Note intorno al problema della verità

Il breve volume è la sistematizzazione di un corso di ermeneutica filosofica che l'Autore ha tenuto presso l'U

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Note intorno al problema della verità

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CARLO SCILIRONI

Note intorno al problema della verità

IMPRIMITUR

©

1999 by IMPRIMITUR Editrice Via P. Canal13/15- 35137 Padova Tel./fax: 049-8723730

INDICE

Avvertenza

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Introduzione

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Verità e necessità

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Lafondazione .. 2. La ricaduta teologica 3. La ripresa moderna 4. Sviluppi contemporanei l.

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Verità e realtà

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l3 lS

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45 . ..45 57 . 71

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La tradizione classica 2. La tradizione moderna . 3. L'epoca contemporanea l.

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Verità e possibilità ......................................................... 81

La tradizione biblica . . . 2. Pensiero monastico, mistico e letterario ... 3. Tradizione marxista, teologia della liberazione e filosofia della liberazione .. 4. Filosofia dell'esistenza, nichilismo ed ermeneutica 5. Pensiero neoebraico . . ... . l.

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Conclusione .

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81 86

90 98 l 09

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113

Appendice s. THOMJE AQUINATIS

Qu:estio !. . . 117 Art. I Quid sit veritas . 117 Art. II Utrum veritas principalius in intellectu quam in rebus reperiatur . .. 124

De veritate-

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5

AVVERTENZA

Il testo redige il corso di Ermeneutica filosofica tenuto nell'anno accademico 1998-1999 nell'Università di Padova. Vi si affronta il problema della verità alla luce delle categorie della modalità, riprendendo, con sostanziali integrazioni, la voce «Verità» approntata per il Nuovo Dizionario di Teolo­ gia (a cura di G. Barbaglio, G. Bof e S. Dianich) delle Edi­ zioni San Paolo, cui va il ringraziamento per il consenso a pubblicare il testo, così rimaneggiato, in edizione a parte, a scopo didattico. Tale scopo rende pure ragione dell'appendice, in cui è riprodotto il testo latino dei primi due articoli della I Quaestio del De Veritate di S. Tommaso, che con la Scienza della logica di Hegel e Sull'essenza della verità di Heidegger costituisce la parte dei «classici» prevista nel corso. Esula dalle presenti N ote qualsiasi{retesa di completezza, sia formale che materiale, rispetto a tema affrontato. Si è unicamente inteso riproporre il problema della verità secondo una declinazione specifica, quella modale, proseguendo una linea d'indagine già avviata in precedenti lavori (cfr. soprat­ tutto: Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, Dehoniane, Bologna 1991; Destino e fede, Messaggero, Padova 1994). c. s.

7

INTRODUZIONE

Una ricognizione previa del concetto di verità desunta dall'uso linguistico consente di raccogliere una· pluralità di significati già sufficientemente ampia e orientativa: la veri­ tà come manifestazione (alétheia), la verità come corri­ spondenza (adaequatio), la verità come esattezza o corret­ tezza logico-sintattica (orth6tes), la verità come conformità, come coerenza, come utilità, come armonia. Ed è indub­ bio che dalla ricchezza di un tale spettro semantico tra­ spaiano già anche molti dei problemi che hanno storica­ mente accompagnato la ricerca. Tuttavia l'ispezione pur accorta dei vari usi linguistici è ancor sempre insufficiente a illuminare il punto focale del problema quale esso ha in­ vestito nel profondo la storia occidentale. In gioco, infatti, non sono semplicemente gli usi linguistici o le rispettive concettualizzazioni, ma i presupposti che legittimano gli uni e le altre. Ragion per cui l'indagine non può risolversi né in pura filologia, né in mera analisi del linguaggio e neppure, semplicemente, in logica, per quanto non possa prescindere da nessuna di queste discipline. Una_ prima fondamentale distinzione da p orsi è quella tra la verità e le verità: altro è la verità simpliciter, altro la qualifica di «Vero» che viene attribuita ad alcunché. Nel primo caso è in gioco la verità ontologica, nel secondo la verità logica e, in senso lato, la verità dei contenuti espe­ rienziali in tutta la pluralità del loro possibile declinarsi. Ma più a monte di questa stessa distinzione sta un interro­ gativo pregiudiziale, che meglio non può essere espresso che con le parole di Nietzsche: «Posto pure che noi vo­ gliamo la verità: perché non, piuttosto, la non verità?»1, F.

1 F. NIETZSCHE, Al di là rkl bene e del male, trad. it. di F. Masini, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. Vl/2,

NrETZSCHE,

9

In troduzione

dove è evidente che l'accento è spostato sul presupposto. Indubbiamente anche in questo modo, domandando, si mette sempre in atto una strategia di verità, tale però da porre in causa se stessa, così che l'interrogativo classico, «che cos'è la verità?», comincia a dispiegarsi in o rdi ne a quella ragion d'essere che, interrogata, si sottrae all'unicità modale. Necessità, realtà e possibilità reclamano a pari ti­ tolo il vero e a seconda che questo venga declinato al­ l'insegna dell'una o dell'altra categoria gli esiti sono toto coelo differenti. La storia occidentale è nel suo complesso la vicenda del vario destinarsi del vero alle diverse catego­ rie modali in un gioco di opposizioni, rimandi e connes­ sioni non sempre palesi ma con sempre forti e inequivoca­ bili ricadute a tutti i livelli. Anche l'esigenza, oggi forte­ mente sentita, di una nuova esperienza della verità alla lu­ ce della svolta ermeneutica del pensiero contemporaneo, si iscrive nel gioco delle categorie modali.

Adelphi, Milano 1968, p. 7. lO

Capitolo I

VERITÀ E NECESSITÀ

L'etimo del termine greco verità (alétheia) dice inequi­ vocabilmente «non nascosto», ovvero ciò che si palesa per come è. Di contro al falso, ma anche di contro alla sempli­ ce apparenza o alla semplice opinione, il vero attesta l'essere effettivo, l'ergersi al di sopra di ogni mera sem­ bianza. In Omero è comune l'espressione: «Ti dirò il vero (toi... alethefan katalépso)». Con queste parole comincia sia il palesamento di Odisseo al figlio Telemacol, sia il dialogo di Telemaco con la madre2, e così pure il giudizio della nu­ trice Euriclea sulla fedeltà delle ancelle3• Iniziare in questo modo un discorso carica la propria espressione di un peso assoluto, sgombrando pregiudizialmente il campo da ogni possibile diaframma tra parola e realtà. Peraltro il testo omerico, come quello successivo di Esiodo, è tutto costruì1 «'t o tyàp Éyro -rot, 'tÉKvov, àÀ119EiTIV JCa-raÀÉl;ro (Certo, creatura, ti dirò il vero) » (OMERO, Odissea, XVI, 226, trad. it. di R. Calzecchi One­ sti). Il contesto è di grande rilievo: Odisseo si è appena fatto riconoscere dal figlio («Non sono un dio, no: perché m'assomigli agli eterni? l Il padre tuo sono, per cui singhiozzando, l soffri tanti dolori per le vio­ lenze dei principi,., vv. 187-189), lo ha baciato ed ora più non riesce a trattenere le lacrime. Ma il figlio non può ancora credere d'avere vera­ mente di fronte il padre; poi però il riconoscimento avviene, e con il ri­ conoscimento, inevitabile, anche il pianto del figlio. È così che Odisseo riprende a parlargli, e comincia appunto dicendogli: «Certo, figlio, ti dirò il vero». 2 «A lei T elemaco savio rispose: l "Sì, madre, io certo ti dirò il vero (-rotyàp Éyro -rot, J.Ll\-rep, àÀ119Ei11v Ka'taÀé.l;ro): andammo a Pilo . .. ",. (Odissea, XVII, 107-109). 3 «E gli rispose la cara nutrice Eurìclea: "lo certo, creatura, la verità ti dirò" ('tOtyàp Éyro 'tOt , tÉKVOV, cXÀ119EiTIV lCil'tctÀÉ/;ro)» (Odissea, XXII, 419-420).

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Note intorno al problema della verità

to sull'intervento della volontà divina che segna inesora­ bilmente il destino degli umani. «Dire la verità» è, dunque, senz' altro far corrispondere la propria parola alla realtà ef­ fettiva, ma questa stessa corrispondenza è essa medesima misurata dal decreto divino; sicché discernere la verità è saper distinguere il volere di Zeus4 e, simili alle Muse, di­ cendo ciò che è, ciò che sarà e ciò che fu, «Cantare il vero

(alethéa gerysasthaij»5•

� Esemplare l'indicazione che apre la parte V degli Erga, dove si in­ dicano i giorni sacri per chi sa ben discernere la verità: «Questi sono i giorni che provengono dal saggio Zeus, qualora la gente voglia trascor­ rerli ben discernendo la verità... ( ... à.A.f19ei11v ... Kpivovtec;. ..)» (EsiODO, Erga, 768-769, trad. it. di L. Magugliani). 5 Il riferimento principe resta l'inizio della Teogonia di Esiodo, che così recita: «Cominciamo il canto delle Muse eliconie che di Elicone possiedono il monte grande e divino [...). Esse una volta a Esiodo insegnarono un canto bello (KaÀitv ... à.ot�T!v) , mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicone; questo discorso, per primo, a me rivolsero le dee, le Muse d'Oiimpo, figlie dell'egioco Zeus: "O pastori, cui la campagna è casa, mala genìa, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare (à.ì.:118éa

npooaaeatr.

Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, [. . .] ; e m'ispirarono il canto divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è, e mi ordinarono di cantare la stirpe dei beati [...) . Orsù, dalle Muse iniziamo, che a Zeus padre i nneggiando col canto rallegrano la mente grande in Olimpo; dicendo ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu (dpouaat t&. t" è6vta t&. ·

t' ÈOOOI!EV!l np6 t' È6Vta).

(ESIODO, Teogonia, 1-38, trad. it. di G. Arrighetti) .

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Capitolo l· Verità e necessità

1.

La fondazione

La duplice connessione con la realtà effettiva e con il volere divino si traduce nel primo pensiero greco in un'inedita forma di necessità, la necessità dell'essere. L'incipit è nella stessa prima parola della filosofia greca, il fr. B l di Anassimandro, che recita: «E donde viene agli es­ seri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secon­ do necessità (katà tò chre6n); poiché si pagano l'un l'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo (katà tèn tou chr6nou tdxin)»6• Difficili da interpre­ tare, queste parole non impediscono tuttavia di sentire an­ cora l'eco della forza suggestiva del dire originario: esse cu­ stodiscono la prima testimonianza della verità come neces­ sità dell'essere, espressa mercé la contrapposizione del­ l'ordine della necessità all' ordine del tempo. Ciò che nel tempo avviene, la nascita (génesis) e la morte (phthord), e dunque tutte le nascite e tutte le morti che il tempo e il di­ venire contemplano, vien riscattato dall'ingiustizia, cioè dalla reciproca prevaricazione dell'un contrario sull'altro (did6nai... diken... tes adikias . ), nella custodia originaria della necessità, dove il tutto (le cose, tà 6nta) sta da sempre raccolto. Come ricorda Aristotele l'infinitoanassimandreo (dpeiron) è ciò che «abbraccia tutte le cose>> e «tutto gover­ na>> , è «immortale e indistruttibile», e pertanto «divino>/: .

.

