Nelle città nascoste 9788855291101, 9788855291118

«L'asfalto era gelido, la neve pareva quasi calda. Ci ricopriva maternamente. Riuscivo a sentire il debole battito

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Gli altri e noi
Quest’uomo è davvero mio padre?
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Nelle città nascoste
 9788855291101, 9788855291118

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Natàlia Cerezo

Nelle città nascoste

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 9

Natàlia Cerezo

Nelle città nascoste Traduzione italiana di Emanuela Forgetta

La traduzione della presente opera è stata realizzata con il contributo dell’Institut Ramon Llull.

Titolo originale A les ciutats amagades © 2018, Natàlia Cerezo Originally published by: Rata All rights reserved © 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 9 – giugno 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-110-1 ISBN – Ebook: 978-88-5529-111-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Baum mit Straße im Nebel © tomtom747 – stock.adobe.com

A mia madre

Nel mio abito estivo sbracciato non ho protezione, loro invece sono tutti guantati e coperti, perché nessuno mi ha avvertito? Sorridono e tirano fuori veli puntati a cappelli vetusti. Sylvia Plath, Il convegno delle api (tr. it. di Anna Ravano)

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Gli altri e noi Introduzione di Emanuela Forgetta

“Chi sono gli altri e chi siamo noi?”, si chiede Natalia Ginzburg ne I rapporti umani1. Esistono così come ci appaiono o, in qualche modo, li inventiamo noi? E se fosse davvero così, se fossimo noi a volerli in quel modo e, d’accordo con la nostra percezione, ne manipolassimo l’aspetto fenomenologico? Decidiamo che gli altri sono e ci appaiono con tratti decisi e inequivocabili, revochiamo la nostra decisione e, subito, ci dileguano tra le mani come nubi2. A un certo punto, cambiamo idea, ci diciamo che gli altri non esistono e neppure il loro giudizio su di noi. Ce ne convinciamo, ma qualcosa non torna perché continuiamo a soffrire per il disprezzo altrui; anzi, ci pare quasi di meritarlo, quel disprezzo, tanto goffi e gravi siamo. Ci impauriamo e fuggiamo, pensando che al chiuso della nostra tana non soffriremo più. Come fa Sofia, iniziamo a mancare agli appuntamenti, per codardia, non per convinzione, ma poi rimaniamo a pensare a come sarebbe stato se avessimo accettato: seduti a terra, coi 1.  Cfr. N. Ginzburg, I rapporti umani, in Ead., Opere, Mondadori, Milano 1986, vol. I, pp. 861-882: p. 864. 2.  Cfr. C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1968, p. 109.

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vestiti discinti, il trucco che ci riga penosamente il viso. Quando ci accorgiamo che è tardi per cambiare idea, non potremo far altro che ascoltare l’eco vuota dei loro passi lungo le scale. Capiamo allora che scappare non è servito a molto e, timidamente, torniamo a farci avanti. Ci ripresentiamo all’incontro con l’altro sperando che, stavolta, l’urto non ci imponga la fuga. Accettiamo l’invito e, come Ona, andiamo alle loro feste. Inutilmente, subito ce ne pentiamo, e andiamo a sederci in disparte, su qualche sedia solitaria rivolta verso la parte meno illuminata della stanza. Quando ci alzeremo perché sarà ora di andare, non saremo che un resto tra i resti e ci faremo strada tra i bicchieri vuoti che rotolano a terra e le lanterne di carta rotte, calpestate e molli. Solo in poche occasioni avremo l’ardire di rettificare la nostra scelta. Ciò che avrebbe dovuto inibirci sarà proprio ciò che ci darà coraggio e infileremo la prima strada che porta al mare. Ascolteremo il canto ritmato dei grilli, lungo il cammino, e osserveremo il bagliore intermittente delle lucciole. Giunti a destinazione, pianteremo con decisione i sandali nella sabbia e inizieremo a risalire lo strapiombo. Finalmente in cima, ci sporgeremo con cautela e sentiremo un po’ di naturale paura. Capiremo allora che se non è subito non sarà più e ci lanceremo dall’alto, rimanendo in sospeso tra le stelle e il mare. Solo dopo che le nostre dita avranno toccato il fondo, e avranno imposto la spinta verso l’alto, capiremo la portata rivoluzionaria della nostra scelta: i nostri occhi, appena riemersi dall’acqua, vedranno sopra di sé rifulgere Venere, la luna e tutte le altre stelle e i pianeti, e saremo insieme, senza immaginarlo neppure, il filosofo e la ragazza trace; saremo come la giovane protagonista di Salto e la presenza degli altri non avrà ancora scavato in noi, ci affascinerà il cosmo senza l’ossessione di un arché. Diffidiamo degli altri, tuttavia assegniamo loro un ruolo decisivo nel compimento della nostra felicità: ci sforziamo di

