«Novellus pazzus». Storie di santi medievali tra il Mar Caspio e il Mar Mediterraneo (secc. IV-XIV) 9788860324436, 9788860324474

Le tracce di una tipologia comportamentale rubricabile con certezza sotto la voce "follia per Cristo" interess

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Italian Pages 241/242 [242] Year 2017

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«Novellus pazzus». Storie di santi medievali tra il Mar Caspio e il Mar Mediterraneo (secc. IV-XIV)
 9788860324436, 9788860324474

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‘Alti Studi di Storia intellettuale e delle Religioni’ Series The volumes featured in this Series are the expression of an international community of scholars committed to the reshaping of the field of textual and historical studies of religions and intellectual traditions. The works included in this Series are devoted to investigate practices, rituals, and other textual products, crossing different area studies and time frames. Featuring a vast range of interpretative perspectives, this innovative Series aims to enhance the way we look at religious and intellectual traditions.

Series Editor Federico Squarcini, Ca’ Foscari University of Venice, Italy Editorial Board Piero Capelli, Ca’ Foscari University of Venice, Italy Vincent Eltschinger, École Pratique des Hautes Études, Paris, France Christoph Emmrich, University of Toronto, Canada James Fitzgerald, Brown University, USA Jonardon Ganeri, British Academy and New York University, USA Barbara A. Holdrege, University of California, Santa Barbara, USA Sheldon Pollock, Columbia University, USA Karin Preisendanz, University of Vienna, Austria Alessandro Saggioro, Sapienza University of Rome, Italy Cristina Scherrer-Schaub, University of Lausanne and EPHE, France Romila Thapar, Jawaharlal Nehru University, India Ananya Vajpeyi, University of Massachusetts Boston, USA Marco Ventura, University of Siena, Italy Vincenzo Vergiani, University of Cambridge, UK Editorial Coordinator Marianna Ferrara, Sapienza University of Rome, Italy

Isabella Gagliardi

«NOVELLUS PAZZUS» STORIE DI SANTI MEDIEVALI TRA IL MAR CASPIO E IL MAR MEDITERRANEO (SECC. IV-XIV)

Soc ietà

Editrice Fiorentina

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento SAGAS dell’Università degli Studi di Firenze (fondi ex 60%)

© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 [email protected] www.sefeditrice.it isbn:

978-88-6032-443-6 ebook isbn: 978-88-6032-447-4 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Il deserto di Gareji (foto di Mirian Kiladze)

Così fa il tempo le parole cadere, et per l’uso dell’altre nuove su crescono, et acquistano gratia, fino a che consumate ancor esse a poco a poco dalla vecchiezza mancano, perché finalmente e noi, e tutte le nostre cose mortali sono. Questa mutatione et varietà ordinatamente procede dal mischiarsi insieme diverse nationi o nelle frequentatissime fiere, o negli esserciti, ne’ quali genti di diversi linguaggi si trovano, i quali ragunandosi e communicando insieme, formano perpetuamente voci, e vocaboli nuovi, che poi durano, o mancano, secondo che dall’uso ricevuti o riprovati sono. Della vicissitudine o mutabile varietà dell’universo, di Luigi Regio francese, vol. 2, in Venetia, Presso Aldo, 1592, p. 44

A chi mi ha amato e mi ama A chi ho amato e amo Con la follia che ne consegue

Indice

Lista delle Abbreviazioni utilizzate in nota e nella bibliografia Introduzione 1. L’ Orientale lumen: monaci asceti “folli” a causa di Cristo Folli per Cristo tra Siria ed Egitto I testi monofisiti e l’Islam dei sufi Dalla Siria verso la nuova e l’antica Roma Simeone salòs e gli altri Andrea salòs e il canto del cigno della santa follia Verso il cuore del Mediterraneo

2. L’Oriente in Occidente: le icone dei santi padri nella latinità medievale (secc. VII-XI) Oltre le traduzioni: la liturgia e le Regole Seduzioni orientali nelle agiografie latine più antiche Il ritorno alle origini Dalla Focide alla Puglia: Nicola il Pellegrino

3. Folli per Cristo o folli per malattia? Giuristi, filosofi e teologi a confronto (secc. XI-XIV) Il diritto, ovvero la “struttura” Il diritto e l’ortodossia cristiana: slittamenti semantico-concettuali Le enciclopedie La medicina La teologia di fronte alla santa follia La santa follia nei testi di grande diffusione

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4. “Novellus pazzus in mundus”: croce e follia da Francesco d’Assisi a Jacopone da Todi Semplicemente Francesco Francesco e i suoi compagni La reputazione di stoltezza: frate Ginepro L’esaltazione della stoltezza: i Fioretti L’amore per la stoltezza e la stoltezza d’amore: Jacopone da Todi

5. «Sotto questo confalone de pazia»: da Pietro Crisci di Foligno a Giovanni Colombini “Faciebam trufas de Petruccio”: Pietro da Foligno Impazzire d’amore per Cristo tra prassi devota e sospetto d’eresia Sant’Alessio icona di un monaco e di un mercante senese del Trecento “Fate del pazzo”: Giovanni Colombini Gridare il Nome di Gesù e impazzire per Lui: Giovanni Colombini e i suoi compagni

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Conclusioni

193

Bibliografia

197

Fonti

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Indice degli antroponimi

233

Indice dei toponimi

239

Lista delle Abbreviazioni utilizzate in nota e nella bibliografia

AA.SS. = Acta Sanctorum quotquot toto orbe coluntur vel a catholicis scriptoribus celebrantur, notis illustravit I. Bollandus Societatis Jesu theologus, operam et studium contulit G. Henschenius eiusdem Societatis theologus, Anversa - Gennaio 1 - Ottobre 3, 1643-1770 Bruxelles - Ottobre 4-5, 1780-1786 Tongerloo - Ottobre 6, 1794 Bruxelles - Ottobre 7 - Novembre, 1845 Bruxelles - Propyleum ad Acta Sanctorum Novembris, 1910 Bruxelles - Propyleum ad Acta Sanctorum Decembris, 1940 B.S. = Bibliotheca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1961-1970 C.C. = Corpus Christianorum series latina et continuatio mediaevalis, Turnhout, Brepols, 1953 D.B.I. = Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1960 D. Sp. = Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, doctrine et histoire, ed. M. Villier, F. Cavallera e J. De Guibert, a cura di, Paris, Ed. Beauchesne, 1932-1995 B.H.G. = F. Halkin, a cura di, Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1957 (3 ed.) B.H.O. = P. Peeters, a cura di, Bibliotheca Hagiographica Orientalis, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1910 - Subsidia Hagiographica n° 10| P.G. = J. P. Migne, a cura di, Patrologiae cursus completus omnium S. Patrum, Doctorum scriptorumque ecclesiasticorum sive latinorum sive graecorum, Parisiis, Garnier, 1857-1866 P.L. = J. P. Migne, a cura di, Patrologiae cursus completus sive Bibliotheca universalis, integra, uniformis, commoda oeconomica, omnium SS. Patrum, Doctorum Scriptorumque ecclesiasticorum, Parisiis, Garnier, 1844-1864 P.O. = R. Graffin, F. Nom, a cura di, Patrologia Orientalis, Parigi, Firmin-Didot, 1897-1907 M.E.F.R.M = «Mélanges de l’Ecole Française de Rome Moyen Age et Temps Modernes» M.G.H. = Monumenta Germaniae Historica. Edita iussu regis Caroli Alberti, Augusta Taurinorum, 1836-1955

Introduzione

Le tracce di una tipologia comportamentale rubricabile con certezza sotto la voce “follia per Cristo” interessarono in prima istanza la pars Orientis del mondo tardo antico e medievale, laddove si verificò addirittura un conio onomaturgo, derivando un termine ad hoc per indicare chi seguiva le orme di Cristo comportandosi da pazzo: salòs (maschile) e salè (femminile)1. Disponiamo infatti di numerosi resoconti relativi a uomini e donne vissuti – o semplicemente venerati – nei territori bizantini tra il IV e il XII secolo che sono passati alla storia come santi “folli a causa di Cristo” (saloì). Si trattava di asceti dediti alla simulazione della follia per non rischiare la superbia spirituale e, al contempo, per essere liberi di agire in qualsiasi situazione sociale e frequentare anche gli emarginati più sospetti, in primo luogo gli eretici o le prostitute, al fine di ricondurli a Dio2. Le informazioni su questi individui sono affidate a testi in lingua greca e siriaca che alimentarono sia le fonti liturgiche cristiane, determinando così la compilazione di altre agiografie, sia, all’indomani dell’islamizzazione, altre scritture, soprattutto di ambiente sufi, dedicate al folle di Dio (malāmati). Cfr. L. Rydèn, The Holy Fool, in S. Hackel cur., The Byzantine Saint: University of Birmingham 14th Spring Symposium of Bizantine Studies, London, Fellowship of Saint Alban and Saint Sergius, 1981, pp. 106-199, p. 107; cfr. inoltre A Patristic Greek Lexikon, Oxford, Oxford Clarendon Press, 1961, p. 1222. Sul fenomeno storico si consulti il recente S. A. ivanov, Holy Fools in Byzantium and Beyond. Translated from Russian by Simon Franklin, New York, Oxford University Press, 2006. In ogni caso una prima bibliografia sull’argomento è reperibile in The Ashgate Research companion to Byzantine Hagiography, volume II: Genres and Contexts, ed. by S. Efthymiadis, Surrey-Burlington, Ashgate, 2014. pp. 368-372. 2 Restano imprescindibili alcune voci pubblicate nel Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, doctrine et histoire, a cura di M. Villier, F. Cavallera e J. De Guibert, in particolare la voce Folie de la croix, curata da André Derville ivi, V, 1964, coll. 635-650; Fous pour le Christ, ivi, coll. 752-770 curate da Thomas Spidlìk e da François Vandenbrouke. 1

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Perciò questo libro prende l’avvio individuando e illustrando le interpretazioni e le pratiche della follia per Cristo trasmesse dalle fonti in greco, siriaco e arabo, rintracciandone i nessi e le influenze reciproche e trasversali. Attraverso la disamina delle fonti si giunge a una prima conclusione: il “folle per Cristo”, almeno nelle testimonianze più antiche e che funzionarono da modello originale e da vettore, è quasi sempre un monaco che ha raggiunto un livello talmente alto di ascesi e di perfezione spirituale da poter correre il rischio di lasciare il monastero e di vivere nel mondo, al fine di convertire i peccatori e di guadagnare le anime a Cristo. Vi sono infatti saloì che restano nel monastero e altrettanti, forse i più famosi, che ne escono e vanno tra i laici «a prendersi gioco del mondo» protetti dalla saldezza della loro fede. La seconda conclusione a cui si perviene è che il modello di sequela Christi tracciato dalle memorie agiografiche e liturgiche dei saloì fu elaborato nell’area corrispondente all’antica Siria e da lì si diffuse seguendo grossomodo due direttrici, una verso est e l’altra verso ovest, passando dal Sinai e arrivando nei territori egiziani. Attraverso i testi siriaci si diresse verso est e fu veicolato nei territori dell’ex impero sasanide ormai islamizzati, mentre, attraverso il monachesimo sinaitico ed egiziano raggiunse l’Africa del nord. Da qui i testi greci del monachesimo delle origini migrarono nella parte occidentale dell’Impero a cominciare dall’epoca giustinianea e seguendo gli assi politici della conquista bizantina (territori iberici e territori italiani) e l’asse politico-religioso dell’alleanza tra il patriarcato di Alessandria e il patriarcato di Roma. Il centro propulsore delle fonti di nostro interesse può essere identificato nell’Egitto tardo antico, dove furono convogliate anche le memorie del monachesimo sinaitico palestinese, per poi diffondersi nelle terre al di là del mare. Memorie successivamente tradotte in latino e che funsero da veicolo della follia per Cristo nella media latinità, ovvero le Vitas Patrum, l’Historia Monachorum in Aegypto di Rufino, l’Historia Lausiaca di Palladio, il Liber Geronticon di Pascasio, il Liber Vitas Sanctorum Patrum Orientalium di Valerio di Bierzo e il IV libro dei Dialoghi di Gregorio Magno. Quelle scritture trasmisero alla latinità medievale la percezione e la pratica della “santa follia”. Il messaggio, proveniente dall’Oriente dei primordi monastici, attecchì nell’ambiente monastico occidentale, unitamente alle memorie liturgiche dei saloì bizantini e, in particolare, di Simeone salòs. Così quel messaggio e la liturgia alimentarono esperienze ascetiche molto connotate, che si consumarono nella pars Occidentis rielaborando in maniera peculiare, perché contestuale, l’idea di «farsi stolti per esser savi»3. Si ravvisa quindi nel movimento di riforma della chiesa dell’XI-XII Lezioni sacre e morali su l’epistole di san Paolo ai Corinti dette nella chiesa cattedrale di Fano dal canonico teololgo conte Giuseppe Laviny, patrizio romano e della città di San Severino, Tomo I, In Ancona, Nella Stamperia di Pietro Paolo Ferri, MDCCLXIX, p. 281. 3

Introduzione

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secolo e nell’eccezionale stagione culturale nota come la rinascita del XII secolo, l’humus in cui furono distillate una rappresentazione e una pratica mediolatine della santa follia. Allora infatti i racconti custoditi nei testi veicolari ricordati sopra e la loro riproposizione in re, effettuata da numerosi monaci riformatori che decidevano di vivere alla stessa maniera in cui avevano vissuto gli antichi monaci dell’Historia Lausiaca o degli altri testi, evasero dagli horti conclusi dei monasteri per iniziare un lungo pellegrinaggio immateriale e fisico tra i devoti. L’intensificarsi delle predicazioni già in epoca pre-Mendicante, contestualmente al passagium transmarino e alla riforma della chiesa, ottenne l’effetto di far circolare gli esempi di santità degli antichi padri del deserto sinaitico e palestinese. L’uso pubblico della memoria dei santi e delle sante folli per Cristo avvenne contestualmente alla riproposizione del mito della chiesa primitiva, dove trovò un eccellente terreno di coltura, e gli eroici furori degli antichi monaci del deserto divennero magistri in scriptis della vita cristiana congiuntamente alla pastorale dell’Amor Dei. La pars Occidentis del mondo medievale riconobbe in alcune esperienze di santità il marker della pazzia d’amore per Cristo: uomini e donne che sembravano comportarsi insensatamente, in realtà, erano percepite come uomini e donne di Dio perché anche l’Occidente possedeva ormai la categoria interpretativa necessaria a rubricare così quei vissuti. La ricostruzione e l’analisi di questa categoria interpretativa è affidata al terzo capitolo, dove si propone una lettura sequenziale e incrociata di fonti giuridiche, mediche, filosofiche e teologiche, evidenziandone le parti utili alla comprensione del fenomeno. Peraltro si tratta di un fenomeno che incide sulla percezione della malattia mentale, perché costituisce, finché le società in cui si verifica lo leggono come tale, una sorta di memento costante: Dio potrebbe parlare anche attraverso chi sembra folle, dunque è necessario il discernimento (nel senso tecnico di discretio spirituum) per capirlo. E, in ogni caso, la follia non si presta a essere eiettata dal consesso civile così e semplicemente. Il trattamento riservato a tutti i portatori di una simile alterità è quindi – foucaultianamente – una spia eccellente dei sistemi di valori che governarono, in passato, intere società4. Il capitolo si conclude con un affondo teorico sulla santa follia tout court, identificandone i tratti distintivi secondo Cfr. ad esempio gli accenni presenti in I. Metzler, Fools and idiots? Intellectual disability in the Middle Ages, Manchester, Manchester University Press, 2016, in particolare le pp. 36, 41, e Y. Rotman, Insanity and Sanctity in Byzantium. The ambiguity of religious experience, Cambridge, Massachussets & London, Havard University Press, 2016. Cfr. J. M. Fritz, Le discours du fou au Moyen Âge, XIIe-XIIIe siècle. Ètude comparée des discours littéraire, médical, juridique et théologique de la folie, Paris, PUF, 1992 e, in particolare le pagine iniziali in cui l’autore sottolinea la collocazione della figura del folle su un territorio all’incrocio tra pratiche, saperi e luoghi di produzione dell’etica e della conoscenza diversi e complementari, pp. 6-18. 4

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la letteratura teoretica mediolatina che la riguarda, ovvero il fatto che possa esistere soltanto in presenza di un sentimento d’amore eccezionalmente forte tra la creatura e il Creatore, da un lato, e che sia accompagnata da una prassi rigidamente penitenziale e obbediente all’autorità, dall’altro. La santa follia occidentale possiede infatti un’intima natura staurologica e mimetica del Cristo della Passione. Gli ultimi due capitoli analizzano le testimonianze agiografiche in cui si rintraccia l’esistenza di una declinazione tutta occidentale della pratica della follia per Cristo, indagando figure e testi compresi nell’arco cronologico che si estende tra Francesco d’Assisi e Giovanni Colombini da Siena. In questo capitolo si ipotizza che la veicolazione del modello del folle per Cristo in Occidente sia avvenuta anche grazie alla letteratura moralizzante in volgare, identificando in un gruppo di racconti composti sul suolo francese da uno scrittore vicino all’ambiente dei monaci cistercensi nel XII secolo (le Vies des Pères) un vettore privilegiato. Quel testo fu subito tradotto nei volgari italiani e circolò moltissimo; addirittura può darsi che abbia influito sulla conversione di Francesco d’Assisi semantizzandone i comportamenti più prossimi alla prassi para-eremitica. Ripercorrendo le numerose esperienze dei saloì occidentali, si evidenzia come la santa follia, per quanto declinata con tutti i correttivi tipici della società mediolatina, si sia comunque rivelata una pratica tendenzialmente anomica e potenzialmente anti-istituzionale. Ormai sganciatasi dall’ambiente monastico, iniziò a essere depotenziata già nel corso del XIV secolo da parte dell’establishment ecclesiastico, cercando di ricondurla all’interno di un alveo il più possibile istituzionale. Parallelamente, grazie all’influenza esercitata dalle fonti costantinopolitane e da anonimi asceti girovaghi occidentali (ad esempio il non meglio identificato Procopio di Ustjug), l’idea della santa follia attecchì in area russa, ispirando le scelte esistenziali dei cosiddetti yourodivij la cui presenza non conosce soluzioni di continuità dal Medio Evo fino allo scorcio del XX secolo 5. Cfr. Le sante stolte della chiesa russa. Antologia a cura di L. Coco e A. Sivak, Roma, Città Nuova, 2006, oltre ai testi si veda l’Introduzione di lucio coco. Per la spiegazione di yurodivji si veda M. c. Ferro, Tradurre i lemmi russi appartenenti al lessico agiografico slavo ecclesiastico. Difficoltà e proposte, «Studi Slavistici», IX, 2012, pp. 133-148, in particolare pp. 138-140. Cfr. inoltre S. Kobets, The Russian Paradigm of Iurodstvo and its genesis in Novgorod, «Russian Literature», XLVIII, 2000, pp. 367-388; m. p. pagani, Le maschere della santità: attori e figure del sacro nel teatro antico-russo, Bari, Paolo Malagrinò ed., 2004; Ead., Starec Afanasij. Un folle in Cristo dei nostri giorni, Milano, Àncora ed., 2005; l’aggiornata sintesi ancora di S. Kobets, Lice in the Iron Cap: Holy Foolishness in Perspective, in Holy Foolishness in Russia: New Perspectives, eds P. Hunt, S. Kobets, Bloomington, Bloomington (IN), Slavica Publisher, 2011, pp. 15-40; m. p. pagani, The Parodoxical “Show” of the Holy Fool/ Il paradossale “show” del santo folle, in Otherness/Alterità, ed. by A. Bianco, Roma, Aracne, 2012, pp. 49-56 e pp. 133-140; T. Gudelyte, Lo yurodivji: da mito popolare a emblema letterario, «Quaderni di Palazzo Serra», 23, 2013, pp. 71-92 e T. maravic’, Vado a prendermi gioco del mondo. Dal folle in Cristo a Bisanzio e in Russia al 5

Introduzione

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Il libro tuttavia si arresta a quest’altezza cronologica perché la declinazione russa della santa follia è contestuale a un altro panorama storico – e necessita di altre competenze rispetto a quelle di chi scrive -, mentre per quanto riguarda l’Occidente il Trecento segna un passaggio di testimone epocale. Da allora in poi, infatti, coloro che avevano ereditato e messo in pratica gli atteggiamenti e gli insegnamenti dei modelli di santità orientali diventano essi stessi modelli di santità e determinano storie nuove e diverse. Vi è insomma un passaggio di testimone: sono Francesco d’Assisi e gli altri santi a diventare le icone delle riforme successive. La stesura di questo lavoro è stata possibile anche perché esiste una buona letteratura critica di riferimento: numerosi saggi specialistici recenti hanno costruito una casistica piuttosto ampia di esperienze vissute in luoghi diversi e distanti, costellando le terre che dal Mediterraneo giungono fino al Mar Nero e al Mar Caspio6. Altre se ne sono rintracciate ma, soprattutto, si è cercato di individuarne i nessi reciproci e le cornici teoriche e interpretative di riferimento, al fine di traghettare la fenomenologia dei “casi” nella storia.

performer contemporaneo, Firenze, VoLo, 2016. Interessante anche il testo di A. G. birzache, The Holy Fool in European Cinema, New York – London, Routledge, 2016. 6 Cfr. infra nota 12. In ogni caso la bibliografia alla quale alludo nel testo sarà richiamata infra nelle note opportune. Grazie a essa, e grazie a nuove ricerche che ho condotto su testi, documenti e contesti della follia per Cristo sono potuta ritornare a frequentare un oggetto di studio che, in passato, avevo già affrontato e che adesso posso arricchire e articolare diversamente. Per chiarezza mi sia concesso di ricordare i miei studi precedenti a questo: Innamorate pazze di Cristo: mistica follia e donne sante nel Medioevo: brevi note, in Come l’orco nella fiaba, Studi per Franco Cardini, Firenze, Sismel, 2010, pp. 417-424; La ricerca della disuguaglianza. La santa follia come via d’accesso allo spazio pubblico, in Mai praticamente uguali. Studi e ricerche sulla disuguaglianza nelle tradizioni religiose, a cura di Federico Squarcini, Firenze, SEF, 2007, pp. 179-194; Pazzi per Cristo, santa follia e mistica della Croce in Italia centrale (secc. XIII-XIV), Siena, Protagon 1997; I saloi, ovvero le “forme paradigmatiche” della santa follia, «Rivista di Ascetica e Mistica», 1994, pp. 361-411. Desidero infine ringraziare Albrecht Berger e Sergey Ivanov per avermi invitato come relatrice al convegno internazionale “The Holy Fool Symposium” che si è tenuto a Monaco il 12 settembre 2015. L’invito è stata un’ulteriore e importante occasione di riflessione sull’argomento di questo libro.

1. L’ Orientale lumen: monaci asceti “folli” a causa di Cristo

La parola deputata a identificare chi è divenuto folle per amor di Cristo è il termine bizantino salòs (m.) – salè (f.)1. Gli specialisti ne hanno discusso a lungo l’etimologia, dividendosi tra quanti ne sostenevano l’origine siriaca e quanti, al contrario, la escludevano completamente. Peter Hauptmann e Thomas Spidlìk erano convinti che il siriaco saklā, usato nella versione Peshitta della Scrittura per tradurre il sostantivo moròs (pazzo), che compare nella Prima Lettera ai Corinzi di Paolo al versetto 3:18, fosse l’antenato più probabile di salòs2. Invece Antoine Guillaumont, Josè Grosdidier de Matons e Lennart Rydèn hanno rigettato quell’etimologia perché la versione siriaca più antica della Lettera ai Corinzi traduce il versetto 1 Cor 4:10 (in cui compare moroì) con shatayya, mentre la parola saklā è trasmessa dalla versione Peshitta seriore, usata dal teologo Isho’dad di Merv († circa 850) nel IX secolo per effettuare la propria esegesi del testo3. Dunque saklā, Preciso che, laddove esistano traduzioni affidabili delle fonti, vi ricorrerò nel testo, riservando alle note le citazioni dalla fonte in originale e soltanto nel caso in cui il testo citato presenti particolarità lessicali tali da poter essere compiutamente apprezzate soltanto nella lingua d’origine. Inoltre nel testo ho evitato di ricorrere a caratteri alfabetici non latini, preferendo utilizzare la traslitterazione allo scopo di non appesantire troppo la lettura. 2 P. Hauptmann, Die Narren um Christi Willen in der Ostkirche, «Kirche im Osten», 2, 1959, pp. 27-49, p. 34, n. 40; Th. Spidlìk, Four pour le Christ en Orient, D.Sp., 5, 1964, coll. 752- 761, col. 753. Premetto a questo capitolo un ringraziamento pubblico a Paolo Cesaretti, per la cortesia, la competenza e l’attenzione con cui si è relazionato con me durante la stesura di questo testo e che mi onora. Va da sé che gli inevitabili errori sono tutti farina del mio sacco. 3 A. Guillaumont, La folie simulée, une forme d’anachorèse, in id., Ètudes sur la spiritualité de l’Orient chrétien, «Spiritualité orientale», 66, 1996, pp. 125-130; J. grosdidier de matons, Les thèmes d’édification dans la vie d’André salòs, «Travaux et mémoires. Centre de Recherche d’histoire et de civilisation byzantines», IV, 1970, pp. 277-328 p. 279, n. 7; L. Rydèn, Das Leben des heiligen Narren Symeon von Leontius von Neapolis, Uppsala, Studia Graeca Upsaliensia, IV, 1963, p. 21; v. dèroche, Symeon salos le fou en Christ, Paris, Paris Mediterranéa, 2000. 1

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in realtà, compare nelle fonti in un periodo successivo all’entrata in uso del termine salòs4. Nei sinassari (calendari liturgici) e nei lemmi dei kontakaria (innari liturgici) egiziani e siriaci più vetusti (VI secolo circa) compare infatti il termine salòs, unito alla formula dià Christòn, e si sostituisce al canonico aghiòs, cioè santo5. Salòs in definitiva significa “santo folle” senza essere preceduto da aghiòs e indica quanti si santificarono simulando la pazzia. In altre parole fin dal suo esordio il termine identifica chiaramente una tipologia di santità e al contempo una tecnica di santificazione ben precisa: la finzione della pazzia6. Isho’dad di Merv, Commentary on the Epistles of Paul the Apostle, ed. m. dunlop gibson, The Commentaries of Isho’dad of Merv, Bishop of Hadata (c. 850 A.D.), 5.1-2. The Epistles of Paul the Apostle, (Horae Semiticae, 11) Cambridge, Cambridge University Press, 1916, vol. 5, 1, p. 42, l. 15. Cfr. S. P. Brock, La Bibbia in siriaco, Roma, Lipa, 2008 (ed. originale S. Brock, The Bible in the Syriac Tradition, (2nd ed. revised), Piscataway NJ, Gorgias Editions, 2006), pp. 13-18. 5 Per una presentazione di queste fonti liturgiche si veda J. grosdidier de matons, Romanos le Mélode et les origines de la poésie religieuse à Byzance, Paris, Beauchesne, 1977, in particolare le pp. 67-98; M. alexiou, After Antiquity. Greek Language, Myth and Metaphor, Ithaca and London, Conrell University Press, 2002, pp. 52-65. A breve dovrebbero essere pubblicati gli atti del convegno Hymns of the First Christian Millenium – Doctrinal, Devotional and Musical Pattern, tenutosi al King’s College di Londra nei giorni 9 e 10 giugno 2014, e in particolare il saggio di Sebastian Brock di Oxford relativo a Interaction between Syriac and Greek Hymnography e di Anna Rogozhina, ancora di Oxford, su Citizens of the Heavenly City: an Exchange of Saints between Egypt and Syria as Witnessed by Hymnographical Material che saranno di sicuro interesse per quanto trattato in questa sede. 6 Per quel che concerne Simeone salòs e Andrea salòs vd.: Leontii Vita S. Symeoni Sali confessoris, in J. P. Migne cur., Patrologiae cursus completus omnium S. Patrum, Doctorum scriptorumque ecclesiasticorum sive latinorum sive graecorum, series graeca, Parisiis, 1857-1866 (d’ora innanzi P.G.), 93, coll. 1668-1748; Simeone ficte stultus et Johannes solitarii prope Emesam, in P. Peeters, a cura di, Bibliotheca Hagiographica Orientalis, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1910, (Subsidia Hagiographica 10), d’ora innanzi B.H.O., p. 247; Symeon salus seu stultus apud Emesam in Syria, in F. Halkin a cura di, Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1957 (3 ed.), n. 1677, 1677b, 1677c, p. 256; L. Ryden, Das leben des Heiligen Narren Symeon von Leontios von Neapolis, cit.; V. Déroche, Etudes sur Léontios de Néapolis, Uppsala, Almqvist & Wiksell, [Acta Universitatis Upsaliensis 3], Studia Byzantina Upsaliensia 3, Uppsala 1995; Id., Symeon salos le fou en Christ, cit.; D. Krueger, Symeon the Holy Fool: Leontius’s “life” and the Late Antique City, Berkeley-Los Angeles and London, University of California Press, 1996; P. A. Ubierna, El santo en la Sociedad Bizantina: una hagiografia de la estulticia de Simeòn de Emesa à Andrès de Costantinopla, «Byzantion nea Hllàs», 1997, pp. 235248; J. S. Palmer, El lenguaje corporal de Siméon de Èmesa “loco por causa de Cristo”, in El cielo en la tierra. Estudios sobra el monasterio bizantino, a cura di P. Bàdenas, A. Bravo, I. Pèrez Martìn, Madrid, Nueva Roma, 1997, pp. 101-122; F. J. Fuertes, Simeòn ‘el Loco’: los rasgos demonìacos de un monje aparentemente estraño, «Collectanea Christiana Orientalia», 9, 2012, pp. 81-103; S. Ivanov, Holy Fools in Byzantium and Beyond, cit.; Nicephori presbyteri constantinopolitani Vita S. Andreae sali, P.G., 111, p. 628, Corollarium, Acta Sanctorum quotquot toto orbe coluntur [..] collecta, digesta, illustrata a Godefrido Henschenio et Daniele Papebrochio, Venetiis, apud J. Baptistam Albrizzi Hieron. fil. et Sebastianum Coleti, 1737-1741 (d’ora innanzi AA.SS.), Maggio 6, pp. 1*-111*; J. grosdidier de matons, Les thèmes d’édification dans la vie d’André salòs, cit.; C. mango, The life of St. Andrew The Fool reconsidered, «Rivista di Studi Bizantini e Slavi», II, 1982, pp. 297-313; G. velculescu, Die Vita des Heiligen Andrea Salòs in den rumänischen Handschriften, in L. Taseva, M. Jovčeva, K. Fos [Christian Voss], T. V. Pentkovskaja a cura di, Prevodite prez XIV stoletie na Balkanite. Doklady otmeždunarodnata konferencija (Sofija, 26-28 4

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Quella tecnica era, in buona sostanza, una forma radicale del kruptos doulos. Il virtuosissimo vivere nascostamente a cui ambivano asceti e monaci, veniva così sganciato dalle condizioni ambientali favorevoli assicurate dal vivere da eremita o, al limite, da cenobita, per diventare una variabile dipendente dalla soggettività7. Il sé pubblico e il sé privato risultavano scissi completamente. Il salòs si atteggiava a matto, confondendosi con gli emarginati, vagabondando e infrangendo consapevolente ogni convenzione sociale, giudicata ipocrita, come vedremo chiaramente a breve ripercorrendo le vite di alcuni saloì. L’irriverenza è il loro atteggiamento più tipico, insieme al rifiuto di appartenere a gruppi socialmente accettabili e di un sostentamento che non sia precario, perché nella precarietà è inscritta l’azione provvidenziale. Il “folle” riso con cui si rapportano con gli altri denuncia l’ipocrisia sovrana che sovrintende alle relazioni umane8. In verità la maschera del folle nasconde un santo che ha rigettato la logica del mondo a vantaggio della sapienza di Dio. Essa è, biblicamente, follia agli occhi degli uomini. La volontà di declinare in questi termini la sequela di Cristo discende infatti e soprattutto dalle Lettere di Paolo, e in particolare dalla seconda Lettera ai Corinzi, dov’è stigmatizzata la presunzione umana di sapienza per rivendicare l’esperienza di Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i pagani. Paolo stesso si definisce “stolto” per amore di Cristo9. Del resto il Maestro era stato apostrofato di pazzia e di possessione diabolica da parte dei benpensanti e dei religiosi del suo tempo10. Folli per Cristo tra Siria ed Egitto Nel Liber Graduum (Ktava demasqatha), una raccolta siriaca di Sermoni del IV secolo, si legge un’accorata esortazione alla fatuitas per Cristo: juni 2003), Sofija, Gorexpress, 2004, (pp. 477-489). Le citazioni in italiano delle Vite di Simeone e di Andrea che compariranno nelle pagine seguenti sono tratte dalla traduzione delle agiografie a cura di P. cesaretti, Vite dei santi saloi Simeone e Andrea, Roma, Dipartimento di Scienze dell’antichità 2014 (Testi e Studi Bizantino-Neoellenici, XIX). Di Paolo Cesaretti si veda anche il precedente Leonzio di Neapoli, Niceforo prete di Santa Sofia, I santi folli di Bisanzio, Vite di Simeone e Andrea, Milano, Mondadori, 1990, per brevità da ora in poi: P. cesaretti, I santi saloi. 7 Cfr. il mio I saloì, ovvero le “forme paradigmatiche della santa follia”, «Rivista di Ascetica e Mistica», 4, 1994, pp. 361-411; Y. Rotman, Insanity and Sanctity in Byzantium, The Ambiguity of Religious Experience, Harvard, Harvard University Press, 2016, p. 43. 8 D. Devoti, Il riso del “Folle per Cristo”, in Riso e comicità nel cristianesimo antico. Atti del convegno di Torino, 14-16 febbraio 2005 e altri studi, a cura di C. Mazzucco, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2007, pp. 403-445, pp. 34-35. 9 1 Cor 4,10; cf 1 Cor 1,18-19.25; 3,18-19; 2 Cor 6,8; Cfr. anche Mt 5,11. Cfr. inoltre L. Welborn, Paul’s appropriation of the role of the fool in 1 Corinthians 2-4, «Biblical Interpretation», 10, 2002, pp. 420-435; Id., Paul, the Fool of Christ. A Study of 1 Corinthians 1-4 in the Comic-Filosophic tradition, London-New York, T&T Clarks, 2005. 10 (Mc 3,20-30). Cfr. E. Bianchi, La sapienza della croce nei folli in Cristo, «Parola, Spirito e Vita», 18, 1988, pp. 235-253.

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«Così imita quelli (i matti), come pazzo vai tra chi ti prende in giro e parla con loro»11. Alla medesima altezza cronologica un discorso sul pellegrinaggio attribuito a sant’Efrem il siro († 373), ci trasmette un elenco di virtù e di atteggiamenti virtuosi che dovrebbero tipizzare il perfetto esercizio della peregrinatio. Con peregrinatio si intende non tanto e non soltanto la condizione fattuale, quanto la condizione interiore di chi deve imparare a vivere provvidenzialmente, sentendosi pellegrino e ospite nel mondo. Efrem consiglia di maturare una totale indifferenza nei confronti delle necessità quotidiane, di digiunare nascostamente e di mangiare pubblicamente e, infine, di comportarsi in maniera in apparenza antinomica, cioè in superficie analoga agli schiavi empi, ai nemici della patria, alle spie, ai lussuriosi e, infine ai pazzi furiosi. Pur con tutte le cautele del caso, è difficile sottrarsi all’impressione che non ci si trovi di fronte a un incitamento alla follia per Cristo12. Ciò nonostante la memoria più antica di un’asceta folle per amor di Cristo non è siriaca, bensì egiziana. Si tratta di una donna: la salé vissuta nei pressi di Tabennisi in uno dei monasteri fondati da Pacomio. Di lei ci parla Palladio († 431) – monaco, vescovo e viaggiatore tra Palestina, Alessandria, Nitria, Roma e Costantinopoli – in una raccolta di racconti agiografici – la Historia Lausiaca – in cui accorpa numerose storie edificanti13. Il testo fu redatto intorno al 420, successivamente alla nomina di Palladio a vescovo di Aspuna in Galatia (nell’attuale Turchia), e fu dedicato al gran ciambellano di Teodosio II. Costui si chiamava Lauso e forse sollecitò la composizione dell’opera14. Per redigerla Palladio utilizzò un suo manoscritto precedente, una specie di resoconto delle esperienze occorsegli all’epoca del soggiorno eremitico in Egitto (388-399)15 alle quali aggiunse la memoria di santi uomini vissuti in città. Libri Graduum, in Patrologia Syriaca, a cura di R. Graffin, Parisiis, Firmin-Didot, 1926, Sermo vii, p. 174 12 V. Déroche, Ètudes sur Léontios de Néapolis, Uppsala, Studia Graeca Upsalensia, 1995, pp. 173-174. 13 palladii, Historia Lausiaca, P.G., 34, coll. 995-1260. Cito dalla traduzione italiana del testo curata da Ch. mohrmann, Palladio, La Storia lausiaca, II vol. di Ead., Vite dei santi dal III al VI secolo, Milano, Mondadori, 1985, pp. 83-86. 14 W. harmless, Desert christians. An Introduction to the Literature of Early Monasticism, Oxford-NY, Oxford University Press, 2004. Si veda inoltre l’importante volume Studi sul cristianesimo primitivo (2007-2014), Palazzo Malcanton Marcorà. Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze, Università Ca’ Foscari, Venezia 12 settembre 2014, a cura di V. Polidori, Tricase (LE), Youcanprint Self-Publishing, 2014; un’agevole presentazione della Historia e delle altre fonti monastiche antiche a cui mi riferirò in seguito nella sintesi di M. C. giorda e M. randazzo, Riflessioni di contenuto, appunti di metodo per una storia delle origini del monachesimo cristiano, in La vita religiosa nella storia del cristianesimo un itinerario dalle origini all’età contemporanea, a cura di E. Albano, «Quaderni di O Odigos», 2016, pp. 7-29. A questi contributi rimando interamente anche per l’accuratezza dell’aggiornamento bibliografico. 15 Secondo alcuni studiosi di questo scritto resterebbero alcuni frammenti copti: G. bunge, Palladiana I: Introdution aux fragmentes coptes de l’Histoire Lausiaque, «Studia Monastica», 32, 1990, pp. 79-129. 11

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Per quanto riguarda la breve storia della salè, è necessario premettere che Palladio la riferisce con il medesimo tono con il quale narra eventi molto meno bizzarri: la falsa pazzia della monaca non è più stupefacente delle virtù dei grandi santi descritti nelle pagine dell’Historia, come Natanaele, per esempio, o come Macario d’Alessandria16. L’iter di perfezionamento spirituale percorso dalla donna è presentato in guisa di una delle possibili vie che avvicinano a Dio. La salè si nutriva esclusivamente di molliche di pane e si dissetava con la risciacquatura dei piatti sporchi, manteneva il più totale silenzio anche se le altre monache, persuase di trovarsi di fronte a un’indemoniata, la picchiavano brutalmente. Aveva eletto per sé l’orto concluso della condizione ripugnante: i rifiuti con i quali nutriva il corpo sono speculari all’umiliazione in cui la relegava l’opinione di posseduta. Finalmente, grazie a un preciso messaggio divino, un anacoreta particolarmente venerato la scova, la rivela alle consorelle e dunque la restituisce al luogo morale che ha sempre meritato. Ma lei non sopporta la notorietà, teme di perdere ciò che ha acquisito in termini spirituali e perciò fugge17. Palladio ci presenta una declinazione particolare della santa follia: la ricerca del disprezzo gratuito, la volontà di rimanere nel locus esistenziale dell’abiezione, laddove la solitudine morale è assoluta. L’episodio si consuma all’interno del monastero, unico spazio vitale della donna. Il perimetro claustrale accoglie la micro società monastica in cui la salè si comporta secondo quel sovvertimento dei canoni sociali che contraddistinguerà, come vedremo a breve, le azioni del salòs che vive nel mondo, comportandosi come uno psicotico e, dunque, come l’ultimo degli ultimi18. La storia della monaca della Historia Lausiaca viene rielaborata dalla narrazione agiografica posteriore di area siriaca, egiziana e palestinese dando luogo ad altre figure, in primo luogo a quella di Onesima. Figlia di re, decide di seguire Cristo entrando in un monastero dove finge stoltezza finché non viene riconosciuta come santa da un santo abate19. La narrazione relativa a Onesima confluirà, a sua volta, nel patrimonio agiografico latino ma cambiando il nome della donna, così Onesima diventerà Isidora20. La versione latina relativa a Isidora sarebbe poi approdata nuovamente nella tradizione greca seriore21. ch. Mohrmann, Palladio, La Storia lausiaca, cit., pp. 113-114, pp. 117-121. 17 Ivi, p. 139. Mi permetto di rimandare anche al mio Innamorate pazze di Cristo: mistica follia e donne sante nel Medioevo, cit., pp. 417-424. 18 Cfr. G. G. stroumsa, Madness and Divinization in Early Christian Monasticism, in Self and Self-Transformation in the History of Religions, a cura di D. Shulman e G. G. Stroumsa, Oxford-NY, Oxford University Press, 2002, pp. 73-90. 19 Cfr. manoscritto dell’VIII secolo pubblicato da A. smith leWis, Select narratives of Holy Women from the syro-antiochene or Sinai Palimpsest as written above the old syriac gospels by John the Stylite, of Beth-Mari-Qanun in A. D. 778, London, C. J. Clay and Sons, 1900, pp. 60-69. 20 Y. rotman, Insanity and Sanctity, p. 52; AA.SS., Maggio 1, pp. 49-50. 21 AA.SS., Maggio 1, pp. 49-50. S. ivanov, Holy Fools in Byzantium, cit., p. 59 nota 22. 16

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Nell’Historia Lausiaca incontriamo anche Serapion il Sidonita, che si serve della maschera del salòs quando vuole avvicinare e convertire chi, se lo riconoscesse come uomo di chiesa, non lo ascolterebbe neppure. Applicando alla lettera i versetti di Paolo che invitano a farsi tutto con tutti22, finge di essere un mimo per entrare in una compagnia teatrale e convertirne i componenti, oppure inscena una predica così strampalata davanti ad alcuni filosofi greci da indurli a pagare per lo spettacolo; o ancora, vicino a Sparta, si vende schiavo a un manicheo con il quale convive finché non l’ha allontanato dall’eresia. Serapion a seconda delle circostanze si comporta come meglio può e crede, la sua fede e la sua apàtheia sono talmenti forti da non essere scalfite da niente. Lo dice egli stesso in occasione di un breve soggiorno a Roma. Lì va a visitare una vergine in concetto di santità, quindi la invita a sospendere l’esilio in casa e a recarsi in chiesa completamente nuda. Lei rifiuta perché teme di essere chiamata pazza e indemoniata. Serapion l’accusa di essere troppo impastata di orgoglio e legata alla reputazione mondana. Laconicamente ma duramente l’asceta conclude dimostrandole di essere «ben più morto di lei»23. Oltre all’anonima monaca di Tabennisi conosciamo altre donne folli per Cristo. Una di costoro compare nella Vita di Daniele di Sketis (la zona desertica compresa tra Alessandria e Il Cairo, † post 576) ed è funzionale a dimostrare che Daniele possedeva il dono del discernimento degli spiriti. Il medesimo episodio è riportato nella versione siriaca del testo, in quella copta, nell’etiope e nell’araba dove, significativamente, è introdotto dal titulus «colei che simulava il silenzio»24. Anche lei era una monaca e viveva in una comunità femminile stanziata presso Hermopolis (secondo la versione greca), oggi nota come Al-Ashmūnayn. Era esclusa e disprezzata dalle altre monache perché credevano fosse pazza e ubriaca25. Daniele si accorse invece che simulava l’ubriachezza e la follia per amor di Cristo e la riabilitò di fronte alla comunità facendo in modo che tutte potessero osservare di nascosto come trascorresse la notte in fervente preghiera quando era sicura di non essere guardata da nessuno. Lei tuttavia, non appena si rese conto di essere stata riconosciuta, volle ribadire la propria necessità di ICor, 9,22. 23 palladio, Storia Lausiaca, in Ch. mohrmann, Vite dei santi, cit., pp. 145-146. 24 Vie (et récits) de l’Abbé Daniel le Scétiote (Vie siècle) 1. Texte grec, publiè par L. Clugnet, II. Texte syriaque, publié par F. Nau, III. Texte copte, publié par I. Guidi, Paris, Picard et Fils, 1901, p. XXXI, p. XXXII. 25 Ivi, p. 14. Cfr. B. dahlman, Saint Daniel of Sketis: A Group of Hagiographic Text Edited with Introduction, Translation and Commentary. Studia Byzantina Upsaliensis 10, Uppsala, Acta Universitatis Upsaliensis, 2007; T. Wivian, Witness to Holiness: Abba Daniel of Scetis, Kalamazoo, Cistercian Publications, 2008. Cfr. l’analisi di E. Wipsiszka, L’ascétisme féminin dans l’Egypte tardive, in Le rôle et le statut de la femme en Ègypte hellénistique, romaine et byzantine. Actes du Colloque International, Bruxelles-Leuven, 27-29 novembre 1997, a cura di H. Melaerts, L. Mooren, Paris-Leuven-Sterlimg, Peeters, 2002, pp. 355-401, in particolare pp. 388-390. 22

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restare nell’umiltà della finzione di follia, perciò fuggì dal monastero lasciando appeso al portone un biglietto con cui chiedeva alle monache di pregare per la sua anima. Forse, come ha suggerito Grosdidier de Matons, il racconto fu calcato sulle vicende della tabennisiota della Historia Lausiaca; in ogni caso esistono interessanti differenze tra le due figure, come ha sottolineato Ivanov26. La salè che compare nella Vita di Daniele, infatti, si camuffa da uomo. Prima di fuggire si impossessa del mantello e del bastone di Daniele, cioè degli oggetti necessari a travestirsi perché, volendo recarsi in lande isolate per condurre un’esistenza eremitica, sa che dovrà proteggersi utilizzando un’identità maschile. La tradizione agiografica antica – orientale e occidentale – tramanda le storie di sante donne travestite da uomo: Tecla, discepola di Paolo, Teodora, Eugenia ed Eufrosina di Alessandria, Marina di Antiochia, Pelagia di Gerusalemme per quanto concerne specificatamente la tradizione grecofona, Papula di Tours, Ermelinda, Bililda, Doda e Christina di Markyate per quanto invece concerne la latina27. Le figure femminili, a differenza di quelle maschili, generalmente sperimentano la “santa pazzia” all’interno di un monastero e ciò accade per ragioni di sicurezza, dato che le donne non erano in messe in grado di affrontare i pericoli di una vita randagia e al di fuori degli schemi come invece potevano fare gli uomini. Ciò implica che nel cenobio si riproponga la dimensione anacoretica attraverso la condizione di solitudine esistenziale assoluta che la salé vive. Del resto negli Apopthegmata Patrum sta scritto: «Se vuoi fuggire gli uomini, hai solo questa alternativa: o vai in luogo solitario, oppure, non accettando il modo di essere del mondo e degli uomini, diventi stolto nel maggior numero delle tue azioni»28. L’eremitismo viene equiparato alla pazzia per Cristo poiché quest’ultima è una sorta di barriera immateriale ed estraniante frapposta tra il santo e il prossimo. Resta significativo J. grosdidier de matons, Les thèmes, cit., p. 287; E. patlagean, L’histoire de la femme déguisée en moine et l’évolution de la sainteté féminine à Byzance, «Studi Medievali», 17, 1976, pp. 598-623; S. ivanov, Holy Fools in Byzantium, cit., pp. 59-60. 27 M. delcourt, “Female Saints in Masculine Clothing”, Hermaphrodite: Myths and Rites of the Bisexual Figure in Classical Antiquity, trans. J. Nichols, London, Studio Book, 1961; J. anson, The Female Transvestite in Early Monasticism: The Origin and Development of a Motif, «Viator», 5, 1974, pp. 1-32; E. patlagean, L’histoire de la femme déguisée en moine et l’évolution de la sainteté feminine à Byzance, cit., pp. 600-604; L. M. bitel, Women’s Monastic Enclosures in Early Ireland: A Study of Female Spirituality and Male Monastic Mentalities, «Journal of Medieval History», 12, 1986, pp. 15-36; V. L. bullogh, Transvestitism in the Middle Ages, in Sexual Practices and the Medieval Church, a cura di V. L. Bullogh e J. Brundage, Buffalo-N.Y, Prometheus, 1982, pp. 43-54; K. M. ringrose, Living in the Shadows: Eunuches and Gender in Byzantium, in Third Sex, Third Gender. Beyond Sexual Dimorphism in Culture and History, a cura di G. Herdt, New York, Zone, 1994, pp. 85-109; S. J. davis, Crossed Texts, Crossed Sex: Intertextuality and Gender in Early Christian Legends of Holy Women Disguised as a Men, «Journal of Early Christian Studies», 10, 2002, pp. 1-36 e, infine, D. A. Johnson, Hilaria. A woman who became a man to imitate Christ, USA, Luu.com, 2016. 28 g. vannucci, Le parole dei padri del deserto, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1991, p. 72, numero 4. 26

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che persino le comunità monastiche, in teoria ben più sante delle altre, consentano di ricavare al loro interno uno spazio ulteriore della santità, posto al di là della Regola se non, in certa misura, al di sopra di essa. L’unica salè non monaca di cui resta memoria è Maria di Antiochia ma non vive da sola, bensì in compagnia di un uomo di nome Teofilo. Di Teofilo e Maria racconta l’intellettuale monofisita Giovanni di Efeso († 586) nel cinquantaduesimo capitolo delle Vite dei santi orientali29. Giovanni narra che quando si trovava ad Amida (Diyarbakir in Turchia) incontrò due giovani di nome Teofilo e Maria. Rispettivamente abbigliati da mimo e da prostituta, furono notati da Giovanni mentre erano fermi sul sagrato di una chiesa, dove sostennero la derisione e l’oltraggio della folla fino al calar del sole. Allora alcuni tra i personaggi più importanti della città avrebbero voluto accompagnarli presso il lupanare pubblico, una signora altolocata, invece, avrebbe desiderato ospitare Maria a casa propria, ma essi preferirono andarsene da soli. Per intuizione divina Giovanni li volle seguire e, spiandoli, si accorse che nottetempo si disposero alla preghiera. Stupitosi li avvicinò e, dietro giuramento di non svelare a nessuno il loro segreto, ottenne che gli confidassero la propria storia: erano fidanzati in attesa di sposarsi quando avevano conosciuto Procopio da Roma, un mistico errante dedito al nascondimento che videro splendere in maniera inspiegabile durante l’orazione. Procopio capì che Teofilo e Maria erano due “eletti”, in caso contrario, infatti, non avrebbero potuto scorgere i fasci di luce che emanavano da lui, perciò accettò di diventarne la guida spirituale e li persuase a simulare un’esistenza contraria alla vera ricerca di perfezione. Così ebbe inizio la loro santa avventura, in cui era presente la dicotomia che abbiamo già avuto modo di notare nei racconti delle salaì: di giorno ci si comporta da pazzi, di notte la maschera cade e finalmente ci si può consacrare alla preghiera. Teofilo e Maria avevano optato anche per la simulazione di due mestieri inverecondi – spesso strettamente legati nella realtà – e socialmente sanzionati. Avevano poi scelto di stare davanti al tempio di Dio e lì, come davanti ai Suoi occhi, di essere battuti e scherniti dalla folla. Giovanni di Efeso attesta, infine, una dimensione interessante e sin qui inedita della santa follia perché chiarisce come esista una tecnica suscettibile di essere trasmessa dal maestro al discepolo. Esiste, insomma, una direzione spirituale precipua e riservata a un gruppo élitario di carismatici che si riconoscono tra loro E. W. Brooks cur., Jhon of Ephesus, Lives of the Eastern Saints (III), in Patrologia Orientalis, xxix.2, 1925, pp. 164-179; Anecdota Syriaca, a cura di J. P. Land, Tomus I, Lugduni Batavorum, Brill, 1862, pp. 333-342; Bibliotheca Hagiographica Orientalis ediderunt socii Bollandiani, [Subsidia Hagiographica 10] Bruxellis, Apud Editores, 1910, p. 259; A. A. harvey, Acetism and Society in Crisis. John of Ephesus and the Lives of the Eastern Saints, Berkley, B. University Press, 1990; D. Krueger, Symeon the Holy Fools, cit., pp. 69-70. 29

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grazie a speciali segni divini ma che non sono, né debbono, essere riconosciuti dagli altri. Costoro istruiscono i discepoli ed essi, a loro volta, potranno diventare maestri di follia per Dio. I testi monofisiti e l’Islam dei sufi Le figure di Teofilo e Maria, all’indomani dell’islamizzazione dei territori in cui erano venerate, non scomparvero affatto. Piuttosto, secondo Molè, vennero riassorbite all’interno dell’Islam sufi e lemmatizzate come gli antenati del mistico sufi, del santo perfetto il quale «oltre a condurre una vita che impedisca agli altri di indovinare il suo stato, deve farsi insultare, passare per folle (shate), considerarsi come il peggiore degli uomini e agire di conseguenza»30. Un’analogia contenutistica tra il codice monofisita di Giovanni di Efeso e l’elaborazione islamica è rintracciabile in alcuni testi sufi, soprattutto di area persiana31. Dal punto di vista teorico, una tra le fonti più interessanti è il libro vergato dal poeta persiano Farīd al dīn ‘Attār e conosciuto con il titolo La lingua degli uccelli o Il Verbo degli uccelli (Mantiq al-Tayr)32, un testo modellato sulla falsariga dell’ascensus del Profeta, il Mi’raj per eccellenza. Il titolo è una citazione coranica: «Salomone fu l’erede di David; e disse O uomini, siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli (ulimna mantiqat-tayri) e colmati di ogni cosa» (sura xxvii, An-Naml (Le formiche) 16) rielaborata, però, alla luce delle opere del grande maestro persiano, e sufi a sua volta, Al-Ghazālī (1058-1111). La rielaborazione è debitrice all’Epistola dell’uccello che si riallaccia all’operetta omonima di Avicenna (980-1037), anch’egli esponente della cultura ismailita e dalle forti accentazioni esoteriche, dove si legge di uno stormo guidato dall’uccello più forte che è metafora del Profeta33. Il poema di ‘Attār è un mistico viaggio dell’Anima verso Dio elaborato utilizzando quest’immagine. Attār racconta che numerosi uccelli decisero di cercare Simurgh, un enorme uccello che abitava dietro il monte Qaf, per farlo diventare il proprio re. L’upupa si mise alla gui-

M. molè, I mistici musulmani, Milano, Adelphi, 1992, p. 23. Premetto a queste poche pagine dedicate al cosiddetto “santo folle” nell’Islam che sono molto debitrice a Michele Petrone, dell’Università di Copenaghen, valente studioso che è stato prodigo di consigli per aiutarmi a inquadrare il fenomeno che mi interessa nell’universo culturale islamico. A lui va tutta la mia riconoscenza con la precisazione che gli errori presenti nel testo sono riferibili soltanto alla mia personale caparbietà. 31 Cfr. per il contesto A. mahadavi damghani, Persian Contributions to Sufi Literature in Arabic, in The Heritage of Sufism, ed. L. Lewishon, Oxford, Oneworld Publications, 1999, pp. 33-58. 32 In traduzione italiana Il verbo degli uccelli, a cura di c. saccone, Padova, Centro Essad Bey, 2013, 3° edizione rivista interamente in forma di e-book (1° ed. SE 1986). 33 Sui viaggi il recente bel contributo di Shilan Fuad hussain, Viaggio utopico dell’anima verso il Tempio Ultimo, in pubblicazione per gli Atti delle giornate di studio “Spazio/Tempo: un progetto culturale”, 15-16 ottobre 2012, Università di Urbino. 30

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da dello stormo34. La queste fu lunga e difficilissima: i volatili dovettero superare numerose prove e l’upupa, per aiutarli e non farli scoraggiare, narrò loro storie edificanti. Infine arrivarono al cospetto di Simurgh. Erano rimasti soltanto in trenta. Entrarono nel palazzo del re uccello e con grande sorpresa videro se stessi. Dopodiché si fusero in lui e così tutto divenne luce, soltanto luce, splendente e accecante. Ebbene in quel poema sono veramente molto numerosi i riferimenti alla follia per Dio, incastonati nelle narrazioni dell’upupa. Compare ad esempio il breve racconto di un folle di Dio che vagava nudo e che, dopo aver pregato Dio e aver ricevuto un abito rattoppato in risposta alla preghiera, si mise a questionare ironicamente con l’Altissimo stesso. Fanno poi capolino nella narrazione vari santi impazziti per amor di Dio, tra i quali un «folle d’amore divino» che suggerisce a un signore in orazione di liberarsi di tutto e di vestire la cintura dei sufi e così conquistare la libertà suprema e la misericordia divina al contempo; un altro che, mentre un padre segue il feretro del proprio bambino morto infante, lo consola spiegandogli che la morte precoce è una grazia divina; un altro ancora che, in preda all’estasi amorosa, danzava e saltava senza mai riposare. Di seguito, attraverso vari passaggi, si spiega come la follia sia effetto dell’amore per Dio e di Dio, che è come il fuoco e dà al folle una loquela incomprensibile ai più, perché non sono eletti come lui35. Sotto il profilo teoretico-pratico possiamo rintracciare notizie di nostro interesse anche in altre fonti. Già Alessandro Bausani aveva identificato due tipologie di “santi pazzi” nell’Islam: il santo malāmatī e il «pio idiota». Con malāmatī s’intende il mistico che si comporta da giullare di Dio e che cerca il disprezzo e il biasimo degli uomini. Questa tipologia di santità conoscerà anche una elaborazione teorica ben precisa intorno al IX secolo, grazie a Abū Hafs e a Hamdūn Qassār (m. 884), ciascuno dei quali fondò una scuola Malāmatī a Nīshāpur; una scuola maggiormente rigorista quella di Hamdūn Qassār e un gruppo dei discepoli più moderato, quello guidato da Abū Hafs36. AlCfr. La sura citata nel testo, dove si legge anche che Salomone fu messo a capo di una schiera di uomini, demoni e uccelli, passò in rassegna gli uccelli e lamentò l’assenza dell’upupa, ivi, 20. Peraltro in una redazione persiana in versi del “Libro dell’usignolo” (Bobol-nâme) attribuita a Farīd al dīn ‘Attār gli uccelli si presentano a Salomone ad accusare l’usignolo perché, anziché cantare in lode di Dio come fanno tutti gli altri uccelli, canta in lode della rosa e il suo grande accusatore è proprio l’upupa. La storia finisce a sorpresa con Salomone che assolve l’usignolo. Secondo una raffinata lettura in realtà l’usignolo è il mistico cantore della religione dell’amore, la più alta, rispetto a quella della Legge praticata dagli altri uccelli, e poiché Salomone conosce la lingua degli uccelli, dunque ha conoscenze arcane e sapienti, lo assolve. C. saccone, Trovare Dio con la musica: dal samâ‘ del Corano alla letteratura persiana sciita e d’ispirazione sufi, «Archivi di studi indo-mediterranei», V, 2015, pp. 5-21, pp. 17-21. 35 La lingua degli uccelli, Il classico della letteratura sufi, trad. di P. Imperio, Roma, Ed. Mediterranee, 2002, pp. 92, 104, 112, 136, 141; Il verbo degli uccelli, a cura di c. saccone, cit., pp. 32-39. 36 Si veda S. sviri, Hakīm Tirmidhī and the Malāmatī Movement in Early Sufism, in The Heritage of Sufism, ed. L. Lewishon, Oxford, Oneworld Publications, 1999, pp. 583-612, pp. 584-585. 34

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lora verrà chiaramente sancita la scissione tra esteriorità e interiorità del malāmatī: tanto più egli è esteriormente allontanato, biasimato e riprovato da tutti, quanto più è lasciato interiormente libero di restare con Dio. Il pio idiota, invece, è conosciuto con il nome storico di Buhlūl, una sorta di strano consigliere mistico di Hārūn ar-Rashīd; è anch’egli oggetto di scherno e di violenza gratuita: tipicamente è lapidato dai ragazzini per strada. Si tratta di un personaggio narrato come un essere bizzarro, che parla e agisce in modo del tutto anticonvenzionale e spesso addirittura grossolano37. La duplicità a cui Bausani si riferisce evoca a due ambienti diversi ma in stretta relazione reciproca: Nīshāpur e Baghdad e, per esser precisi, è a Nīshāpur che si rintracciano le scuole mistiche malāmatiyya, mentre a Baghdad si formarono, piuttosto, le scuole sūfiyya. Tra le scuole esistevano relazioni e contatti significativi e abbastanza costanti, come testimonia la ricca fonte conosciuta con il nome di Tabaqāt al-sūfiyya di Abu ‘Abd al-Rahmān al-Sulamī’s da Nīshāpūr (937-1021)38: nel nono secolo Nīshāpur (insieme a Merv, Herat e Balkh) è un’importante realtà urbana del Khurāsān – addirittura diventa capitale durante il regno della dinastia Tāhiride (820-873) – e si colloca al centro di una rete viaria imponente. A partire da ovest rispetto alla città, il reticolo stradale conduce a Baghdad e a Rayy, da sud ovest giunge invece al Golfo Persico e a Shiraz, mentre da nord est porta fino a Herat, Balkh, Tirmidh, Bukhārā e l’India, infine da sud est arriva a Tūs, Mashhad, Merv, Samarqand, raggiunge l’Asia centrale e la Cina39. Con la caduta di Baghdad del 945, il Khurāsān diviene, di fatto, il cuore pulsante dell’Islam sunnita ma, contestualmente, viene anche colpita dagli effetti di scontri sempre più violenti tra i membri di correnti religiose diverse, soprattutto tra Hanafiti e Shāfi‘iti40. Si sviluppano, per reazione, una riflessione e una pratica che ambiranno a soddisfaA. bausani, Note sul “pazzo sacro” nell’Islam, «Studi e materiali di storia delle religioni», XXIX, 1958, fasc. 1, pp. 93-107, poi ripubblicato postumo nel volume Id., Il pazzo sacro nell’Islam, a cura di M. Pistoso, Milano-Trento, Ed. Luni, 2000. 38 sulamī, La luciditê implacable. Epître des homme du blām, traduit de l’arabe et présenté par E. Deladrère, Paris, Arlea, 1991 (Traduzione di Tabaqāt al-sūfîyya). Precipuamente dedicato alle scuole di Baghdad il saggio di H. mason, Hāllai and the Baghdad School of Sufism, in The Heritage of Sufism, pp. 65-81; al Khurāsān, invece, è dedicato il saggio di T. graham, Abū Sa’id ibn Abi’l-Khayr and the School of Khurāsān, ivi, pp. 83-135. 39 s. sviri, Hakīm Tirmidhī and the Malāmatī Movement in Early Sufism, pp. 585-586. Si vedano inoltre i saggi in Borders, Itinerary of the Edges of Iran, a cura di S. Pellò, Venezia, Ca’ Foscari, 2016, in particolare il contributo di M. compareti, Auspicious Bird in Sino-Sogdian Funery Art, pp. 119-153. 40 H. halm, Die Ausbreitung der safi’itischen Rechtsschule von den Anfängen bis zum 8/14 Jahrhundert, Wiesbaden, Ludwig Reichert, 1974, pp. 32-35; J. chabbi, Remarques sur le développement historique des mouvements ascétiques et Mystiques au Khurasan, «Studia Islamica», XLVI, 1977, pp. 5-72; W. madelung, Religious Schools and Sects in Medieval Islam, London, Variorium Reprints, 1985, pp. 109-168; U. rudolph, Al-Māturīdī and the Development of Sunnī Theology in Samarqand, Leiden-Boston, Brill, 2014, pp. 23-123, pp. 148-178. 37

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re le esigenze sociali di pacificazione, così prende forma e vigore la corrente della malāmatiyya41. La testimonianza forse più significativa è costituita dall’epistola Risālat al- malāmatiyya di Abu ‘Abd al-Rahmān Sulam, un testo pensato per esaltare il maestro spirituale dell’autore (Abū ‘Amr Isma‘il ibn Nujayd), difenderlo dalle accuse di eresia e accreditare il sufismo come corrente legittima dell’Islam42. Il principio fondante l’etica e l’azione della malāmatiyya è l’abbassamento dell’ego e, di conseguenza , la ricerca indefessa della umiliazione, declinata nel senso di rinuncia volontaria a quanto è considerato lodevole e rispettabile dall’etica condivisa. Perciò il malāmati assume comportamenti non conformisti: la pratica è funzionale a un progressivo raffinamento interiore. Abū ‘Abdallāh Muhammad ibn ‘Alī al-Hakīm al-Tirmidhī (m. 908) scrive alcune lettere per rispondere alle complesse questioni postegli da “santi” interlocutori che dettagliano bene il significato assoluto dell’umiltà. Egli è uno tra i numerosi maestri attorno ai quali tra IX e X secolo si radunano persone in cerca di una crescita spirituale verso Dio: circoli multiformi diversi gli uni dagli altri la cui memoria verrà successivamente normalizzata dalla tradizione sufi, che tenderà a oscurare la pluralità di approcci mistici utilizzati43. In ogni caso, per quanto ci riguarda, è significativa la presenza di un’accezione della «santa condotta» venata da interpretazioni e pratiche attigue alle pratiche dei saloì. La medesima accezione ritorna, infine, nelle narrazioni agiografiche concernenti la vita di quei mistici44. Schematicamente potremmo dire che il flusso culturale indotto dalla circolazione dei testi di Giovanni di Efeso conduce verso il sufismo45, quindi verso est e, da lì si diparte per raggiungere l’estremo occidentale dell’Europa, cioè la penisola iberica islamizzata46.

s. sviri, Hakîm Tirmidhî and the Malâmatî Movement in Early Sufism, cit., p. 586. 42 Ivi, pp. 586-590; Roger deladriére, Sulamî: La Luciditê Implacable (Épître des hommes du blâme), cit. 43 s. sviri, Hakîm Tirmidhî and the Malâmatî Movement in Early Sufism, cit., p. 591; dove si citano varie fonti molto pertinenti, tra le quali la cronaca Kitâb al-Bad’ wa’l-ta’rîkh del gerosolimitano Abû Nasr Mutahhar ibn Tâhir al-Muqaddasî. 44 Cfr. ancora s. sviri, Hakîm Tirmidhî and the Malâmatî Movement in Early Sufism, cit., ma per alcune casistiche anche sulamī, Femmes Soufies. Suivi de La sainteté féminine dans l’hagiographie islamique, par Michel Chodkiewicz, Paris, Editions Entrelacs, 2011, soprattutto le figure di Rayhāna la folle e di Dakkāra. 45 Cfr. le interessanti acquisizioni di B. abrahamov, Divine Love in Islamic Mysticism, The Theachings of Al-Ghāzàli and Al-Dabbāgh, London & New York, RoutledgeCurzon, 2003; A. scarabel, Il sufismo. Storia e dottrina, Roma, Carocci, 2007; S. bashir, Sufi Bodies. Religion and Society in Medieval Islam, New York, Columbia University Press, 2011. 46 Cfr. F. J. presedo velo, La España bizantina, Sevilla, Universidad de Sevilla, 2003, in particolare le pp. 95-165 volte a dettagliare l’eredità bizantina in Spagna e la sua impronta sulle comunità mozarabe. Si vedano le importanti notazioni di Cesaretti in p. cesaretti, b. hamarneh, Testo agiografico e orizzonte visivo, cit., in particolare pp. 67-79. 41

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Dalla Siria verso la nuova e l’antica Roma L’influenza di altri testi, ma che veicolano modelli analoghi – gli Apophtegmata Patrum e l’Historia Lausiaca – ci costringono, invece, a guardare alla nuova Roma (Costantinopoli) e, nel medesimo tempo, al cuore mediterraneo del continente europeo. Ritorniamo, quindi, agli Apopthegmata Patrum, una collezione aneddotica dei loghia attribuiti ai santi padri del deserto composta nel VI secolo47. Gli Apophtegmata derivano dalla raccolta di varie sillogi scritte, che a loro volta erano nate dalla cristallizzazione di una più antica tradizione orale dei detti dei Padri, ed ebbero una diffusione estremamente consistente sia nella pars Orientis, sia nella pars Occidentis48. In questa fonte si legge che in Giudea, a Eleuteropoli (Bet Guvrin, Eleutheropolis), viveva un monaco salòs49. Costui scoppiava in un riso irrefrenabile ogni volta che gli si accostava qualcuno, così tutti lo ritenevano matto. Per evitare situazioni potenzialmente imP.G. 65. 48 Ricostruzione effettuata da J. C. guy, Recherches sur la tradition grecque des Apophtegmata Patrum, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1962, (Subsidia Hagiographica 36) pp. 231251. Il corpus così costituito si accrebbe fino a dare due sillogi distinte: la collezione alfabetica, cioè quella in cui i detti sono raggruppati secondo i nomi di chi li ha pronunziati e i nomi sono in ordine alfabetico, e la collezione sistematica, ovvero quella in cui i detti sono divisi per ‘tema’ spirituale che affrontano. Il testo greco riprodotto in P.G. 65 è quello alfabetico, mentre la collezione sistematica è stata edita in latino, copto e armeno. La versione greca sistematica è stata edita (postuma grazie a B. Flusin) da J. C. guy, Les Apophtegmes des Péres. Collection systématique, Voll. I-III, (Sources Chretiennes 387, 474, 498), Paris, Ed. Du Cerf, 1993, 2003, 2005. Del medesimo autore si veda anche l’articolo Remarques sur le texte des Apophtegmata Patrum, «Recherches des Sciences Religieuses», 63, 1955, pp. 252-258. Per orientarsi nella complicatissima tradizione dei testi si vedano almeno: Th. hopFner, Über die koptisch-sa‘idischen Apophtegmata Patrum Aegyptiorum und verwandte griechische, lateinische, koptische-bohairische und syrische Sammlungen, Wien, Kaiserliche Akademie der Wissenschaften in Wien. Philosophisch-historische Classe, 1918; C. gallazzi, P. Cair. SR 3726: Frammento degli Apophtegmata Patrum, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 84, 1990, pp. 53-56; L. regnault, La première édition critique d’une collection d’Apophtegmes des Péres, «Humanitas», L, 1998, pp. 251-255; S. rubenson, Formation and Re-formation of the Saying of the Desert Fathers, in Early Monasticism and Classical Paideia, vol. 3 ed. S. Rubenson, «Studia Patristica», LV, 2013, pp. 5-22. Si vedano poi: A. Wilmart, Le recueil latin des Apophtegmata Patrum, «Revue Bénédictine», 34, 1922, pp. 175-184; C. M. batle, Die “Adhortationes sanctorum Patrum” (“Verba senoirum”, im lateinischen Mittelalter. Überlieferung, Fortleben und Wirkung, Beiträge zur Geschichte des alten Mönchsleben und des Benediktinerordens 31, Münster, Aschendorff, 1972, G. gould, A Note on the Apophtegmata Patrum, «Journal of Theological Studies», n.s., 37, 1986, pp. 133-138. Il testo copto è adesso interrogabile nella sua versione normalizzata e con traduzione inglese nell’utilissimo sito < http://blog.copticscriptorium. org/2017/04/25/new-release-of-corpora/>. Per la concordanza tra la versione copta e la greca sistematica Y. nessim yousseF, Concordance des Apophtegmata Patrum, «Vigiliae Christianae», 53, n. 3, 1998, pp. 319-322. 49 Posta lungo la strada tra Gerusalemme a Gaza, viene ricordata anche negli antichi itinerari, il cosiddetto Itinerario di Antonino e l’Itinerario di Bordeaux, L. G. ponsampieri, Il tesoro delle antichità sacre e profane tratto da’ Comenti del reverendo padre D. Agostino Calmet sopra la Sacra Scrittura, tomo II, Venezia, Francesco Pitteri, 1746, p. 88. 47

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barazzanti i monaci con cui dimorava lo chiudevano spesso nella sua cella e tanto più se ricevevano visite da parte di personaggi importanti. In occasione di una di queste l’abate entrò nella celletta e lo trovò seduto tra due ceste. Colto sul fatto, il salòs si limitò a sghignazzare come di consueto, ma il superiore, incuriosito, iniziò a incalzarlo con domande sempre più precise. Per obbedienza fu costretto a rispondergli. Finì quindi per svelare il proprio segreto: per ciascun pensiero buono metteva una pietra in uno dei due cesti, per ogni idea malvagia gettava un sasso nell’altro. Se all’alba del giorno seguente il cesto dei buoni pensieri fosse stato pieno, si sarebbe concesso un pasto, in caso contrario si sarebbe punito con il digiuno50. In tal modo fu manifestata la sua reale dimensione spirituale. Le vicende del monaco di Eleuteropoli sono simili a quelle della tabennisiota, entrambi si trincerano dietro una reputazione meschina per salvaguardare l’umiltà, presidio salvifico della propria anima. Le avventure del salòs trasmesseci da questi scritti ci presentano una follia molto vicina alla declinazione radicale dell’ascetismo, che diviene edificante non in quanto exemplum immediato (poiché solo pochi possono intenderlo nella sincronia), ma in quanto parabola trasmessa, ripetuta e divulgata. Tra il folle per Cristo e gli altri religiosi intercorrono rapporti difficili se non addirittura ostili: neppure i membri della comunità religiosa dove vive sono in grado di discernere l’azione divina in lui, a meno che non intervenga un provvidenziale fenomeno di agnizione spirituale. Il segreto e l’incomprensione costituiscono la frontiera immateriale dietro alla quale il salòs cela la propria santità. Ai confini del monastero entro cui si sviluppa la parabola dell’anima consacrata – confini che delimitano lo spazio sacro ma anche lo spazio del sacro – si sommano i confini autoimposti dal salòs all’esperienza individuale. Il salòs, in definitiva, non condivide il messaggio salvifico se non con spiriti già eletti. La tabennisiota quando non è più fraintesa fugge, il santo di Eleuteropoli resta nella sua cella a dominare i suoi pensieri. Non esistono tentativi di proselitismo, la rivelazione divina non si propaga che indirettamente e in un ambiente spiritualmente già dissodato perché già convertito. Per rintracciare le dinamiche poste in essere tra i folli di Dio e la società nel suo complesso, si debbono abbandonare i racconti sapienziali scritti dai monaci per i monaci e tornare a indagare la già ricordata Vita di Daniele lo Scetiota51. È quasi Pasqua e Daniele si trova ad Alessandria per incontrare il Patriarca. Vagando per la città gli capita di imbattersi in uno strano individuo di nome Marco. LavoP.O. 8, pp. 178-179, dove si trova la trascrizione di un apophtegmaton anonimo tradotto in latino e custodito in un manoscritto dell’XI secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. 51 J. grosdidier de matons, Les Thèmes, cit., p. 288. 50

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ra in un luogo pubblico, forse l’ippodromo52, forse un bagno, dove dorme e condivide la sua esistenza con altri saloì. Rimpingua le scarse entrate provenienti dai servizi che rende al pubblico con furtarelli di vettovaglie al mercato. Il cibo così racimolato viene diviso con la bizzarra comunità accampata insieme a lui. Non appena Daniele lo avvicina, Marco simula una crisi isterica, suscitando l’imbarazzo della folla circostante, che reagisce subito cercando di scusarlo agli occhi del sant’uomo53. La simulazione dell’isteria o di reazioni insensatamente violente sono il sistema più rapido ed efficace per guadagnarsi la reputazione di matto: come vedremo a breve, è il mezzo scelto da Simeone salòs quando vuole recitare degnamente la parte del folle; allora si getta a terra, scalciando e dimenandosi come un forsennato54. Marco simula un accesso di follia da manuale; anche altri testi, volendo tipizzare il comportamento degli alienati, ricorrono al racconto di atteggiamenti furibondi. Teodoreto di Ciro introduce il suo trattato antigiudaico e antipagano, noto con il titolo di Terapeutica delle malattie elleniche, utilizzando la metafora dell’eresia – malattia mentale. Gli eretici, che rifiutano la vera fede, sono come i matti che rifiutano la cura. Costoro sono soliti tirare calci e pugni, ribellarsi violentemente finché non «li mettono in catene e a forza spalmano la loro testa di unguento, ed escogitano ogni sorta di rimedio in grado di cacciare l’alterazione mentale»55. Daniele, invece di farsi ingannare dall’apparenza, svolge il miniIppodromo come luogo di perdizione ma anche spazio dell’agone dei buoni cristiani cfr. il sogno di Andrea salòs. In questo caso l’evento onirico ha una enorme importanza, poiché è il tramite della rivelazione divina. Infatti il futuro santo, conformandosi alle esperienze bibliche di molti profeti, riceve da Dio il mandato esplicito della propria missione di folle per Cristo proprio durante il sonno. Vede l’Ippodromo, dove si fronteggiano bianchi giovinetti seguaci di Cristo e neri etiopi, cioè demoni, e dove un meraviglioso giovane, vale a dire Cristo stesso, lo esorta a fronteggiare il diavolo dicendogli: «Corri ignudo la bella corsa. diventa folle per causa mia e di molte buone cose ti farò partecipe nel mio regno», in P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., p. 102. 53 J. grosdidier de matons, Les Thèmes, cit., p. 289. 54 P. cesaretti, Vite dei saloi, cit., pp. 77-78. 55 «Quod, si quis curandi huius morbi peritus salubre remedium velit afferre, statim resiliunt, quemadmodum qui phrenetico morbo corripiuntur, et oblatum sibi curationem aversantur, et medicinam velut aegritudinem refugiunt. Caeterum iis qui artem hanc profitentur, quantumvis morosi ferendi sunt, tolerandique, vel si conviciis incessant, vel si pugnis aut calcibus appetant: solent enim quandoque delirantes haec peccare. Neque tamen cum haec fiunt, perturbantur medicis, sed et vincula intendunt, caputque unguento vi perfundunt, et omne remedii genus excogitant, quo aegritudinem summoveant, pristinamque partium aequalitatem corpori restituant»; «Χρὴ μέντοι τοὺς ταὺτην μετὶοντας τὴν ἑπιστὴμην, καὶ χαλεπαὶνοντας φέρειν, καὶ λοιδορουμένων ἁνέχεσθαι, κ῝αν πυξ παὶωσι, κ῝αν λακτὶζωσι᾽ τοιαῦτα γὰρ δὴ ῝αττα πλημμελοῦσιν οι ‘ παραπαιὸντες. Καὶ οὐ δυσχπαὶνουσι τοὺτων γιγνομὲνων οἱ ἰατροὶ, ἀλλὰ καὶ δεσμὰ προσφὲρουσι, καὶ μηχανήν ἐπινοῦιν ῎ωστε τὸ παθος ἐξελὰσαι, καὶ τὴν προτὲραν τῶν μορὶων ἁρμονὶαν ἁποδοῦναι τῳ ῞ολῳ». theodoreti cyrensis Graecarum affectionum curatio, P.G. 4, coll. 783-1152, col. 790. Si veda, tuttavia, anche l’edizione di P. canivet, Théodoret de Cyr. Thérapeutique des maladies helléniques. Texte critique, introduction, traduction, notes, 2 voll, Paris, Du Cerf, 1958, pp. 43-44. 52

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stero di discretore degli spiriti e secondo il consueto stilema agiografico della lampada da mettere sopra il candeliere anziché sotto il moggio, riconosce in Marco un vero santo56. Marco ha adottato questo modo di vivere per penitenza: deve purificarsi da anni di asservimento al demone della lussuria. Leggiamo, inoltre, che vive con altri saloì. Alla fine del VI secolo Evagrio (536 - post 594), nelle Ecclesiasticae Historiae, afferma di aver visto a Gerusalemme gruppi di monaci praticare forme di ascetismo estremo: si tratta dei boskoi e dei saloì57. Il fatto che l’autore li voglia immortalare nella sua opera è significativo perché Evagrio è consapevole dell’uso pubblico della memoria dei santi di cui racconta58. I boskoi erano anacoreti che si cibavano esclusivamente di erbe, vivevano come uomini selvatici e rifiutavano ogni contatto con la società, rifugiandosi in spazi disabitati e pressoché impraticabili. Soltanto qualcuno tra costoro tornava nel secolo dopo aver conquistato l’impassibilità: erano i cosiddetti saloì. Evagrio non usa il termine salòs, ma è evidente che si tratta di saloì perché il loro stile di vita corrisponde a quello di Simeone di Emesa, il perfetto salòs di cui Evagrio parla più avanti59. Essi avevano raggiunto un tale livello di insensibilità agli stimoli carnali da potersi cibare con noncuranza presso le taverne e da mischiarsi tranquillamente alle donne nelle terme. «Non rischiano il godimento sessuale» – scrive – «né guardandole, né toccandole e nemmeno abbracciandole»60. Erano ormai al di là della pratica e dei vincoli del decoro, della decenza, della rispettabilità. Spiegava: «Sono uomini con gli uomini e donne con le donne, poiché vogliono avere parte a entrambi i sessi senza appartenere a uno solo. Per dirla in breve, in questo genere di vita eccezionale e ispirato da Dio, la virtù istruisce delle leggi speciali rispetto a quelle cui la natura umana soggiace, in modo che essi non prendano parte ad alcuna delle cose a quest’ultima necessarie, essendo appagati»61. L’autore ce li presenta come monaci veri e proMc 4, 21-22; Mt 18, 26-27; Lc 8, 16-17. 57 evagrii scholastici epiphaniensis Ecclesiasticae Historiae libri sex, P.G. LXXXVI.2, liber I, caput XXI, coll. 2475-2484. 58 Cfr. m. c. giorda, Monaci e monachesimi nella Storia Ecclesiastica di Evagrio Scolastico (VI sec.), «Adamantius», 17, 2011, pp. 118-132, p. 120. 59 Attuale Ḥimṣ (Hhomss), in Siria a est dell’Oronte, che all’epoca faceva parte della provincia della Siria Apamene. 60 Cito dalla traduzione di F. carcioni, Evagrio di Epifania Storia Ecclesiastica, Roma, Città Nuova, 1998, p. 67. Per una dettagliata analisi del testo, oltre alla pubblicazione di Carcioni si vedano P. allen, Evagrius Scholasticus the Church Historian, Leuven, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1981; The Ecclesiastical History of Evagrius Scholasticus, ed. M. Whitby, Liverpool, Liverpool University Press, 2000. 61 F. carcioni, Evagrio di Epifania Storia Ecclesiastica, cit., p. 68. Cfr. A. bellanger, Folie et renoncement à soi. L’apparition du saint homme dans l’Orient chrétien, in Adam et l’astragale. Essais d’anthropologie et d’histoire sur les limits de l’humain, Paris, Editions de la Maison des sciences de l’homme, 2009, pp. 45-85, in particolare, per la riflessione sulla sensualità trascesa le pp. 50-52. 56

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pri, obbligati a una regola: «La loro regola richiede di patire fame e sete e di coprirsi il corpo quel tanto che la necessità impone»62. Il raggiungimento dell’assoluta apàtheia era funzionale a consentir loro di avere relazioni con qualsiasi persona per aiutarla spiritualmente: una volta spogliatisi del tutto della loro carnalità, essi restano per sempre in contatto con il mondo dei vivi, recando sollievo alle persone e presentando a Dio le suppliche di chi lo implora; tuttavia conducono sostanzialmente la vita di prima, salvo che non si privano di quanto adesso è necessario e non si rinchiudono in alcun luogo, disponendosi, invece, all’ascolto e all’incontro di tutti. Fanno, senza fermarsi, una serie di genuflessioni e si rialzano continuamente, tenendo così vivo in loro un unico desiderio: la condotta da vecchi e impotenti liberamente scelta63.