6 ANASSIMANDRO, fr. B l (trad. it. di A. Pasquinelli). Il testo greco recita: «È� CÒV Oè Tj yéveaiç Èa·n 'totç oÙm, lW.Ì. 'tltV ç oÙK èanv 'tE Kç xpecilv Ècrn ll'IÌ eivat) 15

Note intorno al problema della verità

mente che «l'essere è e il non essere non è (ésti gàr efnai, medèn d'ouk éstin)»16• In queste parole, semplici e apparen­

temente innocenti, è contenuta la codificazione definitiva della concezione della verità come necessità dell'essere. Il principio che sentenzia l'opposizione di positivo e negati­ vo, irrinunciabile perché fondamento della sua stessa ne­ gazione, comportando l'impossibilità di non essere, in­ chioda la realtà tutta �lla necessità più ferrea; il che signifi­ ca, come ben chiarisce il fr. 8, perfetta identità con sé, immutabilità ed eternità17• I due riferimenti parmenidei, la verità e la via della verità, sono chiari: il vero(alétheia) è la necessità dell'essere, e dunque, per rapporto alla connes­ sione con il pensiero, la testimonianza di questa necessità; la via (hod6s) è l'esercizio del pensiero fedele fino in fondo all'opposizione di positivo e negativo. Nell'economia dd e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile ad ogni ricerca. Perché il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo» (PARMENIDE, fr. B 2). 16«ÈO"tl "(àp dvm· �llOÈV o' OÙK ÈO"'tlV,. (PARMENIDE, fr. B 6, 1-2). 17 «E rimane ormai da parlare solo della via che dice che è. Su questa vi sono moltissimi segni: essendo ingenerato è anche imperituro, poiché è integro nelle sue membra e saldo e senza un termine a cui [tenda. E non è mai stato e non sarà mai, perché è ora tutto insieme nella [sua compiutezza, uno, continuo. [. .. ) Ma immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi è l'essere senza principio né fine, poiché nascita e morte furon respinte lontano, e le allontanò la vera convinzione. Identico nell'identico luogo restando, giace in se stesso e così vi rimane immobile, ché la forza imbattibile della necessità lo costrinse nelle catene del limite che intorno lo avvolge, perché l'essere non può non esser compiuto» (PARMENIDE, fr. B 8, vv. 1-6, 26-32). 16

Capitolo l· Verità e necessità

pensiero parmenideo la premessa è data dalla rivelazione: è la Dea che rivela al poeta la verità18, epperò si tratta di una rivelazione di segno ormai del tutto diverso da quellaome­ rico-esiodea. Non più l'uomo messo a parte di un disegno divino o soccorso nella sua pietas, ma la comunicazione di un vincolo cui neppure la divinità può sottrarsi. Non scompare la differenza tra uomini e dèi, ma la verità, la necessità dell'essere, come non è il frutto dell'attività dell'uomo così non è neppure il volere degli dèi: è ciò cui uomini e dèi insieme appartengono. La rivelazione si iden­ tifica con lo stesso esercizio del nous, e finisce in tal modo col trascinare seco,. quale conseguenza, la più radicale criti­ ca della rappresentazione: tutto ciò che appare in contra­ sto con la necessità dell'essere non è che il frutto insipiente di «uomini a due teste (dikranoij»19, sulla cui via la «possente necessità {kraterè andnke)»20 vieta assolutamente di procedere. Proprio perché il necessario, ciò che non può non essere, è il vero, ogni commistione di essere e nul­ la è a priori impossibile. Ma tale perentoria conclusione non può sottrarsi all'interrogativo sull'appari re del mondo dell'esperienza come luogo di transito dall'essere al nulla e viceversa. Come può essere «non nascosto)) l'impossibile? Il testo parmenideo, così come ci è giunto, tace a questo proposito, ma è lecito pensare che la d6xa dovesse essere proprio il tentativo di dare ragione di un'ermeneutica del tempo congruente con la verità dell'eterno. Ciò che è cer­ to è che nell' ottica parmenidea la verità è irriducibile alla mera presenza dell'essere e comporta l'impossibilità del possibile, perché, se colto solo come presente, l'essere non è ancora visto nella sua verità, nella sua impossibilità di non essere, e se non sottratto simpliciter alla possibilità, è già irrimediabilmente compromesso nella non verità del nulla. Niente di più lontano dal mero principio fenomenoPARMENIDE, fr. B 1, vv. 22-32. 19PARMENIDE, fr. B 6, v. 5. 20PARMENIDE, fr. B 8, v. 30. 1 8Cfr.

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Note in torno al problema della verità

logico: la presenza è totalmente sopravanzata dall'essere nella sua perfetta identità di essenza ed esistenza. Identità antologica, non già fenomenologica, ché certezza e verità non sono uno nell'immediatezza dell'apparire, ma solo nella mediazione del l 6gos. Così il principio parmenideo lascia intravedere la filigrana logica del suo statuto antolo­ gico. Proprio perché dell'essere si può dire solo che «è», la struttura proposizionale è necessariamente l'identità: il predicato appartiene al soggetto in quanto originariamente identico ad esso. Ma la purezza dell'an d n ke parmenidea viene meno nel successivo pensiero greco. A rigore già il fedele Melisso storna la vista dal punto focale della necessità per fissarsi piuttosto sull'assurdità delle conseguenze della sua non ammissione21• E nella filosofia posteleatica l'estenuarsi progressivo dell'equazione parmenidea di verità-necessità determina di fatto la consegna del vero alla categoria della realtà. 2.

La ricaduta teologica

La ricaduta teologica dell'al étheia come necessità del­ l'essere è ravvisabile eminentemente nella tragedia, laddo­ ve la forza della necessità lega in modo inesorabile il desti­ no degli uomini. Non è solo il riflesso esistenziale ad esse­ re posto in luce dalla teologia tragica, ma anche e più che mai il mistero insondabile del senso della necessità. Quan­ do il successivo pensiero filosofico e teologico riprenderà Parmenide nel segno esplicito della teologia naturale si ve­ drà valorizzato soprattutto il contenuto della pura forma razionale parmenidea, con la tragedia invece è ancora in vista l'originario fondo religioso-sacrale, pur secolarizzato, 21Cfr. pp.

18

69-70.

E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982,

Capitolo l: Verità e necessità

di cui è sicura testimonianza e la scelta della forma poetica e, più ancora, lo svolgimento del proemio emulo della Teogonia di Esiodo22. Della novità parmenidea rispet to all' opera dell'anti co teologo, e cioè della forma razionale della verità che è salvezza dell'essere, la teologia tragica te­ stimonia in forma insuperabile la connessione di necessità­ salvezza: l'eroe che soccombe, ovvero che soggiace alla forza della necessità, è colui che, perdendosi, in realtà si salva. L'akmé della tragedia è la massima espressione della contrapposizione apparenza-verità: nel contrasto tra vivere ma essere inautenticamente e morire ma guadagnare la propria autenticità, l'eroe che sceglie la libertà non è altri che il viandante del sentiero del giorno parmenideo. Ciò che egli compie non si lascia ricondurre né alpoiefn (il fare in vista dell'oggetto, determinato dalla téchne), né al prdt­ tein (il fare in rapporto ad un proposito che deve essere at­ tuato, soggiacente alla fortuna), ma solo al dran (il fare concentrato nella sua akmé, nell'atto della decisione origi­ naria)23. In questa prospettiva è senz'altro corretta l'os­ servazione che l'alétheia accentua i tratti denotanti l'esser fidato e verace già propri della poetica america e lirica2\ ma è innegabile che la specificità del drdma è al trove , è nell'insuperabile esperienza dell'angoscia (ph6bos) disvela­ trice della verità come identità di essere e necessità25• Basti pensare, esemplarment e, al lungo vaticinio di Cassandra 22Cfr. W. JAEGER, La teologia dei primi pensatori greci, trad. it. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1 96 1 , p. 150 ss. 23Cfr. C. SCILIRON I, In cammino verso l'uomo. Saggio di antropologia filosofica, San Paolo, Milano 1 994, pp. 1 1 9-128. 24Cfr. R. BULTMANN, voce c'xì..it9eta, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, trad. it., vol. l, Paideia, Brescia 1 965, coli. 642-643. Il fr. 8 di Mìmnermo recita: .. c'xì..t19etl'J liÈ mxpÉcrtro l croì KctÌ ÈIJ.Ol. navtrov XPfìlJ.a lhKat6tatov».

25Per questa lettura e per quanto segue si rinvia a C. SCILIRONI, De­ stino e fede, Messaggero, Padova 1 994, p. 2 t ss., dove la tragedia è indica­ ta come il grande jJ.U9oç c'xvayKatoç dell'Occidente. 19

Note intorn o al problema della verità

nell'Agamennone, incredibile preludio di morte, dove, ag­ ghiacciante, il «vedere» giunge alla vista della necessità ine­ sorabile dell'accadere. Ma la potenza del testo eschileo non è in alcun modo riproducibile: giova ascoltare il testo di­ rettamente. La scena si svolge dinanzi al palazzo degli Atridi: Cli­ temestra ha appena accolto Agamennone, lo ha .fatto en­ trare nella reggia distendendogli dinanzi tappeti di porpo­ ra; quindi, uscita di nuovo, ingiunge a Cassandra, ancora sul carro, di entrare pure lei. Cassandra è immobile, sem­ bra non capire; Clitemestra rientra sola. A questo punto Cassandra, in piedi sul carro, con gli occhi fissi a un simu­ lacro di Apollo che è presso la porta della reggia, rompe in u n grido, cui segue, in dialogo con il corifeo, il lungo vati­ . _ ctmo: Ahi, ahi, ahimè, o Terra! Apollo, Apollo! Perché tu gridi e gemi così, invocando il Lassia? Non è dio Apollo che voglia lamenti funebri. Cassandra Ahi, ahi, ahimè, o Terra! Apollo, Apollo! Corifeo Ancora con grida funeste ella chiama il suo dio. Ma non ama Apollo ascoltare grida di dolore. Cassandra Apollo, Apollo, dio che mi conduci, dio che mi perdi! Perduta mi hai, del tutto, una seconda volta. Corifeo Vaticinare ella sembra di sue proprie sventure. Permane il soffio divino anche nel suo cuore di schiava. Cassandra Apollo Apollo, dio che mi conduci, dio che mi perdi! Dove, ahimè, dove mi hai condotta, a quale tetto? Corifeo Al tetto degli Atridi. Se non lo sai, io te lo dico; e saprai che non dico menzogna. Cassandra Ahi ahi! Dunque a una casa che è in odio agli dèi, che stragi innumerevoli seppe di consanguinei, che vi­ de teste mozzate; a una casa macello di uomini, a un suolo impregnato di sangue ... Corifeo Pare che come una cagna buone narici abbia la forestiera; e va fiutando se ancora senta odore di uccisi. Cassandra

Corifeo

20

Capitolo 1: Verità e necessità

Sì, qui sono di ciò che dico le prove: piccoli fi­ gli che piangono, e gole scannate, e carni cotte e imbandite, e il padre che le divora! [.. ] Ah, ah! Che cosa prepara costei [Clitemestra], quale nuovo dolore, quale altra grave sventura qui nella casa prepara? Intollerabile ai congiunti, senza rimedio; e il soccorso è lontano. [ ..] Ah, sciagurata! Questo dunque farai? Il tuo compagno di letto, menùe lo ristori nel bagno ... Oh, come dico la fine? E presto sarà la fine. Colpi su colpi avventano un braccio dopo l'altro. [...] Ahimè, ahimè, orrore orrore! Che cosa è questo che io ve­ do? Forse una rete di Ade? No, la compagna di letto è la rete, una rete da caccia, lei è la complice che uccide. Levi qui dunque, sulle genti di Atreo, la turba insaziata delle Erinni, il suo grido di giubilo per il sacrificio infame. [. ] Ahi ahi, vedi, vedi! Lontano tieni dalla giovenca il toro! Lo avvolge nel peplo, insidiosa con sue nere corna lo abbatte, e cade egli nel molle lavacro. Di un bagno ingannevole, di un bagno mortale, questa è la vicenda. [ ..] Ahimè infelice, misera sorte mi aspetta! Io grido il mio do­ lore, io verso il mio pianto sul pianto del re. Dove, perché, sventurata, mi traesti fino qui? Perché insieme con lui io morissi, non altro che questo. Cassandra

.