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piacere, imploriamo la loro approvazione; da taluni, come fa Genís, esigiamo addirittura di essere amati. Non accettiamo di sottostare al giudizio altrui, tuttavia neghiamo agli altri la libertà rispetto al nostro giudizio e l’estraneità a certi nostri melodrammi; in cui noi siamo le vittime, loro i carnefici. E se invece di complicare le cose restassimo semplicemente a guardare il moto compiuto dall’altro, quello ideale, in nostra direzione, pur non spostandosi un millimetro da sé? Movimento che diviene formula incipitaria visto che è l’altro la genesi del discorso, non l’io. I protagonisti di Cuore lo hanno fatto, si sono aperti all’epifania dell’altro senza paura, apponendo così la parola fine all’anarchia del medesimo. Ci verrà forse in mente Lévinas quando, in un’intervista, affermava che l’altro non gli era indifferente, che l’Altro in qualche modo lo riguardava, giocando con il doppio significato di regarder, che in francese indica ciò di cui ci occupiamo, ma anche il “guardare in faccia”; guardare in faccia qualcosa o qualcuno e degnarlo così di considerazione3. È occupandomi dell’altro, dunque, che sperimento un’alterità totale in grado di sfuggire al mio controllo e di imporre alla mia traiettoria una direzione esogena che dalla chiusa totalità può condurmi all’infinito? È a questa conclusione che giunge istintivamente Shiya – occhi da cacciatore, in cui palpitano la lotta e l’ostilità del ghiaccio –, una volta tornato uomo tra i suoi? Il rispetto dell’alterità totale diviene in lui precetto e perciò dona al suo villaggio l’intero frutto della caccia? Non lo possiamo sapere, così come non sappiamo sapere perché, il più delle volte – come avviene per Xavi, Ariadna e Lena –, all’incontro epifanico veniamo meno. Forse per l’in-

3.  Cfr. E. Lévinas, Il volto dell’Altro, intervista di R. Parascandolo e S. Benvenuto, in «Antologia del TEMPO che resta», 6 ottobre 2011, disponibile all’indirizzo: https://antemp.com/2011/06/10/emmanuel-levinas-il-voltodellaltro-intervista-di-renato-parascandolo-sergio-benvenuto.

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fantile egoismo che sedimenta nelle pieghe dell’io, o per l’esatto contrario: per una sofisticazione di questo. Che sia una cosa o l’altra, il risultato non cambia e continuiamo a restare nell’unico spazio a noi noto: lo spazio di uno stesso; e di nuovo ci assale la brama di cercare negli altri ciò che ci spaventa. Ci mettiamo a scavare con rigore le nerborute radici che si frappongono tra gli altri e noi, restando a guardare, una volta finito, la terra scura che finalmente respira. Ne siamo compiaciuti come poche volte ci è accaduto nella vita, ma è una sensazione che dura poco perché immediatamente vediamo riemergere, attorcigliate e dure, le temibili radici che credevamo aver tolto con cura. È in quell’istante che ci balena nella mente l’idea di una condanna, di una ripetizione all’infinito come in quel mito che non riusciamo a ricordare. Accanto ad essa, un’intuizione chiara e folgorante: noi non perseguiremo, né eviteremo alcunché. Capiamo allora che soltanto vivendo con distacco il mondo è possibile che la felicità accada, ma se così non fosse neanche ci turberebbe perché, come chi vive nelle città nascoste, neanche l’attendiamo.

Nelle città nascoste

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Incendio

Anni dopo, prima che Roc si trasferisse all’estero per lavoro, tornammo al camping. Oltre la staccionata si diramavano viali spettrali, dal selciato sconnesso e ricoperto d’erba. Nelle piazzole l’erba arrivava alle ginocchia e s’era formata una sorta di boscaglia d’alberi secchi e rachitici. Ritrovammo il posto in cui era stato il nostro camper e ci mettemmo a cercare tra i cespugli un indiano di plastica che Roc aveva perso l’ultima volta che eravamo stati lì, ma non lo trovammo. Il bar era ricoperto di rampicanti. Pareva tutto intatto dal giorno dell’incendio. C’era il videogioco a gettoni arcade, bruciato in un angolo, e il frigo dei gelati col vetro rotto. Sul bancone c’erano piatti e bottiglie scheggiati e la testa di cinghiale che aveva imperato su una delle pareti della sala da pranzo, rimasta inaccessibile dietro i calcinacci di una parte del soffitto crollato. In piscina, non c’erano più le docce ed era tutto ricoperto di piante. Crescevano ovunque, anche tra le crepe del fondo, attorno a una pozza d’acqua stagnante con dentro una ninfea. Roc si sedette sul bordo, come aveva fatto tante volte d’estate, io presi una piccola piastrella azzurra e la infilai in tasca.

