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Italian Pages 63 Year 2011
I CLASSICI DELLA SOCIOLOGIA
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Collana diretta da Alessandro Ferrara
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Di prossima pubblicazione T. PARSONS, Professioni e struttura sociale, a cura di M. Santoro. B.G. GLASER - A.L. STRAUSS, Passaggi di status, a cura di C. Rinaldi.
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Robert Michels
Intorno al problema del Progresso A cura di Raffaele Federici
ARMANDO EDITORE
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MICHELS, Robert Intorno al problema del Progresso ; Intr. di Raffaele Federici Roma : Armando, © 2011 64 p. ; 17 cm. (Classici di sociologia) ISBN: 978-88-6081-981-9 1. Il Progresso 2. Sviluppo delle civiltà 3. La società e i suoi cambiamenti CDD 300
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Traduzione e cura di Raffaele Federici Titolo originale: Intorno al problema del Progresso di Robert Michels, pubblicato nel 1919 in Id., Problemi di Sociologia Applicata, Fratelli Bocca, Torino, 1919, pp. 38-69. L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali non volute omissioni di pagamento per il permesso di riproduzione. © 2011 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-04-055 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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Sommario
Introduzione di Raffaele Federici
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Intorno al problema del Progresso di Robert Michels
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Nota bio-bibliografica
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Introduzione
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di Raffaele Federici
Presentare questo lavoro di Robert Michels del 1914 significa, prima di tutto, introdurre il lettore alla percezione di un disagio, sostanzialmente culturale, ovvero la condizione di smarrimento e di incertezza della persona di fronte al progresso. Il tema del progresso sembra essere legato, in questo scritto di Michels, al tentativo ricorrente di individuare una direzione del possibile “sviluppo” per le persone aggiungendo, oltre ai temi “classici” della sociologia del potere1, anche quelli della psicologia collettiva, dei cicli economici, della condizione degli operai, dei rapporti fra la statistica e la sociologia, della vita urbana e, più in generale, delle determinazioni culturali presenti in un “corpo sociale” in cammino. In Michels, la delimitazione del concetto di “Progresso” riguarda, infatti, anche gli aspetti comportamentali e psicologici e il loro possibile degrado. Un percorso che porta l’Autore alla storia degli influssi e degli effetti (Wirkung Geschichte) in cui si tiene conto anche delle pregresse situazioni sia nella prospettiva della formazione sia della trasformazione2. Proprio Pareto aveva già indicato tale strada, un percorso che provocò il dissenso metodologico con Benedetto Croce3. L’ottimismo positivista che crede in un progresso continuo, la visione astratta di un percorso lineare uma7
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Introduzione
no verso un perfezionamento sempre crescente, sembrano al Michels posizioni preconcette e, ad esse, vi oppone una riflessione che risulta nascere da una rigorosa analisi della “vera” storia a lui più recente4. Leggendo con attenzione le pagine michelsiane dedicate al progresso si comprende che quello che più attira l’attenzione del Nostro è la discontinuità. Anche da tale cifra interpretativa, se vi è una “modernità” nel suo pensiero questa non risiede soltanto nel suo apporto della Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie5, che ha consegnato l’Autore alla storia del pensiero sociologico con la sua “legge ferrea dell’oligarchia” ma che lo ha, de facto, “intrappolato” in uno stereotipo superficiale e riduttivo della complessità del suo lavoro6, e che non ha così problematizzato il suo pensiero nella direzione degli “azzardi” profetici e le possibili discontinuità nei possibili orizzonti futuri. In altri termini, ridurre la figura di Michels esclusivamente all’interno dell’opera degli elitisti non sembra essere una esatta valutazione del suo contributo: sono stati poco considerati i rapporti e le ambivalenze che il Nostro ricercò fra la classe politica e i capitalisti, fra il progresso e il regresso, fra la forma della vita e i cambiamenti prodotti dalla rivoluzione industriale e dal nuovo ordine europeo, così come sono stati poco considerati gli apporti metodologici, tutti compresi fra la “filosofia sociale” e la “sociologia applicata”. Ecco perché rileggere Michels, in questa prima parte del XXI secolo, significa non solo ricostruire una parte importante del pensiero sociologico nella sua età “aurea”, ma anche riflettere sui possibili outcome degli imprevedibili scenari sociali, culturali e economici europei. In particolare, in questa 8
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Raffaele Federici
contemporanea era della precarietà, dell’insicurezza e del rischio, una idea “critica” sul progresso diventa una “possibile” misurazione della distanza dal passato e non è più una meta assoluta e univoca. Certamente sussiste una difficoltà del pensiero sociologico nell’affrontare la crisi dell’idea del progresso: esso si pone come esterno al giudizio, come non partecipante e così l’Autore sembra rinunciare ad ogni giudizio. In realtà, la sua visione economicistica e storica gli permette di esaminare le crisi possibili nel progresso da angolature diverse e di intravederne le luci ed anche le numerose ombre. Il saggio Intorno al problema del Progresso pubblicato nel 1919 da Robert Michels nel volume Problemi di sociologia applicata è stato probabilmente scritto nel il 1914 e rivisto nel periodo compreso fra tale anno e il 19177 nello stesso tempo in cui Weber, Troeltsch8, Sombart,9 Simmel10 e Pareto, fra gli altri, erano all’apice della loro produzione scientifica e intellettuale. Sono scritti successivi all’incontro con Max Weber del 1906, quindi seguono lo sviluppo della cosiddetta “seconda fase” del suo percorso intellettuale, ovvero quella in cui “scopre” le leggi che dominano il divenire sociale e in cui si “vela” di pessimismo il suo lavoro11. È una opera dedicata allo “scienziato e amico Vilfredo Pareto” e sono molti i rimandi ai suoi scritti e a quelli di Max Weber. È questo il tempo “aureo” della sociologia, quello che comprende i primi venti anni del XX secolo nei quali emergono i nomi più noti della storia del pensiero sociologico, dopo i cosiddetti “fondatori”. È anche il tempo della monumentale opera di Oswald Spengler, Untergang des Abendlandes, in cui l’Autore colloca il suo tempo, ma anche i due che seguiranno, nell’inverno della “Storia”, 9
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Introduzione
ovvero in un’epoca caratterizzata da una profonda decadenza. In questo periodo, la sociologia si afferma come scienza e supera i timori di essere considerata un effimero fenomeno culturale. In tale direzione, gli studiosi possono dedicarsi a meglio definire i confini della “nuova” scienza rispetto agli altri campi del sapere e, soprattutto, si impegnano nella ricerca di un metodo “proprio”. Per il Nostro, oltre al problema metodologico, viene rivolta una grande attenzione ai cambiamenti dettati dall’avvento di una società industriale in piena maturità, della divisione del lavoro, con tutti i problemi sociali da essa derivanti, e del genere di razionalità che può prevalere in tale società, insomma tutti i problemi ed i rischi che derivano dal “progresso”. La “filosofia della vita”, le correnti formalistiche neokantiane ed il marxismo sembrano avere, in questo scenario, un peso non indifferente nel condizionare la direzione degli sviluppi della ricerca dell’Autore. Michels mostra la costruzione di un solido impianto metodologico in cui tenta di elaborare delle categorie concettuali genuinamente sociologiche, con una “forte” contaminazione socio-psicologica. In particolare, la lettura del lavoro “sul Progresso”12 deve inserirsi in una precisa e ordinata contestualizzazione storico-biografica poiché le stesse circostanze personali, culturali e politiche presentano un’ambivalente problematicità. L’Autore riprende le note osservazioni di Max Weber in cui “il progresso scientifico costituisce un frammento, il frammento più importante, di quel processo di intellettualizzazione a cui sottostiamo da millenni”13 e, al di là di ogni visione filosofica della storia, non fa sì che il suo dinamismo assuma esclusivamente una connotazione “posi10
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Raffaele Federici
tiva”. Introduce, con altre parole, il tema delle forme del dinamismo della società che, a seguito della modernizzazione, mantengono un carattere tipico del mutamento sociale: l’asincronia. Interessando la società a tutti i livelli, il processo di modernizzazione si presenta con maggiore o minore intensità su ciascuno di questi producendo trasformazioni che non seguono lo stesso ritmo del cambiamento. L’asincronia è così evidente proprio nella razionalizzazione che rappresenta un miglioramento ed “apre” con la scienza uno nuovo spazio di autonomia per l’attività delle persone, ma che non può presentarsi come lo stadio conclusivo di un processo storico necessario e come un valore assoluto. La scienza, rispetto al processo di razionalizzazione è, paradossalmente, un “elemento” e una sua “forza motrice” e, anche per Michels, il “progresso” può avere un carattere ambivalente che ha influenze “assai disparate sulla morale pubblica”14. Il problema però non si pone nei termini di un mero giudizio perché il Nostro ben ricorda l’altra lezione sulla soggettività del progresso di Max Weber contenuta nel celebre saggio del 1904, Die Objektivität sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis15. I presupposti fondamentali della sociologia nascono proprio dal postulato dell’assenza dei giudizi di valore, dal concetto del comprendere, dal concetto del tipo ideale. Con l’assenza dei giudizi di valore nella scienza Weber intende la distinzione tra il conoscere e il valutare, ovvero tra il compimento del dovere scientifico di vedere la verità dei fatti ed il compimento del dovere pratico di difendere i propri ideali, in quanto non è compito di una scienza empirica formulare ideali per l’azione pratica. Si deve ricordare che il periodo in cui Michels scrive questo saggio è denso di novità: l’innovazione tecnologica, la formazione di nuove classi sociali, 11
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Introduzione
l’urbanizzazione e il tempo della nascita delle metropoli ed è anche il tempo dei pericoli e delle tragedie. La prima guerra mondiale segnerà la crisi irreversibile del primo capitalismo di mercato fondato sul singolo imprenditore e già Michels intravede l’impossibilità di utilizzare, ai fini delle sue analisi del mondo sociale e economico, gli strumenti del liberismo marginalista. La sociologia si imbatterà nella massa, la psicoanalisi nelle nevrosi di guerra, e nel più generale disagio della civiltà: nessuna scienza sarà più la stessa. La prima guerra mondiale e la prima pandemia planetaria, l’influenza “Spagnola”16, segnano definitivamente il passaggio alla mediatizzazione della società: Robert Musil nel suo L’Uomo senza Qualità17 avverte che la nuova tecnologia militare modifica nel soldato la percezione psichica. La stessa percezione si ha con Italo Svevo con La coscienza di Zeno: tali Autori sono lo specchio di una epoca in cui il senso di sicurezza cede il posto alla indeterminatezza e all’incertezza, come avviene con le rivoluzioni nelle conoscenze della fisica, della biologia e della psicologia e con il progressivo spostamento dell’idea di realtà. E ancora, è grazie al cinema, attraverso le inquadrature e il montaggio, l’accelerazione e il rallentamento, che si arriva a rappresentare un corpo frammentato e ricomposto, a creare una realtà iper-reale, a dire l’indicibile dell’inconscio. Con altre parole è il tempo in cui se il progresso sembra mostrare una razionalità funzionale non sembra esservi una corrispondenza in termini di quella che si potrebbe chiamare razionalità sostanziale. Michels, come osservato, scrive questo lavoro poco prima dello scoppio della Grande Guerra e lo sottopone a verifica subito dopo il conflitto: fra le righe, sembra pos12
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Raffaele Federici