.

..

.

[...)

A me questo rimane, che in due mi fenda il duplice taglio di una scure. [ .] E ora lungo il Cocìto, lungo le rive dell'Acheronte, andrò presto a vaticinare. [ ] . .

...

21

Note intorno al problema della verità Ebbene, [. ] non più parlerò per enigmi. E voi fatemi te­ stimonianza che dei misfatti antichi, inseguendo di corsa il mio fiuto, io bene seppi ritrovare le tracce. ..

[...] Di nuovo

il travaglio fatidico mi turbina dentro, con suoi preludi mi scuote. Là, non vedete? Fanciulli sono, seduti nella reggia, simili a larve di sogni. Vedete vedete, fanciulli sono, uccisi dai loro congiunti; e le mani hanno piene di carni, delle loro proprie carni, e le offrono in pasto, entra­ gni e viscere, miserabile peso, e il padre ne assaggia. Per questo, io te lo annunzio, qualcuno sta meditando vendetta [...]. Ebbene, tu creda o no a quello che io dico, non conta; ciò che deve accadere accadrà. Vedrai tu stesso tra poco; e dirai che anche troppo io fui profetessa verace. Corifeo La cena di Tieste tu dici, che mangiò le carni dei propri figli. Capisco e rabbrividisco. E mi prende orro­ re che verità vere udii, non immagini finte. Per il resto non so, sono come uno che corre fuori strada. Cassandra Di Agamennone, questo ti dico, vedrai la mor­ te. Taci, sciagurata, chiudi la bocca. Nessun medico c'è che a questo che. dico possa portare rimedio. [ ] Ahi, ahi, quale fuoco m'investe! Ahimè ahimè, Apollo, pietà! Sì, lei [Clitemestra] è la bipede leonessa che, assente il generoso leone, in letto si giacque col lupo! Lei è che anche me ucciderà. Me sventurata! Come un osceno miscuglio prepara. Nella coppa della vendetta anche la mercede per me vuole mescolare; e mentre contro il marito affila la spa­ da, anche la colpa di avermi tratto fin qui vuole con la mia morte farsi pagare. [ ] Ecco, vedete, è Apollo medesimo [...] il profeta che mi fece profeta, è lui che mi ha qui tra­ scinata a questo destino mortale. E non l'altare della casa paterna, ma un ceppo da macello mi aspetta, arrossato dal caldo sangue della mia gola scannata. Non però invendicata

Corifeo Cassandra ...

...

22

Capitolo I: Verità e necessità lasceranno gli dèi la mia morte. Altri a suo tempo verrà vendicatore nostro: a uccidere sua madre il figlio da lei ge­ nerato, e a p un M-e gli uccisori del padre. [ . ] Perché dunque ancora io qui m'indugio e gemo? Non vidi già Ilio patire come patì? Non vedo ora, di quelli che presero Ilio, per giudizio dei numi, mutata fortuna? Ebbene, anche di me così sia! E vado, e affronto la morte. Giuramento solenne hanno giurato gli dèi. Le porte dell'Ade sono queste che io saluto. E un colpo ben dato io prego; cosicché senza spasi­ mi, scorrendo il mio sangue a facile morte, io chiuda questi mei occhi. Corifèo O donna che molto hai sofferto, donna che molto sai, a lungo hai parlato. Ma se veramente conosci il destino che ti aspetta, perché, come giovenca incitata da un dio, così volonterosa ti avvii all'altare? (d S' Ètfl'tUJ.l.Oç l JlÒpoV tÒV UUtfìç o{cr8a, 1téòç 8Ef1ÀatOU l �oòç otK'llV 1tpòç .

.

�OOJ.lÒV EÙtÒÀJ.lroç 1tCltEtç;) Cassandra Non c'è scampo, ospiti, non c'è salvezza mag­ giore, indugiando.

� ] ..

E venuto il mio giorno; non giova fuggire26•

Difficile esagerare la potenza di questi versi: anche il seguito dell'Orestea è tutto nel segno della verità-necessità, ma qui, in questo lungo vaticinio, se ne ha il prologo asso­ luto, speculativo, irriducibile ad una lettura giuridica o di trapasso dagli dèi antichi alle nuove divinità. Cassandra vede il proprio destino, vede il legame inscindibile che lega l'essere alla necessità, vede la necessità inesorabile del­ l' accadere. Certo, pur vedendo, neppure lei sa, neppure lei conosce la ragione che lega l'essere alla necessità, neppure lei vede il fondamento di quel legame: quel perché non le appartiene - Cassandra, infatti, vede solo in quanto sacer­ dotessa del Lossia. E tuttavia nel vedere di Cassandra è 26ESCHILO, Agamennone,

vv.

1072-1301 (trad. it. di M. Valgimigli;

testo greco edito da D. Page) . 23

Note intorno al problema della verità

impossibile non percepire la presenza netta, incombente e greve, della verità. Che questo suo vedere non sia solo un non sapere ancora, ma un non poter sapere, questo è ap­ punto il mistero e insieme la potenza di Eschilo. Chi, invece, vuole sapere nella tragedia greca è Edipo, ma, com'è noto, allorché egli giunge al sapere non può reggerne la vista, e il destino che gli incombe inesorabile è la cecità. Nell'autopunizione di Edipo si manifesta così, di nuovo, l'impossibilità per l'uomo di reggere la vista del fondamento della verità-necessità27• Solo al dio è concesso di portare lo sguardo su tale abisso: per l'uomo ciò è in tol­ , lerabile hybris, risolventesi di fatto in mera illusione. E la grande lezione del Prometeo eschileo28• La verità tragica è, dunque, la restituzione delle cose al loro destino. Il soggetto non è signore delle cose: in gioco 27L'Edipo re è la tragedia del voler sapere la verità-necessità, del vo­ lerne penetrare il fondamento. Il testo s'apre con il riconoscimento ad Edipo che egli vede (vv. 1 5, 22), prosegue con la vista del cieco Tiresia­ colui che effettivamente vede - (vv. 300 ss.) e conclude con la tragedia della cecità consapevole di Edipo (vv. 1268 ss.) . L'attenzione va posta anzitutto sul dialogo con Tiresia. Questi vuoi ritrarsi dal dire ciò che sa, ma è pure consapevole che «ogni cosa accadrà da sé, anche se la copro col silenzio» (v. 341), di qui la sua sicurezza nei confronti di Edipo, alle cui minacce risponde: «Sfuggire al castigo? Sono già salvo: ho la forza della verità ('tàA119È> o «nomi>> che sono sempre solo ap­ pellativi di qualche voce arbitrariamente imposta al con­ cetto di una cosa49• Quando poi i nomi sono universali, i concetti che vi corrisp ondono sono tutt'altro che univer­ sali: le cose sono sempre e solo singolari. Né vi sono vin­ coli predeterminati di sorta che leghino tra loro le cose singole: le connessioni tra i nomi delle cose sono total­ mente arbitrarie. In questi termini la verità non può che venire ad assumere una valenza del tutto formale: «In ogni proposizione, scrive infatti Hobbes, sia essa affermativa o negativa, il secondo appellativo, o comprende il primo [ .. ], e allora la proposizione è detta essere vera, o verità: infatti, verità e proposizione vera è tutt'uno. Oppure il se­ condo appellativo non comprende il primo [... ], e allora la proposizione è detta essere falsa o falsità: falsità e' proposi­ zione falsa essendo la medesima cosa»50• Verità come coe­ renza formale, dunque; e tuttavia, anche in questo estremo .

LEIBNIZ, Sul modo di distinguere i fenomeni reali dai fonomeni immagi­ nari, in ID., Scritti filosofici, cit., vol. II, p. 716-71 7). 49«11 discorso o linguaggio è un contesto di vocaboli istituiti ad arbi­ trio degli uomini, per significare la serie di concetti delle cose che pen­ siamo» (fH. HOBBES, De homine, trad. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 109). 50TH. HOBBES, Elementi di legge naturale e politica, trad. i t. a cura di A. Pacchi, La Nuova Italia, Firenze 1 985, ristampa 1 989, p. 38. Analo­ gamente ID. , De corpore, l, 3, 7.

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nominalismo hobbesiano, sotto il riferimento all'evidenza, di cui il vero abbisogna come della propria linfa vitale51, è difficile non ravvisare almeno l'esigenza della corrispon­ denza con la realtà. La cosa è ancor più manifesta con Locke, il quale, non diversamente da Hobbes, sostiene una concezione della verità come correttezza sin tattico-formale («la conoscenza non è che la percezione della connessione e dell'accordo, o del disaccordo e del contrasto, fra le no­ stre idee»5�, ma poi scrive: «Non dubito che a questo pun­ to il lettore sarà incline a pensare che ho costruito finora solo un castello in aria; e sarà pronto a dirmi: a quale sco­ po darsi tanto da fare? La conoscenza, voi dite, è solo la percezione dell'accordo o disaccordo tra le nostre idee: ma chissà che cosa queste idee possono essere? [...] è la cono­ scenza delle cose che deve essere apprezzata; questa sola dà un valore ai nostri ragionamenti». La risposta di Locke a questa prevista obiezione è inequivoca: «Rispondo, scrive, che se la conoscenza delle nostre idee terminasse in esse e non andasse oltre, [...], i nostri pensieri più seri avrepbero la stessa utilità dei sogni di un cervello pazzo. [ ..] E evi­ dente che lo spirito non conosce le cose immediatamente ma solo per l'intervento delle idee che ha di esse. La nostra .

51 cDue sono le cose necessariamente implicite nella parola cono­ scenza; una è la verità, l'altra l'evidenza [.. ]. Se la verità non è evidente, per quanto un uomo la sostenga, la sua conoscenza di essa non è mag­ giore di quella di coloro che sostengono il contrario [... ]. Che cosa sia la verità, è stato definito nel precedente capitolo; che cosa sia l'evidenza, lo espongo ora. Ed è la concomitanza di un concetto umano con le pa­ role che significano tale concetto, all'atto del raziocinio [ ... ]. Infatti, se le parole sole fossero sufficienti, si potrebbe insegnare ad un pappagallo a conoscere una verità tanto bene quanto a dirla. L'evidenza è per la ve­ rità ciò che per la pianta è il succo, che finché circola nel corpo e nei rami, li matiene in vita; ove li abbandoni, essi muoiono. Infatti, questa evidenza, che è significante insieme con le nostre parole, è la vita della verità; senza di essa, la verità non ha valore» (Ibid., pp. 44-45). 52J. LOCKF., Saggio sull'intelletto umano, trad. it. a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 1971, ristampa 1996, p. 607. .