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Era un’estate torrida e c’erano stati incendi in tutto il paese. Mamma stava già male. Qui in ospedale si annoiano, sarebbe opportuno fargli prendere un po’ d’aria, disse un giorno di fine giugno, e così papà, come ogni anno, ci portò in campeggio e, come ogni anno, fissammo la veranda, aprimmo i finestrini del camper e Roc appoggiò la bici all’albero della piazzola. Quell’anno però non fu come gli altri e, dopo neanche una settimana che eravamo lì, papà ricevette una chiamata urgente dall’ospedale e dovette ritornare a casa. Prima di andar via ci baciò la fronte e ci disse di stare tranquilli, di prepararci dei panini per cena e, soprattutto, di non andare a letto tardi. Cenammo e leggemmo un po’, poi io e Roc ci stendemmo ognuno sul suo letto e provammo a dormire. Entrava una lieve brezza dai finestrini. Si sentivano i grilli e il chiacchiericcio delle altre famiglie, alcune di esse giocavano a carte. Mi rigirai nel letto per un po’ finché decisi di alzarmi. Roc mi tirò per i pantaloni del pigiama chiedendomi dove stessi andando. – In piscina. – Ma è notte! – Non riesco a dormire. – Neanch’io. Roc mollò i miei pantaloni. – Verrò con te e farò la guardia che non arrivi nessuno. Uscimmo di nascosto come se mamma e papà fossero lì e andammo verso la piscina. All’imbocco del viale vedemmo delle lucciole che brillavano come stelle. Scavalcammo la recinzione ed entrammo. Per fortuna, il cielo era limpido e riuscivamo a vedere bene. L’acqua rifletteva la luna per metà. Lasciai gli occhiali al sicuro sul bordo e mi tuffai in acqua. Temevo di far rumore e che sarebbe venuto qualcuno a rimproverarci, ma già da un po’

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non si udivano voci e tra i camper e le tende regnava il buio. L’acqua era fredda, ma dopo un paio di bracciate tornai a star bene. Roc era seduto sul bordo, con le gambe in acqua. Muoveva i piedi e guardava il cielo. Nuotavo da un capo all’altro della piscina, a stile libero o a rana, poi andavo sott’acqua con gli occhi aperti e con la punta delle dita percorrevo il bordo sporgente delle mattonelle. Se guardavo in su, da sott’acqua vedevo il cielo, sembrava un miraggio. Quando mi stancai, andai a sedermi accanto a Roc, che mi passò l’asciugamano che avevamo portato. Restammo in silenzio fino al sorgere del sole, un raggio di luce gialla e calda al di là delle montagne. Era ormai giorno quando, tremanti, arrivammo al camper. La settimana dopo, papà la trascorse andando avanti e indietro, dal camping all’ospedale e dall’ospedale al camping, fino a quando si rese conto che era insostenibile. Dopo aver parlato con la mamma, decisero che potevamo restare da soli per il resto dell’estate, ormai eravamo abbastanza grandi. – Darò io uno sguardo a questi due – disse Montserrat, la signora che occupava la piazzola davanti alla nostra e che conoscevamo da anni, alla quale papà aveva cortesemente chiesto di badare a noi. – Se vogliono, possono venire tutte le sere a cena da noi così non si sentiranno soli. Puoi andare via tranquillo, se succede qualcosa ti telefono. Il giorno che andò via, papà mi abbracciò e mi disse che, se cambiavamo idea, potevamo tornare a casa in qualsiasi momento, ma l’idea di rimanere lì per il resto dell’estate e, soprattutto, di dover andare tutti i giorni in ospedale, con quell’afa e quell’odore di malattia, mi fece venire un nodo alla gola. – Andrà tutto bene. E poi, qui al camping ci conoscono tutti. Vai e fai compagnia alla mamma.

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Una volta soli, io e Roc facemmo vita monastica. Ci alzavamo verso le otto, facevamo colazione con Montserrat e suo marito (eravamo arrivati a questo accordo perché l’idea di cenare ogni sera con loro proprio non ci piaceva) e rimanevamo in piscina fino alle dieci, un po’ prima che iniziasse ad affollarsi. Poi facevamo una passeggiata nel bosco e trascorrevamo il pomeriggio distesi sul prato o accanto al torrente, lontano dal ponticello dal quale i bambini lanciavano barchette di carta che affondavano dopo essersi convertite in una poltiglia macchiata di blu. Non ci separammo mai, anche se non parlavamo molto. Un giorno, degli amici di Roc vennero a chiamarlo. Sentii che dicevano di andare alla cascata. Dopo neanche un’ora, Roc tornò a testa bassa. – Non eravate andati alla cascata? – Non ci voglio andare più. Lo lasciai stare e gli preparai un bicchiere di latte con dei biscotti. Quando faceva così, era meglio lasciarlo perdere. Dopo aver fatto merenda, guardò il fondo della tazza e disse: – Hanno detto che c’è il fantasma di un ragazzo morto. E che se guardi in fondo allo stagno lo vedi uscire dall’acqua, ti prende dalla nuca e ti porta via per sempre. – Non posso credere che tu ti beva una storia così… Roc sprofondò ancora di più con lo sguardo nella tazza e smosse la poltiglia di latte e biscotti rimasta sul fondo. – Domani dobbiamo andare in ospedale a trovare la mamma… Presi un biscotto. Ogni venerdì, papà veniva a prenderci al camping per andare a trovarla in ospedale. Le portavamo dei fiori di campo, piccolissime fragole che sapevano di bosco e pietre colorate che avevamo trovato in fondo al torrente. Una volta nella sua stanza, la ricoprivamo di abbracci e baci. Buttavamo i fiori della settimana precedente, riempivamo il bic-

