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Italian Pages 100 Year 2017
Il libro
C
osa spinge un uomo a riempire uno zaino e percorrere a piedi quasi novecento chilometri da Milano a Roma? Sulle spalle l’essenziale, davanti nessun sentiero, nessun compagno, nessuna prenotazione, affidandosi all’antica leggerezza del viandante. Dopo anni di itinerari predefiniti, Riccardo Finelli ha deciso di uscire dalle strade battute e tracciare il proprio cammino, seguendo una via dimenticata: il corso dei fiumi, che un
tempo muovevano uomini, merci e mulini, e oggi scorrono pigri e abbandonati. Dal Naviglio Pavese al Tevere, passando per il Po, il Trebbia e l’Elsa riaffiora un’Italia di piccoli centri e borghi arroccati, malinconica, generosa e accogliente. Ne fanno parte Alessio, che tiene faticosamente in piedi l’oasi di Alviano; Lino, erede di una generazione di barcaioli che parla ancora la grammatica dell’acqua; o Francesca, che ogni giorno si muove sulle sponde che uniscono Lunigiana e Garfagnana. Ma un viaggio è fatto soprattutto di osservazione lenta e minuziosa, lunghi silenzi, sospensione di giudizio. In questo spazio di solitudine e libertà, emerge la vera vocazione del camminatore: non raggiungere la meta ma esplorare la strada, riscoprire località cancellate dalle mappe, prendersi il piacere di deviare verso la bellezza insospettata dell’ordinario. In questo libro, Finelli ci invita a seguirlo e a ritrovare quell’istinto vagabondo e transumante che per millenni ha accompagnato l’umanità.
L’autore RICCARDO FINELLI, giornalista e scrittore, esplora da dieci anni luoghi inediti e viaggi a passo lento. Per Sperling & Kupfer ha pubblicato Destinazione Santiago (2016). In precedenza erano usciti con Incontri Storie d’Italia (2007), C’è di mezzo il mare (2008) e 150 anni dopo (2010), e con Neo Edizioni Coi binari fra le nuvole (2012) e Appenninia (2014). www.riccardofinelli.it
Riccardo Finelli
IL CAMMINO DELL’ACQUA
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.sperling.it www.facebook.com/sperling.kupfer Il cammino dell’acqua di Riccardo Finelli Proprietà Letteraria Riservata © 2017 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. Realizzazione editoriale a cura di Studio Editoriale Littera. Ebook ISBN 9788820096731 COPERTINA || FOTO © GETTY IMAGES | ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: LAURA DE MEZZA
A mia moglie Vera e ai miei figli Alessandro, Cecilia e Federico
Una coppa di Terrano
SE mi trovo all’alba con uno zaino in spalla a camminare fra le strade di una Milano gocciolante, violentata dal rovinoso temporale della notte, penso non sia solo per semplice curiosità. Forse, piuttosto, per una sorta di terapia, perché non è vero che tutto ciò che è piazzato su questa Terra esiste: esiste solo se è miniaturizzato nella carta geografica personale che abbiamo ben stampata in testa. Quella che costruiamo con ciò che tocchiamo e annusiamo ogni giorno. Quella in cui le distanze non si misurano in chilometri, ma in ore di permanenza. Ho fatto per qualche anno il pendolare fra Roma e Milano e posso assicurare che i seicento metri fra la mia casa di viale Bligny e il parco Ravizza, dieci minuti a piedi, erano ben più lunghi dei cinquecentottanta chilometri tra i piazzali delle stazioni di Milano Centrale e Roma Termini. Perché fra casa mia e quel parchetto spelacchiato c’era l’umanità ciondolante in sosta permanente al bar Guizzo, c’era il fruttivendolo pakistano di via Salasco aperto fino a notte fonda, impegnato a smerciare ai connazionali tessere telefoniche e birre di oscure marche. E, immancabilmente, incontravo Rocco, un pensionato calabrese col parrucchino, capace di inchiodarmi per ore e raccontarmi improbabili avventure erotiche mercenarie. Insomma, un microcosmo pieno di vita. Nell’altro caso, Milano e Roma sono una gelatina. Un tutt’uno tenuto assieme dalle poltroncine in pelle di un treno ad alta velocità. Basta la pazienza di attendere immobili tre ore. Forse, superati i quaranta, ho preso coscienza della mia malattia. Quel virus, diffuso come l’influenza a gennaio, che rosicchia lentamente le mappe. Da anni passo le mie giornate su un mezzo di trasporto, uomo da stazione e da autostrada soprattutto: il non luogo per eccellenza. Cinquanta, sessanta, forse settantamila chilometri all’anno, lanciato a centocinquanta all’ora da un punto all’altro, come uno yo-yo che attacca con la colla luoghi lontani, annullando il concetto di progressione e sbiadendo, fino a cancellarlo, tutto ciò che sta in mezzo. Esistono forme di vita intelligente oltre il casello di Nogarole Rocca? Scendendo alla stazione ferroviaria di Montallese si entra in un buco nero e si schizza in un’altra dimensione spaziotemporale? Fra i puntini delle mie carte c’erano troppe aree fantasma, cancellate da quell’Alzheimer geografico capace di declassare ogni viaggio a mero trasporto. Così la cura me la sono prescritta da solo. Scarpette, zaino, e un’idea in tasca: da Milano a Roma a piedi. Per osare con le suole dove vola il Frecciarossa, per sondare, come in artroscopia, su che cosa poggiano i viadotti di un’autostrada. E a mano a mano che delineavo con fogli e matita quest’avventura, mi crogiolavo in un’idea di rivincita. La rivincita sulla banalità del più classico dei non viaggi. Quello che fai per lavoro, per una mostra da visitare in giornata, per una toccata e fuga da amici, con il biglietto di ritorno già prenotato. Un’ora in aereo, tre in treno, sei e mezzo in auto: in ogni caso uno spostamento da comprimere il più possibile e che difficilmente ammette fuori programma o smarrimenti. Un viaggio nel bel mezzo di un’Italia fantasma nelle mappe dei più. Una terra che non merita di essere percorsa, ma solo attraversata. Tanto che fra punto A e punto B non esistono cammini. Via Francigena, degli Dei, degli Abati, di Francesco, del Sale, niente di niente: avevo indagato a lungo, ma fra la prima e la seconda città d’Italia non esiste alcuna connessione lenta, né laica né religiosa. Neppure uno straccio di invenzione di marketing per nobilitare con qualche leggenda uno stradello di ghiaia. Che so, ci sarà pur stata qualche autorità politica o religiosa che nel 313 d.C. mosse da Roma per raggiungere Milano in occasione della firma dell’editto di Costantino. E non meritava una via, quel console o quel sacerdote? Evidentemente no. Fra le due città solo ferro, asfalto e reattori. Allora decisi di aprirmela io, la strada. Mi arrovellai cercando una connessione fra vie medievali e sentieri del CAI che potesse avere senso e fattibilità, senza trovare nulla. Finché un pomeriggio di luglio, sotto il pergolato di un’osmiza che sembrava planare come una mongolfiera sul golfo di Trieste, l’amica Giulia non mi diede l’idea. «Insegui terre invisibili? La tua strada ce l’hai già: i fiumi. Anche loro sono fantasmi, non trovi?» La guardai perplesso facendo ondeggiare una coppa di Terrano. «Un tempo i fiumi avevano magnetismo. Al fiume andavi a prendere acqua, lavare i panni, usavi la sua forza per mulini e manifatture.» Gli occhi le scintillavano più del solito. «E poi era luogo di giochi e scorribande, amori, battute di pesca e sollazzi. Al mio paese tutti avevano un buon motivo per scendere al fiume. E oggi? Al fiume non va più nessuno, a parte qualche pescatore.» Fu la scintilla. Al diavolo le mappe Kompass e Tabacco. Presi in mano il mio fidato atlante stradale Touring Club del 1987 e cominciai a segnarlo a matita. Perché alle volte un viaggio occorre sognarlo prima di programmarlo. Naviglio Pavese, un rettilineo verso Mezzogiorno fino alla confluenza col Ticino, appena sotto Pavia. Da lì verso sudest fino al Po e via lungo il grande fiume fino a poco prima di Piacenza, quando si aggancia il Trebbia. Febbricitante d’entusiasmo, muovevo ora la matita verso sudovest fino alla confluenza con l’Aveto e su fino al monte sacro ai liguri, quel Penna da cui sgorga il Taro. Poi giù fino a Borgotaro, per incrociare il Tarodine da risalire fino al passo del Brattello, da cui si discende con il Verdesina e il Verde fino a Pontremoli. Da lì il Magra e il Lucido, fino alla barriera delle Apuane, dove trovo il Serchio e poi il sistema di canali che servì a bonificare il lago di Bientina e a consentire l’alchimia di una foce a mare per il fiume che con le sue esondazioni fece impazzire almeno cinquanta generazioni di lucchesi. Quel filo sui fogli ingialliti mi portava in Arno e poi in Elsa, praticamente fino a Siena, per puntare a sud lungo l’Arbia e deviare a ovest con l’Orcia e il Paglia, fino alla confluenza di questo nel Tevere. E da lì, giù fino alla Città Eterna. Il tutto senza mai mollare, se non per brevissimi tratti, quei sottili fili azzurri. Come se, per davvero, Milano e Roma fossero unite da un unico grande fiume che attraversa lo Stivale.
Eccola la mia strada, avvincente come una via nuova da aprire sulla parte nord del Cerro Torre. La strada mia e di nessun altro. Un viaggio per terre immerse, seguendo acque dimenticate.
La grande pianura
ALLE sette e mezzo di domenica non c’è un cane in giro. Vado verso Porta Ticinese, l’antica Darsena, lo sbocco al mare meneghino che per secoli riuscì nell’alchimia di rendere Milano una città d’acqua, con un porto arrivato a essere, negli anni Cinquanta, il tredicesimo in Italia per tonnellaggio in ingresso. Una vocazione industriale fagocitata dalla movida sui barconi e dai bar fighetti già aperti per le colazioni che parlano lo slang del brunch e dell’apericena, senza una parola italiana nei menù. Per esempio, che cosa mi troverei davanti se ordinassi un (o una?) layer cake? Che cosa potrei mai aspettarmi da un open sandwich? Avanzo verso il punto di partenza del mio viaggio, attraversando l’acustica di una città che non ne vuole sapere di scrollarsi di dosso la notte e i suoi lampi: il ciaf ciaf delle mie suole nelle pozzanghere, il vorticare monotono delle spazzatrici AMSA, il sibilo leggero delle porte dei tram che precede la gentilezza metallica di una voce marziana: «Prossima fermata Gorizia». Un popolo assonnato muove le chiappe e sale in silenzio con gesti da automa. E di certo se ne frega del Trofeo Fuentes, il punto X in cui tarare la bussola verso Roma. La sorgente del grande fiume verso la capitale. Adesso sul ponte di viale Gorizia che scavalca l’incile, l’origine, del Naviglio Pavese, una bellezza mediorientale ammicca inguainata in lingerie di gran marca. Ma nello stesso punto, fino a un secolo e mezzo fa campeggiava una sorta di edicola votiva alta almeno dieci metri, piazzata nel 1601 a celebrare un’opera incompiuta. Don Pedro Enríquez de Acevedo, conte di Fuentes e governatore di Milano per conto del re di Spagna, dopo lo scavo di appena un paio di miglia di naviglio in direzione Pavia, ritenne fosse già il momento di celebrare il compimento dell’opera con un manufatto monumentale su cui incidere ben chiaro come quel canale avesse reso «le terre agricole feconde e i commerci sicuri e facili, aumentando le ricchezze sia private che pubbliche», come si legge anche sul bel blog di storia locale di Mauro Colombo «Milano nei secoli». Invece, appena nel 1610, i lavori si arenarono e per portare a compimento l’opera immaginata da Francesco Sforza già a metà del Quattrocento – dopo i secolari tentennamenti spagnoli prima e austriaci poi –, ci volle la risolutezza napoleonica. L’ultimo tratto, però, lo completarono gli austriaci, che tolsero i sigilli al Naviglio Pavese il 16 agosto 1819, quasi quattrocento anni dopo il miraggio degli Sforza. Così quel monumento borioso, grondante di pomposità barocca, rimase sul ponte fino alla seconda metà dell’Ottocento a testimoniare sì la vanità e l’imprudenza umana, ma anche il mito della navigazione interna, il miraggio di unire con un cordone d’acqua genti lontane. Aggiusto le cinture dello zaino, sistemo i lacci delle scarpe e decido, tirando la moneta, che terrò la sponda destra del canale, ridotto a un acquitrino dal proliferare iperbolico di alghe. Si parte. Davanti a me il rettilineo si addentra a meridione nel grigiore delle schiere di palazzoni anneriti dallo smog. Sono le ringhiere cubiche dei terrazzini, ripetitive come un canone gregoriano, a dare alla tristezza dignità geometrica. Ma ho altro a cui pensare. Da nord tornano ad addensarsi nubi gonfie di pioggia, pronte a scaraventare a terra un’altra razione d’acqua. Arrivo di buon passo alla Conca Fallata, uno dei tanti salti altimetrici artificiali del canale a servizio di un piccolo bacino che, riempiendosi d’acqua, consentiva alle chiatte di risalire il fiume. Ma non è una conca come le altre. È il punto esatto in cui si infransero le ambizioni di Fuentes. Arrivarono fino a qui, infatti, i lavori del governatore spagnolo prima dell’oblio secolare. Proprio da questa inutilità discese il nome di Fallata, che mantenne anche quando, con l’effettiva apertura del Naviglio, divenne il punto di alimentazione di turbine e ruote dentate della colossale cartiera Binda. Le acque verdognole sbucano verso Rozzano da una volta a ogiva, lasciando, oltre le griglie, sacchi d’immondizia galleggianti. È fra i centri commerciali di Assago, sulla ciclabile che abbandona la metropoli, che il cielo scaraventa la sua potenza sulla pianura. Bastano un paio di tuoni per dare inizio a un’inondazione che mi annichilisce. Nello zaino ho un ombrello, è vero. Ma mi assale l’assurda convinzione che se mi fermassi per estrarre quell’arnese da sotto alcuni strati di vestiti, mi bagnerei ancora di più. Allora, dopo aver ricoperto lo zaino con la guaina impermeabile, comincio a correre all’impazzata verso il cavalcavia della tangenziale ovest, distante alcune centinaia di metri. Ovviamente è una pessima idea perché dopo pochi passi sono già fradicio. L’acqua, che scorre a rivoli su maglietta e calzoncini, s’infila lungo la schiena gocciolando fino agli slip. Dopo neanche due ore di cammino mi sembra già di aver toccato il fondo. Quando, finalmente, trovo riparo sotto il viadotto della cinta muraria della metropoli, mi piego con le mani appoggiate alle ginocchia ansimante e ho la stessa sensazione di chi ha appena attraversato il muro d’acqua di una cascata. Rimango a occhi chiusi per un tempo indefinito, nel frastuono del diluvio e dello stradone, con i vestiti tutt’uno con la pelle, bagnato fin dentro le ossa. Ma finalmente sotto un tetto. Mi raddrizzo con un respiro profondo, apro gli occhi e mi trovo davanti una signora minuta e legnosa, avvolta in un impermeabile color crema. In una mano l’ombrello, nell’altra il guinzaglio di un barboncino spaesato, con ogni probabilità più abituato ai salotti che alle asprezze di un cavalcavia autostradale. «Ma non ha un ombrello?» mi chiede con tono più vicino al rimprovero che alla curiosità. «Ce l’avrei, ma è nello zaino», rispondo distratto. «E non lo tira fuori con una pioggia così?» «È che pioveva troppo forte, quindi…»
«Appunto. Forse avrebbe dovuto farlo, guardi come si è ridotto!» Lo so che non vincerò mai il campionato del mondo delle risposte esaurienti, però anche lei, signora, che bisogno ha di mettermi in croce sotto questo diluvio? «Che cosa ci vuole fare, signora… Però ho un cambio con me.» «Lo spero bene. Ma dove sta andando?» «A Roma.» «Eh? Fino a Roma a piedi?» Strizza gli occhi, come per essere sicura di aver capito bene. «Proprio così, voglio seguire i fiumi.» «I fiumi… ma si riesce a camminare lungo le sponde?» «Lo scoprirò, ma ho studiato bene il percorso, non è impossibile.» «Io dico che non ce la fa», sogghigna lieve. «Alla fine vedrà che prenderà qualche corriera, glielo dico io.» Quel «glielo dico io» me la spedisce diretta nell’universo degli antipatici. «E perché non ce la dovrei fare? Lei ha esperienza di cammino, signora?» «Nooo, figurarsi, è solo che pensavo…» «Signora, mi deve scusare un attimo. Davvero non ce la faccio più.» «Perché?» Lascio cadere a terra lo zaino, mi sposto di qualche metro verso la macchia di cespugli addossati al cemento armato e, a occhi socchiusi, aggiungo la mia acqua a quella di Dio. Quando ritorno la tizia è ancora lì, adornata da una smorfia di disgusto e stupore che pare aver contagiato anche il soprammobile domestico attaccato al guinzaglio. «Mi dispiace, davvero non riuscivo a resistere… Sarà stata la corsa…» «La strada abbrutisce, non c’è dubbio», risponde lei acida. Allargo le braccia e non replico oltre. Smanetto qualche minuto sul cellulare finché la pioggia finalmente rallenta e ognuno può andare per la propria strada. Ma un dubbio amletico mi arrovella: cambiarmi o non cambiarmi? Nello zaino ho una tenuta completa: calzoncini, maglietta, calze e mutande, completamente asciutti grazie al telo impermeabile con cui ho coperto il bagaglio. Ma il cielo, nonostante la pioggia ormai quasi cessata, continua a mostrare intenzioni bellicose. E se mi dovessi bagnare anche il cambio, allora sì che sarei fritto. Alla fine decido di non sfidare la sorte e mi tengo addosso i vestiti bagnati. Poi si vedrà. Supero la vecchia filanda di Rozzano, imponente e derelitta al tempo stesso, così come lo è la meccanica pre-motoristica della conca adiacente, con i suoi marchingegni anneriti fatti di paratie, perni, ruote dentate e cinghie. Una meccanica che ti rispedisce direttamente nell’Ottocento. Così come i mattoni bordeaux dei colossali Molini Certosa. Anche loro con le fondamenta ben piantate nell’acqua ottocentesca del Naviglio che tutto muoveva, ma, a differenza della filanda, ancora in piena attività. È sotto questa fortezza a sei piani, seminascosto da una piccola macchia di ontani e acacie, che mi tolgo finalmente gli abiti umidi, dopo che fra le nuvole color piombo si è aperto uno spiraglio e la temperatura ha iniziato a salire velocemente. Tanto che dopo un paio di gelati e una Coca-Cola ghiacciata in un bar di Borgarello, il problema è affrontare la marcia sotto un sole violento su una ciclabile priva di qualsiasi ombra. Un rettilineo infinito che continua a costeggiare il Naviglio, acceso a tratti da lampi di luce che rendono psichedelico il verde marcescente delle sue acque. A fissare questa retta ubriacante, pare che Roma possa essere già oltre la linea dell’orizzonte, in un altrove che sublima il viaggio. E invece c’è Pavia con il suo groviglio di svincoli a interrompere bruscamente la campagna padana. Ma il canale e la sua fedele ciclabile si infilano come serpenti sotto rotatorie e viadotti, senza rinunciare alle geometrie rettilinee puntellate di platani di una via d’acqua concepita a tavolino per essere navigabile. Ma di quella vocazione mercantile, anche a Pavia rimane poco o niente. Come la conca di piazza Morosi, un relitto arrugginito, una stazione di posta da cui non passeranno mai più cavalli. Dove, appiccicando il naso ai vetri polverosi della cabina di controllo, posso ancora emozionarmi osservando i comandi di azionamento delle vecchie pompe, coperti da calcinacci e cacche di piccione. I resti di uno dei tredici ascensori che consentivano a chiatte e barconi di salire da Pavia a Milano. È questa la piccola porzione di un sistema di navigazione interna potente e suggestivo, motore per secoli dell’economia padana. Un sistema di canali che permise di trasportare, per esempio, il marmo di Candoglia dalla Val d’Ossola nel cuore di Milano, per innalzare il Duomo. Passava da questi pulsanti enormi come mani, dalle leve di comando dei motori allineati in batteria, dal rumore assordante delle turbine negli involucri di ghisa, il traffico delle merci fra il Po e Milano. E passava soprattutto da uomini, tanti uomini, incaricati di governare i flussi e i livelli delle acque: un’élite di casellanti, demiurghi dell’acqua addomesticata ai bisogni umani. Non parliamo di un’era geologica fa. Ancora negli anni Cinquanta il Naviglio era infatti navigabile. Certo un altro mondo, buono per libri di ricordi, anche se l’idea di portare turisti a spasso per la Pianura Padana da Venezia a Milano e, perché no, fino al Lago Maggiore, continua ad affascinare più di un romantico. Ma servono soldi e volontà: la solita storia. Così il Naviglio Pavese per il momento rimane questo corso d’acqua smagrito che mi trovo a costeggiare. «E per fortuna che Milano ha i depuratori, adesso», esclama un pescatore con un volto tormentato alla Van Gogh, intento a confezionare un’esca con gesti da orefice. «Qui fino a quindici anni fa, mica cento, non potevi neppure immergere un dito. Adesso, non sarà granché, ma almeno carpe e cavedani sono tornati.» Ne hanno fatte tante, troppe ai fiumi, in Lombardia e non solo. Come una città di oltre un milione di abitanti che fino al 2003 ha prosperato senza avere un solo depuratore, gettando merda e pesticidi nei fiumi e nei canali che orlano la grande pianura. Sarà forse
per questo che Van Gogh continua a ripetermi che il Naviglio Pavese è «l’acqua dei poveretti», mentre armeggia con l’amo. Perché nonostante adesso certi miasmi non si sentano più, l’idea di farsi anche solo una corsetta su quella che fu una fogna non piace a molti. Solo a chi non ha alternative. Poi, forse ci si scoraggia pure quando, nei decenni, i progetti di riqualificazione del sistema dei navigli lombardi si accumulano e si impolverano senza vedere attuazione. Il Corriere della Sera qualche anno fa si divertì a contarli, spulciando nei propri archivi. Ne vennero fuori trentadue, tutti sostanzialmente incompiuti, fatta eccezione per la risistemazione della Darsena di Porta Ticinese in occasione di Expo. Ma l’acqua è irriducibile e anarchica. Forza viva a se stante. Ecco allora che quando salgo sul ponte metallico dell’ultima conca prima dell’immissione nel Ticino, fra i condomini che si allungano sui campi lungo viale Venezia, il Naviglio, imbrigliato nello stretto passaggio fra i blocchi di arenaria e le chiuse sfondate, urla improvvisamente la sua potenza. L’addomesticato animale padano, preso a calci dall’incuria e dalle amnesie umane, per un attimo si fa impetuoso. Si infrange contro le barriere, ulula e si attorciglia, correndo ad abbracciare l’imprevedibilità del suo grande padre fluviale. È un rito di iniziazione. Ballonzolo sui piedi a occhi chiusi, certo di essere scambiato per un dissociato, e alzo le braccia al cielo invocando la benevolenza di Alfeo, Poseidone e dei lari naviganti dispersi nelle nebbie della memoria padana. Oltre la conca, dove il Naviglio si allarga fra i salici, uno stormo di germani sbuca dalla vegetazione e si alza in volo come una squadriglia in missione di guerra. È segno di andare. Sullo sterrato che attraversa boscaglie di pioppi e campi incolti, mi addentro nell’isola Caroliana, terra in bilico sulle acque. Fino agli sgoccioli dell’Ottocento si trattava di una vera e propria isola abbracciata da due profonde anse del fiume, che poi si è raddrizzato adagiando «sulla terraferma» questa fragile terra di cascine, una sorta di cortile di casa per le piene del Ticino. Una terra fertile, su cui generazioni di contadini hanno combattuto contro le piene sapendo che tanta fatica aveva comunque un senso. Come racconta la targa sul ponte che scavalca il torrente Vernavola, alla quale il politico e filantropo Bernardo Arnaboldi affida il compito di tramandare ai posteri la gloria dell’opera, capace di chiudere IL CICLO DI PATITI FLAGELLI DELLA COSTA CAROLIANA . «Ma da tempo nessuno lotta più», mi assicura Gildo, un vecchio in canottiera uscito da una casa vicina per dare una controllata al livello del Ticino, che, da che mondo è mondo, sulla Costa è sempre uscito. «La maggior parte delle cascine qua intorno è crollata o è abbandonata. Qualche abitazione, fra il Vernavola e il Ticino, c’è ancora. Erano seconde case di gente di Milano, ma a forza di piene e di fango da spalare le hanno vendute. Adesso gli unici che sono disposti a stare sul fiume sono i rumeni e i libanesi. Da queste parti è pieno soprattutto di rumeni.» E con l’indice punta a un caseggiato infossato verso il letto del fiume oltre una cortina di pioppi. «Lì, per esempio, non so in quanti ci vivono, ma sono tanti…» «Tu sul fiume ci abiti, però…» Un sorriso malinconico gli attraversa il viso ovale. «Io ci sono rimasto, è diverso. Mi pare di non averlo mai scelto davvero, ma la vita non è facile da instradare come vorresti e a ottant’anni mi sono trovato qua. Quelli invece ci sono venuti.» E aggrottando le sopracciglia, indica ancora col capo la casa dei rumeni. «E coltivano?» «Ma che coltivano!» s’inalbera. «È che qui possono far disastri senza che nessuno li controlli. Vieni con me, ti faccio vedere una cosa.» Ci avviamo verso il piccolo borgo e ci fermiamo al cancello sbilenco che si affaccia sul cortile, completamente sommerso da macerie e ferraglie: vecchie reti, mobilio ammaccato, tubolari, infissi ed elettrodomestici ammassati fra pietre e calcinacci che si estendono per decine di metri quasi fino al letto del fiume. «Stanno qua perché possono usare come discarica questo posto», dice allargando le braccia. «Svuotano cantine, fanno lavori edili e poi ammucchiano tutto qua. Quasi mai portano via la roba, fanno disastri, fanno…» Il vero disastro, penso io quando mi incammino per qualche chilometro sulla provinciale che mi porta verso il Po, è osservare lo strazio delle decine di cascinali scarnificati in questa piana che era granaio e stalla d’Italia. Tre, quattro, cinque caseggiati completamente abbandonati nel raggio di qualche chilometro quadrato: niente di nuovo, per carità, solo la plastica evidenza di come ognuno di questi sia un non luogo, un buco nero che attrae disperati e tristezza. Avere abbandonato anche qui, nei cilindri della locomotiva economica del Paese, il presidio dei luoghi: questo è il disastro della campagna padana. Una campagna che, a un certo punto, converge a imbuto sul ponte della Becca, una gabbia da circo gettata sulla confluenza tra il Ticino e il Po. Farselo a piedi è un supplizio, con le auto che corrono nello stretto pertugio privo di passaggio pedonale. Eppure, anche con i tir che sfrecciano a un centimetro dallo zaino, è impossibile non fermarsi imbambolati su questa distesa d’acqua. Verso occidente, le spianate dei due corsi baluginano al sole obliquo delle otto di sera e sembrano scorrere parallele come due rette, poi, girando la testa a oriente, l’illusione ottica si dissolve e i due serpenti si congiungono affilando come un fuso la lingua di rena che li separa. È acqua su acqua, acqua dentro l’acqua. Acqua senza tempo e senza spazio che si fa oceano, spinta dalla forza invisibile della grande pianura. Sotto i miei piedi potrebbe esserci qualunque cosa: dal Mississippi al Rio delle Amazzoni. Le automobili fanno vibrare il ponte a ogni passaggio. Ma io rimango impassibile a farmi trapassare dallo scirocco su quel monolite liquido, ora più che mai punto di cucitura piuttosto che di confine fra la Padania e i contrafforti arrotondati dell’Oltrepò. Dopo appena un giorno di cammino sono già su uno spartiacque. Aspetto che il sole si cali nell’acqua, poi alzo i tacchi e cerco un tetto sotto cui dormire.
La voce del fiume
ME lo ripeto mille volte: «Rick, non hai nulla da temere, non corri nessun pericolo». Un canone che si ripete ogni tre passi. Un mantra a scandire l’andatura. E sono senz’altro la suggestione, le ombre fugaci e sinistre fra gli alberi, i fruscii alle mie spalle e l’odore di putrefazione che ogni tanto mi assale. «Nulla da temere», continuo all’infinito. Però ti ci devi trovare a camminare da solo fra gli alberi della Bassa della Reculata in quell’ora incerta in cui luce e tenebra si equivalgono, confondendo ogni cosa in una melassa bluastra. La lunga tappa di oggi imponeva una partenza antelucana. Così alle sei del mattino avevo già raccattato le mie poche cose, appeso allo zaino con spille da balia la biancheria che avevo lavato ieri sera e mi ero rimesso in viaggio. Ora attorno a me, sullo sterrato che costeggia il fluire sordo del Po, ho solo filari di pioppi, oltre i quali, verso oriente, sale una luce giallognola che li fa assomigliare a spiriti riuniti a consesso. Nel buio arrivano latrati di cani che si levano verso una luna ramata, enorme gettone del telefono infilato fra le fessure di nuvole striate. Avanzo a passo svelto cercando di evitare le tante pozze sul sentiero, finché lo schioccare secco di un ramo spezzato mi paralizza. Nel pioppeto c’è qualcuno. L’istinto è quello di darmela a gambe, poi penso che anch’io, girando da solo in un bosco a quest’ora, potrei avere un’aria minacciosa. Così accetto la sfida con l’ignoto e avanzo verso i rumori. A mano a mano che mi avvicino si fanno più forti i fruscii e le voci dall’accento balcanico. C’è anche una donna e questo mi infonde una certa sicurezza. Scavalco un enorme tronco caduto e mi trovo in una radura. Sotto un salice è appoggiata una vecchia roulotte con le finestre coperte da pannelli di compensato. Poco lontano c’è un piccolo fuoristrada con le portiere aperte. Fra gli alberi si aggirano tre figure: due donne e un uomo intenti a raccogliere legna. «Buongiorno», grido. L’uomo alza la testa e risponde con un cenno della mano. Mi avvicino e proprio in quel momento un altro uomo rimuove il compensato e si affaccia alla finestra della roulotte. «Che cosa vuoi?» chiede a muso duro. «Nulla. Ero solo curioso di vedere chi è in giro a quest’ora del mattino, oltre a me. Abitate in questa roulotte?» Ha la testa grande come una zucca, i capelli rasati a zero e gli occhi scavati. Decisamente non una grande bellezza. «No.» Poi continua a fissarmi senza aggiungere una parola. «È mio cognato, lascialo perdere, è fatto così… veniamo qua ogni tanto a fare legna.» L’altro uomo, abbigliato come un paramilitare serbo, si avvicina reggendo una fascina di rami. «Fra poco andiamo a lavorare. Ho lasciato i miei figli soli a casa e presto si sveglieranno…» «Quindi non abitate nella roulotte…» «No, qualcuno l’ha abbandonata anni fa. Però ogni volta che veniamo qua la usiamo. Siamo gli unici, credo…» Le donne, mute, si danno da fare a sistemare le fascine nel bagagliaio, impilandole fino a stiparlo. «Ma non avete gas a casa?» Mi fa una specie di sorriso di compatimento. «Ce lo abbiamo, ma hai presente quanto costa? Ce l’hanno già staccato una volta e ho dovuto dare cento euro per riaverlo. E così ora lo usiamo solo per cucinare. L’acqua per la doccia la scaldiamo con una caldaia a legna. L’ho montata io.» «Ma si può prendere legna qua?» «Non lo so. Comunque qui veniamo solo noi a far grigliate e raccogliere un po’ di legna. Ogni tanto passa qualche cacciatore e basta. La terra è di chi ci sta e qua ci stiamo solo noi.» Poi, senza salutarmi, va anche lui a caricare il fuoristrada. Immobile, l’uomo con la testa a zucca è sempre affacciato alla roulotte e con i suoi occhi stralunati mi segue mentre riprendo la strada. Fa un ghigno e torna dentro. Il cielo finalmente si rischiara, ma è un fuoco fatuo, perché atterrano sul fiume nubi che soffocano l’alba e si impastano in una coltre grigia che confonde le prospettive. Alla mia sinistra non ho più la corrente potente del padre delle acque, ma un oceano senza fine, forse l’Acheronte, un nulla biancastro indistinto. Rimango qualche minuto a inspirare quell’aria stopposa, finché una figura non si vaporizza lentamente davanti a me, emergendo dal muro fosco che mi trovo davanti. «Si vuole buttare?» L’uomo se ne sta in piedi su una minuscola imbarcazione, trascinata dalla corrente, e si avvicina a riva maneggiando con flemma un remo. Probabilmente sta urlando, ma la nebbia attutisce ogni fiato. «È per caso Caronte?» scherzo io. «Guardi che preferirei rimandare l’appuntamento di qualche anno…» «No, sono solo un pescatore», ribatte con voce squillante. Mi si para davanti rimanendo sulla barchetta. Sotto il cappello a falda larga spuntano un naso aguzzo e il volto di un ragazzo. «Mi chiamo Gianluca.» «Ma che soddisfazione c’è a pescare con tutta questa nebbia?»
«È questione di mezz’ora al massimo, poi si dissolve tutto. Fa sempre così qua, anche in piena estate. Comunque io non vengo al fiume per i pesci.» «E per che cosa, allora?» «Al mattino presto, soprattutto, vengo per ascoltarlo.» Rimango in silenzio un attimo e poi azzardo: «Certo, il rumore della corrente». Con un salto è sulla riva. Fissa la barchetta a un cespuglio e scuotendo la testa mi viene accanto sul piccolo terrapieno. «Non è quello. Prova a chiudere gli occhi.» Uno, cinque, venti, trenta secondi. «Lo senti?» Lo sento, certo che lo sento. All’improvviso realizzo che il mormorio baritonale della corrente non è musica, ma solo il pentagramma. C’è un messaggio in codice in quel fluire magmatico, un gorgoglio lento fatto da bolle che risalgono dal fondo e si schiudono in superficie come campanule. L’acqua ne riverbera il suono, generando endecasillabi liquidi, quasi sempre diversi gli uni dagli altri. Il fiume parla! «Lo sento, sì, adesso lo sento.» Sorrido da solo e, sempre a occhi chiusi, mi lascio raccontare storie in rima. «Venivo a pescare con mio fratello. È stato lui a insegnarmi a usare la canna e ad ascoltare il fiume. All’inizio ero convinto fossero i pesci a creare quel suono, invece è il letto del fiume che respira… Aveva dieci anni più di me.» Gianluca non mi guarda negli occhi, continua a fissare un punto indefinito, verso l’altra sponda, affogata nella nebbia. «Ne parli al passato. Non è più qui?» «Non più», mi risponde. «Se n’è andato la vigilia di Natale dell’anno scorso: un brutto male. Quando parlo col fiume, in realtà, mi sembra di parlare con lui. Anzi, sono sicuro, è lui a parlarmi.» La nebbia si alza velocemente come si era posata, spazzata via dai rintocchi secchi delle campane della chiesetta di San Giacomo della Cerreta, minuscola frazione di Belgioioso, giusto sull’altra sponda. L’alba riprende il suo posto in un attimo. «È ora che mi metta a macinare un po’ di strada», esclamo sistemando le cinghie dello zaino. Gianluca tira su col naso, mi accarezza la spalla e salta sulla barca. «A occhi chiusi, mi raccomando. Ascoltalo sempre a occhi chiusi», mi grida allontanandosi verso il centro della corrente. Seguo la pista che si discosta dall’acqua e guadagna l’argine, costeggiando una vasta golena che racchiude campi coltivati a erba medica e pomodori, ancora grondanti dopo l’acquazzone di ieri. Il sole fa scintillare ogni singola molecola d’acqua, rendendo elettrico il verde dei poderi. Cammino per chilometri sui bastioni di un mondo immaginario, sul quale il grande fiume pare galleggiare.
L’uomo con il barchino
NON abita gente simpatica a Portalbera, quattro case addossate all’argine maestro del Po, tre chilometri a nord di Stradella, in cui mi addentro cercando un bar per fare colazione. Sarà che alle sette e mezzo del mattino la diffidenza verso un viandante è tanta. Sarà che il grigiore di case derelitte, con muri mangiati dall’umidità, non infonde allegria. Sarà quel che sarà, ma quando chiedo indicazioni a un tizio appena uscito di casa col cane al guinzaglio l’animale comincia a ringhiarmi contro spiritato. E questo tizio, anziché calmarlo, se la prende con me. «La prego, se ne vada altrimenti si svegliano tutti!» Come se il fatto che lui abbia un cane stronzo fosse colpa mia. E un attimo dopo, una donna intenta a sfaccendare in un bar mi chiude la porta in faccia senza neppure lasciarmi il tempo di chiedere a che ora avrebbero aperto. Le urlo dietro qualcosa, ma lei fa finta di non sentire e torna al bancone. Forse, il vero problema è che il viandante intimorisce. In un’era in cui è normale spostarsi da un posto all’altro nel modo più efficiente e veloce possibile, chi cammina a piedi è un portatore di diversità. Un inspiegabile originalone, per non dire un picchiatello. Se marcia lungo percorsi notoriamente battuti da pedoni, come un cammino penitenziale, un sentiero alpino o un argine, la cosa si può ancora tollerare. Ma se ha l’ardire di presentarsi sull’asfalto della periferia padana, per giunta all’alba, significa che qualche rotella fuori posto ce l’ha. Chi va a piedi? Qualche venditore ambulante, testimoni di Geova, mendicanti senza radici, non i viaggiatori. Così il primo vero sorriso della giornata me lo fa Angelo. Un uomo minuto, sulla settantina e con gli occhiali rotondi, intento a sistemare robaccia da cantina nel cortile della sua abitazione. Qualche minuto prima avevo fiutato l’affare: una mano al canuto signore in cambio di un caffè. «Sono fatti così, lo so», mi fa lui soffocando le parole, mentre trasciniamo un grande tino. «È gente dura e individualista. Ci vuole pazienza.» «Tu non sei di Portalbera, allora.» «Sono di Stradella, a qualche chilometro da qua. Ma ho sempre vissuto il fiume fin da bambino. Per anni, da Stradella venivo a Portalbera tutti i giorni, con una bicicletta scassata, a cui mancava un pedale. Eravamo talmente in miseria che non ho mai potuto farla aggiustare.» «Ma Stradella è qua dietro…» «Sì, ma volevo stare proprio sul fiume, ho bisogno di vederlo anche più volte al giorno. E poi qua le case costano poco, non ci vuole venire nessuno. Così ho potuto comprarmi una casetta mia, a Stradella non me la sarei potuta permettere.» Dopo i tini tocca a una vecchia rete da letto. E poi a una scaffalatura che dal primo piano deve scendere in cantina. Comincio a pensare di avere fatto un’enorme sciocchezza a offrire quello scambio. «Insomma non ti hanno accolto a braccia aperte…» «Certamente no. Sono di Stradella, resterò un forestiero a vita. E poi questi pensano sempre al proprio tornaconto.» «Che cosa ci fai qua da trent’anni, allora?» gli chiedo mentre, uno dopo l’altro, iniziamo a portare giù i blocchi di una libreria. «Il richiamo del fiume, caro mio, è più forte di tutto, funziona un po’ come il mal d’Africa. E poi, del resto, bisogna anche capirla, questa gente. Certe cose ti segnano per sempre.» «A che cosa ti riferisci?» «Alla fatica, soprattutto. Qui hanno sempre fatto lavori duri, come i cavatori di sabbia. Era micidiale. Ero un bambino, ma lo ricordo bene: si usavano barconi con pale gigantesche che lavoravano facendo leva sul fondo dell’imbarcazione. Già tirare su la sabbia dal letto del fiume era massacrante. Poi tutta quella rena andava portata a riva e scarriolata via. In tanti ci hanno fatto i soldi con sabbia e ghiaia, ma quelle fatiche ti rimangono dentro. Come ti rimane dentro la consapevolezza di essere considerato il fondo del fondo della pianura.» Sistema l’ultima cassa in cantina e mi chiede di seguirlo in strada. Fa qualche passo e si ferma davanti a una casa semidiroccata, dove resiste, sbiadita, la scritta VIVA I PATRIOTI DELLA BRIGATA GRAMIGNA . Sulla parete stanno allineate le targhette del livello raggiunto dall’acqua in paese durante le piene più rovinose. Circa un metro e mezzo nel 1926, due nel 1951 e oltre i due e mezzo il 7 novembre 1994, durante l’ultima grande alluvione. «Dopo la piena del 1994 costruirono l’argine, ma fino a quel momento Portalbera, assieme a San Cipriano e Arena Po, era considerato un posto in cui era normale che il fiume si dovesse sfogare, per non creare problemi più seri a valle. E qui c’era gente semplice, abituata a lavorare sodo e tacere, che non ha mai alzato la testa. Ma questa condizione, però, ti forgia in qualche modo il carattere: diventi individualista per forza.» Nel suo semplice tinello da cui si intravedono i pioppeti che bordano la grande acqua, davanti a una moka che gorgoglia, Angelo mi racconta di come la costruzione dell’argine non abbia modificato solo il paesaggio, ma anche la coscienza della gente. «Intendiamoci: è un gran bene non essere più così esposti alle inondazioni», spiega appoggiando due bicchieri di vetro sulla tovaglia cerata a quadretti. «Però da quel momento il fiume ci è diventato estraneo. Già da anni non si pescava più con i tramagli, non si fabbricavano i pali per le viti col legno di pioppo, non si intrecciavano le ceste per raccogliere l’uva con gli arbusti di sgasia. E
poco dopo fu anche proibita l’estrazione della ghiaia. Ma il fiume era ancora considerato e temuto: una presenza viva, perché rappresentava un pericolo.» Apre un tubetto di Ringo e li depone con cura a cerchio su un piattino a fiori fucsia. Poi, con perizia, fa scivolare il caffè alternando ripetutamente il flusso nei due bicchieri, in modo da ottenere due livelli perfettamente identici. «Prima il Po era utile e pericoloso», prosegue. «Poi è diventato solo pericoloso. Adesso nemmeno quello e la gente se l’è dimenticato. Al fiume nessuno va più, ormai. Per darti un’idea, fino a qualche anno fa ogni famiglia aveva un barchino in giardino: buono per pescare e per muoversi in caso di piene. Oggi sono rimasto solo io.» Con l’indice tormenta i granelli di zucchero caduti sulla tovaglia e guarda oltre la finestra verso il grande fiume. «Ma scusa, Angelo», gli dico fra il serio e il faceto, «adesso che hanno fatto l’argine, non c’è più bisogno del barchino. Anzi, forse dovresti venderlo anche tu… Che cosa te ne fai, ormai?» «L’argine ci dà sicurezza, ma non dobbiamo credere di essere diventati invulnerabili e poi…» ribatte mescolando il caffè, «io lo uso soprattutto per fare birdwatching.» Mi lascio alle spalle Portalbera e le sue tristezze, con il sole ormai alto, costeggiando una specie di quartiere residenziale fatto di seconde case su barconi, che dondolano lievi sotto i pioppi, coccolati dalla corrente dell’acqua madre. La regola autoimposta di costeggiare i fiumi il più vicino possibile al letto un perché ce l’ha. Risponde alla necessità di verificare in primo luogo la loro effettiva esistenza. Perché per me è un godimento riuscire a toccare con mano un luogo che non solo gli uomini non praticano più, ma hanno addirittura cancellato dalla produzione culturale, almeno di massa. Qualche bel libro c’è ancora, d’accordo: Fiumi di Ettore Mo, Morimondo – lo straordinario viaggio sul Po – di Paolo Rumiz, Danubio di Claudio Magris. E poi i racconti di Gianni Celati e di altri. Certo. Ma qual è stato il momento esatto in cui i fiumi hanno cessato di raccontare? Che cosa è tornato ad appassionarci come Twain, Conrad o Jerome? Dove sono il tesoro e l’isolotto sul Mississippi di Tom Sawyer e Huckleberry Finn? Le avventure sconquassate di tre amici in barca sul Tamigi, il fiume di Marlow, che si addentra nella foresta nera africana, con le sue mitologie cannibalesche? Dov’è il Po di Peppone e don Camillo? Così ho deciso di consolarmi accarezzandoli, togliendomi la soddisfazione di toccare con mano quello che la coscienza ha dimenticato. Una scelta lieve di cuore, ma impegnativa, visto che mi impone di seguire argini e piste, dove esistono, e assecondare i capricci delle anse. Oggi attraverso di nuovo il fiume a Spessa Po, per percorrerlo sulla sponda sinistra, dove i sentieri passano ben più vicini all’acqua. Almeno stando alla app che in due giorni di cammino è già diventata una sorta di mai-più-senza: MyTrails. «Duecento euro di mappe? Solo un cretino può pensare di fare un viaggio così cercando i sentieri sulle mappe! E spendendo tutti quei soldi, per giunta!» Il bello del mio amico Gabriele è che le cose non te le manda a dire. E mi rise in faccia quando provai a opporgli il fascino del dispiegare su muretti a secco quei lenzuoli parlanti di luoghi e immaginazione, martoriati da settimane di appunti, frecce colorate, calchi a matita, scarabocchi e cerchietti su microscopiche borgate. «Tutte stronzate», tagliò corto. «Va bene il viaggio lento, vanno bene i fiumi e i luoghi dimenticati, ma siamo nel XXI secolo! E poi hai presente quante mappe ti tocca mettere nello zaino? Dovrai pur portarti una bottiglia d’acqua e un paio di mutande di ricambio, o no?» Mi sequestrò lo smartphone, si mise a picchiettare vorticosamente col pollice e in un minuto compì quello che agli occhi di un tecnologico refrattario apparve come autentica stregoneria. «La vedi questa icona? Schiacci e poi fra le mappe disponibili scegli OpenStreetMap, una specie di Wikipedia della cartografia.» Aveva il tono di chi spiega a un bambino per l’ennesima volta come si allacciano le scarpe. «Il pallino rosso sei tu e queste linee tratteggiate sono le tracce lasciate dagli altri utenti. Quindi, a prescindere dalla presenza o meno di un sentiero ufficiale, significa che da quel punto si passa o non si passa. È una mappa aggiornata continuamente. Sulle tue amate carte, caro mio, quello che è scritto è scritto, ma nel frattempo un pezzo di sentiero può essere franato o, al contrario, possono esserci dei percorsi non contemplati dalla sentieristica ufficiale.» Rimasi muto a rimirare incredulo quel miracolo gratuito a 5.1 pollici. Lo confesso, mi sentii un traditore. Dopo avere abbandonato i taccuini per l’iPad, adesso stavo per completare la metamorfosi digitale, entrando mani e piedi nel mondo dei gitanti social, con il like sempre sul polpastrello, la foto compulsiva da postare su Facebook, la recensione pronta per TripAdvisor. «Ma non dire sciocchezze. E soprattutto non fare il parruccone», mi prese in giro Gabriele. «Credi davvero che a distinguere il viaggiatore dal gitante sia uno smartphone? O che una mappa sgualcita nobiliti i tuoi passi? Esci dai luoghi comuni.» Mi sorbii la ramanzina, addomesticai il senso di colpa e digitalizzai la mia erranza.
Occhio alla golena
CON le suole percorro una traccia elettronica che, dopo San Zenone al Po, mi restituisce il pantano della golena. Dai pixel di un touchscreen mi ribalta nella pleura di un guscio segreto da cui sentirsi avvolto: di là l’argine, di qua la traccia luccicante del fiume, con riflessi, talvolta, incredibilmente azzurri, quasi volesse anticipare il suo destino marino. Ma è illusione, una specie di fata morgana, che svanisce avvicinandosi di qualche metro a quel magma marrone, su cui schiumeggiano essenze biancastre non identificate. Avanzo senza incontrare un’anima, sotto un sole che in pochi minuti rende la golena, al di fuori dei pioppeti, una terra inospitale battuta da mosche e zanzare. E tocco con mano anche i limiti dell’applicazione miracolosa che mi guida dal cellulare. Perché il fiume, comunque, è più veloce delle tracce GPS lasciate dagli uomini e in un attimo devia, inonda e sposta, fregandosene delle mappe. Così capita che il sentiero sparisca in una conca di fango, o in un burrone creato dall’argine mangiato dal fiume. O, ancora, venga inghiottito da rovi impenetrabili cresciuti in pochi giorni. Per due volte mi tocca tornare indietro, guadagnando un varco in una macchia da ungulati che mi graffia cosce e polpacci. Finalmente capisco che razza di posto sia una golena: un tempio sacrificale al grande signore delle acque. Il Po che quando vuole prende, scaravolta e riporta: con un centimetro d’acqua in più o in meno decide morfologia e disposizione di ogni foglia e rende tutto ciò che l’uomo dispone – anche il più banale dei passaggi – un labile segno sulla sabbia. Realizzo ora, liberandomi le caviglie dalle spine, che smarrirsi in golena non è un imprevisto, ma semplice sottomissione al grande fiume. Quello che non capiscono, per esempio, tre ragazzotti che arrivano sgasando su altrettanti quad. Bardati come crociati, scendono con rumori infernali fino alla spiaggetta dove mi sono accucciato a medicarmi. Saltano sulle dune orlate di arbusti, sgommano sulla sabbia ed entrano in acqua schizzando per metri e metri, certi di trovarsi in una terra di nessuno. Mi passano a un metro con pneumatici da sbarco sulla luna, poi ritornano a sguazzare fra acqua e sabbia: il loro rombo copre qualsiasi altro rumore. Non so se sono i miei accidenti o la giustizia istantanea del grande signore delle acque. Ma quando questa corazzata di imbecilli riprende il sentiero in cui dieci minuti prima mi ero impantanato, il primo della fila si accorge troppo tardi dei rovi che lo inghiottono. Inchioda, scarta di lato, ma è fatta: il muso del cinghiale motorizzato s’impunta e disarciona il cavaliere fra urla e bestemmie. Mi tolgo la soddisfazione di passare accanto al manipolo impegnato a liberare il quad da quella giungla, accennando, lieve, un saluto. Nessuno risponde. *** Mentre cammino, all’altezza di Pieve Porto Morone, mi viene incontro un tizio in bicicletta. Avanza lento, apparentemente senza meta, su uno sterrato che si apre un varco fra due mari. Quando lo incrocio accenno a un saluto di cortesia con il capo. Lui invece si ferma. «Ma allora non sono l’unico pazzo in giro con questo caldo per la golena», mi fa con un sorriso e l’evidente intento di attaccare bottone. È piuttosto corpulento, mal vestito e potrebbe avere una cinquantina d’anni. Matteo, così si chiama, s’informa sul mio viaggio lungo i fiumi e mi spiega che lui col fiume, per amore o per forza, ci convive da tempo. «Abito poco lontano da qua, proprio sotto l’argine. Da anni non ho un lavoro fisso e l’unica casa con un affitto accettabile l’ho trovata qua», mi racconta alzando le spalle. «Non ci vuole stare nessuno sul fiume?» «Nessuno. I contadini sono sempre meno e poi tutti hanno comunque paura delle piene. Ma io no. Nel ’94 hanno alzato l’argine e adesso possiamo stare tranquilli. Anche nel 2000 ci fu una grande piena, ma l’acqua arrivò giusto a filo e poi si ritirò.» «Certo che stare proprio lì sotto, in una casa isolata, è comunque un rischio…» «Ti sembro uno con grandi alternative? Ho un orto, qualche pecora e ogni tanto mi chiamano a fare il muratore. Non sono nelle condizioni di scegliere. Ti dirò una cosa…» «Cioè?» Si passa una mano fra i capelli radi e sposta lo sguardo oltre la barriera di pannocchie. «Dobbiamo valutare nel complesso la nostra vulnerabilità», mi fa abbassando un po’ la voce. Ecco, questa frase, sulle labbra di uno spiantato vestito di stracci, non me la sarei mai aspettata. «Che cosa vuoi dire?» «Semplice: vivo appoggiato al fiume e, per esempio, se mi dovessi curare un dente non saprei come fare. Sono le mie vulnerabilità. Ma chi è più vulnerabile fra me, che neppure ho la macchina, e chi si fa cinquantamila chilometri in auto ogni anno, rischiando di schiantarsi?» «Be’, messa così non fa una piega…» «E poi, comunque, per me è meglio stare da solo, perché ho una specie di problema…» E indugia su un sorrisetto una frazione di secondo più del dovuto, mentre si passa una mano sul petto sudato. «Che cosa intendi?»