Continuando a narrare le gesta «degli uomini ispirati da Dio», Evagrio consegna ai posteri un breve e intenso ritratto di Simeone di Emesa «il quale aveva deposto la tunica della vanagloria al punto da sembrare a chi non lo conosceva una persona con la mente sconvolta, benché, in realtà, fosse ricolmo di tutta la sapienza e la grazia di Dio»64. Di lui ci racconta tre eventi miracolosi e in tutti e tre i casi Simeone si comporta in modo da attirare su di sé lo sconcerto e la riprovazione degli altri, finché un evento sovrannaturale o provvidenziale non svela la realtà. Si racconta, infatti, che fu ingiustamente accusato da una serva, che aveva beneficato, di averla ingravidata e tutti accettarono la versione della donna, salvo poi ricredersi perché al momento del parto lei non poté far nascere il bambino finché non ebbe pronunciato il nome del vero padre. Sino ad allora, però, Simeone aveva finto di essere colpevole, attirandosi gli strali degli abitanti di Emesa e, ciò nonostante, aveva continuato a trattare la serva amorevolmente. Un’altra volta fu sospettato perché era stato visto in casa di una prostituta, tant’è che la donna fu chiamata in giudizio e, allora, chiarì che Simeone era stato in casa sua ma soltanto per portarle cibo e acqua, altrimenti sarebbe morta di inedia. Infine, prima che si manifestasse il terremoto che sconquassò le coste fenice, fu visto frustare le colonne del foro di Emesa. Dopo il cataclisma tutti compresero che Simeone lo aveva previsto e sperimentarono che la violenza del sisma non aveva potuto abbattere le colonne toccate dalla frusta del salòs, mentre tutte le altre erano rovinate a terra. Evagrio era sicuramente uomo edotto dei fatti di Simeone, essendo intimo del patriarca Gregorio di Antiochia che governava spiritualmente quella zona. Il racconto di Evagrio presenta numerosi punti di tangenza con il Prato Spirituale di Giovanni Mosco e anche 62 63 64

F. carcioni, Evagrio di Epifania Storia Ecclesiastica, cit., p. 68. Ivi, pp. 68-69. Ivi, pp. 243-244.

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Mosco faceva parte del circolo di intellettuali in relazione con Gregorio di Antiochia65. Più precisamente, per quanto attiene a Simeone, è l’episodio del terremoto e delle colonne a ripresentarsi nel Prato Spirituale66. Peraltro il testo di Giovanni Mosco, concepito per illustrare gli Apophtegmata che ne costituivano il nucleo fondante, registra anche un’altra presenza “folle per amor di Cristo”: si tratta di un salòs poverissimo, che Mosco racconta di aver incontrato ad Alessandria, quando era in compagnia dell’amico Sofronio. Il poveretto, muto, ebbe da loro una piccola elemosina e si rivelò un santo asceta soltanto al tramonto, quando si mise a pregare liberamente, gettando via le monete, perché credeva di non essere osservato. Il libro di Mosco ebbe un successo straordinario e fu pluritradotto, circolando, così, in tutto il mondo di allora. Ne esistono molteplici versioni e traduzioni in lingua armena, araba, georgiana, etiopica, paleoslava e latina67. Simeone salòs e gli altri Le attestazioni litugiche relative a Simeone ne collocano il dies natalis al 21 giugno: forse il più antico canone a lui dedicato fu opera di Teofane di Nicea († ca. 850); in ogni caso la sua festa ricorre in molti sinassari a partire dal nono secolo68. Costui era di origine siriaca, di Emesa, appunto e visse all’epoca di Giustiniano I, dunque in una società che conosceva bene anche le forme più singolari di ascetismo. La sua agiografia più ricca e completa fu composta da Leonzio di Neapoli, vescovo di Cipro, tra il 610 e il 63069. Leonzio scrisse altre due Vitae sanctorum: i bioi del vescovo cipriota san Spiridione e di san Giovanni il misericordioso, più conosciuto con il titolo di Elemosiniere nella pars Occidentis dell’Impero70. H. chadWick, John Moschus and his friend Sophronius the Sophist, «Journal of Theological Studies», 25, 1974, pp. 41-74, in particolare le pp. 47-49. 66 P.G. 87, coll. 2851-3112, 88. Sul testo cfr. Ph. pattenden, The editions of the Pratum spirituale of John Moschus, «Studia Patristica», XV, 1, 1984, pp. 15-19. Per la storia del testo si vedano H. chadWick, John Moschus and his friend Sophronius, cit., e J. Wortley ed., The Spiritual Meadow of John Moscos, Kalamazoo, Mich. Cistercian, 1992. Nell’agiografia composta da Leonzio di Neapoli troviamo il racconto delle colonne: P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., pp. 114-115. 67 Cfr. m. c. giorda, Il dossier egiziano nel Prato spirituale di Giovanni Mosco, «Annali di Studi Religiosi», 6, 2005, pp. 67-83, p. 68. Si veda, in particolare, l’enfasi che giustamente la studiosa pone sulla prossimità del Prato agli Apophtegmata. L’episodio a cui mi riferisco in P.G. 87/3, col, 2976A. 68 Cfr. s. ivanov, Holy fools, cit., p. 142. 69 Déroche anticipa al 610 la composizione della Vita, mentre per Cavallero sarebbe stata scritta nel 620-630: V. déroche, Études sur Léontios de Neapolis, cit., p. 18; P. cavallero ed. et alii, Leoncio de Néapolis, Vida de Simeòn el loco, Buenos Aires, UBA, 2009, p. 29. 70 Ivi; P. cavallero ed. et alii, Leoncio de Néapolis, Vita de Espiridòn, Buenos Aires, UBA, 2014. Leonzio è stato autore anche di un trattatello antigiudaico e di alcuni sermoni: L. 65

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Rispetto a quanto sappiamo dei saloì ricordati sin qui e di altri saloì di cui conosciamo pochissimo – come l’Antioco ricordato da Giovanni Climaco nella Scala Paradisi, Paolo di Corinto, Teodoro, Giovanni, Giovanni di Emesa e Giorgio saloì – le informazioni su Simeone, grazie a Leonzio, risultano abbondanti71. L’agiografo già nel Prologo esplicita il suo intento parenetico: sia che scriva per una comunità monastica cipriota precisa, come afferma Krueger72, sia che si rivolga a una fetta più ampia di fedeli, lui, vescovo e quindi pastore d’anime, dichiara apertamente di scrivere per incitare alla virtù e alla pratica dei comandamenti divini chi legge le res gestae di Simeone. Simeone è, insomma, un modello di perfezione cristiana73. La sua avventura da folle per amor di Cristo ha inizio a Gerusalemme dove si trova in compagnia della madre e dell’amico Giovanni per visitare i luoghi santi74. È un giovane di elevata estrazione sociale, che procede a cavallo ed è aiutato dai propri servitori. Ma quando di fronte a lui si parano i monasteri edificati attorno al Giordano, Giovanni gli dice che sono abitati da angeli e che vivere così significa guadagnare il Paradiso. I due tirano i dadi per conoscere la volontà di Dio, come fecero gli apostoli75; il responso indica la scelta monastica, dunque si decidono a rinunciare a tutto e, incoraggiandosi vicendevolmente, a seguire le orme di Cristo. Si dirigono verso il monastero di san Gerasimo, dove vengono accolti da un sant’uomo di nome Nicone che, rydèn, Introduzione a Leonzio di Neapoli, Niceforo prete di Santa Sofia, Vite dei saloi Simeone e Andrea, cit., pp. 35-36. Inoltre sembra certo che Leonzio conoscesse l’agiografia che Giovanni Mosco aveva dedicato a Giovanni l’Elemosiniere: c. mango, A Byzantine Hagiographer at work: Leontios of Neapolis, in Byzanz und der Westen: Studien zur Kunst des europäische Mittelalters, a cura di I. Hutter, Vienna, Österraichischen Akademie der Wissenschaften, 1984, pp. 3335. Non è chiaro, invece, se conoscesse anche il Prato. 71 Antioco, di cui ci rende testimonianza Giovanni Climaco in Scala Paradisi IV, 41, una breve apparizione di un salòs è anche nella vita di Gregorio il Decapolita della metà del IX secolo, cfr. J. grosdidier de matons, Les Thèmes, cit., pp. 298-299; Teodoro salòs, AA.SS., Febbraio 3, p. 524. V. deroche, Etudes sur Leonce de Neapolis, cit., p. 155, nota 4, cita Giovanni salòs di Costantinopoli, Giorgio salòs del calendario georgiano e Giovanni salòs di Emesa. Su Paolo di Corinto salòs S. ivanov, The Heroes of the Orthodox Church: The New Saints, 5th-16th, ed. E. Kountoura-Galake, International Symposium 15, Athens, Institute for Byzantine Research, 2004, pp. 39-46. 72 D. krueger, Symeon the Holy Fool, p. 29. 73 La fonte che utilizzo è stata tradotta e magistralmente commentata da Paolo Cesaretti. Rimando interamente a quella per ogni approfondimento critico: P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., pp. 65-144, alle pp. 145-153 si trovano i preziosi apparati all’edizione della fonte (indice dei nomi, dei passi citati e cartine geografiche). Un ulteriore contributo critico imprescindibile in p. cesaretti, b. hamarneh, Testo agiografico e orizzonte visivo. Ricontestualizzare le Vite dei saloi Simeone e Andrea (BHG 1677, 115z), Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2016. 74 Con Giovanni Simeone instaurerà un vero e proprio ‘compagnonaggio’ spirituale. Su questo tema: d. krueger, Between Monks: Tales of Monastic Companionship in Early Byzantium, «Journal of the History of Sexuality», 20, 1, 2011, pp. 28-61, in particolare le pp. 31-33, p. 37, pp. 44-45, pp. 56-58. 75 Atti degli Apostoli, 1, 26.

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non appena li vede, profetizza il loro futuro appellando «folle» Simeone e «abbas» Giovanni76. A seguito di visioni divine e di un forte richiamo interiore, Simeone decide di trasformarsi in boskòs e persuade Giovanni a fare altrettanto. Nicone, che nel frattempo è diventato il loro carismatico padre spirituale, benedice questa decisione ed essi si avviano verso il deserto, fino al Mar Morto, dove si riparano nella casupola di un vecchio boskòs ormai passato a miglior vita. Lì Simeone resta per ventinove anni, praticando l’ascesi più rigorosa, finché non si risolve a ritornare nel secolo perché realizza che deve fare come san Paolo «mi sono fatto tutto per tutti, per salvare tutti»77. Giovanni, però, stavolta non lo segue, perché è consapevole di non aver raggiunto lo stadio spirituale adeguato. Confessa «io non sono ancora pervenuto a livello tale da poter prendermi gioco del mondo»78. I centri urbani, nella sincronia, avevano inziato ad attrarre persino gli stiliti. Ancora nel V e vieppiù nel corso del VI secolo, abbiamo notizia di monaci stiliti che si dirigono verso le città e lì portano a compimento la loro vocazione79. Alcuni testi religiosi siriaci, dal canto loro, attestano che le istanze imperative alla solitudine iniziano lentamente a venir meno dalla fine del V secolo in poi80. Con l’abbandono del deserto da parte di Simeone si precisa e si conferma la sottotraccia interpretativa già presente nel racconto storico di Evagrio lo Scolastico: diventare salòs significa raggiungere il terzo stadio di un cammino di perfezionamento spirituale che inizia nel monastero, prosegue con la vita eremitica e selvatica del boskòs e infine sfocia nell’apàtheia della follia per Cristo. Del resto Giovanni Climaco († 67081) incastona nella Scala Paradisi una criptocitazione delle azioni di Simeone per esemplificare l’altissimo livello spirituale di chi, per umiltà estrema, assume su di sé colpe che non ha «a motivo del disprezzo di sé»82. E, giova ricordarlo, la Scala Paradisi ebbe P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., p. 74. 77 I Cor., 9, 22. Ma si veda nuovamente l’ottimo commento di P. cesaretti, Vite dei saloi, cit., p. 98, note 229-233. 78 Ivi, p. 99. 79 Cfr. Sancti Alypii stylitae vita prior, in h. delehaye, Les saints Stylites, Bruxelles, Société des Bollandistes, rep. anast. 1962 (Subsidia Hagiographica 14), pp. 148-187; Vita Danielis stylitae vita antiquior, ivi, pp. XXXV-LVIII; Vita S. Lucae stylitae, ivi, pp. 195-237. Cfr. anche J. m. sansterre, Les saints stylites du V au IX siècle. Permanence et évolution d’un type de sainteté, in J. Marx a cura di, Sainteté et martyre dans les religions du Livre, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1989, pp. 33-45. 80 r. terzoli, Il tema della beatitudine nei padri siri, presente e futuro della salvezza, Brescia, Morcelliana, 1973. 81 Secondo la datazione proposta da Bernard Flusin: per una disamina approfondita della questione biografica cfr. r. m. parrinello, Giovanni Climaco, La Scala del Paradiso, Milano, Ed. Paoline, 2007, pp. 19-22. 82 Cito dall’ottima edizione tradotta da R. M. parrinello, Giovanni Climaco, La Scala del Paradiso, p. 429. Simeone è ricordato in corrispondenza del venticinquesimo gradino (su trenta). 76

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una fortuna straordinaria in Oriente e in Occidente. Anche la comparsa di una scheggia tematica del genere avvalora l’influenza esercitata dall’ascetismo siriaco sul monachesimo sinaitico, di cui Climaco fece parte integrante. Il collegamento tra questi luoghi era garantito da un’importante rete viaria che congiungeva il Sinai con la Siria e con la Palestina, a sua volta regione ecclesiastica di appartenenza del Sinai stesso, e offriva ai monaci ampie possibilità di movimento. Del resto pure Giovanni Mosco, autore del già ricordato Prato spirituale, visse nel monastero di Santa Caterina ai piedi del Sinai e il monachesimo sinaitico alla fine del VI secolo fu più simile al monachesimo palestinese di quanto non lo sia stato al monachesimo propriamente egiziano. Al medesimo ambiente, quello delle lauree sinaitiche, appartenne pure il già menzionato Daniele di Sketis o Scetiota: addirittura il nome proprio Sketis è all’origine del sostantivo comune skiti, utilizzato nella zona sinaitica per indicare un insediamento religioso costituito da un gruppo di capanne in cui vivevano un maestro spirituale e i suoi discepoli83. E nella Vita di Daniele viene narrata la storia della monaca salè. Riannodiamo, adesso, le fila delle vicende di Simeone. Dopo il colloquio con Giovanni, egli ritornò a Gerusalemme, dove si fermò per tre giorni supplicando il Signore «che il suo operato rimanesse nascosto fino alla sua dipartita da questo mondo»84. Dopodiché si dirige a Emesa, dove inaugura il suo soggiorno che sarà scandito da bizzarrie appartentemente insensate e da bizzarre azioni misericordiose, trascinando un cane morto in mezzo ai bambini che gli urlano «eh, abbas moros!», per continuare con il lancio delle noci in chiesa contro le donne e le candele85. Nell’intera Vita di Simeone s’intrecciano racconti di azioni assurde e provocatorie: danza con le ballerine e recita nel circo, frequenta una maga, sta tra le prostitute, come già sappiamo accetta che una serva lo indichi quale padre di suo figlio, entra tranquillamente nella sezione dei bagni pubblici riservata alle donne, finge di voler baciare le domestiche dei potenti, si mischia con tavernieri e mercanti, lancia sassi sui passanti per strada per far passare un cane, non si cura di esser giudicato un indemoniato. «Compiva ogni cosa con gesti folli e indecenti», scrive Leonzio: ma la parola non può rendere l’immagine dei fatti. A volte si fingeva sciancato, altre volte zoppo; ora si trascinava avanti sul sedere, ora invece sgambettava Ancora ivi, pp. 26-31, p. 44. 84 P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., p. 102. Evidentemente seguo la ricostruzione dell’ordito testuale proposto da Cesaretti che assegna alla sosta gerosolimitana il nuovo inizio dell’esistenza di Simeone. 85 Ivi, p. 105. Si vedano anche le considerazioni di J. m. v. espinosa, La Locura por Causa de Cristo. Anàlisis Comparativo entre Simeòn de Emesa “El Loco” y Diògenes de Sinope El Perro”, «Archivo de la Frontera», 2005, pp. 2-9. 83

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chi correva per farlo cadere. Con la luna nuova faceva quello che guarda su in cielo e poi cade giù per terra dimenandosi. A volte simulava l’invasamento verbale. Diceva infatti che era soprattutto questo atteggiamento a confarsi e adattarsi a coloro che si simulavano stolti a causa di Cristo86.

Ognuna di tali eccentricità ha un secondo, santo, fine che resta nascosto ai più anche grazie all’intervento di Dio; per esempio la maga in verità è controllata da lui e resa innocua, le meretrici sono convertite, la serva mente ma finisce per confessare, va tra le donne al bagno soltanto per dimostrare che cosa sia l’apàtheia, allontana i passanti gettando pietre per far transitare un pericoloso demone nascosto nel corpo di un cane che, altrimenti, avrebbe indemoniato molte persone innocenti, sostiene l’accusa di possessione diabolica per essere libero di esorcizzare senza che il suo carisma venga riconosciuto87. E se parla sconnessamente, lo fa per redarguire il peccatore in modo da esser compreso soltanto dall’interessato e nella maniera più efficace, alternando la violenza verbale al semplice rimbrotto, ricorrendo alla profezia, o a quant’altro fosse necessario per salvare un’anima in pericolo. Simeone possiede tutti i carismi divini, non in ultimo la discrezione degli spiriti che gli consente sia di vedere l’invisibile (demoni e presenze celesti), sia di scrutare il cuore degli uomini, sia anche di pronunciarsi in merito all’ortodossia di intellettuali raffinati come Origene. Insomma la simulazione della pazzia è soltanto la maschera sociale indossata da chi ha raggiunto il grado più alto dell’insensibilità agli stimoli della carne. La reputazione di pazzo lo protegge dal pericolo della superbia spirituale e gli consente di agire nel mondo come un missionario di Dio: più povero degli indigenti e randagio tra i senza tetto, fonda la sua libertà d’azione sulla rinuncia a tutto, persino alla reputazione di normalità. La marginalità estrema gli consente di raggiungere i veri ultimi nella scala sociale e di aiutarli spiritualmente: ebrei, mercanti disonesti, prostitute, maghi e indovini, ma anche ipocriti socialmente rispettati, sono la vigna evangelica del folle in Cristo. Soltanto la morte terrena di Simeone consentirà a tutti di svegliarsi «come da un sogno» e di realizzarne e testimoniarne la santità88. La felice ambiguità semantica delle gesta del salòs, spesso addirittura giullaresche, è registrata dal linguaggio delle prediche di Gregorio lo Studita, nel IX secolo, allorché il termine salòs viene utilizzato nel senso di buffone o attore89. P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., pp. 123-124. 87 Su quest’ultimo episodio si veda anche e. kislinger, Symeon salos’ hund, «Jarbuch der Osterreichischen Byzantinistik», 38, 1988, pp. 165-170. 88 P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., pp. 141-142. 89 Come nota s. ivanov, Holy fools, cit., p. 41. La fonte in questione è la Magna Cathechesis 82, pubblicata da g. cozza-luzi, in Novae Patrum Bibliothecae ab Angelo card. Maio colectae, X.1, Roma, Biblioteca Vaticana, 1905, p. 25. 86

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Parallelamente, tuttavia, iniziano a emergere alcuni correttivi alla diffusione del modello del perfetto salòs delineato da Leonzio di Neapoli. Nel 692 il sessantesimo canone del Concilio Quinisesto condannò quanti simulavano la possessione diabolica, perché una simile prossimità al diavolo veniva avvertita come un’occasione pericolosa. Nella Vita di Gregorio il Decapolita, di metà secolo IX, il protagonista deve confrontarsi con il demonio che, per ingannarlo, assume proprio l’aspetto di un salòs90. Ciò nonostante altri saloì scorrazzano nei racconti agiografici dedicati ad alcuni santi uomini che furono redatti tra il IX e il X secolo. Ancora nel corso del IX secolo Gabriele il melodio versificò la vita di Simeone di Emesa, contribuendo alla sua circolazione, e fu trasmessa la memoria di un altro salòs, Paolo di Corinto, mentre Niceta di Amnia compose la Vita di Filarete il Misericordioso, considerata dagli studiosi una sorta di versione laica delle Vite dei folli in Cristo, e persino l’imperatore Leone VI nell’Hypotyposis si spinse a raccomandare la pratica della follia per Cristo a quanti rischiavano di farsi accecare dall’orgoglio della cultura91. Altri saloì compaiono nella vita di san Gregenzio arcivescovo di Taphar in Arabia meridionale, recentemente edita e puntualmente commentata da Albrecht Berger. Probabilmente la fonte fu compilata a metà del X secolo a Costantinopoli e non, come pure era stato ipotizzato in passato, a Roma, perché pare che l’autore abbia utilizzato una delle guide per i pellegrini diretti verso Roma come modello per raccontare i fatti accaduti a Roma o ad Agrigento, e sembra altrettanto sicuro che non abbia visitato di persona né l’una, né l’altra città 92. Sembra che sia una scrittura totalmente costantinopolitana, memoria del poderoso sforzo effettuato dall’Impero per espandere la propria egemonia in tutta l’area del Mar Rosso93. Gregenzio incontra il salòs Petros a MoryJ. s. palmer, Los santos locos en la literatura bizantina, «ERYTHEIA», 20, 1999, pp. 5775, p. 66. 91 Hypotyposis, III, 56-58, in Varia Greca Sacra: sbornik greceskich neizdannych bogoslovskich tekstov 4.-15., a cura di A. Papadopoulos-Kerameus, rist. anast. Dell’edizione originale S. Pietroburgo, 1909, Leipzig, Zentralantiquariat der Deuschen Demokratischen Republik, 1975 [Subsidia Byzantina Lucis Ope Iterata 6]; per Filarete: M. H. Fourmy, La Vie de S. Philarète, «Byzantion», IX, 1934, pp. 85-170; A. kazhdan, l. F. sherry, The Tale of Happy Fool: The Vita of St. Philaretos the Merciful (BHG 1511z-1512b), «Byzantion», 66, 1996, pp. 351-362. Cfr. J. S. palmer, Los santos locos, cit., p. 66. 92 A. berger ed., Life and Works of Saint Gregentios, Archbishop of Taphar. Introduction, Critical Edition and Translation, with a contribution of Gianfranco Fiaccadori, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 2006, p. 44. 93 Il significato politico dell’opera è rimarcato dalla bella recensione al volume di Berger firmata da v. christidites in «Collectanea Christiana Orientalia», 6, 2009, pp. 458-464. Si veda inoltre l’articolo che rimette in questione il problema della cronologia dell’opera: ch. messis, La famille et ses enjeux dans l’organisation de la cité ideéale chrétienne. Le cas des Lois des ‘Homérites’, in B. Caseau ed., Les réseaux familiaux: antiquité tardive et Moyen Age, Paris, Centre de recherche d’histoire et civilisation de Byzance, 2012, pp. 87-120. 90

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ne, dove quest’ultimo vive segretamente nei luoghi più desolati della città, avendo ripudiato la gloria degli uomini e praticando una povertà rigorosissima94. Petros riconosce in lui un santo e gli profetizza la sua santità. Si imbatte anche in Giovanni e Stefano, folli per Cristo a Roma, nell’anonima salè che vive ad Agrigento e, infine, in Filotea di Cartagine. Tutti costoro sono dotati dello spirito di profezia, tranne Filotea, che piuttosto si è dedicata alla follia per Cristo per penitenza, sul modello di Marco. Andrea salòs e il canto del cigno della santa follia Con tutta probabilità ancora a metà del X secolo a Costantinopoli fu composta la Vita di Andrea salòs95. Andrea non è mai esistito e l’agiografia costituisce un’interessante somma di luoghi comuni rivelatori del significato attribuito alla follia per Cristo intorno al 950 e nella capitale dell’Impero96. La Vita colloca l’esistenza di Andrea e la propria scrittura nel VI secolo – soprattutto durante il regno di Leone I –, dopodiché garantisce l’autenticità delle informazioni che contiene dichiarandosi il racconto di Epifanio, discepolo del santo e poi Patriarca di Costantinopoli, nonché testo dello scrittore che conobbe personalmente sia il maestro Andrea, sia il discepolo Epifanio97. Lo scrittore sostiene di chiamarsi Niceforo, della Grande Chiesa, cioè di Santa Sofia. Si tratta sicuramente di uno pseudonimo, come ha

A. berger ed., Life and Works of Saint Gregentios, passi: 2.52-84; 2.340-376; 5.380-445; 6. 202-237; 6-53. Si veda anche il precedente lavoro di A. berger, Das Dossier des heiligen Grigentios, ein Werk der Makedonenzeit, «Byzantina», 22, 2001, pp. 53-65, in particolare p. 64. A Gregenzio sono stati tradizionalmente attribuiti (ma senza fondamento) i cosiddetti Νὸμοι τῶν Ὁμηριτῶν, un testo composto da 64 capitoletti diretti al prefetto di ciascuna regione che contengono disposizioni penali. Cfr. a. d’emilia, Intorno ai Νὸμοι τῶν Ὁμηριτῶν, «Rassegna di studi etiopici», 7. 1 1948, pp. 54-67. Si veda, quindi, la monografia di r. tardy, Najrân: Chrétiens d’Arabie avant l’islam, Beyrouth, Dar El.Mahreq Èditeurs, 1999 [«Recherches, Nouv. Série: B – Orient Chrétien», 8], in particolare le pagine dedicate al contesto cristiano del Sud Arabia e al regno giudeo himyarita (522-525) del primo e del secondo capitolo. 95 La complicata quaestio della datazione dell’agiografia in p. cesaretti, The Life of St Andrews the Fool by Lennart Rydèn: vingt ans après, «Scandinavian Journal of Byzantine and Modern Greek Studies», 2, 2016, pp. 31-52. 96 l. rydèn data molto precisamente il testo, si veda Id., Introduzione in P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., in particolare le pp. 49-51. 97 È stata ipotizzata da Cesaretti, Rydèn e Magdalino anche la committenza da parte di Basilio, figlio bastardo di Romano I e di una donna scita, cfr. p. cesaretti, I metodi dell’evidenza. Le Vite dei saloi Simeone e Andrea tra allusioni e calchi, in p. cesaretti, b. hamarneh, Testo agiografico e orizzonte visivo. Ricontestualizzare le Vite dei saloi Simeone e Andrea (BHG 1677, 115z), Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2016 [Testi e Studi Bizantino-Neoellenici, XX], pp. 33-59, p. 52. Tutto il saggio è un contributo fondamentale per ricostruire la dialettica testualità/iconografia nelle due vite. 94

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notato Cesaretti98. Niceforo di Santa Sofia potrebbe essere un nome denotatore del senso dell’opera: Niceforo significa colui che porta la vittoria e Santa Sofia è la santa sapienza, ovvero: colui che porta la vittoria della santa sapienza. La sapienza di Dio, indubbiamente santa, è follia agli occhi degli uomini; pertanto colui che ne scrive, celebrandone il trionfo attraverso il racconto di Andrea è, appunto, colui che porta la vittoria della santa sapienza. In definitiva anche il nome dell’agiografo potrebbe essere un raffinato crittogramma del senso dell’agiografia. Se, poi, la vittoria a cui il nome Niceforo si riferisce, sia anche la vittoria dell’evangelizzazione in terra scita, è difficile a dirsi; ciò nonostante l’ipotesi potrebbe non risultare del tutto peregrina. Su questo punto in particolare ritornerò più diffusamente a breve. Andrea è di origine scita, cioè appartenente alle popolazioni nomadi delle steppe russe. La provenienza del salòs è forse anche la spiegazione della scelta onomastica dell’agiografo: per il santo viene usato lo stesso nome dell’apostolo che, secondo la tradizione, aveva evangelizzato la Scizia e poi aveva fondato la diocesi di Bisanzio99. La narrazione delle sue azioni occupa soltanto la settima parte del testo, perché l’autore allarga le maglie del racconto biografico per inserirvi lunghe conversazioni di ammaestramento spirituale tra Andrea e il suo discepolo Epifanio, visioni beatifiche – una sorta di trattatello teologico e spirituale – e un’apocalissi che, probabilmente, fu esemplata sul modello della versione ebraica della Visione di Daniele, composta tra 954 e 959, attribuita all’arcangelo Gabriele e retrodatata al regno di Cosroe I (531-578)100. Andrea ci viene presentato come uno schiavo istruito e catechizzato grazie alla bontà del padrone, e che, dopo una tentazione diabolica e alcune visioni soprannaturali in sogno, intraprenderà la strada della follia per Cristo. Epifanio, invece, è l’unico a cui Andrea «parlava direttamente e senza simulazione di follia». Egli, secondo quanto leggiamo nel testo, diventerà monaco dopo la morte del santo e poi addirittura Patriarca di Costantinopoli e trasmetterà la memoria di Andrea a chi ne scrive la Vita, come accennavo sopra101. Il cambiamento di status di Andrea è sancito da un gesto apparentemente insensato: egli fa a striscioline la propria veste mentre sta di fronte a un pozzo e proferisce frasi sconnesse e assurde. Il suo padrone, sperando guarisca, gli impone un’incubatio in catene nella Id., Vingt ans après, cit., p. 31. 99 Cesaretti molto lucidamente argomenta che la condizione dell’essere straniero è una sorta di topos per il salòs. Ricorda altresì che l’evangelizzazione della Rus’ data il X secolo e che la principessa Olga fu battezzata a Costantinopoli nel 957, L. rydèn, Introduzione, in P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., p. 161. 100 Cfr. l. rydèn, The Andrea salos Apocalypse: Greek Text, Translation and Commentary, «Dumbarton Oaks Paper», 32, 1974, pp. 197-216, p. 204. 101 P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., p. 172. 98

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chiesa di Santa Anastasia. L’incubatio durò quattro mesi e per Andrea furono quattro mesi di visioni e colloqui soprannaturali, mentre per il suo padrone e per tutti gli altri furono la prova provata che era impazzito; perciò gli furono tolte le catene e fu lasciato libero di vagare come preferisse. Da allora in avanti compie gesti da forsennato, simula l’ubriachezza e si comporta da stolto durante il giorno, mentre la notte prega, ha estasi e viene addirittura assunto in cielo per due settimane. Per quanto la Vita di Simeone sia il modello usato dallo scrittore, tra Andrea e Simeone intercorre una grande differenza: Andrea sembra la vittima immolata, tutti lo battono senza ragione, e Niceforo si dilunga nel descrivere la cattiveria di chi infierisce su di lui e introduce situazioni al limite del verisimile. Per esempio lo ritrae mentre, accasciato e sofferente sotto un sole particolarmente impietoso, viene ripetutamente calpestato dai passanti, fino a quando alcuni addirittura non lo trascinano a testa in giù per le gambe soltanto per il gusto di fargli del male. Mentre Simeone spesso motteggia ed è tagliente, Andrea è mite e la sua pazzia è quasi ragionevole: non rimprovera se non i peccatori, non si caccia in situazioni imbarazzanti sua sponte e non assume atteggiamenti né provocatori né blasfemi. Niceforo sottolinea continuamente l’aspetto sofferente di Andrea, quasi che l’enormità del dolore ricercato spontaneamente sia il solo elemento in grado di giustificare una scelta esistenziale tanto particolare. Questo salòs non raggiunge mai una scandalosità comportamentale paragonabile a quella di Simeone, perciò se si trova tra le prostitute è soltanto per caso, se si mostra nudo in pubblico è perché lo hanno spogliato; inoltre non compie alcuna azione sacrilega, mentre Simeone si ingozza di carne durante la Quaresima, lui frequenta assiduamente la chiesa e le manifestazioni devozionali collettive. Niceforo interpreta in questa maniera la santa follia. Epifanio, dal canto suo, è protagonista di un cammino di perfezionamento interiore che via via lo rende più santo ed è un santo “quotidiano”, imitabile per il lettore. L’esperienza di santità di Andrea è slegata dal mondo monastico al quale, invece, l’esperienza di Simeone continua a essere collegata. Simeone è, a tutti gli effetti, un monaco. Un monaco che ha raggiunto il terzo livello del perfezionamento ascetico (o il venticinquesimo gradino, se vogliamo riallacciarci alla Scala Paradisi di Climaco) e che dunque può vivere nel mondo per convertirlo, ma è comunque un monaco. Andrea non lo è affatto. È un santo prescelto da Dio e divenuto salòs per grazia immediata, senza aver percorso nessun particolare itinerario di santificazione ascetica, sostituito da quattro visioni e da quattro mesi di incubatio in catene nella chiesa di Sant’Anastasia. Anzi, è un fanciullo pagano catechizzato e istruito per volontà del padrone. Il mondo monastico non gli appartiene affatto, né gli apparterrà: anche dopo la conversione alla difficile strada della simulazione della follia, appare legato

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alle chiese, non ai monasteri102. Numerosi studiosi hanno riflettuto sulla complessità del testo, tra tutti ricordo soltanto Paul Magdalino che, sulla scorta dei precedenti contributi di Christina Angelidi e di Lennart Rydèn ha comparato efficacemente la Vita di Andrea con la Vita di Basilio il Giovane, a essa coeva, documentando l’esistenza di una sorta di specularità tra le due fonti. Basilio, al pari di Simeone, inizia la sua avventura da folle in Cristo diventando monaco boskòs, vive a Costantinopoli e simula la follia soltanto occasionalmente. In particolare Magdalino rileva come il racconto agiografico di Andrea sia stato composto «in the spirit of the clerical regulation of lay morality introduced by the Quinisex Concilium» e la Vita di Basilio si concluda con un rassicurante monito a elargire elemosina ai poveri e alle chiese e a ricorrere all’intercessione dei santi103. Tanto più che nella Vita di Andrea i richiami all’ortodossia sono numerosi: dall’accento antibogomilo con cui si anatematizza chi ha in dispregio la Croce santa chiamandola «forca»104 – corrispondente a uno dei titoli del Synodikon, il testo ufficiale promulgato dal Sinodo dell’843 a conferma dell’ortodossia -, alla condanna di Ario, al racconto relativo all’uomo blasfemo punito da Dio, presentato dall’autore del testo come un racconto edificante in chiave anti-iconoclasta. «Ella [la moglie del blasfemo punito] raccontava questa storia a tutti, per instillare timore del Signore e sempre far rifuggire la fornicazione, l’adulterio, l’ubriachezza e far ricercare notte e giorno l’aiuto del Signore, senza mai avere in spregio i martiri di Dio con le loro sante reliquie e venerabili immagini»105. E non dobbiamo sottovalutare che il figlio spirituale di Andrea, Epifanio, sia il Patriarca di Costantinopoli: il fatto che sia lui a narrare alcune tra le gesta di Andrea conferisce all’intera opera un significato anche istituzionale. La Vita di Andrea, in definitiva, funge da moralizzante e catechetico strumento di evangelizzazione laicale, indicando nella chiesa l’unico porto sicuro per i fedeli. Leggendo la fonte si riceve un’impressione ulteriore: che i miLa “ricca geografia” delle chiese di Costantinopoli legate ad Andrea è oggetto di analisi in b. harmaneh, Una città per il salos. La costruzione agiografica dell’orizzonte urbano, in p. cesaretti, b. hamarneh, Testo agiografico e orizzonte visivo. Ricontestualizzare le Vite dei saloi Simeone e Andrea (BHG 1677, 115z), cit., pp. 60-157, pp. 117-119. 103 P. magdalino, ‘What we heard in the Lives of the saints we have seen with our own eyes’: the holy man as a literary text in tent-century Constantinople, in The Cult of Saints in Late Antiquity and the Middle Ages. Essays on the Contribution of Peter Brown, edd. J. Howard-Johnson, P. A. Hayward, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 83-112, p. 95. 104 P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit. p. 316. Il discorso si trova nell’apocalisse ed è riferito all’azione dell’imperatore empio. Per la vicinanza tra le due fonti, a. rigo, Il patriarca Germano II (1223-1240) e i bogomili, «Revue des études byzantines», 51, 1993, pp. 91-110, p. 100. 105 P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., p. 298. 102

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racolistici racconti biografici delle sante peripezie di Andrea siano quasi un volano agiografico per veicolare la parte teologica e profetica del testo, che è poi anche la parte maggioritaria. Nella sezione agiografica dall’incipit εροταποκρισεις, cioè domande e risposte, è ospitato un dialogo maestro-discepolo (Andrea-Epifanio) che costituisce un vero e proprio testo nel testo, un’operetta di istruzione e di direzione spirituale. Riecheggiando l’Esposizione della fede ortodossa di Giovanni Damasceno, il Canone Giambico pentecostale attribuito ancora al Damasceno, la sua Orazione III sulle immagini, il Commento alla Genesi di Procopio di Gaza e addirittura l’Inno pentecostale di Romano il melodo106, ospitando una chiara condanna delle opinioni ariane107, queste pagine istruiscono sulle fondamentali verità di fede attingendo senza risparmio ai versetti scritturali. Finita questa sezione, riprende il racconto biografico, ma è di nuovo sospeso poco dopo per riferire la profezia sulla fine del mondo pronunciata da Andrea a beneficio di Epifanio, cioè la breve apocalisse a cui mi riferivo sopra. Centrale è la richiesta di spiegazioni sulla dimostrazione del compimento dei tempi e su come Costantinopoli, identificata con la «nuova Gerusalemme», trascorrerà via perché la caduta della città è segno escatologico108. Le pagine apocalittiche sono arricchite dalla successiva lettura dell’orazione Sul Battesimo di Basilio di Cesarea effettuata da Epifanio. In realtà si tratta di un sintetico richiamo alla necessità del battesimo, avvalorato dalla percezione di profumi soprannaturali e da visioni angeliche e, poco dopo, dall’edificante racconto del martirio di san Teodoro e dall’ultima, solenne, conversazione magistrale tra Andrea e Epifanio, che svela le meraviglie di Dio109. Insomma sorge il dubbio che l’autore della Vita di Andrea abbia voluto costruire un fulgido esempio di un santo – o meglio di un morfema di santità – antico, dunque predittivo, per ieraticizzare la trasmissione della sapienza cristiana. Una sapienza catechetica e, nondimeno, profetica. Potrebbe darsi che l’autore della Vita di Andrea, riallacciandosi al racconto dell’esperienza di Simeone di Emesa che, come l’autore esplicita nel prologo, si pone quale «immagine e modello di pratica virtuosa»110, abbia voluto proporre uno scritto in parte anche correttivo rispetto all’eventuale declinazione anomica dell’esperienza di Simeone, scrivendo un’agiografia stringentemente convenzionale e ortodossa, ma molto prodiga di informazioni catechetiche e pensata soprattutto per i laici. Ivi, p. 274, nota 525, p. 275, nota 527, 279, note 553 e 555, p. 294, nota 646. 107 Ivi, p. 289. 108 Ivi, p. 310. Il puntualissimo commento critico di Paolo Cesaretti restituisce chiaramente il mosaico di fonti apocalittiche sotteso al testo e a questo rimando interamente, ivi pp. 310-326. 109 Ivi, pp. 326-336. 110 Ivi, p. 60. 106

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Le vicende successive dell’agiografia di Niceforo, forse, possono aiutarci a formulare nuove domande sulla genesi e sulla finalità del testo. Se a Cipro il culto ad Andrea è fiorente nel XII-XIII secolo, se nel corso del XIII-XIV il suo nome fu inserito nel calendario liturgico del monastero del Monte Athos, se a Costantinopoli, nel medesimo periodo, sono attestati due monasteri intitolati a Andrea salòs111, già nel corso dell’XI-XII secolo la fonte era stata tradotta in paleo slavo e aveva incontrato un’accoglienza ottima tra i fedeli112. Ne è prova la vigenza della festa del Pokrov: essa discende dalla visione sovrannaturale di Andrea che alle Blachernae visualizza la Vergine Maria nell’atto di distendere il proprio manto sui fedeli113. L’esempio di Andrea ebbe un grande successo in terra russa, ponendosi come modello imitabile di santità e così inaugurando il fortunato filone dei yurodivji, i santi “folli” asceti in Cristo popolarissimi in Russia114. Un simile successo fu soltanto effetto del caso o, forse, fu in qualche misura anche effetto di una scrittura consapevolmente rivolta, sulla base della fortuna incontrata dalla Vita di Simeone in Bulgaria, anche all’evangelizzazione dei russi? Ripercorriamo brevemente gli eventi dell’evangelizzazione. Nella lettera enciclica del patriarca Fozio, dell’867, si sostiene che i popoli della Rus’ sembravano propensi, dopo la conversione dei Bulgari dell’863, ad abbracciare la fede cristiana, così Fozio inviò appositamente un vescovo missionario in quelle terre. In realtà la conversione preannunciata si rivelò essere più un desiderio di quanto non fosse una realistica possibilità. La Rus’ accolse ufficialmente il cristianesimo soltanto nel 988, all’epoca del principe Vladimiro il santo (956-1015) e dopo il consolidamento dei rapporti commerciali tra russi e bizantini durante il regno di Costantino VII Porfirogenito115. Contemporaneamente in Bulgaria furono tradotte e iniziarono g. p. maJeska, Russian Travelers to Constantinople in the Fourteenth and Fifteenth Centuries, Washington, Dumbarton Oaks Research Library and Collection Washington, 1984, pp. 314-315. 112 L. rydèn, Introduzione, in P. cesaretti, Vite dei santi saloi, cit., pp. 51-52. Fu tradotta in slavo ecclesiastico nei secc. XI-XII, poi di nuovo nel XIV e nel XV, cfr. G. Velculescu, Die Vita des Heiligen Andrea salos in der rumänischen Handschriften, in L. Taseva, M. Jovčeva, K. Fos, T. V. Pentkovskaja a cura di, Prevodite prez XIV stoletie na Balkanite. Doklady ot meždunarodnata Konferencija (Sofija, 26-28 juni 2003), Sofija, Gorexpress, 2004, pp. 177-489. 113 Si veda la digressione di B. harmaneh, Una città per il salos. La costruzione agiografica dell’orizzonte urbano, in p. cesaretti, b. hamarneh, Testo agiografico e orizzonte visivo. Ricontestualizzare le Vite dei saloi Simeone e Andrea (BHG 1677, 115z), cit., pp. 60-157, pp. 100-107. 114 S. T. tyskieWics, Spiritualité et sainteté russe pravoslave, «Gregorianum», XV, 1934, pp. 349-376; L. rydèn, Les “fous pour le Christ” dans l’agiographie russe, «Revue d’ascétique et mystique», XXV, 1949, n. 98-100, pp. 426-437; I. kologrivoF, Saggio sulla santità in Russia, Brescia, Queriniana, 1955, p. 279; G. P. Fedotov, The Russian Religious Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1966, volume II, pp. 316-318. 115 I. duJc¸ev, Medioevo bizantino-slavo, Vol. 1, Saggi di storia politica e culturale, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1965, pp. 11-12; N. cariello, Bisanzio, Roma e Kiev al tempo dell’imperatore Giovanni Tzimisce, Antologia di documenti, Riofreddo, Associazione Aequa, 2008, pp. 111

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a circolare la Vita di Simeone di Emesa e la Vita di Giovanni elemosiniere di Leonzio di Neapoli, nonché la Vita di sant’Alessio. Il loro frutto non si fece attendere: il primo folle in Cristo di area slavo orientale è Isaakij, monaco del monastero delle Grotte di Kiev che visse alla fine dell’XI secolo e di cui ci racconta prete Nestor: un santo vissuto non molti anni dopo l’evangelizzazione di quei popoli e la diffusione dei modelli agiografici dei saloì116. La redazione della Vita di Andrea è contemporanea al dispiegarsi dell’attività missionaria bizantina in Rus’ e, forse, l’origine scita di Andrea e la quantità di personaggi dai biondi capelli che popolano il racconto potrebbero essere un’allusione alle popolazioni in via di conversione o appena convertite. Se la Vita di Simeone aveva riscosso successo tra i bulgari, perché non proporre un modello analogo anche agli abitanti delle terre russe, magari ambientando il racconto nell’escatologica «nuova Gerusalemme» – Costantinopoli in modo da presentare come provvidenzialmente cairotico il dispiegarsi missionario del Patriarcato verso la Russia?117 Non solo: il forte legame introdotto nella Vita di Andrea tra il santo e le istituzioni ecclesiastiche costantinopolitane, l’aver sottolineato come il Patriarca fosse addirittura il discepolo prediletto di Andrea, santissimo uomo, non significava santificare il Patriarcato nella sua interezza? E infine: la Vita era anche un catechismo e un’opera di istruzione spirituale vergata nella più adamantina ortodossia: anti-ariana, anti-iconoclasta e anti-bogomila, in modo da scongiurare fin dall’inizio qualsiasi possibile stortura d’opinione. Tanto più che in Bulgaria, subito dopo la conversione dei bulgari al cristianesimo, si era incistato anche il bogomilismo, che attaccava duramente, tra l’altro, la devozione staurologica, l’universo sacerdotale, giudicato corrotto, la liturgia, il culto per i santi e le reliquie118. 133-137. Ancora importantissimo il saggio di J. m. sansterre, Les missionaires latins, grecs et orientaux en Bulgarie dans la seconde moitié du IXe siècle, cit. 116 s. capri, Saloi, jurodivye Christa radi, e san Francesco d’Assisi, «Miscellanea Francescana, Rivista di Scienze Teologiche e Studi Francescani», 116, 2016, pp. 76-109, p. 88. Sulla tradizione slava ecclesiastica che unisce culturalmente gli slavi orientali al mondo balcanico, si vedano i capitoli 15-18 del libro recente di m. garzaniti, Gli Slavi. Storia, culture e lingue dalle origini ai giorni nostri, Roma, Carocci, 2013. 117 «L’attività poderosa di traduzione di opere canoniche ed ecclesiastiche, patristiche e filosofiche, ebbe un carattere di assimilazione creativa: interessati alla fede più che ai segni della continuità imperiale, i russi scelsero le fonti a cui attingere, sviluppando la traccia aperta dalle traduzioni effettuate in Bulgaria», m. guidetti, Il Mediterraneo e la formazione dei popoli europei. V-X secolo, Milano, Jaca Book, 2000, p. 139. 118 Cfr. h. c. puech, a. vaillant, Le traité contre les bogomiles de Cosmas le prêtre, Introduction et texte, Paris, Imprimerie Nationale, 1945, pp. 72, 83, 84-87; d. obolensky, The Bogomils: a Study in Balkan Neo-Manicheism, Cambridge, Cambridge University Press, 1947; a. rigo, I Vangeli dei bogomili, «Apocrypha», 16, 2005, pp. 163-198; R. m. parrinello, Santità, eresia e politica a Bisanzio nel XII secolo. Costantino Crisomallo il falso bogomilo, Brescia, Morcelliana, 2008, pp. 19-24; v. m. minale, Legislazione antimanichea in epoca bizantina e sulla sua applicazione, «Revue Internationale des droits de l’Antiquité», 57, 2010, pp. 193-231.

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Contemporaneamente a tutto ciò, la figura e gli scritti di Simeone il Nuovo Teologo (949-1022) offrono un altro angolo prospettico d’indagine, perché ci permettono di apprezzare l’ambigua complessità innescata dalla riflessione sulla pratica della follia per Cristo. Se nella Vita di Simeone il nuovo teologo di Nicetas Stethatos leggiamo che Simeone simulava atteggiamenti indecenti per nascondere il suo livello spirituale, ormai altissimo, e anche per occultare il proprio indefesso apostolato, se egli stesso imponeva al suo discepolo Ieroteo, monaco del monastero di San Mamas dov’era stato igumeno, il compimento di azioni appartentemente pazzesche, quando scrisse la Catechesi censurò quanti si presentassero come saloì perché, a suo modo di vedere, lasciavano intendere a chi li incontrava di essere santi. Quando, poi, descrive il proprio padre spirituale Simeone lo Studita, lo fa dipingendolo come se fosse un salòs, o meglio un grande mistico che occasionalmente ricorreva alla finzione della pazzia per nascondersi. Anche di se stesso, del resto, fornisce un autoritratto simile119. In questo caso le perplessità in materia discendono dalla rigida interpretazione che dell’apàtheia dà Simeone il Nuovo Teologo: se la simulazione della follia ha senso come difesa spirituale e come espressione di apàtheia, essa è suscettibile di diventare dannosa proprio perché fa riconoscere immediatamente chi dovrebbe restare nascosto. I correttivi alla condotta del salòs di cui si scriveva sopra si evidenziano in alcune opere dell’XI e XII secolo. Una critica pesante, che estremizza l’opinione di Simeone il Nuovo Teologo, è attestata nel trattello morale Stratègikon di Kekaumenos120. Un’altra è formulata dal giurista Teodoro Balsamon121 commentando il canone del Concilio Quinisesto già ricordato; in questo caso V. dèroches, Études sur Léontios de Naeapolis, p. 205, pp. 208-211; J. S. palmer, Los santos locos, cit., pp. 69-70; s. ivanov, Symeon nouveau theologien en tant qu’un fol en Christ, «Знаки Балкан. Сборник статей», 2, II, 1994, pp. 271-288. Riproduco qui la traduzione in francese del passo della Cathechesi (XXVIII, 369-379 dell’ edizione di vasiliJ, J. paramelle, Cathéchèses, voll. 1-3, Paris, Du Cerf, 1963-1965) effettuato da S. ivanov, Ivi, p. 271: «Bien plus, même ceux qui jouent les fous et parlent à tort et à travers de sottises et de futilités, qui affichent des manières incongrues et invitent les autres à rire, ils les regardent comme si, par de pareilles ruses ou sensées telles, manières, paroles, ils s’efforçaient de dissimuler leur vertu et leur impassibilité, et ils les honorent comme impassibles et saints. Mais ceux qui vivent sans la dévotion, la vertu, la simplicité de coeur, ceux qui sont réellement des saints, ils les négligent, comme un homme quelconque parmi les autres, et les laissent de côté». Si veda, inoltre r. m. parrinello, Agiografia studita e direzione spirituale: modelli di padri spirituali a confronto, in Direzione spirituale e agiografia. Dalla biografia classica alle vite dei santi dell’età moderna, a cura di M. Catto, I. Gagliardi, R.M. Parrinello, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2008, pp. 167-206. 120 m. d. spadaro ed., Cecaumeno, Raccomandazioni e consigli di un galantuomo, Alessandria, Ed. Dell’Orso, 1998, III. 121 Sulla biografia del Balsamon (1130/1140-1200 ca.) si veda d. ceccarelli morolli, Breve profilo di Teodoro Balsamon canonista in Costantinopoli durante il XII secolo, «Ephemerides Iuris Canonici», XLIX, nn. 1-3, 1993, pp. 103-109. 119

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il problema consiste nella difficoltà di valutare correttamente il comportamento del folle in Cristo: il rischio che vi siano atteggiamenti fraudolenti è altissimo122. Poi nell’opera Narrazione cronologica dell’uomo politico e storico Niceta Coniata (1155 ca.–1271), è incastonata un’altra dura reprimenda allo stile di vita del salòs. Raccontando dell’imperatore Isacco II, alla cui affermazione Niceta aveva concorso non poco, e di come si fosse recato a Rodosto per Pasqua nell’imminenza dello scontro con il fratello (e traditore) Alessio, inserisce la narrazione dell’incontro con tale Basilacio. Egli è, come ha acutamente notato Paolo Cesaretti, un salòs. Reputato da molti un santo e profeta, si produceva in azioni eccentriche e insensate, talvolta addirittura sguaiate; era circondato da donne sue parenti che, con gesti e parole, contribuivano non poco ad alimentare l’aura di santità di cui era circonfuso. Ma, commenta icastico Niceta, «i perspicaci» – tra i quali annoverava se stesso – «lo consideravano un vecchietto curioso, buffone e ciarlatano». Si fece beffe anche dell’imperatore ed egli «se ne andò via, accusandolo di essere pazzo»123. Il brano è esplicativo di quel cambiamento culturale che aveva finito per destrutturare l’impatto sociale e la credibilità dei saloì124. Inoltre, nel corso del XII secolo si era affermata, secondo Lennart Rydèn e Paul Magdalino, una scala di valori profondamente diversa, di tipo “pre-umanistico” e che mal s’accordava con la follia per Cristo125. Probabilmente fu in conseguenza di tali difficoltà e trasformazioni culturali che le fonti bizantine successive (XIV-XV) relative a esperienze ascrivibili alla simulazione della pazzia per amore di Cristo, la declinano nel senso del raggiungimento della pace interiore, della pratica del silenzio e dell’umiltà estremi126. J. s. palmer, Los santos locos, cit., pp. 71-72. 123 Niceta Coniata, Grandezza e catastrofe di Bisanzio (Narrazione cronologica), a cura di a. pontani, testo critico di J.L. Dieten, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori editore, Volume 2, 1999, pp. 531-535. 124 Sono debitrice a Paolo Cesaretti anche della segnalazione di questo brano così importante, oltre che dell’attenta lettura del mio testo. Rinnovo quindi i miei ringraziamenti a Cesaretti. 125 l. ryden, The Holy Fool, in The Byzantine Saint, Fourteenth Spring symposium of Byzantine Studies, a cura di S. Hackel, London, fellowship of St. Alban and St. Sergius, 1981 pp. 106116, in particolare pp. 113-115; p. magdalino, The Byzantine Holy Man in the Twelfth Century, ivi, pp. 51-66. 126 J. s. palmer, Los santos locos, cit., pp. 73-74. Già Grosdidier de Matons, nel 1970, evidenziava un dato sul quale sembrano convergere anche i più recenti contributi di Déroche e di Stroumsa: la fenomenologia della santa follia è duplice Quella praticata in Egitto va contestualizzata all’ambiente cenobitico ed è quindi definibile nei termini di forma perfetta di kruptos doulos; essa è insomma un mezzo di progresso dell’anima volto a combattere la superbia spirituale. Quest’ultima, a sua volta, costituisce la tentazione monastica per eccellenza ed è riccamente rappresentata nelle medesime fonti in cui sono incastonati i racconti dei saloì e delle salai: l’Historia Lausiaca e gli Apophtegmata Patrum. 122

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Verso il cuore del Mediterraneo Se vogliamo indicare i flussi testuali e le conseguenti affermazioni dei culti, dobbiamo considerare la centralità dell’area sinaitica – a sua volta ponte di collegamento tra Palestina, Siria, Egitto e continente europeo – nella veicolazione dell’idea e della prassi della santa follia più antica, quella sintetizzata dalle fonti del VI-VII secolo e contraddistinta da una fortissima venatura culturale di ascendenza siriaca. Questa pratica della santa follia è una sorta di techné spirituale connessa strettamente all’ambiente e alla mentalità claustrale, che ripropone gli ideali monastici più elevati ed estremi nonché la pratica della paternità /discepolanza spirituale, sul modello di quanto accadeva nei cenobi e nelle lauree. Il salòs monaco protegge la sua anima con la simulazione della follia che, metaforicamente, funziona come il perimetro claustrale, ma esce a vivere nel mondo. Ed è proprio un simile, metaforico, “muro” innalzato intorno a sé grazie alla finzione, che rende possibile l’abbandono del monastero a favore della vita attiva, per guadagnare le anime a Cristo lavorando la vigna del Signore. Allorché le testimonianze agiografiche e liturgiche opportune raggiunsero il cuore pulsante dell’Impero grecofono, Costantinopoli, il legame con il mondo monastico nei termini descritti sin qui si allentò e fu sostituito da un altro, posto in essere con l’intera chiesa patriarcale e, casomai, con forme di monachesimo peculiari e che potremmo definire d’eccellenza. Un monachesimo vissuto da raffinati intellettuali (come Simeone il Nuovo Teologo) in cerca di un antidoto potente contro la superbia spirituale, o di mistici esegeti della Parola in cerca del contatto continuativo con il divino, come gli esicasti127. A Costantinopoli, nel X secolo, si originò un’ulteriore spinta culturale e di tipo anche missionario, perché collegata all’evangelizzazione della Rus’ e dei popoli slavi, che avrebbe portato il modello del salòs in Bulgaria e nella Rus’, dove conobbe un successo straordinario e uno sviluppo del tutto peculiari. Le fonti propriamente siriache, come il Liber Graduum o le Vite dei santi orientali, veicolarono invece l’idea e la prassi della “follia per amor di Dio” nelle aree islamizzate, trovando feconda accoglienza nell’ambiente sufi. La seconda fenomenologia, rappresentata dalle Vite dei saloì bizantini – sostanzialmente Simeone di Emesa e Andrea di Costantinopoli – è di matrice siriaca, dunque anacoretica. In quest’ultimo caso la follia per Cristo coincide con il massimo grado dell’apàtheia. J. grosdidier de matons, Les Thèmes, cit. pp. 277-328; v. déroches, Etudes sur Léontios de Néapolis, cit.; Id., Syméon Salòs le fou en Christ, Paris, Paris-Méditerranéa, 2000; G. stroumsa, Madness and divination, cit. 127 a. rigo, Monaci esicasti e monaci bogomili. Le accuse di Messalianismo e Bogomilismo rivolte agli esicasti e il problema dei rapporti tra esicasmo e bogomilismo, Firenze, Olschki, 1989; Id., L’amore della quiete (ho tes hesychias eros): l’esicasmo bizantino tra il XIII e il XV secolo, Magnano, Qiqojon Comunità di Bose, 1993.

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Infine le regioni occidentali e latinofone: anche qui penetrò la santa follia in re e non soltanto in linea teorico-esegetica. In Occidente fu declinata secondo il paradigma cenobitico di ascendenza sinaitico – egiziana e non secondo quello anacoretico di origine siriaca128. Con ogni probabilità furono proprio i testi riferiti agli antichi padri del monachesimo a veicolarla: le Vite dei Padri e i Detti dei Padri o Apophtegmata Patrum e, molto più tardi, il Prato spirituale di Giovanni Mosco. Dal VI secolo la boscosa Europa accolse infatti le Vitas Patrum sia sotto forma della Historia Monachorum in Aegypto di Rufino, sia sub specie della Historia Lausiaca di Palladio, sia del Liber Geronticon di Pascasio del monastero iberico di Dumio e del Liber Vitas Sanctorum Patrum Orientalium di Valerio di Bierzo129. Tutto questo materiale confluì – seppur parzialmente – nel IV libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, che si diffuse tanto in Occidente quanto in Oriente, come dimostrano le traduzioni in greco (papa Zaccaria nell’VIII secolo), in arabo, in sassone, e in franco normanno130. Già durante il Concilio ecumenico del 494 papa Gelasio affermava di disporre delle «Vitas Patrum, Pauli, Antonii, Hilarionis, et omnium eremitorum, quos tamen vir beatus scripsit Hieronymus»131. I testi greci furono voltati in latino e circolarono senza posa; sia sufficiente soltanto ricordare il capitolo XLII della Regula Benedicti dove si recita: «Monachi omni tempore, sive jejunii sive prandi fuerit, mox ut surrexerint a coena, sedeant omnes in unum, et legat unus Collationes vel Vitas Patrum, aut certe aliquid quod aedificet audientes»132. In tutti questi testi compaiono soltanto due vite di saloì – Serapion il sidonita e Marco di Alessandria – una della salé – la monaca di Tabennisi – ma vi pullulano dicta o brevi exempla in cui si esaltano gli atteggiamenti dettati dalla follia per Cristo. Peraltro la Vita di Giovanni Elemosiniere scritta da Leonzio di Neapoli riguarda un santo ben conosciuto e particolarmente onorato anche in Occidente. Qui l’agiografia pervenne direttamente dall’Egitto e fu tradotta da Anastasio Bibliotecario133. Mi sia concesso di rimandare al mio Pazzi per Cristo, cit. 129 Cfr. C. m. battle, Contribuciò a l’estudi de Pascasi de Dumi i la seva versiò de Verba Seniorum, «Estudis Romànics», 2, vol. 8, 1961, pp. 57-65. Resta insuperata, per completezza d’informazione e per impianto critico, la bella sintesi di J. m. sansterre sulla veicolazione dell’Oriente in Occidente: Id., La “luce” dell’Oriente in Occidente, in Oriente cristiano e santità. Figure e storie di santi tra Bisanzio e l’Occidente, Milano, Centro Tibaldi, 1998 (Ministero per i beni culturali e ambientali – Biblioteca Nazionale Marciana), pp. 77-83. 130 gregori magni Dialogi, liber IV, pp. 229-325. La traduzione in arabo risale a qualche anno prima dell’800 e fu opera del monaco Antonio del monastero di San Simone, quella in sassone fu opera del vescovo Werferth di Worchester e data circa l’890, la versione in franco normanno è ascrivibile al 1212 e fu redatta ad Angier. 131 Vitae Patrum, p. 13. 132 Ivi, pp. 14-15. 133 J. m. sauget, m. c. celletti, Giovanni l’Elemosiniere, in Bibliotheca Sanctorum (d’ora in poi B.S.), Istituto Giovanni XXIII, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1961-1970, volume VI, pp. 750-758; p. chiesa, Una traduzione inedita di Anastasio Bibliotecario? Le “vitae” 128

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Nella Vita di Giovanni tra gli altri personaggi compare anche un salòs, com’è stato evidenziato da un bello studio di Vincent Déroche134. Si tratta di Vitalio, un ascetico anacoreta che abbandona la solitudine per andare ad Alessandria dove vive “scandalosamente” da folle in Cristo. Durante quell’eccezionale stagione culturale che siamo soliti identificare come la rinascita del XII secolo ancora questi testi – direttamente o indirettamente attraverso l’incorporazione di alcuni loro frammenti o parti in altre opere – evasero dagli horti conclusi dei monasteri per iniziare un lungo e fortunato pellegrinaggio spirituale tra i devoti. L’intensificarsi delle predicazioni già in epoca pre – Mendicante, contestualmente al passagium transmarino e alla riforma della Chiesa, ottenne l’effetto di innalzare il livello di consapevolezza cristiana dei christifideles, che si avvicinarono alla pratica della fede via via più scientemente135. Ma il vero successo di pubblico giunse con i frati Mendicanti, quando, attraverso le prediche e la trattatistica di erudizione spirituale destinata a prolungare i tempi della sacra conversatio ben oltre lo spazio della confessione, della funzione o della predicazione, i fedeli si familiarizzarono con la fides e la traditio. Durante tale straordinaria congiuntura il mito della chiesa primitiva trovò un eccellente terreno di coltura, originando sperimentazioni di vita comune che, riallacciandosi idealmente al passato, crearono di fatto nuove forme di consacrazione a Dio, mentre l’esperienza della dedicazione mistica al Creatore si moltiplicò nei mille rivoli della esperienza spirituale personale. Gli eroici furori degli antichi monaci del deserto diventarono, allora, magistri in scriptis – e anche in verbis grazie alle prediche – della vita cristiana136.

latine di sant’Anfilochio, «Studi Medievali», 3s., XXVIII, 1987, n. 2, pp. 879-904, s. tramontini, a. niero, g. musolino, s. candiano, Culto dei santi a Venezia, Venezia, Studium Cattolico Veneziano, 1965, vol. 2, pp. 199-200. 134 id., Ètudes sur Leontios de Neapolis, cit., p. 142. 135 s. menache, The Crusades and their Impact on the Development of Medieval Communication, in Kommunikation Zwischen Orient und Okzident Alltag und Sachkultur, International Kongress Krems an der Donau 6 bis 9 Oktober 1992, Wien, Verlag der Osterreichischen Akademie der Wissenschaften, 1994, pp. 69-90. 136 Cfr. b. mcginn, The flowering of mysticism: men and women in the new mysticism (12001350), The Presence of God, vol. 3, New York, Crossroad Publishing, 1998, 3 vol. h. kühnel, Kommunikation zwischen Orient und Okzident: Alltag und Sachkultur Versuch eines Resumées, in Kommunikation Zwischen Orient und Okzident Alltag und Sachkultur, International Kongress Krems, an der Donau, 6. bis 9. oktober 1992, Wien, VÖAW, 1994, pp. 5-24; Vd. anche i dati presenti in: m. roncaglia, Storia della Provincia di Terra Santa, vol. 1, I Francescani in Oriente durante le Crociate (sec XIII), Il Cairo, Centro di Studi Orientali, 1954.

2. L’Oriente in Occidente: le icone dei santi padri nella latinità medievale (secc. VII-XI)

Pascasio, monaco del cenobio di Dumio, nella regione di Braga (oggi in Portogallo), intorno al 555 lavorava alla traduzione di un testo “culto” del monachesimo grecofono: il già ricordato Apophtegmata Patrum1. L’incarico gli era stato affidato da Martino, probabilmente originario della Pannonia, il santo fondatore del monastero di Dumio e il principale responsabile dell’attività di traduzione dal greco al latino che caratterizzò quell’insediamento. Braga divenne così un centro straordinariamente rilevante per la veicolazione sia della letteratura bizantina sulla santità dei primordi del monachesimo, sia dei decreti consiliari più vetusti, perché durante il regno di re Miro (570-583) alla comunità monastica fu assegnato il compito di evangelizzare gli svevi e, poco dopo, i visigoti stanziati in quei territori. La presenza bizantina nella penisola iberica, come hanno evidenziato importanti scavi archeologici recenti, restò significativa durante tutto il periodo svevo-visigotico e anche all’indomani dell’islamizzazione, durante il periodo omayyade. Per quanto attiene al periodo svevo, sembra che la volontà politica di desumere un’identità precipua al regno, in modo da marcarne la differenza rispetto ai regni visigoti di Siviglia e di Toledo, abbia indotto Miro a preferire le fonti giuridiche e ascetico-spirituali siriache e palestinesi, più che le nord africane e le costantinopolitane, scelte invece dai regni visigoti concorrenti. Così «Martin se trajo a Braga, y tradujo las normas giuridicas orientale, las Vitae Patrum Graecorum, que hizo traducir a Pascasio (Liber Geronticon). Lo mismo hizo el abad Venerio del Bierzo con la Vidas de los Padres insistendo continuamente que el modelo a seguir por sus monjes era la

Cfr. l. regnault, Paschase. Livre des anciens: recueil d’apophtegmes des Péres du désert, texte imprimé, Solesme, Editions de Solesme, 1995. 1

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vida de los padres orientales»2. Un secolo più tardi la prassi inaugurata da Martino era ancora vigente: come abbiamo visto, anche Valerio di Bierzo (630 ca.- 695 ca.) si preoccupava di latinizzare le fonti greche, componendo così il Liber Vitas Sanctorum Patrum Orientalium3. Nell’intera penisola la cultura bizantina fu diffusa dall’occupazione giustinianea del suolo iberico e, a seguire, dagli episcopati greci di Cartaghena, Cordova, Mérida e delle Baleari che rimasero bizantine anche dopo la conquista visigota, nonché dalla presenza dei negotiatores graecos attivi sui mercati internazionali di Mérida e Mertola, ponte tra la penisola iberica, Bisanzio, il nord dell’Africa, il Mediterraneo orientale e l’Italia. Erano, poi, numerose le comunità cristiane di origine orientale che, come a Tarragona, Tortosa, Elche, Siviglia, Castro de Viladonga, per esempio, si dedicavano al commercio, al pari delle comunità giudee di provenienza greco-orientale, e furono destinate a crescere numericamente a causa delle guerre tra Bisanzio e l’Impero sasanide. Un’influenza potente della cultura bizantina fu, poi, indirettamente assicurata dai fitti rapporti diplomatici tra Braga e Ravenna e, in seguito, dall’invasione omayyade perché gli Omayyadi continuarono a utilizzare modelli culturali bizantini e, nella fattispecie, costantinopolitani4. Così numerosi santi di origine orientale trovarono accoglienza nelle fonti liturgiche iberiche e ricevettero gli onori del culto. In particolare tra VIII e X secolo furono traslate le reliquie di un gruppo di santi della chiesa antiochena: San Babilas di Antiochia, i santi Cosma e Damiano, san Cristoforo, i santi Giuliano e Basilissa, san Romano, le cui tracce memoriali provenivano direttamente dall’area siro-palestinese5. La fondazione del monastero Agali di Toledo da parte di alcuni cenobiti siriani e palestinesi assicurò un contatto costante e fitto con le regioni medio-orientali di provenienza. Altri monaci siro-palestinesi si spostarono quindi in Calabria e così realizzarono una triangolazione culturale di rilievo: Agali era connesso con Antiochia e con la Palestina e, al contempo, con la Sicilia e la Calabria6. La citazione è preceduta dal periodo seguente: «La elecciòn de monjes orientales en este caso (a juzgar por la obra que realizan) tiene todas las caracterìsticas de una autonomìa al reino suevo respecto a los visigotos de Toledo y Sevilla, en relaciòn directa con la iglesia madre de Jerusalèn», s. Fernàndez ardanaz, Monaquismo oriental en la Hispania de los siglos VI-X, «Antiguidad Cristiana», XVI, 1999, pp. 203-214, p. 208. 3 C. mordeglia, Valerius Bergidensis ep., in P. Chiesa, L. Castaldi a cura di, La trasmissione dei testi latini del Medioevo, Firenze, Sismel, 2008, pp. 458-471. 4 Cfr. la bella sintesi di F. sanna, Apporti bizantini alla cultura artistica visigotica, «ArcheoArte. Rivista di Archeologia e Arte», 3, 2014, pp. 295-303. Per la situazione di Ravenna: Storia di Ravenna II. 2. Dall’età bizantina all’età ottoniana. Ecclesiologia, scultura e arte, Padova, Marsilio, 1992, in particolare per la presenza dei monaci greci a Ravenna, si veda il saggio di J. M. sansterre, Monaci e monasteri greci a Ravenna, ivi, pp. 323-329. 5 s. Fernàndez ardanaz, Monaquismo oriental en la Hispania, cit., p. 208. 6 Ivi, p. 210. Per il monachesimo calabrese, si veda l’aggiornata sintesi di a. cilento, Presenze etniche nella Calabria medievale: testimonianze di fonti agiografiche, «Rivista Storica Calabrese», XVI, 1995, pp. 91-117. 2

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Quasi in contemporanea rispetto a Pascasio di Dumio, sul suolo italico il diacono Pelagio, poi papa Pelagio I, traduceva gli Apophtegmata Patrum in latino. Non conosciamo l’anno preciso in cui ciò avvenne, ma ragionevolmente si ritiene che Pelagio sia stato attivo tra il 556 e il 561. Subito dopo, tra 561 e 574, il suddiacono Giovanni tradusse la sezione successiva del medesimo testo. La differenza delle operazioni culturali italiche rispetto quelle di Dumio sembra sia da ravvisare nella scelta del patrimonio culturale bizantino di riferimento: per la regione di Braga era l’antiocheno e il siro palestinese, mentre per Pelagio e Giovanni era il costantinopolitano7. In Italia Ravenna si segnalò per essere un centro attivo nelle traduzioni, così come lo era stato il Vivarium di Cassiodoro, e, forse, anche in altri ambienti furono approntate traduzioni dal greco8. Ad esempio, come nota Raffaele Savigni, non possiamo escludere che Petronio, vescovo di Bologna, sia stato autore di una «collezione di detti degli antichi Padri»9. Nell’intera pars Occidentis l’interesse per le gesta degli “eroici” padri del cristianesimo, cenobiti ed eremiti rigorosi, asceti macerati dalla volontà di seguire l’esempio di Cristo sofferente e crocifisso, era altissimo e, venute meno le persecuzioni, al cruore del martirio fisico sempre più si andava sostituendo il martyrium amoris della ricerca indefessa di una prossimità costante all’Altissimo. Come si è già detto, dal VI secolo riscossero grande fortuna l’Historia Monachorum in Aegypto di Rufino, la Historia Lausiaca di Palladio, il Liber Geronticon di Pascasio e il Liber Vitas Sanctorum Patrum Orientalium di Valerio di Bierzo, le Vitas Patrum10 e porzioni di quelle storie lì raccontate popolarono il IV libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, mentre la Regula Benedicti ne avrebbe previsto la lettura quotidiana11. Senza contare Per la questione italiana si veda l’ottima sintesi di r. savigni, dove si dà conto della bibliografia di riferimento in maniera esaustiva: Tradizione monastica e cultura a Ravenna tra VII e VIII secolo, in g. sarti, Un libro ravennate di spiritualità monastica dell’inizio del secolo VII nell’Archivio Storico Diocesano di Ravenna – Cervia. Studio codicologico, trascrizione, traduzione, commento linguistico, Ravenna, Longo, 2017, pp. 13-35, in particolare pp. 15-16. 8 p. courcelle, Les Lettres grecques en Occident. De Macrobe à Cassiodore, Paris, E. de Boccard, 1943. 9 r. savigni, Tradizione monastica e cultura a Ravenna tra VII e VIII secolo, cit., p. 17. 10 Cfr. C. m. battle, Contribuciò a l’estudi de Pascasi de Dumi i la seva versiò de Verba Seniorum, «Estudis Romànics», 2, vol. 8, 1961, pp. 57-65. 11 «Benoît recommandait à ceux qui aspiraient à la perfection de la vie monastique la lecture de l’Ancient et du Nouveau Testament, celles des saints Pères catholiques necnon et collationes Patrum et Instituta et Vitas eorum, sed et Regula sancti Patris nostri Basilii. Il s’agissait donc des oeuvres de Cassien, d’un ensemble – sous une forme qu’on ignore – de biographies, d’anecdotes et peut-être déjà de sentences relatives ou attribuèes aux “Péres du désert”, ainsi que de la traduction par Rufin du premier état, blus bref que la version conservée en grec, de l’Asceticon de Basile de Césarèe», J. m. sansterre, Les moines d’Occident et le monachisme d’Orient du Vie au XIe siècle: entre testes anciens et réalités contemporaines, in Cristianità d’Occidente e cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), Spoleto, CISAM, 2004, pp. 289- 335, p. 292. 7

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che le Vitas Patrum trasmettevano le strampalate res gestae di Serapion il sidonita e della salè di Tabennisi. Ormai in pieno XIII secolo nella diffusissima opera di Domenico Cavalca (1270 ca. – 1342), dal titolo Pungilingua, significativamente si legge: «Onde di molti e di molte troviamo in Vita Patrum, che si mostrano stolti e pazzi essendo savj, per guadagnare il merito d’esser fatto beffe di loro»12. Il Prato Spirituale di Giovanni Mosco, straordinario vettore di storie legate al monachesimo sinaitico palestinese, non conobbe una traduzione semi-completa prima del IX secolo, quando Giovanni Immonide (825-882) ne voltò in latino una ventina di capitoli13. In precedenza, infatti, Anastasio Bibliotecario aveva tradotto soltanto alcuni estratti del Prato14. Sarebbe stato Ambrogio Traversari a fornirne la versione latina per intero, ma soltanto nel XV secolo15. Ugualmente la Scala Paradisi di Climaco fu latinizzata agli inizi del Trecento, ciò nonostante è pur vero che fin dall’XI secolo ne esisteva almeno un florilegio, copiato in Italia meridionale16. In ogni caso l’ideale della follia per Cristo non restava avulso dalla parte occidentale dell’Impero. Alle testimonianze presenti nella letteratura ricordata sin qui, possiamo aggiungere la Vita di Gregenzio, dove sono incorporati alcuni episodi di santa follia (ripercorsi nel capitolo precedente) e che fu diffusa in Italia dai monaci greci stanziati a Roma17 e la Vita di san Giovanni Elemosiniere di Leonzio di Neapoli, tradotta da Anastasio Bibliotecario; e sappiamo che anche in questa Vita ci imbattiamo nel racconto di alcuni saloì. Oltre le traduzioni: la liturgia e le Regole Dal canto loro le fonti liturgiche trasmettono, per quanto con incertezze ed errori, la memoria liturgica riservata dall’Occidente a Simeone salòs. I martirologi più antichi attestano la presenza del culto a Simeone in data 27 luglio (anziché al 21 luglio, giorno del santo secondo i calendari greci). Si tratta, per esempio, dei Martyrologia seguenti: Romanum parvum, Rabani, Adonis, Usuardi, Notkeri, Gellonensis, Richenoviensis, Augustani, Labbeani, Reginae Suecorum, Sancti Cyriaci, BarIl Pungilingua di fra Domenico Cavalca ridotto alla sua vera lezione da Monsignor Giovanni Bottari, Milano, per Giovanni Silvestri, 1837, p. 176. 13 Secondo Sansterre Mosco soggiornò a Roma. L’affermazione dell’autore è suffragata da una versione georgiana del Prato, del 977, in cui si rammenta Ravenna. J. m. sansterre, Les moines grecs et orientaux à Rome aux époques byzantine et carolingienne (milieu du VIe-fin du IXe s.), Bruxelles, Académie Royale de Belgique, 1982, pp. 57-60. 14 Ivi, p. 21. 15 r. savigni, Tradizione monastica e cultura a Ravenna tra VII e VIII secolo, cit., p. 19, p. 55. 16 J. m. sansterre, Les moines grecs et orientaux à Rome aux époques byzantine, p. 21. 17 Ivi, capitolo 8. 12

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beriniani, Fuldensis, Ottoboniani18. In vari casi l’abbreviazione utilizzata per il toponimo relativo a Simeone, ovvero Siria, è stata sciolta erroneamente con Sicilia, pertanto nel complesso risulta alternata la dizione in Syria con la dizione in Sicilia. Nel Martyrologium Adonis (IX secolo) si legge «In Sicilia, sancti Simeonis monachi»; nel Kalendarium Vaticanum Praefixum Sacramentario Gregoriano, leggiamo invece correttamente «in Syria Symeonis monachi»19, e lo stesso accade in un’altra fonte del IX secolo, il Kalendarium Laureshamense. Questo Kalendarium fu prodotto nella prestigiosa abbazia di Lorsch presso Worms. Il monastero, di fondazione carolingia, esercitò un ruolo egemone nell’Alto Medioevo e funse anche da centro propulsore di culti in quanto sede delle miracolose reliquie di san Nazario che attraevano numerosissimi pellegrini20. Un’ulteriore fonte liturgica del IX secolo, il Kalendarium stabulense, cioè il Calendario del monastero di Stablo (oggi Belgio), colloca la festa al 27 luglio «in Syria Simeonis monachi»21. Il Martyrologium ottoboniano (X secolo) fissa l’origine di Simeon monaco «in Syria»22, così come il Calendarium Hieronymianum23, mentre il Kalendarium Usuardi festeggia «de Sicilia beati Simeonis monachi»24. Anche il Martyrologium del monastero di San Gallo, del IX secolo, onora «in Siria Simeonis Monachi»25. Soltanto grazie alla tardiva emendazione di Cesare Baronio sarebbe stata risolta l’oscillazione topica e sarebbe stata sancita la diversità rispetto ai calendari greci cambiando nuovamente la data liturgica e fissandola al primo giorno di luglio. Nella versione del Baronio sta scritto: «Apud Emesam sancti Simeonis confessoris cognomento Sali, qui stultus propter Christum factus est: sed altam eius sapientiam Deus magnis miraculis illustravit»26. In assenza di una traduzione latina della Vita di Leonzio di Neapoli, risulta comunque significativa la presenza liturgica del salòs e Ai quali vanno aggiunti il Calendario Palat. Vat. 485 e Vat. 3806, e gli Autographa Bedae Palat. Vat. 833, 844, secondo la ricostruzione effettuata dal bollandista h. rosWeyde. Si veda Martyrologium Adonis Archiepiscopi Viennensis ab Heriberto Rosweido S.J. Theologo […] illustratum […], pars prima, Romae, ex Typ. Palladis, 1745, p. 356. 19 Ivi, p. 699. 20 Ivi, p. 692. Il patrimonio documentario di questa importante fondazione è oggi consultabile interamente on line all’indirizzo < http://archivum-laureshamense-digital. de/it/kontakt.html>. 21 P.L. 138, col. 1199. 22 Martyrologium Adonis Archiepiscopi, p. 683. 23 Vetustius occidentalis Ecclesiae Martyrologium D. Hieronymo a Cassiodoro, Beda, Walfrido, Notkero, aliisque scriptoribus tributum quod noncupatum est Romanum, cur. F. M. Florentinius, Lucae, Typ. Pacis, 1667, p. 683. 24 J. b. solleri s. J., Martyrologium Usuardi, Antuerpiae, ex Typographia Joannis Pauli Robyns, 1714, p. 428. 25 St. Gallen, Stiftsbibliothek, Cod. Sang. 450, c. 12r . 26 Martyrologium Romanum, ed. C. Baronio, Antuerpiae, ex officina Plautiniana, 1613, p. 276. 18

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il fatto che anch’egli fosse ascritto al mondo monastico. Del resto gli antichi padri orientali oggetto di venerazione erano tutti monaci: Antonio, Pacomio, Macario, Pafnuzio, Ilarione e Paolo. Fu, quindi, il monachesimo latino a fungere da scrigno mnestico delle esperienze della santa follia tramandate nel mondo ellenofono e siriaco. Semplicemente, a mio parere, queste memorie così particolari sopravvissero perché furono parte integrante di un bacino memoriale molto più ampio e articolato: la memoria dei santi padri delle origini del monachesimo, a loro volta modello e specchio del monachesimo seriore e che ravvisava le proprie radici in costoro. I fulgidi exempla di santità e di rigore ascetico, di dedizione totale a Dio, di sacrificio di sé che tali memorie trasmettevano, erano percepiti come exempla cattolici, dunque universali, valevoli ben al di là delle coordinate storico-geografiche di appartenenza. La loro potenza semantica di modello spirituale li sottraeva alla storicità, cioè sia all’incardinamento cronologico, sia a quello topologico. I monaci di qualsiasi tempo e di qualunque luogo erano chiamati a conoscerli, meditarli, utilizzarli quale fonte d’ispirazione per sé e per i confratelli. La Regula Benedicti non era la sola fonte normativa a raccomandare la lettura attenta delle Vitas Patrum, al contrario. La decretale pseudo gelasiana De recipiendi et non recipiendis libris – stilata nel VI secolo – inseriva in una sorta d’ideale armarium licitum le scritture agiografiche relative ai santi padri del deserto27. Le agiografie erano sicuramente materiale d’uso all’interno delle cerchie monastiche e «Item gesta sanctorum martyrum, quae multiplicibus tormentorum cruciatibus et mirabilibus confessionum triumphis inradiant. quis catholicorum dubitet maiora eos in agonibus fuisse perpessos nec suis viribus sed dei gratia et adiutorio universa tolerasse? sed ideo secundum antiquam consuetudinem singulari cautela in sancta Romana ecclesia non leguntur, quia et eorum qui conscripsere nomina penitus ignorantur et ab infidelibus et idiotis superflua aut minus apta quam rei ordo fuerit esses putantur; sicut cuiusdam Cyrici et Iulittae, sicut Georgii aliorumque eiusmodi passiones quae ab hereticis perhibentur conpositae. propter quod, ut dictum est, ne vel levis subsannandi oriretur occasio, in sancta Romana ecclesia non leguntur. nos tamen cum praedicta ecclesia omnes martyres et eorum gloriosos agones, qui deo magis quam hominibus noti sunt, omni devotione veneramur; item vitas patrum Pauli Antonii Hilarionis et omnium heremitarum, quas tamen vir beatissimus descripsit Hieronimus, cum honore suscipimus; item actus beati Silvestri apostolicae sedis praesulis, licet eius qui conscripserit nomen ignoretur, a multis tamen in urbe Roma catholicis legi cognovimus et pro antiquo usu multae hoc imitantur ecclesiae; item scriptura de inventione crucis et alia scriptura de inventione capitis beati Iohannis Baptistae novellae quidem relationes sunt et nonnulli eas catholici legunt; sed cum haec ad catholicorum manus advenerint, beati Pauli apostoli praecedat sententia: ‘omnia probate, quod bonum est tenete’. Item Rufinus vir religiossimus plurimos ecclesiastici operis edidit libros, nonnullas etiam scripturas interpretatus est; sed quoniam venerabilis Hieronimus eum in aliquibus de arbitrii libertate notavit, illa sentimus quae praedictum beatum Hieronimum sentire cognoscimus; et non solum de Rufino, sed etiam de universis quos vir saepius memoratus zelo dei et fidei religione reprehendit. Item Origenis nonnulla opuscula, quae vir beatissimus Hieronimus non repudiat, legenda suscipimus, reliqua autem cum auctore suo dicimus renuenda. Item chronica Eusebii Caesariensis atque eiusden historiae ecclesiasticae libros, quamvis in primo narrationis suae libro tepuerit et post in laudibus atque excusatione Origenis scismatici unum conscripserit librum, 27

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sacerdotali ma, attraverso le letture pubbliche delle Vite, delle Passioni dei martiri e dei racconti dei miracoli, diventavano pastorale fruita anche dai semplici fedeli, purché il lettore adottasse lo stile e il registro linguistico che le fonti qualificano con gli aggettivi humilis, incultus, rusticus e con altri sinonimi28. Non sembra peregrina l’ipotesi che la stessa Historia Francorum di Gregorio di Tours sia stata scritta in un latino semplificato e dai tratti linguistici fortemente volgari proprio per incentivarne un uso di questo tipo29. Nei territori iberici e franchi i Codices Regularum incorporarono testi ascetici orientali, san Benedetto d’Aniane († 821) s’ispirò alle Regole di Pacomio e Basilio, il vescovo northumbro san Willibrordo (658-739), grande evangelizzatore, secondo il suo agiografo l’abate Tofrido, inseguì i paradigmi di santità incarnati da Macario, Arsenita e Serapion30. Infine non si deve dimenticare la presenza di monasteri di regola orientale nella pars Occidentis, il cui apporto non va certamente sopravvalutato ma la cui esistenza giocò un ruolo sia nella trasmissione dei testi greci, sia nel quadro della circolazione di sacerdoti, monaci, fedeli e anche dei culti e delle memorie agiografiche31. Seduzioni orientali nelle agiografie latine più antiche I secoli maggiormente risalenti, in Occidente, non sembrano aver accolto autoctone esperienze di santità o, meglio, percezioni agiopropter rerum tamen singularum notitiam, quae ad instructionem pertinent, usque quaque non dicimus renuendos. Item Orosium virum eruditissimum conlaudamus, quia valde necessariam nobis adversus paganorum calumnias ordinavit historiam miraque brevitate contexuit. Item venerabilis viri Sedulii opus paschale, quod heroicis descripsit versibus, insigni laude praeferimus. Item Iuvenci nihilominus laboriosum opus non spernimus sed miramur». e. von dobschütz, Das “Decretum Gelasianum De Libris Recipiendis et non Recipiendis” in Kritischen Text Heraugegeben und Untersucht, Leipzig, J. C. Hinrisch’sche Buchhandlung, 1912 [Texte und Untersuchungen zur Geschichte der Altchristlichen Literatur] pp. 9-10. 28 p. tomea, Agiografia come pastorale e pastorale nell’agiografia, in La pastorale della Chiesa in Occidente dall’età ottoniana al Concilio Lateranense IV, Atti della quindicesima settimana internazionale di studio, Mendola, 27-31 agosto 2011, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 363-427, p. 374. 29 Cfr. m. braccini, Latino e parlato romanzo nell’Alto Medioevo: perorazione per un divorzio non rinviabile, in Echi di memoria. Scritti di varia filologia, critica e linguistica, in ricordo di Giorgio Chiarini, a cura di G. Chiappini, Firenze, Alinea, 1998, pp. 17-34. 30 Vita Sancti Willibrordi, auctore Thiofrido Abbate Epternacensi, AA. SS., Novembre 1, coll. 459-500, col. 462. 31 g. penco, Il ricordo dell’ascetismo orientale nella tradizione monastica del Medio Evo europeo, «Studi Medievali», III s., IV, 1983, n. 2, pp. 571-587, pp. 571-578; J. m. sansterre, Témoignages des textes latins du Haut Moyen Âge sur le monachisme oriental et des textes byzantins sur le monachisme occidental, «Revue Bénédictine», CIII, 1993, n. 1-2, pp. 13-30; cfr. inoltre l’importante studio di J. m. sansterre, Le monachisme bénédictin et le monachisme italo-grec au Xe et dans la première moitié du XIe siècle: relations et distinctions, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secc. VIII-X), Atti del VII Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Nonantola (Modena), 10-13 settembre 2003, Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 2006, pp. 97-118.