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chiere con l’acqua del rubinetto e ci mettevamo i fiori freschi, in verità già un po’ appassiti e smorti che parevano sul punto di dissolversi. – Dai, accompagnami al negozio prima che chiudano. È finito il pane. Quell’estate non dormii neanche una notte. Immagino che, di tanto in tanto, sprofondassi in un sonno pesante mentre leggevo, ma non posso pensare a quelle settimane se non come a una lunga e calda veglia. Ogni notte, mi intrufolavo in piscina. Ritornavo quando ormai il cielo era grigio e i raggi del sole gialli e caldi apparivano tra le montagne. All’inizio, Roc mi accompagnava, ma col passare dei giorni, eravamo soli da un po’, a mezzanotte cadeva stanco morto nel letto e si addormentava. Allora, indossavo il costume, prendevo l’asciugamano e attraversavo il camping deserto. Mi piaceva ascoltare il canto dei grilli, il venticello fresco e umido che veniva dal fiume, il fruscio degli alberi, la ghiaia che scricchiolava sotto i miei piedi. Saltavo la recinzione e mi tuffavo in acqua. Mi tornava in mente l’estate di tre, quattro anni prima. I ciottoli all’imbocco del viottolo in cui volteggiavano le lucciole sono resi roventi dal sole e papà insegna a nuotare a Roc. Mamma legge una rivista, a mezzogiorno dice dai su!, e allora usciamo dall’acqua, ci riempie di crema fino a farci sembrare di panna e poi andiamo a mangiare. Trascina sempre con sé la stessa borsa rosa, bianca e logora, piena di pietre, di flaconi di crema mezzo vuoti e di teli asciutti che odorano di pulito. La sera rimaniamo ancora a tavola dopo cena e, mentre papà fa il caffè, mamma ci racconta un altro capitolo del libro che sta leggendo, come se fosse un racconto. Io e Roc ascoltiamo attenti, questo momento odora di prato bagnato e caffè, e le parole di mamma sembrano leoni leggendari e deserti colorati.

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Una notte incontrai David. Ci incontravamo ogni estate. Avevo sentito dire che quell’anno era venuto con degli amici in tenda. Stava andando in piscina quando lo vidi, appoggiato a uno dei muri del bagno mentre fumava una sigaretta. – Ona! – Ciao, David. Guardò il telo. – Che ci fai qui a quest’ora? Gli confessai, con un po’ di vergogna, che di notte m’intrufolavo in piscina per andare a nuotare. David buttò la sigaretta a terra e mi chiese se poteva accompagnarmi. Gli dissi di sì. Quando andò a prendere il costume, senza che se ne accorgesse, pestai il mozzicone, ancora fumante, nell’erba. – Andiamo. – Mi appoggiò il braccio sulla spalla e tutta quella familiarità mi parve irreale. Mi tuffai in acqua e David si mise a fumare a bordo piscina. Quando iniziò a fare giorno, mi sedetti accanto a lui. – Mi dispiace per tua madre. Anche se avevo l’asciugamano sulle spalle, tremavo. La luce era grigia e plumbea, sarebbe stata una giornata nuvolosa. – Grazie. I tuoi come stanno? David fece un sorrisetto e lanciò il mozzicone lontano, sulle piastrelle dall’altra parte della piscina. – Be’, quest’anno mi hanno dato il permesso di venire con i miei amici e loro sono rimasti a casa. Dicono che per quest’estate vogliono starsene in santa pace. È tutta un’altra cosa senza i genitori, vero? – Sì! – Ogni sera organizziamo una festa. A volte, quelli del bar ci fanno rimanere per tutta la notte. – Accese un’altra sigaretta. – Dove ti eri cacciata? Non ti ho visto per tutta l’estate.