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conoscenza, perciò, è reale solo in quanto c'è conformità fra le nostre idee e la realtà delle cose» 53• Si può prescinde­ re in questo contesto dalla s p ecifica declinazione che Loc­ ke opera del criterio di conformità; nan si può però non sottolineare la traduzione piena, in rapporto al tema della verità, di quanto qui è detto esplicitamente a proposito della conoscenza, donde la distinzione tra «verità reale» e «Verità nominale» sulla falsariga di quella tra conoscenza reale e conoscenza immaginaria54• L'accezione della verità 53/bid., pp. 646-647. 54«Che cos'è la verità? [. ] Nell'accezione propria della parola, la ve­ rità mi sembra che significhi l'unione o la separazione di segni, a seconda che le cose da essi significate concordino o discordino l'una con l'altra. [ ..] Quando le idee sono poste insieme o separate nello spirito al modo in cui esse, o le cose per cui stanno, concordano o discordano, si ha quello che io chiamo una verità mentale. Ma una verità di parole è qualcosa in più: è l'affermazione o negazione di parole l'una dell'altra in conformi­ tà dell'accordo o disaccordo delle idee per cui esse stanno; e questa veri­ tà a sua volta è duplice, o è puramente verbale o banale [ ] o è reale e istruttiva: quest'ultima è l'oggetto della conoscenza reale [. . ] . Ma qui può presentarsi circa la verità lo stesso dubbio che si presentò circa la conoscenza: si obietterà che, se la verità non è che l'unione o la separa­ zione delle parole nelle proposizioni, in conformità del r accordo o del disaccordo che le idee hanno nello spirito, la conoscenza della verità non è cosa di molto valore e non vale la pena che gli uomini perdano tempo a cercarla; giacché, su questa base, la verità non assomma ad altro che alla conformità delle parole con le chimere dei cervelli umani. Chi non sa di quali stravaganti nozioni le teste degli uomini sono riempite e di quali strane idee i loro cervelli sono capaci? Se ci fermiamo qui, non conosciamo la verità di nulla, con questa regola, ma solo le parole vi­ sionarie della nostra immaginazione [ ]. Ma quale utilità avrà per noi questa verità? Quello che è stato detto nel capitolo precedente per distinguere la conoscenza reale dall'immaginaria può bastare qui, in risposta a questo dubbio, per distinguere la verità reale da quella chimerica o (se vi piace) puramente nominale, perché conoscenza e verità dipendono dallo stesso fondamento. Ma non sarà qui fuori luogo considerare anche che, sebbene le no..

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come coerenza formale viene mantenuta, ma ciò che è si­ gnificativo è l'ammissione della sua insufficienza e il rico­ noscimento conseguente della necessità di procedere oltre; e l'oltre, ancora una volta, non è che la corrispondenza delle idee alle cose. Che poi questa corrispondenza risulti nei fatti ampiamente circoscritta, è fuori discussione; e perplessità può pure suscitare l'intero impianto lockiano di approccio all'essere reale; tuttavia è indubbio che la fat­ tualità esistente resti il termine di approdo dell'intentio ve­ ritatis di Locke. Ma il punto di disvelamento della declinazione mp der­ na del reale, cui il vero si consegna, si ha con Kant. E nel criticismo, infatti, che le varie spinte coerentiste e corri­ spondentiste maturano un'inedita prospettiva capace di sopportare, sopravanzandole, le molteplici esigenze viste fin qui. Con Kant il vero assume i contorni di un reale più leggero, solo fenomenico, ma non per questo meno reale. La consapevolezza che il darsi a noi degli oggetti, così co­ me il loro venir pensati, è già sempre frutto di una sintesi in cui l'elemento formale è a priori, ridimensiona certa­ mente il reale riconducendolo nei termini di un quoad nos criticamente sorvegliato, imbarattabile per qualsivoglia forma di presuntuoso per se, ma nei precisi termini di una fenomenicità intrascendibile il reale resta nondimeno piestre parole non significhino che le nostre idee, tuttavia, essendo intese da queste a significare le cose, la verità che esse contengono, quando en­ trano nelle proposizioni, sarà solo verbale quando stanno per idee nello spirito che non hanno un accordo con la realtà delle cose. Perciò la ve­ rità, come la conoscenza, può ben cadere sotto la distinzione di verbale e reale; la verità verbale è quella in cui i termini sono congiunti secondo l'accordo o disaccordo delle idee per cui stanno, senza considerare se le idee sono tali da avere o poter avere un'esistenza in natura. Ma le pro­ posizioni avranno una verità reale quando i segni che le compongono sono congiunti in conformità dell'accordo delle nostre idee e quando le nostre idee sono tali che noi le conosciamo capaci di avere esistenza in natura: il che non possiamo conoscerlo delle sostanze, se non conoscen­ do che ne sono esistite» (Ibid., pp. 658-662). 67

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namente tale. Ed è a codesta nozione di realtà che Kant consegna il vero possibile per l'uomo. D'altro canto, sin dal periodo precritico egli appare fermo nell'impedire la riducibilità dell'esistenza a predicato55, che è quanto dire la consegna del vero alla logica. Nella Ragion pura il motivo permane, ma prende i connotati fenomenici56• Così, nell'introdurre la logica trascendentale, accettando la defi­ nizione nominale della verità come «accordo della cono­ scenza col suo oggetto»57, si precisa che «il criterio sempli­ cemente logico della verità», cioè l'incontraddittorietà, è nulla più che «conditio sine qua non» del vero, cioè solo condizione negativa58• E l'argomento è ripreso distesamen55«L'esistenza non è affatto predicato, o determinazione di una qualche cosa»; «L'esistanza è la posizione assoluta di una cosa e in ciò anche si distingue da ogni predicato, che, in quanto tale, è posto sempre solo relativamente ad un'altra cosa»: sono questi i parr; 1 e 2 della Pri­ ma considerazione (parte prima) dello scritto di l. KANT, L'unico argo­ mento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, trad. it. di P. Carabellese, in ID. , Scritti precritici, nuova edizione ampliata a cura di R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Laterza, Romaertà66• La dimensione fenomenica del reale, dunque, circoscrive in modo risoluto ogni pretesa conosci­ tiva, ma in maniera altrettanto risoluta garantisce lo spazio della rivelazione. Ne viene indirettamente un primo avvio al superamento della consegna della verità al reale per gli orizzonti inediti del possibile.

3. L 'epoca contemporanea Anche larga parte della riflessione contemporanea, non diversamente dal senso comune, si muove all'interno dell'orizzonte della verità come essere presente o realtà ef­ fettuale. Emblematica in tal senso appare soprattutto la posizione del primo Wittgenstein, la cui indagine, esplici­ tamente volta a distinguere il dicibile dal non-dicibilé7, si cessarie verità razionali» (G.E. LESSING, Sul cosiddetto «argomento dello spirito e della forza», trad. it. in ID., Religione, storia e società, a cura di N. Merker, La Libra, Messina 1 973, p. 1 74) . 65/bid., p. 1 77. 661. KANT, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, Laterza, ' Roma-Bari 1 982, pp. 1 4-15; ID., La religione nei limiti della semplice ra­ gione, cit., pp. 2 1 6-21 7. 67Scrive Wittgenstein nella pagina di prefazione del Tractatus: «Il li­ bro tratta i problemi filosofici e mostra - credo - che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». E la proposizione finale non a caso ripete: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» (L WITTGENSTEIN, Tractatus logico71

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risolve in una riproposizione chiara della dottrina classica della verità come corrispondenza. Nel Tractatus la ricerca delle condizioni di possibilità della pensabilità in quanto tale approda alla convertibilità di pensabile e possibile, con l'aggiunta che la pensabilità comporta anche la possibilità dell'immagine, anzi l'identità con essa68• -Ma altro è la pos­ sibilità, pur intesa come possibilità reale e non meramente logica, altro la verità. Nell'ottica wittgensteiniana «la logi­ ca è prima d'ogni esperienza - d'ogni esperienza che qual­ cosa è così »69, ossia è a priori, e in quanto tale può certa­ mente stabilire se una proposizione è possibile, cioè se ha senso, giacché «il senso della proposizione è la sua concor­ danza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose»70, ma non può in alcun modo decidere della sua verità, perché «per riconoscere se l'immagine è vera o falsa dobbiamo confrontarla con la realtà��, «dall'immagine soltanto non può riconoscersi se essa è vera o falsa�/1 • Dunque, ha senso tutto ciò che è pos­ sibile, ma non tutto ciò che ha senso è vero, bensì solo ciò che concorda con la realtà, ossia che corrisponde ad essa. E condizione di possibilità di questa corrispondenza è che immagine e realtà abbiano in comune la «forma logica di raffigurazione»72, abbiano cioè una sostanziale omomorfia. philosophicus, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1974, prefazione p. 3, prop. 7, p. 82) . Per quanto segue cfr. C. SCILIRONI, L. Wittgenstein: dall'ontologia dei fatti all'ermeneutica del possibile, in «La Nottola», 4 (1 985), fase. 2-3, pp. 5-33, ora in Io., Note sulla semantica antologica e sull'ermeneutica del Novecento, Cusl, Padova 1989, pp. 61-102. 68«L'immagine logica dei fatti è il pensiero» (Ibid. , prop. 3); «"Uno stato di cose è pensabile" vuoi dire: Noi ce ne possiamo fare un'immagine» (prop. 3.001); «Il pensiero contiene la possibilità della si­ tuazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile,. (prop. 3.02). 69/bid., prop. 5.552. 70/bid., prop. 4.2. 71/bid., propp. 2.223, 2.224. 72/bid., prop. 2.2. La genesi di questa idea è stata raccontata da G.H. 72

Capitolo Il: Verità e realtà

Non è chi non veda che per questa prospettiva il Tractatus si colloca appieno nel solco principe della tradizione occi­ dentale dell'adaequa tio , fino a costituirne, forse, la teoriz­ zazione più rigorosa. Ciò ne fa senz'altro un caso esempla­ re, più di altri chiarificatore del presupposto maggiormen­ te diffuso della coscienza occidentale del vero, pur nella consapevolezza del successivo abbandono da parte di Wittgenstein di siffatta posizione73• Teoria della raffigura­ zione e verità come corrispondenza sono la lunga ombra di Aristotele sul Novecento, o per meglio dire la testimo­ nianza della forza irrinunciabile dell'identità di verità e realtà effettuale. Di segno diverso è invece la ripresa della categoria della realtà in Pareyson. Il filosofo italiano, con piena consapeVon Wright: «Wittgenstein mi disse come gli si era presentata l'idea del linguaggio quale raffigurazione della realtà. Si trovava in una trincea sul fronte orientale, e leggeva una rivista contenente una illustrazione schematica che rappresentava la possibile sequenza degli eventi in un incidente automobilistico. L'illustrazione in quel caso equivaleva a una proposizione; vale a dire alla descrizione di un possibile stato di cose. Aveva tale funzione grazie a una corrispondenza ·· tra le parti dell'immagine e le cose reali. A questo punto a Wittgenstein venne fatto di pensare che si sarebbe potuto capovolgere l'analogia e dire che una proposizione serve da raffigurazione, in virtù di una analoga corrispon­ denza tra le sue parti e il mondo. Il modo con il quale si combinano le parti della proposizione - la struttura della proposizione - descrive una possibile combinazione di elementi nella realtà, un possibile stato di co­ se» (G.H. VON WRIGHT, Schizzo biografico, premesso a N. MALCOLM, Ludwig Wittgenstein, trad. it. di B. Oddera, Bompiani, Milano 19642, pp. 1 5-16). 73Nel passaggio dall'ontologia dei fatti (Tractatus) all'ermeneutica del possibile (Ricerche filosofiche), anche la teoria, apparentemente ovvia e univoca, della corrispondenza viene meno. Esemplarmente: «L'uso di "vero o falso" ha qualcosa di fuorviante, perché è come se si dicesse: "Concorda o non concorda con i fatti", e il problema è, appunto, che cosa sia, qui, "concordanza"» (L. WITTGENSTEIN, Della certezza, trad. i t. di M. Trinchero, introd. di A. Gargani, Einaudi, Torino 1978, p. 34 [par. 1 99]). 73

Note ìn�orno al problema della verità

volezza della rilevanza della declinazione modale, ntlene che il possibile sia solo l' «ombra della realtà staccata da es­ sa e trasmigrata all'indietro» e la necessità sia un appesan­ timento eccessivo, «una realtà così grave e caparbia da av­ vinghiarsi su se stessa restandovi abbarbicata»; di contro la realtà è il luogo autentico della libertà: «La realtà invece è sciolta e leggera, priva sia di presentimento anteriore sia di pesantezza interiore, né annunciata dal possibile né fonda­ ta dal necessario [...] . Essa è del tutto gratuita e infondata: interamente appesa alla libertà, che non è un fondamento ma un abisso)/4• Per Pareyson il carattere di libertà del rea­ le ne sottrae la consegna al pensiero concettuale, intrinse­ camente oggettivante: solo la dimensione simbolica del mi­ to può restituire senza tradimento ciò che appartiene alla dialettica vivente della libertà. La via al vero è, dunque, al­ tra cosa rispetto ai percorsi dell'esattezza e della necessità 74 L. PAREYSON, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 465 (anche pp. 86-87). Appresso il testo continua a chiarimento del ca­ rattere gratuito e infondato del reale: «In quanto appesa alla libertà, la realtà può essere vista nella sua gratuità o nella sua infondatezza. Vista nella sua gratuità essa appare come un sovrappiù: autentico dono dovu­ to a un gesto di generosità, pura eccedenza che diventa oggetto di am­ mirazione. [ .] Vista nella sua infondatezza la realtà mostra invece il suo aspetto cupo; la vita appare come una condanna, che suscita insieme il rammarico di esistere e il rimpianto di non esistere: meglio non essere che essere» (ibidem). Questo duplice carattere del reale si rispecchia pa­ rimenti nella libertà: «Che cosa si troverà nell'abisso della libertà che la filosofia è chiamata ad esplorare? Non soltanto l'ambiguità della realtà, oggetto sia di estasi che di sgomento; ma anche la duplicità della libertà, sempre insieme positiva e negativa, desiderosa di affermarsi e confer­ marsi e capace di negarsi e di perdersi; la negazione in tutti i suoi aspet­ ti, dal semplice non essere d'un limite iniziale alla negatività assoluta del male, dal nulla operoso e attivo al tormento della sofferenza; l'ambiguo volto della divinità, ch'è al tempo stesso il Dio dell'ira e della grazia, il Dio della collera e della croce. Insomma si incontra la drammatica si­ tuazione dell'uomo smarrito nell'ambiguità; la quale non si manifesta appieno se non nel pensiero tragico» (p. 466). ..