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grafiche della santità autoctona, il cui racconto offra una qualche analogia con le gesta dei folli per Cristo. Per quanto ci consta, infatti, la fama dell’eroismo ascetico siriaco che, tra 521 e 592 lambì le terre franche e, nella fattispecie, Tours, fu piuttosto quella dello stilita Simeone l’antiocheno. Come ipotizza Roberto Alciati, infatti, più che l’agiografia fu molto probabilmente la vox populi a imprimere in terra franca il ricordo del santo vissuto sulla colonna. Del resto l’agiografo di Simeone, Teodoreto di Ciro, scrive che dallo stilita accorrevano spagnoli, britanni e galli; di lui si parla nella Vita della reclusa parigina Genoveffa e se è ancora Teodoreto ad asserire che numerose statuette ritraenti Simeone erano state poste, per devozione, di fronte alle botteghe artigiane di Roma, in effetti un ritrovamento archeologico ottocentesco nell’area di Poitier ha portato alla luce frammenti del simulacro di uno stilita. Gregorio Magno, comunque, sosteneva di conoscere la versione latina dell’agiografia di Simeone e forse non è privo di significato che in Gallia vi fosse una vivace comunità siriana di commercianti. Insomma sembra ragionevole ipotizzare che la Gallia del VI-VII abbia conosciuto il culto per i santi stiliti. Nell’ottavo libro dell’Historia Francorum di Gregorio di Tours si parla di una sorta di “replicazione locale” dello stilitismo. Lo stilita è il diacono longobardo Vulfilaico (Walfroy) incontrato dall’autore a Eposium Castrum, in Austrasia (oggi Yvoi, presso Sedan). Vulfilaico, si narra, fu miracolosamente indotto a dedicarsi a Dio dopo aver udito il nome di san Martino. Istruito nella fede da Aredio di Limoges, a Tours, sulla tomba del santo assiste a un miracolo. Così si dirige a Treviri, dove la popolazione è ancora pagana. Lì trova una statua di Diana, allora erige una colonna e vi sale sopra, vivendo come uno stilita finché tutti non si convertono al cristianesimo. I vescovi della zona però disapprovano il suo comportamento, perciò distruggono la colonna, gli impediscono di erigerne un’altra e lui, che è obbediente all’autorità, preferisce seguire i loro consigli e andare a vivere in un monastero32. La declinazione occidentale dello stilitismo – ed è ancora Alciati a sottolinearlo – è dunque una sorta di azione-esibizione estrema di tipo dimostrativo, che serve per accreditare la retta fede33. La simulazione della pazzia, nelle agiografie, compare soltanto nell’VIII secolo ma la sua semantica è ancora ben lontana dal significato assunto nelle Vite di Simeone o di Andrea. Si tratta del racconto della Vita di santa Wulfia (Ulphia), vissuta presso Amiens34. r. alciati, “Nec tu ignobilis Symeoni Antiochino poteris conparare”. Vulfilaico, stilita longobardo, «Reti Medievali», 16, I, 2015, pp. 127-145. 33 Ivi, pp. 141-142. 34 e. sausr, Ulphia, Heilige (750), in Biographisch-bibliographischen Kirchenlexikon, cur. F. W. Bautz, T. Bautz, 12, Herzberg, Hamm, 1997, pp. 891-892; cfr. S. hilpisch, Die Torheit um Christi willen, «Geist und Leben. Zeitschrift für Aszese und Mystik», 6, 1931, pp. 121-131, pp. 129-130. 32

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Wulfia vuole dedicare la propria vita a Cristo, ma la famiglia osteggia ferocemente questa sua vocazione. Allora lei, per superare le resistenze genitoriali, si finge pazza. Leggiamo: «fingit mentis amentiam, cordis velamina capitis insaniam, abiensque fugit hinc et inde, pallide ieunio facile, nudo capite, ac per humeros dissolutis sparsisque crinibus, velut amens, ut saltem hoc ludo contemptibili suam possit pulchritudinem deformare, et a se repellere ad seipsam carnaliter anhelantes»35. Il testo enumera i “segni” tipici della malattia mentale e che possiamo riassumere nell’incuria per il proprio aspetto e per la coerenza dei comportamenti. Una conferma indiretta alla percezione della pazzia attestata dalla Vita di Wulfia è costituita dal fatto che i termini stultitia e stultus, pur se usati metaforicamente, rimandano alla perversione della devianza ereticale o, comunque, della peccaminosità. Ne costituisce un ottimo esempio l’Historia Francorum di Gregorio di Tours. In tutta l’opera la parola stultitia ricorre quattro volte, mentre stultus (nelle varie declinazioni) undici volte e ogni volta i termini sono collegati all’errore dottrinale e al peccato36. Qualche secolo più tardi, invece, compaiono agiografie i cui autori insistono sull’evangelica e paolina sapientia Dei che è stultitia agli occhi del mondo corrotto dalla lontananza dal Creatore. È il caso, ad esempio, della Vita di san Leto († 875 ca.), redatta tra XI e XII secolo cucendo insieme brani tratti da altre Vitae sanctorum. Lo scrittore rimarca la straordinarietà del regime ascetico di Leto, una volta entrato in monastero, e tale da meritargli l’accusa di pazzia da parte dei monaci. Egli, infatti, era solito mangiare pochissimo, vegliare, essere tanto umile da vagare seminudo. La maggior parte dei confratelli lo reputava matto, invece l’abate del monastero non cadde nel medesimo errore perché era un sant’uomo. Così riconobbe in lui lo spirito di Dio. La fonte esempla il passo che ci interessa sull’agiografia di san Viatore e insiste molto sulla malignità dei monaci e sulle persecuzioni che il santo dovette sopportare a causa della loro invidia. In un’altra porzione del testo, questa volta calcata sulla Vita di sant’Avito, si sostiene che la sua benigna umiltà era costantemente scambiata per stoltezza e ciò gli consentiva di rivivere in prima persona le sofferenze di Giobbe. Leggiamo: Eius quippe simplicitas ab indisciplinatis computabatur stultitia. Intentus namque soli internae dilectioni, cum S. Avito in Secaloniam secedit dum minus foris ad terrena desideria ministranda idoneus apparuit, continuo saecularium Probabilmente visse tra 709 e 744, cfr. Commentarius Praevius, AA.SS., Gennaio 2, p. 1123; Citazione ex Vita, ivi, p. 1124. 36 W. levison, b. krusch edd., Gregorii episcopi Turonensis. Libri historiarum X, M.G.H. Scriptores rerum Merovingicarum 1.1, Hannover, Impensi Bibliopoli Hahniani, 1951. 35

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mentibus in despecum venit adeo, ut illud com beato Iob dicere posset: Stulti despiciebant me, et cum ab eis recessissem, detrahebant mihi; et paulo post: Filii stultorum et ignobilium, nunc in eorum canticum versus sum et factus sum eis in proverbium. [Iob 19, 18., Iob 30, 8 – 10.] Abominantur me, et longe fugiunt a me, et faciem meam conspuere non verentur [(Eius verentur) om. 3.] Verum ille aequanimiter ferens omnia, nulli aliquando malum pro malo reddidit, vel maledictum pro maledicto restituit37.

Sono abbastanza numerose le agiografie in cui inizia a comparire il riferimento alla sapienza di Dio che è stoltezza agli occhi del mondo come declinazione dei versetti di Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi e di Giobbe, nei versetti citati sopra. La connessione ideale è la seguente: sposare una forma vitae umile, ascetica e sofferente è considerato stoltezza dai mondani. Il santo, dunque, consapevolmente sceglie di preferire la vera sapienza divina. A questo proposito è paradigmatico quanto si legge nel Prologo della vita di sant’Aredio di Limoges, abate fondatore del monastero di Attone per il quale redasse una Regola ispirata agli scritti di Basilio e di Cassiano. Sancti scilicet Patres nostri studuerunt in sæculo nihil amare, [ad imitationem populo proponi] ut legaliter ac perfecte proximos diligerent, ut in una caritate conglobati coheredes Christi efficerentur & participes. Plerique vero a primaeva aetate, nonnulli in adolescentia vel in juventute, multi in senectute militantes, Domino adhaerere conati sunt: ut qui dudum tentamenta mundi toleraverunt, quandoque ad Christum sine macula remearent. Plus namque aedificat exemplum boni operis cum simplicitate vigoris, quam multa praedicatio cum tumore vanae gloriae. Praedicator vero egregius, Doctor gentium perhibet dicens: “Stulta mundi elegit Deus, ut confundat fortia”. Et illud: “Sapientia hujus mundi stultitia est apud Deum”. Electi vero in prosperis mundi non elevantur, ut adprehendere valeant post triumphum coronam. Quia si consideremus, quae et quanta nobis promittuntur in caelis, vilescunt animo, quae cernuntur in terris38.

In definitiva ciò che circola, almeno a livello agiografico, è l’idea che esista una sapienza divina percepita come stoltezza dal mondo, perché richiede un completo ribaltamento della scala dei valori condivisi. Ed è, in sostanza, un ribaltamento imperniato sull’umiltà derivante dall’abbattimento di sé.

De S. Laeto confessore in territorio Aurelianensi, AA.SS., Novembre 3, col. 75A. 38 De S. Aredio Abbate, AA.SS., Agosto 5, coll. 181-182; Idem dicasi per le agiografie seguenti: De S. Bavo, alias Alloynus, AA.SS., Ottobre 1, col. 243D; De S. Bernerio eremita, AA. SS., Ottobre 7, col. 1187E; De S. Wolfkango, AA. SS., Novembre 2 col. 0573C; De S. Austreberta, AA.SS., Febbraio 2, col. 419D; De S. Eucherio, AA.SS., Febbraio 3, col. 217F; De S. Carauno, AA.SS., Maggio 6, col. 749, la cui agiografia fu però composta nel corso del secolo IX; De B. Bardone, AA.SS., Giugno 2, col. 311F; De S. Arnoldo, AA.SS., Luglio 4, col. 449E. 37

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Ciò nonostante il primo percettibile cambiamento nelle narrazioni agiografiche, dunque nello specchio di santità proposto ai fedeli, data l’epoca della cosiddetta Riforma della chiesa, l’XI secolo. Tale cambiamento fu la cristallizzazione letteraria di una prassi comportamentale e di una prossemica mutate rispetto ai secoli precedenti. Le prime avvisaglie di una trasformazione dei paradigmi concettuali di riferimento in merito ai sistemi di santificazione è rintracciabile nella Vita Geraldi di Odone di Cluny – conte di Aurillac – 39 e nella Passio Gengulfi di Rosvita40. Entrambi i testi ci parlano di due laici che diventano santi e ciò è sicuramente importante. Ma, credo, ancor più importante è il fatto che il cambiamento dei paradigmi concettuali avvenisse nell’ambiente del monachesimo riformato – Cluny – e che, come ha evidenziato Vito Fumagalli, la santità fosse raggiungibile, anche per un laico, soltanto imitando la vita monastica in quanto assoluto speculum perfectionis. Insomma è il chiostro che esce dal perimetro claustrale a “fare” la santità. In definitiva la sanctitas del conte Geraldo è monastica; il suo esser laico è soltanto affar di ordo. Non voglio certo sottovalutare l’importanza di aver circuitato un laico all’interno della metaforica spirale del processo di santificazione, ma ribadire come, per così dire, valga la “norma” extra claustro, nulla sanctitas. A rischio di qualche generalizzazione, mi pare addirittura che questa sia la cifra denotativa sia della Riforma, sia, pur con tutti i necessari distinguo, della successiva rivoluzione pastorale Mendicante. In definitiva tanto i riformatori, quanto i Mendicanti, abbatterono le mura claustrali per disseminare i principi base del monachesimo nell’intera società cristiana: obbedienza, castità e povertà divennero le virtù cristiane per eccellenza, misura pressoché unica della vicinanza a Dio da parte degli esseri umani. La Riforma s’incardina sulla vita vere apostolica secondo la narrazione evangelica degli Atti degli Apostoli e, nondimeno, sugli «instituta sanctorum Patrum»41. Gli albori del monachesimo divennero, di conseguenza, l’esempio eccellente su cui costruire una chiesa e una società rinnovate. I monaci riformatori predicarono, a parole e con l’esempio, il “mito” della chiesa primitiva. v. Fumagalli, Note sulla “Vita Geraldi” di Odone di Cluny, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2015 (si veda anche il saggio di g. andenna, La storiografia su Cluny in Italia nel XX secolo, in Id., cur., Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio. Atti del Convegno internazionale Brescia-Rodengo, 23-25 marzo 2000, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 297-310, in particolare le pp. 300-304), per la fonte: a. m. bultot-verleysen, Odon de Cluny, Vita sancti Geraldi Auriliacensis. Édition critique, traduction française, introduction et commentaires, Bruxelles, Société des Bollandistes, 2009; m. kueFler, The making and unmaking of a saint. Hagiography and Memory in the Cult of Gerald of Aurillac, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2014. 40 m. goullet, Les Vies de saint Gengoul, époux et martyr. Guerriers et moines. Conversion et sainteté aristocratiques dans l’Occident médiéval (IX-XIIe siècles). Etudes réunies par M. Lawers, Antibes, APDCA, 2002 (CEPAM, Nice, Collection d’Etudes mèdiévales, 4), pp. 235-263. 41 F. poggiaspalla, La vita comune del clero dalle origini alla riforma gregoriana, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1968, pp. 167-168. 39

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Alcune agiografie, per esempio quella di Domenico da Sora († 1031), ci consegnano il racconto delle gesta di monaci riformatori che incarnano, con la vita e con le prediche, il ritorno alla vita veramente apostolica42. Adesso con vita apostolica non s’intende più soltanto la vita in comune, come accadeva nei secoli alto-medievali, bensì la predicazione volta all’evangelizzazione dei fedeli43. L’esempio apostolico è richiamato, ad esempio, nella vita di Robert d’Arbrissel, nato presumibilmente intorno al 1045 e morto nel 111644. Originario della diocesi di Reims, dopo una breve esperienza a Parigi come lettore, si convertì alla povertà e all’itineranza solitaria: indossato il cilicio, ridotti al minimo i pasti, si consacrò alla conversatio eremitica45. Dalla foresta di Craon, dove si era isolato, dispensava insegnamenti spirituali ai fedeli che lo andavano a cercare. Di lì a breve ottenne da Urbano II l’officium predicationis46. Predicava con le parole e con i comportamenti, camminando scalzo, indossando un sacco di stoffa rozza e dura, digiunando e pregando, avvicinando i peccatori per convertirli e, soprattutto, vivendo per i poveri. «Pauperibus evangelizavit, pauperes vocavit. Pauperes collegit»47. Fondò la Regola di Fontevraud, che disciplinava la vita dei monasteri doppi. La memoria di un altro fondatore, Norberto di Xanten († 1134), ci viene trasmessa per mezzo di un lessico concettuale analogo: anch’egli, che visse apostolicamente, fondò l’Ordine riformato dei Premostratensi48. I gruppi e gli individui votati alla riforma utilizzano, infatti, vari modelli, tutti fortemente analogici e interconnessi tra loro: la chiesa S. Dominici Sorani abbatis vita et miracula a coaevis conscripta et nunc primum edita, «Analecta Bollandiana», I 1882, pp. 279-322; un esempio di predica alle pp. 294-295; F. dolbeau, Le dossier de saint Dominique de Sora. D’Albéric du Mont-Cassin à Jacques de Voragine, «M.E.F.R.M.», 102 n. 1, 1990, pp. 7-78. 43 Cfr. c. Walker bynum, Jesus as Mother. Studies in the Spirituality of the High Middle Ages, Berkley-Los Angeles-London, University of California Press, 1982, pp. 103-104. Cfr. W. simons, New Forms of Religious Life in Medieval Western Europe, in The Cambridge Companion to Christian Mysticism, Ed by. A. Hollywood, P. Z. Beckman, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 80-113. Cfr. g. miccoli, Chiesa Gregoriana: Ricerche sulla Riforma del secolo XI, Firenze, La Nuova Italia, 1966. 44 Su Robert d’Arbrissel sono fondamentali i lavori di Jacques dalarun: Robert d’Arbrissel, fondateur de Fontevraud, Paris, Albin Michel 1985 e Id., Robert d’Arbrissel et les femmes, «Annales E.S.C. », 39, 1984, pp. 1140-1160. Vd. J. becquet, L’ érémitisme clérical et laique dans l’Ouest de la France, in L’eremitismo in Occidente nei secolo XI e XII: atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto-6 settembre 1962, Milano, Vita e Pensiero, 1965, pp. 182-211. 45 «Nam praeter ea quae extrinseca videbantur, uti pilis porcorum cilicium induere, barbam sine aqua radere»; «Imprimis totus erat in cilicio, totus in cruce et martyrio, restrictus fuit in cibo et in potu, et victu et vestitu, paucis minimisque contentus. Pallidus erat et macilentus, carnem spiritui subjiecebat, parcius, quam necesse esset, seminecis artibus indulgebat, corporis et mentis perpetua rutilavit virginitate et mira se armavit asperitate: omnes sensus corporis sic erant mortificati, ut in mortem vitiorum viderentur coniurati», Vita auctore Baldrico episcopo Dolensi, P.L. 162, coll. 1043-1058, col. 1047. 46 J. m. bienvenu, Robert d’Abrissel, D. Sp. 13, coll. 704-13, col. 705. 47 P.L. 162, p. 1055C. 48 e. klueting, Monasteria semper reformanda. Kloster und Ordensreformen im Mittelalter, Münster, Lit Verlag, 2005, in particolare pp. 53-55. 42

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primitiva, la vita apostolica, i padri del deserto, il giardino dell’Eden, Cristo stesso49. Ed è proprio all’interno di tale cornice interpretativa che si verificano slittamenti semantico – concettuali significativi e, al contempo, predittivi. Le Vitae antiche dei santi padri costituiranno una fonte d’ispirazione costante, informando di sé i comportamenti e gli ideali dei riformatori. Guglielmo di Saint Thierry († 1153) scrisse pagine molto importanti sotto questo profilo. La sequela Christi non ammetteva se non la radicalità evangelica del ribaltamento completo delle prospettive esistenziali comuni. Ha un senso che, tra tutti i possibili, abbia voluto scegliere di introdurre la cosiddetta Lettera d’oro (l’Epistola ad fratres de Monte Dei, composta intorno al 1144 per i monaci della certosa di Mont-Dieu) con riferimenti diretti e indiretti alla Prima Lettera ai Corinzi di Paolo50. Scrisse il capitoletto sesto della parte introduttiva intessendo in prevalenza citazioni tratte (secondo la Vetus latina) da Matteo 11 (25-26), da Luca 12 (32), dalla Prima Lettera ai Corizi (12-26) e dai Salmi 71, 54, 93, al fine di magnificare la sapienza di Dio-stoltezza per i non convertiti, riservata agli umili, e di screditare la conoscenza del secolo, viatico per l’inferno. L’elogio della sancta simplicitas tocca il climax quando, rivolgendosi ai monaci, li esorta: «Voi, invece, come già avete cominciato, mentre si scava la fossa al peccatore, fatevi stolti per Dio mediante quella stoltezza di Dio che è più sapiente di tutti gli uomini, sotto la guida di Cristo imparate l’umile disciplina del salire al cielo»51. Del resto l’esordio Ivi. Sul chiostro – Paradiso si veda g. constable, Renewal and Reform in Religious Life: Concepts and Realities, in Renaissance and Renewal in the Twelfth Century, a cura di R. L. Benson, G. Constable, C. D. Lanham, Toronto-Buffalo- London, University of Toronto Press, 1991, pp. 37-67, pp. 46-56. 50 guglielmo di saint-thierry, Opere/1. Lo specchio della fede. L’enigma della fede. L’epistola aurea, traduzione, introduzione note e indici a cura di Mario Spinelli, Roma, Città Nuova, 1993, p. 35. 51 «Vos autem dum foditur peccatori fovea, sicut coepistis, stulti facti propter Deum, per stultum Dei quod sapientius est omnibus hominibus, Christo duce humilem apprehendite disciplinam ascendendi in coelum», Guillaume De Saint Thierry, La lettera d’oro, a cura di Claudio Leonardi, Firenze, Sansoni 1992, cap. 7, p. 60 per la critica. Il testo anche in P.L. 184, coll. 307-364B, col. 309. Tuttavia preferisco citare dall’edizione critica di m. m. davy, Un traité de la vie solitaire. Epistola ad fratres de Monte-Dei de Guillaume de Saint-Thierry, Préface de Dom Wilmart, Paris, Libraire Philosophique J. Vrin, 1940, p. 71. La traduzione nel testo è tratta da Guillaume De Saint Thierry, Lettera d’oro. Epistola ad fratres de Monte Dei. Introduzione, traduzione e note a cura di Cecilia Falchini, monaca di Bose, Comunità di Bose, Edizioni Qiqajon, 1998, pp. 69-70. Per chiarezza riporto anche la parte immediatamente precedente alla citazione nel testo: «Videte, fratres mei, videte vocationem vestram. Ubi sapientes inter vos? Ubi scriba? Ubi conquistor huius saeculi? Nam etsi sunt aliqui sapientes inter vos, per simlices tamen sapientes aggregavit, qui reges olim et philosophos mundi huius per piscatores sibi subiecti. Sinite ergo, sinite sapientes huius saeculi, de spiritu huius mundi tumentes, alta sapientes, et terram lingentes, sapienter descendere in infernum», ivi. Secondo la studiosa Pfeifer la lettera sarebbe stata indirizzata non soltanto ai certosini, ma anche ai cistercensi di seconda generazione perché rischiavano di perdere l’entusiasmo per la riforma. Questa ipotesi è stata avanzata da m. pFeiFer, Wilhelms von Saint-Thierry ‘Goldener Briefe’: und seine Bedeutung für die Zisterzienser, «Analecta Cistercensia», 50, 1-2, 1996, pp. 265-302; cfr. inoltre p. verdeyen, Guillaume de Saint-Thierry, Turnhout, Brepols, 2003, pp. 92-93. 49

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dell’Epistola è netto: i destinatari sono i fratelli che stanno riportando in vita la luce antica dell’Oriente e il fervore religioso degli antichi padri dell’Egitto e così illuminano le tenebre dell’Occidente e riscaldano le fredde terre galliche52. Guglielmo chiama «patres nostri in Aegypto et Thebaida» le sante icone cui ispirarsi, e definisce se stesso e i suoi destinatari nei termini di «ardentissimi aemulatores» di costoro. Enuclea, di seguito, gli assi portanti della loro forma vitae nella scelta eremitica, nell’edificazione delle celle con le proprie mani, nel lavoro manuale necessario per sostentarsi, nella carità verso i carcerati e gli ammalati. Esalta, quindi, la loro povertà volontaria e l’annunciazione continua della buona novella evangelica53. Sulla falsariga della prossimità tra «cella» e «cielo», assunta su base etimologica e poi dimostrata attraverso il ragionamento spirituale, Guglielmo esorta i monaci a costruire dentro di sé quella cella mentale che consente di restare sempre in comunione con Dio, ovunque ci si trovi54. Il periodare dell’autore, tutto incentrato sull’esortazione alla contrazione della coscienza in se stessa, richiama strettamente i passi degli Apophtegmata Patrum che esaltano la consapevole abitazione della propria interiorità, preludio all’incontro con Dio55. Il “sentiero” interpretativo tracciato dall’esegesi paolina effettuata da Guglielmo, collega strettamente tra loro numerose sue opere. Partendo dall’Epistola, quel filo rosso tematico si snoda attraversando altri testi dell’autore – il Tractatus de natura et dignitate amoris, l’Aenigma fidei, lo Speculum fidei e le Meditativae Orationes – per condurre il lettore alla contemplazione e all’imitazione di Cristo crocifisso56. L’Epistola conobbe una diffusione e un successo straordinario e fu voltata in numerose lingue romanze57. «Fratribus de Monte-Dei, orientale lumen et antiquum illum in religione Aegyptium fervorem tenebris occiduis et Gallicanis frigoribus inferentis, vitae scilicet solitariae exemplar, et coelestis formam conversationis, occurrere et concurrere anima mea exsultat in gaudio sancti Spiritus et risu cordis in fervore pietatis, et in omni obsequio devotae voluntatis», M.M. davy, Un traité de la vie solitaire. Epistola ad fratres de Monte-Dei, cit., p. 70. 53 Ivi, p. 116. 54 «Exterior est domus in qua habitat anima tua cum corpore tuo, interior est conscientia tua, quam, inhabitare debet omnium interiorum tuorum interior Deus, cum spiritu tuo. Ostium clausurae exterioris, signum est circumstantiae interioris, ut sicut sensus corporis per exteriorem clausuram foris vagari non permittituntur, sic interioris sensus ad suum semper interius cohibeantur», ivi, pp. 100-101; su questo argomento mi sia consentito di rimandare al mio Santuari cristiani e celle interiori: spazi e tempi extra-ordinari, in Topografie della santità. Studi sulle simbolizzazioni religiose dei confini e sulla geografia politica delle tradizioni religiose, a cura di F. Squarcini, Firenze, SEF, 2007, pp. 93-110. 55 Historia monachorum in Aegypto, liber tertius sive Verba seniorum, liber sextus, sive Verba seniorum, liber septimus, sive Verba seniorum, P.L. 73, coll. 707-39; 991-1024; 1025-1164. 56 Cfr. Tractatus de natura et dignitate amoris, P.L. 184, coll. 379-408, in partic. coll. 403406; Aenigma fidei, Ivi, coll. 397-440, in partic. coll. 401-403; Speculum fidei, Ivi, 180, coll. 365-396, in partic. coll. 387-378; Meditativae orationes, Ivi, 180, coll. 205-248; 335-337, in partic. coll. 235-237. 57 Cfr. la precisissima indagine di v. honemann ed., Die “Epistola ad fratres de Monte Dei” 52

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Il ritorno alle origini L’identificazione tra monachesimo riformato e riformatore e i primordi del monachesimo è ben chiara a chi ne immortala il ricordo. Già nel X secolo nella Vita dell’abate Giovanni di Gorze († 976) fondatore e poi abate del monastero riformato (cluniacense) di S. Arnoldo di Metz58, composta da Giovanni di Metz si asseriva che egli faceva rivivere consapevolmente le azioni e le parole dei padri antichi. Leggiamo: «in usum proprie conversationis normam sibi assumpserit Antonium, Paolum, Hilarionem, Macharium, Pachomium, et reliqui heremi sectatores». Amava, poi, le gesta e i detti di san Giovanni l’Elemosiniere «actus pene memoriae retinens, in omnibus fere sermonibus eum grata et amica dulcedine reducabat, audientesque ex eo multa attentionis suavitate retinebat»59. Il suo stile di vita era rigoroso: si dedicava ai lavori più umili nel monastero, digiunava, vegliava, faticava ed era sempre ilare e gioviale. Di notte, poi, pregava presso la tomba di Crodegango, vescovo di Metz e antico istitutore del monastero di Sant’Arnoldo60. Fu vittima di vilipendio da parte di persone malvage, che lo ingiuriavano: «alii eum hypocritam, alii avarum, alii tenacem, alii fraudatorem publice appellabant», ma non si difese mai da alcuna ignominia61. L’agiografo racconta il periodo precedente all’entrata in monastero di Giovanni, quando il sant’uomo aveva già chiara la propria vocazione e già si metteva in luce per la probità dei costumi e la fede in Dio. Tra le varie esperienze di quel momento, incontriamo anche il racconto dell’affezione che egli nutriva per un eremita di nome Lamberto, che dimorava nei boschi presso Argonne. Egli era molto semplice e rozzo – «rusticanus» – e conduceva un’esistenza talmente stravagante da suscitare il riso in chi lo vedeva. Lamberto si castigava sottoponendosi a un regime di fatiche così tanto insopportabili da sembrare fuori di senno, non si preoccupava di coprire la sua nudità, digiunava a oltranza e, quando mangiava, lo faceva staccando con la scure pezzi di un pane raffermo e duro come una pietra. Inspiegabildes Wilhelm von Saint-Thierry. Lateinische Überlieferung und mittelaterliche Übersetzungen, Munich-Zurich, Artemis, 1978. 58 F. r. erkens, Gorze und St-Evre. Anmerkungen zu den Anfängen der Lothringischen Klosterreform des 10. Jahrunderts, in H. W. Hermann, R. Schneider cur., Lotharingia. Eine europäische Kernlandschaft um das Jahr 1000. Une région au centre de l’Europe autour de l’an mil. Actes d’un colloque du 24 au 26 mai à Sarrebruck, Saarbrücken, Saarbrücken Druckerei und Verlag, 1995, pp. 121-141; g. barone, Gorze e Cluny a Roma, in Retour aux sources. Textes, études et documents d’histoire médiévale offerts à Michel Parisse, Paris, Picard, 2004, 583-590; m. gaillard, D’une Réfome à l’autre (816-934). Les communautés religieuses en Lorraine à l’époque carolingienne, Paris, Publications de la Sorbonne, 2006, pp. 26, 73, 87, 97, 100-118, 202, 208-209, 222, 312-317, 355, 363-381, 452-453, 470. 59 M.G.H., IV, pp. 337-377, p. 361. 60 Ivi, p. 354, pp. 358-359. 61 Ivi, p 358.

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mente talvolta interrompeva il digiuno e gozzovigliava, mangiando e bevendo a crepapelle a qualsiasi ora del giorno e della notte. Era un eremita, tuttavia qualche volta si allontanava all’improvviso dal bosco per girovagare, in apparenza senza scopo né costrutto, per villaggi e città per poi rinchiudersi altrettanto repentinamente nella propria celletta. Officiava la messa senza tuttavia rispettare alcun orario: talvolta a mezzanotte, talvolta di sera, talaltra alle luci dell’alba. La maggioranza delle persone lo reputava stravagante e matto. Giovanni restò un po’ di tempo con lui, ricavando una piccola cella dove rimaneva in solitudine e preghiera finché la sua attenzione non era richiamata dai fedeli di Verdun che andavano a cercarlo per usufruire dei suoi insegnamenti spirituali. Alla fine accolse il consiglio di quanti lo esortavano a distaccarsi da quell’individuo tanto eccentrico e si recò in pellegrinaggio a Roma e sul Gargano62. La figura di Lamberto è molto vicina a quella di un boskòs-salòs e, forse, l’agiografo di Giovanni ha ricalcato un po’ la storia di Giovanni l’Elemosiniere, espressamente citato nelle vesti di modello di riferimento di Giovanni, nella parte in cui il protagonista incontra il folle per Cristo. In ogni caso l’eremita – uomo selvatico Lamberto potrebbe essere veramente vissuto nei luoghi di cui ci parla la fonte63: nelle terre franche, oltre al ricordo dei santi stiliti, forse era sopravvissuta, grazie ai testi e alla liturgia monastica, anche qualche percezione dei boskoì-saloì. Di sicuro nella Calabria del monachesimo italo-greco (IX-X secc.) è attestata la presenza di boskoì, che vivono nudi e cibandosi – quasi pascolando – di quanto la natura autonomamente produce perché sono ritornati alla purezza edenica precedente alla caduta64. La Calabria, al pari della Sicilia dov’è forte la presenza cultuale e spirituale di matrice orientale, accolsero tra IX e XI secolo numerosi santi dall’ascetismo estremo: Giovanni Loricato, Simeone della Porta Nigra, Elia lo Spele«Hic autem solitarius, Lanbertus nomine, et moribus et scientia omnino rusticanus erat, et nisi quod multus labor, quo satis superque durissimo et velut inrationabili se ipsum atterebat, eum aliquatenus in rebus divinis commendabat, asias stolidus et agrestis totus parebat, ut qui forte infirmiorum eum conspexerat, risum tenere vix posset. Tegendi corporis etiam et verecundiorum ei cura postrema; similiterque cibi vel potus longe ceteris mortalibus usus dissimilis. Modium integrum farinae in unum plerumque panem redegerat, qui mense aut certe duo ei sufficeret, donec prae nimia duritia nisi securi non posset effringere, indeque sibi particulam ad pondus cotidie praeriperet. Item lebetem permaximum, holere ac legumine simul plenum, in unum excoxit, quod repositum cotidie, dum quid residui fuit, ad mensuram aqua cruda resolutum percepit. Subito quolibet mentis impulsu ex heremo se proripiens, villas et civitates subintravit, itemque repente cellulae condidit. Noctis plereumque medio missae exorsus, etiam si sic animus tulit vesperi, aut ante, aut sub lucis crepuscolo, post bidui triduive ieiunium, ut defectio corporis fuit, non diei non noctis ullum tempus in reficiendo servatum est», Ivi, p. 343. 63 Sulla questione dell’uomo selvatico cfr. infra. 64 e. morini, Il fuoco dell’esichia: il monachesimo greco in Calabria fra tensione eremitica e massimalismo cenobitico, in San Bruno di Colonia: un eremita tra Oriente e Occidente, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 13-30, pp. 20-23. 62

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ota, Fantino il Giovane, Nilo di Rossano65. Ai fini della nostra ricerca è importante sottolineare tanto la presenza di un salòs (all’occidentale, ovviamente e per così dire) tra gli alberi della foresta di Verdun, quanto il fatto che egli conduca un tipo di vita giudicata, almeno dai più, un esempio da non imitare. Persino Giovanni di Gorze, eccezionalmente benedetto da Dio e in grado di riconoscerne la santità, deciso a rimanergli accanto per imparare l’umiltà, prudenzialmente dopo qualche tempo sceglierà di vivere in modo più controllato e, finalmente, dentro un monastero “rinato” dalle ceneri della distruzione procurata dai Normanni, grazie a lui e ad altri riformatori. L’agiografia di Gerardo di Sales (1068 ca.- 1120), fondatore delle congregazioni benedettine riformate di Cadouin, di Dalon e di Bournet, è un tripudio di analogie tra la sua esperienza e le Vite dei monaci dei primordi. Primogenito di tre fratelli, tutti e tre impegnati nella riforma della chiesa, Gerardo fu folgorato da Robert d’Arbrissel, che gli sembrava la riproposizione precisa dei monachesimo primitivo: Is ergo da caducis et transitoriis curans parum, ex zelo cordis sui solum salutem sitiebat animarum et circuiens per villas et castella de domibus paternis abstrahebat Christo virgines, allicens ad spiritualia connubia, sicut fecisse legerat Beatum Hilarium de propria filia [...] In indiscretis temporibus cilicium et cappa fuerunt in indumenta, cappa grossa rudis et vilis, in sui novitate asperis et hirsutis insita pilis 66.

Dopo un periodo di dura preparazione ascetica Gerardo divenne compagno di predicazioni di Robert e sintagma perfetto delle virtù eroiche degli antichi monaci, perché «in omnibus gestis suis Hilarionem redolebat, Antonium praesentabat, immo Christo in eo vivebat»67. Si trattava di un patrimonio di similitudini condiviso: persino i cardinali Pierleoni e Gregorio di Sant’Angelo nel 1124, concedendo privilegi a Norberto di Xanten, riconoscevano nella sua istituzione la dottrina apostolica e la vita dei santi padri. Parole molto simili erano state spese nel 1092 da Urbano II quando, beneficando i canonici regolari di Rottenbuch, parlava di risuscitare la vita della chiesa primitiva68. Eziologia spirituale, quest’ultima, condivisa anche da parte imperiale: già nel 1018 l’imperatore Enrico II, in un documento a favore dell’abbazia di Burtscheid ad Aquisgrana scriveva «Disciplina ceP. golinelli, Santi e culti, cit., pp. 50-72. 66 De B. Giraldo de Salis confessore, AA.SS., Ottobre 10, pp. 249-67, p. 254. 67 Ibidem. Cfr. i. gobry, Cavalieri e pellegrini. Ordini monastici e canonici regolari nel XII secolo, Roma, Città Nuova, 2000, pp. 9-13; a. grélois, L’expansion cistercienne en France: la part des affiliations et des moniales, in F. J. Felten, W. Rösener a cura di, Norm und Realität. Kontinuität und Wandel der Zisterzienser im Mittelalter, Berlin, Lit Verlag, 2009, pp. 287-324, 298-300. 68 g. constable, Renewal and Reform in religious life, cit., p. 52. 65

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nobitarum a tempore predicationis apostolicae sumpstit exordium, de qua ita scribitur in actibus apostolorum [….]»69. E non si tratta di casi isolati. La documentazione giuridica relativa a esperimenti di vita comune sotto il segno della riforma pullula di espressioni similari70. Espressioni prossime al periodare agiografico ed encomiastico: qualcosa del genere era asserito per descrivere lo “spirito” e la prassi di Bernardo di Tiron, di Guy di Anderlac, di Teobaldo l’eremita, di Ulrich di Zell, che era paragonato ad Antonio, Ilarione e Girolamo. E, in effetti, i monaci che riformarono il monastero di San Martino di Tournai si conformarono agli esempi trasmessi dalle Institutiones e dalle Collationes di Cassiano, nonché dalle Vitas Patrum; così la Francia del nord-ovest poteva ormai essere definita nei termini di un secondo Egitto71. La similitudine vale un po’ per tutti i riformatori: Romualdo è il novello Ilarione, al pari di Pietro di Biforco e di Giovanni Gualberto, mentre Odone di Cluny – secondo Giovanni di Salerno – assomiglia moltissimo a san Paolo del deserto72. Del resto il monaco Ruperto di Deutz del monastero di San Lorenzo di Liegi fu probabilmente autore di un trattato, il De vita vere apostolica, in cui affermava che il monachesimo rappresentava una sorta di inveramento costante della vita apostolica nella storia. «Omnes apostoli» – scrisse «vere fuerunt monachi», tutti gli apostoli, in verità, erano stati monaci. Continuava asserendo che la chiesa aveva avuto inizio dalla vita monastica: «Si vis omnia Scripturarum consulere testimonia, nihil aliud videntur dicere quam Ecclesiam inchoasse a vita monastica». Ruperto avversava l’interpretazione teologica della Scrittura. La Parola si comprende attraverso la Parola e, ciò che più ci interessa, rivendicava a ciascun cristiano il diritto di studiarla, a patto di mantenere salva e salda la fede. Allora se la Scrittura, negli Atti degli Apostoli, ci mostra il gruppo apostolico (o meglio la congregazione) delle origini vivere in comune, poveramente, condividendo ogni bene e pregando, va da sé che il monachesimo pratica, cioè veramente è, quella forma vitae73. h. houben, Impero e monasteri: aspetti politici e motivazioni spirituali. Un confronto tra Ottone III ed Enrico II, in San Romualdo di Ravenna. Atti del XXIV Convegno del Centro Studi Avellaniti, Fonte Avellana 2001, Verona, Il Segno, 2003, pp. 31-43, p. 41. 70 g. constable, Renewal and Reform in religious life, cit., p. 53. 71 Ivi, p. 58 e p. 58 nota 114. 72 De S. Romualdo abbate Ordinis Camaldulensis fundatore, AA.SS., Febbraio 2, pp. 101-146, p. 121; giovanni di salerno, Vita Odonis, P.L. 183, coll. 43-86, col. 50. Su Giovanni Gualberto e i vallombrosani cfr. F. salvestrini, La prova del fuoco. Vita religiosa e identità cittadina nella tradizione del monachesimo fiorentino (seconda metà del secolo XI), «Annali di Storia di Firenze», Storia del cristianesimo fiorentino, 2014, pp. 51-79; Id., Sacre dispute e affermazioni di identità. I Vallombrosani, i Minori e l’eremita Torello da Poppi, (ca. 1202-1282), in Monaci e pellegrini nell’Europa medievale. Viaggi, sperimentazioni, conflitti e forme di mediazione, Firenze, Casa editrice di “Studi Francescani”, 2014, pp. 35-56; Id., Abbas Rodulfus, Pater Iohannes. Riforma monastica e tradizioni agiografiche alle origini del monastero di San Pietro a Moscheta, «De Strata francigena», 23, 2015, pp. 77-83. 73 b. mondin, Storia della teologia, vol. 2, Bologna, ESD, 1996, pp. 125-127. La fonte in 69

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Intanto Giovanni Scoto Eriugena, a partire dagli anni Sessanta ed entro gli anni Settanta del IX secolo, aveva tradotto lo Pseudo-Dionigi l’areopagita. Le opere attribuite a Dionigi erano presenti in Occidente già dal VII secolo, quando Martino I, papa e patriarca romano, le fece portare nel consesso del I Concilio Lateranense per consultarle, fugando così ogni dubbio sulla loro ortodossia74. Successivamente Paolo I le aveva inviate in dono a Pipino il Breve e nell’827 i sovrani franchi ricevettero direttamente dall’imperatore bizantino il codice greco di raccolta di tutti i testi75. Carlo in Calvo valorizzò Giovanni Scoto Eriugena e la sua conoscenza del greco rendendolo parte della scuola palatina e affidandogli la traduzione del corpus dyonisiacum: il De caelesti hierarchia, il De ecclesiastica hierarchia, il De divinis nominibus e, infine, il De mystica Theologia76. Subito dopo Anastasio il Bibliotecario tradusse gli scolia di commento al corpus di Massimo il Confessore e di Giovanni di Scitopoli, vi aggiunse le sue glosse e contribuì non poco alla diffusione dei manoscritti, tanto che gli studiosi hanno parlato di una variante “romana” dei codici77. La Theologia mystica, in particolare è un trattato speculativo che insegna al fedele l’iter di avvicinamento/elevazione a Dio. Inizia presentando l’esempio di Mosè quale modello da seguire per conoscere l’Altissimo. Come Mosè occorre entrare nella nube della caligine divina, una tenebra «luminosissima» in cui è negato il pensiero e in cui la parola scompare perché l’apofasia è preludio all’incontro con Dio. Di Lui non si può parlare, soltanto il pieno silenzio ne custodisce l’impronta ineffabile. Fulcro del rapporto uomo-Dio è l’amore. Un amore estatico che esce da sé e unisce l’uomo al Creatore78. Le prime cinque Epistole P.L. 170, pp. 609-663. Sul testo m. l. arduini, Un testo ancora da scoprire: il de vita vere apostolica. Prolegomena all’edizione critica per il Corpus Christianorum e ipotesi interpretativa per l’attribuzione dell’opera, in L’Europa dei secoli XI e XII fra novità e tradizione: sviluppi di una cultura, Atti della X Settimana internazionale di studio Mendola, Milano, Vita e Pensiero, 1990, pp. 305-377. Cfr. le riflessioni di i. da milano, Vita evangelica e vita apostolica nell’azione dei riformisti sul papato del secolo XII, in Problemi di storia della chiesa. Il Medioevo dei secoli XII-XV, Milano Vita e Pensiero, 1976, pp. 21-89; Y. De Andia a cura di, Denys l’Aréopagite et sa posterité en Orient et en Occident. Actes du Colloque International, Paris, 21-24 septembre 1994, Paris, Institut d’Études Augustiniennes, 1997. 74 i. da milano, Vita evangelica, cit., p. 12. 75 h. dondaine, Le Corpus Dionysien de l’Université de Paris au XIIIe siècle, Roma, Ed. Di Storia e Letteratura, 1953, pp. 34-68, 129-131. 76 P.L. 122, col. 1031-1194; p. chevallier, Dionysiaca. Recueil donnant l’ensemble des traductions latines des ouvrages attribués au Denys de l’Aréopage, 2 voll. Paris, Desclèe de Brouwerm 1937-1950. Il corpus fu composto con ogni verosimiglianza in Siria. Cfr. il bel contributo di e. Fiori, Il nous e l’altare. La teologia mistica di Dionigi l’areopagita al di là di Evagrio, in L’anti-Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni, a cura di I. Adinolfi, G. Gaeta, A. Lavagetto, Genova, Il Melangolo, 2017, pp. 185-216. 77 d. luscombe, Denis the pseudo-Aeropagite into England, in Tradition and Change, Essays in honour of Marjorie Chibnall, edd. D. Greenway, Ch. Holdsworth, J. Sayers, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 137-140, pp. 121-124. 78 c. moreschini, Pseudo Dionigi l’Areopagita, in Id., Storia della filosofia patristica, Brescia,

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dello Pseudo-Dionigi costituiscono una sorta di corollario al testo. Qui compaiono Davide e, soprattutto Paolo, ed essi sono esempi del perfetto entrare dell’anima nella divina presenza79. Così, sciolta da tutto e, in primo luogo da se stessa, l’anima attingerà visioni mistiche, sprofondando interamente in Dio che è ben al di là di ogni sostanza e conoscenza80. Tuttavia la teologia mistica dionisiana, almeno nel suo uso a quest’altezza cronologica, non prelude affatto all’anomicità: al contrario esalta la carismaticità delle istituzioni ecclesiali. Come efficacemente scrive Emiliano Fiore: «ecco dunque cosa è ‘mistico’ in Dionigi: una penetrazione nel mistero di Dio che avviene in somma misura soltanto fuori dall’intelletto, nei misteri della Chiesa terrena ed entro i limiti della comunità gerarchica»81. Testi perfetti, quelli pseudo-dionisiani, per l’adozione e l’uso in ambiente monastico: l’elevazione spirituale fino alla visione mistica è cittadina a pieno titolo del chiostro. Mi pare, quindi, che il corpus vada a sostanziare sotto il profilo teologico una modellizzazione comportamentale (ancor prima che agiografica) in grado di ricomprendere entro il perimetro regolare anche le esperienze del divino più intense e apparentemente meno codificate e codificabili a rigore di Regola. Lascia insomma un ampio spazio alla creatività dei rigori ascetici purché si consumino nell’obbedienza alla gerarchia. Ecco dunque che diventa lecito assumere tratti comportamentali riconducibili alla declinazione del monito paolino alla stoltezza per Cristo, finché non mettono in discussione l’assetto divino della comunità gerarchica. Nel caso di Giovanni di Gorze il processo interpretativo mi sembra piuttosto chiaro: dell’insegnamento del salòs “selvatico” egli trattiene quei semina spirituali che gli consentiranno di vivere “misticamente” nel monastero riformato di cui concorre alla rinascenza e poi alla guida. La prossimità semantica tra chiesa apostolica, primordi del monachesimo e riforma dell’XI è dunque palese82. Se, come si è già visto, Guglielmo di Saint-Thierry ravvisava l’«orientale lumen» nei fratelli di Mont-Dieu, intorno al 1150 Pietro il Venerabile, abate cluniacense, parlando dei monaci de la Chartreuse diceva che abitavano celle sinMorcelliana, 2004, pp. 687-703; g. b. ladner, Il Simbolismo paleocristiano. Dio, Cosmo, Uomo, Milano, Jaca Book, 2008, pp. 108-110. 79 a. golitzin, Mystagogy. A Monastic Reading of Dionysius Aropagita, Collegeville (Minnesota), Cistercian Publications-Liturgical Press, 2013, pp. 34-48. 80 g. lettieri, Più a fondo. L’ontologia apocalittica valentiniana e le origini della teologia mistica cristiana, in L’anti-Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni, pp. 71-116, p. 95. 81 e. Fiori, Il nous e l’altare. La teologia mistica di Dionigi l’areopagita al di là di Evagrio, in L’anti-Babele, cit., p. 215. 82 Cfr. e. pasztor, Le origini dell’ordine cistercense, «Analecta Cistercensia», XXI, 1965, pp. 112-127; J. leclercq, Saint Bernard et l’esprit cistercien, Paris, Seuil 1966; Il monachesimo e la riforma ecclesiastica (1049-1122), Atti della IV Settimana internazionale di studio Mendola 1968, Milano, Ed. Vita e Pensiero, 1971. Ma soprattutto g. penco, Il ricordo dell’ascetismo orientale nella tradizione monastica del Medio Evo europeo, cit.

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gole, consacrandosi al silenzio, alla preghiera, all’orazione e al lavoro manuale – che consiste soprattutto nella copiatura dei manoscritti«more antiquo Aegyptiorum monachorum»83. Pier Damiani (1007-1072) si spingeva abbastanza avanti, nella speculazione sul perfetto seguace di Cristo, esaltando la simplicitas di chi, rinunciando a ogni seduzione, anche morale, di ascendenza terrena, voleva dedicarsi interamente a Dio. Nel De Sancta Semplicitate, composto per consolare il monaco Ariprando, dispiaciuto per aver dovuto abbandonare gli studi, si legge: beatus Benedictus ad litterarum studia mittitur, sed mox ad sapientem Christi stultitiam revocatur [...]. Litteras et Martinus ignorat, sed hic fatuus et imperitus perditas trium mortuorum animas ab inferis revocat. Antonius non rhetoricatur, sed toto conspicuus orbe, litteris, ut ita loquar, uncialibus legitur. Hilarion Platones et Pythagoras proiicit, unoque contentus Evangelio in sepulcralis se cellulae antro concludit84.

La benedizione conclusiva è, poi, molto chiara: Pier Damiani chiede a Dio di erudire l’anima di Ariprando «doctrina suae legis» e di inondarne il cuore «verae sapientiae luce». Ad Ariprando augura di offrirsi in olocausto quale ostia vivente, in modo che Cristo riposi nel suo cuore85. In sintesi, ma con efficacia, descrive la sapiens stultitia Christi: intellezione esperienziale della Scrittura e sapienza divina, entrambe lontanissime dalla scienza del secolo. Simplex è assimilabile a idiota. Il chiasmo semantico costruito dall’autore attraverso il ricorso ai santi padri dei primordi è pregnante: le coppie sono Benedetto – Martino e Antonio – Ilarione e collegano Oriente e Occidente. Martino e Benedetto sono i padri dell’eremitismo e del monachesimo occidentali, Antonio e Ilarione lo erano stati dell’eremitismo e del cenobitismo orientali. Tutti costoro insieme costituiscono le quattro colonne spirituali, il cui fondamento è Cristo stesso, che sostengono il mondo. La simplicitas è fatuitas per Cristo; giova ricordare che salòs significa, in definitiva, simplex e che i saloì hanno rinunciato alla cultura mondana. La loro semplicità evangelica è vettore della vera sapienza che è, a sua volta, garanzia di piena intelligenza della Scrittura86. petri venerabilis De miraculis libri duo, P.L. 189, coll. 851-954, col. 943. 84 pier damiani, De Sancta Semplicitate scientiae inflandi anteponenda, in Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di A. Viscardi e G. Vidossi, Torino, Einaudi 1977, pp. 84-91, p. 86. 85 Ivi, p. 92. 86 Cfr. ad esempio il passo della Vita di Simeone salòs in cui si racconta che mentre Simeone simulava la follia a Emesa, il suo antico compagno di ascesi Giovanni si trovava nel deserto. Qui fu avvicinato da due sapienti monaci che gli posero domande su Origene. Giovanni non sapeva cosa rispondere, perciò li mandò da Simeone. Non appena i due monaci lo videro, furono sconcertati perché ritennero di dover dialogare con uno stolto. 83

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Pier Damiani, com’è noto, scrisse anche la Vita beati Romualdi, dedicata alla figura forse più importante della rinascita dell’eremitismo e della riforma cenobitica del X secolo87. Romualdo, il santo padre carismatico a cui si riferivano numerosi gruppi eremitici regolari, era morto nel 1027, lasciando una folta popolazione di esperienze eremitiche non organizzate di cui Pier Damiani volle farsi carico. La Vita è, secondo la calzante definizione di Paolo Golinelli, un’agiografia «di lotta», tutta volta all’esaltazione della conversatio eremitica88. La fonte ci consegna un episodio in cui si chiarisce bene la rete semantica che connette le attribuzioni di simplex, idiota e insanus. Romualdo incontra Venerio, un monaco talmente semplice e umile da essersi conquistato la fama di demente. I confratelli lo disprezzavano e lo angariavano in continuazione, perciò decise di abbandonare il monastero per diventare eremita. Le continue angherie, infatti, gli impedivano di conservare la tranquillità mentale. Si chiarisce quindi come chi si comportasse con semplicità estrema, tanto estrema da essere valutata eccessiva, poteva sembrare un ebete. Per quanto la simplicitas sia indubbiamente sancta, quella di Venerio sembra essere, piuttosto, rusticitas. L’ignoranza non è guardata con simpatia dal mondo monastico, neppure la sancta rusticitas perché qualora sia indiscreta ed eccessiva, è sicuramente errata. Ruperto di Deutz è categorico: «Immoderata, sanctam rusticitam repellit», e «Nam quamvis sancta rusticitas bona sit, melior est tamen sancta scientia»89. Torniamo alle vicende agiografiche. Romualdo lo convinse a esseIn ogni caso gli formularono i quesiti che li angosciavano e Simeone rispose perfettamente e li risolse, svelando loro sciolse anche il destino dell’anima del sapiente Origene. p. cesaretti, Vita dei saloi Simeone e Andrea, cit., pp. 73-75. 87 g. tabacco, Petri Damiani Vita Beati Romualdi, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1957 (Fonti per la Storia d’Italia 90). Si vedano, inoltre c. caby, Du monastére à la cité. Le culte de Saint Romuald au Moyen Age, «Revue Mabillon», n.s., t. 6, 1995, pp. 137-158; sulle esperienze eremitiche del periodo esiste una vasta e importante letteratura critica almeno dalla settimana di studi della Mendola del 1962 fino alle più recenti pubblicazioni tra le quali ricordo soltanto Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècle), a cura di A. Vauchez, Rome, Ecole Française de Rome, 2003 e le giornate di studio organizzate dal 18 aprile al 16 maggio 2017 da Institut Européen en Sciences des Religions e Fontevraud su Ermites et ascètes dans différentes traditions religieuses sotto la direzione di Philippe Gaudin e di Michel Melot. Un’agile sintesi storiografica in c. d. Fonseca, Dal vecchio al nuovo monachesimo, l’esperienza certosina, in L’Ordine Certosino e il Papato dalla fondazione allo scisma d’Occidente, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 3-18 alle pp. 3-9 e la contestualizzazione di u. longo, Come angeli in terra. Pier Damiani, la santità e la riforma del secolo XI, Roma, Viella, 2012. 88 p. golinelli, Da san Nilo a san Romualdo. Percorsi spirituali tra Oriente e Occidente e tra Nord e Sud intorno al Mille, in San Romualdo. Storia agiografia e spiritualità. Atti del XXIII Convegno del Centro Studi Avellaniti, Fonte Avellana 23-26 agosto 2000, Verona, Il Segno, 2002, pp. 65-96. 89 J. leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio della letteratura monastica del Medio Evo, con Prefazione di C. Leonardi, Firenze, Sansoni, 1983, p. 269. Le citazioni ivi, nota 4, rispettivamente P.L. 169, p. 77 e P.L. 168, p. 1218.

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re obbediente, perciò lo persuase a ritornare dall’abate, a chiedergli il permesso di risiedere al di fuori del monastero e così dedicarsi alla vita eremitica senza infrangere l’obbedienza. Romualdo riconosce, infatti, il valore della sua scelta esistenziale, che equipara alla volontà di portare la croce di Cristo, ma affinché sia perfetta, tale scelta non può esimerlo dall’obbedienza. «Si crucem Christi portas» gli ingiunge, «superest ut Christi oboedentiam non relinquas»; se porti la Croce di Cristo è necessario che tu non abbandoni l’obbedienza90. Venerio osserva i consigli del sant’uomo e raggiunge così una perfezione di vita che sarà sancita dall’occorrenza di numerosi miracoli. Come scrive Umberto Longo, «Venerio è ‘figura’ dell’eremitismo organizzato, disciplinato, regolamentato e soprattutto incardinato in una dialettica istituzionale»91. La parabola su Venerio è suscettibile di essere interpretata quasi come il paradigma della declinazione occidentale e, ormai, cattolico-romana degli esperimenti e delle esperienze di ricerca di Dio che si consumavano sul crinale dell’estremo rigore. La spontaneità dell’iniziativa personale è abolita e sostituita dalla liceità dell’agire sancito dall’istituzione. L’obbedienza sta diventando veramente il cardine mentale, immateriale e vincolante ancor prima che concreto, del rinnovato assetto ecclesiale e sociale92. Virtù santa per eccellenza, va idealmente a saldarsi con l’umiltà, costituendo una coppia semantica dalla valenza sinonimica. Pier Damiani, infatti, ricorre alla funzione legittimante della tradizione agiografica in misura molto forte: sono le vite ammirabili dei santi, ancor più dei miracoli, a codificare i modelli di forma vitae perfetti e dunque proponibili e replicabili93. Una soluzione diversa, per quanto marginale, restava comunque possibile. Ne è testimonianza l’agiografia dello svevo Heimrad, i cui G. tabacco, Petri Damiani Vita Beati Romualdi, cit., p. 51. A p. 50 si legge: «Venerius […] habitare primitus in monasterio cepit cum tanta humilitate et simplicitate, ut omnes illum fratres subsannando despicerent et delirium eum atque dementem esse putarent. Alii namque illum sepe colafizare, alii sordida qua lebetes lavabuntur aqua perfundere alii diversis illum solebant convitiorum iurgiis lacerare. Cumque ille se perpenderet inter tot adversa tranquillum sue mentis statum servare non posse, consortium deserens, in solitudinem fugens properavit […]». 91 u. longo, La conversione di Romualdo di Ravenna, in San Romualdo di Ravenna. Atti del XXIV Convegno del Centro Studi Avellaniti, Fonte Avellana 2001, Verona, Il Segno, 2003, pp. 216-236, p. 234. Ancora di Longo si veda il recente Come angeli in terra. Pier Damiani, la santità e la riforma del secolo XI, cit. Ai contributi di Longo, anche per quanto concerne l’esaustività bibliografica sull’argomento, rimando interamente. 92 Sotto il profilo soprattutto istituzionale il bel libro: n. d’acunto, L’età dell’obbedienza. Papato, Impero e poteri locali nel secolo XI, Napoli, Liguori, 2007; per la santità nell’XI secolo è imprescindibile p. golinelli, Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare, Milano, Mursia, 2017. 93 Si vedano le importanti conclusioni cui giunge U. longo, Come angeli in terra, cit., pp. 263-264. 90

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connotati richiamano quelli di Venerio e di Lamberto, ma il cui ductus semantico, per così dire, è tanto diverso da consentirci di recuperare almeno qualche frustolo della follia per Cristo per come poteva essere vissuta a quest’altezza cronologica nelle terre germaniche. Heimrad (Haimrad, Heimo) fu originario di Messankirche in Assia (oggi Messkirch, Baden), dove nacque intorno al 970 e, dopo esser stato sacerdote, predicatore itinerante e infine monaco, morì nel 1019 presso l’attuale città di Kassel94. La Vita ci è stata trasmessa da Egberto (Ekkebert), monaco di Hersfeld tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta dell’XI secolo. La venuta al mondo di Heimrad è celebrata dall’agiografo sottolineandone l’elezione divina, tanto più evidente perché Dio aveva scelto un uomo appartenente a una famiglia di non liberi. Leggiamo: «Ubi enim Spiritus Domini, ibi libertas. Et non est judeus, neque grecus, non est servuus neque liber, non est masculus neque femina, omnes enim in Christo unus sumus»95. Nella frase di Egberto, oltre ai versetti di Paolo, risuona anche la liturgia: proprio in questi anni e grazie alla mediazione teologica orientale i versetti paolini sulla libertà dello spirito irrompono nel Proprium missae96. Heimrad è un presbitero di cui rifulge la santità, ma non è accolto dai suoi conterranei: «Igitur inter suos nullius ponderis aut pretii aestimatus, eo quod non intenderent lucernae in caliginoso loco lucent, salubre sidus, ut ita dicam, visus est aliis gentibus. Nemo enim Propheta, testante Domino, acceptus est in patria sua»97. Il secolo è ottenebrato dal demonio e non comprende; tutti lo irridono e lo maltrattano, non ha un luogo in cui stare in pace se non un monte sul quale può vivere da solo. «Unde accidit ut paene quocumque locorum devenisset», scrive Egberto, «non sine contumelia evaderet, usquequo ascendit in illum montem, in quo beneplacitum erat Deo, ut habitaret in eo»98. Dopo un periodo eremitico sul monte, decise di recarsi in pellegrinaggio a Roma e in Terra Santa per adorare le orme di Cristo99. Del pellegrinaggio l’agiografo sottolinea la t. struve, Hersfeld, Hasungen und die Vita Haimeradi, «Archiv für Kulturgeschichte», 51, 1969, pp. 210-233; ch. Witt, Der heilige Heimrad von Meßkirch: Pilger, Priester, Einsielder, Meßkirch, Gmeiner Verlag, 2009. 95 De S. Heimrado presbytero in Landgraviatu Assiae vita auctore Egberto monacho Ersfeldensi, AA.SS., Giugno 5, pp. 385-95, p. 387. 96 r. guarnieri, Il movimento del Libero Spirito: I Dalle origini al secolo XVI; II. Il “miroir des simples ames” di Margherita Porete; III Appendici, «Archivio Italiano per la Storia della Pietà», IV, 1965, pp. 351-708, p. 358. In seguito la speculazione del versetto paolino sarà ripresa nel De gratia et libero arbitrio di san Bernardo da Chiaravalle, nella già ricordata Epistola aurea di Guillaume de Saint Thierry, e anche in alcuni passi di Gioacchino da Fiore, Ibidem. 97 De S. Heimrado, cit., p. 387. 98 Ibidem. 99 «Deinde Hierosolymam petiit, ubi Pedes Iesu lacrymis rigavit; ibi Caput ipsius recumbentis cordis contriti et spiritus contribulati unguento, cum evangelica Unguentaria perfundens, domum in qua recubuit, psalmodiae et orationum bono odore implevit. Crucem quoque post Jesum cum improperio eius portans, crucifixum Dominum suum extra castra secutum est in Calvariae locum, ut videret salutiferae trophaei titulum, Domini sui 94

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valenza cristomimetica, descrivendo il processo di immedesimazione in Cristo vissuto da Heimrad. La cristomimesi che il santo pratica è di tipo staurologico: Heimrad desidera infatti soffrire con Cristo fino al martyrium amoris. Perciò subisce malvagità e contumelie dal prossimo e giunge addirittura a provocarle: «Et cum alia se iniurandi occasio deesset, quidquid inter se et aliios dividendum evenerat, eam partem quae praeponderabat, ipse usurpabat ut eos sic ad contumeliam provocaret»100. Così facendo si auto-infligge un martirio costante. «Canes etiam ad lacerandum se invitabat vere martyr, quia ipse magis ullo carnifice semetipsum sponte propter Dominum cruciabat»101. Tornato nella terra d’origine fu maltrattato ripetutamente e da vari personaggi importanti, tra i quali l’abate di Hersfeld, nel cui monastero era stato accolto nel frattempo, perché gli disse di non voler rimanere nel chiostro; piuttosto ambiva alla solitudine eremitica che gli assicurava un miglior guadagno spirituale. Finalmente trovò accoglienza in una chiesetta abbandonata. Curandosene e vivendo asceticamente ottenne la fama di santità tra i fedeli, ma alla fine fu cacciato anche da lì per aver redarguito la moglie del presbitero della vicina chiesa battesimale. Intanto il suo aspetto fisico era stato quasi deformato dal digiuno e dalle feroci penitenze con cui si affliggeva. Ciò alimentò il sospetto nel vescovo di Paderborn, che temeva fosse indemoniato. Così lo convocò, lo interrogò, lo frustò e lo costrinse ad assistere alla messa e a cantare l’Alleluja. In tutto questo Heimrad era felice, anzi «nimirum gaudio triumphabat» perché tali malversazioni lo associavano alla Passione dominica «quod socius factus sit Dominicae Passionis, cum procul dubio sciret, Apostolo teste, socium se futurum consolationis. Sed ut probatio patientiae ipsius inveniretur multo pretiosior auro, quod per ignem probatur, perseveravit episcopus asserere illum diabolum esse»102. Heimrad s’identifica con Cristo crocifisso, partecipa alla Passione. Dopo aver superato indenne la prova cui il vescovo l’ha sottoposto, torna a fare l’eremita sul monte e a praticarvi l’ascetismo più feroce, fino a gettarsi nudo tra i rovi per combattere gli stimoli carnali: quotiens eum incentiva carnis titillabant, cum salmos caneret, aut aliquid aliud divini officii persolveret, subito non sine miraculo intuentium proripiens se de ecclesia, quanto citius saltum dedit in piscinam, quae ibi erat; ibique tamdiu vadabat donec stimulus carnis eius quiesceret. Fertur etiam una vice nudum corpus suum per spineta traxisse; sicque dum poenaliter arderet foris, restinxisse incendium, quod exitialiter vivebat in medullis103.

crure inscriptum: quin etiam peractis suae devotionis aromatibus, sepulcrum Domini sui invisere, cum devotis curavit mulieribus […]», ivi, p. 388. 100 De S. Heimrado presbytero, cit., p. 388D. 101 Ibidem. 102 Ivi, p. 389. 103 Ibidem.

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L’agiografo Egberto scrive l’agiografia dimostrando la santità del protagonista della narrazione, vilipeso e scambiato per indemoniato, massimizzando il portato dell’obnubilazione delle menti indotta dal demonio. Chiaramente a quell’agiografia è sotteso un programma riformatore ed è forse il motivo per il quale, in definitiva, la Vita fu scritta; l’“establishment” ottoniano, in definitiva, accettò il tipo di santità di Heimrad104. Il sospetto di possessione demoniaca che grava su Heimrad evoca la difficoltà storica nel distinguere tra asceti ortodossi e non. La prossemica stessa dell’ascetismo riformatore, in questo periodo, trascina con sé un’eco assai sospetta. Il rifiuto delle logiche impastate di mondanità contraddistingue numerose correnti ereticali e persino il richiamo all’Oriente dei primordi eroici del cristianesimo rischia di configurarsi come una pericolosa analogia. In particolare la povertà assoluta, l’umiltà e la mortificazione di sé espressi in forme radicali, l’itineranza possiedono uno statuto ambiguo, perché praticati da entrambe le parti, l’ortodossa e la non ortodossa105. Proprio in questi anni possiamo seguire la trasformazione dell’idealtypus del santo. Intanto, come evidenziava recentemente Paolo Golinelli, l’idea verbalizzata da Gregorio Magno – e poi ripresa da Bruno di Querfurt – nei termini di «martirio occulto» o «bianco» riceve alimento e vigore. Tale idea muove le scelte esistenziali di coloro che, nell’eremo o nel cenobio, si annullano completamente in Dio. Non sono rare le esperienze di vescovi, eremiti e monaci che, evangelizzando popolazioni ancora pagane, trovano la morte: sono i casi di Adalberto di Praga, Bonifacio /Vinfrido, Geraldo di Csanad evangelizzatore dell’Ungheria106. Parallelamente si precisa e si esalta l’equivalenza tra percorso di santificazione e conformazione ai dolori della Passione di Cristo, al Cristo della crocifissione.

k. leyser, Communication and Power in Medieval Europe. The Gregorian Revolution and Beyond, ed. T. Reuter, London, Hamblendon Press, 1984, p. 11. 105 Tra X e XI secolo sono numerosi «i tratti comuni tra eremitismo ed eresia; prima di tutto i contatti con l’Oriente: dall’Oriente vennero Simeone del Polirone, Davino pellegrino, morto a Lucca nel 1051, Nicola peregrino, patrono di Trani, giuntovi dalla Grecia; pellegrinaggi in Oriente compirono il siracusano Simeone, morto a Treviri nel 1037 e il bolognese Bononio», p. golinelli, Strutture organizzative e vita religiosa nell’età del particolarismo, in Storia dell’Italia religiosa. I. L’Antichità e il Medioevo, a cura di A. Vauchez, Bari, Laterza, 1993, pp. 155-192, p. 185. Mentre «il nuovo monachesimo, poi, s’incontrava con una nuova spiritualità, quella orientale, che giungeva in Occidente tramite la ripresa dei pellegrinaggi, e figure di eremiti dediti all’ascesi e al disprezzo del mondo, proprio come una reazione alla diffusione di modelli di vita sempre più inclini al lusso e ai piaceri del mondo», p. golinelli, Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare, cit., pp. 12-13 e soprattutto l’intero 5 capitolo, dedicato alla disamina di Eresia ed eremitismo irregolare, pp. 73-83. 106 Ivi, pp. 15-49. 104

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Dalla Focide alla Puglia: Nicola il Pellegrino Il sospetto della possessione demoniaca e l’imitazione di Cristo crocifisso ritornano nell’agiografia di san Nicola il Pellegrino. Quest’agiografia ci consegna il ritratto di un santo che a buon titolo potremmo definire un salòs, per quanto mutatis mutandis. Nicola ha origini greche, nacque infatti nelle vicinanze del celebre monastero di San Luca a Stiri, nella Focide (attualmente Elicona) e la sua Vita fu trasmessa, si legge nella fonte, dal monaco Bartolomeo; costui lo accompagnò nel viaggio che dalla Grecia lo avrebbe portato sul suolo italico e, precisamente, a Trani in Puglia107. Nacque in una famiglia modesta, di agricoltori e pastori. Non ricevette alcuna istruzione perché fin da piccolo dové lavorare e occuparsi delle pecore, A otto anni, proprio mentre stava conducendo gli ovini al pascolo, lo Spirito Santo lo catturò, trasformandolo in un’altra persona. Repentinamente apprese che cosa fosse l’orazione continua, così iniziò a pregare ininterrottamente notte e giorno come Cristo in persona gli suggerì: recitando il Kyrie108. Si tratta di un sistema di preghiera tipicamente orientale, tendenzialmente penitenziale e associato al pellegrinaggio ed è il sistema tipico dell’esicasmo109. Consumando giorno e notte in preghiera, finì per indurre nella madre l’idea che fosse impazzito. Allora la donna pensò di curarlo picchiandolo. «Ipsum minis ac verberibus coepit dure cogere» – scrive Bartolomeo – «cupiens filium a tali stultitia revocare»110. Poiché non ottenne alcun risultato, a dodici anni lo mandò via da casa proibendogli di ritornare. Nicola trovò riparo su un monte dove, scacciata miracolosamente un’orsa feroce ricorrendo al signum Crucis, visse cibandosi di erbe crude e selvatiche e continuando indefessamente a ripetere il Kyrie. Insomma, potremmo dire che avesse assunto spontaneamente e quasi per istruzione divina, il comportamento del boskòs. Un santo eremita, coperto soltanto dai lunghi capelli canuti, lo raggiunse, lo istruì spiritualmente e poi fuggì di nuovo nel deserto. Intanto sua madre, preoccupata per lui, lo rintracciò e, ritenendolo indemoniato, lo condusse dai monaci di San Luca come accadeva in questi casi (ut moris est). I moDe S. Nicolao peregrino Trani in Apulia patrono, AA.SS., Giugno 1, pp. 235-260. Trani è stata una terra di frontiera culturale importantissima: islamizzata, poi riconquistata dai bizantini a partire dall’885, fu definitivamente conquistata dai Normanni nel 1071, g. b. beltrani, Su gli antichi ordinamenti marittimi della città di Trani, Barletta, Tip. Vecchi, 1873, p. 13. 108 «Nam Sanctus Spiritus splendore succensus, et divinae gratiae benedictione praeventus, mutatus in virum alterum repente clamare quadam die, Kyrie eleison, altissima voce coepit», De S. Nicolao peregrino Trani in Apulia patrono, cit., p. 237. 109 L’orazione continua è la base dell’esicasmo. Cfr. Evagrio il Pontico, Diacono di Foticea, Giovanni Climaco, Diacono di Foticea, Simeone il Nuovo Teologo, Teolepto di Filadelfia: Filokalìa tòn ieròn neptikòn, a cura di Nicodemo l’Agiorita, Venezia 1794; I. hausherr, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma, Typis Pontificiae Universitatis Gregorianae, 1960. 110 De S. Nicolao peregrino Trani in Apulia patrono, cit., p. 238. 107

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naci lo frustarono, lo ferirono, lo gettarono fuori dalla chiesa monastica ma egli, imperterrito, continuava a recitare la preghiera salvifica. Così lo rinchiusero in una torre e ne bloccarono l’accesso con un pesantissimo masso. Nicola insisteva nel recitare il Kyrie quasi urlando quando, miracolosamente, la torre si squarciò. I monaci dunque lo condussero in una cella e lo incatenarono. Anche questa volta intervenne Dio: le catene si spezzarono come se fossero una ragnatela. Raggiunse i monaci in refettorio, continuando a pregare ininterrottamente e fu ancora angariato in vari modi, finché non decisero di affogarlo buttandolo in mare dopo avergli legato mani e piedi. Dio intervenne nuovamente: un delfino sciolse le funi che legavano Nicola, lo prese sul dorso e lo condusse sano e salvo a terra. Alla fine i monaci lo lasciarono andare. Tornò quindi da sua madre, ma soltanto per prendere un’ascia, una mannaia e un coltello e ritornare sul monte. Da allora si dedicò alla costruzione di croci di legno, che piantava un po’ dovunque. Cercò di convincere il fratello Giorgio a vivere insieme con lui ma non vi riuscì, così restò da solo a fare l’eremita. Fu visitato da un angelo divino, che lo preparò all’ennesima prova. Poco dopo, infatti, fu raggiunto dall’abate del monastero che, per capire da quali forze fosse agitato, lo sottopose a una prova ordalica costringendolo a cavalcare un cavallo inferocito. La bestia, non appena il santo gli fu sul dorso, si calmò. Dopodiché sopraggiunse la notte e con essa la visione di Cristo, di san Giovanni Battista e della beata Vergine Maria nella sua cella. Dopodiché in estasi vide il solito angelo divino che lo portò via da lì e lo condusse in terra italica perché Dio lo voleva. Seguirono altri fatti miracolosi e nuove percosse da parte dei monaci di San Luca. Addirittura l’abate gli negò l’eucarestia nel giorno di festa dei santi Cosma e Damiano, pronunciò anatema contro di lui e lo cacciò dalla chiesa. Così egli decise che sarebbe partito in pellegrinaggio verso Roma. Dopodiché, ancora recitando il Kyrie a gran voce, fece il suo ingresso in una città vicina, dove fu avvicinato da una giovane ragazza che volle da lui la tonsura e l’assicurazione che l’avrebbe potuto accompagnare a Roma. Una volta ottenutala, si travestì da monaco e si mise al seguito di Nicola. Tuttavia, non appena entrambi, cantando il Kyrie, entrarono in un’altra città, la donna fu riconosciuta da alcuni suoi parenti, che si scandalizzarono perché era vestita da uomo e in compagnia di un asceta tanto “strano”. Lei asserì che era stata convinta e sedotta da Nicola, iniziando così a coprirlo di ingiurie. Inculpabilem se et innocuam huius rei asseruit, omnem vero culpam Sancto imponens, ipsum seductorem et stultum ac pestilentem deceptorem esse dicebat, et quaedam accusationis et calumniae alia verba plurima, mendaciis plena sanctum infamando componens, propter quae affectus iniuriis atque verberibus caesus fuit graviter a praedictis111. 111

Ivi, p. 240E.

