esiste la più assoluta libertà di espressione, si può essere in qualsiasi luogo in qualsiasi momento e dove consenso e dissenso, risultano pienamente espressi, in ogni forma. Esiste un tasto mi piace, ma c’è anche l’emoticon arrabbiata che esprime disapprovazione, e poi ovviamente esistono gli haters. Per aiutarci a costruire il nostro mondo su misura, si possono facilmente e velocemente nascondere le notizie di persone o fatti che non sono in linea con il nostro pensiero: un paio di We are social, Hootsuite, Digital in Italia 2018. Cantelmi T., Giardina Grifo, L., La mente virtuale. L’affascinante ragnatela di internet, S. Paolo, Milano, 2002. 3 4

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click ed ecco, la frase o la persona scomoda è sparita e non sono più costretto a “vederla”. In nostro aiuto intervengono poi gli efficientissimi algoritmi di tracciamento, che ci mostrano abilmente ciò che gradiamo, mettendo in secondo piano tutto il resto, grazie all’analisi ogni singolo click (perché sì, il tracciamento dei dati non è una cospirazione e sì, viene utilizzato dalle aziende di marketing, consulenti politici e da chiunque paghi adeguatamente). Inoltre, nel nostro spazio digitale non siamo mai soli, ma sempre circondati da amici. Non solo moda e progresso insomma: dietro questa nuova realtà sociologi e psicologi possono sbizzarrirsi. La creazione del Nuovo Mondo, però, non è riuscita alla perfezione: oltre a ciò che c’è di buono, ci siamo trascinati anche le parti difettose. Un iceberg sommerso di parti difettose, modificate per adattarsi al nuovo ambiente e amplificate dalla connessione globale perennemente attiva. E non contenti, qualche nuovo pezzo malfunzionante ce lo siamo inventati: tra questi troviamo nuove forme e tipi di dipendenze. Domenica 4 marzo 2018 (ve la ricorderete tutti, era la giornata delle elezioni politiche più imprevedibili della storia italiana) ho assistito ad una scena assai bizzarra. Alcuni elettori che dovevano recarsi al seggio sono andati in crisi, ma non per l’ardua scelta della crocetta: perché in cabina non si può portare il cellulare. «Se lo lascio a casa e devo aspettare, nel mentre che faccio? Metti che c’è un’emergenza e devo chiamare o mi chiamano? Se lo porto, poi devo lasciarlo allo scrutatore e capita che me lo scambia». Quelli che erano in fila con il rettangolo luminoso in mano poi erano in crisi perché non c’era campo. Non è un fake, è così che ho scoperto il termine “nomofobia”, la paura incontrollata di rimanere disconnessi dal contatto con la rete di telefonia mobile. Non lo troverete sui vecchi dizio64

nari, è un neologismo creato per l’occasione. Un nuovo pezzo malfunzionante. L’attaccamento allo smartphone può diventare a tutti gli effetti una dipendenza, con gli stessi sintomi e conseguenze di quelle “classiche” più conosciute. «Ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare, a livello fisico, sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. La dopamina è l’ormone del piacere ed interviene anche sulla motivazione personale, sul sonno, sull’umore, sulla memoria e sull’apprendimento. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello, così si avrà l’impulso di controllare in continuazione, innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo5». Uno studio di Erik Peper e Richard Harvey effettuato presso l’Università di San Francisco afferma, in aggiunta, che le notifiche danno la stessa identica dipendenza dell’oppio, «formando delle connessioni neurologiche nel cervello in modo simile a quelle che si sviluppano in coloro acquisiscono una dipendenza da farmaci oppioidi per alleviare il dolore6». Oltre ai tipici sintomi di ansia, depressione, isolamento, questa dipendenza ha un rischio più subdolo e nascosto, che entra in falciata nel mondo “fisico”. Questo bisogno di controllare le notifiche è costante durante tutta la giornata, anche quando stiamo guidando. L’introduzione di regole più ferree sull’alcool ha contribuito a ridurre le “stragi del sabato sera”, ma ora abbiamo un nuovo spettro: lo smartphone, che causa altrettanti incidenti. I problemi qui sono due: chi lo tiene in Greenfield, D.N., Davis, R.A., “Lost in Cyberspace: The Web @ Work”, «CyberPsychology & Behavior», 2002. 6 Peper, E., Harvey, R., “Digital Addiction: Increased Loneliness, Anxiety, and Depression”, «NeuroRegulation», 2018. 5

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mano, leggendo e navigando, ma anche chi telefona o usa il sintetizzatore vocale. Nel primo caso è abbastanza ovvio che il rischio sia causato dalla distrazione visiva e dall’impiego delle mani, il secondo invece è più infimo. Quando parliamo al telefono, anche se con l’auricolare, rischiamo di incorrere nella “cecità da disattenzione”, quella, per intenderci, che fa dimenticare i bambini in auto. Anche una conversazione telefonica ha una componente di immaginazione visiva – ci raffiguriamo l’interlocutore, la sua espressione, la sua posizione nello spazio – e ciò toglie risorse alla percezione visiva. Pur avendo gli occhi fissi sulla strada, non stiamo osservando in modo accurato. Le conseguenze le possiamo immaginare tutti. Lasciando da parte il telefono intelligente in sé, e concentrandoci sul suo più sublime pregio, la connessione a internet in ogni tempo e luogo, ritroviamo le “mutazioni genetiche” delle vecchie dipendenze: gioco d’azzardo, sex addiction, shopping compulsivo, dipendenza dalle relazioni, dipendenza dal lavoro (sì, esiste, e si chiama per la precisione workaholism), quasi tutte con il glamour “cyber” prefisso incollato. Il fatto di avere a disposizione il proprio feticcio personale 7 giorni su 7, h24, complica non poco la situazione: diventa ancora più arduo resistere e non farsi coinvolgere. Inoltre, si aggiunge il fatto che per i “vizietti” poco onorevoli, se non illegali, la tecnologia offre il preziosissimo vantaggio del completo anonimato grazie a software e sistemi che non lasciano tracce della navigazione sull’hard disk e rendono impossibile tracciare il nostro traffico di rete. Queste “nuove” dipendenze, vengono solitamente collegate alla definizione di Internet Addiction Disorder (IAD), alias dipendenza da internet, termine coniato dal medico americano Ivan Goldberg nel 1995 di cui si inizierà a parlare in Italia poco dopo, nel 1997. Prima di diventare patologia, l’IAD, 66

come del resto tutti questi tipi di “percorsi”, attraversa delle fasi. In questo caso gli studi ne identificano due. La prima, la fase tossicofilica, è caratterizzata dall’incremento delle ore di collegamento e dai continui controlli di chat e siti. Fase in cui troviamo un particolare fenomeno che fino a poco tempo fa era poco conosciuto, ma che nell’ultimo periodo ha avuto un boom: il sovraccarico cognitivo o, se si preferisce l’inglese, information overload. Di base è un comportamento compulsivo che spinge il soggetto alla continua ricerca di informazioni, il più aggiornate possibile. Trovandosi di fronte l’infinità di pagine di internet, l’individuo continua a fare zapping (nel gergo tecnico web surfing) da un sito all’altro, senza soffermarsi sul contenuto e non riuscendo a catalogare quanto trovato. L’information overload è stato inserito dalla comunità scientifica nelle dipendenze da internet, soprattutto in una fase iniziale, perché da comportamento anomalo con il tempo questa ricerca diventa un’esigenza incontrollata. «Inizialmente la persona percepisce un senso di piacere e di eccitazione una volta trovata l’informazione ricercata, che successivamente lascia spazio ad un circolo vizioso nel quale la persona si trova intrappolata: le informazioni iniziali non bastano più e la ricerca di ulteriori viene percepito come un dovere e una necessità7». La seconda, la fase tossicomanica, è caratterizzata invece da collegamenti estremamente prolungati che compromettono le abitudini di vita. In questa fase si perdono i contatti reali, iniziano le difficoltà cognitive e relazionali fuori (e dentro) la rete, si sviluppano le net-dipendenze elencate prima. Cito un particolare caso riguardante l’influenza nella vita famigliare. Un padre comincia a lamentare delle difficoltà re7

https://it.wikipedia.org/wiki/Sovraccarico_cognitivo

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lazionali con la figlia, anche a scuola gli insegnanti notano dei cambiamenti nella bambina. Colleghi e amici consigliano al padre di passare più tempo con la ragazza, cercando di comprendere i motivi del suo disagio. A loro il padre dice: «tutte le sere prima di andare a dormire guardiamo le serie tv insieme a letto, però mia figlia non ha la tv in camera, non voglio assolutamente, così ho aumentato i giga sul telefonino e le guardiamo da lì». Questa persona purtroppo le serie tv le guarda anche al mattino mentre fa colazione, ignorando la figlia, in pausa pranzo, in macchina agganciando il telefono al posto solitamente riservato al navigatore, e la famiglia subisce le conseguenze del problema. Un altro caso di dipendenza più avanzata è quella di un ventenne, che chiameremo Andrea, e riguarda i videogames. Andrea di professione è uno sviluppatore software, quindi una persona che di norma sta 10/11 ore al pc. I colleghi notano che tutte le mattine ha delle bellissime occhiaie, parla poco e impiega parecchio tempo a concludere le attività. Preoccupati che possa avere problemi familiari o di salute, cercano di approcciarsi per capirlo. Andrea tranquillamente racconta che ha le occhiaie perché quando arriva a casa si mette a giocare ai videogiochi online, attività che lo impegna quotidianamente fino alle 3 di notte. Anche al lavoro si scopre che non riesce a smettere, collegandosi con il cellulare o utilizzando il pc aziendale con dei veloci alt+tab (sequenza che consente di cambiare le schermate aperte sul pc). Normalmente, al lavoro ci sono dei server specializzati, chiamati server proxy, che consentono di bloccare la navigazione su determinate categorie di siti: serie tv e filmati in streaming, gaming, porno, social network. Chi gestisce questi siti però ha un business da fatturare (forse, visto le ultime sentenze, è più corretto dire coltivare), perciò esperti 68

professionisti ogni giorno sviluppano nuovi metodi per bypassare i controlli dei proxy, incuranti di tutto il resto. Andrea poi spende diverse centinaia di euro per comprare processori, schede video, monitor, mouse, tastiere e tutto l’occorrente per giocare al meglio. Ha pure allestito una stanza apposita con tutti i comfort, da cui usciva solo per andare al lavoro, ma è stato licenziato per lo scarso rendimento. L’ultima sua notizia è che ha lasciato sport e ragazza e comprato delle telecamere per la sua stanza dei giochi, cercando di fare soldi filmandosi in real-time. Potrebbe sembrare curioso a chi non frequenta il mondo dei videogame, ma assistere alle prestazioni di altre persone in diretta è diventato un fenomeno di massa capace di attirare 100 milioni di visitatori ogni mese, che si assiepano online per seguire un milione e mezzo di broadcaster (alcuni dei quali assurti allo status di celebrità)8. Le persone come Andrea trascorrono la maggior parte della loro giornata chiusi in una stanza, ma qualche contatto con il mondo esterno lo mantengono. Invece ci sono degli individui che si ritirano completamente dalla vita sociale “fisica” per interagire solo tramite la rete e le tecnologie: vengono chiamati hikikomori termine giapponese che letteralmente significa “stare in disparte”, “isolarsi” e indica la ricerca estrema di isolamento, In Italia, l’associazione Hikikomori Italia stima che i casi siano almeno 70.0009. Tra i soggetti più a rischio ci sono i NEET (acronimo inglese di Not Engaged in Education, Employment or Training), persone non impegnate in nessun tipo di attività di studio o di lavoro, e che sempre in Italia, secondo le ultime statistiche del 2017, rappresenterebbero il 24% dei giovani tra i 15 e i https://www.focus.it/tecnologia/digital-life/youtube-gaming-il-nuovosito-per-lo-streaming-dei-videogiochi 9 https://www.hikikomoriitalia.it/ 8

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29 anni10. Individui scoraggiati dalla loro situazione che non si sentono più all’altezza delle aspettative sociali e chiudono i contatti con il mondo esterno, trovando facile rifugio e protezione nella rete. Questi sono casi estremi, ma non così lontani dalla nostra vita. Se la dipendenza patologica da internet, secondo i numeri, è ancora relativamente limitata, il suo visibile abuso desta preoccupazione, e influenza comunque vita sociale, lavorativa e prestazioni di studio. Un gruppo di persone sedute al tavolino del bar: chi morde il panino, qualcuno inforchetta l’insalata, chi si gusta la scarpetta con il sugo, tutti distrattamente concentrati sullo schermo dello smartphone (o del più visibile tablet), incapaci di un dialogo verbale, ma velocissimi nello scambiarsi messaggini (anche tra di loro). È una scena a cui ormai tutti quotidianamente assistiamo e a cui ci stiamo abituando. Questa tecnologia ci sta un po’ “rimbambendo” o stiamo andando verso un nuovo livello di relazioni sociali? Non si sa ancora bene. Da un punto di vista scientifico, a oggi, sono pochi gli elementi che indicano un evidente cambiamento del tessuto cerebrale in seguito all’uso di internet, sia per le oggettive difficoltà di riuscire a misurare un effetto (problemi metodologici) sia perché le ricerche non sono riuscite a evidenziare importanti cambiamenti11. Da un punto di vista sociologico, analizzando la situazione, c’è un punto cruciale: se la tecnologia, internet e i social network hanno e continuano ad avere così ampia diffusione Morganti, C., Monzani, E., Percudani, M., Adolescenti in bilico: L’intervento precoce di fronte ai segnali di disagio e sofferenza psichica, FrancoAngeli, Milano, 2018. 11 https://m4.ti.ch/fileadmin/DECS/DS/Rivista_scuola_ticinese/ST_n. 323/ST_323_pellegri_internet_ci_cambia_il_cervello.pdf 10

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e successo, significa che rispondono a precisi bisogni, come l’accedere a maggiori informazioni, sentirsi meno soli o semplicemente passare il tempo. In fondo anche William Gibson, scrittore di fantascienza e inventore del termine “cyberspazio”, nel 2002 sul suo blog (oggi chiuso) scriveva ha evitato internet «ma solo fino a quando l’avvento del web non l’ha trasformata in una tale magnifica opportunità di perdere tempo da non poterle più resistere». E sui social network? Cosa dire che già non si sa o che voi sapreste descrivere meglio? «I social network hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione e delle relazioni, ma il problema, anche nel digitale, rimane sempre uno: cosa dire, e soprattutto come farlo. A livello comunicativo mi “affascina” il pollicione, a cui è stata dedicata anche una scultura: la Really Good di David Shrigley che, con i suoi 7 metri di altezza, obbliga al selfie in Trafalgar Square. Un unico simbolo-e-click che si intromette in ogni dialogo virtuale con mille significati. Esteticamente osceno, ma indispensabile. Solo su questo punto si potrebbero scrivere pagine e pagine, se poi cominciamo con teorie e studi sugli “analfabeti funzionali”, diari che da intimi e privati diventano pubblici, fake news eccetera, ci perdiamo. C’è gente di più di 50 anni che mi chiama per chiedermi come mai non ho messo il Like alla sua foto, che deve averne almeno 100 o non va a dormire, e sta lì a controllare ogni tre secondi. E se non lo metti ti richiama. Sento poi una ragazza (over 35, non adolescente) che dà della nullità all’altra perché lei, con una sola foto, ha preso molti più like su Instagram12». Giunti a questo punto volete davvero conoscere il tranciante punto di vista di Stalker V, al secolo Vanessa Fieschi, sul rapporto tra società e digitale? 12

Dall’intervista a Vanessa Fieschi presente nel capitolo relativo alle interviste.

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Eccolo! «Ci dicono che è fondamentale apparire, ma siamo una società di depressi e insoddisfatti, e la depressione sarà probabilmente la malattia del nuovo secolo. Colpisce tutti…» Qualcuno è in grado di contraddirla?

2.1 Comunicare per esistere: la dipendenza dai social media Arrivati a questo punto è davvero necessario parlare con una specialista del settore. Ci lasceremo condurre dalla dottoressa Samanta Oktawia Czarnota13, conoscitrice “interstellare” di una vera e propria “galassia” formata da comunicazione, innovazione e multimedialità. A lei la parola dottoressa! «La dipendenza, come afferma il vocabolario Treccani, è la condizione di continuo bisogno di una sostanza. La mancanza di tale sostanza potrebbe provocare uno stato depressivo, come ad esempio accade ai soggetti che decidono di sottoporsi alla riabilitazione dalla droga14. Pertanto, a mio avviso, la dipendenza è “non poter vivere senza”. Senza ciò che ci rende esseri subordinati in modo assoluto a qualcosa che provoca piacere, benessere e gratificazione, ove il costante e totale bisogno di esso è indispensabile per far “funzionare” un soggetto. Per “qualcosa” intendo un ventaglio di possibili forme, creatrici di dipendenza, da quelle tradizionalmente più conosciute (alcool, droga, gioco d’azzardo, pornografia) a quelle apparse negli ultimi decenni, come la dipendenza da social media o smarLaureata in Comunicazione, Innovazione e Multimedialità presso Università di Pavia, laureanda in Formazione e Sviluppo delle Risorse Umane presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca. 14 http://www.treccani.it/enciclopedia/dipendenza/ 13

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tphone (d’altronde l’uno tira l’altro). È evidente come ormai lo smartphone faccia parte della nostra vita quotidiana. Dalle azioni sostanziali come telefonare, al continuo scroll della bacheca, ad esempio, di Facebook. «In pochi anni, l’evoluzione tecnologica dei telefonini, creati originariamente per facilitare le conversazioni vocali a distanza, ha reso sempre più facile e veloce l’accesso a internet, permettendo di rimanere sempre collegati, sempre disponibili, coinvolgendo e sorprendendo maggiormente la fascia adolescenziale e non solo. I social media sono stati originariamente creati per agevolare e facilitare le interazioni tra le persone, ma con il passare degli anni, la loro popolarità crescente ha spinto gli sviluppatori a un costante aggiornamento delle funzionalità e all’ampliamento delle possibili azioni da poter compiere all’interno. A titolo di mero esempio, si potrebbe riportare il caso di uno dei più famosi social network, Facebook (lanciato ufficialmente il 4 febbraio 2004), in cui inizialmente le possibili azioni si esaurivano con la pubblicazione di immagini, il tagging e il newsfeed. Oggi, invece, Facebook ti permette di compiere molteplici e diverse azioni, con il fine di rendere ancora più attraente e interessante il suo utilizzo. Tra le ultime novità lanciate, che godono di grande successo tra gli utilizzatori, vi sono i contenuti live (i video trasmessi dal vivo) e le stories (video/foto di corta durata, disponibili per i seguaci solo per 24 ore), aumentando l’engagement delle persone che seguono un determinato profilo. «Secondo le ultime statistiche ufficiali, oggi i social network più popolari sono: Facebook (2,41 miliardi di utenti attivi mensilmente)15, YouTube (1,9 miliardi di utenti attivi 15

https://newsroom.fb.com/company-info/

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mensilmente)16,, Instagram (1 miliardo di utenti attivi mensilmente)17 e, WhatsApp (1 miliardo di utenti)18. Tali dati dimostrano quanto i social media non solo siano popolari, ma quanto effettivamente facciano parte della realtà, che sempre di più si svolge online. Tra le fasce d’età, secondo numerosi studi, i dati più allarmanti riguardano gli adolescenti e i giovani adulti. Infatti, sono loro che rappresentano la fascia (14 - 35) più predisposta a sottomettersi alle tendenze lanciate dai social, cadendo nella trappola dell’essere sempre collegati, sempre disponibili. Come afferma il report Global Digital 2018, sono 180.000 gli utenti minorenni che utilizzano quotidianamente la piattaforma Facebook19. «Ormai, al giorno d’oggi, la maggior parte delle interazioni tra persone avviene online invece che offline. Le cause che possono innescare questo tipo di relazioni sono numerose, ma quella più evidente è una bassa autostima che porta i giovani ad una costante ricerca di gratitudine attraverso la raccolta di like sotto i contenuti pubblicati. Per questo motivo i social media, quello che si basano sulla pubblicazione di immagini, stanno raccogliendo così tanti utenti. È interessante notare come, nel tentativo di aumentare la propria visibilità sui social e ottenere sempre più seguaci, i giovani (ma non solo) utilizzino le etichette, i cosiddetti. hashtag (#), per essere rintracciati, visti e piaciuti. Non a caso tra gli hashtag più popolari nel 2019, vi sono: #follow4follow, #f4f, #like4like20. Tutto ciò porta gli https://www.youtube.com/intl/it/about/press/ https://instagram-press.com/our-story/ 18 https://www.whatsapp.com/about/ 19 https://wearesocial.com/it/blog/2018/01/global-digital-report-2018 20 https://www.andreapostiglione.com/migliori-hashtag-instagram/#piuusati 16 17

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adolescenti ad affrontare una continua e inedita gara a chi produce contenuti sempre più creativi e/o spinti. «Così si arriva alla selfie mania. Perché, per generare un contenuto interessante e bello da vedere, il fattore estetico gioca un ruolo molto importante sui social, gli utenti (indipendentemente dall’età) si scattano decine di foto per poi scegliere quella giusta (la più bella secondo chi la pubblica). Questa mania, a sua volta, viene facilitata dalle opzioni che troviamo all’interno dei social media stessi, che propongono decine di filtri da applicare sull’immagine al fine di renderla ancora più attraente. Appena il contenuto è ritenuto abbastanza soddisfacente, viene pubblicato e il duro lavoro di preparazione viene ripagato con dei like. La continua ricerca della perfezione negli scatti effettuati aumenta fino a portare i giovani a non essere più in grado di godersi ciò che gli sta attorno. I giovani si trovano, in questo modo, a essere affetti, anche inconsapevolmente, dalla selfie addiction, l’ossessione dello scatto perfetto, che a volte si spinge fino a diventare pericoloso. Come ci informa «La Stampa», negli ultimi sei anni, sono 259 le persone morte a causa della ricerca di un selfie estremo21. «Gli utenti adulti, a loro volta, affrontano il campo dei social media in modo più consapevole rispetto agli utenti più giovani. Sono consci del perché sono presenti su una piattaforma piuttosto che su un’altra. I social media, oltre che venire utilizzati come svago e passatempo, spesso è visto come biglietto da visita e i contenuti pubblicati vengono scelti in modo accurato, in modo da non danneggiare la propria figura professionale. Ma nonostante ciò, anche nel loro caso, non manca chi cade nella trappola dei social. Non sono rimaste immuni al Tomasello, M.R., “Rischiare la vita per un selfie: in tutto il mondo in sei anni 259 morti”, lastampa.it, 21 maggio 2019. 21

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fascino dei social media anche le persone in età avanzata, che per rimanere in contatto con i familiari ed amici si iscrivono e iniziano utilizzare le piattaforme social. «Il che non sarebbe cruciale per il tema qui trattato, se non che i social media, oggi, non si occupano esclusivamente di mantenere vivi i contatti tra le persone, ma, sempre di più, offrono le funzioni per un costante intrattenimento, come i giochi presenti sui social dei quali si è parlato molto negli ultimi anni, in grado di creare dipendenza. Tra questi vi è Farmville, un gioco online sviluppato da Zynga e collegato al profilo di Facebook. Lo scopo è quello di creare ed espandere la propria fattoria. All’interno del giardino virtuale possiamo coltivare ortaggi, frutta e allevare gli animali, costruire i granai, fare una visita ai vicini di fattoria. Nel suo complesso, il gioco non risulta aggressivo. Il problema risiede nel tempo. I giocatori che piantano, ad esempio, il grano nei propri terreni, hanno quattro ore per la raccolta, se non lo fanno perdono i soldi Farm che hanno investito nei semi. Le regole del gioco, così com’è strutturato, spingono l’utente a essere sempre collegato, sempre attivo nella fattoria per guadagnare e non rimetterci. «Un’altra trappola per i giocatori sono le missioni, ad esempio: hai dodici ore per completare le missioni assegnate, in cambio ottieni un animale in edizione limitata per la tua fattoria virtuale. In questo modo, il gioco rende schiavi della propria fattoria, spingendo il giocatore a doverla tenere sott’occhio per ventiquattro ore al giorno. A questo punto, sono convinta che gli sviluppatori di questo tipo di giochi, soprattutto online, sono più che consapevoli del pericolo a cui espongono gli utenti. Più una persona passa il proprio tempo a giocare, più aumenta il desiderio di vincita, anche se i giochi di questo tipo non hanno mai termine. Il coinvolgimento degli utenti 76

aumenta di pari passo con il desiderio di possedere gli oggetti speciali nella fattoria. Come se non bastasse, questi giochi presenti sulle piattaforme social permettono di partecipare a delle missioni in occasioni speciali. Basta pagare. In cambio di soldi, quelli veri stavolta, sul prato del giardino virtuale abbiamo a disposizione un albero che produce caramelle e ci fa guadagnare. Sì, ma soldi finti. «Ulteriore fenomeno che comincia a destare preoccupazione è l’utilizzo dei dispostivi elettronici da parte dei bambini, non (ancora) come soggetti utilizzatori dei social media, ma la loro, a volte esagerata, relazione con tali dispositivi. Sono i “nativi digitali”, così vengono chiamate le nuove generazioni che fin dalla nascita sono immerse tra i dispositivi elettronici. Il diffuso e popolare utilizzo tra i bambini dei tablet ha spinto il mercato a proporre ai loro clienti più piccoli soluzioni adatte alla loro età, e così il tempo libero del bambino si sposta dal prato di un parco giochi alla fattoria virtuale, che non sempre risulta la soluzione migliore per il suo sviluppo. Naturalmente non si può pretendere una completa alienazione dei bambini dai dispositivi elettronici, che, credo, sarebbe come spogliarli dalla possibilità di assaporare e saper trovarsi nella realtà, ma mi riferisco al loro uso e spesso abuso, che si traduce in ore e ore passate davanti lo schermo. «L’uso imprudente e prematuro dei dispositivi (se non guidato da chi è responsabile del minore) può nuocere gravemente ai più piccoli, con problemi di memoria, poca concentrazione e aggressività. Già dai primi mesi di vita viene messo a disposizione dei bambini lo smartphone di mamma o papà, con i cartoni animati o i giochi per intrattenerli, invece di lasciargli assaporare la noia, che non è nient’altro che l’ideatrice della immaginazione. 77

«A prescindere delle fasce d’età, probabilmente senza rendercene conto, in qualche modo siamo tutti dipendenti (chi più, chi meno) da cellullare e/o da social media. Spesso controlliamo WhatsApp, anche se non abbiamo ricevuto la notifica di un nuovo messaggio, o continuiamo ad aggiornare i newsfeed su Facebook, Instagram, ecc., anche se lo abbiamo appena fatto». Ma perché succede? Perché accedo continuamente ai social media? Lo chiediamo ancora a lei, dottoressa Czarnota. «A mio avviso, il grande potere dei social media si fonda su due pilastri a cui va il merito dell’immenso successo ottenuto e dello spropositato coinvolgimento degli utenti. Il primo è un concetto che riguarda la natura dell’uomo. La condivisione, così facile nell’era dei social media, vuol dire dividere tra le parti, spartire insieme ad altri. Ed è quello che facciamo quando postiamo sui social un contenuto che riprende una meravigliosa spiaggia spagnola. «Il principale motivo per il quale sentiamo la necessità di condividere con gli altri online, è semplicemente far conoscere ad altre persone ciò che ci piace, esternare la nostra posizione riguardo un evento (ad esempio sulla situazione politica), coltivare le relazioni in rete e mostrare la soddisfazione personale. All’interno di ognuno di noi si crea la voglia di raccontare (attraverso lo storytelling) quel piacevole istante in cui ci troviamo, quel momento o quelle persone che ci hanno reso fieri nella nostra vita. Questo bisogno di condivisione online prende il nome in ambito psicologico di social sharing.22 «Il secondo pilastro riguarda la progettazione di siti, applicazioni, giochi e di ogni singola funzionalità disponibile https://www.andreapilotti.com/perche-le-persone-condividono-psicologiadel-social-sharing.html

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all’interno dei social media (scroll, aggiungi, condividi, segui, commenta, mi piace). Non è un segreto: i dipendenti delle aziende tecnologiche affermano liberamente che i loro siti e applicazioni sono stati progettati in modo da creare dipendenza (esattamente come accade nella progettazione delle slot machine), principalmente nelle persone in età adolescenziale. Aza Raskin, ideatore dello scroll, è consapevole dell’impatto che ha avuto la sua invenzione e commenta così l’atteggiamento degli utenti: “è come se stessero prendendo cocaina comportamentale per poi spargerla su tutta l’interfaccia. E questa è la cosa che ti fa venire voglia di tornare nuovamente e nuovamente sul sito”. Lo stesso Raskin afferma che lo scroll non avevo lo scopo di creare tale dipendenza, e si sente addirittura colpevole. Dall’altra parte, i giganti del social media respingono fermamente le accuse circa una progettazione cosciente dei social con il fine di creare dipendenza23. «Intrecciando entrambi i pilastri siamo in grado, allora, di capire per quali ragioni siamo sempre collegati, sempre disponibili, e come la mancanza di tale stato (online) porti a un altro concetto, conosciuto con l’acronimo di FoMo. Fear of Missing Out, che tradotto letteralmente indica l’essere tagliato fuori o perdersi qualcosa di importante. È questo il sentimento che sentono le persone quando non accedono ai social. Hanno paura di perdere qualche avvenimento, pubblicazione, o informazione per loro preziosa, costringendoli ad accedere alla vita online in ogni occasione per rimanere sempre aggiornati. Il termine FoMo è stato elaborato dal sociologo sperimentale Andrew Przybylski, che dopo una ricerca è arrivato alle seguenti conclusioni: la FoMo è la forza trainante dietro l’uso dei social https://www.webnews.it/2018/07/05/social-media-progettati-crearedipendenza/

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media. I livelli di FoMo sono più alti nei giovani e in particolare tra i giovani maschi. Alti livelli di FoMo sono collegati a bassi livelli di soddisfazione. La FoMo risulta maggiore in quelli che sono soliti guidare distrattamente. La FoMo è maggiore tra gli studenti, che durante le lezioni utilizzano i social media24». Ecco quello di cui abbiamo parlato, qualcosa che sta realmente accadendo. È davvero un’emergenza? Oppure si tratta di quella che oggi viene comunemente definita outlook, una previsione? Previsione che, a mio parere, odora di vuoto, di solitudine, di «stanze in cui il futuro si riversa nel passato, attraverso il batter d’occhi dell’adesso» come scriveva Terry Pratchett ne Il tristo mietitore25. Come le stanze degli hikikomori, di qui parleremo nelle prossime righe con la nostra super hacker Stalker V (al secolo Vanessa Fieschi)… stay tuned!