sibile leggervi una non troppo velata critica agli “pseudoambienti di massa” ed agli effetti di tali ambienti. È un orizzonte in cui si intravede già, almeno implicitamente, se non la “dissoluzione del concetto di Stato”, quantomeno la sua problematizzazione e la sua ricollocazione in rapporto all’agire delle persone. Se si dovesse ricorrere a una nozione della sociologia della conoscenza, si potrebbe osservare che il fondamento fattuale di questa tendenza a riconsiderare i confini dello Stato e il contenuto dell’agire delle persone, può essere individuato nelle trasformazioni interne dei maggiori Paesi europei e degli Stati Uniti, delineatesi con sufficiente nettezza già a partire dalla prima metà del XIX secolo, precocemente rilevate da Tocqueville in America, da Bagehot e da Marx in Europa, e poi in maniera irreversibile affermatesi fra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX secolo. Queste trasformazioni sono legate allo svolgersi del processo di democratizzazione da un lato, e di quello di industrializzazione dall’altro. Infatti, già alla metà del XIX secolo l’ascesa del capitalismo industriale era ormai inarrestabile, ed era anche evidente che progresso tecnologico, espansione commerciale e sviluppo delle economie portavano con sé crisi finanziarie ed economiche gravi e generalizzate con un peggioramento delle condizioni di vita e lacerazioni nei rapporti sociali. Si trattava di fenomeni del tutto nuovi rispetto ad un passato nemmeno troppo remoto nel quale le calamità (guerre a parte) avevano origine in cattivi raccolti, carestie ed epidemie. Il sentiero del progresso e della prosperità sembrava accidentato da improvvise cadute, diffusi fallimenti, perdite di valore delle merci e delle attività, rarefazione del credito e rallentamento brusco nei traffici, con accumulo di merci invendute nei magazzini, sottoutilizzazione del 13
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Introduzione
potenziale produttivo degli impianti industriali, disoccupazione crescente, allargamento delle sacche di povertà e di marginalità per i più deboli. Nell’incontro tra società democratica e società industriale si struttura progressivamente, tra Stato e società civile, una “terza dimensione”, non statuale, ma politicamente rilevante ed efficace: la società politica, da intendersi come teatro della mobilitazione per fini collettivi e come “luogo” di formazione e di azione di gruppi privati di interesse e solidarietà, che dispongono di proprie risorse, per numero, organizzazione, legittimità e ricchezza, capaci di influenzare in maniera “nuova” l’attività di direzione pubblica, agendo sia come particolarismi ostili e separati sia come co-decisori indiretti e decentrati. Tale incontro può essere visto anche in una ottica diversa, quella monetaria. Si pensi che è proprio alla fine del XIX secolo che le grandi banche centrali europee, prima fra tutte quella d’Inghilterra, spostavano il loro asse dall’antica banca di Stato e, quindi, della Corona, a banca posta al centro di una fitta rete di relazioni finanziarie. È quel che sottolinea Bagehot nel 1873 giungendo a fissare il “canone” stesso della Banca Centrale: banca delle banche e dei banchieri, prestatore di ultima istanza, pilastro della stabilità monetaria e finanziaria della piazza di Londra e del resto del mondo18. Su questo sfondo in cui le forze sociali, economiche e politiche intrecciavano nuovi sistemi di relazione, le certezze ri-costituite con l’idea di Stato dal Concilio di Vienna si problematizzavano nuovamente, facendo emergere nuovi rischi e nuove opportunità. Anche da un punto di vista scientifico, la stessa idea di Stato si disarticola in diverse teoriche separate: quella della classe politica di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto; la teorica del partito politico di Robert Michels e 14
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Raffaele Federici
Moisei Ostrogorski; la sociologia dello stato di Max Weber. Queste teoriche costituiscono, nel loro insieme, la trama e i capitoli iniziali di una più comprensiva sociologia del potere che, per essere letta nella sua interezza, dovrebbe ri-comprendere i processi culturali del tempo. Reagiscono così a loro volta, più o meno direttamente e intenzionalmente, all’affondo che il materialismo storico di Marx che aveva in precedenza portato ai fondamenti della teoria politica tradizionale e alla stessa nozione di Stato. La teoria della classe politica e delle élite formulata fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo dai neomachiavellici Mosca e Pareto spiega la dinamica politica attraverso l’interazione, sia istituzionale sia non istituzionale, e le caratteristiche sociali, culturali e organizzative delle élite. L’oggetto del suo programma di ricerca, pertanto, non coincide con i confini istituzionali dello Stato, anche se è proprio quest’ultimo l’involucro formale entro cui la classe politica si organizza e controlla la società. Il programma non coincide neppure con le formule politiche e le derivazioni, ovvero le ideologie, con cui si interpreta e si giustifica il potere, ma è rivolto a spiegare effettualmente i mutevoli rapporti tra i gruppi dirigenti interni e esterni agli apparati pubblici e tra questi e la realtà sociale. La classe politica e le sue interazioni con le élite sociali sono quindi i soggetti reali, i protagonisti e i beneficiari del processo politico in quanto gruppi organizzati che comandano, controllano, manipolano, sfruttano, reprimono, dirigono il resto della società. Se il problema di Mosca e di Pareto è quello di mettere a fuoco sistematicamente il tema della circolazione delle élite, il problema di Michels è di mostrare come lo Stato, esposto alle sfide della modernizzazione economica e politica, sia profondamente 15
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Introduzione
cambiato. I diversi percorsi di Mosca, Pareto e Michels sono tuttavia accomunati da una costante attenzione per l’innovazione metodologica, l’impegno scientifico e la scelta dell’oggetto di studio e dalla congiuntura storica entro cui si inseriscono. Per Michels, in particolare, “il presupposto primo per potere determinare il progresso è dunque l’analisi. Scomporre il progresso negli elementi che lo costituiscono è lavoro indispensabile”19. La visione scientifica dei tre Autori è però accomunata da un sostanziale pessimismo antropologico: per il parlamentarismo liberale di Gaetano Mosca; per il partito operaio e la sua mancanza di democrazia interna di Robert Michels; per la non razionalità umana e la limitatezza del campo d’azione della logica razionale economica, rispetto al gran mare delle azioni non-logiche di Vilfredo Pareto. Non solo, ancora Michels, nel suo Intorno al problema del Progresso sottolinea che l’evoluzione non è generale e non è rettilinea: “Dallo studio della storia il progresso non ci appare come una linea retta”20. Non è rettilinea perché, nella storia, è già accaduto che vi siano delle fasi di stasi, e non è generale perché non vi è mai stata una “umanità unita, in quanto i tre quarti del mondo furono, sin dagli inizi, esclusi da ogni contatto con l’Occidente”21. Tale cammino, infatti, contiene delle discontinuità: “I fenomeni concomitanti alla prima apparizione della macchina sono infatti ben noti: rovina spaventosa del mestiere, emigrazione intensiva, masse crescenti di operai disoccupati nelle città, aumento della mortalità e della prostituzione. Fu questo il tempo in cui sorse, in cui doveva necessariamente sorgere, la teoria dell’immiserimento che più tardi si attribuì a Karl Marx, ma che, come io ho dimostrato altrove22, era patrimonio comune di quasi tutti gli economisti della prima metà del 16
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secolo scorso, a qualunque scuola appartenessero”23. Insomma, il Nostro recupera e sistematizza in un orizzonte sociale denso di insicurezze le teorizzazioni di Sismonie de Sismondi, di Stanely Jevons e di Maffeo Pantaleoni, fra gli altri, perché, come osserva il Nostro, una valutazione sugli effetti del progresso non può che essere effettuata che attraverso “un salutare relativismo”24. Non solo l’Autore non cerca una legge immutabile di natura razionale nell’analisi del progresso, ma anzi puntualizza come, di fronte al miglioramento delle condizioni degli operai in presenza di un radicato industrialismo, vi siano anche delle eccezioni portando l’esempio di Londra e del suo vasto Lumpen-Proletariat o, ancora, dai rischi e dai pericoli derivanti dalla Leutenot25 tedesca e, così facendo, rivoltando il paradigma della scienza economica di quel periodo in cui la componente macro della teoria economica finiva quasi sempre per prevalere, pur senza mai eliminarla, su quella squisitamente micro. La metodologia dell’economia politica classica rimaneva infatti saldamente ancorata ad una analisi non ciclica della produzione, della distribuzione e dello scambio fondata sulle categorie di classe sociale, di costo di produzione (posto a fondamento di una teoria oggettivista del valore e risolto, in genere, nella quantità di lavoro contenuto nel prodotto) e di valore aggiunto (inteso come detrazione, sotto forma di profitto, interesse, rendita o altro, dal prodotto del lavoro), dimenticando gli effetti sullo stesso ciclo economico del periodo immediatamente successivo. Tuttavia, l’Autore non sembra solo accennare il riferimento all’ipotesi di cicli economici e, piuttosto, sembra concentrarsi sulle ipotesi di investimenti “fuori controllo” e la conseguente eccessiva espansione della domanda. È inoltre, a mio avviso, difficile leggere 17
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Introduzione
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in queste pagine un tentativo di elaborare una dottrina dell’economia nazionale, una Staatswirtschaft, partendo da un nucleo preesistente di teoria economica pura ed inserendo in questo un certo numero di variabili sociopolitiche. È all’interno di questo specifico “sentiero” scientifico, come indicato nelle sue note al pensiero di Pareto26, che si avverte anche il richiamo all’opera di Charles Fourier, soprattutto in quei passaggi in cui osserva come vi sia un nesso fra l’aumento della ricchezza e le passioni, a cui però il Nostro aggiunge le evidenti disuguaglianze sociali: “questo incommensurabile progresso compiuto nella produzione di beni scatenò sull’umanità un ammasso di guai e tribolazioni di ogni genere. I fenomeni concomitanti alla prima apparizione della macchina sono infatti ben noti: rovina spaventosa del mestiere, emigrazione intensiva, masse crescenti di operai disoccupati nelle città…”27. Lo schema seguito da Michels è quello di una argomentazione critica alla rivoluzione delle “macchine” che, da sola, non fa raggiungere l’optimum sociale28 e, soprattutto, al fatto che l’idea di progresso deve essere “scomposta”, ovvero occorre scomporre gli elementi “che lo costituiscono” per comprenderne la sua natura. Quello che si palesa è, appunto, la necessità di comprendere i caratteri stessi del progresso tecnologico, demografico, politico e, soprattutto, quali sono i suoi dinamismi e le conseguenze, insieme alle loro ambivalenze. Il problema che Michels pone non è quello di un “Prometeo scatenato” e neppure di una etica della responsabilità, ma semmai in cosa si è maturato il progresso, da quale punto di vista e, soprattutto, con quali premesse. In questa direzione non si può dimenticare 18
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Raffaele Federici
che il Nostro era vicino al metodo della scuola storica e al suo accentuare la ricerca empirica di dati e fatti interdipendenti tra elementi strutturali e sovrastrutturali. Michels era, infatti, passato anche attraverso la lezione del materialismo storico di Karl Marx ed era contemporaneamente attratto dallo sforzo di spiegare il mondo attraverso leggi positive. Pur condividendo i problemi sollevati dagli studiosi sull’immiserimento, ancora prima di Karl Marx, l’Autore ha avvertito l’esigenza di ricorrere a leggi che risultassero da una dialettica tra elementi strutturali e sovrastrutturali e che, in ultima istanza, fossero in grado di rappresentare il progresso e lo sviluppo sociale. In tal senso, non poteva essere sufficiente un empirismo storico-psicologico di impianto schmolleriano29. Si ricorda che Schmoller, unitamente a Dilthey, contestava un approccio di tipo assiomatico-deduttivo fondato sulla credenza in leggi generali e universali operanti nella storia, contrapponendo a tale impianto un approccio induttivo, idiocratico e interdisciplinare che coordinava e fondeva gli aspetti sociali, psicologici e filosofici presenti nei problemi economici. La vita economica aveva certamente, secondo Schmoller, le “sue” leggi che, però, non erano quelle assolute, universali e deterministiche asserite da Marx, ma leggi storiche e relative, che dipendevano anche dai luoghi, dai momenti storici, da caratteri culturali e psicologici dei popoli e, non ultimo, da meccanismi economici30. Sostanzialmente il Nostro si trovava in una posizione analoga di Weber che, pur rifiutando lo scientismo positivista, non intendeva ridurre la conoscenza storico-sociale alla sola intuizione individualizzante e, d’altra parte, non intendeva abbandonare del tutto l’obiettivo di svelare in essa le uniformità e le possibilità di corrette generalizzazioni. 19