«Che sono bisessuale», mi dice guardandomi fisso negli occhi. Ancora una volta un istante più del necessario. «E lo sai come succede, soprattutto nei piccoli paesi… Insomma, meglio avere privacy. Ho una ragazza, ma ogni tanto mi capita…» «Di andare con gli uomini», taglio secco. «Ecco! A volte solo…» e indugia con lo sguardo, questa volta vistosamente, sotto la mia cintura. «E in golena si fanno buoni incontri?» «A volte sì.» «Però non oggi, Matteo, te lo assicuro.» Con un sorriso gli porgo la mano. «No, ma non penserai che…» «Ci mancherebbe, dicevo per dire…» Giro i tacchi e riprendo la marcia. Il vero problema è che sono le due del pomeriggio e non ho neanche mangiato un boccone. Del resto devo ancora incrociare un bar da questa mattina.
Il battesimo del Trebbia
È UN’ALBA nebbiosa quella che avvolge i miei primi passi lungo il Trebbia. Un’alba che, sulla provinciale 10, verso Piacenza, sorprende nel sonno una Las Vegas di provincia estrema fatta di concessionarie, sale slot e negozi di arredo bagno dalle insegne enormi annichilite nel loro grigiore. Il fiume di Annibale mi accoglie così, avvolto in una vegetazione disordinata e schiumosa di rovi, su cui scarica la propria umidità, col risultato che da un certo punto in poi lo sterrato che costeggia l’alveo si trasforma in una sterminata palude. Il cammino diventa una condanna, perché alle suole si attaccano brandelli di fango colloso che appesantiscono ogni passo, finché tutto diventa una gigantesca sabbia mobile in cui è impossibile sia avanzare sia arretrare. Mi fermo a ragionare fra lo stridere vorticoso degli uccelli e maledico di avere rinunciato ai sandali per le più leggere e compatte infradito. In ciabatte è un calvario affondare fino alla caviglia nella melma, con quella forza oscura che a ogni passo trascina giù, risucchiando la sottile striscia di gomma che penzola dalle piante dei piedi. Avanzo ancora camminando sul chewing gum, prima ai margini dell’alveo, poi su un argine ricoperto da una selva di rovi che mi grattugia gli stinchi, da cui si levano faticosamente in volo fagiani enormi. È un procedere liquido: ogni passo va misurato e condiviso con il fiume, con questo habitat ruvido in cui mi sono autoinvitato. Quando, dopo alcuni chilometri, finisce questa specie di giungla, l’unica necessità è ripulirmi. Ci vorrebbe dell’acqua, tanta, ma il Trebbia è a un centinaio di metri, oltre una fitta coltre di rovi. Basterebbe anche un albero, ma nell’alveo ci sono solo arbusti pungenti. Allora pure quelli vanno bene e, cercando di evitare le spine, sfrego fra le mani quel microfogliame carico di rugiada. La svolta arriva qualche centinaio di metri dopo, quando la via ritorna ghiaiosa e appaiono, in tutto il loro splendore, le pozze. L’occhio del viandante non vede liquido stagnante e putrido, ma catini in cui affondare mani e piedi come in una vasca termale. Appoggio lo zaino, sfilo le infradito, poi i calzoncini e passeggio in mutande nella pozzanghera, assaporando il piacere dell’acqua fresca fra le dita. Sciacquo le gambe dalla coscia in giù e, sempre in mutande, mi siedo sul pietrisco ad asciugarmi i piedi. Non c’è un masso, un tronco, un muro sul quale poggiarsi, almeno per marcare la differenza fra uomo e animale. E così, quando mi rialzo, specchiandomi lurido e seminudo nella pozza, l’immagine che mi restituisce quell’acqua bigia non è più quella del viaggiatore, ma del viandante. Il Trebbia mi ha battezzato con acqua e fango. Quando arrivo al ponte di Tuna, appena prima delle torri mediorientali del castello di Rivalta, sono pronto. Pronto a infilare gli occhiali dell’immaginazione e ascoltare le grida che si alzano dal centro esatto del greto, mischiate alla flebile nenia della corrente. Sono urla gutturali di mille lingue, mischiate a furiosi nitriti, allo scalpitio degli zoccoli sulle pietre, al clangore incessante delle spade. E su tutto l’odore acre del sangue e della carne maciullata, che più di duemila e duecento anni di corrente ancora non hanno lavato, tanto che i campi da Gossolengo ad Ancarano continuano di tanto in tanto a restituire spade e corazze. Davanti a me un elefante in vetroresina a grandezza naturale, forse l’unico monumento al mondo innalzato a un invasore. Ma nel caso di Annibale l’ardimento vale più dell’amor di patria e il mito doppia il vero storico. Così quel pachiderma color bronzo celebra qualcosa in più del generale che il 18 dicembre del 218 a.C. in questo fazzoletto di terra sbriciolò l’esercito romano e parve in grado di farlo con l’intera Repubblica romana. È un omaggio al delirio che sottende ogni sfida impossibile, un tributo a quello che fu il più grande viaggiatore dell’epoca antica. Lo scenario non era quello odierno, con un Trebbia che lambisce a ovest Piacenza prima di gettarsi nel Po. Il fiume di allora seguiva un percorso più lineare, lungo il tracciato dell’attuale statale 45, e sfociava nel Po a est della città. Dunque è nell’attuale greto che si fronteggiarono gli ottantamila uomini dei due eserciti. Una battaglia campale consegnata alla storia dalle cronache di Polibio e Tito Livio, che raccontano la determinazione con cui Annibale cercò lo scontro con le forze dei consoli Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo, sfruttando soprattutto l’irruenza e la fame di gloria del secondo. La studiò bene il punico, attirando i romani su un campo aperto ma al tempo stesso favorevole a un’imboscata, grazie alle sponde del fiume coperte da una fitta boscaglia. Proprio lì Annibale, la notte prima dello scontro, ordinò a suo fratello Magone di nascondersi con duemila uomini, e all’alba attaccò l’accampamento romano – posto sulla riva orientale del fiume – con il lancio di dardi infuocati. L’offensiva fece saltare i nervi a Sempronio, che spedì all’inseguimento della cavalleria numidica migliaia di soldati ancora digiuni e privi di protezioni contro il freddo. Fu con le acque gelide e ingrossate dalle piogge che le guarnigioni romane persero la prima battaglia: dopo il guado, infatti, i fanti erano «tanto agghiacciati che a malapena potevano tenere le armi», mentre i cartaginesi erano cosparsi di grasso animale contro il freddo, armati e ben nutriti. Quando, pressata dagli elefanti, anche la cavalleria alle ali dello schieramento entrò in crisi, gli uomini di Magone uscirono dalla selva sorprendendo i romani alle spalle e segnando definitivamente le sorti della battaglia. Salgo sul ponte, a osservare, verso sud, l’epicentro immaginario dello scontro: un letto ghiaioso su cui becchettano decine di aironi bianchi. Cerco una ragione del perché, al di là del monumento, Annibale e la battaglia del Trebbia non siano ricordati seriamente in nessun altro modo nel piacentino, fatta eccezione per lo stemma del vicino comune di Gossolengo, su cui fa bella mostra un elefante: in fondo una rievocazione in Italia non si nega a nessuno.
I confini del fiume
IL campanile di Roveleto Landi che batte l’una e mezzo è un colpo di frusta al cielo afono che preme in basso millibar di afa. Ma è anche una sveglia per lo stomaco a digiuno dall’alba. Così, quando la ciclovia che imbocco dal ponte di Tuna mi scarica di fronte al bar Gobbi di Roveleto è un approdo a Tozeur. Un’insegna anonima sui muri squadrati e bianchi di una vecchia corte, un platano e qualche consunto ombrellone firmato Motta. Sono tutti in quest’angolo di pianura a un passo dal fiume gli ottant’anni di storia dell’osteria. Me lo racconta Giuseppe, la terza generazione dietro al bancone, quando oltrepasso gli spessi muri e mi ritrovo in una frescura da tana di contrabbandieri. Una laurea in agraria in tasca, un passato da ricercatore all’università e un futuro fra i tavoli apparecchiati con tovaglie di plastica a fantasia marroncina. «Nessun rimpianto, anzi», mi sorride gioviale dietro occhiali metallici che lo fanno assomigliare a Peppino di Capri, mentre smanetta attorno alle maniglie di una vecchia macchina da caffè. «Ho lavorato per anni anche al Consorzio Agrario, ma sempre come precario. Alla fine ho scelto il bar. Del resto io fra questi tavoli ho imparato a camminare: è stato di mio padre e di mio nonno prima di lui. Che cosa avrei dovuto fare? Inseguire un posto fisso che non arrivava e chiudere l’osteria?» Da un piccolo frigo sbeccato, addossato a una parete di mattonelle, pesco il mio pranzo: due Maxibon, a cui aggiungo una CocaCola con molto ghiaccio. Ed è un ristoro consumarli all’ombra del grande platano, in compagnia di Giancarlo, Attilio, Luciano, Fortunato, Luigia, pensionati e presenze fisse dell’osteria lungo la provinciale, dissertando se il Trebbia sia femmina o maschio. «È ‘il’ Trebbia», non ha dubbi Attilio, che alza lo sguardo dalle pagine spiegazzate della Libertà. «È maschio, con i disastri che fa con le piene. Ve lo ricordate l’anno scorso? Ha tirato giù il ponte di Barberino, prima di Bobbio.» «Appunto. Fa disastri: allora è femmina!» lo rimbrotta Fortunato con un mugugno distratto. «E poi finisce in ‘a’…» «Femmina, femmina…» conferma Giancarlo sorseggiando un bicchiere di Malvasia fresca annebbiato di condensa. «Con tutte quelle curve…» «Però, scusate», osserva Luigia, unica signora della brigata. «Ma non si dice ‘vado in Trebbia’, al maschile?» «Mah… forse una volta», fa Luciano, un uomo corpulento in canottiera e calzoncini, con baffi corvini imperiosi. «Adesso si dice in albanese o in marocchino o che so io… Ormai gli italiani che vanno in Trebbia sono sempre meno…» Attilio, fisso sul suo giornale, annuisce. Luigia sospira, allargando le braccia. «Oh, Luciano, c’è poco da fare», interviene Giuseppe in piedi sulla soglia del bar, «il Trebbia è sempre stato il mare dei poveri. Questi fanno quello che i piacentini facevano fino a trent’anni fa: un panino, una bottiglietta d’acqua e con cinque euro si sono fatti la giornata in spiaggia.» Già, la spiaggia: un luogo mentale prima che fisico. Un sostantivo che astrae l’idea di vacanza e la trasporta ovunque, anche dove il mare non c’è. Come in Trebbia, senz’altro il più balneare dei fiumi italiani, con le sue acque ancora, tutto sommato, cristalline, il suo greto ampio e accessibile, e l’alternarsi di raschi e buconi, piscine naturali buone per pescare e nuotare. Se li ricorda bene i buconi, Elena, donna eterea e longilinea, avvolta da un abito di cotone grezzo, candido e svolazzante. Condivido con lei lo stesso tavolone sul lungo Trebbia di Rivergaro, dove mi fermo per una breve sosta. «Ma non son più quelli», mi spiega con un sorriso nostalgico. «Tanta gente viene ancora a fare il bagno nel fiume, ma quei buconi profondi in cui potevi pure bere l’acqua non ci sono più. Lo vedi lì, oltre quei pioppi?» Si alza e indica un punto a pochi metri da noi. «Negli anni Settanta c’era un vero e proprio lido, una spiaggia con ombrelloni e lettini. Pensa che io i corsi di nuoto, da bambina, li ho fatti tutti lì, proprio in un bucone. Era normale imparare a nuotare nel fiume come se si fosse in piscina. E ho quarantasei anni, mica cento…» aggiunge con un sorriso. Qualche mese fa dei buconi me ne parlò anche Daniele Sogni, guida ambientale del posto. Mi portò nel punto esatto in cui il Trebbia perde la vocazione montuosa e si adagia sulla pianura che lo porterà verso il Po. Un luogo potente e magnetico perché è quello l’apice della conoide, il ventaglio composto dai sedimenti millenari portati dal fiume che rallenta la sua corsa, allarga il suo letto e può decidere di muoversi a suo capriccio. Infatti è su questo perno che, poco dopo la battaglia del 218 a.C., girò il proprio letto verso nordovest, spostando la storia con la forza dell’acqua. «È cambiato eccome, il Trebbia», sospirò sotto un cappello da cowboy, mentre ci godevamo il sole che andava in buca fra le colline che si accavallano verso Bobbio. «C’è molta meno acqua. Per il clima stravolto e anche per la diga del Brugneto, in Liguria, che trattiene un affluente del Trebbia per dare da bere a Genova. Il problema vero però è che da Rivergaro a Piacenza il fiume è spolpato per irrigare nei campi, tra l’altro a prezzi ridicoli per gli agricoltori. Non sto dicendo che sia una pratica sbagliata, ma forse, visto che il clima sta cambiando, bisognerebbe ripensare ai tipi di colture… da qua a Piacenza sono solo mais, fagiolini e pomodori: tutte verdure con gran bisogno d’acqua.» E mi mostrò, scuotendo la testa, la coronella proprio di fronte a noi, una lingua di ghiaia allungata a imbuto nel letto del fiume, che trasformava in una sorta di lago l’ansa di Rivergaro. «Che cosa c’è? Mi pare bello questo specchio d’acqua», commentai con occhio turistico. «Bello è bello, ma è un bacino artificiale che ha conseguenze pesanti sul fiume.» «In che senso?» «Vedi, il bacino tende a eliminare l’alternanza fra le zone sassose (e poco profonde) e le buche, che sono i luoghi di riproduzione dei pesci. La diminuzione della fauna ittica ha per conseguenza la diminuzione di quegli animali che dei pesci si cibano. Poi
considera che il Trebbia alimenta i pozzi da cui beve Piacenza e quindi si ha anche meno acqua potabile. Il problema vero è che esiste una cultura dominante per cui i fiumi sono come i tubi dell’acqua.» Il suo sguardo andò all’argine di massi calcarei ingabbiati dalla rete metallica su cui stavamo camminando. «Questo argine è stato fatto con l’idea di contenere il fiume e prevenire le inondazioni, ma sono stati soldi buttati nella spazzatura», mi disse. «Senza considerare però che ogni volta che un fiume viene regimentato in questo modo si finisce sempre per aumentare la velocità dell’acqua, e quindi il rischio di esondazioni catastrofiche più a valle. L’Italia è piena di interventi come questo, che dal Dopoguerra a oggi hanno aumentato ovunque la velocità media dei nostri fiumi. Anzi, spesso sono anche peggiori, con fiumi segregati fra sponde di cemento, magari per recuperare spazio su cui costruire. Il fiume, invece, si deve poter allargare: è l’unico modo per fargli rallentare la corsa quando è in piena.» Ho ragionato a lungo su quella passeggiata. Daniele aveva tirato fuori equazioni e modelli di cattedratici per spiegarmi che i corsi d’acqua hanno la necessità di mantenere un loro equilibrio fra i sassi che trascinano a valle e la portata d’acqua. Come un ruminante condannato alla perenne masticazione, il fiume deve trasportare un carico di sedimenti per sfogare la propria forza. E se quelli mancano, la bestia trova il modo di nutrirsi ugualmente: erodendo sponde o scavando alvei nell’Italia del dissesto idrogeologico. E Daniele lo sapeva bene, lui che con un manipolo di ingegneri, naturalisti e geologi «eretici», ha dato vita al Centro italiano per la riqualificazione fluviale, un’associazione che si batte per riportare i fiumi al loro stato naturale, l’unico capace di tenere assieme equilibrio ecologico e sicurezza idraulica. «Il fiume è davvero un animale e, come tutti gli animali, deve poter mangiare, correre, riposare, spostarsi: insomma vivere», mi disse salutandomi. «Ma stai attento, perché quell’animale è molto più vasto di quanto sembra. Non è solo acqua che scorre. È fiume l’intera Val Trebbia, che non si sarebbe mai formata senza quell’acqua. Sono fiume i boschi ripariali che vedi qua attorno, sono fiume gli animali che da quell’acqua dipendono, sono fiume i pozzi che alimentano Piacenza e sono fiume le colline di Ancarano, che chiudevano l’alveo dell’antico corso. Quello che cerchiamo di spiegare è che il fiume non è un concetto orizzontale, un filo d’acqua che scorre da un punto all’altro, ma una sfera che ci avvolge. Il fiume è sopra e sotto di noi.» È a Marchesi che il Trebbia acquista definitivamente la sua vocazione montana, insinuandosi nella valle che si alza verso Bobbio. Ciclabili e carreggiate finiscono, così il filo per seguirne il corso diventa l’asfalto butterato di una provinciale tutta curve che sale e scende lungo il versante sinistro fra campi appena dissodati e piccoli tratti boscosi. Qualcuno la ricorda ancora come la «strada dei tedeschi», per quella manciata di settimane nella primavera del 1945 in cui le truppe naziste, in ritirata verso nord, sfilarono per giorni con camionette e mezzi corazzati. Era quella stradicciola che si affaccia a terrazzo sul fiume, infatti, l’unica alternativa per evitare, sulla sponda destra, la statale battuta dai partigiani. La calura, pian piano, si stempera nella luce pastello del pomeriggio che avanza, ma la fatica comincia a mordere sul serio, trascinata dalle fitte infuocate al quadricipite destro. Quando arrivo a Travo in giro non c’è un’anima. Il campanile che batte le sei prova a dare una scossa a case e strade glassate dalla sonnolenza. Dopo il paese un sentiero inselvatichito mi riporta per un tratto sul greto, poi mi tocca arrampicarmi di nuovo sulle colline che digradano verso il Trebbia, nella pace assoluta che conduce al tramonto. A occidente spunta la sagoma della Pietra Parcellara, cresta di serpentino fra le colline, resa aliena dai raggi accecanti di un sole piegato ad angolo acuto. È una luce obliqua, capace di accendere i sensi di una terra mediana che trova sensualità nel verde intenso dei campi ondeggianti di erba medica, nei filari a barbera che discendono fin sul Trebbia, nelle tonalità terrigne delle zolle appena vergate dagli aratri. Una luce che chiude con un arpeggio di chitarra una giornata infinita, cominciata nel grigiore appiccicaticcio della Pianura Padana e finita davanti al monte Armelio e al Bricco delle Tre Sorelle. Un altro fiume. Un altro continente, forse. In cui, per la prima volta da quando sono partito, trovo una sistemazione diversa da un motel ammuffito. Nell’agriturismo ricavato dalla casa di un vecchio sarto, poco prima di Mezzano Scotti, metto in fila lussi dimenticati: mangio gnocchetti al tartufo con i piedi nudi affondati nell’erba fresca, mi faccio stordire da un litro di Trebbianino ghiacciato e guadagno a fatica la via di un letto come dio comanda.
La grammatica dell’acqua
NON si dà pace la signora Luisa. Sono venuti ieri pomeriggio con un trattore, hanno agganciato la barca e se la sono portati via. Per un cortometraggio forse. A lei nessuno aveva detto nulla. Poi la restituiranno, ma chissà quando. E intanto, alla Barca, la minuscola località prima di Mezzano Scotti dove la «strada dei tedeschi» lambisce il fiume, la barca non c’è più. Non che servisse a qualcosa quello scafo arenato da decenni dietro alla striscia di case che portano il suo nome, a metà strada fra Travo e Bobbio, sulla riva sinistra del Trebbia. Ma era un totem, che diamine. Con le mani sui fianchi Luisa fissa l’impronta dello scafo rovesciato sull’erba che declivia verso il greto. «Almeno avvertire!» dice stringendosi le mani attorno al corpo per vincere l’aria frizzante delle sette del mattino. Ma anche senza natante la Barca rimarrà sempre quella. E il perché me lo spiega questa settantenne dal piglio deciso, mentre il sole sborda lentamente oltre il versante opposto della valle. Era qui, nella casa che l’ha vista nascere, che si attraversava il Trebbia con una specie di traghetto, visto che i ponti più vicini erano a Bobbio (a monte) e a Travo (a valle) e le auto per raggiungerli quasi inesistenti. Almeno fino agli anni Sessanta. Così le due lunghe abitazioni in pietra una di fronte all’altra, a venti metri dal fiume, sono state per secoli l’ombelico di questo versante settentrionale di valle che scende dal passo della Caldarola e si allarga fra Perino e Bobbio. «Certo che me lo ricordo», sospira Luisa facendo sbollire l’arrabbiatura. «Scendevano da Bocché, Freddezza, Concesio, Mezzano Scotti… anzi, se vuole qualche notizia in più, proprio a Mezzano Scotti, un paio di chilometri più avanti, trova Lino, mio fratello: è stato lui l’ultimo barcaiolo.» Con l’impazienza di un bambino, mi lancio di corsa verso il paese, figurandomi un canuto e possente vecchio capace di incarnare con la fisionomia l’antichità di un mestiere lontano nel tempo ben più degli anni che sono passati dall’ultima traversata. Perché il fiume dei barcaioli non riporta a cinquanta, ma a cinquemila anni fa. Riporta a una montagna in cui ogni frazione era abitata da decine di famiglie e fra Bobbio e Travo a migliaia popolavano i due versanti della valle. Riporta soprattutto a un’altra idea di fiume: non un tubo dell’acqua da oltrepassare con noncuranza in pochi secondi, ma una forza viva con la quale coabitare. Lino non risponde esattamente all’identikit del traghettatore mitologico, ma quel Trebbia rispettato e temuto ce l’ha marchiato a fuoco nei palmi che per decenni hanno manovrato il forcon, il remo di rovere rosso, con cui affrontava la corrente. Me lo mostra subito, appena suono il campanello della villetta bianca, per nulla infastidito dal vagabondo che si presenta alla sua porta di primo mattino. «L’ho appeso in cantina, scenda con me», mi dice tranquillo come fossi il postino del paese. Se lo costruì con le sue mani, fissando su quel manufatto il sapere orale di generazioni di barcaioli. Niente è a caso in quei tre metri di legno. Lino allarga il sorriso sul volto e percorre con l’indice il manico bombato, che tagliava facilmente l’acqua e risaliva. E poi, dal lato opposto rispetto al remo, sfiora il forcone vero e proprio, due punte che servivano per affondare nel fondo del fiume tenendo sempre ben dritta la barca. «Anche il colore non è casuale», dice ridendo. «Adesso sono bianchi, ma da giovane i capelli li avevo rossi.» Per raccontarmi la sua storia, però, mi porta in cucina, di fronte a una fotografia del 1936. In piedi sulla barca ancorata a riva, il padre di Lino e alcune donne sorridenti dalle acconciature scolpite, impacciate dentro l’abito buono. «Guarda il fiume», mi dice mentre mette a bollire sul fornello l’acqua per il tè. «Questa foto è stata scattata in estate: hai visto quanta acqua che c’era? Adesso la barca in quel punto non riuscirebbe neppure a passare: è diventato un torrente, il Trebbia.» «Colpa della diga del Brugneto?» domando, ricordando le parole di Daniele. «Non è tanto quello. Una volta pioveva e, soprattutto, nevicava di più. Pensa che c’erano risorgive anche nel letto del fiume. Fino al 1981, alla Barca non avevamo l’acqua in casa e l’andavamo a prendere ai fontanili che sgorgavano dalla sabbia. E invece, adesso, ogni estate dobbiamo vedere sfilare le autobotti che portano da bere alle frazioni.» Se su quel gigante liquido ci sei nato, non è facile guardarlo adesso. Soprattutto se fin da bambino, giorno dopo giorno, tuo zio e tuo padre, barcaioli pure loro, come prima lo fu il nonno, ti hanno insegnato a leggere la grammatica dell’acqua. A intuire, dai suoi riflussi, il verso delle correnti, quelle che potevano traversare la barca e spedirtela più giù di mezzo chilometro, fino a Cà d’Mariòn e oltre. Succedeva eccome in tempo di trebbiere, quando il fiume si ingrossava sul serio e per passare dall’altra parte occorreva individuare il filo d’Arianna segreto nascosto fra i marosi appenninici. E magari buttare sul fondo una catena a maglie enormi lunga dieci metri per non farsi portare via o, peggio, ribaltare. «Tutte le volte era una sfida», ricorda Lino mentre dalla finestra entra una lama di luce che gli fa strizzare gli occhi chiari, «perché le correnti del Trebbia non sono lineari e il fiume non è sempre uguale: percorso e riferimenti cambiano ogni giorno. Serviva abilità, ma soprattutto passione: bisognava essere innamorati di quel fiume.» L’uomo che addomesticava le trebbiere col forcon tira fuori dalla credenza di ciliegio il servizio buono, taglia con cura qualche fetta di limone e mi offre una sorprendente scelta di tè, servita in un vassoietto di legno su cui spuntano a raggiera bustine di carta colorate. Sorseggiamo lenti, in un tempo sospeso dai rintocchi di un orologio a pendolo. E osservando i gesti minuti di Lino, realizzo come il suo mestiere non fosse nuda espressione di forza, ma esercizio di armonia e comunione. Perché la barca doveva farsi tutt’uno con il fiume. Prevederne e assecondarne i movimenti quel tanto che bastava per avanzare di un metro e un metro ancora, sfidando la
fisica rettilinea dell’acqua lanciata a valle. E scaricare dall’altra parte le genti che ancora popolavano le valli. Contadini, per lo più, che sul natante, soprattutto in inverno, facevano accomodare anche tacchini e maiali. O le donne, cariche di ortaggi da vendere ai mercati di Bobbio e Perino. «Dai locali non ci facevamo mica pagare con i soldi», precisa Lino, come a scusarsi con la storia. «Per la nostra gente quel passaggio era indispensabile. Così ci si accordava per un contributo in natura, una volta all’anno, con quello che potevano: che so, trentacinque chili di grano, una bella fornitura di uova, granoturco per chi lo aveva… cose così.» Fu la civiltà dell’automobile a spazzare via quel mondo. Già dagli anni Sessanta il traghetto sul Trebbia divenne una sorta di diversivo turistico che vide la sua ultima estate nel 1979. Dal settembre di quell’anno, la barca è rimasta capovolta sul prato della signora Luisa. «Io, del resto, ho sempre campato facendo il muratore», mi spiega Lino. «La barca era una specie di integrazione. L’ultimo momento di grande traffico lo abbiamo avuto che ero bambino, durante la guerra: arrivarono tanti sfollati e alla Barca c’era un continuo viavai di truppe tedesche. Entravano e uscivano a piacimento: a mia madre toccava cucinargli e a mio padre trasportarli di qua e di là, gratis e a comando.»
La cruna dell’ago
RISALENDO il Trebbia oltre Mezzano Scotti è impossibile camminare lungo il greto. Per seguire il filo dell’acqua, occorre scendere a compromessi. Esclusa la statale di fondovalle e i suoi viadotti, l’unica possibilità per un camminatore continua a essere la «strada dei tedeschi.. Ma Lino mi aveva avvertito: «Attento, perché dopo Mezzano c’è stata una frana, non credo si riesca a passare neppure a piedi». Ma è troppo bello questo passaggio in costa a qualche centinaia di metri dal fiume: una striscia d’asfalto sottile e butterato che attraversa querceti in totale solitudine, autentico paradiso per chi procede a piedi. Solo che più avanti c’è quella dannata frana. Al primo bar che incontro, chiedo indicazioni. «Eh? Vuoi arrivare a Bobbio dalla ‘strada dei tedeschi’? Ma tu sei matto», mi fa un ragazzo stravaccato contro una parete piena di foto ingiallite di tornei di calcetto. «Nel tratto dopo Mezzano la montagna ha sempre franato. Saranno trent’anni che hanno smesso di ripararla e da là non si passa. Devi tornare indietro e farti la statale, oppure salire fino a Centomerli e poi riscendere, ma sono un bel po’ di chilometri.» OpenStreetMap una speranza me la dà. Nel punto indicato da Lino, immediatamente prima del ponte di Barberino, una linea tratteggiata compare: qualcuno è passato. Diventa quella la mia speranza. Così scendo verso il Trebbia. A ogni metro la natura si sta riprendendo ciò che le è stato sottratto, mangiando l’asfalto con cespugli alti un metro e mezzo, finché tutto si mischia in una specie di giungla, prima del grande vuoto. D’un tratto la vegetazione si dirada e sopra la mia testa si alza una parete di roccia verticale e spaventosa, appoggiata a un letto di ghiaia e terriccio, che inghiotte la strada per centinaia di metri. A sinistra la costa strapiomba verso una pozza color smeraldo creata dall’ansa del fiume, dove fluttuano lente le sagome dei pesci. Eccola la montagna guerrigliera e partigiana, che a colpi di starnuti si scrolla di dosso l’uomo e le sue tracce. Una montagna che in qualche decennio ha cancellato la strada dalle carte geografiche e dalla memoria. Così come sta succedendo con il ponte di Barberino, il passaggio sul Trebbia della vecchia statale, prima che la facessero proseguire verso Bobbio in galleria sotto il versante destro della valle. La piena del settembre 2015 lo ha spazzato via e adesso il moncone del vecchio ponte è un guerriero mutilato in attesa del proprio destino. Ci sarà l’oblio, come avvenuto per la «strada dei tedeschi», oppure si troveranno soldi e volontà per ricostruirlo? Certo, né il ponte né la strada possono considerarsi opere strategiche, visto che il grosso del traffico, da decenni, transita sul nuovo tratto di statale. Ma perdendo quell’opera un altro pezzetto di valle sparirebbe definitivamente. Prima dalla fruizione delle persone, poi dalle carte geografiche, infine dalla coscienza collettiva: un altro luogo fantasma. Non si tratterebbe, in questo caso, di salvare l’utile, ma il bello: una strada e un ponte che rappresentano una sorta di passaggio segreto; un tunnel a cielo aperto che ti regala una vista obliqua e originale sulla valle, che ti invita a esplorare e, soprattutto, a rallentare. Il problema è che adesso mi tocca oltrepassare la frana. Più che camminare, scivolo sulla colata ghiaiosa che corre verso il fiume, seguendo un filo immaginario che corrisponde, forse, al vecchio passaggio della strada. Scarico il mio peso verso monte, fino a trovare il grado d’inclinazione necessario a sfidare la forza di gravità. Ogni passo è un salto nell’ignoto da immaginare prima e ponderare poi. Quando posso, mi appiglio a qualche arbusto, ma sono pochi quelli che hanno avuto l’ardire di gettare radici sulla pelle di questo satanasso. Devo solo sperare che più in alto, dove la colata di ghiaia nera scollina, il passaggio di qualche animale non metta in moto la terra. La cosa più difficile, comunque, non è tenere l’equilibrio, ma non farsela addosso quando, a ogni appoggio della suola, decine di sassolini precipitano allegri nel Trebbia dopo una corsa di un centinaio di metri. Vedo già i titoli sui giornali. Trattengo il respiro. Prego il mio Dio. Stramaledico la mia imprudenza. Poi, in un modo o nell’altro, riesco a passare dalla cruna dell’ago.
Nel regno di Balena
C’È una cosa che è impossibile non notare arrivando a Bobbio: la mole e il decoro del monumento ai caduti. Intendiamoci, è il solito dispiegamento di travertino squadrato e statue bronzee in posizioni plastiche. Ma a differenza di tanti altri altari dimenticati fra rotatorie e aiuole, la memoria bellica locale è piazzata nel bel mezzo del parco giochi per bambini all’ingresso del paese. Così, accanto ai nomi dei sacri martiri, fischiano tiri di pallone e schiamazzi infantili. Potrebbe apparire irrispettoso, eppure quell’anarchica allegria riesce a rendere il ricordo meno tronfio e, se possibile, un briciolo più attuale. Sarà che Bobbio, grazie alla presenza sin dal 614 del potente monastero di San Colombano, ha vezzi anomali per un comune con poco più di tremila e cinquecento abitanti: sede vescovile, capoluogo di provincia sotto il Regno di Sardegna e di circondario sotto il Regno d’Italia. E poi quei due mesi, fra il 7 luglio e il 27 agosto del 1944, da capitale dell’omonima repubblica partigiana quando il paese, pardon, la città, si trovò perno dello scontro fra le truppe nazifasciste impegnate a presidiare le vie di comunicazione fra il Mar Ligure e la Pianura Padana e le bande partigiane che ebbero la loro base sul monte Antola, all’apice della Val Trebbia. Tanto che Bobbio, fra l’estate del ’44 e la primavera del ’45, passò di mano altre due volte, prima della sua definitiva liberazione nel marzo 1945 a opera soprattutto di Italo Londei, maestro elementare di Bobbio e tenente degli alpini, al comando della VII Brigata di Giustizia e Libertà. «Lo sai qual era la sua forza? Era integerrimo e aveva carisma. Persino i tedeschi lo conoscevano e lo rispettavano.» Mi è stato sufficiente chiedere in un paio di negozi per rimediare il cellulare di Gigi Pasquali, classe 1935, memoria storica del paese e autore anche di diversi libri sulle regole (anzi, spesso sulle «non regole») del dialetto bobbiese. E così, dopo mezz’ora siamo insieme davanti a una birra in un bar di piazza Duomo. Ma Gigi fa di più, si presenta accompagnato dalla figlia di Londei, Raffaella, in questi giorni a Bobbio. Sotto una parete ricoperta da foto in bianco e nero del boom economico, Gigi mi parla del tenente Italo, ma soprattutto di quel drammatico autunno del ’44, dello strano andirivieni di alpini della divisione Monterosa verso il mulino di San Martino, poco fuori dal paese, in corrispondenza del ponte che attraversa il Trebbia e sale verso la Val Nure. «Andavano a fare rifornimento là», racconta dietro i grandi occhiali metallici, «e poi si facevano catturare apposta dai partigiani, per passare con loro. Anche mio padre, che era barbiere, ha fatto da intermediario fra gli alpini e le bande partigiane. Spesso venivano da lui a consegnarsi.» È un pezzetto dimenticato di resistenza e di storia italiana, al confine fra cronaca e leggenda, quello che mi squaderna Gigi. Gli alpini della Monterosa erano repubblichini, una divisione costituita a Pavia all’inizio del 1944 e schierata al fianco delle truppe naziste a presidio della Val Trebbia: l’unica scelta, per molte penne nere, per non finire nei campi di prigionia in Germania. Grazie all’opera di convincimento dei capi partigiani, fra cui il mitico Bisagno, e alla crisi di coscienza di tanti militari, nel giro di qualche settimana, fra Torriglia e Bobbio, un intero battaglione, il Vestone, passò alla Resistenza. Mentre addento l’ormai consueto pranzo del campione, due Maxibon e Coca-Cola ghiacciata, Gigi continua con le sue storie. Come quella della cittadinanza onoraria conferita nel 1924 a Benito Mussolini. Una sorta di ruffianeria, nella speranza di indurlo a ripensare la scelta, compiuta l’anno prima, di traslare il circondario di Bobbio dalla provincia di Pavia a quella di Piacenza, spostando allo stesso tempo il capoluogo da Bobbio a Rivergaro. Il duce, ovviamente, non pensò affatto di tornare sulle decisioni prese, ma dopo oltre novant’anni, Bobbio, una repubblica partigiana, annovera ancora il fondatore del fascismo fra i suoi cittadini illustri. La storia ha decisamente il senso dello humour. «Stai andando per fiumi, giusto?» mi chiede Gigi al momento dei saluti. «Allora, quando esci dal centro, passa sul Ponte Gobbo e dai un’occhiata alla targa fatta per Balena.» «Balene nel Trebbia?» domando divertito. «No, Balena era il soprannome di Andrea Mozzi: fu il mio istruttore di nuoto, ma nel Dopoguerra insegnò a nuotare a un paio di generazioni di ragazzini. Era un tipo rude, ma con i bambini ci sapeva fare: tutti si divertivano con lui, soprattutto quando usciva dall’acqua e spruzzava tutti con la bocca, proprio come una balena… anzi, aspetta un momento…» Estrae il cellulare, picchietta sulla tastiera e confabula per un attimo con qualcuno. «Se vai ora, l’artista che ha fatto il bassorilievo ti aspetta là.» Così scendo dal centro verso il fiume e riattraverso il Trebbia sul ponte medievale che la leggenda vuole costruito dal diavolo in una notte. Un’opera pazzesca, con undici arcate sghembe e irregolari, protagonista di una lotta millenaria contro le piene devastanti del fiume. Per secoli e secoli, l’acqua fiondata a valle ne ha mangiato pezzi, salvo poi trovarselo ricostruito (pazienza se non identico) da uomini cocciuti alla piena successiva. Luigi, settantenne in gran forma dal sorriso smagliante e i capelli bianchissimi, è già sul capo opposto del ponte ad aspettarmi. Se ne sta affacciato alla sponda di pietra a osservare lo specchio baluginante sotto di lui, come se Balena fosse ancora laggiù con i suoi richiami tonanti e i suoi spruzzi. «Era proprio qua sotto che portava i ragazzi», mi dice dopo i saluti. «Prima che lo imbrigliassero, in questo punto il fiume si allargava fino a formare un piccolo lago, dove mezzo paese ha imparato a nuotare.» «Anche tu?»
«No», si schernisce sorridendo, «io, tecnicamente, sono un turista. Abito nel varesotto, però vengo a Bobbio da quasi cinquant’anni.» «Quindi Balena non l’hai conosciuto.» «No. Tanti anni fa lessi un articolo su di lui su un giornale locale e mi piacque la sua storia. Mi resi però conto che non aveva lasciato alcuna traccia in paese e che pian piano tutti si sarebbero dimenticati di lui. Allora decisi di fare quel bassorilievo.» Si gira e mi indica il grande masso, appena oltre l’approdo del ponte, che ospita la sua opera. Sul metallo scuro emerge il viso paffuto e sorridente di Balena. Ci sa fare Luigi con i bassorilievi. Insegnante di educazione artistica in pensione, presenza costante a Bobbio, mi spiega che da un po’ di tempo ha un’idea fissa: non far morire le abilità artigianali, soprattutto quelle artistiche. «Certe cose ormai non le sa fare più nessuno», dice. «Per esempio, a Bobbio è rimasta solo una persona in grado di lavorare la pietra serena e ha più di ottant’anni. Come si riuscirà a recuperare le decorazioni su quella pietra che abbiamo in paese? Ce ne sono tantissime.» Ci accomodiamo con le gambe a penzoloni sul muricciolo che si affaccia sul greto ghiaioso e ne approfitto per caricare un po’ il cellulare, attaccandolo al pannellino solare da viaggio che srotolo accanto a me. Del resto, se ho deciso di consegnarmi alla tecnologia, devo andare fino in fondo. MyTrails, con il GPS costantemente acceso, comporta un super consumo di batteria e quindi questo è l’unico modo che ho per rimpinguare la carica. Oltre, naturalmente, all’elemosina di cinque minuti di corrente che chiedo in ogni bar. È a strapiombo sul lago estinto, regno di Balena, che Luigi mi racconta della sua sfida: un’associazione di artigiani creativi che organizza a Bobbio corsi per insegnare mestieri manuali artistici. Si chiama ArTre ed è già una realtà da qualche anno. «Abbiamo fatto il corso per lavorare la pietra serena, quello di pittura murale, quello di ceramica e modellazione… cose così. Tutto quello che può riavvicinarci al bello applicato ai nostri luoghi. Un bello che sia anche utile.» «Ma non lo abbiamo perso, il senso della bellezza?» gli chiedo affascinato da quel ragionamento. «Mi pare che il concetto di bello sia più che altro un lusso. Un ‘di più’ che ci concediamo se ci sono i soldi e se tutto il resto funziona.» «Devo dire che a Bobbio il senso della bellezza non si è perso. Anzi, vedo che c’è molto interesse per i nostri corsi. Il problema semmai è un altro… Il nostro obiettivo è formare artigiani che trasformino un’abilità in un lavoro. Purtroppo fino a ora i nostri corsi sono stati frequentati per lo più da pensionati o semplici hobbisti. Sono i benvenuti, intendiamoci, ma la nostra ambizione sarebbe quella di dare un’opportunità di lavoro per trattenere qualche famiglia nella Val Trebbia. A Bobbio c’era anche una tradizione importante: pensa che fino agli anni Sessanta qua esistevano sia una fabbrica, sia una scuola professionale di ceramica con decine di allievi.» «E adesso?» «Non ci sono più da decenni», mi risponde con voce misurata. «In generale, sono pochissimi i giovani rimasti. E spesso le battaglie per tutelare il territorio sono portate avanti da chi, magari originario di questi posti, vive da un’altra parte, per lo più a Milano. È come se chi ha sempre abitato qua non si rendesse conto del bello che ha sotto casa. Qualche mese fa abbiamo vinto una battaglia per impedire la costruzione di una diga sul Trebbia alle gole di San Salvatore, in un luogo meraviglioso. L’avrebbero costruita, tra l’altro, sui resti di un impianto idroelettrico iniziato negli anni Venti e mai terminato. Ma i locali impegnati erano pochissimi.» «Strano, in effetti…» «Più che altro paradossale», dice voltandosi verso di me. «Perché i bobbiesi sono legatissimi al loro paese e si considerano una sorta di isola: non genovesi, non piacentini, non lombardi… insomma, bobbiesi e basta. Tanto che a giugno, quando ricomincia il giro dei turisti, una delle frasi che si sentono di più è: iein riveé, sono arrivati, riferendosi ai villeggianti come se fossero gli invasori del loro mondo. E questo nonostante oggi quasi tutti, bene o male, vivano di turismo.» Un uomo, lentamente, nuota a dorso nella piccola ansa formata dal letto del fiume sotto il ponte. Poi si ferma. Si lascia trasportare per un po’ dalla dolce corrente e di nuovo risale con qualche bracciata. L’istinto sarebbe quello di infilarmi il costume e cogliere l’occasione per un bagno, ma la strada è ancora tanta, così saluto Luigi, carico lo zaino e mi rimetto in marcia lungo la via che scende prima al villaggio fantasma delle vecchie terme, oltrepassa la località in cui un tempo sorgeva il mulino di San Martino e infine si adagia sul fiume.
La terza riviera ligure
SARÀ per l’atmosfera che sprizza vitalità solare, saranno le acque cristalline accanto a cui torno a camminare. Sarà che nel pomeriggio il greto del Trebbia si è affollato di ombrelloni e cosce in ammollo, ma la valle, via via che la risalgo, si fa a ogni chilometro marina. È alla Berlina, a circa tre chilometri da Bobbio, che questa trasformazione ha il suo culmine. Affondo con le scarpe sulla spiaggia di sabbia fine che orla il fiume, nel punto in cui si allarga a formare un lieve rigonfiamento, mentre, all’ombra del viadotto della nuova statale, decine di famiglie hanno da poco terminato i loro picnic. Sui tavolini da campeggio giacciono macerie di insalate di pasta e polpettoni. Qualche temerario sta ancora estraendo da variopinte borse frigo fette di mortadella e tranci di pizza. Il resto dell’umanità si arrostisce al sole o è già a mollo nello specchio d’acqua stretto fra le anse rocciose. Materassini, palloni gonfiabili che volteggiano e tuffi di bambini dai massi di arenaria sdoganati a scogli: eccola la terza riviera ligure, un mare in versione economica traslato sull’Appennino. A poca distanza dai bagnanti, all’inizio dell’ansa che apre la zona balneare, trovo ormeggiata anche la barca di Luisa (ecco dove l’avevano portata!), di nuovo in acqua, dopo oltre trent’anni, per necessità cinematografiche. Se ne sta in disparte, davanti a un babbo che insegna alla figlia come far rimbalzare i sassi sull’acqua. Sbiadita e un po’ sbeccata, ma sempre orgogliosa, con quelle punte a poppa e a prua con cui vorrebbe farsi gondola. Come ogni lido che si rispetti anche la Berlina ha il suo bar. A pochi metri dalla spiaggia, protetto dall’ombra dei pioppi, il Machobar è un camioncino da fiera paesana che somministra a un popolo con i polpacci tatuati e i marsupi in vita robetta leggera come i panini con coppa e salame piacentino, piatti di porchetta o cotechino (cotechino!) e ciambelle fritte, effondendo nel raggio di decine di metri aromi solidi al colesterolo. Dopo la Berlina la Val Trebbia cambia pelle. Il fiume s’infossa fra i monti come lo sgorbio di un falegname, disegnando profondi meandri fra le ripide pareti boscose. L’unico modo per seguire l’acqua è procedere lungo la statale 45, che si alza progressivamente dal letto del fiume. Un punto di vista aereo che proietta dritto al centro della cosiddetta finestra tettonica di Bobbio, una specie di luna park per i geologi. Come un paziente narratore, l’erosione del Trebbia ha messo a nudo centinaia di milioni di anni di evoluzione terrestre. E adesso il fiume, accompagnato dal gorgoglio musicale delle sue acque lontane, racconta la storia di quei roccioni ofiolitici verde scuro, tagliati di sbieco come la coppa piacentina. Una storia incredibile per i profani, dove gli strati più alti sono anche i più antichi, sotto i quali le formazioni rocciose più recenti sono scivolate a causa dello scontro titanico della placca europea con quella adriatica, lo stesso che ha innalzato l’Appennino. Oggi al centro esatto di questa storia ci sono Andrea e Chiara, una coppia di trentenni che ha lasciato Rivergaro per piantar radici in quella che avrebbe dovuto essere l’abitazione del custode della diga di San Salvatore. Un’opera iniziata quasi cent’anni fa e lasciata incompiuta per il fallimento della società che avrebbe dovuto realizzarla. La casetta bianca, squadrata e solida come si conviene all’architettura industriale, si sporge a picco sul Trebbia lungo il tratto di vecchia statale che raggiungeva il borgo di San Salvatore. La ragazza, mora e paffuta, sta stendendo le lenzuola nel cortile affacciato sul precipizio boscoso che scende per un centinaio di metri verso il fiume. Con un urlo dalla strada le chiedo se posso scattare qualche foto da quel punto in bilico sul vuoto. Si avvicina al cancello, mi scansiona con uno sguardo e valuta che ci si può fidare. Così eccomi sulla sponda di un lago immaginario, che avrebbe dovuto allargarsi fra le anse di San Salvatore e di cui rimangono solo le premesse cantieristiche di un secolo fa: gli sfioratori a mezza costa sul versante opposto della valle, la base in cemento della diga e il tunnel che devia il Trebbia dentro la montagna per sputarlo fuori duecento metri più a valle. Doveva essere un’opera provvisoria per asciugare il letto del fiume il tempo necessario a costruire la diga e invece è diventato un diversivo permanente, per la gioia, mi dice Chiara, di canoisti spericolati che in quel sifone si gettano in cerca di adrenalina. Allungo lo sguardo verso il monte e provo a immaginarmelo quello specchio d’acqua che anche in anni recenti si è provato a realizzare, come mi ha raccontato qualche ora fa Luigi. «Be’, non sarebbe stato male, come colpo d’occhio, avere un lago qua sotto», commento. «Forse. Ma io sono contenta che tutto sia rimasto così. Il fiume è il fiume. Sta laggiù discreto e nascosto: per me è un riparo. E poi, sai il traffico che avremmo avuto qua attorno?»