2.2 Hikikomori. Ne hai mai sentito parlare? Water con i pulsanti di uno Space Shuttle che fanno partire musiche di sottofondo e tavoletta riscaldata, treni che arrivano con la puntualità degli orologi svizzeri, nessun mozzicone per strada, lavorare senza fretta, tasso di criminalità tra i più bassi al mondo: alcune delle usanze del Giappone sarebbe proprio bello che si diffondessero anche in Italia. Ma il Giappone è stato, fino al 2015, il Paese in cui era illegale ballare in pubblico oltre la mezzanotte, dove esiste un distributore automatico ogni ventitré abitanti, ci sono più animali domestici che bambini ed è comune sputare per strahttps://www.huffingtonpost.it/2013/10/10/fomo-fear-of-missing-outla-dipendenza-dai-social-network-un_n_4078127.html 25 Pratchett, T., Il tristo mietitore, Salani, Milano, 2008. 24

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da o fare rumore mentre si mangia il brodo. Leggende urbane narrano addirittura che un’emissione brusca e rumorosa, dalla bocca, di aria proveniente dallo stomaco a fine pasto denoti un apprezzamento – tanto esotico quanto imbarazzante per noi europei – per chi ha cucinato il manicaretto. Eh! che ci volete fare? Paese che vai… L’Italia e il paese del Sol Levante hanno molte diversità culturali, sociali e storiche, che però si assottigliano fino ad abbracciarsi come spirali di fumo quando si parla delle giovani generazioni, che – ora come mai – paiono subire, fino ad accartocciarsi come grattacieli di carte, l’influenza della globalizzazione. Gli adolescenti giapponesi e italiani ascoltano la stessa musica, si scambiano post sugli stessi social, guardano gli stessi film. Ma non sono sicuramente simili. Fanno l’amore nella stessa maniera, certo, ma la distanza geografica e sociologica è davvero troppo vasta per definirli somiglianti. Permane in sottofondo la diversità di millenni di storia e filosofia, ma i ragazzi, come il detto del calabrone, paiono non farci caso e continuano a esistere incontrandosi attraverso i loro interessi comuni. E nelle difficoltà della loro età. «No way out! Confusion! I need some more instructions! I don’t know where to go to!» Il testo di The Penguin Against Putrid Powel (2003) dei celeberrimi e genovesissimi Meganoidi descrive appieno il senso di smarrimento di una parte di questa generazione. Un aggregato fluido nel cui ambito i contesti culturali e sociali rendono più marcati alcuni fenomeni rispetto ad altri, manifestazioni che anticipano o ritardano il dilagarsi di un pensiero fino a convenire in un punto unico, fino a dove le strade convergono. Quello che è certo è che i nipponici ci hanno preceduto su un fenomeno nel cui ambito detengono – per il momento – un 81

infelice primato: la nascita e lo sviluppo degli hikikomori, termine venne coniato dallo psichiatra Tamaki Saito, traducibile con due parole fredde e tombali: isolamento sociale. La parola hikikomori in Giappone nasce per descrivere le persone, per lo più adolescenti, che decidono di abbandonare qualsiasi contatto sociale, compreso quello con i famigliari, non studiano, non lavorano, non fanno sport e si rinchiudono nella propria stanza per mesi, anni, senza mai uscirne, nemmeno per mangiare. Per un adolescente è normale, necessario, e per certi versi naturale, passare del tempo nella propria camera, nel suo spazio intimo e protetto, giocando al suo “sport” preferito: essere in conflitto con i genitori e avercela con il mondo intero. Ma in questo caso stiamo parlando di qualcosa di diverso: non è un gesto di ribellione come la “fuga da casa” o il marinare la scuola. Questi giovani non vogliono più avere nessun tipo di rapporto con il mondo esterno, nemmeno con gli altri ragazzi, cercano il totale isolamento. Un hikikomori è una persona mentalmente sana, che non ha nessun tipo di patologia clinica o mentale, non è un depresso, uno schizofrenico o un paranoico. La sua è una decisione (apparentemente) volontaria. Una scelta che non ha nulla in comune con chi si ritira per esempio nella vita monacale o di clausura: in questi casi si fa sempre parte di un gruppo di persone che si sostengono a vicenda, e inoltre lo scopo è di migliorare sé stessi e la società, mentre nell’hikikomori è di allontanarsi da entrambi. Se in una realtà sociale così complessa e controversa come quella del Giappone il fenomeno è – seppur ingiustificabile – limitatamente comprensibile, quali sono le motivazioni che portano un italiano all’alienazione sociale? Chi, d’altra parte, non ha pensato, almeno per una volta, di aprire un bar in Brasile oppure fuggire su un’isola deserta o su 82

un altro pianeta, lontano dal caos, dai problemi, nel silenzio e nella quiete, senza più sveglie al mattino, metropolitane che ti fanno sentire una sardina, colleghi che ti soffiano pure il caffè alla macchinetta? Chi, almeno una volta, non ha pensato di evadere, prendendo la strada più semplice? Perché diciamocelo, a volte è davvero impossibile dare torto al vecchio Charles Bukowski quando scriveva: «umanità, mi stai sul cazzo da sempre»26. In fondo, la fuga è una reazione istintiva quando avvertiamo ostilità e paura: è la prima cosa che ti insegnano ai corsi di difesa personale. Puoi fuggire, combattere oppure rimanere inerme e immobile, a subire, colpo dopo colpo. A te la scelta. Puoi addirittura provare a chiamarla per nome. A renderla reale. Di persona. A me ispira Tommy (forse perché in questo momento sto ascoltando i Radiohead). Tommy è un ragazzo normale, con una famiglia normale e una vita normale. È tranquillo perché lo attende un avvenire brillante. È questo che dice sua nonna Anita. La madre Sonia sorride e annuisce, quindi vuol dire che è vero. Tommy ha pochi amici, ma di questi tempi è normale. Anche i suoi post prendono pochi like. Questo lo ha sempre mandato in sbattimento. Ma ci sta facendo l’abitudine. Tommy ha problemi normali da adolescente. Forse qualcuno potrebbe aiutarlo. Ma non può certo confidarsi con i suoi amici, metà sembrano usciti dall’Isola dei Famosi e l’altra metà da X-Factor. Lui non ha voglia di sudare sotto tutta quella ghisa. E poi il rap lo annoia. Tommy lo sa di essere un fuscello e quelle maglie XL che i suoi continuano a comprargli non aiutano sentirsi meglio. “Cazzo, sembro un palo della luce spento”. Quante volte se lo è ripetuto davanti allo specchio, alla mattina. 26

Bukowski, C., Donne, TEA, Milano, 2008.

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Tommy si limita a guardare gli altri che parlando di cose, di politica, di calcio. Non ha nessuna voglia di tifare perché schierarsi è pur sempre una forma di partecipazione. Semplicemente non vuole essere tirato in mezzo a certe cose. Tommy non è molto portato alle relazioni sociali. È normale, no? Ha solo avuto qualche piccolo problema alle medie, ma chi non l’ha avuto? Ma a Tommy non davano fastidio i brutti voti. Nemmeno stava a sentire i genitori quando rompevano con questa cosa della scuola. Tommy a un certo punto si è reso conto che a dargli fastidio non era la scuola come concetto ma proprio come spazio fisico. A lui faceva schifo l’odore di sudore della 3H. E poi non sopportava di sedere al banco con Michele e Hibra. Quelli che sorridevano sempre. E Alice, Barbara, Aline, Nora. Il modo in cui lo guardavano alla mattina mentre entrava in classe lo metteva a disagio. Non vedeva l’ora che il professore iniziasse a spiegare per non sentire più addosso i loro sguardi. E quelle risatine di merda. E poi il rappresentante di classe. Quel comunista con i rasta. Ogni tanto gli andava addosso apposta. E poi tutto gentile a dirgli «Scusa bello! Non ti ho visto». L’unico momento di pace per Tommy? La fine dell’ora. Dove uscire e potersene stare nel giardinetto della scuola per i fatti propri. Dove rimanere a fumare cicche per tutta l’ora successiva. Dove una volta è arrivato il prof per chiamarlo e ha fatto finta di non vederlo. Da quella volta nessuno è venuto più a cercarlo. “Che bello quando nessuno sa dove sei”. A Tommy sembra addirittura passato il mal di testa. Certo, se non fosse per questo cazzo di mal di pancia. Pare lo avesse anche il cantante dei Nirvana. Mah! E poi una mattina Tommy è scivolato sul ghiaccio e si è rotto un piede. È stato un incidente. Normale. Succede quando nevica. “Ora mi fermo per qualche tempo. Me ne sto qui”. Nessuno lo ha 84

chiamato per i compiti. Il mal di pancia sembra diminuito. Si gode la connessione nuova di pacca. È passato un mese da quando Tommy si è rotto il piede. Ha chiamato solo Simone, voleva i soldi per il regalo del professore di ginnastica che va in pensione. E chi l’ha mai fatta educazione fisica. Poi non lui ha nessuna voglia di tornare in mezzo a quella gente. Gli è anche passato il mal di testa, e naviga a 100 mega. L’ha chiamato Alice, dicendo se fosse morto. No, Tommy sta bene. Non ha avuto il coraggio di dirle che ha paura di uscire. “E se poi torna tutto?” Sono passati sei mesi. È tutto perfetto. Con picchi di download inaspettati. Nessuno lo ha più chiamato. È giugno. “Chissà se mi hanno promosso?” È passato un anno. Lo hanno bocciato. “Bastardi. Se non fosse stato per quel cazzo di piede rotto, al massimo avrei qualche debito”. Ogni tanto sente parlare i suoi genitori. Dicono che passa troppo tempo al computer. “Ma è normale. In casa, posso stare sempre connesso”. Ma cosa fa così paura a un ragazzo di 15 anni da spingerlo a non voler più vedere il mondo? A sporcarsi le ginocchia con l’erba del campetto sotto casa? A fare a pugni con Michele? A provarci con Alice? Qui entrano in gioco le tradizioni culturali. Partiamo dal Giappone, che per primo già negli anni Ottanta si è dovuto confrontare con la “neurosi di ritiro”, come inizialmente veniva chiamata. I giapponesi sono da sempre famosi per essere degli instancabili e precisissimi lavoratori, e la forma mentis per il successo viene imposta già dalle scuole. Gli studenti nipponici seguono tutti lo stesso programma con gli stessi tempi in tutto il paese e sono continuamente sotto esame. Scarsi risultati scolastici precludono l’iscrizione alle università e di conseguenza l’ingresso nel mondo del lavoro in una buona posizione. Gli 85

studenti che non mantengono la media sono spesso bersagli di un bullismo violento, conosciuto con il termine “ijime”. Le pratiche vessatorie durano mesi, se non anni. Una forma passiva di ijime è quella di ignorare lo studente, comportandosi come se non esistesse, non rivolgendogli la parola. E non è solo il gruppo di bulli ad esercitarla, ma l’intera classe è complice. In qualche cartone animato nipponico (anime), capita di trovare dei personaggi che si incontrano e uno riconosce l’altro dicendogli: «siamo stati nella stessa classe per X anni», mentre il secondo non si ricorda minimamente chi sia. In questo caso, probabilmente, il primo personaggio è stato vittima di quello che viene definito il mushi, l’esclusione dal gruppo. A questo punto penserete a consigli di classe, genitori convocati, psicologi, l’FBI che intercetta i messaggi WhatsApp. In Giappone non funziona così. Gli insegnanti non intervengono e stanno in silenzio, per scarsa sensibilità o semplicemente per mancanza di preparazione ad affrontare la situazione. In famiglia poi la situazione si complica: un genitore con un figlio vittima di ijime tenderà di accusare il figlio di essere inadeguato, piuttosto che i bulli di violenza. In quel contesto essere vittima significa non aver raggiunto buoni risultati, essere uno studente ma soprattutto un individuo di livello inferiore, un soggetto buono solo a deludere la famiglia, a renderla oggetto di scherno. E questo accade incredibilmente nella società giapponese, fortemente influenzata dal confucianesimo e dal concetto della pietà filiale, dove il figlio deve assoluta reverenza ai genitori e la delusione familiare implica vergogna e senso di colpa. A questo si aggiunga la “filosofia orientale” dei sentimenti atrofizzati, dove l’imbarazzo è sinonimo di maturità e l’adolescente è chiamato a essere un buon figlio e uno studente diligente, null’altro. 86

Fino a qualche anno fa, gli psichiatri, tra cui anche Saito, visti i legami con la struttura sociale giapponese, pensavano che il fenomeno hikikomori riguardasse i soli confini nazionali, o al massimo i vicini di tradizione confuciana. Uno studio condotto nel 201227, ha invece evidenziato che anche in Occidente stiamo assistendo a un dilagarsi, in forme “adattate all’ambiente”, di questo comportamento. In Occidente è più facile incorrere in problemi adolescenziali come anoressia o bulimia, ma l’associazione Hikikomori Italia stima che ci sarebbero già più di 70.000 hikikomori italiani. Un numero che non ha ancora raggiunto i 500.000 casi accertati e 1 milione stimati (pari all’1% dell’intera popolazione) del Giappone, ma che deve destare comunque preoccupazione, perché è un segnale tangibile che qualcosa sta accadendo. Addirittura, da quanto rileva un sito specialistico citando un’indagine della Fnomceo (Federazione italiana degli ordini dei medici), la sindrome di Hikikomori è «un fenomeno che sta pericolosamente prendendo piede in Italia, dove 240mila ragazzini e adolescenti passano in media più di 3 ore al giorno davanti al pc. Una vera e propria web-dipendenza che porta a una sorta di isolamento sociale, prima presente solo in Giappone e per questo denominata “sindrome di Hikikomori” 28. [Gli adolescenti] il più delle volte riescono a raggiungere la sufficienza nelle materie scolastiche, confermando che frequentano l’ambiente didattico come una sorta di obbligo, e poi si ritirano dal mondo reKato, T.A., Tateno, M., Shinfuku, N., Fujisawa, D., Teo, A.R., Sartorius, N., Kanba, S. “Does the ‘hikikomori’ syndrome of social withdrawal exist outside Japan? A preliminary international investigation”, «Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology», 2012. Per saperne di più: https:// www.stateofmind.it/2015/09/hikikomori-adolescenti-isolamento/ 28 https://medicinaonline.co/2017/03/10/sindrome-di-hikikomori-e-dipendenza-da-internet-giovani-sempre-piu-colpiti/ 27

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ale per calarsi completamente in quello virtuale. È una delle forme emergenti di dipendenza – conclude la Fnomceo – che spesso viene confusa con situazioni psicopatologiche diverse. Va affrontata e prevenuta innanzitutto attraverso la conoscenza del fenomeno che è ancora sottaciuto. La sindrome non è ancora stata ufficialmente dichiarata una malattia e i giovani Hikikomori “DOC” sono considerati tali quando smettono di uscire dalle loro stanze, per frequentare la scuola o l’impiego, di conseguenza, l’indagine medica potrebbe aver incluso molti giovani affetti “solamente” da dipendenza da internet». Alla base della reclusione italiana ritroviamo eventi traumatici come bullismo, insuccessi, problemi famigliari, situazioni che generano senso di vergogna e inadeguatezza e una società che guarda all’estetica molto più che all’etica. L’esempio scolastico è quello di Tommy. Un adolescente di 16 anni che decide di auto recludersi in casa definendosi “inadatto, incapace, stupido e di troppo” e affermando che “l’impotenza che provi davanti a determinate situazioni uccide”. Non esce dalla sua camera da sei anni. Se fosse stato condannato per furto aggravato sarebbe già libero da almeno tre. In un Paese dove la popolazione ancora oggi arranca a identificare nella depressione una malattia, capire un fenomeno sociale come questo non è semplice. I contatti globali, i manga e gli anime giapponesi che i giovani europei leggono e guardano hanno contribuito a far conoscere questa pratica tra i ragazzi, per cui sicuramente non mancano momenti imitativi, ma che sono appunto momenti. Nessuno potrebbe resistere completamente solo rinchiuso in casa per mesi, anni, senza che alla base vi sia un problema serio. Perfino ai carcerati è riconosciuta l’ora d’aria come qualcosa di indispensabile. L’uomo è un animale sociale, sostiene Aristotele: che sia per opportunismo, biso88

gno o istinto, ha bisogno di un gruppo, non è nella sua natura vivere solo. Ma il disagio a hikikomori è qualcosa che va oltre la crisi adolescenziale. Passano le loro giornate al buio tra musica, manga, film, internet. Se cercate “hikikomori” su un social network, troverete tantissimi profili, ognuno con un anime a fare da copertina. Questo perché hanno i loro unici contatti sulla rete, si scrivono, dialogano, ma nulla a che vedere con una relazione del “mondo fisico”. Instaurano questo tipo di simil-rapporto unicamente perché sanno di poterlo troncare in qualsiasi momento: un click e tutto si cancella, sparisce, l’altro non esiste più. Non sentono l’esigenza di lavorare, di crearsi un futuro. Ma come si sostiene un recluso sociale, vi starete domandando? Gli hikikomori giapponesi sopravvivono con sussidi statali o rimanendo in casa con i genitori (in Giappone è normale che un figlio rimanga in casa con i genitori anche fino a quarant’anni), in Italia vanno ad aumentare il numero di “mammoni” e di NEET (popolarmente noti come nullafacenti e di cui abbiamo già parlato), senza che lo siano con quell’accezione. Oltre al rischio di morire di fame – e pur di non uscire, ci muoiono di fame – sulle conseguenze a lungo termine di questo comportamento, la letteratura, allo stato attuale, non approfondisce molto il tema. Non essendoci luoghi di ritrovo per gli hikikomori, se non delle chat in rete, per gli studiosi è difficile fare ricerca per approfondire cause ed effetti. Consideriamo però che la fascia d’età dei soggetti è sotto i 30 anni, quindi nel periodo in cui il cervello è ancora soggetto ad adattamenti (è nella cosiddetta “fase plastica”). Se determinate funzioni cerebrali non vengono utilizzate, subiscono una sorta di atrofizzazioni (il cervello è pur sempre un muscolo). Nel caso degli hikikomori si può ipotizzare un paragone, anche se un po’ enfa89

tizzato, con gli studi sui polli allevati in gabbia: le indagini degli etologi mostrano che gli animali allevati in una piccola gabbia, senza mai uscirne, presentano delle disfunzioni della capacità di orientamento e movimento spaziale29. Se già su un pollo ci sono conseguenze evidenti, per l’uomo le ripercussioni del totale isolamento potrebbero essere imprevedibili. Per evitare di scoprire queste conseguenze, è necessario intervenire per tempo. Lo hikikomori, come detto, non è affetto da nessuna patologia: questo significa che non esistono farmaci per curarlo, non è un depresso a cui si può dare del litio o portarlo in una clinica. La soluzione va cercata nei rapporti sociali e può richiedere molto tempo e tanti insuccessi. Come scrive Saito: «Il problema dell’isolamento è già così diffuso e complicato che per il trattamento medico è difficile risolverlo da solo. La soluzione non può venire unicamente dal campo della psichiatria. Sarà meglio se specialisti da diversi settori verranno coinvolti. Quantomeno, avremo bisogno della cooperazione di specialisti nel campo dell’educazione, della psicologia, della medicina, del welfare, del supporto alla carriera, e della pianificazione della vita. Spero che attraverso questa cooperazione potremo sviluppare molte e diverse attività per supportare gli hikikomori e il loro recupero30». Per prima cosa, si deve stabilire un punto di contatto per fargli aprire la porta. Prendiamo l’esempio dei bambini autistici, che hanno difficoltà a interagire con gli altri. In molti casi si utilizza un animale, come può essere un cane, come mediatore sociale nei cosiddetti interventi (o terapie) assistiti con gli animali, con risultati notevoli. Come riferito in un videomessaggio in occasione dell’Expo 2015 dall’allora Sottosegretario di 29 30

Vallortigara, G., La mente che scodinzola, Mondadori, Milano, 2011. Saito, T., Hikikomori, University of Minnesota, Minneapolis, 2013.

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Stato alla Salute Vito de Filippo, i dati raccolti dimostrano che la relazione con l’animale riaccende l’interesse verso gli altri, attraverso stimoli sensoriali tattili e visivi creando un’empatia che induce anche pazienti depressi e in isolamento sociale a reagire e a sentirsi utili31. Il mediatore sociale è qualcuno che non giudica, ti comprende e pian piano, senza forzarti, ti guida nella direzione giusta attraverso un rapporto di fiducia. Nel nostro caso, una tecnica utilizzata è quella del “fratello o sorella in affitto”: un professionista estraneo alla famiglia che cerca di avvicinarsi al ragazzo, fungendo appunto da mediatore sociale. Il professionista dovrà prestare molta attenzione anche al contesto famigliare, e studiare i componenti della famiglia forse ancor prima dell’utente. Molto spesso i famigliari, inconsapevolmente, con i loro comportamenti possono dar luogo a pressioni o fraintendimenti che non permettono di avanzare o iniziare il recupero. In base alla situazione di ognuno, il primo approccio potrà essere a casa dell’utente o tramite la rete. Nel secondo step c’è l’uscita dalla stanza per l’inserimento in un gruppo di recupero: viene strutturato un percorso sia per la persona sia per la famiglia, che «si trova anch’essa in una sorta di isolamento sociale anche se non se ne rende conto32» e deve essere supportata per poter fornire al famigliare il miglior sostegno possibile. Da qui in avanti, se le risposte saranno positive, gradualmente, inizierà il reinserimento nella società. I tempi sono soggettivi, ma l’obiettivo raggiungibile. Riguardo l’eventuale prevenzione, trattandosi di un fenomeno sociale, si dovrebbe agire sull’intera società, ma è alquanhttp://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php? articolo_id=30325 32 Braidotti, A., Hikikomori. Terapie e diffusione in Italia, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2013. 31

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to utopico pensare a una soluzione “di massa”. Si può però partire dalla famiglia e da se stessi. Su internet ho trovato una frase: «Lo psicologo è il personal trainer della mente: come alleni gli addominali, allena il cervello». La nostra mente, esattamente come il nostro fisico, può subire stress e traumi: per questo è importante, come alleniamo il fisico per avere muscoli più forti e resistenti, allenare la nostra mente a reagire alle situazioni. Molti sportivi conoscono l’importanza di esercizi come il training autogeno prima di una gara e praticamente tutti i professionisti hanno un mental coach che li segue, anche e soprattutto in caso di vittoria. Pensate all’impatto emotivo che può avere fare un record del mondo e l’anno successivo magari non arrivare nemmeno al podio. In entrambi i casi c’è una sollecitazione emotiva non indifferente: nel primo caso positiva, nel secondo negativa. Il successo può “dare alla testa” e il fallimento far crollare. Una delle principali caratteristiche da allenare è la resilienza, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. E per allenarla non dobbiamo aver vergogna di chiedere aiuto ai professionisti. Dobbiamo vedere nello psicologo non solo “un analista per matti e depressi”, ma qualcuno che ci può aiutare a migliorare nella vita di tutti i giorni, a capire i nostri errori e debolezze. Se a grandi linee sappiamo come siamo arrivati a questa situazione, il futuro è ancora tutto da scrivere. Petabit al secondo. Questa è l’unità di misura a cui viaggiano le informazioni oggi, e con loro anche le mode e i cambiamenti generazionali. Fino al secolo scorso, prima che un’abitudine o un modo di fare si diffondesse e consolidasse ci volevano anche anni, ora bastano pochi mesi: in quest’epoca assistiamo ai cambiamenti sociali più veloci mai avvenuti nella storia. Come le 92

app del telefono che si aggiornano ogni settimana, così stanno facendo i nostri usi e costumi, senza che ci sia il tempo di assimilare il cambiamento. Forse, come scriveva Tonino Guerra in una pagina di diario del 2008, «bisogna creare luoghi dove fermare la nostra fretta. E aspettare la nostra anima». Luoghi che non siano muri di cemento o di megabyte.

2.3 The incel community, gli involontariamente celibi Con nasone e i ciglioni sono più bello di Brad Pitt senza in bocca due gommoni mandi a casa la Jolie ora che ti ho tra le mani dopo anni a farmi i film io non mi stanco mai della tua pussy è il bello di essere brutti è il bello di essere brutti. J-Ax, Il bello d’esser brutti, 2015

Henry Charles “Hank” Bukowski Jr. è nato in Germania nell’agosto del 1920. Una delle sue poesie più famose recita: «La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto. Perché se a qualcuno piaci, sai che è per qualcos’altro33». Bellezza. Fascino. Avvenenza. Si tratta di qualcosa che suscita sensazioni piacevoli e riporta all’emozione positiva, oppure è un mero canone di riferimento che dura poco e si consuma rapidamente? Serve a far volare il tempo oppure ne determina l’inesorabile trascorrere? Siamo noi a giocare con lei oppure, quando ha fatto il suo gioco, quella dote 33

Bukowski, C., Storie di ordinaria follia, Feltrinelli, Milano, 2008.

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così sopravvalutata scompare lasciando il posto a null’altro che ad un ricordo? Secondo Hank essere amati o compiaciuti per la propria bellezza estetica è soltanto tempo sprecato. Una fatica troppo grande per una cosa di poco conto. È proprio su questo elogio del brutto che Bukowski è riuscito a costruire addirittura un genere. Il realismo sporco, una corrente letteraria che attinge a piene mani dal mito del perdente, dove racconti e protagonisti sono miseri e poveri, sia di elementi descrittivi che di denaro contante. È il contesto in cui vivono che parla per loro. Sono volgari e anticonformisti, conducono vite asciutte e versano in cattive condizioni generali. Sono poveri e brutti, ma di un brutto percepito e quasi mai reale. Benissimo! Ora, però, vi starete domandando cosa c’entra Bukowski con gli incel. Nulla, a prima vista. La risposta giusta – come spesso accade – è: dipende. Se ti chiami Bukowski, il vivere attraverso uno schema nichilista e punk (o meglio pulp) e il muoversi ai margini della società, in ambienti sordidi e malfamati, ti garantisce un fascino indiscusso. Ma solo se ti chiami così. Un immigrato butterato e grassoccio, pieno di alcool e donne. La realtà purtroppo è fatta di pochissimi poeti e di moltissimi “signor nessuno”. Il fascino del brutto non esiste affatto. È difficile da credere ed è lo stesso sentimento che ho provato quando mi hanno parlato, per la prima volta, di questa comunità digitale. In.Cel. è l’acronimo di involuntary celibate. Celibi involontari, in massima prevalenza uomini, ma anche donne, persone con differente orientamento sessuale che sostengono di non riuscire a essere accettati, come partner, da nessuna persona al mondo. Questo nonostante loro stessi aspirino fortemente a una normalità affettiva o sessuale. La community si è formata negli anni ’90 e si è via via ampliata fino a divenire un fenome94

no di nicchia della rete. Un movimento trasversale, che nasce e cresce attraverso i forum on line. Di notte, di nascosto. Luoghi bui ove poter parlare liberamente senza possibilità di essere visti e giudicati. Conta solo quello che si scrive. Sia esso vero o falso. Non esistono brand o status symbol. È esattamente quello da cui si nascondono. La prima a raccontare la sua condizione di incel pare essere stata una studentessa canadese nota con il soprannome di Alana. Leggenda metropolitana? Ma in fondo, che importa? Ciò che è davvero interessante è provare a capire cos’è successo dopo negli Stati Uniti, intorno agli anni 2000, quando decine di forum hanno iniziato ad occuparsi di “quelli”. Prima decine, poi sempre di più, centinaia di persone che ogni notte si davano appuntamento per annusarsi e ragionare sulla loro condizione. Troppo facile definirli sfigati o diversi. Troppo esagerato definirli malati? È sbagliato classificare questa “manifestazione” come una dipendenza, una patologia, un fenomeno sociale? Non saprei rispondere. Posso però rispondere su quello che possono fare, ma ne parleremo tra qualche riga. Quando ho chiesto a una persona vicina alla cerchia incel di rilasciarmi un’intervista la sua prima considerazione è stata che il celibato involontario non è una dipendenza. La prima e ultima considerazione prima di sparire nel nulla, ci terrei a precisare. E come lui diversi “celibi” che semplicemente non vogliono farsi intervistare né parlare della loro condizione. Il sito urbandictionary (vero e proprio dizionario creato dagli utenti del portale e dedicato ai neologismi e allo slang inglese, in grado di fotografare un mondo corrente ed attuale) descrive l’incel come una «persona (di solito maschile) con una personalità orribile e che tratta le donne come oggetti sessuali, pensando che l’incapacità di crearsi una vita sessuale derivi dal suo 95

essere “brutto”, quando in realtà deriva solamente dal suo ovvio sessismo e dal suo atteggiamento34». Il forum “ufficioso” (tra le diverse decine presenti in rete, a mio parere, risultato più credibile) del movimento li tratteggia del movimento li tratteggia, invece, in maniera più sistematica come «persone che desiderano, ma non sono in grado, di avere una relazione sentimentale35». I celibi si definiscono come un movimento di persone che condivide una supposta incapacità a convincere le donne ad avere rapporti sessuali. Un gruppo che condivide online, su forum blindatissimi, problemi e angosce. Nella speranza di poter trovare una soluzione. Lo specialista Sam Louie (psicoterapeuta specializzato in questioni multiculturali e dipendenze comportamentali ma anche giornalista televisivo vincitore di Emmy Award) li segnala invece come soggetti ostracizzati «perché non in grado di condurre relazioni affettive e fisiche36». Tre facce della stessa medaglia? Dobbiamo necessariamente approfondire, magari partendo dagli appartenenti a questa comunità. Loro come si vedono? Che parole usano per descriversi? Scorrendo sul forum ufficiale37, si tratta di persone che vogliono vivere «una relazione sentimentale, ma non sono in grado di trovare un partner. Non c’è niente di più. Sono un Incel? Se vi trovate nella situazione di cui sopra, lo siete! Essere un Incel equivale a essere vergine? Mentre la stragrande maggioranza degli Incel sono vergini, ci sono casi in cui una https://www.urbandictionary.com/define.php?term=incel https://incels.co/threads/rules-terminology-and-faq.799/ 36 https://www.psychologytoday.com/us/blog/minority-report/201804/ the-incel-movement 37 https://incels.co/threads/intro-to-incels 34 35

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persona ha fatto sesso in passato, ma a causa di una serie di circostanze non è ora in grado di avere in una relazione». Fino a qui tutto bene direte voi. Che cosa c’è di strano nel condividere su un forum preoccupazioni, ansie collettive ed eventualmente aiutarsi reciprocamente? Nulla dico io, esistono blog di ogni tipo. Perché non ci dovrebbe essere spazio per loro? Esiste un ma. Una parte del movimento segue una corrente che ha estremizzato il proprio pensiero fino a farlo diventare azione. E che azione! Secondo questa frangia il fallimento in ambito sessuale deriverebbe da alcuni semplici assunti. Uno di questi vedrebbe protagonista le donne, viste come corpi effimeri, corrotte e attirate dal bello e dal superfluo, condizione imperante nell’attuale società. Un’altra punterebbe il dito contro una società troppo classista ed edonista, dove il posto per il brutto si trova in fondo alla fila. Dove ogni cosa poggia le sue fondamenta sulla teoria LMS: Look (aspetto), Money (denaro) e Status (reputazione/fama) e su cui torneremo tra poco. E come ripianare questa discriminazione, questi vuoti? Con azioni violente e spettacolari, soprattutto contro le donne. Con quella che viene definita la “Beta rivoluzione”. Ok, ci stiamo avvicinando al problema. Che non è da poco. Per cercare di capire meglio di cosa si tratta, per una volta, partiamo dalla fine. Nel primo mese del 2019, Christopher Wayne Cleary, ventisettenne del Colorado – sedicente illibato – viene tratto in arresto dopo la sua pubblicazione di un outlook-mass-shooting. Novembre 2018, Scott Beierle, 40 anni, si suicida non prima di aver ucciso due persone e ferite altre quattro in Florida. Anche lui ha pubblicato un manifesto online in cui si definisce incel. Il 23 aprile 2018 Alek Minassian, venticinquenne americano di Toronto di origine armena, uccide dieci persone investen97

dole con un furgone, nella sua città. Un terrorista. Ecco quello che tutti hanno pensato, subito. In realtà alcuni giorni prima della strage, Alek pubblica su un social questo messaggio: «La Ribellione degli incel è già iniziata: distruggeremo tutti i Chads e le Stacys! Tutti saluteranno il Supremo Signore Elliot Rodger». Dopo essersi arreso alle autorità, Minassian affronta dieci accuse di omicidio e tredici accuse di tentato omicidio. Un attimo. Voi mi state dicendo che questi giovani uomini uccidono altre persone perché non sono in grado di avere rapporti sessuali? È questo il senso? Sì. Una parte del discorso riguarda anche questo. Ma non solo. Chi sono tutti i Chads e le Stacys? E il Supremo Signore Elliot Rodger? Come vi dicevo la storia non è così semplice da raccontare. Ma andiamo per ordine perché, come vi ho accennato, l’obiettivo, o almeno uno degli obbiettivi del movimento, è capovolgere l’attuale status quo in merito alla questione sessuale-affettiva. Ed educare, porre all’attenzione. Ma soprattutto far emergere una vera e propria classe sociale oppressa e stigmatizzata, a favore della razza dominante, del maschio alfa. Conservatori contro proletari, se proprio vogliamo adottare una visione politica del concetto. Certo, solo pochi, pochissimi adepti abbracciano l’ala stragista del movimento ma nei forum, sotto la cenere dei blog, le braci sono calde, caldissime, alimentate quotidianamente dagli interventi di persone sole, umiliate, infelici che si riversano l’un l’altro l’idea di non essere scelti unicamente perché le donne sono troppo superficiali. I nemici? i Chads, ovvero i bellocci, gli uomini che hanno successo con le donne, insomma, lasciatemi passare il termine davvero gretto “i grandi chiavatori”. Ma anche le Stacy, le donne che si lasciano circuire e che vogliono stare solo con i Chads. Secondo uno dei padri spirituali del movimento, Elliot Rodger, «troie bionda viziate come tutte 98

quelle ragazze che ho tanto desiderato, che mi hanno respinto e mi hanno considerato un uomo inferiore38». Questo è il punto. Forse il termine “nemico”, se rivolto ai Chads, non è propriamente corretto perché i celibi, in realtà, vorrebbero, nel loro profondo, poter essere come loro. Sono i modelli ideali a cui aspirano e che secondo la propria teoria non possono raggiungere, per motivi genetici. Minassian non è certamente né il primo né l’unico assassino incel della storia. Ne esistono altri. Il 31 luglio 2016 Sheldon Bentley, canadese trentaseienne fu protagonista di rapina e omicidio, causato, a suo dire, dalla condizione di rabbia e frustrazione derivante dal suo essere incel. Secondo quanto riporta il dottor Sam Louie nel suo articolo, «Chris Harper-Mercer, di madre afroamericana, è un auto-professato incel cresciuto nella campagna dell’Oregon. Nel 2015, all’età di 26 anni, ha ucciso nove persone nel suo collegio prima di suicidarsi». Anche Chris Harper-Mercer, prima della sparatoria che ha causato nove morti e otto feriti ha pubblicato in rete un suo “manifesto” per rendere noto al mondo la depressione derivante dal non aver mai fatto sesso con una donna e per elogiare, ancora una volta, Elliot Rodger». Ha venticinque anni Marc Lepin, figlio di un immigrato algerino, quando nel 1989 porta a termine una vera strage presso l’École Polytechnique di Montreal. Lepin, dopo aver abbracciato la retorica antifemminista, ha ucciso quattordici donne. Prima di suicidarsi ha lasciato una nota incolpando le femministe per avergli rovinato la vita. E poi c’è il leader, che viene identificato dagli incel come colui che ha aperto il varco, che ha mostrato la luce. Che ha https://www.nytimes.com/video/us/100000002900707/youtube-videoretribution.html