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concettuali75. Lo si vede con chiarezza soprattutto a fronte del problema del male: «Ciò che caratterizza il negativo è che o lo si vuole riconoscere come reale, e allora bisogna accettarlo come incomprensibile; o lo si vuole trattare co­ me comprensibile e allora si finisce col dissolverne la real­ tà»76. Il portento della dimensione simbolica del mito sta nella capacità di rispecchiamento inoggettivante dell'abisso del reale, cioè della libertà77• E l'appassionata rivendicazio75Cioè a dire, come si è già scritto di Pareyson in Destino e fede (cit.): «La necessità, cui il concetto non può non condurre, è superata nell'atto stesso dell'esperienza, che è la realtà della vita. Codesta realtà, per la sua inesauribile apertura ontologica, è concreta sottrazione alla presa fago­ citante della concettualizzazione. Non il concetto, dunque, ma il mito con la sua carica simbolica risulta la via alla verità» (p. 1 33). 76L. PAREYSON, Ontologia della libertà, cit., p. 1 54. 77Sulla contrapposizione tra linguaggio concettuale e linguaggio simbolico Pareyson scrive: «Ne deriva un doppio rapporto di nascon­ dimento e rivelazione, per il quale da un lato la rivelazione, nell'atto che traduce in immagini e parole il trascendente, lo mantiene nella sua inaccessibilità, essendone in tal modo un occultamento, e dall 'altro il nascondimento, mentre cela dietro le parole e le immagini sensibili il trascendente, ne palesa l'ineffabilità e inconoscibilità, manifestando il silenzio ond'esso è fasciato e il mistero in cui esso è immerso. Il simbo­ lismo, !ungi dall'essere una violazione dell'ineffabilità divina, ne è inve­ ce la salvaguardia più sicura: esso è un modo di conservare ed esprimere il silenzio senza assumerlo come esito obbligato. Per conto suo esso non cade nel silenzio, ma gli offre come garanzia e anzi come sede la sua pa­ rola stessa: come rende visibile la pur invisibile trascendenza, così rende percepibile il silenzio dell'ineffabilità divina; come fa sì che l'invisibile si mostri, così fa sì che il silenzio sia parlante [ . ]. Il linguaggio concet­ tuale, che mira all'esplicitazione completa, è invece di per sé una viola­ zione dell'ineffabilità del trascendente: la sua parola è l'interruzione del silenzio, la dissipazione del mistero. Rispetto all'inoggettivabile, esso non conosce altra alternativa a se stesso che la cessazione del discorso, vale a dire il misticismo [ ... ]. Ma il simbolismo evita questi due esiti e ne supera l'alternativa: esso si sottrae all'esplicitazione completa senza per­ ciò trascorrere alla celebrazione del silenzio» (Ibid., pp. 1 1 1-1 1 2). Che poi il rapporto alla verità sia comunque impensabile senza un processo ..

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Note intorno al problema della verità

ne che Pareyson fa del vero come del reale è tutta legata al nesso realtà-libertà. Ma sottolineando che la verità del rea­ le è la libertà, Pareyson si allontana dalla linea dominante del pensiero occidentale per incrociare piuttosto filoni mi­ noritari, talora anche clandestini, della tradizione, tali da condurlo alla fine a pensieri coraggiosi e suggestivi sulla realtà del vero alla luce del nulla78. In termini ancora diversi la categoria della realtà è ri­ vendicata anche in talune forme del pensiero teologico del Novecento. Il riferimento è esplicito in Bonhoeffer, il qua­ le scrive senza mezzi termini che «il concetto della possibi­ lità non ha alcun diritto nella teologia./9, perché il possibi­ le è la riconduzione dell'uomo nell'alveo di se stesso, e non già, come invece dev'essere, al cospetto di Dio. Il pos­ sibile «razionalizza la realtà»80 e non la lascia ·essere così come essa è; all' opposto il reale è la forma originaria, vera, del rapporto Dio-uomo, cioè la forma comandamento­ obbedienza, in cui la risposta dell'uomo non ripiega lungo le possibilità insite nel domandare etico, ma si risolve deci­ samente in azione. «Nel rapporto dell'uomo a Dio - si legge nel commento a Gn 3, 1-3 - non ci sono possibilità, bensì solo realtà. Non c'è lo spazio per dire: "Permettimi prima " [Le 9, 61], ma solo il comandamento e l'ob­ bedienza»81. Analogamente in Sequela Bonhoeffer scrive: ...

di interpretazione, questo è assolutamente scontato per Pareyson: cfr. L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 19722, pp. 53-90. 78Sono le tematiche dell'ultimo Pareyson, incentrate sul motivo del­ la libertà come lotta contro il n u l la e i l male, sviluppate nei saggi raccol­ ti in Ontologia della libertà, in cui Dio stesso appare contenere in sé, «Come possibilità ab aeterno vinte e superate, il nulla e il male» (Ibid., p. 1 76). 79D. BONHOEFFER, Il problema dell'uomo nella filosofza e nella teolo­ gia contemporanea, i n ID., Gli scritti (1928-1944), a cura di M. C. Lauren­ zi, Queriniana, Brescia 1979, p. 79. 80Ibidem . 81 D. BONHOEFFER, Creazione e caduta. Interpretazione teologica di 76

Capitolo II- Verità e realtà

«Chi si richiama al conflitto etico rinuncia all'obbedienza. È la ritirata dalla realtà di Dio sulle posizioni delle possibi­ lità dell'uomo, dalla fede al dubbio»82• I caratteri di concre­ tezza e realtà del comandamento di Dio, ap p rofonditi nell'Etica nel segno della piena conformità alla realtà8l, trovano la loro espressione più sintetica e suggestiva nelle celebri «Stazioni sulla via della libertà» tracciate daBonhQ­ effer nel carcere del Tegel all'indomani del fallito attentato a Hitler del luglio '44: «Fare e osare non il qualsiasi, ma il giusto, l non ondeggiare nel possibile, afferrare arditi il reale, l la libertà non è nei pensieri fuggenti, ma nell'azione soltanto»84• La persuasione di Bonhoeffer è chiara: la verità è nella realtà della parola di Dio, che per l'uomo significa comandamento che «ordina la libertà»85, Gn 1-3, trad. it. di M.C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1992, p. 91. 82D. BONHOEFFER, Sequela, trad. it. di J. Schenk, Queriniana, Bre­

scia 1971, p. 53. 81 D. BONHOEFFER, Etica, trad. i t. di A. Comba, introd. di l. Manci­ ni, Bompiani, Milano 198J3, pp. 192 ss. e 234 ss. Bonhoeffer pone la conformità alla realtà come uno dei quattro cespiti essenziali dell'azione responsabile. Gli altri cespiti sono: la sostituzione, l'autocritica e il rischio. Della conformità alla realtà scrive: «L'uomo re­ sponsabile si rivolge al suo prossimo così come esso è, tenendo conto delle sue possibilità effettive. La sua condotta non è predeterminata una volta per tutte in via di principio, ma si concreta nella situazione data. Egli non dispone di un principio valido in assoluto di cui debba perse­ guire fanaticamente l'applicazione nonostante la resistenza della realtà, ma vede in ogni singola situazione che cosa è necessario, che cosa "si impone" che egli comprenda e faccia [... ]. Non si tratta di realizzare un "bene assoluto"; colui che agisce responsabilmente dovrà piuttosto limi­ tarsi a preferire un meglio relativo a un peggio relativo, riconoscendo che il "bene assoluto" potrebbe risultare la cosa peggiore di tutte. L'uomo responsabile non deve costringere la realtà a una legge che le è estranea, ma compie un'azione che è, nel vero senso del termine, "conforme alla realtà",. (p. 1 92). 84D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, trad. it. di S. Bologna, introd. di I. Mancini, Bompiani, Milano 1973\ pp. 270-271 . 85«II comandamento di Dio permette. Si distingue da tutte le leggi 77

Note intorno al problema della verità

cui l'uomo può corrispondere solo mercé l'obbedienza­ azione libera. Così, come il problema del bene «è insepa­ rabile da quello della vita e della storia»86, il problema de} vero riguarda la «verità vivente», cioè reale, propria dell'esistenza concreta, effettuale, e non già, mai, un mero «concetto formale e cinico della verità»87• umane in quanto ordina la libertà. Dimostra di essere un comandamen­ to di Dio appunto nel superare quella contraddizione, nel rendere pos­ sibile l'impossibile, nell'avere per oggetto ciò che si trova al di fuori di quanto può essere comandato, ossia la libertà» (D. BONHOEFFER, Etica, cit., p. 237). 86Per cui, continua Bonhoeffer, «non ci chiediamo che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo» (Ibid., p. 1 8 1). 8 7Jbid., p. 3 1 0. Ma si veda più distesamente questo testo bonhoeffe­ riano, riportato in appendice al volume dell'Etica, e specificamente inti­ tolato Che cosa signifu:a dire la verità? (pp. 307-3 14): «La parola veridica non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quan­ do essa si stacca dalla vita e dal rapporto concreto con il prossimo, quando qualcuno "dice la verità" senza tener conto della persona a cui parla, c'è l'apparenza ma non la sostanza della verità. Colui che preten­ de di "dire la verità" dappertutto in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della ver ità. Circon­ dandosi dell'aureola di fanatico della verità che non può aver riguardi per le debolezze umane, costui distrugge la verità vivente· tra gli uomini [. ]. Esiste una verità satanica. La sua natura consiste essenzialmente nel negare tutto ciò che è reale, assumendo le apparenze della verità [... )». E «non è lecito, continua ancora Bonhoeffer, prendere a pretesto i perico­ li insiti nel concetto di verità vivente per sostituirlo con il concetto formale e cin ico della verità». Ad esemplificazione efficace di questa prospettiva, poco appresso Bonhoeffer fa l'esempio seguente: «Un mae­ stro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo pa­ dre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega. La doman­ da del maestro ha creato una situazione che il bambino non è ancora in grado di padroneggiare. Egli percepisce soltanto che si sta producendo un'ingiustificata interferenza nell 'ordinamento della famiglia che egli deve difendere. Ciò che accade in famiglia non riguarda affatto i com­ pagni di scuola. La famiglia ha il suo segreto e lo deve difendere. Il mae­ stro ha disprezzato la realtà della famiglia. Nella sua risposta il bambino . .