Il matitone
OLTRE San Salvatore, verso Marsaglia, la valle continua ad affossarsi a ogni chilometro fra boschi e lastre rocciose stratificate. È evidente che non sto camminando sulla statale per Genova, ma a pelo d’acqua sull’oceano appenninico. Sotto di me ho una specie di Fossa delle Marianne, in cui si srotola un Trebbia bambino. Molto in alto, su un cucuzzolo, il campanile del minuscolo abitato di Brugnello è un faro per non perdere la bussola in mezzo alle anse ubriacanti. Ma c’è campanile e campanile. Quello di Marsaglia, il piccolo centro nei pressi della confluenza dell’Aveto nel Trebbia, una certa impressione la fa. Spunta dalla curva che precede il paese con l’aspetto di un minareto in perenne costruzione. Una specie di matitone bianco scarnificato, dove al posto delle pareti rimane una successione di terrazzi sostenuti da pilastri squadrati, fino al culmine appuntito. Come mai e quando quell’opera sia spuntata in un comunello dell’alta Val Trebbia provo a chiederlo affacciando la testa nell’affollato bar Primo, oltre gli infissi in alluminio dorato della vetrata d’ingresso. Non puoi dire che lì dentro il tempo si sia fermato, ma di certo gira a un ritmo tutto suo. Altrimenti come potrebbero convivere arredi di cinquant’anni fa con un maxischermo al plasma o il servizio wi-fi con la vecchia stufa a cherosene bordeaux? I tavolini all’interno sono quasi tutti occupati da coppe di vino bianco con legittimi proprietari al seguito. Ma il grosso dei clienti è fuori, seduto su una sfilza di sedie azzurre di plastica fronte strada, a commentare ogni foglia che si muove nell’angusto campo visivo. «Mi scusi, c’è qualcuno che mi sa dire chi ha costruito il campanile?» chiedo pieno di curiosità e buon animo. «Il nostro campanile?» mi risponde diffidente il barista, un ragazzo ossuto non troppo alto. Devo avere pronunciato una sorta di parola d’ordine, perché, tutt’a un tratto, il brusio cessa, gli sguardi convergono su di me e le carte rimangono sospese a mezz’aria. Colli e bulbi oculari si allungano con malcelata diffidenza. Sto giocando certamente in trasferta. «Be’, certo, quello lì fuori a forma di matita…» «Perché, non le piace?» fa una donna imbronciata a qualche passo da me, appoggiata a un biliardo che pare non vedere gloria da parecchio tempo. «No, no», mi metto subito sulla difensiva. «È che è strano, ecco… tutto qua.» «Comunque l’ha costruito Vigion, al secolo Luigi Sacchi, che era mio zio: faceva il falegname.» «E a noi piace così», interviene un uomo corpulento in tenuta mimetica, senza interrompere la partita a scopone. A giudicare dai gesti di approvazione, è chiaro che tutto il bar è con lui, nella simpatia verso quell’opera sacra progettata con visione geometrica da un artigiano di paese. Solo che tutta la storia non la sa nessuno. O meglio, ognuno ne conosce un pezzetto e adesso, sospesa ogni attività, ho la sensazione che siano tutti pronti a confezionare all’istante una pagina di Wikipedia tutta per me. Purché sia chiaro che «guai a chi ce lo tocca» quel campanile. Come un figlio discolo del quale puoi parlare male solo tu. Per esempio, quando fu costruito? Si incrociano gli sguardi da un punto all’altro del bar, qualcuno abbozza date, ma senza convinzione: 1952? 1953? Chi lo sa… Finché il barista ha un’idea. Si fionda nel retrobottega e torna trionfante con una vecchia foto di Marsaglia del 1948, poi la mette accanto a un’altra, presa più o meno dalla stessa angolazione, appesa a una parete del bar, datata 1953. «Guarda, questa è sicuramente del 1948 e, come vedi, il campanile non c’era ancora, ma neppure in quella del 1953 è presente. Evidentemente è stato costruito dopo…» «Comunque non tanto dopo», interviene una signora dai capelli ramati. «Sarà stato il ’56 o il ’57…» «Prima, prima, l’hanno costruito prima», fa un ragazzo, abbassando le carte di una briscola. «La foto al muro non è del ’53. Sarà del ’50, al massimo.» «Ma no, è del ’53!» ribatte il barista. «Lo vedi che il ponte all’imbocco del paese è crollato? Fu l’anno della grande alluvione!» E anche sul perché fu costruito a quel modo, ognuno ha la sua teoria: pochi soldi per pagare un architetto, dice qualcuno, dunque si chiese il progetto al massimo del sapere costruttivo in paese, il falegname. Per altri, invece, fu una scelta precisa di chi volle il campanile: don Federico Malacalza, parroco del paese per trentacinque anni e prete partigiano di straordinario carisma. Su questo nessuno ha dubbi. «Io l’ho conosciuto bene», mi dice Vincenzo, un omone corpulento sui sessant’anni. «Il campanile lo disegnò lui. Lo voleva esattamente così, a forma di biro, identico a uno che aveva visto in un altro paese in provincia di Genova. Poi, certo, di soldi non ce n’erano, allora ci si ingegnò con progettisti e maestranze del posto.» Comunque quelle foto di sessant’anni fa, su cui adesso un gruppuscolo di persone si affolla con commenti e ricordi, raccontano di un altro paese. Quello che aveva quasi duemila abitanti, anziché i seicento di oggi. E che, soprattutto, non era assediato dai boschi. «Guarda qua: erano tutte viti. Si faceva il Moscatello, che poi si sono messi a chiamare Malvasia», racconta Vincenzo passando l’indice grande e ruvido sul vetro della foto. «Tutti coltivavano e così il bosco non cresceva. Adesso siamo rimasti in due ad avere la vigna. E il bosco si è mangiato tutto: ormai non c’è più un prato.»
Ed è proprio al bosco che penso quando, da Marsaglia, imbocco la Val d’Aveto incamminandomi sulla provinciale 586, dominata a nordovest dalla sfera immacolata dell’osservatorio astronomico del parco dell’Antola. Una strada praticamente tutta per me, alta sul letto del principale affluente del Trebbia. Nel comune sentire un bosco è sempre e comunque una benedizione che richiama, nella pancia, un vissuto di concetti elementari quali natura, aria pura, animali. Una sensibilità a cui, lo confesso, non ho mai fatto eccezione neppure io. Del resto non c’è centrale elettrica, discarica, ferrovia o tangenziale che non si porti dietro come opera compensativa un bel parchetto alberato. Un’altalena e un ippocastano non si negano a nessuno. E invece capisco solo ora, mentre zigzago sull’asfalto inseguendo le ombre proiettate dalla vegetazione disordinata, quanto uomo e bosco siano una cosa sola. Due sposi indispensabili l’uno all’altro, condannati a vivere in equilibrio. Un equilibrio che viene meno nel momento in cui scompare la mano dell’uomo manutentore. E allora il bosco si fa immediatamente macchia ignorante di rovi e alberi matti. Una metastasi che divora ciò che l’uomo non presidia più. Il marchio di fabbrica dell’abbandono delle nostre aree interne. Proprio come a Marsaglia.
Un tetto, per carità
SONO le cinque del pomeriggio passate e fra me e Marsaglia ho già messo quattro chilometri, quando realizzo che non ho ancora deciso dove dormire questa notte. Dal primo giorno di marcia, non ho minimamente curato la programmazione dei pernottamenti: tablet, Google Maps, qualche parola chiave tipo «hotel»o «bed and breakfast»e il gioco era fatto. Un paio di telefonate e in pochi minuti trovavo dove passare la notte. Magari non esattamente soluzioni a quattro stelle, ma comunque un tetto e un materasso. Senza smettere di camminare, ripeto il solito copione. Ma quando agguanto il tablet scopro che il campo è nullo: niente internet e niente telefono. Se fossi un camminatore integerrimo, di quelli analogici per principio, non ci sarebbero problemi. Tirerei fuori dallo zaino mappe cartacee e guide, trovando senz’altro l’elenco di pensioni e bed and breakfast di tutta la Val d’Aveto. Ma per chi ha venduto l’anima al tablet, la punizione è severissima. La piastra argentea con la mela stilizzata in questo momento ha la stessa utilità di una pietra di fiume. Forse meno. Constato che a Salsominore, il centro abitato più vicino, mancano sei chilometri: un’ora di cammino. E sulla strada continua a non passare un’anima. Avanzo angosciato, sperando a ogni curva che riappaia un minimo segnale. Invece niente. Mi gioco il tutto per tutto nascondendo lo zaino dietro alle frasche e risalendo dalla strada il costone boscoso. Magari più su una parvenza di segnale apparirà, penso. La tacca che alla fine compare me la guadagno a suon di imprecazioni, mentre per centinaia di metri mi faccio largo a mani nude nella selva, marchiato a sangue da rovi e rami intrecciati ad altezza d’uomo. Però, seppur con straordinaria lentezza, Google Maps compare sullo schermo e posso finalmente cercare un letto a Salsominore. Ma ecco che arriva la seconda punizione: a Salsominore non c’è neppure un buco in cui dormire. In bilico su un ceppo di castagno assediato da rami di biancospino, telefono all’unico bar del paese. Una donna, coperta da un vocio da taverna, mi spiega: «Sì, una volta le davo le camere, ma trent’anni fa, quando qui venivano i villeggianti. Adesso chi ci viene a Salsominore?» Ma come? La valle incontaminata e selvaggia che stregò Hemingway non ha uno straccio di affittacamere da Marsaglia a Rezzoaglio? Non ci credo. Mi affido a TripAdvisor, ma è peggio che andar di notte. Il social del turismo addirittura schifa il paese: digito per tre volte Salsominore e per tre volte la maschera mi restituisce il più famoso Salsomaggiore, certamente irritata per il reiterato tentativo di conferire dignità turistica a quella curiosa sottomarca. È evidente che sto cercando un giaciglio in un luogo fantasma. Sarà suggestione o l’inganno della fitta selva in cui mi trovo, ma adesso mi pare che il sole abbia addirittura accelerato la sua marcia di avvicinamento al tramonto. La situazione si fa seria. Allora richiamo la signora del bar, con una mossa da tutto è perduto: «Mi scusi, ma lei conosce qualcuno che potrebbe ospitarmi in casa per una notte? Guardi che pago». La tizia rimane interdetta il tempo necessario per valutare se dall’altra parte del filo si trovi un pazzo pericoloso o un bravo guaglione. Poi sceglie la seconda e mi passa un paio di nomi e numeri di telefono. Numeri fissi. Allora mi attacco a quella speranza, facendo squillare apparecchi piazzati in corridoi di abitazioni sconosciute, proprio come si faceva nel secolo scorso, quando chiamavi un luogo e non una persona. Mi rispondono voci roche già liguri, stranite per l’improbabile richiesta. Alla fine qualcuno, Andrea, mi dà una speranza: «Quando arriva a Salsominore, suoni alla prima abitazione sulla destra», taglia corto, «vedrà che in qualche modo faremo». Così, nonostante abbia addosso tutta la stanchezza del mondo, l’ultimo tratto di strada lo faccio volando, accompagnato dallo sciabordio dell’Aveto, che fruscia in basso fra i boschi come un serpente. Salsominore mi accoglie dopo il tramonto, quando il sole se ne è ormai andato in buca, lasciando un tenue bagliore pastello sulla stretta valle. Le poche case sono allineate sulla strada come in un villaggio del West, lambite dal fiume che riecheggia costante e potente. Una donna innaffia l’orto, da qualche parte un cane abbaia, sovrastando per un attimo il garrire frenetico che sale dalle acque. Andrea non tradisce le attese. Mi rimedia un letto nella soffitta della palazzina di famiglia, addirittura con bagno riservato: un lusso davvero insperato. Poi questo ingegnere in pensione di quasi ottant’anni, che si divide fra Milano, dove ha lavorato, e Salsominore, dove è nato, mi porta sul balcone di casa e con il dito percorre una linea che sale fra i boschi del versante orientale della valle, seguendo una traccia visibile soltanto ai suoi occhi. «Quella è la strada dei romani. Qualche chilometro più avanti, a Ruffinati, rimasero fermi centocinquant’anni, nel tentativo di vincere la resistenza dei liguri. Dovettero costruire quel passaggio, che si andava a collegare con l’alta via del Sale che passava lungo il crinale fra la Val d’Aveto e la Val Nure, per riuscire ad aggirare il blocco e conquistare finalmente la Liguria. Erano tosti davvero, i liguri! Peccato che non si possa più percorrere, la traccia è scomparsa quasi del tutto.» Ma soprattutto Andrea mi parla della sua ASC, Associazione per lo sviluppo compatibile delle alte valli piacentine, che fra le tante iniziative messe in cantiere ne ha una a cui tiene più di tutte: i bacini artificiali. «Ne servono di più da queste parti, altroché… e non mi importa delle sciocchezze di certi ambientalisti», s’infervora. «I bacini artificiali sono utilissimi non solo per produrre energia idroelettrica, ma anche per fare da polmone in caso di piene e garantire un flusso d’acqua costante in estate. Gli ambientalisti protestano perché non vogliono le dighe, ma poi che cosa mi dicono se gli agricoltori in pianura pescano acqua dai pozzi e le falde si
abbassano? In queste valli, all’inizio del Novecento furono previste quattro dighe: Boschi, Boreca, San Salvatore e Losso. Solo Boschi ha visto la luce. Le altre dovremmo farle oggi.» Andrea non la smetterebbe più di parlarmi di laghi e opere idrauliche, ma sono quasi le nove e devo ancora mettere qualcosa sotto i denti. Così gravito verso l’unico locale della frazione: un piccolo bar con annesso un altrettanto minuscolo distributore di benzina. Silvana, per essere l’ostessa over cinquanta di un baretto del profondo Appennino, si tiene su, non c’è che dire. Vestito scuro aderente, scollatura generosa e una permanente ben curata. Ha un sorriso e una parola allegra per tutti gli avventori: un avvinazzato seduto a un tavolino vicino all’entrata, alcuni ragazzini che entrano a comprare i gelati, un paio di uomini in piedi a confabulare con le spalle al perlinato della parete. «Lei è quello che ha chiamato prima, vero? È riuscito a sistemarsi lo stesso…» «La provvidenza aiuta i viandanti ogni tanto», osservo con un sorriso. «Le camere le avevamo, ma ormai…» e mi indica la piccola bacheca in noce accanto al bancone dove, nelle nicchie, penzolano ancora chiavi antiche, zavorrate da enormi portachiavi in ottone. Non può fare molto Silvana per il mio stomaco: al massimo un panino alla pancetta annaffiato da una birra in lattina e, mentre aspetto, un pacchetto di patatine. Silvana sparisce in un retrobottega domestico da cui esce il bagliore blu di un televisore, risucchiata da rumori da tinello: acqua che scorre, zoccoli che ciabattano, tintinnio di posate, le voci basse di una famiglia che ritrova la sua quiete. Mi accomodo a sgranocchiare le patatine su un tavolone di legno laccato, sotto una mensola con una sfilza di coppe e trofei calcistici e pescherecci. Entra altra gente: un’anziana secca con i capelli tinti che fanno pendant col golfino rosso, una coppia di signori pure loro in là con gli anni e un uomo alto in tuta da ginnastica. Si siedono allo stesso tavolo, sotto la luce svogliata di un neon, e cominciano a conversare in un dialetto incomprensibile fatto di «u» acute e chiuse. «Allora, Silvana, si gioca oppure no?» chiede l’uomo più anziano. La barista sbuca dal retrobottega e dà uno sguardo alla sala. «Ma manca la Corinna!» osserva. «Non so se viene però…» commenta la donna dai capelli tinti. «E allora come si fa, con la briscola in cinque?» domanda a bassa voce l’uomo anziano, mescolando un mazzo di piacentine consunte che odorano di polvere e fritto. Gli sguardi convergono su di me. «Sentiamo il forestiero…» «Lei sa giocare all’amico del giaguaro?» mi chiede Silvana venendomi di fronte. «È un gioco dove si rovinano delle amicizie…» sorrido. «Ma tanto lei non conosce mica nessuno, qua.» «Anche questo è vero.» Mi trascino di qualche metro e siedo al tavolo, mentre il frigo dei gelati attacca la sua litania ronzante. Fuori cala definitivamente la notte. Il bar è una zattera con un lume appeso che galleggia nella Val d’Aveto.
Parole al vento
QUANDO arrivo a Ruffinati sono da poco passate le sette e, nell’aria fresca dell’alba, ho già costeggiato per qualche chilometro i canyon di un Aveto ridotto a un rigagnolo in un letto pieno di massi e tronchi d’albero. Un drago addormentato. E lo sa bene Laura, la barista della frazione che segnò il confine fra romani e liguri per oltre un secolo. Oggi quattro case costruite attorno alla centrale idroelettrica che accoglie i tubi della diga di Boschi. Un ombelico di minuscole valli in cui convergono a croce sull’Aveto i torrenti Ruffinati e Lisore. In quel maledetto settembre 2015, la stessa acqua che più a valle sbriciolò il ponte di Barberino in Val Trebbia qua ingrossò il Ruffinati fino a renderlo un serpente indemoniato che uscì dallo stretto budello in cui è convogliato fra Osteria e Centrale, travolgendole entrambe. «Adesso il Ruffinati e l’Aveto sembrano due agnellini, ma vedi al primo temporale che cosa diventano», mi dice la donna ancora assonnata, mentre manovra per prepararmi un cappuccio. «Il Ruffinati ha distrutto ogni cosa con l’ultima piena: siamo dovuti rimanere chiusi sei mesi per rimettere a posto. Dal 14 settembre del 2015, a ogni tuono ho il terrore», spiega. «Perché da qualche anno a ogni temporale vien giù l’iradiddio e quella forza non si riesce a fermare.» Visto che, risalendo l’Aveto e il Gramizza, il primo centro abitato sarà fra una ventina di chilometri, Allegrezze, faccio incetta dei generi alimentari che può fornire l’osteria. «Purtroppo alle sette del mattino non posso cucinarle la trota, la nostra specialità», scherza Laura. Mi tocca accontentarmi di un paio di confezioni di crostini salati e altrettante di Loacker. Mi rifornisco d’acqua e riprendo la marcia, proprio quando la linea del sole sta finalmente lambendo il corso del fiume e la strada che lo costeggia. Una strada bambina, costruita negli anni Trenta per consentire il transito degli operai incaricati di costruire la diga di Boschi. Fino a quel momento bastava una pista sterrata, tanto nessuno sentiva la necessità di percorrere le gole dell’Aveto, visto che la vita si svolgeva lungo le vie del Sale che per millenni hanno collegato il Mar Ligure alla Pianura Padana. Un passato testimoniato dai campanili che ogni tanto spuntano dai boschi del crinale: un tempo paesi integrati su importanti arterie di comunicazione, oggi borghetti popolati, quando va bene, solo in estate. A giudicare dal traffico, pare che neppure oggi siano tanti a sentire la necessità di passare da queste parti. Come ieri, la stretta strada che risale il fiume con curve funamboliche è tutta per me, fatta eccezione per qualche motociclista che procede scoppiettando. Nonostante il sole sia ormai oltre la linea del crinale, l’aria continua a mantenersi più che frizzante. Quando arrivo alla Madonna del Roccione, un minuscolo santuario a strapiombo sulle pareti rocciose che precipitano sull’Aveto, devo addirittura indossare la giacca per ripararmi dal vento che spazza quell’istmo sospeso nel vuoto. Avanzo intorpidito fino al piccolo altare davanti all’effige della Madonna incastonata nella roccia e non resisto alla curiosità di sbirciare fra le agende buttate alla rinfusa, in cui un popolo in viaggio ha fissato le proprie suppliche. Una preghiera per un amore spezzato, più spesso per una malattia, per una persona cara che non c’è più. O comunque per le cose davvero importanti nella vita. Come succede a Diego, dieci anni, che fa appello alla Vergine affinché i genitori non litighino più e lui, nel frattempo, possa trovare Pokémon forti. È passato di qui appena un paio di giorni prima di me. Mentre sfoglio quei grammi di umanità, una grande monovolume accosta. La portiera scorrevole posteriore si apre ed esce un ragazzino magro in calzoni corti, ciabatte e il sonno negli occhi. Si stiracchia e si guarda attorno stralunato come se lo avessero paracadutato su Marte. Alle sue spalle spunta una ragazza bionda, forse di qualche anno più grande, pure lei in ciabatte e appena tirata giù dal letto. Poi è la volta di un’altra bambina bionda, seguita da un bambinetto che ne è la fotocopia, evidentemente un gemello. Entrambi scalzi. Tutti e quattro se ne stanno muti nelle loro t-shirt a osservare l’improvvisato santuario con vista aeronautica, intorpiditi dall’aria gelida. Infine, dal posto di guida esce la chioccia. Una donna, castana e scapigliata, con occhiali da vista che non ne attenuano lo sguardo inquieto. Trema anche lei dal freddo. Vengono da Lodi e sono in vacanza a Rivergaro. E mica per fare passeggiate, mi dice Lucia, la madre di questa truppa, ma proprio per stare sul Trebbia: alla Berlina o nei meandri fra San Salvatore e Marsaglia. Lucia, insomma, i suoi figli non li porta a Cesenatico o a Varazze, ma al fiume. Con buona pace dei figli più grandi che, a bassa voce per non far dispetto alla madre, ammettono che al mare, quello vero, ci andrebbero più volentieri. Ma Lucia ha in testa questa vacanza dal sapore antico. Ama il Trebbia da quando era ragazza e da Lodi si «scappava» fra le anse anche solo per poche ore. «Non ho mai capito esattamente il perché, ma il fiume mi chiama», mi spiega nel vento, stringendosi le braccia attorno al corpo. «È sempre stato così: a un certo punto sento il bisogno di piazzarmi al centro dell’acqua che mi scorre addosso. Mi sdraio, ed è come se il fiume mi portasse via, mi capisci?…» «Credo di sì. Però mi pare che tu abbia ancore molto forti a trattenerti», e con un sorriso accenno alla squadriglia di minorenni che, con una felpa addosso, si è spostata di qualche metro a osservare lo strapiombo sull’Aveto.
Il bandolo della matassa
QUANDO arrivo al bivio che dalla provinciale 586 sale verso Allegrezze, costeggiando il torrente Gramizza, è già quasi mezzogiorno. L’escursione termica rispetto ai rigori della prima mattina è ben superiore ai dieci gradi e la salita verso il paesino che nell’agosto 1944 vide una delle più feroci rappresaglie nazifasciste con l’incendio di tutte le abitazioni, a eccezione di chiesa e canonica, è una fatica da Tour de France. Il sudore mi riga la faccia. Lo stomaco è drammaticamente vuoto. Tutto il mio corpo richiede carboidrati. È da questa mattina che cammino fra boschi e fiume senza avere incontrato un centro abitato, ma il peggio è che all’orizzonte non compare nulla. Vorrei capire quanto manca a Caselle, Allegrezze, Casoni o Amborzasco, nomi che mi girano in testa perché so che il corso dell’acqua mi porterà lì. Mi sono studiato il percorso ieri sera su Google Maps e OpenStreetMap. Peccato che da questa mattina il segnale sia di nuovo allo zero assoluto e sia quindi impossibile capire esattamente dove mi trovi e quanto cammino manchi al primo paesino. Certo il GPS funziona, ma che cosa me ne faccio di una pallina rossa lampeggiante su uno schermo completamente grigio, privo di qualsiasi riferimento cartografico? Impongo a me stesso di non recriminare. Di non rimpiangere la scelta di affidarsi al digitale rispetto alla carta, anche se un lembo di coscienza, sepolto da tonnellate di ego, adesso sta ridacchiando cinicamente. Rimane il fatto che in pieno XXI secolo, sul suolo di una delle potenze industriali del pianeta, a nemmeno settecento metri di quota, sono da ore in una zona desertica in cui è impossibile procurarsi alcun cibo. Una luce di speranza me la dà il monte Penna, che dopo l’ennesima curva mi sbuca improvviso a chiudere l’orizzonte verso sudest, a dominio della valle del Gramizza che ora si apre in una conca segreta di pascoli e macchie boscose. Eccola la montagna sacra con i suoi spigoli acuti, geometricamente divina. La scala a chiocciola verso il dio dell’Appennino, quel Penn celtico adorato dai salassi e poi dalle popolazioni italiche che nei millenni abitarono la catena ventrale italiana, primi fra tutti i liguri, che della montagna fecero un tempio a cielo aperto. Pure i romani si tennero stretto Penn, semplicemente latinizzandolo in Giove Pennino. Un dio potente e necessario – il cui nome, letteralmente, significava vetta –, invocato per proteggere dai pericoli di un ambiente ostile, rimasto impastato con l’idea stessa della montagna italiana, fino a fondersi con i suoi toponimi. Monti come Penna e Pennino, paesi come Pennabilli e, naturalmente, l’Appennino, nell’estrema divinizzazione della catena. *** Alla Villa, un chilometro oltre Allegrezze, trovo finalmente un bar per un boccone veloce e la frugale ricarica di iPad e cellulare. Poi mi rimetto in marcia. La salita verso il Penna, lungo la strada che risale il torrente del Bandito e si arrampica con seicentocinquanta metri di dislivello fino a passo del Chiodo, è una catarsi. Attraverso pascoli popolati da piccole mandrie i cui scampanellii rimbalzano contro la mole rocciosa del Maggiorasca, montagna mediana con velleità dolomitiche. Tutto attorno è uno scroscio d’acqua invisibile che trasuda dai ruscelletti nascosti fra querceti e castagneti. E, sopra ogni cosa, lo spigolo del monte Penna, incoronato dai contrafforti del monte Cantomoro e dalla cresta nuda dell’Aiona, bandolo di una matassa di valli e passi in bilico fra spartiacque incerti, dove trovano sintesi di acqua, terra e cielo. Il rifugio Faggio dei Tre Comuni è un posto pazzesco. Verticale sotto le cime di Penna, Pennino e Trevine, immerso nelle faggete che degradano a meridione dalle tre cime, si trova esattamente nel mezzo delle sorgenti di Taro e Ceno, che dal suo imponente tetto spiovente distano non più di alcune centinaia di metri. Due fiumi gemelli che si gettano a valle dai versanti opposti di questo spartiacque, ma che, contro ogni logica idrografica, si riuniscono a Fornovo, marciando uniti verso il Po. Al rifugio arrivo a passo svelto, per cogliere gli ultimi sgoccioli di luce della giornata, dopo avere deviato dalla strada asfaltata lungo uno sterrato che si allunga per diverse centinaia di metri fra i boschi. Era questo il posto ideale per passare la notte e domani ruzzolare a valle seguendo il Taro. E invece quando arrivo al rifugio, Claudio, il gestore, sta salutando gli ultimi due clienti della giornata e si appresta a chiudere la porta d’ingresso. «Non si può dormire?» chiedo allarmato. «No, siamo aperti per la notte solo in alta stagione», mi fa l’uomo con forte accento ligure. Evidentemente deve leggere tutto lo sconforto che in un attimo mi trasfigura il viso. «Guarda che una soluzione c’è: a un paio di chilometri abbiamo un altro rifugio, il Monte Penna. Sarebbe chiuso anche quello, ma noi viviamo lì e abbiamo posto. Se vuoi ti faccio venire a prendere da Cristina, mia moglie.» Mi pare una buona offerta, soprattutto in considerazione del fatto che alternative non ce ne sono. Cristina si materializza nel giro di pochi minuti, sgommando su un enorme fuoristrada. È una donna rubiconda e bruna sulla quarantina, con un piglio e un sorriso tali che ti pare strano immaginare possa mai essere di cattivo umore. Mentre affronta con perizia rallystica gli sterrati e le curve fra i boschi, mi racconta di come lei e suo marito, liguri di Chiavari, siano finiti fin quassù per amore dei cani. Non cani qualunque, ma Siberian Husky, cani da slitta con i geni che affondano nelle pianure siberiane e nelle distese dell’Alaska, usati per competizioni in tutto il mondo. A Claudio e Cristina quel rifugio fra i faggi sembrò subito il posto perfetto per allevare cani da slitta e, perché no, bambini.
«Ho fatto battezzare i miei tre figli sul Penna e li ho cresciuti senza corrente elettrica», sorride orgogliosa mentre con la tavoletta del gas mi sottopone a drammatici sussulti. «Qui abbiamo solo i pannelli solari e un generatore per la sera, ma ti assicuro che non hai mai la stessa potenza dei 220v.» E anche i cani hanno prosperato. Oggi sono decine e mordono il freno. Quando arriviamo al rifugio, Simone, il figlio diciassettenne, e un suo amico stanno scegliendo dalle gabbie i pochi fortunati che porteranno a fare un giro nei boschi attorno. Con il caldo, questi cani polari possono allenarsi solo al buio, quando la temperatura allenta un po’. Dalle gabbie si alzano unghiate frenetiche, guaiti e ululati che si perdono fra gli alberi, in un vorticoso «scegli me-scegli me» cagnesco. Simone e l’amico attaccano i prescelti a un carrellino che dovrebbe simulare una slitta e partono. La luce tremula dei loro frontalini dopo pochi istanti è inghiottita dall’oscurità. Per me c’è un piatto di tagliatelle all’uovo spesse un dito, ai funghi porcini, e la ninnananna del gruppo elettrogeno che brontola nella notte come un trattore impegnato ad arare.
La fabbrica sulla montagna
NON è gente che sta con le mani in mano, Cristina e Claudio. Quando, sul filo dell’alba, mi presento per la colazione, la donna mi ha già preparato una crostata di prugne e, china con la sua chioma riccia sul pc, sta registrando alcune fatture. Claudio, nonostante la temperatura non certo mite, è impegnato a dar da mangiare ai cani, vestito con la stessa t-shirt e gli stessi pantaloncini di ieri sera. Indaffarato, è di poche parole: «Vuoi uno strappo in auto fino a Faggio dei Tre Comuni? Io ci sto andando ora». Son le parole giuste, però. Così posso ripartire fresco dal punto di arrivo di ieri sera. Dalla Betlemme del Taro, fra la vetta del Penna e le eruzioni ofiolitiche del Trevine. Aggiro la base della montagna sacra da est a ovest, procedendo nella frescura della faggeta ancora inviolata dal sole. Un bosco rado di alberi puntati come spilli, in cui lo sguardo può spaziare per centinaia di metri. Strano a dirsi, mi sento vulnerabile. Lo so, è un pensiero infantile, ma giuro che me lo chiedo veramente fino a che punto sia arrivato il ripopolamento del lupo nell’Appennino centrosettentrionale. Così, tanto per sapere. È per questo che, alcuni minuti più tardi, quando la boscaglia si infittisce nuovamente e da un punto indefinito davanti a me sento avvicinarsi a zampettate veloci un abbaio potente, il sangue mi si gela. In pochi istanti la bestia mi sarà di fronte, su questo non c’è dubbio. Ho l’istinto di arrampicarmi su un albero. Ma a portata di balzo non vedo niente. Nel più primordiale dei gesti di difesa, raccolgo un sasso per terra, serro le mascelle e attendo impietrito. Ciò che appare dal cespuglio sono invece due bracchi pezzati, che avanzano dinoccolati e paiono più impauriti di me nel vedermi. Continuano ad abbaiare, ma si fermano guardinghi e ansimanti a una decina di metri. Poi un fischio padronale li rimette in moto in direzione contraria e spariscono di nuovo nella foresta. Dalla parte opposta rispetto a quel richiamo, più avanti di un centinaio di metri, due uomini sulla settantina stanno fumando la prima sigaretta della giornata vicino a un piccolo fuoristrada. «Ti hanno puntato, eh?» mi fa Franco, il più alto, volto scavato su cui è piazzato un cappellino da pescatore che lo rende simile a un finferlo. «Be’, vi confesso che sentire abbaiare mentre si cammina nel bosco… mi è venuto da pensare ai lupi… È infantile, ma…» «Infantile, dici?» interviene Giovanni, decisamente più rotondo, inguainato in una giacca militare. «Lo sai cos’è successo a un mio cane questo inverno? Era legato nel cortile di casa, a Grondana, il primo paese che trovi scendendo a valle. Ero uscito da due ore e al mio rientro l’ho trovato sbranato. Alla catena era rimasta attaccata soltanto la testa! Tutto avevano mangiato, quelle dannate bestie!» «I lupi?» chiedo stupefatto. «I lupi, certo…» e fa una tirata più lunga alla sigaretta. «Cane che mangia cane… ma siete sicuri? Mi pare incredibile.» «Anche a noi», interviene il finferlo. «Ma ti posso garantire che è proprio così. Del resto chi altri avrebbe potuto ridurlo così? Di certo non i cinghiali.» «Ma come è possibile?» «È semplice: lo vedi questo bosco? In certi punti nemmeno si riesce a passare tanto è fitto. Negli ultimi trent’anni nessuno lo cura più e il selvatico si è ripreso tutto. Così sono scesi a fondovalle i caprioli e, con loro, i lupi. Ma il lupo deve pur mangiare e, se non trova le sue prede, va su quello che c’è nei paraggi. Anche i cani purtroppo… me lo spieghi che razza di equilibrio è questo?» «E pensa che dove ci troviamo ora, in questo punto esatto, un secolo fa c’era una fabbrica a cielo aperto…» dice Giovanni con un sospiro. «Una fabbrica?» «Proprio così. Una fabbrica che sfruttava queste faggete per ricavarne acido pirolegnoso e carbone.» «A dire la verità la fabbrica vera e propria era giù a Santa Maria del Taro, oltre Grondana», spiega Franco. «Ma tutto partiva da qua. Vedi laggiù?» Mi indica un piccolo terrapieno completamente ricoperto di vegetazione. «Lì c’era la funicolare che portava a valle i tronchi d’albero. Ho letto da qualche parte che quando fu costruita, attorno al 1874, era la più grande d’Europa. Ti rendi conto? La più grande funicolare d’Europa, qua! E Santa Maria era un centro industriale importantissimo!» «Ma si può vedere qualcosa?» «No, il bosco si è mangiato tutto, nemmeno più i basamenti dei tralicci si vedono. Qualche anno fa un gruppo di ragazzi del paese ha provato a ricostruirne il percorso, giusto per curiosità, ma non c’è stato verso. Tra l’altro quelli che avevano memoria del passaggio perché l’avevano vista in funzione erano ormai tutti morti.» Certo che è ben strana la memoria. Te la immagini eterea. Una nuvola di pensieri, emozioni e ricordi, una sorta di archivio cloud dell’animo umano che nulla ha a che fare con la fisicità dei luoghi. E invece questo viaggio mi sta convincendo di come esista una cinghia di trasmissione invisibile fra luoghi e ricordi, capace di collegare la memoria alla corporeità di muri, alberi, strade e fiumi. Un giunto cardanico che, quando finisce la prima, si spezza e cancella lentamente anche ciò che è tangibile. Finché tutto scompare. Come gli antichi tralicci del Penna. O come l’odore acre e rassicurante del legno bruciato che si effondeva dai mille comignoli delle carbonaie fra i boschi. Lo sfruttamento successivo di questa foresta, quello che andò avanti fino al secondo Dopoguerra. Se lo ricordano bene Franco e Giovanni.
«È una delle immagini più belle della mia infanzia: la vista del Penna da Grondana, con tutti quei pennacchi di fumo che si alzavano», dice Giovanni. «E nei pezzi di bosco in cui rimanevano i ceppi, cresceva una quantità incredibile di more e lamponi: così tanti da doverli raccogliere con le gerle.» Non saranno quelli di un tempo, ma i lamponi non mancano neppure oggi. Quando saluto i due uomini e riprendo la marcia, mi attardo a raccogliere i frutti rossi che spuntano ovunque dai cespugli a margine del sentiero. Una tentazione infinita che mi fa perdere una buona mezz’ora. Solo quando esco dal selvatico e mi si spalanca di fronte la vallata che scende a meridione mi rendo conto di quanto sia ancora in quota. Un vento rabbioso pulisce l’aria, pettinando i boschi e le frazioni in basso: Grondana, Mazzi, Pianello, Torri. Minuscoli abitati a ridosso delle balze di roccia scura che scendono dal monte Castello. Sono quelle cupe venature metalliche a nascondere, da qualche parte, gli ingressi alle miniere di rame che per almeno tre secoli, fra Seicento e Ottocento, nobili, possidenti e uomini d’affari provarono, senza troppo successo, a sfruttare. Tanto che oggi frane, vegetazione e oblio hanno fatto perdere memoria anche di quegli accessi. Nel boato delle raffiche si fatica a intercettare i gorgoglii dei fossi che precipitano a fili sottili dalla vetta incanalandosi in un ruscello chiamato Taro. Sono al centro esatto di un’esplosione acquatica, dove gli elementi, attratti da misteriosi magnetismi, trovano ordine nel fiume in fasce. Poi tutto si azzera e riparte nella diga sottostante, dominata dalla torre piezometrica. Una costruzione maestosa e solitaria a guardia della valle, più simile, con i suoi merli disposti a corona, a un torrione guelfo che a un’opera idraulica. Quando la strada guada il Taro in fasce, mi levo lo zaino e mi chino per immergere mani e piedi in quell’acqua battesimale che sbatte impaziente su macigni verde fiammante, si allarga in una pozza limpidissima e scivola via verso il proprio destino. Poi chiudo gli occhi alcuni istanti per sentirmi addosso questa montagna che trasuda come una spugna: roccia viva che respira, gorgheggia e sciacquetta. Una doccia dell’anima che rinfresca e rinfranca. È questa vitalità argentina la molecola primordiale che quasi centocinquant’anni fa generò l’industrializzazione effimera del Penna e di Santa Maria. Quando arrivo in paese me la racconta Fausto questa storia che nasce dall’acqua. Baffi ottocenteschi all’insù, tarchiato e ben piantato, guarda questo lembo di mondo dalla soglia del suo bar, proprio di fronte a quella che fino a un secolo fa era la stazione di arrivo della teleferica, che poi era un tutt’uno con i magazzini del legno, con la distilleria in cui si ricavava l’acetato dai faggi e la carbonina, il deposito del carbone. Una vera e propria cittadella, che si muoveva grazie alla forza del Taro, nata dall’intraprendenza visionaria di un notabile italo-francese, Henry de Thierry, figlio dell’Europa post-napoleonica e dell’Italia preunitaria, che negli anni Settanta dell’Ottocento salì sull’estremo Appennino con un pensiero che andava oltre la semplice idea di far soldi con i faggi. Un pensiero che aveva a che fare con lo sviluppo di una comunità intera e passava per i caseggiati costruiti lungo il fiume per alloggiare gli operai, per la strada di passo del Bocco, verso Chiavari e i porti di Genova e La Spezia. Fu una parabola industriale che durò meno di un secolo, con alcune fasi precise: dal 1874 a inizio Novecento la lavorazione di legno pregiato per le ferrovie, l’industria navale, gli arredi e con gli scarti la produzione di acetato per le industrie chimiche europee. Poi le carbonaie, fino al secondo Dopoguerra e, infine, le segherie per la produzione di mobili, soprattutto seggiole, che sono andate avanti fino agli anni Ottanta del secolo scorso. «Anche mio padre aveva un mobilificio ai bei tempi», mi spiega Fausto mentre riempie di bicchieri la lavastoviglie. «Qualcuno è rimasto, ma lavora da decenni solo legno importato: non c’è più un rametto che scende dal Penna. E comunque per i mobilifici sono finiti i tempi d’oro. Una volta si poteva produrre un tir di sedie a settimana. Adesso se riescono a venderne dieci è tanto.» Di quella storia a suo modo gloriosa oggi non rimane traccia. Il complesso industriale, dove non completamente smantellato, è stato trasformato in abitazioni che si fronteggiano su strette viuzze. Nell’edicola del paese spuntano un paio di libri su De Thierry. Ma ciò non toglie che il passato di Santa Maria sia comunque legato al filo sottile della tradizione orale. A una flebile narrazione corale che procede sempre più disarticolata e nebbiosa.
Fuori il pollice
INGURGITO il solito gelato con bibita ghiacciata, ma quando stacco il cellulare dall’immancabile presa nascosta dietro alla vetrinetta dei liquori, scopro che di nuovo non c’è campo. Posso capire sul Penna, ma qua siamo fra case e asfalto. È vero, si tratta di estremo Appennino, ma suvvia, attorno a me ci sono le insegne al neon di bar e ristoranti, le antenne tv sopra i tetti, la caserma dei carabinieri e addirittura uno sportello bancario. Come può non ricevere il primo operatore europeo di telefonia mobile? Allarga le braccia Mirko, un ragazzone barbuto che nel garage di casa sta lambiccando dentro al cofano della sua auto. «Vodafone non prende per nulla», mi fa con accento più ligure che parmense. «Da Pontestrambo verso Borgotaro, al passo del Bocco verso Chiavari, neppure una tacca, te lo garantisco. Qua solo Tim funziona.» «Vi hanno dimenticato», sorrido. «Qua ci contiamo sulle dita di una mano, chi vuoi che venga a mettere ripetitori? Comunque mica solo le compagnie telefoniche si sono scordate di noi. Prova a guardare Santa Maria su Google Maps: il Taro lo fanno nascere praticamente in paese, dimenticandosi di tutto il tratto a monte, fino alla diga e oltre, non vedi il torrente Incisa e alcune strade non coincidono. Siamo sul confine della percezione.» Percezione o no, una cosa è certa: fino a Borgotaro sarà tutto alla cieca. So quanti chilometri mi separano da lì, ma non sarà possibile misurare passo e distanze. Un bel casino. E non posso neppure verificare su OpenStreetMap se esiste qualche sentiero o carreggiata che costeggia il fiume. Chiedo ai pochi passanti, ma l’indagine sul campo dà esiti piuttosto negativi. A nessuno risultano passaggi, oltre la provinciale che scende verso Parma costeggiandone il letto. Del resto, anche a occhio la situazione è chiara. Il fiume, che dopo Santa Maria matura e si appiattisce nel suo procedere verso valle, mi scorre a pochi passi, blindato da una macchia inselvatichita di rovi, querce avvolte dall’edera e felci alte due metri. Dunque c’è solo asfalto in questo pomeriggio che si fa rovente a mano a mano che perdo curve altimetriche. Dopo un paio di giorni passati in solitudine su strade bianche fra i boschi, è uno strazio l’impatto con la civiltà motorizzata. Non che la provinciale per Borgotaro sia così trafficata, ma ogni passaggio d’auto è fastidioso come una zanzara. Il problema vero, però, è che dopo un paio di chilometri mi suona una sveglia. Non proviene dall’orologio né tantomeno dal cellulare, ma arriva dritta dall’intestino: sono le chiare avvisaglie di una guerra nucleare che sta per essere combattuta laggiù. E la mente mi porta all’abbuffata di lamponi di questa mattina. La questione si fa più seria a ogni passo, visto che il movimento pare accelerare. Lungo la strada non sembrano esserci anfratti idonei ad assicurare la necessaria privacy, ma, soprattutto, realizzo di non avere contemplato nella preparazione dello zaino una minima scorta né di carta igienica, né di fazzolettini di carta: maledetto dilettante! E allora arrivo velocemente a quella che mi appare l’unica soluzione possibile: metto fuori il pollice. Solo che non si ferma un cane. Contraendo i muscoli, continuo a camminare speranzoso e a ogni rombo di motore che si materializza alle mie spalle, senza voltarmi, cerco di immaginarmi qualcosa sull’auto e il suo guidatore: avrà un sussulto di compassione per un viandante? Ascolto lo scalare dei giri del motore, sperando dentro di me che quel cambio di marcia sia il preludio a una fermata, invece si tratta solo di rallentamenti per evitare di stirarmi: il livello minimo della pietà automobilistica. Dopo un’interminabile mezz’ora, finalmente c’è un’auto che non disdegna il viandante. Che non teme il contatto con un uomo che ha l’ardire di camminare su una strada munito di uno zaino. È una Seat Ibiza vecchio modello color fucsia, che accosta con le quattro frecce lampeggianti a una ventina di metri davanti a me. Sull’auto sono in tre. Un uomo dai tratti mediorientali si sporge e mi fa solo un cenno col capo. «Noi andiamo a Compiano», dice in italiano stentato un ragazzo sul sedile anteriore. «Benissimo! Basta che ci sia un bar», rispondo ansimante per la corsa verso l’auto e mi accomodo sul sedile posteriore. I miei salvatori di nome fanno Armid, Fahad e Houssein e stanno tornando a casa dopo il turno del mattino in un panificio di Santa Maria. Sandali ai piedi, camicie chiare e faccia stanca: la montagna che lavora (e che si ferma per dare un passaggio a un disgraziato) parla pakistano e odora di Arbre Magique alla vaniglia. L’unico che mi rivolge la parola è Armid, l’uomo alla guida, il più anziano dei tre. Ha l’età indefinita di chi ha stretto la cinghia: stempiato, capelli grigi, rughe profonde come sorrisi. E ha una storia da raccontare. Quella di chi è in Italia da quindici anni per mantenere una madre, una moglie e tre figli a Lahore. Tutti aggrappati a quei millequattrocento euro al mese, con un contratto in perpetua scadenza da ormai due anni e sempre, «sia ringraziato Allah», rinnovato. Almeno fino a oggi. Niente di regalato, beninteso, perché di facile non c’è mai stato nulla da quando ha messo piede in Italia, uscendo dalla cella frigo di un tir al porto di Ancona. Armid ha sempre girato inseguendo il lavoro. Quello duro per davvero, quello che gli italiani non vogliono fare. Prima in nero. Poi, ormai da anni, regolare. E, regolarmente, precario. Quasi un anno in un’azienda agricola in Valtellina, poi sei mesi in un magazzino dell’hinterland milanese, tre anni in tipografia a Modena, un altro paio in una vetreria a Parma. Finché, cinque anni fa, non ha risalito la strada verso l’Appennino, quella che tutti gli altri hanno disceso per insediarsi in città. Ma a lui del dove e del come non interessa granché. Basta uno stipendio alla fine del mese: a Lahore le pance non possono aspettare e fra qualche anno la figlia più grande dovrà andare all’università. Di certo lui non potrà vederla il primo giorno di lezioni e neppure gli altri. Ma Armid, con i suoi lunghi silenzi, sa che cosa deve fare. La vita adesso è questa qua.
«Quassù le case costano poco», mi spiega con parole misurate e lente, in bilico su una lingua non sua. «E il lavoro non manca. Al panificio i turni di notte li fanno solo lavoratori pakistani. Perfino i capiturno, ormai, sono tutti stranieri. Mi fa ridere sentire che rubiamo il lavoro. Tra l’altro, in quindici anni non ho mai chiesto un euro di aiuto a nessuno. Ho sempre pagato l’affitto e mai rubato nulla, anche quando non ho preso lo stipendio.» Armid scarica prima gli altri ragazzi e poi mi accompagna davanti a un bar della zona industriale di Compiano. Ma anziché salutarmi, spegne il motore. «Te lo offro io un panino», mi dice con un sorriso. Rimango per un attimo interdetto. Il problema è che non siamo più abituati alla solidarietà spicciola. Quella che nasce dal niente e nulla ti chiede in cambio. «No, Armid, ti ringrazio, non c’è bisogno… figurati.» Anche lui ha un impercettibile scarto dell’umore, come se avesse compreso che cosa davvero si nasconde dietro al mio rifiuto: la spocchia recondita di chi considera inaccettabile farsi offrire qualcosa da qualcuno che si ritiene un gradino più in basso in un’ipotetica scala sociale. «Sicuro? Guarda che lo faccio volentieri…» insiste. Basta quello sguardo smarrito per farmi sentire un miserabile. «Va bene, ti ringrazio» dico alla fine. «Una cosa però», aggiungo mentre scendiamo dalla macchina. «Prima avrei bisogno del bagno.»
Vodafone maledetta
IL passaggio di Armid mi ha fatto compiere in mezz’ora la strada che avrei dovuto percorrere in tre ore abbondanti. Così a Borgotaro, anziché alle sette di sera, arrivo che non sono neppure le tre del pomeriggio. Con un patrimonio di almeno quattro ore davanti, l’intestino alleggerito e un panino alla cotoletta nello stomaco, giudico non troppo azzardato puntare già oggi verso la Lunigiana. Risalire il torrente Tarodine da Borgotaro fino al passo del Brattello, al confine fra Emilia-Romagna e Toscana, per poi scendere verso Pontremoli e passare la notte al primo bed and breakfast utile: su Google Maps le possibilità di trovare qualcosa in zona sono diverse. Così raccolgo forze e idee accanto alla fontanella della chiesetta di San Rocco, all’ombra di un pero da cui mi posso anche servire per una merenda. Tento, con due telefonate, di trovare un posto per la notte, senza che nessuno dall’altra parte del filo mi risponda. Poi mi metto in marcia: il pomeriggio è lungo e certamente qualcuno più tardi troverò. Sulla stradicciola che si arrampica verso il passo del Brattello, nonostante il dislivello di oltre cinquecento metri da addomesticare in undici chilometri, camminare è uno spettacolo. La sottile lingua asfaltata costeggia il torrente che scorre con un rigagnolo d’acqua nell’ampio greto. E a ogni tornante si alza la vista sulla Val di Taro alle mie spalle. E poi la strada ha di che confortare il pellegrino. Ogni fattoria è circondata da alberi da frutto e il viandante affaticato, passandoci di fronte, non può fare a meno di porsi una semplice domanda: se gli alberi crescono all’esterno del recinto della casa, si tratta comunque di proprietà privata? Il suddetto povero pellegrino può quindi rifornirsi di frutta senza sentirsi un mariuolo? Nel dubbio allungo la mano, usando comunque una certa destrezza. Non si sa mai. Le cattive notizie arrivano quando, superato l’abitato di Valdena, riprovo a chiamare per trovare un posto in cui passare la notte e scopro che, di nuovo, sono sprofondato nell’Ade dei servizi telefonici: Vodafone non prende neppure qua. Schiumo di rabbia maledicendo la mia positivistica propensione alla tecnologia e, soprattutto, la malaugurata idea di partire da Borgotaro senza avere ancora individuato un rifugio per la sera. Mi fermo e ripeto la solita pantomima: vago sui rilievi nel raggio di centinaia di metri, nella speranza che un filo di segnale, magari per miracolo, magari portato dal vento, arrivi. E invece niente: perdo tempo inutilmente. Tanto che, quando riprendo la salita, il sole obliquo alle mie spalle mi ricorda che il tempo sta comunque per scadere perché ho non più di un’ora di luce per percorrere i circa cinque chilometri che mi separano da passo del Brattello. Almeno un bar ci sarà, penso. Poi succeda quel che succeda. Mentre la mia ombra si allunga, la strada si arrampica come un serpente fra i boschi, e la piccola valle del Tarodine, fino a poco fa ricca di suoni umani in lontananza, sprofonda nel silenzio. Spariscono i borbottii dei trattori, i rumori delle motoseghe e non passa più neanche un’auto. Solo le mosche che continuano ad assediarmi, attratte dal sudore copioso, non si arrendono alla quiete che si appoggia come un mantello su questo angolo di mondo. Attorno a me tutto si addormenta. Più la luce del giorno impallidisce, più accelero il passo, scatenando una rivolta collettiva di muscoli e legamenti che implorano, con dolori pungenti, di fermare la corsa. Ma ormai sono in mezzo al guado. Non voglio neppure prendere in considerazione l’idea di farmi sorprendere dal buio in mezzo al nulla, senza ancora sapere dove mangiare o passare la notte. Cerco, salendo, di correre più veloce della linea del sole che cala implacabile verso occidente. È un’altalena, dove il disco arancio pare scendere oltre la linea di crinale fra le valli di Taro e Ceno alle mie spalle, ma poi giro un tornante, salgo una decina di metri e, di nuovo, eccolo spuntare per un attimo. Alla fine facciamo pari e patta. Perché quando la strada finalmente spiana e si intravede il passo, l’ultimo sole sta accarezzando le punte degli alberi più alti, che sembrano protendersi come girasoli a inseguire il magnetismo languido di quel tepore. È un lume di candela che rimbocca le coperte a tutti e imbrunisce in pochi minuti ogni tonalità di verde attorno. Così, quando entro nel bar senza insegna al pian terreno della costruzione bianca che sta sul passo, è già praticamente notte. Devo essere trasfigurato dalla fatica se la signora minuta che mi accoglie mette subito le mani avanti. «Dovrà mica mangiare?» «Be’, una mezza idea l’avrei avuta…» butto lì, gettando lo zaino sulle mattonelle a graniglia del pavimento. «No, perché facciamo ristorante solo sabato e domenica. Se vuole le posso fare un panino. Va bene la coppa o preferisce il crudo?» Dopo lo sforzo titanico delle ultime ore e il pesante deficit glicemico avrei ambito ad altro, ma non mi pare di avere alternative. Rifletto per qualche attimo nel silenzio del locale deserto, rotto solo dalla litania di un neon difettoso e dal ticchettio di un orologio da parete. «Davvero non c’è altro?» «Ho patatine e brioche confezionate…» dice aggiustandosi un grembiule sgualcito a strisce bianche e rosse. «Ah…» «Oppure, se vuole, per me e mio figlio, di là in casa, ho messo su l’acqua per il riso. Lo facciamo col pesto alla genovese: se le va bene, ne metto giù un pugno in più…» L’offerta è decisamente più interessante: chiudiamo l’affare così. «Ah, signora, ci sarebbe un’altra cosa… Sa mica dove potrei passare la notte?» «Ma è a piedi?» allarga gli occhi stupita.