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avuto il coraggio di manifestare la sua frustrazione, il suo potenziale inespresso. Ecco come lo descrive Louie: «Elliot Rodger, ventiduenne, figlio di un’immigrata taiwanese e del produttore dei film Hunger Games Peter Rodger. Spesso citato nei post di Minassian, è diventato famoso con un video intitolato punizione di Elliot Rodger, dove ha palesato il suo intento di uccidere uomini e donne a causa della sua frustrazione sessuale. Ha anche scritto un manifesto di 150 pagine che si collegava al movimento incel prima di uccidere sei persone nei pressi di UC Santa Barbara e suicidarsi». Volete sapere cosa contenevano quelle pagine? Solitudine, misoginia, discriminazione, nichilismo. Paura e prepotenza. «Dopo aver preso in mano il fucile ho provato una sensazione tutta nuova di potere. Chi è adesso il maschio alfa, eh, stronze? Questo pensavo dentro di me rispetto a tutte le ragazze che in passato mi avevano guardato dall’alto verso il basso39». Sono stragi. Eventi che – seppur straordinari nella loro drammaticità – finiscono per non sorprendere la massa per più di qualche giorno Pagine orrende che dovrebbero portare la società domandarsi dove abbia fallito e invece vengono lette con noia, con distacco. A noi, tanto, non succederà mai. A me invece capita spesso di domandarmi: cosa cercano queste persone? Avrei voluto chiederlo a qualcuno di loro. Ma non vogliono farsi intervistare. Avrei voluto chiedere: quello che fate è un tentativo di risolvere i vostri (veri o fantomatici) problemi oppure sono un’insana voglia d’attenzione? Tutti ripudiano pubblicamente le azioni terroristiche con un ma. Tutti odiano il manifesto di Rodger, ma sottovoce dicono “avrei voluto scriverlo io”. Secondo alcuni i loro gesti sono una sorta di https://vitadabrutto.wordpress.com/2016/08/26/potevo-essere-io-elliotrodger/ 39

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atto dovuto. Qualcosa di sbagliato – perché loro stessi sanno di compiere una mostruosità – ma necessario. Qualcosa per lasciare un segno e per far sapere che ci sono, che esistono. E soffrono. Ma qualcuno deve pagare. E solo allora forse ritroveranno la pace che hanno cercato invano per anni su quei forum deliranti. Leggendo alcuni articoli sulle stragi sono rimasto colpito dal fatto che – parlando di Chris Harper, l’omicida dell’Oregon – un giornalista abbia scritto: «Giustamente il comandante della polizia di Roseburg ha rifiutato di pronunciare il nome dell’assassino40». Siamo davvero sicuri che non citare il nome dell’autore di un simile massacro sia un giusto approccio? Quanti invisibili, dietro a quelle tastiere, avrebbero voluto sentire urlare il suo nome. Una specie di schiaffo fortissimo, necessario a svegliarli da quel torpore dove il gioco era diventato reale e il sangue aveva iniziato a scorrere davvero. Non era più una pagina web. Era diventato un cimitero. Non voler riconoscere all’omicida il sigillo dell’infamia lo relega in quel limbo popolato da invisibili che ritengono realizzabile ogni pensiero. E che devono essere neutralizzati. Curati. Arrestati. Salvati. Scegliamo il nostro punto di vista, ma facciamolo in fretta, perché sono in mezzo a noi. Proviamo a scendere ancora più in profondità, sempre grazie all’articolo del dottor Sam Louie dove, per prima cosa, emerge una curiosa considerazione sul cambiamento sociale. «Non molto tempo fa, essere sessualmente attivi al di fuori del matrimonio era una vergogna. Oggi si viene derisi per l’esatto contrario… Insomma, se non hai fatto sesso entro i trent’anni devi https://www.corriere.it/esteri/15_ottobre_02/chris-harper-l-assalitore -dell-oregon-fascino-l-ira-l-odio-la-religione-organizzata-e9ea378e-68ac-1 1e5-8caa-10c7357f56e4.shtml?refresh_ce-cp 40

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essere non solo sessualmente inadeguato, difettoso e inetto ma anche socialmente imbarazzante. Spesso può essere dovuto a disabilità o caratteristiche fisiche (peso, altezza, caratteristiche facciali, acne, ecc.), a una mancanza di comprensione, di spunti sociali (non sapendo quando iniziare o smettere di parlare in certe situazioni, per fare un banale esempio)». In pratica un “isolazionismo autoimposto” a cui spesso vanno aggiunti interessi e hobby che aggravano ulteriormente questa condizione borderline dove il celibe involontario tende «a gravitare verso attività che sono socialmente meno minacciose, quindi giochi di ruolo online e attività in cui il profilo può essere anonimo […]. Altri interessi includono la raccolta di fumetti, l’interesse per i Pokemon e i manga giapponesi». Viene anche data importante considerazione alla matrice razziale. Analizzando i più eclatanti casi di stragi incel è emerso che in taluni casi l’autore apparteneva a «una minoranza etnica che viveva in mezzo a una cultura prevalentemente caucasica. Le minoranze etniche affrontano sfide incommensurabili nell’assimilazione a una società diversa dalla propria e il senso di essere uno “straniero perpetuo” può pervadere anche l’individuo più integrato in occasione di commenti razzisti o invalidanti». Nel restante caso si tratta comunque di persone «stuzzicate, bullizzate e ostracizzate per una qualsiasi delle aree di cui sopra (cioè sessuale, sociale, ricreativo e razziale), ma ciò che è diverso ora è la vergogna collettiva provata su questi fronti». Ecco perché siamo partiti dalla figura di Charles Bukowski. Un immigrato trasferito dalla Germania negli Stati Uniti all’età di tre anni, con un’iniziale difficoltà a parlare la nuova lingua, a rapportarsi con una società a lui ostile perché lontana dal suo stile di vita. Dove gli unici terreni comuni per poter dialogare 102

e farsi accettare sono stati l’alcool e le scommesse sui cavalli. Ieri quelle persone si aggiravano come fantasmi in un mondo che non li voleva, che faceva fatica ad accettarli. Anime sole. Oggi si sono trovate e riconosciute in un contenitore comune, la rete, che livella e fluidifica. Dove un livello di umiliazione e vergogna viene compresso come benzina in un cilindro ed esplode. Basta una scintilla e il motore parte. Perché la persona non combatte contro un nemico. Qui lotta contro se stesso e contro gli altri. Contro di sé nutre una sorta d’odio derivante dall’impatto devastante di una psiche alle prese con precedenti livelli di vergogna, una sorta di inadeguatezza sessuale che, soprattutto nell’adolescenza, può raggiungere livelli di vergogna e umiliazione assoluti. Poi ci sono gli altri. Quelli che ce l’hanno fatta. Quelli giusti. I belli (anche se belli non sono) che ogni giorno rendono la vita degli incel più umiliante e dolorosa. Il loro successo rende la vulnerabilità e il fallimento ancora più inaccettabili e totali. Come abbiamo scritto qualche riga sopra si tratta della teoria LMS, acronimo che descrive Look (aspetto), Money (denaro) e Status (reputazione/fama) e secondo cui il “trovarsi” tra uomo e donna deriverebbe da fattori oggettivi e anaffettivi quali la bellezza fisica (connessa all’attrattività), la disponibilità di moneta e lo status, ovvero il posizionamento sociale di cui farsi vanto. Secondo quanto riporta uno dei siti di riferimento41 «L’attrattività di un uomo nei confronti dell’altro sesso è direttamente proporzionale al suo livello estetico e socioeconomico». E ancora «Aspetto fisico, denaro e status sociale sono quindi i prerequisiti fondamentali per attrarre le donne. Attenzione ai termini: prerequisiti, da non confondere con i https://www.ilredpillatore.org/2018/05/il-redpillatorela-mappa-del-sito. html

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requisiti, che possono ad esempio essere un certo tipo di personalità, compatibilità caratteriale, interessi in comune ecc. e che invece sono estremamente soggettivi, ma vengono presi in considerazione dopo che uno ha superato lo scoglio LMS42». Non provate a tirare fuori la favola romantica della chimica o dell’affinità caratteriale, del bravo ragazzo o della buona famiglia. Sono argomenti che servono sono a innescare ancora più rabbia nei celibi involontari. Con gli incel il “saperci fare” non esiste. O sei in alto nella scala della bellezza o sei fuori. E attenzione: questa scala, tarata da 1 a 10, per loro è una cosa serissima e viene calcolata attraverso indagini statistiche e canoni rigorosissimi. Non vanno assolutamente bene i polsi troppo magri, ad esempio. I sostenitori di questa teoria ritengono che l’evoluzione di un rapporto affettivo sia da attribuirsi esclusivamente all’accettazione dei fattori di bellezza, denaro e fama sociale. Nel ragionamento incel, la donna dopo aver valutato la somma di ogni singolo parametro deciderà se lasciarvi oppure no. Sicuramente potrà accadere quando incontrerà un uomo con un coefficiente maggiore del vostro. È solo questione di tempo. Anche il tempo è nemico, il tempo della liberazione sessuale. Prima, invece, regnava una tranquillizzante ed equilibrata monogamia dove le donne non avevano pieno accesso alla sessualità, come oggi. L’evoluzione della teoria LMS e la cognizione di vivere in una società con mutate dinamiche sessuali hanno generato la teoria delle pillole. Le elenchiamo nella lista sottostante insieme ai nomi in codice usati dagli incel: • Red Pill: pillola rossa, la visione cinica e politicamente scorretta. https://www.eroicafenice.com/notizie-attualita/forum-dei-brutti-i-single-non-per-scelta/ 42

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• Black Pill: pillola nera, la versione più depressiva della redpill, il lato più nero e pessimistico. Senza lati positivi. • Blue Pill: pillola blu, le persone che non aderiscono all’ideologia LMS, a chi ancora non si è reso conto che le donne sono avvantaggiate e che gli uomini beta sono subalterni. • Normie: l’uomo comune, in modo dispregiativo. • BV: l’uomo “brutto vero”. • Betabuxx: l’uomo sotto la media che ha rapporti con l’altro sesso solo perché provvede al sostentamento economico, deriva dal proverbio americano Alpha fucks, Beta bucks. • Chad: lo stereotipo del maschio alfa con fisicità prominente e grande successo con le donne. • Cuck: diminutivo di cuckold, è l’uomo destinato a essere tradito. • Mentalcel: chi è incel a causa di disturbi mentali. • Volcel: chi sceglie deliberatamente di non volersi impegnare in relazioni sentimentali. • Fakecel: chi si spaccia per incel all’interno delle comunità online. • Stacy: la donna sexy per eccellenza. • Becky: la donna sciatta, poco appariscente. È difficile dare un numero esatto dei veri incel nazionali. Sono molti più di quanto possiamo credere e ogni giorno si trovano a interagire in un mondo ovattato e nascosto che non necessita di commiserazione ma di aiuto. Al corpo ma anche all’anima. Uno «schiacciamento dell’anima», così lo definisce il dottor Louie, che viene quotidianamente coltivato in rete. Mescolando fattori potenzialmente esplosivi. Alienazione e 105

solitudine trovano una ragione di esistere solo in quegli spazi virtuali. Ma allora ci sono altri come me? E per una volta si innesca un senso di appartenenza, di accettazione del proprio senso di inadeguatezza. «Una tempesta perfetta non solo di odio verso se stesso, ma di rabbia e desiderio di infliggere danno agli altri, dove le vittime possono sperimentare in prima persona il dolore e la sofferenza che gli incel sentono di aver dovuto sopportare per un vita».

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CAPITOLO TRE

Oltre il gioco. È la Vigilia di Natale e tre vecchi amici, Ugo Bondi, Gabriele (Lele) Bagnoli e Stefano Bertoni, si incontrano la sera per giocare una partita a poker. Invitano al gioco, sotto consiglio di Ugo, anche un misterioso imprenditore abbiente, l’avvocato Giulio Santelia, di cui si conosce poco della vita privata tranne il fatto che ama giocare a poker ed è famoso per le sue ingenti perdite. Lo scopo della partita è quello di cercare di estirpare più soldi possibili all’avvocato Regalo di Natale, regia di Pupi Avati, 1986

È così che inizia uno dei film più belli del cinema italiano sul gioco del poker, a mio avviso. Un gioco, o meglio un’attività mentale, come amano definirla i giocatori, che per essere davvero compresa necessità di numerose qualità. La matematica, con la padronanza di probabilità e statistica, la neurolinguistica, per comprendere teorie, metodi, strumenti e tecniche di chi è seduto di fronte a noi. Ma anche di buone conoscenze di economia per la gestione del piatto e dei rilanci. E ovviamente un’ottima dose di capacità decisionale. Per questi motivi il gioco del poker è così amato. Perché permette di imporsi attraverso l’intelligenza, permette in taluni casi di arrivare al 107

successo, offre sempre nuove sfide. Se viene scelto come attività professionale, non bisogna sottostare a nessun capo ed è assolutamente meritocratico. Per taluni integralisti del tavolo verde viene addirittura visto come un’ancora di salvezza per molti giovani disoccupati. La capacità diviene bravura e infine denaro. Ma anche scommettere sul nostro campione sportivo, sfidare la sorta alla roulette, immergersi nell’atmosfera ovatta dei casinò dovrebbe essere un puro divertimento, un momento di evasione, per staccare dalla routine e trascorrere qualche attimo elettrizzante. Il brivido del gioco, così lo chiamano. A me non ha mai fatto impazzire e le mie uniche due esperienze sono state banali e deludenti. La prima a Nova Gorica negli anni ’90 e la seconda in viaggio di nozze a Las Vegas. In entrambi i casi mi sono giocato il canonico cinquantello. Durata della prestazione: meno di 30 minuti. A un certo punto, lo so, sembrerà strano, non vedevo l’ora che finissero quelle poche fiches. Mai capito perché… Forse è proprio per capire meglio, che ho voluto inserire un capitolo sul gioco d’azzardo nella speranza di comprendere in maniera più scientifica le motivazioni del mio disinnamoramento verso la dea bendata. Per prima cosa ho cercato il meccanismo psicologico legato al concetto di scommessa. Mi è venuto in aiuto un articolo scritto dalla Dottoressa Pamela Franchi, Psicologa di Humanitas Mater Domini. «Il brivido della scommessa e l’idea di tentare la fortuna non sono assolutamente patologiche di per sé. Il problema nasce quando il gioco non è più un elemento ricreativo ma diventa l’unica attività possibile: è un’ossessione, il solo pensiero costante […]. Possiamo fare alcune distinzioni in base al giocatore ed al ruolo attribuito alla fortuna ed alla competenza personale. Per esempio, chi scommette ai cavalli 108

considera di avere caratteristiche di abilità e competenza. La fortuna non è implicata nella vincita. All’estremo opposto, i superstiziosi (giocatori del lotto, lotterie e gratta e vinci) sono guidati solamente dalla fortuna. I giocatori del vecchio totocalcio, infine, considerano la vincita un mix tra abilità personale e fortuna1». Ora il concetto è leggermente più chiaro e da quello che leggo mi pare di capire che dentro di me non esisterebbe una forte dimensione masochistica. In pratica, probabilmente forte dei miei geni genovesi, qualcosa dentro di me cercherebbe di frenare la mia voglia di perdere palanche. Perché in realtà è questo che fa il giocatore. Sfida la sua paura di perdere. Wow. Ecco spiegata, dopo poche righe, quella voglia malsana di finire le mie fiches! La cosa inizia a farsi interessante. Voglio approfondire ancora di più. Sempre secondo l’articolo della Dottoressa Franchi lo scommettitore attenderebbe in maniera intensa la conclusione della puntata per scoprire il risultato della sua scommessa. Il godimento nascerebbe proprio in questa parte. L’attesa e la tensione, catalizzate, rilascerebbero un piacere sottile misto a sofferenza che caratterizzerebbero in maniera significativa la voglia di continuare nel gioco. Una sorta di autoasfissia erotica, se mi concederete l’ardita metafora. Tutta colpa del giocatore quindi. Sì. Ma con alcune attenuanti. Come abbiamo intuito nelle righe precedenti la giocata saltuaria è uno degli hobby più amati degli italiani, e lo dicono i numeri. Nel 2013 gli scommettitori online erano circa 400mila ogni mese, con puntate di almeno un euro2. Oltre 200.000 itaFranchi, P., “Ludopatia: quando il gioco è una dipendenza”, humanitasalute.it, 14 luglio 2017. 2 https://www.ilgiornale.it/news/sport/scommesse-online-passatempoitaliani-400mila-giocano-ogni-974809.html 1

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liani hanno speso al massimo 25 euro con vincite attestate intorno ai 100 euro. E oggi? Il trend del settore in Italia ha rilevato crescite esponenziali. Numeri davvero significativi. I dati del 2018 parlano di una spesa complessiva pari a 643,2 milioni di euro e sono incentivati dal boom dei casinò su smartphone che hanno pompato ancora di più le scommesse on line3. È infatti questa la nuova frontiera su cui stanno puntando gli operatori. Giocare ovunque. Incentivare i giocatori, con bonus scommesse. Ma anche un servizio di copertura live degli eventi su cui scommettere. Il trucco, come nei casinò, è mettere a disposizione dello scommettitore il brivido. Che deve essere fruibile e a portata di mano. Telefono, pc o tablet, in qualunque luogo si può e si deve scommettere. Una cosa che mi ha sempre affascinato è la modalità con cui il giocatore viene trattenuto all’interno del casinò, vicino al tavolo da gioco. In America avevo scambiato un’interessante conversazione con un addetto alla sicurezza di un casinò molto famoso, forse il più famoso, di Las Vegas che mi aveva svelato alcuni trucchetti che condividerò con voi al fine di evitare che – alla prossima visita – perdiate il controllo di ciò che accade intorno a voi. Dietro ogni singola fiche giocata da uno scommettitore, professionista o meno, esiste uno studio ossessivo e minuzioso per analizzare ogni variabile di tempo e di luogo. Ogni minimo dettaglio viene sezionato per cercare di trarre il massimo potenziale. Ovviamente quest’analisi, trasposta online, non può fare a meno di tralasciare una ficcante pubblicità tramite social, con l’obiettivo di attrarre il maggior numero di giocatori. Tornando per un attimo ai “normali casinò”, per prima cosa, dobbiamo ricordare che si tratta di società orientate verso un https://www.agimeg.it/pp2/scommesse-sportive-online-nel-2018-spesaa-643-milioni-di-euro-leader-di-mercato-bet365-sks365-e-snaitech

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unico fine. Il profitto. Non esistono locali nati allo scopo di farvi divertire. O per fare beneficenza. Questo significa che ogni attrattiva presente all’interno di una sala gioco punta al vostro portafoglio. E per riuscirci, dopo anni di studi, utilizzano metodi scientifici destinati al medio e lungo periodo per incassare in maniera continuativa. Unico strappo alla regola è rappresentato dalla singola possibilità che il gambler riesca a vincere in maniera saltuaria e a breve termine. Può e deve succedere. Ma è un’eccezione. E cosa fa guadagnare il banco? La giocata. Anzi, più giocate possibili. Anzi, più giocatori che fanno più giocate. Questo ha due scopi. Il primo incamerare più denaro. Secondo: normalizzare l’anomalia. Sì, perché nell’ambito del gioco d’azzardo la vincita dello scommettitore viene chiamata anomalia e solo la presenza di questo termine dovrebbe essere un incentivo a smettere di giocare. Ovviamente è un mio punto di vista. Sia chiaro. Per farvi giocare il più possibile sanno benissimo cosa fare. Trucchi psicologici, pratici, percorsi obbligati, condizionamento ambientale. Vi sembra poco? Il giocatore non deve essere solo coccolato, deve essere incentivato a scommettere, deve sentirsi a proprio agio. L’ambiente deve essere profumato, trasmettere ottimismo ma non mettervi in imbarazzo. Siete un cliente gradito ma non un estraneo. Sentitevi liberi di lasciarvi andare. Qui è come essere a casa vostra. Che espressione meravigliosa. “Casa nostra”. Esiste posto migliore dove sentirsi al sicuro e protetti? No. Così deve essere. Soprattutto non devono succedere due cose. Il giocatore non deve sentirsi a disagio e spaesato. Mai! Proviamo a leggere tra le righe della mia affermazione. Che significa sentirsi spaesati? Letteralmente significa non avere paese. Lo spaesato è colui che non ha un paese di partenza e quindi è disorientato. 111

Non avendo modo di orientarsi rimane fermo, semplicemente perché non sa dove andare e quale sia la migliore direzione per lui. Quindi dobbiamo dargli una direzione a sua insaputa, un pavimento con una freccia, insegne e scritte sui muri. Ma attenzione! Niente indicazioni sulle uscite. Il giocatore arriva spaesato e deve potersi sentire a proprio agio solo nella zona che noi riteniamo vantaggiosa. Questo deve avvenire senza limitazione perché il giocatore non deve porsi un limite di tempo. L’unico limite deriva dalle fiches e dal fatto che molti giochi sono basati sulla routine, generando una sorta di trance agonistica. Concederemo al giocatore alcuni piccoli strappi alla regola. Ad esempio i bagni, per non innervosirlo troppo. Ovviamente all’interno dei bagni faremo in modo di generare code per fruire dei servizi e posizioneremo slot machine. Perché perdere tempo in coda? Noi vogliamo farti divertire anche lì. Ecco la condizione perfetta. Il giocatore sa andare ma non sa dove. E poi le grandi costanti del genere umano. Sentirsi a casa vuol dire riconoscere il proprio status sociale, il proprio posto nel mondo. Pertanto esisteranno sale faraoniche per chi ama lo sfarzo e sale raccolte per i modesti. Non c’entra nulla la ricchezza. Si tratta di una condizione mentale, per come viene percepita la “propria casa”. Nel corso di quel viaggio a Las Vegas mi è capitato di entrare in quasi tutti i casinò. Sono belli e attirano i turisti. Ognuno ha un suo tema e una sua singolarità. Di uno, in particolare ricordo una saletta molto piccola. Sembrava una chiesetta. Con un paio di tavoli. Spinto dalla curiosità ci siamo avvicinati per guardare il gioco. Al tavolo di un gioco di carte c’era un ometto di circa 60 anni vestito in maniera dimessa. Stava puntando e perdendo fiches di colore nero con una velocità incredibile. In 112

pochi attimi decine di fiches. Fino a quando il giocatore si è voltato impercettibilmente verso di noi, gli unici presenti in quella specie di cappella. Dopo dieci secondi alle nostre spalle è apparso un uomo in divisa con un cane al seguito. Un cane antiesplosivi. Lo ricordo perché aveva una specie di cappottino con scritto “K9 – bomb squad”. Nessuno ha detto nulla. Non è stato necessario. Il dispositivo utilizzato chissà quante volte ha fatto il suo dovere. Noi stavamo infastidendo il giocatore. Dovevamo essere rimossi. Con la coda dell’occhio, nel medesimo istante in cui stavamo lasciando la sala, abbiamo visto che il croupier ha ripreso a dare le carte. Nessuno aveva detto una sola parola. Neanche il cane. Questo significa che all’interno dei casinò posso esistere luoghi oscuri ma non ignoti. Cosa sarebbe una casa senza l’angolino prediletto? Senza la zona oscura che diventa la parte preferita di uno spazio addomesticato? La seconda cosa di cui abbiamo parlato è il disagio, quella sensazione sgradevole spesso associata al sentirsi scomodi e di troppo. Sensazioni che generano imbarazzo perché non ci sentiamo in armonia con il contesto. Può derivare da un luogo, dalla temperatura, dalla compagnia. In pratica non stiamo riuscendo a essere parte della situazione. Ma veniamo dunque ai più famosi trucchi. Gli “ambienti”. Come dicevamo, è casa vostra, magari un filo meglio ma non troppo per non generare imbarazzo e per far abbassare le barriere psicologiche. I colori dell’arredamento saranno caldi, spesso troverete moquette in grado di ovattare i suoni. Tutto sarà ovviamente pulito e profumato (come vi piacerebbe fosse la vostra abitazione). Lo spirito della casa è allegro e festoso. Regna ottimismo, perché “qui abita un vincente”. E quando una festa è divertente non bisogna farla finire, quin113

di niente orologi, niente finestre (che potrebbero farvi capire quanto tempo è trascorso). Non vengono trascurate le posizioni dei servizi igienici e delle casse, posizionate nel punto più vicino all’ingresso e più distante dall’uscita. Il motivo? Dopo il cambio soldi-fiches dovete avere la sala il più vicino possibile. Dopo il cambio delle vincite (fiches-soldi) l’uscita deve essere più lontana possibile per tentare di trattenervi per un’ultima scommessa. Assolutamente da evidenziare la forma planimetrica della sala. Non deve avere un senso logico per trattenervi il più possibile. Per confondervi e generare incertezza esistono diversi abili trucchi. • La posizione dei banchi. Medesimi giochi e banchi sono posizionati in posti diversi, i croupier vengono fatti girare tra le postazioni, vengono indicate in maniera chiara solo le entrate e non le uscite. I percorsi possono essere tracciati in modo da apparire completamenti differenti cambiando punto di vista. La ragione è ovviamente semplice: trattenere i giocatori. • Le “quasi vincite”. Giocatori e casinò puntano allo stesso obbiettivo. Uno ovviamente esclude l’altro e nessuno scende in campo per perdere. Le soluzioni sono quello che in gergo vengono definite “quasi vittorie”, piccoli premi, risultati marginali che diano allo scommettitore la sensazione di essere in gioco, di avercela quasi fatta. Il colpaccio è sfuggito per un pelo e allo scommettitore, oltre ad una piccola soddisfazione personale, rimane la voglia di provarci ancora, di calibrare il tiro. Al contrario, una serie di piccole perdite lo scoraggerebbe spingendolo a lasciare la sala. Tra le quasi vincite dobbiamo considerare anche i regali che molte case da gioco offro114

no ai propri giocatori allo scopo di spingerli a tornare. Ricordo che, nel mio caso, venivano offerte alcune chips ai neo sposi. Poca roba. Un pensiero gentile che in ogni caso ti spingeva ad avvicinarti ai giochi. • L’Alcool. L’alcool abbassa le difese psicologiche del giocatore e ne riduce la concentrazione. E questo fatto vale per tutti gli scommettitori, anche i più abili e incalliti. Questo perché l’alcool tende a far sopravvalutare le situazioni e a far distrarre chi beve. Scatta una sorta di sfida che induce il giocatore a puntare di più e ragionare di meno. Ovviamente nelle sale da gioco l’alcool deve costare poco ed essere prontamente reperibile. È per questo motivo che le ragazze girano in sala con le birre e i cocktail già serviti in attesa di chiunque ne faccia richiesta. In alcuni casinò talvolta vengono addirittura offerti gratuitamente. • Le coccole. Siete i padroni della sala. A prescindere dalla vincita, il casinò ti è comunque grato. E la gratitudine per essere reale deve risultare tangibile. Come? Si va dalle fiches alle cene, dall’auto blu al ai pernottamenti. In omaggio, sia ben chiaro. E più si spende e maggiori sono le coccole. Alcune case arrivano a offrire un servizio di aereo-taxi privato gratuito. Assurdo? No, semplice logica. Più si gioca e più si vince (o almeno così ci piace credere). E più si vince e più si viene riveriti. Questo perché le sale, oltre a essere interessate a trattenere i forti scommettitori, spesso li convincono a custodire le vincite presso i loro caveau. Così facendo tutti vincono. Il giocare che ha vinto e il casinò che non registra un’uscita di contante.

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E nel gioco online? Cosa cambia? Perché piazzare una scommessa saltuariamente è sicuramente uno dei passatempi più amati dagli italiani, soprattutto quando arriva il weekend e gli eventi sportivi più importanti sono pronti a iniziare. Tuttavia, a differenza del gioco classico, per molti rimane poco più di un hobby, un gioco momentaneo che dura giusto il tempo dell’evento stesso, rendendo più adrenalinica la visione della partita o della gara. O forse le cose stanno cambiando anche in quel settore? Come avrete avuto modo di notare molti trucchetti di cui abbiamo parlato riguardavano condizioni ambientali reali e non virtuali, e sotto un certo punto di vista potrebbe essere più difficile interagire con i giocatori virtuali. Potrebbe. Mai verbo fu più azzeccato. Perché lo scommettitore virtuale può giocare in qualunque momento, al lavoro, a casa, al bagno. Il rischio di farsi prendere la mano e giocare troppo è poco percepibile, perché la puntata avviene in un contesto amico. In un luogo percepito dal giocatore come sicuro Se abbiamo associato una carta di credito al cellulare il rischio è quello di non riuscire a determinare a priori una cifra da giocare (e perdere) senza problemi. Il buon senso del denaro contante o delle chips dovrebbe renderci edotti del fatto che, esaurita la moneta, ci si dovrebbe alzare dal tavolo e salutare il croupier. Smettere di giocare. Questo con il gioco virtuale è più difficile da controllare anche perché la leva psicologica del gioco online è ancora più subdola. Al brivido masochistico della possibile perdita bisogna aggiungere la funzione di passatempo. Il messaggio che cercano di inculcarci i grandi siti di scommesse è semplice e dirompente. Giocherete per divertirvi, non per guadagnare. Sulla prima parte avrei alcune riserve mentre sulla seconda… come dargli torto. 116

E visto che siamo in vena di dritte, eccone alcune per giocare online, pescate fresche fresche da uno dei siti di riferimento per le scommesso in rete. Anche in questo caso, per prima cosa ci viene fatto notare che per guadagnare al casinò online non basta essere iscritti a una piattaforma “seria” e disporre di forti somme di denaro. Servono fortuna e dedizione al gioco che più si adatta alla nostra esigenza. Ovviamente per un buon inizio serve quello che viene comunemente definito il “bonus di benvenuto” che quasi ogni casinò online regala ai nuovi iscritti. Si tratta di poca roba, una sorta di aperitivo di benvenuto, un incentivo per puntare alla preda grande, ai soldi fruscianti. A questo punto una serie di considerazioni che, più che trucchi, definirei consigli del buon padre di famiglia. Imperdibile la limitazione delle perdite e la fallacia dello scommettitore, di cui parleremo dopo in maniera più approfondita. Per vincere non bisogna perdere. Il concetto è chiaro. Quindi uno dei migliori metodi per guadagnare è porre un limite alle perdite, evitando di rincorrerle. In pratica se la giornata non sta girando al meglio non conviene caricare il piatto. È arrivato il momento di smettere e tentare, magari, il giorno successivo. Faremo un cenno a quello che tecnicamente viene definita la fallacia del giocatore, elemento importantissimo e da non sottovalutare che, in taluni casi, si può rivelare una vera e propria cartina tornasole per la dipendenza da gioco d’azzardo. La teoria vuole che, nella vita, ogni essere umano prenda consapevolezza dei propri errori evitando di ripeterli. Nel gioco accade, o meglio, dovrebbe accadere, la medesima cosa. Non è affatto salutare per il portafoglio ripetere in maniera randomica le proprie puntate nella sopita speranza di poter vincere, prima o poi. In pratica si tratta di un errore logico che porta 117

a credere che determinati eventi passati possano influenzare il futuro. Questa è una vera e propria leggenda metropolitana, perché ogni evento futuro ha una vita del tutto indipendente. Ok, benissimo. Dopo aver capito i fondamentali dedichiamoci a qualche sfumatura. Rubiamo ancora qualche consiglio sul perfetto gioco online. Le distrazioni. Quando si puntano soldi è importante rimanere presenti e concentrati, quindi ovviamente, niente distrazioni (alcool o droghe) e diamoci le giuste pause. Nei giochi online tale possibilità è fattibile, perché non sfruttarla al meglio? Come abbiamo già detto nel capitolo dedicato all’alcool, la bottiglia o anche semplicemente un evento negativo o una pesante giornata di lavoro sono in grado di incidere negativamente sulla qualità del nostro gioco e delle nostre puntate. Ma che differenza c’è tra l’appassionato e l’assiduo scommettitore? Cosa ha indotto il semplice amatore a diventare un incallito scommettitore? Perché alcune persone non possono fare a meno di giocare? Sono domande che potrebbero sembrare molto distanti l’una dall’altra. In realtà nel corso di questo capitolo proveremo a mettere insieme i tasselli di un puzzle davvero complicato che servono a descrivere una delle più incisive dipendenze patologiche: quelle dai giochi elettronici o d’azzardo. Un famoso proverbio dice: «la maestosità di un albero non si misura solo dalla sua altezza, bensì anche dalla profondità delle sue radici». Per provare a fornire risposte accettabili non possiamo che partire dalle valutazioni delle diverse implicazioni logiche. Le nostre radici. Chi si impegna in una scommessa o scommette abitualmente ama il gioco. Chi non riesce a fare a meno di giocare – e spesso perdere ingenti somme di denaro – potrebbe essere “contagiato” da quella che viene comunemente definita la fallacia dello scommettitore. Si tratta di una 118

convinzione, di una sorta di mantra, chiamatela come volete. Si tratta, in sintesi, dell’errato, e sicuramente oneroso, convincimento che un determinato evento si verifichi in futuro nello stesso modo in cui si è manifestato nel passato. Ma cos’è esattamente la “fallacia del giocatore d’azzardo”? Come accennato è un errore meramente logico. L’imperfetta convinzione del ripetersi di un evento, di una vincita, che in realtà è governato solo dal caso e non dalla bravura o dalla capacità. Chi cade in questo errore pensa di avere intuito le motivazioni di repentini spostamenti di un’azione in borsa, dell’uscita di rosso o nero alla roulette oppure di una sequenza ai video poker. Un articolo del febbraio 2019 pubblicato su «Medicina online» ci permette di comprendere meglio: «Chi cade in questa fallacia si aspetta un repentino spostamento verso la media di un dato che in realtà non necessariamente si sposterà in tale direzione, come avviene ad esempio nel caso tipico del lancio di una moneta oppure quando nel lotto vengono giocati numeri “ritardatari”. La fallacia del giocatore d’azzardo si verifica quando il soggetto ha una di queste convinzioni, che in realtà sono statisticamente errate: un evento casuale ha più probabilità di verificarsi perché non si è verificato per un periodo di tempo, un evento casuale ha meno probabilità di verificarsi perché non si è verificato per un periodo di tempo, un evento casuale ha meno probabilità di verificarsi perché si è verificato di recente. Quelle esposte sono convinzioni errate, comuni nel diffuso ragionare sulle probabilità, che sono state oggetto di studi molto dettagliati. Molte persone perdono soldi nei giochi d’azzardo per via di tali errate convinzioni. In realtà, le possibilità che un qualche evento si verifichi nelle prove successive non sono necessariamente correlate con ciò che si è verificato in passato, specialmente in molti giochi d’azzardo. Tale feno119

meno è noto alla teoria della probabilità come la “proprietà della mancanza di memoria”4». Ma che c’entra questa teoria con la nostra dipendenza? C’entra eccome! Perché chi è affetto da ludopatia incorre in maniera particolarmente ricorrente in questi errori di valutazione. Questa conclusione si evince da uno studio del 2014 condotta dal Dr. Luke Clark che evidenzia come alcune parti del cervello siano connesse alla dipendenza da gioco d’azzardo 5. Una ricerca davvero sconvolgente sotto alcuni punti di vista, che sancisce il fatto alcuni danni cerebrali potrebbero avere un ruolo chiave nella formazione di alcuni errori, cognitivi e di pensiero, compatibili all’insorgenza di dipendenza dal gioco d’azzardo. Durante la scommessa il giocatore è spinto a percepire in maniera errata le reali possibilità di vincita a causa di una serie di errori chiamati “distorsioni cognitive”. Il numero quasi uscito, la scala sbagliata per un pelo (i cosiddetti “quasi mancati”, invece che bloccare il giocatore, sembrano volerlo ulteriormente incoraggiare anche se versa in uno stato di imminente perdita economica). Come abbiamo visto si tratta della fallacia dello scommettitore. Secondo la ricerca inglese «Ci sono sempre più prove che confermano la particolare inclinazione dei giocatori problematici a sviluppare credenze errate. I ricercatori hanno esaminato la base neurologica di queste credenze in pazienti con lesioni a diverse parti del cervello». E proprio a seguito di tale ipotesi si sono dedicati allo studio di alcuni pazienti recanti lesioni cerebrali al fine di comprendere se una https://medicinaonline.co/2019/02/09/fallacia-dello-scommettitore-odel-giocatore-dazzardo/ 5 Clark, L., Studer, B., Bruss, J., Tranel, D., Bechara, A., “Damage to insula abolishes cognitive distortions during simulated gambling”, «Proceeds of National Academy of Sciences of United States of America», 2014. 4