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Capitolo Il: Verità e realtà

avrebbe dovuto trovare il modo di rispettare tanto l'ordinamento della famiglia quanto quello della scuola. Ma non è ancora in grado di farlo: gli mancano la necessaria esperienza, la conoscenza e la capacità di esprimersi propriamente. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è una istituzione sui generis nella quale il maesto non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene una verità, ossia che è più conforme alla verità, che non una risposta in cui egli avesse am­ messo davanti a tutta la classe la debolezza paterna» (pp. 309-3 1 1). 79

Capitolo III

VERITÀ E POSSIBILITÀ

La duplice consegna del vero al necessario e al reale è stata affiancata nel corso della tradizione occidentale da un'altra prospettiva riconducibile alla categoria della pos­ sibilità. Legata maggiormente alla ecstasi temporale del fu­ turo e alla determinazione antologica della differenza, la possibilità si è data storicamente in forma meno lineare ri­ spetto alla prospettiva dominante della realtà; essa è co­ munque pressoché sempre presente, seppure spesso co­ stretta nei limiti angusti di forme eterodosse e clandestine. L'espressione principe della destinazione del vero al possi­ bile è costituita dalla tradizione biblica, cui fanno seguito nell'arco della storia occidentale fermenti molto diversi: da talune espressioni appunto clandestine e minoritarie a tra­ dizioni forti e consolidate come il socialismo e il marxi­ smo, dagli sviluppi della filosofia dell'esistenza e dell'er­ meneutica al pensiero neoebraico. 1 . La

tradizione biblica

Il fatto che l'ebraico emét (verità) 1 non venga tradotto uniformemente in greco con alétheia, ma talora anche con dixaiosyne o pfstis, è già indice di una differenza semantica che va indagata. La tradizione greca rimanda in ultima analisi - lo si è visto - ad un senso di necessità o di realtà effettuale, non così invece il mondo biblico, per il quale la verità né esprime la legge intrinseca del reale, né si risolve 1 R. BU LTMANN, voce à.),:rl8wx, in Grande Lessico del Nuovo Testa­ mento, cit., vol . I, c o l i 640-64 1 . .

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Note intorno al problema della verità

nel rapporto di corrispondenza tra intelletto e realtà. La radice aman contiene il senso di un esser saldo e fidato ir­ riducibile tanto alla mera prensione intellettiva quanto ad una qualsivoglia forma di necessità delle cose. Ciò che è in vista è piuttosto da un lato la fedeltà di Dio e dall'altro l'essere dell'uomo nella sua integralità. La fedeltà di Dio nell'Antico Testamento è coniugata per lo più alla promessa2, ma anche nel Nuovo Testamen­ to la prospettiva è spesso analoga. Rm 1 5,8, ad esempio, recita: «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei cir­ concisi in favore della veracità di Dio (hypèr alethefas Theou), per compiere le promesse dei padri)), Il nesso pro­ messa-adempimento sposta l'asse del vero verso il futuro: la verità non si esaurisce né nella memoria né tanto meno nella promessa, ma rimanda oltre sé ad un compimento che ha da venire. In quanto tale la verità è di per sé tra­ scendente e converge in larga parte con la fede. Non solo: promessa e adempimento indicano qualcosa di ben altro rispetto alla mera corrispondenza formale tra il dire e l'essere effettivo delle cose; in gioco è il valore stesso delle cose, la loro positività, la loro rilevanza etica. Il vero, cioè, non è tanto commisurato all'esattezza oggettiva, quanto al grado di eticità che intenziona. Non è un caso che la Bib­ bia contempli perfino talora l'uso della menzogna, quando il «dire la verità)) ne sarebbe la più evidente smentita3• Priorità del futuro e rilevanza etica si coniugano in unfare la verità che dice inequivocabilmente storicità: dandosi nel rapporto di promessa e compimento la verità impegna i soggetti traducendosi in possibilità consegnata loro. La ve­ rità è dunque veritas facienda, e non già, mai, semplice­ mente, veritas cogitanda. Va da sé che ciò chiami in causa l'essere dell'uomo nella sua integralità: per la Bibbia si trat2 Cfr. J. SCHNIEWIND-G. FRIEDRICH, voce É1tCJ."f'YÉ"}.).,w -È1tfJ.Y'(EÀia, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, ci t., vol. III, coli. 669-698. 3 Cfr. Gs 2 , 4; 1 Sam 27, 8-12; Ger 38, 25-27; 1 Re 22, 1 9-23. 82

Capitolo III: Verità e possibilità

ta di camminare nella verità\ ma la via del vero' è seguibile solo impegnando tutta l'esistenza. Con molta efficacia Giovanni scrive: «Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità (peripatountas en aletheia), secon � o il comandamento che abbiamo rice­ vuto dal Padre»6• E evidente che qui la verità è irriducibile 4 «La tua bontà è davanti ai miei occhi e nella tua verità dirigo i miei passi,. (Sa/ 26, 3). •Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini,. (Sa/ 86, 11a). s «Guidami nella tua verità e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza, in te ho sempre sperato. Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre. Non ricordare i peccati della mia giovinezza: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore. Buono e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori; guida gli umili secondo giustizia, insegna ai poveri le sue vie. Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti» (Sa/ 25, 5-10). «Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità (i) ooòc; tfìç àÀTt9tiac;) sarà coperta di impropèri,. (2Pt 2, 2) . 6 «'ExnpTtv Àtav ott eupTJKa ÈK t&v tÉKvrov aou 1tEputatouV'taç ÈV àÀTt9Eifl., Ka9còç ÈVtOÀlÌV ÈÀtX�OJ.l.EV 1tapà. 'tOU 1tatp6ç,. (2Gv 4) .

Analogamente: «Molto infatti mi sono rallegrato quando sono giunti alcuni fratelli e hanno reso testimonianza che tu sei verace (J.Laptupouvtrov aou tfì àÀ'Jl9Eifl.) in quanto tu cammini nella verità (��:aecòç a'Ì> ÈV àÀTt9Ei.fl. 1tEpt1tatEI:ç) . Non ho gioia più grande di que­ sta, sapere che i miei figli camminano nella verità (Èv tfì à)..Tt9Ei.fl. 1tEpt 1tatouvta). Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla Chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in 83

Note intorno al problema della verità

a un atto di comprensione o a un giudizio che sanziona uno stato di cose: il vero qui è l'esistenza autentica in tutta la sua estensione. Nel Nuovo Testamento la verità è Gesù Cristo, il cen­ tro è senza equivoci l'identificazione del vero con laperso­ na di Gesù7• Verità non come oggetto ma come soggetto, e soggetto totalmente arroccato a quell'omne punctum che è la croce, assumendo la quale il Cristo rivela che l'alte � ità (il «nulla» : 1 C or 1 ,28) gli appartiene essenzialmente. E il movimento della verità-comunione che si estende in forma universale; la croce ne è fondamento e verifica. In tale movimento sta la stessa libertà: «E la verità vi farà liberi», come scrive Giovanni8• Cioè a dire: Gesù, la nuova Torah, è la verità che trasforma l'uomo, che lo libera dal male e lo costituisce figlio (Gv 1, 12). Il Gesù-verità è colui che tra­ sforma la realtà in possibilità: possibilità di liberazione e p ossibilità di figliolanza. Il vero non è più, simpliciter, l'essere delle cose, l'essere reale, effettuale, ma la trasfor­ mazione del reale-oggetto in soggetto, cioè in possibilità effettiva, in autentica libertà. Liberazione e figliolanza so­ no la metamorfosi dell'essere-reale in essere-possibile, la trasformazione del presente in futuro, l'iscrizione del dif­ ferente nell'identico. Il Cristo-verità è l'apertura dell'essere ad altro da sé ed oltre sé. Così «non c'è più giudeo né gre­ co; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna»9• Abitando l'alterità, l'essere vi si conforma sino a generarne modalità sempre altre e nuove: è la trascendenza modo degno di Dio, perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. Noi dobbiamo perciò accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità» (3Gv 3-8) . 7 «Io sono la via, la verità e la vita (è:yro EÌlJ.t t1 òMc; teaì t1 àÀ.rt9Eta Kaì. t1 çroll)» (Gv 14, 6). Cfr. anche Ef 4, 2 1 . 8 «Se rimanete fedeli alla m i a parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità (yvroaea9e 'tftV àÀ.Tt9Etav) e la verità vi farà liberi (Kaì t1 àì..TJ9Eta ÈÀ.Eu9eproaEt UlJ.tic;)» (Gv 8, 3 1 -32) . 9 Gal 3, 28. 84

Capitolo /IL Verità e possibilità

dell'essere; cioè, appunto, l'essere come possibilità, che il Cristo-verità significa e l'agape esprime10• Ma di fronte alla domanda esplicita di Pilato («Che cos'è la verità?» 1 1) Gesù tace: la parola non è in grado di contenere il soggetto e la verità-persona, non resta perciò che il silenzio, ma un silenzio tutt'altro che privo di signi­ ficato, un silenzio ricco, denso, gravido di tutto il mistero e di tutta la trascendenza di Dio. Ciò sembra attestare che come l'uomo non può vedere direttamente il volto di Dio ma solo le sue spalle12, così la parola non può esprimere direttamente la verità - la verità viva, intera, compiuta -, ma la può solo alludere sottraendosi come parola in un umile silenzio, muta voce, ombra del mistero. Il tacere di Gesù a quella domanda è il mostrarsi, di lì alla croce, della logica rovesciata della verità eristica: il vero è la possibilità dell'impossibile, è la vittoria della croce, è la logica dell'amore. La necessità dell'essere e l'effettività della pre­ senza, forme supreme e rigorose del l6gos, lasciano il posto al loro rovescio, all'agape , insopprimibile possibilità, essere come possibilità sempre. La forza della necessità sta nel­ l'esclusione assoluta che essa stabilisce - l'impossibile -, e la persuasività della presenza sta nella sicura efficacia del dato, di contro il possibile né stabilisce esclusione di sorta né si basa su sicurezza alcuna: esso è tutto nella "fragilità" della pura sospensione e dell'essere adveniente mai antici­ patamente pregiudicabile. In quanto tale l'essere come pos­ sibilità, l'agape, è la libertà. Il silenzio di Gesù attesta allora l'impossibilità per la parola, che è sempre parola oggetti1°Cfr. t Gv 4, 8. 1 1 Gv 1 8, 3 8 12«Soggiunse il Signore: "Ma tu non potrai vedere il mio volto, per­ ché nessun uomo può vedermi e restare vivo". Aggiunse il Signore: "Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33, 20-23). .

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Note intorno al problema della verità

vante, costretta nei limiti del reale e del necessario, di esprimere l'essere, il possibile, la verità nella sua pienezza e nella sua profondità. 2.