«Sì.» «Certo che non è molto previdente, lei. Qui non posso tenerla, ma forse si può risolvere anche questa.» Con un mezzo sorriso che mi riempie di speranza, sparisce in cucina e io rimango a contemplare i dettagli di un bar che galleggia nel tempo come una nave senza bussola. C’è il variopinto piatto celebrativo delle nozze di Carlo e Diana, seminascosto nella vetrinetta, fra le bottiglie di Averna e Cynar, l’espositore girevole di cartoline, con cinque piccole immagini agresti incorniciate da una griglia rossa e la scritta SALUTI DAL PASSO DEL BRATTELLO, il muso di stambecco sorridente appeso alla parete e gli immancabili elenchi del telefono, accatastati accanto al registratore di cassa. Il ritorno della donna è la marcia trionfale dell’Aida. Il profumo del pesto annuncia il suo ingresso nella sala con un piatto fumante ricolmo. Prima di afferrare il cucchiaio inalo quell’aroma inspirandolo come un aerosol di aglio e basilico. Con un sorriso materno in bilico fra perdono e rimprovero, mi dice che ha pure trovato la soluzione per la notte. «A qualche chilometro da qui, verso Pontremoli, c’è un bed and breakfast. È di una coppia che conosco. Ho telefonato io e fra mezz’ora la vengono a prendere. Le va bene?» Baciarla sarebbe eccessivo. La guardo illuminato e con la bocca già piena mi spertico in ringraziamenti. «Sì, però la prossima volta si organizzi meglio, soprattutto se viaggia a piedi», ammonisce. «Ma guardi, sono organizzatissimo, è che il cellulare è da Borgotaro che non prende, non riuscivo a navigare su internet e pensavo…» «Un camminatore non dovrebbe mica avere di questi problemi… Non ha mappe e indirizzi nello zaino?» «È un tasto dolente, signora…» taglio corto ridendo.
L’epifania della Lunigiana
«IL problema è che non si riesce più ad allevare un animale!» Marcello, il proprietario del bed and breakfast che ieri sera è salito al passo a recuperarmi, ha la parlantina facile e un cruccio in testa. Vorrebbe tornare a tenere qualche vacca chianina, come faceva un tempo. «Solo che qua non sono più al sicuro nemmeno i vitelli», mi dice mentre mi prepara una moka di caffè nella stanza al piano terra della vecchia casa colonica, ristrutturata con pazienza per anni. «Arrivano i lupi e te li sbranano. A me è già successo. E non parliamo delle galline: un pollaio è roba da temerari, con tutte le volpi e le faine che girano. Credo che a Grondola nessuno ce l’abbia più.» Anche a Grondola, poco più di seicento metri sul livello del mare, infilato nella valle del Verdesina, che dal Brattello scende a Pontremoli, i grandi mammiferi scendono dall’alto verso una collina sempre più inselvatichita. Marcello si passa una mano fra i capelli folti e scompigliati. «Che poi succedono pure episodi simpatici», sorride. «Per esempio tanti casi di addomesticamento: come la volpe che l’anno scorso iniziò a venire tutte le sere a casa mia e mi seguì fino alla sagra del paese.» «Certo che se scendono a valle e poi non trovano più prede…» aggiungo addentando una crostata di amarene. «Sta proprio cambiando il rapporto fra uomo e animali da queste parti. Altrimenti come te lo spieghi che un colubro, un serpentone verde, per settimane, tutte le sere si è presentato proprio qua in giardino a curiosare? E mica veniva per mangiare…» Certo, di cose strane ne succedono in questa valle corta e verticale, che spara dall’Emilia alla Lunigiana in un’esplosione di vegetazione. Come l’interesse maniacale per piazzare impianti idroelettrici lungo il Verdesina, poco più di quattro chilometri di torrente che dal monte Borraccia sgorga fra cascatelle e pozze limpidissime verso il borgo di Guinadi, dove si unisce al Verde per scendere poi verso Pontremoli. Un rigagnolo che si impoverisce anno dopo anno e in cui scorrono acque superficiali così incontaminate che ci sguazzano ancora gamberi di fiume e tritoni. Del resto chi viene a inquinare in questa valle scivolosa e fuori mano, sommersa fra i punti A e B dei viaggi motorizzati sulle grandi direttrici? Da un lato, l’autostrada Parma-La Spezia, che trancia la valle coi suoi viadotti cinque chilometri più in basso. Dall’altro, la ferrovia che da Pontremoli risale il Verde fino a Guinadi e da lì si butta nella galleria del Borgallo per uscirne solo a Borgotaro. Un tempo forse, fino a una ventina d’anni fa, il treno poteva ancora regalare l’idea del cuore verde nascosto fra Pontremoli e la galleria di valico. Occorreva pazientare il minuto necessario per la fermata alla stazione di Grondola-Guinadi. Proprio accanto al punto in cui il Verde accoglie il Verdesina. Un minuto inutile, visto che in quella stazione arenata sul fondo del mare Appennino da tempo non saliva né scendeva nessuno. Realizzo quanto io sia in basso quando da Grondola mi metto in cammino per acchiappare il Verde. Discendo il versante sinistro della valle per diversi chilometri, addentrandomi in un bosco di salici e cerri, da cui liane spinose rovinano sulla strada come sinistre cascate. Sull’altro versante le frazioni di Prà del Prete e Cervara sono scogli che emergono a fatica da un mare burrascoso in tempesta, allungando la testa verso l’alto per non affogare nel fogliame dilagante. È da questa vegetazione monsonica che si fanno largo i vagiti del Verdesina, dapprima lontani, oltre una scarpata, poi sempre più netti a mano a mano che si scende. Finché la strada non lo scavalla nei pressi del mulino Castellotti, nel punto esatto in cui abbandona la sua verticalità fra i massi che scendono da passo del Brattello e si allarga con sbalzi fra piccole pozze. Scendo a riempire la borraccia e mi godo il Barolo delle acque toscane all’ombra di un incredibile faggio di oltre tre metri di diametro. Come un albero abituato ai mille metri di quota prosperi a un’altezza di neppure cinquecento, lo racconta una vecchia storia, in bilico fra suggestione e realtà. Una storia che parla di un prete, don Giovanni Maria Castellotti, originario proprio del mulino. Attorno al 1840, girando a cavallo sul crinale fra i passi del Borgallo e del Brattello, sradicò un piccolo arbusto di faggio per scacciare le mosche che infastidivano l’animale. Una volta a casa, anziché gettare il ramoscello, lo piantò lì davanti e questo, forse per gratitudine, si mise a crescere inossidabile e rigoglioso per quasi due secoli. «Io però a questa storia non c’ho mai creduto», mi racconta Giacomo, un ragazzino di ottantatré anni con addosso una tuta variopinta e aderente da sportivo professionista. Che ogni mattina (beata pensione) in sella alla sua mountain bike si fa cinque volte la salita fra la stazione ferroviaria e Grondola. Si ferma incuriosito dalla sosta di un vagabondo con lo zaino, forse ignaro di suscitare a sua volta una certa ilarità per gli occhiali da sole aerodinamici piazzati su una bocca da ricovero, praticamente senza incisivi. «Però», prosegue reggendosi con le punte dei piedi e i gomiti appoggiati al manubrio della bici, «abbiamo bisogno tutti di una bella storia, che cosa dici? Meglio quella favola che il mistero di una pianta che lì proprio non avrebbe potuto sopravvivere. Soprattutto per me che davanti a questo mulino sono passato per una vita.» «E che cosa ci venivi a fare?» «Lavoravo alla stazione, facevo il bigliettaio.» «Una biglietteria là in fondo? Ma non ci arriva nemmeno la strada asfaltata…» «Tu non hai idea del giro di persone che c’era un tempo, almeno fino alla fine degli anni Sessanta. Era il punto più vitale di tutta la Valle del Verde: scendevano a prendere il treno da Grondola, Guinadi, Prà del Prete, Pian di Valle… e la stazione era una specie di centro commerciale. C’erano anche il barbiere, una macelleria e… persino le mignotte, c’erano.»
Così quando atterro sul verde e cammino sulle pensiline devastate della stazione ormai chiusa da anni, provo a immaginarmelo quel centro di gravità, nella gola del fiume. In cui passava ogni giorno buona parte dei capifamiglia dei paesi attorno, quasi tutti impiegati in ferrovia con una mansione ben precisa: frenatori. Una pattuglia di lavoratori che già nel nome portavano l’anacronismo di quel mestiere, a pensarci oggi. E che, per ogni treno che sbucava dalla galleria di valico, salivano sulle carrozze e manovravano i freni a manubrio nella discesa verso Pontremoli. Ma certo non è facile figurarsi tutta quella vita in mezzo alle rovine degli edifici, il cui unico segno di modernità è la scritta su fondo blu fiammante Guinadi-Grondola. Dalla fontanella decrepita continua a sgorgare acqua, come se attendesse da un momento all’altro l’arrivo di un viaggiatore. Percorro un tratto di strada ferrata verso la galleria, attraverso i binari, scavalco la palizzata e mi ritrovo nella frazione di Borgallo, dove la ferrovia e i due fiumi, che qui si uniscono, tirano i fili della Lunigiana che si distende di fronte a me: epifania illusoria di una terra. Verso Pontremoli costeggio il letto del Verde. Ma è un’intuizione acustica data dal suo gorgogliare fra i massi, perché il fiume è completamente murato dalla boscaglia di salici e acacie. Talmente fitta da non far arrivare un solo raggio di sole sulla mia biancheria che penzola, come ogni mattina, dallo zaino. Ma voglio vedere la cosa in positivo e succhio la goduria di camminare con il fresco finché il selvatico intenso della valle, superate le muraglie sorde dei piloni autostradali, si infrange come un fiume in piena contro palazzine, case e piccoli condomini, che lo disintegrano in brandelli di viti, orticelli, campetti incolti fra le case, progressivamente assorbiti dalla città.
La mia strada
SONO gli erogatori dell’acqua marchiati VIA FRANCIGENA a ricordarmi che Pontremoli, a suo modo, segna uno snodo nel viaggio. Perché è qui che mi immetto sull’autostrada del pellegrinaggio verso Roma. È qui che le mie suole anarchiche e solitarie calpestano le orme di un esercito composto da decine di migliaia di persone che ogni anno puntano verso piazza San Pietro. «Ehi, lei… dico a lei…» Mi giro e nel parchetto spelacchiato in cui sono piazzate un paio di fontane meccanizzate, due uomini sulla sessantina stanno riempiendo alcune casse d’acqua. È il più corpulento ad avercela con me. «Non si ferma a fare scorta d’acqua?» mi urla pur essendo solo a una decina di metri. «Ho la bottiglietta ancora quasi piena», gli rispondo. «Ma questa è più buona, senta com’è fresca, e poi, se vuole, c’è anche gassata!» e mi fa toccare una delle bottiglie appena riempite, già appannata dalla condensa. In effetti la temperatura, alle dodici e mezzo di una giornata di sole, la sua importanza ce l’ha e si paga cinque centesimi al litro: un investimento sopportabile. Mi avvicino svuotando cammin facendo la bottiglietta. «È la prima volta che fa la Francigena?» «Non sto camminando sulla Francigena.» I due si guardano meravigliati. «Ma come? Qua c’è la Francigena!» esclama lo smilzo. Come dire: a Pontremoli non scappi, se hai uno zaino in spalla significa che sei sulla Francigena. Punto e basta. «In verità mi sto facendo da Milano a Roma seguendo i fiumi.» «Tutta a piedi?» Lo sguardo di chi un secondo prima mi aveva battezzato come uno fra i tanti pellegrini di passaggio si fa improvvisamente dubitativo e disorientato, come se parlasse con un marziano. «Certo!» L’uomo assimila con espressione enigmatica la notizia e, assieme all’altro, continua a riempire bottiglie. Prendo pure io la mia razione di acqua pellegrinesca e mi rimetto in marcia pensando a quanto sia strabico il modo di vedere un viandante. Soggetto ammirevole se lo fa lungo percorsi definiti e condivisi. La Francigena, per esempio, ma anche un’alta via alpina, o comunque un qualsiasi sentiero che sia tracciato su una mappa, che sia cioè formalizzato nella coscienza collettiva. Personaggio eccentrico, ambiguo, o addirittura sinistro, se si avventura al di fuori degli spazi riservati ai marciatori. Quasi fosse un nudista a spasso fra le altalene del bagno Romagna di Cesenatico. La verità, forse, è che nel concetto di normalità cinetica il cammino non esiste più: vi rientrano solo gli spostamenti su gomma, ferro, acqua o via aria. Perché l’idea di muoversi con le sole proprie forze è confinata all’esperienza mistica, sportiva o ludica, non certo alla pratica quotidiana. E allora sono ancora più felice di essermela inventata io, questa strada. Di giocare all’animale che esce dalla riserva e rivendica il diritto alla normalità di mettere un piede davanti all’altro, senza seguire per forza una via già tracciata. Tra l’altro, la Francigena fra Pontremoli e Aulla non può certo dirsi un percorso memorabile. Ne seguo per qualche chilometro il tracciato, che tenta pietosamente di deviare dalla trafficatissima statale incuneandosi ogni tanto in qualche borghetto. Ma per lo più il cammino si fa largo fra zone industriali arroventate dal sole, capannoni, marmisti e officine. Almeno fino alla frazione di Migliarina, dove la Francigena riprende la vocazione campestre e si distende lungo le campagne di granoturco e frutteti che bordano la sponda sinistra del Magra. Avanzo schiaffeggiato da uno scirocco potente che s’infila in quell’imbuto fra i canaloni nudi dell’Appennino e le guglie delle Apuane. Una terra di passaggio, la Lunigiana, in bilico fra accenti liguri, emiliani e toscani, puntellata di castelli e castelletti che raccontano l’epopea della stirpe Malaspina. Una casata sui generis, che suddivideva proprietà e averi fra tutti i figli maschi, moltiplicando minuscoli feudi su questo fazzoletto di terra, diventato per oltre cinque secoli, dal XIII secolo all’arrivo di Napoleone, un patchwork di micromarchesati, talvolta in conflitto fra loro. Ma ciò nonostante capace di perpetuare nei secoli un’identità precisa, forse scolpita nel DNA indomito degli apuani, alleati di Annibale durante la Seconda guerra punica e piegati dai romani solo con una deportazione forzata nel Sannio, attorno al 180 a.C. Poco dopo Filattiera, appena trovo un varco per il fiume (il cellulare oggi prende alla grande e con lui la mia cartografia elettronica), riprendo il filo del mio viaggio, tanto più che sulla Francigena non si vede un pellegrino. Imbocco una pista di terra battuta che si allarga in una boscaglia di farnie verso l’alveo. Qua e là piazzole piene di scottex e preservativi: fuori mano e infrattate, talvolta dimenticate, le acque interne si confermano zona grigia di attività clandestine. Poche centinaia di metri e finalmente guadagno il Magra.
Nella pancia dell’animale
RIPRENDO il cammino seguendo una traccia di OpenStreetMap che passa esattamente all’interno del greto, senza però che ci sia uno straccio di sentiero abbozzato. Avanzo a fatica fra i ciottoli di un letto enorme, un’arrampicata orizzontale che dà l’idea di che strana bestia sia il Magra: un fiumiciattolo che scorre tranquillo, in ossequio al nome che, in effetti, non presuppone esattamente grandi portate. Ma qua e là sono ben evidenti massi di notevoli dimensioni. «I sassi di un fiume parlano, bisogna saperli guardare e ascoltare. Quando nel letto si trovano anche massi di certe dimensioni, significa che la forza dell’acqua può diventare molto, molto potente, soprattutto con questo clima malato, che moltiplica le piogge eccezionali anno dopo anno.» Proprio in questo punto del Magra, mi disse così qualche mese fa Pino Sansoni. E allungò il braccio come a voler passare al sonar la distesa ghiaiosa che avevamo davanti. Pensionato dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana, biologo, attivista di Legambiente con una vita passata a difendere lo stato naturale del «suo» fiume, sin da quando, negli anni Ottanta, se ne volevano canalizzare ben trentadue chilometri. Un fiume violentato da sessant’anni di edilizia selvaggia. Con sé aveva due fotografie di una panoramica di Aulla presa dallo stesso punto di vista: una scattata negli anni Cinquanta e una di un paio d’anni fa. «Ti rendi conto?» chiese affiancando le due immagini. «Nel Dopoguerra le case erano a debita distanza dal fiume, poi hanno costruito dappertutto, anche a pochi metri dall’alveo. È vero che oggi piove in modo più rovinoso, ma da che mondo è mondo i corsi d’acqua sono usciti inondando campagne. Adesso, invece, quando il Magra straripa trova subito condomini e parcheggi.» Un bel problema se devi difenderti da piene come quella del 25 ottobre 2011, quando dal Magra passarono qualcosa come cinquemila metri cubi d’acqua al secondo, rispetto a una portata massima dell’alveo di duemilacinquecento. Risultato: Aulla, Fiumaretta e Bocca di Magra sott’acqua. «Dove è possibile bisogna ridare spazio ai fiumi, almeno a monte e a valle delle zone che rischiano di andare a mollo», mi disse mentre camminavamo fra i ciottoli in un pomeriggio terso di aprile. «Significa fare in modo che, in caso di piena, il fiume rallenti la propria corsa allagando i campi circostanti, ovviamente indennizzando gli agricoltori. E meglio ancora se trovasse ad accoglierlo aree ricche di vegetazione in grado di frenarne l’avanzata e se i centri abitati avessero sistemi in grado di trattenere l’acqua, anziché spararla direttamente in mare attraverso le fogne. Per esempio costruendo i parcheggi con mattoni autobloccanti forati, che possono far defluire l’acqua verso le falde, oppure i cosiddetti ‘tetti verdi’ sugli edifici, con strati di terra e vegetazione capaci di assorbire la pioggia, o bacini di ritenzione in cui accumulare acqua piovana da rilasciare gradatamente. Di certo non sono buone le canalizzazioni che per tanti anni si è tentato di fare in Magra: quelle servono solo per fare scorrere più veloce il fiume e aumentarne la pressione.» Poi, a un certo punto, sollevò da terra un ciottolo avvolto da una patina verdastra, lo fissò per un attimo, facendo scendere gli occhiali da professore sulla punta del naso, e me lo porse con gesto sacrale, come se si trattasse di un tesoro. «Lo vedi? Il fiume va rispettato e protetto perché è molto più di ciò che sembra.» «Dici?» chiesi senza capire. «L’alveo sembra inanimato, ma in questo momento stiamo camminando su una specie di foresta amazzonica! Questa pellicola che avvolge i sassi è un microcosmo popolato da alghe ed erbivori microscopici come ciliati e rotiferi, di cui si nutrono i macroinvertebrati come le larve degli insetti, che a loro volta sono cibo per una lunga catena alimentare, fatta di anfibi, rettili, uccelli, pesci. E poi, considera che questa stessa pellicola funge da depuratore naturale per le acque, che escono più pulite di quando sono entrate.» «Quindi il fiume trasforma in libellule e coleotteri le schifezze che l’uomo gli butta dentro?» Mi sorrise gettando il sasso con gesto lento nell’acqua. «Be’… oltre una certa soglia d’inquinamento questa depurazione naturale non può fare nulla… però, in linea di principio, è vero: il fiume genera vita dai nostri scarti.» «Il fiume è più grande, allora», mormorai. «Certo, e ti ho solo fatto un esempio. Ma ce ne sarebbero a decine. Pensa alle pozze naturali che si formano fra i campi dopo le piene, dove i pesci continuano a vivere per mesi e diventano una sorta di riserve riproduttive naturali.» Così, mentre attraverso una savana di piste che si incrociano fra le acacie, i salici, gli ontani e i pioppi altissimi che bordano l’ampio corridoio fluviale del Magra, non posso fare a meno di sentirmi dentro la pancia di un animale enorme, di cui è impossibile tracciare il profilo preciso, tanto è vasta la relazione con ciò che gli sta attorno: animali, persone e, specialmente, paesaggio. Perché il fiume è soprattutto architrave di bellezza. E lo penso adesso, osservando la capacità del suo alveo di assorbire il cemento armato della Parma-La Spezia che gli scorre accanto o le brutture dell’incontinenza edilizia di Aulla. Una sorta di sordina estetica che rende sopportabile anche ciò che non lo sarebbe.
Il destino ha il senso dello humour
CHE tentazione una linea ferroviaria. Soprattutto se non ci passano treni. Così, quando realizzo che non c’è verso di costeggiare l’Aulella – il torrente che arriva ad Aulla dopo aver attraversato le Apuane –, anziché rischiare la vita sulla stretta statale, decido di proseguire il mio cammino lungo i binari. Al Bar Sport di Aulla sono stati chiari: per qualche giorno ancora la Lucca-Aulla rimarrà chiusa per manutenzione. Così seguo uno sterrato di poche decine di metri che dalla strada scende verso il fiume e mi ritrovo sui binari a simulare una specie di passo della papera, per tenere le piante dei piedi sul legno delle traversine. È questo infatti l’unico modo per evitare di massacrarmi camminando sui sassi della massicciata. Con passo ridicolo accarezzo l’Aulella e supero la cittadella fantasma del vecchio polverificio, trasformata poi nel polo missilistico Oto Melara, ora solo una gigantesca rovina di edifici utilizzata come deposito di ghiaia. Una cattedrale nel deserto, spazzatura di un passato industriale e armaiolo che non tornerà, ma che inquina con i suoi residui. A dire il vero ciò che inquina ben di più sono le sessantamila tonnellate di rifiuti accumulati accanto all’ex polverificio dalla Cjmeco, impresa pirata di trattamento rifiuti, chiusa nel 2002 dai carabinieri del NOE dopo aver inanellato una serie spaventosa di reati ambientali. Da allora, quella montagna di monnezza, pregna pure di amianto, è rimasta a due passi da Pallerone, frazione di Aulla, in una terra di nessuno di centosettantamila metri quadri, bordata dalle acque del torrente Bardine poco prima della confluenza con l’Aulella. È Moreno a raccontarmi di questa bomba ecologica, quando smonto dalla gita ferroviaria e chiedo notizie su dove mi trovo al primo passante, perché la rotaia ha il potere di lanciarti in una dimensione parallela, priva di riferimenti stradali. Ma per dimostrarmi che Pallerone non è solo quella spianata di veleni e calcinacci, quest’uomo sulla sessantina dallo sguardo mite e la parlantina a macchinetta mi prende praticamente per mano. «Dammi solo cinque minuti, voglio mostrarti quanta bellezza potremmo avere.» Attraversiamo la statale e oltre una cortina di vecchie abitazioni squarciamo il sipario che ci proietta in un intreccio di viuzze e abitazioni medievali che si accavallano, in un guscio corazzato di anime e pietre. «Questo è il Verdentro, una specie di paese nel paese, che coincide con l’antico castello dei Malaspina», mi dice mentre varchiamo un arco che ci conduce in una galleria umida sotto le case. Peccato che tutto o quasi sia in abbandono. Poche le case abitate, ancor meno quelle in condizioni decorose. Alcune, come quelle di via Lungo Aulella, completamente sventrate, tanto che la zona è diventata offlimits, con la recinzione di plastica rossa a chiudere tutto. Era la via delle stalle, mi racconta Moreno. Quella che dalla piazzetta del paese sbucava direttamente sull’acqua dell’Aulella, come in un villaggio di pescatori senza mare. Quei muri anneriti e crepati da cui si affacciano infissi divelti hanno molte ragioni: la gente che se n’è andata, le proprietà frazionate fra mille fratelli o nipoti. Ma il colpo di grazia lo diede un pifferaio magico che, una decina di anni fa, suonò il flauto del grande affare. Un immobiliare si offrì di liberare decine di residenti dal peso di abitazioni e stalle ormai disabitate e cadenti. Mise sul piatto due lire, è vero, ma erano pur sempre immobili inutilizzati o quasi. E poi girava voce che se non avessero venduto gli sarebbero comunque state espropriate, perché c’era nell’aria un grande progetto di riqualificazione immobiliare. Venghino, signori, venghino. E invece tutto finì a gambe all’aria, con il risultato che oggi una bella fetta di quelle case è nelle mani di chi non potrà più recuperarle. Scendiamo nella spianata verde che borda il letto dell’Aulella e, seduti sul muretto che separa il fiume dal paese, contempliamo Pallerone, assediati dalle zanzare. «Lo sai qual è la cosa che mi fa più rabbia?» esclama Moreno, pulendosi gli occhiali con un lembo della camicia. «Vedere quanto Aulla sia cresciuta con i palazzi infischiandosene del proprio passato: in questa frazione come altrove. Si è costruito senza cultura, questa è la verità! Ma possibile che in decenni nessuno si sia mai posto il problema di come recuperare questo centro storico?» Alle nostre spalle l’acqua gorgoglia allegra. Appoggiare il fondoschiena dopo otto ore di marcia ininterrotta ha l’effetto di un’epidurale: un sollievo talmente profondo da farmi dimenticare gli arti inferiori per alcuni minuti. Mi sdraio senza togliermi lo zaino con gli occhi socchiusi, mentre Moreno si rolla con gesti lenti una sigaretta. «Ma dove stai andando di preciso?» mi chiede dopo un lungo silenzio. «A Roma», sussurro dall’altro mondo. «A Roma? Ma allora hai sbagliato strada! Ad Aulla la Francigena scende verso Sarzana. Non hai visto i cartelli?» «Scusa, Moreno, mi spieghi perché un camminatore che va a Roma dovrebbe per forza prendere la Francigena?» «Be’, se vai a piedi la strada è quella…» Mi stiro e incrocio le braccia dietro alla nuca osservando nubi innocue che sbuffano pigre. «Ho un percorso tutto mio lungo i fiumi.» Rimane qualche istante a pensare. «Quindi cammini da solo tutto il giorno?» «Assolutamente sì. E ti dirò la verità: il bello è proprio questo: la solitudine. Così torno al mio stadio naturale.»
Mi rendo conto di ciò che ho detto solo un istante dopo avere pronunciato quelle parole. Non ho detto che cammino per il paesaggio, per incontrare persone, per conoscere luoghi o buttar giù la pancia. Ho detto che cammino per rimanere solo, per tornare ciò che ero. È un pensiero che mi esce a tradimento, talmente intimo da non averlo mai confessato neppure a me stesso: io non amo la solitudine, io sono, all’origine, solitudine. Lo stare da solo risponde all’istinto ancestrale di isolarmi per osservare il succedersi delle vicende altrui. A pensarci adesso, esausto su questo muretto sbeccato, si tratta di un voyeurismo sociale che mi appartiene sin da quando ero bambino. Lo stesso che mi portava a passare intere ricreazioni arrampicato su una robinia, osservando partite di pallone e scambi di figurine. Ed è buffo pensare a come il destino, con il suo indubbio senso dello humour, mi abbia condotto da tutt’altra parte: due matrimoni, tre figli, una vita professionale tutta nelle relazioni esterne di grandi aziende. Con quel binomio scintillante RELAZIONI ESTERNE appiccicato alla targhetta di un ufficio, a ricordarmi da vent’anni quanto stia navigando lontano dal porticciolo della mia natura più intima. Te lo credo che certe cose non te le confessi, altrimenti dovresti ammettere di avere sbagliato tutto. Così, con un improvviso colpo di reni, trovo la forza di saltare in piedi e scrollarmi di dosso quel pericolosissimo stato di semicoscienza. «Mi sa che devo rimettermi in marcia», dico a Moreno, intento ad aspirare le ultime boccate della sua sigaretta. «Si è fatto tardi per te: hai ancora un’ora abbondante di cammino. Vuoi che ti accompagni in auto? La prendo in un minuto…» «No, grazie, preferisco a piedi.» «Così stai solo, giusto?» «No, questa è anche questione d’orgoglio.»
Il verso dell’acqua
QUANTO lontano si può andare con due ore d’aereo? L’Europa diventa praticamente il giardino di casa: Parigi, Berlino, Atene, Londra. Tutto a un tiro di schioppo nelle mappe mentali che tracciamo vivendo i luoghi. Quelle dove non conta la distanza misurata in chilometri, ma in tempi di percorrenza. E allora dove si trova Equi Terme? Nell’estrema Valle del Lucido o sui Pirenei? Incastrata fra le Apuane o fra le guglie dell’Engadina? Camminare regala illusioni ottiche, è questa la verità. Perché le due ore che impiegherò questa mattina per percorrere i dieci chilometri che mi separano da Equi Terme sarebbero sufficienti a traslarmi di lingue e fusi orari. Equi, dunque, potrebbe essere in ogni dove, in questa camminata che si fa transfer. Del resto, questa mattina ogni passo affonda nel ventre delle Apuane, un altrove alpinistico di cime violentemente piramidali, piovute fra il Tirreno e i rilievi arrotondati dell’Appennino. Improvvisamente mi trovo a percorrere altri luoghi. Di fronte a me le vette appuntite del Pizzo d’Uccello, del Pisanino, del Sagro e la lama seghettata del Grondilice. Sotto i miei piedi, di nuovo, la ferrovia e l’ampio greto dell’Aulella, traboccante di trote che riflettono a ogni volteggio la luce del sole come topazi. È uno scenario da cercatori d’oro, quello in cui mi immergo tornando a camminare sui binari della Lucca-Aulla, una linea di montagna che ha resistito all’elettrificazione, entrando in perfetta simbiosi con la natura prorompente attorno. La ferrovia costeggia discreta orti e cortili, come un elemento decorativo affiancato a fontanelle e nani da giardino. È un filo d’Arianna che mi porta fino a Gragnola, il paesello alla confluenza del Lucido nell’Aulella, dominato dalla mole del castello dell’Aquila, uno dei più importanti forti Malaspina. Nella piazza della stazione mi fermo per verificare la tenuta di un paio di vesciche corsare al piede destro e massaggiarmi con un po’ di antinfiammatorio il tendine d’Achille sinistro, che da ieri pomeriggio lancia segnali preoccupanti. Mi siedo sui gradini della veranda di un bar proprio sulla strada. Scarico lo zaino, tolgo scarpa e calzino, iniziando un’ispezione chirurgica. Sotto la dura scorza di un callo all’alluce destro pulsa la massa liquida di una vescica enorme. Estraggo dalla custodia di una vecchia stilografica il kit sanitario del bravo camminatore: disinfettante, cotone idrofilo, ago e filo. Con gesti precisi, disinfetto l’ago e faccio passare il filo nella cruna. Poi, chino con la testa appoggiata alla coscia, tento di forare la bolla. Il callo, però, è troppo spesso. D’accordo, la pelle in quel punto ha completamente perso la sensibilità, ma anche in assenza di dolore, conficcare con forza un ago fra le mie cellule cadavere è troppo per il mio stomaco. Così dopo qualche tentativo desisto e passo al massaggio col Voltaren. La strada, in un certo senso, anestetizza. È una repubblica autonoma di usi e costumi che assottiglia i confini fra viaggiatore e vagabondo, in cui ci si immerge progressivamente a mano a mano che si passano i giorni a camminare. Usi e costumi lontani anni luce dalle prassi e dai riti della civiltà sedentaria. Per esempio, sfruttare il primo punto utile per espletare un bisogno fisiologico, oppure prendersi cura dei piedi malconci senza badare al come e al dove. Anestetizzato al contesto, insomma. Così, quando mi rendo conto che le mie operazioni chirurgiche stanno attirando i commenti fra il divertito e lo schifato della fauna che pascola al bar, raccatto velocemente le mie cose e vado a concludere il mio rito a qualche centinaia di metri, sul parapetto del ponte in pietra che supera l’Aulella. Un posto pazzesco, sospeso sul torrente luccicante partorito dalla corona delle Apuane che chiudono la valle verso sudest. Sotto di me, acque dalla limpidezza commovente, in cui si ammassano a centinaia trote e cavedani. Rimango qualche istante immobile a fissare quell’acquario fluviale, facendomi trapassare dalla brezza che s’infila nella valle e scivola verso nord. «Hai visto che roba?» Un uomo distinto, di mezza età, si affianca e fissa il fiume senza voltarsi verso di me. «Bellissimo, in effetti, non ho mai visto tanti pesci di fiume tutti assieme… A proposito, io mi chiamo Riccardo.» «E io sono Armando, piacere.» Mi rivolge un sorriso gentile e mi porge la mano con un gesto formale. «Pensa che ogni mattina arrivano gli aironi dal lago di Massaciuccoli per farsi una scorpacciata e poi rientrano la sera. Vanno matti soprattutto per i pescetti più piccoli, gli scaglioni…» «Vengono al ristorante…» «In effetti il Lucido con tutta quest’acqua pulita…» «Lucido? Ma questo fiume la mappa lo chiama Aulella!» E istintivamente apro Google Maps sull’iPad. «Vedi?» «Non ho mai usato quella roba», ribatte Armando aggrottando gli occhi, «ma ti posso garantire che questo è il Lucido. E laggiù, qualche centinaio di metri a valle, si congiunge all’Aulella, che scende da Casola. Al limite si potrebbe discutere del fatto che il nome verso valle se lo porti con sé l’Aulella, visto che il Lucido ha una portata d’acqua ben maggiore.» Allargo la mappa per controllare meglio e mi accorgo che non solo il fiume di Gragnola è chiamato Aulella, ma addirittura che dalla valle di Casola non scende alcun corso d’acqua. «Ma sei sicuro?» «E che scherzi? Sono nato in quella casa là!» E indica un’abitazione bianca, proprio a ridosso del greto. Apro OpenStreetMap per tentare di capirci qualcosa, sotto gli occhi divertiti dell’uomo. Ma neppure così mi raccapezzo. La mappa elettronica mi qualifica il fiume sotto i nostri piedi come Solco di Equi. Ma Armando mi ribadisce che si tratta del Lucido. Che un motore di ricerca della Silicon Valley smarrisca un fiume delle Apuane è, tutto sommato, tollerabile. Che sbagli invece OpenStreetMap, il faro informatico che ha guidato fino a questo momento il mio viaggio, è decisamente più seccante.
«Ma non stare a crucciarti», mi sorride l’uomo mentre raccolgo le mie cose per ripartire. «Giri per fiumi e non hai ancora capito che ognuno battezza l’acqua col nome che gli pare? È pieno di fiumi chiamati con nomi diversi a seconda del tratto. Lo conosci l’Agno, per esempio?» «Dalle parti di Vicenza, mi pare…» «Esatto! Quello cambia nome almeno sei volte, in base al suo comportamento: nel primo pezzo si chiama Rotolon, perché porta a valle i detriti con violenza, nel tratto successivo, più calmo, è chiamato Agno, dopo ancora, quando inizia il tratto di pianura, diventa Guà, come il guazzo, l’acqua stagnante e così via…» «Ma anche in Toscana c’è da diventare matti?» «Forse non hai idea del posto in cui sei capitato: qua non si capisce nemmeno da che parte della montagna scenda l’acqua…» «Cioè?» «Le Apuane sono una terra carsica di rocce molto friabili: quando piove in Garfagnana, oltre lo spartiacque di questa valle, l’acqua spesso ce la troviamo nei nostri fiumi, anche se da questa parte non scende una goccia!» A Monzone, un borgo incredibile arroccato al centro di una gola con le spalle coperte di montagne spigolose, alla confluenza di un torrente nel Lucido (o Solco di Equi per il mio fallibile assistente digitale) ne approfitto per fare una sosta, mangiare un trancio di pizza al volo e, soprattutto, lavarmi i denti a una provvidenziale fontana. Non c’è dubbio che nell’erranza trovi la mia vera dimensione, ma anche dopo anni di cammini, non riesco ad abituarmi all’idea di rimanere, fosse solo per qualche ora, con i denti sporchi e la bocca impastata. Ma, ancora una volta, un tizio con il cappello a falda larga e uno zaino penzolante di biancheria stesa che si lava i denti a una fontana non passa inosservato. Così da una casa di fronte si apre un’imposta. «Ha bisogno di qualcosa?» Un uomo rubicondo si affaccia, strizzando gli occhi per la luce accecante. Con la bocca piena e lo spazzolino grondante, faccio segno di no. «Ma è sicuro?» Ha il tono apprensivo di chi si trova davanti a un moribondo. «Grazie, tutto bene», ribadisco dopo essermi sciacquato la bocca. «Ho giusto approfittato della fontana. Ora riparto.» «E dove va di bello?» «A Roma!» Il tizio rimane per un attimo interdetto, con la mano sulla maniglia dell’imposta. Poi sparisce e in venti secondi netti si materializza in strada con un brick di succo di pesca in mano. «Tenga. Le farà bene! Vuole anche un grappolo d’uva?» «La ringrazio, ma non c’era bisogno…» rispondo disorientato, sempre con il retropensiero dell’altro giorno: il timore di essere scambiato per un barbone. O comunque un soggetto ai margini della società convenzionale. «Non si offende mica, vero?» «No, ci mancherebbe.» «Meno male, perché sa, se cammina tanto…» «Ogni tanto un supermercato lo incontro, comunque…» «Lo so, lo so», sorride l’uomo mettendomi una mano sulla spalla. «Ma un succo di frutta comprato in bottega non avrà mai lo stesso sapore di uno regalato: le voglio dire che sono con lei! Arrivare a Roma non è mica uno scherzo.» Rimango muto di fronte a quel volto sereno e, apparentemente, ingenuo. Completamente nudo di fronte alla semplicità di quelle parole. E capisco che non sono bastati oltre quarant’anni di vita per comprendere il significato di «gratuità»: non un gesto compassionevole, ma comunione e vicinanza. E penso pure che solo la strada, con la sua capacità di riportare alla base ogni bisogno, di semplificare gli opposti come in un’equazione, poteva fornire la dimostrazione aritmetica della mia intima supponenza. Afferro il fruttino e, istintivamente, abbraccio quello sconosciuto, mentre la fontana continua a gorgogliare acqua.
Nell’ombelico delle Apuane
PROSEGUO verso Equi lungo la strada deserta, stretta fra il Lucido (o quello che è…) e la rotaia della Lucca-Aulla che ogni tanto sbuca dalla montagna, affiancando il mio cammino con il portato del suo travagliato passato. Una linea di montagna fra le più spettacolari d’Italia, concepita inizialmente – siamo nel 1840 – per collegare i ducati di Modena e Lucca e in seguito per unire la città toscana e la Val di Magra. I lavori della tratta cominciarono però solo nel 1890, quando in Italia regnava Umberto I, in Gran Bretagna la regina Vittoria e negli Stati Uniti era ancora vivo Toro Seduto, per terminare il 21 marzo 1959, con Giovanni Gronchi alla presidenza della repubblica e Elvis già sulla breccia. Alla mia destra spariscono pian piano il monte San Giorgio e la Torre di Monzone, mentre di fronte si srotolano le case di Ugliancaldo, come una lunga corda appoggiata sul crinale che chiude la Valle del Lucido. È quello il diaframma che separa Lunigiana e Garfagnana, alla destra della spaventosa cresta del Pizzo d’Uccello, un’esplosione minerale resa ultraterrena dalla foschia meridiana che le si alza attorno. Una presenza eterea che si sposa con i ciottoli a pelo del fiume, capaci di evocare con il loro luccichio mondi di sottomarina grandezza. Ma, in fondo, è tutto mitologico a Equi, termine illusorio di una valle che invece si prolunga in Garfagnana con le sue acque sotterranee e la ferrovia che buca la montagna con la galleria del Lupacino. Una Samarcanda appenninica che si avvita come una stalagmite sotto la Tecchia – «tetto» in dialetto locale –, una sorta di portico calcareo che si allunga sul paese, in cui l’uomo ha cominciato a trovare riparo e a seppellire i propri morti centoventimila anni fa. Ed è oltre questa tettoia che l’acqua, grondando fra le fessure delle Apuane per centinaia di migliaia di anni, ha modellato le grotte di Equi, i ventricoli da cui si dirama la strana idrografia della valle. Me lo spiega Francesca, la giovanissima guida del Geo-Archeo Park di Equi, in che razza di posto sono capitato. La incontro per caso, mentre sale all’ingresso delle grotte dopo la pausa pranzo. «All’interno della montagna scorre un fiume sotterraneo», dice giocherellando con il badge da guida di cui va evidentemente orgogliosa. «Proprio qua, sotto la Tecchia, questo fiume esce con il nome di Fagli, scende per alcune centinaia di metri e si unisce con il torrente Catenelle, che nasce ai piedi del Pizzo d’Uccello e poco a monte di Equi forma il Solco che…» «Scusa, hai detto Solco?» «Certo. Il Catenelle ha formato una sorta di piccolo canyon fra le rocce calcaree.» «Dunque il Solco non è un fiume?» «Ma no! Perché me lo chiedi?» «Cose mie», sorrido. Però dentro di me matura la certezza che pure OpenStreetMap ha fallito alla grande quassù. «Ma qual è la fonte del Lucido allora?» «Bella domanda! Nessuno lo ha mai specificato. Certo, se consideriamo la portata d’acqua, sarebbe certamente il Fagli, che in piena arriva anche a quindicimila litri al secondo.» E getta uno sguardo sul torrente che a pochi metri da noi esce dalla montagna con un ruggito liquido. Facciamo assieme qualche passo e ci ritroviamo sul parapetto che dà sulle acque spumeggianti. Il frastuono è incredibile. «Quindi il Lucido nasce qua!» urlo. «Finalmente comincio a capirci qualcosa di queste acque. È un luogo importante allora.» «Certo che lo è», mi grida a dieci centimetri dal volto Francesca. «Ma per un altro motivo: lungo il Lucido corre la linea che separa l’Appennino dalle Alpi Apuane: è un confine netto, che ci racconta che cosa è successo milioni d’anni fa.» «E cioè?» «Il calcare delle Apuane ha cominciato a sedimentarsi più di duecento milioni di anni fa, mentre l’arenaria dell’Appennino molto dopo, circa sessanta milioni di anni fa», spiega allontanandosi un po’ da quella doccia. «Però trentacinque milioni di anni fa le due catene hanno iniziato a corrugarsi assieme e qui siamo nel punto esatto d’innesto!» Aggrotto la fronte come chi non capisce. Allora Francesca mi confeziona una sorta di documentario scientifico per non udenti, mimando il film di milioni di anni di storia geologica con gomiti, polsi e avambracci. «Voglio dire che proprio in corrispondenza del Lucido le Alpi Apuane si incastrano sotto all’Appennino. È una vera e propria faglia, tanto che l’ultimo terremoto rilevante, quello del 21 giugno 2013, ha avuto l’epicentro proprio a Equi: 5.2 di magnitudo, mica uno scherzo!» Rimango qualche istante di fronte agli schizzi freschi del Fagli a meditare su quella rivelazione. A gustarmi la sensazione di ondeggiare fra due mondi: quello organico del calcare e quello sedimentario dell’arenaria. Due mondi contrapposti e lontani a cui l’alchimia della tettonica ha riservato un destino comune.
L’ultima fagiolaia
«LE storie non stanno mai ferme, ma viaggiano nello spazio e nel tempo e creano figure al confine fra vero e non vero che si ripetono in ogni luogo.» Mi ha detto così ieri sera Umberto Bertolini. Gli avevo improvvisato un invito a cena in una pizzeria incasinata e rimbombante di Piazza al Serchio. Era troppa la curiosità di capire che cosa fosse il Museo nazionale dell’immaginario folklorico, un sito web messo in piedi da alcuni docenti universitari e da Umberto, dirigente scolastico che per qualche anno fu sindaco del paese. E prima di cena, mentre il Pisanino si addormentava su un cielo rossastro, mi ha mostrato il serbatoio che alimenta il Museo sul web, vale a dire il Centro di documentazione della tradizione orale, in cui da quasi vent’anni si raccolgono tesi di laurea su personaggi e fole di paese. Centinaia e centinaia di faldoni, libri, riviste e materiale audiovisivo, accatastato alla bene e meglio in alcune stanze odorose di polvere e carta presso la scuola media Teodosio Santini, ancora inagibile per i postumi del terremoto del 2013. Una sistemazione provvisoria, in attesa che il comune decida lo spostamento in una nuova sede, già individuata da anni. Davanti a una birra, Umberto mi ha affabulato con le storie di falsi funerali, folletti dispettosi chiamati buffardelli, serpenti dalle sembianze di neonato e di streghi, sinistri personaggi di paese che si riuniscono di notte a ballare attorno a un fuoco. Figure costruite dall’immaginario popolare con caratteristiche simili in quasi tutti i paesi della Garfagnana, ma che si ritrovano in giro per l’Italia a latitudini impensabili. E che, soprattutto, impastano realtà e fantasia nei racconti che si tramandano di generazione in generazione. Come la storia di Filiberto Marchiò: uno schivo proprietario terriero di paese, abile nel maneggiare a proprio favore rogiti e contratti, che nella fagiolaia accanto al suo mulino lungo il Serchio allevava un serpente. Un serpente particolare, però, che quando venne ucciso per errore provocò la morte dello stesso Marchiò. «Quello che si racconta», mi ha spiegato Umberto in mezzo al frastuono del locale, «è che, in realtà, nella cassa furono messi dei sassi, perché il suo corpo fu trafugato nottetempo da alcuni compagni, forse massoni. Probabilmente non era vero, ma la figura della sepoltura senza il defunto è una situazione che si rincorre spesso nelle storie tramandate nei nostri borghi.» E così quando, un paio di chilometri dopo essermi lasciato alle spalle Piazza al Serchio, arrivo a Petrognano, il borgo di Marchiò, sto inseguendo una specie di fantasma. Come fantasma è il suo mulino. O quello che ne rimane. Rossana, la nipote del «Merlo bianco», come era chiamato l’uomo per le sue capacità da azzeccagarbugli, me lo mostra volentieri. Rovista per casa alla ricerca delle chiavi del casotto semicoperto dalla vegetazione. Poi rimuove il pesante lenzuolo di cerata che chiude il portico del mulino e possiamo entrare nello stanzone stretto fra i muri di sasso e le tavole del basso soffitto. Rossana dà un colpo alle imposte, quel tanto che basta per squarciare il buio umido e muffo che assale alla gola. Il vecchio mulino, per un istante, è svegliato da una luce obliqua e impolverata. Davanti a me si erge il setaccio, un’enorme struttura in legno incastrata fra soffitto e parete, da cui scendono gli ugelli delle farine. Sotto, una Lambretta e un motorino a pezzi. E accanto, all’interno di un angusto locale infestato di ragnatele, la macina del farro, il cereale identitario della Garfagnana: ruvido e resistente come chi abita questa terra. Rossana fissa per un attimo l’enorme disco di pietra butterata, su cui il cereale veniva svestito dagli involucri esterni fino a lasciare il chicco nudo. «Era un lavoraccio, sa?» sospira. «Le macine, con l’uso, si levigavano. Invece era importante che la superficie rimanesse irregolare, in modo che il chicco si sbucciasse senza schiacciarsi. E veniva tutto un altro farro, mi creda, rispetto alle macine elettriche dei mulini industriali che invece si scaldano. Il nostro era molto più morbido: il mio Dino le martellava a mano ogni mese.» Il «suo Dino» è il marito, portato via da un infarto a cinquantacinque anni, una notte d’estate del 1993. Le lancette del mulino da allora si sono fermate, anche se, ironia del destino, proprio negli ultimi vent’anni, la corsa al bio e ai cibi sani in genere ha rinvigorito la domanda dei cereali di queste montagne. «Quando Dino se ne andò, le provammo tutte per vendere il mulino a qualcuno che volesse proseguire l’attività, ma non ci fu nulla da fare: non interessava a nessuno», mi dice Rossana mentre sposta le cassette di plastica e i vecchi copertoni che ostruiscono il passaggio. «Nostro figlio aveva appena vinto il concorso in Provincia e quello del mugnaio non era il suo mestiere. Certo, era un lavoro duro e senza entrate sicure, però ci si è sempre campato…» La donna si ferma a osservare un infisso di legno sbilenco mangiato dai tarli. Ma in realtà è intenta a captare la forza antica del mulino: il Serchio che scorre a pochi passi, oltre la distesa di ortiche. Anche se non muoverà mai più quegli ingranaggi, forse per Rossana è utile ascoltare il fiume e il suo ribollire di ricordi. Forse distingue nell’acqua la voce di Dino, che curava il mulino e suonava la fisarmonica. Quello di cui non sa nulla sono invece le strane storie su suo nonno: né del serpente, né della fagiolaia, né di quella fantomatica cassa piena di sassi. Chi invece sembra sapere qualcosa di più è Roberto, un pensionato dell’Enel che incontro mentre trasporta una pesante cassa di mele sulla stradicciola che attraversa il centro più antico di Petrognano. Si è lasciato alle spalle un borgo incredibile, raccolto attorno alla strepitosa chiesetta romanica di San Biagio e arroccato su una roccia lavica a strapiombo sul Serchio. Appena accenno alla storia del Marchiò gli scatta qualcosa. Non si può dire che gli si accendano gli occhi, perché ha uno di quei volti di ghisa non facili alle emozioni. Però appoggia la frutta nel cortile di casa e mi chiede di seguirlo. «Il problema è che di queste cose, del nostro passato, non frega più niente a nessuno…» mi dice mentre usciamo dalle case del borgo. «Ma io ho una cosa che ti può interessare!» Pochi passi e siamo nella sua legnaia. L’uomo aggira un trattore con il rimorchio
ancora colmo di grano marzuolo, rovista sotto un carico di tronchi e finalmente estrae il reperto: l’architrave del vecchio mulino dei Marchiò, quello che oltre un secolo fa fu portato via da una piena e su cui venne ricostruito quello attuale. Sull’arenaria s’intravede la traccia di due date: 1658 e 1793. Forse gli anni della costruzione e di un restauro del mulino. «E chi lo sa…» allarga le braccia. «Lo regalò Dino a mio padre tanti anni fa, per sdebitarsi di alcuni lavoretti, ma pure lui lo aveva accatastato in un angolo del mulino da chissà quanto tempo.» «E tu una roba del genere la tieni in garage?» domando fra il serio e il faceto. «Hai ragione, per hobby lavoro l’arenaria e mi sono sempre detto che l’avrei incastonato nel camino di casa: ma lo farò prima o poi, è sicuro. È che non riusciamo a trovare il tempo per le cose davvero importanti, questa è la verità.» Ma Roberto il tempo per le cose importanti, almeno da quando è in pensione, lo sta trovando eccome. Per esempio, il tempo per impedire alla selva che avvolge il Serchio di divorare anche il campo su cui cresceva la fagiolaia del Marchiò. «So qualcosa della storia che gira su di lui. Mia madre mi raccontava che quando morì, nel 1944, dovettero portar giù la cassa attraverso i boschi di castagno: era così pesante che furono costretti a trascinarla.» «Ma c’erano sassi dentro?» «Questo non lo so, ma ogni giorno Marchiò portava da mangiare al suo serpente nella fagiolaia. Lo so perché quel campo l’ho acquistato diversi anni fa e adesso ci coltivo grano marzuolo. Non riesco a venderlo, ma almeno evito che il selvatico si prenda anche quel fazzoletto di terra. Perché fa male vedere i campi ridotti a foreste: pensa che quando ero ragazzo il Serchio, da Sillano fino a Camporgiano, era completamente bordato da vigneti e fagiolaie, che prosperavano grazie al limo portato dall’acqua.» «Anche le fagiolaie sono scomparse?» «Pure quelle. Solo io ne ho ancora una, se vuoi ti mostro quello che ne rimane.» E di nuovo mi fa cenno di andargli dietro. Così, scendiamo dal borgo costeggiando il vecchio mulino e ci infiliamo in una «selva oscura» di ortiche e spine alte più di due metri. «E pensa che qua era tutto pascolo per le mucche di Dino. Se fosse ancora al mondo ci penserebbe lui, non sai quanto ci tenesse al suo mulino e a questo fazzoletto di terra…» All’altezza di un platano gigantesco superiamo il vecchio canale di derivazione che dal fiume portava l’acqua al mulino, completamente ricoperto di terra di riporto. Una traccia debolissima, più immaginaria che reale, come le storie di Umberto. Poi, in uno spiazzo erboso sottratto alle ortiche dilaganti, ecco la fagiolaia. Roberto mi precede a passi svelti, accarezza alcuni arbusti e butta uno sguardo a terra. «Vieni a vederla, guarda com’è ridotta…» Ci addentriamo tra i filari e con il palmo della mano solleva i pochi brandelli delle piantine che caprioli e cervi hanno risparmiato. «Uno ci mette la passione, ma contro quelle bestie è tutto inutile: si sono moltiplicate rispetto a qualche anno fa e divorano tutto, proprio tutto. Non basta recintare. Solo col filo spinato, forse…» Neppure il tempo di finire la frase e con un fruscio, da una macchia di salici, sbuca fuori un capriolo che saltella svelto verso il fiume. «Guardalo, con il sorcio in bocca…» Roberto scuote la testa e indugia con lo sguardo ruvido sulla fagiolaia. Lo sguardo di una generazione perfettamente in bilico fra chi ha visto il Serchio popoloso di pascoli, di mulini e di campi coltivati, e chi invece vive il fiume delle seconde case in pietra a vista, ornate di malve e begonie, senza avere più memoria di quel mondo, ormai consegnato all’immaginario collettivo. Proprio come la storia di Marchiò. Continuo sulla provinciale, tenendomi in quota, fino a Sillicagnana, poi infilo una serie di passaggi in picchiata verso il Serchio che solo le tracce di OpenStreetMap potevano svelare. Attraverso carreggiate fra i campi protette da boschi di cerri e muretti a secco, fino al minuscolo borgo di Sambuca, dove riprendo il fiume in corrispondenza della Capriola, un roccione lavico piovuto sull’Appennino come un meteorite, che il Serchio aggira con una spettacolare gola. Oltre un declivio, arrivano urla e schiamazzi di gente a mollo nei pozzoni. La valle, più morbida nelle profondità, assume un altro aspetto, più gioioso e curato, grazie alla mano dell’uomo su orti, vigneti e campi che degradano verso il fiume. Un fiume che pare perdere ogni asprezza quando si allarga nel lago di Pontecosi, una parentesi color smeraldo prima del traffico di Castelnuovo di Garfagnana. Lo costeggio a passo lento, respirando a pieni polmoni una brezza che restituisce il delicato sciabordio dell’acqua, fino al ponte della Madonna, un passaggio a schiena d’asino in corrispondenza del piccolo oratorio dedicato alla Madonna delle Grazie. Ma non è solo la chiesetta a specchiarsi nel lago. Alle sue spalle si alza imponente il viadotto della LuccaAulla. Potrebbe essere un obbrobrio estetico e invece no. Le arcate in mattoni a vista della ferrovia paiono soltanto sorelle maggiori di quelle del ponticello medievale e assieme, grandi e piccole, disegnano sorprendenti simmetrie sferiche sullo specchio d’acqua. A Castelnuovo di Garfagnana arrivo esausto e assetato. La bottiglietta è completamente a secco. La soluzione più ovvia sarebbe fermarmi in un bar o chiedere di un supermercato, ma qualcosa mi frena. In realtà non solo oggi. È sempre stato così, in fondo: quando sono per strada divento tirchio. Non che lo sia di natura, anzi. Ma le liturgie dell’erranza, con il loro continuo richiamo all’essenzialità, mi rendono allergico a qualsiasi spesa. Anche per una bottiglietta d’acqua. A pensarci bene, in tutti questi giorni di marcia, mi sono concesso solo un paio di cene coi piedi sotto un tavolo. Per il resto pasti frugali, frutto di blitz in forni, supermercati, salumerie o banconi gelato di bar improbabili. Forse mi trastullo nel piacere di sperimentare con quanto poco si possa vivere. O, semplicemente, la vita in strada mi stana i geni di una stirpe operaia che vide la guerra, abituata al piccolo accumulo dell’uomo prudente. Il problema è che la fontana di piazza Umberto, a cui vengo indirizzato dopo avere chiesto un po’ in giro, gocciola appena. Riempire una bottiglia da mezzo litro al ritmo di un dito al minuto è estenuante: investo cinque minuti di attesa, tracanno quel che riesco e riparto.