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parte del cervello è concretamente necessaria a svolgere quello specifico compito. «I ricercatori hanno somministrato ai pazienti sollecitazioni a parti specifiche del cervello (la corteccia prefrontale ventromale, l’amigdala o l’insula) durante due diverse attività di gioco d’azzardo: un gioco di slot machine che ha fornito vittorie e “quasi-mancate” (come una ciliegia posizionata sulla linea del jackpot), e un gioco di roulette che coinvolge previsioni rosse o nere per suscitare fallacia del giocatore. I gruppi di controllo hanno visto pazienti con lesioni ad altre parti del cervello e partecipanti sani sottoposti al gioco d’azzardo. Tutti i gruppi, a eccezione dei pazienti con danni da insula, hanno riportato una motivazione maggiore a giocare a seguito di mancati risultati nelle slot machine, e hanno riscontrato la fallacia del giocatore nella roulette. Sulla base di questi risultati, crediamo che l’insula potrebbe essere iperattiva nei giocatori problematici, rendendoli più suscettibili a questi errori di pensiero. I futuri trattamenti per la dipendenza dal gioco d’azzardo potrebbero cercare di ridurre questa iperattività, sia con interventi farmacologici che con tecniche psicologiche come le terapie di mindfulness». Il gioco d’azzardo, in forma patologica, è un’attività diffusa e spesso associata a situazioni debitorie oppure di difficoltà familiare, nonché ad altri problemi di salute mentale come la depressione. Secondo il report rilasciato nel 2017 dall’Istituto Superiore di Sanità dal titolo “Indagine sulle caratteristiche e sull’operatività dei servizi e delle strutture per il trattamento del disturbo da gioco di azzardo”, nell’ultimo decennio, il diffondersi del fenomeno ha raggiunto proporzioni definite, in maniera preoccupante, come «mai visto prima6». Istituto Superiore di Sanità, “Indagine sulle caratteristiche e sull’operatività dei servizi e delle strutture per il trattamento del disturbo da gioco di az-

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Contestualmente al diffondersi di tale “epidemia” sono state implementate numerose prestazioni del S.S.N., normalmente destinate al recupero di diverse soggezioni, rivolte a coloro che soffrono di quello che, comunemente, viene definito come “Disturbo da Gioco di Azzardo” (DGA). Come con tutte le “prime emergenze” i gruppi di lavoro hanno dapprima iniziato a condurre i trattamenti sulla base delle singole esperienze raccolte e contestualmente a istruire un’indagine di censimento delle strutture impegnate nel contrasto di questa dipendenza. Insieme a una parte logistica finalizzata alla lotta di questo disturbo, sono state inoltre riunite le conoscenze (assistenziali e scientifiche) dei micro-insiemi al fine di recuperare dati necessari a identificare disturbo, diagnosi, strumenti d’intervento e stima delle risultanze. Il primo step è stato praticare una raccolta dati da inviare al S.S.N. e alle strutture private con i seguenti risultati: «Dei 612 SerT/SerD cui è stato inviato il link […] e dei 769 centri del Privato sociale […] 184 SerT/SerD e 95 strutture del privato sociale hanno dichiarato di prevedere attività cliniche specifiche per il gioco di azzardo. Tutti i 184 Ser.T/Ser.D che hanno risposto all’indagine hanno dichiarato di aver implementato delle attività più o meno strutturate a contrasto del DGA». In particolare «113 (61,4%) servizi hanno dichiarato di prevedere delle attività dedicate, 58 (31,5%) che prevedono un servizio specifico e 14 (7,6%) che è stato avviato un servizio dedicato attivato secondo specifici LEA regionali. La quasi totalità dei Servizi (92,0%) ha anche dichiarato che il personale è stato appositamente formato per operare nell’ambito del disturbo da gioco d’azzardo. Delle 95 strutture del privato sociali rispondenti, 72 (75,8%) prevedozardo”, 26/04/2017, consultabile qui: http://old.iss.it/binary/ogap/cont/ Indagine_sulle_caratteristiche_e_sull_operativita_768_.pdf

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no delle attività più o meno strutturate a contrasto del disturbo da gioco d’azzardo, mentre 23 (24,2%) hanno dichiarato di non aver intrapreso ancora alcuna azione specifica a causa della mancanza di fondi, di spazi o di personale, e più della metà di queste stava studiando la fattibilità di future azioni». In merito alla formazione di diagnosi di dipendenza da G.D.A. la valutazione, in massima parte, è stata esperita tramite strumenti specialistici e prevede, in aggiunta, una previsione socio-patologica dei pazienti. Nello specifico il report riferisce che «gli indicatori più frequentemente usati per la valutazione sociale dai SerT/SerD sono: le relazioni familiari (92%); la situazione occupazionale e dello stato patrimoniale (74%); la presenza di debiti (70%) con organizzazioni autorizzate come banche o finanziarie; la presenza di reati successivi all’inizio del gioco d’azzardo (61%), come l’appropriazione indebita e l’emissione di assegni a vuoto. Anche per strutture afferenti al privato sociale l’indicatore più rilevante per la valutazione sociale è dato dalle relazioni familiari (73%); altri indicatori utilizzati frequentemente sono la presenza di debiti (64%) con banche o finanziarie, la presenza di reati successivi all’inizio del gioco d’azzardo (61%), la situazione occupazionale e dello stato patrimoniale (56%) e la presenza di debiti con organizzazioni non autorizzate (52%). La valutazione medica degli utenti dei SerT/SerD è effettuata prevalentemente tenendo conto della presenza di comorbilità, come altre dipendenze o disturbi psichiatrici (86%). La valutazione deriva da un’anamnesi completa del paziente nell’83% dei casi, e in oltre la metà (56%) anche mediante colloquio con i familiari e le persone significative per il paziente. All’indagine i SerT/SerD hanno dichiarato che in presenza di comorbilità psichiatrica nel 61% dei casi la scelta della terapia farmacologica viene stabilita in 123

collaborazione con il Centro di Salute Mentale di competenza territoriale. La valutazione medica degli utenti delle strutture del privato sociale viene condotta prevalentemente mediante un’anamnesi completa del paziente (25%), e/o un colloquio con i familiari o persone significative per il paziente (25%) e indagine su eventuali comorbilità in un terzo dei casi (30%). Solo dodici (12,6%) delle 95 strutture hanno dichiarato di non effettuare alcuna valutazione medica». Dopo aver dato un’occhiata alle premesse è doveroso dedicarsi agli interventi che, più frequentemente, vengono attuati presso i Ser.T/SerD che vanno dal counselling individuale alla psicoterapia individuale: «Oltre la metà dei servizi attua terapie familiari (55%) e quasi la metà terapie di coppia (49%). Gli interventi più frequentemente attuati nelle strutture del privato sociale sono più numerosi. La psicoterapia individuale in circa tre quarti dei centri (74%), l’intervento riabilitativo/educativo in circa due terzi (63%), il gruppo psico-educativo e il counselling in circa il 60%. Il 13% dei Ser.T/Ser.D offre una consulenza legale all’interno del servizio mentre il 23% ha collegamenti con consulenti esterni. Nelle strutture afferenti al privato sociale, il 16% prevede una consulenza legale nella struttura e circa il 40% ha collegamenti con consulenti esterni». Un’occhiata va anche rivolta alle motivazioni che spingono i giocatori a rivolgersi alle strutture specialistiche. In massima parte l’accesso ai Ser.T/Ser.D derivano da «pressioni dei familiari (99% servizi e 93% delle strutture), i debiti (83% dei servizi e 81% delle strutture) e il malessere percepito (63% dei servizi e 71% delle strutture)». Ma di quante persone stiamo parlando? Si tratta davvero di un fenomeno preoccupante oppure di una nicchia di dipendenza? Ancora una volta lasciamo parlare il report che tratteggia un’immagine per nulla rassicurante. Si124

tuazioni complesse che, nei soli «184 centri SerT/Ser”, tra il ’14 ed il ’15, hanno visto transitare 17.688 utenti […]. Durante il 2014 il numero totale dei pazienti in trattamento era 6.297, mentre i nuovi casi per lo stesso anno erano stati 2.924. Durante i primi otto mesi del 2015 il numero totale dei presi in carico era 5.508, mentre quello dei nuovi casi era 1.936». E sull’età dei gambler abbiamo qualche riferimento? Certo che sì: «La distribuzione per fascia di età dell’utenza dei 184 servizi del S.S.N., per l’anno solare 2014, mostra come la maggior parte degli utenti si concentri nella fascia di età 41-50 anni, e poi in quella 31-40 anni. In queste due fasce di età si osserva oltre il 50,0% di tutti gli utenti, con un rapporto maschi femmine intorno al 4:1. Il rapporto maschi/femmine delle fasce centrali tende a diminuire progressivamente nell’utenza delle età più elevate e passa a 3:1 nella fascia 51-60 per passare a meno di 2:1 (1,8:1) nella fascia 61-70».

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Le interviste

Questo capitolo è dedicato alle interviste e ai contributi rilasciati da alcuni graditi ospiti e nasce con l’obiettivo di analizzare le tematiche attraverso i punti di vista professionali degli intervistati, attraverso una serie di domande predefinite e semi strutturate. Partendo da un’intervista strutturata è stato chiesto a ogni intervistato, tralasciando titoli e formalità, di presentare la propria figura per tentare di comprendere le dinamiche delle nuove dipendenze attraverso la propria esperienza professionale, ma anche il vissuto e le riflessioni degli intervistati. I risultati? Frizzanti! Come potrete leggere voi stessi, alcuni ospiti sono stati “ligi al dovere” rispondendo alle domande, mentre altri hanno presentato una serie di memorie davvero imperdibili. Buona lettura!

Nota metodologica Come accennato, si è proceduto sottoponendo agli intervistati una serie di domande predefinite che qui riportiamo. Tuttavia, per dare risalto a ogni figura professionale e per entrare nel me127

rito delle relative competenze, si è scelto di effettuare alcune variazioni a seconda del soggetto intervistato. All’interno del testo sono indicati i numeri relativi alle domande poste. I contributi di Giorgio Schiappacasse e Valentina Usala, riportati in fondo al capitolo, non seguono lo schema semi strutturato e vengono pubblicati integralmente. 1) Come descriverebbe il concetto di dipendenza e perché sviluppiamo sempre più spesso la necessità di dipendere da sostanze e abitudini che potrebbero imprigionarci? 1 bis) Da dove nasce l’esigenza di una dipendenza affettiva o sessuale come nel caso della masturbazione compulsiva o del cyber-sex addiction? Qual è il suo punto di vista su questo fenomeno? 2) Chi sono i nuovi soggetti dipendenti? Esistono fasce di età o ambienti sociali e lavorativi maggiormente colpiti dal fenomeno? 2 bis) Si sente parlare spesso di new addictions, ovvero le nuove dipendenze, anche comportamentali, che non prevedono necessariamente l’uso di sostanza stupefacenti. Esistono davvero dipendenze così estreme? E quando la ricerca compulsiva di stimoli gratificanti diventa una patologia con conseguenze negative? 3) I nuovi passaggi sociali hanno sancito il tempo libero come punto di riferimento fondamentale nella vita individuale e creativa dei singoli, creando un settore economico potenzialmente produttore di ricchezza. Secondo la sua esperienza ciò ha decretato lo sviluppo di nuove dipendenze? 4) La crisi economica che ha colpito così duramente la nostra economia si è riverberata, in qualche modo, sul mercato delle dipendenze. Secondo lei la figura del “dipendente” implica marginalità e stigma oppure è un fenomeno elitario? 128

5) Internet permette un accesso diretto tra quanti gravitano in rete. Relativamente al suo ambito di competenza potrebbe indicare alcuni esempi di dipendenze derivanti o incentivate dalla rete? 6) Conclusioni. In questa ultima sezione si chiede all’intervistato una libera riflessione, un punto di vista personale, necessario a comprendere in modo approfondito le caratteristiche sociologiche dei nuovi dipendenti.

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Vanessa Fieschi Vanessa Fieschi, oltre a essere un capace programmatore informatico, è anche curiosa conoscitrice di tecnologia delle informazioni e della comunicazione, che oggi viene definita ICT (Information and Communications Technology). Ho fortemente desiderato un suo contributo per avere un punto di vista tecnico sui pilastri dalla cosiddetta Terza rivoluzione industriale. Perché non si tratta più solamente di progettare siti web, app mobile, piattaforme cloud e social, oppure motori di ricerca, mappe e servizi online, ma soprattutto di immaginare il futuro tecnologico del nostro pianeta, ispirando lo sviluppo di nuovi ambiti pubblici e privati generando di fatto un nuovo sviluppo sociale ed economico dei popoli.

Somministrazione dei quesiti 1) La dipendenza, almeno inizialmente, risponde a un bisogno dell’individuo che nel tempo non riesce più a controllare, per tutti i meccanismi fisici e mentali che si innescano. Probabilmente, le persone che diventano dipendenti non riescono a trovare nelle relazioni sociali, piuttosto che nel lavoro o nei loro hobby, qualcosa che li gratifichi completamente. Negli ultimi anni gli standard sociali sono aumentati notevolmente, richiedono successo, visibilità, elevate prestazioni in tutto: se non ci si sente all’altezza, se si vuole rincorrere la società, o se si vuole fuggire da essa, è facile incorrere nell’uso di sostanze o abitudini da cui poi non si riesce più a liberarsi. 2) Le nuove dipendenze coprono molti “settori”, perciò riescono a soggiogare diverse fasce d’età e ambienti. Inoltre con la 130

tecnologia, non esistendo spazi fisici e non avendo limiti, chiunque può farsi coinvolgere. Si sente parlare spesso di new addictions, ovvero tutte quelle nuove dipendenze, anche comportamentali, che non prevedono necessariamente l’uso di sostanze stupefacenti. Ne vediamo esempi quotidianamente. Per citarne alcune: la ludopatia, la dipendenza affettiva che può diventare stalking, la meno nominata la dipendenza dal lavoro. La dipendenza nasce da un’esigenza dell’individuo e si sviluppa attorno a essa, perciò può assumere connotazioni e destinazioni diverse. Diventa patologia nel momento che arriva a dominare la vita dell’individuo, condizionandolo, influenzando ogni decisione, provocando alterazione dell’umore e veri e propri sintomi d’astinenza. 3) Avere tempo libero senza sapere come impiegarlo è deleterio, se si sa invece come sfruttarlo, non può che migliorare la qualità della vita delle persone. È importante anche variare le attività, per non incorrere nella noia, e quindi in uno stato di insoddisfazione che può avere conseguenze negative. Non saprei dire se il tempo libero abbia decretato lo sviluppo di nuove dipendenze, sicuramente ha fatto vendere più gigabyte alle compagnie telefoniche, i cui clienti nei molteplici “tempi morti” si dilettano nello scrolling delle bacheche o nello streaming. 4) Le dipendenze dipendono da molti fattori, non solo da quello economico. Il dipendente può essere una persona perfettamente integrata nella società, con un buon lavoro e status. La sua dipendenza può rimanere celata per anni. Tra l’altro, nelle new addiction, molto spesso l’oggetto della dipendenza è un qualcosa di lecito o socialmente accettato (lavorare, fare acquisti, navigare su internet, giocare), che 131

non implica alcun tipo di marginalità, come invece può essere l’uso di sostanze. 5) La rete incentiva praticamente tutti i tipi di dipendenza: consente di avere accesso e procurarsi il proprio feticcio sette giorni su sette, 24 ore su 24, nel totale anonimato. Senza contare quando la dipendenza è proprio da internet o da social network. 6) I social network hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione e delle relazioni, ma il problema, anche nel digitale, rimane sempre uno: cosa dire, e soprattutto come farlo. A livello comunicativo mi “affascina” il pollicione, a cui è stata dedicata anche una scultura: la Really Good di David Shrigley che, con i suoi 7 metri di altezza, obbliga al selfie in Trafalgar Square. Un unico simbolo-e-click che si intromette in ogni dialogo virtuale con mille significati. Esteticamente osceno, ma indispensabile. Solo su questo punto si potrebbero scrivere pagine e pagine, se poi cominciamo con teorie e studi sugli “analfabeti funzionali”, diari che da intimi e privati diventano pubblici, fake news eccetera, ci perdiamo. C’è gente di più di 50 anni che mi chiama per chiedermi come mai non ho messo il Like alla sua foto, che deve averne almeno 100 o non va a dormire, e sta lì a controllare ogni tre secondi. E se non lo metti ti richiama. Sento poi una ragazza (over 35, non adolescente) che dà della nullità all’altra perché lei, con una sola foto, ha preso molti più like su Instagram.

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Daria Ubaldeschi Daria Ubaldeschi è psicologa psicoterapeuta presso la ASL Alessandria e il suo contributo è forte di un’esperienza di 15 anni nel settore delle dipendenze patologiche, sia sul versante della prevenzione dei comportamenti di uso/abuso/dipendenza da sostanze psicoattive e alcool, sia nell’ambito della presa in carico psicologica e psicoterapeutica di persone con problematiche di dipendenza dei Ser.D. del dipartimento di patologia delle dipendenze dell’ASL Alessandria.

Somministrazione dei quesiti 1) La dipendenza, di per sé, è uno stato connaturato all’esistenza umana, un fenomeno relazionale naturale: l’essere umano, infatti, nasce già in una condizione di dipendenza che gli è addirittura vitale, essendo il legame del bambino con la madre conditio sine qua non per la sopravvivenza stessa. Tanto che potremmo definire quest’ultima una dipendenza “buona”, molto differente (pur avendo alla base gli stessi meccanismi psico-fisiologici) da quella “patologica”, che si configura, invece, come una forma morbosa determinata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento, caratterizzata da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere ripetuta con modalità compulsive. Si tratta, in questo caso, di un campo molto variegato ed eterogeneo che include, al suo interno, fenomeni nuovi, propri della nostra epoca storica, quali la internet addiction, la dipendenza affettiva, lo shopping compulsivo e la nomofobia, solo per citarne alcuni.

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Questa distinzione credo possa ben evidenziare la complessità del concetto di dipendenza per la molteplicità delle sue forme e dei differenti livelli di gravità all’interno di esse e la necessità, di conseguenza, di assumere un punto di vista multidimensionale che tenga contemporaneamente conto sia degli aspetti neurobiologici, sia dei fattori comportamentali, sociali, psicologici e culturali coinvolti. Rispetto al motivo per cui tenderemmo sempre di più a sviluppare comportamenti di dipendenza, lo rintraccerei in tre caratteristiche tipiche di questo fenomeno. Per prima cosa, si tratta di uno stato illusoriamente rassicurante, confortante e confortevole, quindi ricercato; una sorta di oggetto transizionale tardivo e tossico, che ha lo scopo di sostituire la dipendenza totalizzate del bambino dalla madre, ma in modo disfunzionale. Inoltre è annullante, toglie il pensiero e le responsabilità in quanto si diventa schiavi (addicted) di qualcosa o qualcuno che in questo modo diviene contenitore della proiezione delle nostre parti più negative e rifiutate. Infine, crea un piacere che, per quanto tossico, soprattutto all’inizio, viene percepito come curativo rispetto a dolori interiori, mentali, al punto che la richiesta rivolta dalla persona al curante di potersi disassuefare diviene paradossale: io ti chiedo di fare a meno di qualcosa che ti reca (illusoriamente) piacere, che è poi uno dei grandi ostacoli nella terapia delle dipendenze, soprattutto da sostanze e alcool 2) Non credo esistano nuovi soggetti dipendenti, quanto piuttosto nuove forme di dipendenza che si aggiungono a quelle più tradizionali (sostanze e alcool) e che quindi tendono a coinvolgere persone normalmente non attratte dalle forme conosciute. Credo che, proprio grazie a queste nuove forme, meno stigmatizzate ed emarginanti, meno legate al 134

classico mondo dello spaccio e dell’illegalità proprio di alcune sostanze psicoattive, i comportamenti e gli atteggiamenti proprio del fenomeno dipendenza siano divenuti un’esperienza più alla portata di tutti. Resta tuttavia la fascia di età adolescenziale quella classicamente più a rischio per l’attuarsi di eventi di uso e abuso di sostanze e alcol e di comportamenti di dipendenza quali il gioco d’azzardo, la dipendenza da cibo piuttosto che da internet. Il desiderio di trasgredire, la tendenza all’agito, il bisogno di sperimentazione, infatti, sono alcune delle caratteristiche che sostengono questi comportamenti a rischio, ma che non necessariamente divengono delle forme di dipendenza, pur mettendo, di contro, l’adulto nella condizione di fare i conti con la propria impotenza di fronte ad azioni che risultano spesso opache, oscure nelle motivazioni e nelle intenzioni, difficili da spiegare e motivare. 2 bis) Con il termine “addiction” si intende definire una condizione generale in cui la dipendenza psicologica è data dalla ricerca dell’oggetto/comportamento, senza il quale l’esistenza viene percepita come priva di significato: dipendenza dal gioco d’azzardo, da internet, dallo smartphone, dallo shopping, dal lavoro, dal sesso, dal cibo e dalle relazioni affettive. E si tratta di dipendenze che diventano estreme proprio perché, per l’assenza dell’agente tossico (che sia eroina, cannabis, cocaina, alcol) non sono avvertite come pericolose, anzi, meno tangibili e perciò sottostimate nel loro potenziale patogenetico. Il passaggio dalla compulsione, ossia dal non potersi trattenere dal comportamento, a una condizione patologica, credo avvenga quando dalla sensazione illusoria di poter stare meglio dedicandosi a quel comportamento (che sia giocare alle slot piuttosto 135

che essere costantemente online sul cellulare), si passa alla condizione, sperimentata sia fisicamente che psichicamente, di non poter più stare senza, di non poterne più fare a meno. Tutte le new addictions possono diventare dei comportamenti dannosi per la persona e questa potenzialità è tanto più elevata quanto sottostimata e trascurata nella sua pericolosità, trattandosi di comportamenti che, a differenza dell’uso di sostanze illegali, fanno parte del quotidiano e per la maggior parte di noi non costituiscono un problema, ma un accadimento rientrante nella norma: un bicchiere di vino a pasto, qualche messaggio sul cellulare, una sigaretta dopo il caffè, un’esperienza al casinò. 3) Letteralmente, il tempo libero è quella parte del nostro tempo dedicato allo svago, a ciò che non è attività obbligatoria. Per questo porta con sé un’implicazione legata al piacere: nel tempo libero ci si dedica a ciò che ci piace, ci fa stare bene. Non ha regole definite, è uno spazio vitale vuoto che noi scegliamo come riempire, con un hobby, uno sport, il riposo, attività ludiche e ricreative, comunque distraenti dagli obblighi professionali e familiari quotidiani. Viene allora da sé che questo sia un tempo che diventa occasione anche per dedicarsi alle new addictions, che così vengono vissute al fine di rilassarsi, distrarsi, provare quel piacere che è un obiettivo dell’avere tempo libero. Non credo, quindi, che quest’ultimo abbia decretato lo sviluppo di new addictions, quanto piuttosto che esso costituisca il momento più propizio per esercitarle. Un po’ come dire che l’occasione fa l’uomo ladro. 4) La persona dipendente è prigioniera, schiava (significato ben espresso dal termine “addiction”) di un comportamento/oggetto/persona che di fatto ha preso il controllo su di sé, senza il quale la persona stessa ritiene di non 136

poter sussistere. Chiunque può diventare dipendente in qualsiasi momento nella propria vita e sappiamo, molti studi sociologici ce lo insegnano, quanto un periodo di crisi economica come quello attuale favorisca l’attivarsi di condizioni di dipendenza. La crisi economica, infatti, crea un’insicurezza e un’incertezza personale e sociale che potenzia la fragilità delle persone e di conseguenza i loro comportamenti irrazionali, irresponsabili e autodistruttivi, tra i quali prima di tutto i comportamenti di dipendenza. Quindi non penso, purtroppo, che oggi sia un fenomeno di marginalità né di élite, ma sia ormai trasversale a tutte le categorie sociali e agli ambienti umani, estendendosi senza soluzione di continuità dal più marginale al più nobile. E in entrambi i casi ciò che porta con sé come possibile conseguenza è il fenomeno di emarginazione sociale che rischia facilmente di andare a potenziare il comportamento di dipendenza stesso. 5) L’esempio più eclatante di dipendenza derivante dall’uso del web ritengo sia, per la mia esperienza, quello legato ai social network, ossia a tutti i gruppi di individui che sono tra loro connessi, in questo caso tramite una rete virtuale, dove di fatto ognuno può essere chiunque desideri essere. Un’occasione davvero affasciante quella di poter creare un profilo falso con il quale interagire con chiunque, recitando un ruolo che soddisfi ogni nostro desiderio. Un’occasione che facilmente avvince la persona che a un certo punto si trova a sentire il bisogno di quei legami virtuali. Che sono poi gli stessi di chi ha sul social un profilo assolutamente genuino, con le proprie foto, amici anche reali, informazioni vere che, anche qui, lentamente ma inesorabilmente, sente di dover continuamente aggiornare. Perché ciò che conta 137

è esserci sempre, e gli altri devono vedere e possibilmente apprezzare con i loro “mi piace”. «Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare» recitava l’androide Roy di Blade Runner: pietanze che si raffreddano in attesa della luce giusta per fotografarle; selfie del buongiorno e della buonanotte fatti da donne in attesa trepidane di un “mi piace”; auguri di buon compleanno a congiunti morti (per scoprire così che la rete ha qualche collegamento diretto con l’aldilà), sfoghi senza grammatica né sintassi che basterebbe la quinta elementare. Siamo dipendenti dalla spettacolarizzazione, dalla condivisione: ciò che non viene pubblicato su Facebook o Instagram, per citare due dei più famosi social network, non esiste, perciò ho bisogno di dedicare il mio tempo (libero) ai post in ricerca di approvazione e condivisione. Questa ritengo sia la più tremenda e sordida dipendenza attuale. 6) Il grande potere della dipendenza, intesa come condizione esistenziale, sta nell’averci fatto credere di essere appannaggio di una parte di popolazione ristretta, che vive ai margini della società e ha caratteristiche socio-relazionali precise e individuabili. Ma questa è la tossicodipendenza di un tempo, quella da eroina e cocaina, ben identificabile e raccontata da molta cinematografia che ha inevitabilmente influenzato il nostro immaginario. Quel tossicodipendente c’è ancora, ovviamente, perché le sostanze sono nate prima dell’uomo e a esso sopravvivono, anche se certo non è togliendo di mezzo le sostanze che si cura una dipendenza. E questo porta alla domanda centrale che io stessa mi sono posta alcuni anni fa: la risposta che mi sono data dopo tanti anni di lavoro in un Servizio per le Dipendenze mi ha portato a voler mettere fine al lavoro stesso. 138

La dipendenza da determinate sostanze quali eroina, cocaina e alcool non si curano come si può curare una malattia. Nonostante sia ormai universalmente riconosciuta la dipendenza come una “malattia cronica recidivante”, ciò non ha fatto altro che portare noi a cronicizzare la stessa. Tali fenomeni credo si possano contenere e accompagnare nel loro evolversi con la persona, effettuando interventi di riduzione del danno, ma non curare nel senso classico del termine. E non si curano semplicemente perché significherebbe chiedere alla persona di cambiare identità, di rinunciare a quella scelta esistenziale, l’unica ad avergli attribuito un senso. Ma questi sono i vecchi tossicodipendenti e fortunatamente, rispetto alla cura, ci sono delle eccezioni, per quanto rare e temporanee. I nuovi soggetti dipendenti ritengo siano più trattabili per le caratteristiche delle nuove forme di dipendenza, più disponibili a riconoscere il problema e a cercare soluzioni terapeutiche, ma la cattiva notizia è che sono molto più numerosi dei vecchi tossicodipendenti, meno identificabili, non stigmatizzati né emarginati e più compiaciuti e compiacenti rispetto alla loro dipendenza. Potrei dire che sono molto più addicted, più schiavi, più vincolati perché dipendenti dalle regole non scritte dell’attuale società “liquida”, come efficacemente la definisce il sociologo Bauman, prodotto finale del processo di crisi delle istituzioni (Stato e Chiesa) e caratterizzata da un individualismo sfrenato, dalla competizione per accaparrarsi le risorse vitali presentate come sempre più scarse (e lo sono realmente). La perdita delle certezze e dei punti di riferimento, l’apparire (e non l’essere) come valore e il consumismo fine a se stesso, in un passaggio surfing da un oggetto/persona/comportamento 139

all’altro in una sorta di orgia del desiderio e della soddisfazione obbligatoria rendono la società in cui viviamo ad alto potenziale bordergenico. Una società che favorisce lo sviluppo di situazioni di uso e abuso attraverso la creazione di un bisogno: di avere danaro per reggere alla crisi economica (gioco d’azzardo); di possedere beni che danno uno status (shopping compulsivo); di apparire, di essere visti (social network); di riempire i vuoti interni e di avere l’illusione del controllo sul corpo (cibo); di essere sempre raggiungibile e connesso (cellulare), di appartenere (dipendenze relazionali), affidando quindi all’altro, che sia oggetto, persona o comportamento, il compito di darci un’identità sempre più liquefatta, indefinita, che cerca di essere come crede gli altri, senza saperli definire, vogliono che sia.

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Giulia Calamai Giulia Calamai è una psicologa e psicoterapeuta presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva di Firenze (IPSICO). Lavora con il dott. Gabriele Melli nel Centro d’Eccellenza per il trattamento dei disturbi da dipendenza patologica (CEDIP), afferente all’Istituto di Psicologia Cognitivo e Comportamentale IPSICO di Firenze. La dottoressa Calamai si occupa primariamente di Dipendenza da sostanze e Dipendenze comportamentali, Disturbi dell’Umore, Disturbi della Personalità e Disturbi Psicotici e ha maturato la sua esperienza nel settore lavorando presso l’Associazione Centro di Solidarietà di Pistoia (Ce.i.s.), specializzata nella prevenzione e nel trattamento delle tossico/alcool dipendenze e della dipendenza da gioco d’azzardo. Attualmente svolge attività clinica di supervisione delle équipe per Comunità Terapeutiche impegnate nel recupero della tossico/alcool dipendenza.