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Quello che colpisce, nel lavoro di Michels, è una analisi lucida e disincantata dell’idea di progresso, un progresso fatto dalle macchine per le macchine, l’individuazione del carattere conflittuale e ambivalente dei cambiamenti all’interno delle società europee, insomma, una ri-elaborazione teorica a più dimensioni dello sviluppo ciclico del capitalismo che tanto aveva coinvolto Schmoller e il suo allievo Spiethoff31 e, soprattutto, l’incorporazione del carattere culturale del capitalismo, proprio per spiegare l’inevitabilità degli squilibri, non solo economici, ma anche sociali e culturali, senza ricorrere ad ipotesi aggiuntive di tipo esclusivamente marginalistico32. Michels si trovava proprio all’interno di questo impianto mteodologico e proprio a partire colloca la sua riflessione che ricostruiva una visione del rapporto tra economia e politica in cui si sottolineava la non perfetta corrispondenza e sincronia tra i due termini. Da tal vertice è proprio questo sforzo di comprendere la modernità attraverso l’ambivalenza e la impossibile corrispondenza delle diverse prospettive politiche, culturale e economiche che l’Autore contribuisce alla riflessione sulla crisi delle dottrine storicistiche, ovvero a quelle che, in modo più o meno esplicito, riconoscono l’idea che esista una storia come progetto o come evoluzione naturale spontanea o, come sottolinea il Nostro, “rettilinea”. D’altra parte se, solo per un istante, si getta lo sguardo alla storia, il passato non è solo un sistema casuale, in cui gli avvenimenti avvengono senza senso. Alcune linee evolutive compaiono, e gli storicisti, da Vico a Marx a Spengler hanno ricostruito la storia ripercorrendo a ritroso le ramificazioni degli eventi e trovando una “buona” spiegazione, oppure una legge “ferrea” che spiega perché le cose siano andate in quella direzione. Tuttavia, 20
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avverte Michels, ogni volta che dalla spiegazione del passato si è passati alla previsione del futuro gli storicismi hanno conosciuto smentite e fallimenti catastrofici. Il Nostro è sedotto da quelle che è possibile chiamare, in termini contemporanei, “unanticipated consequences of social action”, ovvero quelle conseguenze non previste e non prevedibili dell’azione sociale. In genere si tratta di azioni che provocano il risultato contrario di quello inteso. Pareto, che è stato il grande teorico di queste azioni cosiddette “non-logiche” che caratterizzano gran parte delle azioni umane, è evidentemente il “vero” punto di riferimento di tale lavoro. Ed ancora, si legge una definizione di una idea di progresso non ridotto all’economia monetaria (Geldwirtschaft) di tipo capitalistico, ma si estende l’osservazione ai tratti dell’economia naturale (Naturalwirtschaft) e alle sue genti. Un progresso che, inevitabilmente, non avrà un percorso rettilineo e potrà segnare anche discontinuità e ambivalenze in cui le due linee principali, quella dell’economia come produzione di beni e servizi e quella sociale rischiano di divergere: “può darsi un progresso sociale accompagnato da un regresso economico e può verificarsi un progresso economico che arrechi danni sociali”33. Un tema che non è sconosciuto neppure alla dialettica marxista in cui ogni “vero” progresso è visto in un rapporto di “continuità e discontinuità”. Se Simmel è l’Autore che fa dell’ambivalenza la qualità più profonda dei fenomeni, ovvero il continuo oscillare tra l’intellettualismo della coscienza ed il coinvolgimento emotivo, Michels è l’Autore che sembra identificare le superfici più visibili delle oscillazioni, temi che verranno successivamente ripresi dal Nostro nel 1918 in Economia e Felicità: “Il miglioramento economico di una classe non penetra nella coscienza di 21
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Introduzione
questa che allorquando il miglioramento sia per lo meno proporzionato a quello delle altre classi. … Il confronto uccide, di sua natura, la felicità in erba. … Una volta raggiunto un certo grado di agiatezza o altezza di reddito l’aumento del piacere per mezzo dell’economia è pressoché escluso”34. E ancora: “Il ricco può sublimare i suoi bisogni economici assumendo il carattere di mecenate, di benefattore sociale o di collezionista, e trarre da queste nuove forme di soddisfazioni. Se però gli fanno difetto le attitudini e le disposizioni per compiere codesta sublimazione, e se è ridotto a muoversi invece sul terreno economico propriamente detto, l’arcimilionario non è in grado di far lavorare i suoi milioni nel senso di un continuo aumento di chance di felicità. La felicità non segue di pari passo l’aumento del benessere”35. Il Nostro ha avvertito che il movente psicologico non poteva limitarsi alla sfera dell’individualità astratta dalla dimensione collettiva e dal contesto storico, sociale e politico: gli attori sociali individualmente miravano alla felicità attraverso l’azione economica, ma l’economia non poteva esser compresa solo, o massimamente, sul piano individualistico e non portava da sola a questo fine individuale. Tutte queste osservazioni sembrano ricondurre il Michels verso una generalizzazione di tipo relazionale dei fenomeni sociali sul “Progresso” in cui le cause dei suoi dinamismi e delle possibili contrazioni possono essere fra di loro come interferenti e interdipendenti e difficilmente separabili.
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Raffaele Federici NOTE
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R. Michels, Corso di sociologia politica, a cura di A. Campi, L. Varavano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009. 2 Da questo punto di vista analizzare la Wirkungsgeschichte significa allargare l’osservazione all’essenzialità del processo cumulativo delle scienze sociali. Gadamer, ad esempio, definisce la Wirkungsgeschichte come la catena delle interpretazioni passate, le quali condizionano e mediano la pre-comprensione che l’interprete ha dell’oggetto da interpretare, senza che egli se ne renda sempre conto. I ricercatori sono esposti agli effetti di questa storia, che decide anticipatamente cosa è problematico e cosa può diventare oggetto di ricerca. L’inserimento nel vivo di questa trasmissione storica è chiamato da Gadamer fusione di orizzonti. In questa “fusione d’orizzonti” ogni nuova interpretazione s’inserisce nella catena della Wirkungsgeschichte, la quale si apre a sempre nuove possibilità della comprensione di senso. H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1983, p. 350. 3 B. Croce su V. Pareto, Trattato di Sociologia generale, II edizione, Barbera, Firenze, 1923, in «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», n. 22, 1924, pp. 172-173. 4 Si noti che questo è il periodo in cui Michels ebbe la nomina a professore ordinario della cattedra di Economia politica nell’Università di Basilea e ne fu effettivamente il titolare fino al 1927-1928. 5 R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna, 1966. 6 P. Ciancarelli, Sulla genesi del concetto di oligarchia in Michels: una reinterpretazione storica, GIPS Università di Siena, Working Paper 41, Siena, 2000, p. 3. 7 Nello stesso anno Simmel parlava del “conflitto della civiltà moderna”, saggio pubblicato solo nel 1921 dagli editori Duncker e Humblot. G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, Bocca, Torino, 1925.
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Introduzione
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Per Troeltsch il “progresso compiuto rispetto al puro positivismo, consistente nel riconoscimento della relativa autonomia della ragione produttiva, porta però ad una notevole mancanza di chiarezza e viene pagato a caro prezzo”. E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, Guida, Napoli, 1991, p. 210. 9 Cfr. W. Sombart, Il capitalismo moderno, Einaudi, Torino, 1978. 10 Ancora Simmel nel 1917 pubblica l’opera La guerra e le decisioni spirituali, in cui è possibile ritrovare i temi delle élite culturali tedesche, ovvero il riconoscimento nella prima guerra mondiale di una guerra di culture che avrebbe deciso della futura configurazione dell’Europa in difesa della Kultur tedesca contro la Zivilisation occidentale. 11 R. Michels, La crisi psicologica del socialismo, in «Rivista Italiana di Sociologia», XIV, maggio-agosto 1910, pp. 365-376. 12 Si noti che Michels in questo lavoro scrive sempre la parola “Progresso” con la prima lettera maiuscola. 13 M. Weber, La scienza come professione, a cura di P. Volonté, Rusconi, Milano, 1997, p. 87. 14 R. Michels, Intorno al problema del Progresso, in Problemi di sociologia applicata, Bocca, Torino, 1919, pp. 66-67. 15 M. Weber, Die “Objektivität” sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in Schriften zur Wissenschaftslehre, Reclam, Stuttgart, 1991. 16 In soli 120 giorni, da ottobre 1918 a gennaio 1919, la pandemia influenzale contagiò, nel mondo, oltre un miliardo di persone provocando la morte di oltre venti milioni di malati (alcune stime più recenti ipotizzano la cifra di quaranta milioni) e superando in mortalità qualsiasi altra malattia epidemica. E. Tognotti, La “spagnola” in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919), Franco Angeli, Milano, 2002. 17 R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1997. 18 M. De Cecco, Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914, Einaudi, Torino, 1979.
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Raffaele Federici
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R. Michels, Intorno al problema del Progresso, in Problemi di sociologia applicata, Bocca, Torino, 1919, p. 58. 20 Ivi, p. 46. 21 Ivi, pp. 46-47. 22 R. Michels, Saggi economico-statistici sulle classi popolari, Sandron, Milano, 1913, p. 131. 23 Il modello contenuto in Produzione di merci a mezzo di merci è stato, in effetti, anticipato da David Ricardo, fra gli altri, non solo nei tratti dell’immiserimento, per ricordare le parole di Michels, ma anche nella sua totalità, nel senso che non è un aspetto del processo economico ma l’orizzonte entro il quale ogni aspetto determinato si svolge (N.d.C.). 24 R. Michels, Intorno al problema del Progresso, cit., p. 69. 25 Con il termine “Leutenot” si identifica il fenomeno della migrazione verso le città e del parziale spopolamento della campagna. 26 Pareto si rifiutò di inviare un articolo sul progresso alla «Rivista Italiana di Sociologia», dietro una specifica richiesta di Guido Cavaglieri, “perché tutta la mia Sociologia è volta a bandire dalla scienza una simile terminologia che mi pare sia mancante di ogni precisione e atta solo a generare equivoci”. Citato in R. Michels, Intorno al problema del Progresso, Bocca, Torino, 1919, p. 68. 27 Ivi, p. 60. 28 B. De Finetti, Vilfredo Pareto di fronte ai suoi critici odierni, in «Nuovi Studi», IV-VI, luglio-dicembre 1936, pp. 14-16. 29 R. Michels, Gustav Schmoller in seinen Charakterbildern, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft Kunst und Technik», febbraio 1914, p. 12. 30 G. Schmoller, Lineamenti di economia nazionale generale, Utet, Torino, 1904. 31 Cfr. A. Spiethoff, Krisen, in L. Elster, A. Weber, F. Wieser (hrsg.), Handwörterbuch der Staatswissenschaften, Verlag von Gustav Fischer, Jena, vol. VI, 1925.
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Introduzione 32
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Cfr. L.A. Scaff, Max Weber and Robert Michels, in «The American Journal of Sociology», 86, 6, 1981, pp. 1269-1271. 33 R. Michels, Gustav Schmoller in seinen Charakterbildern, cit., p. 60. 34 R. Michels, Economia e felicità, Vallardi, Milano, 1918, pp. 135-138. 35 Ivi, pp. 144-145.