Fiume in tuta blu
SONO arrivato troppo di fretta ieri sera. E poi era buio. Ma la strada è così, ti svuota la testa: dovresti iniziare la solita caccia a un tetto per la notte e invece niente. E quando la sveglia della coscienza suona l’allarme, per la legge di Murphy il cellulare non prenderà. E anche ieri sera è andata più o meno così, con un albergo rimediato a Gallicano in piena zona Cesarini, quando riflettevo seriamente sull’abbigliamento da tenere per passare la notte sulla panchina di una stazione ferroviaria. Così mi rendo conto solo questa mattina, quando all’alba mi metto in marcia, di aver fatto tappa in un punto di confine. Quello in cui il Serchio abbandona la vocazione montana e si allarga in una valle decisamente collinare. Del resto, quello segnato da Gallicano non è solo un confine paesaggistico, ma pure politico, visto che era qua che finiva la Garfagnana. Finiva, perché con l’unione dei comuni, un paio d’anni fa, di Vergemoli e Fabbriche di Vallico, anche il nuovo ente è entrato a far parte dell’Unione comuni Garfagnana. Ma è un dettaglio, perché a Gallicano una frontiera è passata per almeno quattro secoli. Da quando cioè le vicarìe della Garfagnana, compresa Gallicano, la più meridionale, iniziarono a gravitare nell’orbita dello stato estense, prima con capitale a Ferrara e dal 1598 a Modena. Tanto che fino al 1859 passò da qua il confine fra il ducato di Modena e gli Stati toscani: ducato di Lucca prima e granducato di Toscana poi. Un punto di snodo, che con gli eserciti e il paesaggio ha sempre tenuto ben distinto il DNA del garfagnino dall’abitante della media valle: pastore e contadino il primo, mercante e operaio il secondo. Del resto giù verso Lucca, a Barga, per esempio, cominciarono a cuocere mattoni nelle fornaci più o meno mille anni fa: c’erano l’argilla, le pietre dei torrenti Ania e Loppora e l’acqua del Serchio. E fu proprio l’abbondanza d’acqua uno dei motivi che fece decidere agli Orlando, potentissima famiglia garibaldina, assai influente nell’economia privata (e pubblica) dell’Italia postunitaria, di impiantare a Fornaci di Barga, fra 1915 e 1916, una sede della Società metallurgica italiana. Un colosso siderurgico destinato alla produzione sia civile sia militare. Certo l’acqua del Serchio pesò sulla scelta, ma furono anche altre le ragioni: la posizione isolata – ideale per una fabbrica «strategica» da cui uscivano munizioni –, la ferrovia appena costruita, il legno dei boschi utile per le fonderie, e l’abbondante presenza di manodopera ancora poco politicizzata. Non che a Fornaci la lotta di classe non sia esistita. Tanto per dire, il ponte fra Gallicano e Fornaci, che attraverso cercando un bar, è dedicato a Giorgio Colzi, operaio della SMI, diventato leader FIOM prima e CGIL poi. Però qualcosa di speciale fra padroni e operai a Fornaci successe. Perché per tre quarti di secolo Fornaci fu la SMI e la SMI fu Fornaci, almeno a gettare l’occhio su un paese cresciuto in nome e per conto della fabbrica, in un gioco di cerchi concentrici: le case costruite per gli operai e quelle per i dirigenti, il nucleo delle botteghe che si allineavano lungo la statale, appena oltre il perimetro dell’enorme complesso industriale. E poi il cinema, le scuole, i locali del dopolavoro. Un paese industriale aggrappato al Serchio che Carmela ricorda molto bene. Settant’anni, capelli corti color cenere, cagnolino al guinzaglio e un vestito d’altri tempi. Lungo il viale che dalla stazione conduce al centro, le chiedo la dritta per un buon bar e lei, con un sorriso, mi fa: «Ne vuole uno da impiegato o uno da operaio?» «Guardi come sono conciato. Le pare che potrei mettere piede fra i colletti bianchi?» «Sto scherzando. Una volta, però, quando la SMI era la SMI, c’erano davvero quei due bar, l’uno accanto all’altro, proprio all’inizio del viale. Adesso ne è rimasto uno e non so neppure come si chiami…» Basta quel ricordo del bar Centrale per i maschi in giacca e cravatta e del bar Sprint per le tute blu a mettere in moto la giostra della memoria di Carmela. Una giostra malinconica perché, dopo diversi passaggi societari, il colosso della siderurgia, oggi controllato da fondi private equity, a Barga dà lavoro a qualche centinaio di dipendenti: un ordine di grandezza ben diverso rispetto alle circa settemila persone che timbravano il cartellino ai bei tempi. E così del sistema-fabbrica novecentesco, partorito dall’imprenditorialità visionaria degli Orlando, rimane traccia solo nella memoria. «Tutto ruotava attorno alla SMI: la vita dei negozi, per esempio, seguiva i turni degli operai. Tutti aprivano alle cinque del mattino, un’ora prima dell’inizio del turno della mattina, e chiudevano alle undici di sera, un’ora dopo l’ingresso del turno di notte.» Se li ricorda a menadito i turni, Carmela. E socchiude gli occhi quando mi parla dell’uscita degli uomini dai cancelli, come se riuscisse a mettere a fuoco una per una quelle sagome con la tuta consunta, i volti anneriti e il passo sicuro. «Era una bellezza vedere quella moltitudine imponente che avanzava compatta e si dirigeva verso le corriere. Lo capivi che c’era qualcosa in più del semplice lavoro. Era una comunità orgogliosa di appartenere a qualcosa. Adesso, invece, i pochi che sono rimasti entrano ed escono alla spicciolata e chi s’è visto s’è visto.» Il cane tira il guinzaglio e Carmela lo asseconda per qualche metro, fino all’ingresso di un grande complesso in stile razionalista, chiaramente sbarrato da anni. Davanti al cancello sono accatastati sacchetti di immondizia. «La cosa che fa più male è vedere questo luogo abbandonato», sussurra Carmela gettando uno sguardo oltre la palizzata di cinta. «Laggiù c’erano le scuole elementari e l’asilo, sopra il centro ricerche e sotto il cinema. Tutti i sabati e i giovedì sera, dopo Lascia o raddoppia?, c’era sempre una proiezione alla quale non mancava nessuno del paese. Anche se ora è ridotto così, per me il cinema della SMI sarà sempre un posto speciale: il mio primo fidanzato mi ci portò a vedere Torna piccina mia.» La donna fa ondeggiare per qualche secondo una mano nell’aria, come a cercare la tonalità giusta e, da qualche parte nel tempo, acchiappa quella melodia sdolcinata che accompagnava il film: «Tooornaaa, torna piccina miaaa… E pensi che quando lo lasciai
continuò a cantarmi quella canzone per settimane», sorride.
Venitemi a prendere!
OPEN STREET MAP non mi lascerebbe speranza: lungo il Serchio, almeno fino all’inizio della ciclabile di Ponte a Moriano, non passano sentieri. Ma quando sono sul ponte Colzi e mi fermo a osservare il corso dell’acqua striminzito, che si fa largo a fatica fra enormi lingue di ghiaia popolate di arbusti, non resisto alla tentazione: scendo sul greto e mi metto a camminare. L’alternativa sarebbe l’asfalto della strada provinciale o della regionale, che scorrono ognuna su un lato del fiume, stringendolo in una morsa di guardrail, centri commerciali e fabbriche. Il ragionamento è semplice: con questa secca, vuoi che un passaggio non si trovi fra i rigagnoli d’acqua? Certo, devo prendere subito una decisione strategica: camminare sul lato destro o su quello sinistro? Chiamo la tecnologia della Silicon Valley in soccorso. Google Earth mi mostra lunghe spiagge sassose sulla sponda sinistra, dove paiono esserci anche alcune cave: sarà la mia strada. Oscillando fra i sassi, avanzo accarezzando l’acqua, assaporando l’ebbrezza della libertà. Quella in cui la rotta te la tracci da solo. Quella in cui il resto del mondo sfreccia sulle arterie che strozzano il Serchio, mentre tu avanzi col sole in fronte lungo un passaggio segreto che scivola sotto gli isterismi della civiltà degli ottani. Per un momento ti pare davvero di essere riuscito a fregare tutto e tutti, di essere veramente riuscito a svignartela. E capisco che l’essenza del viaggio, almeno per me, non è la scoperta, ma la fuga. Non l’ho mai detto: non ora, ma un giorno scapperò. E questa convinzione, che il Serchio mi strappa fuori come uno scoiattolo imprigionato in un tronco, è il motore che mi aiuta a rendere un microgrammo più sopportabile il mondo là sopra. Mi basta questo e forse il vento che sul greto s’imbottiglia e prende potenza per un’overdose di adrenalina. Saltello, scorrazzo per quanto lo zaino mi possa concedere, apro le braccia, plano con gli occhi chiusi. E mi sorprendo a cantare a squarciagola She dei Green Day, la canzone della mia festa di laurea, il propulsore di albe passate sugli sci, dei duecento all’ora in tangenziale, del Riccardo ventenne che balla da solo potente e bellissimo sul filo della Pietra di Bismantova. Strafalciono orrendamente le parole e stono come una bestia. Ma chi se ne frega dell’inglese maccheronico quando ci sono ritmo e anima? Sono qua, stronzi, sono qua! Venitemi a prendere adesso, se siete capaci. La magia finisce quando davanti a me trovo l’immissione del torrente Fregana, un ruscelletto da niente, che provo a superare come ho già fatto diverse volte: tolgo le scarpe, infilo le infradito e inizio il guado. Un passo, due passi, tre passi lenti e misurati con l’acqua stabilmente alle ginocchia. Ma al quarto passo non trovo l’appoggio. Il piede scende veloce a cercare disperatamente un appiglio che non c’è, finché non perdo l’equilibrio e finisco col culo a bagno. Rimango alcuni secondi imbambolato a farmi scivolare addosso l’acqua, come se aspettassi il risveglio da un brutto sogno. Quando mi rialzo il disastro è compiuto. Il cambio adagiato sul fondo dello zaino è zuppo quanto i vestiti che ho addosso. Ma, soprattutto, ottengo la nomination all’Oscar dell’imbecillità per le scarpe legate in vita durante il guado, che adesso mi grondano beffarde fra le mani. Cerco di superare lo choc e bagnato come un pulcino guadagno la provinciale: il Serchio mi ha disarcionato. Del resto l’anarchia di questo fiume, anticamente chiamato Auser, non si discute. Una volta adagiato in pianura, poco a nordovest di Lucca, si diramava in due bracci: uno che deviava a occidente, lambendo Lucca a nord, e uno che proseguiva verso sud bordando la città a oriente, per poi dividersi ulteriormente poco dopo, all’altezza di Pieve San Paolo. Un ramo puntava verso ovest, congiungendosi al ramo settentrionale in corrispondenza dell’attuale Montuolo, per poi immettersi in Arno nei pressi di Pisa. L’altro si dirigeva invece verso quello che era il lago di Bientina. Lucca era quindi una sorta di isola, circondata dalle paludi che le frequenti esondazioni del Serchio formavano nelle pianure attorno. Un fiume capriccioso, che solo un vescovo irlandese in odore di santità riuscì a domare: Frediano. Con mano miracolosa, ma forse ancor più con solide conoscenze idrauliche, nella seconda metà del VI secolo diede impulso ai lavori per convogliare le acque del Serchio interamente a nord di Lucca e creare uno sbocco a mare. Tanto che quando arrivo a San Pietro a Vico, dopo avere percorso chilometri di strada bianca a bordo fiume, all’ombra di pioppi e canneti, sento il bisogno di andare a cercare quel corso d’acqua ormai immaginario che puntava verso sud, dove ora ci sono solo abitazioni sparse e svincoli stradali. Assediato dal cicalio ubriacante, mi fermo e comincio a scansionare l’orizzonte piatto su cui i Monti Pisani si alzano come per un errore topografico. «Ha perso qualcosa?» Da una vite poco distante due uomini piuttosto in là con gli anni mi osservano. «No, grazie, stavo solo cercando il corso del Serchio», urlo senza muovermi. «Guardi che ce l’ha esattamente alle spalle, a venti metri», ribatte ironico il più magro dei due. «No, intendevo il vecchio Serchio, quello che puntava verso Bientina…» I due si guardano in faccia e mi vengono incontro a passo deciso. «Intende l’Auser, allora!» esclama quello più grosso. «Certo, ma non so se mi potete aiutare. È giusto una mia curiosità.» E invece sì che mi possono aiutare. Soprattutto lo smilzo, Alfredo, vestito praticamente di stracci, come si conviene in una vigna, e con occhiali rotondi metallici che lo rendono simile a Geppetto. «Girati», mi suggerisce allungando il braccio ossuto alle mie spalle. «La vedi quella casa verde vicino alle pompe dell’acquedotto? Ecco, si staccava da lì il fiume antico e poi tirava giù fino a quel mulino.» L’indice gira di novanta gradi e punta un
parallelepipedo bianco completamente in rovina. «Ma come fai a dire che il fiume passava esattamente da lì?» domando sbalordito da tanta precisione. «Sono passati millecinquecento anni, non si vede più nulla…» «E infatti bisogna ascoltare, perché l’acqua continua a parlarti anche quando non c’è più, un po’ come un fantasma… Osserva il terreno attorno al mulino. Vedi che è leggermente più basso rispetto alla nostra posizione? E guarda i campi intorno: quelli sono di nuovo leggermente più in alto. E se procedi verso sud ti accorgerai che esiste una traccia sottile che prosegue: l’acqua scendeva da lì. L’acqua non scompare mai del tutto, tanto più che il terreno qua sotto continua a essere zuppo. Per dire, appena più avanti lungo il corso del vecchio fiume, nei pressi di Lammari, c’è una località chiamata Le Isole, dove ancora ci sono alcuni laghetti.» Ma Alfredo sa di più, molto di più. Si gira nuovamente verso nord e, sempre utilizzando la mano come il gesso di una lavagna invisibile, disegna la curva che l’Auser compiva a monte, prima della biforcazione, passando alle spalle del Colle della Segola. «Poi il fiume si alzò di diciassette metri e cambiò il suo corso. Diciassette metri. Sono sicuro, perché quando scavarono i pozzi dell’acquedotto, che sono proprio nel punto di deviazione del fiume, io c’ero. E l’ho visto con i miei occhi il tronco fossilizzato di una palma di sessanta milioni di anni, uscita con la trivella. La palma era esattamente a diciassette metri di profondità, quindi è chiaro che il fiume scorreva là in fondo.» Me lo racconta ancora con la meraviglia di un bambino, quell’episodio di decenni fa, mimandomi il gesto che fece per appoggiare la palma a un filare. Così come sembra che ci fosse quando nel 1859, trenta chilometri più a sud, a Vicopisano, si scavò sotto l’Arno il condotto per fare defluire a mare le acque del Canale Imperiale e prosciugare definitivamente, dopo mille anni di tentativi, il lago di Bientina. Si china sulla polvere e con l’indice mi disegna la botte di Leonardo, l’ingegnoso sistema che utilizzarono per superare l’incrocio dei due corsi d’acqua. «Vedi? Il canale arriva, si costruisce un primo invaso e si scava a volta di botte attorno all’Arno per non romperne gli argini. Poi, dall’altra parte si realizza un altro bacino e il canale riprende.» «Non so se ho capito…» «Non ti preoccupare, in queste pianure c’è da perderci la testa con canali e bonifiche. Però ti do un consiglio, valla a vedere, la chiusa. È abbandonata, ma se stai seguendo l’acqua, quello è un luogo simbolo: non te lo puoi perdere.»
Anatomia di una bonifica
IN effetti c’è da perderci la testa nella bonifica del territorio lucchese. Ho provato, ieri sera, a capirci qualcosa in quel groviglio di tentativi durati un millennio per regimentare il Serchio e bonificare la piana di Bientina. Testi caricati sull’iPad, decine di siti di storia locale e ingegneria idraulica, articoli: tutto inutile. Ogni tentativo di ricostruire le peripezie (e le liti) di lucchesi, fiorentini e pisani per avere ragione delle paludi si è impantanato fra toponimi e date che non tornavano, fra progetti partoriti e mai attuati, e un reticolo di canali dai nomi alle volte sovrapposti, che continuavo a disegnare su un pezzo di carta senza mai realmente comprendere da dove venissero e dove andassero. Quasi fosse un problema filosofico anziché idraulico. Ozzeri, Serezza, Serezza Nova e Serezza Vecchia, Rogio, Frizzone, Canale Imperiale, Canale Cilecchio (o del Cilecchio?): dove scorrono o scorrevano? Quando hanno mutato esattamente nome e perché? E poi cateratte che si inauguravano e sparivano, tratti di fiume deviati, paesi, come Calcinaia, che un giorno è sulla riva sinistra e il giorno dopo sulla riva destra dell’Arno. Alla fine, quando la testa vinta dal sonno ha picchiato per la seconda volta su quel foglio pasticciato, ho ceduto. Di certo c’è che questa mattina inizio puntando alle acque di uno specchio immaginario: quel lago di Bientina che per millenni è stato lì a dimostrare la potenza strisciante della pianura. Che con la dimensione orizzontale è capace di fermare le acque più di qualsiasi opera umana. Un attributo intimamente contro natura, perché l’acqua non è fatta per rimanere, ma per andare: se non scorre diventa qualcos’altro. Ghiaccio o palude, per esempio. Come era quella di Bientina: una spianata chiusa a sud dall’Arno, a ovest dai Monti Pisani e a est dalle Cerbaie, che raccoglie le acque di un’orografia incerta. Una specie di pentolone a cui manca il coperchio verso nord. E proprio in quella direzione l’Auser, anche dopo gli interventi di Frediano, ha sempre tracimato. L’impero romano, forte di conoscenze idrauliche, braccia e denari, riuscì a tenere sotto controllo l’impaludamento dell’area. Ma la sua disgregazione arrestò la manutenzione, con la conseguenza che nell’Alto Medioevo la pianura aveva già vinto la sua guerra e l’acqua cominciò a salire e a rimanerci. Si plasmò così l’economia e la società di un fazzoletto di terra che si scoprì suo malgrado lacustre, e con l’acqua imparò a vivere e a convivere. Del resto, non ci sarà finita per caso una tinca nello stemma del comune di Bientina, tolta poi quando il lago venne definitivamente asciugato. Si fecero pescatori e idraulici, i toscani, su quelle sponde sempre elastiche per i moti di Arno e Serchio. E sempre bisognose di canali, chiuse, arginature e deviazioni delle acque, per mantenere l’equilibrio con l’uomo. Fino a quando, il 10 aprile 1852, il penultimo granduca di Toscana, Leopoldo II, firmò il decreto di avvio dei lavori di svuotamento e bonifica del lago, attraverso la botte di cui mi ha parlato ieri pomeriggio Alfredo. Sette anni dopo, il 19 dicembre 1859, l’opera venne inaugurata. Il lago era scomparso e con lui il granduca, già in esilio dall’aprile di quell’anno. Ma la piana di Bientina ha conservato un che di paludoso e indecifrabile. Me ne accorgo, quando imbocco la stradicciola che costeggia il limaccioso Rogio. Mi fermo a osservare quell’acqua che appare stagnante, cercando di intuirne la direzione. A uno sguardo molto attento parrebbe muoversi a est. Ma, in fondo, sta tutta in questa incertezza la domanda che per secoli ha arrovellato contadini, governanti e ingegneri della piana, alle prese con pendenze da «zerovirgola»: dove diavolo gira l’acqua? E così lo seguo pure io quel filo debole che punta fra i campi verso Bientina nel gracidare pulsante di milioni di rane. Supero l’area archeologica di Fossa Nera, i resti etruschi e romani piazzati attorno agli alvei disordinati dell’antico ramo sinistro dell’Auser. La strada asfaltata che costeggia il Rogio diventa ben presto una carreggiata che si allarga fra i campi, in cui non si trova una casa a perdita d’occhio. Un mondo che comunica con i rumori portati dal Rogio, un codice Morse fatto di cinguettii, sciabordii anfibi e stormire di ali fra le canne, talmente avvolgente da far pensare che il lago sia evaporato questa notte e non centocinquant’anni fa. Agli incroci delle strade poderali magrebini in bicicletta si scambiano saluti stanchi in una lingua che porta la piana in un altrove senza tempo. Per il resto, cammino a lungo in completa solitudine, voltandomi, di tanto in tanto, per tentare di cogliere l’attimo esatto in cui scomparirà dall’orizzonte alle mie spalle la corona dentata delle Apuane, ormai inghiottita dalla foschia. Non riesce però ad annoiarmi questa pianura sterminata che alle undici del mattino comincia a trasudare calore. Forse per gli ontaneti alla mia destra che arricciano il paesaggio verso i Monti Pisani. O forse per la suggestione delle piante acquatiche a mollo nel Rogio, che paiono liane ricamate a punto croce. Va decisamente peggio alla confluenza del Rogio nel Canale Imperiale, l’opera realizzata a metà del Settecento per garantire maggior ricambio d’acqua al lago, facendola defluire più velocemente in Arno. Un’opera battezzata con quell’aggettivo pretenzioso in onore di Francesco Stefano, granduca di Toscana e imperatore del Sacro romano impero. Mi tocca tornare sull’asfalto di un rettilineo stretto e infinito lungo il canale, su cui le auto sfilano a centoventi all’ora, attraversando la desolazione di campi incolti battuti dal sole. E per di più con un rave party di zanzare organizzato dietro le mie orecchie. Un supplizio di oltre un’ora che affronto con il sudore acido sugli occhi e lo stomaco vuoto, distraendomi con il pensiero che, a poche centinaia di metri in linea d’aria, dalle acque del lago spuntava addirittura un’isola. Un fatto reale, testimoniato da dipinti e scritti, ma che di per sé basta a scatenare suggestioni a mezza via fra storiografia e immaginazione. Come l’ipotesi che vi risiedesse una piccola comunità o che fosse addirittura sede di un maniero, forse collegato alla potente e antichissima abbazia benedettina di San Salvatore che sorgeva nei pressi del lago già dal VII secolo. O come le leggende sulla scomparsa dell’antica città di Sextum. Una di queste vuole che la notte di Natale un viandante, rivelatosi poi Gesù in persona, passasse di lì senza ricevere ospitalità da nessuno, se non da una povera donna chiamata Isola. Per punizione divina, la città sprofondò sul fondo del lago, con la sola
eccezione della casa di Isola. Una sorta di Atlantide interna, che per secoli alimentò il mito di presenze sottomarine e vestigia sotto il pelo dell’acqua. Leggende fino a un certo punto, perché, come dimostrano gli scavi archeologici a Fossa Nera, prima della formazione del lago queste terre furono certamente abitate. Finalmente ritrovo uno sterrato che affianca il Canale Imperiale, poco dopo il punto in cui Google Maps si lascia trasportare dal mito e piazza un segnaposto denominato LAGO DI BIENTINA , in corrispondenza degli scheletri di alcune serre e di un ristorante, sempre attivo sulla mappa, che invece è in completa rovina. È un duro colpo per lo stomaco brontolante e la bottiglietta completamente vuota. La fortuna è che i campi hanno di che offrire. Appena riagguanto la strada bianca, ritrovo il più prezioso dei frutti di strada: l’uva. Afferrare un grappolo dal primo filare a portata di mano è un autentico ristoro: ai primi acini schiacciati contro il palato, mi sembra di sentire a uno a uno gli zuccheri che si infilano nel sangue a rinvigorirmi e il liquido di quelle gocce gialle innaffiare le cellule rinsecchite. Mi gusto ogni singola buccia, lasciandola macerare sotto gli incisivi per estrarne l’acidulo rinfrescante. E mentre avanzo accompagnato da un venticello che sa di salsedine, penso che il grappolo sia anche uno splendido compagno di strada: lo prendi in mano ora e cominci a snocciolarlo, sapendo che quando lo avrai mangiato per metà sarai forse già al bivio per Bientina vecchia. E quando sarai alla fine, probabilmente, vedrai già il cucuzzolo di Vicopisano. Una specie di navigatore che allevia i chilometri. Non c’è dubbio: l’uva è vagabonda.
Gli ammutinati dell’Arno
IN effetti le case accatastate sul colle di Vicopisano appaiono come un faro sulle sponde del lago, mentre mi succhio le dita per togliere l’appiccicaticcio dolciastro. Sul torrione merlato sventola ribelle un’enorme bandiera rossa, quasi a rivendicare la gloria acquatica del borgo. Perché Vicopisano fu comune non solo rivierasco, ma anche fluviale, visto che fino al 1560, anno in cui i Medici «raddrizzarono» l’Arno fra Bientina e Vicopisano, il fiume scorreva a ridosso delle mura orientali cittadine. Dall’anno Mille fino all’inizio del Rinascimento, il centro visse una centralità politica ed economica grazie alla posizione di snodo fra vie d’acqua navigabili: l’Arno, appunto, che consentiva il collegamento con Firenze, Pisa e il mare, e il Serezza (uno degli antichi bracci dell’Auser), che comunicava con il lago di Bientina e, conseguentemente, con la piana di Lucca a nord. Non a caso il comune fu a lungo conteso fra pisani e fiorentini, finché nel 1503 non cadde definitivamente sotto il dominio dei Medici. Furono secoli di splendore per Vicopisano quelli, soprattutto i primi fra 1000 e 1100. I commerci portarono ricchezza, che si riversò sull’abitato, con la costruzione di imponenti case-torri, palazzi, due ospedali e un gran numero di chiese. Una vera e propria città, per i canoni dell’epoca, che ancora oggi riflette l’antico prestigio. Me ne accorgo mentre, ansimante, mi inerpico sulla scalinata che sale alla vetta del colle e butto lo sguardo sul Palazzo Pretorio e sulla rocca realizzata fra il 1434 e il 1438. I fiorentini vollero fare le cose in grande. Dopo avere sottratto (temporaneamente) ai pisani il paese, affidarono la costruzione della nuova fortificazione a quello che probabilmente era il più noto architetto del tempo: Filippo Brunelleschi. L’Arno, nonostante scorra a non più di un paio di chilometri da Vicopisano e abbia rappresentato uno dei principali veicoli di ricchezza, è un concetto astratto. Quello che rimane sono un paio di ardite opere ingegneristiche che permisero e, in parte, permettono, lo scolo delle acque da questa enorme bacinella. La prima è la fabbrica delle cateratte ximeniane, così battezzate in ossequio all’ingegnere che firmò la bonifica lorenese di metà Settecento, il gesuita Leonardo Ximenes, anche se con il contributo tutt’altro che trascurabile di altri professionisti dell’epoca, come Francesco Bombicci. Ci arrivo dopo aver camminato una ventina di minuti in direzione sud oltre Vicopisano. L’imponente edificio, al cui interno si conservano ancora gli ingranaggi in legno di quercia delle chiuse, è in totale abbandono. Da quando, nel 1859, il Canale Imperiale venne deviato sotto l’Arno, le cateratte sono rimaste all’asciutto. Così oggi mi tocca aggirare con dispiacere una balena spiaggiata fra i campi, con i finestroni murati e assalita dalle erbacce proprio davanti agli antichi occhi sotto cui scorrevano le acque della bonifica prima di gettarsi in mare. Ma la costruzione riesce a conservare una sua fierezza. Forse nel marmo dello stemma lorenese che campeggia candido sul fronte meridionale o, semplicemente, nell’austerità delle linee squadrate. Mi siedo con i piedi a penzoloni sul parapetto di quello che fu il bacino di uscita del canale e penso che le lancette della storia certamente non si spostano. Ma che diamine, almeno si potrebbe evitare la malora per uno dei luoghi simbolo di quello che fu il più grande lago toscano. Del resto per centotrent’anni non si fu capaci di piazzare neppure una targhetta all’opera prima della bonifica del lago. Lo ricordano le parole saldate al marmo del torrione sovrastante il Canale Imperiale, proprio nel suo incrocio con il fiume. Dall’argine, aguzzo lo sguardo e leggo. I posteri ammirati da questa grande impresa idraulica voluta dal granduca Leopoldo II e realizzata con maestranze locali dall’ing. Alessandro Manetti incidendo questo marmo hanno inteso sopperire a quanto per l’incalzare degli eventi politici non intesero fare né il governo provvisorio, né la reggenza sabauda 11 dicembre 1984 Quando giunsero a compimento i lavori di prosciugamento del lago, nel dicembre 1859, da pochi mesi il granduca Leopoldo era in esilio. E il nuovo Stato italiano non aveva probabilmente né tempo né voglia di rendere onore al vecchio sovrano per quell’opera colossale. Poi, come spesso accade, tutto passò nell’ordinarietà e quei lavori colossali non vennero mai adeguatamente celebrati. Almeno fino al dicembre di trentadue anni fa, quando qualcuno realizzò che, in fondo, quella galleria di duecentocinquantacinque metri non era solo un grande manufatto ingegneristico, ma la rappresentazione plastica della bonifica e dunque di una nazione (granducale o italiana poco importa) che guardava al futuro e al progresso. Sotto un sole ancora cocente, mi rimetto in marcia lungo l’argine destro dell’Arno, costeggiando campi appena mietuti in direzione di Pontedera. A tratti si alzano improvvise folate di scirocco che frusciano fra le canne altissime ed è come se il fiume si ribellasse al suo moto lento e fangoso per mettersi a suonare l’organo. Ma si ribellano anche lenzuola, mutande e magliette stese ai
fili di un casermone popolare affacciato sull’argine. E si ribella il tricolore piantato in un orto sul fiume, scuotendosi di dosso il torpore dell’inedia per pulsare vitalità patriottica. Scendo di qualche passo sul declivio dell’argine, a sbirciare oltre il portone della piccola piantagione. Mi incuriosisce, infatti, quella bandiera che pare piazzata da un manipolo di pionieri che ha espugnato l’ansa di Calcinaia. «Ha bisogno di qualcosa?» Un uomo sui settanta in canottiera, con in mano due secchi traboccanti di melanzane, mette fuori la testa. «Mi incuriosiva la bandiera nell’orto», gli dico a voce alta. «Me la sarei aspettata in un rifugio di montagna, ma qua in Arno proprio no.» «E perché? Il patriottismo vale solo sopra i mille metri di quota?» mi domanda provocatorio. «Vieni giù che ti offriamo da bere!» Con due balzi scendo dall’argine e mi ritrovo nel covo di Gaetano, Salvatore e Nello, pensionati con il pollice verde. Una piccola vigna, alberi da frutto, pomodori, melanzane e zucchine talmente gigantesche da sembrare gonfiate con la pompa. Addirittura da una grande fioriera traboccano piante di fragole: nel fazzoletto di terra adagiato a balcone sul grande fiume non manca davvero nulla. Con lamiere e vetroresina i tre pensionati, pugliesi trapiantati da quarant’anni in Toscana, hanno anche costruito una veranda attrezzata con frigo, lavandino e fornelli. «È il nostro rifugio», sospira con evidente orgoglio Gaetano, quando ci sediamo all’ombra di un melo, con un bicchiere di cedrata in una mano e un frutto nell’altra. «E di quella bandiera che mi dici?» gli chiedo indicando con la testa quel tricolore che svetta da un’impalcatura costruita con canne di bambù. «Che cosa vuoi che ti dica? È che ci ostiniamo a credere ancora in questo benedetto Paese. E poi, scusa, che cosa c’è di strano? Prova ad andare in Francia o in Svizzera: lì hanno bandiere in ogni casa.» «L’abbiamo messa una sera per una cena con amici e da quel giorno è rimasta.» Nello ha abbandonato le melanzane e adesso, seduto con un catino ai piedi, sta pulendo peperoncini rossi come una Ferrari. «Perché dobbiamo ricordarci di essere italiani, con tutti questi stranieri che vengono, vengono…» «Il problema è che non fanno nulla dal mattino alla sera», si scalda Gaetano. «Li vedo tutti i giorni, io, che ti credi? Con quegli occhiali da sole, i cellulari, le cuffie enormi e certi muscoli… Ma dimmi tu, ti sembrano normali i muscoli così? Quelli devono andare a lavorare, altro che stare a far niente tutto il giorno a spese nostre! Che ormai sono più loro che noi. L’hai mai fatto un giro in stazione a Pontedera? O a San Romano?» «E poi», interviene Nello, ondeggiando in aria il coltello, «se mia nipote dovesse sposare uno di quelli, ma come me lo immagino, il mio bisnipote? Con un cognome, un cognome di quelli…» «Intendi arabo?» «Sì, arabo, dai… Oh, senza razzismo, eh!» Da questo punto in poi, quello che mi offrono i tre arzilli pensionati è una marmellata di luoghi comuni e travasi di bile, in cui trovano posto il pericolo per le «nostre» donne, la poligamia, i governanti corrotti (tutti, ovviamente) e il dovere morale di comprare macchine italiane, perché «dobbiamo pur sostenere la nostra industria». Che cosa gli dici, a questi? Il primo istinto sarebbe quello di alzarmi e, neppure troppo gentilmente, voltare i tacchi. E invece sto lì ad ascoltarli. Probabilmente perché i frutti sono squisiti e io sono morto di stanchezza. Ma anche perché capisco che quel tricolore in realtà è solo uno scudo surrettizio steso sulle paure di tre uomini piccoli piccoli, che hanno visto cambiare il mondo attorno a loro senza riuscire a spiegarsi il perché e, soprattutto, senza riuscire a dare un senso a ciò che stava succedendo. Salvatore mi dice che da quando ha lasciato il lavoro alle Poste ha più tempo per leggere i giornali e frequentare Facebook. Prova da lì a darsi qualche risposta. Forse accodandosi ogni tanto a post di odio, forse vomitando la rabbia di un padre che a settant’anni suonati non ha ancora visto le figlie sistemate con un lavoro sicuro e che è rimasto l’unico italiano, assieme alla moglie, nel condominio alla periferia di Pontedera. Un tempo dignitosa residenza di famiglie operaie, oggi una specie di qasba, disseminata di antenne paraboliche fra cui riecheggiano idiomi sconosciuti. Vorrei ragionare con loro sui numeri degli squilibri mondiali, che vedono l’Occidente in una torre d’avorio sempre più sottile, sulle dinamiche anagrafiche dell’Europa, sulla singolarità del concetto stesso di frontiera e sul diritto di ciascuno a ricercare, per se stesso e per i propri figli, felicità, dignità e stomaco pieno. Ma non credo potrebbero capire, e non credo di avere alcun titolo per mettermi in cattedra. Però una curiosità me la voglio togliere. «Scusate, ma davvero voi comprate solo macchine italiane per aiutare il Paese?» chiedo a bruciapelo quando mi alzo per congedarmi. I tre si guardano imbarazzati. «Be’, ecco…» fa Gaetano malcelando un sorrisetto. «È un principio. Diciamo che acquistare prodotti italiani è sempre un bene in linea generale.» «Sì, ma che macchina hai?» «Una Ford Focus.» «E voi?» chiedo rivolto agli altri. «Una Polo.» «Una Yaris.» «E vabbè», riprende Gaetano scaldandosi, «ma anche la Fiat… fa delle macchine che non si possono guardare e poi mica sono le più economiche: come puoi pretendere che uno gli dia quindicimila euro così…» «Guarda che sono d’accordo con te», gli rispondo tranquillo. «Infatti non ho mai avuto una macchina italiana in vita mia.» «Comunque io un’Alfa Romeo l’ho avuta ed era ottima», interviene Salvatore. «Ma sta’ zitto, per favore», lo interrompe Nello, «era un’Arna: quella non conta.»
Il pescatore di cheppie
SERGIO lo incrocio in quell’ora del mattino in cui l’ottimismo della luce sta avendo la meglio sulla tenebra rossastra che circonda l’alba. Me lo trovo a due metri, avvolto in una lunga giacca verde scuro, mentre esce da un cespuglio all’inizio della strada arginale che da Castelfranco di Sotto costeggia l’Arno fino a Santa Croce. Ha una mannaia in mano, il collo da rugbista, i capelli grigi rasati quasi a zero e gli occhi sufficientemente vitrei per farmi preoccupare. Invece, dopo esserci guardati per un istante, smaltendo la sorpresa di esserci trovati l’uno di fronte all’altro, il primo a farsi una risata è proprio lui. Ed è lui a spiegarmi in che razza di luogo simbolo mi trovo. Ancora con il sonno da smaltire per la sveglia antelucana, non avevo prestato attenzione al borgo a ridosso dell’argine che avevo appena attraversato, passando sotto un edificio massiccio e cadente. «Questo è il mulino del Callone. Se viaggi per fiumi un posto come questo dovrebbe interessarti.» Zigzaghiamo fra le pianticelle dell’orto di Sergio, coltivato sulla terra di riporto della grande alluvione del 1966, e in pochi passi siamo di nuovo al borgo. «Ecco, vedi, quello era il mulino», dice alzando la testa da skinhead verso il casone giallastro che si affaccia sul terrapieno dell’orto e si spinge fino al fiume. Una struttura purtroppo sbarrata e in rovina. «Vengo tutti i giorni a lavorare nell’orto e mi piange il cuore a vederlo in questo modo. Lo sai che potrebbe avere più di settecento anni? È citato per la prima volta in un documento del 1387, ma certamente esisteva già da parecchio prima.» «E da quanto è in queste condizioni?» «Decenni. Qualche anno fa un’associazione di Castelfranco si era messa in testa di fare una colletta pubblica per acquistarlo e sistemarlo, ma sono passati gli anni ed è ancora in queste condizioni. È un miracolo che il tetto non sia crollato.» È affezionato a questo luogo, Sergio, non c’è niente da fare. E non solo per l’orto o per la storia secolare di un mulino da sempre identificato con Castelfranco, ma anche perché era qua che negli anni Cinquanta, da adolescente, già a testa china per nove ore al giorno in uno dei mille calzaturifici della zona, veniva dopo il lavoro a fare il bagno fra gli stuffacchi e le canne. Era un Arno che ancora non aveva perso la verginità con i veleni delle concerie, che di lì a poco avrebbero iniziato a riversarvi i residui delle loro lavorazioni, spazzando via ogni forma di vita. Più si abbandona ai ricordi, più si accende. E non si capacita di come nella città del palio dei barchini, una corsa di imbarcazioni a ruote per le strade del centro, ci si sia dimenticati del fiume vero e del suo mulino. Dall’orto scendiamo su un sentiero sabbioso che attraversa come un sipario una muraglia di canne e ci ritroviamo sull’acqua, a camminare sulla debole traccia del canale che, con una galleria, entrava sin nel cuore del mulino partendo dalla pescaia, l’antico sbarramento per catturare più facilmente i pesci. Ci fermiamo di fronte all’imbocco dei due portali del tunnel, oggi murati; accanto si notano ancora i ganci e gli anelli a cui venivano assicurate le imbarcazioni cariche di granaglie. «Sotto i nostri piedi c’è un bellissimo pavimento di mattoni, vecchio di secoli», racconta battendo le suole sulla sabbia. «Dieci anni fa portarono alla luce il pavimento e pulirono pure i muri del vecchio canale. Fecero una bella inaugurazione e poi tornò tutto in malora.» E più o meno successe lo stesso per le corse del barcone turistico da Pontedera. L’imbarcadero (che adesso è solo uno scheletro di pali rivolto controcorrente) venne inaugurato in pompa magna, il naviglio attraccò qualche volta e poi più nulla. Facciamo per risalire sull’argine, ma Sergio si ferma un attimo a fissare il fiume che scorre placido. Poi si china e fa scivolare un po’ d’acqua nelle mani tozze da artigiano. «È pulita adesso, vedi? Quando hanno iniziato a mettere i depuratori nelle concerie qua attorno, il fiume è cambiato da così a così.» E se la fa ondeggiare nei palmi come in un rito pagano. «Be’, se devo dire la verità, non mi pare troppo cristallina», osservo. «Be’, certo, la vedi torbida, ma è per via del fondo melmoso o sabbioso. E poi lì in mezzo può essere profondo più di quindici metri.» Ci crede così tanto che mi sembra da cafoni fargli notare l’abbondante schiuma color caffellatte che si avvita e ribolle sul verdognolo marroncino delle acque. A Sergio basta la trasparenza che vede nei suoi palmi. E con le stesse mani, mentre risaliamo, disegna un mondo che non c’è più. Alla nostra sinistra, mi fa notare alcuni blocchi di pietra coperti da vegetazione che attraversano il fiume: le rovine del vecchio ponte che collegava San Romano a Castelfranco, distrutto nell’ultima guerra. E da lì, nel punto esatto dell’antica pescaia, con una massicciata, la strada arrivava fino al mulino, il fulcro dell’operosità fluviale. «Là abitava uno degli ultimi pescatori di professione dell’Arno», ricorda Sergio. «Tirava su di tutto: cavedani, reine, carpe, barbi e pure le anguille. Poi con il suo sidecar andava a venderli nei paesi vicini. Ma la cosa che mi è rimasta più impressa è la pesca delle cheppie. A primavera, quando dal mare risalivano il fiume per deporre le uova, ormeggiava sotto le campate del vecchio ponte una barca a cui era collegato un mulinello a pale che ondeggiava mosso dalla corrente. Le cheppie s’infilavano là e rimanevano intrappolate nella rete fissata sul retro della pala. Era richiestissimo, quel pesce, che è liscoso ma molto saporito: ricordo bene la fila di donne sulla massicciata in attesa di acquistarlo.» Oltre il mulino la strada bianca supera una grande fornace dismessa e si addentra fra campi di miglio e canneti, che diventano ben presto il sottile diaframma che separa il fiume dai capannoni del distretto della concia, di cui Santa Croce è il cuore. Un cuore importante, visto che qui passa la quasi totalità della produzione nazionale di cuoio, ma decisamente sciatto. In un traffico
incontinente, supero condomini degradati, strade sporche e negozi vuoti. E cerco di attraversare il più in fretta possibile questo strano paesone che pare un male necessario alle fabbriche, in un territorio talmente identificato con la propria vocazione produttiva che pure le squadre di calcio hanno il nome della merce: Cuoiopelli di Santa Croce, Tuttocalzatura di Castelfranco, Tuttocuoio di Ponte a Egola.
L’istinto della pecora
È LA via Arginale Est, con le sue abitazioni minute al cospetto del fiume, ad allontanarmi da tutta quella malinconia e a riportarmi per qualche chilometro, dopo il cimitero di San Pierino, sulla Francigena che scende da Fucecchio. Come per magia, il pellegrinaggio millenario ha il potere di mutare improvvisamente il paesaggio. Mentre il caldo comincia a montare, la strada bianca attraversa per chilometri i pennacchi bruni dei campi di saggina, che sembrano ordinati da mano divina. La stessa che, da un campanile lontano a mollo fra il granoturco, scatena i rintocchi festosi del mezzogiorno che accarezzano i campi per chilometri, sospinti dal vento caldo. Ma la mia strada non è quella di Sigerico, l’arcivescovo che per primo documentò il viaggio fra Canterbury e Roma. Quando la via, in mezzo alle campagne, gira a sud verso San Miniato, il mio percorso lungo i fiumi indica invece ancora oriente verso Ponte a Elsa. Però la Francigena continua ad accompagnarmi per un bel pezzo, sotto forma di minuscoli sassolini dello sterrato che mi puntellano il tallone. Poco dopo le due arrivo esausto a Ponte a Elsa, la frazione divisa dal fiume fra le province di Pisa e di Firenze, e punto dritto al primo bar che mi trovo davanti. Dentro, una donna seduta a sfogliare un quotidiano, due uomini ben vestiti ipnotizzati dai suoni liquidi delle slot e il barista, un tipo sulla trentina stravaccato su una poltrona davanti a un reality di cucina. Chiedo il mio solito pranzo, il tizio si gratta la testa calva, sospira e strusciando i piedi viene a portarmelo senza accennare un mezzo sorriso. «Ah, posso attaccare l’iPad a quella presa sotto il tavolo?» chiedo distrattamente mentre mi siedo. Mister Allegria ci pensa un istante. «Se è per qualche minuto va bene», sentenzia, con il tono di chi mi ha appena condonato un debito di gioco. Poi, con lo stesso entusiasmo, torna a sprofondare in poltrona. Allibito per la risposta, attacco il tablet in carica e mi metto a consultare la posta, gustandomi la meritata dose di carboidrati. Passano dieci minuti di orologio e il barista mi si materializza davanti. «Si era detto qualche minuto però! Qua sta diventando mezz’ora…» mi fa con aria scocciata. Credo di guardarlo con aria più incredula che arrabbiata. «Scusi, ma che problema c’è?» «Mi prende una Coca-Cola e un gelato: non paga neanche cinque euro e si attacca pure alla corrente. E il mio margine?» «Mi sta veramente dicendo che il mio iPad le sta erodendo il suo guadagno? Ma saranno, forse, alcuni centesimi di euro, si rende conto di ciò che dice?» «Certo, ma se facessero tutti così…» «E se lei fosse un po’ più gentile», lo interrompo duro, «forse avrebbe più clienti.» «Comunque si era detto qualche minuto», ripete. «Mi fa la cortesia di staccare?» L’istinto sarebbe quello di mettergli sul tavolo venti euro e sputargli in faccia una cosa del tipo: «Questi ti bastano, pulcioso? Adesso torna a rincretinirti davanti ai tuoi soffritti e lasciami lavorare». Tanto più che avevo già in programma di raddoppiare l’ordinazione per la gran fame. Ma decido che non si merita nemmeno un centesimo in più. Raccolgo le mie cose e lo pago con una banconota da dieci. Il tizio mi porge il resto senza accennare neppure una carezza al registratore di cassa. «Ha i tasti rotti?» gli sibilo provocatorio. «E ha il coraggio di chiedere lo scontrino, questo…» ribatte ironico alzando la voce, tanto che la donna solleva gli occhi dal giornale e a me monta la certezza che fra un istante lo prenderò a calci in culo. Ma una mano divina mi prende per i capelli prima che sia troppo tardi. «Certo, le chiedo lo scontrino, altrimenti chiamo la Finanza in questo momento.» Il tizio alza gli occhi al cielo e batte quanto dovuto biascicando un epiteto fra i denti. Io ringrazio e con il sorriso delle grandi cerimonie prendo il largo. Dopo lo zuccherificio dismesso di Granaiolo, lo sterrato si addentra in una sorta di cassa di espansione, in cui l’Elsa addomesticato dall’uomo inanella cascatelle e laghetti, che ospitano tre generazioni di pescatori in allenamento su quello che sarà il campo di una gara di pesca domenica prossima. Quasi tutti gli «atleti» se ne stanno stravaccati su sedie sdraio all’ombra dei pioppi, sistemando, di tanto in tanto, il mulinello della canna appoggiata sui treppiedi e obbligandomi a considerare un ossimoro il concetto di pesca sportiva. Ma è dopo Molino di Granaiolo che l’Elsa dà il meglio di sé. La pista bianca si adagia sul fiume fra campi capaci, da soli, di ricucire l’interregno di pianura fra le colline lontane e il loro fiume. E, all’improvviso, uno scirocco imperioso elettrizza gli elementi, piegando i canneti a una danza obbediente e rumorosa. Cammino con la testa piegata al volere di un burattinaio invisibile, fino agli orti e ai vitigni già carichi di uva, affacciati sull’Elsa alle porte di Castelfiorentino. Da lì cambio argine e mi affianco al canale scolmatore che raddoppia l’Elsa a monte del paese cingendolo in una sorta di isola fra due corsi d’acqua. In realtà il canale si riempie un paio di volte all’anno, quando l’Elsa viene fatto traboccare in quello che per il resto dell’anno è un fosso ricoperto d’erba luccicante. Un’erba che è il bengodi per le pecore bergamasche di Salvatore, una bandana sul volto mediterraneo cotto dal sole, dai tratti marcati e sofferenti come un quadro di Ligabue. Diventa per un po’ il mio compagno di marcia.