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– Qui e là… devo badare a Roc. David rise generando delle piccole onde in acqua. – Ma se è sempre stato più responsabile di te… Ricordi la nostra fuga di tre o quattro estati fa? O quando mi hai sfidato a fare la discesa del bar di schiena con la bici? – Prendesti una bella botta… – Sorrisi. – I tuoi genitori si arrabbiarono molto. – Però fu divertente. Restammo in silenzio a lungo. Era ormai giorno, ma poiché il cielo era nuvoloso a stento si capiva. L’acqua era diventata grigia e l’afa iniziava a farsi sentire. Dagli alberi si udivano i primi uccelli. Pensai che di lì a poco sarebbero state le otto, Roc si sarebbe svegliato e non mi avrebbe trovata nel letto. – È tardi. – Mi alzai. – Ci vediamo. – Domani organizziamo una festa al bar. Vieni? – No, non credo. Domani è venerdì, andiamo a trovare la mamma. Da quella notte cercai di evitare David. Quando uscivo per andare in bagno o a lavare i piatti, lo vedevo con i suoi amici. Fumavano quasi tutti e cantavano, alcuni suonavano la chitarra. Era venuto in vacanza con due ragazzi e due ragazze, ma spesso si univano a loro anche altri ragazzi del camping. Venerdì, una volta tornata dall’ospedale, mentre ero in piscina notai un palpito rosso nell’acqua e mi venne in mente la festa. Finita la musica, vidi dei tipi barcollanti che urlavano alle stelle. Mi nascosi tra i cespugli e aspettai che se ne andassero. Qualche giorno dopo, David mi aspettava. Aveva scavalcato la recinzione, fumava con le gambe in acqua. Come l’altra volta, nuotammo e chiacchierammo un po’. Sul far del giorno, mi invitò di nuovo: – Dopodomani non hai scuse. Devi venire alla festa. Gli dissi di sì.

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Alla festa c’erano tutti. Il bar era pieno di fumo, di gente che rideva, che giocava a biliardino, che beveva o suonava la chitarra. Non vedevo David da nessuna parte e uscii sul terrazzo, pieno di luci colorate e lanterne cinesi che proiettavano ombre rosse. David parlava con delle ragazze in un angolo. Gli diedi un colpetto sulla schiena. – Ona, cara! – Mi abbracciò. Ma mi scansai subito, faceva molto caldo ed ero sudata. Parlammo per un po’ delle estati trascorse, poi David e le ragazze andarono a cercare qualcosa da bere e si allontanarono. Con tutta quella luce, avevo l’impressione di sciogliermi. Mi mancavano il buio e il fresco della piscina, lì non mi lacrimavano gli occhi né per il fumo, né per la stanchezza. Girai un po’ per il terrazzo e ogni volta che incontravo qualcuno che conoscevo volgevo lo sguardo alle montagne e fingevo di non averlo visto. Mi sentivo vecchia e triste. Vidi una sedia di plastica rivolta verso la parte buia del camping e mi ci andai a sedere. Mi tolsi i sandali lentamente. Quasi certamente mi addormentai, perché quando presumibilmente mi svegliai non c’era più tanta gente e si stava più freschi. Avevo i piedi freddi, i capelli impregnati di fumo e l’orlo del vestito macchiato. In terrazzo c’erano ancora delle persone, camminavano abbracciate poi si sedevano e dirigevano lo sguardo a terra. Si vedevano lanterne rotte, calpestate, molli, e un piccolo incendio nel posacenere che emanava un lieve sentore di carta e tabacco bagnato. Ne avevo abbastanza e me ne andai senza salutare. Stavo per tirare la porta del bar, con i sandali in mano, quando David mi afferrò il braccio. – Dove vai? – A casa. – Andiamo a fare un bagno. È ancora presto.

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L’acqua della piscina era fresca e azzurra. Vedevamo appena. David tirò fuori una candela dalla tasca e la accese. Mi tuffai in acqua vestita. Lavai via tutta quella sporcizia di rumore e luce, di fumo. Sott’acqua si vedevano riflessi blu e gialli. Le piastrelle brillavano. Tirai fuori la testa dall’acqua e mi avvicinai a David, che fumava a bordo piscina. – Non ti è piaciuta molto la festa, vero? – È stata bella. David buttò fuori il fumo. – È ancora presto. Ci possiamo tornare. David mi guardava come ci si guarda al cinema, al buio. – Quelle due ragazze… Uscii dall’acqua. – Torna alla tua festa, David. Il giorno dopo, papà chiamò al camping. Io e Roc eravamo sul prato. Vedemmo arrivare Montserrat di corsa; gesticolava e urlava. – Vostro padre…! Vostro padre…! Eravamo ancora a metà agosto. Mamma peggiorava. Non volevano dircelo, ma quando la vedemmo stesa nel letto, con gli occhi chiusi, capimmo. Era diventata trasparente. La camera era afosa e i fiori che le avevamo portato la settimana precedente erano marciti. Erano lì, imputriditi, nel bicchiere d’acqua stagnante che iniziava a puzzare. Intrecciava per me corone di rampicanti. Lo faceva sempre al ritorno dalla cascata, mentre papà e Roc si sfidavano con dei bastoni di legno o si arrampicavano sui massi e sui bordi del viale. Io e mamma rimanevamo leggermente indietro e chiacchieravamo fino ad arrivare al solito punto del bosco in cui