Somministrazione dei quesiti: 1) Nel descrivere ai miei pazienti, o ai loro familiari, la dipendenza patologica e le sue implicazioni mi riferisco alle indicazioni derivanti dalle scienze neurologiche: esse dimostrano l’esistenza di una teoria unitaria della dipendenza, per cui le addiction comportamentali e quelle da sostanze possono essere considerate espressioni diverse di uno stesso fenomeno psicopatologico. La maggior parte delle sostanze d’abuso agisce su sistemi neuronali la cui stimolazione produce piacere: essi si sono evoluti per codificare i comportamenti utili alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. Il potente meccanismo d’azione delle sostanze (ma 141

anche dei comportamenti che si prestano allo sviluppo di una dipendenza comportamentale, come il gioco d’azzardo e lo shopping) risiede nella proprietà di rinforzo che hanno: la loro fruizione genera piacere e senso di ricompensa direttamente e intensamente. Mi capita spesso, nella riflessione con i pazienti, di sentirmi chiedere: «cosa rende un comportamento, anche eccessivo, una vera dipendenza patologica?». Per rispondere mi piace riferirmi alla constatazione fatta da Rosemberg e Feder, per i quali «la differenza tra un sano entusiasmo, sebbene eccessivo, e la dipendenza patologica, è che i sani entusiasmi arricchiscono la vita, mentre le addiction la impoveriscono». Per quanto riguarda la genesi del disturbo l’impulsività rappresenta solitamente un fattore determinante nella fase iniziale, in cui la persona comincia a interfacciarsi con l’oggetto della dipendenza: in questa fase il ricorso alla sostanza/comportamento assolve in genere una precisa funzione psicologica (come ad esempio la regolazione di sentimenti spiacevoli o la promozione di emozioni positive). In altre parole è come se la persona scoprisse, nel consumo della sostanza o nel comportamento che poi diverrà oggetto della dipendenza, un modo molto rapido e molto efficace di conseguire uno specifico obiettivo interpersonale o intrapsichico, altrimenti difficile da conseguire o realizzabile tramite un certo impegno. In seguito, il meccanismo di compensazione dato dalla sostanza/comportamento si evolve invece in un’abitudine compulsiva. Quando la dipendenza si instaura, il comportamento di assunzione diviene coatto: la persona inizia a sentire di non avere più pieno controllo sul proprio comportamento nonostante le conseguenze negative che comincia a osservare (o gli altri cominciano a notare) sulla sua vita. 142

In termini neurobiologici, il passaggio da un uso volontario a uno compulsivo è spiegabile tramite un cambiamento nel controllo delle risposte che passa dalla corteccia prefrontale a quella striatale. Per questo motivo non direi che sviluppiamo “la necessità di dipendere” (né da sostanze né da comportamenti): inizialmente il nostro obiettivo, tramite l’uso di quella sostanza o l’esercizio di quel comportamento, è un altro (ad esempio passare del tempo piacevole o alleviare un dolore); poi, a dipendenza instaurata, il meccanismo di fruizione diviene compulsivo e, il più delle volte, anche spiacevole per chi dipende (oppure piacevole, ma soltanto per brevissimi attimi). 2) La dipendenza patologica è un disturbo in forte espansione. Essa tende sempre più a presentarsi sottoforma di “poli-abuso”, con dipendenza da molteplici sostanze, oppure ad associarsi a forme comportamentali di dipendenza come il gioco d’azzardo, il gioco online patologico, la dipendenza da cibo eccetera. Il fenomeno del poli-abuso è in continua crescita e rappresenta una delle più importanti emergenze sociali e sanitarie del mondo. In aggiunta a ciò, sempre più frequenti sono i quadri clinici in cui si rileva una concomitanza tra dipendenza patologica e altri disturbi psichiatrici (tipicamente disturbi del tono dell’umore, disturbo psicotico, disturbo post-traumatico da stress, disturbi di personalità), in cui il disturbo psichiatrico e la dipendenza possono essere l’uno la conseguenza dell’altro oppure svilupparsi assieme. L’esito di questo processo è la presenza di una serie di quadri eterogenei e molto differenti l’uno dall’altro (oltre che difficili da trattare) sebbene tutti caratterizzati dalla presenza, pervasiva o saltuaria, di comportamenti tipici della dipendenza patologica. Per questo motivo è difficile 143

indicare con certezza l’incidenza e la prevalenza del fenomeno, definire una fascia di età prevalentemente colpita o ambienti sociali o lavorativi da esso più interessati. 2 bis) Il concetto di dipendenze patologiche comportamentali è un concetto relativamente nuovo nella psichiatria. È stato infatti nel 2013, con la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) che al gruppo delle diagnosi psichiatriche ufficiali si è aggiunta la denominazione “dipendenze patologiche comportamentali”. All’interno di questa categoria ritroviamo, ad esempio, il “Disturbo da dipendenza patologica da Internet”, diagnosi che condivide caratteristiche comuni al Disturbo da Dipendenza da Sostanze, come ad esempio il ruolo della dipendenza patologica nel modulare il tono dell’umore, i fenomeni di astinenza e tolleranza, la presenza di recidive e la difficoltà a sospendere il comportamento di abuso nonostante la compromissione del funzionamento individuale. Mark Griffith, uno dei più importanti studiosi del fenomeno dipendenza, definisce una “addiction comportamentale” sulla base di sei criteri: preminenza (il comportamento tende ad assumere la maggiore rilevanza nella vita della persona, a discapito di altri pensieri, sentimenti e azioni), influenza sul tono dell’umore (conseguenze emotive del comportamento di dipendenza), tolleranza (intensificarsi del comportamento per indurre effetti di sufficiente intensità), sintomi da astinenza (stati d’animo o conseguenze fisiche spiacevoli, conseguenti dalla messa in atto del comportamento), conflitto (conflitti interpersonali derivanti dalla dipendenza instauratasi o incompatibilità con altri compiti o attività personali) e recidiva (presenza di ricadute plurime nel disturbo dopo fasi di sospensione). Un aspetto 144

peculiare delle addiction comportamentali è che esse coinvolgono pulsioni “normali” (come sesso, cibo, amore, denaro) che divengono però patologiche nella misura in cui raggiungono un certo livello di eccesso e di pericolosità per la persona. Il carattere distintivo delle dipendenze comportamentali resta l’incapacità dell’individuo di sospendere o mitigare il comportamento nonostante le conseguenze negative che osserva nel suo funzionamento. I comportamenti e i processi legati alla dipendenza comportamentale sono volti a dare piacere, rappresentano spesso una via di uscita dalla sofferenza emotiva o fisica e sono caratterizzati dalla incapacità a controllare la messa in atto del comportamento e l’insorgere di importanti conseguenze negative per la vita della persona. 3) Per la mia esperienza vi è un elemento in particolare che ricorsivamente si nota nel trattamento del paziente con dipendenza patologica: la problematicità nella gestione della noia. Non ritengo sia un caso che l’attenzione alle dipendenze comportamentali come disturbi psichiatrici da parte dei più rilevanti enti che si occupano di diagnosi e classificazione diagnostica sia relativamente recente: esse sono espressione tipica e contingente del momento storico-culturale che caratterizza la nostra società. Il frenetico richiamo alla prestanza e alla produttività (con riferimento a standard sempre più elevati e sostenuto da mezzi di comunicazione sempre più veloci e “onnipresenti”) unitamente alla “demonizzazione” del tempo da riservare, di contro, al riposo, alla “sospensione” degli scopi ed al “divagare” della mente, hanno importanti ripercussioni sulla nostra capacità a ricercare, e poi a sostare, in momenti beneficamente “vuoti”. Unitamente a tali constatazioni di ordine genera145

le, sappiamo che le persone vulnerabili per lo sviluppo di dipendenze patologiche sono connotate da caratteristiche temperamentali come la tendenza a ricercare stimoli per evitare la noia (fenomeno denominato sensation seeking). L’individuo sensation seeker è caratterizzato da un notevole bisogno di novità, di cambiamento, di eccitazione e di esperienze comportamentali ed emotive complesse. Se il coefficiente di vulnerabilità per lo sviluppo di una dipendenza non è definibile solo sulla base del proprio patrimonio genetico o temperamentale ma dipende piuttosto dal modo in cui si legano tra loro caratteristiche individuali, ambientali, familiari e sociali, allora ben si comprende come lo specifico tessuto sociale e culturale nel quale ci troviamo immersi, sulla base di una predisposizione temperamentale o genetica, possa facilmente dar luogo a fenomeni psicopatologici come quello della dipendenza, nelle sue varie sfaccettature. 4) Sulla dipendenza da sostanze (ma anche su alcune dipendenze comportamentali come quella da gioco d’azzardo e da sesso) a mio parere grava un forte stigma sociale, come si evince nella relazione con il paziente e con i familiari che lo accompagnano nel percorso. Il pregiudizio sulle tossico/alcool dipendenze (e sulle dipendenze comportamentali) che le vede come un “vizio” e non come una malattia psichica, ha una importante ripercussione sul numero di persone che decidono di chiedere aiuto, di molto inferiore rispetto a coloro che soffrono di altre forme di disturbo psicologico. Ci sono almeno due fattori che alimentano lo stigma sociale in maniera significativa e che divengono un focus imprescindibile del lavoro psicoterapico: il primo è “l’attribuzione di causa” e il secondo è “la controllabilità”. Lo stigma sociale decresce quando si pensa alla persona affetta da dipendenza 146

come “malata” e non “colpevole” ed anche quando si capisce che, a disturbo instaurato, il comportamento di assunzione non è controllabile o “scelto” (almeno non nella misura in cui lo è all’inizio del disturbo). La ricerca ha dimostrato chiaramente l’influenza della genetica nell’instaurarsi di una dipendenza, senza contare gli effetti che l’uso di droghe (ma anche le dipendenze comportamentali) comportano sul sistema nervoso centrale, inficiando la capacità di ricorrere all’uso nonostante le conseguenze negative che ha (e che sono solitamente ben chiare a chi dipende). Anche il linguaggio clinico ha una sua importanza nel perpetrare o ridurre lo stigma sociale, a cominciare dall’uso di un’appropriata terminologia scientifica: i ricercatori mettono in luce che anche i clinici e i professionisti di più lunga esperienza possono avere atteggiamenti pregiudizievoli o stigmatizzanti quando si tratta di dipendenza, cosa che non vale, fortunatamente, per la maggior parte delle altre patologie mentali. 5) L’impulsività è la dimensione cognitiva e di personalità da sempre identificata come fattore predisponente o di rischio per lo sviluppo di tutte le dipendenze a causa dell’impatto che ha sui processi decisionali, sulla motivazione, sulla pianificazione del comportamento e in quanto favorisce l’espressione di azioni “automatiche” a scapito di comportamenti ponderati. L’ipersensibilità verso le ricompense immediate, a scapito di ricompense temporalmente più distanti ma più vantaggiose, sembra uno degli aspetti più caratterizzanti del tratto di personalità impulsivo e quello maggiormente associato al passaggio verso l’uso problematico e compulsivo di sostanze o oggetti. Gli odierni dispositivi digitali (ad esempio gli smartphone) e gli strumenti tramite i quali funzio147

nano (le varie applicazioni) sono progettati per richiamare continuamente la nostra attenzione. Senza accorgercene riceviamo molteplici notifiche e segnali che richiamano la nostra attenzione e attivano il nostro sistema della gratifica (il sistema reward). Acquistare, conoscere, giocare, condividere, dare e ricevere feedback: è tutto lì, a portata di mano, veloce, immediato, intenso. Mentre negli scorsi anni era possibile sviluppare le dipendenze da gioco, da sesso, da internet, solo se fisicamente presenti nei luoghi dedicati, oggi grazie a internet e ai dispositivi digitali, è possibile sviluppare questi tipi di addiction ovunque. È proprio in questo meccanismo che riconosco la traccia della nostra vulnerabilità allo sviluppo di dipendenze patologiche, essendo sempre meno abili a gestire la frustrazione, a dilazionare la ricompensa, a tollerare la noia e ad aspettare. Certamente «vulnerabilità non è sinonimo di predestinazione» per dirla con Somaini, ma è chiaro che in chi già presenta alcuni fattori di rischio (come le caratteristiche genetiche sopra citate o un ambiente di sviluppo predisponente) nascere o crescere in un ambiente allargato caratterizzato da questi temi facilita maggiormente l’innesco della dipendenza. 6) Recenti studi hanno evidenziato come lo sviluppo di attenzione e l’esercizio della presenza non giudicante verso il momento presente (la mindfulness) possano rappresentare uno strumento utile per ridurre il flusso di coscienza disordinato che caratterizza la nostra mente, in maniera più significativa in chi manifesta vulnerabilità verso le dipendenze patologiche. Se la mindfulness può essere definita come una condizione di consapevolezza nella quale la persona esperisce il “qui e ora” (inteso come esperienza interna ed esterna), la mindlessness, di contro, designa quello stato della mente nel 148

quale si tende a “funzionare” in base alle proprie abitudini, ai pregiudizi e alle stereotipie di pensiero e di comportamento che fanno parte del nostro bagaglio esperienziale. Si potrebbe dire che mentre la persona in uno stato di mindfulness coglie l’unicità del momento presente e rimane aperta alle infinite possibilità di sentire, pensare e agire che in esso sono potenzialmente racchiuse, quella in stato di mindlessness sente, pensa e agisce sulla base di un “pilota automatico”: i dati nuovi e i possibili significati alternativi propri del momento presente restano non fruibili, non si dà nessun nuovo apprendimento e si confermano gli schemi cognitivi e le procedure comportamentali già conservate in memoria. Tutto questo per dire che nella nostra cultura, dove la sovraesposizione agli incessanti stimoli provenienti dalle molteplici fonti di informazione e comunicazione di fatto limita l’esercizio della introspezione e della consapevolezza (essere mindfully) verso l’esperienza, la possibilità di sviluppare un atteggiamento mindlessness è ancora più probabile e compromettente. Le dipendenze patologiche (già tendenzialmente derivanti da quadri pregressi di impulsività, elevata reattività emotiva e scarsa regolazione emozionale) rappresentano certamente una conseguenza, in termini psicopatologici, di un simile modo di rapportarsi all’esperienza esterna e interna. Il costante aumento della nostra difficoltà a sostare consapevolmente nel momento presente, laddove diviene trasversale, persistente e pervasivo, diviene terreno fertile, e patologica conseguenza, della dipendenza patologica, sia essa comportamentale o da sostanze. Questo elemento mi pare descrittivo della condizione di dipendenza in generale, nonché elemento comune dei diversi pazienti che ho modo di seguire per la problematica della addiction. 149

Ernesto De Bernardis Ernesto De Bernardis è dirigente medico presso la ASP di Siracusa, responsabile del SerT di Lentini (SR). Laureato in medicina e chirurgia nel 1991, si è specializzato in farmacologia, con indirizzo farmacologia clinica nel 1995.Medico SerT dal 1998, prima a Ivrea (To), poi in provincia di Siracusa, ad Augusta e dal 2013 a Lentini. È Consigliere nazionale SITD (Società Italiana Tossicodipendenze) e coordinatore del gruppo di interesse SITD Social.

Somministrazione dei quesiti: 1) Posso riportare il mio modello interpretativo, basato sugli studi a cui sono stato esposto e sull’esperienza clinica, senza alcuna pretesa di scientificità. Penso che i comportamenti che costituiscono le basi delle dedizioni patologiche siano legati alle domande fondamentali che gli animali sono tenuti a chiedersi continuamente per mantenersi nelle condizioni idonee a sopravvivere come singoli e come specie. Dal mio punto di vista sono tre le domande che l’essere vivente si pone per orientarsi verso condizioni ottimali, e in ordine dalla più primitiva alla più progredita sono queste: come sto? Com’è l’ambiente che mi circonda? Qual è la mia posizione tra i miei simili? La prima domanda, “come sto?”, riguarda l’omeostasi interna, e quindi il valore che viene dato ai segnali provenienti dagli intero-esterocettori dei vari distretti corporei. Ogni essere vivente ha bisogno di sapere se sta bene o male per orientare i propri comportamenti verso la conservazione di sé stesso e l’efficienza riproduttiva. In questo senso, le so150

stanze sedative o narcotiche danno una risposta falsa ma rassicurante: gli oppioidi aboliscono il valore di allarme del dolore fisico trasformandolo in sensazione priva della componente emotiva di pericolo, e riescono a fare lo stesso nei confronti del dolore psichico; inoltre inducono uno stato mentale analogo a quello dell’animale oggetto di cure parentali (il neonato nutrito e al caldo) o dell’animale che ha portato a termine in maniera completa il comportamento riproduttivo (l’orgasmo). In pratica gli oppioidi informano l’animale che sta compiendo nella maniera più corretta il proprio copione biologico, cioè quell’elenco di istruzioni selezionato in milioni di anni dall’evoluzione per massimizzare la probabilità di creare copie del proprio patrimonio genetico. Analogamente, gli alcolici a dosi sedative e i sedativi farmaceutici riducono l’effetto degli stimoli di allarme, dando una sensazione fittizia ma efficace di assenza di minacce interne ed esterne: bere per dimenticare è un esempio di rimozione dei pensieri minacciosi, bere per sopportare un dolore fisico è un esempio di rimozione delle informazioni di pericolo inviate dal corpo. La seconda domanda, “com’è l’ambiente che mi circonda?” è legata al fatto che gli animali capaci di movimenti attivi devono continuamente valutare la qualità dell’ambiente in cui si trovano, giudicando se è promettente per nutrirsi, proteggersi, accoppiarsi e mettere al mondo in maniera sicura la prole, o se è meglio spostarsi verso una situazione migliore. Animali raccoglitori e cacciatori come i progenitori della specie umana si sono verosimilmente selezionati per favorire un ambiente ricco di stimoli, ove ci fosse una varietà di frutti e piccoli animali e di prede disponibili, e che al tempo stesso consentisse di approfondire l’esplora151

zione, in maniera da garantire nuove risorse non facilmente esauribili. Le sostanze allucinogene come LSD, DMT, eccetera potrebbero dare una risposta falsa, ma rassicurante, a questa domanda, moltiplicando in termini quantitativi e qualitativi i dati forniti dalle percezioni sensoriali, riducendo la filtrazione degli stimoli al livello dei nuclei del sistema nervoso centrale che di questo si occupano per categorizzare le percezioni e potenziando la creazione di nuovi collegamenti neurali che permettano di tenere alta la salienza di stimoli che altrimenti si attenuerebbero per indurre la ricerca di nuove possibilità e nuovi territori. La terza domanda, “qual è la mia posizione fra i miei simili?” è importante per animali che vivono in branco e sviluppano gerarchie sociali per la soddisfazione dei bisogni fondamentali come ricovero, nutrizione e accoppiamento. L’animale che ha le capacità fisiche e psichiche per risalire queste gerarchie sociali ha migliori possibilità di sopravvivere e di trasmettere il proprio patrimonio genetico. Le sostanze stimolanti come la cocaina e le amfetamine potrebbero dare una risposta falsa, ma rassicurante, a questa domanda, potenziando i segnali che indicano all’animale di aver conseguito successo sociale, predominio sul branco (cocaina, amfetamina) o armonia con i propri con i propri conspecifici (MDMA). Il fatto che le risposte fornite dalle sostanze siano fittizie ma rassicuranti, fa sì che inducano nell’animale quella sensazione di star aderendo al proprio copione biologico a cui diamo il nome di piacere, ma può al tempo stesso far sì che la rassicurazione fornita sia così pervasiva da inibire i comportamenti che in maniera concreta, al di là della falsa rassicurazione, mantengono l’animale in reali condizioni di 152

benessere interno, ambientale e sociale. Così l’eroinomane e l’alcolista si disinteressano delle patologie che accumulano, il cocainomane o il soggetto dedito alle amfetamine agiscono in società con una sicurezza di sé infondata, e – manifestazione nei fatti più rara per le proprietà farmacodinamiche autolimitanti – è concepibile che un soggetto completamente immerso nell’esperienza illusoria o allucinatoria trascuri il comportamento di scelta di un ambiente concreto più favorevole o l’operatività per migliorarlo. La potenza della risposta rassicurante indotta dalle sostanze è notevolmente maggiore rispetto a quella proveniente dai comportamenti concretamente utili, e l’effetto può essere ripetuto ogni volta che si voglia, se la sostanza è facilmente disponibile. La combinazione di forza e disponibilità a piacimento delle risposte fittizie soverchia le ragioni di non farne uso provenienti dall’elaborazione propria e dal confronto con gli altri, anche perché le risposte (“sto bene”, “mi trovo in un ambiente ottimale”, “sono il numero uno tra i miei simili”) confliggono direttamente con i dati razionali. In senso generale, è questo il punto dove metto il limite tra un comportamento consolatorio innocuo e uno disfunzionale e, oltre, patologico: quando la risposta fittizia annulla o rende comunque inefficiente la risposta concreta, tanto da danneggiare la capacità di conservare la propria salute, individuare un ambiente idoneo o migliorarlo, individuare il proprio status sociale e conformarvi il proprio comportamento. Ovviamente quanto sopra è un modello personale che mi è utile per interpretare le situazioni che ritrovo nel mio lavoro di medico del SerT, e ribadisco che non ha pretese di scientificità, e potrei nel tempo modificarlo o abbandonarlo se si rivelasse inutile o dannoso. 153

1 bis) Il comportamento affettivo e quello sessuale sono di fondamentale importanza per tanti animali, noi compresi, l’uno perché aumenta la sicurezza e le speranze di sopravvivenza per sé e per la prole, l’altro perché ovviamente consente di riprodurre il proprio patrimonio genetico. Essendo utili, siamo programmati per percepirli come piacevoli, desiderarli, e – come visto prima, ma chi più chi meno – non accontentarcene ma cercare di conseguire sempre di più. Il punto che qui risulta critico è la capacità di darsi un limite nel perseguimento di questi comportamenti. La capacità di darsi un limite sembra avere componenti genetiche e componenti ambientali, dipendenti dalla propria storia personale, legate sia alla qualità dell’accudimento nei primissimi anni dell’infanzia, che agli eventi successivi ed all’ambiente in cui viviamo. Quello che vari filoni di ricerca stanno cercando di chiarire è come funzioni il meccanismo di limitazione, perché in certe persone o in certi momenti sia insufficiente, e come sia possibile rafforzarlo. Pare coinvolta la corteccia cerebrale frontale, e oltre alla psicoterapia vengono tentati vari approcci sia farmacologici (si vedano ad esempio, tra i tantissimi, i lavori di Anna Rose Childress sul ruolo dei recettori GABAB nel modulare l’influenza inibitoria della corteccia sul sistema limbico, e il suo video dalla conferenza internazionale ATHS di Biarritz del 20151) che non farmacologici (i tanti studi sulla rTMS come modulatore positivo del controllo inibitorio della corteccia sul sistema limbico, in cui tra l’altro si sono distinti valenti studiosi italiani, come in un recentissimo documento di consenso2). 1 2

https://www.youtube.com/watch?v=fnmRNe0Xf7c Ekhtiari, H. et al., “Transcranial electrical and magnetic stimulation (tES

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2 bis) In effetti esiste davvero, e si riscontra nella realtà clinica, la compulsione a ripetere dei comportamenti soggettivamente gratificanti nonostante si sia razionalmente coscienti di problemi o danni che inducono a breve o a lungo termine. Questa compulsione viene oggi classificata come dedizione, per analogia nelle manifestazioni, nella neurofisiologia, nella risposta a interventi farmacologici e non farmacologici, rispetto alle dipendenze da sostanze psicoattive. Tra gli esempi, oltre al gioco d’azzardo che è quello più noto, possiamo annoverare: il furto (cleptomania), lo shopping, il sesso (promiscuo, autoerotico, oppure online), il gioco di ruolo di persona o online in particolare quando c’è la possibilità di acquistare con denaro vero delle nuove capacità, la partecipazione ai social network, gli sport specie i più rischiosi, la cura dell’immagine corporea, e secondo alcuni gruppi di ricerca anche attività artistiche come la danza, il lavoro e lo studio, quando assorbano in maniera eccessiva o esclusiva le energie della persona. Ovviamente il limite tra una dedizione normale, o iperfunzionale e desiderabile, e la patologia, in questi ultimi casi è labile e soggettivo. A tal proposito, copio e incollo (adattandolo nella forma) quanto ho scritto sul blog “Dedizioni” di SITD – Società Italiana Tossicodipendenze – nel maggio 2016 per commentare una pubblicazione scientifica sulla “Dipendenza da Studio”: Che limiti porre all’identificazione di nuove dipendenze comportamentali? È una provocazione3? Gli autori, and TMS) for addiction medicine: A consensus paper on the present state of the science and the road ahead”, «Neuroscience & Biobehavioral Reviews», settembre 2019. 3 L’ultimo numero del Journal of Behavioural Addictions pubblica un articolo sulla Dipendenza da Studio. Ne ricevo notizia su Twitter da @neuroskep-

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affiliati agli Istituti di Psicologia delle università di Danzica, Bergen e Nottingham, identificano la Dipendenza da Studio nel quadro delle dipendenze comportamentali, come sottotipo della dipendenza da lavoro data per costrutto già accertato e accettato. La definiscono come «eccessiva preoccupazione per lo studio, spinta motivazionale incontrollabile verso lo studio, investimento nello studio di sforzi ed energie tale da compromettere le relazioni private, le attività del tempo libero e/o la salute». La accostano alla “Dipendenza da Danza”, a sua volta sottotipo della dipendenza da esercizio fisico. La dipendenza da lavoro è stimata dagli autori a poco più dell’8% di un campione di popolazione norvegese, e gli stessi autori riscontrano con i loro mezzi diagnostici un simile tasso di prevalenza di Dipendenza da Studio in campioni di studenti polacchi e norvegesi. A tal proposito, presentano una scala diagnostica, la Bergen Study Addiction Scale (BStAS), Nella pubblicazione citata ne presentano i dati di test-retest e di stabilità nel tempo. Mi vengono tante domande: fino a che punto è utile inventare nuove categorie nosografiche e appositi strumenti diagnostici per ogni comportamento per il quale si osservi – in una minoranza di persone – un coinvolgimento, diciamo una salienza, superiore alla media? A che punto finisce la libertà di dedicare se stessi a un interesse o un obiettivo e incomincia, quantomeno concettualmente, la patologia? Un comportamento riconosciuto come funzionale per il singolo e la società perde di valore se troppo intenso? E una scelta di vita? Avremmo fatto diagnosi di Dipendenza da Studio per Vittorio Alfieri o Giacomo Leopardi? Se anche tic, in https://twitter.com/neuro_skeptic/status/731045440624447488

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l’avessimo fatta, quale ne sarebbe stata l’utilità? Li avremmo “curati”? Lascio le domande aperte; altre se ne potrebbero aggiungere4. 3) Uno dei fattori che sembra condizionare il passaggio dal consumo di una sostanza psicoattiva in condizioni specifiche, in ambienti e tempi contenuti dalle tradizioni, al consumo voluttuario reiterato, fino a quello compulsivo e alla dedizione, è la disponibilità. La sostanza tende a limitare le sue capacità di generare dedizione fintantoché è ristretta a una categoria (ad esempio i ministri del culto, gli sciamani, i guaritori), a un momento specifico (il rito), a un ambiente specifico (il tempio), a un utilizzo specifico (l’intervento terapeutico sul corpo o sullo spirito) ed è disponibile in quantità e in purezza limitata, e con la necessità di investire tempo e sforzi significativi per procurarsela e renderla atta al consumo. Così la maggior parte dei farmaci psicoattivi, fintantoché vengono prescritti e monitorati in un contesto di cura, tendono di rado a provocare una dedizione patologica (al massimo sintomi fisici e neurologici alla riduzione o alla sospensione, una forma di dipendenza fisica che non è necessariamente associata alla precedente). Viceversa, quando la sostanza diviene facilmente disponibile in quantità significative, economica, in forma purificata e commerciabile per profitto, diventa possibile un uso voluttuario che può agevolmente debordare in termini di tempo, quantità, impegno economico e conseguenze fino a indurre, nei soggetti predisposti, alla patologia. A mio parere è lo stesso per le attività gratificanti del tempo libero. Quando a causa Atroszko, P.A. et al., “Study Addiction: A Cross-Cultural Longitudinal Study Examining Temporal Stability and Predictors of Its Changes”, «Journal of Behavioral Addictions», giugno 2016.

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dell’industrializzazione del divertimento (massimizzazione degli effetti, economie di scala, larga diffusione, introduzione continua di nuove varianti e di nuovi modelli sociali) la soglia per l’accesso si abbassa, l’intensità della gratificazione si alza, e la durata della soddisfazione si accorcia, anche i comportamenti riservati al tempo libero possono avvicinarsi e raggiungere in certi casi la soglia della dedizione patologica. Se ciò si è già concretamente realizzato per alcune delle attività elencate sopra, è probabile che anche in futuro nuove attività gratificanti connotate da bassa soglia di accesso, elevata intensità di gratificazione e possibilità di reiterazione subentrante, possano generare nuove dedizioni che terranno viva l’attenzione dei media e il lavoro di clinici e ricercatori, e in parallelo il guadagno degli imprenditori e il lavoro della filiera coinvolta. 6) Concludo invitando alla prudenza. Come esiste un fiorente e palese mercato di sostanze e comportamenti gratificanti e dedittogeni, così esistono un mercato della riabilitazione, forse meno riconoscibile e meno pervasivo ma potenzialmente altrettanto pericoloso, e un mercato dell’indignazione, oggi più che mai tenuto vivo dalla politica politicante, e sempre dannoso. Mi pare che sia stato un comitato del Senato australiano nel 1977 a far menzione per la prima volta al “problema del problema della droga” (drug-problem problem), concetto ripreso in Italia dal pensiero radicale (Giancarlo Arnao e altri). L’insieme di agenzie e regolamenti nato per prendere in carico il comportamento deviante (per alcuni) o la malattia (per altri) tende inevitabilmente all’eterogenesi dei fini e da una parte a tutelarsi e accrescersi in maniera autoreferenziale, e dall’altra a produrre normative incentrate sul controllo sociale e un clima che incita 158

allo stigma e al disprezzo nei confronti dei “diversi”, quelli che scavalcano il limite del lecito e mangiano il frutto del bene e del male. Mi auguro che quanto è già successo per le sostanze psicoattive nei prossimi anni non si ripeta per le dedizioni comportamentali: rehab for profit dalle pratiche dubbie, etichette di devianza mostrificanti, leggi che individuano capri espiatori e inseguono la persona fin dentro casa sua e ancora più profondamente nel dominio di ciò che gli interessa e che gli piace. Facciamo attenzione.

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Maria Carlucci Maria Carlucci è psicologa e consulente tecnico di parte. Esercita la libera professione come consulente (CTP) in procedimenti giudiziari che coinvolgono il minore e l’adulto e svolge attività clinica con adulti, bambini e adolescenti. Effettua valutazioni psicodiagnostiche sia in ambito clinico che forense, utilizzando anche il test di Rorschach valutato secondo il sistema comprensivo di Exner. Si occupa dei principali disturbi emotivi e comportamentali: trattamento dell’ansia, fobie, attacchi di panico, disturbo da stress post-traumatico, disturbi dissociativi, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi del comportamento alimentare, disturbi del sonno, disturbi sessuali, dipendenze patologiche, disturbi della personalità, difficoltà nelle relazioni interpersonali, difficoltà nella scuola e nel lavoro, disturbi emotivi e comportamentali nel bambino.