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Di conseguenza Nicola fu trascinato in giudizio. Soltanto di fronte al giudice la donna ammise la verità, Nicola fu prosciolto e poté riprendere il proprio cammino. Spostatosi a Naupacto, per imbarcarsi alla volta dell’Italia, fu raggiunto da un monaco, di nome Bartolomeo, anch’egli dedito al pellegrinaggio, che gli si affiancò. L’intera navigazione è contraddistinta da soprusi di ogni sorta perpetrati contro Nicola dai pellegrini, da interventi divini a sua difesa, da azioni miracolose da parte del santo e dal suo insistente e continuo pregare recitando il Kyrie. Lo sbarco a Taranto e il successivo arrivo a Trani sono scanditi da situazioni analoghe. Addirittura a Trani, dopo essere stato frustato a sangue immotivatamente dal vescovo di Trapani, bloccò una scorribanda islamica gridando Kyrie eleison. «Semel in littore dormiens, in eoque circa noctis medium facto tumultu evigilans, se videre putabat quamdam de quodam sinu navem egredientem, Agarenorum multitudine plenam, contraque ipsum portari impetu vehementi: ipse autem Kyrie eleison clamans, eam confestim exterminavit»112. È poi interessante che indossi il saio dei monaci di San Luca «quasi per ludum». Il primo racconto agiografico si ferma qui. La narrazione delle vicende italiche di Nicola è affidata a un’altra agiografia, apposta a questa dai Bollandisti che la pubblicarono in guisa di seconda parte. L’autore si chiama Adelferio e sostiene di scrivere su richiesta e mandato del presule di Trani e, infatti, la Vita narra soprattutto quel che accadde in Puglia. Ciò che l’autore sostiene è vero: l’agiografia gli fu commissionata dall’arcivescovo allo scopo di ottenere la canonizzazione di Nicola. L’agiografo ricorda come l’ingresso del santo a Trani sembrò ad alcuni suoi abitanti quello di un pazzo, perché aveva fatto opere di carità nei confronti dei bambini locali giudicate forse eccessive e autolesioniste, mentre per altri fu l’arrivo di un santo113. Viveva poveramente, in preghiera e mortificandosi, tanto da attrarre l’attenzione dell’arcivescovo (Bisanzio Seniore) che lo volle ricevere e interrogare. Essendo un sant’uomo, riconobbe subito in Nicola un eletto e gli consentì di restare a Trani. Di questa seconda parte mi sembra importante sottolineare sia che l’agiografo vuole presentare Nicola come un monaco di San Luca – «Hic vero in S. Lucae monasterio Styro, quod in Greciae partibus situm est (prout ajunt) diutius obversatus, vitam egit angelicam»114 –, sia che la sua forma vitae viene descritta nei termini di perfetta mimesi della Croce di Cristo. Si scrive, infatti: «cumque dominica praecepta, quae crucem tollendam, sicque Dominum iubent sequendum, solicitus animo pertractaret, non modo spiritu, sed carneis manibus cruIvi, p. 243. 113 «Insolito perculsi negotio, insani hominis esse arbitrabantur; ipsumque (pro nefas! referere horresco) illusioni ac contemptui velut dementem plerique habebant», ivi, p. 245. 114 Ivi, p. 245. 112

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cem ardenti desiderio complectens, monasterio discessit et ut Christum sequi valeret, seclaria damnans oblectamenta, peregre profecus est»115. Già nell’agiografia precedente la forma vitae di Nicola era stata presentata sotto questa luce, basti ricordare l’insistenza con cui l’autore si diffondeva sulla costruzione delle croci di legno da parte del santo e la loro disseminazione ovunque. Nella seconda agiografia l’elemento staurologico è esplicitato con maggiore chiarezza. Durante l’interrogatorio da parte dell’arcivescovo, compare un lungo verbum Nicolae. Chiamato a render ragione di che cosa facesse, il santo dice di seguire l’insegnamento di Cristo, cioè portare la Croce: Nequaquam tibi occultum est, qualiter Dominus noster Jesus Christus praeceperit, ut, si quis post eum velut abire, crucem tolleret suam, seque sequeretur: ipsisque discipulis iterum dixisse nosti, quod nisi conversi essent, et sicut parvuli efficerentur, in caelorum regnum non intrarent. His igitur animadversis, Crucis signaculum interius exteriusque gerere, et sub parvuli forma pergere non erubui, nec hominum illusiones vitavi116.

Incastonare un discorso diretto del protagonista all’interno del testo è un atto rilevante, perché significa attribuire a quel discorso una pregnanza del tutto particolare. Nicola stesso, con le sue parole, spiega il senso di quanto ha scelto di fare, di come ha scelto di vivere. Inoltre le sue parole hanno il crisma dell’ufficialità: in quel momento egli sta dialogando con un’autorità superiore e che riconosce. Il fatto, poi, che l’autorità accolga e approvi la spiegazione di Nicola, ha un valore legittimante della sua scelta. Si tratta anche dell’unico incontro con un esponente della gerarchia ecclesiastica a non risolversi in un maltrattamento di Nicola; al contrario l’arcivescovo è definito un sant’uomo e si mostra benevolo e accogliente. Quando l’agiografia fu composta era in corso, o si era appena concluso (propenderei per questa seconda ipotesi) un tentativo di riavvicinamento con la chiesa bizantina promosso da Urbano II, convocando il Concilio di Bari nel 1098. Si sperava, infatti, di sanare lo Scisma e di abbattere le conseguenze dell’ingaggio ultramare degli occidentali, impegnati nella conquista di Gerusalemme. Forse, ma è soltanto un’ipotesi, la sottotraccia del testo potrebbe configurarsi anche come un’implicita valorizzazione della gerarchia cattolica occidentale, che accoglie e riconosce la santità di un greco sospettato e vilipeso in patria117. La Ibidem. 116 Ivi, p. 245. 117 g. cioFFari, S. Nicola il pellegrino, patrono di Trani e dell’Arcidiocesi. Vita, critica e messaggio spirituale, Barletta, Rotas, 2014, pp. 133-146. Secondo l’autore le agiografie pubblicate dai bollandisti sono autentiche e le autorialità sono quelle individuate dai medesimi studiosi. Sul Concilio: F. panarelli, il Concilio di Bari: Boemondo e la Prima Crociata, in Il Concilio di Bari del 1098. Atti del Convegno storico Internazionale e Celebrazioni del IX Centenario del Conci115

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postulazione al pontefice fu avanzata direttamente dall’arcivescovo di Trani ed ebbe successo. Nicola fu canonizzato, divenne patrono di Trani e, come tale, oggetto di un culto vivace e molto duraturo, il che costituisce un dato molto importante, perché prova la continuità della memoria del santo e delle sue gesta. In definitiva la vita di Nicola è interamente basata sulla Scrittura, applicata sine glossa nel quotidiano. Cristo ha detto di portare la croce e di essere come bambini. E i bambini ritornano spesso e con forza nell’agiografia scritta da Adelferio: sono i primi con cui il santo si relaziona quando arriva a Trani, sono coloro di cui si occupa, sono coloro che lui ama di un amore tutto particolare, che elegge a suoi accompagnatori oranti118. Quanto, poi, alla sequela crucis, Nicola ne è un campione. Il suo martirio è costante ed è addirittura ricercato: se non è picchiato e maltrattato ingiustamente, si auto infligge sofferenze e umiliazioni. Dice: «Crucis signaculum gerere interius exteriusque». Internamente egli porta il segno della Croce aderendo alla Passione di Cristo in ogni sua azione, esteriormente lo fa utilizzando il segno della croce come difesa e benedizione nonché costruendo croci. Probabilmente con «signaculum crucis» si allude anche al segno distintivo dei pellegrini che sicuramente Nicola porta su di sé. Egli è costantemente scambiato per un pazzo ed è il suo modo per seguire l’esempio del Cristo della Passione. La santa follia di Nicola è, quindi, imitazione della crocifissione. Un inno liturgico forse coevo all’agiografia e quindi dell’XI secolo, appartenente al breviario della Chiesa di Trani, icasticamente restituisce il senso dell’esperienza di Nicola in questi termini: «Hic nudus nudum sequitur/ Eius Crucem amplectitur/ hostem nudus aggreditur/ caelum dives ingreditur»119. Seguire nudi il Cristo nudo: la nudità di Cristo sul Calvario, per quanto santa e venerabile, non è aliena dal più ampio iperonimo semantico relativo alla nudità. Essere nudi nel mondo medievale significa molte cose diverse, talora anche in stridente contrasto reciproco. Nudi sono i folli e gli indemoniati, talvolta folli perché indemoniati: è il loro furore a costringerli a strapparsi le vesti. E dove non sia il lio, a cura di S. Palese, G. Locatelli, Bari, Edipuglia, 1999, pp. 145-167 < http://www.rmoa. unina.it/1588/1/RM-Panarelli-Boemondo.pdf >; a. de santis, Il Concilio di Bari del 1098. Oriente e Occidente tra teologia e politica, Bari, Stilo, 2009. 118 «Ingressus itaque civitatem et Christi crucem, sicut ei vulgo solitum erat, bajulans, puerorum ex more collegit multitudinem: quibus praevius quaeque urbis loca cricumiens, in Dei laudibus semper accensus, Kyrie eleison clamitare numquam cessabat: puerosque consequentes, ut et ipsi quod praecinebat succinerent, Argiva lingua adhortabantur. Quibus, ne se desererent, sed magis magisque multi assequerentur, pomorum pructibus variorum dulciter blandiebatur», ivi p. 245; «Laetus ergo et ipse, cum vidisset pueros, veloci ut solebat incessu, vultu hilari, spirituque ferventi praecedens, voce canora urbis loca implebat: nam et pueri subsequentes (quos pomorum demucebat largitione) consonis respondebant vocibus», ibidem. 119 Ivi p. 254.

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furore a governarli, l’incuria assoluta per la propria fisicità, avvertita come aliena dai pazzi, consuma e lacera gli abiti fino a denudare quasi completamente i corpi. Pertanto è necessario soffermarsi sulla follia nelle società medievali.

3. Folli per Cristo o folli per malattia? Giuristi, filosofi e teologi a confronto (secc. XI-XIV)

Disquisire della follia per Cristo senza collocarla nel più ampio filone della ricezione sociale del fenomeno “follia” tout court rischia di eiettarla nel margine della ricostruzione erudita di una sensibilità religiosa peculiare, non cogliendone l’organicità alla scala di valori delle società in cui si manifestò e che invece costituisce forse il dato maggiormente significativo per lo storico. Mi sembra quindi necessario, a questo punto della trattazione, porre il problema della ricezione della pazzia in età medievale secondo una prospettiva che ne evidenzi i nessi con la santa follia. Di pazzi e di pazzia, tra V e XV secolo, scrissero in molti: giuristi, filosofi, medici e teologi. Tutti costoro non composero trattati o comunque libelli specificatamente dedicati, ma si occuparono della casistica o del morbo, nelle sue varianti, contestualmente ad altre dissertazioni1. Perciò le informazioni di nostro interesse risultano parcellizzate e disseminate in una ridda di testi, quasi a disegnare una metaforica ragnatela i cui fili concentrici, tra loro sempre paralleli, possono essere ravvisati nei rimandi e nelle influenze reciproche. Esiste, tuttavia e a mio modo di vedere, una gerarchia precisa tra le fonti. Ritengo, infatti, che la base concettuale determinante nella creazione dell’atteggiamento sociale nei confronti della follia e, quindi, anche nell’accoglienza della categoria di “follia sacra”, sia stata fornita dal diritto. Del resto, come autorevolmente scriveva Fernand Braudel, il diritto, con tutta la sua capacità normalizzante e la La società medievale non crea una vera e propria psicopatologia della follia, pertanto i termini che userò nella trattazione saranno generici e genericamente vanno intesi, cfr. J. pigeaud, Folie et cures de la folie chez les médicins de l’Antiquité gréco-roaine. La manie, Paris, Les Belles Lettres, 1978, p. 266. 1

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sua natura di per sé persuasiva, con la sua vocazione alla standardizzazione delle norme etiche affinché funzionino da misuratori sociali dei comportamenti ammissibili o meno, ha una durée lunghissima, resiliente al logoramento del passare del tempo2. E, soprattutto, il diritto è pervasivo e performante iuxta propria principia. Visto che la pazzia, in quanto malattia invalidante, determina pesantemente la qualità delle relazioni sociali e costituisce un elemento di forte disequilibrio, i giuristi furono inevitabilmente costretti a misurarsi con essa. Il diritto, ovvero la “struttura” Già il diritto romano era costellato di norme volte a limitare i danni suscettibili di essere causati da chi era affetto da squilibri mentali e, al contempo, volte a garantirne la tutela. I giuristi avevano desunto una lessicografia della follia tanto articolata quanto polimorfa era l’alterazione mentale, vero e proprio elemento “mutante” e “mutageno”3. Il “lemma” maggiormente ricorrente nel diritto romano è freneticus, ma compaiono anche amens, bacchatus, demens, fanaticus, fatuus e morio, insanus, lunaticus, melancholicus, vecor e vesanus, nonché alienatus. La legge ricorre persino a vere e proprie polirematiche con valore tecnico: mente captus, non compos mentis, non sanae mentis, non suae mentis o, infine, animus deesse. Alienatus si presta a costruire una similitudine con absens, dormiens, ignorans, ma anche con pupillus, infans, mortuus e captus ab hoste. Per quanto manchi una disamina critica ad hoc si può approssimare, con cautela, che il vocabolario di base della follia sia strutturato intorno a due iperonimi: insanus (insania) e furiosus (furor). Lo si vede bene sul periodo medio-lungo, che è quello che ci interessa a prescindere dal mondo romano. La fortuna medievale delle parole legate alla pazzia risulta piuttosto chiara: saranno infatti soprattutto i termini insanus (insania) e furiosus (furor) a scorrere lungo tutta l’epoca medievale, popolando due torrenti speculativi diversi, per quanto in stretta relazione reciproca. I giuristi prediligeranno parlare di furiosus, attingendo alla terminologia medicale, mentre i filosofi e i teologi preferiranno speculare dell’insania e dell’insanus4. Ovviamente si tratta di una divisione di F. braudel, La storia e altre scienze sociali, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 162. 3 Cfr. nota successiva. Per la dipendenza delle fonti giuridiche dalle mediche si veda anche tutta la questione della differenza tra morbo e vizio affrontata in e. parlamento, “Servus melancholicus”, i “vitia animi” nella giurisprudenza classica, «Rivista di Diritto Romano», I, 2001, pp. 1-20; g. rizzelli, Modelli di follia nella cultura dei giuristi romani, Lecce, Ed. Grifo, 2014. 4 Per la preponderanza quantitativa di furiosus nel Digestum cfr. p. toohey, Madness in the Digest, in Mental Disorders in the Classical World, ed. W.V. Harris, Leiden-Boston, Brill, 2013, pp. 441-460, in particolare pp. 443-444. 2

3. Folli per Cristo o folli per malattia? Giuristi, filosofi e teologi a confronto

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massima; la casistica giuridica, infatti, attesta anche l’uso sinonimico di insanus e di furiosus, ma la sinonimia non è prevalente. Ad esempio: il Decretum Gratiani contiene un secco divieto al matrimonio tra un pazzo e una pazza: «Neque furiosus neque furiosa matrimonium contrahere possunt», si legge nella fonte. Si aggiunge che, qualora il matrimonio sia stato contratto, i coniugi non dovranno essere separati5. Successivamente nella Summa di Tancredi da Bologna (1185-1236) vengono ripetute le medesime espressioni del Decretum Gratiani, quindi allorché si parla di matrimonio, compare semplicemente il termine «furiosus»6. Tuttavia, discutendo della possibilità di rilasciare o meno una testimonianza valida, l’autore scrive «furiosus et mente captus»7. Invece nella Summa de matrimonio di Raimond de Peñafort (1175?-1275) si legge «si furiosus vel insanus dicat illa verba, non contrahit, quia animo consentire non potest» e, di conseguenza, si asserisce la nullità del vincolo8. La differenza tra il furiosus e l’insanus consiste forse nella possibilità che il primo goda di momenti più o meno lunghi di lucidità. Ancora nel testo di Tancredi, infatti, si specifica: «Et hoc verum est, quousque est in furore constitutus quoniam, si habet dilucida intervalla, et aliquando redit ad sanam mentem et nubere potest»9. Comunque, nonostante alcuni scambi osmotici, la distribuzione semantica tra furor, protagonista soprattutto del diritto e della medicina, e insania, oggetto della speculazione filosofica e teologica, esiste e in linea di massima si ricompone quando s’incontrano diritto e teologia, anche attraverso la mediazione della trattatistica medica. In un caso in particolare la ricomposizione è interessante ai fini della nostra ricerca, cioè quando avviene all’incrocio tra medicina e teologia per trattare dell’insania (e furor) amoris, come vedremo più avanti. Il principio romanistico in base al quale il furiosus non è perseguibile e dunque non è penalmente responsabile perché incapace di intendere, passa nel Decretum Gratiani e da lì trasmigra nella criminalistica del diritto comune. Tutto questo in linea di principio. Ma, sulla linea pratica della giurisprudenza, ciò che vale è l’accertamento del grado di follia del soggetto e, in definitiva, quest’ultimo spetta al giudice che utilizzerà tutti gli strumenti utili per farlo10. Una trasmiDecretum Gratiani, Secunda Pars, Causa 32, questio 7, c. 26. 6 «Furiosus non potest contrahere matrimonium; tamen, si contraxit, ante furorem, non solvitur», Tancredi, Summa de matrimonio, ed. a. Wunderlich, Gottingae, Apud Vandenhoëck et Ruprecht, 1841, p. 17. 7 Ivi, p. 100. 8 m. spadaccini, Libri, Libelli e procuratori: analisi di un codice giuridico, Torino, Accademia University Press, 2016, p. 136. 9 Tancredi, Summa de matrimonio, cit., p. 15. 10 s. pollorsi, Recta ratione ductus. I Prolegomena al De Criminibus di Anton Matthaeus, Pavia, Pavia University Press, 2015, pp. 99-100. Sulla criminalistica: m. boari, Qui venit contra iura: il furiosus nella criminalistica dei secoli XV e XVI, Milano, Giuffrè, 1983 in 5

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grazione analoga interesserà l’istituto giuridico della cura (custodia) e del custos previsto per il furiosus11. Il Codex giustinianeo attribuiva ai vescovi e ad altri religiosi la tutela delle persone incapaci di gestire in autonomia l’alienazione dei propri beni12. A seguito della nascita e dello sviluppo dei Comuni, la potestà di nominare i tutori passò sempre più alle autorità comunali13. In ogni caso ciò che importa sottolineare in questa sede è l’attenzione che la società riservò alla gestione delle patologie psichiche, più che la dinamica tra episcopati e comuni. È, insomma, significativo il fatto che la collettività abbia costantemente identificato la necessità della cura e della custodia del “furioso”, affidandola a quei soggetti che, di congiuntura in congiuntura, venivano reputati idonei allo svolgimento di una simile mansione. Ormai in epoca tardomedievale la criminalistica descriverà i sintomi del furor, nel tentativo di circostanziare in maniera sempre più precisa e, dunque, di assicurare interventi legali commisurati alla reale entità dei fatti. Queste descrizioni sono preziose perché dipingono un ritratto ideale del folle, evidenziando i comportamenti considerati rivelatori della malattia mentale. Il matto lancia sassi per strada, ride senza ragione, compie atti sconvenienti, dilapida il patrimonio – del resto il principio romanistico accoppia il furiosus e il prodigus interdicendoli entrambi14 –, non si ricorda neppure il proprio nome e parla in maniera sconnessa e irragionevole. E, poi, condizione necesparticolare le pp. 60-75; si veda poi il bel saggio di F. stock, Modelli e tradizione antica nella psicopatologia di Zacchia, in a. pastore, g. rossi, a cura di, Paolo Zacchia. Alle origini della medicina legale, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp. 74-89 che ricostruisce il complicato percorso della collaborazione giudici/medici. Si veda anche a. abis, Il furor melancholicus nella cultura giuridica di età moderna. Osservazioni e ipotesi di ricerca, «Historia e ius. Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna», 7, 2015, pp. 1-12. 11 o. diliberto, Studi sulle origini della ‘cura furiosi’, Napoli, Jovine, 1984; c. Fayer, La Familia Romana. Aspetti giuridici ed antiquari, Roma, “L’Erma” di Bretschneider, 1994, pp. 559-508; F. zuccotti, Il “custos” nel diritto romano arcaico. Considerazioni sistematiche e prospettive di ricerca circa la situazione degli incapaci ed il sistema successori della normazione decemvirale, «Rivista di Diritto Romano», IX, 2009, pp. 1-55. 12 «Generaliter sancimus omnes viros reverentissimos episcopos nec non presbyteros seu diaconos et subdiaconos et licet monachos, licet non sint clerici, immunitatem ipso iure omnes hanere tutelae sive testamentariae sive legitimae sive dativae: et non solum tutelae esse eos expertes, sed etiam curae, non solum pupillorum et adultorum, sed et furiosi et muti et surdi et aliarum personarum, quibus tutores vel curatores a veteribus legibus dantur», ivi, C. 1. Q. 3, 31. Cfr. P. silanos, Homo debilis in civitate. Infermità fisiche e mentali nello spettro della legislazione statutatia dei comuni cittadini italiani, in Deformità fisica e identità della persona tra Medioevo ed Età Moderna. Atti del XIV Convegno di studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo, San Miniato 21-23 settembre 2012, a cura di G. M. Varanini, Firenze, Firenze University Press, 2015, pp. 31-91, p. 54. 13 Ivi, pp. 54-55. 14 a. guarino, Notazioni romanistiche – IV. Il “furiosus” e il “prodigus” nelle “XII tabulae”, «Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania», n. s. II (1948-1949), pp. 194204; F. zuccotti, Il “custos” nel diritto romano arcaico, cit., p. 3, 16, 25 (in cui peraltro si riassume in maniera efficace il dibattito intorno all’equiparazione tra furiosus e prodigus); F. pulitanò, Studi sulla prodigalità nel Diritto Romano, Milano, Giuffrè, 2002.

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saria e sufficiente perché qualcuno sia dichiarato pazzo, è che abbia la fama di esserlo15. Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), nel Tractatus de Testibus, spiega: «Furiosus qui probatur ex actibus, ut si testes dixerit, quod vidit eum furere et actum furiosorum facere, satis exprimit. Sunt enim tales actus noti communiter. Sed si interrogetur ulterius, oportet testem exprimere actus, scilicet quia vidit percutere astantes sibi, sine causa fugere, lapides sine causa proicere et similia»16. Riassumendo la trattatistica e la giurisprudenza precedente nella sua ponderosa enciclopedia del diritto intitolata Practicarum conclusionum iuris, il cardinale Domenico Toschi (1535-1620) enumera molte azioni tipiche dello squilibrato, tracciandone una prossemica di massima. Mi avvalgo di questo compendio perché riunisce in un unico luogo numerose espressioni parcellizzate in un gran numero di testi normativi e di consilia coevi e più antichi, dagli scritti di Bartolomeo Anglico (XIII secolo) di Baldo degli Ubaldi (1327-1400), per esempio, a quelli di Francesco Zabarella (1360-1417) o di Nicolas Bohier (1439-1539). Va precisato che il testo è animato da un ésprit de systhème, per quanto attiene alla figura del folle, tipicamente rinascimentale e pertanto nient’affatto riferibile sic et simpliciter ai secoli più antichi. Ciò nonostante e con tutte le cautele del caso, può essere utilizzato ai nostri fini in guisa di repertorio di marker identificativi. Secondo Toschi, quindi, si può a buon titolo sospettare che sia matto chi si aggira per le strade in modo sconsiderato e immotivatamente coperto soltanto dalla biancheria intima, oppure nudo. Lo stesso vale per chi grida di notte e di giorno in maniera inconsulta e senza ragione; si disfà dei propri beni donandoli a tutti e così dissipa il patrimonio; parla a sproposito e ride senza motivo per strada; sta legato e chiuso in casa; lancia pietre per strada; non riesce mai a rispondere sensatamente, discorre irragionevolmente e non si ricorda niente; vuole stare sotto la pioggia potendo ripararsi sotto un portico; pronuncia discorsi insensati e risibili17; frusta madre e consanguinei; è sotto la custodia dei parenti; ignora il proprio nome; non riconosce m. boari, Qui venit contra iura, cit., pp. 65-70. Sulla fama: F. migliorino, “La Grande Hache de l’histoire”. Semantica della fama e dell’infamia, in Fama e publica vox nel Medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009, a cura di I. Lori Sanfilippo, A. Rigon, Roma, ISIME, 2011, pp. 5-21, p. 7. 16 bartolus, Tractatus de testibus, in susanne lepsius, Der Richter und die Zeugen: Eine Untersuchung anhand des Tractatus testimoniorum des Bartolus von Sassoferrato, Frankfurt am Main, Klostermann, 2003, p. 300, Cfr. b. t. parlopiano, Madmen and lawyers: The development and practice of the jurisprudence of insanity in the middle ages, 2013, Available from ProQuest Dissertations & Theses Global.. < https://search.proquest.com/docview/1399591920?accountid=12830> p. 160. 17 Sull’importanza della “parola” nella diagnosi di follia, cfr. F. salmòn, Quis enim possit investigare rationes, imaginationes et memorie anime? Las funciones del cerebro y sus alteraciones en la medicina escolàstica, «Quaderna d’Italia», 11, 2006, pp. 11-28. 15

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persone conosciute; asserisce che i morti siano vivi; sputa in faccia agli altri e soprattutto al notaio; sibila quando viene interrogato e, in definitiva, compie azioni e gesti che una persona equilibrata non compirebbe mai18. Toschi e le sue fonti insistono sulla fama di follia e, anche, per converso, sulla necessità di annullarla qualora svaniscano i presupposti che l’hanno procurata. Infatti, quando qualcuno che fosse stato dichiarato matto tornava alla normalità, le autorità s’incaricavano di riabilitarne l’opinione pubblica e dunque di correggerne la fama diffondendo la notizia della sua guarigione che, poi, era suggellata attraverso l’emissione di una sorta di certificato ufficiale. Questa pratica è antica ed è attestata, per esempio, da un’aggiunta inserita nell’apposita rubrica degli Statuti di Parma del 1255, che prescriveva l’uso di messi comunali per pubblicizzare il rinsavimento e che ingiungeva al rinsavito di presentarsi ai giudici perché ne certificassero la guarigione dopo aver controllato i documenti opportuni19. Insomma la follia è questione collettiva a tutto tondo, non soltanto perché il matto costituisce un problema da gestire, ma perché la società è chiamata in prima persona a definire il canone della pazzia, riconoscendo il pazzo in quanto tale. Ed è proprio su questa dimensione collettiva che voglio insistere sia perché, a mio modo di vedere, costituisce una differenza molto forte tra l’epoca medievale e le epoche successive, sia perché il matto medievale non è un isolato, bensì sta al centro di una densa rete di relazioni, tanto densa da intervenire persino nella certificazione del suo status. Il diritto e l’ortodossia cristiana: slittamenti semantico-concettuali Ancora a proposito di significati e significanti, c’è da considerare che la cristianizzazione introdusse un’accezione differente di alcune parole indicanti la pazzia, in particolare demens e dementia. Questi due termini furono utilizzati per denotare l’eretico, non più l’ammalato in senso proprio20. domenico toschi, Practicarum conclusionum Iuris in omni foro frequentiorum, Dominici Titulo S. Onuphrii […] Cardinalis Tuschi, tomus IV, Romae, ex Tipographia Stephani Paulini, 1606, pp. 101-104. Su di lui: r. govoni, Il Cardinale Domenico Toschi da Castellarano a Roma, 1535-1620, Parma, Diabasis, 2009. 19 p. silanos, Homo debilis in civitate, cit., pp. 52-53. 20 Un’aggiornatissima sintesi della questione con un corpus di fonti molto ricco nella bella tesi di dottorato di steFania castaldo, Aspetti giuridici della furia e dell’infermità mentale nel mondo romano. La compravendita del “servus furiosus”, Università di Palermo, tutor Annamaria Salomone, a.a. 2015/2016, ciclo XXVI, pp. 3-92. Sullo slittamento semantico da malato a eretico: F. zuccotti, ‘Furor Haereticorum’. Studi sul trattamento giuridico e sulla persecuzione della eterodossia religiosa nella legislazione del tardo impero romano, Milano, Giuffrè, 1992, in particolare le pp. 48-57. 18

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Un così importante slittamento semantico è attestato dalle fonti giuridiche superiori, già a cominciare dalle Costituzioni di Valentiniano e Teodosio del 381 – e, a seguire, dalle Costituzioni di Teodosio del 394 e di Arcadio e Onorio del 396 – si parla di dementia dei non cristiani (pagani o eretici)21. Le raccolte di Teodosio e di Giustiniano completano il passaggio semantico, affiancando insania a dementia per designare la «piaga sociale» costituita dai pagani22. Così il carico valoriale dell’ambivalenza pazzia/paganesimo-eresia innervato sui corpora giuridici imperiali fu pienamente traghettato all’epoca medievale e filtrò all’interno di corpora testuali di altro genere: quale simbolica capostipite di una tradizione testuale enorme, riporto la paradigmatica espressione usata da Isidoro di Siviglia per raccontare la conversione dei visigoti. «Ut etiam fide eius (Leandri) atque industria populi gentis Gothorum ab arriana insania ad fidem catholicam reverterentur. Hic namque in exilii sui peregrinatione composuit»23. Le fonti di carattere religioso accolsero pienamente tale scivolamento di senso dell’eresia come pazzia e a livello terminologico preferiranno insania-insanus pur mantenendo l’uso di furor e dementia, soprattutto nel periodo più antico. Ad esempio nell’Epistola XII di Cipriano da Cartagine († 258) al vescovo di Roma Cornelio si legge: «Quid ad Novatianus, frater charissime? Utrumne jam deponit errorem? An vero, qui dementium mos est, ipsis bonis et prosperis nostris plus adactus est ad furorem et quo magis dilectionis ac fidei crescit hic gloria, dissensionis et zeli recrudescit»24. Novaziano era contrario alla riammissione dei lapsi all’interno dell’ecumene cristiana e fu attore di un vero e proprio scisma della chiesa di Roma, dove si era fatto eleggere vescovo mentre era ancora legittimamente in carica Cornelio, che invece sosteneva la linea più morbida del reintegro dei lapsi. Come si legge nella citazione, il ricorso ai lessemi della pazzia è consistente: degli otto sostantivi utilizzati nella frase che va da an vero a recrudescit, due appartengono al vocabolario della pazzia. La percentuale è alta, tanto più che si tratta di vocaboli impattanti, cioè dal forte carico semantico. Una raccolta sistematica di testimoni è impossibile, in questa sede mi limito a portare soltanto alcuni esempi della risemantizzazione dottrinale dei termini cui mi riferivo sopra. È il caso, ad esempio, del Liber de laude martyrii, attribuito ancora a Cipriano, dove si legge: « […] cum in sermones vulgi atque in opprobrium veneris, cumque te contra illas populare insania religiosa mente fircastaldo, Aspetti giuridici della furia, p. 50. I testi nelle note ivi, 251, 252, 253. 22 Ivi, p. 75. 23 Historia Gothorum Wandalorum Sueborum ad a. 624, ed. th. mommsen, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquiores, XI, Berolini, 1882, pp. 1-52, v. 118, il corsivo è mio. 24 P.L. 3, col. 834A; cfr. a. carpin, Cipriano di Cartagine. Il vescovo nella chiesa, la chiesa nel vescovo, Bologna, ESD, 2006. 21

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maveris […]»25; della trattatistica antigiudaica di Celso che apostrofa di follia i giudei: « […] tamen magis Judaicae plebis insaniam novi adversus nomen Domini, pertinaci etiam nunc duritia cordis […]. Sec perstat et durat adhuc, et semper, puto, durabit ad usque progeniem succidaneam innata patrum irreligiosa perfidia, quae adversus odium nominis Domini incredulitatis insania roborata»26; ma anche del racconto delle virtù di Atanasio vergato da Lucifero da Cagliari: «interea iterum atque iterum urgeo, ut videas quae vos Arianos ceperit dementia, quae comprehenderit insania, ut auderetis haec machinari in innocentis necem […]»27. Pazza, poi, è la montanista che compare nella Passione di Perpetua e Felicita: «Fieri autem minime potuisse videtur, ut mulier insania et furore percita, et daemoniaco spiritu acta, cujusmodi erant Montanistarum pseudo-prophetissae, ita sibi in omnibus caverit, ita se gesserit, ut nihil in ejus verbis procax, nihil arrogans, nihil in motibus inverecundum, nihil actibus irreligiosum vel severissimus censor possit animadvertere»28. Dementia e insania sono dunque le etichette utilizzate per bollare le posizioni eretico-scismatiche, il paganesimo, il giudaismo, l’arianesimo, insomma quanto si disallinea rispetto all’ortodossia (per quanto sia un concetto mobile e, nel periodo dei testi citati, in fase di costante precisazione). Il controcanto devozionale e liturgico alle fonti controversistiche o trattatistiche fu intonato dai racconti agiografici e martiriali. Le Passiones in cui l’accusa di follia e di demenza interessa i cristiani o i pagani, o addirittura scambievolmente sia i cristiani, sia i pagani torturatori, sono numerose. È topica la richiesta rivolta al martirizzando prima di tormentarlo e poi di ucciderlo: gli s’ingiunge di abbandonare la sua folle credenza per ricollocarsi nel mos maiorum del culto agli Dei. Per tutta risposta il futuro martire rilancia al mittente l’accusa che gli è stata rivolta e la rovescia: i pazzi sono loro, i pagani, che si rifiutano di accogliere la verità, cioè Cristo. La verità è tanto cogente da rendere preferibile la morte all’abiura. Le varie tipologie dell’accusa di follia ricorrono nella vita di san Massimo lettore, di sant’Agapito, di Censurino (menzionato nella Passio di santa Aurea), della donna bellissima martirizzata con sant’Arete, di san Zenobio martire, di san Saturnino, di san Quintino, di santa Ninfa, ad esempio29. P.L. 4, col. 790B. 26 P.L. 6, col. 50C. 27 P.L. 13, col. 897B. 28 P.L. 3, col. 141B. 29 Maximus Lector, Martyr Donostori in Mysia inferiore: «Gabinius Proconsul simul cum Tarquinio dixerunt: Ecce quot modis vobis consulimus: vos autem suaderi vobis non vultis, sed in vestra perseveratis insania. Respondit Maximus: Vos ipsi insanitis, qui vultis homines recte viventes, et unum Deum adorantes, pertrahere ad culturam demoniorum», AA.SS., 25

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Pazzia-eresia è un binomio destinato a protrarsi nel tempo, allacciandosi a quello eresia-malattia la cui origine, forse, potrebbe non essergli estranea. La prossimità tra follia e devianza dottrinale consente di attivare una gamma di modalità argomentative vasta e potenzialmente molto creativa, perché si estende dall’anatema, al procedimento inquisitorio e accusatorio, fino alla più insinuante induzione del sospetto al fine di rimarcare e di correggere gli atteggiamenti giudicati ambigui e potenzialmente pericolosi. Un testo i cui sotto traccia concettuali e Aprile 2, pp. 128-129; Agapitus M. Praeneste in Italia: «Antiochus dixit: Jam diu est; quod tuam insaniam blasphemantem patienter sustinui. Unde moneo te, ut eligas unum e duobus, quod tibi consultius esse perspexeris. Aut thesauros, quos absconditos apud te esse cognovimus, nobis ostende, & liber abscede; aut sacrifica diis immortalibus, ut quietæ vitæ cursu nobiscum perfrui possis, & inter amicos regios computari merearis. Exclamans ad hæc B. Agapitus, intrepido animo dixit: Insipiens & amens, thesauri, quos a me iniqua concupiscentia repetis, semel in thesauro Christi repositi sunt: cui semper intra pectoris mei immolo sacrificium laudis & vota digna reddere non desisto. Vos autem & dii vestri æternis eritis incendiis condemnandi», AA.SS., Agosto 3, p. 533, col. 533D; S. Aurea, seu Chryse, virgo Martyr apud Ostia Tiberina, «Hic nostris temporibus dignatus est venire ad terras, & se induit servili corporis indumento, ut nos a servitute diaboli liberaret. Iratus Claudius dixit: Insanis, Censurine. Beatus Censurinus dixit: Ego non insanio, sed de insania ad veram mentem reversus sum ad creatorem Dominum meum Jesum Christum, qui cæcos illuminavit, & mortuos suscitavit, leprosos mundavit, & pedibus suis super mare ambulavit, & multa alia & innumerabilia, & de aqua vinum fecit: ipsi confiteor in æternum. Tunc jussit eum propter militare consortium in Hostea custodiæ mancipari, non longe ab urbe Roma miliario quintodecimo. Ille autem in custodia & in vinculis obligatus Deo laudes die noctuque canebat», AA.SS., Agosto 4, p. 758, col. 758B; S. Arethas martyr in civitate Nagran in Arabia: «Stetitque cum filiabus in conspectu immitis regis, qui dixit ei: “Mulier, non te decipiant præstigiæ Crucifixi, neque abduci te sinas insania concivium tuorum, virorum et mulierum, qui interfecti sunt. Tu enim mulier honorabilis es et ex proceribus; propter genus enim tuum, et dignitatem, ac facultates parco tibi, maxime vero ob pulchritudinem tuam et filiarum tuarum. Pervenit enim ad nos te numquam viro esse conjunctam, præterquam illi, qui tibi ex conjugio legitimus erat; etsi haberes in domo tua plusquam trecentes viros operantes in rationibus dati et expensi facultatum tuarum, in hanc usque diem, qua adstas nobis. Obedi igitur mihi, et ut dictum est, honoribus praevenieris in palatio meo et a me et a regina”. Sancta vero mulier respondit: “Honorari non possum ab homine qui Deum suum negavit; neque cohabito blasphemo», AA.SS., Ottobre 10, p. 731, col. 731E; S. Zenobius, episcopus Aegeensis, martyr, il santo risponde al suo persecutore Lisia: «Recede ab ista quae in te est insania, et accede ad Christum», AA.SS., Ottobre 13, p. 263, col. 263D; S. Saturninus, martyr Calari in Sardinia, «Ex multis autem superstitionibus quibus praedicta Sardorum gens caeca et obligata tenebatus, maxime dementi insania circa Jovis culturam nimis dedita era», AA.SS., Ottobre 13, p. 306, col. 306F; De S. Nymphae passio prior: «territus Aurelianus stridebat dentibus dicens: “Quae est insania haec, dulcissima filia, quod omnes prophani facti estis?” Sancta Nimpha respondit: “Non prophani, sed perfecti sumus christiani”. Aurelianus dixit: “Et quid est Christus?” Sancta Nimpha respondit: “Filius Dei vivi, qui per angelum nuntiatus est ad virginem Mariam, et de caelis dignatus est descendere ad redimendum humanum genus”. Aurelianus dixit: “Unde tanta fallacia oritur?” Sancta Nimpha respondit: “Non est fallacia sed veritas”. Aurelianus dixit: “Quem laudas se non potuit redimere; et quomodo redemptor est hominum?” Sancta Nimpha respondit: “Aureliane, si vis credere in illum, ego indicabo tibi quomodo redemptor est animarum hominum”. Aurelianus dixit: “Miror de te, filia; usque modo fuisti minus eloquens, modo eloquentia tua astuta videtur colligere verba», AA.SS., Novembre 4, pp. 375-376, col. 375D.

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le allusioni alla devianza si ripetono, concatenandosi tra loro fino a evocare lo spettro del dissenso religioso, è l’epistola inviata da Marbodo, vescovo di Rennes, a Robert d’Arbrissel (1045-1116)30. La sinonimia allusa e continuata tra pazzia ed eresia consente al vescovo di “giocare” con le sfumature. Attorno a Robert, eremita, predicatore per volontà di Urbano II, riformatore della vita del clero, fondatore di una canonica regolare e poi del monastero doppio di Fontevraud, serpeggia il sospetto che in realtà sia un eretico31. Le accuse, affidate alle epistole firmate sia da Marbodo di Rennes, sia da Goffredo di Vendôme, ruotano tutte intorno a una coppia di imputazioni molto gravi: amare troppo la compagnia femminile e scardinare l’ordine sociale introducendo novitates esecrande32. Marbodo lo redarguisce biasimando le sue frequentazioni femminili, dopodiché passa a denigrare il suo stile di vita umile, povero e ascetico. Inizia con le vesti: sono stracciate e sporche, del tutto indecenti. Una cosa è vestire poveramente, altra vestire un abito sporco e lacero, «sordidum discissumque». Nel primo caso ci si abbiglia in maniera conveniente alla religione e alla modestia, nel secondo caso si fa mostra, piuttosto, di follia e d’indiscrezione – «stultitiam magis et animum indiscretum ostendit» –. Del resto Marbodo aveva già lamentato, poche righe sopra, la mancanza di senso della misura in Robert. Quindi rincara la dose ritraendolo mentre vaga mezzo nudo con un saio stracciato, che scopre e mostra il cilicio stretto sulla pelle, con un mantello bucato, con la barba incolta, con i capelli tagliati sulla fronte in maniera ridicola, camminando a piedi nudi, così da far spettacolo di sé e da suscitare, in chi lo vede, il commento che ormai gli manchi soltanto il bastone per sembrare un matto (lunaticus) perfetto. Tutto ciò non gli procura autorevolezza presso i semplici, come Robert è solito dire, bensì sospetto di pazzia presso i sapienti. Stigmatizza poi il suo modo di predicare perché lo reputa nocivo per gli ascoltatori: Robert critica così tanto la chiesa da finire per esaltare Su Marbodo cfr. r. halleux, Damigéron, Evax et Marbode. L’héritage alexandrine dans les lapidaires médiévaux, «Studi medievali», 15, 1974, pp. 327-347; a. degl’innocenti, L’opera agiografica di Marbodo di Rennes, Spoleto, Cisam, 1990; Marbodo di Rennes, Lapidari. La magia delle pietre preziose, a cura di B. Basile, Roma, Carocci, 2006. 31 Su Robert d’Abrissel sono fondamentali i lavori di Jacques dalarun: Robert d’Arbrissel, fondateur de Fontevraud, Paris, Albin Michel 1985, in cui l’autore dà conto della vita altera che ha scoperto, uno scritto del discepolo di Robert André, in volgare francese, che dà conto dell’ultima parte della vita di Robert e Id., Robert d’Arbrissel et les femmes, «Annales E.S.C.», 39, 1984, pp. 1140-1160; Id. La prova del fuoco. Vita e scandalo di un prete medievale, Roma-Bari, Laterza, 1989; Robert d’Arbrissel et la vie religieuse dans l’Ouest de la France, Turnhout, Brepols, 2004; Id., Robert of Arbrissel, Sex, Sin and Salvation in the Middle Ages, Washington D.C., The Catholic University of America Press, 2006 (si veda la Prefazione dell’autore, per le ragioni lì espresse uso questo testo e non la versione del 1986 L’impossible sainteté: la Vie retrouvée de Robert d’Arbrissel (v. 1045-1116) fondateur de Fontevraud). 32 Le fonti in Robert of Arbrissel, Sex, Sin and Salvation in the Middle Ages, cit., nel capitolo 3. 30

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se stesso. Insomma non va bene nessun suo comportamento «non decet tuam professionem, non decet hanc peregrinationem, non decet hos pannos»33. Tutta la lunga epistola del vescovo è costruita per dimostrare la mancanza di equilibrio di Robert che, qualunque cosa faccia, la fa in maniera e in misura eccessiva. Non è decoroso, non è ragionevole, non ha senso della misura. Scrive esplicitamente: «Redi ergo ad sensum communem»: ritorna al comune buon senso34. Nel ritratto, volutamente grottesco, dell’eremita riformatore, il vescovo dissemina numerosi richiami espliciti ai segni che contraddistinguono i pazzi. Robert, come loro, disprezza il suo corpo e lo tratta in maniera sordida e ributtante, è seminudo e scalzo, non risiede stabilmente in nessun luogo, come invece vorrebbe il suo ruolo ecclesiastico, bensì vaga senza una dimora fissa. Arriva persino a tagliarsi malamente i capelli. Il taglio richiama le pettinature dei matti, dice Marbodo, alludendo forse alla crucesignatura sulla testa che doveva essere piuttosto tipica degli psicopatici, se è ricordata nell’apposito Roman come la “tonsura” con cui Tristano rovinò i suoi bei capelli biondi quando decise di farsi passare per matto35. La pazzia di Robert, però, non è veramente tale: le parole vergate da Marbodo sibilano, piuttosto, il sospetto di eresia, come anticipavo prima. Robert, per lo stile di vita, per il tipo di prediche che pronuncia, perché – sembra – non voleva presenziare alle funzioni sacre in cui erano presenti preti giudicati indegni in quanto simoniaci o nicolaiti, evocava lo spettro dei gruppi pauperistico-evangelici non più ortodossi. Sotto il profilo dottrinale Marbodo non lo censura, ma è sul livello dell’ortoprassi che lo riprende duramente. Il pericolo è poi costituito da quel «falso eremitismo», già denunciato nelle Collationes di Cassiano, che è in realtà una sentina di vizi spirituali a cominciare dalla superbia, e contro il quale si esprimerà duramente anche il vescovo Ivo di Chartres o che attirerà gli strali dell’anonimo canonico di Chartres autore, all’inizio del secolo XII, del Versus Pagani Bolotini de falsis heremitis qui vagando discurrunt36. «Quomodo igitur tibi abiecto habitu opertum ad carnem cilicium attrito, pertusoque birro, seminudo crure, barba prolixa, capillis ad frontem circumcisis, nudipedem per vulgus incedens, et novum quidem spectaculum praebere videntibus, ut ad ornatum lunatici solam tibi iam clavam deesse loquantur. Hoc tibi non tam apud simplices, ut dicere soles, auctoritatem, quam apud sapientes furoris suspicionem comparat [...]», marbodii rodonensis episcopi Epistolae, epistola VI, Minimus episcoporum Roberto servo Dei, P. L. 171, coll. 1483C-1483D. 34 Ivi, 1483D. 35 ph. menard, Les fous dans la société médiévale, «Romania», 98, 1977, pp. 433-459, in partic. 435-439. Cfr. «Allora Tristano tosò la sua bella capigliatura bionda a fior di pelle, disegnandovi una croce». J. bedier, a cura di, Il romanzo di Tristano e Isotta, Milano, TEA, 1988, p. 135. Si vedano anche le pagine di a. mancini, “Un dì si venne a me la malinconia …”. L’interiorità in Occidente dalle origini all’età moderna, Milano, FrancoAngeli, 1998, pp. 135-137; Umana, divina Malinconia, a cura di A. Grossato, «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei», III, 2010. 36 J. becquet, Erémitisme et hérésie au Moyen Age, in Hérésies et sociétés dans l’Europe pré-ind33

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Analogamente a quanto fece Marbodo di Rennes, pure Goffredo di Vendôme si rivolse a Robert con piglio accusatorio, esecrando il fatto che frequentasse le donne convertite dalla sua predicazione e desiderose di condurre vita religiosa in comune, ma arrivando persino a giacere con loro, di notte, per domare la concupiscenza. Goffredo tuttavia si astenne dal giocare con le similitudini evocatrici della follia37. Alle accuse rispose il primo agiografo di Robert. Egli è il vescovo Balderico (Baudry di Borgeuil, della diocesi di Dol († 1130), già monaco di Bourgueil, e compone l’agiografia poco dopo la morte di Robert. Balderico lo presenta fin dall’esordio dell’opera come il santo portatore della luce orientale nel tenebroso mondo dell’Occidente, in ciò quasi anticipando le espressioni che Guglielmo di Saint-Thierry riserverà ai monaci di Mont-Dieu38. «Iste siquidem Robertus solis orientalis radius, lucifer irreverberatus, praedicator protestativus, occidentalem orbis plagam irradiavit et ignorantiae tenebras ore potestativo defuscavit»39. Balderico fu un uomo colto, autore di una storia della prima crociata – le Historiae Hierosolymitanae libri quatuor – e amico di Robert d’Arbrissel. Era convinto della sua santità e l’agiografia che compose fu un’opera militante, che doveva dissipare le ombre sulla figura di Robert generate da Marbodo di Rennes e da Goffredo di Vendôme, ma anche da Pietro di Saumur40. Ecco dunque che lo descrive come un vero riformatore – «pacem inter discordes reformando, ecclesias ab infami laicorum ancillatu liberando, incestas sacerdotum et laicorum copulationes dirimendo. Simonia penitus abhorrebat, omnibusque vitiis viriliter resistebat»41 -, uno tra coloro che inverano nella storia il modello perfetto della chiesa cristiana dei primordi. Quella di Balderico è, del resto, la giusta chiave di lettura, che ha una sua validità ben al di là dell’uso apologetico che ne fa l’agiografo. Com’è stato già notato da Becquet, il modello di riferimento di Robert d’Arbrissel è sicuramente il monachesimo dei primordi e, forse, un testo veicolare particolarmente importante sotto questo profilo è costituito dalle Collationes di Giovanni Cassiano. Peraltro proprio nelle Collationes Robert avrebbe potuto trovare il ustrielle 11e-18e siècles, Paris, Mouton & Co., 1968, pp. 139-145, in particolare pp. 141-142; g. de carvalho gody castanho, O texto polêmico ou a polêmica do texto: eremitismo, literatura e societade na Chartres do século XIII, «Textura», 18, 2008, pp. 5-20. 37 P.L. 157, col. 181C. 38 Si ricorda infatti che la composizione del testo di Guillaume è posteriore all’agiografia di Balderico, risale infatti al 1144. Cfr. guglielmo di saint-thierry, Opere/1. Lo specchio della fede. L’enigma della fede. L’epistola aurea, traduzione, introduzione note e indici a cura di Mario Spinelli, Roma, Città Nuova, 1993, p. 35. 39 Vita B. Roberti de Arbrissello auctore Baldrico episcopo Dolensi, P.L. 162, coll. 148C-1049. 40 Come argomenta Dalarun anche André scrisse la sua opera per i medesimi motivi, Robert of Arbrissel, Sex, Sin and Salvation, cit., pp. xxix-xxx, in ogni caso io utilizzo la vita di Baudry perché è funzionale all’oggetto della mia ricerca più di quella di André. 41 Vita B. Roberti de Arbrissello auctore Baldrico episcopo Dolensi, cit.

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modello del monachesimo doppio che applica nella Regola di Fontevraud, perché la pratica dei consortia mulierum che risiedevano presso gli insediamenti eremitici è attestata dalla quindicesima Collatio42. Il rigorismo di Robert diventa il massimo della santità per Balderico, così come per l’anonimo cistercense che, alla fine del XIII sec. compose un’altra agiografia per esaltare la sua continenza e la sua ascesi. «Nam praeter ea quae extrinseca videbantur, uti pilis porcorum cilicium induere, barbam sine aqua radere»43, scriveva e poi aggiungeva che Robert mangiava il meno possibile, era pallido e macilento a causa delle privazioni, vergine e puro, aveva così tanto mortificato i suoi sensi da uccidere il vizio, che camminava scalzo e vestiva una tunica rozza intessuta di peli irsuti44. Pure lui, al pari di Balderico, ne enfatizzava la pedissequa dipendenza dalle icone degli antichi monaci orientali: «in omnibus gestis suis Hilarionem redolebat, Antonium praesentabat, immo Christo in eo vivebat»45. Tutto ciò ci riporta a una fase storica che, a mio parere è centrale per la diffusione dei modelli orientali in Occidente e che, come ho cercato di argomentare nel capitolo precedente, coincide con il periodo riformatore (X-XII secolo). Momento in cui si diffonde anche l’idea che possa esistere una forma di pazzia santa, ovvero uno stravolgimento completo dei canoni interpretativi e dei comportamenti accettabili e accettati socialmente a causa degli effetti della conversione a Dio. Il propulsore di quell’idea fu – e l’ho argomentato nel secondo capitolo – il monachesimo riformatore anche nella sua variante eremitica, che per ottenere la riforma della chiesa e della società, cercò nei laici un sostegno forte, coinvolgendoli nelle dinamiche religiose e spirituali dei monaci, con ciò portando il chiostro al di fuori del perimetro claustrale, per così dire. La diffusione dell’idea della riforma, cioè del ritorno alla chiesa delle origini – dunque all’oriente iconico dei padri del monachesimo – implicò anche la diffusione dell’idea della santa follia.

Vd. J. becquet, L’ érémitisme clérical et laique dans l’Ouest de la France, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda Settimana internazionale di studio, Mendola 30 agosto – 6 settembre 1962, Milano, Vita e Pensiero, pp. 182-211, in particolare p. 187. 43 Vita auctore Baldrico episcopo Dolensi, P.L. 162, coll. 1043-1058, col. 1047. 44 «Imprimis totus erat in cilicio, totus in cruce et martyrio, restrictus fuit in cibo et in potu, et victu et vestitu, paucis minimisque contentus. Pallidus erat et macilentus, carnem spiritui subjiecebat, parcius, quam necesse esset, seminecis artibus indulgebat, corporis et mentis perpetua rutilavit virginitate et mira se armavit asperitate: omnes sensus corporis sic erant mortificati, ut in mortem vitiorum viderentur coniurati»; «Is ergo da caducis et transitoriis curans parum, ex zelo cordis sui solum salutem sitiebat animarum et circuiens per villas et castella de domibus paternis abstrahebat Christo virgines, allicens ad spiritualia connubia, sicut fecisse legerat Beatum Hilarium de propria filia [...] In indiscretis temporibus cilicium et cappa fuerunt in indumenta, cappa grossa rudis et vilis, in sui novitate asperis et hirsutis insita pilis», De B. Giraldo de Salis confessore, AA.SS., Ottobre 10, pp. 249-267, p. 254. 45 Ibidem. 42

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Le enciclopedie Torniamo, adesso, a un livello più generale, quello della follia tout court. La pazzia è dunque una sorta di macro-contenitore concettuale in cui s’inseriscono le differenti declinazioni dell’alterazione mentale, dalla semplice depressione, come diremmo oggi, fino a patologie psichiatriche gravi e irreversibili; la parola insania diventa un iperonimo a cui sono ricondotti termini che indicano specifiche patologie, quasi fossero morfemi di un’articolata rete lessicale. I grandi repertori enciclopedici medievali, che rappresentano lo strumento per eccellenza di consultazione e di conoscenza preliminare dei saperi trattati, ne dissertano più o meno abbondantemente46. Isidoro di Siviglia, discorrendo delle malattie croniche nel Liber IV delle Etymologiarum dedicato alla Medicina, si limitava a una rapida disamina delle tipologie di malattia psichica ancora sulla base della teoria galenica degli umori e attraverso l’etimologia greca dei termini prescelti (cioè mania, melancholia, epilemsia47). L’autore, tuttavia, introduce una differenziazione terminologica atta a distinguere la malattia acuta da quella cronica: «Dementia temporale vitium est, amentia perpetuum, dementia autem dicta quasi diminutio mentis»48. Aggiunge inoltre che vi è anche lo stultus, cioè colui che mette in pratica le parole di Paolo nella I lettera ai Corinzi, diverso dal fatuus o dallo stupidus che non comprendono la differenza tra bene e male. Anzi «stupidus vero dictus est quasi lapideus, quasi stolidus». Autori vissuti posteriormente s’intrattengono sulla follia più a lungo di Isidoro. È molto raffinato, sotto questo profilo, il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, un testo composto negli anni Per un primo approccio alle enciclopedie medievali i. draelants, Les encyclopédies comme sommes de connaissances, in Le réalisme: contributions au séminaires d’histoire des sciences 1993-1994, a cura di J. F. Stoffel, Louvain-la Neuve, Centre Interfacultaire d’histoire des sciences, 1996, pp. 25-50; m. albertazzi, Enciclopedie medievali. Storia e stile di un Genere, Lavis (Tn), La Finestra Editrice, 2008. Si vedano, inoltre l’agile testo di m. c. dìaz y dìaz, Enciclopedismo e sapere cristiano tra tardo-antico e alto medioevo, Milano, Jaca Book, 1999, l’aggiornato c. meier – staubach, Studi sull’enciclopedismo medievale, Turnhout, Brepols, 2010 e Encyclopédire. Formes de l’ambition encyclopédique dans l’antiquité et au Moyen Âge, Turnhout, Brepols, 2013; i contributi di massimo oldoni che, per ricchezza interpretativa e per coltissima erudizione costituiscono una lettura irrinunciabile: Id., Giovanni da San Gimignano, in L’enciclopedismo medievale. Atti del convegno San Gimignano, 8-10 ottobre 1992, a cura di M. Picone, San Gimignano, Comune di San Gimignano, 1992, pp. 213-228; Id., Roma in enciclopedisti e non fra XII e XIV secolo, in Roma antica nel medioevo. Mito, rappresentazioni, sopravvivenze nella ‘Respublica Christiana’ dei secoli IX-XIII. Atti della quattordicesima Settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1998, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 259-276. 47 «Mania ab insania vel furore vocata. Nam Graecorum vetustas furore manikè appellabant, sive ab inanitate, quam Graeci manie vocaverunt, sive a divinatione, quia divinare Graece manèin dicitur. Melancholia dicta est a nigro felle. Graeci enim nigrum mèlan vocant, fel autem cholèn appellant. Epilemsia autem in phantasia fit; melancholia in ratione, mania in memoria». Liber IV, caput VII, 8-9. 48 isidori hispaliensis Differentiarum liber I, P.L. 84, col. 60. 46

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Trenta-Quaranta del Duecento che conobbe una circolazione imponente e numerosi volgarizzamenti49. Questi ultimi sono importanti perché ancor più del testo latino s’indirizzano a un lettore “medio” e, quindi, ci consentono una maggiore approssimazione a quali fossero le idee diffuse sui matti in epoca medievale. Tra i volgarizzamenti plausibili attingo le descrizioni della follia da un volgarizzamento mantovano, opera di Vivaldo Belcazer tra fine Duecento e primi del Trecento, perché, a differenza di altri, è stato ben studiato dalla storica della lingua Rosa Casapullo50. Bartolomeo Anglico, sulla scorta della trattatistica medica, aveva descritto alcune malattie psichiatriche che, come di consueto accadeva nella nosografia – e lo vedremo meglio a breve -, erano collocate nei capitoli dedicati alle malattie della testa. Vivaldo Belcazer traduce dal latino illustrando la frenesis, la smania (legata alla malinconia), lo stupor de la ment o letargia. Dalle spiegazioni si apprende che la frenesis è generalmente causata da una collera troppo veemente e determina febbre, alienazione, insonnia, movimenti «inconsulti degli occhi, delle mani e del capo», costringe l’ammalato a digrignare i denti e a una sorta d’ipercinesi, finché la malattia non si aggrava ulteriormente e allora causa logorrea, perdita di consapevolezza e irritabilità. Si tratta comunque di una patologia acuta e può essere curata. Ben diverso il caso della mania. È una malattia cronica, intervallata da momenti di coscienza e si presenta senza la febbre. È collegata alla malinconia e provoca una sintomatologia diversa da caso a caso. Seguono lo stupor de la ment e la letargia che, invece, sono scanditi in stati morbosi di varia intensità, dai meno acuti fino agli inguaribili. Questa malattia è l’esatto contrario della frenesia. «Caratterizzano il letargico» – scrive Casapullo – «rispetto al frenetico un intorpidimento globale, l’ottundimento dei sensi, il silenzio alle domande o, talvolta, le risposte insensate, l’immobilità, il raffreddamento delle membra»51. La ragione di chi è affetto da stupor diventa cieca e le facoltà dell’anima che presiedono al governo dei sensi non funzionano più, perciò l’ammalato resta del tutto insensibile agli stimoli. Quindi sia il De proprietatibus rerum, sia il volgarizzamento mantovano, descrivono ordinatamente le malattie mentali conosciute fin dall’epoca classica e costituenti due coppie enantiomere al loro interno, nonché speculari l’una all’altra. Frenesia e letargia si presentano con la febbre e se la prima è un morbo “caldo”, a carico della bile gialla, e provoca iperreattività, la seconda è un morbo “freddo”, Cfr. g. valenti, Tradurre il lessico scientifico: alcuni casi di prestiti e neologismi in tre versioni in lingue romanze del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, «Zeitschrift für Romanische Philologie», 130, 2014, n. 3, pp. 754-768. 50 Ead. Le malattie della mente nel volgarizzamento mantovano del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico (Libri I-IV, V, VII), «Quaderns d’Italià», 11, 2006, pp. 29-53. 51 Ivi, pp. 42-43. 49

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a carico del flemma, e provoca iporeattività. Mania e malinconia non sono accompagnate da febbre, una produce eccitazione, l’altra catalessi e abbattimento. Tutte e quattro, però, discendono da un guasto al cervello causato dalla disarmonia degli umori o da un trauma esterno52. Ogni morfologia della patologia trattata è a carico dell’anima sensibile e delle sue facoltà cioè, in buona sostanza – semplifica il volgarizzatore del De proprietatibus – del corpo. Il pazzo dunque è incolpevole, come sancisce il diritto, poiché devastato dal morbo e non cosciente: la sua anima razionale, l’unica immortale e l’unica sede della volontà intesa nel senso di libero arbitrio, resta non coinvolta. Insomma la medicina e il diritto sembrano collimare, almeno sin qui e almeno secondo l’interpretazione del testo di Bartolomeo Anglico effettuata dal volgarizzatore, che non distingue bene tra mania e malinconia assorbendo di fatto la malinconia nella mania. Se, però, riprendiamo a leggere il testo originale, ci accorgiamo che la malinconia costituisce un caso spurio. Bartolomeo Anglico, sulla scorta della trattatistica precedente, disquisendo della malinconia parla sì di corruzione dell’umore ma anche di una sorta di predisposizione morale alla malvagità che facilita l’insorgenza dell’alterazione umorale e dunque della patologia53. Informazioni simili, per quanto maggiormente schiacciate sulla trattatistica medica e sull’eziologia delle malattie ritornano in un’altra grande enciclopedia medievale, lo Speculum Maius di Vincent de Beauvais (1190 ca-1264). Il testo, quadripartito, comprende lo Speculum Historiale. Nel quattordicesimo libro dello Speculum Historiale l’autore parla delle malattie della testa, tra le quali le patologie psichiatriche, di origine corporea. Dopo aver spiegato la genesi e la natura delle passioni, dopo aver affrontato le cefalee, l’autore si occupa di mania, frenesia, letargia e stupor mentis, di perdita della memoria e di malinconia introducendo le rispettive etimologie trasmesse da Isidoro di Siviglia54. Vincent de Bauvais descrive la malinconia come una forma di confusione mentale senza la febbre che discende dalle alterazioni umorali a carico del cervello o dello stomaco, ma anche dai sentimenti «ex timore, et tristitia, et intentione mala». Secondo lui i malinconici temono la morte o, al contrario, la desiderano, ridono o piangono in misura eccessiva, e molti tra loro arrivano a suicidarsi. Alcuni ritengono di essere dei vasi fragili e temono di rompersi, altri pensano di essere animali ed emettono i versi bestiali; in particolare «La frenesia compromette le meningi (pelicole); la mania la cellula anteriore [del cervello], sede dell’immaginazione, la melanconia la cellula mediana, sede della ragione; la letargia, infine, la cellula posteriore, sede della memoria», Ivi, p. 43. 53 Ivi, p. 40. 54 Speculi Maioris, Vincentii Burgundi praesulis beluacensis Ordinis Praedicatorum theologia c doctoris eximii, Tomus Secundus qui Speculum Doctrinale inscribitur, Venetiis, Apud Dominicum Nicolinum, 1591, Lib. XIV. 52

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c’è un gruppo di malinconici che s’identifica con i galli e con i cani e quindi nottetempo latra ed esce da casa per andare a sostare sui monumenti. Vi sono poi i malinconici convinti di conoscere il futuro e di predicare cose divine. «Alii vero divinant, seque divina praedicare putant»55. Un simile convincimento ben si allinea all’aspetto che il malinconico assume a causa della sua patologia e, nella fattispecie, il malinconico tormentato da pensieri amorosi: costui tenderà a muovere moltissimo gli occhi e per alcuni ammalati sarà questo l’unico segno impresso dalla malattia sul volto, la cui bellezza non sarà scalfita dalla malinconia, a differenza di ciò che accadrà al resto del corpo, macerato dal morbo56. Quindi Vincenzo di Beauvais collega tra loro passione amorosa e malinconia, da un lato, e dall’altro inserisce la descrizione di una malinconia a carattere profetico – religioso che viene chiaramente “smascherata” dall’autore. La linea di demarcazione tra anima sensibile (corpo) e anima razionale (immortale) si fa via via più tenue, così come si fa più tenue quella tra fisicità e moralità in un’altra enciclopedia, questa volta piccola e composta in volgare in forma dialogica. Era stata creata per rispondere alle esigenze del lettore di cultura media, che non padroneggia il latino, ma che vuole conoscere57. L’opera è il Libro di Sidrac (Sidrach, Sydrach), compilato nella seconda metà del XIII secolo in volgare francese e destinato a uno straordinario successo di pubblico e a un’enorme diffusione58. L’autore del testo volle circonfondere lo scritto di un’aura di antichità e di sacralità inventandosi un’autorialità profetica, Sidrach infatti è il «filosafo dello re Tractabero, e delle quistioni che dispianò allo re Botozo, re di Levante»59. E dal volgarizzamento fiorentino del primo Trecento, attestato dal codice laurenziano Pluteo LXI 7, traggo la lunga (ma rivelatrice) citazione seguente che spiega perché le persone impazziscono: Ivi, c. 246r. 56 «Omnia autem alia membra corporis praeter oculos attenuantur, sive macerantur, sed visus pulchritudo remanet», Ivi, c. 246v. I malinconici che si comportano come i galli o i cani hanno segni particolari: «Huius signa sunt color citrnus, oculi obscuxi, sicci, concavi, os quoque siccum, et sitibundum, in pedibus et in facie vulnera, et pustulae, quia frequenter offendens cadit, talis numquam sanatur, et haec passio a parentibus haereditatur», ibidem. 57 Cfr. c. silvi, Les “petites encyclopédies” du XIIIe siècle en langue vulgaire. Bibliographie sélective (1980-2000), «Le Moyen Âge», CIX, 2003/2, pp. 345-361. 58 c. segre, Accoppiamenti (forse) giudiziosi, in Linguistica e filologia. Omaggio a Benvenuto Terracini, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1968, pp. 257-266 in cui si dimostra che il testo fu concepito in volgare; r. luFF, Wissensvermittlung im Europäischen Mittelalter, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1999, le pp. 159- 213; l. sacchi, Le domande sul principe. Piccole enciclopedie dialogiche romanze, Milano, LED, 2009, in particolare pp. 115-173; A. v. brovarone, “ò preso pensieri di fare questo librecto”. Piccole enciclopedie in volgare, in Giornate filologiche genovesi. L’enciclopedismo dall’Antichità al Rinascimento, a cura di C. Fossati, Genova, Pubblicazioni del A.AR.FI.CL.ET, n.s. 235, 2011, pp. 155-177, in particolare le pp. 165-166. 59 Il libro di Sidrach. Testo inedito del secolo XIV pubblicato da Adolfo Bartoli, Parte prima (testo), Bologna, Presso Gaetano Romagnoli, 1868, p. 1. 55

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Lo re domanda: come infolliscono le genti? Sidrac risponde: Le genti si infolliscono in molti modi. Uomini sono nati molto semplici, come folli. Altri perdono lo senno per malizie; altri della fralezza del cervello; altri de’ rei omori, per perdere troppo sangue; altri per grande alore [ma calore]60, altri per rie ombre, che si dimostrano loro e gli spaventa; altri di troppo digiunare e di tropo veghiare, che loro secca il cervello; altri per danno ch’egli ricevono, per grande dolore e per molti altri modi. E di tutti questi modi di follie ciascuno porta lo suo danno; ch’apena farebono mai male ad altrui. Ma altre maniere di folli sono, che sono molto rie per loro e per altrui; cioè a sapere di coloro che mangiano e beono e tolgono l’altrui, che inbolano e uccidono la gente, e che falsamente giurano, e peccano in molti modi, quelli che dicono false testimonianze. E di cotali folli l’uomo si dee molto guardare; che per la loro follia e malvagità fanno molti altri mali a molte altre genti. E l’altre follie inanzi dette non gravano la gente, anzi loro medesimi portano la loro pena61.