Pensiero monastico, mistico e letterario

La verità come possibilità è al centro anche di tutta una serie di momenti che solcano la tradizione del pensiero oc­ cidentale in forma meno appariscente, relegati spesso in condizioni di costretta monorità, talora di eterodossia. Il riferimento va in primo luogo al pensiero monastico, la cui rilevanza, anche sotto il profilo strettamente teologico, è stata rivendicata solo di recente13• Prolungamento del pensiero dei Padri, la riflessione dei monaci, che si dispiega dalla lectio all'oratio in un itinerario di fusione esperienzia­ le con l'Assoluto, ossia di realizzazione della verità e non già, mai, di semplice conoscenza intellettuale14, appare 13J. LECLERCQ, Cultura umanistica e desiderio di Dio, trad. it., pref. di P.C. Bori, Sansoni, Firenze 1 988, pp. 247-305. 14Esemplare questo testo di Cassiano: «In tal modo si realizzerà in noi la preghiera che il Salvatore nostro rivolse al Padre in favore dei suoi discepoli: "L'amore con cui mi hai amato sia in essi e io in loro" (Gv 1 7, 26) ; e ancora: "Siano tutti uno come tu Padre sei in me e io so­ no in te, anch'essi siano uno in noi" (Gv 1 7, 21). Quando si sarà avvera­ ta questa preghiera del Signore - che non può rimanere in alcun modo inascoltata - allora quell'amore perfetto col quale Dio "per primo ci ha amati" (l Gv 4, 10), si trasmetterà anche ai nostri cuori. Ciò avverrà quando Dio sarà l'unico termine del nostro amore e del nostro deside­ rio, d'ogni nostro studio e di tutti i nostri sforzi, dei nostri pensieri e della nostra vita. L'unità che regna tra il Padre e il Figlio, e tra il Figlio e il Padre, si trasfonderà nei nostri sentimenti e nell'anima nostra; come Dio ci ama d'un amore puro e indissolubile, così anche noi ci ameremo in Lui con un amore perpetuo e inseparabile. Saremo uniti a Lui in modo tale che ogni nostro respiro, ogni moto dell'intelligenza, ogni moto della lingua che parla, porterà l'impronta di Dio. Giungeremo al fine di cui abbiamo parlato e che il Signore chiede per noi nella pre-

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Capitolo III: Verità e possibilità

straordinariamente legata ai temi dell'escatologia e dell'amore. Il primo dice con forza la priorità della catego­ ria del futuro, il secondo la dilatazione dell'essere nel­ l'ambito del possibile, ed entrambi trovano espressione nel ricchissimo vocabolario del desiderio15• Nel pensiero mo­ nastico la verità ritrova così la sua matrice originaria di non-nascondimento, di rivelazione (alétheia), ma non nel significato chiuso e circoscritto di presenza o di ineludibi­ lità, bensì in quello aperto sempre, incatturabile mercé qualsiasi dire senza tradimento. «Per amorem agnosci­ mus», come si esprime Gregorio Magno16, o, secondo la nota chiusa del De consideratione di Bernardo: «Forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la pre­ ghiera che con la discussione (orando forte quam disputando dignius quaeritur et invenitur faciliusJ,P, perché qui non si tratta di un conoscere qualsiasi o di un mero spiegare, ma si tratta di comprendere: «Comprehendere dicit, non coghiera: "Siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me, affinché siano perfetti nell'unità" (Gv 1 7, 22-23). E ancora: "Padre, io voglio che quelli che mi hai dati, dove sono io siano anch'essi con me" (Gv 1 7, 24). Questo è l'ideale del monaco, a questo termine deve protendersi con tutte le forze: meritare di possedere una somiglianza della beatitudine eterna fin da questa vita• (G. CASSIANO, Collationes, X, 7, trad. it. Con­ ferenze spirituali, trad. introd. e note a cura di O. Lari, Paoline, Roma 1965, vol. l, pp. 425-426). 15Cfr. soprattutto Gregorio Magno («dottore del desiderio•, J. Le­ clercq). Ad esempio: Moralia, 30, 20. 16GREGORIO MAGNO, Moralia, 10, 1 3. «Che cosa intende per orme di Dio, se non la benignità della sua visita? Con questa siamo stimolati ad elevarci alle cose celesti, quando ci tocca il soffio del suo Spirito, e noi, sollevati oltre le angustie della carne, coll'amore conosciamo (per amorem agnoscimus) la bellezza del nostro Creatore, offerta alla nostra contemplazione• (Moralia, trad. it. a cura di B. Borghini, Paoline, Alba 1965, vol. l, p. 308). 1 7S. BERNARDO, De consideratione, V, 14, 32 (trad. it. di F. Gastal­ delli, in Opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, vol. I: Trattati, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, p. 939). 87

Note intorno al problema della verità

gnoscere . »18• Ecco perché il testo più presente e commen­ tato nella tradizione monastica è il Cantico dei cantici: l'amore e la sua simbolica sono l'esperienza e il linguaggio dell'indicibile vero essere, della verità, cioè di Dio stesso, che la necessità soffoca con la sua costrizione e la realtà svilisce con la sua determinazione e solo quel di più che è il possibile riesce a nominare mercé la parola della poesia, dove, appunto, il necessario e il reale sono sopravanzati, dilatati, resi conformi alla trascendenza intrinseca all'esist � nza, onde l'"impossibile" e l"'irreale" si fanno pos­ sibili. E questa l'esperienza dell'indiarsi (deificari), che Bernardo così descrive: «Come una piccola goccia d'acqua entro una grande quantità di vino sembra perdere per inte­ ro la propria natura, fino al punto di assumere il sapore e il colore del vino, come un ferro messo al fuoco e reso in­ candescente si spoglia della sua forma originaria per dive­ nire del tutto simile al fuoco, come l'aria percorsa dalla lu­ ce del sole assume il fulgore della luce, sì che non sembra solo illuminata ma sembra la luce stessa, così nei santi sarà necessario che ogni sentimento umano in una certa ineffa­ bile maniera si dissolva e trapassi a fondo nella volontà di Dio. Altrimenti Dio come potrà essere tutto in tutto, se rimarrà nell'uomo qualcosa dell'uomo?»19• Non meno che nel pensiero monastico anche nella tra­ dizione mistica la verità, che è sempre Dio, cui l'anima è chiamata ad unirsi inabissandovisi, appare trascendente ogni determinazione dell'essere e l'essere medesimo, sì che solo il «non-essere>> risulta capace di adeguarla. Ma codesto non-essere, che palesemente non è il nulla simpliciter e nemmeno il non-ancora-essere, ma è il di più dell'essere, è null'altro che lafacies positiva del possibile, è l'essere come intriseca possibilità. Meister Eckhart scrive che «Dio opera al di sopra dell'essere, in quell'ampiezza in cui può muo..

18/bid., V, 13, 27 (ediz. cit., p. 934). 1 9 5 . BERNARDO, De diligendo Deo, Opere di San Bernardo, vol. l: Trattati,

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X, 28 (trad. i t. ci t., p. 3 1 3).

di E . Paratore,

in

Capitolo 1/l- Verità e possibilità

versi: egli opera nel non-essere»; e continua: «Ma quando ho detto che Dio non era un essere e che era al di sopra dell'essere, non gli ho con questo negato l'essere, ma al contrario, gli ho attribuito un essere più elevato»20, cioè a dire un di più rispetto al reale e al necessario, un essere pos­ sibile che sopravanza ogni reale possibilità. Riverbero an­ tropologico di siffatta impostazione è la «nascita in verità», di cui parla già con assoluta chiarezza T aulero quando tratteggia l'unione dell'anima con Dio. «In questa unione - egli scrive - lo spirito è attirato e sollevato al di sopra di ogni sua debolezza, di ogni sua qualità naturale e dissomi­ glianza; vi è purificato, trasfigurato e innalzato al di sopra di tutte le sue facoltà, di se stesso e di ogni suo modo di es­ sere, e tutto il suo agire e il suo essere sono penetrati di Dio e modificati e trasformati in modo divino; e là avviene la nascita in verità, e lo spirito perde ogni somiglianza e si dilegua nell'unità divina»21• In epoca moderna Giovanni della Croce riprenderà questi stessi motivi declinandoli se­ condo tutte le possibili movenze dell'animo umano volto a Dio come alla sua sola adeguata verità. Al pari del pensiero monastico e della tradizione misti­ ca anche taluni momenti della storia letteraria appaiono il­ luminanti in ordine alla concezione della verità come pos­ sibilità. Esemplare in questo senso è soprattutto l'opera di Dostoevskij, là dove essa introduce il motivo del «doppio» che sostanzia ogni identità. Dapprima è solo un motivo psicologico, ma poi lo si vede affondare nel cuore dell'esistenza sino ad avvolgerla integralmente. L'inizio è ravvisabile nel Sosia, in cui è narrato l'incedere del prota­ gonista nella patologia dello sdoppiamento da una prima esperienza di incontro con un passante sconosciuto che gli si disvela lui stesso sino all'esperienza agghiacciante del 20MEISTER ECKHART, Opere tedesche, a cura di M. Vannini, La Nuo­ va Italia, Firenze 1 9 82, pp. 1 80- 1 8 1 . 21G. T AULER, Opere [32), Introd. trad. e note di di B. de Blasio, Pao­ line, Alba 1977, p. 2 49 .

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Note intorno al problema della verità

pullulare ovunque di proprie copie22• Ma ciò che nel Sosia è patologia nelle Memorie dal sottosuolo si traduce nel­ l' essenza stessa del soggetto, onde questi si scopre origina­ ria differenza, alterità, molteplicità, sì che l'essere non solo si rifiuta alla presa della necessità - è il contra la logica di Dostoevskij23 -, ma si rifiuta pure alla riduzione realistica dell'identità. Il sottosuolo, incoordinabile e irriducibile, si disvela così l'originaria verità molteplice dell'essere, ossia, propriamente, possibilità. Codesto esito trova nel Nove­ cento notevoli sviluppi: emblematica soprattutto la posi­ zione di Kafka, il cui incedere narrativo è un continuo av­ vilupparsi nell'irriducibilità del moltep lice. Né il protago­ nista del Processo né quello del Castello riescono in alcun modo a ricondurre ad unità il dato: esso si pluralizza sem­ pre traducendosi ogni volta in possibilità ulteriori24• 3.

Tradizione marxista, teologia della liberazione e filo­ sofia della liberazione

Il filo rosso della verità come possibilità passa anche at­ traverso alcuni momenti della tradizione marxista. Nella sua linea fondamentale questa è assestata lungo il solco classico del vero come realtà, ma per l'intentio che l'anima e per taluni motivi che l'attraversano essa appare declinata verso il possibile. Quando Marx scrive che la forma auten­ tica del comunismo «è la vera risoluzione dell'anta­ gonismo tra la natura e l'uomo, tra l 'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra 22 F. DOSTOEVSKIJ, Il sosia, trad. it. di P. Zveteremich, Garzanti, Mi­ lano 1 993 1 2 , pp. 5 1 ss. e 125 s s . 21F. DOSTOEVSKIJ, Memorie dal sottosuolo, trad. it. di E. Lo Gatto, in F. DoSTOEVSKIJ, Il giocatore e altri racconti, a cura di M.B. Luporini, Sansoni, Firenze 1 990, pp. 1 1 8-1 19. 2 4Cfr. C. SCILIRONI, Destino e fede, cit., pp. 42-49. 90

Capitolo III: Verità e possibilità

l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la ne­ cessità, tra l'individuo e la specie»25, la verità cui dà voce è irriducibile al reale, e proprio perché ad un tempo distinta dalle forme utopiche e idealistiche26, ris '! lta espressione di una specifica declinazione del possibile. E innegabile che il linguaggio di Marx tenda costantemente a privilegiare la modalità del reale, ma il movimento del suo pensiero non vi si lascia ricondurre totalmente. Se la realtà è la modalità dell'alienazione da cui ci si deve liberare, la liberazione può essere intesa solo come altro dalla realtà, ovvero, ap­ punto, come possibilità. Il vero, la riconduzione in pari dell'uomo con se stesso, è il superamento della «realizzazione del lavoro» come «oggettivazione»27• Estra­ niato a sé nell'oggetto e nell'atto della produzione, aliena­ to dalla propria specie e da se medesimo, l'uomo si riap­ propria di se stesso superando l'oggettivazione reale. Con termine non di Marx, ma efficace, si può parlare di sogget­ tivizzazione del reale, nel senso che questo si dischiude nelle sue possibilità intrinseche inedite riordinandosi al soggetto. Possibilità, dunque, nel senso di trasformazione umanizzante del mondo. Il presupposto è chiaro: «La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diret­ to con la valorizzazione del mondo delle cose»28: questo il duro movimento del reale storico che deve rovesciarsi e convertirsi nel possibile storico della valorizzazione del mondo- umano. «Di fatto, scrive Marx, il regno della liber­ tà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e 25K.