Somministrazione dei quesiti 1) Il termine dipendenza è stato definito da Freud nel 1915 come uno stato della mente, e in origine anche del corpo, che sottende al movimento delle nostre pulsioni verso una meta e che attesta la nostra capacità di legarci agli altri e alle cose5. Attualmente il termine viene utilizzato per descrivere comportamenti compulsivi, o fuori dal controllo della persona, come l’assunzione di alcool o di droghe ma anche per delineare e diagnosticare altri comportamenti ripetitivi, come gioco d’azzardo, abbuffate alimentari e sesso, quando, appunto, si presentano come incontrollabili. La ricerca Freud, S., “Pulsioni e loro destini”, in Opere, vol.8, Bollati Boringhieri, Torino (1966). 5

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di stimoli gratificanti può diventare infatti nociva quando perdiamo l’abilità di decidere, di scegliere se interrompere o continuare con un dato comportamento e quando questi interferiscono con la vita quotidiana causando un disagio clinicamente significativo o una compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre importanti aree. Questi sono i campanelli d’allarme che ci aiutano a discriminare ciò che effettivamente compromette il nostro benessere da ciò che ci fa stare bene. In ambito clinico ci si chiede se un disturbo da uso di sostanza è di origine primaria oppure è una manifestazione secondaria a un disturbo psicopatologico preesistente (ad esempio: disturbo di personalità, disturbo bipolare). Infatti, l’utilizzo di una sostanza può essere un epifenomeno di una fase di malattia, così come una forma di autoterapia oppure può essere esso stesso la causa di disturbi psichici. L’abuso di sostanze e i disturbi psichici possono avere al tempo stesso cause eziologiche e genetiche comuni, d’altro canto si possono distinguere come entità cliniche separate. La necessità di dipendere da sostanze può avvenire per apprendimento, ovvero modeling, perché sorge dall’osservazione e dall’imitazione del comportamento delle persone intorno a noi. Imparare a bere o a consumare sostanze psicoattive è parte del percorso di sviluppo tipico di alcune culture in cui i membri della famiglia, gli amici, i compagni e i media modellano i nostri comportamenti e le nostre credenze. Ad esempio, possiamo vedere un genitore bere per liberarsi dallo stress o per migliorare le abilità relazionali con gli altri durante un banchetto. Un’altra via di apprendimento potrebbe dipendere dall’efficacia dell’alcool come sedativo e anestetico. L’alcool o le 161

sostanze stupefacenti ci potrebbero far sentire rilassati e quindi impariamo a utilizzarli per raggiungere uno stato di benessere attraverso l’aumento di emozioni positive e attraverso la riduzione di ansia, rabbia e tristezza. Questo comportamento si rivela inizialmente conveniente perché gratificante, ma col passare del tempo causa costi a lungo termine poiché si palesa come un potente induttore di ansia e umore depresso. Come i disturbi correlati a sostanze, anche il disturbo da gioco d’azzardo e quindi i comportamenti legati al gioco, attivano sistemi di ricompensa simili a quelli attivati dalle sostanze di abuso. Possiamo attribuire un ruolo chiave allo sviluppo delle dipendenze alle seguenti aree cerebrali: corteccia prefrontale, deputata alla cognizione e alla pianificazione; area tegmentale ventrale del mesencefalo e nucleo accumbens entrambi parte del “circuito della gratificazione”; amigdala e ippocampo (parte del sistema limbico), modulatori di impulsi, emozioni e memoria. Nel caso invece dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, vi è un alterato consumo o assorbimento di cibo che compromette anch’esso la salute fisica o il funzionamento psicosociale. Alcuni individui portatori di questi disturbi riportano sintomi correlati all’alimentazione simili a quelli tipicamente manifestati da parte di chi ha un disturbo da uso di sostanze, come desiderio incontrollato e pattern di consumo compulsivo. L’analogia sta nel fatto che il coinvolgimento dei circuiti neuronali è lo stesso, fra cui quelli coinvolti nella regolazione dell’autocontrollo e ricompensa. Ciò nonostante, i contributi relativi dei fattori condivisi e quelli distinti nello sviluppo e nella perpetrazione dei disturbi dell’alimentazione e da uso di sostanze rimangono

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non sufficientemente chiariti (DSM-5)6. Come per le altre dipendenze, anche la workaholism o work addiction7 (letteralmente dipendenza da lavoro), identificata nel 1971 dallo psicologo statunitense Wayne Oates, ha un’origine le cui cause sono da ricondurre a una molteplicità di fattori, tra cui l’apprendimento familiare in cui “il fare” diventa l’unica strategia per ricevere attenzioni e riconoscimento dagli stessi genitori. L’individuo che sviluppa una dipendenza dal lavoro mostra un comportamento compulsivo finalizzato a evitare stati emotivi spiacevoli (rabbia, tristezza, vergogna, senso di colpa eccetera), relazioni o responsabilità. Ciò avviene anche in individui che tendono di risolvere i loro problemi, “illudendosi” e giocando d’azzardo; quest’ultimo può aumentare durante periodi di stress o depressione e durante periodi di uso di sostanze o di astinenza. Alla base del comportamento compulsivo legato al gioco è presente una distorsione del pensiero (ad esempio la negazione, un senso di potere e di controllo sugli esiti degli eventi casuali, superstizioni). Alcuni individui con disturbo da gioco d’azzardo giocano quando si sentono indifesi, colpevoli o depressi non riuscendo a controllare la compulsione al gioco. Seppur vi siano delle caratteristiche comuni tra questi disturbi come la ripetitività dei comportamenti dipendenti e il tentativo di mantenere sotto controllo le proprie emozioni, ciò che differenzia una dipendenza da un’altra è proprio la particolare esperienza, o comportamento, che aiuta la persona a gestire gli alti e i bassi della propria American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 5 edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014. 7 Oates, W., Confessions of a workaholic: The facts about work addiction, World, New York,1971. 6

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vita e che, con l’instaurarsi dell’assuefazione, diventa un’inevitabile trappola. 1 bis) La dipendenza affettiva, a differenza della tossicodipendenza, non è causata dall’azione di una sostanza d’abuso ma si innesca quando l’affetto, l’amore, non è ricambiato da entrambi i partner. Il rapporto risulta inappropriato e non vi è uno scambio reciproco. Anche le dipendenze comportamentali possono creare le condizioni in cui viene stimolata la produzione di dopamina: il cervello, in questo caso, rilascia dopamina in corrispondenza di particolari comportamenti come la vicinanza alla persona che è l’oggetto della dipendenza. Alla base della dipendenza affettiva di un individuo spesso è presente, in modo inconsapevole, il timore di essere abbandonato dall’altro e il terrore di vivere una vita in solitudine, unitamente a un concetto di sé sbagliato, inadeguato, inadatto che non è capace di fronteggiare il mondo autonomamente sfruttando le proprie risorse. Nella maggior parte dei casi, il soggetto non riconosce le risorse possedute poiché esso risulta del tutto polarizzato su bisogni e scopi altrui e non si orienta sui propri. Nel Cybersexual Addiction, l’individuo disinveste nella relazione reale per calarsi in quella virtuale e trarne una gratificazione sessuale. Così come nel tossicodipendente, anche nella dipendenza sessuale si va incontro al fenomeno del craving (intenso impulso di desiderio verso il raggiungimento dello stato fisico ed emotivo indotto dalla sostanza o dalla cosa dalla quale l’individuo dipende), dell’assuefazione e a sintomi di astinenza. Cooper e colleghi (1999) descrivono tre categorie di utilizzatori di pornografia online: gli utilizzatori ricreativi (Recreational Users), gli utilizzatori sessuali compulsivi (Sexual Com164

pulsives Users) e gli utenti a rischio (At-Risk Users). I primi accedono al materiale sessuale online più per curiosità o per intrattenimento e non sembrano avere problemi correlati ai loro comportamenti sessuali online; i secondi, a causa di una predisposizione a un’espressione patologica della sessualità, utilizzano internet per le loro attività sessuali in modo compulsivo; gli ultimi sono gli utenti che hanno sviluppato o rischiano di sviluppare una forma di dipendenza sessuale solo dopo essere entrati in contatto con il sesso online8. L’individuo è spinto verso tale comportamento poiché risulta facilmente accessibile ma anche economico. Attraverso questo canale la persona può assumere ruoli diversi e un’alterazione dell’identità rimanendo nell’anonimato. Il cybersesso permette di vivere in un mondo parallelo le proprie fantasie sessuali e quindi dissociato da quello reale, senza le paure e le responsabilità che conseguirebbero da una loro reale messa in atto; garantisce l’integralità, l’interattività e la normalizzazione di questo comportamento. L’utilizzo di internet a scopo sessuale non è necessariamente qualcosa di negativo o pericoloso. L’avvento della rete ha di fatto portato con sé numerosi aspetti positivi rispetto alle esperienze sessuali che le persone possono fare. Bisogna però chiedersi quando tale attività diventi patologica, quando di fatto si debba parlare di dipendenza da sesso online ovvero di cybersex addiction. 2 bis) Le new addiction vengono definite come un’espressione di un disagio psichico profondo e di un malessere culturale vasto e pervasivo. Seppur ogni forma sembra caratterizzarsi Cooper, A., Scherer, C. R., Boies, S. C., Gordon, B. L., “Sexuality on the Internet: From sexual exploration to pathological expression”, «Professional Psychology: Research and Practice», 1999.

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per degli aspetti specifici, esse nel loro insieme manifestano un desiderio di fuga e un’incapacità a tollerare il dolore mentale che porta, a volte quasi consapevolmente, a rinunciare all’uso del pensiero e della riflessività a favore di una scarica emozionale iterativa messa in atto con modalità progressivamente più compulsive9. Sebbene le dipendenze principali e più conosciute siano quelle relative alle droghe, oggi più che mai è vivo l’interesse per un altro gruppo di dipendenze, legate a oggetti o comportamenti presenti nella vita quotidiana di tutti e nelle quali non è implicato l’intervento di alcuna sostanza chimica. L’oggetto della dipendenza è in questo caso un comportamento o un’attività molto spesso lecita e socialmente accettata, si pensi ad esempio all’utilizzo degli smartphone o dei tablet. Questi si rivelano strumenti di facile impiego e utili anche in un ambiente lavorativo in cui avere delle informazioni nell’immediato aiuta a velocizzare il lavoro. L’utilizzo, però, non richiesto e compulsivo di questi dispositivi, potrebbe interferire causando una compromissione in ambito lavorativo o in altre importanti aree. Nei casi più gravi, le new addiction possono indurre l’individuo all’isolamento sociale come avviene ad esempio per gli hikikomori, termine giapponese utilizzato per descrivere adolescenti che si limitano a qualsiasi contatto con il mondo esterno, escludendo anche genitori e familiari. Il fenomeno ha interessato inizialmente il Giappone ma è diffuso anche in Italia. Molti sono gli adolescenti che ricorrono a comportamenti estremi come nel caso del binge drinking in cui si assumono 4 o più unità di alcol in un breve lasso di tempo allo scopo di Carretti, V., La Barbera, D., Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia. Raffaello Cortina Editore., Milano, 2005.

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ottenere l’ubriacatura immediata, nonché la perdita di controllo10. Nel caso invece della drunkoressia, termine coniato dai media popolari del «New York Times» nel 2008, l’individuo mette in pratica un comportamento di restrizione delle calorie in modo da poter consumare più alcol e non aumentare di peso11. Possiamo dire che le pressioni sociali rispetto alla perfetta forma fisica e al controllo del peso corporeo o quelle legate al consumo di alcolici hanno un forte impatto sugli adolescenti. Molto diffusa tra i più giovani è la ricerca della novità, denominata dallo psichiatra e genetista americano Cloninger Novelty Seeking. Essa è considerata come una spiccata tendenza a stati allegri ed euforici, tipicamente alta in soggetti portati a sperimentare un forte eccitamento in caso di stimoli nuovi e inaspettati, tendenti all’esplorazione, all’evitamento della routine e della monotonia, all’impulsività nelle decisioni, alla bassa resistenza in caso di persistenti frustrazioni12. 3) La libertà individuale estrema e il principio di piacere dominante inducono gli individui a cercare sensazioni sempre diverse e sempre nuove esperienze per affermare un sé narcisistico e investire spasmodicamente del tempo nel capire come poter guadagnare dei soldi “facili”, magari vivendo con l’idea che prima o poi “il colpo geniale” arriverà e adWechsler H, Nelson, T.F., “Binge drinking and the American college student: What’s five drinks?” «Psychology of Addictive Behaviors», 2001. 11 Kershaw, S., “Starving themselves, cocktail in hand”, «New York Times», 2 marzo 2008; Smith, R., “Drunkorexia slimmers skip means for alcohol”, «Daily Telegraph», 2008; Stoppler, M.C., “Drunkorexia, manorexia, diabulimia: New eating disorders?”, «MedicineNet», 2008. 12 Cloninger, C.R., “A Systematic Method for Clinical Description and Classification of Personality Variants: A Proposal”, «Arch Gen Psychiatry», 1987. 10

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dirittura funzionerà. Il valore morale viene sempre meno e il valore economico diventa il tratto distintivo in cui si pone maggiore attenzione alla ricchezza, al senso di potere; il consumismo imperante ingloba pertanto, ogni singolo aspetto della nostra vita. Si pensi ad esempio alle figure nate negli ultimi tempi: influencer, fashion blogger e youtuber. Il web marketing è un settore dove molte persone in qualsiasi momento della giornata possono decidere di creare un nuovo nome per definire una professione o una strategia. Influencer, fashion blogger e youtuber puntano il loro successo su like e visualizzazioni, infatti hanno un vasto seguito di follower, e sono seguiti perché grazie al loro stile pulito sanno consigliare prodotti. Spesso sono personaggi famosi che sono stati ingaggiati, secondo criteri ben precisi, per pubblicizzare i prodotti del brand. Oggigiorno il web permette a qualsiasi individuo di accedere a questi canali, si tratta di persone che desiderano mettersi in mostra e che rincorrono le approvazioni dagli altri utenti attivi. Nella ricerca di approvazione si innesca una sorta di dipendenza dai like con la necessità di essere sempre connessi. La dipendenza sta nel cercare di rincorrere sempre più un individualismo volto al successo e al potere. In questo senso possiamo intravedere una qualche forma di dipendenza, ma se vogliamo riflettere sul concetto stesso di tempo libero che l’individuo si è guadagnato col passare degli anni (pensiamo a quando, nell’antichità, era un privilegio soltanto delle classi superiori), esso è inteso come un valore positivo in cui non vi sono scopi materiali da raggiungere se non il tempo da dedicare a sé, alle passioni e a tutte quelle attività piacevoli. 6) Sempre più gli individui perdono una dose della loro sicurezza in cambio di un aumento della probabilità o del168

la speranza di felicità e il concetto di “modernità o società liquida” del sociologo polacco Zygmunt Bauman, espresso nell’omonimo saggio pubblicato nel 200013, risulta sempre attuale. Nella condizione della postmodernità – sostiene Bauman – i confini e i riferimenti sociali si perdono, tutto è ambiguo e cangiante. Si perde la fiducia nello Stato, nelle ideologie e nei partiti: individualismo e soggettivismo divengono le malattie di una società che non riesce più a garantire i diritti e valori. Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi, una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Il filosofo Umberto Galimberti, invece, che ho avuto il piacere e l’onore di accompagnare dopo un incontro tenuto all’Università di Chieti, nella sua preziosa opera L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani scrive: «Alla base dell’assunzione delle droghe, di tutte le droghe, anche del tabacco e dell’alcol, c’è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c’è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita14». Il nichilismo, denominato ospite inquietante, che attanaglia i giovani impedisce loro di descrivere il malessere perché ormai hanno raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri Bauman, Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011. Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007. 13 14

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sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. E inoltre, come sostiene Bauman, «indipendenza e dipendenza sono intrecciati e il loro legame costituisce un effetto indesiderato della realtà postmoderna». Non esistono, quindi, rimedi magici per gestire e risolvere le dipendenze che emergono nella vita quotidiana e neppure possiamo prevedere spingendoci molto oltre su come saranno i “nuovi tossicodipendenti domani”, ma ciò a cui bisogna porre attenzione, più degli effetti indotti dalla sostanza o dal comportamento stesso, sono le cause del malessere che hanno portato l’individuo a utilizzare una strategia malsana e a compiere un atto poco benevolo verso di sé.

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Domenico Trocino Domenico Trocino è consulente e componente esperto del Comitato Diritti Umani della Regione Piemonte. Ho deciso di intervistarlo per la sua esperienza trasversale perché, oltre a essere politicamente impegnato nel rappresentare le giovani generazioni attraverso incarichi ricoperti, direttamente o indirettamente, nelle diverse istituzioni, ha lavorato come barman in moltissimi locali. Il punto di vista di Domenico è tutto da leggere perché ritengo rappresenti il giusto mix di vissuto (in prima persona, avendo servito migliaia di giovani al bancone) e governato (attraverso l’approfondimento istituzionale sugli effetti delle dipendenze).

Somministrazione dei quesiti 1) L’abitudine genera tranquillità, almeno momentanea. La dipendenza è quella scelta abituale che ci evita di riflettere, ma ci tranquillizza e genera piacere, almeno apparente. In realtà io credo che la felicità sia raggiungibile solo quando siamo privi di dipendenze, privi da schiavitù, completamente liberi, ma per far questo occorre una enorme capacità di adattamento. Nella società odierna siamo ogni giorno sottoposti a un’enorme quantità di stimoli e stress indotti dalla società che ci circonda. Per contrastare questo stress ci sono molti metodi: alcuni decidono di leggere, fare sport, fare shopping, giocare alle macchinette, fumare sigarette ecc... Queste attività, quando vengono ripetute costantemente, entrano nella nostra routine quotidiana e non riusciamo più a farne a meno. Quando si assumono sostanze psicotrope, oltre alla dipendenza dell’abitudine vi è una dipendenza fisica. Le di171

pendenze psichiche e fisiche sono difficili da combattere, ma sono convinto che, battuta quella psichica, la dipendenza fisica possa essere combattuta molto più facilmente. Viviamo in una società sempre più incline ai cambiamenti, pertanto dobbiamo abituare le persone ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti così da ridurre le dipendenze. Combattere la paura del cambiamento dev’essere la priorità. 2) Sicuramente i nuovi soggetti dipendenti sono quelli da social network che generalmente sono di età più giovane. Queste dipendenze credo che siano slegate dagli ambiti lavorativi, anche se alcune occupazioni lavorative possono causare maggior stress o atteggiamenti che portano a contrarre con più facilità delle dipendenze, ma la vera questione che ci può rendere meno vulnerabili alle dipendenze è la cultura personale. Perché la cultura, lo studio, la conoscenza ci rende consapevoli e la consapevolezza di ciò che ci sta intorno ci rende liberi e curiosi. Liberi dalla schiavitù e quindi liberi da ogni forma di dipendenza. 2 bis) Ripeto, le dipendenze possono anche essere positive: dall’abitudine a fare sport a quella dei viaggi e via dicendo. Però l’abitudine è una cosa, la totale dipendenza un’altra. La dipendenza è quando si supera quel limite che porta anche un’attività positiva a diventare negativa. Il troppo stroppia sempre! L’uso degli smartphone è sicuramente un’attività positiva. Ma l’abuso e il mal utilizzo può diventare dannoso. Persino l’eccesso di sport può diventare dannoso per noi stessi e per chi ci sta intorno. 3) Sono convinto che l’innovazione e lo sviluppo rendano migliori il nostro mondo, benessere compreso, ma tutto va accompagnato da attente valutazioni e da un percorso di informazione e formazione per tutti i settori sociali. Quindi 172

ben venga lo sviluppo e l’innovazione, ma deve essere tutto attentamente regolamentato e gestito, mettendo sempre sulla bilancia da una parte gli interessi economici e di innovazione, dall’altra il bene collettivo. 4) Come già detto prima, penso che alla base della dipendenza ci sia un fattore psicologico. Pertanto la dipendenza può variare anche in base allo stato economico, ma è pur sempre una dipendenza: che sia la dipendenza dalla cocaina, eroina o colla, che hanno valori economici ben diversi per quanto riguarda le sostanze stupefacenti, o la dipendenza dai soldi, gioco d’azzardo o shopping, sono tutte dipendenze, anche se hanno un peso economico ben diverso. Quindi per rispondere alla domanda, non penso che sia un fattore che implica marginalità e stigma o elitarietà, ma penso che ogni dipendenza, così come ogni schiavitù, sia negativa. 5) Sicuramente Instagram e Facebook, ma anche i gruppi su WhatsApp, creano una dipendenza da smartphone. I siti di poker online generano e alimentano ludopatia e altre dipendenze indirette. Se consideriamo il Web come il mondo della rete, compreso il deep web, quello non indicizzato dai principali motori di ricerca, possiamo utilizzare la metafora dell’iceberg per capirne le dimensioni: il web che troviamo indicizzato dai motori ricerca risulta la parte che emerge dall’acqua, mentre la restante parte sommersa rappresenta la parte più grande dell’iceberg che in questo caso è il Deep Web. Secondo le ultime ricerche, Google riesce a indicizzare meno dell’uno per cento delle pagine web totali, sempre che il web sia davvero misurabile. Ragionando sul dark web, diventano evidenti i vantaggi per chi vuole procurarsi sostanze o oggetti che alimentano le dipendenze: semplicità, anonimato e sicurezza. 173

6) Molti commentatori sostengono che stiamo vivendo la quarta rivoluzione industriale, mentre altri sostengono che siamo di fronte a una della crisi cicliche degli anni ’20. Personalmente credo che stiamo vivendo uno dei momenti di più rapido e radicale cambiamento dell’umanità. Usciamo da una crisi economica molto forte, anche se la crisi di sistema è solo all’inizio. Abbiamo vissuto l’avvento del web che sta trasformando l’approccio alla vita, anche quotidiana, di miliardi di persone. Il processo di sviluppo tecnologico sta avendo un’enorme accelerazione, dovuta all’avvento dell’intelligenza artificiale e all’analisi di big data. I cambiamenti climatici e i cambiamenti degli assetti geopolitici. Le costanti guerre e i terrorismi, amplificati e alimentati anche grazie l’utilizzo degli strumenti del web. Tutto ciò sta generando una grande quantità di stress nel genere umano. Traballano i valori, gli ideali costruiti sulle macerie delle tremende guerre che hanno caratterizzato il Novecento, e per questo le persone si sentono spaesate e perse. Prive di punti di riferimenti e di certezze, soprattutto nelle giovani generazioni, con il conseguente rifugio in dipendenze più o meno gravi, che diventano i sostituti di quei punti di riferimento sani che dicevamo prima. Le istituzioni, sempre più ostaggi del capitalismo e dei poteri economici, non riescono a dare le giuste risposte ai bisogni degli individui, anzi, molto spesso li aggravano. Occorre prendere consapevolezza e ripartire dai giovani, dalla loro giusta formazione e informazione, studiando con attenzione gli errori del passato. Regolamentare e ridistribuire la ricchezza. Finirla con le politiche proibizioniste che hanno fatto molti più danni di quanti benefici siano stati apportati nell’ipocrisia generale. Affrontare una delle più importanti sfide sanitarie della 174

Regione Europea, i disturbi mentali con nuovi approcci. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) oltre un terzo della popolazione europea soffre di disturbi mentali come la depressione e l’ansia. Sarebbe opportuno istituire la figura dello psicologo di base, per aiutare a curare queste patologie, evitando l’utilizzo degli psicofarmaci, che uniti ai disturbi mentali possono essere cause di nascita di dipendenze in un individuo. Le soluzioni ci sono, gli ostacoli sono molti, ma intervenire al più presto è necessario.

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Giorgio Schiappacasse Giorgio Schiappacasse, dirigente medico delle Farmaco-tossicodipedenze, attualmente in pensione, è stato fino a pochissimo tempo fa direttore dei Sert della Asl 3 Genovese. È un veterano e nonostante questo è un entusiasta. Le sue prime parole quando l’ho contattato al telefono sono state: «sono in pensione ma continuo a darmi da fare, eh!» quasi a volersi giustificare per aver interrotto dopo tanti anni la sua missione! Con lui parleremo di un argomento davvero affascinante ovvero l’approccio ecologico-sociale e quello della rete territoriale di supporto. Non perdetevelo! Parlare di dipendenze con il Dottor Schiappacasse è come mangiare un cesto di ciliegie. Un argomento tira l’altro e non smetteresti mai. Non fatevi ingannare dal suo aspetto da gigante burbero perché perdereste l’occasione di ascoltare argomenti e considerazioni delicate e sempre pertinenti. Giorgio, classe 1954, dopo aver diretto la Struttura Complessa del Servizio Tossicodipendenze della ASL3 Genovese si gode la meritata pensione. E non pretende di vuotare il mare con un cucchiaio. Troppe ne ha viste. Ma non ha perso lo smalto del primo giorno di lavoro. Così continua a scrivere e organizzare incontri. Impossibile intervistarlo con domande strutturate. Sarebbe come tentare di mettere un fiume in piena in una scatola da scarpe. Il suo contributo è però imperdibile, così come il suo approccio ecologico-sociale. Le sue presentazioni spesso iniziano con storie fantastiche e parabole bibliche, apparentemente slegate dal core business ma in realtà utilissime per rompere il ghiaccio e mettere a proprio agio la platea. Ecco alcune delle sue prefazioni. La celeberrima “parabola del cammello”: «In un luogo nel deserto si trovarono tre fratelli 176

alle prese con un problema di difficile soluzione. Il loro padre era morto di recente lasciando un’eredità di 17 cammelli, che erano una grande ricchezza, ma il padre aveva detto loro che i cammelli dovevano essere suddivisi in questo modo: al primogenito toccava la metà dei cammelli, al secondogenito toccava un terzo dei cammelli, all’ultimo un nono dei cammelli. Ma i cammelli erano 17 e per quanto facessero non riuscivano a venirne a capo. A un certo punto passò di là un Mullah con il suo cammello, e vedendo gli uomini così disperati, si fermò e ne chiese il motivo. Il primogenito allora spiegò tutta la situazione. Il Mullah ci pensò un attimo e poi disse: “Posso prestarvi il mio cammello, in questo modo avrete 18 cammelli e potrete risolvere il vostro problema”. I figli presero il cammello e con 18 cammelli iniziarono a rifare i conti: al primogenito spettavano 9 cammelli, al secondo 6 cammelli e all’ultimo 2 cammelli. Così il problema era risolto e i fratelli erano felici. Ringraziarono il Mullah, ma quando fecero per riprendere il cammino si accorsero che 9 + 6 + 2 faceva 17 e non 18. A questo punto resero il cammello al Mullah che proseguì per la sua strada». Oppure la storiella “del lago e dello yogurt”: «In un paese dell’oriente un pescatore, ogni mattina, andava al lago a pescare. Un giorno vide un monaco scendere dalla collina, meditare sulla riva e poi con un cucchiaino versare un po’ per volta qualcosa nell’acqua del lago. Dopo una ulteriore meditazione si rialzò e tornò al convento. La cosa si ripeteva identica tutti i giorni. Incuriosito, il pescatore, ormai abituato alla compagnia del monaco, si avvicinò e domandò cosa facesse. Il monaco gentilmente rispose che versava uno yogurt nel lago. Perplesso l’uomo non volle al momento chiedere di più. Poi, dopo alcuni giorni, si decise, si avvicinò nuovamente e chiese il perché versasse uno yogurt nel lago. Il monaco serio rispose “se lo farò con costanza 177

un giorno tutto il lago si trasformerà in yogurt” L’uomo si spaventò. “Questo è matto” disse fra sé e sé. E si allontanò. “Eppure sembrava una così brava persona”. Passarono molti giorni prima che trovasse il coraggio di riavvicinarsi e dirgli con rispetto: “Ma lo sa che non è vero?” Il monaco con calma si girò, lo guardò profondamente e disse: “lo so ma è bello pensarlo”. Oppure, infine, “la favola del dottore”: «Una donna era curva sulla vittima di un incidente stradale, mentre la folla stava a guardare. All’improvviso un tizio la spinse via rudemente, dicendo: “Stia indietro, per favore, ho il diploma di pronto soccorso”. La donna lo osservò per qualche minuto mentre lui si dava da fare con la vittima. Poi, con molta calma, lo avvertì: quando arriverà alla fase in cui dovrà chiamare il dottore, io sono già qui» Ecco come interagisce il Dottor Schiappacasse, ti spiazza, rompe il ghiaccio e poi ti incalza con le sue considerazioni, mai banali e semplicistiche. «Più spesso di quanto non crediamo il dottore è già presente dentro la persona che tentiamo di aiutare! Perché preoccuparsi allora del pronto soccorso? Chiamate il dottore!». Durante la nostra chiacchierata, come vi ho premesso, ha più volte fatto riferimento all’approccio ecologico-sociale, facendomi presente come le persone e le collettività possiedano conoscenze tali da poter essere utilizzate per la soluzione dei problemi. E proprio facendo attenzione alle potenzialità – non più alle deficienze – è possibile e necessario attivare le risorse della comunità territoriale stessa che diviene così capace di riconoscere i propri bisogni e di mobilitare le risorse necessarie per affrontarli. «L’Approccio ecologico-sociale nasce dai movimenti di auto mutuo aiuto e ha caratteristiche specifiche, tra cui quel178

la fondamentale della responsabilizzazione della persona, della famiglia e della comunità attraverso la rivalutazione della competenza personale, della reciprocità, della solidarietà e del processo di identificazione reciproca. L’obiettivo è permettere un’interazione positiva nell’affrontare i problemi con il fine di ottenere una maturazione e una crescita personale dei propri membri attraverso una positiva relazione con la comunità di appartenenza, cercando forme di convivenza e di crescita comune. «Il trattamento nell’auto mutuo aiuto non è una terapia ma un processo di crescita, maturazione e catalizzazione del cambiamento dello stile di vita che avviene tramite il “semplice”, ma costante, scambio esperienziale tra pari dove tutti danno e tutti prendono. Questo scambio può essere facilitato da un volontario non professionale opportunamente formato. L’approccio ecologico-sociale considera l’importanza delle relazioni, dei comportamenti, dei valori, dei significati di ogni membro della famiglia e della comunità, partendo, in ogni caso, dal proprio cambiamento. Da “che cosa può fare lui” a “che cosa io sono interessato o posso fare per me?”. Significa non aspettare un cambiamento improbabile ma possibile dell’altro, bensì individuare strategie e percorsi di crescita personali che possano favorire sicuramente un cambiamento in me e forse anche nell’altro». Secondo quanto riferito dal dottore, è necessario che tali movimenti maturino e si selezionino in base ai contenuti, alle coerenze etiche e alla loro reale capacità di “attrazione” rispetto ai cittadini mantenendo la loro autonomia e indipendenza. Devono essere movimenti low-cost perché basati solo sull’interesse specifico degli stessi partecipanti e su questo devono calibrare la loro mission. Solo così è possibile mantenere «libertà, autonomia, coerenza d’azione e garanzia etica» indispensabili 179

a durare nel tempo. Questa «gratuità» che è una assunzione di «responsabilità» rappresenta un fattore terapeutico fondamentale. Questo aspetto di gratuità è un aspetto importante del lavoro nelle e delle associazioni di autotutela e promozione della salute e nasce dal riconoscimento e dalla consapevolezza che non c’è, in esse, chi dà e chi prende, ma uno scambio interattivo continuo, una cooperazione, una condivisione e una occasione di crescita e maturazione «utile a tutti». Non crediamo sia tanto un problema di risorse economiche quanto di mentalità, di «etica» e di capacità di trovare e promuovere soluzioni «semplici», e proprio per questo innovative, di promuovere la cooperazione tra le persone, tra le famiglie oltre che tra le diverse realtà professionali. Questa impostazione high quality/low-cost rappresenta, secondo noi, la vera sfida per gli anni a venire per tutto il sistema del welfare per mantenere l’impegno a garantire la salute per tutti anche oggi. Non ce la faremo mai? Con un vero “gioco di squadra” molto si può fare cominciando dal basso e dal piccolo. Spesso le risorse sono nei problemi stessi! Sia in campo nazionale che internazionale tutte le organizzazioni più moderne e aggiornate spingono a stimolare la formazione e la crescita della rete territoriale delle associazioni territoriali di autotutela e promozione della salute formate dai cittadini stessi e dalle loro famiglie. Realtà che vengono segnalate (e sostenute) dall’OMS poiché capaci di fornire i risultati migliori nei trattamenti di medio-lungo periodo e di ottimizzare le risorse disponibili pur garantendo sia la territorializzazione che la sostenibilità nel tempo. Inoltre, la loro presenza viva e attiva nelle nostre comunità può favorire un vero e proprio cambiamento culturale (più assunzione di responsabilità e meno delega da parte di tutti compresa la società civile). È per 180

questo che i professionisti e le diverse organizzazioni dovrebbero porsi al servizio dello sviluppo di tale rete utilizzando linguaggi, concetti e modalità operative coerenti con esse. Questa rete territoriale dovrebbe essere il naturale punto di convergenza di tutti gli interventi, siano essi ambulatoriali, ospedalieri, residenziali brevi, comunitari. Possiamo vedere queste autonome associazioni come un polivitaminico con azione pentavalente: • agisce sull’individuo (lo responsabilizza e fornisce sostegno e ascolto costante); • agisce sulla famiglia (la rende partecipe e più consapevole); • agisce sulla comunità (si riappropria delle sue competenze e responsabilità); • agisce sulle pratiche professionali (vengono rese più sostenibili e “umanizzate”); • agisce sul “sistema salute” permettendo di ottimizzare l’uso delle risorse disponibili. Il ruolo dei professionisti (e delle nostre organizzazioni) va oggi declinato soprattutto come ri-attivatori di saperi, risorse e percorsi prima ancora, e forse più, che fornitori di risposte (spesso non esaustive). Non a caso oggi si parla sempre più della necessità di sviluppare una nuova medicina di iniziativa, di cooperazione e di condivisione.