Questa risposta evidenzia due specie diverse di follia di cui l’una è la malattia vera e propria e che porta in sé e con sé la sua pena, mentre l’altra è la follia derivante dalla colpa dal peccato62. La palese biforcazione della risposta sulle genti «infollite» del Libro di Sirac rappresenta una metaforica biforcazione da cui prenderanno l’avvio due strade gnoseologico-concettuali diverse e diversamente contrassegnate dall’uso dei termini identificativi della pazzia. Sopra si è già richiamata la distinzione terminologica tra teologia, medicina e diritto. Qui preme evidenziare, sulla scorta di Jean-Marie Fritz, che la prospettiva morale della teologia è già implicitamente dichiarata dalla scelta di una sorta di lessicografia disciplinare63. I teologi scriveranno di insania, insipientia, desipientia, amentia, dementia: tutte forme negative coniate per mezzo dei prefissi privativi in-, a-, de- che con la loro stessa morfologia dichiarano l’interpretazione della pazzia. Essa è, per i teologi, privazione della ragione. A fronte della terminologia negativa appena elencata, la teologia ammette soltanto due parole positive, cioè stultitia e fatuitas. Ma si tratta di due parole scritturali: stultitia e l’aggettivo stultus, a, um, così come fatua e fatuae (le vergini stolte) popolano i Vangeli sinottici e le lettere paoline. I giuristi e i medici, invece, utilizzeranno parole positive: furor, frenesis, mania, melancolia, lethargia e, dalla fine del Duecento in poi, alienatio. Un lessico tecnico coniato tendenzialmente dal greco «Alore» significa odore, cfr. g. beltrami, Alore in Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, TLIO, Opera del Vocabolario Italiano, CNR, http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. La versione originale, però, riporta chalor, cfr. Livre de Sidrac, (XV secolo), Paris, Biblioteque National de France, ms. Français 12444, c. 30r o chalors, Livre de Sidrac (XIV secolo), Paris, Biblioteque National de France, ms. Français 1160, c. 33v. Effettivamente odore non ha molto senso, quindi per l’intellezione del testo meglio pensare ad un lapsus calami dello scrivente e correggere con calore. 61 Il libro di Sidrach. Testo inedito del secolo XIV, cit., pp. 155-156. 62 J. m. Fritz, Le discours du fou au Moyen Âge, XIIe-XIIIe siècle. Ètude comparée des discours littéraire, médical, juridique et théologique de la folie, Paris, PUF, 1992, p. 6. 63 Cfr. ivi. 60

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per definire la malattia a partire da ciò che è, non da ciò che non è e non ha. La medicina La pazzia, intesa come malattia e dunque analizzata sulla base di ciò che è, interessa la trattatistica medica medievale. La trattatistica greca e latina non prevede una vera e propria sezione dedicata alle patologie mentali, piuttosto, come accennavo sopra, i trattati di medicina ne parlano nei capitoli consacrati alle patologie a carico della testa, in linea con la trattatistica medica classica. Fanno eccezione il De morbo sacro, attribuito a Ippocrate e dedicato all’epilessia, e il testo di Rufo di Efeso, del II secolo, interamente consacrato alla malinconia, di cui si effettua una disamina approfondita della malattia riportando un’interessante casistica64. Non disponiamo più del testo originale di Rufo: ciò nonostante fu trasmesso ai medici tardo-antichi e medievali soprattutto attraverso la mediazione bizantina e islamica. Gli intellettuali bizantini che lo citarono e lo veicolarono furono il medico personale dell’imperatore Giuliano, Oribasio (†403) nella Synopsis, Aezio (prima metà del VI secolo) nei Libri medicinales, Paolo di Egina nel De re medica libri septem (VII secolo, prima metà) e nell’Encyclopedia e Alessandro di Tralle (525-565/605) nel Therapeutikà (De re medica)65. I monaci e medici nestoriani, i cui insediamenti si trovavano nelle aree che furono islamizzate e in particolare in Siria, funsero da canali di trasmissione della cultura medica classica e cristiana tra gli islamici66. Più avanti lo scritto di Rufo fu tradotto in arabo e confluì nel Trattato sulla malin-

Oeuvres de Rufus d’Éphèse, texte collationné sur les manuscrits, traduit pour la première foi en français avec une introduction, cur. Ch. Daremberg, É. Ruelle, Paris, Imprimerie Nationale, 1879. 65 Medici Bizantini (Oribasio di Pergamo, Aezio d’Amida, Alessandro di Tralle, Paolo d’Egina, Leone Medico), a cura di a. garyza, r. de lucia, a. guardasole, a. m. ieraci, m. lamagna, r. romano, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 2006 [Classici Greci. Autori della tarda antichità e dell’età bizantina], Oribasio pp. 19-251; Aezio, pp. 253-553; Alessandro di Tralle, pp. 555-573; Paolo d’Egina, pp. 681-783. Oeuvres de Rufus d’Éphèse, texte collationné sur les manuscrits, p. VII; Per il De morbo sacro: Hippocrate, Tome II, 3e partie (Collection des Universités de France), La Maladie Sacrée. Texte établi et traduit par J. Jouanna, Paris, Les Bells Lettres, 2003. Sulle interazioni tra la medicina bizantina e islamica di veda p. prioreschi, A History of Medicine, Vol. IV, Byzantine and Islamic Medicine, Omaha, Horatius Press, 2001 e, infine, Medical books in the Byzantine World, ed. by b. zipser, «EIKASMOS. Quaderni bolognesi di Filologia Classica», 2, 2013. 66 Cfr. R. le coz, Les médicins nestoriens au Moyen Âge: Les mâitres des Arabes, Paris, L’Harmattan, 2004; c. caballero-navas, Medicine among Medieval Jews. The Science, the Art and the Practice, in Science in medieval Jewish cultures, G. Freudenthal ed., Cambridge, Cambridge University Press, 2011, pp. 17-34, in particolare pp. 323-329. 64

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conia (Al-Maqāla fī’ l-mālīhūliyā) di Isāq ibn -‘Imrān67, nel capitolo sul morbo dell’oblio del Viaticum di Ibn al-Gazzār68, nel libro di Al-Rāzī Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā’ (conosciuto nel mondo latino come Rhazes m. 923/932) Kitab-al Hawi fi al-tibb e diffuso in latino con il titolo di Continens, dove si isolano ben quattro capitoli sulla follia, e nel volume al-Sīra al-Falsafiyya o Medicina spirituale, che riserva una ventina di capitoli alla pazzia. Il trattato di Rufo risuona anche nel famoso Canone di Avicenna (Îbn Abū ‘Alī Ibn Sīnā 980-1037), codificazione suprema della medicina greco–araba, che accoglie la disamina di alcune alterazioni, come la malinconia, il delirio o la letargia, e ne tenta una classificazione in tre gruppi. Del resto anche Oribasio, Paolo di Egina, Alessandro di Tralle e i corpora ippocratici e galenici furono voltati in arabo a Baghdad, dov’erano pervenuti grazie alla mediazione dei monaci nestoriani e della scuola teologica di Jundī-Sāpūr, soprattutto per opera del traduttore Hunayn Ibn Ishāq, conosciuto nel mondo occidentale come Iohannitius. Sicuramente i testi di Rufo comparivano nel grande repertorio, approntato dal medico della Scuola Salernitana Matteo Silvatico nel poderoso Pandectae medicinae o Liber et medicinalis Pandectorum, una sorta di meta-dizionario medicale – dove si riportano ordinatamente i semplici in circa 721 capitoli, seguiti dalle descrizioni morfologiche e dalla citazione degli autori. Il libro circolò moltissimo e fu ripetutamente stampato tra il 1474 e il 152669. Dalla descrizione di Rufo dipendeva, quindi, l’enumerazione dei disturbi del malinconico riportata da Vincent de Bauvais nella sua opera enciclopedica: probabilmente Rufo è il primo ad annotare che certi malinconici ritengono di avere la testa di coccio e di potersi rompere; esattamente ciò che sostiene Vincent de Bauvais. Per l’importanza del testo nella ricostruzione dello scritto di Rufo, cui l’autore attinge a piene mani, cfr. m. bell, Melancholia. The Western Malady, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, pp. 48-49; p. e. pormann, Medical Epistemology and Melancholy: Rufus of Ephesus and Miskawayh, in Mental Disorders in the Classical World, cit., pp. 223-244. 68 Ibn al-Jazzār’s Zād al-musāfir wa-qūt al-ḥāḍir, Provisions for the Traveller and Nourishment for the Sedentary, Book 7 (7–30), Critical Edition of the Arabic Text with English Translation, and Critical Edition of Moses ibn Tibbon’s Hebrew Translation (Ṣedat ha-Derakhim), ed. by g. bos, London, Brill, 2015; sulle traduzioni in latino l’agile sintesi di g. rizzo, Le traduzioni scientifiche dall’arabo al latino in area mediterranea, «Palaver», 2, 2013, pp. 7-36 e r. pergola, Ex arabico in latinum: traduzioni scientifiche e traduttori nell’Occidente medievale, «Studi di Glottodidattica», 2009, 3, pp. 74-105. 69 Rapsodicamente alcune edizioni: Strasbourg, Adolf Rusch, ca. 1480; [Bologna], Matthaeus Moretus, 1474; [Bologna], Johann Vuster, 1474; Venezia, Bonetus Loctellus exp. Octavianus Scoti, 1498; Venetiis, Johannes de Colonia et Johannes Manthe de Gherretzem, 1480; Papiae, De Baraldis, 1521; Taurini, Ranotus, 1526. Cfr. corinna bottiglieri, Appunti per un’edizione critica del Liber pandectarum medicinae di Matteo Silvatico, in La Scuola Medica Salernitana. Gli autori e i testi. Convegno internazionale, Università degli Studi di Salerno, 3-5 novembre 2004, a c. di D. Jacquart e A. Paravicini Bagliani, Firenze, Sismel, 2007 (Edizione Nazionale “La Scuola Medica Salernitana”, 1), pp. 31-58. 67

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In ogni caso l’assenza di uno specifico testuale riservato alla pazzia da parte della medicina medievale si presta a esser letto come una possibile, ulteriore, spia dell’integrazione dei pazzi nel tessuto sociale di riferimento. Nello stesso periodo storico in cui i medici sentiranno l’esigenza di specializzare i propri lavori, ricavando uno specifico da dedicare alla follia, i folli saranno vittime di pratiche di esclusione tanto consistenti da generarne la reclusione, come Michel Foucault ha brillantemente argomentato e dimostrato molti anni fa in un libro che resta un saggio capitale per metodo e per raffinatezza di interpretazione70. Forse la maggior specializzazione dei testi islamici sulla follia, che pure dipesero dalla classicità greco-romana, potrebbe non essere completamente aliena dalla precoce – se confrontata a quanto accadde nella pars Occidentis – istituzione dei manicomi. Negli ospedali islamici era previsto un reparto dedicato ai folli fin da epoca antica – è attestato, per esempio, in quello del Cairo edificato nell’872 – e se gli ospedali islamici tendevano fin dall’inizio alla separazione degli ammalati sulla base del morbo, è pur vero che precocemente furono istituite strutture a esclusiva pertinenza degli psicotici. Il più antico manicomio vero e proprio fu quello di Aleppo, fondato intorno al 1157, e il più famoso fu il Bimaristan al-Mansuri del Cairo71. Di tutti questi ospedali troviamo tracce in numerose fonti, ad esempio nel Libro di viaggi (il Sefer Masa‘ot) di Beniamino da Tudela (Benyamin ben Yonah da Tudela), un ebreo originario della penisola iberica che scrisse quel testo a beneficio di chi avrebbe viaggiato tra Sefarad e il vicino Oriente, dove sono ricordate numerose notizie etnografiche72. Beniamino, verso il 1173, giunge a Baghdad e visita il Dar al-Maristan, cioè l’ospedale. Racconta che qui venivano internati e legati quanti impazzivano a causa del caldo, per esser poi liberati e rimandati a casa quando avessero ritrovato la ragione. A Damasco qualcosa del genere fu annotata da un altro viaggiatore coevo a Beniamino,

id., Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Gallimard, 1972 è l’edizione che uso, ma ricordo che fu pubblicato per la prima volta nel 1961 e fu tradotto in italiano nel 1963 per la casa editrice Rizzoli di Milano. 71 d. de maio, La malattia mentale nel mondo islamico, Milano, Edizioni Corriere Medico, 1993; m. W. dols, d. e. immisch, Mainun: the madman in Medieval Islamic society, Oxford, Oxford University Press, 1992, pp. 142-156; p. e. pormann, Islamic hospitals in the time of al Muqtadir, in J. Nawas ed., Abbasid Studies, II, Leuven, Brill, 2010, pp. 337-381; si vedano infine le riflessioni disseminate nel testo di p. horden, Medieval hospital formularies: Byzantium and Islam compared, in Medical Books in the Byzantine World, ed. B. Zipser, «Eikasmos. Quaderni bolognesi di Filologia Classica», 2013, pp. 145-164. 72 L. Minervini a cura di, Benjamin da Tudela, Libro di viaggi, Palermo, Sellerio, 1989; g. lacerenza, Struttura letteraria e dinamiche compositive nel «Sefer Massa’ot» di Binyamin da Tutela, «Materia giudaica. Rivista dell’associazione italiana per lo studio del giudaismo», XII/1-2, 2007, pp. 89-97; s. agnoletti, Un viaggiatore ebreo del XII secolo: Beniamino da Tudela, in “… Questo nomade nomade mondo”. Otto saggi sulla necessità del viaggio tra medioevo ed età moderna, a cura di I. Gagliardi, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 65-82. 70

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il musulmano Ibn Gubayr73. I malati di mente non erano incatenati soltanto nel mondo islamico: al contrario, il ricorso a sistemi per bloccarli, specie se si trattava di furiosi, era diffusissimo e veniva comunemente utilizzato al di fuori degli ospedali. Persino l’agiografia di san Romualdo, composta da Pier Damiani, incastona il ricordo di questa pratica. Secondo l’agiografo quando Romualdo si accorse che suo padre era impazzito gli strinse i piedi nei ceppi, lo legò con catene pesanti e lo batté fino a farlo rinsavire74. In definitiva la follia, secondo la visione ippocratico-galenica, dipende da un’alterazione degli umori – e nella fattispecie della bile nera – che investe il cervello e, da lì, tutto il corpo. Una simile alterazione, entro certi limiti, può essere curata, dunque in prima istanza bisogna intervenire per impedire allo psicotico di far del male a sé o agli altri e quindi lo si lega, poi lo si cura con vari rimedi: medicinali, pratiche, pietre. La medicina galenica contempla anche una specifica variante della follia/malinconia assai difficile da guarire: la malattia d’amore. Oribasio nell’ottavo libro della Synopsis disserta, seppure in breve, della malattia d’amore trattandola dopo la pazzia e la malinconia; Paolo d’Egina vi dedica invece più spazio. Rhazes ne discetta a lungo, giungendo a identificare l’ultimo stadio della malattia d’amore con la malinconia a livello avanzato, e l’altro famoso medico islamico, il persiano chiamato Ali Abbas nel mondo latino (‘Alī Ibn al-Abbās al Majūsī) che a metà del X secolo compose il cosiddetto Liber regius o Pantegni (Kitāb kāmil al-sinā‘a al-ṭibbiyya), destinato a circolare nella traduzione latina di Costantino l’Africano, consacrò il legame tra malattia d’amore e malinconia75. Secondo lui malinconia, licantropia e mal d’amore erano profondamente allacciati tra loro. La descrizione della malattia d’amore (‘ishq, poi latinizzato in alhasch da Gherardo da Cremona) è molto ricca76. L’amore è un pensiero di natura malinconica che ossessiona la mente dell’amante quando il suo desiderio l. roscioni, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 44. 74 Petri Damiani Vita beati Romualdi, a cura di g. tabacco, in Fonti per la storia d’Italia, 94, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1957, p. 36. 75 Con tutta probabilità il testo fu composto prima del 977 a Shiraz: p. prioreschi, A History of Medicine, Vol. IV, Byzantine and Islamic Medicine, p. 252. Si vedano anche i saggi in c. burnett, d. Jacquart edd., Constantine The African and ‘Alī Ibn al-Abbās al-Magusi: The Pantegni and related texts, Leiden, Brill, 1994; r. veit, Al-MaˇGūsī’s Kitāb Al-Malakī and its Latin Translation ascribed to Constantine The African: The Reconstruction of Pantegni, Practica, Liber II, «Arabic Sciences And Philosophy», 16, 1, 2006, pp. 133-168. Il testo nella stampa cinquecentesca: Liber totius medicinae necessaria continens quem sapientissimum Haly filius abbas discipulus abimeber moysi klyseiar edidit regias inscripsti, unde ex regalis dispositionis nomen assumpsit, [Lugduni, in edibus Jacobi Myt Calcographi] 1523. 76 m. ciavolella, La tradizione della malattia d’amore dal mondo classico allo Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus di Dino del Garbo, University of British Columbia, 1973, p. 65. 73

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resta insoddisfatto. Il rimedio più rapido è l’unione con l’amato o l’amata. Se l’unione è impossibile, allora si suggerirà all’ammalato di curarsi con i bagni, con la distrazione, con la compagnia di anziane signore che denigrano l’amata, accoppiandosi con le schiave, ascoltando la musica. A tali rimedi vanno poi aggiunti i salassi, utili per abbassare il livello degli umori alterati. Le teorie mediche sul mal d’amore trovarono eco e diffusione in un testo di natura enciclopedica, compilato dal magrebino Ibn al-Gāzzār (Abū Jafar Ahmed Ibn Ibrāhīm Ibn ‘Alī Khālid), allievo del più famoso medico Isaac Israeli, e tradotto in latino nell’XI secolo da Costantino l’africano con il titolo di Viaticum. Nel medesimo secolo il testo fu voltato anche in greco, assicurandogli così una circolazione “globale”. In questa enciclopedia troviamo un ristretto delle teorie di Avicenna e di Rufo di Efeso. L’apporto originale di Ibn al-Gāzzār fu quello di medicalizzare ancor di più la malattia d’amore, insistendo sulla sua morbosità. È causata da un eccesso di umori e se non la si cura il rischio maggiore è che degeneri nella malinconia. Del medesimo parere fu anche il celebre Albucasis (Abū al-Qāsim az-Zaharāwī Khalaf Ibn ‘Abbās, m. post 1009), medico personale del califfo Ommayade ‘Abd-ar-Rahman III e autore di un grande compendio di medicina generale, latinizzato con l’intitolazione Liber practicae. Albucasis distingue tra amor hereos, cioè tra il sentimento causato da una persona, e il desiderio di una cosa e li considera facce della medesima patologia. Nel mondo latino la malattia d’amore fu studiata soprattutto da Guglielmo da Saliceto, da Arnaldo da Villanova e da Berardo di Gordon: grandi medici che insegnarono a Bologna e a Montpellier nel XIII secolo e fornirono la codificazione finale dell’amor hereos77; in special modo la fornì Arnaldo, autore della prima monografia completa sull’argomento, il De amore heroico78. Intorno alla pazzia ruota, insomma, una galassia concettuale e una morfologia di comportamenti ampia e sfaccettata. All’interno di una semantica tanto ricca e complessa sta anche il fattore religioso, perché la malattia d’amore si approssima a quell’interpretazione teologica che insiste sul legame affettivo tra creatura e Creatore. Tuttavia prima di affrontare questo tema, ricordo che circola anche una lettura medicalizzata di atteggiamenti particolarmente religiosi. Nel trattato di Alessandro di Tralle, ad esempio, si legge che alcuni, colpiti da un gravissimo lutto, diventano mesti e si trasformano. «Quidam Ivi; Si veda la bella sintesi di r. poma, Metamorfosi dell’hereos. Fonti medievali della psicofisiologia del mal d’amore in età moderna (XVI-XVII), «RiLunE», 7, 2007, pp. 39-52. 78 Ivi, p. 42. Impossibile richiamare in questa sede lo sviluppo letterario del tema, che risulta impressionante per quantità e qualità; numerosi richiami interessanti in J. M. Fritz, Le discours du fou au Moyen Âge, cit. 77

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honores suos ac glorias iactant. Nonnulli tamque numine vaticinantur futura, quos ενθεασινοὺς Graeci vocant»79. Il teologo Guglielmo di Alvernia (1180-1249) nel De Universo, disquisendo a proposito delle ispirazioni che Dio invia all’anima e dei possibili impedimenti carnali alla loro ricezione, sulla scorta di Galeno sostiene che i temperamenti flemmatici sono poco proclivi ad accogliere la luce divina, perché troppo interessati agli affari mondani. Al contrario dei melanconici, i quali sono del tutto disinteressati al mondo sensibile. Si legge: «Propter huiusmodi causas visum fuit Aristoteli, omnes ingeniosos melancholicos esse, et videri eidem potuit melancholicos ad irradiationes huiusmodi magis idoneos esse, quam homines alterius complexionis, propter hoc, quia complexio ista magis abstrahit a delectationibus corporalibus et a tumultis mundani». Peraltro, e sia detto per inciso, Guglielmo accoglie l’interpretazione aristotelica secondo cui tutti gli uomini intelligenti sono soggetti alla malinconia: «visum fuit Aristoteli, omnes ingeniosos melancholicos esse». Per non ingenerare dubbi di sorta, precisa ancor meglio la questione, distinguendo tra temperamento malinconico e malinconia conclamata. Rifacendosi questa volta a Galeno, Guglielmo argomenta che talvolta l’eccessivo desiderio di Dio e la veemenza della devozione possono far ammalare qualcuno di malinconia. Asserisce poi che se ciò è vero, è altrettanto vero che gli ammalati di malinconia non ricevono l’ispirazione divina pienamente, bensì in forma imperfetta e tronca. Perciò anche se talvolta iniziano a parlare della divinità quasi come se fossero dei profeti, in realtà non riescono a portare a termine il discorso e ricadono nella loro solita demenza. Colpa del «fumus melancholicus» che sale al loro cervello e offusca la virtù intellettiva incapace, a questo punto, di ricevere lo splendore del lume promanante dall’Altissimo. Così Guglielmo salva l’efficacia dell’ispirazione divina spiegandone l’imperfetta manifestazione terrena sulla base della patologia80. Ancora nel medesimo testo GuAlexandri Tralliani, praecellentis medici de singularum corporis partium ab hominis coronide ad imum usque calcaneum, vitiis, aegritudinibus, et iniuriis, libri ad unguem facti V, per Albanum Torimum Vitodurense recens latinitati donati, Baseliae, excudebat Henricus Petrus, 1533, p. 45. 80 «[…] Reperiuntur anima quae tam levi repulsu sic a corporibus abstrahantur et intra se revertantur, atque supra se ad lucifluam veritatem, quae Deus est altissimus, extollantur; neque contingit hoc, nisi in animalibus paucae alligationis, et debilis adhaerentiae ad corpora sua, et alia corporalia; inveniuntur tamen animae aliquae, quibus istae irradiationes superveniunt ex fortitudine cogitationum in rebus divinalibus et ex vehementia devotionis in orationibus suis, similiter ex ardore piorum, ac sanctorum desideriorum, quibus pulchritudinem jucundissimama creatoris concupiscunt. Galenus autem in libro de melancholia dicit ex huiusmodi desideriis interdum aliquos incurrere morbum melancholicum qui procul dubio desipientia magna est, et abalienatio a rectitudine intellectus et discretione rationis. Scire tamen debes, quia huiusmodi homines, videlicet morbo melancholico laborantes, irradiationes recipiunt, verum particulatas et detruncatas. Quapropter ad instar Prophetarum de rebus divinalibus naturaliter loqui incipiunt, sed loquelam huiusmodi non continuant, nisi ad modicum. Et propter hoc statim recidunt in verba desipien79

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glielmo riporta un’idea interessante che circolava tra uomini molto spirituali a lui coevi: proprio sulla base della possibilità di cadere nella malinconia in ragione dell’intensità amorosa per Dio, essi si auguravano di ammalarsi. Erano convinti che se si fossero ammalati quando erano giunti a un alto livello di perfezione, sarebbero stati salvi perché non avrebbero più potuto peccare. L’ammalato, infatti, non è responsabile delle sue azioni, né dei suoi pensieri. Il principio giuridico della non colpevolezza di chi è incapace di volere e intendere, insomma, mantiene una sua validità nel dominio dello spirito – del resto proviene dal sistema di valori meta-giuridico legittimante il diritto stesso – in base alla quale si può supporre una sorta di stato di impeccabilità. Inoltre Guglielmo sostiene che qualcuno, tra i religiosi di cui ha parlato, si sia veramente ammalato di malinconia. Si tratta di una notazione importante perché è inserita pianamente nel testo, in guisa di dettaglio esplicativo e dunque non è un veicolo intenzionale di interpretazioni. A mio parere è un particolare rivelatore di almeno due macro-fenomeni, cioè: il fatto che l’ambiente dei teologi, dei filosofi o comunque degli uomini di chiesa, nutra un interesse precipuo nell’indagare le dinamiche mentali, e il fatto che si sia in grado di distinguere, o comunque ci si provi sistematicamente, chi è davvero estremamente religioso e devoto da chi è ammalato. Leggiamo il brano, che riporto per esteso data la sua pregnanza: Quod si creditur Galenus, adiuvat hunc sermonem id, quod dicit in libro de Melancholia, videlicet quia ex nimio desiderio videndi Deum, nimiaque solicitudine circa hoc, incidere in melancholiam, quod non esset possibile apud creatoris bonitatem, videlicet ut ex tanto bono, tamque ei accepto, quantum est desiderium videndi ipsum, et circa hoc vehemeter esse solicitum, permitteret eos in tantum malum incidere, morbum videlicet melancholiae nisi eisdem ipsum praenosceret utilem fore multipliciter et salubre. Debes autem scire, quia tempore meo multi fuerunt viri sanctissimi ac religiosissimi quibus desiderio magno erat morbus malincholiae propter securitatem antedictam [cioè che all’ammalato non è imputabile il peccato]. Unde et cum inter eos esset quidam melancholicus, et statum eius non mediocriter assectarent, aperte dicebant Deum inaestimabile gratiam illi melancholico contulisse in hoc, videlicet quod bona eius spiritualia adeo in tuto eidem constituerat, ut ea amittere non posset, cum bona huiusmodi, nisi per peccata, ut praedixi, amitti non possit81.

In definitiva, dunque, si dà il caso che la grande spiritualità di tiae consuetae, tamquam si fumus melancholicus ascendens ad virtutem intellectivam in illis fulgorem ipsius intercipiens illam offuscet et propter hoc ab altitudine tanti luminis mentem in aliena dejiciat et ipsam de ea loquenda deducat». De Universo, in Guillelmi Alverni Episcopi Parisiensis mathematici perfectissimi, eximi philosophi, ac theologi praestantissimi Opera omnia […], Parisiis, apud Emundum Couterot, MDCLXXIV, Tomus Primus, secundae partis, pars III, caput XX, p. 1044. 81 Primae partis de universo pars III, cit., caput viii, Ivi, p. 769.

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qualcuno possa trasformarlo in malinconico, così come si dà il caso che il malinconico possa esprimersi in maniera che sembra spirituale e religiosa ma di fatto non lo è. La teologia di fronte alla santa follia Veniamo, adesso, al nesso fra amore e follia, campo d’indagine e di riflessione precipue dei teologi. Esiste infatti un dominio in cui la pazzia è “sana” ed è effetto dell’amor di Dio e per Dio, di una condizione di innamoramento spirituale del Creatore tanto violenta da diventare eccessiva e da far letteralmente impazzire d’amore chi la sperimenta. Il perno biblico centrale, che consente e legittima quest’interpretazione, è soprattutto l’epistolario paolino e in particolare la Seconda lettera ai Corinzi di san Paolo. Il perno concettuale di natura fisiologica, che rende plausibile l’idea di impazzire d’amore per Dio, è la “confidenza” mentale che gli uomini del tempo hanno sviluppato con la possibilità di ammalarsi per amore. Su questi due perni s’incardina l’accoglienza della santa follia nel panorama concettuale di riferimento. Nell’Epistola ad fratres de Monte Dei di Guglielmo di Saint Thierry e che possiamo considerare uno tra i testi più pregnanti per i riformatori, si legge che l’anima separata da Dio diventa la stoltezza pura, perché non può essere regolata in nessuna maniera. Analogamente accade quando l’anima s’insuperbisce e, credendo di essere sapiente, sprofonda invece nella pazzia: Cum vero ipsa sibi per superbiam extra se nimium fuerit, fit prudentia carnis, et ipsa sibi sapientia esse videtur, cum stultitia sit, dicente Apostolo Dicentes se esse sapientes: stulti facti sunt [Rom 1, 22]. Porro ad Deum conversa fit sancta simplicitas, hoc est eadem semper circa idem voluntas: sicut fuit in Job. [...]. Proprie enim simplicitas est perfecte ad Deum conversa voluntas, unam petens a Domino, hanc requirere, non ambiens multiplicari in saeculo82.

In questo caso l’autore ha lavorato esegeticamente su un versetto della Prima Lettera ai Romani. Citerà invece dalla Seconda Lettera ai Corinzi nel De natura et dignitate amoris. In via preliminare sottolineo un’importante trasformazione lessicale. Guglielmo è tra i primi intellettuali a utilizzare la parola amor riferendosi all’amore divino. Gli autori precedenti al XII secolo preferivano mantenere distinti l’amore divino e l’amore umano anche a livello di terminologia: per indicare il primo tipo di sentimento ricorrevano alla parola dilectio, mentre per identificare il secondo usavano amor e se amor era utilizzato riferendosi al Creatore, veniva di regola accompagnato con 82

P.L. 184, coll. 307-367, col. 316.

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un genitivo specificativo connotato, quale dilectionis o addirittura Dei, oppure con un’aggettivazione dichiaratamente collegata alla Trinità. Guglielmo esordisce dichiarando che l’amore è un’arte, anzi è l’arte per eccellenza (ars artium) la cui maestra è la natura e, di conseguenza, il maestro supremo è Dio in quanto creatore della natura, e il cui luogo naturale è l’anima umana. Dopodiché discetta dell’amore carnale, vera e propria malattia per la quale esistono cure e rimedi83, ma subito dopo passa a dimostrare l’origine divina dell’anima umana e spiega che l’interiorità immateriale dell’uomo è ternaria (memoria, ratio, voluntas) poiché specchio della Trinità divina. Del resto l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e nella sua intima essenza Dio ha impresso la propria orma, che funziona da richiamo a Lui che è amore imperituro e totale84. Chiamando in causa la creazione divina dell’essere umano, Gugliemo lo nobilita e al contempo nobilita l’amore. Parlando poi dell’intensità dell’amore, distingue tra quanti seguono gli impulsi corporei e impazziscono, diventando come animali, e coloro che, seguendo la vera e intima predisposizione dell’animo, impazziscono per amor di Dio. Quibus si insaniunt qui corrumpunt, qui in imagine pertranseunt, quorum spiritus ut spiritus bestiarum vel pecorum, quorum carnes, iuxta prophetam, ut carnes sunt asinorum (Ezech. XXIII, 20), multo magis eos qui in veritate sunt amoris et spiritualibus eis aguntur incentivis, in spiritualis Juventutis fervore suo licet modo insanire85.

L’opera prosegue ampliando questo discorso e incastonandolo all’interno del capitolo successivo, interamente dedicato alla «santa follia d’amore». È il terzo e s’intitola De sancta quadam amoris insania, in homine vere religioso requisita. Si spiega che cos’è la sancta insania per mezzo di quei versetti biblici che dimostrano chiaramente quanto l’amore possa spingere a effettuare scelte che sembrano autolesioniste, tanto sono altruiste: audi sanctam insaniam: Sive mente, inquit Apostolus, excedimus Deo; sive sobrii sumus vobis [IICor.5, 13], vis adhuc audire insaniam? Si dimittis, inquit, eis peccatum, dimitte: sin autem, dele me de libro quem scripisisti [Esod. XXXII, 31-32]. Vis aliam? Ipsum audi Apostolum: Optabam, inquit, anathema esse a Christo pro fratribus mei.

Pazzo per amor di Dio è stato san Paolo, pazzo è stato Beniamino che sentiva soltanto Dio e si era completamente astratto da tutto, 83 84 85

P.L. 184, col. 379. Ivi, col. 382. Ivi, col. 383.

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pazzi sono stati i martiri, che ridevano in faccia ai loro torturatori. La loro santa stoltezza sia il modello di comportamento per il perfetto novizio che, sorretto dall’ardente fervore tipico della gioventù, diventi stolto per amor di Cristo e si assoggetti alla volontà dei superiori. Si legge: Propter quod tota debet esse discretio novitii, stultum se in omnibus pro Christo facere et ex alieno pendere arbitrio, maxime si seniorem talem habet de quo certum est quod a Deo discit quod hominem doceat. […] Ad eam vero maxime se semper obedientiam studeat exercere, de qua scriptum est Castificantes corda vestra in obedientia charitatis (I Petr. I, 22): haec est enim Dei voluntas et beneplacens et perfecta86.

L’autore dunque ravvisa nel monastero il luogo più consono all’esperienza della sancta insania, dopodiché concilia quest’ultima e l’oboedientia in maniera definitiva, dal momento che, seguendo il suo ragionamento, l’una non è data senza l’altra. Si tratta di un passaggio concettuale di capitale importanza poiché depotenzia – almeno in linea teorica – l’anomicità della santa follia che è, poi, l’anomicità del rapporto d’amore assoluto tra la creatura e il Creatore. Così il recinto è costruito, e il confine è segnato attraverso l’obbedienza all’autorità superiore87. A ben vedere una simile declinazione è inscritta già in potenza all’interno del nucleo semantico della parola scelta per tradurre il termine “pazzo” usato da Paolo, cioè stultus. Lo stultus – prendo la definizione da Isidoro di Siviglia – «est qui per stuporem non movetur iniuria: saevitiam enim perfert, nec ultus est, nec ullo ignominose commovetur dolore»88. Insomma lo si definisce perché ha un’eccezionale capacità di sopportazione e perché non si vendica dei torti subiti. D’altronde gli esegeti dei testi biblici avevano dettagliato con esaustività e chiarezza il fatto che la divaricazione principale, insita nell’imperscrutabile grandezza di Dio, risiede proprio nella distinzione oppositiva tra stoltezza secondo Dio e stoltezza secondo il mondo. Il sapiente del secolo, infatti, è stolto per Dio, mentre chi è stolto per il secolo, è sapiente per il Creatore. Gerhoh di Reichersberg (10931169) scriveva: Ivi, col. 384. 87 Il capitolo si conclude con un elogio rivolto alle pratiche di mortificazione e di controllo della propria volontà e della consapevolezza di sé per liberarsi dal peccato: «Hic etiam locus et tempus est voluntates amputandi, vitia omnia exstirpandi, voluntates frangendi, ut a ceteris non voluntatibus, sed voluntatem simulacris praecisis et amputatis sicut adulterinis quibusdam et sponte nascentibus ramusculis, spes proficiendi augeatur naturali et verae voluntati. Illae enim non tam sunt voluntates, quam appetitus animae: concupiscientia scilicet carnalis concupiscientia oculorum, et ambitio saeculi», ivi, col. 385. 88 Etymologiarum liber X, P.L. 84, col. 393. 86

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Nos autem, ait Apostolus, praedicamus Christum crucifixum, Judaeis quidem scandalum, gentibus autem stultitiam (I Cor. I, 23). Et quidem contra scandalum Judaeorum probatum est, infirmum Dei fortius esse hominibus. Nunc autem contra gentes crucis arborem velut sycomorum, quae ficus fatua dicitur, irridentes, et in ejus fatuitatem offendentes hoc est probandum, quod stultum Dei sapientius est hominibus, quod fatuitas crucis antecellit in vera sapientia cunctos Graeciae sapientes89.

Di seguito sottolineava la salda congiunzione tra «santa stoltezza» e Croce di Cristo. Si legge: Verumtamen si stultitiam crucis tantae sapientiae conferamus, tale est ac si lumen solis taedae accensae comparemus. Etiamsi non ficta, sed facta crederentur, quae de illo, quem dicunt sapientem, leguntur: incomparabiliter majora sunt, quae per crucis mysterium facta, et non ficta sine dubio creduntur90.

Una congiunzione da cui inevitabilmente consegue sofferenza per lo «stolto», perché il mondo lo avrà in abominio e gli riserverà obbrobri e dolori. Quia “stultam fecit Deus sapientiam hujus saeculi (I Cor. I, 20)”, et perdidit prudentiam prudentum” – continua – “qui, cum dicerent se sapientes, stulti facti sunt servientes creaturae potius quam Creatori, quod erat maxima stultitia: sicut econtra magna sapientia est in cruce adorare Creatorem et Redemptorem, credendo et confitendo quod is, qui crucifixus erat, Deus, ecce per omnia regnat. Hunc nosse vivere, huic servire regnare est. Hujus onus leve est, hujus jugum ferre suave est, hujus praeceptis et consiliis acquiescere, hujus promissionibus credere salus, vita vera et magna sapientia est. Quod totum, cum ita sit, non inane dico ego Christus: Clamabo per diem, et non exaudies, et nocte, et non ad insipientiam mihi: quia quod vermis, et non homo, quod opprobrium hominum et abjectio plebis ego sum, licet Judaeis videatur infirmum, et Graecis aliisque gentibus fatuum et stultum: tamen istud infirmum fortius est hominibus, et istud stultum sapientius est hominibus. Verum quia oculis carnalium abscondita est ista fortitudo et sapientia, omnes videntes me, deriserunt me, locuti sunt labiis, et moverunt caput. Sacramentum crucis, cui debuerunt venerationem, exhibuerunt irrisionem. Deriserunt in corde, locuti sunt labiis, et moverunt caput. “Moventes” enim “capita sua” dicebant. “Vah qui destruit templum Dei, et in triduo illud reaedificat (Matth. XXVII, 39, 40, 43)91.

Bruno di Colonia (1030-1101), fondatore dell’Ordine dei Certosini, commentando le prime due Lettere di Paolo ai Corinzi aveva utilizzato espressioni analoghe92. Lo stravolgimento totale delle prospettive esistenziali causato dalla conversione a Dio, si accompagna a un sentimento amoroso assoluto per Dio. Il legame “santa pazzia” – amo89 90 91 92

Commentarius aureos in psalmos et cantica ferialia, P.L. 193, coll. 1005-1006A. Ivi, col. 1006C. Ivi, coll. 1007B-1007C. Expositio in epistolas Pauli, P.L. 153, coll. 121-212.

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re è una costante; se ritorniamo al testo di Guglielmo di Saint-Thierry appare chiaramente la condizione sine qua non che consente la santa follia: l’amore totalizzante e sovrabbondante per il Creatore. L’amore di questo genere è protagonista degli scritti di Riccardo di San Vittore (1110-1173). Admirantes enim et amplexantes in Christo illum amoris excessum quo proposito gaudio sustinuit crucem humana confusione contempta – scriveva nel De gradibus charitatis – vicem non rependere confunduntur, atque passionis eius ludibriis quasi quibusdam aculeis incitati feruntur effrenes in amoris abyssum, in profundum charitatis, id omnino et solummodo quaeritantes: Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? (Psal. CXV.) Sicque quadam sana et sancta insania mente translati parum amare se reputant sic amati. Vehemens quippe vis amoris ratione non compescitur, quia, teste Apostolo, supereminet scientiae maiestate (Ephes. III)93.

L’excessum amoris, l’abyssum amoris determinano la sancta insania, uno stato dell’anima caratterizzato da un innamoramento per Cristo tanto pervasivo e assoluto da risultare un vero e proprio ribaltamento esistenziale. È stato autorevolmente sostenuto che il secolo in cui fu composto il De quatuor gradibus si presta a essere definito il «secolo dell’amore», poiché il sentimento amoroso è l’indiscusso protagonista della letteratura profana e delle scritture religiose94. Accanto ai celebri romans di Chrètien de Troyes, culla del cosiddetto amor cortese, delle poesie trobadoriche e dei minnesänger95, al Tractatus de amore di Andrea Cappellano, libro consacrato alla teoria dell’amore96, troneggia l’Epistolario di Eloisa e Abelardo, memoria concreta di un’esperienza d’amore fra una donna e un uomo che fu intensa e drammaticamente complicata. Il controcanto perfettamente santo a quel tripudio di amori profani è costituito dagli scritti di monaci impegnati nella descrizione dell’amore divino: dallo Speculum ChariCaput Primum, De insuperabilitate charitatis, P.L. 196, 1196C. Su Riccardo di San Vittore si veda la sintetica scheda bio-biliografica di c. bianco, Richardus Sancti Victoris Prior (inizi XII secolo?-1173), «Heliopolis. Culture, Cività. Politica», XIII, 2015, n. 1, pp. 121-129. Cfr. Cap. 46 del De quatuor gradibus violentae caritatis, a cura di m. sanson, Parma, Pratiche Ed. 1993, p. 146. 94 k. ruh, Storia della mistica occidentale. Volume I. Le basi patristiche e la teologia monastica del XII secolo, Milano, Vita e Pensiero, 1995 (Ed. Originale 1990), p. 451. 95 Per i nessi concettuali anche con l’opera di Riccardo di San Vittore si veda s. linden, Wie die Ratio das Irrationale gebiert. Überlegungen zur Minnereflexion, in Exkursen Hartmanns von Aue, Gottsfrieds von Straßburg und Wolframs von Eschenbach, Wolfram-Studien XX, Reflexion und Inszenierung von Rationalität in der mittelalterlichen Literatur, Blaubeurer Kolloquium 2006, a cura di W. Haubrichs, E. C. Lutz, K. Ridder, Berlin, Erich Schmidt Verlag, 2008, pp. 95-118 con riferimento esplicito alle pp. 97-98. 96 Cfr. F. batista, I volti dell’amore. Pluralità e intertesualità nel “De amore” di Andrea Cappellano, Roma, Aracne, 2010; Per una nuova interpretazione del testo cfr. s. crisaldi, Andrea Cappellano e la doppia verità, in Studi in onore di Nicolò Mineo, «Siculorum Gymnasium», 20052008, pp. 463-511. 93

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tatis di Aelredo di Rielvaux97, all’Epistola sulla carità indirizzata da Ivo di San Vittore a Severino98, al De contemplando Deo, all’Expositio super Cantica Canticorum e al De natura et dignitate amoris di Guglielmo di Saint-Thierry99, al De diligendo Deo, ai Sermones in Cantica canticorum100 e all’undicesima lettera dell’Epistolario di Bernardo da Chiaravalle, al Tractatus di Riccardo di San Vittore, appunto101. Nell’ideale zona di mezzo tra questi due filoni speculativi e letterari si situa il processo guidato soprattutto dai monaci riformatori e riformati, che, alla luce della santità dell’amor di Dio, avrebbe finito per sacramentalizzare il matrimonio enfatizzandone proprio i tratti amorosi. Il contratto sponsale veniva riletto in chiave affettiva e persino il vincolo giuridico impallidiva di fronte all’attribuzione di senso che i teologi iniziavano a riversare sul patto nuziale, cioè l’essere segno dell’unione tra Dio e l’anima, dunque maius sacramentum, come asseriva Ivo di Chartres, a patto che il consenso fosse mutuo e chiaramente espresso102. Parallelamente circola l’idea dello sposalizio mistico di Cristo che, come accade tra gli esseri umani, è il climax di un rapporto d’amore. Cristo lo si ama da impazzire, nel senso letterale del termine. La sancta insania, dunque, cui si riferisce Riccardo di San Vittore è una sorta di stato (ma anche di stadio) dell’anima. [...] Excessus amoris, quando anima in vituperiis, in tribulationibus semper sentit iucunditatem interius, et hunc reputant omnes stultum, et ipse reputat omnes stultos, et secundum veritatem sunt. Hoc autem est summum fidei et apex, ut per experientiam inebrietur et iam nil curet de mundo103.

L’anima, inebriata dal sentimento d’amore per Cristo, appare impazzita: si strugge dal desiderio di conformarsi alla Sua Passione, soDe speculo caritatis, a cura di c. h. talbot, Corpus Christianorum. Continuatio Medievalis, 1, Turhout, Brepols, 1971. 98 Ives. Èpître à Séverin sur la charité, a cura di g. dumeige, Paris, Vrin, 1955. 99 guillaume de saint-thierry, Deux traités de l’Amour de Dieu. De la contemplation de Dieu. De la nature et de la dignité de l’amour, Texte latin et traduction, a cura di M. M. Davy, Paris, Vrin, 1953; Commentaire sur le Cantique des cantiques, Texte latin et traduction, a cura di m. m. davy, Paris, Vrin, 1958; Nature et dignité de l’amour, Texte latin, a cura di y. a. baudelet, Paris, Edition du Cerf, 2015 [Sources Chretiennes]. 100 Il dovere di amare Dio. De diligendo Deo, a cura di a. piazzoni, Milano, Ed. Paoline, 2014; Sermones super Cantica canticorum, a cura di J. leclercq, c. h. talbot, h. m. rochais, Roma, Editiones Cistercienses, 1958; Lettere, in Opere di san Bernardo, VI/1, a cura di J. leclercq, e. paratore, F. gastaldelli, Milano, Vita e Pensiero, 1986, p. 99. 101 F. zambon, Trattati d’amore cristiani del XII secolo, Milano, Mondadori, 2008 [Fondazione Lorenzo Valla]. 102 J. leclercq, I monaci e il matrimonio. Un’indagine sul XII secolo, Torino, SEI, 1984, p. 124; g. duby, Matrimonio medievale. Due modelli nella Francia del XII secolo, Milano, Il Saggiatore, 2013 (Ed. Originale 1978), p 81. 103 De gratia contemplationi, P.L. 196, coll. 63-192, col. 119. 97

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stenendo ogni sorta di tribolazione per Lui. La certezza della condivisione con Cristo rende gioiosa e desiderabile la sofferenza e perciò l’innamorato di Dio sembra a tutti folle. In verità i pazzi sono gli altri, i peccatori che disprezzano il gaudio eterno preferendogli l’effimero piacere derivante dalle cose sensibili e transitorie. Una simile opposizione prospettica campeggia in numerose fonti, per brevità ricordo soltanto la figura del peccatore qualificato amens, stultus, insanus, nel Dialogus inter philosophum, Judaem et cristianum di Abelardo, o nel primo sermone dell’abate Absalon di Springiersbach († 1203). In qualche caso la tabe del peccato si manifesta letteralmente in quanto tale: l’ira smodata, ad esempio, può causare follia nel senso di affezione permanente104. L’insania amoris invece corrisponde allo stadio più alto del perfezionamento spirituale. Ancora Riccardo di San Vittore nel De quatuor gradibus violentae caritatis illustra i gradi dell’ascesa dell’anima a Dio, così scandita: «in primo itaque gradu, ut dictum est, animus redit ad seipsum, in secundo ascendit ad Deum, in tertio transit in Deum, in quarto configuratur humilitati Christi. Vel in primo reducitur, in secundo tranfertur, in tertio transfiguratur, in quarto ressuscitatur». Il terzo gradino, dunque, prevede che l’anima sia infuocata, quasi liquefatta, dal fuoco della Parola e penetri il senso occulto (mistico) della Scrittura statim siquidem ad illud internum divini arcani secretum admittitur, pre admirationis magnitudine jucunditatisque abundantia in seipsa, immo in ipsum qui loquitur, tota resolvitur, dum incipit audire arcana illa verba que non licet homini loqui et intelligit incerta et occulta sapientie divine manifestari sibi [IICor., 12, 4]. In hoc itaque statu spiritus omnia scrutatur, etiam profunda Dei [Sal. 50, 8]. In hoc statu qui adheret Domino unus spiritus est [ICor, 6-7]”105.

Infine il quarto gradino: l’anima è conformata in toto a Cristo nel mistero della sofferenza perché si è conclusa la sua progressiva deificatio per amorem: «[…] in quarto gradu est veraciter dicere potest: Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus [Gal. 2, 20]». Ormai è nata una «nova creatura» che «illata dampna non sentit, qui semper ad omnem injuriam hilarescit et quicquid infertur ad penam totum presumit ad gloriam [...]. Quasi enim impassibilis manet cui in passionibus et contumeliis pro Christo complacet»106. Circa un secolo dopo Tommaso d’Aquino avrebbe consacrato la quaestio XLVI della Secunda secundae alla definizione di sapientia, dono petri abelardi Dialogus inter philosophum, Judaem et cristianum, P.L. 178, col. 1635; absalon abbatis, Sermo I, P.L. 211, col. 18. Per il peccato causa di follia cfr. m. laharie, La folie, cit., pp. 69-74. 105 De quatuor gradibus, p. 136. 106 Ivi, p. 146. 104

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di Dio e settima beatitudine. Contestualmente, secondo lo schema tipico della scolastica, definisce la stoltezza, che è l’opposto della sapienza. La definizione generale prevede che la stoltezza coincida con una certa incapacità e ottusità di giudizio. «Stultitia […] importat quendam stuporem sensus in iudicando […]». In realtà esistono, per Tommaso, tre generi di stoltezza: quella che discende dal peccato, quella che coincide con una malattia mentale e, infine, quella che dipende dall’aver accolto e fatta propria la sapienza di Dio, opposta rispetto alla sapienza umana. Ergo sapientiae non opponitur stultitia, sed stultitia est via perveniendi ad sapientiam: dicitur enim 1 ad Cor. 3,18: si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo, stultus fiat ut sit sapiens.[...] Sapientia autem est causa stultitiae: dicitur enim Jer. 10,14: Stultus factus est omnis homo a scientia sua: sapientia autem quaedam scientia est [...]107.

Tommaso allaccia strettamente tra loro follia per Cristo e povertà, materiale e morale. Il folle in Cristo disprezza infatti ogni tipo di bene. Il mondo lo considera pazzo proprio in ragione di questo suo distacco, applicato a qualsiasi aspetto della mondanità. In ogni caso ai nostri fini interessa sottolineare che Tommaso si occupa di sancta insania nella Summa perché ciò significa che la questione viene reputata degna d’interesse ai massimi vertici della Scolastica. Tommaso individua nell’umiltà estrema e nella mortificazione i segni distintivi del folle in Cristo; del resto l’attribuzione di senso che la pars Occidentis riserverà ai “suoi” saloì sarà incardinata proprio su questi due segni. Non molto diversamente rispetto a Tommaso, anche Bonaventura da Bagnoregio avrebbe parlato della sapienza divina come di una stoltezza desiderabile. «Optabilis stultitia, quae divino iudicio reputatur sapientia [...] haec stultitia, nisi fallor, est illa desursum sapientia, «Et differt stultitia a fatuitate, sicut ibidem dicitur, quia stultitia importat hebetudinem cordis et obtusionem sensuum, fatuitas autem importat totaliter spiritualis sensus privationem. [...] Ad secundum dicendum, quod, sicut est quondam sapientia mala, ut supra dictum est, qu. praec. art. 1 ad 1, quae dicitur sapientia saeculi, quia accipit pro causa altissima et fine ultimo aliquod terrenum bonum, ita enim est aliqua stultitia bona huic sapientiae male opposita, per quam aliquis terrena contemnit, et de hac stultitia loquitur apostolus. [...] Ad quartum dicendum, quod non moveri injuriis, quandoque quidem contigit ex hoc quod homini non sapiunt terrena, sed sola caelestia; unde hoc non pertinet ad stultitia mundi, sed ad sapientiam Dei, ut Gregorius ibidem dicit. Quandoque autem contigit ex hoc quod homo est simpliciter circa omnis stupidus, ut patet in amentibus, qui non discernunt quid sit injuria; et hoc pertinet ad stultitiam simpliciter»; thomae aquinatis Secunda secundae, qq. 45-46; per una sorta di “tassonomia” della stoltezza in Tommaso d’Aquino si veda l. J. lauand, La tonterìa y los tontos en el Anàlisis de Tomàs de Aquino, «Cuadernos de Informaciòn y Comunicaciòn», 7, (2002), pp. 37-46; Id. Folishness and Fools in Aquina’s Analisis, «Notandum», 32, maio-ago 2013, pp. 25-35. 107

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pudica, pacifica, modesta, suadibilis, bonis consentiens [...]»108. Nel Soliloquium ritorna sull’argomento in maniera più approfondita e, descrivendo l’anima more ebrii gaudens dell’amore divino perché vive nello stadio della sancta insania, sostiene che è ormai pervenuta a un livello spirituale così alto da sopportare lietamente le avversità e da perdonare tutto il male ricevuto109. La santa follia nei testi di grande diffusione La prospettiva cristologica ed espiatoria della follia per Cristo percola con successo nella libellistica parenetica, nelle prediche e persino nei romanzi. Ad esempio, nella letteratura in volgare francese del XII secolo e segnatamente nei racconti brevi che conobbero una grande diffusione a livello popolare, rintracciamo alcuni casi interessanti. L’antica raccolta in volgare francese Vie des Péres fu composta nel XIII secolo da un anonimo scrittore vicino ai monaci cistercensi, incontrò il favore del pubblico e conobbe un’ampia circolazione. Nonostante il titolo, non si tratta di un volgarizzamento delle Vitas Patrum, ma di una serie di pii racconti incentrati soprattutto su figure di eremiti, dei quali soltanto alcuni sono tratti dalla raccolta latina110. Questi racconti furono tradotti anche nei volgari italiani: il testimone più antico è il codice bolognese 2650 custodito presso la Biblioteca Universitaria di Bologna e risalente al secolo XIII. Dal codice bolognese derivarono tutti gli altri codici italiani e anche il volgarizzamento senese – i Conti Morali – al quale si farà riferimento per quanto riguarda il racconto dei tre eremiti egiziani111. Su quattordici racconti attestati nei volgarizzamenti italiani, otto si riferiscono a casi di follia e pazzia e sono concentrati soprattutto nella seconda parte del testo. Come argomenta Storini nel saggio dedicato alle Immagini della follia, il narratore ricorre a pazzia e follia in quattro casi, cioè per descrivere i comportamenti dei personaggi, per comporre le cornici didascaliche dei racconti, per esprimere le auto-valutazione da parte dei protagonisti, per valutare le azioni di altri112. Nel secondo racconto incontriamo un santo eremita, che abitava in una terra popolata da «saracini» e che ammattì a causa del demobonaventurae, De triplici via, in Id., Opera omnia […] edita studio et cura PP. Collegii a S. Bonaventura, Firenze, Quaracchi, 1882-1902, VIII, II, 4-11. 109 Id., Opera omnia, II, 3. 110 a. tudor, Érémitisme et solitude dans la première Vie des Pères, «Le Moyen Age», tome cxii, 1, 2006, pp. 43-61. 111 a. del monte, Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres”, Estr. da Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze, Olschki, 1966 (pp. 329-383). 112 m. c. storini, Immagini della follia in alcuni testi narrativi delle origini, «Accademia Roveretana degli Agiati», 252, 2002, ser. VIII, vol. 2, A, pp. 25-63, p. 42. 108

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nio, mentre nell’VIII, tratto dai Dialogi di Gregorio Magno, la medesima sorte tocca ad una monaca113. Le storie narrate successivamente (IX–XIV) sviluppano ancora il legame tra follia, peccato e demonio. Soltanto un racconto parla di una pazzia del tutto diversa: la santa follia. La narrazione è la seguente; tre chierici che vivono in Egitto e si chiamano Bonifacio, Diedato e Felice, decidono di diventare eremiti e perciò si recano rispettivamente a Gerusalemme, sulla Montagna Nera vicino ad Antiochia, e a Bisanzio. Felice giunse nella sua nuova destinazione, cioè Bisanzio, «lasso, magro e travalliato, a piei scalzi e male vestito e tonduto e con grande barba sì che la gente v’andava dietro credendo che fusse uno pazzo. E il buono uomo aveva messo il suo cuore in Domenedio già per cosa che quelli folli li faciano nol potevano corrucciare»114. S’installò in una cappella antica e diruta, appena fuori le mura della città, dove risiedeva in solitudine, adorando un’icona della Vergine Maria115. Nel frattempo fu raggiunto da un cavaliere in cerca di perdono. Costui era orgoglioso e superbo e aveva commesso molti peccati, di cui il più terribile era l’aver assassinato un prete perché lo aveva scomunicato. Dopodiché Dio lo fece ammalare, lui comprese che ciò accadeva a causa dei suoi peccati e pensò di fare ammenda ma a niente valsero le richieste di perdono avanzate persino al papa. Quest’ultimo l’inviò a Gerusalemme, dall’eremita Bonifacio, uomo di grande santità; «et a lui ti confessarai e farai ciò ch’elli ti comandarà, e portarai lettera da nostra parte, che noi dimandiamo che t’ati e ti consilli»116. Il cavaliere si recò da Bonifacio che, a sua volta, lo inviò da Diedato. A Diedato Dio stesso disse che doveva mandare il cavaliere da Felice. Sentì una voce che gli ingiungeva: «io ti comando che tue lo mandi a Bisenzione al tuo compagno Felice, che si dimena come folle ma elli enpiega bene la sua pena, ché elli ène folle al mondo e savio a Dio: or lo manda a lui, e dilli che si confessi da lui, ett elli lo solverà et accordarallo con Giesu Cristo»117. Diedato riferì al cavaliere: «amico mio, vollio che sappi, che tu diei essare molto lieto, quando lo nostro Signore vi manda del vostro peccato alleggimento: consilio avarete tostamente e penetenza del peccato che voi avete commesso: e’ si conviene che voi n’andate a Bisenzione, e tanto cercate per la terra, che voi troviate uno folle […]»118. Ivi, pp. 42-44. Il racconto in francese che corrisponde a quello dei tre eremiti è il decimo. Cfr. Fou, 10e conte de la Vie des Pères, éd. J. chaurang, Genève, Droz, 1971. 114 F. zambrini ed., Dei Conti morali d’anonimo senese. Testo inedito del sec. XIII, Bologna, per Gaetano Romagnoli, 1862, pp. 71-72; cfr. m. c. storini, Immagini della follia, cit., p. 53; a. del monte, Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres”, cit., pp. 359-360. 115 F. zambrini ed., Dei Conti morali d’anonimo senese, cit., p. 72. 116 Ivi, p. 76. 117 Ivi, p. 82. Cfr. a. del monte, Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres”, cit., pp. 362; m. c. storini, Immagini della follia, cit. p. 54, nota 54. 118 F. zambrini ed., Dei Conti morali d’anonimo senese, cit., p. 82. 113

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Diedato dunque usa il termine folle per qualificare l’eremita e asceta Felice. Il cavaliere, non molto persuaso in realtà, disse che comunque lo avrebbe cercato. Diedato gli rispose con una frase che è una sorta di definizione icastica della follia per Cristo e che, pertanto, riporto integralmente. Si legge: e già sia cosa ch’elli sia tenuto folle, elli ene savio a Dio, sì ch’elli ene del tutto servo di Dio; imperciò che tutto il senno del mondo ene follia appo Dio. Secondo che dice santo Pavolo: bene odia l’anima colui che ama lo corpo; e colui che si mette fuore de’ diletti del mondo, sie odia lo corpo et ama l’anima. E per ciò ch’elli sane la differenzia di queste due cose, per ciò vuole elli ontia e vergogna in questo mondo, et falla al corpo, sì ch’elli n’è tenuto per folle. Ma Idio che sae la sua intenzione ne l’ama più, et odia tutti coloro che n’intendono d’avere questo mondo; und’ellino intendono poscia d’avere la morte d’inferno119.

Il cavaliere andò quindi a Bisanzio e trovò Felice mentre sedeva latesso uno fossato; e pareva ch’elli uscisse d’uno forno tanto era salavo e affamato e magro e pallido, e una gonnella tutta chiusa innanzi di burello, et era scalzo, e cento d’una corda: molto era il corpo vile di fuore, ma dentro era il buono tesoro; che Iddio vi s’era albergato dentro, per lo bene ch’elli vi sentiva: longo quello fossato s’era assiso, du’elli era schernito spessamente120.

Il cavaliere lo ritiene un povero matto e basta, quindi decide di andarsene. Invece Felice discerne gli spiriti e dunque viene subito a conoscenza del suo pensiero, perciò gli dice: Amico mio, certo e’ non à uomo al mondo che mellio potesse divisare il mio stato che tu l’ài divisato, ché be’ son più folle e più malvagio che nessuno altro. Unde io ne ringrazio Dio e la Vergine Maria, e a voi ne rendo mercè di ciò, che avete di me sì bene pensata la verità. Né unque Dio mi lassi avere onore in questo mondo, anzi desidero d’avere in questo mondo più ontia o più dispitto ch’io non abbo121.

Per convincere definitivamente il cavaliere malvagio, Dio consente che veda il sant’uomo in preghiera e poi circondato da schiere angeliche. Così confessa tutti i suoi peccati a Felice. La Vergine, mentre l’eremita la supplica con fervore per sapere che cosa fare con il cavaliere, appare e gli rivela quel che sarà. Felice, su consiglio della Madonna, conduce il cavaliere sulla tomba del prete che ha ucciso, Ivi, pp. 83-84. 120 Ivi, pp. 84-85; cfr. a. del monte, Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres”, cit., pp. 362-363; m. c. storini, Immagini della follia, cit., p. 55. 121 F. zambrini ed., Dei Conti morali d’anonimo senese, cit., p. 99. Cfr. a. del monte, Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres”, cit., pp. 359-360. 119

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gli chiede nel nome di Dio di tornare in vita ed egli risorge giusto il tempo necessario per perdonare il cavaliere e poi rientra nella sua tomba. Il miracolo crea scalpore nell’intera città e «tutti v’andavano per adorarlo e per chiedarli mercede delli scherni ch’elli n’avevano facto di lui per lo tempo passato» ma Felice, non volendo rischiare di perdere la propria umiltà, «si mise in cammino, perché le genti nol vedessero; perciò che l’infermi li andavano tuttavolta appresso»122. Il medesimo racconto edificante è ripreso nei Miracles di Notre Dame della prima metà del XIII secolo (ca. 1230), in virtù dell’importanza attribuita alla mediazione della Vergine Maria. La presentazione dell’eremita «folle» da parte dell’eremita «savio», compare così descritta: Biau douz amis – fait li hermites –/ Se me consaut Saniz Espérites,/ il n’est pas fouz, ne doutes mie;/ Mais ce est voirs qu’il maine vie/ Selonc le siècle de fol homme./ Mais tant est sages, c’est la somme, que pour l’amor de Dieu conquerre;/ Por fol se fait tenir en terre; Quar li savoirs de ceste vie/ Est, ce sachiez, vers Dieu folie,/ Tiex est tenuz por fol au monde/ vers Dieu le cuer et le courage,/ Assez souvent tient Dieu por sage/ Tel que les genz tiennent por fol./ Et pendent le borrel au col/Au siècle estuet fol devenir/ Celui qui veut à Dieu servir;/ Et por ce est il fous devenus/ Qu’il veut por sage être tenus/ Au haut Seignieur qui tant est sages/ Qui de touz cuers voit les courages/ Et quenoist toutes les pensées/ Ains que li cuers les ait pensées123.

Un motivo molto simile è presente, inoltre, negli Exempla del frate predicatore Etienne de Bourbon124. L’exemplum che ci interessa parla di un cavaliere che decise di espiare i propri peccati andando a Bisanzio dove si trasformò in folle per Cristo. Il testo racconta che, dopo essersi scambiato le vesti con un povero carbonaro, entrò in città e «fecit se fatuum». La sua santa follia consisteva nel lasciarsi beffare, battere e insultare durante il giorno e nel passare la notte in veglie e orazioni. Si legge: «De die a pueris fustigabatur, irridebatur et flagellabatur miserabiliter, nil eos ledens; de nocte super firmarium iacens, invigilabat fletui et oracioni, de die redibat ad agonem et ludibrium puerorum»125. La narrazione continua mettendo in campo un grande peccatore, il figlio di un imperatore che aveva ucciso il proprio fratello maggiore. Pentitosi, andò a Roma dal papa, il papa gli ingiunse di andare da un eremita in Egitto per espiare il peccato e l’eremita, a sua volta, gli disse di raggiungere il soldato F. zambrini ed., Dei Conti morali d’anonimo senese, cit., p. 97; cfr. a. del monte, Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres”, cit., p. 365; m. c. storini, Immagini della follia, cit., p. 55. 123 Les miracles de la Sainte Vierge, raduits et mis en vers par Cautier de Coincy […] publiés par l’Abbè Poquet […], Paris, chez Parmantier et Didrot, 1857, col. 578. 124 Anecdotes historiques, légendes et apologues tirés du recueil inédit d’Étienne de Bourbon, domenicaine di XIIIe siècle, publiés par A. Lecoy de La Marche, Paris, Librairie Renouard, 1877. 125 Ivi, Anecdote 173, p. 152. 122

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folle in Cristo a Bisanzio. Lì si ripete l’agnizione del santo: il reo vede il folle circondato dalla corte celeste e capisce che è santo. Il folle lo obbliga, sotto giuramento, a non rivelare a nessuno quanto ormai sa. Il giovane diventa poi imperatore a sua volta e segue con apprensione e dispiacere le vicende del santo, senza poter fare o dire niente perché si era impegnato a mantenere il segreto. Quando però muore «bonum illum fatuum» lo fa seppellire decorosamente e la sua tomba diventa luogo di miracoli126. La medesima penitenza viene scelta da Robert le Diable, protagonista del celebre romanzo omonimo, che ha necessità di mondare l’anima da peccati terribili127. Il protagonista del racconto, inserito nelle Chroniques de Normandie (fine XIII secolo), negli Exempla di Etienne de Bourbon e anche nei Miracles de Notre Dame, su consiglio di un venerabile eremita si reca nel palazzo reale dove finge di aver perso la ragione per esser mondato dai suoi numerosi peccati128. Non è difficile scorgere nei racconti ripercorsi sin qui ben più di un eco delle vicende di Simeone salòs e dei vari folli in Cristo raccontati nelle fonti tardo antiche, ivi compresi l’espediente del grande peccatore inviato da un sant’uomo al folle in Cristo e il topos del riconoscimento miracoloso della santità del folle e gli impedimenti frapposti alla rivelazione pubblica della medesima. In tutti questi, infatti, i riferimenti all’Oriente dei saloì sono espliciti: l’Egitto, l’area sinaitica e Costantinopoli sono i luoghi dei santi eremiti protagonisti. Il flusso della testualità colta e tecnica (mi riferisco ai testi liturgici in particolare) ha lasciato ben più di una traccia in questa letteratura destinata a una fruizione allargata, se non popolare. Il riflesso del lumen orientale di cui scrivevano i dotti monaci riformatori, si diffondeva anche così. Uno tra i territori in cui l’effetto del cambiamento indotto dai riformatori fu molto intenso coincide con le aree dell’attuale centro – nord Italia. Conviene dunque spostare la nostra attenzione sull’Umbria degli inizi del XIII secolo e, in particolare, sulla città di Assisi e sul suo figlio più illustre: Francesco.

Ivi, p. 153. Cfr. m. laharie, La folie au Moyen Age, XIe-XIIIe siècles, Paris, Le Léopard d’Or, 1991, pp. 96-97; h. legros, La folie dans la littérature médiévale, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2013, in particolare p. 10. 127 Cfr. è. gaucher, Robert le Diable. Histoire d’une légende, Paris, Champion, 2003. 128 h. legros, La folie dans la littérature médiévale, cit., p. 10 e passim, dove sono riportate anche altre fonti. 126

4. “Novellus pazzus in mundus”: croce e follia da Francesco d’Assisi a Jacopone da Todi*

La Compilatio assisiensis, o Legenda perusina, trasmessaci dal codice 1046 della Biblioteca Comunale di Perugia, fu composta intorno a metà Duecento allo scopo di raccogliere quanto rimaneva dei ricordi di chi aveva conosciuto Francesco d’Assisi de visu1. Così si andava a disegnare un ritratto del santo destinato a opporsi alla fisionomia “ufficiale” tracciata nella Legenda Maior di Bonaventura e che, dopo il Capitolo del 1266, avrebbe dovuto elidere tutte le altre testimonianze biografiche su Francesco, ivi compresa la Compilatio stessa2. * Mi ero già occupata di Francesco come “folle in Cristo” nel libro Pazzi per Cristo, cit. Rispetto a quello che scrissi allora, in questa sede aggiungo numerose nuove considerazioni. Si affrontano i legami tra Francesco e i saloì nel bel testo di F. burgarella, Francesco e il santo folle dell’agiografia bizantina, in Francesco d’Assisi fra Storia, Letteratura e Iconografia. Atti del seminario (Rede, 8-9 maggio 1995), a cura di F. E. Consolino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, pp. 83-96. Desidero esprimere tutta la mia gratitudine a Grado Merlo per avermi usato l’enorme gentilezza di leggere e discutere con me questo capitolo e di donarmi preziosi suggerimenti, resta inteso che gli errori e le inesattezze che fossero rimaste nel testo sono tutti imputabili a me. Poiché è difficoltosissimo orientarsi nella vasta bibliografia su Francesco d’Assisi, rimando a San Francesco nella ricerca storia degli ultimi ottant’anni, Atti del Convegno di Todi, Todi 13-16 ottobre 1988, Todi, presso l’Accademia Tudertina 1971; i. iriarte, Introduzione storiografica in Id., Storia del francescanesimo, Napoli, Ed. Dehoniane 1982, pp. 17-52; g. g. merlo, La storiografia francescana dal dopoguerra ad oggi, «Studi storici», 32, 1991, n. 2, pp. 17-52; a. paravicini bagliani, Il Papato nel secolo XIII. Cent’anni di bibliografia (1875-2009), Firenze, Sismel, 2009, pp. 547-558 e poi alla lucida rassegna storiografica di a. marini, Uno sguardo agli studi su Francesco e francescanesimo, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 2011, n. 1, pp. 157-167 cui aggiungo soltanto a. vauchez, Francesco d’Assisi, Torino, Einaudi, 2010; g. g. merlo, Frate Francesco, Bologna, il Mulino, 2013; J. dalarun, La vita ritrovata del beatissimo Francesco. La leggenda sconosciuta di Tommaso da Celano, Milano, Biblioteca Francescana, 2016. 2 F. delorme, Legenda antiqua S. Francisci du ms 1046 de la bibliothèque communale de Perouse, «Archivum Franciscanum Historicum», X, 1922, fasc. I-IV, pp. 23-70, 278-332; s. 1

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Raccontando del Capitolo Generale detto delle Stuoie, tenutosi a Santa Maria della Porziuncola nel 1222, chi scrisse la Compilatio narra che alcuni frati chiesero al cardinale Ugolino da Ostia di convincere Francesco affinché lasciasse guidare l’Ordine dai fratelli colti. Nella loro perorazione a favore degli intellettuali, fecero esplicito riferimento alle Regole di Benedetto, di Bernardo e di Agostino. Ugolino recepì il loro discorso e si espresse a sua volta in Capitolo; Francesco ascoltò l’esortazione del cardinale, ma poi prese la parola e volle chiosare precisando che Dio stesso lo aveva fatto incamminare sul sentiero della semplicità e che, quindi, non voleva sentir parlare di altre Regole. Dopodiché aggiunse: «Et dixit Dominus michi quod volebat quod ego essem unus novellus pazzus in mundo; et noluit nos ducere Deus per aliam viam quam per istam scientiam; sed per vestram scientiam et sapientiam Deus vos confundet»3. La Compilatio non è certamente un’opera neutra, troppe quaestiones vexatae agitavano l’Ordine nel periodo in cui veniva redatta, come hanno dimostrato gli studi di settore e, non in ultimo, la magistrale ricostruzione critica operata da Grado Giovanni Merlo4. Non tutti gli studiosi sono concordi sulla natura e sulla datazione della Compilatio; comunque sia fu certamente redatta nel torno di anni compreso tra il 1246 e il 1260 ad Assisi o nei dintorni, basandosi sui materiali predisposti da frate Leone e dai primi compagni di Francesco per rispondere alla richiesta di raccogliere le memorie del fondatore che clasen, Legenda antiqua S. Francisci, Leiden, Brill, 1967; m. bigaroni, “Compilatio Assisiensis” dagli scritti di fr. Leone e Compagni su Francesco d’Assisi. I edizione integrale del Ms. 1046 di Perugia con versione italiana a fronte. Pubblicazioni della Biblioteca Francescana Chiesa Nuova, 2, Assisi, Porziuncola, 1975; a. gattucci, Dalla “Legenda antiqua S. Francisci” alla “Compilatio Assisiensis”: storia di un testo più prezioso che fortunato, «Studi Medievali», 3° serie, XX, 1979, pp. 789-870; R. B. brooke, The “Legenda antiqua S. Francisci” Perugia Ms. 1046, «Analecta Bollandiana», 99, issue 1-2, 1981, pp. 165-168; e. menestò, “Colligere fragmenta” per una nuova lettura di un testimone emigrato della Compilatio Assisiensis (il ms. C4 dell’Università di Upsala), in “Come l’orco nella fiaba”. Studi per Franco Cardini, Firenze, Sismel, pp. 425-448. Si veda l’utilissima ricostruzione delle fonti e dei loro rapporti reciproci di F. accrocca, Un santo di carta. Le fonti biografiche di san Francesco d’Assisi, Milano, Edizioni Francescane, 2013. 3 Capitolo XVII, in Fontes Franciscani, a cura di S. Brufani, E. Menestò, Assisi, Porziuncola, 1995, pp. 1497-1498. Si veda g. miccoli, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino, Einaudi, 1983, pp. 74-80; Si veda del medesimo autore anche Francesco d’Assisi. Memoria, storia, storiografia, Milano, Biblioteca Francescana Edizioni, 2010. Cfr. infine m. p. alberzoni, Unus novellus pazzus in mundo. Individualità e affermazione del carisma, in Das Eigene und das Ganze. Zum Individuellen im mittelalterlichen Religiosentum, a cura di G. Melville – M. Schürer, München 2002 (Vita Regularis, 16), pp. 269-301; cfr. anche r. J. armstrong, Novellus pazzus in mundo. The call to Foolishness, «Collectanea Franciscana», 79, n. 3-4, 2009, pp. 469-486. 4 Id., Nel nome di san Francesco. Storia dei frati Minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Milano, Edizioni Francescane, 2012 (2, 1° ed. 2003); Id., Intorno a francescanesimo e minoritismo. Cinque studi e un’appendice, Milano, Edizioni Francescane, 2010; Id., La minorità di frate Francesco e il minoritismo dei frati Minori, «Sèmata. Ciancias Socials e Humanidades», 26, 2014, pp. 35-45.

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era stata avanzata dal Generale Crescenzio da Jesi nel 12445. Uno dei punti dolenti a quell’altezza cronologica insisteva sull’istituzionalizzazione del movimento e sulla povertà in tutte le sue declinazioni, dalla Regola al rapporto dei Minori con la cultura. L’espressione così connotata, «novellus pazzus», messa in bocca dalla fonte a Francesco, aveva già attirato l’attenzione e l’interesse di Giovanni Miccoli, sostanziando pagine importanti; ciò nonostante e facendo perno sulle conclusioni di Miccoli, «novellus pazzus» suggerisce anche altre domande, pertinenti al nostro oggetto di studio. Senza dubbio costituisce una scelta lessicale particolare e, in seconda battuta, una scelta semantica forte. In quel momento Francesco sta definendo se stesso e, di conseguenza, definisce l’Ordine; contando che i dissenzienti rispetto alla linea “bonaventuriana” – ed è tra costoro che vanno ricercati gli autori della Compilatio – s’impegnano nel tentativo di distillare la Regola a partire dalla biografia di Francesco, va da sé che un’autodefinizione del padre fondatore è, ipso facto, una definizione dell’Ordine6. L’uso di «novellus» è stato abbondantemente spiegato dalla storiografia e in prima battuta da Miccoli. In questo caso rimanda all’antichità dei primordi della chiesa, è un “nuovo” nel senso di “rinnovato”, perché ritorna nella contemporaneità dello scrivente dall’antichità dell’ecclesia primitiva e vi s’invera7. Ma «pazzus»? Prima di rispondere F. accrocca, La Compilatio Assisiensis nella “Questione francescana”, «Archivum Franciscanum Historicum», 86, 1993, pp. 105-110, adesso in Id., Un santo di carta, cit., pp. 455492; Id., “Nos qui cum eo fuimus”: Francesco nel ricordo dei compagni per un bilancio e nuove prospettive di ricerca, in Francesco e le sue immagini. Momenti della evoluzione della coscienza storica dei frati Minori (secoli XIII-XVI). Postfazione di J. Dalarun, Padova, Centro Studi Antoniani, 1997, pp. 57-79; e. kumka, La “Compilatio Assisiensis”. Una prova dell’analisi strutturale e concettuale, «Miscellanea Francescana», 103, 2003, pp. 233-206; Id., Alcuni nodi problematici della “Compilatio Assisiensis”, «Miscellanea Francescana», 103, 2003, pp. 719-742; F. accrocca, Oltre Sabatier: la nuova edizione dello Speculum Perfectionis, «Miscellanea Francescana», 106107, 2007, pp. 504-528; J. dalarun, Lo “Speculum perfectionis” specchio della questione francescana. A proposito di un’edizione recente, «Frate Francesco», 73, 2007, pp. 613-622; M. causse, La Lègende des Trois Compagnons, le “Speculum Perfectionis” et la Question Franciscaine, in Ens infinitum: à l’école de saint François d’Assise. Exposition, Bibliothèque Nationale et Universitaire de Strasbourg, 19 mars-30 avril 2009, ed. C. Coulot, M. Causse, Strasbourg, Presses Universitaires de Strasbourg, 2009, pp. 201-220; b. roest, Franciscan Learning, Preaching, and Mission c. 1220-1650, Leiden-Boston, Brill, 2015, pp. 3-4. 6 Cfr. r. rusconi, Moneo atque exhortor … firmiter praecipio. Carisma individuale e potere normativo in Francesco d’Assisi, in Charisma und religiöse Gemeinschaften im Mittelalter. Akten des 3. Internationalen Kongresses des “Italienisch-deutschen Zentrums für Vergleichende Ordensgeschichte” in Verbindung mit Projekt C “Institutionelle Strukturen religiöser Orden im Mittelalter” und Projekt W “Stadtkultur und Klosterkultur in der mittelalterlichen Lombardei. Institutionelle Wechselwirkung zweiter politischer und sozialer Felder” des Sonderforschungsbereiches 537 “Institutionalität und Geschichtlichkeit” (Dresden 10.-12 Juni 2004), Münster, Lit Verlag, 2005, pp. 261-280. 7 “Miccoli scrive: “intenderei piuttosto “novello” nel senso di “mai visto prima”, tale da destare enorme impressione; ma non si deve dimenticare che “novello si dice anche di una persona o cosa che ha delle somiglianze con un’altra persona o cosa”, e in questo senso “novello” potrebbe alludere ancora una volta al tema della sequela Christi: “novello pazzo” 5

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conviene rileggere il testamento di Francesco, perché ci trasmette la sua auto-percezione, in quanto riporta una breve ma incisiva descrizione autobiografica. Miccoli lo definisce «rievocazione e [...] riepilogo della propria individuale conversione ed esperienza religiosa» ed evidenzia come la cifra denotativa dell’esperienza di Francesco insista sulla sua conversione, da intendersi quale rovesciamento completo «nei criteri di valore e nel giudizio». La semplicità – intesa anche nel senso di essere illetterato, idiota8 – è assunta quale «parola chiave» per comprendere Francesco e si lega indissolubilmente alla centralità della Croce di Cristo nella sua parabola esistenziale9. Una centralità vissuta in maniera semplice, cioè, nella fattispecie, letterale: Francesco volle tornare alla semplicità e alla difficoltà perfette del Vangelo scegliendo di viverlo «sine glossa»10. In quella scrittura, tanto spiritualmente solenne e importante, non v’è traccia di «pazzus». Francesco non utilizza quel termine per rivelare la propria identità: preferisce incardinarla sulla penitenza/contrizione, sull’uscire dal secolo e, appunto, sulla Croce che redime il mondo – poenitentiam; exivi de saeculo; sanctam crucem11 –. L’elemento esterno che frate FranFrancesco perché ripropone la “pazzia” del Cristo e degli apostoli, la logica della Croce”, g. miccoli, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino, Einaudi, 1991, p. 44, p. 52. Si vedano anche le riflessioni di a. marini, Dalla sequela alla conformitas. Una ricerca su fonti francescane, «Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani», 7, 2005, pp. 69-87 e di m. p. alberzoni, Spunti per una rilettura del ‘Testamentum’ di Francesco d’Assisi, in C. Alraum, A. Holdonner, H. Lehner, C. Scherer, T. Schlauwitz, V. Unger eds, Zwischen Rom und Santiago. Festschrift für Klaus Herbers zum 65. Geburtstag, Winkler, Bochum, 2016, pp. 261- 272. 8 a. bartoli langeli, Le radici culturali della “popolarità” francescana, in Il francescanesimo ed il teatro medievale, Atti del Convegno Nazionale di Studi, San Miniato 1982, Castelfiorentino, Società Storica della Valdelsa 1984, pp. 41-69; recentemente m. p. alberzoni, Santa povertà e santa semplicità. Francesco d’Assisi e la Chiesa Romana, Milano, Vita e Pensiero, 2015. 9 Ivi, pp. 76-78, pp. 33-87. Vd. anche g. g. merlo, Intorno a Frate Francesco: uomini e identità di una nuova “fraternitas”, in I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica, Atti del XIX Convegno internazionale, Assisi ottobre 1991, Spoleto, CISAM, 1992, pp. 315338. «Francesco si avvicina, sebbene in maniera personalissima e pressoché unica, a certa tradizione monastica. Il pensiero della Croce come luogo della regalità di Cristo era stato recepito dalla tradizione cristiana: basterà ricordare il regnavit a ligno Deus di Venanzio Fortunato. Ma lo stesso capitale testo di Giovanni 12, 32-33 (Si exaltatus fuero a terra omnia traham ad me ipsum), indica chiaramente una regalità e un dominio che scaturiscono dalla immolazione sulla Croce. Francesco è estremamente sobrio ed essenziale nello scrivere, tuttavia sembra difficile sottrarsi alla concezione che il per sanctam crucem tuam redimisti mundum del Testamento evochi la Croce come strumento di vittoria ma anche di sofferenza e di passione», r. rusconi, Francesco d’Assisi un uomo nella storia, in Francesco, un “pazzo” da slegare, Assisi, Cittadella Ed., 1993 (2), pp. 50-69, in particolare pp. 50-52. 10 a. vauchez, François d’Assise entre littéralisme évangélique et renoveau spirituel, in Frate Francesco d’Assisi, Atti del XXI Convegno Internazionale, Assisi ottobre 1993, Spoleto, CISAM, 1994, pp. 185-198. 11 «Dominus ita dedit mihi fratri Francisco incipere faciendi poenitentiam: quia, cum essem in peccatis, nimis mihi videbatur amarum videre leprosos. Et ipse Dominus conduxit me inter illos et feci misericordiam cum illis. Et recedente me ab ipsis, id quod videbatur mihi amarum, conversum fuit mihi in dulcedinem animi et corporis; et postea parum steti

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cesco presenta quale prova provata della mano di Dio su di sé è il nuovo rapporto che vive con i lebbrosi. Essi passano dall’essere causa di amarezza a causa di dolcezza per l’anima e per il corpo. Semplicemente Francesco Francesco, dunque, non si autodefinisce «pazzus», per quanto esprima con forza il ribaltamento totale di sé causato dalla conversione; ciò nonostante i suoi primi compagni lo definiscono così e poiché l’espressione è impattante e connotata, è difficile pensare che fosse una loro esclusiva invenzione. A mio modo di vedere il «pazzus» della Compilatio potrebbe essere un “folle in Cristo”, uno degli antichi “folli in Cristo”, monaci ed eremiti che abiurano al mondo restando a vivere nel mondo, di cui parlano la liturgia e le fonti latine e volgari escusse sin qui e che correttamente è messo in campo dalla Compilatio poiché costituisce l’antinomia perfetta dell’icona del fondatore colto. Non possiamo poi escludere che Francesco stesso abbia tratto una qualche ispirazione sulla forma di vita religiosa da condurre anche dalla conoscenza delle res gestae dei saloì occidentali: come costoro predilesse il ritiro in chiese semi-dirute, come loro volle costruire le celle con le sue mani, come loro volle lavorare, come loro volle essere disprezzato, vilipeso e schernito, come loro volle amare gli ultimi, i reietti, che nella sua particolare visione del mondo erano i lebbrosi, come loro compì gesti plateali ed estremi d’amore per Cristo. Gesti che parevano follia. Se frequentava, per lettura o per ascolto, racconti in volgare francese – e li frequentava, non a caso Tommaso da Celano lo ritrae mentre canta canzoni d’amore a Cristo in antico francese sottolineando la conoscenza della lingua e della letteratura cortese da parte sua – con estrema facilità si sarebbe potuto imbattere nei testi ricordati nel capitolo precedente. Avrebbe ben potuto conoscere le Vies des Pères o qualche Roman in cui compariva Robert le Diable o l’eremita folle in Cristo, o i loro volgarizzamenti, o aver udito in qualche predica un exemplum simile all’exemplum di Etienne de Bourbon. Tuttavia rimane difficile da provare, per quanto mi sembri ipotizzabile. L’indagine su «pazzus», infatti, non può che situarsi su un metaforico secondo livello, quello della trasmissione dell’immagine del santo e, a sua volta, quella trasmissione presenta vari sottolivelli interni, per così dire, scanditi sul filo della cronologia e delle diversità et exivi de saeculo. Et Dominus dedit mihi talem fidem in ecclesiis, ut ita simpliciter orarem et dicerem: Adoramus te, Domine Jesu Christe et ad omnes ecclesias tuas, quae sunt in toto mundo, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redimisti mundum.», Testamentum, 1-5 in k. esser ed., Die Opuscula des hl. Fraziskus von Assisi, Romae, Collegii S. Bonaventurae, 1976 (Spicilegium Bonaventurianum 13], pp. 440-441.

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contestuali. Che, però, chi ha scritto la Compilatio avesse ben presente quel parco di fonti e quindi utilizzasse «pazzus» per definire Francesco come “folle in Cristo”, mi pare davvero plausibile. L’espressione ritorna anche nello Speculum Perfectionis e ciò non stupisce, tanto più se si accolgono le conclusioni raggiunte dagli studi che rintracciano una precisa genetica testuale tra le due scritture, perché la Compilatio sarebbe la fonte dello Speculum12. In definitiva mi sembra che una parte del neonato Ordine non completamente conforme e concorde con quella tendenza che, dopo l’analisi di Merlo, possiamo definire nei termini di minoritismo dominativo13 volesse avvicinare la figura e l’esperienza di Francesco agli antichi padri del monachesimo orientale, e in particolare, agli eremiti “folli in Cristo” le cui gesta eroiche circolavano affidate alla letteratura devota e a quella liturgica. È anche la caratterizzazione eremitica sovrastante le figure dei saloì conosciuti in Occidente che mi spinge a ritenere plausibile il riferimento a costoro, oltre a una sicura – ma generica – evocazione dei versetti di Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi. Si trattava di una caratterizzazione di rottura e che, sotto traccia, rimetteva in questione il complicato rapporto dei fratres con la conversatio eremitica intesa come forma di vita non chiericalizzata, in cui i fratelli laici pregavano, si muovevano a conforto degli ultimi e lavoravano con le loro mani. Del resto proprio gli eremi sarebbero diventati i centri propulsori del dissenso interno14. Un filo sottile percorre le testimonianze agiografiche su Francesco prima della Legenda di Bonaventura, è il filo sottile dell’alterità dei comportamenti del santo, circonfusa da un’aura eremitica nell’accezione peculiare ricordata prima. Quel filo sottile non si spezza, s’interrompe con la bolla di canonizzazione di Francesco, con la Vita di Tommaso da Celano e soprattutto con quella di Bonaventura, per essere ripreso dalle fonti agio-biografiche prodotte dai gruppi di frati in disaccordo: la Legenda Trium Sociorum15, il De inceptione vel D. solvi, Speculum perfectionis status fratris minoris: edizione critica e studio storico letterario, Firenze, Sismel, 2006, p. LXIII. 13 «[…] Minorità corrisponde a quello che potremmo anche definire il francescanesimo subordinativo, coincidente con la proposta cristiana e l’esperienza religiosa di frate Francesco, mentre a minoritismo dovremmo aggiungere l’aggettivo dominativo in modo da connotare in estrema sintesi la vicenda dei frati Minori, che è vicenda di affermazione nella Chiesa e nella società. », Id., La minorità di frate Francesco, p. 35. 14 F. accrocca, Dall’alternanza all’alternativa. Eremo e città nel primo secolo dell’Ordine francescano: una rivisitazione attraverso gli scritti di Francesco e le fonti agiografiche, «Via spiritus», 9, 2007, pp. 7-60, p. 15; Cfr. G. g. merlo, Tentazioni e costrizioni eremitiche, in id., Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, Assisi, Ed. Porziuncola, 1991, pp. 113-130; Id., Dal deserto alla folla: persistenti tensioni del francescanesimo [1989], ivi, pp. 13147; e b. roest, The Franciscan Hermit: Seeker, Prisoner, Refugee, «Church History and Religious Culture», LXXXVI, 2006, pp. 163-189. 15 La Legenda fu sicuramente composta dopo il 22 agosto 1241, poiché riferisce della morte di Gregorio IX, m. espositi, De inceptione vel fundamento Ordinis, Legenda 12

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fundamento Ordinis16, la Compilatio Assisiensis, lo Speculum Perfectionis e poi i Fioretti – una fonte tanto significativa per rintracciare le descrizioni della santa follia da suggerirne una trattazione a sé stante, come vedremo a breve – e la quattrocentesca Franceschina. Ed è quel filo che denota Francesco anche, per quanto non esclusivamente, come «novellus pazzus» di una pazzia staurologica e apostolica. Proviamo, adesso, a seguirlo. Giacomo da Vitry nel 1216 già coglieva l’originale sintesi tra eremitismo e attività pastorale distillata da Francesco e dai suoi più antichi compagni: di giorno entravano nelle città e nei castelli per evangelizzare, di notte si ritiravano in preghiera nei loro eremi17. Francesco ricercava luoghi solitari, dove pregare; secondo la Regula non bullata i suoi fratelli si suddividevano in coloro che predicano, coloro che lavorano, coloro che pregano e sicuramente chi era destinato alla preghiera espletava il suo mandato in posti solitari18. Infine Francesco compose una Regola per gli abitatori degli eremi19. L’exire de mundo del Testamentum è suggello dell’intera conversione del fondatore ed è una ripresa del concetto premonastico di essere trium sociorum e Liber de laudibus: verso un comune nucleo narrativo, «Frate Francesco», 78, 2012, n. 2, pp. 337-368, p. 342. Sul De inceptione: l. di Fonzo, L’anonimo Perugino tra le fonti francescane del sec. XIII: rapporti letterari e testo critico, «Miscellanea Francescana», 2, 1972, pp. 117-483; p. b. beguin, L’Anonyme de Pérouse: un témoin de la fraternité franciscaine primitive confronté aux autres sources contemporaines, Paris, Les Éditions Franciscaines, 1979, F. accrocca, Un’opera preziosa e a lungo dimenticata: De inceptione vel fundamento Ordinis, «Frate Francesco», 71/1, 2005, pp. 169-201 adesso in Id., Un santo di carta, cit., pp. 95-131; g. miccoli, De inceptione (o “Anonimo Perugino”), «Vita Minorum», 84, 2013, pp. 7-46. Si vedano anche le considerazioni sulla legenda choralis umbra e i tre scenari/contesti possibili ipotizzati da J. dalarun, Vers une résolution de la question franciscaine: la Légende ombrienne de Thomas de Celano, Paris, Librairie Arthème Fayard, 2007 in particolare le pp. 188-218. 16 Gli studiosi non sono d’accordo sulla data di composizione dell’opera: una parte opta per il lasso di tempo compreso tra il 4 marzo del 1240 e il 22 agosto del 1241, mentre Felice Accrocca ha proposto – a mio modo di vedere in maniera convincente – una retrodatazione agli anni Trenta del ‘200. L’autore sarebbe frate Giovanni, primo compagno di Francesco, che raccolse le memorie di Egidio e di Bernardo: F. accrocca, Un’opera preziosa e a lungo dimenticata: De inceptione vel fundamento Ordinis, cit.. Anche secondo Paciocco e Pellegrini sia la Legenda, sia il De inceptione farebbero parte di una serie di testi composti per il processo di canonizzazione, r. paciocco, “Sublimia negotia”. Le canonizzazioni dei santi nella curia papale e il nuovo Ordine dei frati minori, Padova, Centro Studi Antoniani, 1996 (n. 22), pp. 119-142; l. pellegrini, Dal testo ai contesti: ripercorrendo la tradizione manoscritta dell’Anonymus perusinus e della Legenda Trium Sociorum, «Studi Medievali e Moderni», 1, 1997, pp. 31-47. Cfr. le valutazioni di M. espositi, De inceptione vel fundamento Ordinis, Legenda trium sociorum e Liber de laudibus. 17 «De die intrant civitates et villas, ut aliquos lucrifaciant operam dantes actione; nocte vero revertuntur ad heremum vel loca solitaria vacantes contemplatione», r. b. c. huygens, Lettes de Jacques de Vitry (1160/1170-1240), évêque de Saint-Jean d’Acre. Edition critique, Leiden, Brill, 1960, pp. 75-76; citato anche in F. accrocca, Dall’alternanza all’alternativa. Eremo e città nel primo secolo dell’Ordine francescano: una rivisitazione attraverso gli scritti di Francesco e le fonti agiografiche, «Via spiritus», 9, 2007, pp. 7-60, p. 8. 18 Accolgo pienamente la lettura di Felice Accrocca, ivi, p. 10. 19 Ivi. Di Accrocca accolgo anche la datazione della Regola intorno al 1220, p. 12.