Anzi, divento io il suo compagno, adattando il mio passo per immergermi nella cantilena del suo procedere transumante e irregolare. «Perché io non decido nulla, apro l’ovile ogni pomeriggio e mi limito a seguirle: loro sanno sempre dove andare. Hanno un istinto che le porterebbe a casa anche se si trovassero dall’altra parte del mondo, te lo assicuro», spiega. Sin da bambino Salvatore, figlio di pastori di Agrigento, ha imparato a conoscere quell’istinto. Un istinto che forse è diventato un po’ il suo. Almeno a osservarlo quando ogni tanto si ferma e si guarda attorno fiutando l’aria, come a intercettare l’arrivo di un predatore. Poi ritorna con gli occhi sul suo gregge, che procede brucando sul letto asciutto del canale. Se qualcuna tenta di risalire, col gesto misurato di un farmacista le aggiusta un colpetto sul fondoschiena. Lo capiresti anche solo dalla giustezza di questo movimento il suo rapporto con gli animali. «Siamo noi a dover imparare dalle pecore: loro sanno esattamente ciò di cui hanno davvero bisogno e sono concentrate su quello. Sanno che cos’è davvero importante. Mi impressiona pensare che una madre riconosca il figlio appena partorito attraverso un braccialetto, mentre una pecora il proprio agnello lo trova fra mille. Questi animali ci insegnano come si possa vivere sereni con poco.» Forse è anche per questo che Salvatore quel legame ancestrale col mondo quadrupede non è mai riuscito a spezzarlo. Neppure quando dalla Sicilia, trent’anni fa, salì in Toscana alla ricerca di un lavoro meno duro di quello di suo padre. E dei suoi nonni prima di lui. Si fece muratore, ma quel codice genetico scolpito nei cromosomi continuava a recapitare messaggi. Si comprò una pecora. Giusto una, per affezione, come fosse un cane. Poi, qualche tempo dopo, un’altra e un’altra ancora. Pecore che poi si riproducono fino a diventare un gregge in formato bonsai che ogni pomeriggio, dopo il lavoro al cantiere, porta a spasso lungo l’Elsa. Quando mi dice che quelle pecore sono il suo bar, un sorriso si fa largo sul suo viso di sasso. «Mi basta guardarle per capire che cos’è la felicità.» Si riempie i polmoni con il vento dell’Elsa e prosegue per la sua strada. La mia, superato Castelfiorentino, continua su carreggiate bianche abbagliate dal sole obliquo. Una via lattea che si distende fra poderi bruni appena dissodati e viti, capace di spedirti in una bolla spazio-temporale racchiusa in un fazzoletto di terra. Pare addirittura strano che il percorso della Francigena proceda più in alto, a occidente, senza venire a raccogliere questo misticismo in riva al fiume. Mi muovo lento e mi fermo spesso, senza un vero motivo. Perché l’ultima luce del giorno, quella che allunga le ombre sulla polvere, è la più preziosa. La sola a svelarti il mistero del camminare, a dare un senso a quell’istinto ottimista e avventuriero di appoggiare un piede davanti all’altro per scoprire che cosa ci sarà oltre quel ponte, quelle case, quella collina. Poi c’è da dire che non sempre va così. Immerso in una sorta di contemplazione, mi rendo conto di aver completamente perso di vista la tabella di marcia. Realizzo che sono le sette di sera e ho ancora parecchia strada prima di Certaldo, dove questa mattina ho trovato una camera. Afferro il cellulare per capire bene quanti chilometri mancano e procedo pigiando compulsivamente la tastiera. Quando rialzo lo sguardo, a dieci metri da me, poco prima dell’ingresso in un tratto boscoso, si è materializzato un cane da pastore enorme. Non abbaia. Sta immobile e studia il mio procedere, con aria diversamente amichevole. Mi fermo gelato. Alle mie spalle non c’è nessuno, davanti a me solo la bestia. Nel momento stesso in cui mi blocco e lo guardo, si mette sulla difensiva ringhiando, sempre senza abbaiare: pessimo segnale. Passano alcuni interminabili secondi, finché non faccio l’unica cosa che il buonsenso mi detta. Mi chino, apro i palmi delle mani e li distendo lentamente verso di lui. Il molosso ci pensa un attimo, poi decide che si può fare: rilassa i muscoli e senza smettere di fissarmi mi corre incontro, facendo ondeggiare i suoi cinquanta chili in assetto di pace. Ci accordiamo subito per sostanziose coccole. Affondo le mani nel pelo folto e immacolato per qualche minuto. Mi porge il collo e la bocca, si fa abbracciare in chiaro deficit affettivo. Solo che non la smetterebbe più. Ogni volta che tento di ripartire mette di traverso la sua mole e non si schioda. «Amico, che cosa vogliamo fare?» gli chiedo con dolcezza, afferrandogli il muso con due mani. «Non vorrai mica farmi camminare col buio!» Mi guarda languido, guaisce piano come chi ha capito il problema e finalmente si scansa. Poi rimane immobile in mezzo alla strada con la coda penzolante a osservarmi mentre salgo sulla collina e sparisco tra gli alberi. Certaldo è ancora lontana.
Le due facce dell’acqua
È UN piacere camminare all’alba lungo gli sterrati che costeggiano l’Elsa ondeggiando sulle colline rigate da vigne e cipressi fra Certaldo e Poggibonsi. Una marcia di quasi tre ore che comincia prima che il sole si alzi dai rilievi d’oriente. E quando il primo raggio sale, confondendo le prospettive, mi trastullo a pensare che su uno di quei colli stava Semifonte, la città fortificata fondata sul finire del XII secolo, che ebbe l’ardire di sfidare Firenze. Una potenza troppo pericolosa per la Repubblica fiorentina, posta a guardia dell’importantissima Val d’Elsa e non lontano dalla Francigena. E così quando nel 1202 le truppe fiorentine ebbero la meglio, dopo anni di lotte, l’ordine fu quello di radere tutto al suolo, vietando ogni altra costruzione su quell’altura maledetta. E in effetti, fatto salvo per una chiesetta cinquecentesca dedicata a San Michele, così fu. Ma più che la città, oggi può la ferrovia immaginaria. Una monorotaia che dal 1885, per un secolo, trasportò persone e cose lungo gli otto chilometri fra Poggibonsi e Colle di Val d’Elsa e che oggi è uno straordinario filo d’Arianna ciclopedonale che segue il fiume. Lo agguanto accodandomi a un piccolo esercito di sessantenni che si gode in braghette con i bastoncini da nordic walking la pensione a cui forse io non arriverò mai. Il fiume scorre più in basso, protetto dalla fitta vegetazione ripariale, ma è bello ugualmente infilarsi nella valle che pian piano si restringe seguendo un vecchio binario all’ombra delle robinie. Un binario che non sarebbe mai esistito se si fosse dato retta ai birocciai di Colle di Val d’Elsa. È una storia di consorterie di straordinaria modernità quella dei proprietari di carri di Colle che, attorno agli anni Quaranta dell’Ottocento, quando si iniziò a pensare alla realizzazione di una ferrovia che collegasse Empoli a Siena, pare misero in giro strane voci sui danni che l’arrivo della vaporiera avrebbe provocato. Un modo come un altro per buttare avanti la palla e sopravvivere qualche anno al progresso che il treno stava portando in tutto il mondo. Se le cose andarono effettivamente così, di certo i birrocciai ebbero la meglio, tanto che la ferrovia, inaugurata nel 1849, scartò Colle e da Poggibonsi, seguendo il corso del torrente Staggia, puntò verso Siena. E questo nonostante Colle fosse già un centro di una certa importanza, con vetrerie, cartiere, fonderie e le non distanti miniere di Volterra. Fu per questo che negli anni a venire si portò avanti l’idea di una ferrovia «di riparazione» fra Colle e Poggibonsi, che consentisse il collegamento con la Empoli-Siena, negli anni successivi prolungata fino a Chiusi, da dove sarebbe poi passata la linea per Roma. La Colle-Poggibonsi venne inaugurata in pompa magna il 29 marzo 1885, ma rimase eternamente condannata alla marginalità (conti traballanti, tracciato accidentato, due guerre mondiali, il calo delle estrazioni di Volterra) e, a partire dagli anni Sessanta, la concorrenza imbattibile di auto e corriere. Dopo anni di galleggiamento, la linea venne soppressa nel 1987. Ma, come spesso accade, i binari lasciano una traccia indelebile e affettuosa nella memoria, soprattutto se hanno visto passare lo sbuffo delle locomotive o il borbottio romantico delle littorine diesel. Se lo ricorda bene Luciano, un vecchio in canottiera che lavora di pinze e cesoie nel terrazzamento affacciato sulla vecchia linea. Basta un accenno per farmi aprire un armadio di emozioni in transito sul filo dei trentacinque chilometri all’ora, la mirabolante velocità massima consentita da quelle curve sinuose che accarezzavano l’Elsa. Gli anni della littorina delle 6.32 per correre (si fa per dire) a fare il garzone in un mulino di Colle, un amore perduto accarezzato per mesi sulle panche di legno della terza classe, uno sconosciuto con una cartella in finta pelle e sempre ben vestito che mai seppe né dove andava né da dove veniva. Proseguo la marcia vinto dalla chimica dell’antica ferrovia e penso che risalire i fiumi sia più bello che discenderli, perché puoi sperare, a ogni passo, che il meglio debba ancora venire. Come accade questa mattina con l’Elsa. Dopo tre giorni di acque piatte e torbide, ritrovo la trasparenza di un fiume che fugge dalla sua sorgente e accompagna il passo con il proprio gorgoglio giocoso. Un gorgoglio che non molla la presa neppure quando arrivo a Colle di Val d’Elsa Bassa, il nucleo di fondovalle nato attorno all’antico borgo di Spugna. Anzi, imbrigliato nelle gore che attraversano l’abitato, rigurgita potenza ventriloqua fra le case e i vecchi mulini. Spunta per un attimo, furtivo come un serpente, luccica al sole e torna a inabissarsi. Su, a monte, la storia ha portato chiese e palazzi nobiliari. In basso, la forza dell’acqua ha plasmato un’urbanistica di opifici e abitazioni operaie in cui mi addentro seguendo il filo sottile della memoria. È stato l’Elsa il motore di tutto quaggiù. L’Elsa addomesticato nella rete di canali che da San Marziale, appena a monte della città, ne raccolgono le acque e si espandono come capillari fra i vicoli e sotto le case. È stato questo il sistema arterioso che ha mosso per settecento anni gli ingranaggi della Manchester toscana. Ferriere, cartiere, filande, vetrerie e naturalmente mulini, che a fine Ottocento erano una ventina. Fino a qualche decennio fa tutto si muoveva con la forza dell’acqua. Tanto che in piazza Arnolfo di Cambio, l’ombelico di Colle Bassa, fra i capannelli di pensionati che aspettano l’ora di pranzo non c’è nessuno che non abbia un passato trascorso dentro quelle officine fluviali. Prendi Gigi e Secondo, per esempio. Sono loro ad accompagnarmi alla vecchia cartiera, un edificio imponente, da tempo trasformato in albergo, appena oltre la gora che – protetta da una griglia metallica – attraversa la piazza. Mi mostrano i finestroni arrotondati dove si stendevano ad asciugare la carta macerata nella gora. Un canale buono anche per fare il bagno, prima che venisse tombato. Ce ne stiamo per un po’ con il naso all’insù a immaginare quel carnevale di lenzuoloni essiccati lentamente, per conferire morbidezza e resistenza. «Mica come la carta di Lucca, che l’asciugavano con il vapore e si spezzava subito», ricorda Gigi con
rigurgito campanilistico ma, in fondo, senza nostalgia. «Perché quella vita era lavoro e soltanto lavoro», mi dice scuotendo la testa. Un’esistenza, nel caso di Gigi, cominciata nell’appartamento in affitto di un vecchio mulino da cui vedeva, con gli occhi del bambino, la fatica di uomini nerboruti alle prese con enormi sacchi di farina. E proseguita sgobbando fra i treni di cardatura di un lanificio e i rulli di una litografia. Nessuno svago, nessuna poesia: «Solo lavoro», continua a ripetermi. Però c’era ottimismo in quell’operosità che trovava il suo culmine a mezzogiorno, quando le sirene delle manifatture suonavano per il pranzo. «Era impressionante sentire quei sibili tutti assieme», ricorda Alvaro, un settantenne atletico che incontro davanti a quello che un tempo era il lanificio Canovai, oggi una banca. «Certo che si faticava, ma avevi il senso della comunità. Ti sentivi unito agli altri nel fare qualcosa di utile. Credo che oggi nessuno possa più dire lo stesso del proprio lavoro.» Per lui l’acqua non era solo sudore. Era anche il movimento flessuoso delle natiche femminili piegate al lavatoio sulla gora di via Pieve in Piano. Vuole a tutti costi mostrarmelo quel luogo di chiacchiere e turbamenti. Con agilità sorprendente, scavalca il cancelletto di accesso alla balaustra e ci ritroviamo sotto la tettoia che ripara le pietre levigate nei secoli dalle tavole lavapanni. «Ce ne erano diversi, ma le donne preferivano questo perché qui l’acqua scorreva più alta», mi spiega con un sorriso sotto i baffi, «e qua davanti un giretto con gli amici prima dell’ora di cena si è fatto per anni…» È un cantastorie l’acqua a Colle di Val d’Elsa, che non la smette mai di recitare i suoi endecasillabi con la forza della corrente. Che sia quella degli antichi canali o quella della gola scavata dal fiume nel travertino quattro milioni di anni fa, una sorta di passaggio segreto in cui s’imbudella il fiume attorno alla cittadina, protetto da una foresta pluviale di salici e sambuchi. Devo scendere sotto il ponte di Spugna per imboccare il sentiero che risale l’Elsa in quel mondo parallelo popolato da granchi di fiume, tritoni, barbi, ma anche nutrie e volpi. Del resto è chiaro che qua sotto la razza umana gioca in difesa: dagli attacchi sia delle bestie, sia della vegetazione incontinente, un fresco tunnel in cui il sentiero si addentra costeggiando cascatelle, rapide e pozzoni di un Elsa sempre più bambino. Più di una volta il tracciato costringe a guadare il fiume in bilico su grossi sassi o passerelle di fortuna. E da lì sopra è facile cogliere l’impressionante trasparenza delle acque, resa quasi innaturale dai tanti massi calcarei biancastri che ne accendono i riflessi. Per i colligiani sono un luogo dell’anima questi quattro chilometri di fiume, battezzati dalla natura e dalle vicende umane con toponimi che, da soli, raccontano la propria storia. Il sito curato da Marco Salvi, operatore informatico del comune di Colle di Val d’Elsa, è una miniera di memoria e informazioni a riguardo. Racconta, per esempio, di come ci sia il Tonfo dei Preti – prediletto dai seminaristi per il bagno –, oppure la Nicchia, una piccola grotta scavata dalle piene su cui stava un trampolino naturale di tufo. O, ancora, la Spianata dei Falchi, un tempo contraddistinta da un enorme masso dal quale si staccava anche un trampolino. Ma per quanto mi riguarda potrei essere sul Río Iguazú o sul Mekong, tanto riesce a sospendere lo spazio questo luogo alchemico, che trova il suo apice nella cascata del Diborrato, un enorme catino color turchese perfettamente circolare chiuso fra rocce chiare, in cui l’Elsa precipita dopo un balzo di quindici metri. A mollo nelle acque freddissime c’è un gruppo di ragazzi chiassosi che, con un tifo da stadio, incita all’atto di coraggio quattro compari in bilico sullo strapiombo della cascata. «Di testa, di testa!» urla qualcuno in fiorentino nello scroscio di tutta quell’acqua. «La capriola, devi fare la capriola…» grida qualcun altro. Uno dei quattro, secco nei suoi bermuda a fiori rossi, arriccia gli alluci nel vuoto e fissa la nuvola schiumosa che sale dall’impatto delle acque. Poi si tira indietro scuotendo la testa. «Daiii, cacasotto, non devi star lì a pensarciii!» Confabula con gli altri sull’orlo del precipizio, si allontana di cinque, sei, dieci passi, respira profondo e parte di corsa. In un attimo è nel vuoto, mulinando gambe e braccia, a baciare l’istantanea dei suoi vent’anni.
Qui e ora
IL Diborrato è la via d’uscita dalla gola. Il sentiero si arrampica all’apice della cascata, poi prosegue per alcune centinaia di metri, fino a guadagnare l’asfalto del ponte di San Marziale. Provo a rinviare di qualche minuto il distacco da quel mondo sommerso, appoggiandomi al parapetto mentre rosicchio una mela verde. Rimango per alcuni minuti imbambolato a osservare il moto perpetuo dei rigagnoli d’Elsa che grondano oltre la Steccaia, lo sbarramento del fiume che devia parte dell’acqua nella chiusa (il Callone) di San Marziale. È una colata lavica fresca e spumeggiante, che segna il confine fra due facce dello stesso fiume: da una parte quello vizioso e ribelle delle gole, dall’altro quello geometrico e operaio, piegato alle utilità umane. Purtroppo per continuare a seguire l’Elsa a sud di Colle non ci sono alternative alla provinciale 541. Di fronte a me, tra l’altro, si addensano nubi piombate, che allentano la morsa del caldo ma promettono guai. Mentre continuo a camminare, consulto OpenStreetMap giusto per avere conferma di quanto già intuivo: ho di fronte quasi venti chilometri d’asfalto. La parte drammatica non è tanto il traffico, piuttosto scarso a dire il vero, quanto quel drittone che si allunga fra i poderi brulli, senza una casa, un’insegna, un cortile a confortarti con l’idea di una presenza umana. Ho di fronte a me un gigante grigio che annichilisce il viandante. Marcio finché Giove Pluvio non dice la sua: tuona. E allora getto definitivamente al vento millenni di politically correct pellegrino e, per la seconda volta da quando sono partito, metto fuori il pollice. Per ogni motore che sopraggiunge alle spalle, attendo speranzoso una decelerazione che pare non arrivare mai. Cammino per chilometri, finché, finalmente, una donna triste, in viaggio verso l’Isola d’Elba, mi tira su. Il passaggio termina davanti a un locale che ha già nel nome il proprio destino: La speranza. Evidentemente, intere generazioni prima di me si sono dovute appellare a quel sostantivo per avere ragione dello stradone. Il lungo fabbricato che si distende sul ciglio della provinciale è una stazione di posta nel West dei poderi toscani. Dentro, la miscellanea di mercanzie e gli avventori eterogenei di un autogrill. Ciclisti, una piccola truppa di settantenni tedeschi vestiti in modo orribile, una coppia clandestina, un gruppo di ragazzi milanesi in calzoni corti seduti per il pranzo, famiglie con bambini in gita verso Follonica, qualche locale che si beve un bicchiere di bianco dopo la caccia: un’umanità itinerante che nel piano inclinato della grande traversata rotola in buca a ritemprarsi. «Ma che, sul serio sei diretto a Sovicille passando per la Montagnola Senese?» La faccia allibita del fungaiolo grossetano, con cui condivido il tavolo, è una sciabolata. Se avessi intuito tanto stupore, avrei evitato di chiedere indicazioni: oggi pomeriggio non posso permettermi la prudenza della consapevolezza, mi serve solo l’entusiasmo dell’incoscienza. Tanto più che fuori inizia a gocciolare. «Ci sono solo cave abbandonate fra quei boschi», mi dice pensieroso, passandosi entrambe le mani fra i riccioli bianchi. «E dal Poggiaccio, quando trovi il sentiero che si stacca dalla provinciale, hai da salire un bel pezzo e ti mancheranno ancora sei chilometri almeno… Ma sei sicuro?» L’unica cosa di cui sono sicuro è che l’Elsa nasce da quel rilievo di seicento metri. E dunque è lì che punta il mio viaggio, anche se devo affrontare altre tre ore di marcia sotto l’acqua. C’è di bello che almeno posso mettere alla prova la protezione scarpe di cui potrei vantare il copyright. Nell’amletico dubbio sulla scelta della calzatura, le scarpette leggere da running avevano avuto la meglio sui più pesanti scarponi in Gore-Tex. Avevo così girato come un pazzo alla ricerca di una protezione che mi consentisse di non inzupparle in caso di pioggia. Ma tutto quello che avevo trovato erano le sovrascarpe da ciclista: ottima tenuta, con la controindicazione però che avvolgevano anche la suola, ma nel mio caso deve rimanere libera per poter camminare. E allora, con forbici e puntatrice da pellettiere, avevo adattato l’accessorio alle mie esigenze. Indosso quindi i calzari geneticamente modificati, inguaino lo zaino nella protezione impermeabile e apro l’ombrello, infilando il manico fra schiena e bagaglio. Pure questa era stata una scelta sofferta: ombrello o poncho di cerata? Tutta la letteratura propendeva per il secondo. Anzi, non avevo trovato notizia di camminatori con l’ombrello, evidentemente confinato nell’immaginario all’urbe piuttosto che ad avventure en plein air. Io invece, memore anche di qualche precedente esperienza, avevo deciso di sfidare tutto e tutti puntando sul primo, che ha il pregio di evitare il gocciolio su polpacci e caviglie e protegge dal contatto diretto con una superficie bagnata. Certo avevo dovuto scegliere attentamente un attrezzo che conciliasse bene le dimensioni con un raggio di apertura accettabile. Ma, alla fine, avevo trovato il giusto compromesso. Quindi c’è pure una certa felicità nel camminare protetto da un’intercapedine asciutta, finalmente sicuro di non avere occupato inutilmente spazio nello zaino. E il ticchettio vivace della pioggia sulla testa rende meno mesta la marcia ancora lunga verso il Poggiaccio. Ogni tanto chiudo gli occhi per qualche istante e assaporo il gusto dell’invulnerabilità. Quella sensazione infantile di estrema protezione, che si prova affondando le orecchie fin sotto al lenzuolo, certi di essere avvolti da un guscio impenetrabile. Decido che è sufficiente questo per essere felici oggi pomeriggio: avere un qualcosa sulla testa, i piedi asciutti e la forza d’animo di affrontare la Montagnola Senese per scollinare a Sovicille. E forse è tutta qui la grandezza del cammino: essere obbligati a concentrarsi su ciò che conta in un determinato momento, godendo di ciò che si può avere. Senza calcoli e pianificazioni. Solo qui e ora. Certo è un principio sovversivo, almeno per chi è stato abituato sin da bambino all’importanza di risparmio e previdenza, all’ineluttabilità dei sacrifici dell’oggi per guadagnare la serenità di domani. E alla predestinazione alla crescita, quell’idea inconfessata, eppure incisa nel DNA dei nostri giorni, per cui non avanzare significa arretrare. Cosicché ci si industria per un obiettivo di budget, per un grande progetto, o per una nuova casa, si corre per agguantare la ricompensa di domani. Tranne, spesso,
dimenticarsi di vivere l’oggi. Ecco, la strada questo errore non lo concede. Camminare significa innanzitutto praticare l’essenzialità e l’essenziale non ammette la coniugazione al futuro, ma solo al presente.
Un fiume di tabacco
UN mistero, ancor prima di un obbrobrio. L’IDIT d’Isola d’Arbia è un ecomostro che, in fondo, il suo fascino ce l’ha. Un silos di settantacinque metri, imprigionato in una gabbia arrugginita che si alza fra i campi della piana lungo il fiume Arbia, il filo d’acqua che superata Siena riesce a guidarmi verso sud. È una specie di decrepita torre di controllo in contatto con mondi marziani, visibile dalle colline circostanti anche a molti chilometri di distanza. Un’oscenità che va oltre il «solito» complesso industriale abbandonato. Semplicemente perché questo complesso non ha mai funzionato. O meglio, lo fece per pochi mesi. Era l’inizio di marzo del 1961 quando il ministro dell’Industria Emilio Colombo inaugurò l’Impianto disidratazione Isola Tressa, IDIT appunto. Una fabbrica avveniristica che avrebbe ridotto in polvere succhi di frutta e verdura, latte crudo, tè, caffè e, magari, compensato la perdita di posti di lavoro che stava subendo l’industria storica della valle: il tabacco. Quella mattina c’erano autorità sorridenti, panciuti arcipreti, signore ingioiellate, carabinieri con i pennacchi e schiere di operai in tuta bianca. Davanti a un nastro trasportatore il ministro si fece immortalare nell’atto di gustare uno yogurt che pochi istanti prima non era che un mucchietto di polvere. Peccato che, smontato il set dell’inaugurazione, dopo un paio di mesi, la fabbrica chiuse i battenti. Il vero motivo non lo seppe mai nessuno o se ne perse semplicemente la memoria. C’è chi dice l’arrivo sul mercato dei pelati in barattolo, chi ipotizza che i liofilizzati fossero solo una copertura per produrre napalm: ma poco conta di fronte a quel birillo marziano che in quasi sessant’anni non si è riusciti né a riconvertire, né a valorizzare come archeologia industriale, né (e sarebbe forse la soluzione più sensata) ad abbattere. Aggiro la torre e imbocco la Francigena, che procede a sud. Anche Sigerico, il monaco britannico che per primo annotò il percorso della via, seguì i fiumi Arbia ed Elsa per risalire la Penisola nel 990. Fresco di elezione ad arcivescovo di Canterbury, tornava da Roma, dove aveva ricevuto da papa Giovanni XV il pallio, il paramento bianco che simboleggia una pecora portata sulle spalle, segno della vocazione pastorale e, dunque, della dignità arcivescovile. Una Francigena impantanata verso Ponte a Tressa attraversa campi bruni mollicci, gonfi come spugne per la pioggia caduta nella notte. A un crocicchio due giovani pellegrine tedesche addentano un panino sgranando gli occhi incredule sul birillone piantato fra le zolle. Sono partite da Siena qualche ora fa con l’idea di andare ad Assisi: esordienti totali. «Non abbiamo trovato nessuna mappa di quel percorso, così abbiamo pensato che anche Roma potesse andare bene», mi dice la più spigliata delle due con addosso tutto l’incanto dei suoi diciott’anni. È un viaggio leggero quello di Bertha e Martina: poche cose chiuse nello zaino e pochi pensieri che ingombrano la mente. «È la nostra prima vacanza da sole e ci sembrava bello trascorrerla camminando, tutto qua.» Starei ore a contemplare l’intima bellezza di queste ragazze che riescono a meravigliarsi di ogni cosa: addirittura del Tressa che scorre gravido d’acqua marrone («Terrific, terrific», continuano a ripetermi come se non avessero mai visto un torrente in piena). Chi invece ha già visto tutto è Adon, un giovanotto di ottantotto anni a passeggio, che con le mani ossute mi disegna la Val d’Arbia ai tempi del tabacco. Quando laggiù, attorno alla gora di Monteroni, erano tutte foglie larghe, ruvide e sempre verdi. «Le piante di tabacco venivano su anche un metro e mezzo», mi dice questo ex contadino che proprio non lo sa perché il padre decise di dargli il nome di una divinità fenicia. «Era un colpo d’occhio spettacolare, soprattutto a fine estate, durante i mesi di raccolta. Si coltivavano laggiù, fra la gora e l’Arbia, perché avevano bisogno di molta acqua, tanto che i fossi delle colline qua attorno erano pieni di sbarramenti per i bacini che servivano all’irrigazione.» Quella distesa verde che si alternava all’erba medica e ai colori terrigni dei foraggi non segnò solo il paesaggio, ma anche le comunità che vivevano lungo il fiume: Monteroni e Buonconvento soprattutto. Comunità di mezzadri che con il tabacco integravano il reddito del fondo. La storia me l’ha raccontata bene, qualche tempo fa, Gino Civitelli, un ricercatore locale che dal suo studio all’ultimo piano del mulino di Monteroni ha narrato in decine di pubblicazioni l’ultimo secolo di vita della Val d’Arbia, concentrandosi spesso sulla Resistenza. Una storia «non ufficiale», raccolta dalle testimonianze dei protagonisti, senza le mediazioni dei libri, scritti, come spesso accade, dai vincitori. «Lo Stato incentivava la produzione di tabacco, perché significava entrate fiscali, grazie al monopolio. E qui in Val d’Arbia c’erano le condizioni climatiche giuste e l’acqua del fiume», mi spiegò davanti a quelle finestre affacciate sulle colline. «Così i proprietari terrieri, soprattutto a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, obbligarono i mezzadri a tenere una parte del seminato a tabacco. Qualcuno si lamentava, ma, alla fine, il sistema non gli dispiaceva. Il tabacco garantiva un’integrazione al normale reddito fondiario, era pagato meglio del grano e, soprattutto, veniva liquidato in contanti dalla società dei tabacchicultori perché non era soggetto ai conteggi del fattore, che quasi sempre andavano a vantaggio del proprietario. Insomma, il tabacco ha reso i mezzadri un po’ più imprenditori, perché, quando le foglie venivano stufate, conveniva sterilizzare con quel calore anche i bachi da seta. Quindi i contadini più intraprendenti riuscirono ad associare l’allevamento del baco alla coltivazione del tabacco. E tieni presente che pure i bozzoli venivano pagati in contanti.» Questa coltura lasciò un segno sul paesaggio. Per i filari di gelsi e per il rumore inconfondibile dei bachi che si risvegliano dal letargo e a migliaia rosicchiavano le foglie dell’albero. Un rumore che per tanto tempo ha fatto parte dell’immaginario dei monteronesi. Un po’ come l’odore acre e rotondo che diffondeva la tabaccaia di Monteroni d’Arbia, proprio dietro la stazione del
paese. Un odore che da Isola d’Arbia a Buonconvento tutti associano all’autunno e che forse qualche neurone capta ancora nell’aria, nonostante la tabaccaia abbia chiuso più di dieci anni fa. Ma il tabacco in Val d’Arbia fu soprattutto riscatto e dignità femminile. «Alla tabaccaia lavoravano soprattutto donne e bambine, che fino alla sua apertura, nel 1923, erano state completamente escluse dal mondo ufficiale del lavoro», ragionò Gino davanti a un bicchiere di rosso. «Pensa che nel conteggio delle teste di una famiglia per l’assegnazione dei poderi mezzadrili le donne valevano la metà di un uomo. Da quel momento in poi, invece, ebbero un posto di lavoro e una busta paga con il loro nome tutti i mesi: questo portò più dignità anche in famiglia. E vivendo assieme in fabbrica diventarono protagoniste di lotte sindacali a volte aspre con i padroni. Quelle fabbriche, insomma, portarono un po’ di partecipazione e parità effettiva dei diritti in questa valle.»
Nel paese dei Risorti
LO sterrato della Francigena costeggia per un po’ la base delle colline, poi discende in piano nel momento in cui il cielo atlantico, che per tutta la mattina ha minacciato rovesci, ricomincia a sputacchiare pioggia. Ed è lì, a Cuna, che si staglia la grancia: un fortino di case, mura, torri e granai addossati l’uno all’altro come a proteggersi dal freddo. Le grance erano fattorie fortificate, veri e propri borghi autonomi in cui si lavorava e si immagazzinavano i frutti dei fondi circostanti, il più delle volte a beneficio di annessi ospedali per pellegrini e indigenti. E quella di Cuna, attraversata nel Medioevo dalla più importante via di comunicazione europea, era certamente una delle più grandiose del senese. Qui già nel corso del 1100 è documentato un ospedale, che diventerà di proprietà di quello ben più grande di Santa Maria della Scala di Siena. La potente istituzione, nei decenni successivi, ampliò e fortificò il complesso, che arrivò a gestire, oltre a vasti poderi, anche abitazioni, botteghe, osterie e ben quattro mulini, fra cui quello di Monteroni. Il profilo di solida imponenza che contemplo dai campi nacque più di settecento anni fa e fino agli anni Cinquanta conservò buona parte delle sue funzioni. Ma oggi questo gigante ha i piedi d’argilla. La grancia è ingabbiata da ponteggi e dal mastio spunta una gru che ha tutta l’aria di essere stata dimenticata lì. Un vecchio malvestito ma ben informato mi spiega che la situazione non è affatto semplice. Buona parte degli edifici è di privati e qualche famiglia ancora ci abita. Nel 2012 il comune comprò i granai e due anni dopo fece alcuni lavori di restauro, poi tutto fermo. «Se vuole può entrare…» mi dice laconico avviandosi verso casa per sfuggire alla pioggerella. «Però le garantisco che non sarà una bella esperienza.» Alzo gli occhi e, in effetti, la grancia mostra tutti i segni del decadimento: muri pericolanti, calcinacci ovunque, rampicanti incipienti. Ma fatto trenta, faccio trentuno e mi addentro lungo il viottolo d’ingresso passando sotto gli unici lasciti dell’antico prestigio: gli stemmi incisi sulla pietra bianca di Santa Maria della Scala e dei Piccolomini, la potente famiglia senese che ereditò queste terre. All’interno, fra gli edifici che si fronteggiano e si accavallano sui vicoletti, è solo un gridare isterico di uccelli e un tubare di piccioni, come in un’enorme voliera. Un penetrante odore di umido mi avvolge mentre salgo la rampa che si inerpica fino ai granai e supera abitazioni che si affacciano sui porticati, fino al culmine di questa casa degli spiriti. Quando arrivo in cima e mi sporgo dalla balaustra che guarda in basso mi investe una sensazione sinistra. Da feticista dell’archeologia industriale, ne ho praticati diversi di luoghi derelitti e abbandonati, senza tuttavia provare la stretta allo stomaco di questo momento. Sarà forse la pioggia che continua a ticchettare, o il frusciare di penne che accompagna ogni mio passo, o la sensazione di avere sempre una presenza alle spalle. Comunque sono le due e mezzo di pomeriggio, non credo ai fantasmi né agli ufo e sono grande, grosso e vaccinato. Però scatto una foto al volo, bevo un sorso d’acqua e giro rapidamente i tacchi. A Monteroni passo a rendere omaggio all’enorme tabaccaia, chiusa dal 2005, in cui si lavorava il Kentuc, come qua si è sempre chiamato il tabacco Kentucky, autoctono e originariamente lavorato nella manifattura, prima che arrivassero quelli d’importazione. Non è stata certo l’unica della Val d’Arbia, ma per Monteroni, paesello senza blasone, ha avuto un ruolo fondativo: sia nell’accrescere i residenti, sia nella percezione dell’essere comunità. Mi fermo al cospetto del colossale mulino trecentesco, il complesso attorno al quale si è sviluppato il paese. Come la grancia, è fortificato, con il nucleo centrale in mattoni che si eleva in una massiccia torre difensiva. Appena fuori Monteroni, imbocco la provinciale 12 e attraverso un Arbia gravido d’acqua. È quel ponte il passaggio segreto che mi fa sfiorare le Crete: colline di argilla chiara levigate come desideri inconfessati. Un paesaggio di brulla armonia che oggi attrae like e stelline social, ma fino a qualche decennio fa era un’autentica disgrazia per i mezzadri che non riuscivano a farsi assegnare un podere di pianura accanto all’Arbia. Una terra fertile, quella in basso, a differenza dei campi di terra argillosa lassù che, al massimo, poteva far venir su un po’ di scandella: un cereale simile all’orzo, grossolano e, soprattutto, malpagato. Quando il sole squarcia finalmente le nubi, quell’argilla si mette a stantuffare calore umido. Tanto da non riuscire più a comprendere se il caldo viene da sopra o da sotto. Ma l’unica cosa importante è che si accendono i colori e un’ombra netta inizia ad accompagnare la mia marcia fra i campi graffiati da rette di luce e fango. Quando, protetto da un cielo indaco, ritrovo la ghiaia della via di Terzinina, ho il privilegio di camminare in completa solitudine fra poderi chiazzati, alberi scapigliati e file di cipressi che chiudono l’orizzonte. Scollino e il paesaggio, verso Buonconvento, si fa più acceso e vario. Attraverso i vitigni del rosso della Val d’Arbia, che si avvitano senza trovare la loro stella polare. Quando poi esco da quella bolla mi ritrovo sulla Cassia, poco prima del ponte sull’Ombrone, che, alcune centinaia di metri a valle, riceve l’Arbia. Questo luogo ha segnato la storia del fiume e di Buonconvento. Qui accanto, giusto oltre il campo sportivo, ce n’è un altro: quello della ferrovia Siena-Grosseto. È lì che i tedeschi in ritirata, a mezzogiorno del 26 giugno 1944, fecero saltare per aria due locomotive che precipitarono nel fiume. Una fu recuperata dopo pochi mesi, mentre l’altra rimase per quasi due anni a formare una sorta di diga, a ricordare come la guerra non sia solo terrore, ma gratuita e assurda bestialità. Le mura di Buonconvento ti danno un’idea di perfezione. Una specie di guscio d’uovo attorno a un borgo medievale in pianura a presidio della Francigena e della confluenza dell’Arbia nell’Ombrone. Mi fermo per una Coca-Cola supplementare al bar di quella che fu la vecchia casa del popolo, dove Togliatti in persona benedisse i lavori di costruzione durante una sua fugace apparizione nel giugno del 1947.
Mi avvicino incuriosito alla porta d’ingresso e noto come il marmo continui a raccontare la diaspora dell’ex PCI. Una accanto all’altra convivono le targhe di PDS, Rifondazione comunista e Comunisti italiani, mentre dalle finestre del primo piano sventola svogliato un bandierone del PD. È questa la fotografia politica di quello che divenne nel Novecento un laboratorio di capitalismo liberale e partecipazione. Soprattutto grazie alla visione di alcune famiglie – grandi proprietarie terriere – che mai aderirono al fascismo e che, a loro modo, lasciarono un segno nella coscienza civile della comunità. Prendi Giulio Grisaldi Del Taja, per esempio, che negli anni fra le due guerre riservò ai suoi contadini un posto a teatro, un abbonamento al Giornale d’Italia e passava per i campi accertandosi che i bambini non lavorassero. O l’esperienza del podere La Piana, poco a nord di Buonconvento, in cui funzionò, tra l’altro, un asilo gestito da religiose per i figli dei contadini. Sul finire degli anni Sessanta l’ultimo padrone del fondo, il conte Ludovico Ceriana Mayneri, tentò di vendere la proprietà ai propri mezzadri riuniti in cooperativa. Ma il PCI si mise di traverso. «Di padroni ne abbiamo anche troppi», pare dissero da Botteghe Oscure, timorosi di vedere i fedeli mezzadri passare dalla parte dei capitalisti. «E poi perché volete comprare i poderi?» aggiunse qualche dirigente di partito per indorare la pillola. «Tanto l’anno prossimo si vincono le elezioni e leveremo tutte le terre ai padroni!» Ma forse è l’Accademia dei Risorti a rappresentare pienamente l’aria filantropica e liberale che si respirò a Buonconvento nella prima metà del secolo scorso. Furono alcune famiglie di possidenti, fra cui gli onnipresenti Del Taja, a volere un sodalizio che portasse al popolo il teatro laico. «Risorti non è un nome massonico», mi spiega – divertita per la mia curiosità – Letizia, factotum del Museo della mezzadria senese. «Già nel corso dell’Ottocento ci furono tentativi di teatro non religioso, ma fatti per lo più in abitazioni private. Poi tutto morì lì. Così, quando a inizio Novecento i Del Taja fondarono l’Accademia e costruirono un vero e proprio teatro, fu una specie di resurrezione di quell’idea.» Il piccolo teatro, addossato a Porta Senese, ha la facciata spigolosa ed essenziale di un’officina meccanica e, a oltre un secolo dalla fondazione, continua a produrre cultura, dopo un rilancio a inizio anni Duemila. Me lo assicura Alfredo, quarantenne in gran forma che incontro lì davanti. «Cinema, rappresentazioni teatrali e attività per bambini: un po’ di tutto, ci facciamo», mi spiega sorridente con addosso la maglietta del gruppo podistico Risorti. «Ma pure runner erano i Del Taja?» gli chiedo divertito indicando il logo sulla t-shirt. «Questo non lo so, a dire il vero non me lo sono mai chiesto il perché del nostro nome. Ma ormai Risorti a Buonconvento rappresenta qualcosa che va oltre il teatro. È una specie di ideale che ci unisce: siamo quelli capaci di risorgere sempre.»
La sostanza dell’anima
È NEI pressi di Torrenieri, quando la Cassia supera il bivio con la strada provinciale del Brunello, che cambia il mondo. L’ex statale si arrampica con due tornanti su una collina e proprio lì oltrepasso il confine non scritto fra due province di Siena: quella operaia della Val d’Arbia – che tentò, con alterne fortune, la strada dell’industrializzazione –, e quella con la erre moscia della Val d’Asso, della Val d’Orcia e del Brunello. Una terra povera, poverissima, fino a mezzo secolo fa. Che però è riuscita a reinventarsi, trasformando in forza l’antica debolezza di non avere visto fabbriche e quartieri di villette. È un diaframma sottile ma ineluttabile, in cui vedi come la storia economica sia capace di lavorare di fino sul paesaggio. Le Crete che mi lascio alle spalle sono belle. Il moto ondoso di campi e vitigni verde intenso di fronte a me è bellissimo. Un superlativo in cui si annida una cura maniacale dei dettagli: dal tralcio di vite all’intero colpo d’occhio sulla Val d’Asso. Un rigagnolo simbolico inguainato fra le robinie che si avvita fra le colline, senza un sentiero o una strada che ne segua il tracciato. Sia la Cassia sia la provinciale, infatti, da Torrenieri salgono a San Quirico d’Orcia, snobbando l’incerto disegno del fiumiciattolo. È invece la ferrovia a prendere sul serio il corso dell’acqua. Così, mi ritrovo di nuovo con le suole sulle traversine. Forse i binari mi richiamano a un’antica passione e c’entreranno senz’altro le ore passate da bambino davanti al plastico ferroviario piazzato nella sala d’attesa della mia pediatra. O, semplicemente, con le tante ferrovie sciaguratamente abbandonate lungo la Penisola è fin troppo facile imbattersi in sentieri inusuali che si addentrano, spesso lungo i fiumi, nel ventre delle nostre aree interne. Non fa eccezione la Asciano-Monte Antico, meglio conosciuta come ferrovia della Val d’Orcia, visto che per un bel tratto segue il corso del fiume. Chiusa al traffico di linea nel 1994, dopo oltre centovent’anni di servizio, ha avuto un destino più favorevole di altre vie ferrate irrimediabilmente gettate alle ortiche. Grazie all’instancabile opera dell’Associazione ferrovia Val d’Orcia, dal 1996 infatti circolano lungo la valle una ventina di treni turistici all’anno. Non oggi, comunque. E così, all’ombra dei muri color crema della stazione di Torrenieri, sistemo il solito pannellino solare sullo zaino e comincio un altro trekking ferroviario sotto il sole a picco delle due del pomeriggio. Procedo inebriato dall’aroma dell’olio di creosoto, il distillato del catrame di carbone di cui sono impregnate le traversine. È il respiro della ferrovia: un ago che tormenta l’ippocampo e scatena sinapsi che riportano al concetto stesso di treno. È la mia madeleine, il creosoto. E pazienza se non sono Proust e se quella specie di pece è certamente cancerogena. Anche la Nutella fa male ma è buona. Come sulla Lucca-Aulla devo camminare con lo scomodo passo del papero. Tutto si veste comunque di fascino irreale sull’acciaio luccicante che ancora anela a macchine a vapore e littorine, fendendo una natura incantevole completamente addomesticata dall’uomo. Un lavoro da orefici più che da agricoltori. Ma se l’Unesco nel 2004 ha riconosciuto la Val d’Orcia patrimonio mondiale è stato proprio per la capacità dell’uomo di plasmare il paesaggio in modo armonioso, secondo criteri di buongoverno e di riscoperta del gusto estetico tipici del prerinascimento toscano. Mentre entro in quel presepe laico di casali, non posso far a meno di pensare ad altre colline, incrociate in altri viaggi e ad altre latitudini: quelle a cavallo delle province di Benevento, Foggia e Avellino. Il triangolo dell’eolico italiano, dove in qualche centinaia di chilometri quadrati si concentra un terzo della potenza eolica installata in Italia. Un’oscenità che è andata oltre la totale devastazione di un paesaggio collinare dal potenziale non dissimile a quello della Val d’Orcia: ha lavorato sulle coscienze. Perché se tutte le mattine, per uno, due, dieci, vent’anni, apri le finestre e trovi i campi attorno al tuo paese assediati da pterodattili alti cento metri, per sopravvivere devi per forza abbassare la soglia di ciò che ritieni esteticamente lecito. Devi modificare il tuo concetto di bellezza, abituarti a tutta quella violenza. Altrimenti impazzisci. Lo ammetto, la Val d’Orcia, in fondo, mi sta un po’ antipatica: per quel rustico fighetto, che quindi rustico non è, per l’autenticità pesata con le stelle Michelin, per il fatto che pare non ci sia più nulla da scoprire in un fazzoletto di terra conosciuto dall’Islanda all’Australia. Eppure, a guardarla adesso, clandestino sui binari, mi sembra che questa bellezza abbia ancora qualcosa di segreto da raccontare. E, soprattutto, comprendo quanto abbiano ancora da insegnarci gli orefici del paesaggio, quegli umanisti convinti che ciò che ci circonda determini ciò che siamo, che l’estetica non sia forma, ma sostanza. Sostanza dell’anima. Mentre rifletto su questo e su come procurarmi un posto per la notte, mi godo per un paio d’ore tutta questa perfezione, che poi è solo un’anteprima della Val d’Orcia vera e propria, visto che per diversi chilometri la ferrovia costeggia l’Asso, nel suo dolce saliscendi fra i vigneti. A questo panorama cerco di aggiungere un pezzo immaginario sul declivio che scende da Montalcino fra vigne e querceti: il monastero di San Pietro in Asso, quasi certamente uno dei più antichi d’Italia. Arrivo fino al punto esatto in cui OpenStreetMap mi colloca la località, anche se si tratta solo di un toponimo sulla carta (elettronica, s’intende). Eppure è ugualmente emozionante contemplare per qualche minuto il casolare diroccato che per secoli ha nascosto fra i suoi muri i resti di absidi, navate e capitelli di un complesso monastico probabilmente fondato all’inizio dell’VIII secolo dall’ultimo re longobardo di dinastia bavarese, Ariperto II. Scatto una foto e prego che si possano trovare i quattrini necessari per proseguire gli scavi archeologici iniziati nel 2010 e interrotti in attesa di altri fondi. Poi è il momento di oltrepassare l’Asso lasciandomi alle spalle la collina di Montalcino per puntare verso l’Orcia.