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Valentina Usala Valentina Usala, arte-terapeuta e scrittrice, ha frequentato il liceo classico e ha studiato Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Pavia. Oggi è diplomata presso la scuola di Artiterapie M.B.A di Milano, ove ha svolto tirocinio, durante i tre anni di formazione, presso il Centro Diurno della Psichiatria 2 del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Niguarda. Inoltre è animatrice e conduttrice di atelier artistico-espressivi. Nelle scuole ha condotto progetti trattanti tematiche come: autismo, bullismo e cyber-bullismo, detenzione minorile e dipendenze. Ha creato laboratori di libera espressione e scritto diversi libri e articoli specialistici. Piccina e con gli occhi scuri e profondi come una miniera sarda, sua terra di origine. E come ogni giacimento nasconde contenuti preziosi e difficili da estrarre. Anche nel suo caso è stato difficile intervistarla con domande strutturate. Nonostante sia presa tra mille impegni (alcuni davvero serissimi e gravosi) la nostra super Vale ci ha regalato alcune pagine davvero piacevolissime da leggere. Ma lasciamo la parola alla dottoressa Valentina Usala. C’è una domanda che più di tutte mi sorge spontanea. Fino a dove una dipendenza ci può portare. O meglio, quando una dipendenza ci porta a pensare che di essa non ne abbiamo più bisogno, ma soprattutto: come ci si sente senza di essa? Ciascuno di noi credo sia dipendente o da qualcosa o qualcuno e se dovessimo parlare di ciò apriremmo una parentesi molto ampia. Snoderò quindi il mio discorso su un fulcro centrale, da cui invece vorrei che tutti assieme potessimo ragionare, aprendo quindi una riflessione su noi stessi. Ciascuno per sé. 182

Già, molto spesso ci dimentichiamo di essere creature viventi in tutt’uno con la terra, in ecosistemi che stiamo distruggendo con le nostre mani. Al tempo stesso, ci dimentichiamo di quanto danno arrechiamo a noi stessi, con le nostre mani. Siamo il popolo dell’infelicità, che si guarda allo specchio come fosse un corpo scagliato sulla terra, che vive e muore dentro, che vive e non considera nemmeno la forza di gravità che ci tiene in piedi, figuriamoci dei sentimenti empatici. Siamo il popolo del 5G, delle unghie finte, dei fotoritocchi e degli abbracci persi nell’aria. Dove sta la nostra felicità? Dove cercare la gioia, se è davvero da ricercare altrove, lontano da noi stessi?. Siamo una macchina perfetta, il nostro corpo lo è. Eppure non ci bastiamo mai. Aggiungerei che non ci bastiamo mai, a tal punto da essere finti, in un mondo dove trovare uno spazio vero, tangibile e concreto, sembra quasi un miraggio. E quindi omologarsi alla finzione è ciò che veniamo spinti a fare. Dopo questo preambolo, voglio spostare l’attenzione su un concetto cardine, riferito a quanto detto qui sopra e citato all’inizio di questo scritto. Riusciremmo mai a fare a meno e quindi cambiare strategia di vita, rispetto a quanto elencato? A farlo noi intendo, autonomamente, sino a designarci quasi come delle pecore nere, come una macchia di acquarello su una stoffa linda e bianca: anonima e senza personalità. Perché in fondo, se siamo quel che siamo e il mondo lo consideriamo una discarica a cielo aperto, è perché lo abbiamo voluto, ma soprattutto perché ci hanno istruiti a farlo, senza alcuna lezione. Riusciremmo a rinunciare alle abitudini di tutti i giorni, quelle dannose intendo? Non solo materiali, ma anche affettive. Una parola sola: dipendenza. Mi addentro in un argomento specifico, per ora, e sono certa che nel citare dipendenza, la prima immagine mentale e col183

legamento sono state le sostanze stupefacenti. La dipendenza da droga. Nell’accogliere quindi il termine “dipendenza”, vorrei parlare e soprattutto ragionare circa un fatto accaduto qualche anno fa. Ormai da tempo era iniziata, quasi così per caso, una piccola collaborazione con il liceo Giuseppe Peano di Tortona, che è stato il liceo che ho frequentato anche io. Più precisamente questa collaborazione è avvenuta con il liceo delle Scienze Umane. Materia di competenza di questo indirizzo, e lo dice il suo nome stesso, sono le varie materie con attitudine all’ambito sociale. Ogni progetto condotto aveva come fulcro cardine di partenza un libro, dal quale poi si sarebbero diramate le varie attività. Quell’anno la mia proposta riguardava Nuove sostanze psicotrope di Danilo Lazzaro. La tematica era evidente e subito captabile. Durante il primo incontro con le classi, una ciascuna per volta, mi sono presentata e ho introdotto con loro, per mezzo di un brainstorming, il macro-argomento “dipendenza”, per il quale ho rivolto loro una domanda ben precisa: “Se vi dico la parola dipendenza, voi a cosa l’associate?” Le riposte sono state tra le più svariate: chi ha citato i videogiochi, il gioco d’azzardo, l’alcool, le sigarette, il cibo, gli affetti, il lavoro, il cellulare, per citarne alcuni. Due sono i motivi per cui mi sono sorpresa: il primo, per la profondità con cui hanno affrontato l’argomento, sino a spingersi a riflettere sul fatto che anche un affetto può essere considerato una dipendenza; il secondo, forse quello che più mi ha fatto capire che serve un’altra strategia comunicativa con i giovani, che i pistolotti didattici non servono più, o forse non sono mai serviti, e hanno ben ragione in questo i ragazzi, è riferito al fatto che nessuno, nel brainstorming, abbia associato al termine dipendenza la parola “droga”. 184

E nel momento in cui io aggiunto questa parola, chiedendo loro sotto forma di domanda, il perché non avessero nemmeno preso in considerazione questa tematica la risposta è stata: “Perché quella, ormai, si sa”. Beh, riflettiamoci. Su cosa stiamo sbagliando, mi viene da dire? Due sono i ragionamenti che si sono fatti strada nella mia testa. Il primo che forse i ragazzi, sottovalutando l’emergenza sociale, siano così sicuri di avere un alto controllo nei confronti di un approccio allo stupefacente; il secondo invece perché se ne sente così tanto parlare, che forse anche il termine prevenzione è snaturato dalla sua reale efficacia. Credo che parlare di prevenzione a un adolescente non abbia un granché senso, poiché se quella è da loro testualmente definita “età difficile”, il fatto che un adolescente sappia prendere decisioni per sé in un periodo di cambiamento fisico e psichico è davvero fuori luogo. Quindi questo è uno dei nostri sbagli? Il timore di affrontare certi argomenti quando si è ancora in quella fase in cui si impara ad approcciarsi al mondo, a conoscerlo e ad apprenderlo, quindi quando siamo ancora bambini, fa parte di un’istituzione che non cede ai dogmi a tratti profani che è un po’ come mettere la polvere sotto un tappeto anziché raccoglierla. Argomenti che poi pretendiamo vengano assimilati una volta più cresciuti, in un mondo che ci presenta modelli da imitare perché diventano “famosi” e a quel punto, come un neurone specchio, ecco che se non segui la massa sei uno sfigato. Se nessuno ha citato la parola droga perché diventata una consuetudine. il dato è forse più allarmante e ci deve far pensare. Da qui voglio proseguire, se non iniziare, la mia esposizione più nel profondo. Quelle parole che ho citato, “età difficile”, io personalmente le traduco come una vera e propria richiesta 185

d’aiuto, in un contesto in cui potersi fidare o meno di qualcuno è già di per sé una vetta altissima da scalare, un lancio nel vuoto in cui non sei certo di avere qualcuno pronto ad accoglierti tra le sue braccia, ovvero l’adolescenza. Ciò che mi ha sorpresa ancora una volta (ma gli adolescenti in questo sono molto capaci) e vi stupirà, ma in realtà non dovrebbe, è il fatto che da loro imparo sempre molto, perché con i giusti accorgimenti sanno comunicarti di cosa hanno bisogno. Sta a un adulto captare i messaggi utili a migliorare la relazione con loro e se stessi. In altri termini dovremmo imparare ad ascoltare. Anche se ai giorni nostri, è più facile seguire la strada più comoda, senza troppi sbattimenti, per utilizzare un temine del gergo. Tornando al discorso iniziale, quello del progetto, vi racconto di un laboratorio che ho tenuto con i ragazzi, suddivisi per gruppo classe, dalla prima alla quinta superiore. L’attività laboratoriale, suddivisa in tre momenti con tre attività di libera espressione differenti, ha avuto per ciascuno una parola riassuntiva, utile a designare qualitativamente in qualche modo lo svolgimento. Parole non di certo scelte a caso, ma che fossero attinenti a un progetto sulle dipendenze in un contesto laboratoriale di arteterapia. Eccole qui elencate. Rottura-riparazione: laboratorio artistico espressivo del kintsugi; Equilibrio: laboratorio basato sulla libera espressione corporea; Dare-chiedere aiuto: laboratorio di scrittura creativa. Facendo riferimento al binomio “rottura-riparazione”, inserito in un contesto dedicato agli stupefacenti ci fa aprire un mondo su cui ragionare, nello specifico ho preso in considerazione una tecnica utilizzata in arteterapia: il kintsugi, che in giapponese significa “riparare le cicatrici con l’oro”. A ciascun ragazzo ho chiesto di rappresentare graficamente l’oggetto che più ne avrebbero temuto la rottura; di romperlo, sempre gra186

ficamente e poi ripararlo incollando in esso dei lembi di carta di riciclo. Nel momento in cui “riparavano” l’oggetto che avevano rotto, tra una parte incollata e l’altra, si sarebbero create inevitabilmente delle fessure, colmate da loro stessi in un secondo momento con l’acrilico color oro. Gli oggetti rappresentati sono stati di svariata natura: una fotografia, un soprammobile, una scarpa, il proprio cane, la chitarra e in un numero consistente il cellulare: proprio quello che avevano elencato nel brainstorming come “dipendenza”. Ecco quindi che mi sono interrogata sulla necessità di una dipendenza. Il paragone tra una droga e un cellulare potrà sembrarvi fuori luogo, ma in realtà quello su cui voglio soffermarmi è il meccanismo, e non troveremo grosse differenze tra una dipendenza da cellulare e quella da stupefacenti. Cosa accomuna le due tipologie? Di cosa si nutre un essere umano senza nemmeno accorgersene? Alla base di tutto vorrei mettere in primo piano la parola “affetto” e se vogliamo la mancanza di esso. Ogni mancanza tendiamo a colmarla, riempendola di qualcosa che ci faccia stare bene e forse sentire meno soli. Alla base di ciò, quindi, mi ricollego a quanto già esposto: degli affetti assenti, o ridotti, di quelli trascurati e degli abbracci mancati. Questo progetto aveva come finalità la sensibilizzazione e la prevenzione alla dipendenza, ragionando quindi assieme sugli effetti di essa. La risposta i ragazzi l’hanno avuta davanti agli occhi, con un loro prodotto artistico in questo caso, ove fra logica e inconscio hanno dato vita e messo in campo i loro timori, le loro paure e angosce, persino i loro traumi. C’era un passo indietro da fare, essenziale e inscindibile dal progetto in sé, come dalla vita quotidiana, utilizzando l’escamotage artistico. Far provare ai ragazzi che dalle loro mani pos187

sono nascere meraviglie, che anche loro possono essere fautori di accorgimenti importanti, in un clima calmo e in un ambiente protetto quale dovrebbe essere la scuola. Che in noi stessi abbiamo le risposte ai nostri bisogni, senza necessariamente “dipendere da”. Il fatto che noi stessi scopriamo di essere viventi unici, fatti di carne e psiche, inevitabilmente governati da emozioni. Viviamo per emozionarci, per essere cosparsi da brividi e nel momento in cui non proviamo più ciò, proprio perché umani e in quanto tali predisposti a vivere di sinergie, legami ed emozioni, il nostro organismo, proprio come fosse una dipendenza, nell’incapacità di farlo autonomamente, lo ricerca altrove: per autonomamente, intendo che il corpo umano, soprattutto nel cervello e in certe ghiandole, produce potenti sostanze chimiche che hanno effetto sull’umore, pensieri e azioni e queste sono le endorfine. Le endorfine sono sostanze stupefacenti che causano molti effetti tipici degli oppiacei, tra cui euforia, stato di benessere e riduzione del dolore. Questo perché il binomio mente e corpo, che noi viviamo in maniera scissa, in realtà tra si lanciano continui segnali, che sfociano in quell’area detta psicosomatica. Basti pensare a un’emozione, quella azzurra ritratta paffuta e con occhiali tondi dalla Pixar in Inside out: la tristezza. I meccanismi cerebrali che regolano i nostri stati emotivi sono piuttosto diversi l’uno dall’altro. Mentre la gioia origina una serie di connessioni e iperattività nelle nostre cellule e regioni cerebrali, la tristezza è molto più austera e preferisce risparmiare sulle risorse. Tuttavia, lo fa per uno scopo molto specifico. È interessante sapere anche che la struttura che assume il controllo nel nostro cervello è l’amigdala, ma attenzione, solo una parte di essa. Questa piccola regione del cervello è ciò che induce quella sensazione di stanchezza fisica. Allo stesso modo, gli stati di tristezza ri188

ducono la nostra capacità di attenzione in tutti quegli stimoli esterni che ci circondano. Avviene questo per una ragione più che ovvia: il cervello cerca di dirci che è il momento di fermarsi e pensare, di riflettere su certi aspetti della nostra vita. Questo per citare una delle emozioni che ci pervadono e la mia professione, che su questo si fonda, sull’io interiore, sulla capacità di emozionarsi anche di fronte a un dipinto, a una musica, a una rappresentazione teatrale, a uno scritto: l’arteterapia, la disciplina che si fonda sull’essere umano. Sull’innato bisogno di comunicare, che l’uomo stesso ha inventato o meglio scoperto in sé stesso. Basti pensare all’uomo prestorico e ai graffiti, all’antica Grecia e al teatro catartico. Ma cos’è l’arteterapia? Ecco qualche informazione in più, per capire perché scrivere di me in questo libro, in un contesto scolastico, in un contesto di dipendenza. L’arteterapia può essere definita come l’insieme dei trattamenti terapeutici che utilizzano come principale strumento il ricorso all’espressione artistica allo scopo di promuovere la salute e favorire la guarigione, e si propone come una tecnica dai molteplici contesti applicativi finalizzati al miglioramento della qualità della vita. Le risorse utilizzate sono le potenzialità che ognuno di noi possiede, chi più chi meno, di elaborare il proprio vissuto e di esprimerlo creativamente; dove educare sta per “e-ducere”, cioè portar fuori e, nella pratica terapeutica e riabilitativa, portar fuori dal buio verso una maggiore conoscenza e consapevolezza. Il focus dell’arteterapia, più che sul prodotto artistico finale, è sul processo creativo in sé. Ciò che è importante è soprattutto l’esprimersi, il creare. L’atto di produrre un’impronta creativa, infatti, permette all’individuo di accedere agli aspetti più intimi e nascosti di sé, di contattare ed esprimere le emozioni più recondite e spesso inaspettate, e di 189

sperimentare e potenziare abilità spesso ignorate o inutilizzate. In questo senso il processo creativo, al di là del contenuto e del risultato finale, è già terapeutico in sé. Ciò non toglie che queste impronte creative, e cioè i prodotti finali dell’espressione artistica, possano svolgere altre importanti funzioni. Prima di tutto rappresentano per “il creatore” una traccia di sé, la testimonianza della propria auto-affermazione e il ricordo delle esperienze vissute durante la sua produzione, e dunque un punto di partenza per ulteriori riflessioni. Da sempre l’arte è considerata una forma di comunicazione importante, che riesce ad arrivare dove le parole non riescono. Proprio per questa sua peculiarità l’arte è stata spesso oggetto di interesse per molti studiosi nel campo della psicologia. L’arteterapia viene usata nei contesti più vari. Questa diversità rispecchia la sua natura multidisciplinare. Per fare ordine possiamo suddividere gli ambiti di applicazione dell’arteterapia in tre grandi aree: quella della terapia clinica, quella della riabilitazione e quella dell’educazione. Ogni ragazzo ha partecipato attivamente al percorso, finanziato dal Sistema bibliotecario tortonese. Così come le insegnanti, che si sono impegnate a collaborare sinergicamente. I ragazzi hanno letto in classe il volume Nuove sostanze psicotrope. Come ti drogherai domani di Danilo Lazzaro scrivendo temi, articoli, analizzando il fenomeno dal punto di vista delle scienze umane, approfondendo il nichilismo e studiando Galimberti. Qui di seguito riporto l’articolo scritto dai ragazzi, apparso sui giornali del tortonese, che riassume tutto il progetto Il Liceo Peano, durante il corrente anno scolastico 2017-18, in collaborazione col Sistema Bibliotecario Tortonese, ha ini190

ziato il progetto pedagogico triennale “Dipende…”, avviato con la presentazione del libro “Nuove sostanze psicotrope. Come ti drogherai domani” di Danilo Lazzaro, Edizioni Epoké. L’evento è stato realizzato il 7 dicembre 2017 alla presenza dell’autore presso il Ridotto del Teatro Civico di Tortona; scopo del saggio e dell’intero progetto è far capire ai giovani i pericoli e le conseguenze derivanti dall’assunzione di sostanze stupefacenti, sempre più pericolosamente presenti anche a causa delle piazze di spaccio virtuali. La coordinatrice esterna delle attività, dott. ssa Valentina Usala, ha successivamente proposto agli studenti del Corso delle Scienze Umane, capofila del progetto, diversi laboratori in cui cimentarsi a partire dal mese di gennaio 2018: il collage ricostruttivo suggerito dall’antica arte giapponese del “kintsugi”, la danzaterapia, la scrittura creativa. Dando spazio agli oggetti importanti per gli adolescenti di oggi, alle emozioni suscitate in loro tramite l’ascolto di musica “suggestionante”, così definita da alcune studentesse del primo anno, e alla loro creatività, sono nate importanti riflessioni. «Grazie al Progetto “Dipende…” ci siamo avvicinati in prima persona alla consapevolezza di poter avere una dipendenza nella sua specificità. Infine, come classe 3A Scienze Umane, abbiamo apprezzato il fatto di mettere in pratica ciò che nel nostro indirizzo studiamo a livello teorico». «I rischi e i pericoli dell’abuso di sostanze di cui siamo venuti a conoscenza sono tanti. Fare cose che non faresti in condizioni normali, sentirsi male, perdere l’equilibrio, la memoria, oltre ai gravi danni fisici, cerebrali e psicologici che ne derivano, devono farci riflettere e renderci consapevoli già da adolescenti» commentano le alunne della 1A. Le studentesse degli ultimi anni di corso, in particolare della 4A Scienze Umane, riconoscono che «il Progetto “Dipende…”, coordinato all’interno del liceo dalle proff. Angela 191

Pelizza e Susanna Maggi e svolto insieme alla dott.ssa Usala, ci ha consentito di acquisire uno sguardo più scientifico per quanto riguarda il panorama delle nuove sostanze psicotrope, e allo stesso tempo, immergendoci nelle attività proposte, abbiamo potuto approfondire l’aspetto umano di questa triste realtà che affligge molte persone, in particolare giovani, nella nostra società». In conclusione, gli obiettivi prefissati per questo progetto, hanno coinvolto non solo i ragazzi, ma anche tutti coloro che hanno gravitato attorno a essi, in particolare, oltre alle professoresse e al dirigente scolastico del liceo, a Maria Rita Marchesotti e Manuela Marini, responsabile servizio cultura del comune di Tortona, che hanno permesso che questo progetto si realizzasse. Non mi aspetto che i ragazzi mi dicano che non hanno mai fatto uso di stupefacenti, che le dipendenze sono sbagliate e bisogna starci lontano. Mi aspetto semplicemente che diventino adulti responsabili, che si conoscano meglio di chiunque altro e sappiano essere portavoce di messaggi importanti, che sappiano amarsi senza annullarsi, che sappiano ancorarsi alla vita, quella vera, perché di cambiare ce n’è bisogno. «La felicità non dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla considerazione o dall’ammirazione altrui, quanto dalla piena accettazione di sé» (Umberto Galimberti). Mi viene in mente solo una cosa da dire a questa piccola grande guerriera. Forza Valentina, per ogni sfida che la vita ti ha riservato. E grazie di cuore della tua partecipazione.

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POSTFAZIONE

Obbligo o necessità. Perché siamo qui? Ci hanno dato tutto, ci hanno tolto tutto Poi ci hanno detto: “Lascia un commento” Ci hanno detto: “Vivere è una corsa, quindi corri Lo capirai solo al traguardo” Mancarsi, Coma Cose, dall’album Hype Aura (2019)

Siamo quasi alla fine di questa chiacchierata. È necessario mettere ordine al discorso con alcuni dati di fatto: • Il primo: il mondo è costituito da singole entità, uomini e donne, animali, vegetali e minerali. L’essenza stessa della natura ci impone di incrementare la specie per non estinguerci. Non Stiamo parlando di evoluzione ma di sopravvivenza, badate bene. Nessuno può eccepire il contrario! Ora, per un attimo, proviamo a immaginare quel frenetico movimento di elementi, come un organismo vivo, che nasce e continua a svilupparsi nel tempo… 193

• Il secondo: uomini e donne, da sempre, sono impegnati a cercarsi, a socializzare e sviluppare rapporti interpersonali, ma anche a contrarre “doveri morali” e a sottoscrivere “obbligazioni sociali”. Si nasce, ci si sviluppa e si finisce inevitabilmente per “aggrapparsi” a un’altra persona, a un animale e talvolta perfino a un vegetale. Succede da milioni di anni e cosi continuerà per altrettanto tempo! Immagino vi starete chiedendo quanti brindisi abbia fatto l’autore prima di dedicarsi al capitolo, in realtà, vi chiedo di pazientare ancora qualche riga, perché tenteremo di riunire alcuni tasselli sparsi nelle pagine precedenti, dove abbiamo parlato dell’uomo, delle caratteristiche ereditate delle precedenti generazioni e delle future mutazioni. Della sua evoluzione/ involuzione. Delle fragilità, dei coinvolgimenti ed ovviamente delle sue dipendenze. Lo dice il titolo no? Un caleidoscopio di condizioni impossibili da classificare ma necessariamente da comprendere e magnificamente descritte nelle nostre interviste, dai nostri ospiti. Ognuno degli intervistati ci ha arricchito con il suo punto di vista. E tramite singoli sguardi abbiamo cercato di capire la direzione che prenderà la società, all’interno della quale siamo “immersi” e che è pesantemente inficiata da valori effimeri. Rubando la strofa che ha aperto il capitolo: «Ci hanno detto: “Vivere è una corsa, quindi corri, lo capirai solo al traguardo». E così abbiamo fatto. Abbiamo iniziato a correre. Siamo stati ubbidienti e forsennati. Abbiamo preso a incamminarci, anzi a correre, verso la direzione che – a primo acchito – pareva giusta. Le prove? Tante, e chiaramente illustrate nei capitoli e nelle interviste precedenti. 194

Ma si tratta davvero di fenomeni di nicchia? Oppure sono fortissimi segnali da non sottovalutare? forse sono solo «un campo molto variegato ed eterogeneo che include, al suo interno, fenomeni nuovi, propri della nostra epoca storica, quali la internet addiction, la dipendenza affettiva, lo shopping compulsivo e la nomofobia, solo per citarne alcuni». E quelli fisici? Anche su quelli c’è molto su cui discutere. Una recentissima ricerca di una società di telecomunicazioni – la Toll Free Forwarding – è arrivata a teorizzare che l’uomo dei prossimi decenni potrebbe mutare la sua fisicità fino a divenire più basso e curvo, con una massa celebrale più piccola e dotato di palpebra doppia. Il motivo? La troppa tecnologia1. Che potrebbe portare i nostri eredi a ingobbirsi, ad avere dita più corte e pollici storti per meglio interagire con i dispositivi elettronici. E non vi pare individualizzazione? Proveniamo dagli abissi. È noto! Dopo un breve soggiorno dentro a grotte fumose abbiamo deciso di associarci in piccoli gruppi che sono diventati villaggi e città. Questo perché qualcuno ha deciso che la vita – fino ad allora vissuta in solitaria – avrebbe potuto essere migliore, più lunga e facile. Ora, dopo questo breve percorso logico, verrebbe da chiedersi perché l’organismo sociale che, al tempo della pietra, aveva già compreso che aggregandosi avrebbe potuto migliorato la propria condizione, oggi tenta ad andare nella direzione opposta. A rimanere da solo. E davvero questa la desolante fotografia dell’uomo del 2020? Solo, oppresso dalla tecnologia e in balia di dipendenze – non solo di sostanze – così forti e totalizzanti da dominare la vita dell’individuo, condizionandolo, influenzando ogni decisione, provocando alterazione dell’umore e veri  https://it.blastingnews.com/salute/2019/06/uno-studio-della-tollfree forwarding-teorizza-una-possibile-involuzione-fisica-umana-002938689. html 1

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e propri sintomi d’astinenza? E proprio da una domanda molto simile a questa che, negli anni ’60, alcuni scienziati – sociologi ed economisti – hanno coniato quella che viene comunemente definita la teoría de la dependencia. Una sorta di manifesto nato a seguito di uno stato di forte decadenza economica e sociale, che vedeva protagonisti alcuni stati sudamericani, tra cui Argentina, Brasile, ma anche Messico e Cile. In quella “risposta alla crisi” veniva sostenuta un’ipotesi semplice ma dirompente. L’economia sociale mondiale viene prodotta, nella sua fase di sviluppo, da un centro e una periferia, o meglio da un centro decisionale e una periferia produttiva, da sfruttare. Entrando più nello specifico, la teoria presentata da Gareth Jones «rappresenta [la situazione in cui] le organizzazioni dipendono dall’ambiente per le risorse di cui hanno bisogno per sopravvivere e crescere. La disponibilità di tali risorse, tuttavia, dipende dalla complessità, dal dinamismo e dalla ricchezza dell’ambiente stesso. Secondo Jones l’obiettivo di un’organizzazione è quello di minimizzare la dipendenza da altre organizzazioni per l’acquisizione delle risorse scarse (materie prime, informazioni, tecnologia, clienti, stakeholder esterni ed interni) che esistano nel suo ambiente e trovare il modo di influenzarle per renderle disponibili2». In pratica si sostiene che l’economia del mondo sviluppato tende a influenzare i paesi non sviluppati, a cui viene attribuito un ruolo marginale di produzione delle materie prime con basso valore aggiunto, mentre le disposizioni sostanziali sono adottate dai paesi a cui viene assegnata la produzione industriale di più alto valore strategico. https://verdiana.fandom.com/it/wiki/Teoria_della_dipendenza_da_risorse; vedi anche Jones, G., Organizzazione. Teoria, progettazione, cambiamento, EGEA, Milano, 2012. 2

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A primo acchito pare non c’entrare nulla con il nostro ragionamento. Ma se leggiamo tra le righe di alcune nostre intervistate, emerge un concetto identico. La dottoressa Ubaldeschi scrive infatti che «Il grande potere della dipendenza, intesa come condizione esistenziale, sta nell’averci fatto credere di essere appannaggio di una parte di popolazione ristretta, che vive ai margini della società e ha caratteristiche socio-relazionali precise e individuabili. […] I nuovi soggetti dipendenti ritengo siano più trattabili per le caratteristiche delle nuove forme di dipendenza, più disponibili a riconoscere il problema e a cercare soluzioni terapeutiche, ma la cattiva notizia è che sono molto più numerosi dei vecchi tossicodipendenti, meno identificabili, non stigmatizzati né emarginati e più compiaciuti e compiacenti rispetto alla loro dipendenza». Interessante punto di contatto, non credete? Nella sua massima semplicità, una testa e un braccio vincolati da regole non scritte ma non per questo meno forti. Non esattamente nell’accezione estetica del termine ma in quella meccanica, un automatismo che influenza la vita delle persone composto da cervello che decide e organi periferici che eseguono. Ora però vorrei farvi notare il primo paradosso. Il cervello è in grado di decidere solo dopo aver elaborato le informazioni ricevute – in prima battuta – da quegli stessi organi periferici. Il classico esempio: la bruciatura. La mano appoggia su di una superficie calda, invia l’impulso al cervello che elabora l’informazione e comunica alla stessa articolazione di ritrarsi. Ora, dopo questo articolato ragionamento, sapreste dirmi quale organo determina la correttezza delle direttive impartite? Il tronfio cervello oppure una banale mano, un modesto gomito? Quale impulso deve assumere il ruolo principale, regolando l’organismo? 197

Ho citato la teoria della dipendenza perché ritengo sia un formidabile strumento per la comprensione di queste nostre conclusioni. Come dicevamo la testa ha l’obbligo di fornire indicazioni indispensabili e coerenti. La periferia solo l’onere di eseguire in maniera puntuale. Ora proviamo ad applicare questa teoria alla nostra domanda inziale. Da chi dipenderai domani? Da qualcosa che proviene “dall’esterno” e che può indurci a seguire percorsi obbligati, in grado di portarci inevitabilmente verso destinazioni talvolta sconosciute, in pratica da un cervello esterno? Oppure da noi stessi, dalle nostre azioni, dai nostri comportamenti? Da quello che potremmo definire la parte muscolare del discorso? Perché, nel caso non l’aveste capito, noi siamo il braccio. Ed è proprio un’informatica a fornirci l’assist del discorso. Vanessa Fieschi nella sua intervista ci fa infatti notare che «La dipendenza, almeno inizialmente, risponde a un bisogno dell’individuo che nel tempo non riesce più a controllare, per tutti i meccanismi fisici e mentali che si innescano. Probabilmente, le persone che diventano dipendenti non riescono a trovare nelle relazioni sociali, piuttosto che nel lavoro o nei loro hobby, qualcosa che li gratifichi completamente. Negli ultimi anni gli standard sociali sono aumentati notevolmente, richiedono successo, visibilità, elevate prestazioni in tutto: se non ci si sente all’altezza, se si vuole rincorrere la società, o se si vuole fuggire da essa, è facile incorrere nell’uso di sostanze o abitudini da cui poi non si riesce più a liberarsi». Ecco le variabili: l’esterno che illude oppure l’interno che esegue? l’illusione e il manifestarsi, l’incontrollabile e il tangibile, non vi ricordano nulla? In tutti questi binomi insistono tutti gli elementi magici che da sempre affascinano l’uomo. Seppur celati sotto mille forme sono in ogni parte della no198

stra vita. Sono cultura e religione. Economia. Politica. Sono il riassunto dell’esperienza più amata, quella del viaggio, del traguardo finale e del percorso di avvicinamento, quello fatto per arrivare. Non solo uno spostamento da un luogo verso un altro ma un’allegoria del desiderio, della ricerca o semplicemente dell’abbandono. È per questo motivo che Marcel Proust diceva che «l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi». Ecco perché esiste una così forte assonanza con il mondo della dipendenza! Perché sono questi i tratti – inutile nasconderlo – più affascinanti di un viaggio “artificiale” non sempre piacevole, quasi mai salubre, ma estremamente diffuso come ci ricordano gli innumerevoli proverbi popolari: «la droga è come una gomma, dopo un po’ ti cancella». Oppure, come si usa dire in Germania, «bere non è la risposta. Ma bevendo ti dimentichi la domanda» e infine l’italianissimo e partenopeo «int’a a casa ro iucator nun ce sta at ca rulor [nella casa del giocatore non c’è altro che dolore]». Potrebbe strappare un sorriso se non fosse per il fatto che, quotidianamente, queste dipendenze – oltre a costare la vita a diverse persone – danneggiano inequivocabilmente il tessuto socioeconomico della collettività, preminentemente sano e istruito all’autosufficienza e al benessere. Durante una mia presentazione del libro un educatore (così si è presentato), con una punta di provocazione, al termine del discorso mi ha fulminato con questa domanda: «lei conosce, per caso, la formula magica per risolvere il problema delle dipendenze?». Non sono stato in grado di dare una risposta nell’immediato. L’ho ammesso senza problemi. Ecco la risposta su cui ho ragionato parecchio nei giorni successivi: Il problema della dipendenza è impossibile da risol199

vere in un’unica soluzione perché riguarda e tocca più ambiti nello stesso tempo: quello sanitario (per la parte fisica e psicologica), quello sociale e quello della sicurezza. È difficile sanare all’istante un problema singolo, figuriamoci un pluri-problema! Non per questo dobbiamo perderci d’animo, perché possiamo fare in modo di ridurre il danno. Immaginiamo la dipendenza come un cocktail particolarmente difficile da preparare. Si tratta di una bevanda con selezionata materia prima, che deve essere preparata da un abile barman e servita da un eccellente barista, utilizzando strumenti adeguati e in un contesto accogliente. Ecco le variabili. Le materie prime, la preparazione del barista, l’allestimento del bar e il corretto arredamento del locale. Giusto un paio di cose, no? Ma anche il corretto riscaldamento della stanza e la presenza di compagnia gradevole magari. La questione si complica. E se ci fosse anche un parcheggio comodo e un quartiere alla moda? Fa ridere, ma il concetto è semplice e lo avete compreso appieno, ne sono certo. Il sapore è caratterizzato dalla preminenza di ingredienti fisiologici preimpostati e che nascono insieme a noi, arricchito da una spruzzata di tessuto familiare, integrato da dosi di esperienze scolastiche e infine shakerato con due gocce di imposizioni sociali. Eccola la ricetta magica per le nuove dipendenze: N.D. = dna + famiglia + scuola + società + variabili. La riduzione del danno, a mio parere, deve agire sui singoli ingredienti. In maniera sempre più stringente. Fino a rendere questo cocktail… acqua fresca! Da dove partire? Se sulla predisposizione biologica possiamo fare poco, questo non si può dire del tessuto sociale. Un composto formato dalle istituzioni tradizionali (famiglia, scuola, Stato) che oggi come non mai si trovano in una fase di forte transizione, se non di crisi. 200

Nel mio precedente libro ho scritto: «Le attuali famiglie sono composte da genitori con una mentalità oggettivamente più permissiva e tollerante, anche perché la maggiore scolarizzazione e la circolarità informativa ha reso ogni nucleo famigliare più globalizzato rispetto a un decennio fa. Contestualmente più del 50% delle coppie si separa, la vacuità dei rapporti è parte dell’attuale tessuto sociale, poiché il modello vincente attuale è quello che prevede una pluralità di partner, le unioni si rompono con facilità e ne deriva una forma di monogamia seriale, finalizzata ad essere fedeli a un partner, ma in ripetuti e spesso ravvicinati rapporti sentimentali». Continuo a credere fortemente in questa visione, perché tali comportamenti finiscono per essere scontati non solo dalla prole, ma anche dall’interno nucleo familiare. L’analisi del sistema scuola e società, che ricevono input provenienti da famiglie povere di valori e contenuti. Una scuola criticata da genitori. Da quegli stessi genitori che contestano la funzione formativa dei docenti, da sempre punto di riferimento del processo educativo. Ma anche primo livello di approccio del giovane con il mondo esterno. E sono ancora concorde sul fatto che «La maggioranza dei padri ha rinunciato parzialmente al proprio ruolo di depositario del canone culturale (norme, leggi, principi e valori) e si propone piuttosto ai propri figli più come figura amicale». È questa la nostra società. Inutile nascondersi. Dove il graduale abbattimento di ogni autorità costituita, che è funzionale alla decadenza dei valori tradizionali, viene contestata senza essere sostituita da modelli più validi. La parola d’ordine è flessibilità, permissivismo, eccezione. I nuclei genitoriali, ma soprattutto le relazioni padre-figlio sono unicamente sulla base della soddisfazione temporanea di beni materiali. Vogliamo farla più facile? Tolta la scuola e la società civile, iniziamo a intervenire sul tempo libero, che come ci conferma 201

la nostra Vanessa Fieschi, rischia di diventare sempre più insalubre: «Avere tempo libero senza sapere come impiegarlo è deleterio, se si sa invece come sfruttarlo, non può che migliorare la qualità della vita delle persone. È importante anche variare le attività, per non incorrere nella noia, e quindi in uno stato di insoddisfazione che può avere conseguenze negative. Non saprei dire se il tempo libero abbia decretato lo sviluppo di nuove dipendenze, sicuramente ha fatto vendere più gigabyte alle compagnie telefoniche, i cui clienti nei molteplici “tempi morti” si dilettano nello scrolling delle bacheche o nello streaming».