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ROBERT MICHELS
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Intorno al problema del Progresso
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L’idea di progresso implica due diversi elementi, egualmente indispensabili. In primo luogo uno sforzo del pensiero, consistente in un raffronto tra due o più stadi di sviluppo dell’oggetto preso in esame. In secondo luogo una misura empiricamente stabilita, che sia capace di servire da strumento per compiere quel raffronto. Questa mira sta in quel complesso di convinzioni che è proprio di chi procede al paragone e che gli deriva dalla tradizione, è arte dall’esperienza della vita: è quella che si designa con la parola “Weltanschauung”. Il giudizio, che si desume dalla comparazione e che può, a seconda dei casi, dare origine o alla tesi di un progresso o a quella di un regresso o magari di un arresto di sviluppo, involge di conseguenza un giudizio di valore. Il concetto di progresso richiede che l’indicatore attribuisca all’ultimo degli stati di sviluppo paragonati un valore superiore a quello degli stati precedenti. Poiché progresso, come già ce lo dice l’etimologia della parola, significa miglioramento. Graficamente esso si potrebbe rappresentare come una linea ascendente. Scaturisce da questa constatazione preliminare dei suoi elementi intrinseci, che il concetto stesso di progresso è un concetto nebuloso e da adoperarsi solo con la maggiore cautela. Esso è un concetto relativo, dipendente cioè dalla persona che pronuncia il giudizio, e quindi soggettivo. Però gli stessi fenomeni più noti della vita sociale, che vanno per la bocca di tutti, quali la rivoluzione, l’evoluzione, la reazione, la libertà di coscienza, la coazione, l’aristocrazia, la democrazia, si trovano, a seconda delle concezioni dei singoli, 29
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Intorno al problema del Progresso
secondo gli uni sulla linea del progresso, secondo altri su quella del regresso. La varietà di opinioni nel giudicare se un avvenimento concreto o una data evoluzione significhi per l’umanità un progresso o un regresso, si spiega in parte con il fatto che ogni mutamento storico arreca vantaggio ad una frazione dell’umanità e danno ad un’altra. Non c’è progresso che non abbia danneggiato o addirittura eliminato intere classi o, quanto meno, intere sottoclassi della società. Ciò vale per l’invenzione della stampa come per la soppressione dell’inquisizione. Il progresso non è mai tale per tutti. Dice un proverbio indiano: la casa di uno brucia e l’altro ci si riscalda. Così succede anche del progresso. La sua strada è comparsa di cadaveri. La civiltà moderna e la psiche umana sono astrazioni così complesse che il concetto di progresso deve necessariamente recare esso pure i segni di una grande complessità. Il progresso è di sua natura composto di così disparati elementi e accompagnato da così disparati fenomeni concomitanti che, nella pratica, non si ha quasi progresso possibile in un campo che non provochi effetti pregiudizievoli in qualche altro. Quasi ogni progresso in una data direzione determina un regresso o per lo meno un arresto in un’altra. La natura medesima è soggetta a questa norma. Il progresso pare sia sottoposto alla stessa legge restrittiva cui è sottoposta l’individualità. Il genio, ovvero un uomo dotato di qualità rare, di gran lunga superiori a quelle medie dei suoi simili, rappresenta per così dire una incarnazione del progresso intellettuale e spirituale. Non a torto perciò si è chiamato il genio: guida dell’umanità. Ma la presenza di facoltà geniali in un uomo presuppone empiricamente, quasi si sarebbe tentati di aggiungere per logica di natura, 30
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Robert Michels
la coesistenza di altrettante spiccate lacune e deficienze. Quando si tratta di genio e di grandezza bisogna confessare che l’indole dell’uomo non basta a portare tanta mole, dice il Boutroux, e aggiunge, seguendo in ciò le orme di Pascal, che “tout ce qui se fait de grand chez l’homme, etre médiocre, suppose une rupture d’équlibre”1. L’eccesso fa supporre un difetto. L’uno non è dimostrabile senza l’altro. Lombroso ha sostenuto che il genio costituisce una specie di anomalia nervosa, una varietà della nevrosi, uno stretto parente delle malattie mentali. Egli ha ciò anche espresso nel suo binomio: genio e pazzia2. E il migliore dei suoi discepoli tedeschi ritiene come cosa sicura che “L’intelletto molto profondo, capace di afferrare e di penetrare completamente il suo obiettivo, si accompagna ad una unilateralità di attitudini, il che equivale a dire che un intelletto profondo è il più delle volte unilaterale”3. Senza poterci schierare incondizionatamente sotto le bandiere lombrosiane, ci pare che con la constatazione di questo nesso si sia assicurato un punto d’appoggio prezioso per il problema del progresso in generale. Nella psicologia dell’uomo di genio si rintraccia, gli accanto agli altri, anzi condizionandosi reciprocamente, lati ipertroficamente sviluppati e lati atrofici, cioè rimasti ad un livello inferiore a quello dell’uomo medio; esistono in altre parole delle facoltà eminenti e delle deficienze profonde. Le debolezze dei grandi uomini, che spesso rasentano il ridicolo e sono facilmente rile1
Émile Boutroux, in «Foi et Vie», del 16 gennaio 1913, p. 35. 2 Cesare Lomboso, Genio e follia , Hoepli, Milano, 1877. 3 Hans Kurella, Die Intellektuellen und die Gesellschaft, Beitrag zur Naturgesch. Begabter Familien, Bergmann, Wiesbaden, 1912, p. 6.
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Intorno al problema del Progresso
vate anche dalla moltitudine, che pur ne ignora le cause, non sono che i termini correlativi delle qualità straordinarie che li distinguono, elevandoli al di sopra dei loro contemporanei. I grandi scrittori e poeti sono per lo più molto mediocri nei calcoli, che interessano la loro economia domestica, e ciò anche quando sono eccellenti calcolatori nel rimanente. I grandi artisti, insuperabili per l’elevatezza delle loro concezioni, sono quasi sempre di una infantile balordaggine e di una rara incapacità a pensare logicamente; nelle scienze astratte essi non si raccapezzano e il più delle volte non hanno molta dimestichezza nemmeno con l’arte applicata del vivere. Nessuno meglio di loro rappresenta il progresso dell’umanità nelle più fini ramificazioni dei sensi e dell’intuito. Tuttavia, il progresso che essi personificano è unilaterale. Il diritto della loro superiorità è inseparabile dal rovescio della loro inferiorità. All’inizio del secolo scorso un dotto italiano, Giuseppe Pecchio, scrisse una dissertazione per sostenere che la produzione scientifica e letteraria segue le leggi generali della produzione dei beni, e che lo sviluppo del commercio e dell’industria comporta sempre una diffusione della cultura e un incremento nella fabbricazione e nello spaccio dei libri. Ma in pari tempo egli si mostrò incapace a far entrare in questo sistema di rapporti fra il progresso economico e il progresso culturale anche l’origine e la creazione dei geni e a stabilire donde provenga che spesso proprio le epoche di stagnazione, di tirannide politica o di crisi economica sono quelle che producono i grandi scrittori e poeti4. I libri possono anche aumen4
Giuseppe Pecchio, Dissertazione sino a qual punto le produzioni scientifiche e letterarie seguano le leggi economiche del-
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tare di numero e di lettori, ma viceversa il loro valore medio può diminuire. Il Ranke si è ricusato di ammettere che si possa veramente dimostrare un progresso nella storia della filosofia da Aristotele in poi, mentre invece ammette potersi scorgere un sicuro progresso nel moltiplicarsi delle dissertazioni filosofiche e nella forma data al pensiero espresso5. Oggi noi siamo testimoni oculari di una diffusione straordinariamente celere del sapere. La scuola popolare è ad un livello inverosimile e attraversa un periodo di quasi ininterrotto progresso. Ad essa si aggiunge inoltre l’istruzione superiore. In tutti i Paesi il numero di coloro che non sanno leggere e scrivere va rapidamente scemando e in molti è già disceso a zero. La produzione di geni, per contro, paragonata a quella del Cinquecento e del Seicento, è dovunque insignificante. All’estensione del progresso intellettuale fa riscontro la sua scarsa intensità. In Italia i Dante e i Petrarca hanno fatto posto ai D’Annunzio, in Francia i Molière ai Rostand, in Germania i Goethe ai Sudermann, in Inghilterra i Shakespeare ai Bernard Shaw. Solo i popoli di più recente civiltà possono registrare una produzione crescente di geni: così sorsero il Tolstoj in Russia e l’Ibsen in Norvegia, per quanto anche questi due grandi non abbiano alla loro morte lasciato nel proprio Paese nessun successore di valore. Talvolta il progresso è unicamente il contraccolpo di un regresso. Nella stessa proporzione, in cui l’umanità la produzione in generale, Edizioni della Biblioteca dei Comuni Italiani, Torino, 1852, p. 227 e ss. 5 Leopold von Ranke, Ueber die Epochen der Neueren geschichte, Duncker u. Humlot, Leipzig, 1796, p. 533.
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Intorno al problema del Progresso
va sempre più incontro alla degenerazione fisica, in cui la statura dell’uomo medio si abbassa, la sua forza visiva e il suo udito si indeboliscono, la calvizie e la canizie precoce aumentano, il rachitismo si estende e cresce il numero dei giovani che il medico militare dichiara incapaci di sopportare senza serio pericolo per la loro salute gli strapazzi della vita di caserma, in breve, nella stessa proporzione in cui l’uomo si allontana dalla primitiva sua originale e vigorosa animalità e in tutti i Paesi del mondo perde potenza fisica, regredisce pure la mortalità generale. Più ancora: l’affluire degli elementi rurali dalle circostanti campagne nella città, cioè quel fenomeno demografico che noi conosciamo sotto il nome di urbanismo, e che significa per larghissime masse d’uomini il passaggio dall’aria pura e fresca della campagna nell’atmosfera polverosa e miasmatica degli stanzoni nauseabondi delle fabbriche, ha, in fondo, rafforzato vieppiù la tendenza a protrarsi della vita media dell’uomo. Il numero delle malattie professionali è bensì cresciuto, ma la durata della vita lo è del pari. La statistica accerta pressoché senza eccezioni che la mortalità diminuisce nei distretti industriali più rapidamente che in quelli agricoli6, e questa constatazione acquisterebbe evidenza anche maggiore se molti contadini non recassero le gravi malattie da cui sono affetti nelle città e se, attratti dalla fama dei medici e degli ospedali urbani, non venissero ad ingrossare le cifre della mortalità cittadina. Una acuta e nota studiosa, Gina Lombroso Ferrero, ha scritto un libro, il quale ha creduto bene di intitolare: I vantaggi della degenerazione. In esso ha cercato, in base ai fenomeni biologici e stati6
Napoleone Colajanni, Manuale di demografia, Vol. II, Pierro, Napoli, 1909, p. 575 e ss.
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stici, di fornire la prova che con il crescere dei pericoli, che circondano la vita dell’uomo, la forza di resistenza e la capacità di adattamento crescono in ragione geometrica e che le professioni più antigeniche e le masse popolari più degenerate fisicamente sono quelle che presentano la più lunga durata della vita7. Senza entrare nel merito di tale questione, ci piace rilevare che è in ogni modo incontestabile che al manifesto peggioramento dei caratteri generali fisiologici dell’uomo si accompagna parallelamente un progresso altrettanto manifesto nelle condizioni biologiche, valutate in base alla durata media della vita. Questo fatto è naturalmente da attribuirsi in parte al miglioramento delle condizioni economiche e alla moderna profilassi igienica, per tanti aspetti così cospicua, ma d’altra parte può certo riguardarsi anche come la risultante dell’accresciuta immunità dell’uomo stesso, acquistata forse in grazia appunto del moltiplicarsi dei nemici che lo insidiano8. Dallo studio della storia il progresso non ci appare come una linea retta. La distruzione della vecchia civiltà 7
Gina Lombroso, I vantaggi della degenerazione, Bocca, Torino, 1904, p. 396 e ss. 8 Anche un’altra cultrice di studi biologici, Oda Lerda Olberg, ha richiamato, a giusto titolo, i denigratori della civiltà alla considerazione di questo semplice fatto, che l’umanità non ha mai superato così difficili prove come nella nostra odierna, relativamente sviluppatissima, civiltà. Nello stato animalesco primitivo la regola era quella di soccombere. L’uomo originario non aveva, è vero, quasi mai i nervi guasti, ma periva quasi sempre di morte violenta, oppure la sua vita veniva troncata da una epidemia. Oda Olberg, Das weib und der intellektualismus, Edelheim, Berlin, 1902, p. X.