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nel mondo ma non del mondo, o più semplicemente, la messa in pratica dell’insegnamento lasciato da Cristo ai discepoli20. Da esso derivavano la scelta di stare con i lebbrosi, con gli emarginati, fino alla ricerca di essere scambiati per alcuni di loro, di rifiutare un lavoro stabile e nei limiti del possibile una fissa dimora, di essere “giullari”, cioè uomini senza onore, di rifiutare il potere in ogni sua forma ed estrinsecazione volendo restare dei laici consacrati, di vivere lavorando21. Il gruppo francescano più antico, insomma, desunse un’originale forma di vita riformata e un altrettanto originale pendolarismo tra eremo e città22. Tale pendolarismo s’interruppe bruscamente dopo il 1246, gli eremi divennero via via più marginali rispetto al resto degli insediamenti minoritici e, in parallelo, la forma vitae che lì si conduceva – secondo i ruoli alternanti detti da Francesco stesso di madri (le Marte evangeliche) e di figlie (le Marie evangeliche) – lontano dalla cura pastorale e finanche dal dialogo con i laici, finì per cedere il passo alla declinazione urbana e pastorale del minoritismo bonaventuriano. Così gli eremi divennero i luoghi del dissenso23. Già all’epoca del Capitolo delle Stuoie la tensione interna era evidente: da un lato i fratelli laici e legati alla scelta eremitica, al lavoro, al servizio presso gli ultimi, dall’altro i fratelli decisi a mettere l’Ordine a servizio della riforma della Chiesa. In maggioranza i laici eremiti erano originari del centro-Italia e avevano conosciuto personalmente Francesco, condividendone l’esperienza fin dagli inizi della sua conversione24. Felice Accrocca sottolinea come sia rivelatrice in tal senso la memoria agiografica di frate Egidio, con la sua alternanza di periodi di ritiro negli eremi con periodi di esercizio della mendicità e del lavoro. Tuttavia la bolla di canonizzazione di Gregorio IX, Mira circa nos, riconoscendo la santità di Francesco, ne fissò autorevolmente anche i connotati, semantizzandone l’azione nel senso di missione al servizio della chiesa. La successiva Quo elongati del 1230 precisò il ruolo del Tea. pompei, Influsso sociale e culturale del francescanesimo nel Medioevo, in Il francescanesimo e il teatro medievale, Atti del convegno Nazionale di studio San Miniato 8-10 ottobre 1982, Castelfiorentino, società Storica della Valdelsa 1984, pp. 21-40, p. 25; cfr. anche g. cremascoli, Exire de saeculo. Esame di alcuni testi della spiritualità benedettina e francescana (secc. XIII-XIV), Roma, Rari Nantes, 1982. 21 g. miccoli, La proposta cristiana di Francesco d’Assisi, «Studi Medievali», 3s., XXIV, 1983, pp. 17-73, p. 66. 22 g. g. merlo, Tentazioni e costrizioni eremitiche, in Id., Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, cit., pp. 114-115, p. 120; F. accrocca, Dall’alternanza all’alternativa. Eremo e città nel primo secolo dell’Ordine francescano, cit. p. 8. 23 Ivi, p. 14. 24 Cfr. s. bruFani, “Ordinem secundum sua statuta reformavit”: Francesco d’Assisi nella crisi del ’200, «Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani», XV, 2013, pp. 1-48. 20

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stamentum di Francesco, di fatto scavalcandolo: la missione pastorale dell’Ordine aveva avuto il sopravvento su tutto il resto. Per quanto la Mira circa nos avesse condizionato le redazioni agiografiche di Tommaso da Celano, è ancora possibile recuperare in queste scritture alcune caratterizzazioni del santo che attestano una certa «pluralità di registri»25. Nel capitolo secondo della Vita (prima) Tommaso da Celano ritrae Francesco ammalato ma in procinto di vivere quella straordinaria conversione che lo avrebbe completamente trasformato26. Ancora convalescente Francesco inizia a vivere la divaricazione tra la sapienza donata da Dio, che è stoltezza agli occhi degli uomini, e conoscenza data dal secolo, stoltezza agli occhi di Dio. Così ritiene stultissimum chi si lascia irretire dalla bellezza del creato senza trascorrere alla bellezza infinita del Creatore. Affinché la conversione sia perfetta ci sarà bisogno che Francesco si isoli completamente: nella fovea della chiesetta dove ha chiesto asilo al povero prete prima di consacrarsi totalmente a Dio e a Madonna Povertà, piange in preda alla contrizione per i propri trascorsi, si dispera e alla fine ne riemerge completamente rinnovato. Uscito da lì si dirige verso Assisi. Ormai è un altro uomo, macerato dai digiuni e dalle penitenze. Ed è proprio in virtù di questo suo cambiamento che sembra esser diventato pazzo. Secondo lo stilema tipico della narrazione delle gesta dei saloì la sua entrata in città è contraddistinta dalla sanzione pubblica: i cittadini lo prendono per matto e ne accolgono l’ingresso lanciandogli contro pietre e fango. «Cuncti qui noverant eum» – si legge nella Vita prima di Tommaso da Celano – «comparantes ultima primis, coeperunt illi miserabiliter exprobare et insanum ac dementem acclamantes, lutum platearum et lapides in ipsum proiciunt. Cernebant eum a pristinis moribus alteratum et carnis maceratione valde confectum, et ideo totum quod agebat exinanitioni et dementiae imputabant»27. Il convertito reputa gli altri pazzi ed essi lo giudicano stolto: torna anche qui il binomio concettuale che abbiamo rintracciato in molte fonti agiografiche e di ammaestramento spirituale. Del resto Francesco, fino al momento della conversione, aveva vissuto nella largesse, accarezzando sogni cavallereschi, divertendosi e comportandosi secondo modelli aristocratici28. La sua repentina abiura al secolo risulta spiazzante. Non si tratta di una caratteristica esclusiva dell’agiografia scritta da Tommaso Ivi, p. 20. 26 tommaso da celano, Vita Prima, in Legendae S. Francisci Assisiensis saeculis XIII et XIV conscriptae ad codicum fidem recensitae a patribus collegii, Analecta Franciscana sive Chronica aliaque varia documenta ad historia fratrum minorum spectantia, Tomo X, Florentiae, Ad Claras Aquas, 1926-41, pp. 3-117, p. 7. 27 tommaso da celano, Vita Prima, cit., p. 12. 28 Cfr. F. cardini, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1989 e J. dalarun, Francesco: un passaggio. Donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi, Roma, Viella, 1994. 25

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da Celano. Per esempio Ranieri da Pisa, pellegrino e penitente morto nel 1160, quando fu convertito da Dio ricevette il dono delle lacrime e iniziò a piangere i propri trascorsi peccaminosi in maniera giudicata eccessiva da quanti lo conoscevano, tant’è che genitori, parenti e amici iniziarono a ritenerlo matto e perciò lo volevano incatenare29. Ancora Tommaso da Celano riporta alcuni comportamenti in odore di follia del santo di Assisi: Francesco si denuda completamente, diventa oggetto di scherno per chi lo vede e persino i bambini infieriscono su di lui30. Umberto di Romans, nella Legenda Liturgica Ordinis Praedicatorum registra fedelmente e scrive: «Et eum pueri quasi fatuum com luto et lapidibus sequebantur», parlando di ciò che accadde dopo la solenne rinuncia al mondo proferita da Francesco di fronte al vescovo di Assisi31. La “pazzia” di cui ci narra Tommaso è frutto della conformazione di Francesco a Cristo, è effetto di un’ascesi rigorosa messa in pratica da chi, molti anni più tardi e in ben altri contesti, Pietro di Giovanni Olivi definirà «Christiferum»32. Tommaso da Celano commentando l’umoristica (carnevalesca) affermazione di Francesco «gaude, frater corpus, et parce mihi quia, ecce, iam tua placita libenter perficio, libenter tuis querulis affectibus subvenire festino!» scrisse: «sed quia iam extintum poterat delectare corpusculum? Quia sustentare omni parte collapsum? Mortuus est Franciscus iam mundo, sed Christus vivebat in eo!»33. Le “follie” di Francesco sono ascritte alla sua mistica morte vivente e legittimate attraverso i versetti di Paolo. L’eccezionalità del comportamento del santo è via via sottratta alla riproposizione mimetica grazie agli sforzi dei suoi agiografi, soprattutto grazie a quelli di Bonaventura da Bagnoregio. Imitabile e da imitare è lo spirito di Francesco, non i suoi gesti. Erano troppi gli elementi de«Cum uiderent eum sic profuse plorantem, dolentes nimium et flentes quasi unicum masculum dicebant: Heu fili mi, oculorom nostrum lumen, quis tibi sensum abstulit? Que te amentia tam subito arripuit? [...] ipsi et eorum cognati et consanguinei atque uicini, in insaniam et furorem uersum pro certo asserentes. Sic quoque eum in catenis uincere uolebant, et quasi ad insanum uicini et alii uidendum correbant», r. grégoire, San Ranieri di Pisa (1117-1160) in un ritratto agiografico inedito del secolo XIII, Pisa, Pacini, 1990, pp. 115116. I suoi genitori ritenevano che fosse impazzito perché aveva vissuto in maniera troppo irregolare: «Nonne tibi in plateis, ut non pernoctares, dicebamus? Et ut nocturno tempore intra tuam domum quiesceres, et ne extra domum uagares, quia hoc tibi contingerent sedulo monebamus?», ivi, p. 115. Si veda inoltre il recente m. ronzani, Ranieri, Benincasa e il Barbarossa. Peripezie di un culto nella Pisa dei secoli XII-XIV, Pisa, Pisa University Press, 2016. 30 tommaso da celano, Vita Prima, cit., p. 14. Sul ruolo dei bambini o. niccoli, Compagnie di bambini nell’Italia del Rinascimento, «Rivista Storica Italiana», CI, 1989, pp. 351-369. 31 umberti de romanis Legenda Liturgica Ordo Praedicatorum, in Analecta franciscana X, Quaracchi-Firenze 1926-41, pp. 535-536, p. 535 di recente ripubblicata nel capitolo 25 del libro di F. sedda con la collaborazione di J. dalarun, Franciscus liturgicus. Editio Fontium saeculi XIII, Padova, EFR, 2015. Cfr. inoltre anche l’utile volume di a. Welch, Liturgy, Books and Franciscan Identity in Medieval Umbria, Leiden, Brill, 2015. 32 d. Flood ed., Peter Olivi’s Rule Commentary. Edition and Presentation, Wiesbaden, F. Steiner, 1972 (Veröffentlichungen des Instituts für europäische Geschichte Mainz. 67.), p. 115. 33 tommaso da celano, Vita prima, cit., p. 31. 29

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sumibili dall’esempio offerto da Francesco che potevano trasformarsi in elementi ambigui se recepiti in maniera rigorista, troppi e pericolosamente suscettibili di sfuggire al nuovo corso del francescanesimo imposto dall’aver declinato la missione dell’Ordine nel senso del servizio alla Chiesa. Francesco che non si cura del proprio aspetto esteriore, Francesco che mangia cose disgustose, Francesco laico e illetterato che vaga predicando, circondato da compagni che l’hanno seguito semplicemente, in virtù del suo carisma. Infine Francesco povero, privo di mezzi e di cultura, che in nome dell’umiltà esalta l’essere ultimo e perciò minore, confidando esclusivamente nella Provvidenza divina34. La trasfigurazione cristica di Francesco messa in campo da Tommaso da Celano è perfezionata dalla Legenda Maior di Bonaventura: Francesco ne emerge perfettamente conformato a Cristo e fondatore di un Ordine che ripercorre le vicende dell’intera Chiesa. Ed è anche attraverso questa scrittura agiografica che si distilla e si afferma «un concetto di fedeltà» all’insegnamento di Francesco «diverso da quello letterale»35. Bonaventura ha ben presente l’esistenza dell’eccesso d’amore per Dio che conduce a santa follia, tant’è che scrive: «Excessus amoris, quando anima in vituperiis, in tribulationibus semper sentit iucunditatem interius [...]. Et hunc reputant omnes stultus, et ipse reputat omnes stultos, et secundum veritatem sunt. Hoc est autem summum fidei et apex, ut per experientiam inebrietur et iam nil curet de mundo»36. Alla luce di quest’interpretazione egli rubrica la sancta insania di san Francesco nella Legenda Maior37, non negandola, dunque, ma Ad esempio: «Dixit quandoquidem socio suo: Non mihi videor frater minor nisi fuero ei statu quem tibi descripsero – et ait – Ecce, praelatus existens fratrum, vado ad capitulum, praedico, commoneo fratres, et in fine dicitur contra me: non convenit nobis illetteratus et contemptibilis, ideo nolumus te regnare supra nos, quia elinguis est, simplex et idiota! tandem eicior cum opproprio, vilipensus ab omnibus, dico tibi, nisi eodem vultu, eodem mentis laetitia, eodem sanctitatis proposito haec verba audiero, frater minor nequaquam sum», tommaso da celano, Vita secunda, in Legendae S. Francisci Assisiensis saeculis XIII et XIV conscriptae, p. 214. 35 g. miccoli, Bonaventura e Francesco, in S. Bonaventura francescano, Todi 14-7 ottobre 1973, Convegni del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale, Todi, Accademia Tudertina, 1974, pp. 49-73, pp. 55-56; Bonaventura confidava le ragioni della sua scelta francescana in questi termini: «Confesso davanti a Dio che ciò che mi ha fatto soprattutto amare e scegliere la forma di vita francescana è stata la sua somiglianza con l’inizio e la perfezione della chiesa, che prima ebbe principio da semplici pescatori e in seguito progredì fino a comprendere insigni e valentissimi dottori; e la stessa cosa si può vedere che è avvenuta nell’ordine di san Francesco, perché mostrasse che non fu creato dagli uomini, ma da Cristo», bonaventurae Epistula de tribus questionibus ad magistrum innominatum, in Opera omnia, Quaracchi, Collegii S. Bonaventurae, 1882-1902, vol. VIII, pp. 331-336. Cito dalla traduzione di orlando todisco nell’Introduzione a bonaventura, Itinerario della mente in Dio, Padova, Messaggero, 1993, pp. 5-76, p. 6. 36 bonaventurae In Hexaemeron Collatio, in Opera omnia, Vol V, IX, 29, pp. 3-27, 376; Cfr. anche De triplici via, Ivi, vol. VIII, II, 4-10, p. 10, con forte collegamento ai commenti della I Cor di Paolo. 37 bonaventura, Legenda Maior, in Opera omnia, vol. VIII, pp. 504-564,p. 584, p. 606. 34

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stagliandola su un orizzonte teologico ed ecclesiologico ben preciso e funzionale alla creazione della figura veneranda di un santo inarrivabile. Gli episodi cui Bonaventura si riferisce, dunque, sono scelti come dimostrazione inequivocabile della potenza di Dio su Francesco e anche su qualcuno tra i suoi primi compagni, circonfondendoli di una spessa aurea di inimitabilità. L’operazione condotta dal teologo è geniale: nell’agiografia conserva racconti scomodi e li risemantizza completamente, trasformandoli in pilastri fondanti un’interpretazione che inserisce appieno san Francesco e i compagni nella storia della Chiesa e dell’intera umanità. Nell’Epistola magistro dichiara senza mezzi termini la specularità perfetta tra la costituzione dell’Ordine e l’istituzione della Chiesa. Come Cristo con i dodici apostoli fondò una comunità di poveri pescatori che si è evoluta fino a comprendere ingegni altissimi, così san Francesco con i soci delle origini, laici e non istruiti, ha creato un’istituzione che, progressivamente, si è allargata e ha prima coinvolto e poi creato intellettuali di chiara fama. Chi vuole aderire all’esempio del santo diventi frate minore, entri in un Ordine in cui il fondatore e il primitivo gruppo carismatico sono venerati ed esaltati, ma si comporti secondo la Regola dell’Ordine. Bonaventura ci consegna il ritratto di un uomo formato da Dio che, a sua volta, forma un Ordine. Sarà l’Ordine, da allora in poi, a formare i francescani. In altre fonti gli episodi di follia per Cristo riferiti a Francesco e ai suoi primi compagni non sono immuni da una valenza polemica e di rottura con la tradizione “bonaventuriana”. Tuttavia l’effetto finale non sarà troppo difforme rispetto a quello della Legenda maior: in entrambi i casi infatti si traccerà un modello di santità più da venerare che da imitare. Rapidamente Francesco e i suoi primi undici compagni vengono accreditati come il gruppo apostolico. L’operazione letteraria – spirituale di specchiamento della Parola di Dio nella storia sorte l’effetto di cristallizzare l’icona di Francesco – alter Christus e degli undici (dodici con l’apostata) come apostoli. Che li si invochi per legittimare, alla maniera di Bonaventura, il passaggio del movimento a Ordo impegnato nella riforma della Chiesa e della società, o che li si invochi, alla guisa degli zelanti della Regola, quale sublime modello da imitare con il pristino rigore, in definitiva non se ne cambia lo statuto di inarrivabilità. Francesco e i suoi compagni La memoria agiografica di Francesco è profondamente allacciata alla memoria del primo gruppo di compagni38, che con lui condivide Sulla prima generazione francescana si veda: I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica, Atti del XIX Convegno internazionale, Assisi 17-19 ottobre 1991, Spoleto, 38

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l’eccesso di zelo per la Croce, a sua volta causa di una sorta di sacra e santa pazzia. Il gruppo è il protagonista assoluto del De inceptione, che lo presenta come inviato da Dio per redimere il mondo39. Quando i suoi membri attraversano città e castelli sono accompagnati dal mormorio della folla perché dubita della loro salute mentale: sono talmente umili e stracciati da far sospettare che siano pazzi o ubriachi. Non soltanto gli estranei nutrono quel dubbio: i loro familiari e consanguinei sono stati i primi a pensare che fossero impazziti40. Il V capitolo del De inceptione – De persecutionibus quas fratres euntes per mundum perpessi sunt – ripropone lo iato tra Cristo e il secolo. La pazzia mondana giudica pazzesca l’adesione a Cristo, perciò i seguaci di Francesco sono scambiati per pazzi e come loro trattati: quanti li incontravano per strada li sporcavano di fango sulla testa, mettevano loro in mano i dadi da gioco per scherno o li trascinavano sulla schiena, appesi per il cappuccio41. Sin qui non compare niente di nuovo: è il solito trattamento riservato ai folli. Più peculiare è la somiglianza tra i francescani e gli uomini selvatici messa in campo dalla fonte, dove si legge: «Omnibus enim aliis habitu et vita dissimiles, silvestres homines videbantur»42. Per parte loro i membri del gruppo si sottoCisam, 1992, in particolare g. g. merlo, Intorno a frate Francesco: uomini e identità di una nuova “fraternitas” ivi, pp. 315-338, in particolare pp. 334-338. 39 «Deus [...] nolens mortem peccatoris sed ut convertatur et vivat, sua benignissima misericordia voluit operarios mittere in messem suam», Anonimo Perugino o De Inceptione vel Fundamento Ordinis et actibus illorum Fratrum Minorum qui fuerunt primi in religione et socii B. Francisci, in L. di Fonzo, L’Anonimo Perugino tra le fonti francescane del sec. XIII, rapporti letterari e testo critico, «Miscellanea Francescana», 1972, pp. 434-446. Cfr. inoltre gratien de paris, Histoire de la fondation et de l’évolution de l’Ordre des Frères Mineurs au XIIIe siècle, bibliogaphie mise à jour par M. D’Alatri e S. Gieben, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1986 [1° Edizione Gembloux, J. Duculot, 1928], I, 3a, p. 435. 40 «Quidam eorum dicebant quia stulti vel ebrii videntur. Alii autem dicebant: “non sunt verba stultorum ea quae proferunt ore suo”. Respondens unus eorum dixit: “propter summam perfectionem Domino adhaeserunt aut insani facti sunt, quia vita corporis eorum desperata videtur. Nudis pedibus ambulant, viles vestes induti sunt, parco cibo utentes”. Adhuc tamen non sequebantur eos. Mulieres autem iuvenculae, videntes eos a longe, fugiebant paventes ne forte stultitiae tenerentur”. Anche in famiglia: “Propter hoc autem persequebantur eos parentes eorum et consanguinei, et alii deridebant, quia eo tempore nulla inveniebatur qui omnia sua relinqueret et iret petendo elemosinas ostiatim», Anonimo Perugino, cit., 16a-17a, pp. 442-443. Si veda anche a. barbero, Un santo in famiglia. Vocazione religiosa e resistenze sociali nell’agiografia latina medievale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991. 41 «Et multi qui videbant et audiebant eos, deceptores vel fatuos aestimabant. [...] Et propter hoc in multis locis inferebantur iniuriae multae eis [...]. Et quibusdam lutum in capite iactabant; cuidam quoque eorum taxilli in manu fuerunt positi, si vellet ludere invitando. Quidam autem frater post dorsum ciuisdam portatus fuit, appensus per caputium, quantum placuit portitori. Haec eis et multa alia faciebant affligentes eos, quae idcirco non dicimus», Anonimo Perugino, cit., 19a, 20a, 23a, pp. 445-7. Cfr. th. desbonnets, Legenda trium sociorum edition critique, “Archivum franciscanum Historicum”, 67, (1974), pp. 89-144. Per i rapporti tra De inceptione e Legenda, ivi, pp. 86-87. Gli episodi di cui sopra tornano ivi IX, 34, 35, 37, 38, 40, pp. 114-115, 117, 120. 42 Ivi, V, 19a, p. 445. Nella quattrocentesca Franceschina si rintraccia la medesima espressione, essi sono homini salvatichi. La Franceschina testo volgare umbro del sec. XV scritto

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mettevano lieti a quelle ingiurie: era il trionfo della sapienza divina, stoltezza per il secolo. Un testo straordinariamente ricco e dalle molteplici implicazioni qual è la Chronica XXIV Generalium43, incastona racconti piuttosto espliciti a questo proposito. La Chronica ci consegna l’immagine di Francesco che, dopo aver vissuto in abito eremitico per ben due anni, vi rinuncia a vantaggio di una povertà ancora maggiore, tanto da esser reputato «insanus» da molti cittadini di Assisi44. Dopodiché si narra del caro amico di Francesco e suo primo seguace Bernardo da Quintavalle. Anch’egli inizialmente non capiva se Francesco fosse impazzito oppure no, infatti lo invitò a casa propria per valutarne lo status – «ut eius sanctitate vel fatuitatem posset melius explorare» – e soltanto a seguito di quell’indagine si convinse e si convertì a sua volta, unendosi a lui45. Francesco di lì a breve lo avrebbe mandato a Firenze, in compagnia di un confratello. Giunti in città i due cercarono ospitalità e, dopo molti dinieghi, trovarono riparo soltanto presso una donna che acconsentì a farli dormire sotto il portico di casa sua, presso il forno esterno, nonostante la stagione fosse freddissima. Il marito, tornato a casa e vedendoli sotto il portico, li aggredì verbalmente e li cacciò. Bernardo e il suo compagno erano oltremodo felici per la sofferenza inflitta dal freddo pungente e dalle offese46. Il brano sottolinea il loro spirito di martirio, il loro accettare di buon grado d’essere maltrattati come se fossero davvero lestofanti. La volontà di abiezione appartiene a tutti gli undici primi compagni di Francesco ed egli, dal canto suo, è sempre ben disposto a rinfocolare desideri simili; anzi si adopra addirittura ad accenderli se ritiene che siano carenti. Così fece, ad esempio, con Rufino, costringendolo a predicare ad Assisi completamente nudo, in modo da fiaccarne l’orgoglio. La folla lo accolse ridendo e dandogli del matto, impazzito a causa dell’eccessiva penitenza. «Pueri autem et homines coeperunt ridedal P. Giacomo Oddi di Perugia edito per la prima volta nella sua integrità dal P. Nicola Cavanna O.F.M., Santa Maria degli Angeli, Tip. Porziuncola, 1929, 2 voll., I, p. 117. Per la prossimità tra uomini selvatici, boskoì e saloì cfr. infra, il 1 capitolo. 43 m. t. dolso, La Chronica XXIV Generalium. Il difficile percorso dell’unità nella storia francescana, Padova, Centro Studi Antoniani, 2003, in cui la studiosa evidenzia il ruolo ‘pacificatorio’ delle tensioni interne assegnato alla fonte dai suoi redattori. 44 Analecta Franciscana sive Chronica aliaque varia documenta ad historiam Fratrum Minorum spectantia edita a Patribus Collegii S. Bonaventurae, tomus III, Florentia, Ad Claras Aquas, 1897, p. 3. 45 Ibidem. 46 Lo sposo apostrofò la coniuge: «Quare istis ribaldis latronibus hospitium concessisti? – Respondit illa: – Ego intra domum eos recipere nolui, exterius vere eos dormire permisi, quia nihil nisi forte ligna inde possent furari. – Frater autem Bernardus tam de frigore et nuditate quam de verbis iniuriosis quia ipsos latrones vocabant, laetabatur, ac si thesaurum maximum invenisset», Chronica, p. 47. Cfr. l. di Fonzo, L’Anonimo Perugino tra le fonti francescane del sec XIII rapporti letterari e testo critico, cit., V, 20 b, p. 446; Th. desbonnets, Legenda trium sociorum edition critique, cit., X, 38, pp. 117-118.

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re» – si legge – «dicentes – O ecce, isti faciunt tantam poenitentiam quod efficiuntur amentes -». Francesco si denudò a sua volta e si unì a Rufino. Così gli abitanti di Assisi ritennero che anche Francesco fosse impazzito ma, dopo averne ascoltato la predica, si commossero e si convertirono47. La nudità, dunque, servì sia a spingere Rufino sulla strada dell’auto-mortificazione, sia a dimostrare al pubblico che cosa significasse rinunciare a sé. La nudità contraddistingue i matti ed è un mezzo di umiliazione potente. Essa ritorna con forza in testi più tardi e molto più polemici della Chronica: i Fioretti e la Franceschina, dove vengono accolti questo e altri episodi analoghi48. La Franceschina annota che Francesco aveva imposto il medesimo comportamento di Rufino anche a frate Angelo da Borgo San Sepolcro. Ancora nella Chronica si mostra come Bernardo da Quintavalle volle infliggersi giorni e giorni di disprezzo pubblico sulla piazza di Bologna, dove fu trattato da matto49. Fanno eco i Fioretti, dove sta scritto: E veggendo i fanciulli [Bernardo] in abito disusato e vile, sì gli facevano scherni e molte ingiurie, come si fa a uno pazzo. E frate Bernardo pazientemente e allegramente sosteneva ogni cosa per l’amore di Cristo. Anzi, acciò che meglio fosse straziato si puose studiosamente nella piazza della città; onde sedendo ivi, gli si ragunarono intorno molti fanciulli e uomini, e chi gli tirava il cappuccio di dietro, e chi dinanzi, e chi gli gittava polvere e pietre e chi lo sospingeva di là e di qua. E frate Bernardo sempre d’un modo e d’una pazienza, col volto lieto, non si rammaricava e non si mutava; e per di più ritornò a quel medesimo luogo per sostenere simiglianti cose50.

La compenetrazione profonda tra la mortificazione volontaria e il sospetto di pazzia che aleggia sui primi francescani segna persino una fonte totalmente altra rispetto alle agiografie. Si tratta della Rethorica Antiqua di Buoncompagno da Signa (1170 - post 1240), «Quem cum Assisates nudatum cernerent, velut fatuum deridebant putantes tam eum quam fratrem Rufinum propter poenitentiam insanire [...] sanctus Franciscus nudus ascendit pergulum et praedicavit tam stupendo», Ibidem. 48 La cosiddetta Franceschina fonte diretta del De conformitate vite beati Francisci ad Dominum Iesum, e imposta la questione della conformità dei frati a Francesco secondo lo schema delle virtù. Fu scritta dal frate osservante Giacomo Oddi tra 1474 e 1476. E. paoli, Osservazioni sulle ‘vite antiche’ di Jacopone da Todi, «Studi Medievali», 3° serie, XLIV, 2003, pp. 811-861, p. 849, La Franceschina, I, p. 293. Si veda poi la voce di l. pellegrini, Oddi, Iacopo, in D.B.I., LXXIX, 2013, pp. 110-113. 49 Chronica, cit., p. 59. 50 m. casella, I Fioretti di San Francesco, Firenze, Sansoni, 1926, pp. 13-14. In attesa che sia pubblicata l’edizione critica dei Fioretti annunciata da Sara Natale, si vedano F. Fascetti, La tradizione manoscritta tre-quattrocentesca dei Fioretti di san Francesco, «Archivum Franciscanum Historicum», 102, 2009, pp. 419-468, 103, 2010, pp. 41-94; S. natale, Attorno all’edizione critica dei Fioretti di san Francesco: riflessioni sull’ambiente di produzione degli Actus, Fioretti e Considerazioni sulle stigmate, «Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani», XV, 2013, pp. 173-208. 47

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dove sta scritto che i Minori erano giunti al grado estremo della follia perché sopportavano sofferenze orribili51. Un Liber exemplorum redatto tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo riporta un’interessante auto-definizione dei più antichi compagni di Francesco52. Il contesto è quello dell’incontro dei frati Agnello e Alberto con alcuni monaci inglesi, dopo esser stati inviati in Inghilterra da Francesco in persona. Il monaco che apre il portone del monastero cui hanno bussato, li scambia per giullari perché sono vestiti di stracci e con la faccia sconvolta. Il priore chiede chi siano ed essi sostengono d’essere giullari del regno celeste e dell’ordine degli apostoli53. In ciò riprendono la formula usata da Francesco per presentarsi ai briganti che incontra nel bosco, che lo picchiano e lo gettano nella fossa piena di neve dalla quale riemerge allegro e giulivo cantando le lodi dell’Altissimo54. Come Francesco fu alter Christus, i più antichi compagni furono apostoli. Come gli apostoli di Cristo, inebriati dallo Spirito, erano scambiati per pazzi e venivano disprezzati55, così avveniva anche per chi aveva intrapreso la strada buoncompagno da signa, Retorica Antiqua, in Fonti Francescane, Padova, Messaggero 1986, p. 1101. 52 l. oliger, Descriptio codicis S. Antonii de Urbe unacum Appendice textuum de S. Francisco, «Archivum Franciscanum Historicum», XIII, 1919, pp. 391-401. 53 «Videns eos facie squalidos, deformes habitu et alterius linguae, ioculatores existimans, nuntiavit priori […]. Servos Dei et praecones Regni celestis, et de ordine apostolorum», Ivi, p. 399. Su Agnello e Alberto in Inghilterra cfr. Tractatus Fr. Thomae vulgo dicti de Eccleston. De adventu Fratrum Minorum in Angliam, edidit notis et commentario illustravit A. G. Little, Paris, Librairie Fischbacher, 1909, pp. 4-5. 54 Araldo e giullare: tommaso da celano, Vita Prima, cit., p. 213. Attraversando un bosco Francesco è avvicinato dai briganti, i quali gli chiedono chi sia. Lui, appunto, si presenta come l’araldo del gran re. Per tutta risposta i briganti lo picchiano e lo gettano in una fossa piena di neve. Francesco ne riemerge esultante, cantando le lodi del Creatore. Franco Cardini, a questo proposito, scrive di lui: «un pazzo, certo; che aveva scelto di conferire alla sua pazzia una forma molto vicina a quella, rigorosamente formalizzata, dei lazzi giullareschi». Id., Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1989, p. 100. Per la follia santa di Francesco si veda anche a. cacciotti, Sapienza e stoltezza. Il motivo paolino di 1 Cor. 1, 17-31 in alcune elaborazioni spirituali del Tardo Medioevo, in Paolo di Tarso. Archeologia, storia, religione, a cura di L. Padovese, Torino, Effatà, 2009, pp. 281-302. 55 At. 2, 12-13. Francesco e socii vengono avvicinati agli Apostoli: tommaso da celano, Vita Prima, cit., pp. 23-24 [partono a due a due per evangelizzare], F. apostolica auctoritas, p. 34; F. Apostolorum vita et vestigia sequens, p. 67; exemplo apostolorum, p. 68; tommaso da celano, Legenda chori, in Analecta Franciscana X, pp. 119-30, binos, p. 121; giuliano da spira, Vita S. Francisci, ivi, pp. 335-371, binos, p. 343; bonaventura, Legenda Maior, cit., p. 12 come gli Apostoli, p. 569; p. 610. Qualche decennio più tardi, negli Actus Beati Francisci e nei Fioretti si legge: [Actus I, 1-9] «Primo ergo sciendum est quod b. n. p. Franciscus in omnibus suis actibus fuit Cristo conformis. Nam sicut Cristus benedictus in principio sue predicationis assumpsit sibi duodecim apostolos omnia relinquentes, ita b. Franciscus habuit duodecim electos socios paupertatem altissimam eligentes. Et sicut unus de duodecim apostolis laqueo se suspendit, ita unus de duodecim sociis predictis, fr. Iohannes de Capella nomine laqueo se suspendit. Et sicut illi sancti apostoli fuerunt toti mundo admirabiles et pleni Spiritu sancto, ita illi ss.mi socii s. Francisci fuerunt homines tante sanctitatis, quod a tempore apostolorum mundus non habuit tales. Nam quidam eorum fuit raptus usque ad tertium 51

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di colui che fu definito unus novellus pazzus in mundo. E per volere di Dio. L’alterità degli apostoli rispetto al secolo è di per sé santa pazzia: nel corso del Trecento, a Parigi, un monaco invocava gli apostoli prima di iniziare a predicare. L’invocazione era a sua volta preceduta dal grido «babimbaboo», il grido tipicamente utilizzato per accompagnare il passaggio dei pazzi per strada. Si tratta certamente di una notizia che può sembrare una nota di folklore ma che, piuttosto, è una nota esplicativa56. Le sante follie del gruppo primitivo dei francescani sono numerose. Nella Chronica Generalium leggiamo, ad esempio, che frate Egidio per ricordare i propri peccati entrò in un bosco dove chiamò a sé un frate fanciullo, si denudò, si fece mettere al collo una corda e si fece trascinare fino al luogo dov’erano riuniti gli altri fratelli mentre urlava a squarciagola «Miserere»57. La scelta del fanciullo per celebrare quell’improvvisato rituale di umiliazione è molto realistico: evoca le feste degli Innocenti o dei Folli e l’attivo ruolo di vessatori dei pazzi espletato dai ragazzini. Ancora Egidio lavorava distribuendo l’acqua nei pressi di una fonte in cambio dell’elemosina, raccogliendo le olicelum, ut fr. Egidius; quidam tactus fuit labiis ab angelo calculo ignito sicut Isaias, videlicet fr. Philippus Longus; quidam loquebatur cum Deo, ut amicus amico, videlicet fr. Silvester purissimus; quidam volabat ad divine sapientie lumina ut aquila, scilicet fr. Bernardus humillimus, qui scripturas profundissimas declarabat; quidam fuit santificatus a Domino et canonizatus in celo, dum adhuc viveret in hoc mundo, quasi sanctificatus in utero, scilicet fr. Rufinus, nobilis de Assisio. Et sic omnes speciali prerogativa fulserunt, sicut infra apparebit». [Fioretti I]: «In prima è da considerare che il glorioso messere santo Francesco in tutti gli atti della vita sua fu conformato a Cristo benedetto; imperò che, come Cristo nel principio della sua predicazione elesse dodici Apostoli a dispregiare ogni cosa mondana e seguitare lui in povertà e nell’altre virtù; così santo Francesco elesse al principio del fondamento dell’Ordine suo dodici compagni professori dell’altissima povertà. E come uno de’ dodici Apostoli di Cristo, riprovato da Dio, finalmente s’impiccò per la gola; così uno de’ dodici compagni di santo Francesco, ch’ebbe nome frate Giovanni della Cappella, apostatando, finalmente s’impiccò se medesimo per la gola. E questo è agli eletti grande esempio e materia di umiltà e di timore, considerando che nullo è certo di dovere perseverare insino alla fine nella grazia di Dio. E come que’ santi Apostoli furono a tutto il mondo maravigliosi di santità e pieni dello Spirito santo, così que’ santissimi compagni di santo Francesco furono uomini di tanta santità, che dal tempo degli Apostoli in qua il mondo non ebbe così maravigliosi e santi uomini: imperò che alcuno di loro fu ratto infino al terzo Cielo come santo Paolo, e questi fu frate Egidio; alcuno di loro, cioè frate Filippo Longo, fu toccato le labbra dall’Angelo col carbone di fuoco come Isaia profeta; alcuno di loro, cioè frate Silvestro, parlava con Dio comme fa l’uno amico coll’altro, a modo che fece Moisè, alcuno volava per sottilità d’intelletto infino alla luce della divina Sapienza come l’aquila, cioè Giovanni Evangelista, e questi fu frate Bernardo umilissimo, il quale profondissimamente esponeva la santa Scrittura; alcuno di loro fu santificato da Dio e canonizzato in Cielo vivendo egli ancora nel mondo, e questi fu frate Ruffino gentile uomo d’Ascesi». m. bigaroni, g. boccali a cura di, Actus Beati Francisci et sociorum eius, Nuova edizione postuma di Jacques Cambell con testo dei Fioretti a fronte, Assisi, Ed. Porziuncola, 1988 [Pubblicazioni della Biblioteca Francescana- Chiesa Nuova- Assisi. 5], pp. 108-112. 56 J. heers, Le feste dei folli, Napoli, Guida, 1990 (1° ed. in francese 1983), p. 140. 57 F. m. ab araules [F. m. delorme], Vita brevis B. Aegidii assisiensis, «Archivum Franciscanum Historicum», I, 1908, 1, pp. 267-277, p. 274.

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ve o le noci. Una volta acquistò le noci, si tolse l’abito per trasportarle e nudo, infervorato dallo Spirito Santo, le distribuì ai poveri58. L’evocazione dell’esempio di Egidio è polemico, non a caso Ubertino da Casale nell’Arbor vitae crucifixae scrisse: «sanctus vir Egidius tanto eiulato clamabat super regulae destructionem, quam videbat, quod ignorantibus vitam Spiritus quasi videbatur insanus»59. Chi ignora la vita dello Spirito non sa che lo Spirito esige un completo ribaltamento delle prospettive e delle pratiche esistenziali. L’umiliazione voluta, provocata, ricercata, non è soltanto mortificazione, è rinuncia alla fama, alla buona reputazione, è abbraccio alla sapienza donata dallo Spirito, comprensione vissuta e non mera intellezione del dato evangelico. Di conseguenza implica la povertà totale e con essa il rifiuto di una vita improntata alle certezze umane, di atteggiamenti previdenti e della sollecitudine per il domani. Per questo motivo l’allure di follia che aleggia sul gruppo dei primi compagni di Francesco è amata e ripresa da chi, dell’Ordine, prenderà posizioni rigoriste e zelanti. La reputazione di stoltezza: frate Ginepro Tra i vari compagni – apostoli – di Francesco si segnala frate Ginepro, un vero e proprio speculum della santa follia. Costui, definito egregius Domini ioculator60 è ricordato diffusamente nella Chronica XXIV generalium61 e, più avanti nel tempo, nella Franceschina62 e nel Compendium chronicarum fratrum minorum di Mariano da Firenze63. Il racconto di Ginepro pre«Cum apud Anchonam civitatem moram traheret ut non comederet otiosus suum panem, in magno vase aquam referebat de fonte, quam offerebat pro elemosina quam petebat. Simile aliquando colligendo olivas. Semel autem nuces ad precium nucum collegit, quas, ligatis manicis et capucio, posuit in suo habitu et in magno spiritus fervore sic nudus illas dispersit et divisit platearum pauperibus», F. M. ab araules [F. m. delorme], Vita brevis B. Aegidii assisiensis, cit., p. 274. 59 Ivi, pp. 267-268; s. da campagnola, La «Leggenda» di frate Egidio d’Assisi nei secoli XIIIXV [1979], in Id., Francesco e francescanesimo nella società dei secoli XIII-XIV, Assisi, Porziuncola Ed., 1999, pp. 369-402 (pp. 388-394 su Ubertino e Clareno); e su Ubertino anche g. l. potestà, Ideali di santità secondo Ubertino da Casale e Angelo Clareno, in Santi e santità nel secolo XIV, Atti del XV Convegno S.I.S.F., Assisi, S.I.S.F., 1989, pp. 91-137, pp. 115-120. 60 Così lo definisce Tommaso da Celano nella Vita di santa Chiara. Cit. in g. petrocchi, La vita di frate Ginepro (testo latino e volgarizzamento), Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1960. p. IX. 61 g. petrocchi, La vita di frate Ginepro, cit., p. XI. 62 La Franceschina, cit., II, pp. 202-203. 63 th. domenichelli, Compendium Chronicarum Fratrum Minorum scriptum a patre Mariano de Florentia, «Archivum Franciscanum Historicum», I, 1908, pp. 92-107; III, 1910, pp. 294-309, 700-715; IV, 1911, pp. 122-137, 318-339, 559-587; in particolare pp. 54-78. Cfr. g. abate, Le fonti storiche della Cronaca di fra’ Mariano da Firenze, «Miscellanea Francescana», 17, 1930, pp. 251-285. Sulle simpatie di Mariano, osservante, per l’ala rigorista minorita stanislao da campagnola, Le origini francescane come problema storiografico, ristampa anastatica della seconda edizione del 1979, a cura di S. Brufani, Spoleto, Cisam, 1979, p. 99; m. bertagna, 58

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senta un incipit che ormai ci è consueto: era giunto a un livello così alto del disprezzo di sé da essere reputato matto da quanti ne ignoravano la perfezione evangelica64. La sua santa follia funzionava da esorcismo costante contro i demoni, infatti un diavolo confessa di esser fuggito dalla strada dove passava Ginepro lo stolto – «Per illam viam ille stultus frater Iuniperius veniebat, eius presentiam non potui expectare»65 –. Vaga coperto di stracci rappezzati in forma di tunica troppo stretta, perciò è schernito dai soliti giovinastri che lo trattano come un povero idiota, mentre lui li esorta a maltrattarlo ancora di più66. Un giorno un tiranno di nome Nicola lo scambiò per un traditore e iniziò a farlo torturare. Ginepro non si difese e accettò allegramente la tortura – «nullam exscusationem opposuit, nullam tristitiam, sed potius laetitiam demonstravit» – 67. La logica è quella magistralmente esposta nei Fioretti, capitolo VIII Della pazienzia, dove è perfetta letizia 68. Francesco spiega a frate Leone che proverebbero vera gioia se giungendo a Santa Maria degli Angeli bagnati, infreddoliti e affamati il portinaio li scambiasse per due malfattori e non aprisse loro il portone, e poi li picchiasse con violenza e loro sopportassero ogni cosa con allegria, pensando ai dolori patiti da Cristo. Così fa Ginepro che, sotto tortura, pronuncia battute spiritose. Al frate guardiano giunto per salvarlo e disposto a rivestirlo della sua tonaca, risponde, infatti, di non poterla accettare perché chi gliela offre è troppo grasso per star bene nudo69. Un’altra volta si denuda, si appende il saio al collo, va in una piazza e lì si espone al pubblico ludibrio70. La fonte, riportando simili comportamenti, recita che non immerito Ginepro era reputato matto, in un’evidente moto di comprensione per coloro che lo dileggiavano. Raccontando del suo ritorno in convento dopo la scena della nudità, si dice che i frati erano sconcertati dal suo Per un nuovo incontro con Fra Mariano da Firenze, «Studi Francescani», 79, 1982, pp. 473-479. 64 «Ad tantum etiam sui contemptum pervenerat, ut ab eius perfectionem ignorantibus stultus vel fatuus putaretur», G. petrocchi, La vita di frate Ginepro, cit., p. 2. 65 Ivi, p. 15. Si noti stultus frater Iuniperius: in effetti Ginepro si comporta da ebete, non rispondendo alle offese e restando impassibile di fronte a tutto, cfr. la definizione di Isidoro di Siviglia richiamata infra, al capitolo 3. 66 Ivi, p. 20. 67 Ivi, p. 24. 68 I Fioretti di san Francesco, a cura di P. M. Forni, Milano, Garzanti, 2003 (2° ed.), pp. 30-33. Sulla fonte si consultino c. segre, I Fioretti di san Francesco e la novellistica, in Francescanesimo in volgare (secoli XIII-XIV). Atti del XXIV Convegno internazionale (Assisi 17-19 ottobre 1996), Spoleto, Cisam, 1997, pp. 357-372; J. dalarun, Introduction, in a. le huërou, Á l’origine des Fioretti, les actes du bienhereux François et de ses compagnons, Paris, Éditions Franciscaines, Éditions du Cerf, 2008. 69 g. petrocchi, La vita di frate Ginepro, cit., p. 26. 70 «Semel etiam frater Iuniperius intrans Viterbium ad sui confusionem se totaliter denudavit. Et positis saraballis super caput suum, ligavit habitum cum chorda in modum fasciculi et posuit in suo collo; et sic ivit nudus usque ad plateam publicam civitatis. Cum autem ibi sederet, iuvenes ipsum non immerito putantes insanum eum derisoriis verbis luto et lapidibus impetebant. Cum vero diu ab ipsis fuisset illusus et afflictus, sic nudus ad conventum accessit», ivi, p. 52.

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modo di fare e gli inveivano contro, ma lui si manteneva ilare e giocondo chiedendo punizioni maggiori71. In un’altra occasione si accodò a un gruppo di persone diretto ad Assisi, ma era completamente nudo. Così raggiunse i frati e, di fronte alla minaccia di punizione formulata dal superiore, reagì dicendo che, poiché era andato nudo al convento per umiliarsi, per punizione sarebbe potuto tornare indietro nudo in modo da raddoppiare l’umiliazione72. Un’altra volta si trovava vicino a Roma. Per impedire ad alcuni devoti di continuare a nutrire una buona opinione di lui, spostò un bambino da un’altalena e vi salì, iniziando a giocare, e poi rifiutandosi ostinatamente di salutare quanti gli si accostavano, finché non rimase solo. Tutto felice per essersi conquistato il disprezzo di chi lo ammirava, lasciò perdere l’altalena ed entrò in città soltanto quando tutti se ne furono andati73. Donava ogni cosa ai poveri e talvolta era tanto eccessivo nei doni da essere rimproverato dai confratelli. Una volta fu incaricato di cucinare per tutti i frati. Così volle preparare tante pietanze quante ne servivano per quindici giorni, almeno avrebbe evitato ai suoi confratelli la fatica della cucina, colpevole di distrarli dalla contemplazione. Prese una pentola enorme e cominciò a gettarvi dentro alla rinfusa tutto quanto gli capitava sotto mano, compresi polli non spennati e uova con il guscio. Per girare la brodaglia si legò un’asse di legno alla vita e così saltava da una pentola all’altra. Alla fine servì ai frati affamati una zuppa immangiabile. Il guardiano lo rimproverò duramente e lui si gettò faccia a terra, vergognandosi e confessando pubblicamente tutti i propri peccati. Il pranzo disastroso fu occasione di edificazione per molti, meravigliati delle buone intenzioni di Ginepro, della sua umiltà e della sua capacità di farsi costantemente ultimo74. Più avanti nel tempo, durante il periodo destinato alla penitenza, decise di osservare il silenzio. Ma, come al solito, esagerò e rimase silente per sei mesi75. La fonte caratterizza Ginepro come un essere straordinariamente candido, come il fanciullo per il quale si sono schiuse le porte del Cielo perché ha compreso e vissuto la semplicità della Parola. Al contempo la ribadita sottolineatura delle doti divine del frate ne esclude l’imitazione incentivandone l’ammirazione. Nel Compendium di Mariano da Firenze compare una breve menzione di Ginepro, descritto «Fratres vero ipsum cernentes confusi et scandalizati, turbationi succensi, ipsum duris increpationibus et iniuriis sagittantes, alii carcere, alii suspendi, alii ipsum dignum adustione indicabant. Frater vero Iuniperius omnia cum gaudio audiebat et cum hilaritate magna se dignum omnibus illis penis et maioribus pro tanto scandalo asserebat», ivi, p. 54. 72 Ivi, pp. 68-70. 73 Ivi, pp. 56-58. 74 Ivi, pp. 60-66. 75 «Semel frater Iuniperius tali modo tenuit silentium, per sex menses. Nam prima die proposuit non loqui ob reverentiam Dei Patris, secunda ob reverentiam Spiritus Sancti, alia vero amore Beatae Mariae et sic consequenter ad reverentiam alicuius sancti servans silentium dictum temporis spatium absque locutione aliqua pertransivit», ivi, p. 44. 71

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quale uomo semplice e retto, che giunse al livello più alto della pazienza grazie alla propria umiltà e al desiderio di imitare la Passione di Cristo76. Attraverso il tempo dell’eccentricità di Ginepro è filtrato soltanto il desiderio di mortificazione spinto fino agli estremi per imitare Cristo sofferente sulla Croce. In poche parole troviamo espresso il senso della santa follia occidentale: penitenziale e staurologica. Nella Franceschina, testo elaborato in area osservante e che conserva più di una traccia dei Fioretti, Ginepro è ancora «stolto e pazo», intimorito dalla venerazione di coloro che lo reputavano santo, tanto da immaginare «di tirare la loro devozione in faule e truffe»77. Ginepro è un’inimitabile eccezione voluta dall’Altissimo. Già nella Chronica lo si ritrae mentre pregava e su di lui stava la mano di Dio mentre Dio gli diceva che senza quella mano non avrebbe potuto fare niente. Lui, «subito surgens, oculis ad caelum directis per domum discurrendo clamabat dicens: “Ben è vero, Messere, ben è vero”. Et hoc continue clamando replicabat»78. Chi ne scrive ci trasmette il messaggio seguente: era un uomo tanto benedetto da Dio da comportarsi come un insensato. Inoltre Ginepro si atteggia così perché è pervenuto alla purezza di cuore dei bambini: è testimone della cosiddetta infanzia spirituale. L’eccezionalità di Ginepro riceve la legittimazione più alta sottraendola, di fatto, all’imitazione. L’esaltazione della stoltezza: i Fioretti Veniamo adesso ai Fioretti79, un testo che godé di una diffusione straordinaria, seconda soltanto a quella dell’Imitazione di Cristo80. La rac«Vir simplex et rectus, qui propter perfectam cognitionem proprie vilitatis usque ad perfectum statum patientie devenit. Hic etiam propter profundam humilitatem suam et summum desiderium imitandi Christum per signum crucis, plus cupiebat vituperari quam aliquis frater sui temporis ex quo iniuriis lacessitum nullus numquam turbatur vidit. Ex quibus demones presentiam sua valde timebant». La fonte compendiata è interessante perché per sua stessa natura riporta unicamente ciò che viene ritenuto sostanziale, t. domenichelli, Compendium cronicarium, cit., (1909), p. 94. Ancora il Compendium poco sotto rispetto al brano riportato prima aggiunge: «Franciscus ipsum [Ginepro] laudans dicere consueverat:- Utinam de talibus Juniperis, magnam silvam haberem». Con un gioco di parole, Francesco è introdotto in finale come estimatore delle qualità di Ginepro e dunque come il massimo garante della liceità delle sue azioni, addirittura il santo si augura di poter annoverare molti individui simili a lui tra i propri seguaci, ivi, p. 104. 77 La Franceschina, cit., II, p. 203. 78 petrocchi, La vita di frate Ginepro, cit., p. 78. 79 Cfr. g. petrocchi, Dagli “Actus Beati Francisci” al volgarizzamento dei “Fioretti”, in Id., Ascesi e mistica trecentesca, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 27-146; e. menestò, Introduzione agli “Actus beati Francisci et sociorum eius”, in Fontes Franciscani, cit., pp. 2055-2084. 80 l. berardini, Le fonti agiografiche del B. Giovanni della Verna, «Miscellanea Francescana», 80, 1980, 2, pp. 183-194, pp. 190-191. 76

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colta comprende cinquantaquattro episodi – «esemplari e edificanti della vita del santo, dei suoi primi compagni e di alcuni frati marchigiani della seconda e terza generazione» – e fu composta tra 1370 e 1390 in ambiente dalle spiccate simpatie spirituali81. Significativamente i Fioretti iniziano dichiarando subito che Francesco «fu conformato» a Cristo e che i suoi primi compagni furono «professori dell’altissima povertà» e riproposizione degli apostoli82. Dopodiché si esplicitano le corrispondenze precise tra i primi francescani, gli apostoli e i profeti: Filippo Longo è avvicinato a Isaia, Egidio a san Paolo, Salvestro a Mosè, Bernardo a Giovanni l’evangelista83. Passando poi a raccontare la conversione di Bernardo da Quintavalle, si descrive la nottata trascorsa da Francesco a casa dell’amico, riproponendo lo scarto tra i comportamenti tenuti dal santo durante il giorno e quelli notturni che è tipico delle agiografie dei saloì. E santo Francesco per celare la sua santità, immantanente che fu entrato in camera, si gittò sul letto e fece vista di dormire; e messer Bernardo similemente dopo alcuno spazio si puose a giacere, e incominciò a russare forte, a modo che s’ei dormisse molto profondamente. Di che santo Francesco, credendo veramente che messer Bernardo dormisse, in sul primo sonno si levò del letto e puosesi in orazione, levando gli occhi e le mani al cielo; e con grandisima divozione e fervore diceva: – Iddio mio! Iddio mio! – E così dicendo e forte lagrimando stette infino a mattutino, sempre ripetendo: – Iddio mio! Iddio mio! – e non altro. E questo diceva santo Francesco, contemplando e ammirando la eccellenza della divina Maestà, la quale degnava di condiscendere al mondo che periva, e per lo suo servo Francesco poverello disponeva di provvedere rimedio di salute dell’anima sua e degli altri84.

Francesco, dunque, non voleva mostrare la propria elezione divina neppure a Bernardo, l’elezione che durante il giorno era nascosta e protetta dalla fama di stoltezza, ma ugualmente non poté impedire a Bernardo di scoprire la verità e di convertirsi. La pazzia di Francesco è ancora motivata con il fatto che si umiliava, vagava per città e boschi vestito come un pezzente e stravolto dall’ascesi. Su ciò tutte le p. m. Forni, Introduzione in Id. a cura di, I Fioretti, cit., pp. VII-XX, pp. VII-VIII. 82 «In prima è da considerare che il glorioso messere santo Francesco in tutti gli atti della vita sua fu conformato a Cristo. Imperò che, come Cristo nel principio della sua predicazione elesse dodici apostoli a dispregiare ogni cosa mondana e seguitare lui in povertà e nell’altre virtù; così santo Francesco elesse al principio del fondamento dell’Ordine suo dodici compagni professori dell’altissima povertà [...]. E come que’ santi apostoli furono a tutto il mondo maravigliosi di santità e pieni dello Spirito Santo, così que’ santissimi compagni di santo Francesco furono uomini di tanta santità che dal tempo degli apostoli in qua il mondo non ebbe così maravigliosi e santi uomini», I Fioretti di san Francesco, in J. cambell [ed. postuma a cura di Bigaroni M. e Boccali G.], Actus Beati Francisci et sociorum eius, cit., pp. 109-11. 83 Ibidem. 84 Ivi, p. 115. 81

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fonti escusse sin qui concordano. La peculiarità dei Fioretti nel proporre episodi e racconti di santa follia è, piuttosto, un’accentuazione enfatica degli atteggiamenti stravaganti ed eccentrici o meglio, come recita la fonte stessa, eccessivi. Ad esempio si narra che un giorno Francesco si stizzì con Bernardo, così, accortosi del peccato volle esser punito da Bernardo stesso. Gli ingiunse di punirlo in nome dell’obbedienza. «Pur temendo frate Bernardo che santo Francesco non gli comandasse qualche cosa eccessiva, come solea fare» – obbedì all’amico che gli ordinava: – «ora, che io mi gitterò in terra supino, mi ponga l’uno piede in sulla gola e l’altro in bocca, così mi passi tre volte dall’uno lato all’altro, dicendomi vergogna e vituperio. E spezialmente mi dì – Giaci villano, figliuolo di Pietro Bernardone, onde viene a te tanta superbia, che se’ una vilissima creatura?-»85. In un’altra occasione Francesco pretendeva di essere ingiuriato da frate Leone, ma Dio stesso impedì a Leone di pronunciare parole che non fossero benedizioni86. La volontà di abiezione è chiaramente messa in relazione con la cristomimesi: poco più avanti si legge che quei frati «pareano ed erano uomini crocifissi e s’andavano per lo mondo come pellegrini e forestieri, non portando seco altro che Cristo crocifisso»87. Bernardo da Quintavalle a Bologna fu schernito perché reputato matto, fino a quando non si palesò la sua santità – un colto universitario «veggendo e considerando tanta costanzia e virtù di frate Bernardo non potersi turbare in tanti dì per niuna molestia o ingiuria, disse fra se medesimo. – Impossibile è che questi non sia santo uomo88» – e allora chiese a Francesco di potersene andare dalla città, perché «per lo troppo onore che mi v’era fatto» – disse – «io temo ch’io perdesse più ch’io non vi guadagnassi»89. Ugualmente si comportò Francesco a Siena dopo aver rappacificato i cittadini con un sermone infervorato, fu convocato dal vescovo di Siena che gli voleva rendere onore, ma lui preferì fuggire90. Poco prima di arrivare a Siena, però, Francesco compie un’azione eccentrica. Era insieme a frate Masseo e giunto di fronte a un incrocio di tre strade, non sapendo quale seguire: «Rispuose santo I Fioretti, cit., p. 127. 86 Ivi pp. 167-171. I Fioretti gli attribuiscono il loghion: «sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è vincere se medesimo, e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio [...], ma nella Croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare, però che questo è nostro [...]», ivi, p. 165. 87 Ivi, p. 141. 88 Ivi, pp. 143-145. 89 Ivi, p. 147. Ivi, p. 141: «i francescani desideravano più di sostenere vergogne e obbrobri per l’amore di Cristo, che onori del mondo o riverenze o lodi vane; anzi delle ingiurie si rallegravano e degli onori si contristavano». 90 Ivi, p. 201. 85

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Francesco: – Al segnale che io ti mostrerò. Onde ti comando, per merito della santa obbedienza, che in questo trebbio, nel luogo dove tu tieni i piedi, tu t’aggiri intorno intorno, come fanno e fanciulli; e non ristare di volgerti s’io non tel dico [..]-». Masseo obbedisce e alla fine indica la strada giusta e su quella i due s’incamminano, benché «andando per quella via, frate Masseo fortemente si meravigliava di quello che santo Francesco gli aveva fatto fare, come se fusse uno fanciullo, innanzi a’ secolari che passavano»91. Il senso dell’accaduto viene spiegato così: Frate Masseo, tu se’ troppo superbo, il quale giudichi l’opere divine, e se’ degno dello inferno per la tua indiscreta superbia; però che nel dì d’ieri frate Francesco fece sì sante operazioni, che se l’avesse fatte l’angelo di Dio, non sarebbono state più maravigliose. Onde s’e’ ti comandasse che ti gittasse le pietre, sì lo doveresti ubbidire: ché ciò ch’egli ha fatto in questa via è proceduto dalla divina operazione, sì come si dimostra nel buono fine ch’è seguito. Però che, se non avesse rappacificati coloro che combattevano insieme, non solamente molti corpi, come già aveano cominciato sarebbono morti di coltello, ma eziandio molte anime il diavolo avrebbe tralle allo ‘nferno: E però tu se’ stoltissimo e superbo, che mormori di quello che procede manifestamente dalla volontà di Dio92.

Si rileva un’accezione della santa follia che accomuna i Fioretti con l’agiografia di Ginepro: l’infanzia spirituale, che incontrerà molta fortuna anche nelle epoche successive e in contesti diversi. All’infanzia spirituale si perviene accogliendo e cercando la bruttezza, la debolezza e la follia, rigettate dal mondo, perché in esse Dio si manifesta secondo una logica inconoscibile ma sicuramente opposta a quella dominante nella realtà sensibile93. Ivi, pp. 197-199. 92 Ivi, p. 203. 93 «[..] Il detto frate Masseo gli disse: – Perché a te? Perché a te? Perché a te? – E santo Francesco rispuose: -Che è quello che tu vuogli dire? – Disse frate Masseo: -Dico, perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che disideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo di corpo, tu non se’ di grande scienzia, tu non se’ nobile, donde dunque a te che tutto il mondo ti viene dietro?- Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in spirito, rizzando la faccia in cielo, per grande spazio stette colla mente levata in Dio; e poi ritornò in sé, e sì si inginocchiò e rendé laude e grazie a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse: – Vuogli sapere perché a me? Vuogli sapere perché a me? Vuogli sapere perché a me che tutto il mondo mi viene dietro? Questo ho io da quegli occhi dell’altissimo Iddio, i quali in ogni luogo contemplano i buoni e’ rei; però che quegli occhi santissimi non hanno veduto tra’ peccatori niuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore che me; e però a fare quella operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e però ha eletto me, per confondere la nobiltà e la grandigia e la bellezza e la fortezza e la sapienzia del mondo, acciò che si cognosca che ogni virtù e ogni bene é da Lui e non dalla creatura, e niuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore a cui è ogni onore e gloria in eterno», ivi, pp. 195-197. 91

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Il cardine è l’amore profondo e assoluto per Cristo dolente e crocefisso. I Fioretti, principale tramite per la divulgazione delle leggende francescane, sono costellati di episodi in tal senso paradigmatici. Ad esempio Francesco ricevette dalla divina visitazione sì eccessivo fervore, il quale infiammò sì fittamente l’anima sua ad amore della santa povertà, che tra per lo colore della faccia e per lo nuovo sbadigliare della bocca pareva ch’ e’ gittassi fiamme d’amore. E venendo così affocato al compagno, sì gli disse: – A! a! a!, Frate Masseo dammi te medesimo. – E così disse tre volte; e nella terza volta santo Francesco col fiato levò frate Masseo in aria, e gittollo dinanzi a sé per ispazio d’una grande asta94.

Il grido di Francesco è molto simile al «giubilo uniforme a modo di colomba ottuso: U! u! u!»95 emesso da Masseo quando si trovava in stato estatico; mentre Giovanni della Verna «si riscaldava in amore divino, [...] non potendo stare fermo e sostenere tanta soavità, si legava e come ebbro di spirito discorrea ora per l’orto, ora per la selva, ora per la chiesa, secondo che la fiamma e l’impeto dello spirito il sospignea»96. Mi pare che i Fioretti, in virtù della loro grande popolarità, abbiano contribuito a diffondere una religiosità incardinata sull’amore ed espressa con metafore talvolta anche ardite97. L’amore rende sapienti secondo Dio: Simone di Assisi, zelante della Regola, era ignorante «non aveva mai apparato grammatica, e niente di meno sì profondamente e sì altamente parlava di Dio e dell’amore di Cristo, che le sue parole parevano parole soprannaturali»98. Come lui lo era Giovanni della Verna «tutto affocato e acceso dello amore di Cristo»99, che «rimase sì illuminato nell’anima, nell’abisso della sua divinità, che, benché non fosse uomo litterato per umano studio, niente di meno egli maravigliosamente solveva Ivi, p. 213. 95 Ivi, p. 407. 96 Ivi, p. 459. 97 «Essendo una volta santo Francesco, nel cominciamento della Religione, raccolto co’ suoi compagni in un luogo a parlare di Cristo; egli in fervore di spirito comandò a uno di loro che nel nome di Dio aprisse la sua bocca, e parlasse di Dio ciò che lo Spirito Santo gli spirasse. E adempiendo il frate il comandamento e parlando di Dio maravigliosamente, santo Francesco sì gl’impone silenzio, e comandò a uno altro il simigliante: E ubbidendo colui e parlando di Dio sottilissimamente, santo Francesco similmente gl’impone silenzio e comanda al terzo che parli di Dio. Il quale similmente cominciò a parlare sì profondamente delle cose segrete di Dio, che santo Francesco cognobbe ch’egli, sì come gli altri due, parlava per Spirito Santo. E questo anche si dimostrò per espresso segnale, però che stando in questo parlare, apparve Cristo benedetto nel mezzo di loro in ispezie e forma d’uno giovane bellissimo; e benedicendoli tutti li riempié di tanta dolcezza, che tutti furono ratti fuori di se medesimi, e giacevano come morti, non sentendo niente di questo mondo», ivi, p. 221. 98 Ivi, p. 493. L’ignoranza è una caratteristica di quasi tutti i protagonisti dei Fioretti. 99 Ivi, p. 461. 94

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e dichiarava le quistioni sottilissime e alte della Trinità divina, e gli profondi misteri della santa Scrittura». In prossimità di un Natale lo Spirito santo gli mise nell’anima sua sì grande ed eccessivo amore e fervore nella carità di Cristo [...] il quale ardore non potendo soffrire, s’angosciava e struggeva tutto quanto, e gridava ad alta voce; imperò che per lo impeto dello Spirito Santo e per lo troppo fervore dello amore, egli non si potea contenere dal gridare [...]. E finalmente cognobbe in quella visione come nulla altra via era, per la quale l’anima possa andare a Dio e avere vita eterna, se non per Cristo benedetto, il quale è via, verità e vita dell’anima100.

L’amore per la stoltezza e la stoltezza d’amore: Jacopone da Todi Motivi analoghi ritornano negli scritti autografi e nelle agiografie incentrate su Jacopo De Benedictis (Benedictoli, Benedettoni) al secolo, o Jacopone da Todi (1236 ca. – 1306) secondo l’Ordine. Originario di Todi, dove forse fu notaio e procuratore, è stato un personaggio controverso, legato alla corrente spirituale dell’Ordine e ai cardinali Giacomo e Pietro Colonna contro papa Bonifacio VIII, di cui chiedevano la deposizione101. Fu appassionato cultore della povertà, compositore di un centinaio laudi e di due prose latine (i Dicta e il Tractatus utilissimus102), dopo la sconfitta dei Colonna – scomunicati, banditi e contro i quali fu indetta una crociata con a capo il Generale dei Minori Matteo d’Acquasparta – finì in carcere (1298), da dove sarebbe uscito soltanto nel 1303103. Le fonti che lo riguardano sono piuttosto esigue e tardive ma concordano sull’occasione della conversione, accaduta nel 1268. Allora sua moglie morì cadendo da un Ivi, pp. 463-471. «Gli cominciò a crescere in tanto fervore e in tanta soavità l’amor del dolce Gesù, che già non potea più sostenere l’anima sua tanta dolcezza, ma gridava forte, e come ebbro di spirito tra se medesimo non ristava di dire. – Hoc est corpus meum [...]. E non potendo in quel fervore contenersi per l’abondanza della divina grazia, gridava ad alta voce», ivi, p. 507. 101 Cfr. il cosiddetto “manifesto di Lunghezza” del 10 maggio 1277, chiamato così perché fu rogato dai due cardinali Colonna nel castello di Lunghezza, sulla Prenestina. Nell’atto si dichiarava invalida la rinuncia di Celestino V e, di conseguenza, si chiedeva la destituzione di Bonifacio VIII. e. menestò, La vita di Jacopone da Todi, in Jacopone da Todi e l’arte in Umbria nel Duecento (Todi, Palazzi comunali, Museo Pinacoteca, 2 dicembre 2006-2 maggio 2007), a cura di F. Bisogni, Milano, Skira, 2006, pp. 25-32, p. 25. 102 e. menestò, Le prose latine attribuite a Jacopone da Todi, Bologna, Patron, 1979; Tractatus utilissimus, verba, a cura di E. Menestò, con contributi di g. cremascoli, m. donnini, Spoleto, Cisam, 2015; Commento al Protolaudario di Jacopone da Todi, a cura di F. Mancini, E. Menestò, Spoleto, Cisam, 2007. 103 g. comez, Note documentarie su Jacopone, in Atti del Convegno storico iacoponico in occasione del 750° anniversario della nascita di Jacopone da Todi (Todi 29-30 dicembre 1980), a cura di E. Menestò, Firenze, La Nuova Italia 1981, pp. 109-207 e ivi, alle pp. 129-153 il saggio di e. menestò, Il “contemptus mundi” in Jacopone da Todi. 100

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palco e Jacopo, componendone la salma, scoprì che portava un cilicio nascosto tra le vesti e ciò lo colpì tanto da indurlo a cambiare radicalmente vita. Se l’episodio sembra essere del tutto fantasioso, è invece certo che Jacopone dal 1268 circa abbia vissuto da «bisocone» per una decina di anni104 e poi, nel 1278, abbia indossato il saio francescano entrando subito a far parte del gruppo degli spirituali o fraticelli. Potrebbe essere stato tra i Pauperes Heremitae domini Coelestini105 subito dopo la formazione della comunità (1294), o potrebbe essere stato da loro considerato una figura di riferimento106. «Avea lassata omne pratica»- evidentemente ogni pratica notarile- «et amore tanto de li parenti quanto de li compagni, et como fatuo era tenuto et reputato da ogne gente. Li suoi consanguinei con molta vergogna e confusione lo vedeano, reprendendolo et villaniandolo come pazo»107, si legge nella Franceschina. Ancora una volta è messa in campo l’opposizione tra sapienza di Dio e conoscenza del secolo: «però che facea alcuna fiata cose che apo lo mondo pareano de maxima stultitia, ma apo Dio erano de maxima sapientia»108. Quando prese il saio dei Minori per haversi acquistato al secolo nome di matto volle (forse per sua maggior mortificazione) ritenersi il medesimo nome di prima, chiamandosi fra’ Jacopone” e “andava quisto homo de Dio in questo tempo tanto dispetto et tanto humiliato per la terra, che quasi da ognuno era reputato pazo: et dalli fanciulli era schirnito et deleggiato, et chi lo tirava et chi lo spegnea, et de tutto parea che se godesse109.

Sui bizzochi cfr. m. sensi, Storie di bizzoche tra Umbria e Marche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1995, in particolare pp. XIII-XVII. 105 a. Frugoni, Dai “pauperes eremitae Domini Celestini” ai “fraticelli de paupere vita”, «Celestiniana», 1954, pp. 125-167, p. 129. 106 La vita e l’opera di Jacopone da Todi, Atti del Convegno di studio (Todi 3-7 dicembre 2006), a cura di E. Menestò, Spoleto, Cisam, 2007, in particolare il saggio di e. menestò, “Che farai, fra Jacopone?”. Conferme e novità nella biografia di Jacopone da Todi, ivi, pp. 1-38 e di e. paoli, L’agiografia iacoponica, ivi, pp. 39-62, nonché di s. bruFani, Fonti e motivi francescani nelle “laude” di Jacopone da Todi, ivi, pp. 253-274; e. menestò, Jacopone da Todi: La vita, l’agiografia e il culto, l’opera, l’iconografia e la vita di Jacopone da Todi, in Jacopone da Todi e l’arte in Umbria nel Duecento, pp. 15-16 e pp. 25-32; Id., Nuove osservazioni sulle “vite antiche” di Jacopone da Todi, in “Una strana gioia di vivere”: a Grado Giovanni Merlo, a cura di M. Benedetti e M. L. Betri, Milano, Biblioteca Francescana Edizioni, 2010, pp. 315-332. Infine: a. monteFusco, Jacopone nell’Umbria del Due-Trecento: un’alternativa francescana, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 2006. 107 Giacomo Oddi, Del beato Frate Jacopone da Tode. Vita e laude contenute nella “Franceschina”, codice inedito del sec. XV, in Le vite antiche di Jacopone da Todi, a cura di Enrico Menestò, Firenze, La Nuova Italia 1977, pp. 35-17, p. 37. I discorsi pronunciati pubblicamente da Iacopo apparivano senza senso e offrivano motivo di divertimento – talora violento – ai passanti. Mariano da Firenze annota: «li cictadini sempre erano in ciancie et disputatione con epso, chi tentativamente per averne piacere, chi per gusto che havea del suo sententioso et quasi profetico parlare», mariano da Firenze, Vita inedita di fra’ Jacopone, in Le vite antiche, cit., p. 121. 108 Ivi, p. 38. 109 giacomo oddi, Del beato Frate Jacopone da Tode, cit., p. 38. 104

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La Franceschina enumera varie stravaganze di Jacopone. Per esempio: facendosi una fiata una certa festa nella sua ciptà di Tode, dove era congregata una grande parte del populo, quisto beato in fervore di spirito et infuocato de questa villità de mondo, se spogliò nudo, et preso un imbasto de asino se lo puse addosso, et piglò lo codagno co la propria bocca, et andava co le mane et co li piedi a rietro, come che fosse stata una bestia asinina. Et così sellato, se n’andò intra quella gente che facea festa.

Un’altra volta il fratello organizzò una festa a casa propria e pregò Jacopone di non metterlo in imbarazzo. Per tutta risposta Jacopone disse: «como lui entende de honorare el nostro parentado co la sua sapientia, così gli voglio honorare io co la mia stultitia et pazzia». Infatti al momento opportuno «quando erano meglio nel ballo et festa, [...] se spogliò nudo et involtosse tucto nella tormentina, et così intormentinato se revoltò in una coltrecce de piuma de diversi colori, et per questo modo impiumato, se n’andò in quello convito per honorare el suo parentado»110. Jacopone si maschera, molto probabilmente, da uomo selvatico. Trovo la spiegazione nella seconda novella della quarta giornata del Decameron, dove un frate licenzioso viene ricoperto da miele e piume affinché sembrasse un uomo selvatico e così portato per strada alla pubblica gogna111. Non saprei dire se nella scelta della maschera vi sia un’eco delle fonti francescane, laddove si sostiene che i primi compagni di Francesco sembravano uomini selvatici, o se, invece, non ci sia un riferimento alle «caccie» organizzate durante le feste e che prevedevano anche la caccia a qualcuno mascherato da orso o da uomo selvatico; così come non potrei affermare se dietro la scelta di travestirsi da asino, da parte di Jacopone, vi siano i loghia di Francesco che equiparavano il corpo all’asino. Fatto sta che, in entrambi i casi, Jacopone dà scandalo per ricordare a chi festeggia l’esistenza della morte e del giudizio di Dio112. Ibidem. 111 Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1980, vol. 1, pp. 487-504. Chi convince il frate a lasciarsi impiastricciare, gli dice: «noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena uno uomo vestito a modo d’orso e chi a guisa d’uom salvatico, e chi d’una cosa e chi d’un’altra, e in su la piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è finita la festa, e poi ciascun va, con quel che menato ha, dove gli piace», pp. 501-502. Per la presenza di “uomini selvatici” durante le feste, Cfr. J. heers, Le Feste dei folli, cit., pp. 126-131. 112 Un giorno un suo concittadino lo incaricò di recapitare a casa propria due polli. Invece Jacopone andò al cimitero dov’era il sepolcro di chi gli aveva chiesto il favore e vi chiuse gli animali. Com’è ovvio il concittadino si irritò molto e raggiunse Jacopone per avere spiegazioni. Jacopone insisteva ripetendo che davvero aveva portato i polli a casa sua e, alla fine, per tacitarlo gli disse: «Or viene che te voglio mostrare s’io te dico lo vero, et s’io l’ò portati ad casa tua –. Et menandolo in Santo Fortunato, alzò la pietra che era sopra la sepoltura, et mostrolli lì i suoi pulli, et dixe. – O carissimo, questa è casa tua: or non te 110

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Lo afferma chiaramente nelle sue opere, basti leggere la Lauda XXV, dove si scrive: Or me contempla, o omo mondano, mentre èi nel mondo, non esser pur vano pensate, folle, che a mano a mano tu serai messo en grande strettura113.

Ancora una volta è l’amore che si prova per Dio a far impazzire. Empreso ha novo lenguaio, ché non sa dir se non: amore, piange, ride, dole et gaude, securato con timore; et tal segni fa de fuore, che paiono de hom stolto dentro sta tutto racolto, non sente da fuor que fare114.

E ancora: (Cristo dice) De l’amor sì so enebriato che stolto me faragio reputare a comparare sì vile mercato a così gran prezo volere dare, che l’Om cognosca quanto l’aggio amato morir ne voglio per lo suo peccare115. (Gesù) Ebrio par deventato o matto senza senno lassanno sì gran renno e sì alte richeze. Ma com’è ciò scontrato de tal matteza segno? Avereste tu pegno altre trovar alteze? Vegio che son forteza d’amor senza mesura che muta tanta altura en sì basso valore. Amor, de cortesia, de cui se’ ‘namorato che t’ha sì vulnerato che pazo te fa gire116.

Jacopone, secondo la Franceschina, quanto più avvertiva la fiamma dell’amor divino, tanto più compiva gesti strani: una volta si caricò di sassi, andò nel cimitero e diceva di volersi costruire lì un nuovo palazzo, «altre fiate mentre erano a pioggia o nevi andava per la città a piedi nudati e senza niente nel capo mangiando un po’ de pane con alcune erbe, e poi si poneva a giacere sopra la neve». lamentare più de me; però che ho fatto de ponto quello che tu me decesti –. Et quillo ceptadino, tutto interrito, pigliò li suoi pulli, et tornò ad casa con essi, et fo per tale atto molto hedificato», giacomo oddi, Del beato Frate Jacopone da Tode, cit., p. 43. 113 Lauda XXV, vs. 79-83. 114 Lauda LXXIV, vs. 19-22. 115 Lauda XLIII, vs. 267-72. 116 Lauda XLV, vs. 27-34.