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tirava via un pezzo di rampicante da un albero, con cura gli dava forma e mi cingeva la testa. – La mia regina del bosco. Papà ci disse di non aprire la finestra perché la mamma aveva freddo. Ci disse anche che aveva la bocca arsa e per questo le davano dei ghiaccioli al succo d’ananas. Ogni tanto si muoveva e le lenzuola scricchiolavano come legni vecchi. A volte è così che la ricordo, con la pelle bianca come la luna e la camicia da notte che le avevano fatto portare da casa. Il pomeriggio successivo, venimmo a sapere dell’incendio al camping. In televisione fecero vedere le docce accanto alla piscina, saltate in aria per l’eccessivo calore. Restavano soltanto pezzi di metallo e carbone. Degli alberi che facevano ombra, era scomparsa ogni traccia, e mi intristii nel ricordare il vialetto che portava alle docce, con le vespe che vi ronzavano, il ticchettio delle gocce che cadevano sulle mattonelle. Papà spense il televisore e Roc iniziò a singhiozzare. La mamma aprì gli occhi e mi strinse la mano, assente. Roc dormiva sulla poltrona quando arrivò l’infermiera. Papà aveva chiamato Montserrat e lei era venuta a trovarci. Entrò portando con sé l’odore del bosco, aveva la pelle arsa dal sole. Portava i pantaloncini che le avevo visto indossare tante volte a colazione, e un cestino di vimini dal quale tirò fuori una scatola di cioccolatini mezzo sciolti dal caldo. Provai come una specie di vergogna per quelle nostre braccia pallide e giallognole come le pareti dell’ospedale; Montserrat pareva una bolla di sapone, fresca e inattesa, e temevo potesse volar via dalla finestra. Diede un bacio a tutti, anche alla mamma, che dormiva. Roc si svegliò e le offrì la sua poltrona. Montserrat vi si sedette e parlammo della mamma, di come stavamo e infine del camping.

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Ai camper non era successo niente, il fuoco aveva bruciato soltanto la piscina e il bar. Ci raccontò che, quel mattino, lei e suo marito erano stati svegliati dalla voce di un megafono che avvertiva dell’incendio divampato dall’altra parte della montagna, che sicuramente non sarebbe arrivato al camping, ma, per sicurezza, era proibito andare nel bosco e alla cascata. Avevano trascorso la giornata sotto un cielo fitto di nuvole rosse, avvolti dall’aria calda che sapeva di bruciato. Avevano mangiato dei panini per pranzo e avevano deciso di andare in paese per vedere se lì l’aria fosse più pulita. Erano stati tutti in pensiero, ma anche sicuri che i pompieri avrebbero presto spento il fuoco. Non si parlava d’altro: la maggior parte della gente era al bar per cui, quando arrivò il momento di evacuarli, fu tutto più semplice. Quando il fuoco arrivò al camping erano tutti già fuori da un po’. – Meno male che i bambini erano qui, se fossero stati lì da soli… – Scompigliò i capelli di Roc. – E non vi preoccupate per il camper e il resto, è tutto intatto. Pau ci chiamerà dalla reception e ci dirà quando potremo andare a riprendere le nostre cose. Roc si contorse, inquieto. – Questo vuol dire che l’anno prossimo non potremo andarci? Papà guardò la mamma. Venne un’infermiera a controllare la flebo e la temperatura, poi si allontanò con passi leggeri. – Vediamo come vanno le cose, Roc.

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Amore

Eva, in riva al mare, due estati fa. C’eravamo svegliate nella stanza d’hotel, la brezza fresca gonfiava le tende come un abito leggero. Andammo fino alla diga e riempimmo un secchio di granchi con i pantaloni arrotolati e le onde che si infrangevano sulle ginocchia. Una volta riempito il secchio, Eva lasciò andare i granchi uno a uno. Alcuni di essi cercarono riparo dietro le rocce e nelle pozze d’acqua salmastra, verde per la presenza d’alghe sottili come aghi di pino. Le onde riempivano le pozze di schiuma e i granchi agitavano le zampe. Eva prese il secchio e me lo mise in testa. Lo suonò a mo’ di tamburo e rise mentre lo faceva, poi me lo tolse e mi diede un bacio sulle labbra. La sera, mentre cenavamo al ristorante dell’hotel dai toni verdi e bianchi, ci fu un acquazzone. La pioggia picchiava sul tetto e sulla finestra. Alla luce dell’ultimo sole, vedemmo il mare grigio e furioso, sembrava una balena. Eva era preoccupata per i granchi: afferrammo un ombrello e andammo fino alle rocce a controllare. Si vedeva soltanto schiuma e ci inzuppammo dalla testa ai piedi.