MARX,

Manoscritti economico-filosofici del 1844,

trad. it. di

N.

Bobbio, Einaudi, T orino 19762 , p. 1 1 1 . 26Cui si lasciano ricondurre anche le altre forme di comunismo, inautentiche secondo Marx, indicate nello stesso testo dei

Manoscritti

economico-filosofici del 1844, alle pp. 108-1 1 1 . 27/bid., p. 71. 28/bidem . 91

Note intorno al problema della verità

propria. [ ] Al di là di esso [del regno della necessità] co­ mincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà»29• Ciò che è evidente qui è la declinazione etica del possibile, cui il regno della liber­ tà è consegnato: il vero non è il mero essere reale, e tanto meno il reale determinato dalla necessità, ma l'essere giu­ sto e libero possibile. Si capisce così che la verità appare de­ clinata su codesto fronte non per sottrazione di realtà o per emigrazione alienante della ragione, ma perché il vero viene eticamente inteso. La modalità del possibile esprime l'intrinseca natura etica dell'essere, e perciò il passaggio dalla estraneazione naturale all'appropriazione volonta­ ria30. La ripresa più consistente della declinazione dell'essere come possibilità nell'ambito della tradizione marxista si deve senz'altro a Ernst Bloch. Questi, sin dalla sua prima grande opera, Spirito dell'utopia, appare decisamente avvia­ to alla ricerca di una verità irriducibile alla meraeffettuali­ tà, e perciò parla del tendere verso «il regno della seconda verità, l'unica e sola verace: nel mondo, contro il mondo e la sua semplice verità fattuale, per cercare le tracce, le promiscuità concentriche dell'utopia, per affrettarla, per compierla»31 • L'essere vero non è l'essere «che è��, ma il «non-essere-ancora», che l'utopia intenziona, la speranza sostiene e la volontà approssima32• Ma è nella sua opera ...

29K. MARX, Il Capitale, trad. it. di M.L. Boggeri, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1 102-1 1 03. 3°K. MARX-F. ENGELS, L'ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, in­ trod. di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 19752 (III rist.), p. 24. 31 E. BLOCH, Spirito dell'utopia, trad. it. di V. Bertolino e F. Coppel­ lotti, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 241 . 32Pressoché al termine di Spirito dell'utopia, Bloch scrive: -.Ma nella nostra sofferenza e nella nostra tenebra grande è lo spazio che ci apre la speranza. E se questa speranza è abbastanza forte, se acquista purezza, coscienza e dirittura, non potrà deluderci, non tradirà la nostra attesa, giacché l'anima umana abbraccia tutto, anche l'al di là che non è anco92

Capitolo III: Verità e possibilità

maggiore che Bloch affronta in maniera esplicita il tema del possibile delineandone strati e leggi. Messo a parte ciò che è solo «formalmente possibile», cioè quanto non so­ pravanza la mera dicibilità o perché non-senso privo di si­ gnificato o perché controsenso, egli tematizza il «possibile obiettivo-casale», cioè quello strato in cui il possibile si presenta come «enunciato della fondata opinione, della fondata ipotesi del suo poter essere»33• In questo grado il possibile concerne la conoscenza, l'ipotesi appunto, e si esprime attraverso giudizi ipotetici o problematici. Non così, invece, lo strato del «possibile oggettuale-adeguato all'oggetto», ossia, in forma propria, l'oggettualmente pos­ sibile, che «non concerne la nostra conoscenza di qualcosa ma questo qualcosa stesso», ond'esso «non vive dei fonda­ menti condizionali insufficientemente noti, ma dei fonda­ menti condizionali insufficientemente usciti alla luce»34• Il possibile oggettuale sopravanza la dimensione gnoseologi­ ca del possibile cosale per riguardare l'oggetto in quanto tale; neppure esso, però, concerne ancora l'oggetto reale vero e proprio, ma solo l'oggetto in quanto oggetto. All'oggetto reale giunge il «possibile obiettivo-reale», cioè il possibile in grado di mordere l'essere stesso: «Il poterra. Solo la speranza noi vogliamo: a lei è servo il pensiero e in lei trova l'unico spazio, l'unica sua parola, l'unico suo oggetto, dispersi in ogni parte del mondo, nascosti nella tenebra dell'istante vissuto, promessi nella figura della domanda assoluta. E poiché non possiamo più pensare il sussistente senza modificarlo e trasfigurarlo nel linguaggio della no­ stra anima; poiché i buoni desideri, padri del pensiero, possono anche diventare padri delle uniche cose veraci; poiché questa omogeneità tra pensiero e non-essere (nicht-Seins), non-essere-ancora (noch-nicht-Seins), è assolutamente estranea ai fatti e nemica del mondo che ne viene dilace­ rato, ne consegue che il concetto creatore non considera più inaccessibi­ le o trascendente (come la "metafisica" proibita da Kant) la realtà utopi­ ca e la fantasia costitutrice,. (p. 3 1 6). 33E. BLOCH, Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Ca­ vallo, introd. di R. Bodei, Garzanti, Milano 1994, vol. l, p. 265. 3"1bid., p. 269. 93

Note intorno al problema della verità

essere significherebbe quasi nulla se restasse privo di con­ seguenze. Ma il possibile ha conseguenze soltanto quando non si presenta semplicemente come formalmente ammis­ sibile o anche come obiettivamente ipotizzabile o addirit­ tura come aperto alla adeguatezza dell'oggetto, bensì quando è una determinatezza carica di futuro nel reale stesso»35• Ciò accade lungo la duplice linea della natura e della storia: la natura come grembo di tutte le forme a ve­ nire, come materia-mater, garante della possibilità reale in quanto materia e apertura al novum in quanto mater; la storia come dispiegamento delle possibilità consegnate all'uomo, cioè come procedere oltre il mero sviluppo e la mera crescita secondo possibilità inusitate o salti che l'apertura ontologica rende possibili a livelli sempre nuovi e ulteriori. Contro ogni pathos della staticità che solca l 'intera tradizione occidentale, l'ontologia blochiana dell'essere di ciò che non è ancora apre al nuovo e al futu­ ro nel segno di una progressiva umanizzazione. Il realmen­ te possibile è il vero problema perché nel mondo non v'è identità di essenza ed esistenza. Ma il possibile, il non già sicuro, assume il volto della speranza allorché l'uomo vi si avvia come alla terra del futuro, che si rivela il (>83 -, mostra a quale torsione radicale resti soggetto il possibile in questo capovolgimento. Non solo esso include l'opposizione tra la propria realizzabilità e il suo negativo, ma include pure l'opposizione originaria tra il possibile e l'impossibile: «La possibilità è autentica possibilità - scrive Vitiello - se con­ tiene in sé non solo la possibilità di attuarsi e non attuarsi, sì anche l'impossibilità di attuarsi e non attuarsi. Solo così, infatti, non è costretta, necessitata ad essere "possibilità"; soltanto così non si trova ad essere negata dalla sua stessa 80«11 puramente Possibile, se concepito in verità come tale, non può essere costretto a ek-sistere; ma, se non deve essere, significa che già è, che è già immediatamente esistente nel suo essere puramente Possibile [. . ]. L'Inizio inteso radicalmente come "quod non debet esse" (non deve essere, e non: non può essere), come non esclude da sé la possibilità di ek-sistere, così non può escludere la propria stessa/m -possibilità . Non si dà Onni-compossibilità che non sia possibilità del suo stesso negarsi [. .. ]. L'ek-sistere dell'In izio è, infatti, la sua stessa Im-possibilità. L'im­ possibile del puramente Possibile è il suo ek-sistere ( .. .] . L'In izio come puramente Possibile si mostra uno con l'immediatamente esistente; l'immediatamente esistente è, implicite, ek-sistenza, potenza di esistere; tale ek-sistenza è l'im-possibilità del puramente Possibile, mostra quella dimensione dell'Inizio stesso per cui esso è la sua stessa Im-possibilità. Ora soltanto abbiamo l'idea dell'Inizio perfettamente inseparabile dall'ek-sistere e perfettamente non destinato ad esso. (. . . ] potremmo for­ se dire che l'Inizio, come puramente Com-possibile, contiene in sé ogni possibile, fino alla propria stessa im-possibilità» (lbid., pp. 1 44-1 45). 81/bid., p. 1 46. 82M. HEIDEGGER, Essere e tempo, ci t., p. 70. 83ARISTOTELE, Metaph. IX, 1049 b 5. .

1 08

Capitolo IIL Verità e possibilità

physis, dal sua stesso Wesen >) 84 . Vitiello è pienamente con­

sapevole che qui, dove si tocca la verità dell'essere, si tocca pure il limite del pensiero, perché, se il possibile si rivela ad un tempo possibilità possibilitante e possibilità del­ l'impossibile, «come sia insieme le due [ ] questo è l'impensabile: la contraddizione assoluta che non si può dirimere»85• Al pari dell'immemorabile dell'Inizio per Cacciari, la contraddizione è per Vitiello l'abisso della ve­ rità in quanto per essenza possibilità. . . .

5.

Pensiero neoebraico

Un consistente apporto alla prospettiva della verità come possibilità viene anche dal pensiero neoebraico di questo secolo, il cui contributo specifico è ric �nducibile al­ la sottolineatura del nesso possibilità-alterità. E muovendo da una posizione polemica nei confronti dell'idealismo e da una forte sottolineatura di motivi esistenziali e religiosi, 84V.

VITIELLO,

Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p.

1 22.

85/bidem. Analogamente: «Pensare la possibilità come possibilità vuoi dire sottrarla a ogni costrizione, a ogni necessità. Anche alla neces­ sità d'essere se stessa, di avere una sua natura e di dover esserle fedele. Il possibile non ha necessità, non ha natura. Nel possibile è compreso l'impossibile. La possibilità è non solo possibilità di realizzarsi e di non realizzarsi, ma anche impossibilità di realizzarsi e di non realizzarsi. È possibilità im-possibile. Propriamente Nulla. Non il non-essere, l'assoluto vuoto che non si pensa, il mero Évavtiov dell'essere, non vo­ ce ma flatus vocis; anzi l'essere, l'essere pieno, senza vuoti né fratture, né distinzioni: tutto in tutto, Uno. L'Uno che si pensa contraddittoria­ mente, e cioè: veramente, affermando e negando insieme. È questo l'estremo limite del giudizio, il vortice nel quale la parola sprofonda. Il vortice d'ogni contraddizione. La contradictio contradictionis: perché il possibile come comprende l'impossibile così anche l'esclude - può escluderlo,. 0/. VITIELLO, Elogio dello spazio. Ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano 1994, pp. 139-1 40). 1 09

Note intorno al problema della verità

che pensatori ebrei hanno operato una svolta radicale che ha posto al centro della riflessione il tu e l'altro. In questo modo il vero si è decentrato rispetto all'identità classica dell'essere o dell'io per aprirsi ad una differenza costitutiva ed essenziale, che ripropone con forza le istanze bibliche. Nel nuovo pensiero di Rosenzweig, la stella, o verità eter­ na, pone che «la verità siede in trono sopra la realtà»86, ma non perché essa sia Dio, bensì perché «Dio è la verità», cioè non in quanto la verità è una verità fattuale, ma in quanto essa è la luce (l'origine, il fondamento) di ogni fat­ tualità. La proposizione fondamentale «Dio è la verità» è l'autorivelarsi stesso di Dio, che «ci ridice con altre parole soltanto il dato più intimamente familiare e noto delle no­ stre esperienze; [ ..] ci dice in definitiva nulla di diverso di questo: che Egli ama»87• Ma se la verità, la verità di Dio, è «la stessa esperienza che noi avev