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Quello stile di vita, però, era pericoloso – «quisto homo de Dio cognobbe, operante la divina grazia, che quillo stato era molto pericoloso, advenga che fosse de grande perfettione, et per questo pensò de pigliare un’altra via più sicura»117 – perciò volle entrare nell’Ordine di san Francesco, dove si presentò «con grande humiltà e con una fune al collo»118. Ciò nonostante «li frati lo tenevano fantastico per cagione di quello suo desprezarse et vilificarse»119. Chiaramente la Franceschina è polemica, così come lo è quando enfatizza l’anti-cultura di Jacopone. Anti-cultura che, del resto, è esaltata nelle sue opere, prima fra tutte la lauda LXXXIV, Como è somma sapientia essere reputato pazo per l’amor de Christo120 dove si condanna la sapienza del mondo opponendola alla follia per Cristo121. In questa lauda Jacopone – che altrove si definisce «diota me cognosco en theologia/ l’amor me constregne en sua pazia/ et famme bannire»122 – si fa beffe di chi va a studiare a Bologna o a Parigi. La via della vera sapienza passa attraverso l’empazire, in una sorta di dichiarazione cortese d’amore al bel Messia. L’empazato d’amore per chi lo vede dall’esterno, per chi non partecipa della sua grazia specialissima, è afflitto e tribulato, mentre in realtà ha raggiunto un alto grado di conoscenza del Divino. «La pazia, chi non la prova, già non sa que ben se sia», perché essa non è conoscenza, bensì esperienza. Chi si converte danza123 – e l’immagine ricorda la danza di umiliazione/glorificazione di Davide, coperto soltanto di un cortissimo efod di lino – e sarà accolto dall’immenso amore di Dio, dall’amor d’esmesuranza124. Si legge: Del beato Frate Jacopone da Tode, cit., p. 41. 118 g. b. gazzaroni, Vita del Beato Jacopone da Todi, in Le vite antiche, cit., p. 115. 119 giacomo oddi, Del beato Frate Jacopone da Tode, cit., p. 63. Oddi scrive che quando divenne francescano «per haversi acquistato al secolo nome di matto volle (forse per sua maggior mortificazione) ritenersi il medesimo nome di prima, chiamandosi fra’ Jacopone» e «andava quisto homo de Dio in questo tempo tanto dispetto et tanto humiliato per la terra, che quasi da ognuno era reputato pazo: et dalli fanciulli era schirnito et deleggiato, et chi lo tirava et chi lo spegnea, et de tutto parea che se godesse», ivi, p. 41. 120 «Senno me pare et cortesia empazir per lo bel Messia/ Ello me sa sì gran sapere a chi per Dio vol empazire,/ en Parige non si vidde ancor sì gran phylosophia,/ Chi per Christo va empazato par afflicto et tribulato;/ ma è maestro conventato en natura e theologia./ Chi per Christo ne va pazo a la gente sì par matto;/ chi non ha provato el facto, pare che sia fuor de la via./ Chi vol entrare en questa scola, troverà doctrina nova,/ la pazia, chi non la prova, già non sa que ben se sia./ Chi vol entrar en questa danza, trova amor d’esmesuranza,/ cento dì de perdonanza a chi li dice villania./ Ma chi va cercando honore, non è degno del suo amore,/ che Iesù fra doi latrone en mezzo la Croce stìa./ Ma chi cerca per vergogna, ben me par che cetto iogna;/ ià non vada più a Bologna a mparar altra mastrìa». 121 g. maritati a cura di, Jacopone da Todi pazzo per Cristo, Padova, Il Messaggero, 1991, p. 12. 122 Lauda LXXX, vs. 69-74. 123 Cfr. r. molinari, La danza e la rappresentazione della morte in Francesco d’Assisi, in Il francescanesimo e il teatro, cit., pp. 165-176. 124 Il vero pazzo è chi rifiuta Dio: «Omo posto en altura en fievele scalone,/ se egli è en agone parme gran follia:/ rompendose la scala, la terra è sua mascione/ fassene poi can117

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la pazia gli par ricta via de gire empazato d’amore125. Per amor so desfacto, pazo sì so’ tenuto[...] nullo donqua ormai più me reprenda se tale amore me fa pazzo gire, già non è core che più se defenda, d’amor sì preso che possa fugire: pensi ciascuno co el cor non se fenda, cotal fornace co possa patire126 poiché lo saper de Dio è empazato de l’amore, que farai, o saper mio? Non vol gir pol tuo Signore? non poi aver main onore ch’en sua pazìa conventare

In linea teorica l’allontanamento dalla sapienza del secolo per abbracciare la follia divina, è quasi un topos concettuale frequentato dagli intellettuali che asseriscono la centralità dell’amore di Dio nell’esperienza cristiana, e basti soltanto evocare il Tractatus de Gradibus charitatis di Riccardo di san Vittore e la In Hexaemeron collatio di Bonaventura. Entrambi i teologi esaltano la tribolazione allegramente sostenuta, il contemptus mundi; in breve quella penitenza corroborata da un eccesso di grazia che abbiamo già analizzato sin qui. La differenza con Jacopone insiste tutta nella sua opzione non conforme127. Ancora nella Franceschina: Alcune volte trovandosi per qualche campagna e considerando il grande amore di Dio verso l’homo mostrato, tutto ebrio di questo divinissimo amore, si poneva a correre in modo di chi vuole abbracciare qualcheduno, e se imbatteva ad abbracciare qualche albero e quello fortemente stringendo con pensare di stringere Gesù gridava e diceva: – O Giesù mio dolcissimo. Giesù caro amor mio. – E altre simili parole amorose verso il medesimo suo redentore; e senza riflettere di stare in chiesa e di essere udito128.

Nella lauda LXXVI Jacopone descrive quei momenti. cione de la sua gran pazia,/ grande è la frenesia non metterse a vedere/ad que fin degon venire tutte suoi operate», Lauda XXXIV, vs. 69-74. 125 Lauda LXXXIII, vs. 36-37. 126 Lauda XC, vs. 33, vs. 59-64. Natalino Sapegno nel 1923 scriveva: «veramente la pazzia del Tudertino non è un’invenzione degli antichi biografi, ma il carattere più singolare del suo temperamento»: Id., La “santa pazzia” di frate Jacopone e le dottrine dei mistici medievali, «Archivum romanicum», VII, 1923, n. 3, pp. 349-372, p. 352. 127 Non approfondisco la questione rimandando all’analisi di a. monteFusco, Jacopone nell’Umbria, cit., dove è chiarito il rapporto con la mistica bonaventuriana e con Olivi, del medesimo autore Una fedeltà paradossale: sulla memoria bonaventuriana in Iacopone, «Linguistica e Letteratura», XXXIII, 2008, pp. 9-42. 128 g. b. gazzaroni, Vita del Beato Jacopone da Todi, in Le vite antiche, cit., p. 115.

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O iubelo de core, che fai cantar d’amore! Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare, e la lengua barbaglia e non sa che parlare: dentro non pò celare, tant’è granne ‘ dolzore. Quanno iubel è acceso, sì fa l’omo clamare; lo cor d’amore è appreso, che nol pò comportare: stridenno el fa gridare, e non virgogna allore. Quanno iubelo ha preso lo core ennamorato, la gente l’ha ‘n deriso, pensanno el suo parlato, parlanno esmesurato de che sente calore. O iubel, dolce gaudio ched entri ne la mente, lo cor deventa savio celar suo conventente: non pò esser soffrente che non faccia clamore. Chi non ha costumanza” [qui vale esperienza] “te reputa ‘mpazzito, vedenno esvalianza com’om ch’è desvanito; dentr’ha lo cor ferito, non se sente da fore”.

Gesù è morto in Croce, fra doi latrone, dunque chi lo ama veramente seguirà il suo esempio. Qualsiasi cosa il mondo reputi ignominiosa è desiderata perché è la Croce dell’incontro con il Diletto infinito. A questo proposito nella Lauda XLVIII Jacopone, in un crescendo vertiginoso, enumera i mali che vorrebbe sostenere per eccesso di carità, con la consapevolezza – ed io t’ho morto a villania – che sono niente se paragonati alla Passione. Nel più totale disprezzo di sé si trova l’unione con Dio. Il contemptus sui è la cifra denotativa della sua intera esperienza129. e. menestò, Il “contemptus mundi” in Jacopone da Todi, cit., pp. 130-153, p. 135. Jacopone, quando era già tra i francescani, subì una forte tentazione di gola, desiderando ardentemente mangiare una corada [coratella di agnello]. Prese una corada e l’appese teatralmente nella sua cella, limitandosi a guardarla prima di prendere i pasti. Ovviamente la carne con il passare dei giorni marcì ed iniziò ad appestare l’aria del convento. Gli altri frati ignari di ciò «commenzarono a sospicare che frate Jacopone non avesse fatta qualche fantasticaria, como lui era usato, però che li frati lo tenevano fantastico per cagione di 129

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Mariano da Firenze, in maniera del tutto filologica, avrebbe scritto: diceva questo beato che cinque sono li scudj della penitentia, lo primo si è che lhomo desideri di avere infermità. Secondo desidery di non avere chil servj in epse infermità, né che alcuno ne habbia cura. Tertio che desideri chi lo offenda et facciali dispiacere: Quinto ché per tutte queste cose non aspecti nullo premio, né retribuzione dal Signore nella vita presente né nella futura130.

Jacopone è il santo degli spirituali e, poi, è esaltato dagli Osservanti, per quanto con le necessarie cautele131. Marco da Lisbona lo paragona a Ginepro, perché egli per «havere il thesoro del silentio, si pose avanti agli occhi l’essempio del Beato frate Ginepro, che stette una volta sei mesi senza dir parola»132. Ma chi ne depotenzia davvero la carica polemica è Possevino. Sul displuvio del ‘500, pubblicando la propria biografia di Jacopone, commentò la festa di Todi così: «gli venne un ardentissimo desiderio del dispregio di se stesso; onde fece una cosa, più tosto degna di maraviglia, che d’imitazione. Si spogliò ignudo, coprendosi solo le vergogne con uno straccio di tela, et si pose in spalla un basto da asino»133. Possevino s’inventa di sana pianta un provvidenziale straccio sulle pudenda – visto che la sua fonte è di sicuro la Franceschina dove sta scritto: se spogliò nudo – e diffida esplicitamente dal ripercorrere le orme di Jacopone (tanto più che ormai, alla fine del Cinquecento, reclusori e manicomi cominciavano a essere una realtà). Valerio da Venezia, il frate cappuccino autore del Prato Fiorito di vari essempi stampato a Venezia nel 1614, meno fiducioso del Possevino nell’ubbidienza dei lettori, cassò tanto l’episodio dell’asino quanto quello delle piume134. Infine, salomonicamente, l’erudito medico e accademico Giovan quello suo desprezarese et vilificarse». Per punirlo lo mandarono nei «luoghi comuni» dove s’installò tutto contento, cantando e glorificando il Signore. Gesù gli apparve per consolarlo e s’intrattenne a lungo con lui. Inizialmente Jacopone cercò di punirsi. Siccome avrebbe peccato per un pezzo di carne, appese lo strumento di tentazione e così lo poté vedere nella sua realtà di putridume, per la quale avrebbe rischiato di offendere Cristo stesso. Subito dopo i confratelli lo punirono con una specie di contrappasso: poiché aveva ammorbato l’aria del convento, lo imprigionarono in un posto fetido. Nel posto fetido incontrò Cristo. giacomo oddi, Del beato Frate Jacopone da Tode, cit., p. 62. 130 mariano da Firenze, Vita inedita, cit., p. 144. 131 Una sintetica ed efficace disamina delle fonti in e. menestò, La Vita di Jacopone da Todi, cit., pp. 25-26, tra le quali si ricordano il Chronicon seu Historia septem tribulationum Ordinis Minorum di Angelo Clareno (1323-1325), il De planctu Ecclesie di Alvaro Pelagio (1330 ca.); il De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Jesu (1385-1390). Si veda, a questo proposito, la bella tesi di perfezionamento di michele lodone, Invisibili frati Minori. Profezia, Chiesa ed esperienza interiore tra Quattro e Cinquecento, relatori Stefania Pastore, Sylvain Piron, Scuola Normale Superiore di Pisa, a.a. 2015-2016, in particolare pp. 18-47. 132 marco da lisbona, Croniche di frati minori traduzione italiana di Marco Diola, in Le vite antiche, cit., p. 212. 133 g. b. possevino, Vite di santi e beati di Todi, ivi, p. 183. 134 valerio da venezia, ivi, pp. 218-222.

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Battista Modio (inizi XVI secolo-1560) chiosò la parabola di Jacopone nella maniera seguente: «Avvenga che molte fiate avviene, sì come del’hora in costui, che quel che paiono et sono dal mondo tenuti pazzi, alla fine sono dal mondo medesimo a suo mal grado stimati esser santi: et regnare in cielo con Dio»135.

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g. b. modio, Li cantici del beato Jacopone da Todi, ivi, p. 169.

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Un’esperienza particolarmente connotata sotto il profilo della follia per Cristo si consumò ancora in terra umbra, tra XIII e XIV secolo. Mi riferisco a Pietro, detto Pietrillo, Crisci di Foligno, città in cui egli nacque nel 1243 e morì nel 1323. Pietro visse in un periodo e in un contesto molto fertili sotto il profilo delle esperienze religiose, e non tutte rubricabili sotto lo stigma dell’ortodossia1. Come felicemente sintetizza Antonio Montefusco, infatti, quest’area è stata un «febbricitante ricettacolo di novità inquietanti in campo religioso»2. Nella valle spoletana alla fine del XIII secolo serpeggiava l’eresia dello Spirito di Libertà, particolarmente pervasiva e sfuggente sia perché ineriva la questione della libertà dell’anima, sia perché circolava fecondando gruppi eterogenei di accoliti, uniti tra di loro dalla presenza dei religiosi girovaghi, vettori ereticali, e dalla partecipazione a un humus religioso e spirituale analogo. Un humus suscettibile di coordinare esperienze affratellate, per così dire, ma non propriamente accomunate, giacché si trattava di una corrente religiosa destrutturata, che non produsse una vera e proR. Rusconi a cura di, Il movimento religioso femminile in Umbria nei secoli XIII-XIV, Firenze, La Nuova Italia, 1985; Santa Chiara da Montefalco e il suo tempo. Atti del 4. Convegno di Studi Storici Ecclesiastici organizzato dall’Archidiocesi di Spoleto, a cura di C. Leonardi, E. Menestò, Spoleto, Cisam, 1985; g. casagrande, Il fenomeno della reclusione volontaria nei secoli del Basso Medioevo, «Benedictina», 35, 1988, n. 2, pp. 475-507; a. benvenuti, “Velut in sepulchro”: cellane e recluse nella tradizione agiografica italiana, Roma, Herder, 1990; m. sensi, Storie di bizzoche tra Umbria e Marche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1995; e. susi, Geografie della santità: studi di agiografia umbra medio-latina, secc. IV-XII, Spoleto, Cisam, 2008; L’Umbria nel secolo XIII, a cura di E. Menestò, Spoleto, Cisam, 2011, in particolare il saggio di e. paoli, Santità, culto dei santi e agiografia nell’Umbria del XIII secolo, ivi, pp. 167-223. 2 A. monteFusco, Iacopone, cit., p. 204. 1

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pria setta né una sola scuola di pensiero3. In definitiva si trattava di credere che l’unione mistica dell’anima con Dio conducesse alla fusione perfetta della creatura con il Creatore, così da procurare una consentaneità di volontà totale e tale da superare il libero arbitrio. L’anima persa nella grazia attinge, di fatto, a una dimensione d’impeccabilità4. Numerosi furono i perfetti, considerati santi in vita, che furono poi giudicati eretici. Costoro si guadagnavano il rispetto e anche la venerazione dei fedeli vivendo asceticamente, dopo aver trascorso un lungo periodo d’isolamento eremitico. Ritenevano di appartenere all’ecclesia spiritualis, una comunità di santi che non s’opponeva frontalmente alla chiesa istituzionale; anzi spesso questi uomini e queste donne si comportavano, almeno esteriormente, come se non esistessero frizioni con l’istituzione. Non raramente coltivavano l’ambizione di riformare la chiesa: in virtù dei suoi connotati sfuggenti e sfumati, l’eresia aveva attecchito nel clero riformatore e, nella fattispecie, tra gli spirituali francescani5. Addirittura, secondo Robert Lerner, questa corrente ereticale assunse connotati precipui proprio nella zona umbra e marchigiana, tanto da giustificare una doppia nomenclatura: di Libero Spirito sarebbe corretto parlare per la realtà franco-tedesca, mentre per quella italiana sembrerebbe più opportuno riferirsi a Spirito di Libertà6. Pur senza enfatizzare una distinzione tanto netta, è comunque accettabile la presunzione di diversità tra le due aree: studi puntuali hanno dimostrato la tangenza e, in vari casi, la compenetrazione tra spiritualismo francescano e dissenso del libero spirito. Appare emblematico, sotto questo profilo, il caso di Jacopone per come emerge dall’analisi di Antonio Montefusco, la cui prospettiva d’indagine non insiste tanto sul fatto che Jacopone sia stato un eretico o meno, quanto sulla possibilità che sia entrato in contatto con r. guarnieri, Il movimento del libero spirito. Testi e documenti, «Archivio Italiano per la storia della pietà», 4, 1965, pp. 351-708. Cfr. inoltre s. e. Field, r. e. lerner, s. piron (ed.), Marguerite Porete et le Miroir des simples âmes. Perspectives historiques, philosophiques et littéraires, Paris, Vrin, 2013 e il recente r. parmeggiani, Ubertino e lo Spiritus libertatis, in Ubertino da Casale, Spoleto, Cisam, 2014, pp. 149-187. 4 Si veda, oltre al testo di Guarnieri, la sintesi intelligente di A. monteFusco, Iacopone, cit., pp. 197-234. 5 m. sensi, Agiografia umbra tra Medioevo ed età moderna, in Id., Santuari, pellegrini, eremiti nell’Italia centrale, Spoleto, Cisam 2003, pp. 947-970, p. 947 (già in Santità e agiografia. Atti dell’VIII Congresso di Terni, a cura di G. Gordini, Genova, Marietti, 1991, pp. 175-198); F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, beato confessore compatrono di Foligno, «Bollettino storico della città di Foligno», Supplemento n. 8, 2014. 6 Id., The Heresy of the Free Spirit in the Later Middle Ages, Berkley-Los Angeles-London, California University Press, 1972. Cfr. precedentemente g. leFF, Heresy in the Later Middle Ages: The Relation of Heterodixy to Dissent: c. 1250 - c. 1450, Manchester, Manchester University Press, 1967, pp. 259-410; Marguerite Porete et le Miroir des simples âmes. Perspectives historiques, Philosophiques et littéraires, a cura di L. Field, R. Lerner, S. Pyron, Paris, Vrin, 2014. 3

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qualcuna delle fraternitae in cui si professavano idee e dottrine non ortodosse sotto la specie della libertas spiritus7. In Umbria il diffusore e capo indiscusso del movimento della Libertà dello Spirito fu frate Bentivenga da Gubbio, già fratello apostolico della cerchia di Gerardo Segarelli, bruciato sul rogo nel 1300. Nel 1286 Bentivenga aveva indossato il saio francescano e nel 1306 era ormai predicatore a Montefalco. Lì si creò un seguito tra i confratelli e lì allacciò i rapporti con il locale monastero femminile agostiniano di cui i Minori erano cappellani e, nella fattispecie, con la monaca Chiara. Il gruppo coordinato da Bentivenga era convinto che qualsiasi cosa esistesse fosse effetto della volontà di Dio e che i sacramenti fossero necessari soltanto per le anime dei non perfetti, perché i perfetti vivevano in uno stato di apatheia e di impeccabilità, e che l’Inferno non esistesse. Chiara avrebbe denunciato alle autorità competenti Bentivenga; il cardinale protettore dell’Ordine dei Minori Napoleone Orsini avrebbe deciso di istruire il processo inquisitoriale e Ubertino da Casale lo avrebbe istruito. Il processo terminò con la condanna degli imputati e fu seguito dalla persecuzione di numerosissimi frati. Intanto, dopo la morte di Bonaventura da Bagnoregio occorsa nel 1274, si era radicalizzato lo scontro tra i rigoristi, zelatori della Regola e assertori della povertà assoluta che, con diverse gradazioni, si opposero al corso che l’Ordine aveva intrapreso. Costoro si riconobbero nella leadership di Piero da Macerata (fra Liberato) e di Pietro da Fossombrone (Angelo da Chiarino o Clareno), dando vita a gruppi di dissenso di varia natura, fino ai Fraticelli menzionati da Giovanni XXII nella bolla Sancta Romana Ecclesia del 30 dicembre 1317, diretta specificatamente contro questi ultimi8. Non è questa la sede adatta per ripercorrere le caleidoscopiche sfumature del dissenso in ambito francescano laddove, mischiandosi tra loro, s’innervavano vicendevolmente tensioni escatologiche di origiA. monteFusco, Iacopone, cit., pp. 197-198. Interessanti piste future di ricerca sono accennate da michele lodone riflettendo sul fatto che il Miroir di Marguerite Porete, spesso, circola accoppiato alle laude di Jacopone. Si legga la sua recensione a Marguerite Porete et le Miroir des simples âmes. Perspectives historiques, Philosophiques et littéraires, a cura di L. Field, R. Lerner, S. Pyron, Paris, Vrin, 2013, «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 2014, pp. 450-455, in particolare le pp. 452-453. 8 m. sensi, Agiografia umbra, cit., p. 175. Si veda inoltre: a. tabarroni, Paupertas Christi et apostolorum. L’ideale francescano in discussione (1322-1324), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1990; g. l. potestà, Angelo Clareno dai poveri eremiti ai fraticelli Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1990; Angelo Clareno francescano: atti del XXXIV convegno internazionale. Assisi 5-7 ottobre, Spoleto, Cisam, 2007; g. l. potestà, Ubertino da Casale e la altissima paupertas, tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, «Oliviana on line», 4, 2012, http://oliviana.revues.org/index471; Id., Ubertini de Casali tractatus de altissima paupertate Christi et apostolorum eius et virorum apostolicorum, edizione critica, “Oliviana on line”, 2, 2013 < http://oliviana.revues.org/478>; a. sancricca, I fratres di Angelo Clareno: da poveri eremiti di papa Celestino a frati minori della Provincia di S. Girolamo de Urbe attraverso la genesi del Terz’Ordine regolare di S. Francesco in Italia, Macerata, Simple, 2015. 7

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ne gioachimita con rivendicazioni di fedeltà all’esempio pauperistico di Francesco, nell’attesa di un rinnovamento globale, guidato da un pontefice angelico, e che avrebbe visto trionfare la chiesa spirituale9. A Foligno sarebbe morto, forse intorno al 1377, anche Tommasuccio, nato presumibilmente verso il 1319 nel villaggio di Valmacinaia, nella diocesi di Nocera, poi eremita a Gualdo Tadino, clareno ortodosso e profeta10. D’altronde il movimento penitenziale era vigoroso, costituendo il vasto e multiforme alveo in cui trovarono collocazione esperienze religiose femminili molto intense, quali quelle, per esempio, di Margherita da Cortona († 1297), di Chiara da Montefalco († 1308) e di Angela da Foligno († 1309). “Faciebam trufas de Petruccio”: Pietro da Foligno Di Pietro Crisci resta memoria agiografica grazie al frate predicatore Giovanni di Gorino (Gorini, 1338-1391) da San Gimignano, che la compose forse intorno al 1375 su incarico del vescovo fulginate Giovanni Angelelli11. Pietro era un ricco abitante di Foligno che si convertì alla sequela rigorosa di Cristo, secondo Giovanni di Gorino, in occasione della morte del padre. Anche lui interpretò e visse letteralmente la parola con cui la Vulgata indica la conversione, cioè poenitentia. L’agiografo narra che si recava presso il fiume Topino dove raccoglieva pietre perfettamente dilavate dalle acque correnti del fiume, le bagnava con le sue lacrime di contrizione per il passato peccaminoso e poi le accatastava in un canestro chiuso per mezzo di un panno annodato e le andava a deporre in città, di fronte a un’immagine della Vergine Maria. Offriva alla Vergine e a Gesù Bambino quelle pietre perché erano un simbolo perfetto della remissione dei suoi peccati, ottenuta attraverso il pianto del pentimento suscitato in lui dalla grazia di Dio12. Simili esternazioni pubbliche non giovarono G. G. merlo, Nel nome di San Francesco, cit., pp. 279-295; Id. Tra eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo medievale, cit. Si veda anche R. lambertini, “Non so che fraticelli …”: identità e tensioni minoritiche nella Marchia di Angelo Clareno, in Angelo Clareno francescano, cit., pp. 229-261; s. piron, Le mouvement clandestin des dissidents franciscaines au milieu du XIVe siècle, «Oliviana on line», 3, 2009; a. monteFusco, Dissidenza francescana nel Trecento: a proposito di due edizioni recenti, «Oliviana on line», 4, 2012; si veda ancora M. lodone, Invisibili frati Minori, cit. 10 m. sensi, Alfonso Pecha e l’eremitismo italiano di fine secolo XIV, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XLVII, 1993, pp. 51-80. 11 Per la vita di Giovanni di Gorino: c. longo, Sull’autore della Legenda del beato Pietro Crisci, «Bollettino storico della città di Foligno», 31-34, 2007-2011, pp. 345-369. 12 «Quod saepe saepius ipse de fluvio lapides quosdam valde politos accipiebat et ipsos cum suis lacrymis infundebat, atque lavabat: quos lapides sic suis lacrymis madefactos in quodam canistro, cum quadam tobalia fresciata super suum caput per civitatem portabat, et ante imaginem Virginis gloriosae ipsi matri, ac suae proli Jesu offerebat, in hoc volens innuere, quod sicut illi politi lapides, qui graves erant, ita erant aqua mundati, ita et pecca9

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alla sua fama; persino Angela da Foligno, quand’era molto giovane e ancora non si era completamente donata a Dio, lo prendeva in giro. Candidamente, ormai ardente innamorata di Cristo, avrebbe confessato l’errore giovanile, aggiungendo di aver sperimentato su di sé i medesimi effetti della conversione vissuta da Pietrillo; anche lei si sarebbe prodotta in azioni eccessive e stravaganti e a chi l’apostrofava di essere indemoniata e pazza, non poteva controbattere niente, né era capace di comportarsi diversamente. «Et primus faciebam trufas de Petruccio» – ammette – «sed postea nullo modo poteram facere aliud. Immo quando personae dicebant mihi quod eram indemoniata, pro eo quod non poteram facere aliud, verecundabar valde, et ego dicebam similiter, videlicet quod eram forte infirma et indemoniata»13. Non possiamo escludere che Angela abbia partecipato a quelle torme di ragazzini che motteggiavano Pietro, ritenendolo stolto, e provocavano il risentimento di alcuni adulti14. Nell’instructio XXVII del Memoriale che le è attribuito, dedicata ai sette doni concessi dallo Spirito quibus anima transformatur in Christum Jesum, si legge: Secundum est quod desideret despici et vilipendi et opprobriari ab omni creatura, et quod velit quod omnis creatura credat ipsam esse dignam ita quod nullus compatiatur sibi, nec velit vivere in corde alicuius creaturae nisi solius Dei, nec ab aliquo aliquid reputari quocumque modo. Tertium est quod desideret dolorari et poenari et impleri et superinfundi omnibus doloribus corporis et cordis dulcissimi Domini Jesu et dulcissimae Matris eius et quod desideret quod omnis creatura faciat sibi istos dolores sine intermissione15.

Frater A., che ne ha tramandate le gesta e le parole, non esita a confessare come persino lui, colpito dalle grida emesse da Angela di fronte alla Basilica di san Francesco ad Assisi, concepì seri dubbi sulla sua salute mentale, finché non riconobbe in lei le tracce della follia ta quae suam gravabant animam, et foedaverunt, suarum lacrymarum virtute erant amota, sive deleta», [Giovanni Gorini] De S. Petro confessore Fulginii in Umbria, AA.SS., Luglio 4, pp. 665-668, p. 665, versione integrale in m. Faloci pulignani, B. Petri Crisci de Fulgineo confessoris legenda auctore Fr. Ioanne Gorino Ord. Praed. integre edita, «Analecta Bollandiana», VIII, 1889, pp. 365-369; F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, cit., p. 54. 13 m. Faloci pulignani, L’autobiografia e gli scritti della Beata Angela da Foligno pubblicati ed annotati da un codice sublacense, Città di Castello, Ed. Il Solco, 1932, p. 24. 14 Cfr. ivi, p. 51. 15 l. thier, a. caluFetti, Il libro della Beata Angela da Foligno, Romae, Collegii S. Bonaventurae ad Claras aquas 1985, pp. 632-634; per una corretta analisi della fonte: e. menestò ed., Il Liber della beata Angela da Foligno, Spoleto, Cisam, 2009; Id., Il Memoriale di Angela da Foligno: la croce, il nulla, la resurrezione, in Il Liber di Angela da Foligno, a cura di D. Alfonsi, M. Vedova, Spoleto, Cisam, 2010, pp. 1-36; F. Frezza, Liber Lelle. Il libro di Angela da Foligno nel testo del codice di Assisi con versione italiana, note critiche e apparato biblico tratto dal codice di Bagnoregio, Firenze, Sismel, 2012; Il Memoriale di Angela da Foligno, edizione critica a cura di Enrico Menestò, Firenze, Sismel, 2013; Memoriale, Angela da Foligno edizione critica e introduzione a cura di Enrico Menestò. Traduzione, apparati e indici a cura di Emore Paoli, Spoleto, Cisam, 2015.

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d’amore per Cristo. Allora sostenne che era giunta alla «perfectam et sapientissimam stultitiam crucis Christi» e così «perfectorum sapientiam renovavit»16. Pietro intanto aveva donato ogni suo bene materiale ai poveri, riducendosi in miseria. Perciò vendette se stesso e distribuì ai bisognosi il denaro ricavato, come aveva insegnato a fare san Domenico, precisa l’agiografo domenicano Giovanni17; come si legge che avesse fatto Serapion il Sidonita dell’Historia Lausiaca, potremmo aggiungere sulla scorta di quanto già sappiamo della circolazione dei testi antichi. Il compratore lo rilasciò subito dopo l’acquisto, a patto che pregasse per lui. Così Pietro, coperto dalla tunica di canapa dei penitenti, chiara e vile, su cui aveva praticato dei buchi – «quasdam fenestrulas» – per le braccia, tornò a vagare per le strade di Foligno e a far penitenza. Camminava a piedi nudi e capo scoperto, talmente disinteressato al suo corpo, ai disagi e alle sofferenze da conquistare la reputazione di matto: «In testa poi non portava nulla, volendo così imitare l’apostolo Pietro, il quale, come si legge nella vicenda di Antiochia, con i capelli rasati in segno di pazzia e di irrisione, a capo scoperto fu condotto a forza per la città. Così, il confessore Pietro per questa grande trascuratezza era considerato da tutti instabile e malato di mente […]»18. Ben presto Cristo gli dispensò grazie speciali: poteva pregare ininterrottamente e guardare fisso nel sole. Nel disco solare, infatti, Cristo gli si manifestava. Spesso pregava componendo una sorta di litania in cui era presente il Nome di Gesù. Nutriva per quel nome una venerazione così forte «che mentre sentiva proferir quel santissimo Nome di Giesù, s’inginocchiava subito a terra»19. La speciale venerazione al Nome di Gesù evoca il modo con cui Francesco d’Assisi teneva le carte sulle quali fosse scritto il nome di Cristo e la tenerezza che provava verso quel nome. Poco più avanti nel tempo sarà proprio l’indefessa orazione al Nome a caratterizzare Giovanni Colombini e il Prologo, ivi. 17 De S. Petro confessore, cit., p. 666; F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, cit., p. 58. 18 «In capite autem nihil portabat. In hoc facere non omittens, quod Petro Apostolo factum fuisse in Antiochia legitur, cum scilicet rasa coma in signo fatuitatis, et irrisionis discoperto capite per civitatem iussus est trahi. Propter talem, ergo, ac tantum despectum confessor Petri non sani capitis, seu sensus esse ab omnibus putabatur, sed merito propter suam maximam, quam assecutus est, gloriam, dici potest quod de numero sit illorum, de quibus libro Sapientiae dicitur: – Hi sunt quos aliquando nos habuimus in derisum, et in similitudinem improperii. Vitam illorum aestimabamus insaniam, et finem illorum sine honore; modo computati sunt inter filios Dei, et inter Sanctos sors illorum est –», ivi, pp. 58-59. Cfr. Robert d’Arbrissel e Tristano, supra, p. 95. 19 «Totiens et quotiens a quocumque etiam puero sibi dicebatur, ut amore Jesu genu flecteret, Petrus genu flectebat», F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, cit., p. 62; l. iacobilli, Vite de’ santi e beati di Foligno et di quelli i corpi de’ quali si riposano in essa città e sua Diocesi, In Foligno, Appresso Agostino Alteri, 1928, p. 47. 16

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gruppo dei suoi seguaci, tanto da diventare l’onomaturgo della congregazione che da lui prese vita – i gesuati -, tangenzialmente interesserà Caterina da Siena e, infine, troverà in Bernardino da Siena il suo più fervente propagatore, addirittura accusato di fronte al pontefice per averla diffusa20. La devozione al Santo Nome, per come appare nelle esperienze di Francesco d’Assisi, di Pietro Crisci e poi degli altri santi appena ricordati, è collegata al processo di trasformazione dell’anima nel «divino amore». Questa connotazione era stata evidenziata dagli scritti di Bernardo da Chiaravalle e, più avanti nel tempo, avrebbe contraddistinto quelli di Enrico Suso (Heinrich Seuse 1295-1366). A san Bernardo era unanimemente attribuito uno Iubilus rithmicus de nomine Iesu che invece fu composto, con ogni probabilità, in ambiente cistercense inglese sul displuvio del dodicesimo secolo. Lo Iubilus esaltava quali effetti della venerazione al Nome l’illuminazione dell’intelligenza e il rinnovamento del cuore e fu inserito da Enrico Suso nel suo officio della saggezza divina21. Suso aveva preso l’abitudine di portare sul torace, in corrispondenza del cuore, un panno con scritto il Nome di Cristo22 e aveva chiesto alla propria figlia spirituale Elsbeth Stagel di ricamarlo su scampoli di stoffa, in guisa di scapolari, da regalare agli amici perché potessero portare sempre con sé il Nome, scudo contro il male e memoria costante della Passione di Cristo23. L’opera di Suso era sicuramente conosciuta da Giovanni Colombini, com’è chiarito da una delle sue lettere24, mentre per quanto riguarda Pietro Crisci è forse più opportuno pensare che la sua fervente devozione al Nome sia stata suscitata dalla liturgia25. Si noti che la pratica litanica di Pietro, eseguita usando il Nome, è messa in relazione con l’impazzire d’amore per Cristo, com’era accaduto nel caso di Nicola di Trani e come accadrà per Giovanni Colombini. L’agiografo, a un certo punto della narrazione, certifica che la follia di Pietro era veramente effetto della sapienza divina introducendo una prova e contrario, tirando cioè in ballo il diavolo. Satana – i. gagliardi, Figura Nominis Iesu: in margine alla controversia De Jesuitate (14271431), «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 113, 2009, pp. 209-249. 21 bernardi claraevallensis Jubilus rhytmicus de nomine Jesu, P.L. 184, coll. 1317-1320; Ed. critica in a. Wilmart, Le “Jubilus” dit de saint Bernard, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944. 22 Secondo la Vita Enrico Suso aveva inciso sul proprio petto il nome di Gesù con uno stilo di ferro, così come gli amanti erano soliti portare sul cuore il nome della donna amata, Enrico Suso Libretto dell’eterna sapienza, trad. it. a cura di Franca Belski con introduzione e note di suor Giovanna della Croce, Milano 1992, p. 20. 23 i. noye, Jésus (nom de), D. Sp., coll. 1109-1126, col. 1119. 24 Le lettere del Beato Giovanni Colombini da Siena, pubblicate per cura di Adolfo Bartoli, Lucca, Tipografia Balatresi, 1856, p. 52 (d’ora innanzi colombini, Le lettere). 25 c. blume, g. m. dreves, Analecta Hymnica Medii Aevi. XLII. Sequentiae Ineditae. Liturgische Prosen des Mittelalters, Leipzig, O. R. Reisland, 1903, p. 21. 20

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ci narra – cercò di convincerlo a cambiare stile di vita facendo aggio proprio sulla fama di follia. Lo scrittore ritrae il demonio mentre lo induce in tentazione e, per sedurlo, gli dice che tutti lo ritengono pazzo – «con mia grande meraviglia», commenta l’antico nemico – perché si auto-mortifica e si auto-punisce troppo26. Dopodiché cerca di allettarlo richiamandolo agli status symbols del secolo: case, vigne, denari, terreni e uno stile di vita cavalleresco, ottenendo però un fermo diniego da parte di Pietro che resta ancorato alla sua somma povertà. Il demonio non si dà per vinto, insiste l’agiografo, e fa sì che Pietro sia inquisito. «Et hec vita et regula discipulorum Christi, scilicet proprii corporis et anime et sensus et proprie voluntatis abnegatio et hec est fides et obedientia, ex desiderio ferventer passiones, obpropria et mortem amaram et ignominosam pro Christo diligere»27. Sono parole di Angelo Clareno, per quanto rispecchino fedelmente anche la scelta di Pietro, ma dietro ad esse stanno le vicissitudini dei fraticelli toscani, marchigiani e umbri, dei pauperes eremitae Domini Coelestini, il lungo processo subito dal Clareno tra 1307 e 1311 e i provvedimenti presi da Giovanni XXII contro zelanti e Spirituali28. Di Foligno era originario un amico e seguace di Angelo: l’agostiniano Gentile da Foligno, appunto, volgarizzatore della Scala Paradisi di Giovanni Climaco interamente tradotta in latino dal Clareno29. Nelle lettere tra i due la sequela Christi è dipinta in modo inequivocabile come povertà, rinuncia, croce. Se ciò non appartiene soltanto alle esperienze confinanti con l’eresia, si trova comunque su un terreno di frontiera, dove ortodossia ed eterodossia si toccano. Vicino a Pietro altri tre grandi mistici vivevano il modello della Passione: Jacopone da Todi, Angela da Foligno e Chiara da Montefalco. Intorno a Chiara e Angela ruotava una vasta cerchia di Minori, in cui incontriamo lo stesso Ubertino da Casale. Nel 1304 Chiara sospettava fra’ Giovannuccio da Bevagna, minore, di essere eretico dello Spirito di Libertà e nel 1306 denunciava come tale Bentivenga da Gubbio30. Intanto Ubertino nell’Arbor «Petre, miror multum, quia per ea, quae egisti, fatuus (et merito) ab omnibus appellaris. Vendidisti enim te, et tanta, et subito inter pauperes, vano motus amore dispersisti, sed si meis assensum monitis praebere volueris, multo majore habebis delicias, et temporalia bona, domos, denarios, agros et vineas, et tot, et tanta sibi contribuam, ut si quinquaginta habueris filios, quilibet militari (more) poteris vivere», m. sensi, F. Frezza, Pietro Crisci, cit., p. 64 e p. 65. 27 Epistola LXIV, in l. von auW ed., Angeli Clareni Opera I, Epistolae, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1980, vv. 11-55. 28 Per la polisemia di “fraticelli” si veda r. lambertini, “Non so che fraticelli …”, cit. 29 a. ceruti, La Scala del Paradiso di S. Giovanni Climaco. Testo di lingua, corretto su antichi codici mss. da Antonio Ceruti, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1874; p. vian, Gentile da Foligno, in D.B.I., LIII, 1999, pp. 160-162. 30 g. casagrande, Movimenti religiosi umbri e Chiara da Montefalco, in S. Chiara da Montefalco ed il suo tempo, Atti del IV Convegno di Studi Storico Ecclesiastici organizzati dall’Archidiocesi 26

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sosteneva che molti francescani erano stati sedotti da quell’errore e Angela, da canto suo, esortava i buoni cristiani a tenersi a debita distanza dai falsi profeti31. I falsi profeti non erano poi così facili da riconoscere, poiché si celavano nei gruppi religiosi più rigoristi: stavano con i francescani, appunto, con i domenicani, ma anche con gli Eremitani di Sant’Agostino, i flagellanti, i laudesi, i begardi. In tutte le accuse rivolte agli eretici della Libertà dello Spirito ricorre la menzione della loro abitudine di spogliarsi in pubblico, di vestire poveramente, di mendicare e di mortificare il gusto mangiando cose disgustose32. I medesimi atteggiamenti si riscontrano tra i francescani ortodossi. Tuttavia, poiché il comportamento costituisce un indice di correttezza confessionale, questi stessi atteggiamenti erano assai sospetti. Tanto più se presenti tra chi non apparteneva ad alcuna istituzione ecclesiastica. Giovanni di Gorino recluta Pietro Crisci tra i terziari francescani, ma si tratta di un’affiliazione di maniera; tipicamente, infatti, le Regole o i canonicati tendevano a riassorbire nelle proprie fila i laici che avessero raggiunto gli onori del culto. In genere queste istituzioni, post mortem del soggetto, si adopravano affinché figurasse tra i propri, santi, “figli”. Molto probabilmente Pietro fu un bizzoco33. «Poiché sono vicini al regno dei cieli soprattutto coloro che fanno penitenza, secondo la parola del Signore che dice di far penitenza perché il regno dei cieli è vicino», scrive Giovanni di Gorino per rivelare la matrice scritturale delle usanze di Pietro34. Egli digiunava, si flagellava, non possedeva neppure un letto in cui riposare e dormiva sul nudo pavimento nel campanile della chiesa di San Feliciano a Foligno. Lì sopportava tentazioni demoniache di ogni sorta; da lì il diavolo lo gettò nel vuoto affinché si sfracellasse al suolo, ma gli angeli di Dio accorsero per salvarlo. Giovanni in questa parte dell’agiografia del fulginate ricorre spessissimo al paragone del santo di Foligno con l’apostolo Pietro secondo la logica allegorica del nomen-omen. Il parallelismo con l’apostolo si rivela particolarmente funzionale a spiegare perché, durante uno dei suoi numerosi pellegrinaggi ad Assisi, Pietro cadde nelle mani dell’inquisitore. Secondo Giovanni di Gorino alcuni uomini «per impulso e istigazione dello stesso demonio, corrosi di Spoleto, 28-30 dicembre 1981, a cura di C. Leonardi e E. Menestò, Spoleto, Cisam, 1992, pp. 3-52, p. 52; Santa Chiara da Montefalco monaca agostiniana (1268-1308). Atti del Congresso Internazionale in occasione del VII Centenario della morte di Chiara da Montefalco († 1308-2008). Montefalco-Spoleto 25-27 settembre 2008, a cura di E. Menestò, Spoleto, Cisam, 2009. 31 g. l. potestà, Storia ed escatologia in Ubertino da Casale, Milano, Vita e Pensiero, 1980, in particolare le pp. 17, 22, 44, 226-228, 234, 235, 237-241, 243, 244, 228. 32 r. guarnieri, Il Movimento del Libero, cit., pp. 365-411. 33 M. sensi, Storie di bizzocche, cit., p. XIV. 34 «Quia maxime penitentiam agentes, appropinquantes sunt regno celesti, dicente Domino: penitentiam agite, et appropinquabit regnum caelorum», De S. Petro confessore, cit., p. 667. F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, cit., pp. 62- 63.

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dall’invidia, in completa falsità, lo accusarono di errori nella fede presso l’inquisitore dell’eretica pravità»35. Si tratta dell’usuale topos agiografico dell’insidia e dell’inganno demoniaci. Molto probabilmente Pietro Crisci fu tra le vittime del clima di sospetto aleggiante attorno a eretici della Libertà dello Spirito e fraticelli, in un crescendo di severi interventi papali, dalla bolla Incrementum catholicae fidei del 1297, con cui Bonifacio VIII autorizzava un’inquisizione contro i bizzochi, fino alla bolla Sancta Romana contro i fraticelli36. Fu esaminato ad Assisi e convinse l’inquisitore, ma gli homines pravi continuarono a sparlare di lui, così fu inviato anche a Spoleto, per essere nuovamente interrogato37. Nuovamente il Crisci fu rilasciato perché ne venne riscontrata la perfetta cattolicità. Chi fossero i perfidi accusatori, istigati dal grande accusatore di biblica memoria, non è chiaro. Di certo funsero da provvidenziale deus ex machina che consentì all’agiografo di lasciare immacolati sia il Crisci, sia la Sancta Romana Ecclesia. Il ricorso agli agenti del maligno, specie se effettuato dopo aver insistito parecchio sulle gravose tentazioni sostenute da Pietro Crisci rendeva giustizia a entrambi gli attori in causa38. «La mansuetudine è nella sustinenzia delle vergogne, del vituperio, che se dice colla lingua» – come si legge in un libriccino trecentesco di erudizione spirituale – 39 e Pietro era un mansueto, ma non soltanto. Impazzire d’amore per Cristo tra prassi devota e sospetto d’eresia Pietro era piuttosto un folle in Cristo di cui l’agiografia sottolinea il contemptus mundi et sui, tanto da far coincidere pazzia e mortificazione. Giovanni di Gorino ripete continuamente che tutti scambiavano Crisci per matto perché ostentava un disprezzo assoluto nei confronti «Ipso eodem daemone movente et instigante, zelo invidiae moti, apud inquisitorem haereticae pravitate falsissime accusaverunt Beatum» De S. Petro confessore, cit., p. 667; F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, cit., pp. 66- 67. 36 Cfr. M. sensi, Storie di bizzocche, cit. p. 286, nota 100. 37 «Quod audiens inquisitor, disposuit ipsum Spoletum transmittere, ut iterum examinaretur et si ipsum inveniret errantem, contra eum sicut contra haereticum procederet», De S. Petro confessore, cit., p. 667, F. Frezza, m. sensi, Pietro Crisci, cit., pp. 67- 69. 38 Iacobilli, l’erudito umbro vissuto nel XVII secolo, che per scrivere le vicende del Crisci si basa sull’agiografia redatta dal predicatore sangimignanese, motiva la faccenda in maniera piuttosto simile, anche se un po’ più rozza, paragonandola alle altre tribolazioni sostenute dal santo. Dopo aver detto che evase incolume dalle maglie dell’Inquisizione, aggiunge: «Sofferse anco altre ingiurie, et offese, e fu da molti tenuto pazzo, et egli con allegra faccia et ammirabile pazienza sopportò il tutto», l. iacobilli, Vite de’ santi e beati, cit., p. 47. 39 girolamo da siena, Il soccorso de’ poveri, a cura di Ildefonso di san Luigi, Firenze, St. Cambiagi, 1771, p. 18. 35

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del corpo e delle proprie condizioni di vita. La Vita Petri rappresenta un altro passo in avanti sulla linea della precisazione della santa follia occidentale, poiché in essa si apprezza compiutamente la riduzione pressoché esclusiva della follia per Cristo all’humilitas. Nella Vita di Pietro non vi è posto per alcuna eccentricità, è dominata per intero da un fortissimo spirito di penitenza. Giovanni di Gorino è uomo molto colto, teologicamente preparato e scrive non per volontà propria ma su mandato del vescovo di Foligno e in un clima di grande devozione popolare per Pietro Crisci. Da una parte è costretto a rispettare la sostanza storica di un’esperienza recente, dall’altra deve pur costruire una memoria suscettibile di porsi quale modello. L’esperienza del Crisci scaturisce da un impulso personale e si mantiene parallela e non tangente alle istituzioni e alle personae ecclesiastiche; riproporla, sic et simpliciter, potrebbe rivelarsi pericoloso. Ecco dunque che l’agiografo ci dipinge un uomo dall’eccezionale volontà penitente, lanciandoci un messaggio preciso: rinunciare al mondo, umiliarsi, mortificarsi. Questi stessi elementi, del resto tipici e propri della santa follia in versione occidentale, sono anche quelli che più si prestano a essere controllati. Se la mortificazione è valida come strumento per raggiungere la perfetta umiltà, a quest’ultima è intrinsecamente connessa l’obbedienza. Dalla seconda metà del XIII secolo in poi si constata una progressiva riconduzione della vivacità delle sperimentazioni religiose, sviluppatesi nel laicato e nelle frange più marginali dello stesso clero, all’interno di canali istituzionali normalizzati. La follia per Cristo è, di per sé, un atteggiamento religioso anomico perché dipende dall’azione dello Spirito senza mediazione alcuna. L’unico sistema per riassorbirla all’interno della panoramica mentale, ancor prima che istituzionale, dell’ortodossia è far leva proprio sulla sua intrinseca penitenzialità, enfatizzando la dimensione dell’obbedienza insita nell’umiltà e depotenziandone, così, l’anomicità. Pietro Crisci riveste un posto di primaria importanza nella nostra analisi. Crisci è indubbiamente un uomo semplice e pacifico, lontano dalle polemiche di Jacopone, interessato semplicemente a seguire Cristo passionato. Eppure fu inquisito. Molto probabilmente lo fu in ragione dei suoi comportamenti rigorosi, dunque sospetti, e per la non appartenenza istituzionale. Sensi è autore di una riflessione con la quale concordo: secondo lui la presenza di Pietro Crisci (e poi di Tommasuccio) fu soltanto tollerata dalla chiesa, costretta a farlo dai numerosi devoti che lo consideravano una specie di intercessore della città di Foligno presso Dio e, poiché l’Umbria era percorsa da forti e ambigue tensioni spirituali, la sua figura era comunque maggiormente controllabile rispetto ad altre, più pericolose40. Tanto più 40

m. sensi, Agiografia umbra, cit., p. 182.

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lo tollerò perché il culto agli strenui difensori dell’ortodossia, come Giacomo Bianconi, stentava ad affermarsi e a decollare nel popolo dei fedeli41. Peraltro il domenicano Giovanni di Gorino poteva contare su una tradizione agiografica precedente in grado di legittimare (e addomesticare) l’esperienza del Crisci: le Vitae redatte dal suo confratello Tommaso di Cantimpré costituivano un interessante e utile modello atto a legittimare (e depotenziare) gli eccessi di Pietro Crisci. Un modello declinato al femminile, come vedremo a breve, ma fortemente probante l’insania amoris senza che venisse negata l’obbedienza alla chiesa cattolica e romana. Ormai, infatti, grazie anche all’indefessa pastorale Mendicante, gli eroici furori degli antichi monaci del deserto erano divenuti magistri in scriptis di una vita cristiana che sempre più sondava l’immenso territorio delle possibilità dell’anima, moltiplicandosi nei rivoli dell’iter della transfretatio ad divina personale42. Congiuntamente alla progressiva diffusione e divulgazione della pastorale dell’amore, nell’esaltazione dell’unione mistica e sponsale dell’anima a Cristo, il tema dell’insania amoris conobbe una rinnovata fortuna. Christina mirabilis (Cristina di St. Trond † 1224) una tra le “nuove” sante vissute tra XIII e XIV secolo appartenente all’eccezionale milieu dei circoli devoti della diocesi di Liegi, fu particolarmente incline agli eccessi provocati dall’innamoramento per Cristo43. I suoi comportamenti erano tutti peculiari, dall’insaziabile fame eucaristica, vissuta ai limiti dello spasmo e delle reazioni “furibonde”, alle stranezze indotte dal continuo contatto con l’invisibile, sia celeste, sia infernale, tant’è che i familiari – e anche le monache di Santa Caterina di Saint Trond cui era solita rivolgersi – non furono immuni dal sospettarla di pazzia e d’invasal. paolini, Gli Ordini Mendicanti e l’Inquisizione il “comportamento” degli eretici e il giudizio dei frati, M.E.F.R.M., 89, 1977, n. 2, pp. 695-709, p. 701. 42 Cfr. b. mcginn, The flowering of mysticism: men and women in the new mysticism (12001350), New York, Crossroad, 1998, 3 vol. 43 u. Weinmann, Mittelalterliche Frauenbewegungen: Ihre Bezehungen zur Orthodoxie und Häresie, Pfaffenweiler, Centaurus Verlag, 1990. Per un breve profilo e per la bibliografia specifica k. ruh, Storia della mistica occidentale, Milano, Via e Pensiero, 2002, vol. 2, pp. 105109, per l’analisi della Vita di Tommaso da Cantimpré, a. e. passenier, The life of Christina mirabilis. Miracles and the contruction of Marginality, in A. M. Korte ed., Women and Miracle Stories: a Multidisciplinary Exploration, New York-London, Brill, 2004, pp. 145-178; J. broWn, Three Women of Liege: a Critical Edition of and Commentary on the Middle English of Elizabeth of Spalbeek, Christina Mirabilis and Marie d’Oignes, Turnhout, Brepols, 2008; imprescindibile ai fini del nostro interesse: m. h. king, The Sacramental Witness of Christina Mirabilis: the mystic Growth of a Fool for Christ’s sake, in Peace Weavers: Medieval Religious Women, edd. By J. A. Nichols. L. Th. Shank, Kalamazoo, Cistercian Publications, 1987, pp. 145-164. Su Tommaso da Cantimpré e le sue Vitae segnalo la recente tesi di perfezionamento di mattia zangari, Agiografie, memoriali e fabulae depictae. Santità femminile fra testi e immagini dalle Vitae matrum al Monastero delle contesse, discussa il 19 dicembre 2016, relatrice Lina Bolzoni, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. 41

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mento. Sarebbe stato il suo agiografo, il domenicano Tommaso di Cantimpré, appunto, a rivelarne lo spessore spirituale perché ebbe intelligenza dell’origine divina dei suoi comportamenti. In questo caso, dunque, l’attribuzione di pazzia mistica generata dall’amore si configura quale frutto dell’operazione di discernimento/decodifica effettuata dal religioso che vagliò e trasmise la memoria della santa donna44. D’altronde Tommaso d’Aquino a sua volta avrebbe distinto efficacemente la follia per Cristo dalla malattia o dalla possessione demoniaca, predisponendo così un valido supporto per chi fosse chiamato a esercitare la discretio spirituum in frangenti tanto delicati45. Ben altra, invece, la consapevolezza che la brabantina Beatrice di Nazareth – (presso Lier 1200-1268), cresciuta in contatto con le beghine di Léau e poi velata e priora del monastero cistercense di Nazareth fondato dalla sua famiglia – ebbe a proposito della “follia in Cristo”. Dopo aver sperimentato vari episodi di estatico congiungimento con il Creatore, Beatrice si consultò con il suo padre spirituale per sapere se spingersi ancor più avanti sulla strada della pazzia per Cristo. Desiderava plasmare se stessa «alla maniera dell’insania o follia». Il confessore le oppose un fermo diniego. Beatrice, però, scrisse un trattato, le Seven Manieren van Minnen (post 1237-1238) in cui parlò dell’orewoet – insania amoris. Individuò sette livelli spirituali (sette gradini di ascesa a Dio o sette aspetti dell’esperienza d’amore, secondo Ruh e Vekeman46) di unione dell’anima con Dio in cui trovò ampio spazio la sperimentazione dell’excessus mentis et charitatis che sospinge inarrestabilmente verso la follia per amor di Cristo. L’esperienza di Beatrice si consuma tutta entro il circolo ideale formato dal trascorrere dalla “malattia d’amore” al servizio totalizzante a Dio e al prossimo. In maniera non troppo dissimile anche Ida di Louvain († ca. 1300) conobbe agli inizi della sua consacrazione, vissuta in una celletta, i divini furori della pazzia per Cristo che giunse a seguito di un episodio soprannaturale. Presso il suo reclusorio si era presentato un povero che, miracolosamente, si era tuffato nel cuore della donna, trasformandone radicalmente la personalità perché il povero era Christus pauper ed Egli ormai abitava in lei. La cristificazione di Ida fu scambiata per demenza dai non illuminati dalla grazia divina e dunque incapaci di discernere i comportamenti. Persino la beghina Christina di Stommeln († 1312) fu costretta a subire il sospetto di follia e di possessione diabolica; il suo confessore l’esorcizzò ripetuc. W. bynum, Sacro convivio, sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, trad. it. Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 37, 133-138, 141, 144; k. ruh, Storia della mistica occidentale, cit., pp. 143-163 cui si rimanda interamente anche per quel che concerne la datazione e l’esegesi del testo. 45 Summa Theologica, Questio XLVI. 46 k. ruh, Storia della mistica, cit.; h. W. J. vekeman, Minne in “Seuen Manieren van minne” van Beatrijs van Nazareth, «Citeaux», 19, 1968, pp. 284-316. 44

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tamente, la sua comunità l’accusò a più riprese di essere pazza e vittima del diavolo, i frati minori del luogo la stigmatizzarono durante le loro prediche perché si comportava in maniera «frenetica» e apparentemente eccessiva47. In realtà era in balìa dell’Amore assoluto. Ciò nonostante nessuna tra costoro negò il magistero ecclesiastico, esattamente come Crisci e, poi, Colombini, perché la libertas spiritus a cui erano giunti tutti quanti fu declinata in maniera tale da non confliggere con il nomos gerarchico dell’istituzione. Sant’Alessio icona di un monaco e di un mercante senese del Trecento «Cristo vi faccia impazzire, che non c’è di meglio» era l’accorata benedizione che Giovanni Colombini da Siena († 1367) dispensava ai suoi compagni d’avventura spirituale, quei membri della brigata de’ povari che avrebbero suscitato il movimento detto dei gesuati48. Le attestazioni biografiche del beato sono relativamente abbondanti: oltre ad alcuni frustoli documentari, possediamo un corposo epistolario redatto di suo pugno e assemblato, con ogni probabilità, all’indomani della morte per mano del notaio e poi gesuato Domenico da Monticchiello49. Il testo, come ho avuto modo di argomentare altrove, era stato concepito per attestare la volontà del primo padre spirituale dei gesuati, scomparso subito dopo il riconoscimento papale alla familia religiosa che gli si era aggregata attorno e che si trovava ancora in una fase organizzativa molto fluida. Dopo soltanto due settimane dalla scomparsa di Giovanni Colombini anche Francesco di Mino Vincenti, co-fondatore del gruppo, morì; tanto più diventava importante disporre di una fonte “certa” sulla quale commisurare le azioni del gruppo dei neofiti. L’epistolario fu accompagnato dalla redazione di una prima agiografia di Giovanni Colombini, occorsa mentre il movimento si andava diffondendo nelle principali città del centro nord-Italia. L’autore fu un notaio dell’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, già amico carissimo di Colombini e poi segretario personale di santa Caterina e membro del circolo caterinato di Siena: Cristofano di Gano Guidini. Cristofano compose una Vita che n. caciola, Mistics, demoniacs and the Physiology of Spirit Possession in Medieval Europe, «Comparative Studies in Society and History», 42, n. 2, 2000, pp. 268-306; cfr. anche b. neWman, Possessed by the Spirit: Devout Women, Demoniacs and Apostolic Life in the Thirteenth Century, «Speculum», 73, n. 3, 1998, pp. 733-770. 48 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena e di alcuni frati gesuati composta per Feo Belcari, Palermo, Giuseppe Assenzio, 1818, p. 18. 49 Mi sono occupata di Giovanni Colombini e della congregazione gesuata in alcuni miei lavori precedenti, rimando pertanto a: I “Pauperes Yesuati” tra esperienze religiose e conflitti istituzionali, Roma, Herder, 2004 e poi La trasmissione della memoria di Giovanni Colombini tra agiografia e drammaturgia, «Hagiographica», 16, 2009, pp. 231-280. 47

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avrebbe dovuto accompagnare l’epistolario del fondatore. Oggi la fonte risulta scomparsa; essa finì per perdersi perché fu rapidamente svuotata di significato e di utilità: la congregazione gesuata stessa non l’accolse preferendo affidare la memoria di Giovanni Colombini ad altri autori. «Ancora ho veduto scritta la Vita di questo sant’ huomo da ser Cristofano di Gano, ottimo cittadino di Siena, distesa in quaranta capitoli, ne’ quali attende più a predicare utili ammaestramenti che a narrare i suoi memorandi fatti [...]»50 – scriveva il fiorentino Feo Belcari nel 1449 introducendo la sua agiografia del Colombini e dei primi gesuati. La Vita di Guidini, infatti, era sembrata troppo poco storica e, parimenti, l’agiografia che era stata composta nel 1425 a seguito della prima inquisizione vescovile a danno del gruppo, a Bologna, sembrava troppo scarna, così, l’incarico di scrivere la biografia del Colombini fu affidata al colto letterato Feo Belcari. A metà XV secolo l’Epistolario risulta accompagnato dall’agiografia di Belcari, che incastonava numerose citazioni dalle Lettere di Colombini e raccoglieva le memorie precedenti51. Belcari era legato in prima persona ai gesuati: a lui era concesso il privilegio di «confraternare», prendendo parte attiva ai capitoli. Le sue opinioni erano tenute in grande considerazione dai fratres: nel 1444, ad esempio, scrisse al gesuato Piero di Pippo, dell’insediamento pistoiese, per informarlo sulle consuetudini dei socii fiorentini e per consigliargli come dirigere la confraternita pistoiese di San Girolamo. Ancora nel 1444 Belcari aveva volgarizzato la versione latina del Prato spirituale di Giovanni Mosco, tradotto dal greco da Ambrogio Traversari, dedicandolo a Egano da Bologna, superiore del convento gesuato di Firenze. La dedica del Prato anticipa i criteri compositivi della successiva Vita di Giovanni Colombini. Belcari scrisse: Il qual Prato, o venerabili padri, a voi, siccome a veri eredi, drizzo; perocché orando voi in ispirito e verità e avendo l’opera delle mani con la meditazione della soave lezione, mi parete propri figliuoli di quegli antichissimi monaci52.

La Vita di Giovanni Colombini fu concepita come la prima di una serie di Vite dei più antichi gesuati; Belcari ripropose, mutatis mutandis, l’architettura compositiva del Prato di Mosco. Questa volta dedicò l’opera al potente Giovanni di Cosimo dei Medici e ne cercò l’accoglienLa vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 1. 51 Belcari si avvalse anche di fonti ad oggi irrintracciabili per comporre la sua agiografia del Colombini. In ogni caso confronto dell’agiografia con la con la documentazione superstite rivela una sostanziale onestà intellettuale e compositiva di Belcari, che si comportò in maniera piuttosto scrupolosa nell’uso delle fonti. Infine egli raccolse le testimonianze orali dei gesuati più anziani, come dichiara in vari passi del testo agiografico. I. gagliardi, La trasmissione della memoria di Giovanni Colombini tra agiografia e drammaturgia, cit., p. 50. 52 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 1. 50

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za benevola enfatizzandone la somiglianza, anche fisica, con l’antico istitutore della brigata de’ povari, oltre all’omonimia. Belcari era inserito appieno nel circolo dei letterati protetti dai Medici, ma la dedica richiamava anche la consuetudine del gruppo gesuato con la potente famiglia Medici. Intorno agli anni Novanta del Quattrocento incontriamo i figli di Lorenzo dei Medici tra gli iscritti alla confraternita di San Giovanni istituita dai gesuati in Trinità Vecchia per i fanciulli. Lorenzo dei Medici – che, sia detto per inciso, custodiva una Vita del Colombini nell’armarium della villa di Poggio a Caiano – scrisse una sacra rappresentazione e alcune laudi per quella compagnia53. È possibile, poiché molto spesso la scelta delle confraternite ripercorreva le consuetudini familiari, che l’iscrizione dei figli di Lorenzo non fosse stata la prima di qualcuno dei Medici alla scuola di San Giovanni. La Vita esordisce dichiarando la patria di Giovanni Colombini, la sua famiglia, il suo stato sociale, tracciandone un ritratto psicologico sommario ma sufficiente a evidenziare il cambiamento causato dalla conversione. Le indicazioni biografiche sono funzionali a mettere in risalto il momento della conversione, fulmineo e miracoloso, perciò si dice soltanto che era un mercante di stoffe ricco e aduso al lusso. A ciò possiamo aggiungere che gestiva un fondaco in società con lo zio Tommaso Colombini e con Biagio Bernardi, e con loro aveva sviluppato un florido commercio di panni lungo l’asse Siena – Città di Castello, il medesimo sul quale si sarebbe poi orientato come banditore del Nome di Gesù. Aveva poi investito i propri guadagni in Val d’Asso e in Val d’Orcia acquistando terreni54. Belcari lo ritrae mentre scalpitava in attesa del pranzo e la moglie Biagia, per ingannare il tempo dell’attesa, l’invitò a leggere l’edificante storia di Maria Egiziaca. Era un anno imprecisato, ma ruotante attorno al 1355. Attraverso quel racconto Dio gli toccò l’anima e Colombini ebbe un’improvvisa rivelazione. La scelta proprio di quella Vita e non di un’altra richiama alla memoria i consigli di lettura dei maestri spirituali del monachesimo di matrice benedettina, che proponevano come modello Antonio abate, Pacomio, Pafnuzio, Ilarione, Paolo di Tebe e, unica donna tra tanti santi uomini, Maria Egiziaca55. Colombini volle rinunciare a tutto quanto possedeva e farsi mendico e penitente per elemosinare lungo le strade della sua città. Cfr. per l’ambiente p. ventrone, La sacra rappresentazione fiorentina, ovvero la predicazione in forma di teatro, in Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI. Atti del seminario di studi (Bologna 15-17 novembre 2001), a cura di G. Auzzas G. Baffetti, C. Delcorno, Firenze, Olschki, pp. 255-280. La sacra rappresentazione risale al 1491, h. a. mathes, On the date of Lorenzo’s “sacra rappresentazione di S. Giovanni e Paolo”, Feb. 17, 1491, «Aevum», 25, 1951, pp. 324-328. 54 A. benvenuti, “In castro Poenitentiae”, cit., pp. 415-528, p. 429. 55 g. penco, Il ricordo dell’ascetismo orientale nella tradizione monastica del Medio Evo europeo, «Studi Medievali», IV, 1963, n. 2, pp. 571-587, p. 573. 53

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«Incominciò a [...] digiunare spesso e a darsi all’orazione e all’altre opere divote, e per questo modo gastigando la carne e recandola in servitù venne in desiderio di vivere in castità»; le sue notti si allungavano al ritmo della preghiera e quando riposava si sdraiava sulla «panca» o sul «cassettone», evitando ogni contatto fisico con la moglie. Inoltre «incominciò molto a dispregiarsi nel cospetto degli uomini e ad andare vilmente vestito» affinché «in tutto spogliato di sé e d’ogni cura terrena, potesse speditamente seguitare il poverello Cristo suo Signore»56. Nel 1359 già lo incontriamo nelle vesti di priore della confraternita disciplinata di Santa Maria della Scala, al servizio dei sofferenti e dei bisognosi57. Il repentino cambiamento di stile di vita l’aveva avvicinato a un monaco senese, che egli elesse come consigliere spirituale. Si trattava del certosino Pietro (o Petrone) Petroni da Siena († 1361), rampollo di un’importante stirpe urbana, anch’essa appartenente all’élite del Governo dei Nove, che si era voluto recingere all’interno della Certosa di Maggiano, a sua volta fondata dal cardinale Riccardo Petroni, suo parente58. Petroni faceva parte della medesima societas disciplinatorum di cui Colombini fu priore e non è escluso che la loro amicizia spirituale sia maturata proprio in quella sede59. Le informazioni su Pietro discendono quasi tutte da un tardivo rimaneggiamento seicentesco – opera del monaco Bartolomeo Scala – dell’agiografia composta da Giovanni Colombini all’indomani della morte del Petroni e oggi irrintracciabile. Sappiamo che era un direttore di coscienze famoso a Siena e forse anche oltre, se si relazionò con Francesco Petrarca e con Giovanni Boccaccio, procurando – sembra – la conversione di quest’ultimo. Dal racconto agiografico apprendiamo che per umiltà non volle mai accedere agli ordini sacri, giungendo fino a tagliarsi il dito di una mano per diventare inabile all’officiatura e restare semplice diacono. Penso che il suo esempio abbia esercitato una grande influenza su Colombini, fondatore di La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 21. 57 c. gennaro, Giovanni Colombini e la sua “brigata”, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 81, 1969, pp. 237-271, p. 239. 58 m. pellegrini, Petroni, Pietro, D.B.I., 82, (2015), . Si trattò della prima Certosa fondata in Toscana, cfr. a. paravicini bagliani, I testamenti dei Cardinali del Duecento, Roma, presso la Società della Biblioteca Vallicelliana, 1980, p. 403; a. giuliani, Cartusia e Certose, in Certosini e cistercensi in Italia (secoli XII-XV). Atti del Convegno, Cuneo – Chiusa Pesio – Rocca de’ Baldi, 23-26 settembre 1999, a cura di R. Comba e G. Merlo, Cuneo, Società per gli Studi Storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, 2000 (Studi Storici 26), pp. 415-441, p. 439. Molto utile la tesi di dottorato di g. giuliani, L’ingresso e l’affermazione dell’Ordine Certosino in Toscana nel secolo XIV, Università di Pisa, tutor M. L. Ceccarelli Lemut, discussa il 15/12/2011. 59 Per l’appartenenza del Petroni alla confraternita cfr. Vita Beati Petri Petroni senensis cartusiani, auctore D. Bartholomaeo senensi Cartusiae florentinae monacho, Senis, typis Bonetti MDCXIX, p. 7; g. gigli, Diario sanese, Siena, Tip. dell’Ancora, 1854 (2), vol. 1, p. 450. 56

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una congregazione che rifiuterà il sacerdozio fino alla fine del XVI secolo, per vivere in maniera rigorosa proprio l’umiltà e con la consapevolezza di incarnare, così, l’esempio apostolico60. Il più importante storico gesuato, il Generale della congregazione Gesuata, Paolo Morigia, alla fine del Cinquecento scriveva: «questa [dal Colombini] è de’ giesuati la vera origine, et non come hanno detto alcuni, che vogliono che questa religione habbi havuto principio d’un converso de’ certosini», riferendosi a Petroni. Morigia aggiunse che esisteva anche una seconda, fallace, “eziologia” gesuata secondo cui «altri si sono messi a scrivere che questa hebbe cominciamento da una congrega di disciplini, gente mecanica e plebea»61. In tutto ciò sussiste un fondo di verità: i disciplini sono gli iscritti alla potente confraternita senese del Santa Maria della Scala, di cui Colombini fu priore e Petroni fu membro attivo. L’esperienza confraternale segnerà profondamente Colombini che nella brigata riproporrà le pratiche oratorie e le devozioni propugnate dai Disciplinati62. Petroni era particolarmente devoto a sant’Alessio e desiderava imitarlo adottando uno stile di vita rigorosamente penitente63. La tradizione agiografica su Alessio è complessa: la legenda più antica è la siriaca (ca. 450), seguita dalla greco-bizantina e dalla latina (VI-X secolo). Secondo la versione siriaca era originario di Costantinopoli e morì a Edessa, sul sagrato di una chiesa, dove chiedeva la carità. Secondo le altre nacque a Roma, da adulto abbandonò tutto quanto possedeva e, rivestito soltanto dall’umile mantello del pellegrino, dileggiato da tutti e in assoluta povertà, visse mendico di fronte alla chiesa di Edessa. La Vergine apparve al vescovo della città intimandogli di rendere onore ad Alessio e lui, per umiltà fuggì per non ricevere alcun onore. Dopodiché tornò a casa di suo padre e non fu riconosciuto da nessuno, tanto era emaciato, e lì rimase fingendosi un povero mendicante e nutrendosi degli scarti della famiglia, sopportando umiliazioni e offese. Soltanto dopo la morte, la sua santità fu miracolosamente rivelata al papa Marciano da una visione celeHo trattato la questione diffusamente nel mio I “Pauperes Yesuati”, cit. Un ulteriore approfondimento nel mio saggio “Servono Dio con le sue mani”. Le officine gesuate come segno di vita apostolica nel Tardo Medioevo e nella Prima Età Moderna, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 2010, pp. 65-89. 61 p. morigia, Historia dell’origine di tutte le Religioni, In Venetia, presso Gio. Battista Bonfadio 1586, p. 237. 62 Mi sia permesso di rimandare al mio Confratelli e circoli devoti del Santa Maria della Scala: la confraternita dei Disciplinati fra Tre e Quattrocento, in Beata Civitas. Pubblica pietà e devozioni private nella Siena del ‘300, a cura di A. Benvenuti e P. Piatti, Firenze, Sismel, 2016, pp. 251-274. 63 «Animum adiecit ad suum castigandum corpus, quo, eo mortificato, atque in servitutem redacto, una simul cum Apostolo Paulo, non sibi sed Christo, et Christus viveret in eo», De B. Petro Petrono cartusiano senensi in Hetruria, AA. SS., Maggio 7, pp. 188-232, p. 301. 60

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stiale e dal ritrovamento di una carta sulla quale Alessio stesso aveva vergato la sua reale identità. La legenda di Alessio conobbe una diffusione enorme, viaggiando dai territori di cultura bizantina alla penisola iberica e alla penisola italica. Fin dal X secolo è attestata una traduzione latina che poi confluì nella Legenda Aurea di Iacopo da Varazze e, in seguito, fu volgarizzata64. Il materiale agiografico fu trasposto in romanzo e poi nella narrazione delle res gesta di Robert le Diable, perfetto esempio di salòs penitente occidentale65. Pietro decise dunque di conformarsi all’esempio di Alessio, desiderando raggiungere la fusione d’amore con Cristo; «cupio, mi Domine, mi Jesu, mi dulcissime Amor, dissolvi; ut tandem aliquando sim tecum, tibi iungar, et tecum vitam vivam caelestium», si legge nell’agiografia66. In ragione di questa brama di dissoluzione del sé nella divinità, l’agiografo lo avvicina per similitudine all’apostolo Paolo, all’evangelista Giovanni, a Francesco d’Assisi e a Iacopone da Todi. Quindi ci racconta che la perfezione spirituale, cui era pervenuto, lo induceva a vagare come un pazzo urlando «Pazzia! Pazzia!» riferendosi alle cose mondane67. Penitenza e pazzia: data la sua appartenenza all’ordine certosino, non è difficile indicare almeno qualcuna tra le fonti che potrebbero aver ispirato il rigore del Petroni, oltre al modello agiografico di sant’Alessio. In primo luogo conviene rileggere il settimo grado dell’umiltà della Regola di Benedetto, laddove si raccomanda al monaco di reputare se stesso un verme68. Si ricorda, quindi, l’Epistola LXXXVII di Bernardo da Chiaravalle ad Ogerium Canonicum regularem in cui l’autore si paragona ad un giullare69. Pietro Un’agile ma precisa sintesi della complessità delle fonti in s. nanni, Sant’Alessio e Roma, M.E.F.R.M., 124 2012, n. 2, < https://mefrim.revues.org/892>, per la diffusione c. vincent, Fortunes médiévales du culte de saint Alexìs, ivi, < https://mefrim.revues.org/849>. Si veda anche p. golinelli, La leggenda di Sant’Alessio in due inediti volgarizzamenti del Trecento e nella tradizione letteraria italiana, Siena, Ed. Cantagalli 1987; r. Wilhelm, Bonvesin da la Riva, La vita di sant’Alessio, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2006. 65 P. golinelli, La leggenda di Sant’Alessio in due inediti volgarizzamenti del Trecento, cit., p. 19. 66 De Beato Petro, cit., p. 205. 67 «Siquidem mundana omnia, quae caeca mortalitas praecipuo in honore habet, fastidiens ac totus in Deum absorptus, tanta plerumque divina dulcedine perfundebatur, ut per plateas et compita velut amens pererrans, in ludibrium rerum humanarum, Insaniam, clamitaret, insaniam», ivi, p. 204. 68 «Septimus humilitatis gradus est si omnibus se inferiorem et viliorem, non solum sua lingua pronuntiet, sed etiam intimo cordis credat affectu, humilians se, et dicens cum propheta: ego autem sum vermis, et non homo; opproprium omunium et abjectio plebis exaltatus sum, et humiliatus, et confusus. Et item: Bonum mihi, quod humiliasti me, ut discam mandata tua», s. benedicti Regula commentata, P.L. 66, col. 374. 69 «Ego itaque si adhuc siluissem, sapiens dicerer, sed non essem. Nunc autem alii insipientem me ridebunt, alii subsannabunt idiotam, alii praesumptori indignabantur. Putasne parum hoc mihi conferat religionis emolumentum, cum humilitas, ad quam utique duci humiliatio, totius sit spiritualis fabricae fundamentum? Siquidem humiliatio via est ad humilitatem, sicut patientia ad pacem, sicut lectio ad scientiam. Si virtutem appetis humili64

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il Venerabile, dal canto suo, attribuiva ai certosini il ruolo di coloro che riaccesero l’ «orientale lumen et antiquum illum in religione Aegyptium fervorem tenebris occiduis et gallicanis rigoribus», come si è già avuto modo di argomentare70. Le tenebre dell’Occidente erano rischiarate dalla lettura e dalla meditazione delle Vitae Patrum, dell’Historia Monachorum in Aegypto, degli Apophtegmata Patrum, e, nella traduzione parziale di Anastasio Bibliotecario, dal Prato Spirituale71. In tutto questo corpus di scritti il Petroni avrebbe potuto trovare più di uno stimolo alla conduzione del tipo di vita che scelse. “Fate del pazzo”: Giovanni Colombini Pietro fu il primo maestro di Giovanni Colombini e con ogni verosimiglianza lo spinse ad assumere posizioni rigorose riguardo alla povertà e all’umiltà. Giovanni Colombini e Francesco Vincenti vagavano umili e dimessi per le strade cittadine e chi li vedeva «meravigliavansi certamente vedere questi prestantissimi patrizi della lor città, abbondanti di temporali ricchezze, vilipendere e disprezzare con tanto fervore loro medesimi, le loro sustanze e tutte le cose terrene». Addirittura una volta, ammalatosi, Giovanni volle nascondersi «tra i miserabili del più povero ospedale senese, non già il “magnifico” della Scala», assistito da una pia servigiale e nutrito di zuppa di rape72. Fondò quindi un piccolo ospedale a Uopini e continuò a portare a tatis, viam non refugias humiliationis. Nam si non poteris humiliari, non poteris ad humilitatem provehi. Prodest itaque mihi meam isipientiam sciri, et a scientibus jure confundi, cui saepe contigit a nescientibus injuste laudari. [...] Illam mihi propheticam vocem jure assumerem: Exaltatus sum, humiliatus sum et conturbatus” (Sal. 88,16) “et ilud: Ludam, et vilior fiam” (IIRe 6,22) “scilicet ut illudar. Bonus ludus, quo Michol irascitur, et Deus delectatur. Bonus ludus, qui hominibus quidem ridiculum, sed angelis pulcherrimum spectaculum praebet. Bonus, inquam, ludus, quo efficimur opprobrium abundantibus, et despectio superbis [...] More scilicet joculatorum et saltatorum, qui capite misso deorsum, pedibusque sursum erectis, praeter humanum usum stant manibus vel incedunt, et sic in se omnium oculos defigunt. Non est hic ludus puerilis, non est de theatro, qui femineis foedisque anfractibus provocet libidinem, actus sordidos rapraesentet: sed est ludus jucundus, honestus, gravis, spectabilis, qui coelestium spectatorum delectare possit aspectus. Hoc casto et religioso ludo ludebat qui dicebat: Spectaculum facti sumus angelis et hominibus.” (ICor 4,9) “Hoc ludo et nos interim ludamus, ut illudamur, confundamur, humiliemur, donec veniat qui potentes deposuit, et exaltat humiles, qui nos laetificet, glorificet, in aeternum exaltet». bernardi claraevallensis Epistola LXXXVII, P. L. 182, coll. 211-217. 70 petri venerabilis De miraculis libri duo, P. L. 189, coll. 851-954, coll. 943-945. Cfr. Infra, capitolo 2. 71 J. m. sansterre, Témoignages des textes latin du Haut Moyen Age sur le monachisme oriental et des textes byzantines sur le monachisme occidental, in Le monachisme à Bysance et en Occident du VIII au X siècle, aspects internes et relations avec la société, «Revue Benedictine», CIII, 1993, n. 1-2, pp. 33-45, p. 21. 72 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit. p. 34. Forse si tratta proprio dell’ospedale di Uopini, fondato dal Colombini; Biblioteca Comunale di Siena, ms. A.III. 7, c. 8v.

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casa propria gli ammalati poveri per curarli. Con Francesco formò una coppia di «forti cavalieri di Cristo, fatti novelli sposi dell’altissima povertà» dedita alla questua. E in questo modo posti in una altezza di mente calcando il mondo sotto i loro piedi, tutte le cose terrene stimavano come fango, e tuttodì crescevano in desiderio di patire e sostenere pene per amor di Cristo, la fame, la sete, il freddo, la nudità, e molti disagi, gli obbrobri e le vergogne e tutti gli scherni del mondo, per amor di Cristo avevano per piacere e sollazzo. Ben era certo mirabil cosa vedere uomini venerabili, e secondo il mondo, prudenti e circospetti, fatti stolti per divenire savi73.

Qui Belcari riecheggia i versetti paolini della Seconda Lettera ai Corinzi. Con ben altra forza Giovanni Colombini, in una lettera inviata alle monache di Santa Bonda, scriveva: «O anima così trasformata in Jesù Cristo, quanto con ogni verità gridi povertà, quanto gridi umiltà e chiedi ogni vergogna, quanto disideri d’esser tenuta pazza e rea, quanto di ogni infamia rea o pessima ti godi!»74. Così lui e Vincenti «facevano del pazzo», per incontrare umiliazione e dileggio, «spazzando gli usci de’ morti, portando i doppieri alla Chiesa, e sotterrando i corpi»75. Praticarono anche una specie di contrappasso, scontando gli onori ricevuti durante la vita precedente alla conversione con l’auto-infliggersi mortificazioni spettacolari e pubbliche. Poiché entrambi avevano fatto parte del «sommo ufficio de’ nove priori» per due mesi, lavorarono nel palazzo comunale come servi e andarono a elemosinare il cibo per un periodo equivalente a quello in cui erano stati in carica76. Giovanni rivisitò in groppa a un asino tutti i luoghi in cui, pavoneggiandosi, era passato a cavallo; ritornò quindi nei suoi ex possessi a San Giovanni d’Asso e si spogliò nudo, eccetto i panni di gamba, e comandò loro [ai compagni] che tirandolo col capestrello lo scopassero per tutti i borghi del castello: e a quello che tenne la fune, comandò che dicesse: ecco costui che vi voleva affamare, che vi prestava ogni anno il grano vecchio dalle tignole punto e poi rivoleva La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., pp. 32-33. 74 colombini, Le lettere, cit., p. 34. 75 Ivi, p. 35. 76 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 34. Anna Benvenuti scrive: «non si trattava di una umiliazione generica ma di un manifesto allegorico, scandito dalla stessa periodizzazione, due mesi, del pubblico mandato degli uffici: una magistratura spirituale che solo due ex noveschi potevano ricoprire per emblematizzare il passaggio dalla milita saeculi a quella Christi. Ed è questa valenza didascalica che a partire dal priorato dell’umiltà colora buona parte delle gesta dei due nuovi milites i quali nella formale inversione in realtà tendevano a sottolineare ed a dichiarare il cambiamento di segno del loro impegno pubblico e della loro dignità cavalleresca», Ead., “In castro poenitentiae”, cit., p. 434. 73

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il nuovo, buono più che comunale, e disiderava che valesse un fiorino lo staio: dategli forte a questo odiatore dei poveri. E così menandolo scopando per tutti i borghi, tirandolo col canapello a riscorsoio in modo che con grandissima fatica poteva respirare, dicendogli le predette ingiuriose parole, fecero e dissono come e quanto per obbedienza fu lor comandato77.