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Fino a non molto tempo prima, Judith viveva nella casa accanto alla nostra assieme a suo marito e ai suoi tre figli, due bambini e una bambina, l’ultimo era un neonato. Le nostre camere da letto erano attigue e, a volte, io e Eva provavamo un certo fastidio nell’udire dei gemiti e lo smuoversi delle lenzuola. Altre volte, li sentivamo discutere a bassa voce, forse per non svegliare i bambini. Quando poi il marito se ne andò, sentivamo solo lei. Leggeva. Non la conoscevo bene, c’eravamo viste soltanto una volta nella gioielleria in cui lavorava, ma sapevo che le piaceva leggere perché la incontravo sempre al club di lettura del giovedì. Mentre Eva si addormentava, io e Judith rimanevamo a leggere fino a tardi; quasi sempre, leggevamo la stessa cosa (gli abominevoli libri che ci facevano leggere al club), ognuna appoggiata al proprio lato di parete. La sentivo girare le pagine. Al mattino, quando andavo a lavorare, la vedevo in giardino, sporca di terra con in mano i bulbi di tulipani. Indossava degli enormi guanti da giardiniere, di tessuto grezzo e azzurro come quello usato per le tute da meccanico. Alzavo il braccio per salutarla e lei ricambiava il saluto dicendo che sarebbe stata una bella giornata. Era fuori anche col brutto tempo, avvolta in un impermeabile, neanche fosse stata rinchiusa per anni e volesse tornare a sentire la pioggia, fresca e pulita, sulla pelle. Un pomeriggio andai nella gioielleria in cui lavorava per farmi cambiare la pila all’orologio, fu lei a servirmi. Indossava una camicia a fiori bianchi e teneva appuntato sul petto un cartellino rettangolare col nome. Sorrideva mentre, sollevando il coperchio, lasciava allo scoperto gli ingranaggi e le interiora dorate dell’orologio. Mi raccontò che un paio di settimane prima, quando i proprietari del negozio, la signora Maria e il signor Jaume, stavano per chiudere, un uomo dal volto coperto aveva rubato tutti i soldi dalla cassa, gli orologi e un bel fascio di catenine e braccialetti con tanto di date e nomi incisi. I proprietari del negozio, poverini, ne erano usciti quasi

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indenni: la signora Maria aveva riportato soltanto una ferita sul sopracciglio dovuta alla spinta del ladro in fuga, il signor Jaume, invece, aveva avuto i piedi freddi per tutta la settimana. Avevano deciso che erano ormai vecchi per occuparsi del negozio e, sapendo che Judith stava cercando lavoro, l’avevano assunta col salario minimo e un colpetto sulla guancia. Judith prese le pinze, tolse la pila e la sostituì. Gli ingranaggi iniziarono a muoversi e richiuse il coperchio con una certa soddisfazione. Le chiesi a che punto del capitolo che ci avevano dato da leggere fosse arrivata e mi disse che l’aveva già terminato. – Adesso ho più tempo per leggere – posizionò la lancetta sull’ora esatta e incassò i soldi. – Sono venuti i miei genitori per l’estate, così mi danno una mano. Eravamo a casa quando la madre di Judith tornò dalla spiaggia con i bambini tutti tremanti. Erano tornati di corsa con l’ambulanza per posare le borse, ancora piene di sabbia e teli umidi. Le luci gialle baluginavano in strada, noi e gli altri vicini di casa uscimmo, restando in piedi e in silenzio appoggiati ai cancelletti dei giardini. Non fosse stato per il rumore di un irrigatore a pioggia, avrei detto che il mondo si fosse ammutolito. Eva, dietro di me, chiese cos’era successo. La madre di Judith, con una borsa in una mano, il piccolino in braccio e i bambini al seguito, le porse la borsa e il piccolo dicendo: Eva, cara, potete badare a loro finché non torniamo? E iniziò a piangere. Eva annuì e la donna risalì sull’ambulanza. Andai a prendere la culla e i pigiami dei bambini nella loro casa. La nonna ci aveva lasciato anche le chiavi, erano nella borsa. La casa era buia perché le persiane erano abbassate e odorava di tappeti nuovi e diffusore alla lavanda. La culla era nella stanza da letto, una versione a specchio della nostra. La testiera del letto era in legno scuro lavorato e, su una mensola,