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Intorno al problema del Progresso
greco-romana per opera dei barbari del settentrione ha per otto secoli arrestato il progresso politico, intellettuale e economico in pressoché tutti i campi. Il periodo quasi millenario del medioevo non forma, a prescindere dalla musica e dall’architettura che un lungo interregno fra due periodi del progresso. Solo il Rinascimento, che si riannoda all’antichità, gettò con tale ricollegamento le basi per nuovi trionfi dell’attività umana. Però, anche a partire da questo periodo, l’evoluzione non si è fatta né generale né rettilinea. Non generale, perché, come a ragione ci ha fatto osservare il Lindner, non ci fu mai nella storia una umanità unita e, quindi, anche il progresso dovette mancare di una unità, in quanto che tre quarti del mondo furono, sin dagli inizi, esclusi da ogni contatto con l’Occidente9. Non rettilinea, perché anche nell’orbita di ogni singola civiltà si verificavano spesso movimenti retrogradi. Il progresso della democrazia fu, dopo la caduta di Napoleone, ricacciato indietro per mezzo secolo. Oggi stesso il patrimonio di libertà esterna e soprattutto di libertà interna dell’umanità è ancora ben lungi dall’aver nuovamente raggiunto in tutti i Paesi il livello del 1789 o anche solo quello del 1813, nella Spagna, dopo la cacciata di Giuseppe Bonaparte, fu ristabilita l’inquisizione10. Anche i movimenti nazionali subirono un lungo e penoso periodo di sosta e di attesa. L’impero mondiale del Corso non aveva già avuto una base propriamente nazionale, ma piuttosto, come io
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Theodor Lindner, Geschichtphilosophie, 3° edizione, Cotta, Stoccarda, 1901, p. 211. 10 Cfr. in proposito l’interessante I° Volume delle Mémoires di Don Juan Van Halen, Conde de Peracampos, Paris, 1821.
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ho esposto altrove, una base dinastico-generazionale11. Tuttavia il regime napoleonico aveva rafforzato, se non generato, sia per deliberato proposito sia inconsapevolmente, la coscienza nazionale di quasi tutti i popoli del centro, del mezzogiorno e del settentrione d’Europa. Il Congresso di Vienna, peraltro, mettendo un termine a codeste tendenze sovversive, sacrificava contemporaneamente l’Italia, la Germania, la Polonia, la Norvegia, l’Irlanda e il Belgio. Le stesse imprese più gloriose che siano state compiute dal genere umano non rappresentano un progresso assoluto. Nell’America del Nord è stata abolita la schiavitù, non è stato possibile però sopprimere le sevizie e il disprezzo a cui sono esposti le persone di colore. Prima della guerra di secessione i neri dipendevano personalmente dai loro padroni, ma in complesso erano ben trattati; oggi sono uomini liberi, ma vengono linciati dai bianchi come se fossero individui collocati fuori della legge. L’idea di una intesa internazionale ha raggiunto oggi un grado di sviluppo inaudito12. I pacifisti borghesi e antimilitaristi socialisti e anarchici si accordano sul vaticinare che, come il secolo XIX fu il secolo delle nazionalità, così il XX secolo sarà quello dell’internazionalismo, e che oramai l’unico mezzo per distruggere le aspirazioni internazionali dell’uomo moderno sarebbe quello di distruggere le macchine, di sopprimere la dinamo e le 11 V. il mio articolo Zur Historischen Analyse des Patriotismus, in Archiv. F. Sozialwiss. Und Sozialpol., Vol. 36, fascicolo 2, p. 394 e ss. 12 Si ricorda al lettore che questo libro è anteriore alla guerra mondiale.
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locomotive, di chiudere le tipografie e le scuole e di segregare gli scienziati nei loro laboratori13. Infatti non ci sono mai state tante associazioni e tanti istituti, uffici e congressi ufficialmente o ufficiosamente internazionali, come oggi. Dalla posta alla protezione degli animali, dalla legislazione operaia allo studio dell’alcool, tutto è entrato nel dominio della discussione e della regolamentazione internazionale. Nel campo del movimento operaio, sorgente naturale di sentimenti cosmopoliti, i socialisti tengono ogni cinque anni mastodontici congressi, nei quali si riuniscono per deliberare assieme con i compagni venuti da tutti gli angoli della terra; ogni categoria di lavoratori, muratori, tipografi, minatori, ecc. è irreggimentata in federazioni internazionali e sottoposta a segretariati internazionali. Se, tuttavia, facciamo astrazione dalla forma e esaminiamo più da vicino il contenuto, rileveremo senza fatica una tendenza diametralmente opposta a quella appena descritta. L’internazionalismo del proletariato moderno si è senza dubbio sviluppato in estensione, ma questo sviluppo si è compiuto a spese dell’intensità e della profondità dei sentimenti. A persuadersene, basta stabilire un confronto fra i giornali della vecchia internazionale di Marx e di Bakunin e quelli dei vari partiti socialisti del presente; giova constatare come l’idea internazionale si sia ormai assolutamente dileguata dalle file degli “operai aventi coscienza di classe”. In tutti i parlamenti d’Europa i rappresentanti del proletariato internazionale hanno apertamente dichiarato di essere pronti a difendere sino alla loro ultima goccia di sangue 13
Cfr. Alfred H. Fried, Handbuch der Friedens-bewegung, Verlag der «Friedens-Warte», Leipzig, 1911, p. X. Gustave Hervé, L’interationalisme, Giard et Brière, Paris, 1910, p. VIII e 176.
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la patria, cioè lo Stato capitalistico, senza escluderne quelle frazioni eterogenee di territorio, che la patria non poté aver strappate ad altri popoli. La fratellanza socialista di tutti gli schiavi del salario è caduta al livello di un tema qualunque per l’eloquenza mitingaia degli oratori del primo maggio. Nondimeno entrambe queste tendenze risalgono alla stessa fonte prima, il capitalismo moderno, il quale ha, per così dire, internazionalizzato il mercato del lavoro e l’investimento dei capitali; sospinge per ciò stesso le varie categorie operaie a stringere fra di loro molti e frequenti accordi al fine di scambiarsi le rispettive esperienze e rivendicazioni, nonché di concertare eventuali azioni da svolgere in comune. Dall’altro lato invece il capitalismo aggrava la dipendenza dei singoli proletariati nazionali dalle sorti dell’industria nazionale e del suo naturale protettore, lo Stato nazionale. Questo stesso capitalismo, mediante le forti emigrazioni proletarie, di cui è causa e che hanno sempre il loro punto di partenza nei Paesi più poveri (Italia, Paesi slavi), e la loro meta nei Paesi più ricchi (America, Francia, Germania), suscita fra i singoli proletariati una specie di concorrenza e con essa facilmente risveglia nella loro psiche tutti i pregiudizi e tutte le antipatie nazionali, latenti ogni ora contro gli stranieri, sia pure appartenenti alla stessa classe sociale14. Siamo qui in presenza di un duplice fenomeno: i legami esteriori dell’internazionalismo stanno diventando ogni giorno più forti e numerosi, ciò significa un guadagno dal punto di vista internazionale, ma una perdita da quello nazionale; i legami, per contro, del sentimento interna14
I fatti della guerra attuale (prima guerra mondiale) hanno fornito la prova dell’esattezza di quanto diciamo in queste pagine.
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zionale si allentano sempre di più, dal momento che i nazionalisti lo considerano come un progresso e gli internazionalisti come un regresso15. Anche le speranze di coloro che, nell’aumentata celerità e precisione dei mezzi tecnici di comunicazione, scorgevano una garanzia per il graduale avvicinamento morale dei popoli e per la diffusione dei sentimenti di fratellanza, dovrebbero oggi dirsi deluse. Per l’osservatore spregiudicato nessun dubbio è possibile: noi viviamo oggi appunto in un tempo di eccitazione nazionale oltremodo intensa; la forza dinamica di questa ultima è resa manifesta dal fatto che essa ha invaso anche popoli finora così tranquilli e così obiettivi nel giudicare dei propri interessi nazionali, come, ad esempio, gli Italiani. Chi potrebbe sostenere che i sentimenti di solidarietà umana fra le diverse nazioni sono cresciuti con crescente facilità e comodità da potersi trasferire da luogo a luogo e conoscersi reciprocamente? Si potrebbe piuttosto affermare che tra i modi di abbreviare o addirittura cancellare le distanze e i tentativi di abbattere le barriere, che ancora sussistono nei cervelli delle collettività nazionali, esista una notevole sproporzione. Il primo di questi due compiti si è dimostrato assai più facile del secondo. Si va oggi in diciassette ore da Parigi a Berlino, in trentatré ore da Vienna a Roma, mentre solo settanta anni fa ci volevano per tali viaggi rispettivamente dodici e ventuno giorni. Il contrasto psichico fra Parigi e Berlino, fra Vienna e Roma non si è perciò attenuato. La tecnica ha superato con disinvoltura e facilità tutti i confini naturali, ma i confini tracciati nella psiche dei popoli dagli asti nazionali si sono mantenuti in tutta la loro antica rigidità. 15
Bernardino Varisco, Il nazionalismo e i partiti, in «Idea Nazionale», I maggio 1913.
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Uno dei più nobili pensieri è indiscutibilmente quello della pace. La pace rappresenta un progresso genuino. Essa implica un grande passo avanti compiuto sulla via, il cui punto di partenza, che ancora agisce sull’uomo, consistette nel fare preda, nella distruzione e nell’assassinio. Essa significa un risparmio di preziose vite umane e una rinuncia a servirsi nelle contese del cosiddetto diritto superiore della forza, la quale è nel tribunale della giustizia dei popoli un assai cattivo giudice. Essa pone inoltre un termine a quello stato di cose, inerente al servizio militare obbligatorio, per il quale centinaia di migliaia di uomini sono obbligati a porre a repentaglio la loro vita e quella dei propri simili solo perché nati in un altro Stato, o per una causa loro ignota, indifferente o magari ostica, oppure dannosa ai loro interessi morali o economici, o per espiare una colpa non da loro commessa. Peraltro, quantunque la pace sia per se stessa un bene di incalcolabile valore e però il suo conseguimento rappresenti un progresso kat’ exochèn, tuttavia, considerata da altri punti di vista, essa può diventare un impedimento al progresso, e specie al progresso di carattere etico. La guerra è irragionevole, ma non immorale, almeno non lo è in modo assoluto. La guerra può essere ingiusta, ma non lo è necessariamente per se stessa. Essa può anche adempiere una missione di giustizia. Eticamente la guerra sarebbe condannabile solo quando si potesse dimostrare che non vi è, né vi fu, né vi potrebbe mai essere una guerra giusta, che cioè ad una causa servisse. Anche l’idea della pace è per se stessa estranea alla morale16. 16
Se i pacifisti avessero imposto il loro volere all’Europa, oggi la Grecia e la Serbia gemerebbero ancora sotto il giogo Turco. Cento altri popoli vedrebbero tradita la loro attesa im-
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La pace acquista valore soltanto se è informata ad idee morali, se poggia su di una base morale. Una pace, invece, priva di giustizia internazionale è un pericolo morale, poiché deprime nelle masse il sentimento della necessità che si attui il diritto. Se la volontà dei pacifisti diventasse un fatto compiuto e in seguito a una solenne decisione universale la pace fosse per trattato elevata a principio inviolabile della vita dei popoli, ciò non potrebbe avvenire che sulla base di un accordo con cui fosse reciprocamente riconosciuto e garantito il presente stato di possesso di tutti gli Stati: la pax aeterna sul fondamento dello status quo. Ma non ciò si creerebbe per il progresso morale e in parte anche per lo sviluppo naturale dei popoli una ben triste situazione. Il patto di pace suonerebbe come una sanzione di tutte le ingiustizie nazionali e tecniche commesse dalla storia. Chi proponesse tanto, scambierebbe il progresso con l’immobilismo, escluderebbe a priori ogni soddisfazione, ogni aspirazione nazionale e consacrerebbe per tutta l’eternità i diritti sovrani di quei popoli e Stati, che dominassero il mondo nel momento storico in cui riuscisse ai pacifisti di far trionfare le loro idee e di farle diventare regola di condotta per la diplomazia dei singoli governi. Gli Stati, che tuttora non sono pervenuti a stringere nei propri confini tutti gli elementi che dovrebbero farne parte, oppure i popoli che non formano uno Stato, non potendo formarne uno, poiché da avverse circostanze furono finora impediti di tradurre il loro desiderio in realtà, sarebbero in questo modo frustati dalla Dea Pace nel loro più sacro diritto: il diritto di disporre di sé. Una pace così fatta sacrificherebbe cento popoli, paziente di realizzare le loro aspirazioni nazionali, se il voto più fervido dei pacifisti venisse oggi esaudito (Nota del 1914).