Il medesimo episodio è raccontato da Colombini stesso nell’epistolario: sappiate, che questi gattivi, quando giognemmo a S. Giovanni d’Asso su per lo terreno e possessioni che io già miseramente tenni, sì mi spogliaro, puoi mi scoparo per tutti e borghi del Castello. Unde la gente sì forte diventò stupefatta che non funne uno, che mai potesse fare parola, passando per lo mezzo di loro. E così per grande tempo mi menaro col canopello in gola a ricorsoio78.

E, comunque sia, l’umiliazione di per sé non merita alcuno sconto sulla pena che il peccatore dovrebbe pagare se Dio non fosse misericordioso: non pensate voi per ciò che ne sieno sconti e peccati e rei desideri, che io ebbi in quelle contrade ché sarei degno d’essere per tutto quel paese atrascinato. Meritilo Cristo a voi e a loro, et se mai vi viene in taglio, molto ne gli ringraziate79.

Mortificazioni esemplari che richiamano Francesco d’Assisi, ma anche Margherita da Cortona, disposta a subire vilipendi là dove aveva ricevuto un qualche onore. A Cortona si umiliò confessando i peccati pubblicamente, a Montepulciano vagabondò con i capelli rasati tra coloro che in passato l’avevano ammirata elegante e ingioiellata, elemosinando da chi l’aveva conosciuta da ricca e addirittura pretese di essere bendata e condotta per strada mentre una donna gridava: «haec est illa Margarita, quae diu suis moribus in elationem erectis, sua vana gloria et malis exemplis, multas in terra nostra animas vulneravit». Ancora a Cortona si presentò in pubblico con una corda al collo in sostituzione dell’antica collana e durante la messa si gettò a terra invocando perdono; infine, una volta in cui non sopportava il ricordo del tempo speso ad agghindarsi, al posto delle gemme mise stracci sui capelli. L’agiografo Giunta Bevegnati ci spiega: «ordinaverat Christi famula Margarita in omnibus semper contrariis curare contraria»80. Forse anche Colombini pensava qualcosa del genere. La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 48. 78 Ivi, p. 69. 79 Ibidem. 80 De B. Margarita poenitente Tertii Ordinis S. Francisci Cortonae in Umbria, AA.SS., Febbraio 3, pp. 218-357, p. 395. 77

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Poco dopo la conversione, tutti gli attori della vita di Colombini a essa precedente si sarebbero eclissati; il figlio Pietro morì, la figlia Angiolina morì al mondo prendendo il velo nel monastero benedettino dei Santi Abbondio e Abbondanzio, la moglie Biagia, convinta miracolosamente da Cristo stesso sotto specie di ammalato, gli concesse di abbandonare il tetto coniugale. Così Colombini fu libero di seguire Cristo e, con lui, se ne andò ramingo a fare penitenza il fraterno e aristocratico amico Francesco di Mino Vincenti. Insieme raccolsero numerose conversioni e adesioni al loro stile di vita, formando un gruppo che si autodefinirà la brigata de’ povari, contraltare devoto della ben più mondana brigata spendereccia composta dai giovani senesi gaudenti e scialacquatori, che fu immortalata da Dante (Inf. XXIX)81. La brigata era formata da uomini del ceto sociale medio-alto: Niccolò di Mino Vincenti, fratello di Francesco, Bartolommeo, Alfonso e Bindo Piccolomini, il figlio di Niccolò di Nerdusa, Francesco di Girolamo da Siena, Fazio Gallerani, Spinello Buoninsegna, Giovanni d’Ambrogio, Gualtieri di Piero, Giovanni di messer Niccolò Marescotti, Ambrogio di Giuccha, Matteo di Meglioruccio, Domenico di Guido, Cecco detto il Boccia (che era solito suonare la viola per accompagnare il canto delle laudi), Vanni e Domenico da Monticchiello, Tommaso di Guelfaccio, Barna da Siena82. I pochi nomi che si sono potuti recuperare, spigolando le fonti, appartengono quasi tutti alla fascia degli aristocratici (Vincenti, Marescotti, Buoninsegna, Piccolomini, Gallerani e Guelfaccio) o del tabellionato. In particolare accaddero due conversioni che, a Siena, suscitarono molto scalpore: quella di Tommaso di Guelfaccio, ex membro dei Nove, e quella del teologo domenicano Cristofano Biagi83. Il “rito di iniziazione dei postulanti” era contraddistinto dalla loro degradazione in Piazza del Campo, laddove la degradazione diventava spettacolo pubblico. E quando accettavano alcuno nella lor povera compagnia, costumavano alle volte fargli grandissime mortificazioni; però che usavano alcuna volta menare il novizio per la città in su l’asino, quando volto innanzi e quando indietro, con una ghirlanda d’ulivo in capo, ed essi, che l’accompagnavano, ancora portavano in capo, e in mano, rami d’ulivo, gridando: viva Gesù, o: lodato sia Cristo; ovvero cantando qualche divota laude. Alcuno arebbono menato nudo, eccetto i panni di gamba, cantando in simil modo, ovvero dicendogli villania, chiamandolo ribaldo, cattiv’uomo, di mala condizione o altre ignominose parole. Ancora una volta lo conducevano per la terra colle mani legate di dietro, e col capestro alla gola, a modo che si menavano i ladri alle forche, come se lo volessero impiccare, e dicevano per la via a quegli che lo miravano: pregate l’Iddio che ‘l faccia forte, dite un Paternostro e una Ave Maria per l’anima sua e con simili parole Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, commentata da E. Zolesi, Roma, Armando Editori, 2002, commento alle pp. 464-485. 82 i. gagliardi, I “Pauperes Yesuati”, cit., pp. 14-15. 83 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 48. 81

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lo mortificavano. Ma la maggior parte di quegli che per lor fratelli ricevevano, costumavano spogliarli dinanzi all’immagine della Vergine Maria, che è in sul campo, e ivi li rivestivano di vilissimi panni, e tutti colle ghirlande d’ulivo in capo, e cantando due di loro qualche divota laude84.

Chi si lasciava conquistare dagli ardori mistici della brigata fino a volerci entrare, si sottoponeva di buon grado alla cerimonia improvvisata di umiliazione pubblica che segnava l’ammissione del “postulante”, come quando, a Montalcino «Un giovane ch’era nel castello […] sostenne ch’el menassimo per Montalcino in camicia, colla correggia in gola, e fecemogli molti strazi, et è con noi»85. Le reazioni degli astanti erano divise tra biasimo ed ammirazione, così come accadeva ogni volta che Colombini e Vincenti si producevano in una delle loro azioni di mortificazione pubblica: «da molti erano beffati e scherniti, e da alquanti commendati, e avuti in riverenza»86. Colombini, scrivendo alla monaca benedettina suor Bartolomea di Santa Bonda, spiegava perché si comportava così illustrando gli effetti dell’unione amorosa dell’anima con Dio: e non tanto che essa voglia perdonare le ingiurie ricevute, ma essa disidera ancora patire ogni pena e ogni tormento per Cristo crucifisso, per lo sforgiato amore e per lo grande fervore che essa à in sé, disiderando che ognuno la tenga pazza e stolta per amore di questo suo sposo, e per seguitarlo in ciò che essa può, volendosi tutta disfare di amore e di devozione; e in questo modo che si acquistano gli smisurati conoscimenti e santi disideri della povertà e della vera pazienza e di tutte le virtù87.

In molte delle sue lettere Colombini afferma la necessità spirituale di meditare la Passione di Cristo, affinché l’anima rimpianga il tempo male speso e desideri farne vendetta sopra sé88. Nel testamento riportato da Belcari in chiusura della Vita si trova l’estrema esortazione ai gesuati: «e massimamente vi stia sempre in memoria la santissima Vita e Passione di Giesù Cristo, la quale illumina e fortifica l’anima di chi devotamente la considera»89. Parole che evocano la meditazione della Passione vergata in un breviario trecentesco Ivi, pp. 36-37. Per il rituale come parodia delle cerimonie cavalleresche A. benvenuti, “In castro poenitentiae”, cit., pp. 435-436, cfr. inoltre il mio Dal “contro-addobbamento” dei gesuati ai “cavalieri di Cristo” di santa Caterina da Siena. Trasformazioni e continuità dell’ideologia cavalleresca nel tardo Medioevo, in La civiltà cavalleresca e l’Europa: ripensare la storia della cavalleria. Atti del I Convegno Internazionale di Studi, San Gimignano, 3-4 giuno 2006, a cura di F. Cardini e I. Gagliardi, Pisa, Pacini, 2007, pp. 67-90. 85 Ivi, p. 82. 86 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 315. 87 colombini, Le lettere, cit., p. 65. 88 Ivi, p. 3. 89 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 163. 84

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appartenuto ai Disciplinati dell’ospedale di Santa Maria della Scala dove si legge: In Passione Domini quo datur salus homini, sit nostrum refrigerium et cordis desiderium. Portemus in memoria tormenta et obrobria Christo coronam spineam, crucem, clavos et lanceam et plagas sacratissimas omni laude dignissimas acetum, fel, arundinem, mortis amaritudinem. Hec omnia nos satient et dulciter inebrient, nos repleant virtutibus et gloriosis fructibus. Te crucifixum colimus et toto corde poscimus ut nos sanctorum cetibus coniungas in celestibus90.

L’umiliazione pubblica riservata ai neofiti è il passaggio attraverso la Croce dominica, è il varco che conduce in un mondo in cui tutte le prospettive esistenziali hanno subito un rovesciamento completo. Lì non troveranno posto se non la Croce e il grido estatico del nome di Gesù che contraddistingue la brigata tanto da determinarne il nome (gesuati): «Godete e rallegratevi, che sete nella via di Cristo crucifisso glorioso»91. Gridare il Nome di Gesù e impazzire per Lui: Giovanni Colombini e i suoi compagni L’attitudine a onorare il Nome di Gesù vagando per le strade e per le piazze è tipica di Colombini e della sua brigata e l’epistolario trasmette immagini chiarissime. A mero titolo di esempio di una casistica nutrita, riporto la seguente, accorata, esortazione del Colombini: Non dormiamo, gridiamo il dì e la notte, per le vie e per le piazze el nome de Cristo benedetto, all’onferno, se bisogno fa per ricordallo, e onorallo; tutto il mondo si va perché non ricorda, andianvi, gridandolo e bandendolo, mai non ristate del ragionare, parlare, gridare viva, viva e riviva il santissimo nome di Gesù: non si stanchino le lingue, non si saziono i cuori di gridare Cristo crocifisso92.

Nei fatti il grido consisteva in espressioni del tipo «Viva Cristo crocifisso», come attesta l’epistolario, oppure in litanie improvvisate costruite ripetendo il nome di Gesù. Le fonti ci consegnano soltanto un modello di litania, la cui unicità la rende ancor più preziosa. Si tratta di una frase vergata in calce dell’ultima carta appartenente alla copia più antica dell’epistolario di Colombini ed è: «Laudato sia Ihesu Christo,

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Biblioteca Comunale di Siena, ms. F.VII.2, c. 124/v. colombini, Le lettere, cit., p. 196. Ivi, p. 56.

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Ihesu Cristo, Christo, Christo, Ihesu, Ihesu»93. Si tratta di una sorta di kèrigma sul modello apostolico. La brigata, per strada, richiamava l’attenzione dei passanti così, per poi coinvolgerli in un dialogo su Cristo che preludeva alla conversione. Lo scopo ultimo consisteva nel parlare «senza timore sempre a ogni gente di Cristo, e delle sue cose e santissime virtù»94. Ciò nonostante la ripetizione del nome di Gesù produce anche l’effetto di ravvivare la fiamma dell’amor divino dentro le coscienze. Una simile funzionalità della ripetizione del nome è patrimonio religioso condiviso oltre la stretta cerchia dei povari. Leonardo Benvoglienti, scrivendo la Vita di san Bernardino da Siena, ci narra della zia paterna del santo, l’anziana Bartolomea, vedova di Trogliardo Tolomei e terziaria agostiniana. La devotissima donna spesso impazziva d’amore ricordando e ripetendo mentalmente e vocalmente il nome di Gesù95. Benvoglienti evoca la sapiens stultitia Christi raggiunta, se non provocata, attraverso la ripetizione del Nome di Cristo che è una tecnica spirituale propria del gruppo gravitante intorno a Giovanni Colombini. Il terziariato agostiniano di Bartolomea la collega a frate Girolamo da Siena, l’estensore della Regola per i terziari e che aveva ricevuto la professio delle “donne di Siena”. Girolamo era a sua volta legato alla brigata di Giovanni Colombini, tant’è che scrivendo a Caterina Colombini Giovanni ricordava Girolamo come direttore di coscienze suo e dei compagni96. L’iscrizione compare nella copia più antica dell’epistolario di Giovanni Colombini, in calce all’ultima carta, Biblioteca Comune di Siena, ms. I.VI.16. 94 colombini, Le lettere, cit., pp. 26-27. 95 «Mulier hec veneranda et benedicta, spiritualis multum, a quam pluribus opinionem habuit sanctitas. Nam ieiuniis, vigiliis, orationibus et macerationibus sui corporis longo tempore post receptam regulam Sancti Augustini, cui religata erat, vacavit, gratias Deo reddebat semper, et cum in predicationibus vel aliter privatim audiebat recordari nomen Iesu, ipsam etiam vocem continere non valebat, quia pluries et pluries Iesum clamaret rauca voce, stridulo accentu et singultu. Et licet sapientissima foret, videbatur aliquando tactu spiritus et fervore insanire cum recordatione nominis Iesu, quod semper corde gestabat et ore. Et crebrius in lecto laudes alta et clara voce canebat», F. van otroy, Vie de S. Bernardin de Sienne publieé par Léonard Benvoglienti, «Analecta Bollandiana», 21, 1902, pp. 53-80, p. 71, su Bartolomea Albizzeschi: l. torelli, Secoli agostiniani, Bologna, per Giacomo Monti, 1680, tomo 6, pp. 378-381; a. m. serra, Notizie della beata Bartolomea da Siena (secolo XIV), «Moniales Ordinis Servorum. Quaderni di storia e attualità», II, 1964, pp. 29-35. 96 colombini, Le lettere, cit., p. 159, p. 196, p. 197. Preciso che l’identificazione del Girolamo agostiniano con il Girolamo di Colombini è mia e diverge rispetto agli studi di Brocardo, citati sotto, che identifica il frate Girolamo menzionato da Colombini con uno dei povari. A mio parere l’ipotesi di Brocardo non è solida per due motivi: in primo luogo perché nel periodo in cui Colombini scrive ai suoi seguaci né essi né Colombini sono qualificati frati, ma soltanto povari. Quando Colombini scrive frati o frate si riferisce sempre a un religioso, poiché egli e i suoi compagni sono laici a tutti gli effetti e lo sanno benissimo: l’uso della parole frater o frate compare tra i gesuati soltanto a partire dalle Costituzioni del 1425 ed è formalmente ratificata dal Capitolo Generale del 1499. In secondo luogo perché l’identificazione proposta da Brocardo di Girolamo con il gesuato Girolamo da Asciano non tiene conto del fatto che Girolamo da Asciano a partire dal 1363, anno in cui entrò nella brigata accompagnò sempre Giovanni Colombini in ogni suo viaggio (per 93

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Tutti i seguaci di Colombini e Vincenti provenivano dal medesimo ambiente sociale: l’entourage del governo dei Nove, appena spodestato dalla cosiddetta fazione dei Dodici. Proprio a causa del successo di vocazioni, l’occhiuto reggimento civile di Siena li bandì dalla città, «secondo il parlare dell’Apostolo, che non aveano qui città ferma e permanente, ma che essi cercavano quella patria superna, eterna dalla quale non può essere sbandito se non chi si ribella a Cristo»97. Doveva essere il 1363. Lasciandosi alle spalle una devastante collera divina a far giustizia della malvagità senese, i povari, cantando allegramente, si diressero verso Arezzo e poi a Città di Castello. Qui si scontrarono con l’ostilità dei francescani ma, in compenso, ottennero la protezione del vescovo Buccio, che sarebbe diventato uno dei loro amici più zelanti98. Perseguitati come gli apostoli e altrettanto lieti per la persecuzione, intrapresero il lungo viaggio di evangelizzazione che li avrebbe condotti in numerosi altri luoghi toscani e umbri. L’itineranza fu scandita da grida gioiose inneggianti a Cristo, da umiliazioni e penitenze esemplari, da «fervori di spirito» e fu feconda di conversioni e adesioni. Colombini e la brigata de’ povari nel loro peregrinare nei territori toscani e umbri si adoprano per incendiare l’anima di chi li incontra, condividendo la loro esperienza di conversione: «prego tutti coloro, che ànno legata la mente, che si sciolgano, e non chiudano l’uscio a Cristo colle pazze coscienzie, però che Cristo ci à alluminati di lume di verità, non vogliamo cacciarlo col poco senno»99. I povari sono gli araldi del Re dei Re e lo annunciano urlandone il nome; essi sono la memoria cristiana del mondo dimentico di Dio, perché «Dio compie cose mirabili per le mani dei semplici e dei peccatori, mentre lascia i grandi, gli scienziati, i sapienti nel gelo della loro scienza»100. I povari “fanno del pazzo” in ragione dello smisurato amore per Dio. Giovanni scrive: questo motivo, alla morte di Colombini e Vincenti egli assunse il ruolo di padre del gruppo: era l’uomo che meglio conosceva i due fondatori e che con loro aveva condiviso ogni esperienza), non si vede dunque perché Giovanni Colombini nelle lettere avrebbe dovuto riferirsi a lui come se fosse altrove. Ma soprattutto, visto che il “frate Girolamo” che compare nell’epistolario di Colombini vi compare come guida d’anime, si deve tener conto del fatto che Colombini non era solito indirizzare i suoi compagni a farsi consigliare dagli altri compagni –l’unica guida carismatica del gruppo era lui-, piuttosto li esortava a parlare con uomini e donne di chiesa. Il saggio di p. brocardo cui mi riferisco è Id., Girolamo da Siena maestro spirituale, Torino, SEI, 1952, testo in cui viene ripubblicato l’articolo apparso su «Salesianum» del 1951. Su Girolamo e la sua opera di direttore di coscienze, mi sia consentito rimandare al mio: «Secondo che parla la Santa Scriptura». Girolamo da Siena e i suoi testi di «direzione spirituale» alla fine del Trecento, in Direzione spirituale tra ortodossia ed eresia. Dalle scuole filosofiche antiche al Novecento, a cura di M. Catto, I. Gagliardi, R. M. Parrinello, Brescia, Morcelliana, 2002, pp. 117-175. 97 colombini, Le lettere, cit., p. 100. 98 Ivi, pp. 60-66. 99 Ivi, p. 55. 100 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., pp. 36-37.

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Sappiate che […] trovai Francesco di Monticchiello [ Francesco à messo a rotta di Cristo tutto Monticchiello et è stato tenuto uno pazzo] presso a Siena con frate Matteio, e desso ritornò addietro co meco a Montalcino, e qui semo e torniamo a una chiesa di compagnia di battenti assai remota e buona. Ora dico quel che mostrò Jesù: che domenica a notte, facendo essi disciplina nella cappella, costui fu subito tocco sì fortemente da Cristo del fervore che fu una maraviglia, e quasi non dormì ponto la notte, né lassò dormire me, e gridava che infino a quel punto non aveva conosciuto Cristo, e che ogni suo fatto era una falsità e una ciechità, e puoi la seconda notte ebbe anco maggiore e più forte fervore, e già da me neuna informazione aveva avuta, unde e’ ci fosse tirato con aiuto, ed ebbe molte lagrime, e non si poteva tenere di gridare e saltare e ballare […]101.

E la pazzia è effetto della christiformitas, la conformazione dell’anima a Cristo attraverso la via della Croce. Datevi a trovare e a inebriare e a innamorare di Cristo, e a trasformarvi in lui, ove l’anima santa, ripiena e inebriata di lui, griderà: diletto mio, ora di te godo, ora inebrio, ora ti posseggo; tutta l’abbracciarà, tutta si struggerà, ed essa gridarà coll’Apostolo e dirà: chi mi partirà dal mio diletto Cristo? Chi mi partirà dalla fonte di vita eterna? E dessa aprirà le braccia dell’anima sua andando, abbracciando tutte le criature per amore del suo diletto sposo. Ella abbraccierà tutte le bestie, tutte le mura, istruggendo sé medesima di dolcitudine d’amore santo di Cristo. O anima così trasformata in Jesù Cristo, quando con ogni verità gridi povertà, quando gridi umiltà, e chiedi ogni vergogna, quanto disideri d’essere tenuta pazza e rea, quanto di ogni infamia rea o pessima ti godi! Quanto più ti vedi dilongare dall’onore, tanto più ti vedi accostare a Cristo tuo sposo, tua corona, tuo bene e vero diletto. E però […] io vi conforto e consiglio e per affetto d’amore comando che per voi non si cerchi se none il dilettoso nome di Jesù Cristo, d’altro mai per voi non si parli, morto ogni altro ragionamento se no solo di Cristo crucifisso. Per Cristo semo creati, Cristo è nostra possessione, di lui v’inamorate, di lui parlate, di lui cantate e ridete e fate festa santamente, esso vi sarà padre piatosissimo, isposo amantissimo, saravvi figliuolo dolcissimo, e sarà ogni vostro bene102.

Così i povari ricercano consapevolmente la pazzia dell’amore e l’esaltano, convinti che sia, piuttosto, la saggezza del mondo a far diventare l’uomo matto103. Intanto il bando decadde, il gruppo tornò a Siena e lì, nel frattempo, fu raggiunto da alcuni ambasciatori dell’ecclesia pisana che erano stati ufficialmente inviati per prendere contatti con loro. Le fonti trasmettono soltanto questa scarna notizia cui possiamo aggiungere che, all’indomani dell’incontro, la brigata ripartì da Siena per com101 102 103

Ivi, p. 25, p. 80. Ivi, p. 153. Per esempio le lettere VIII e XIV: colombini, Le lettere, cit., pp. 60-64, pp. 85-88.

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piere un lungo giro di conversione in quasi tutta la Toscana. Seguendo il tracciato della Francigena fino all’incrocio con la via pisana, come farebbe pensare la visita effettuata al santuario di Cigoli per rendere omaggio alla Vergine, giunsero a Pisa, a Lucca, Pistoia e Firenze104. Fu in occasione di un fugace rientro a Siena che appresero della sosta di Urbano V a Viterbo. Poiché nella congrega erano già sorti i primi dubbi sull’opportunità di ottenere un riconoscimento apostolico al loro stile di vita, il vescovo di Città di Castello Buccio dovette rassicurarli e garantir loro che non stavano infrangendo nessun divieto ecclesiastico. La brigata era composta sostanzialmente da laici, assolutamente digiuni di diritto canonico e presumibilmente poco capaci di discernere tra ortodossia ed eterodossia, tuttavia tali perplessità testimoniano quantomeno la percezione di un pericolo. Era l’occasione giusta per assicurarsi un riconoscimento formale a garanzia e tutela del proprio agire, così si diressero a Viterbo e attesero l’arrivo del papa che, appena giunto, li trovò mentre «con grandissima festa continuamente ad alte voci gridavano: Laudato sia Cristo e viva il santo Padre!»105. Il racconto agiografico dell’incontro della brigata de’ povari con il papa è esemplare; Belcari ritrae Colombini e i suoi compagni cenciosi ed esultanti mentre brandiscono rami di ulivo, e corrono a lato dei cavalli e dei carri papali. Festanti, chiassosi e innamorati di quel Cristo di cui bandiscono a gran voce il Nome, rendono omaggio a Urbano V e al suo seguito. A Toscanella, presso Viterbo, furono sottoposti a un esame inquisitoriale volto ad accertarne l’ortodossia e condotto dai cardinali al seguito di Urbano V, tra i quali le fonti gesuate ricordano soprattutto il frate predicatore e cardinale di Marsiglia, Guglielmo Sudre106, e il fratello del papa, il cardinale Anglic Grimoard107. Colombini spiegava la questione in questi termini alle preoccupate monache del Santa Bonda: E per cierto neuno giudichi che troppo e dubbio sia il pericolo, posto che qui aviamo assai patito e assai e molto ismariti, anco ci crediamo assai guadagnare e nell’umiltà e nelle altre cose; e non vi maravigliate, perché la gente non ci abbia così veduti volontieri, e abbianci a sospetto, ché maraviglia grande è come si sia chi ci voglia vedere, e come non ci ànno presi e morti. Che presa per cierto

Ivi, pp. 88-92. 105 Ivi, p. 98. 106 m. pio, Delle vite de gli huomini illustri di S. Domenico, seconda parte, In Pavia, Apresso Giacomo Ardizzoni & Giovan Battista Rossi, MDCXIII, p. 183, p. 200. 107 a. gamberini, Grimoard, Anglic de, D.B.I., 59 (2002), pp. 679-683. Del loro incontro rimane un documento, contenuto nel libro dei conti delle spese sostenute da Urbano V nel tragitto da Avignone a Roma, che riporta: «die 18 mensis eiusdem (iunii 1367) [..] d.nus papa dum intrabat civitatem viterbiensem pro elemosina speciali data 25 pauperibus vocatis Fratisellis cuilibet unum flor. valent 25 flor., item pro 51 cannis panni albi [...] datis etiam per ipsum d.num nostrum papam 25 pauperibus ratione elemosine pro vestibus eorundem 72 folr. 10 sol. monete Avinionem», in c. gennaro, Giovanni Colombini, cit., p. 237. 104

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tenete che chiunque è diventato povaro, abbia presa opinione o resia, e subito ereticano contro la Chiesa, unde noi, non essendo avisati, ci semo messi a grande rischio. [...] E per certo tenete che se la povertà è qui a sospetto, questo non è colpa di coloro che reggono la Chiesa, ma de’ povari superbi ed erranti108.

Alla fine dell’esame il papa li rivestì con dei sai bianchi, simbolo dell’appartenenza alla familia papale e approvò la loro forma di vita vivae vocis oraculo109. La nota delle spese sostenute dall’entourage papale per rivestire i povari li qualifica come Fratisellis, fraticelli. Ben conosciamo la polisemia insita nel termine, utilizzato per denotare una vasta gamma di esperienze religiose pauperistiche110 e sappiamo che Urbano V aveva ferocemente osteggiato i movimenti fraticelleschi dissenzienti, e addirittura «fraticellos vocatos nonnullos a fide catholica divertentes, igne fecit concremari in Roma dum Romae fuit»111. L’aspetto dei povari, unitamente al loro rigorismo pauperistico e carismatico li rendeva indubbiamente sospetti. Una volta verificata la loro ortodossia, il papa volle cancellare anche i tratti esteriori non perfettamente neutri, perciò impose loro di cambiare i vestiti «di tanti pezzi» con le tuniche bianche112. Colombini aveva ben chiara la questione tant’è che scriveva: «chè maraviglia grande è come si sia chi ci voglia vedere, e come non ci ànno presi e morti»113. Nel frattempo, infatti, il quadro si era infoschito perché un loro seguace di Arezzo, tale Biliotto, era stato messo a morte in quanto eretico, insieme ad altri compagni. Non sappiamo nient’altro di quest’uomo, se non che la sua sorte aveva molto scosso il gruppo e chi lo sosteneva e lo frequentava. Francesco Vincenti scrisse alle amiche benedettine senesi, cercando di tranquillizzarle proprio in seguito alle disavventure aretine. Leggiamo: mo’ pensate che tante so’ le resie delle gienti, che non si può credere che noi siamo netti né puri per molti. Ma quando il vero si saprà saremo assai amati, scrivaremo bene e virtuosamente, avaremo assai appogi e grandi e così molti colombini, Le lettere, cit., pp. 56-57. 109 Sull’accidentato percorso di definizione istituzionale della brigata, poi congregazione, e sulle sue pratiche religiose e devote cfr. il mio I “Pauperes Yesuati”, cit. 110 g. tognetti, I fraticelli, il principio di povertà ed i secolari, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», XC, 1982-1983, pp. 77-145; r. lambertini, “Non so che fraticelli”, cit.; cfr. inoltre Poverty and Devotion in Mendicant Cultures 1200-1450, ed. by C. J. Mews, A. Welch, London & New York, Routledge, 2016, in particolare il saggio di a. monteFusco, Religious dissent in the vernacular: the literature of the fraticelli in late fourteenth-century Florence, ivi, pp. 61-76. 111 Urbanus V, Vita, in l. antonio muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, parte II, Mediolani, Ex Typographia Societatis Palatinae, MDCCXXXIV, col. 640. Cfr. s. piron, Le mouvement clandestin des dissidents franciscains, cit. 112 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 135. Ricordo che le vesti rappezzate erano tipiche degli appartenenti a molti movimenti pauperistici eterodossi. 113 colombini, Le lettere, cit., p. 56. 108

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contrari, e crediamo grande battaglia; ma speriamo buono fine per la purità e verità e santo desiderio114.

L’esame inquisitoriale subito dalla brigata non fu indolore, nonostante la dorata patinatura sovrappostavi dai racconti agiografici, Belcari stesso è costretto a scrivere che alcuni tra i cardinali e i vescovi, i francescani e i domenicani del seguito papale asserivano «che questi poveri sentivano della perniciosa eresia di fraticelli della opinione»115. L’elemento più scomodo doveva essere la loro povertà assoluta, poi l’itineranza e il rifiuto di appartenere a qualsiasi istituzione. D’altronde questi erano i tratti specifici e salienti della brigata, i tratti identitari che la rendevano unica e non assimilabile ad altre esperienze religiose. Rifiutarli avrebbe significato snaturare il gruppo. Ma si trattava di tratti specifici e salienti resi tali dalla salienza suprema, cioè dalla follia per Cristo. In una lauda attribuita al Bianco da Siena, il lanaiolo-poeta unitosi al gruppo alla vigilia della partenza per Viterbo, è chiaramente espresso il programma spirituale della brigata. Rivolgendosi all’anima votata a Cristo, il compositore l’apostrofa: [...] se tu per Cristo pati se’ beata; godi, se pena senti, essendo afflitta, annilita e scacciata da amici e parenti. Perché il demone ti tenti, non ti partir da Iesu benedetto. Se ognun pensa che tu sia da nulla vile e impossente: Come di pazza di te si trastulla, ben puoi stare gaudente: nella vita presente non voler essere grande ma abietto. Se giudicato se’ per malfattore, seduttore e fallace: se appellato tu se’ traditore, essendo tu verace, godi e datti pace [..]. Eleggiti per gaudio, anima mia, guai, pene e dolori, Ogni tribulazione e malattia, vergogna e disonori; e disprezzare gli onori per amor di Iesù sia il tuo diletto116

Ivi, p. 218. 115 La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 137. 116 Ivi, pp. 177-179, ma si veda il bel testo curato da s. serventi, Il Bianco da Siena, Laudi, edizione critica, Roma, Antonianum, 2013, p. 383. 114

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Giovanni Colombini scrive frasi lucidamente intrise di elogi alla follia per amor di Cristo crocefisso, ad esempio: «Trovo per isperienza quanta più allegrezza e pazzia più fervore e lumi»; oppure: Carissime spose [...] la cui anima disiderano così di correre a bere alla vita fonte della viva acqua, ove bevve e si saziò l’assetata et affocata serva di Cristo Maddalena, la quale quando ebbe bevuto di quella dulcissima acqua una fiata, sempre andò come ebbra e come pazza cercando il suo diletto sposo”; o ancora: “e però che i Santi passati sentivano dentro da loro quel fuoco della carità di Dio, erano costanti a sostenere, quantunque fossero molto aspri tormenti.

I suoi amici spirituali si producono in follie d’amore, come Francesco da Monticchiello, che quando non sperimentava infuocate esaltazioni mistiche, s’infliggeva pesanti penitenze e d’estate indossava pellicce e d’inverno stava nudo, s’infilava nell’acqua fredda e ci rimaneva finché non gelava. Una volta, racconta Colombini: Ora dico quel che mostrò Jesù che domenica a notte, facendo essi [Francesco da Monticchiello] disciplina nella cappella, costui fu subito tocco sì fortemente da Cristo del fervore che fu una maraviglia, e quasi non dormì punto la notte, né lassò dormire me, e gridava che infino a quel punto non aveva conosciuto Cristo, e che ogni suo fatto era una falsità e una ciechità; e puoi la seconda notte ebbe anco maggiore e più forte fervore, e già da me neuna informazione aveva avuta, unde e’ ci fosse tirato con aiuto, ed ebbe molte lagrime, e non si potea tenere di gridare e saltare e ballare.

Il povaro Agostino, dal canto suo, quando udiva il nome di Gesù «dà il fervore in grandissima strida e la sua donna fa il simile»117. Giovanni predicava di correre incontro a Dio «colla smisurata carità, con uno amore che senta del pazzo» e i suoi gli davano credito118. Bartoluccio dei Santi, un contadino incontrato sulla strada per Città di Castello che si aggregò al gruppo: «uscì correndo di chiesa, e saltò in sulla piazza, senza toccare veruno de’ gradi di detto duomo: e così spesse volte, contra sua volontà, faceva con ammirazione ridere chi lo vedea». Similmente Gaspare della Serra camminava sempre scalzo «in fervore di spirito» e arrivava persino a passeggiare in mezzo al fuoco, perciò chi lo vedeva lo giudicava matto. Bianco da Siena si comportava stranamente e pretendeva da chi lo seguiva che facesse altrettanto. A un giovane montanaro, una volta diventato suo figlio spirituale, imponeva fatiche, servizi e «atti di poco senno, e da parere stoltezza». Non era il solo: per mortificare il dotto Romolo da Firenze i povari lo incoronarono con l’aglio, dopodiché iniziarono a parodiare le riverenze mondane rivolgendogli motti scherzosi e insolenti. Bartolomeo Ridolfi si mortificava 117 118

colombini, Le lettere, cit., pp. 143, 225, 249, 55. La vita del beato Giovanni Colombini da Siena, cit., p. 120.

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in piazza a Bologna finché non gli davano del matto e il suo padre spirituale Romolo lo faceva mangiare per terra come un cane, gli faceva leccare il tagliere su cui preparava il cibo e gli foderò il cappuccio con la pelle di un gatto non conciata119. Si tratta certamente di comportamenti eccentrici ma non troppo lontani, almeno nella versione datane da Feo Belcari, dai rigori di molti eremiti o dei più antichi francescani. L’epistolario del Colombini riporta numerose esortazioni a leggere le Vite dei santi padri, all’interno delle quali sono presenti episodi di follia per Cristo, come ormai ben sappiamo, dal racconto di Serapion il Sidonita dell’Historia Lausiaca, o di Marco salos del Prato, agli aforismi o detti celebri dei padri del monachesimo inneggianti alla pazzia santa. L’amore infinito conduce all’ardente follia dell’innamorato. Lo stesso linguaggio “infuocato” del Colombini ne è testimonianza, un linguaggio al quale Bianco da Siena fa poetica eco nella lauda XX, dove si legge: quando nel cor mi giunge/ la saetta ‘nfocata/ nulla cosa non è che mi ritenga; Amor tu m’hai posta/ fuor d’ognie mie possanza,/ in tanta smisuranza,/che ci annega ‘l mie core; d’amor crede morire/ el core in te fermato

L’esaltazione che ne consegue provoca scandalo negli ipocriti: «so’ avuto a sospetto/ all’anime remote/ che si tengon divote/ serrandoti lo core»120. Fedele al suo impazzire per Cristo tante volte ripetuto nelle lettere, Giovanni Colombini si avvicinava alla Scrittura senza la mediazione degli studi e a Domenico da Monticchiello descriveva efficacemente cosa accade all’anima innamorata: Et levasi suso del mezzo dell’anima un affetto infocato di puro e netto amore, senza neuna considerazione di sé stesso, né di Dio, né di Cristo, né di vita eterna; non ispecolando in neuna cosa celeste né terrena né umana, né divina, che l’anima abbia veduta o non veduta senza neuna immaginazione. Ma solo l’affetto dell’amore tirato dall’affetto del grande amore unisconsi insieme, e divengono un affetto; ine non si cerca né si può cercare alcuna cosa particulare, ma é uno notamento di bene nel bene grande, un amore del magnissimo amore, e volamento d’amore e quando tirato dall’amore non è cosa che veggia, né senta, né chiegga; ma è ismisuranza di bene e compimento d’amore e termine, credo di sentimento; ma a cui è più a cui è meno, secondo gli infocati desideri. Entra tale affetto et amore et affetto d’amore nell’abisso dell’amore nelle divine tenebre; divine sono ch’esso é essa divinità et abisso; tenebre sono, che sono scure nel comprenderle e vederle, e più tenebre a parlarle. Questa salita et affogamento impedirebbe ogni considerazione et immaginazione d’alcuna cosa qualumque fosse. Solo l’amore trova l’amore e credo che sia godimento dei godimenti121. Ivi, pp. 213-350. 120 t. bini, Laudi spirituali del Bianco da Siena, Lucca, Tipografia Giusti, 1851, pp. 60-62; S. serventi, Il Bianco da Siena, p. 386. 121 colombini, Le lettere, cit., pp. 50-52. 119

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Nel 1367 dopo aver fatto professio fidei ad Acquapendente, sulla via di ritorno a Siena, si spengeva Giovanni Colombini, folle in Cristo. Lasciava ai compagni e ai devoti l’eredità della memoria della brigata e della sua specificità. La specificità maggiore consisteva nell’aderire alla santa follia del Colombini con tutto ciò che ne conseguiva122. Nelle fonti successive, in cui si trasmette (e si gestisce) la memoria degli insegnamenti di Colombini, trova luogo un’interpretazioni interessante, che ci parla di pratiche (tecniche) volte a suscitare l’amore “eccessivo” che conduce alla follia divina. Antonio Bettini, colto gesuato e vescovo di Foligno, nella sua Vita del Colombini racconta che Dio stesso gli svelò il portato santificante della recita del Pater. Et intanto fu infiammato del divino amore che incontanente incominciò a pensare in che modo et in che forma maggiormente potesse infiammare del divino amore. Et più perfectissimamente seguitare le vestigie del nostro Signore Iesù Christo. Et subito et incontanente per quella ammirabile et subita et pronta conversione, incominciò a pensare et cognoscere quanto facilmente potesse havere et possedere el vero et eterno Iddio Sommo Bene. Incominciò addunque l’huomo di Dio Giovanni frequentissimamente et di dì et di nocte a entrare nel cubiculo del suo chuore et, chiuso l’uscio, orare al Padre sì come insegnò Iesù Christo, dicendo el Pater Noster qui es in celis etiam colla Angelica Salutatione a Maria madre di Iesù Christo excitandola che con secho orasse al Padre123.

Così Colombini raggiunse una sorta di sancta insania che con «sommo ardore» lo costrinse a «parere più tosto stolto et abiecto per l’amore di Iesù Christo che di parere humile»124. Bettini è un uomo estremamente colto e introduce il motivo paolino della follia per Cristo qualificandola come l’effetto della metànoia-conversione. La conversione di Colombini, secondo la sua interpretazione, si pone come la traduzione concettuale della metànoia di cui alle lettere di Paolo di Tarso, cioè un ribaltamento completo delle prospettive esistenziali. Bettini esplicita il rovesciamento completo di valori del convertito per effetto della grazia, tant’è che persino la decisione che segna il passaggio esistenziale dal secolo al tempo di Dio – «essere deiecto, schernito et vilipeso, perseguitato et fragellato»- valica la semplice dimensione penitenziale per adire, invece, alla radicalità della sequela Christi: credendo con sincero chuore che seguitare Iesù Christo puramente et semplicimente nella sua vita et doctrina, passione et morte, fusse perfectissima reTratto la questione dell’eredità del Colombini nel mio I “Pauperes Yesuati”, cit. 123 La Vita è inserita nel trattato De vi et virtute dominice orationis, Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 2876, cc. 87r-88v. Cfr. i miei I “Pauperes Yesuati”, cit. e anche Il Padre nostro nei secoli XIII-XV: alcune tracce per una lettura, «Annali di Scienze religiose», 3, 2010, pp. 77-112. 124 Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 2876, c. 88v. 122

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gola et sanctissima religione d’ogni perfectione; intendendo sempre niente aggiugnere alle parole di Christo et niente minuire et d’osservare le sue parole formalmente secondo el sentimento et secondo la lectera125.

L’autore è un teologo troppo esperto per non cogliere la pericolosità dell’endiadi «sentimento» e «lectera» applicata all’esegesi della Scrittura, perciò smorza immediatamente il tono del racconto introducendo le figure dei sapienti «theologi» dai quali Colombini si reca in continuazione, in uno sforzo di verifica costante del proprio comportamento non meno che della dottrina. Ciò nonostante si lascia sedurre dall’«affocamento d’amore» del Colombini e intona una sorta di inno allo Spirito. Et con ciò sia cosa che per la forza et per la virtù della dominica oratione, si prometta et ottengha lo Spirito di Dio, et habita nel chuore di colui che ora in fede. Et lo Spirito Sancto dove vuole spira et dove è lo Spirito Santo ine è libertà. Et niuno sa onde vengha né dove vada, et con ciò sia cosa che colui el quale ora al Padre come insegnò Iesù Christo, sia huomo iusto et viva iustamente. Tale iusto per la forza et per la virtù della dominica oratione, el Signore lo mena per le vie diritte et dimostragli el Reame del Cielo et donagli la scientia de sancti et honestalo nelle sue fatiche, et compie et fa perfecte le sue virtudi, et menalo alla gloria sempiterna et a quello ultimo beato fine al quale lo creò Iddio nostro. Onde l’huomo di Dio Giovanni, già fatto tempio dello Spirito Sancto, et già fatto giusto nel conspecto di Dio, et inspirato dallo Spirito Sancto, desiderando di servire a Dio ferventissimamente et di seguitare le vestigie e gli exempli et la doctrina del suo Signore Iesù Christo, spesso spesso considerava per qual via dovesse andare126.

Un inno che è un commento alla pericope «ubi Spiritus ibi libertas» (2Cor 3, 17) in cui si definisce la libertas dello spirito nei termini di conseguenza dell’orazione e, più precisamente, della recita del Pater. Tuttavia, consapevole di evocare così lo spettro della Libertà dello Spirito, Bettini mette in subito in azione i necessari correttivi, scrivendo passi di esaltazione dell’ortoprassi e della cattolicità del Colombini127. L’opera di Bettini va contestualizzata alla storia della congregazione gesuata – di cui ci racconta moltissimo come ho argoIvi, c. 90r. 126 Ivi, cc. 92r/v. 127 «Posesi adunque l’huomo di Dio Giovanni tutto nel grembo della Sancta Romana Ecclesia, alla osservantia del santissimo evangelio, niente altro intendendo et niente altro pensando et niente altro volendo se non quello che intende, tiene ed ordina et insegna la Sancta Romana Chiesa, sposa di Iesù Christo et unica madre di tutte le chiese et di tutti li fedeli christiani, et incominciò con sommo studio et diligentia a venerare et honorare el sanctissimo et beatissimo sommo pontefice et gli altri prelati come vicarii di Iesù Christo et a sottomettersi alla loro autorità et consiglio et a perfectissimamente ubidire a loro per amore di Iesù Christo infino alla morte», ivi, cc. 96v-97r. 125

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mentato in altra sede128 –; ai nostri fini basti sottolineare l’addomesticamento della sancta insania di Colombini. Un addomesticamento che si acuirà con il passare del tempo e con le rivisitazioni successive della sua memoria e che raggiungerà il culmine con la seicentesca agiografia firmata dal gesuita Giovan Battista Rossi. Egli compose una Vita di Giovanni Colombini che mirava a ridimensionare e a correggere gli “eccessi” del testo di Belcari. Rossi enfatizzava ripetutamente la gradualità dell’ascesa dell’anima verso Dio, nell’intento di presentare la vita di Colombini quale esempio di crescita spirituale per i laici. Egli ricorre spesso all’immagine della scala per rendere l’idea della santificazione personale, mentre spiega ai lettori che il cammino del perfezionamento cristiano di Colombini procedette passo dopo passo. La conversione dell’ex-mercante era stata subitanea, non così era accaduto per la santificazione129. Più in generale Rossi ammoniva il devoto lettore, consigliandogli prudenza e discernimento e scialbava la narrazione delle gesta di Colombini, eliminando, peraltro, ogni testimonianza sui primi compagni. Dall’epistolario di un’altra magistra animarum dell’epoca di Giovanni Colombini, Caterina da Siena, emerge un itinerario spirituale scandito da incessanti richiami alla pazzia d’amore per Cristo130. Si tratta, però, di una follia tutta misticamente sponsale e amorosa che, in qualche misura, finisce per produrre comportamenti accettabili nella misura in cui deflagra soprattutto nell’intimità della coscienza.

Il mio I “Pauperes Yesuati”, cit., dove trova spazio anche la biografia di Antonio Bettini. 129 «Ut ii, qui gravi ac diuturno afflicti morbo iacuere, non statim, ut emerserunt, currere vel ea praestare valent, quae sanos et robustos artus deposcunt, sed pedetentim convalescunt, ac per virium experimento, quid sustinere, quid ferre recusent, fessa membra condiscunt, ita Ioannes haudquaquam statim extrema tentitavit, ad quae deinceps opportune devenit, sed leniter atque per gradus declinare coepit a malo, fraenos avaritiae iniicere, et ab anxia acquirendi sollicitudine conquiescere, tum bonum facere et pacem inquirere et persequi ex vatis sanctissimi monito: partem temporis, negotiationi detractam, precibus concedere, pauperum misereri, egenos sublevare et paulo largius eleemosinis sublevare, templa invisere, quaeque alia id quaeris restitutae salutis argumenta, quae ut solidius firmarentur diu noctuque Blasia a Domino postulabat», De B. Ioanne Columbino fundatore Ordinis Jesuatorum, vita auctore Joanne Baptista Rossi Societatis Jesu (1648), AA.SS. Luglio 7, pp. 333-408, p. 356. 130 a. levasti, Mistici italiani del Duecento e del Trecento, Milano, Rizzoli, 1960, p. 58. 128

Conclusioni

La ricerca si arresta, dunque, con l’esperienza di Giovanni Colombini e dei suoi più antichi compagni. Eppure basterebbe rileggere le voci dedicate alla follia per Cristo e al folle per Cristo nel Dictionnaire de Spiritualité 1, o in alcuni contributi recenti per aggiungervi altri nomi – e dunque altre esperienze – in sincronia e in diacronia2. La domanda che avevo rivolto alle fonti e, quindi, la prospettiva d’indagine che ho adottato di conseguenza richiedeva, tuttavia, una risposta che implicasse la comprensione della specificità del lessema concettuale “santa follia” attraverso le epoche e le diverse società in cui fu distillato. In altre parole non ho cercato tutte le possibili derivazioni esperienziali dei versetti della Seconda Lettera ai Corinzi di Paolo, e specificatamente dei versetti dedicati a esaltare la pazzia della Croce perché, a mio modo di vedere, non era quella la domanda giusta da rivolgere al passato da parte di uno storico. Mi appariva, infatti, una domanda che scaturisce da un approccio di tipo teologico alla storia; un approccio legittimo, certamente, ma che non mi appartiene. A me è sembrato più rispondente alla realtà fenomenica della storia cercare di capire perché, come e dove possa essersi resa credibile agli occhi della società che l’ha accolta, la possibilità di giungere a Cristo attraverso la follia. E si è visto come in Oriente quella possibilità si sia reificata molte volte e come, ogni volta, sia stata intesa e declinata in maniera pratico-fattuale, cioè comportamentale. I saloì fanno, agiscono, si comportano e sono tali senza mistica e senza teoresi. Andrea salòs, nella cui Vita invece lo spazio dell’azione è contratto rispetto allo spazio 1 2

Cfr. infra, Introduzione. Cfr. ad esempio a. cacciotti, Sapienza e stoltezza. Il motivo paolino, cit.

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dell’educazione spirituale, non è propriamente tale, non è propriamente un salòs: chi lo ha inventato e ne ha scritto la Vita ha usato un involucro concettuale di sicuro appeal – quello del salòs, appunto – per veicolare una ben precisa catechesi. La trasposizione di tutti quei racconti in un’altra lingua – il latino –, in un altro tempo e in un’altra società, ne ha determinata l’inevitabile trasformazione, metabolizzando e personalizzando l’eredità spirituale che dall’Oriente giungeva in Occidente. Una trasformazione che ha finito per mettere progressivamente sempre più in campo la mistica, per così dire, e l’ha fatto all’interno di una società allegorica e simbolica in cui ogni cosa era segno di qualcos’altro. Da Wulfia a Giovanni Colombini si registra una crescente dilatazione e complicazione della sfera dell’interiorità: la pazzia per Cristo è pazzia d’amore ed è imitazione della Croce, lungo la metaforica strada della conformazione a Cristo. Ecco dunque che sullo “scandalo” della Croce, attività per eccellenza dei saloì orientali, prevalgono il dolore, la mortificazione, l’umiltà e l’obbedienza della Croce. La prospettiva staurologica accomuna Oriente e Occidente, ma si tratta di una prospettiva bifocale: ciascuno possiede il proprio focus interpretativo e i due fuochi sono complementari ma divergenti. L’Islam sufi, dal canto suo, si confronterà in maniera ancora diversa, esoterica e sapienziale, con la follia per Dio, con cui entrerà in contatto a partire da testi siriaci ben connotati. Sullo scorcio del Trecento, in Europa, viene meno una simile specificità perché si verifica una doppia cesura e, di conseguenza, si arresta l’indagine. Da un lato, infatti, la progressiva esaltazione dell’aspetto penitenziale e ubbidiente dell’insania amoris avrebbe finito per recingere i folli eccessi dell’innamoramento per Cristo nel circuito sempre più intimo della coscienza, depotenziandone l’impatto sociale. O, almeno, depotenziandolo nell’immediato. Allora l’effervescenza della vita mistica s’impone tanto da sostituire il vagabondaggio per amore di Cristo con il pellegrinaggio tutto interiore dell’anima, e l’eremitaggio selvatico con la cella-romitorio mentale; mentre l’anima s’infiamma d’amore per il mistico Sposo, il corpo resta al sicuro, all’interno di un edificio e di una comunità regolari. Dall’altro lato è l’epoca in cui occorre il fenomeno che, nell’Introduzione, ho voluto qualificare come una sorta di “passaggio di testimone”: i santi “folli” che hanno trasformato e rinnovato chiesa e società diventeranno essi stessi le icone delle origini da recuperare e susciteranno altre volontà e altri esperimenti di riforma. Risulta emblematico, a questo proposito, il caso costituito dalla gestione della memoria di Francesco d’Assisi. Egli voleva essere «unus novellus pazzus», i suoi seguaci che vollero essere riformatori in suo nome, ambirono a essere come lui. Il terminus cronologico dopo il quale si scialba la specificità tardo-antica e medievale della pratica della “santa follia” dipende, inoltre, anche dalla genesi e dalla connotazione monastica della “san-

Conclusioni

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ta follia” stessa. Monaci sono i protagonisti dei racconti agiografici e dei Detti greci e siriaci in cui si presentano per la prima volta sul proscenio della storia i comportamenti “folli in Cristo”. Sono monaci particolarmente santi perché capaci di vivere nascosti e isolati in Dio anche in mezzo al secolo, protetti dalla reputazione di pazzia, ma sono monaci. Rappresentativo di tutti costoro è Simeone salòs. E monaci sono coloro che, nei territori europei, vorranno riportare in vita la chiesa monastica delle origini, ritenendola l’unica possibile e ritenendo che la sua scala di valori dovesse essere condivisa da tutti. Ne avrebbero graduato i connotati, rendendola fruibile dai non monaci, ma non ne avrebbero affatto cambiata la sostanza. Perciò contribuirono a diffondere fuori dalle mura del monastero l’etica e la valorialità tipicamente monastiche e, con esse, anche l’idea della “follia per Cristo”. Tale eredità sarà introiettata e vissuta, attraverso vettori disomogenei, dai laici che, come Francesco, Jacopone, Pietro Crisci o Giovanni Colombini, intuirono l’esistenza di peculiare iter ad Deum e pertanto vollero «fare del pazzo». Infine, attraverso le loro storie personali, s’intravede un’intera società che continua a percepire nella pazzia tout court un cono d’ombra dell’Invisibile e che, pur se capace di gestire i pazzi sotto la specie del trattamento sia giuridico, sia medicale, non vuole separarli da sé. La loro mente sconvolta può, infatti, aprirsi a ospitare molte voci e, tra tutte quante, anche la voce di Dio.

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na, Leone Medico), a cura di a. garyza, r. de lucia, a. guardasole, a. m. ieraci, m. lamagna, r. romano, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 2006 [Classici Greci. Autori della tarda antichità e dell’età bizantina] morigia p., Historia dell’origine di tutte le Religioni, In Venetia, presso Gio. Battista Bonfadio 1586 pio m., Delle vite de gli huomini illustri di S. Domenico, seconda parte, In Pavia, Apresso Giacomo Ardizzoni & Giovan Battista Rossi, MDCXIII sulamī, La lucidité implacable. Epître des homme du blām, traduit de l’arabe et présenté par E. Deladrère, Paris, Arlea, 1991 (Traduzione di Tabaqāt al-sūfîyya) toschi d., Practicarum conclusionum Iuris in omni foro frequentiorum, Dominici Titulo S. Onuphrii […] Cardinalis Tuschi, tomus IV, Romae, ex Tipographia Stephani Paulini, 1606 Urbanus V, Vita, in l. antonio muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, parte II, Mediolani, Ex Typographia Societatis Palatinae, MDCCXXXIV, col. 640 Volgarizzamento senese delle “Vies des Peres” a cura di A. Del Monte, Estr. da Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze, Olschki, 1966 (pp. 329-383) Fonti inedite Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 499 (Kalendarium Laureshamense) Biblioteca Apostolica Vaticana, Autographa Bedae, Palat. Vat. 833, 844 St. Gallen, Stiftsbibliothek, Cod. Sang. 450 Biblioteca Comunale di Siena, ms. A.III. 7 Biblioteca Comunale di Siena, ms. F.VII.2 Biblioteca Comunale di Siena, ms. I.VI.16 Biblioteque National de France, Paris, Livre de Sidrac (XIV secolo), ms. Français 1160 Biblioteque National de France, Paris, Livre de Sidrac, (XV secolo), ms. Français 12444

Indice degli antroponimi*

‘Abd-ar-Rahman III, 107 ‘Alī Ibn al-Abbās al Majūsī vedi Ali Abbas Abelardo, 113, 116 Absalon di Springiersbach, 116 Abū ‘Abd al-Rahmān al-Sulamī’s da Nīshāpūr, 27-28 Abū ‘Abdallāh Muhammad ibn ‘Alī al-Hakīm al-Tirmidhī, 28 Abū ‘Amr Isma‘il ibn Nujayd, 28 Abū al-Qāsim az-Zaharāwī Khalaf Ibn ‘Abbās vedi Albucasis Abū Hafs, 26 Abū Jafar Ahmed Ibn Ibrāhīm Ibn ‘Alī Khālid vedi Ibn al-Gāzzār Abū Nasr Mutahhar ibn Tâhir al-Muqaddasî, 28 nota 43 Adalberto di Praga, 78 Adelferio agiografo di Nicola di Trani, 81, 83 Aelredo di Rielvaux, 115 Aezio, 103 Agapito, 92, 93 nota 29 Agnello, frate, 138 Agostino povaro, 188 Agostino, 124 Al-Ghazālī, 25 Al-Rāzī Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā’, vedi Rhazes

Alberto frate, 138 Albucasis, 107 Alessandro di Tralle, 103, 104, 107108 Alessio (sant’Alessio), 46, 170-171, 174175 Ali Abbas, 106 Ambrogio di Giuccha, 179 Anastasio Bibliotecario, 50, 56, 71, 176 Andrea Cappellano, 113 Andreas salòs, 31, nota 52, 40-48, 60, 192 Angela da Foligno, 160-162, 164 Angelelli Giovanni vescovo, 160 Angelo Clareno, 159, 164 Angelo da Borgo San Sepolcro, 137 Angelo da Chiarino vedi Angelo Clareno Anglic Grimoard cardinale, 185 Antioco salòs, 35, 35 nota 71 Antonio monaco di San Simone, 50 nota 130 Antonio, (santo, abate), 58, 70, 73, 97, 172 Arcadio, 91 Aredio di Limoges, 60, 62, 62 nota 38 Arete, 92 Ario, 43 Ariprando monaco, 73 Aristotele, 108

* Si precisa che l’indice degli antroponimi inerisce soltanto i personaggi storici citati nel testo. Gli autori della bibliografia non sono citati: per costoro si rimanda alla bibliografia in ordine alfabetico.

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Arnaldo da Villanova, 107 Arsenita (santo), 59 Atanasio, 92 Aurea martire, 92, 93 nota 29 Avicenna, 25, 104, 107 Avito, 61 Babilas di Antiochia, 54 Balderico, vescovo di Borgueil, 96-97 Baldo degli Ubaldi, 89 Baldric, vedi Balderico vescovo di Borgueil Bardone di Magonza, p. 62 nota 38 Barna da Siena, 179 Baronio Cesare, 57 Bartolo da Sassoferrato, 89 Bartolomea di Santa Bonda, 180 Bartolomeo Anglico, 89, 98-100 Bartolomeo monaco, 79, 81 Bartoluccio dei Santi, 188 Basilacio salòs, 48 Basilio (santo), 59, 62 Basilio di Cesarea, 44 Basilio il Giovane, 43 Basilio, figlio di Romano I Basileus, 40 nota 97 Basilissa, vedi Giuliano e Basilissa Bavone di Gand, p. 62 nota 38 Beatrice di Nazareth, 169 Belcari Feo, 171-177, 180, 187, 189, 192 Benedetto d’Aniane, 59 Benedetto da Norcia, 73, 124 Benedettoni Jacopo, vedi Jacopone da Todi Benedictoli Jacopo, vedi Jacopone da Todi Beniamino da Tudela, 105, 106 Beniamino, 111 Bentivenga da Gubbio, 159, 164 Benvoglienti Leonardo, 182 Benyamin ben Yonah de Tudela vedi Beniamino da Tudela Berardo da Chiaravalle, 113, 163, 175 Berardo di Gordon, 107 Bernardi Biagio, 172 Bernardino da Siena, 163, 182 Bernardo da Quintavalle, 136-137, 144145 Bernardo di Trion, 70 Bernardo, 124 Bernerio di Eboli, eremita, p. 62 nota 38

Bettini Antonio, 190-192 Bevegnati Giunta vedi Giunta Bevegnati Biagi Cristofano, 179 Biagia (moglie di Giovanni Colombini), 172, 179-192 Bianco da Siena, 187, 188-189 Bilinda, 23 Biliotto, 185 Bisanzio Senior arcivescovo, 81 Boccaccio Giovanni, 172 Bohier Nicolas, 89 Bonaventura da Bagnoregio, 117-118, 128, 133-134, 153, 159 Bonifacio / Vinifrido, 78 Bonifacio VIII, papa, 148, 166 Bonifacio, eremita, 119 Bruno di Querfurt, 78, 113 Buccio vescovo di Città di Castello, 183, 185 Buoncompagno da Signa, 137 Buoninsegna Spinello, 179 Carauno di Chartres, p. 62 nota 38 Carlo il Calvo, 71 Cassiodoro, 55 Caterina da Siena, 163, 170, 192 Cavalca Domenico, 56 Cecco detto il Boccia, 179 Celso, 92 Censurino, 92 Chiara da Montefalco, 159-160, 164 Chrètien de Troyes, 114 Christina di Markyate, 23 Christina di Saint Trond, 168 Christina di Stommeln, 169 Christina mirabilis vedi Christina di Saint Trond Cipriano da Cartagine, 91 Climaco, 35, 35 nota 71, 37, 42, 164 Colombini Angiolina, 179 Colombini Caterina, 182 Colombini Giovanni vedi Giovanni Colombini Colombini Pietro, 179 Colombini Tommaso, 172 Colonna Giacomo, cardinale, 148 Colonna Pietro, cardinale, 148 Cornelio vescovo di Roma, 91 Cosma e Damiano (santi), 54 Cosroe I re, 41

Indice degli antroponimi

Costantino l’Africano, 106-107 Costantino VII Porfirogenito Basileus, 45 Crescenzio da Jesi, 125 Cristofano di Gano Guidini, 170, 171 Cristoforo (san), 54 Crodegango, vescovo di Metz, 67 Dakkāra, 28 nota 43 Daniele di Sketis (Daniele lo Scetiota), 22, 23, 30-32, 37 Dante, 179 Davide (personaggio biblico), 25 De Benedictis Jacopo vedi Jacopone da Todi Diacono di Foticea, 79 nota 109 Diedato, eremita, 119 Doda, 23 Domenico da Monticchiello, 170, 179, 189-190 Domenico da Sora, 64 Domenico di Guido, 179 Domenico, 162 Efrem il Siro, 20 Egano da Bologna, 171 Egberto (Ekkebert) di Hersfeld, 76, 78 Egidio, frate, 130, 139, 144 Ekkebert vedi Egberto di Hersfeld Elia lo Speleota, 69 Eloisa, 113 Enrico II, 69 Enrico Suso, 163 Epifanio compagno di Andreas salòs e Patriarca di Costantinopoli, 40-48 Ermelinda, 23 Etienne de Bourbon, 121-122, 127 Eufrosina di Alessandria, 23 Eugenia, 23 Evagrio di Epifania, vedi Evagrio lo Scolastico Evagrio il Pontico, 79 note 109 Evagrio lo Scolastico, 32-34, 36 Fantino il Giovane, 69 Farīd al dīn ‘Attār, 25, 26 nota 34 Felice eremita salòs, 119, 120-121 Felicita, 92 Figlio di Niccolò di Nerdusa, 179 Filippo Longo frate, 144 Filotea di Cartagine, 40 Fozio, 45

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Francesco d’Assisi, 14, 15, 122, 123140, 144-146, 147, 160, 162-163, 175, 178, 194, 195 Francesco da Monticchiello, 184, 185 Francesco di Girolamo da Siena, 179 Francesco di Mino Vincenti, 170-176, 180, 183 Frater A., 161-162 Gabriele il Melodio, 39 Galeno, 108 Gallerani Fazio, 179 Gaspare della Serra, 188 Gelasio papa, 50 Genoveffa reclusa, 60 Gentile da Foligno, 164 Geraldo di Csanad, 78 Geraldo, conte 63 Gerardo di Sales, 69 Gerardo Segarelli, 159 Geroh di Reichersberg, 112-113 Gherardo da Cremona, 106 Giacomo Bianconi, 168 Giacomo da Vitry, 129 Ginepro, frate, 140-143, 146, 155 Giobbe (personaggio biblico), 61 Giorgio salòs, 35, 35 nota 71 Giovanni amico di Simeone salòs, 35-40 Giovanni Cassiano, 62, 95, 96 Giovanni Climaco, vedi Climaco Giovanni Colombini, 14, 162, 163, 170-192, 193, 195 Giovanni d’Ambrogio, 179 Giovanni Damasceno, 44 Giovanni della Verna, 147-148 Giovanni di Efeso, 24-25, 28 Giovanni di Emesa salòs, vedi Giovanni salòs Giovanni di Gorino, 160, 162, 165-168 Giovanni di Gorze, 67-69, 72 Giovanni di Salerno, 70 Giovanni evangelista, 144 Giovanni Gorini vedi Giovanni di Gorino Giovanni Gualberto, 70 Giovanni Immonide, 56 Giovanni l’Elemosiniere (Giovanni il Misericordioso), 34, 35 nota 70, 67, 68 Giovanni Loricato, 68 Giovanni Mosco, 33-34, 35 nota 70, 37, 50, 56, 171

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Giovanni salòs di Costantinopoli, 35 nota 71 Giovanni salòs, 35, 40 Giovanni Scoto Eriugena, 71 Giovanni suddiacono, 55 Giovanni XXII papa, 159, 164 Giovannuccio da Bevagna, 164 Girolamo (santo), 50, 70 Girolamo da Siena, 182 Giuliano e Basilissa, 54 Giunta Bevegnati, 178-179 Giustiniano I, 91 Goffredo di Vendôme, 94, 96 Gregenzio vescovo di Taphar, 39-40 Gregorio di Antiochia, 33-34 Gregorio di Sant’Angelo, cardinale, 69 Gregorio di Tours, 59-60, 61 Gregorio il Decapolita, 35 nota 71 Gregorio IX papa, 130 Gregorio lo Studita, 38 Gregorio Magno 12, 50, 55, 60, 78, 119 Gualtieri di Piero, 179 Guglielmo da Saliceto, 107 Guglielmo di Alvernia, 108-110 Guglielmo di Saint-Thierry, 65, 72, 96, 110-112, 113, 115 Guglielmo Sudre cardinale, 185 Guidini Cristofano, vedi Cristofano di Gano Guidini Guy di Anderlac, 70 Haimrad vedi Heimrad Hamdūn Qassār, 26 Hārūn ar-Rashīd, 27 Heimo vedi Heimrad Heimrad (Haimrad, Heimo), 75-78 Heinrich Seuse vedi Enrico Suso Hunayn Ibn Ishāq vedi Iohannitius Iacopo da Varagine vedi Iacopo da Varazze Iacopo da Varazze, 175 Ibn Abū ‘Alī Ibn Sīnā, vedi Avicenna Ibn al-Gāzzār, 104, 107 Ibn Gubayr, 105 Ida di Louvain, 169 Ieroteo di San Mamas, 47 Ilarione, 58, 70, 73, 97, 172 Iohannitius, 104 Ippocrate, 103 Isaac Israeli, 107

Isaakij di Kiev, 45 Isacco II Basileus, 48 Isaia (personaggio biblico), 144 Isāq ibn -‘Imrān, 104 Isho’dad di Merv, 17 Isidora, 21 Isidoro di Siviglia, 91, 98, 100, 112 Ivo di Chartres, 95, 115 Ivo di San Vittore, 115 Jacopone da Todi (Jacopo De Benedictis, Jacopo Benedictoli, Jacopo Benedettoni), 148-156, 158-159, 164, 167, 175, 195 Kekaumenos, 47 Lamberto eremita, 67-68, 76 Lauso, 20 Leone I Basileus, 40 Leone II Basileus, 39 Leone, frate, 124, 145 Leone, frate, 141 Leonzio di Neapoli, 34-40, 46, 50, 56, 57 Leto confessore, p. 62 nota 37 Leto, 61 Liberato frate vedi Pietro da Macerata Lucifero da Cagliari, 92 Macario di Alessandra, 21, 58, 59 Maddalena (personaggio biblico), 188 Marbodo vescovo di Rennes, 94-96 Marciano papa, 174 Marco da Lisbona, 155 Marco salòs, 30-32, 40, 50, 189 Marescotti Giovanni di Messer Niccolò, 179 Margherita da Cortona, 160, 178 Maria di Antiochia, 24-25 Maria Egiziaca, 172 Mariano da Firenze, 140-141, 142, 154 Marina di Antiochia, 23 Martino di Dumio, 53 Martino di Tours, 60 Martino di Tours, 72 Martino I papa, 71 Masseo, frate, 145-146, 147 Massimo il Confessore, 71 Massimo martire, con Dada e Quintiliano, 92, 92 nota 29

Indice degli antroponimi

Matteo d’Acquasparta, 148 Matteo di Meglioruccio, 179 Matteo Silvatico, 104 Medici famiglia, 172 Medici Giovanni Cosimo, 171 Medici Lorenzo, 172 Miro re, 53 Modio Giovan Battista, 155-156 Monaco di Eleuteropoli, 29-30 Morigia Paolo, 174 Mosco, vedi Giovanni Mosco Mosè (personaggio biblico), 71, 144 Natanaele, 21 Nazario (san), 57 Nestor prete, 46 Niceforo prete di Santa Sofia, 40-41, 42-48 Niceta Coniata, 48 Niceta di Amnia, 39 Nicetas Stethatos, 47 Nicola di Trani, 79-83, 163 Nicola il Pellegrino, vedi Nicola di Trani Nicola, tiranno, 141 Nicone monaco di San Gerasimo sul Giordano, 35 Nilo di Rossano, 69 Ninfa martire, 92, 93 nota 29 Norberto di Xanten, 64, 69 Novaziano, 91 Odone di Cluny, 63, 70 Olga, principessa della Rus’, 41 nota 99 Omayadi, 53-54 Onesima, 21 Onorio, 91 Oribasio, 103, 104, 106 Origene, 38 Orsini Napoleone cardinale, 159 Pacomio, 58, 59, 172 Pafnuzio, 58, 172 Palladio, 12, 20, 21, 50, 53 Paolo di Corinto, 35 nota 71 Paolo di Egina, 103, 104, 106 Paolo di Tarso (apostolo), 19, 22, 36, 62, 65, 72, 76, 98, 110, 111-112, 113, 120, 132, 144, 175, 190, 193 Paolo di Tebe, 58, 70, 172 Paolo I papa, 71 Paolo primo eremita vedi Paolo di Tebe

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Papula di Tours, 23 Pascasio di Dumio, 12, 50, 53, 55 Pelagia di Gerusalemme, 23 Pelagio I papa, 55 Perpetua, 92 Petrarca Francesco, 172 Petroni Pietro vedi Pietro Petroni Petroni Riccardo cardinale, 173 Petronio vescovo di Bologna, 55 Petros salòs, 39 Petruccio vedi Pietro Crisci Piccolomini Alfonso, 179 Piccolomini Bartolommeo, 179 Piccolomini Bindo, 179 Pier Damiani, 73-74, 75, 106 Pierleoni, cardinale, 69 Piero di Pippo, 171 Pierre de Montboissier vedi Pietro il Venerabile Pietrillo Crisci vedi Pietro Crisci Pietro (Petrone) Petroni, 173-176 Pietro apostolo, 162, 165 Pietro Crisci, 157-170, 195 Pietro da Fossombrone vedi Angelo Clareno Pietro da Macerata, 159 Pietro di Biforco, 70 Pietro di Giovanni Olivi, 132 Pietro di Saumur, 96 Pietro il Venerabile, 72-73, 176 Pipino il breve, 71 Possevino, Giovan Battista, 155 Procopio da Roma, 24 Procopio di Gaza, 44 Procopio di Ustijug, 14 Pseudo – Dionigi, 71-72 Quintino, 92 Raimond de Peñafort, 87 Ranieri da Pisa, 132 Rayhāna la folle, 28 nota 43 Rhazes, 104, 106 Riccardo di San Vittore, 114-116, 153 Ridolfi Bartolomeo, 188-189 Robert d’Arbrissel, 64-65, 69, 94-97 Robert le Diable, 122, 127 Romano (santo), 54 Romano il Melodo, 44, Romolo da Firenze, 188-189 Romualdo (santo), 70, 74-75, 106

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Rossi Giovan Battista, 192 Rosvita, 63 Rufino, 12, 50, 55 Rufino, frate, 136-137 Rufo di Efeso, 103, 104, 107 Ruperto di Deutz, 70 Ruperto di Deutz, 74 Salè di Tabennisi, 20-22, 23, 30, 50, 56 Salomone (re biblico), 25, 26 nota 34 Salòs di Alessandria, 34 Salvestro, frate, 144 Saturnino martire, 92, 93 nota 29 Segarelli Gerardo vedi Gerardo Segarelli Serapion il Sidonita, 22, 50, 56, 59, 162, 189 Severino, 115 Simeone Antiocheno, 60 Simeone della Porta Nigra, 68 Simeone di Emesa – Simeone salòs, 12, 31, 32, 33-40, 42, 44, 46, 56-58, 60, 122, 195 Simeone il Nuovo Teologo, 47, 49, 79 nota 109 Simeone lo Studita, 47 Simone di Assisi, 147 Simurgh, 25 Sofronio, 34, Spiridione, 34 Stagel Elsbeth, 163 Stefano di Bourbon vedi Etienne de Bourbon Stefano salòs, 40 Tancredi da Bologna, 87 Tecla, 23 Teobaldo l’eremita, 70 Teodora, 23 Teodoreto di Ciro, 31, 60 Teodoro Balsamon, 47 Teodoro salòs, 35 Teodoro, 44 Teodosio I, 91 Teodosio II, 20 Teofane di Nicea, 34 Teofilo, 24-25 Teolepto di Filadelfia, 79 nota 109

Tofrido abate, 59 Tolomei Bartolomea, 182 Tolomei Trogliardo, 182 Tommaso d’Aquino, 116-117, 169 Tommaso da Celano, 127-128, 131, 132, 133 Tommaso di Cantimprè, 168, 169 Tommaso di Guelfaccio, 179 Tommasuccio da Foligno, 160, 167 Toschi Domenico, cardinale, 89-90 Traversari Ambrogio, 57, 171 Tristano, 95 Ubertino da Casale, 140, 159, 164 Ugolino da Ostia, 124 Ulphia vedi Wulfia Ulrich di Zell, 70 Umberto di Romans, 132 Urbano II, papa, 64, 69, 94 Urbano V papa, 185-186 Valentiniano, 91 Valerio da Venezia, 155 Valerio di Bierzo, 50, 53-55 Vanni da Monticchiello, 179 Venerio monaco, 74-75 Viatore, 61 Vincent de Beauvais, 100-101, 104 Vincenti Francesco vedi Francesco di Mino Vincenti Vincenti Niccolò di Mino, 179 Vinifrido vedi Bonifacio / Vinifrido Vitalio salòs, 51 Vivaldo Belcazer, 99-100 Vladimiro il Santo, re, 45 Volfango di Ratisbona, p. 62 nota 38 Vulfilaico, 60-61 Walfroy vedi Vulfilaico Werfert di Worchester vescovo, 50 nota 130 Willibrordo, 59 Wulfia di Amiens, 60-61 Zabarella Francesco, 89 Zaccaria papa, 50 Zanobio vescovo, 92, 93 nota 29

Indice dei toponimi

Acquapendente, 190 Agrigento, 39 Al-Ashmūnayn, vedi Hermopolis Aleppo, 105 Alessandria d’Egitto, 12, 20, 22, 30-31, 51 Amida (Diyarbakir), 24 Angier, 50 nota 130 Antiochia, 54, 119, 162 Aquisgrana, 69 Arabia, 40 nota 94 Arezzo, 183, 185 Argonne, 67 Aspuna in Galazia, 20 Assisi, 131, 136, 137, 141-142, 165, 166

Cigoli, 185 Cina, 27 Cipro, 34, 45 Città di Castello, 172, 183, 185, 188 Cluny, 63 Cordova, 54 Cortona, 178 Costantinopoli, 20, 28, 31, 40-46, 49, 54, 119, 120, 121-122, 174 Craon, 64

Baghdad, 27 nota 38, 104 Baghdad, 27, 105 Baleari, 54 Balkh, 27 Bet Guvrin, vedi Eleuteropoli Bisanzio vedi Costantinopoli Bologna, 55, 107, 118, 145, 152, 171, 189 Bournet, 69 Braga, 53-55 Bulgaria, 45-46, 46 nota 117

Edessa, 174 Egitto, 12, 19, 48 nota 126, 49, 50, 66, 70, 119, 121, 122 Elche, 54 Eleuteropoli (Bet Guvrin), 29 Emesa, 32 nota 59, 33, 34, 37 Eposium Castrum (Yvoi), 60 Europa, 49-50

Cadouin, 69 Calabria, 54, 68-69 Carthagena, 54 Castro de Viladonga, 54 Chartreux, 72

Gallia, 60-61 Gargano, 68 Gaza, 29 nota 40 Gerusalemme, 29 nota 40, 32, 35, 37, 82, 119

Dalon, 69 Diyarbakir, vedi Amida Dol, 96

Firenze, 172, 185 Foligno, 157, 160-167, 190

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«novellus pazzus»: storie di santi medievali

Golfo Persico, 27 Grecia, 79 Gualdo Tadino, 160 Herat, 27 Hermopolis (Al-Ashmūnayn), 22 Hersfeld, 75, 77 Hhomss vedi Emesa Ḥimṣ, vedi Emesa Il Cairo, 105 Il Cairo, 22 Inghilterra, 138

Nocera, 160 Paderborn, 77 Palestina, 20, 37, 49, 54, 76 Parigi, 138, 152 Parigi, 64 Penisola iberica, 28, 175 Penisola italica, 175 Pisa, 185 Pistoia, 185 Poggio a Caiano, 172 Poitiers, 60 Porziuncola, 124 Puglia, 79, 81

Jundī-Sāpūr, 104 Qaf, monte, 25 Kassel, 76 Khurāsān, 27 Léau, 169 Liegi, 70, 168 Lier, 169 Lorsch, 57 Lucca, 185 Lunghezza, 148 nota 101 Maggiano, 172 Mar Caspio, 15 Mar Morto, 36 Mar Nero, 15 Mar Rosso, 39 Marsiglia, 185 Mashhad, 27 Mediterraneo, 15 Mérida, 54 Mertola, 54 Merv, 27 Messankirche (Messkirch), 76 Messkirch vedi Messankirche Metz, 67 Mont-Dieu, 65 Montalcino, 180 Monte Athos, 45 Montefalco, 159 Montepulciano, 178 Montpellier, 107 Moryne, 39 Naupacto, 81 Nīshāpur, 26-27 Nitria, 20

Ravenna, 54-55 Rayy, 27 Reims, 64 Rodosto, 48 Roma, 12, 20, 22, 31, 56, 68, 76, 80, 121, 142, 185 Rottenbuch, 69 Rus’ vedi Russia Russia, 41 nota 99, 45-46, 49 Samarqand, 27 San Gallo, 57 San Gimignano, 160 San Giovanni d’Asso, 177, 178 Scizia, 41 Shiraz, 27 Sicilia, 54, 57, 68-69 Siena, 145, 172-183, 184, 185, 190 Siria, 103 Siria, 32 nota 59 Siviglia, 5, 54 Sparta, 22 Spoleto, 166 Stiri (Elicona), 79 Tabennisi, 20 Taphar, 39 Taranto, 81 Tarragona, 54 Todi, 148, 155 Toledo, 53, 54 Topino fiume, 160 Tortosa, 54 Toscanella, 185

Indice dei toponimi

Tournai, 69 Tours, 60 Trani, 79, 81, 83 Treviri, 60 Turchia, 20 Tūs, 27 Umbria, 122, 159, 167

Ungheria, 78 Uopini, 176 Val d’Asso, 172 Val d’Orcia, 172 Valmacinaia, 160 Verdun, 68-69 Viterbo, 185

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Volumi pubblicati nella serie ‘alti studi di storia intellettuale e delle religioni’

Mai praticamente uguali. Studi e ricerche sulla disuguaglianza e sull’inferiorità nelle tradizioni religiose, a cura di Federico Squarcini, 2007 Fondare i fondamentalismi. Esplorazioni critiche dei diversi modi del fondamentalismo nella storia, a cura di Federico Squarcini e Lara Tavarnesi, 2007 Topografie della ‘santità’. Studi sulle simbolizzazioni religiose dei confini e sulla geografia politica delle tradizioni religiose, a cura di Federico Squarcini, 2007 Federico Squarcini, Tradition, Veda and Law. Studies on South Asian classical Intellectual Traditions, 2008 Ramkrishna Bhattacharya, Studies on the Cārvāka/Lokāyata, 2009 Studies in the Kāśikāvṛtti. The Section on Pratyāhāras. Critical Edition, Translation and Other Contributions, Edited by Pascale Haag and Vincenzo Vergiani, 2009 The Anthropologist and the Native. Essays for Gananath Obeyesekere, Edited by H.L. Seneviratne, 2009 Abiti, corpi, identità. Significati e valenze profonde del vestire, a cura di Sergio Botta, 2009 Piero Capelli, Il male. Storia di un’idea nell’ebraismo dalla Bibbia alla Qabbalah, 2012 The Vedas in Indian Culture and History. Proceedings of the Fourth International Vedic Workshop, edited by Joel P. Brereton, 2016 Vyavaharasaukhya. The Treatise on Legal Procedure in the Ṭodarananda composed at the instance of Ṭodaramalla during the Reign of Akbar, edited by Ludo Rocher, 2016 Le verità del velo, a cura di Marianna Ferrara, Alessandro Saggioro, Giuseppina Paola Viscardi, 2017 Isabella Gagliardi, «Novellus pazzus». Storie di santi medievali tra il Mar Caspio e il Mar Mediterraneo (secc. IV-XIV), 2017