Ci sarebbe un guado sui massi, ma le piogge dei giorni scorsi ne hanno spazzato via una buona parte, così mi tocca infilarmi le infradito e tentare ciò che in Garfagnana mi riuscì piuttosto male. Questa volta, però, con gesto olimpico lancio le scarpe sull’altra sponda. I piedi affondano sul letto argilloso. Circospetto, misuro ogni passo con lentezza, e quando mi ritrovo dall’altra parte a risalire fra le geometrie rigorose dei campi verso il podere Cerretello, so di non avere attraversato solo un corso d’acqua, ma il confine agricolo ed economico che distingue la zona di produzione del Brunello. Un bel problema per chi coltiva da queste parti. Come per Valeria, una donna pragmatica che sa di essere bella anche con i lunghi capelli sale e pepe, che c’è nata a San Savino, nel punto esatto in cui la valle disegnata dall’Asso vira verso la Val d’Orcia. Il suo vino, infatti, non sarà Brunello, perché di mezzo c’è l’Asso a segnare la zona di produzione, rigorosamente confinata nel comune di Montalcino. Basta un chilometro in linea d’aria, forse meno, a determinare il destino commerciale del suo vino, fatto pure quello con sola uva sangiovese, ma già in origine fratello povero del Brunello. E con quel nome quasi comune, «Rosso d’Orcia», poi. «Certo che è buono come il Brunello, che domande!» mi risponde col piglio di chi è abituata a guardare la vita in faccia. «Ma quello non conta perché comunque c’è meno margine nel produrlo e soprattutto meno domanda. I rivenditori e ristoratori sanno bene che una bottiglia di Brunello, per quanto salata, prima o poi la venderanno comunque. Per il Rosso d’Orcia questo non vale.» Valeria non si lamenta, l’ha capito presto che nella vita non serve a niente. Si stira con le mani la camicetta sulla vita e mi accompagna nel cortile che si affaccia sulla valle verso l’Amiata, una divinità ordinatrice che tutto domina. Mi butto giù per un sentiero ripido e pietroso in un fitto bosco di lecci verso l’Orcia e procedo fra i campi. Quando, dopo un po’, mi fermo per bere, scopro di essermi scordato di riempire la bottiglietta a Torrenieri e adesso, sperso fra i poderi in bilico fra Asso e Orcia, non è banale trovare una fontana. Qualche casale nel raggio di un chilometro ci sarebbe pure, ma mi sento troppo malconcio per bussare a una porta certamente nobiliare mendicando un goccio d’acqua. Così tengo duro, confortato dalla scritta SORGENTE che appare su OpenStreetMap non lontano da me. Poco dopo, in corrispondenza di un bivio, incontro una freccia a indicarmela. Così devio pimpante, ma i cento metri diventano duecento, poi quattrocento. Addirittura un chilometro, senza avere incontrato né un goccio d’acqua, né un cristiano a cui chiedere indicazioni per quella sorgente fantasma. Rientro mesto al punto di partenza schiumando rabbia. Due chilometri, per chi è seduto su qualche cilindro, sono una distanza ridicola. Per il mondo con le scarpette significano un investimento di almeno una ventina di minuti. Nel mio caso, fatto per di più alle sei del pomeriggio, con già la fatica di decine di chilometri nelle gambe. Ma possibile che in mezzo a tanto vino non si trovi un goccio d’acqua? Così penso sia stato mandato direttamente dalla Provvidenza il vecchio seduto con le spalle al muro di un casolare coccolato dal sole. Se ne sta immobile con gli occhi socchiusi contro i raggi che scendono lentamente sui poggi a sud di Montalcino. Gli chiedo un goccio d’acqua perché la sua casa è accogliente sul serio, con quei muri antichi sbeccati dal tempo, affacciati su un cortile in cui si ammassano fra l’erba alta vecchie macchine agricole. «Ma certo!» Si alza con gesti lenti, come se si trovasse in quella posizione da un secolo, spalanca gli occhi chiari e trascinando i piedi mi mostra una fontanella ricavata dalle pietre di casa. «Si serva pure, questa è l’acqua dell’Amiata. Lo conosce, vero? È il monte laggiù oltre quel travaglino.» «Travaglino?» «Chiamiamo così le nuvole piccole e schiumose come quella là.» E con una mano sugli occhi, per ripararsi dal sole obliquo, si mette a contemplarlo come non l’avesse mai visto prima. Sorseggio lentamente per assaporare, più che l’acqua, la serenità inafferrabile nascosta fra le rughe armoniose del suo volto. Con accento pastoso mi parla di grano e avena, quelli che semina nel suo podere. E di quei dannati cinghiali che fanno buche alte così nei campi, che quando ci passi col trattore affondi di mezza ruota e la mietitrebbia si spacca. «Come quella là sotto il fienile, hai visto?» dice indicando il cimitero dei mezzi agricoli. «Quasi tutti gli attrezzi me li hanno ridotti così quelle bestie…»
La barriera corallina
L’ESTESA lecciaia che mi prende in consegna, fino a condurmi sul fondo valle dell’Orcia, azzera la luce ocra del tardo pomeriggio. Cammino finché intravedo il dirupo di Bagno Vignoni: arrivare dal basso al cospetto di questa specie di barriera corallina è impressionante. L’acqua termale tracima dalla roccia bianchissima e precipita nelle pozze turchesi prima di ruscellare in Orcia. Supero un canneto popolato da decine di piccoli ranocchi e assecondo la natura: levo zaino, scarpe e calze e infilo i piedi nell’acqua tiepida, imbarazzato dal dover mettere tanto sudiciume a contatto di questa purezza. Ma nessuno degli altri bagnanti, a mollo fino alla cintola, sembra fare caso al sottoscritto. In realtà sembrano non fare caso proprio a niente di ciò che li circonda, presi da una caciara da gita fuori porta in cui, a un certo punto, spunta un pallone da beach volley. E invece ci sarebbe da stare parecchio col naso all’insù a leggere il libro della storia minuta di una valle. Perché Bagno Vignoni non fu solo le terme di Caterina Benincasa (la futura santa Caterina da Siena), di Lorenzo il Magnifico, dei Piccolomini, dei Salimbeni e dei Chigi. L’acqua termale che sgorgava dalle viscere del borgo, dopo avere ribollito nella grande vasca attorniata da nobili case, scivolava sul pianoro calcareo a servizio di una batteria di mulini scavati nella parete che mi sovrasta. Per almeno sette secoli il cuore economico della Val d’Orcia è stato in queste grotte. Soprattutto perché, a differenza di tutti gli altri mulini alimentati con acqua di fiume, questi marciavano con acqua termale di sorgente, dunque potevano funzionare trecentosessantacinque giorni all’anno, senza le pause – durante i periodi di siccità – a cui erano costretti gli altri impianti. Un impianto strategico, diremmo oggi, da difendere a ogni costo, soprattutto in un territorio conteso fino alla metà del XVI secolo fra Siena e Firenze. Anche con un torrione che dalla cima della rupe dominava la valle. Quando guadagno l’apice del roccione bianco, i resti di quel presidio militare sono ancora lì, con il basamento della torre che sorveglia i vasconi di accumulo delle acque da sparare in basso. Un paio di giovani coppie scattano foto alla valle. Un bambino inseguito dalla mamma saltella dentro ai gorelli, i piccoli canali che convogliavano l’acqua al centro del paese, cerniera fisica e ideale fra terme e mulini. Un tutt’uno che ha sempre tenuto assieme i due grandi bisogni del corpo: quello del salutare ristoro, riservato ovviamente ai signori, e quello più universale della sazietà. La pancia piena è un’istanza ormai sepolta nella Toscana da cartolina che si osserva da quassù, ma il fatto che le macine nelle grotte abbiano girato fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso ricorda quanto il benessere, anche per questa valle iperchic, sia conquista recente. E certo l’iperchic orciano trova il suo cuore nella piazza delle Sorgenti, la grande vasca sotto cui sgorga borbottando l’acqua a cinquanta gradi. Tutto attorno si raccolgono a rettangolo i palazzi rustici del paese. Dagli alberghi escono coppie in accappatoio e ciabatte, altri turisti in camicia di lino e bermuda passeggiano intorno allo specchio d’acqua verde, altri ancora sorseggiano aperitivi sotto il dehors del caffè. Nonostante l’affollamento, però, attorno al vascone regna una quiete aristocratica. Anche i pochi bambini, buoni nei loro passeggini, paiono intimiditi da tanta pace. In punta di piedi attraverso con le scarpe infangate il loggiato di santa Caterina e provo pure io a intravedere nelle acque la scia luminosa che, secondo la leggenda, ogni tanto appare nello specchio che vide bagnarsi la santa. L’agiografia racconta di una ragazzina smaniosa di cercare i punti più caldi per infliggere penitenze al proprio corpo, ma più facilmente la futura santa, già vocata al misticismo, era solo una preadolescente sbuffante, costretta a seguire la famiglia nei suoi spostamenti vacanzieri da Siena alle terme. Il tramonto però non mi coglie sul parapetto delle acque patrizie, ma sugli scalini della piccola libreria del borgo, seminascosta al primo piano di un edificio color ocra a pochi passi dalla piazza, dove Simone mi racconta il suo sogno. Ha occhi neri inquieti, chioma scapigliata e l’età di mezzo in cui cominci a chiederti se nella vita hai fatto davvero le scelte giuste. Come quella di mollare la propria città – Arezzo – e un lavoro sicuro e ben pagato per aprire una libreria. Certo, in un luogo da sogno, ma con cui non è facile, economicamente parlando, mettere assieme il pranzo con la cena. Me lo dice subito, a scanso di equivoci. «Facevo l’area manager per una grande impresa di abbigliamento. Avevo soldi, belle macchine e giravo il mondo sempre in mezzo a modelle.» «Detta così sembrerebbe una pacchia», scherzo. «E forse lo era… però ero avvelenato. Avvelenato dall’ambizione che un mondo così competitivo per forza di cose ti mette addosso. Ma, soprattutto, avevo perso la cosa più importante che un uomo può avere.» «Gli affetti?» «No. La fiducia nel prossimo.» Me lo scandisce bene, a voce più bassa, mentre con l’indice percorre il solco di una pietra. «Perché per sopravvivere in un mondo di coltelli, viene naturale chiederti in ogni momento che cosa c’è dietro a qualsiasi frase o proposta. Fai dietrologia su tutto, semplicemente perché hai paura. Spari per primo, come ne La guerra di Piero: hai presente la canzone di De André?» «‘Sparagli, Piero, sparagli ora…’» «Ecco, è uguale: è l’istinto di sopravvivenza, ma ti svuota. Ero bravissimo nel mio lavoro, ma ero cattivo nel vero senso della parola: mi sono scoperto impassibile di fronte ad agenti di cinquant’anni che piangevano come bambini quando gli revocavo i mandati», racconta guardando nel vuoto. «Non so se ti sei mai trovato in situazioni del genere…» Così un giorno di dicembre del 2009 Simone consegnò al direttore commerciale una lettera di dimissioni, fece un bel mutuo e a gennaio dell’anno dopo prese in affitto la libreria di Bagno, dove la sua ragazza lavorava in un albergo. Se ha fatto bene o male ad
aprire quello stanzone con enormi scaffalature di legno chiare e i divani fra i libri proprio come in un salotto di casa, se lo sta ancora chiedendo. Probabilmente non lo saprà mai. «Di sicuro, però, questa libreria è la cosa più duratura che ho avuto nella mia vita», mi dice ridendo. «In certi momenti cambiavo lavoro ogni anno e anche con le donne… Be’, anche con la ragazza che lavorava qua è finita da un pezzo.» Ho una curiosità che devo assolutamente soddisfare. Quando uno rompe con tutto e cambia vita non dovrebbe scappare a fare il volontario in Etiopia, il barista a Porto Rico o il pescatore a Linosa? Sarà una fissa mia, ma ho sempre pensato la fuga come la ricerca di un altrove anche geografico, possibilmente terzomondista o, comunque, fuori dalle grandi rotte. E invece Simone è venuto nel cuore del turismo occidentale d’élite, in un luogo in cui tutto è talmente perfetto da sembrare finto. «Alt», mi ferma deciso appena gli pongo la questione. «Attento a non fare confusione. Tutto quello che vedi qui è autentico. Diciamo che è molto curato, questo sì, ma non lo è per i turisti: lo è in primo luogo per la gente del posto.» «Che cosa intendi?» «In Val d’Orcia nel secondo Dopoguerra c’era veramente miseria: una terra di calanchi e biancane ben poco coltivabile e, soprattutto, nessuna possibilità di lavoro. Naturale che in tanti se ne siano andati. E l’hanno fatto con l’amaro in bocca di chi lasciava i luoghi in cui i padri e i nonni avevano sgobbato per i padroni. Così chi ha potuto, dopo avere fatto fortuna altrove, ha ricomprato le terre ed è tornato. Ora molte aziende agricole della zona sono dei figli di chi era emigrato: gente che ha un attaccamento unico per questi luoghi. Dietro a tutto quello che vedi, c’è un gesto d’amore.»
L’albero delle fate
È L’ALBA quando ritorno sul poggio calcareo che sovrasta i mulini. Prima di mettermi in marcia volevo vedere ancora quell’acqua fumante che si getta nel vuoto della valle dormiente. Quando mi presento al bar di piazza delle Sorgenti le due tenutarie stanno accendendo le macchine del caffè e sistemando i tavoli. Non devono essere abituate a servire porzioni abbondanti, perché quando – dopo due paste alla crema e un pezzo di crostata – chiedo anche una focaccina, la più anziana scherza: «Ma che, hai attraversato il deserto? Guarda che devi lasciare qualcosa pure per gli altri…» Il deserto non l’ho attraversato, ma di sicuro lo dovrò fare. Perché, seguendo l’Orcia, da qui a San Casciano dei Bagni sono circa quaranta chilometri, e il primo paese che incontrerò sarà Celle sul Rigo: insomma, tra una vita. In mezzo c’è solo qualche agriturismo sparso fra i poderi. Ho controllato bene ieri sera su OpenStreetMap, tra l’altro con lo stomaco vuoto, perché dopo una doccia rigenerante, proprio non ho avuto la forza di uscire dall’affittacamere per cercare un ristorante. «Signora, oggi devo adottare la strategia del cammello», le rispondo scansando con la lingua il mare di briciole sulle labbra. «Devo andare fino a San Casciano a piedi e non c’è granché lungo la strada: con quello che mangio qui devo arrivarci a sera.» «C’è un alimentari appena prima del paese, potrebbe prendere qualcosa lì.» «Ho visto, ma apre alle nove. Dovrei aspettare un’ora e mezzo, preferisco andare.» «Certo che è un camminatore strano, lei», commenta dubbiosa, mentre versa il cappuccio fumante. «Non dovrebbe prenderla con un po’ più di relax?» Penso che la barista abbia ragione da vendere, anche perché il percorso più breve per San Casciano sarebbe quello che sale ai Bagni di San Filippo e tocca Radicofani. Ma la via dell’acqua mi chiede di seguire l’Orcia e, obbediente, appena ho finito di immagazzinare carboidrati comincio a mettere un piede davanti all’altro. Lo faccio nel migliore dei modi, imboccando subito il percorso naturalistico della Val d’Orcia, la pista che costeggia il fiume fendendo la fitta vegetazione ripariale. La natura scapigliata del sentiero è una parentesi anarchica nell’ordinatissima valle: cammino in una giungla di pioppi ed equisetacee, da cui spuntano in continuazione fagiani e ranocchi. Un microcosmo selvatico anche nella manutenzione: ogni tanto incontro qualche pannello informativo scrostato e un’isoletta picnic malmessa. Nient’altro. Ma forse il luogo rimane appannaggio di pochi, perché lontano anni luce dalla sensibilità del popolo in accappatoio e ciabattine bianche che ieri sera entrava e usciva dagli alberghi di Bagno Vignoni. Scopro che lungo l’Orcia regna l’imperfezione. Anche quella di un sentiero che, a un certo punto, finisce nel vuoto, mangiato da un capriccio del fiume. E allora tocca tornare indietro, cercando, a intuito, altri possibili passaggi fra anse impenetrabili di canne e biancospini: un labirinto in cui due più due non fa mai quattro. E quando è evidente che sono arrivato a un vicolo cieco e l’unica alternativa per procedere è il passaggio sull’altra sponda, mi trovo a dover guadare. In un punto in cui, tra l’altro, l’acqua sembra arrivare abbondantemente oltre il ginocchio. Rimango un paio di minuti in quel pediluvio, con i piedi affondati nel fondo melmoso e la testa risucchiata dal fringuellare degli uccelli, finché una famigliola di cinghiali non spunta dalla macchia e sprofonda i musi nell’acqua opaca. Se ne stanno tranquilli a dieci metri da me, come se mi considerassero parte del paesaggio. I piccoli fanno due tuffi in acqua e poi la madre li richiama all’ordine. Fine della ricreazione. E fine della ricreazione anche per me: guadagno la riva e mi rimetto in tenuta di marcia per affrontare i trenta chilometri che mi separano da Celle sul Rigo. Terminato il sentiero, dopo Spedaletto – un tempo ospitale lungo la Francigena e oggi resort popolato da signore in camicetta e tacchi a spillo – l’Orcia lo devo seguire dalla provinciale 53, un’ipotenusa che taglia la piana di campi nudi color caffellatte. A occidente, sfumata da un cielo impallidito dal sole, la mole dell’Amiata vigila sulla spianata. Procedo verso oriente, incrociando ogni tanto qualche auto e gruppetti di ciclisti. Per il resto solo i pennacchi dei cipressi che bordano il filo d’asfalto. Ed è una fortuna non avere contatto con esseri viventi questa mattina: con il solito bucato penzolante dallo zaino, il pannellino solare appeso sul petto e il cappellino spiovente sembro una specie di albero di Natale. La strada impiega poco a trasformarti in un vagabondo. E, se ci si mette, pure in un vagabondo ridicolo. L’unico contatto umano è sotto l’ombra possente della Quercia delle Checche, una rovere pazzesca che dai bordi di un campo si allunga sulla strada come un ombrello con trenta metri di raggio. Abbandono la strada e vado a farmi piccolo piccolo sotto le fronde che si diramano flessuose come l’albero genealogico di una nobile casata. Una casata antica, visto che ha trecentosettant’anni. Significa che era già qui quando passavano le carrozze dei nobili europei per il Grand Tour attraverso l’Italia. Come gli inglesi Horace Walpole e Thomas Gray, romanziere il primo, poeta il secondo, che nel 1740 pernottarono nella stazione di posta medicea di Radicofani. Un casermone che non doveva essere particolarmente confortevole se Walpole ebbe modo di descriverlo come «una spersa osteria in una nera montagna a fianco di una brutta fortezza». Del resto Radicofani, la fortificazione posta sul confine fra le terre toscane e lo Stato Pontificio, aveva fama sinistra già da secoli. Almeno dalla fine del 1200, quando divenne il covo di Ghino di Tacco, l’avventuriero che fuse storia e leggenda nella prima vera figura di brigante gentiluomo italiano, una figura che può fare il paio con un altro eroe dello stesso periodo: Robin Hood.
Era da questa rocca lugubre, infatti, che Ghino si lanciava per le scorribande sui viandanti della via Francigena. Come quella ai danni dell’abate di Cluny, uno dei più potenti e ricchi chierici dell’epoca. La leggenda è narrata da Boccaccio nella decima giornata del Decameron. Papa Bonifacio VIII consigliò all’abate, evidentemente atto ai piaceri della tavola, di recarsi «a’ bagni di Siena» per guarire «senza fallo» dai dolori di stomaco. Ma Ghino era in agguato e «sentendo la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse». Per qualche tempo il brigante tenne prigioniero il religioso, dandogli da mangiare solo pane arrostito, fave secche e Vernaccia di Corniglia: una dieta che più dei bagni gli risanò il capiente stomaco. Al momento del rilascio il signore di Radicofani non chiese alcun riscatto, ma l’abate, grato per la comprensione dell’ospite e, soprattutto, per quella dieta miracolosa, decise di lasciare buona parte del bottino al bandito, intercedendo addirittura per farlo entrare nelle grazie del pontefice. Ne avrebbe di storie da raccontare questo titano della pianura, ad ascoltare a occhi chiusi il vento che fruscia leggero tra le foglie. Mentre me ne sto supino a misurare la frescura dell’erba, arriva in auto una famiglia: padre, madre, nonna e due ragazzini, che subito si arrampicano sul ramo più basso dell’albero. «Ma che, siete impazziti?» urla la nonna, mentre i genitori, noncuranti, si prodigano in una serie di selfie. «Volete tirare giù pure questo?» I due, di buon grado, scendono e subito cominciano ad azzuffarsi. L’energica nonna è una sessantenne in jeans e scarpette da jogging, con un filo di perle al collo, che subito si rivolge ai bambini grandi: «Oh, guardate che questi son figli vostri: se non fate qualcosa va a finire che s’ammazzano!» Ed è sempre lei a spiegarmi che un terzo di quell’albero se n’è volato giù il giorno di Ferragosto del 2014, quando qualche genio, probabilmente più pesante, si è cimentato in quello che i suoi nipoti stavano facendo fino a un attimo prima. «Dopo quell’episodio si è costituito una specie di comitato per proteggere la quercia. Abito a Roma ma ne faccio parte anche io.» «Certo che è veramente maestosa», commento contemplando la chioma fino a perdermici. «Maestosa e fragile… perché ancora non lo sappiamo se riuscirà a sopravvivere alla perdita di quei rami. Lo sai che ha ispirato una canzone di Mango?» «Mango?» chiedo con l’espressione di chi cade dalle nuvole. «Quello che… ‘anche l’ultima Marlboro darei’…» «Lo conoscete tutti solo per quella canzone», esclama scuotendo la testa, avvilita dalla mia pochezza musicale. «Ma è stato un grande, un vero poeta. Lo sai che ha scritto di questa quercia? ‘Qui il senso della vita è come l’albero delle fate che cresce forte come un mantello in cui riavvolgo, in me, questo e quello...’» Estrae un iPhone con la cover di Swarovski e con due clic è su YouTube. «Ecco, senti!» Parte una musica avvolgente. Lei, come una ragazzina, aumenta il volume, alza il telefono e chiude gli occhi. Ondeggia il caschetto biondo, sfiorando calanchi e cipressi coi palmi delle mani e respira a fondo gli aromi marini che il calore strizza dai pini. «‘Sei sempre qui, sei sempre qui, sei sempre qui, sei sempre qui…’» I due bambini adulti della comitiva, invece, continuano a rendere inutile tutta questa bellezza immortalando le loro facce.
L’arte della meraviglia
IERI sera ho esagerato con i pici. Forse sentivo il bisogno di gratificarmi dopo una tappa di ben quaranta chilometri. O forse c’è che a quegli spaghetti spessi come vermicelli, grossolani e irregolari, proprio non riesco a resistere. Il problema era quello squisito sugo all’aglio… e l’impudenza di chiedere alla cameriera «se per caso fosse rimasto qualcosa nella pentola». Satollo, avevo tentato di avviare la digestione passeggiando sotto la luce smorzata dei lampioni, osservando lo strano gotico della collegiata dei santi Leonardo e Cassiano e prodigandomi in patetici esercizi respiratori. Ma tutto era stato inutile. E questa mattina mi ritrovo un passo da zombie. Un caffè e una colazione tonificante non sono solo necessari, ma doverosi. Il paese alle sei e mezzo è ancora in ombra, avvolto da una coltre di umidità pungente che intirizzisce le ossa. Ma giù in basso, oltre il parapetto della piazzetta, c’è il mare. Un mare di campi ondulati dai colori bruniti che degradano a tinte beige verso la valle del Paglia. Sono le terre dei Bologna, la famiglia che nel 1911 fece costruire il palazzo con la torre merlata che con seicento anni di ritardo diede a San Casciano i fasti di un castello medievale. Allora usava così. Giulio entra nel bar per un tè («E mi raccomando, Daniela, a bollire metti acqua gasata») con l’apparente fregola di chi deve correre a un appuntamento importante. Molto alto, capelli bianchi e arruffati, parla in continuazione. Quando sente che sono interessato a conoscere i nomi dei colli che si inseguono sulla vallata del Paglia, mi mette una mano sulla spalla e mi accompagna nella piazza. Si stringe nella giacca mimetica e ripercorre col dito la sagoma della morbida cordigliera che dall’Amiata prosegue verso Piancastagnaio, Castell’Azzara e il monte Penna, «che a guardarlo di piatto», dice, «pare la testa di Mussolini». Scruto per un po’ nella luce livida dell’alba, senza però individuare nulla di simile al profilo squadrato del duce. «Io qua ci passo tutte le mattine da quando sono in pensione. E lo sai perché? Perché ogni giorno quei campi sono diversi. Non è una questione stagionale», mi spiega senza smettere di guardare l’orizzonte. «D’accordo, il grano che biondeggia sarà bello e poetico, ma se vengo domani mattina, questo paesaggio non sarà lo stesso. Ci sarà certamente una sfumatura, una linea, o una luce che lo renderà diverso da oggi.» «Certo che sei un osservatore, tu!» «Alla mia età ho il tempo per perdermi nei dettagli. Che, se ci pensi, sono proprio quelli che spiegano meglio di ogni altra cosa ciò che abbiamo attorno.» Proteggendosi dalla brezza con la mano a conca, si accende la prima sigaretta della giornata. Mentre lo guardo, penso che ha ragione lui e noi non dovremmo rassegnarci. Dovremmo ricominciare (o cominciare proprio) a perderci nei dettagli ed esercitare la meraviglia come Giulio: quella straordinaria virtù di scovare il divino nei meandri dell’ordinario e riuscire a stupircene. Da San Casciano, il Paglia potrei andare a prenderlo tirando dritto in direzione sud verso Trevinano, grosso modo tagliando il versante di valle che ho davanti ai miei occhi. Sarebbe quella la strada più breve per riagguantare il filo dell’acqua da questa altura tra Toscana, Umbria e Lazio. Ma sarei poi costretto a seguire il procedere capriccioso del fiume, col risultato di fare un sacco di chilometri in più. Allora preferisco tagliare subito a est verso Allerona, affrontando i boschi che aggirano il monte Rufeno. Mentre il sole inizia a filtrare fra i rami più alti, m’incammino su una carreggiata che guadagna isoipse con tornanti uncinati. La tramontana mi sibila alle spalle come una carica di predoni al galoppo, pulendo il cosmo dalle sue brutture. A ogni raffica sento il suo scalpiccio avvicinarsi, fino a infrangersi potente sulle chiome degli alberi. Mi devo fermare più volte a riprendere fiato e a guardare in basso, dove la valle del Paglia mostra la sua essenza: una cerniera gentile fra le terre degli etruschi, degli umbri e dei latini. Un luogo di sintesi che cuce con le linee morbide delle colline tre Italie. Raggiungo il crinale di brughiere e pascoli sassosi che si stacca dal monte Cetona e guarda a oriente verso la piccola piana di Fabro. Mi faccio strada fra mandrie di vacche bianche, finché non mi avvolgono per chilometri le querce e i cerri della selva di Meana. È una foresta fatata che chiama a convegno dai quattro angoli della Terra i profumi onirici della rosa canina e del rosmarino, delle resine e della salsedine. È un vorticare che stordisce e mi inchioda più volte, dritto come un parafulmine, sugli speroni di marna ad annusare l’aria.
Quel treno a penzoloni
CON un’escursione termica di oltre dieci gradi rispetto a due ore fa, quando sbuco ad Allerona il sole è spuntato prepotente. È il momento di stendere mutande, calzini e maglietta, ancora bagnati nello zaino dopo il bucato di ieri sera. Compio l’operazione approfittando delle comode scale esterne della stazione dei Carabinieri, sotto l’occhio prima sospettoso, poi divertito del piantone. «Ha fatto il bucato alle fontane?» mi chiede a un certo punto, indicandomi un imponente edificio in pietra, con quattro ingressi ad arco che neppure avevo notato. «Che cos’è?» «Fino a quarant’anni fa era il macello e il lavatoio. Adesso è solo lavatoio, perché là dentro non si possono più ammazzare gli animali.» Proprio in quel momento, da uno dei portoni escono un uomo e una donna, entrambi di una certa età e tarchiati, che sembrano fatti con lo stesso stampino. Camminano con movimenti perfettamente sincroni, portando sulle spalle un grosso tappeto arrotolato. La cosa mi incuriosisce, così accatasto sullo zaino i panni stesi e con una corsa raggiungo i due. Con quella specie di trofeo di guerra sulle spalle, non sono proprio in vena di chiacchiere, ma mi confermano che le fontane sono in uso. «Abbiamo un lavatoio così bello, perché non dovremmo usarlo?» mi dice l’uomo, appoggiando in verticale il tappeto. «Pazzesco, tutti i lavatoi che mi è capitato di vedere sono ornamentali o, al massimo, servono da fontane.» «Certo, mica per tutto il bucato», aggiunge la donna, roteando gli occhi grandi. «Però, per quello che non può andare in lavatrice, si usa eccome: tappeti, tende, coperte… alla fine ci si lava un sacco di roba. Ma vada dentro, ne vale la pena.» In effetti, quando supero la volta d’ingresso quasi mi dispiace aver già fatto il bucato. Ognuno dei tre ampi stanzoni, collegati da aperture ad arco, ospita un vascone che ne occupa quasi l’intera superficie. Il fatto incredibile è che le vasche sembrano emanare luce. È il fondo in marmo azzurro a far ribollire una luminosità fiabesca che si riverbera contro gli spessi muri in pietra. Pur di rimanere a godermi il silenzio dipinto di blu di questa nicchia di pace, anticipo il pranzo, addentando il trancio di pizza che ho comprato poco fa. Fisso ipnotizzato le ellissoidi disegnate dai riflessi dell’acqua, certo che non sia solo la chimica a spiegare la magia del luogo. Perché adesso, nel silenzio del mezzogiorno, pare di sentirla pulsare di nuovo, la forza dell’acqua. Quella che non solo dissetava città e paesi ma che chiamava a raccolta le genti, elemento sociale ancor prima che naturale. «Si è preparato un picnic?» Una voce gracchiante mi fa sobbalzare. «Si sta bene, eh? Da bambino ci venivo sempre con mia madre. Mi mettevo seduto per terra in quell’angolo là e alle volte mi addormentavo fra le chiacchiere delle donne…» Si chiama Fernando questo incredibile novantenne in scarpette da ginnastica. Divido con lui un paio di susine, mentre si fa raccontare del mio viaggio con la curiosità meditabonda di chi di tempo ne ha tanto. «Se segui i fiumi, quando arrivi ad Allerona Scalo fermati sotto il ponte della ferrovia sul Paglia», mi consiglia giocherellando con i noccioli. «Quello era l’ombelico d’Italia durante la Seconda guerra mondiale: il fulcro di tutto. La conosci, la storia?» «Non credo.» «Fra il ponte sul Tevere di Alviano e Arezzo, quello sul Paglia era l’unico passaggio su un fiume in un tratto di quasi centotrenta chilometri. Toglierlo di mezzo significava impedire ai tedeschi di muovere truppe e armi fra nord e sud. Così gli Alleati, a partire dall’autunno del 1943, iniziarono a bombardarlo. Di giorno lo tiravano giù, ma di notte i soldati austriaci del Genio Militare, che stavano proprio qua in paese, scendevano e lo ricostruivano in poche ore: tanto avevano già pronti i binari provvisori a passo unico. Ma il 28 gennaio 1944, quando gli Alleati bombardarono ancora, c’era un treno tedesco sul ponte. Si pensava trasportasse armi, invece era carico di prigionieri diretti in Germania.» «Fu una strage, quindi.» «Una carneficina. Morirono più di trecentocinquanta ragazzi.» Tradisce ancora emozione e gesticola con le mani disegnando i vagoni che penzolavano dal ponte. «Quando gli americani lo scoprirono, mandarono i bombardieri a gettare nastri neri in segno di lutto. Però del disastro nessuno parlò più. E pensa che durante le secche del Paglia continuavano a spuntare frammenti di ossa e bottoni delle divise. Solo qualche anno fa si sono decisi a dedicare un monumento a quei soldati, proprio sotto il ponte. Se ci passi, di’ una preghiera anche per me.» E ci passo eccome sotto quel ponte, dopo aver attraversato Allerona Scalo, paesone senz’anima e senza intonaci, strozzato da un’autostrada e due ferrovie: la linea storica e l’Alta Velocità, che sfreccia sui tetti sostenuta da campate di cemento armato che si susseguono per quasi sei chilometri. Devo camminare a lungo fra i vigneti piantati nel sottoscala di quel viadotto infinito e squassati ogni cinque minuti dal rollio sordo dell’Italia che viene e che va. Il popolo delle Frecce non vedrà mai il monumento realizzato dai ragazzi del liceo artistico di Orvieto, quelle mani in ferro battuto che si protendono da un mondo spaccato in due. Come non vedrà i resti dei binari, piegati come balestre dalle bombe alleate, appesi al basamento della campata a perenne memoria. E non vedrà mai, quel popolo lanciato ai trecento all’ora, le colline striate di calanchi specchiarsi nelle pozze dello sterrato a bordo fiume, popolate da decine di raganelle, o l’uva che gronda violacea dai filari addossati al calcestruzzo. Questo enorme viadotto è l’antitesi del mio viaggio, ma sarebbe pauperismo da due soldi rifiutare il concetto di viaggio rapido. Credo, tuttavia, che si dovrebbe legiferare in materia. Ogni mille chilometri percorsi in un treno Alta Velocità, in autostrada o in aeroplano, bisognerebbe avere l’obbligo di percorrerne almeno cinque a piedi. Giusto per riabituare il nostro cervello all’idea delle
aree interne, all’idea che esista qualcosa fra i punti A e B delle nostre mappe mentali. Per obbligarci a qualche incontro imprevisto e costringerci ad ascoltare una storia vecchia di settant’anni di cui magari non ci frega nulla. Ma sarà pur sempre una storia e le storie, che ci piaccia o no, sono il vento che alimenta i nostri sogni. Non sarebbe una grande idea? Sarà di sicuro nel programma dei cento giorni quando mi eleggeranno governatore del mondo!
Venti centimetri d’acqua
HO già macinato un bel po’ di chilometri di asfalto quando arrivo a Madonna del Porto, un gruppo di case arroccato sulla ferrovia storica, che scorre sotto le finestre delle abitazioni come il fossato di un castello. Del resto, dopo Orvieto, seguire il Paglia e poi il Tevere è impossibile, assediati come sono da ferrovie e autostrada. È qui che le ore di statale trovano finalmente un senso, quando fra i salici e gli ontani neri della piana si apre uno specchio d’acqua marroncina su cui stazionano centinaia di uccelli bianchi. Una Tanzania in miniatura fatta di oche selvatiche, gru, anatre, aironi e garzette, trasportata ad Alviano per errore. Era il 1963, in piena bulimia idroelettrica, e quella chiusa sul Tevere doveva servire per gli scarichi d’acqua di un altro invaso artificiale, ben più grande, appena costruito a Corbara, alcuni chilometri a monte. Non si tenne però conto dei sedimenti argillosi del Paglia, che si immette nel Tevere proprio fra la diga di Corbara e Alviano. Così tanti che, già alla fine degli anni Sessanta, avevano trasformato il nuovo lago in un acquitrino profondo non più di trenta centimetri. Che cosa farne di quella palude, prima degli uomini, lo decisero gli uccelli, eleggendola subito ad autogrill lungo le rotte migratorie per l’Africa. Poi anche agli uomini venne un’idea, e per anni le doppiette dei cacciatori vennero qui a sparare. Un’idea, decisamente migliore, l’ebbe la regione Umbria, che nel 1977, dietro la pressione di alcuni gruppi ambientalisti, vietò la caccia su tutta l’area. Iniziò il percorso di tutela che portò nel 1990 alla nascita di un’oasi WWF. Lo sportello informativo dell’oasi è proprio all’imbocco del sentiero che si stacca dal ponticello sui binari di Madonna del Porto. Percorro poche centinaia di metri e in corrispondenza di uno spiazzo fra gli alberi noto un uomo bruno sulla quarantina, con berretto e giacca militari. Chino su una catasta di tronchi di pioppo, ne ispeziona le cortecce con un coltellino. Con gesti da chirurgo, incide il legno quel tanto che basta a sollevarne la pelle di alcuni millimetri, rovista e poi richiude. «Buongiorno, mi puoi dire che cosa stai facendo?» chiedo curioso alle sue spalle. Il tizio è talmente assorto che ha un sobbalzo. «Oddio! Mi hai fatto paura! Che cosa faccio? Sto a fare marketing», esclama recuperando un sorriso che gli accende gli occhi blu. «Marketing?» Aggrotto la fronte sempre più curioso. «Vieni a vedere», mi invita rimanendo accovacciato. «Questi tronchi li ho piazzati io, sperando che si formino funghi che ammorbidiscano la corteccia, così gli insetti riescono a scavarla più facilmente per deporre le loro uova.» «Ma perché marketing?» «Perché se i coleotteri depongono le loro uova, sotto la corteccia si formano le larve e, se ci sono le larve, facilmente arrivano i picchi per mangiarsele.» «Quindi cerchi di attrarre animali!» «E sennò che ci sta a fare il direttore di un’oasi?» esclama alzandosi in piedi. «Pochi giorni fa, per esempio, ho piantato laggiù dei noccioli sperando che arrivi qualche scoiattolo in più…» «Direttore, wow!» «Sì, ma c’è solo il titolo, perché per il resto qui lavoriamo veramente per due lire. È solo che di un posto e di un lavoro così t’innamori.» Alessio è simpatico, una sorta di semidio che indirizza e governa la natura. Da bambino in questo acquitrino veniva a passeggiare con suo padre («Era l’unico posto davvero selvaggio vicino a Orvieto», ricorda). Ora, dopo essersi laureato nel 2003 in scienze naturali, ha fondato assieme ad altre due ragazze la cooperativa Lympha, che gestisce l’oasi per conto del WWF. Quando mi chiede se mi va di seguirlo al centro visite, è un invito a nozze. «Per mettersi a fare una roba così bisogna seguire il consiglio di Steve Jobs: ‘Siate affamati e folli’, diceva. Affamati lo siamo di sicuro, visto che da quest’anno ci è venuto a mancare il contributo della Provincia e buona parte degli incassi li reinvestiamo nell’oasi.» «Quindi pure folli, se continuate in questo mestiere…» «Be’, direi proprio di sì. Per fortuna che siamo in tre e quando qualcuno va in crisi e ha ripensamenti, ci sono gli altri due a dargli speranza.» Arriviamo davanti al centro visite, un disco in legno affacciato sullo specchio d’acqua opaca increspata come stagnola. Di fronte a noi un’isoletta da cui spunta un albero, guardia solitaria di questa palude che galleggia fra le colline. Ancora oltre, verso sud, si alza la muraglia boscosa del monte Cimino. «Poi, vieni qua», prosegue fissando gli aironi che becchettano fra i miliardi di pianticelle che spuntano dal lago, «e ti ricordi che ne vale la pena. Che il futuro non può che essere in un posto così, che non è follia pensare di raddoppiare i visitatori!» Mentre costeggiamo la palude, mi spiega come il cuore di tutto siano quei venti centimetri d’acqua. Il livello ideale, regolato con le chiuse, per mantenere pesci e attrarre gli uccelli a questa specie di banchetto nuziale. Ma anche ottimo per gli anfibi. Come il rarissimo tritone crestato, per esempio, per cui la mano del semidio Alessio ha scavato pozze in modo che i pesci non arrivino a mangiarne le uova. Anche questo, come i pali piazzati nella speranza di convincere le cicogne a nidificare lì o i tre cavalli che brucano nella prateria in cui arriviamo, è marketing.
«I cavalli li ho presi perché attraggono gli aironi guardabuoi, che si nutrono dei loro parassiti e dei lombrichi che si formano con gli escrementi e poi… guarda come tengono ben tagliata l’erba!» Mentre parliamo, uno dei cavalli alza la testa e riconosce Alessio. Trotta fra i ciuffi d’erba, s’ingegna per superare una pozza d’acqua e viene a strusciare il muso contro il viso dell’amico. «Come farei a vivere in qualsiasi altro posto?» chiede Alessio stringendolo forte con entrambe le mani. L’animale prende per qualche minuto la sua razione di coccole, poi ritorna dagli altri due. Alessio sospira e si rolla una sigaretta, appoggiato a un grande salice. «Bosco e palude li associamo spesso a qualcosa di sinistro», spiega inspirando assieme al tabacco l’odore dell’acqua stagnante, «ma chiunque venga qui capisce subito quanto questo luogo sia vivo e si riavvicini anche al concetto di fiume.» «La riserva è bella», osservo cercando di non mortificarne l’entusiasmo, «però è un po’ di nicchia… ecco, non è la Costa Smeralda…» «Che discorsi! Noi mica siamo in competizione col mare… Sai chi è il nostro nemico?» «Avete un nemico?» «Sì: i centri commerciali. Perché spesso una famiglia preferisce passare una domenica pomeriggio là dentro anziché portare i bambini in un posto così. Noi cerchiamo di organizzare performance teatrali, passeggiate notturne, cene a lume di candela… ma è sempre dura attirare gente.» «Però, quando arrivano qua, i ragazzini s’innamorano…» azzardo. «Mah… non so. Una volta forse sì, perché riuscivano a provare meraviglia. Un bambino rapito da ciò che vede è più facile da coinvolgere. Adesso non guardano più la natura con i loro occhi, ma attraverso il display di uno smartphone. Vorrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che non gli rimanga nulla di ciò che hanno intorno. Alle volte mi sento un Don Chisciotte, ma il mio sogno è questo e qui rimango.» Ci lasciamo su quella considerazione amara, immersi nei versi uccelleschi che si alzano dalla macchia. Guardo l’orologio e mi rendo conto di essere drammaticamente in ritardo su quella che dovrebbe essere (ma forse non sarà) la meta di oggi: Orte.
Come un’isola
SUPERO Alviano Scalo, due casette e due botteghe attraversate da trattori e motorini truccati, per incamminarmi lungo una stradina secondaria fra colline calancose e campi di erba medica luccicanti di verde intenso. Davanti a me, sulla mole del Cimino, gli dei del fiume turbinano nubi marmoree. Cammino per chilometri in completa solitudine, costeggiando un Tevere che scorre placido e marroncino, oltre campi di girasoli già mietuti. Le prime forme di vita intelligente le ritrovo alle Terme di Ramici, un vascone di travertino e qualche panchina sperduta fra i poderi accanto al fiume. Una stazione termale low cost: qualche spicciolo per il parcheggio e poi via a passeggiare nell’acqua che impregna l’aria di zolfo. Qualcuno con le gambe a bagno c’è. «Stai veramente andando a Roma a piedi?» mi chiede una donna sorridente e decisamente in carne che tenta passi malfermi nelle acque azzurrognole. «Entra un attimo anche tu, vedrai che dopo cammini il doppio.» Decido di seguire il consiglio, tanto più che fra un ritardo drammatico e uno colossale non c’è poi tanta differenza. E in un istante vado anch’io in ammollo ad ascoltare le storie miracolose su quella fonte. Ma è una sosta lampo. Dopo alcuni minuti sono di nuovo in marcia a molleggiarmi sui campi dalle zolle gelatinose, alla ricerca del fiume. Quando lo riagguanto, procedo per chilometri al suo fianco, aggirando pozze enormi come laghi africani. Sono di nuovo solo. Così solo che a un certo punto finiscono anche i pensieri. Ritrovare se stessi, tenendosi compagnia con meditazioni lente, è il bello del camminare. Il passo aiuta a far battere i neuroni allo stesso ritmo delle gambe. Così è più facile riannodare i ricordi e pettinare ogni ansia, dipanandola dal resto, fino a renderla docile come un capello cosparso di balsamo. Dopo ore, però, tutto finisce su un binario morto e ogni sinapsi si azzera, consegnandoti a un vuoto pneumatico in cui smetti di elucubrare e l’unico bisogno che avverti è quello di riempire l’otre che ti ritrovi al posto del cervello. Sfondi lì quella frontiera che ti rende davvero impermeabile al paesaggio. All’improvviso, tutto ciò che sta attorno ti attraversa e lascia di sé giusto qualche minuzia. Come lo sfrigolio della ghiaia sotto le suole, il riflesso elettrico delle nuvole che scivolano impazzite sulle pozzanghere, o l’odore di terra bagnata portato dal vento. Forse l’alchimia del cammino sta tutta in questo misticismo minore che riporta ai numeri primi della materia. È roba grossolana, non è pane per poeti né per asceti, ma è, in fondo, tutto quello che chiedo alla mia strada. Una strada che prima di Attigliano si affianca per un bel pezzo alla massicciata dell’Alta Velocità e poi dell’autostrada. Tanto che mi viene da sorridere quando arrivo al cartello che annuncia, a cinquecento metri, l’uscita Attigliano. Se fossi in auto dovrei iniziare a mettere la freccia, mentre nelle mie condizioni ho ancora dieci minuti buoni di marcia. Per guadagnarmi il paese supero l’accerchiamento delle due arterie. Due fiumi al contrario che declassano il Tevere a elemento decorativo e cingono d’assedio l’abitato con un rumore di fondo perenne. Una nenia a cui, prima o poi, si fa l’abitudine. O forse no. E dire che fino al 1870 il cucuzzolo su cui si arrampicano le case era veramente lambito dal fiume, poi la piena rovinosa di quell’anno ne fece deviare il corso e al suo posto, ottant’anni dopo, venne fatta passare l’autostrada. «Ecco, non è che la cosa mi faccia stare proprio tranquilla…» mi confida Laura Pica, sepolta dalle carte della sua scrivania. Ho voluto incontrare apposta questa signora, funzionaria del comune e studiosa di storia locale, intrappolata nel paradosso di raccontare il passato di Attigliano mentre si occupa del presente. Un presente fatto di centinaia di stranieri, che lo hanno reso il comune dell’Umbria con la maggiore percentuale di immigrati: circa quattrocento su neppure duemila residenti. Un venti per cento che nella scuola dell’obbligo sale già a un cinquanta e cinquanta. Numeri che, nel bene o nel male, hanno stravolto quella che era una comunità compatta di poche famiglie. Del resto, case a basso costo, Roma a soli quaranta minuti di treno e tanti anziani bisognosi di badanti sono stati potenti elementi gravitazionali. Laura mi spiega come un ponte, quello costruito nel 1954 verso Bomarzo, cambiò usi e tempi di un’intera comunità, abituata, per muoversi in direzione ovest, a scendere di diciassette chilometri verso Orte o a salire di tredici fino ad Alviano. «Figurati che mio padre mi raccontava sempre di quando da ragazzo andava a ballare. Si vestiva di tutto punto, poi c’era da attraversare il Tevere con il barcaiolo, e così il tratto lungo il fiume e quello sulla barca li faceva scalzo e con i pantaloni arrotolati.» Non era agevole, certo, ma quell’assenza di ponti restituiva il fascino dell’isola. Un’insularità esteriore e interiore, fatta di legami famigliari e di comunità forti, che oggi si ritrova giusto quando il fiume invade le campagne e la collina di Attigliano diventa letteralmente irraggiungibile, come avvenne nel 2012. «Ma quella è un’altra cosa», sospira Laura, mentre con lo sguardo percorre le pareti piene di foto storiche del paese. «Oggi quello che manca è il sentirsi isola perché uniti fra noi. Certo, gli stranieri hanno cambiato il tessuto del paese, però, a guardare bene le loro famiglie, mi sembra che abbiano quei valori di unità e solidarietà che una volta erano anche nostri, malgrado li pratichiamo sempre meno.» Il ponte sul Tevere che attraverso poco prima di Bomarzo, un borgo bellissimo arroccato fra i vigneti, è la frontiera non solo fra Umbria e Lazio, ma anche fra la terra del travertino e quella del tufo: umbro il primo, laziale il secondo. Le abitazioni chiare costruite con la pietra porosa splendono davanti a un cielo di piombo fuso che promette solo guai. E ormai comincio a pensare che al bed and breakfast di Orte non riuscirò ad arrivare con le mie gambe.
Il sentiero aggira Bomarzo, con la sua torre castellana rotonda come un silos, e si addentra in una fitta boscaglia che mi costringe a guadare il rio Costello, a poche centinaia di metri dalla sua confluenza nel Tevere. Una sciocchezza torrentizia, larga non più di sei metri, ma comunque sufficienti per condannarmi al solito rito delle ciabattine. Che la serata non butti bene lo intuisco appena raggiungo l’altra sponda, quando scopro che il sentiero è coperto di fango e mi trovo costretto a proseguire in infradito, come un turista a spasso fra gli ombrelloni. Quando poi, dopo una mitragliata di tuoni, il cielo comincia a rovesciare pioggia, ne ho la matematica certezza. Senza fermarmi – con una destrezza degna del mago Silvan – riesco a estrarre dallo zaino l’ombrello, ma il vero problema è un altro: come faccio a infilarmi le scarpe evitando di lavarmi? Il bosco di roverelle e frassini non offre alcun riparo, né tronchi o massi su cui sedersi. Per non inzupparmi sono condannato a proseguire in ciabatte. Questo, lo giuro, non l’avevo contemplato nella gallery di possibili imprevisti. Il calvario dura una buona mezz’ora, finché non trovo una casupola dell’acquedotto con il tetto a sgrondo che mi consente finalmente di sedermi al riparo. Esco dal bosco nel momento in cui il temporale inizia ad allentare le sue martellate, poi, piano piano, l’acquazzone finisce. Mi trovo a rimboccare le coperte ai campi avvolti dall’imbrunire che si affacciano sul Tevere. Dalle fattorie della piana è tutto un raglio, un abbaio, uno starnazzare di saluto, prima della quiete della notte. Qualche grillo attacca il suo cicalio. Mentre attraverso questa campagna che si sta addormentando, inizia l’ora in cui il reale si confonde con le ombre. Il vero con il verosimile. Una linea di confine sottilissima fra percettibile e impercettibile. Come il minuscolo lago di Vladimonio, la cui sagoma appare confusa fra i campi. Nella semioscurità, basta un attimo per risentire le grida, lo stridere saettante di spade, l’odore di sangue e carne morta che ancora riempie l’aria, se la sai respirare. È qui che etruschi e romani combatterono all’ultimo sangue nel 283 a.C., con una vittoria di questi ultimi che aprì definitivamente le porte alla conquista dell’Italia centrale. A due passi sfreccia l’Alta Velocità. La strada poderale la supera con un ponticello, un fascio di cavi d’acciaio che scintilla nella notte illuminato da una schiera di luci asettiche. Preceduto da un sibilo arriva il solito missile di gente schiacciata ai trecento all’ora. Ma i soldati sembrano non accorgersi della biscia rossa che squarcia il silenzio della piana. Loro hanno altro da fare. Continuano a combattere senza tregua sotto la cordigliera sottile su cui si allineano le luci di Bassano.
La città sulle acque
I VICOLI di Orte vecchia alle sette della mattina odorano di cantina e fra i muri di tufo rimbalzano i rumori del risveglio: posate che tintinnano, porte che si chiudono e caffettiere che gorgheggiano. Dovrei già essere in marcia, ma una mezz’ora turistica questa mattina era doverosa. Almeno per una frugale sbirciata alla città che da duemilacinquecento anni l’acqua non la vede solo scorrere lungo il Tevere, ma se la sente pulsare sotto le case come sangue in corpo. Il rapporto fra Orte e l’acqua è una storia scritta a colpi di piccone nel banco di tufo. Una storia che passa attraverso la rete sotterranea di cunicoli speculari alla città emersa, concepita già dagli etruschi nel VI secolo a.C. e poi ampliata dai romani, per alimentare le fontane della città. Un labirinto che si è poi arricchito con vani e diramazioni per ospitare magazzini, colombaie, laboratori artigiani, locali per la pigiatura dell’uva e, addirittura, una ghiacciaia, seguendo l’ascesa di un centro a cui destino e morfologia hanno conferito lo status di ombelico dell’Italia antica e, se vogliamo, moderna. Una città di frontiera, Orte: fra etruschi e romani, longobardi e bizantini, Stato Pontificio e Regno d’Italia. Ma anche, quasi per definizione, città di transiti e incroci. A cominciare dalla via Amerina, la strada del III secolo a.C., che dall’antica città di Veio, una quindicina di chilometri a nord di Roma, saliva ad Ameria (l’attuale Amelia), e proseguiva nel territorio degli umbri. Un tracciato rilevante, che divenne fondamentale nell’Italia altomedievale divisa fra longobardi e bizantini. Fu proprio in quei secoli che la strada divenne l’asse portante del Corridoio bizantino, la sottile striscia di terra – stretta a nord e a sud dai ducati fedeli ai longobardi – che congiungeva Ravenna e Roma. Era esattamente a Orte l’unico punto di attraversamento del Tevere a nord di Roma lungo la Amerina e per quasi un millennio fu questo a rendere gravitazionale il centro. La stessa funzione ebbe il porto di Seripola, scalo fluviale assai attivo almeno fino al V secolo d.C., i cui resti emersero durante gli scavi per la costruzione dell’autostrada nel tratto di fiume a nord dell’abitato. E così questa mattina mi sono arrampicato lungo le muraglie degne di un viadotto che sostengono il centro storico, almeno per provare a mettere il naso in quel sottosuolo pregno di acqua e di storia. A quest’ora non si può certo pretendere una visita guidata, ma la fontana ipogea, il terminale della rete idrica sotterranea, è aperta. Così posso superare il cancello, scendere i gradini e farmi incantare dai vasconi di acqua azzurrissima che circondano a penisola la fontana romana. E pazienza se dall’ugello sgorga appena un filo d’acqua. Mi fermo alcuni minuti in questa nicchia scavata nella pietra chiara e porosa per percorrere lentamente con la mano i solchi tondi lasciati dalle brocche sul bordo delle vasche. Risalgo e immortalo in due clic le lapidi papaline e mazziniane che si fronteggiano dai palazzi della piazza, ricordando ai posteri che fino a centoquarant’anni fa passava di qui la frontiera interna di un regno, quello italiano, giovane e fragile. Poi è già ora di mettermi in marcia sul serio.