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lascerebbe insoluti cento problemi. Il caso prevarrebbe sulla volontà nazionale dei popoli e l’ingiustizia diventerebbe diritto17. Perché la pace acquisti i caratteri di un fenomeno di autentico progresso, non giova quindi che gli Stati oggi esistenti si diano mutue assicurazioni e che si istituisca un tribunale arbitrale obbligatorio per spegnere in germe le controversie de iure condito insorgenti fra gli Stati, né è necessario ricorrere a esperimenti di disarmo. Per porre la pace su basi etiche è invece condizione pregiudiziale l’accettazione di un jus condendum. Questo jus condendum avrebbe di mira la costituzione di omogeneità nazionali e dovrebbe presentarsi nella pratica come il risultato di un referendum plebiscitario, il quale, intrapreso e compiuto con sincerità di intenti e con l’aiuto di energiche misure protettive, che escludessero in precedenza ogni diretta o indiretta falsificazione dei suoi responsi, dovrebbe avere applicazione in tutti i territori, formanti oggetto di contesa nazionale, allo scopo di lasciare libero corso alle inclinazioni e preferenze collettive degli abitanti18. Una simile opzione che avve17 Su questo punto parecchi fra i miei critici, come A. Jéhan De Johannis nell’«Economista» del 07 giugno 1914 e Alessandro Bruno sulla «Rivista Italiana di Sociologia», anno XVIII, p. 286, accusandomi di aver glorificato la guerra, certo mi hanno frainteso. Rileggasi codesto capitolo alla luce della storia dei giorni nostri, e si convinceranno agevolmente che io non condanno affatto le mete pacifiste, ma cerco solo di metterle sopra una base più realistica, più positiva e più etica. Una pace che calpesti dei diritti costituirebbe uno stato di cose immorale. Se la pace va disgiunta dalla giustizia, essa perde tutto il suo intrinseco valore. 18 Devo dire però in coscienza che le vicissitudini della guerra hanno modificato in parte le mie idee in proposito. Pur
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nisse in base a una serie di plebisciti sottratti a tutte le influenze dei singoli governi metterebbe certo in serio pericolo l’esistenza di non pochi organismi statali. Alcuni Stati riceverebbero senza alcun dubbio in questa guisa il colpo di grazia. Anzi, non vi è forse Stato che da un tale referendum non uscirebbe modificato, poiché non vi è uno Stato che coincida con una nazione, e che non abbracci in sé, oltre al popolo che gli dà il nome e lo spirito, anche frazioni di altre razze più o meno eterogenee; né esistette ancora mai uno Stato fra i cui cittadini non vi fossero irredenti. Tra gli Stati più grandi, la sola Italia costituisce pressoché una eccezione. E pertanto, senza la sovra accennata revisione della carta politica, la pace perpetua minaccerebbe di diventare uno strumento per l’oppressione e il soffocamento dei popoli. Il progresso etnico nel senso di una intesa internazionale, basata sul principio della giustizia e, quindi, sulla indipendenza e autonomia reciproca delle singole nazioni, cozza inoltre contro ostacoli che risiedono nella psicologia di tutte le stirpi che popolano la terra. Ogni popolo obbedisce nella sua storia, consapevolmente o meno, alla congenita legge della trasgressione, e cioè dello sconfinamento oltre i limiti, che gli sono tracciati dai suoi caratteri etnici ritenendo sempre il plebiscito il mezzo “teorico” migliore per conoscere i sentimenti della popolazione, l’applicazione di esso mezzo si dimostra “nella pratica” talmente irta di pericoli, di minacce e di inganni che gioverà rinunciarvi ogni volta si potrà onestamente ricorrere a criteri equivalenti, vale a dire ad altre dimostrazioni di solidarietà e di affetto che anche un popolo soggiogato è in grado di offrire. Confronti su questo punto il mio opuscolo Notes sur les moyens de constater la nationalité, Nijoff, L’Aja, 1917.
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e dalle volontà popolari. Ogni popolo tende a dominare su popoli stranieri, ogni guerra di liberazione, intrapresa al fine di redimere i fratelli che si trovino all’infuori dei confini dello Stato e languano sotto il giogo straniero, termina sempre, allorché l’impresa riesce felicemente, con l’annessione altresì di territori che appartengono etnicamente e linguisticamente al nemico vinto. Ogni esercito onusto di allori si è sempre tramutato in un organo di oppressione nazionale; la storia moderna ce ne offre esempi tipici in abbondanza. Il bisogno di espansione azionale spezza tutti i freni della logica e dell’etica. Solo i popoli deboli e servi sono giusti e sognano la fratellanza internazionale. I popoli forti, o quelli deboli diventati forti, sono per loro natura cattivi vicini e padroni pieni di durezza. I progressi che essi compiono, avvengono quasi sempre a spese dei popoli confinanti. Essi, anzi, non sanno nemmeno più immaginarsi la propria prosperità nazionale e la propria gloria patriottica senza che le altrui patrie abbiano a subire degli scacchi; scacchi, se non sempre militari, sempre però economici e diplomatici. Il presupposto primo per poter determinare il progresso è dunque l’analisi. Scomporre il progresso negli elementi che lo costituiscono è lavoro indispensabile. L’unico progresso che sia incontrovertibile è quello della tecnica. Esso è veramente inaudito. Certo è, come lo dimostra la catastrofe del Titanic, che non vi ha prodigio della tecnica che sia abbastanza prodigioso da poter sfidare le potenze malvagie della natura. La natura, nei suoi elementi, è invincibile. Senonché, chi confronta la tecnica della produzione economica e della locomozione di cento anni addietro con quella odierna, non potrà più 45
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dubitare che si sia compiuto in questo campo un progresso gigantesco. D’altronde, il più rapido progresso tecnico non si è nemmeno compiuto ai giorni nostri, ma bensì appunto al principio del secolo scorso. Fu allora, come racconta un testimone oculare, il Pecchio, che si verificò una prova singolare per la rapidità delle manifatture di lana, quando cioè il Cav. Giovanni Throgmorton sedette a pranzo vestito con un abito che nella mattina era ancora sul dorso delle pecore: “le pecore furono tosate, la lana lavata, scardassata, filata, tessuta; il panno fu pulito, sodato, tinto, cimato, soppressato e convertito dal sarto in abito; il tutto dallo spuntare del sole alle sette di sera, quando la brigata si pose a tavola, in capo a cui sedeva il gentiluomo vestito del prodotto di un solo giorno di lavoro”19. Nell’economia politica è avvenuto un progresso. Per quanto riguarda la diffusione di questa scienza, non però nel senso che sia nelle masse aumentato il rispetto per essa. Negli anni che trascorsero dal Quaranta al Settanta del secolo scorso20 l’intelligenza dei fatti economici e le cognizioni economiche erano nei parlamentari europei indubbiamente maggiori che non lo siano negli stessi concessi dal 1870 fino ai giorni nostri21. Scientificamente l’economia politica ha sotto alcuni aspetti progredito. Però sono oggi forse in minor numero che in altri tempi i grandi economisti; scarseggiano come inventori di nuovi sistemi, e come filosofi dell’eco19
Giuseppe Pecchio, Una elezione di membri del Parlamento in Inghilterra, Vanelli, Lugano, 1826, p. 81. 20 L’Autore si riferisce al secolo XIX. 21 Maffeo Pantaleoni, Una visione cinematografica del progresso della scienza economica, in Idem, Scritti vari di economia, Vol. III, Castellani, Roma, 1912.
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nomia; d’altra parte spesseggiano come dotti e come sapienti. L’economia politica si è arricchita di nuove cognizioni, fornitele dalle disciplini affini, e specialmente dalla statistica. Anche la questione del progresso nell’economia pubblica deve dividersi in due parti: l’una propriamente economica, rivolta alla produzione dei beni, l’altra sociale, avente maggiormente in mira il benessere degli uomini. Non sempre queste due parti combaciano, spesso anzi divergono. Può darsi un progresso sociale: accompagnato da un regresso economico e può verificarsi un progresso economico che arrechi danni sociali. Un esempio tipico, tratto dalla storia, dimostrerà la verità di questa ultima affermazione. L’introduzione del nuovo strumento tecnico, della macchina, nell’impresa industriale è forse l’avvenimento più saliente nella storia dell’industria; Marx ebbe persino a qualificarla come vera e propria rivoluzione. L’effetto di questa innovazione fu un incommensurabile progresso tecnico di tutta la produzione: il suo metodo fu semplificato, la sua rapidità raddoppiata, la quantità dei suoi prodotti centuplicata. La macchina realizzò un ragguardevole risparmio di forza e di lavoro umano. Ma, considerato dal punto di vista sociale, questo incommensurabile progresso compiuto nella produzione di beni scatenò sull’umanità un ammasso di guai e tribolazioni di ogni genere. I fenomeni concomitanti alla prima apparizione della macchina sono infatti ben noti: rovina spaventosa del mestiere, emigrazione intensiva, masse crescenti di operai disoccupati nelle città, aumento della mortalità e della prostituzione. Fu questo il tempo in cui sorse, in cui doveva necessariamente sorgere la teoria dell’immiserimento che più tardi si attribuì a Karl Marx, ma che, come io ho dimostrato 47
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altrove22, era patrimonio comune di quasi tutti gli economisti della prima metà del secolo scorso, a qualunque scuola appartenessero23. Chiunque si accinse in quell’epoca a esaminare le condizioni sociali che si erano manifestate in Inghilterra, Paese più di ogni altri innanzi al progresso economico e in cui il miracolo dell’industria meccanica si era compiuto con la maggiore celerità, vi trovò un così terribile stato di cose da volgergli le spalle con orrore. Simonde de Sismondi, il grande economista francese, ritornò dal suo viaggio di studio in Inghilterra a Parigi, convertito di punto in bianco. Per l’addietro egli era stato un fervido partigiano della piena libertà industriale e della sfrenata concorrenza; da quel punto in poi egli scorse il potente rimedio contro il disastroso progresso nella tutela del lavoro da parte dello Stato nel socialismo di Stato. Il Ledru Rollin andò anche più in là, dichiarando che le tanto esaltate condizioni sociali dell’Inghilterra erano destinate alla più rapida e inesorabile decadenza; Fourier, dal canto suo, scrisse quelle sue amare parole, che cioè il popolo sta meglio nei Paesi detti arretrati che in quelli detti progrediti; l’operaio spagnolo, cui fosse saltato in mente di cercare lavoro, avrebbe sempre, secondo lui, la possibilità di trovarne, mentre 22 Robert Michels, Saggi economico-statistici sulle classi popolari, cit., p. 131.