Salutiamoci! Non c’è consumo senza rischi! Se non vuoi correre nessun rischio allora rinuncia al consumo. Se tuttavia decidi di consumare, informati in anticipo sugli effetti, i rischi e le conseguenze in modo da poter gestire i pericoli e ridurre i possibili danni. Le sostanze psicoattive possono alterare in modo massiccio le tue capacità fisiche e psichiche. È importante essere sempre prudenti, scegliere un ambiente in cui ci si sente al sicuro e consumare in compagnia di altre persone di cui ci si può fidare. Dal progetto online danno.ch/rischi dell’associazione Radix – Svizzera italiana

Sulla droga, sull’alcool, sul gioco, sono state scritte milioni di pagine. Talvolta lapidarie, altre volte generaliste, sempre tecnicamente corrette ma spesso timide e incoerenti, a mio avviso. Perché è difficile parlare di dipendenze e rimanere terzi e impassibili. «Cose difficili da respirare, se non ci sai fare, se non puoi capire», come cantavano i Casino Royale nel loro capolavoro del 1995 Sempre più vicini. Il rischio è quello di fi202

nire invischiati in discussioni trancianti e stridenti con le “linee istituzionali” dettate da amministrazioni o partiti. Insomma, un casino. Immaginate la destra politica che regolamenta il consumo di marijuana con un conseguente recupero di tassazione pari a circa cinque miliardi di euro per anno (dato stimato). Come riuscirebbe un politico a giustificarsi dinnanzi ai suoi elettori? E immaginate quanta prevenzione si potrebbe fare con parte di quel denaro. Immaginate ancora la sinistra che pur di non offrire il fianco alle speculazioni (la più famosa è “avete permesso ai nostri figli di drogarsi”) continua a prorogarne la presentazione. Insomma, un casino. Un settore spinoso, ovvio. L’intenzione di questo libro, però, non è l’analisi politica del fenomeno ma la rivelazione di un percorso. O meglio ancora, di come (sfortunatamente) non esista un solo percorso capace di condurci all’inferno e (fortunatamente) non esista un solo percorso capace di salvarci la vita. Piccoli sentieri e grandi autostrade. Luoghi che si possono imboccare per puro caso, senza averne una reale motivazione, spesso seguendo l’esempio di compagni più grandi. Passaggi sfortunati, mi verrebbe da dire. Un mondo popolato da altri con diverse esigenze? Non sempre. A volte, a cascarci, sono i nostri amici, i nostri figli. Esiste una soluzione? Certo! Perché siamo programmati a sopravvivere a tutto quello che è successo e che succederà, perché il futuro ci vedrà ancora presenti! Il vuoto della piazza, il buio dei vicoli e la paura possono e devono essere sconfitti dalla luce della cultura, dal colore della curiosità, dal profumo delle idee. Perché è da quella stessa paura che nasce ogni cosa, dal timore di non essere abbastanza, di non avere spazio, aria, acqua in cui nuotare. Abbiamo i social 203

direte voi. Dove ognuno può scrivere quello che vuole. Dove ognuno può leggere quello che vuole. Ma è davvero quella la libertà che ci meritiamo? Da bambini, da adulti, da anziani, la più grande angoscia è quella di rimanere soli. Per tutta la vita cerchiamo – ognuno a proprio modo – di rimanere in contatto con “gli altri”. Lo facciamo attraverso una compagnia di gli amici, il lavoro, una squadra di calcio, un circolo, un moto club. Abbiamo la necessità di appartenere a qualcosa e conseguentemente a qualcuno. Vivere l’esperienza attraverso cui l’individuo da “pugno di argilla” diviene mattone e, successivamente, muro portante. Ma questo mattone deve essere necessariamente solido e reale. Perché ogni costruzione ha regole precise da rispettare, valori prestazionali che gli impediscano di crollare. Parametri che qualcuno gli ha comunicato e che lui deve essere in grado di garantire. Un mattone di byte non reggerà mai una casa. Dieci mattoni di carta in un pilastro lo faranno crollare. Saranno forse utili per progettarla, per abbellirla. Ma per costruirla servono mattoni e cemento di prima qualità e ovviamente muratori veri. Quelli del famoso proverbio, «non c’è casa di signore dove non ci abbia “evacuato” un muratore». Questa, a mio avviso, è la vera “dipendenza positiva”. Quella che aggrega la componente sociale a quella affettiva. Perché tutti hanno la necessità di stare insieme e costruire legami stabili. Ma fino a quando questo “bisogno” è da definirsi “sano” e quando invece diventa “malato”? Perché abbiamo bisogno di altri per colmare i nostri bisogni emozionali? Perché non siamo in grado di farlo da soli? Se non siamo in grado di volere bene a noi stessi, di non accettarci, di non piacerci sviluppiamo una dipendenza. E qualcuno o qualcosa, prima o poi, dovrà colmare quella lacuna. 204

La risposta di uno specialista potrebbe essere: «sono bisogni naturali, bisogna solo essere coscienti di essere in grado, prima di tutto, di soddisfarli da soli». E quando invece i bisogni non sono naturali, ma indotti? E quando diventano sia fisici che mentali? Come abbiamo letto nell’intervista, secondo Domenico Trocino «le dipendenze psichiche e fisiche sono difficili da combattere, ma sono convinto che, battuta quella psichica, la dipendenza fisica possa essere combattuta molto più facilmente. Viviamo in una società sempre più incline ai cambiamenti, pertanto dobbiamo abituare le persone ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti così da ridurre le dipendenze. Combattere la paura del cambiamento dev’essere la priorità». Ci stiamo per salutare. Tra le vostre dita stanno scorrendo queste ultime pagine che spero vi abbiano appassionato, incuriosito, infastidito e provocato. Questo perché Nuove dipendenze. Da chi dipenderai domani? oltre a essere una pila di fogli stampati muniti di copertina ha l’ardire di essere qualcosa in più. Un libro presuntuoso e impertinente, che aspira a diventare catalizzatore di incontri reali dove mescolare opportunità, informazioni, ma anche capace di raccogliere (talvolta la migliore medicina) inaspettate richieste provenienti da cittadini, studenti e genitori, consumatori e addetti ai lavori? Forse. Sicuramente è nato con l’intento di far conoscere “quelle cose” di cui normalmente si è restii a parlare. Perché è difficile, perché genera imbarazzo, perché non esiste una verità assoluta. Perché è arrivato il momento di urlare che produttori/spacciatori se ne fottono di voi, dei loro clienti. Scusate la parola, ma il concetto è da sottolineare con forza. Ridono alle nostre spalle e sfottono per i soldi che riescono ad asciugarci, quasi ogni giorno. Soldi guadagnati con fatica, con lavori precari op205

pure rubati dai portafogli di mamme e nonne. Ridono perché siamo diventati deboli, limoni da spremere senza più forza di reagire. Perché siamo arrivati a credere alla più grande truffa della storia, ovvero che per essere felici bisogna dipendere da qualcosa. Che non bastiamo. Siamo le loro vittime. Iniziamo a prenderne coscienza. Oppure a reagire, fate voi. Ridono di persone che comprano a scatola chiusa. Le informazioni che troviamo sul web (soprattutto sui siti esteri) sulle droghe “legali” possono non essere totalmente vere, con il solo scopo di farci acquistare sostanze e farmaci in rete. Usano diciture equivoche e falsi etichettaggi. E noi abbocchiamo. Ridono del fatto che non ci rendiamo conto di quanto possano essere potenti le droghe naturali. Spesso più tossiche di quelle sintetiche perché i principi attivi sono influenzati da variabili incontrollabili. Ridono di noi piccoli chimici, coltivatori di funghi magici e distillatori di infusi in prova. Non siamo a un raduno di chierichetti, nessuno vuole insegnarvi a vivere. Fate scelte particolari? Bene. Lo stato di diritto all’interno del quale viviamo lo consente. A vostro rischio e pericolo. Esiste un “fino a quando” però. Fino a quando non scendiamo in strada alla guida di un mezzo. Fino a quando non usufruiamo di ospedali, caserme, tribunali e carceri. Perché, stiamone certi, seguendo uno stile di vita garibaldino è matematico finire ospite di questi posti. Fino a quando qualcuno si dovrà prendere cura di voi. Questa è la verità. Parlare di dipendenza è una cosa seria, così seria da doverlo fare indossando un gessato blu, quello buono della domenica, accompagnato dalle calze dell’ape maia, nere e gialle a righe. Serissimi e professionali, ma sempre con il sorriso sulle labbra, per farsi ascoltare, anzi capire, da tut206

ti. Soprattutto da chi ha bisogno di aiuto, davvero. Non credo servano paroloni, cravatte e scrivanie. Basta sedersi ed ascoltare le richieste di studenti e genitori, tossici e tossicologi, poliziotti e magistrati a cui è necessario (anzi, è un obbligo morale) dare risposte. Ecco perché siamo qui! Perché siamo esseri umani e abbiamo un superpotere che nessun altro organismo possiede. L’immaginazione. Qualcosa che ci permette di vedere nel futuro e vivere un’esperienza gratuita, senza nessun conto da pagare. Sembra facile come scrivere una canzone con tre accordi vero? Beh, chiedetelo ai Beatles oppure ai Nirvana, perché io non penso di essere così bravo. Di una cosa sono capace. Ascoltarvi. E mettermi a disposizione di chiunque sia interessato a fare questo viaggio nel futuro. Uno, cinque o dieci anni in avanti, per incontrare ciò che decideremo di essere (o non essere). Non sono mai entrato nel merito del giudizio perché ogni scelta personale sottende un vissuto che riguarda solo i diretti interessati e pochissime altre persone che gli rimarranno sempre vicine. Tra queste troverete dei perfetti sconosciuti (come il qui presente) che faranno il possibile per passarvi qualche dritta giusta per ragionare e decidere, ma con la propria testa! Come avrete avuto modo di leggere, i miei libri, i miei articoli, sono goffi, imperfetti, criticabili, proprio come le persone che provano a fare qualcosa in più del compitino a casa. Sudano sulla sedia e si dimenano fino a quando non riescono a finire la paginetta. Persone che spero si possano riconoscere tra le righe di queste pagine. A mio parere, la cosa più importante è poter partecipare, sentirsi interpellati, essere parte di un discorso conosciuto, in modo da non essere più prigionieri di quel dark side che è den207

tro a ognuno di noi. Un lato oscuro dove perdersi, trovarsi e riperdersi ancora. Un posto che ci ricordi che esistiamo e siamo vivi. Ma che non deve avere il sopravvento sulla nostra vita. Tutte le nostre considerazioni ora puntano verso una sola direzione. L’uomo e la persona. L’habitué e il cliente. L’avventore e l’utente. Noi. Con le nostre debolezze, i gusti nuovi e curiosi, la volontà di esplorare, ma anche capaci di riconoscerci come consumatori critici, in grado di difendersi. Di fermarsi. Di preservarsi. Molti di noi non hanno la forza di ammettere di trovarsi là, in quel buco. Alla periferia di una società che ha bisogno del tuo denaro e dei tuoi like ma che non ti capisce e ti condanna. Qualcuno sta faticosamente cercando di tornare a casa. Altri si sono persi per sempre. Sedotti e abbandonati. E qui si arriva al punto. Queste anime – componente integrante della nostra società – appartengono a un insieme liquido, in continuo aumento. È la moltitudine di quelli che dipendono e che non possiamo più ignorare. E tu? Da chi dipenderai domani?

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Vietato l’accesso ai minori

Dopo tanta serietà, prendiamoci un attimo di pausa. Relax! Ah, riguardo al titolo, non si tratta di quella cosa a cui stai pensando. Forse dovrei spiegare meglio, magari con un sottotitolo. Eccolo: Manuale pratico di sopravvivenza per genitori in alto mare. Dalla clinica … alla pratica! Se sei minorenne, per il tuo bene, salta questo capitolo. Fidati. Lo so, caro lettore/lettrice brufoloso/a, non riesci a capirne il motivo ma ti sta salendo la curiosità. Quello che vorresti divorare non ti aiuterà a scampare alla mano invisibile dell’adolescenza, a quei freschi piedini stretti dentro All Star rigorosamente bianche. Ad ascelle frizzatine sotto t-shirt misto sintetico. Anzi! Questo capitolo sarà la tua kryptonite. Ecco di cosa si tratta. Nel corso delle nostre interviste abbiamo chiacchierato con il Dottor Schiappacasse, guru della materia genitori/figli, che mi ha sussurrato all’orecchio alcuni piccoli segreti sul dualismo più antico del mondo. Inutile appormi medaglie e lustrini. Questo capitolo è farina del suo sacco. Un sacco bello capiente! «Ti mando un po’ di materiale» dice, «qualche 217

presentazione, nulla di più», mentre ridacchia al telefono. Vai tranquillo, secondo me è tutta roba che ti torna utile. Dopo cinque secondi, casella di posta elettronica piena a tappo. Ancora una volta mi ha stupito. Sembrava avesse letto il libro in anteprima e capito cosa mancasse, ed è intervenuto con la sua cura da cavallo. Partendo, ad esempio, dal suo punto di vista sull’approccio “ecologico sociale”. «Assistiamo oggi a una crisi complessiva del sistema educativo nelle sue componenti sociali, famigliari e individuali. Possiamo affermare con sicurezza che la società ha disertato in questi anni dai suoi compiti educativi da molti punti di vista. Tutto e subito, evitando le fatiche e il dolore della vita perché è assente la prospettiva di un domani di un futuro. Una educazione drogata così come una finanza drogata! Nella fase dello svincolo adolescenziale è necessario per i genitori essere consapevoli delle cose buone date, essere presenti e non disertare dalla necessità di porre i limiti, essere consapevoli del loro, ancora necessario, ruolo educativo accettando di attraversare momenti inevitabili di impopolarità (anche interna). È una fase di trasformazione di tutto il progetto famiglia e i genitori sono il perno attorno al quale gira questo processo di cambiamento. Tutto è interdipendente anche con ciò che è sullo sfondo!» E come sopravvivere a tutto questo? Facile! Con il Manuale pratico di sopravvivenza in 68 punti per genitori in alto mare scritto e pensato dal Dottor Schiappacasse. «Tenetevi forte. I deboli di cuore e gli adolescenti in sala si tappino le orecchie. Sapete, oggi sono tanti gli adolescenti, sono dappertutto. Sembra quasi che nessuno voglia più essere adulto!»

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1. Ricordate: i genitori sono sempre i migliori possibili, altri non ce n’è. 2. Sono in regime di monopolio, quindi calma e gesso. 3. La famiglia non è una democrazia, non si è eletti e non si può essere mandati a casa (purtroppo). Quando va bene (ai figli) è una monarchia costituzionale, se no una monarchia e basta (altrimenti è un caos, provare per credere). 4. Buttiamo i sensi di colpa nella spazzatura nel 95% dei casi. L’errore, oggi, è aver dato troppo. 5. L’unica vera arma che hanno i figli è che gli vogliamo (troppo) bene. Questo li trasforma in giganti ma è un’allucinazione (per fortuna). 6. Onore (non mazzate) a chi si mette in discussione, questa è vera maturità! 7. Imparate a fare come i Vietcong di vecchia memoria: tratta e combatti! Se non è sufficiente comprate e studiate i 36 stratagemmi dell’arte cinese della guerra per trionfare in ogni campo della vita quotidiana. 8. Ogni tanto date un’occhiata anche all’altro figlio (quello bravo), magari ha bisogno anche lui di qualche dritta. Non dimenticatevi che anche lui ha bisogno dei genitori (te ne accorgerai). 9. I genitori devono avere servizi segreti efficienti e articolati. L’importante è che rimangano segreti, ma se venite sorpresi con le mani nella marmellata negate, negate, negate sempre anche l’evidenza, come fanno loro! A volte si hanno informazioni buone, i disgraziati fuori casa sono sempre bravissimi, educati e socievoli; altre volte meno e ciò ci servirà a rizzare le orecchie e valutare meglio il da farsi.

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10. Datevi piccoli obbiettivi di cambiamento e manteneteli: con fili di paglia si costruiscono corde robuste, basta avere la pazienza di intrecciarli. 11. Cadere nell’impulsività non è metodo e vi indebolisce, ma se una volta vi scappa un pattone che sia almeno ben dato. Non pentirtene mai, non è metodo ma un genitore può… e il figlio quella volta le avrà prese per tutte le volte che non l’avete beccato. 12. Mantenersi sempre nella propria giurisdizione, l’anima è fuori (e ci mancherebbe!). 13. Si colpiscono i comportamenti, mai la persona! 14. Sapersi mettere in discussione (mica con loro però) è un messaggio indiretto importante. Solo i veri adulti lo sanno fare, i bambini no (gli adulti sanno chiedere, i bambini pretendono). 15. È indispensabile valorizzare le radici e voi rappresentate quelle dei vostri figli, sminuirvi vuol dire indebolirli. 16. Cercate punti di appoggio concreti, duraturi e sostenibili (anche come costi). Questa è una maratona, non la gara dei 100 metri. 17. Datevi da fare subito e non pensate che poi capirà (mai visto). 18. Datevi tempi ragionevoli (un anno a girare la boa, un anno a consolidare la rotta, più o meno). 19. Valorizzate le attività socialmente utili. Cosa fanno i figli per la casa? E per la famiglia? Gli chiedevamo di più da piccoli che ora che sono grandi. Come ci siamo ridotti. A proposito, se per caso guadagnano qualcosa cosa danno in casa? 20. Non mollate appena le cose migliorano (continuate a farvi dare del Voi). 21. Cercate alleati negli altri adulti, in primo luogo nell’altro genitore. Vostro figlio ha bisogno di tutti e due. 220

22. Tutto può aspettare un giorno. Non rispondete subito, consultate poi decidete secondo il vostro metro. 23. Non delegate agli esperti, non puoi disertare. Voi siete importanti. Una cosa è avere buoni consulenti, un’altra deresponsabilizzarsi. 24. Devi essere consapevole della tua situazione critica, non sottovalutarla, attrezzati. Qua sono un po’ duro: hai tra i 40 e 50 anni; sei bravo nel non vederti davvero allo specchio; nelle foto non ti riconosci; quando provi a fare quello che facevi a vent’anni fai pena; dopo tanti anni la coppia scricchiola se non è già saltata; il tempo avanza; come ti fa sentire scemo tuo figlio nessuno come lui; sei sorpassato; dimenticavo, hai le spalle scoperte: i tuoi o non ce l’hai più o sono anziani, forse da accudire. Una bella notizia, paghi sempre tu. Hai capito, sei proprio nei guai! Vogliamo organizzarci? 25. Devono fare esperienze concrete, sporcarsi le mani, faticare e sudare. Non gli viene di certo il raffreddore, al bambino. Bisogna rischiare, è così che abbiamo imparato tutti a camminare. 26. Parla sempre di voi, non sbagliate. Non sono le parole che ci fanno cambiare ma sono i fatti (le esperienze concrete) che cambiano anche i pensieri. 27. È necessario monitorare l’appendicite, arriva la peritonite e cambia l’organizzazione: andiamo in sala operatoria ma i chirurghi siete sempre voi. 28. Applicate la cultura del faro. Mantenete la luce sempre accesa. Ci sono i satelliti ma mica li hanno spenti i fari. Chi è al largo poi deve remare e farsi i calli (non puoi fare di più ma non è poco). 29. Ascolta, confrontatevi ma seguite ciò che sentite e per cui vi sentite pronti! Ognuno ha i suoi modi e i suoi tempi. 221

30. Dovete accettare l’impopolarità (soprattutto interna). Molti, fuori, non capiscono: sono tutti bravissimi con i figli degli altri! 31. Fatevi suggerire alcune letture utili. Non penserete mica di essere gli unici? 32. Aggiornate le vostre tattiche (le vostre idee sono buone, le tattiche un po’ meno). 33. Dopo un primo ergastolo vi volete condannare a un secondo? Cosa avete combinato di così grave nella vostra vita o in quella precedente? Vedete un po’ voi. Chiedete ai vostri genitori. 34. Essere chiari non vuol dire andare d’accordo, ma almeno sapremo di avere idee diverse. In realtà, poi, è più facile trovare un punto d’incontro. 35. Rispettate, sempre, le idee dell’altro ma non cedete mai sui principi. Non sono negoziabili. 36. Lo so, è come un secondo parto. La “nascita al sociale” non finisce mai, ma senza spinte energiche non nascono! 37. Questa volta c’entrano anche i papà. A questa età dovrebbero essere più importanti loro, li lasciamo lavorare? Se ne trovano ancora? La società aiuta? Dai papà datti una mossa! 38. Chi non sbaglia è un mostro. Errare è umano, non perseverare è diabolico. 39. È necessario decidere in che direzione rischiare. Date un senso, una direzione, agli sforzi che fate. Se no vi farete un cu... così ma girerete sempre in tondo. 40. Prima o poi (più prima che poi) una bella e lunga esperienza fuori casa (12-18 mesi) loro, non nostra, sarebbe manna dal cielo. Peccato, ci manca il militare. Non potevano sostituirlo con un servizio civile obbligatorio, magari europeo? Anche per le ragazze? In molti passaggi della vita (piaccia o no) l’obbligatorietà non risolve ma aiuta. 222

41. Guardate che un mese è poco. Non imbrogliate. Alla quinta settimana si comincia a lavorare davvero, prima è una vacanza 42. È bene essere prudente ma se le uova son tutte rotte (e non solo le uova) potete essere un po’ più decisi, forse è l’ora! 43. A casa mia chi paga comanda (almeno così dovrebbe essere). 44. La maggiore età non è al compimento dei 18 anni, ma quando pagherà lui (purtroppo non sarà così presto)! 45. Ma allora è un ricatto! Bravo, hai indovinato. 46. Essere buoni vi fa sentire innocenti! Ma non è mica vero! Da chi piglierà energia tuo figlio? 47. Fate un esame di coscienza Vi piace proprio fare gli schiavi? Se avete strani gusti non lamentatevi. 48. Usate l’irruenza dell’avversario a vostro vantaggio, studiate sempre prima le mosse. Guardate che ripete sempre lo stesso schema, salami! 49. Rinforzatevi e giocate sul lungo periodo. Voi avete più esperienza! 50. Se sta cedendo non impietositevi, andate fino in fondo. Lui non avrà pietà! 51. Testa fredda e piedi caldi... così sarete pronti al momento giusto. 52. Dichiararsi impotenti può essere una posizione di grande forza! Ricordatelo. 53. La vita è la sua, ve ne siete accorti? Lasciatelo con se stesso. Sarà una sorpresa anche per lui. 54. Non trattatelo come un peluche, ha denti e artigli robusti! 55. Sono cavalli selvaggi, hanno energia, vitalità (beati loro) ma hanno bisogno di disciplina per crescere e maturare. 56. Com’è la vostra spiritualità? Non è che l’avete lasciata in soffitta o in cantina? Gli vogliamo dare una spolverata? Se 223

no come farete a lasciar andare vostro figlio? Occhio che andate giù come un piombo. 57. Imparate l’arte del non fare, usata bene è molto potente! I nostri vecchi direbbero “non zappare sul seminato”. 58. I problemi di coppia non li riguardano. Questa è solo vostra competenza (non cadete nella vostra trappola). 59. Credete nelle qualità profonde di vostro figlio. Accidenti, però, quanto sono profonde! 60. Pensate di non avere potere, ma chi lava? Chi stira? Chi fa la spesa? Chi fa da mangiare? Chi paga sempre? Dimenticavo, siete schiavi cronici! 61. Siate sereni... può sempre andare peggio! Hai visto il vicino. 62. Prendetevi ogni tanto uno spazio solo per voi, uno piccolo, magari, ma solo per voi. Dovete disintossicarvi dai lavori forzati! 63. Dobbiamo spostare il baricentro verso gli aspetti paterni della vita! Il tempo del biberon è finito da un pezzo. Non essere così egoista! 64. Passate dalla tattica dell’incentivo (non funziona) a quella del “te lo devi guadagnare (se no ciccia!)”. Ci sarà un periodo di barricate ma la fame è sempre una grande maestra! 65. Lo sapete perché di mamma ce n’è una sola? Perché due sono incompatibili con la sopravvivenza. Servono anche i papà. Ma va? Lo giuro! 66. Il viaggio della vita non si fa da soli. Cercate alleati del vostro livello e lasciate ai figli il loro. 67. Ogni tanto pregate, non tutto dipende da voi. Ci sono cose più grandi di noi, ma voi datevi da fare. 68. Proverbio cinese: il tempo migliore per piantare un albero era vent’anni fa, l’altro tempo migliore è adesso! Conclusioni: sveglia! Diamoci da fare, è ora. 224

Concludo questo capitolo, tutto dedicato al mitico dottore Schiappacasse con una sua conclusione: «Nel film Wargames il computer super intelligente a cui con troppa precipitazione e facilità avevano affidato le sorti del mondo stava scatenando una guerra termonucleare totale perché un hacker adolescente aveva avviato il relativo “programma di gioco”. Il computer non prevedeva altre possibilità che vincere o perdere e una volta avviato il programma non si sarebbe fermato fino al termine del gioco stesso. Solo all’ultimo secondo impara una terza via, una terza possibilità. Con un colpo di genio, il ragazzino che aveva incautamente avviato il gioco programma il computer per giocare a tris contro se stesso, gioco nel quale è. impossibile vincere o perdere se si compiono sempre le mosse giuste. Il computer, dopo aver capito e aver verificato con simulazioni sempre più parossistiche che il risultato finale della guerra termonucleare totale sarebbe comunque stata la distruzione completa di ambedue i contendenti ha un attimo di blackout. Poi si riavvia e dice al suo programmatore: “strano gioco questo, mr. Foulkes, l’unica mossa vincente è non giocare. Ci facciamo una partita a scacchi? Così è per noi: strana guerra questa tra genitori e figli, ne usciremo tutti vincitori o vinti! Manteniamo la consapevolezza dei nostri compiti e ruoli educativi (non disertiamo) e impariamo nuovamente a guardare più lontano!» Serve aggiungere altro? Ah! vero dimenticavo… Da questo modo di pensare e fare “clinica” è nata un’associazione di auto mutuo aiuto dedicata ai genitori di adolescenti in difficoltà. Vale la pena conoscerla! Vedi www.genitoriinsieme.org

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare, ancora una volta, Edizioni Epoké e tutti i graditi ospiti: Vanessa Fieschi, Samanta Czarnota, Daria Ubaldeschi, Giulia Calamai, Maria Carlucci, Valentina Usala, Ernesto De Bernardis, Giorgio Schiappacasse e Domenico Trocino. Persone che hanno contribuito alla realizzazione di questo libro, per la professionalità e l’attenzione manifestata nei miei confronti. Sono donne e uomini che hanno creduto in questo progetto e che quotidianamente sono schierati in prima linea nella lotta alle dipendenze. I loro nomi potranno esseri sconosciuti (ne dubito). Non sono certo rockstar e non troverete le loro fotografie sui rotocalchi. Ma rappresentano la sottile linea rossa che divide due mondi. Il mondo dei normali e “quelli là”. I tossici, i matti, gli ubriaconi, quelli che si sono mangiati tutto con le carte, alle macchinette, con le donne. Quelli strani. Quelli diversi. I protagonisti di questo libro sono coloro che ci aiutano quando siamo in difficoltà. Senza fare domande, senza dare giudizi. Spesso lavorano nelle feste e di notte, ma difficilmente li sentirete lamentarsi del proprio lavoro. Perché lo amano. 226

Perché ci credono e serve a farli sentire vivi, necessari. Spesso sono rompiscatole e scorbutici ma anche quello fa parte del “pacchetto eroico”, prendere o lasciare. Si tratta di amici, conoscenti e quasi sconosciuti, con cui ho piacevolmente percorso un altro pezzo di strada. Grazie alle mie tre famiglie che sono il motore di tutto questo mio esistere e prodigarmi. Nulla avrebbe senso senza di loro. Grazie infine alla mia squadra lavorativa, a tutti i miei amici e colleghi sparsi in giro per l’Italia e per il mondo. Come sempre, l’avventura non finisce certo qui. Alla prossima!

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Danilo Lazzaro

Classe 1973, nasce a Novi Ligure, si arruola giovanissimo nella Guardia di Finanza e ha avuto il privilegio di prestare servizio presso alcuni dei più prestigiosi reparti operativi delle Fiamme Gialle. Negli incarichi ricoperti in questo quarto di secolo, si è occupato in maniera preminente di polizia economico finanziaria, con particolare riferimento al contrasto delle sostanze stupefacenti e della criminalità organizzata. Nel 2016 ha pubblicato per Edizioni Epoké NSP - Nuove sostanze psicotrope. Come ti drogherai domani?, ha scritto numerosi articoli e partecipato, in qualità di relatore, a convegni e conferenze specialistiche. ND - Nuove dipendenze. Da chi dipenderai domani? (2019, Edizioni Epoké) si occupa dell’uomo e delle sue fragilità. È possibile contattarlo all’indirizzo di posta elettronica: [email protected]

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Saggi e ricerche Matteo Verda, Politica estera e sicurezza energetica Francesco Poropat, The Balkan Democratic Puzzle Lorenzo Trucco, Il trust Candidate and Leader Selection, Forza Doria Enrico Borghetto, Keeping the pace with Europe Antonella Seddone e Marco Valbruzzi (a cura di), Le primarie da vicino Melania Busacchi e Locci Emanuela, Tutte mediterranee Luca Cordani, Attacco, difesa e calunnia Roberto Ibba, Emanuela Locci e Antonella Seddone (a cura di), Studi storici politici internazionali Paolo Gallo (a cura di), Egittologia a Palazzo Nuovo Simona Biancu e Alberto Cuttica, Partiti “low cost?” Marco Valigi (a cura di), Caspian Security Issues Matteo Verda, Azerbaijan. An introduction to the country Carlo Pala e Stefano Rombi, Fallire per vincere? Laura Canale, Paolo Franzosi, et. al, Contro L’Europa Giovanni Nacci, Open Source Intelligence Abstraction Layer Giovanni Nacci, Open Source Intelligence Application Layer Luisa Faldini (a cura di), Dal Mediterraneo al Baltico Maria Elisabetta Lanzone, Il MoVimento 5 Stelle. Il popolo di Grillo dal web al parlamento Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi, A Changing Republic Valentina Usala (a cura di), (s)legàmi. Cinque storie di legami con l’autismo Giulia Sandri e Antonella Seddone (a cura di), The Primary Game. The primary Election and the Italian Democratic Party

Danilo Lazzaro, Nuove sostanze psicotrope Marino De Luca e Stefano Rombi (a cura di), Selezionare i presidenti. Le primarie regionali in Italia Federico Fornaro, Fuga dalle urne. Astensionismo e partecipazione elettorale in Italia dal 1861 a oggi Andrea Catanzaro e Sara Lagi (a cura di), Monisms and Pluralisms in the History of Political Thought Fabio Sozzi, Teoria e tecniche della ricerca politica con SPSS Gianfranco Pasquino, No positivo. Per la Costituzione. Per le buone riforme. Per migliorare la politica e la vita Federico Fornaro, Elettori ed eletti. Maggioritario e proporzionale nella storia d’Italia Marco Valigi, Sicurezza ed energia nel Caspio Flavio Chiapponi, Democrazia, populismo, leadership: il MoVimento 5 Stelle Olivier Razemon, Il potere dei pedali. Come la bicicletta può trasformare la nostra società Carlotta Scozzari, Banche in sofferenza. La vera storia della Carige di Genova Jeff Halper, La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale Marina D’Agati, Chi te l’ha detto? I rumors da polifemo al web Marco Valigi, Gabriele Natalizia e Carlo Frappi, Il ritorno della geopolitica Andrea Catanzaro, Federica Falchi e Sara Lagi (a cura di), Monisms and Pluralisms in the History of Political and Social Models Simone Tedeschi, Il Partito Democratico. Origine, organizzazione e identità

Giampaolo Grassi, Commedianti. Andreotti, Berlusconi e la mafia Angelo Scotto, Emergenza permanente. L’Italia e le politiche per l’immigrazione Mara Morini e Maria Elisabetta Lanzone, Parma: 5 anni a 5 stelle? Paolo Maresca, Il diabete. Fra genetica, evoluzione e biodiversità Ida Basile, Sulla soglia. La costruzione dell’identità attraverso i miti greci di “non passaggio” Luca Lovelli, Fausto e Costante. Le parole di chi li ha amati, vissuti e raccontati Davide Ravan, George Weah: Run African Star Stefano Procacci, Forza, potere e teoria politica. La «fisica del potere» di Foucault tra filosofia e scienza politica Roberto De Luca e Luciano M. Fasano, Il Partito Democratico dei nativi Matteo Vespa, Europa e India: partiti a confronto Fabio Turato, La germania populista. Voto e protesta di Alternative für Deutschland. Daria Ubaldeschi, Il problema non è il ragno. La cura di sé tra narrazione e psicoterapia Adriano Pugno, Hanno ucciso l’Uomo Gatto. La televisione italiana dal 1995 al 2005