Villaggio vacanze
IN un attimo la natura torna ad avvolgermi. Attraverso campi verdissimi, accompagnato dal chicchirichì di qualche gallo e dal belato di greggi lontane. La ciclabile passa sotto l’autostrada e mi lascia a tu per tu con il fiume, addentrandosi fra erbacce, pennacchi e canne che si piegano sul sentiero grondanti di gocce d’acqua. Una vegetazione che nel giro di poche centinaia di metri diventa come il Borneo. Gli altissimi arbusti si chiudono sul sentiero lasciando spazio a un tunnel non più alto di un metro, in cui avanzo con la schiena ricurva e gli occhiali appannati da quell’effetto serra monsonico. È un’autentica tortura, che diventa beffa se mi alzo anche solo un centimetro più del dovuto: lo zaino sfrega le foglie e uno scroscio d’acqua mi entra ogni volta nel collo della maglietta. Come se non bastasse, dopo un quarto d’ora di quella marcia da lagunare, alle mie spalle si avvicina prepotente il rombo di un motore a scoppio. Mi volto di scatto, ma la vista è interrotta da una barriera di canne. Eppure è certo che un veicolo sta percorrendo a tutta velocità la ciclabile e nel giro di qualche secondo mi sarà addosso. Il rombo è sempre più forte. Oltre le foglie, alla mia destra dovrei avere una scarpata di alcuni metri verso i campi, e a sinistra il fiume, non so esattamente quanto distante. Decido al volo per la prima opzione: con un balzo supero il muro vegetale e mi trovo a scivolare in basso su un terriccio fangoso che mi riempie le scarpe. Subito dopo, con ragli cilindrici assordanti, sbucano sulla pista due quad cavalcati da strani palombari con tanto di scafandri, caschi e maschere. In piedi sulla pedaliera, con le braccia tese sul manubrio, sfrecciano incuranti di qualsiasi cosa li circondi. Risalgo a fatica il terrapieno dell’argine, mi siedo a terra per pulire bene le scarpe e riprendo la marcia con due crucci. Il primo riguarda il coraggio che si deve avere per chiamare pista ciclabile questa specie di foresta mesozoica. Il secondo riguarda il programma dei cento giorni da governatore del mondo: ergastolo per tutti i possessori di quad. Cammino ancora per alcuni chilometri in quelle condizioni, costeggiando le anse illogiche del Tevere, finché pian piano la vegetazione allenta la morsa e la marcia ritorna a farsi normale. Ogni tanto si riesce pure a raggiungere l’acqua, che scorre oleosa nel letto affondato fra le coltivazioni. Uno scenario ameno, ma troppo poco per rendere questo tratto di fiume un luogo appetibile: la ciclabile è quella che è: poca ombra, nessuna area picnic, primo centro abitato a diversi chilometri. È per questo che strabuzzo gli occhi quando scorgo una tenda militare, sovrastata da un filo stendibiancheria. Avanzo circospetto, seguendo le note di una radiolina. Poco lontano una Renault Espace con un gagliardetto dello Steaua Bucures˛ti che pende dallo specchietto retrovisore. «C’è nessuno?» Dal filo penzolano due ampi teli di cerata. Li sposto come un sipario e mi si para davanti un vero e proprio campo base. Dentro la tenda, due posti letto completi di materassi gonfiabili, sacchi a pelo e un paio di borsoni. Fuori, due tavoli da campeggio con quattro sedie pieghevoli, bacinelle impilate, una cassetta per gli attrezzi e due paia di stivaloni di gomma. Poco distante, un grill collegato a una bombola di gas. «C’è nessuno?» torno a chiedere. «Che cosa c’è?» Dal diaframma di giunchi che separa l’accampamento dal fiume spunta un ragazzo, Alin, con i capelli rasati che fanno un tutt’uno con la barba appena accennata. Non pare allarmato dall’estraneo che gli è entrato in casa. Mi fa solo segno di parlare piano. «Hai bisogno?» «No, sono di passaggio. Ero curioso di capire chi viene ad accamparsi in un luogo così inospitale.» «Inospitale?» ripete stupito. «Per me è il posto più bello del mondo! Ogni anno, io e mio cognato Florian ci facciamo una settimana di ferie lungo il Tevere.» «Un’intera settimana qua?» chiedo stupefatto. «Ogni anno scegliamo un punto diverso, ma poi ci passiamo una settimana intera.» «Veniamo qua per pescare.» Dal fiume spunta la testa rotonda e sorridente di Florian, anche lui con i capelli quasi a zero. «Abbiamo tutto quello che serve: natura, uccelli che cantano, tranquillità assoluta e certe carpe…» aggiunge Alin. «E la sera guardiamo le stelle e ci addormentiamo con il sussurro del fiume. E poi… ciafff!» prosegue Florian, e con un colpo secco rivolta in aria il palmo della mano destra. «Ciafff… che cosa?» domando mentre appoggio lo zaino a terra. «È il rumore delle carpe che saltano fuori dall’acqua.» «Ma sono grandi?» Alin tira fuori l’iPhone dalla tasca, schiaccia due pulsanti e me lo mostra. «Guarda qua! Questa l’abbiamo scattata ieri.» La foto ritrae Florian che tiene in braccio quello che a un profano sembra solo un pesce enorme, lungo almeno un metro e con il muso vagamente cinghialesco. Uno schifo. «Ma poi le carpe le mangiate?» «Assolutamente no. Le vedi quelle bacinelle? Le teniamo un po’ lì dentro, scattiamo qualche foto e poi le liberiamo. Il gusto sta tutto nell’acchiapparle!» risponde Florian mentre sistema sulla griglia alcune cosce di pollo. Sono simpatici e ospitali. Da un bauletto frigo tirano fuori tre Ceres e mi raccontano la loro storia. Uniti dalla famiglia, dalla passione per la pesca – nata da bambini nella loro Romania – e dal lavoro in una lavanderia di Viterbo. A metà della bottiglia incrociano per un attimo gli sguardi.
«Ti va di vedere la nostra postazione di lavoro?» mi chiede Florian con gli occhi trepidanti di un bambino. «Volentieri!» Non posso certo rispondergli che di pesci non mi è mai importato un granché. Superiamo lo strato di giunchi ed ecco una postazione da autentici cercatori d’oro. Una barchetta a motore è ormeggiata a un molo ricavato con pallet allineati. Nell’acqua, su un supporto a tridente, luccicano come mitraglie tre canne da pesca in carbonio e, poco distante, un’altra è assicurata a un supporto telescopico. A terra, su un altro tridente, altre due canne completano l’artiglieria ittica. «Ti piace?» mi chiede Alin con il tono di chi accetterà solo approvazione. «Lo vedi questo?» prosegue indicando una scatolina nera con alcune luci posata sul tridente. «Appena c’è un abboccamento, fa scattare due allarmi: uno qua e uno nella tenda. Così a qualunque ora possiamo salire sulla barca e iniziare la lotta. La carpa è furbissima: riuscire a prenderla è davvero difficile.» «Io pensavo che una volta impigliata nell’amo il più fosse fatto.» «Magari», ride Florian buttando giù un’altra sorsata di birra. «La battaglia è al centro del fiume. Prima la senti tirare e devi stare attento a non dare strattoni troppo forti, altrimenti si spezza tutto, poi cominci a intravederne il dorso… Dopo un po’, se sei bravo, riesci ad avvicinarla e alle volte pare che ti guardi negli occhi in segno di sfida. Ecco, è quello il momento più emozionante!» Si blocca un istante, come se proprio in questo momento ce ne fosse una sotto la chiglia della barchetta. «E dopo tanta fatica non ne mangiate neppure un pezzetto?» Si guardano di nuovo trattenendo a stento una risata. «Le carpe devono vivere, e poi… a me il pesce non è mai piaciuto!» esclama Alin. «A proposito», mi chiede Florian, «ti fai una coscia di pollo con noi?»
L’esploratore
A POGGIO Mirteto Scalo sono arrivato ieri sera, alle nove passate, dopo un pomeriggio interminabile. Per chilometri la strada bianca aveva costeggiato il Tevere fra erba medica e greggi vaporosi, intrecciandosi più volte ad autostrada, ferrovia e Alta Velocità, fino all’incontro con lo stile castellano posticcio del Soratte Outlet. Un fotogramma sul quale mi ero fermato a meditare e che, da solo, rappresenta la sintesi di una valle in cui convivono miserie e bellezze, e dove la storia non diventa mai passato, ma continua a vivere fondendosi col presente. Una valle, quella del Tevere, che più di ogni altra racchiude i caratteri e le vicende di un’intera nazione. Spinto da chissà quale insano ottimismo, davo per scontato che, per statuto, nei pressi di una stazione ferroviaria almeno una pensioncina ci sarebbe stata. E invece mi sbagliavo. «Niente di niente», aveva sentenziato un barista, alzando appena gli occhi da una Gazzetta sgualcita, agonizzante sul banco dei gelati. «E quindi che cosa faccio ora?» Quando l’ho chiesto devo avere avuto un’espressione attonita e vuota come il cielo di novembre. «L’unica è provare da Massimo.» Il solo cliente del bar aveva staccato gli occhi dall’osservazione comatosa della strada buia. «Chi sarebbe?» «È quello della tenuta Sant’Antonio, sarà a un paio di chilometri da qua. È una roba di preti, non so esattamente, però ospitano tanti gruppi parrocchiali, magari un letto ce l’hanno.» Così avevo percorso con il cuore in gola la strada bianca che dalla statale risaliva le colline, inseguendo un lumicino proveniente da un casolare che pareva su Marte. Massimo era uscito di casa già in pigiama e non mi aveva chiesto né da dove venissi né dove andassi. Mi aveva solo sorriso da sotto il suo naso importante, si era infilato una giacca e aveva detto: «Se ti adatti c’è tutto il posto che vuoi». Dopo dieci minuti eravamo su un terrapieno affacciato su quella tenuta da duecento ettari a contemplare come vecchi amici la valle addobbata da mille lucette baluginanti. Nell’aria già frizzante della sera, mi aveva raccontato la sua storia. Quella di un dipendente comunale che si era licenziato per venire a coltivare grano senatore, orzo, ulivi e viti per conto di una congregazione ecclesiastica. «Certo che c’ho pensato se fare il salto: dieci, cento, mille volte… E poi lo sai cosa mi sono detto? Il comune è lì da centocinquanta, forse duecento anni, la chiesa invece da duemila: di chi mi dovevo fidare di più? E in ogni caso credo che la vita sia troppo breve per vivere con l’ansia di un cartellino da timbrare», mi aveva confidato tirando su la cerniera della giacca per proteggersi dalla frescura. Abbiamo chiacchierato a lungo, stimolati dal suo eloquio debordante e allegro. Poi, vinto dal sonno, mi ero trascinato in uno stanzone di letti a castello, senza neppure la forza di farmi la doccia. Così, riconciliarmi con acqua e sapone è stata la prima cosa che ho affrontato dopo la sveglia alle sei e adesso ridiscendo verso Poggio Mirteto Scalo sotto un cielo ambrato da cui spunta una fettina di luna sottile come un’unghia. Sarà una grande giornata. Superato il ponte sono di nuovo sul Tevere, immerso in una natura totale e, soprattutto, finalmente fruibile. Perché è qui che comincia la Riserva naturale di Nazzano Tevere-Farfa, la prima area protetta istituita in Lazio nel 1979, attorno al lago formato dalla costruzione, negli anni Cinquanta, della diga di Nazzano. Sotto i colli tufacei di Torrita e Nazzano, mi addentro nel lembo di pianura in cui pascolano mandrie di mucche, cavalli e pecore. È ciò che rimane dei «campi chiusi», piccoli appezzamenti delimitati da siepi di biancospino e usati come orto, pascolo o frutteto, che per secoli hanno cucito il patchwork paesaggistico di questa zona del Tevere, raccontando una storia di tutela della terra e democrazia economica basata sulla piccola proprietà e il lavoro artigianale. Con regalità danubiana il Tevere compie anse maestose fra gli ontani, fregandosene delle miserie cementizie che lo attendono più a valle. Adesso, per sentirsi principe fra i fiumi, gli basta la corona di boschi e colline che si specchiano riverenti nel suo ampio letto. Ritrovo, per la prima volta dopo giorni di cammino, aree picnic in buono stato, ma soprattutto, sento il borbottio di battelli sul fiume: qualcuno naviga. Segmentati dagli sbarramenti, rigonfi di fondali mal drenati, sopraffatti da una vegetazione malsana e debordante che nessuno cura e relegati all’idea di un turismo domenicale per povera gente, i fiumi nessuno li naviga più. Certo, non sono tanti quelli tecnicamente solcabili da un battello o una chiatta. Ma anche laddove è possibile, sembra non interessi muoversi sull’acqua: non sui Navigli (a meno che non si vogliano considerare navigazione fluviale le gitarelle organizzate all’interno dell’area urbana di Milano), non in Ticino o in Arno. E neppure in Tevere, almeno fin qua. Le imbarcazioni della riserva passano ogni mezz’ora. L’uomo al timone, un tizio sulla settantina, tarchiato, con folti baffi bianchi, mi fa un cenno di saluto, mentre da un altoparlante erudisce i viaggiatori su folaghe, martin pescatori e falchi delle paludi. Quando arrivo all’approdo di Nazzano, ritrovo lo skipper di fiume coi piedi appoggiati al parapetto del battello, mentre guarda in silenzio lo scorrere del Tevere verso sud, nel punto in cui la valle si apre attorno al lago creato dall’immissione del Farfa. Ulisse attende il prossimo giro di turisti, e intanto si gode questo panorama capace di mutare sotto i tuoi occhi.
«La cosa che amo di più qui è che non c’è un momento della giornata uguale all’altro. Questa mattina presto, per esempio, con la nebbia era tutto una lastra d’argento fumoso. Ora col sole guarda, invece, che verde…» E per fortuna che a Ulisse il luogo piace, perché proprio non si può dire che questo lavoro se lo sia scelto. Ma se la società in cui hai lavorato per una vita fallisce e ti prepensiona con una miseria di assegno mensile, qualcosa per campare devi pure inventartelo. Come venire a dare una mano al figlio alla guida dei barconi. E pazienza se sei perito informatico e di uccelli non hai mai capito nulla. Tutto s’impara nella vita: anche a portare una barca. A distinguere fra aironi bianchi, cenerini e rossi, a stanare nel bosco ripariale le beccaccine o a raccontare dell’arrivo dei gruccioni in estate e dei martin pescatori in inverno. Mi aiuta a scorgere una nutria che attraversa rapida il fiume, poi allarga le braccia con quel sorriso sempre velato di tristezza. «Forse ce l’avevo scritto nel nome, il mestiere…» «Tu però la sera torni a casa», scherzo. «Quello sì, non c’è dubbio. Però, a fare su e giù per il Tevere, un po’ esploratore mi ci sento davvero.»
Tre uomini in barca
SONO tentatrici le sponde ombrose del lago. Soprattutto sapendo che, stando a OpenStreetMap, oltre la riserva non ci saranno più sentieri e per seguire il corso del fiume nei cinquanta chilometri che mi separano da Roma non ci saranno che terribili strade consolari assediate da ottani. Io, però, un piano B ce l’ho. Quello dei campi, alla cieca. Nessun sentiero, d’accordo, ma ore di ricognizione su Google Maps mi hanno dato la verosimile certezza che, almeno per lunghi tratti, fra i campi coltivati e la vegetazione fluviale, ci sia una striscia di terra percorribile. La vera incognita saranno il fango e i canali di scolo. Ma sono pronto a tutto pur di risparmiarmi Tiberina e Salaria. Anche se non riesco a evitare qualche chilometro di Tiberina, la strategia dà i suoi frutti. Avanzo a fatica fra una carreggiata non segnata, il solco lasciato da un trattore, il piccolo argine di un canale di scolo: oggi regna la fantasia. Mi sento come un Tarzan di campagna, che prende al volo ogni possibile suolo battuto come fosse una liana. Bisogna dire che se la fortuna aiuta gli audaci, oggi è probabilmente il mio turno. Infatti, quando arrivo dalle parti di Fiano Romano, accade l’incredibile. Mentre percorro una stradicciola poderale, affiancando una mandria di vacche maremmane, vedo tre tizi che stanno tentando di far scavalcare a un piccolo motoscafo la staccionata che delimita un pascolo a ridosso del fiume. Dalle posizioni innaturali dei tre corpi – e dalle imprecazioni – lo sforzo deve essere disumano. Un ragazzo corpulento con una folta barba sale e pepe tiene da solo tutto il peso della poppa, mentre i due più smilzi davanti tentano di alzare la prua oltre la palizzata. «Cornuti, grandissimi cornuti!» biascica il gigante contraendo i muscoli della faccia. «Serve una mano?» «Anche sì», digrigna i denti il più grosso. Mollo lo zaino e mi aggrego alla combriccola. «Chi sarebbero i cornuti? Parli delle vacche?» gli chiedo quando riusciamo a issare la barca in bilico sulla staccionata. «Quei galantuomini che recintano le terre fin sulla sponda del fiume e non lasciano accesso alle acque… Mica potrebbero!» L’uomo prende fiato con due profondi respiri e si arrotola le maniche del camicione mimetico. «La legge parla chiaro: fino a cinque metri dalla riva il terreno è del Demanio e occorre lasciare qualche passaggio. È dalle sette di questa mattina che cerchiamo di mettere in acqua la barca e questo è l’unico posto che abbiamo trovato! Ma ti pare possibile?» Gli altri due annuiscono. Uno di questi, Mauro, si rincalza gli occhiali metallici sul naso sottile e fa segno che è pronto per terminare il lavoro. Prendiamo fiato. Poi, due per lato, con un ultimo sforzo riusciamo ad adagiare la barca oltre la recinzione, centrando pure un paio di robuste pizze lasciate dalle amiche maremmane. Alessandro, il colosso, fissa una cima alla prua dell’imbarcazione e la trascina per una cinquantina di metri. Io e gli altri due spingiamo da poppa, finché il pascolo degrada con una brusca discesa verso il Tevere. «E ora che cosa si fa?» domanda Paolo, l’altro ragazzo, un giovanotto corvino piuttosto atletico. «Adesso dobbiamo calarla giù a riva», esclama Alessandro sicuro. «Per prima cosa giriamo la prua verso monte. Tu e Mauro frenate tirando la cima dall’alto, io e Riccardo andiamo avanti e spingiamo in su, cercando di rallentare la discesa.» Poi si rivolge a me con lo sguardo che si riserva a un bambino. «Pensi di farcela?» «Ma stai scherzando? Certo!» esclamo spavaldo, chiedendo ai miei muscoli una cambiale in bianco. Il peso della barca ci travolge subito. Dalle falangi delle dita alle caviglie, ogni muscolo spinge verso l’alto in costante tensione, mentre scendiamo di schiena a piccoli passi. A un certo punto per lo sforzo trattengo il respiro e chiudo gli occhi, finché il tacco della scarpa sinistra non sciaguatta in acqua. Siamo arrivati. Posata l’imbarcazione, ci sediamo esausti sull’erba. È facile familiarizzare con i tre figli del fiume. Amici per la pelle fin da bambini, la passione che li faceva rientrare alle nove di sera sporchi e sudaticci dopo giornate intere passate in Tevere non li ha abbandonati neppure a quarant’anni. Solo che adesso non danno più la caccia ai rospi, non tentano di catturare germani, non costruiscono capanne sui salici, non s’ingegnano con canne e trappole artigianali per acchiappare qualche mostro degli abissi. E neanche montano più due motori fuoribordo da cinquanta cavalli su una barchetta a remi per provare l’ebbrezza di impennate sotto il ponte di Ponzano Romano. Adesso con il fiume cercano di viverci. Paolo è soccorritore fluviale e ha fondato un’associazione sportiva, Roma Acquavventura, che organizza escursioni in rafting rivolte soprattutto ai ragazzini, mentre Mauro fa da guida a gruppi di canoisti. Alessandro il suo bisogno di adrenalina lo placa con il parapendio, ma quando il fiume richiama alle armi, lui c’è sempre. «A proposito, ma che cosa state facendo con questa barca?» domando. «Una ricognizione», risponde Paolo, aggiustandosi il cappellino rosso sulla testa. «Io lavoro soprattutto nel centro di Roma, Mauro nella Riserva di Nazzano. Da questo punto fino a Castel Giubileo non ci sono dighe, quindi, volendo, potremmo allargare le nostre attività a questo tratto.»
«Il fiume bisogna conoscerlo palmo a palmo», puntualizza Mauro, «mica puoi fidarti solo delle carte o del sentito dire. Anche perché le sponde e i fondali cambiano in continuazione.» «E poi», riprende Paolo, «c’è sempre il dannato problema di riuscire a mettere la barca in acqua e, chiaramente, a portarla via: sembra banale, ma ti assicuro che, almeno nel Tevere, questo è il primo problema.» «Quindi state andando a Roma?» «Almeno ci proviamo», ride Mauro. «Andiamo solo io e Paolo, Alessandro ci segue con auto e carrello, altrimenti poi come facciamo a riportare indietro la barca?» Un’idea, come un fulmine, mi attraversa la testa. «Non è che mi dareste un passaggio?» «Eh? Ma non hai detto che stai seguendo i fiumi a piedi?» chiede Alessandro aggrottando la fronte. «Be’, non devo mica battere un record olimpico, basta che segua i fiumi… anzi, forse li avrei dovuti navigare tutti, ma chi si trova più che scivola sull’acqua? E poi», aggiungo ridendo, «mi sono già fatto più di ottocento chilometri a piedi: credo che un passaggio me lo sia meritato, che dite?» «Noi un posto comunque ce lo abbiamo: nessun problema a imbarcarti!» esclama Paolo. «Allora avete guadagnato un mozzo!» Carichiamo gli zaini. Paolo tira una, due, tre volte la corda di accensione. Il motore bofonchia indeciso, poi, con borbottii più secchi, si mette in moto. La nostra Argo si stacca da riva disegnando un solco sottile sull’acqua. Navigare sul fiume è totalizzante. Per settimane ho accarezzato l’acqua, camminando su argini e greti. E ho attraversato torrenti fermandomi al centro del guado per farmi trapassare dalla corrente e dal vento. Ma adesso è diverso. Mettersi dalla parte dell’acqua e cambiare prospettiva ribalta ogni percezione, soprattutto in un fiume così, affossato nei campi con anse sinuose. L’unico orizzonte diventano l’acqua e la vegetazione. I sessanta metri di larghezza del letto, che si distende baluginante fra le sponde alberate, potrebbero essere cento, mille o diecimila: tanto è solo quello che ti avvolge, enorme e maestoso. E la nostra barchetta è una piccola astronave che avanza sperduta in un microcosmo terrestre, popolato da garzette e aironi cenerini, che si alzano in volo eleganti al nostro passaggio. Mauro, con i lunghi capelli castani legati in una coda di cavallo, manovra con mano sicura il timone. Paolo, accovacciato a prua, smanetta in continuazione con il cellulare e annota appunti e schizzi su una Moleskine. «Che cosa stai facendo?» domando. «Devo segnare tutti i punti critici, altrimenti dopo chi li ricorda più? Ma soprattutto devo controllare le coordinate con il GPS, perché da qui non riesci a capire in quale punto del percorso ti trovi: non hai visto come cambiano le prospettive in acqua?» «Ma esattamente che cosa vi interessa?» «Dobbiamo scrutare il visibile per capire l’invisibile», interviene Mauro senza staccare gli occhi dalla guida. «L’acqua, anche quando è placida, nasconde sempre pericoli. Saperla leggere significa riuscire a capire che cosa c’è sotto osservandone il comportamento superficiale. Per esempio, uno dei pericoli è quello di sbattere con la chiglia contro qualche ostacolo sommerso, come un accumulo di detriti o un tronco. Se da una parte del fiume ho una sponda erosa e dall’altra una spiaggetta, significa che l’acqua toglie terra da una parte per portarla dall’altra. Quindi, in questo caso, è bene tenersi lontano dalla spiaggia.» «Un’altra cosa da osservare bene», aggiunge Paolo, «è il movimento dell’acqua contro le sponde. Di solito l’acqua arriva e rimbalza leggermente, facendo una piccola onda. Se questo non avviene significa che in quel punto c’è una nicchia o un sifone e può essere molto pericoloso, soprattutto in canoa.» Mi spiegano che di queste ricognizioni occorre farne tante, tantissime, perché il fiume è come una modella che cambia continuamente d’abito. Un giorno lo trovi in un modo e la settimana dopo le sponde e le correnti raccontano tutta un’altra storia. Specialmente da qualche anno a questa parte. Da quando cioè il fiume si è messo ad andare molto, ma molto, più veloce. Certo, c’è il meteo impazzito, ma il vero problema è che le tante dighe di questo tratto di Tevere non riescono più a fare il mestiere per cui sono state progettate: conferire regolarità al corso d’acqua e prevenire piene. «Il nocciolo della questione è che non si fa più la manutenzione che si dovrebbe, né al fiume né alle dighe», dice Mauro. «Non sono uno scienziato, però il fiume, con il mio lavoro, lo vedo tutti i giorni e ti posso garantire che negli ultimi anni le dighe non vengono più pulite dai detriti come un tempo. Basta andare con la canoa a monte di uno sbarramento e buttare giù la pagaia: spesso riesci a toccare il fondo con il remo!» «E questo che cosa c’entra con l’acqua che scende più velocemente?» «È semplice. Nei periodi di piena, un tempo, le dighe accumulavano acqua e poi venivano aperte in modo sincrono, in modo da immagazzinare acqua e farla poi scendere pian piano. Cioè, accumulo in alto e intanto svuoto le dighe più a valle così, quando queste sono pronte per ricevere, da sopra posso aprire. E in questo modo il livello del fiume si riusciva anche a mantenere costante. Invece, con l’accumulo dei detriti, non c’è più posto per l’acqua nei bacini e quindi l’unico modo per farla defluire è aprire contemporaneamente tutte le dighe. Solo che…» «Solo che l’acqua va più veloce!» «Bravo! Come una palla su un biliardo. E così mangia gli argini superficiali e si porta via gli accumuli di limo sulle sponde, che sono quelli da cui si genera una buona parte della vita del fiume.» Paolo continua a scrivere e fotografare senza sosta. A un certo punto riceve la telefonata di una potenziale cliente. È un’insegnante romana di scuola media che chiede informazioni per un’esplorazione del Tevere in rafting. In equilibrio precario sul bordo estrae dallo zainetto una grande agenda in cui annota e tira righe, tenendo il telefono incastrato fra la mascella e la spalla. «Guarda che se finisci in acqua, mica mi giro per venirti a riprendere!» gli fa Mauro scherzando. «Qui si lavora! Non li trovo sotto i fichi, i clienti, che ti credi?»
Sull’agenda finiscono schizzi d’acqua e il motore fa un rumore infernale, ma Paolo tiene duro e alla fine riesce a fissare un sopralluogo con la professoressa. Perché vivere di fiume fa battere il cuore, ma è dura. Durissima. Soprattutto se hai moglie e una figlia piccola. Paolo succhia la capocchia della penna e si fa serio in volto quando mi racconta che la stabilità economica è purtroppo ancora un miraggio e deve sempre arrotondare con altri lavoretti. «Riportare la gente ai fiumi è una sfida pazzesca», commenta fissando la sponda che scorre sotto i suoi occhi. «Non solo perché non ci ricordiamo nemmeno che esistono, ma perché del Tevere le mamme hanno proprio paura.» «Che il figlio cada in acqua?» «Macché!» sorride amaro. «Hanno paura che prendano delle malattie… per l’inquinamento!» «Addirittura?» «Intendiamoci, il Tevere oltre il Raccordo è una sozzeria, ma non è mica una centrale nucleare! E di certo navigarci non fa venire malattie. Il problema è l’immaginario della gente, perché tutti lo associano a monnezza e topi. E invece basterebbe curarlo un po’ di più. Prendi i circoli canottieri di Roma, che hanno un sacco di soldi e riescono a fare manutenzione dell’area circostante. Lì il fiume è vivibile. È un sacco di tempo che Acquavventura chiede al comune di avere uno spazietto sul Tevere: se ce lo concedessero gratis potremmo impegnarci a tenere in ordine una zona piuttosto ampia e a dare il nostro contributo per renderlo più vivibile. Ma fino a questo momento niente di niente. I canottieri invece…» «…loro hanno i soldi.» A Settebagni, poco prima del Raccordo, il fiume che incantò Enea cambia pelle. Dagli argini più bassi e spogli di vegetazione emergono i grattacieli della Bufalotta, palazzine, capannoni e strade trafficate. Di soppiatto, come un ladro d’appartamento, il Tevere penetra nell’Urbe, regalandoci una prospettiva del tutto inedita sulla città. Nelle nostre mappe mentali le porte di accesso a Roma rappresentano una sorta di continuum con i luoghi dai quali proveniamo. Ci arrivi in autostrada? Esci da uno scatolotto semovente che rappresenta l’appendice di casa tua. Ci arrivi in treno? Che cos’ha di tanto diverso la stazione di Termini rispetto alla Centrale di Milano? Poco o nulla. E lo stesso vale per Fiumicino rispetto a qualsiasi altro aeroporto del mondo. Invece nel nostro caso è diverso. Abbiamo il privilegio di misurare con il righello il cambiamento del paesaggio attorno a noi. Un quarto d’ora fa eravamo fra i salici e adesso troviamo il cemento di una città dedita a una strombazzante incontinenza automobilistica. Certo, Roma ci accoglie con la sua periferia peggiore. Sbarchiamo sotto il viadotto della Flaminia Nuova, poco prima della diga di Castel Giubileo. È il punto esatto in cui il fiume, con il suo carico di natura, va a sbattere contro una zona franca in cui vagano ombre umane che si aggirano nella perenne penombra del viadotto, fra immondizie, calcinacci e vecchi mobili. Alessandro col vecchio fuoristrada dotato di carrellino è già lì che ci attende. Da terra ci dà qualche dritta sul punto migliore in cui avvicinarci a riva. Compiamo di nuovo uno sforzo sovrumano per issare la barca lungo uno stradellino trasformato in discarica e fissarla sul carrello. Poi ci salutiamo con un forte abbraccio: il fiume, in effetti, affratella più della terraferma.
Quell’odore che non ti togli
DI nuovo solo, supero un groviglio di sottopassi e rotonde a servizio del Grande Raccordo Anulare. Finché alla fine di una strada chiusa, contornata di case basse e malmesse, non trovo l’imbocco della ciclopedonale che affianca il Tevere fino al cuore della città: l’ultimo tratto del mio viaggio. Mi fermo un istante per sacralizzare il primo passo su quella striscia di asfalto rossiccio, do un morso a una mela verde e inizio la marcia addentrandomi nell’estrema periferia romana. La pista costeggia il Tevere nel suo scorrere fra Flaminia e Salaria, due lance di modernità e degrado conficcate verso il Caput Mundi. Qua in mezzo, invece, è una terra di nessuno che galleggia da secoli in un limbo urbanistico fatto di campi incolti, su cui un vento potente disegna onde che schiumano in direzione sud. Alla mia destra, sul fondo di quelle che un tempo furono cave, pascolano pecore e mucche fra alberi e canneti. Tutto attorno fanno capolino le vette grigiastre dei palazzoni, le paraboliche marziane di Saxa Rubra e il rumoreggiare compulsivo della metropoli. Cammino per almeno un’ora in questo verde senza identità: né natura selvaggia, né parchetto addomesticato. Una terra fantasma che ha le sue residenze in fabbriche abbandonate e casette di robivecchi nascoste fra la vegetazione. A Tor di Quinto, mentre sto costeggiando l’aeroporto Roma-Urbe, dai cespugli che assediano la ciclabile spunta un uomo canuto vestito di stracci, con barba e capelli lunghi. Mi osserva mentre mi avvicino e poi mi ferma. «Dove vai con quello zaino?» chiede con voce ebete. «A Roma, ormai sono arrivato.» Riflette su quella risposta banale senza domandare altro, continuando a fissarmi. Dargli un’età è impossibile, tanto il suo volto è segnato dalla vita: potrebbe avere cinquanta, ottanta o cent’anni. Fra le rughe profonde si affossano occhi spaesati, che sembrano guardare il mondo per la prima volta. Nonostante il caldo, indossa una giacca a vento smanicata che emana un intenso odore animale. «Ma sono partito da molto lontano, sai?» aggiungo come per rompere il ghiaccio. «Da Milano…» «Milano…» sussurra stringendo gli occhi come per agguantare un ricordo. «Lo sai dov’è Milano?» «Credo di sì. Una volta c’ho pure fatto un combattimento, ma non ricordo se ho vinto o perso…» «Eri un pugile?» «Cinque anni da dilettante e cinque da professionista», risponde sottovoce, con calma zen. «Poi c’ho avuto il distacco della retina… ero a Bologna quella volta… ma nel frattempo ho continuato a fare il pastore, perché con il pugilato mica diventi ricco, sai?» Si chiama Gregorio e insiste per farmi vedere le sue pecorelle, come le chiama lui. Scendiamo dal terrapieno della ciclabile oltre la vegetazione e lì, sulla sottile striscia d’erba che ci separa dal fiume, ecco il gregge: un centinaio di capi che ruminano davanti ad aeroplani ed elicotteri. Osservo in silenzio quella scena sonnolenta e ancestrale incastrata nel fluire vorticoso della metropoli, come il lembo di un lenzuolo lacerato. Un lenzuolo che, se fosse per Gregorio, potrebbe andare a farsi maledire in questo preciso istante. Perché quando la terra per pascolare si riduce a una strisciolina di erba rinsecchita per fare spazio a campi da golf e tennis, quando la lana non te la compra più nessuno e, anzi, devi pure dare due euro a pecora a «quelli di Poggio Mirteto» per fartele tosare, quando di latte ne esce giusto un goccio con quest’erba malata, per il romanticismo non c’è proprio posto. Si sente un coatto più che un sopravvissuto. Perché quel destino che qualcuno ti ha appiccicato sulla pelle non te lo riesci a levare via neppure sfregando con la pomice, come l’odore di bestia e formaggio. Mi racconta che ha iniziato a combattere per sfogare una rabbia che lo divorava dentro, mentre il pastore l’ha fatto perché era il mestiere di suo padre. Tutto qua: chi lo dice che nella vita te le puoi davvero scegliere le cose? E allora, se sei prigioniero di un mondo, tanto vale farselo andare bene, soprattutto oggi che è troppo tardi per tutto. «Immagino sempre di avere davanti giorni ideali», mi dice con parole lente e sussurrate. «Giorni in cui tutto magicamente funziona come vorresti tu, ma poi penso che ideali non lo sarebbero comunque e che l’unica felicità che posso avere è questa: starmene qua a Tor di Quinto con le mie pecorelle a incontrare persone… a proposito, di dove sei?» «Di Modena.» Silenzio. «La conosci?» «Mi pare di averci combattuto una volta…» La città vera e propria comincia dal travertino di ponte Flaminio. È qui che la ciclabile affianca la distesa di auto perennemente incolonnate di viale Tor di Quinto. Ma poche centinaia di metri più avanti, sotto il torrione neoclassico di ponte Milvio, c’è una via d’uscita alla marmellata acustica di clacson e motori. Basta scendere la ripida scalinata dei muraglioni per ritrovarsi a pelo
dell’acqua, incassato di una quindicina di metri rispetto alla strada. Anzi, diciotto per l’esattezza. A tanto ammonta l’altezza che a fine Ottocento si stabilì per superare la piaga millenaria delle piene del Tevere, spianando per chilometri il cuore della città. Un progetto, quello dell’architetto Canevari, preferito alla proposta di un certo Garibaldi che, dismessi i panni del condottiero, fu deputato e propose una deviazione del fiume lungo un percorso artificiale esterno alla città. Cammino in una nicchia di selvatico nel cuore di Roma. Un luogo dove la delizia dei green curatissimi e dei pini marittimi nei pressi dei circoli canottieri si alterna a macchie di cespugli e immondizia. Un altrove talmente marcato che pare vivere in un altro fuso orario. Alle 18.30, quando il sole lambisce ancora strade e palazzi, qua sotto si distende già la luce rossastra del tramonto a rendere il tutto più surreale. Come surreale è la motonave Tiber II, spiaggiata su un terrapieno alto circa tre metri fra ponte della Musica e ponte del Risorgimento. È lì che, a dicembre 2010, ha trovato il suo Ararat dopo avere rotto gli ormeggi durante una piena. Da allora è diventata un complemento d’arredo del fiume, a cui successivamente si è unito anche un altro battello più piccolo. Un rifiuto solo un po’ più ingombrante degli altri che gravitano in questo sottopancia della città. Sul fiume sfrecciano come proiettili le imbarcazioni di giovanissimi canoisti, spinte, oltre che dai remi, dalle grida severe degli allenatori a riva. E a mano a mano che ci si addentra nel cuore della città, da ponte Pietro Nenni in poi, comincia a manifestarsi un popolo di runner, ciclisti o semplice gente a passeggio, che viene a godersi un Tevere sozzo uguale, ma almeno dalle sponde più curate.
La chiamata degli avi
QUANDO giungo in prossimità di ponte Garibaldi, l’Isola Tiberina è già una sagoma che si staglia come una nave contro l’imbrunire. Migliaia di storni danzano in formazione disegnando meduse sui pini dell’ospedale Fatebenefratelli, come in un rito propiziatorio in onore del dio Esculapio, che lì ebbe il suo tempio. Ma a me piace pensare che siano festoni mandati dai numi per salutare il mio arrivo. È sull’isola, infatti, che ho deciso di terminare il mio viaggio. Per un fatto di cuore, innanzitutto. Perché quell’approdo fra le acque carico di mitologia, piazzato nel centro esatto della capitale, mi pareva il logico traguardo di una marcia lungo i fiumi. E poi per una considerazione in bilico fra il geografico e l’amministrativo: è quest’isola il confine fra le giurisdizioni della Capitaneria di Porto di Civitavecchia e della Polizia Fluviale, dunque, se vogliamo, la frontiera fra fiume e mare. Mi fermo a contemplare la mia meta, che già la natura volle a forma di nave e che i romani, non si sa con certezza se nel III o nel I secolo a.C., confermarono in quella vocazione, sagomandola a trireme con blocchi di travertino. Fu a ricordo della leggenda: poteva essere il 293 o il 291 a.C. e Roma era in ginocchio a causa di una pestilenza particolarmente virulenta. Per sconfiggere l’epidemia, gli oracoli suggerirono di trasportare sulle rive del Tevere il dio greco Asclepio (latinizzato poi in Esculapio). Una delegazione di saggi romani partì dunque per Epidauro, dove esisteva il più importante tempio dedicato a quella divinità. E mentre i saggi, giunti a destinazione, stavano negoziando per ottenere una rappresentazione iconica del dio, ecco che Esculapio, nelle spoglie di un serpente, salì sulla nave romana e la guidò fino all’Isola Tiberina. Il rettile-dio scese sull’isola nel punto esatto in cui sarebbe poi sorto il tempio in suo onore e le successive attività di conforto agli ammalati. Due salti e sono su ponte Cestio, da cui, se non fossi in ritardo di un secolo e mezzo, potrei vedere i mulini galleggianti ancorati all’isola, vera e propria industria nel centro esatto della città. L’isola è raggiunta. È chiaro che dopo tre settimane di viaggio dovrei sacralizzare l’arrivo a destinazione con un gesto plateale. Ci ho pure pensato durante gli ultimi giorni di marcia: che cosa fare? In realtà non mi sono mai dato una risposta, più che altro per la scaramanzia di chi deve ancora raggiungere la meta. Ma adesso, davanti alla millenaria basilica di San Bartolomeo, ogni pensiero si rivolge al soddisfacimento dei bisogni primari: un bagno, qualcosa da mettere sotto i denti, appoggiare il fondoschiena. Niente di glorioso, me ne rendo conto, ma se il camminare a piedi è anche riscoperta del proprio corpo, adesso è proprio lui che urla attenzione. Così guadagno il primo baretto e, senza badare alla gente attorno, mi stravacco coi piedi appoggiati su una sedia. «Certo che ne ha fatta di strada!» Il ragazzo che viene a prendere la comanda è sorridente e paonazzo, con la faccia avvolta da una peluria morbida che non ne vuole sapere di farsi barba come dio comanda. «E tu che ne sai?» domando stupito. «Be’, a giudicare dalle scarpe…» Butto uno sguardo sui piedi e solo in questo momento mi accorgo di indossare due relitti. Oltre a essere infangate e sdrucite, la scarpa destra è completamente squarciata lungo la piegatura del piede. Si vede che oggi, superati gli ottocentocinquanta chilometri di marcia, hanno deciso di aver sofferto abbastanza. «In effetti, mi stanno abbandonando, ma credo di averle consumate per un buon fine», ribatto ridendo. Il ragazzo ascolta interessato il racconto del mio viaggio lungo i fiumi alla ricerca di un Paese fantasma. Si meraviglia della bellezza del Trebbia, mi chiede informazioni sull’antico lago di Bientina e mi assicura che prima o poi rafting sul Tevere lo farà pure lui, pugliese a Roma da un paio d’anni. Annota l’ordinazione e se ne va. Quando riappare con una coppa di gelato colossale e una birra, indugia un attimo prima di lasciarmi di nuovo solo. «Posso chiederle una cosa?» sussurra un po’ imbarazzato. «Ma certo!» «Non è che si offende, vero?» «E perché mai?» «E ora, come ci torna a casa?» «Con il treno, ne ho uno alle otto e tre quarti.» «Ecco, appunto… Alta Velocità?» «Eh sì. Ormai se devi fare più di duecento chilometri non hai grandi alternative», mi giustifico, intuendo dove vuole arrivare. «Di questo si potrebbe discutere», dice appoggiando gelato e bottiglia sul tavolino. «Comunque il suo viaggio non è stato così lento, se prende l’Alta Velocità per tornare…» «Ma che cosa c’entra?» esclamo col piglio di chi si sente punto nel vivo. «Il mio viaggio l’ho finito…» «Forse bisogna mettersi d’accordo su ciò che intendiamo per inizio e fine del viaggio», ribatte tranquillo. «Per me, per esempio, un viaggio inizia quando metto il piede fuori di casa e finisce quando ritorno… ma non voglio criticare.» La faccia paffuta si riempie di un sorriso bambino. Riscuote il dovuto e con passo scanzonato se ne va. Io invece rimango a galleggiare sotto la luce dei lampioni, riflettendo sulle parole di quel cameriere ragazzino. In effetti, tecnicamente, il suo ragionamento non fa una piega: ogni viaggio, dunque anche il mio, comincia oltre la porta di casa. Ed è pure vero che il mio cammino è idealmente inquinato da un rientro non certo in linea con lo spirito della marcia. Come, peraltro, è stato impuro il viaggio a Milano: da Modena a Rogoredo su un banale interregionale. Del resto non è colpa mia se abito al centro dell’Emilia.
Però, a pensarci bene, non si può dire che il cammino sia stata una sorta di rappresentazione teatrale. Intendo dire una parentesi in una vita vocata comunque al movimento frenetico degli spostamenti motorizzati. Intanto perché per viaggiare occorre predisposizione d’animo: non basta uscire di casa. Certo, può essere sufficiente percorrere cinquecento metri per andare a prendere i figli a scuola, ma lungo quel percorso bisogna decidere di aprire occhi e mente. E non è semplice farlo stando al volante. Quindi, sempre per essere precisi, credo si possa affermare che un viaggio comincia veramente nel momento in cui decidiamo di vivere ciò che ci circonda con la meraviglia e l’incanto del viaggiatore. Quando torniamo a esercitare l’arte dimenticata dello stupore. Il nocciolo della questione, però, è un altro. Perché ogni tanto, a me succede in continuazione, ci sale dallo stomaco la voglia di trasformarci in viaggiatori? Perché anche chi è narcotizzato da villaggi vacanze e pacchetti all inclusive ogni tanto ha un sussulto e sente irrefrenabile il desiderio di spostarsi verso un altrove con un moto diverso da quello cilindrico? O di osservare una carta geografica con occhi sognatori? Fino a poco tempo fa ho vissuto nella convinzione che si trattasse di banale curiosità. Quella propulsione che porta a non accontentarsi del proprio quotidiano, ma a voler vedere sempre un metro oltre il confine del giardino. Non solo per scoprire, ma anche e soprattutto per riscoprire luoghi. Poi una sera, in quel punto di contatto fra terra e acqua che è Prato della Valle a Padova, Gabriele Righetto, urbanista colto e visionario, mi rigirò la frittata. «Guarda che non c’entra nulla la curiosità e ancor meno lo spirito d’avventura», mi disse a bassa voce davanti a uno spritz. «Viaggiare significa rispondere semplicemente al nostro istinto. Lo stesso che spinge gli animali a migrare periodicamente da centinaia di milioni di anni. Non siamo animali pure noi?» «Quindi non potremmo fare a meno di viaggiare?» lo incalzai. «Be’, non credo…» sorrise. «Considera che l’urbanistica nasce dagli ungulati!» Lo guardai come probabilmente si guarda un folle, ma lui continuò. «Gli ungulati, soprattutto i ruminanti, per nutrirsi devono seguire l’alternarsi delle erbe, brucando le più fresche. È per questo che dalla notte dei tempi viaggiano fra montagna e mare inseguendo le stagioni, dunque giocoforza seguendo il corso dei fiumi. Tanto che i corridoi fluviali ce li hanno nella testa e sono capacissimi di intuire i guadi.» «La transumanza!» sussurrai. «Vedi che hai capito?» mi sorrise compiaciuto. «È da queste vie lungo l’acqua che nascono poi le strade degli uomini e, dopo ancora, la civiltà dell’insediamento: tutto ha origine dal nostro istinto animale al viaggio!» Da quella conversazione il mio punto di vista sul viaggio è cambiato: mi sono convinto che non viaggiamo per raggiungere qualcuno o qualcosa, ma per soddisfare una pulsione primaria scolpita nei meandri del nostro DNA, come fosse il bisogno di bere o respirare. E ho cominciato a considerare gli abituali sogni a occhi aperti davanti a un atlante non solo come una mia personale fissazione, ma la naturale attitudine del pronipote di una stirpe quadrupede. Anzi, sono andato oltre. Che cosa deve essere questo istinto alla mobilità se non un vero e proprio diritto? Come quello alla vita, alla cittadinanza e alla libertà di espressione. Del resto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si menzionano i diritti di «lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese» e di «cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni». Non è esattamente la stessa cosa, perché il diritto al viaggio comprende anche lo spostarsi semplicemente per cercare un po’ d’erba fresca da mettere sotto i denti: quella che oggi, con tecnicismo, si definirebbe migrazione economica. Però ci va vicino. Sarà per questo che quelle scarpe sfondate da quasi novecento chilometri, a vederle adesso, mi mettono un certo orgoglio addosso. Nonostante i tavolini affollati da variopinti turisti, continuo a tenerle alte, in bella mostra. Perché, al nostro tempo, camminare deve essere più che mai rivendicazione di un diritto traballante e negato ai più. Il mio è esercizio da uomo sazio, certo. Che non servirà a cancellare i campi profughi alle porte dell’Europa e neppure ad abbattere le cortine. Come non ridarà vita ai milioni di morti senza nome che hanno cercato il diritto al viaggio sulle vie della transumanza umana. Però, a proposito di calzature, c’è sempre quel vecchio proverbio indiano che suona, più o meno, così: «prima di giudicare un uomo cammina per tre lune nelle sue scarpe». Ricordarsi, anche solo con una camminata, chi siamo e da dove veniamo significa accarezzare l’idea che il nostro destino sarà comune o non sarà. Adesso ci saranno un treno di ritorno e, finalmente, una casa con un letto come dio comanda. Ma soprattutto una nuova consapevolezza. Che nel ricercare gli spazi sbiaditi, fra i punti disegnati in grassetto delle nostre mappe, nel tracciare percorsi reali o immaginifici su una carta, nell’indagare luoghi dimenticati, non stiamo solo ritrovando la nostra terra, ma evochiamo ogni volta l’attitudine ancestrale su cui si fonda l’umanità.
Ringraziamenti
ALCUNE delle persone che mi hanno fornito informazioni, punti di vista e suggestioni per questo viaggio lungo i fiumi sono citate nel testo. Qui voglio ringraziarle tutte, perché senza il loro aiuto il libro non sarebbe stato lo stesso: Umberto Bertolini, Andrea Cosimini, Alessio Capoccia, Pierluigi Capone, Moreno Cargiolli e sua moglie, Gino Civitelli, Bruno Leoni, Raffaella Londei, Roberto Mallero, Marco Monaci, Gigi Pasquali, Laura Pica, Sergio Picchi, Gabriele Righetto, Pino Sansoni, Luigi Scaglioni, Daniele Sogni, Fabrizio Trisciani. Quando vivi in strada per quasi un mese, comprendi fino in fondo il valore dell’ospitalità e dell’accoglienza. In tanti mi hanno aperto le porte della loro casa per un bicchiere d’acqua o per offrirmi un tetto. Come Andrea Agogliati o Elena Coppellotti, per esempio. Grazie ai «tre uomini in barca» che mi hanno traghettato verso Roma: Mauro Piersanti, Paolo Cruciani e Alessandro Sestili. Se questo viaggio è stato unico è anche grazie a loro. Più di tutti ringrazio la cara amica Ileana Schipani, sindaco di Scontrone (AQ), che sarà ricordata anche per avere liberato le acque del fiume Sangro dal cemento. Donna appassionata e determinata, ha creduto in questo viaggio fin dall’inizio, guidandomi con preziosi consigli.