Il modello contenuto in Produzione di merci a mezzo di merci è stato, in effetti, anticipato da David Ricardo, fra gli altri, non solo nei tratti dell’immiserimento, per ricordare le parole di Michels, ma anche nella sua totalità, nel senso che non è un aspetto del processo economico ma l’orizzonte entro il quale ogni aspetto determinato si svolge (N.d.C.). 23
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l’operaio francese, inglese o catalano, pur tanto più amanti del lavoro, si arrabatterebbe spesso inutilmente per averne. Questa tesi ebbe un incontestabile valore durante l’intera giovinezza del capitalismo. Eppure vi fu dualismo. Il progresso è stato gradatamente ottenuto dalla moltiplicazione e dal buon mercato di molti oggetti d’uso quotidiano che il nuovo strumento tecnico rese possibili; dalla sana concorrenza nazionale e, malgrado ogni tentativo protezionistico, anche internazionale, verificatisi nell’industria, e che ebbe pure influenze mitigatrici sui prezzi; ma soprattutto dalla spontanea resistenza organizzata del proletariato, basata sul principio della solidarietà di classe, contro la lamentevole situazione in cui l’aveva gettato la tracotanza del nuovo semidio. Oggi può dirsi che il tenore di vita della classe operaia si è elevato in maggiore misura proprio laddove l’industrialismo ha messo le più profonde radici. Questa regola, tuttavia, non è ancora senza eccezione. Londra, che continua sempre a essere la regina della produzione capitalistica, presenta, tuttora, anche fatte le debite proporzioni, un Lumpen-Proletariat assai più numeroso che la più povera cittadina dei Balcani dove il capitalismo non ha ancora fatto il suo ingresso. Spesso sulla realtà, o meno, del progresso economico decide l’avvenire. La linea ascendente dello sviluppo della Germania è determinata dall’industrialismo, il cui slancio sorprendente ha destato l’inquietudine dei popoli vicini e ridotto alla parte di concorrenti gli antichi dominatori sovrani del mercato mondiale, gli Inglesi. Alla nascente egemonia industriale della Germania fa però, a dir così, riscontro il fenomeno dell’urbanismo e di un parziale spopolamento della campagna (la Leutenot); essa riposa inoltre sopra una base caduca: l’esportazione dei prodotti industriali e l’impor49
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tazione di prodotti agrari. Quest’ultima rende il Paese sempre più dipendente dall’estero, e potrebbe, in caso di guerra doganale o di conflitto militare, diventargli funesta; la prima cesserà di esistere nel momento stesso in cui i popoli, che consumano le merci esportate dalla Germania, avranno fatto tesoro degli insegnamenti della maestra tedesca e incominceranno a imitare gli articoli importati eguagliandoli nella qualità. Venire raggiunti e sorpassati è la sorte comune di tutti i Paesi che vivono di esportazione. Ma un tale destino, soprattutto allorché essi non possono procacciarsi i beni, di cui più necessitano, che mediante scambio con i manufatti di produzione propria, significa crisi e decadenza24. In questo modo non sarebbe da escludersi che uno dei più rilevanti e grandiosi sviluppi economici che la storia recente conosca fosse solo il preludio di una sinfonia catastrofica. Il progresso sarebbe in tale caso fallace e passeggero, paragonabile a un fuoco fatuo, che suscita nel viandante le più dolci speranze ma che lo trae in rovina. Il carattere dualistico del progresso scaturisce anche dall’esempio del partito politico, specialmente se il partito politico poggia su base ideologica e persegue fini di trasformazione sociale. Giacché vediamo i partiti diventare ricchi, impinguare le loro casse, crescere di aderenti, ottenere trionfi elettorali, correre di successo in successo. Ma contemporaneamente il partito, di mano in mano che esso si forma e prende il sopravvento un gruppo di capi indi24 Cfr. le considerazioni pessimistiche su questo tema di Karl Oldenberg, Deutschland als Industriestaat, Gottingen, 1897, p. 39 ss. Alle quali si associò anche Gustav Schmoller, Die Zukunft er deutschen Bevoelkerung und die heutingen Wanderungen ubers Meer, Woche I, n. 39.
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pendenti che sempre più lo considera come fine a se stesso, perde la propria fisionomia, diventa estraneo agli scopi per i quali è sorto, si lascia ipotizzare dalla così detta conquista del potere politico e, malgrado la sua potente organizzazione, viene a trovarsi, di fronte allo Stato, con il quale non può misurarsi per ampiezza e solidità di struttura, in una condizione di impotenza. Più il partito ingrossa le sue file, più gli viene meno la volontà, il vigore e la forza necessaria per inscenare dei movimenti di masse, paralizzato qual è dal timore che questo movimento possa mettere a repentaglio i già compiuti progressi25. Si tratta, dunque, nel caso del partito politico, di progressi reali, facilmente misurabili, e di regressi quasi altrettanto facili ad accertare. Senonché, il progresso può anche essere conseguenza di un male. La riuscita di un atto di violenza collettiva, come, ad esempio, di una guerra vittoriosa, è sempre seguita dalla tendenza dei vincitori a sfogare il loro bisogno di frenetica attività, portandola su campi lontani da quello su cui si compì l’atto di violenza. Nel successo è di conseguenza insito un energico impulso al progresso. Però la storia ci insegna che un simile sviluppo non si verifica mai senza un considerevole indebolimento delle forze morali e che altresì reca spesso grave pregiudizio ai fattori estetici della vita dei popoli. È noto come la lunga serie di guerre vittoriose di Napoleone III abbia avuto per contraccolpo un vivace rigoglio del commercio e dell’industria, della provvidenza sociale in pro dei lavoratori e dell’attività edilizia26, ma altresì il 25
Robert Michels, La sociologia del partito politico, Unione Tip. Edit. Torinese, Torino, 1910. 26 Philipp Geyer, Frankreich unter Napoleon III. Politisch-Oekonomische Skizzzen, T.O. Weigel, Lipsia, 1865, p. 17 e p. 118.
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prevalere di costumi frivoli e leggeri e, nell’arte, di tendenze colme di goffaggine e di superficialità. Dopo il 1870 la Germania, vincitrice sui campi di guerra, registrò uno slancio inaudito della sua tecnica, della sua industria, delle sue condizioni economiche, ma per contro la sua arte e la sua letteratura, insomma il suo gusto estetico, andarono per trenta anni sempre più peggiorando, e in pari tempo anche la psiche del popolo tedesco perdette alcune delle sue più simpatiche e, per la civiltà, più preziose qualità, mentre ne acquistò altre, utili sì, ma eticamente indifferenti o meno lodevoli27. I periodi di grande progresso economico esercitano di regola due influenze assai disparate sulla morale pubblica. Da un lato tali periodi elevano la moralità, almeno in quanto essa trova la sua espressione nell’osservazione della legge, fatto dovuto alle condizioni migliorate di vita, che essi assicurano, sia pure soltanto dopo molte lotte di classe, anche ai ceti più poveri, i quali partecipano per tale via alla prosperità generale. I delitti successivi di accertamento statistico diminuiscono e, ove non diminuiscano, si raffinano: ai reati di sangue subentrano le frodi complicate. D’altro lato il progresso economico ha per effetto di gonfiare l’orgoglio delle classi dominanti e dei governi, orgo27
Il riconoscimento di questo fatto si era fatto strada prima della guerra, nei più svariati campi della cultura tedesca; cfr. ad esempio Walther Schücking, Die Organization der Welt, Kröner, Lipsia, 1909, p. 77 e seguenti; Martin Rade, Mehr Idealismus in der Politik, Diederichs, Iena, 1911. L’unilateralità del progresso nello sviluppo della Germania è stato osservato con particolare acutezza dagli scrittori francesi moderni. Cfr. Ferdinand Bac, Vielle Allemagne, Charpentier, Paris, 1906; Marcel Prévost, Monsieur et Madame Moloch, Lemerre, Paris, 1906.
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glio che si rivela nei rapporti con l’estero, con forme sciovinistiche e con un generale deterioramento dei sentimenti altruistici di fronte ai popoli che parlano un’altra lingua e che appartengono ad un’altra “razza”. La storia politica, spirituale e artistica dei popoli consiste in una successione, quasi impossibile da abbracciare con lo sguardo, di piccoli progressi e di piccoli regressi, che si alternano l’uno con l’altro senza armonia e metodo alcuno e senza altra regola se non quella capricciosa tendenza che il Vico indicava con il termine di “corsi e ricorsi”. Il carattere fondamentale del progresso è di non essere mai completo; è la sua natura frammentaria, contraddittoria, saltuaria28. Il progresso non comprende mai contemporaneamente tutti i rami dell’attività umana; spesso la sua azione è favorevole in un senso, sfavorevole in un altro. Talvolta a un progresso nella quantità si connettono dei danni per la qualità, o viceversa. Sovente il progresso in un campo ha addirittura per condizione il regresso in un altro campo. Gli eventi della storia umana nel loro eterno va e vieni, con i loro eterni alti e bassi, non sono comparabili fra di loro. Gli stessi loro risultati sono difficili da stabilire. Nemmeno nel loro ritmo è possibile dimostrare un progresso. Tutt’al più i vari ritmi possono presentare qualche concomitanza e periodicità. Non si ha, quindi, alcuna speranza di poter dare una 28
Sulla soggettività del progresso innanzitutto la magnifica dissertazione di Max Weber, Die ‘Objektivität’ sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, nell’Archiv fur Sozialwissenschaft, 1904, pp. 22-87; lo stesso problema viene poi trattato da mano maestra nei due volumi di Vilfredo Pareto, La sociologia, Barbera, Firenze, 1916.
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Intorno al problema del Progresso
definizione scientifica del concetto di progresso. Però, volendo far passare questo oscuro ed elastico concetto nel linguaggio volgare, introducendolo nei giornali e portandolo in mezzo al popolo, si crea una fonte di malintesi e di confusione di idee. Sarebbe perciò opportuno eliminare la parola progresso, quanto meno quella con l’articolo determinativo dalle opere scientifiche. Tutt’al più si può ammettere che si parli di progressi definiti e limitati su campi altrettanto definiti e limitati. Vilfredo Pareto, pregato da Guido Cavaglieri a nome della «Rivista Italiana di Sociologia», di formulare, per una inchiesta da pubblicarsi in detto periodico, le sue idee sul problema del progresso, scrisse di non mandare un articolo su tale concetto: “perché tutta la mia Sociologia è volta a bandire dalla scienza una simile terminologia che mi pare sia mancante di ogni precisione e atta a generare equivoci”, e aggiunse che d’altra parte lo spiegare questo modo di vedere non sarebbe cosa da potersi fare in un breve scritto29. Come tutte le parole altisonanti, ma vuote o troppo gonfie, anche quella di progresso, per poter essere adoperata scientificamente, deve intendersi con un salutare relativismo. La Sociologia non può accoglierla se non a condizione che sia data conveniente risposta a queste incalzanti domande: progresso in che cosa? Da qual punto di vista? Con quali premesse?
29
Cfr. AA.VV., La concezione sociologica del progresso, Bocca, Torino e Roma, 1912, p. 5.
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Nota bio-bibliografica
Le più esaurienti note bio-bibliografiche su Robert Michels sono reperibili negli scritti dell’Autore e nelle ricerche dedicate alla ricostruzione della storia della famiglia: R. Michels, Peter Michels und seine Tätigkeit in der rheinischen Industrie, in der rheinischen Politik und im rheinischen Gesellschaftsleben, in «Jahrbuch des kölnischen Geschichtsverein», 1930. Altri scritti sono disponibili in F. Schönert-Rölk, Peter Michels (1801 bis 1870) und Gustav Michels (1836 bis 1909), in «Rheinisch-westfälische Wirtschaftsbiographien» (Münster), Bd. 12, 1986, pp. 79-95. Per la più recente letteratura si rimanda il lettore agli scritti di Corrado Malandrino. C. Malandrino, Robert Michels, in M. Borlandi, R. Boudon, M. Cherkaoui et B. Valade (sous la direction de), Dictionnaire de la pensée sociologique, Presses Universitaires de France, Paris, 2005, pp. 457-458. 1876
Robert Michels nasce il 9 gennaio 1876 a Colonia (Renania Westfalia), figlio unico di Julius Michels e Anna Schnitzler. La famiglia Michels apparteneva alla cerchia alto borghese di imprenditori e commercianti nel settore tessile di Colonia e faceva parte del patriziato cattolico renano. Il nonno paterno Peter, importante industriale e uomo politico, aveva 55
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Nota bio-bibliografica
sposato Constance van Halen, discendente di don Juan van Halen de Perecampos, generale e uomo politico spagnolo che ebbe un ruolo significativo nella storia del Belgio nella prima metà dell’Ottocento. La famiglia materna, di confessione protestante e di tradizioni bancarie e industriali, aveva ascendenze francesi e ugonotte. Il nonno materno, Robert Schintzler (1825-1897), dopo aver ricoperto la carica di sottoprefetto di Colonia abbandonò la carriera politica per consacrarsi alla musica, fondando il conservatorio di Colonia ed entrando in amicizia con i maggiori compositori dell’epoca, da Gounod a Verdi. 1885
Dopo una educazione in casa fino all’età ginnasiale nel 1885 è iscritto al Collège Royal Français di Berlino, di tradizione ugonotta. In tale esperienza Michels matura una predilezione per la storia e la cultura francesi del XVII e XVIII secolo.
1889-1894 Continua gli studi al Gymnasium Landesherren Großherzog Karl Friedrich di Eisenach (Turingia). Consegue la maturità nel 1894. 1895
Si arruola nel reggimento Großherzog von Sachsen di stanza a Weimar e a Jena e frequenta per qualche tempo anche la scuola di guerra di Hannover. Questa esperienza sarà considerata da Michels un periodo infelice, dal quale uscì nel 1896 con posizioni anticonformiste e antiautoritarie, disgustato per 56
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Nota bio-bibliografica
sua stessa ammissione dai maltrattamenti ai soldati e per le usanze inumane regolanti il codice di vita militare. I ricordi di Michels del periodo trascorso nel reggimento sono presenti in vari scritti in cui fa trasparire una appassionata avversione non solo politica e culturale, ma anche psicologica, contro le istituzioni e la disciplina militari prussiane, baluardo invincibile a suo avviso del potere degli Hohenzollern e dell’arretratezza istituzionale della Germania guglielmina. 1896-1900 Studia in diversi atenei europei: Sorbona, Lipsia, Monaco di Baviera e Halle. Tra il 1898 e il 1900 visita più volte il Biellese e Torino. La città di Biella era stata oggetto di studi da parte di Werner Sombart, per la sua dinamicità nel settore tessile. 1900
Consegue il Dottorato in Filosofia, Storia ed Economia Politica presso l’Università di Halle-Wittenberg discutendo una tesi sull’invasione dell’Olanda, nel 1672, di Luigi XIV (Zur Vorgeschichte von Ludwig XIV. Einfall in Holland, il relatore è lo storico Gustav Droysen). Nello stesso anno sposa Gisella Lindner, figlia dello storico di origine polacca Theodor Lindner, dell’Ateneo di Halle, autore di Weltgeschichte seit der Völkerwanderung.
1901-1904 Si iscrive al Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) e insegna alla Philipps-Universität 57
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di Marburgo. Nel 1904 si candida alla elezioni comunali come socialista, una scelta che gli è fatale sotto il profilo politico: non fu eletto e avviò una polemica che lo avrebbe portato allo scontro col vertice politico e ideologico della SPD: sotto il profilo accademico (cadde sotto il ‘Sozialisteverbot’) la scelta gli impedì il conseguimento della Habilitation in materie storiche. Nel 1901 nasce il primo figlio Mario. 1904-1906 Dopo l’esperienza di Marburgo Michels entra in contatto con Achille Loria. Lo scienziato gli era già noto dal 1902 per un lavoro concernente i Problemi sociali contemporanei, una pubblicazione citata in un articolo dedicato alla descrizione del socialismo italiano. Michels era un profondo ammiratore della “Torino dei professori socialisti” fin dal 1895. Nel giugno del 1906 Michels comunica a Loria la sua intenzione di visitare l’Italia per partecipare, nel mese di ottobre, al IX congresso socialista di Roma e per ottenere la libera docenza in scienze sociali. Michels era iscritto al Partito Socialista Italiano e alla camera del Lavoro di Milano fin dal 1901 e aveva già rappresentato la Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) all’VIII congresso nazionale socialista italiano di Bologna nell’aprile del 1904. In questo periodo la sensibilizzazione alla cultura anticonformista e alla questione sociale e, attraverso questa, agli studi sociologici fu causa della rottura 58
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dei rapporti col padre Julius, conservatore irremovibile che lo privò di ogni aiuto economico. In questo periodo di accesa passione politica, in cui fu attivo anche all’interno dell’Internazionale socialista, partecipando al congresso di Amsterdam del 1904, pubblicò un articolo sulle Incoerenze internazionali del socialismo, apparso nel numero 8 della Riforma Sociale dello stesso anno. Una critica che svilupperà ulteriormente dopo il 1906, deluso dai limiti revisionisti, nazionalisti e opportunisti della socialdemocrazia, e che lo avvicinò alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario stabilendo contatti in Italia con Labriola e Leone e in Francia con Sorel e Lagardelle. Nel 1905 è Chargé d’Enseignement al Collège Libre des Sciences Sociales di Parigi. Nel 1904 nasce la figlia Manon e nel 1906 la figlia Daisy. 1907
Preso atto dell’impossibilità di proseguire in Germania la carriera accademica e spentosi quasi del tutto il fervore socialista, anche se risulta iscritto al partito fino al 1909, si trasferisce a Torino, dove il rapporto con Loria gli aprì nuove prospettive. Qui inizia a maturare il distacco dall’esperienza socialista, favorito dall’adesione alle teorie elitiste elaborate da Mosca e Pareto, nonché dall’avvicinamento all’economia storico-sociale di Sombart e alla sociologia weberiana.
1908-1913 Nel 1908 ottiene l’abilitazione all’insegna59
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mento dell’Economia Politica nell’Università di Torino. In questi anni si mette in luce come scienziato politico e sociologo e, nel 1913, è coptato nella condirezione dell’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik. Anche grazie al sostegno di Loria nel 1913 ha la chiamata a professore di Economia Politica nell’Università di Basilea. Michels pubblica nel 1911 Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens (La sociologia del partito politico nella democrazia moderna: studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici). Nel 1910 pubblica La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia: saggio sociologico. 1914
Pubblica Probleme der Sozialphilosophie, L’imperialismo italiano: studi politco-demografici e Amour et chasteté; essais sociologiques, una opera in cui è possibile ritrovare l’influenza del pensiero simmeliano.
1913-1928 Insegna Economia politica presso l’Università di Basilea. Nel periodo della prima guerra mondiale ha sostenuto le ragioni dell’intervento italiano contro l’Austria. Il 24 maggio 1915 invia agli amici, e a Gaetano Mosca, che all’epoca era membro del governo italiano in quanto sottosegretario alle Colonie nel ministero Salandra, una lettera circolare a stampa in cui ricordava il suo attaccamento speciale all’Italia, la richiesta di naturalizzazione av60
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viata nel 1913, la sua esclusiva attenzione alla causa irredentistica di Trento e Trieste fin dal 1902. Un patriottismo dimostrato anche con l’assunzione della responsabilità di presidente della sezione di Basilea della Società Dante Alighieri, e con la promozione di numerose iniziative culturali di sostegno alla causa italiana. Nel 1926 pubblica a Firenze Storia critica del movimento socialista italiano: dagli inizi fino al 1911 e, l’anno successivo, Corso di sociologia politica: lezioni tenute nel maggio 1926 per incarico della Facoltà di Scienze politiche della Regia Università di Roma. Nel 1927 è inviato dall’università di Chicago dove insegna Sociologia Politica e Economica. Nello stesso anno è Lecturer presso l’Institute of Politics del Williams College di Williamstown nel Massachusetts. 1928-1935 Dal giugno del 1928 inizia la sua attività accademica in Italia con il trasferimento all’Università degli Studi di Perugia e la nomina ad ordinario di Economia Generale e Corporativa. Si iscrive al Partito nazionale fascista e svolge una intensa attività di “ambasciatore culturale” in favore del regime all’estero. La sua adesione al fascismo si caratterizza attraverso una visione scientificamente disincantata e politicamente impegnata in un nazional-patriottismo, caratteristiche che possono essere lette nelle due opere di maggior respiro dedicate all’Italia fascista, Der Patriotismus. Prolegomena zu seiner soziologischen 61
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Analyse (1929) e Italien von heute. Politische und wirtschäftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930 (1930). Nell’ambito degli studi sulla sociologia del patriottismo, Michels enuncia una legge storica, la cosiddetta “legge della trasgressione”, che regolerebbe la condotta degli Stati e delle nazionalità nelle relazioni internazionali. Ricopre il ruolo di intellettuale organico dell’Italia fascista, e chiede più volte un trasferimento a Roma come storico delle dottrine economico-politiche. In questo periodo compie numerose missioni e tenne conferenze, tra l’altro, a Lipsia, Aquisgrana, Colonia, Parigi, Zurigo, Liegi, illustrando aspetti della storia e della cultura italiana. Si noti che Michels ha da sempre “un debole” per l’imperialismo italiano, un debole che lo traghetta verso l’approdo mussoliniano. All’inizio degli anni Trenta entra in polemica con Luigi Einaudi, soprattutto dopo la pubblicazione dell’opera Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche del 1932. L’economista torinese critica l’approccio dal punto di vista della storia specifica di quello che chiamava, riprendendo Pantaleoni, il “dogma economico”. Il nucleo delle obiezioni einaudiane a Michels si riassume nel dire che la storia delle dottrine economiche deve consistere in un approccio marshalliano e schumpeteriano delle sue dinamiche. Per Einaudi era inutile che una storia delle dottrine economiche si perdesse in esplicazioni di tipo storico-politico o ideologico. Quel che con62
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tava veramente erano invece le ricostruzioni storico-teoriche delle ipotesi astratte da cui la scienza economica deve dipendere. La direzione di Einaudi è quella della specializzazione dell’economia “pura”, un indirizzo che si conformava all’invito rivolto da Benedetto Croce, già in polemica con Vilfredo Pareto, agli economisti a “calcolare” e non perdersi in sociologismi “devianti”. Probabilmente la polemica si sviluppa in una situazione di imbarazzo poiché Michels ed Einaudi sono consuoceri a causa del matrimonio della figlia Manon con Mario Einaudi avvenuta nel 1933. Nello stesso anno Mario Einaudi rifiuta l’adesione al Partito nazionale fascista e emigra negli Stati Uniti con la moglie, Manon Michels. Nel 1936, subito dopo le sanzioni internazionali contro l’Italia a seguito dell’aggressione all’Etiopia, pubblica Le boycottage international: boycottage economique et crises politiques, boycottage et crises economiques. 1936
Durante una delle sue missioni all’estero è colpito a Bordeaux nel febbraio del 1936 da un grave attacco emorragico. Muore a Roma il 3 maggio del 1936.
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