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c’erano i libri di Judith. Tutti i libri che avevamo letto al club, in fila. Parevano nuovi, con i dorsi lucidi e intatti. Accanto al letto, l’angolo dedicato alla poesia. Mi sedetti e ne aprii alcuni. Erano edizioni bilingue di autori moderni. A differenza di quelli del club di lettura, erano sottolineati e annotati. Li rimisi al loro posto, con la stessa vergogna di chi profana un segreto. Al club non aveva mai parlato di poesia, pensai mentre prendevo la culla e scendevo le scale; era sempre silenziosa, leggeva i capitoli assegnati (anche se sospettavo che andasse oltre) e prendeva appunti in un quaderno a spirale con una grafia nera e stilizzata come quella di una lingua esotica. Misi la culla ai piedi del letto e cercai di far addormentare il piccolo. Di sotto, Eva esortò gli altri due bambini ad andarsi a lavare le mani mentre aspettavano che arrivasse la pizza, e loro le domandarono dell’atlante appoggiato sul tavolo della sala da pranzo. Eva glielo mostrò e i bambini dissero di non essere mai stati in Messico, poi chiesero quale film avremmo visto. Andò tutto liscio fino a quando, dopo il film, uno dei bambini, mezzo addormentato, chiese come stava la madre. Eva rispose, con fare serio e onesto (anche perché i bambini le davano noia e non sapeva come prenderli), che non lo sapeva e poi si fece raccontare da loro cos’era successo. Il bambino disse che erano andati in spiaggia e si erano divertiti fino a che la madre, poco prima di pranzo, aveva detto che sarebbe entrata un attimo in acqua e che sarebbe uscita subito. La nonna era occupata a tirare fuori i panini e i portavivande dalla borsa e non s’era accorta di nulla; lui però l’aveva vista entrare in mare e mettersi a nuotare. Pensava che si sarebbe fermata alla boa, invece l’aveva vista proseguire, poi era stato distratto dalla nonna e dal panino e quando aveva alzato lo sguardo sua madre non c’era più. La nonna guardava all’orizzonte e diventava sempre più nervosa, fino a che era andata di corsa verso il bagnino. Era dispersa in mare, ci disse la nonna il giorno dopo, quando venne a prendere i bambini. Avevano trascorso la notte in

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ospedale perché il nonno per il troppo dispiacere si era sentito male, e al mattino presto la polizia aveva chiamato per dirgli che non l’avevano ancora trovata. Ognuno disse la sua, raggruppandosi in strada come davanti alle bancarelle del mercato. Amavano riempirsi la bocca, neanche fosse cioccolata, di quella notizia apparsa sul giornale tra un annuncio pubblicitario e l’altro. Diedero la colpa al marito ed erano quasi certi che in mare, accanto a uno scoglio che lei aveva raggiunto a nuoto, ad aspettarla ci fosse il suo amante in barca che l’avrebbe condotta in luoghi esotici pieni di palme e dalle acque cristalline. Eva promise di preparare il pranzo e lavare i piatti se fossi andata a fare la spesa. Presi la borsa di paglia, aprii il cancelletto e mi resi conto che Eva non usciva da giorni. Affondava il naso nel libro che più le piaceva, l’atlante, e colorava giungle in Brasile. – È una crudeltà aver lasciato i bambini da soli – disse il macellaio mentre avvolgeva nella carta le salsicce e il pollo, e io feci di sì con la testa, senza badarvi. Ma, uscendo dalla macelleria, mi prese una forte rabbia e ebbi voglia di tornare indietro e sbattergli sul bancone la carne. – Il paese… – disse Eva quando tornai e le spiegai il fatto, mentre era assorta in quei luoghi verdi, gialli e magenta dell’America del Sud. Seguiva un fiume con una matita azzurra. Dopo che ebbe terminato di colorare, mentre preparava il pranzo, mi misi a guardare il suo atlante. C’erano ancora delle pagine in bianco e nero. Il dottore ci aveva detto che colorare le avrebbe fatto bene. Lentamente e in modo disciplinato. L’incontro al club di lettura non fu annullato. Chiamai Pep e mi confermò che ci sarebbe stato, perché a lei avrebbe fatto piacere. Sapevo a cosa andavo incontro, ma avevano deciso di

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leggere un libro serio, Le onde, e non uno dei soliti bestseller consigliati dal libraio, un uomo minuto con gli occhiali tondi che sistemava i libri sullo scaffale per colore. Eva non veniva mai, non le piaceva leggere e neanche conversare. – Che disgrazia – dicevano quando entrai, mentre palpeggiavano le copertine dei libri. Sedevamo nel retrobottega della libreria dove, a volte, si facevano presentazioni o incontri. C’era una pedana con sopra un lungo tavolo e, davanti, una ventina di sedie. Erano tutte diverse, e al libraio piaceva raccontare, mentre ripuliva le minuscole lenti degli occhiali con un lembo di camicia, di come le aveva trovate a buon mercato a Barcellona e che erano tutte diverse perché ogni libro è un mondo a sé. Gli altri annuivano. – Ho preparato del caffè. – Il libraio mi toccò il braccio e mi invitò a sedere. – Credo proprio che oggi ne avremo bisogno. – Non l’hanno ancora trovata, e non penso che la trovino – disse la signora Montserrat con il suo pechinese in grembo che rosicchiava la copertina del libro. Amava i romanzi di spionaggio e credeva a ogni sorta di complotto. Raccontò che l’amica di una sua vicina era stata sequestrata ed era finita in una rete di traffico di esseri umani. Era in vacanza a Lloret e voleva comprarsi un costume nuovo visto che suo figlio, tirandola, le aveva rotto la bretella di quello che indossava. Era entrata in uno di quei negozi che vendono salvagenti, teli da mare e secchielli colorati. Era andata nel camerino e pam!, si era aperta una botola sotto i suoi piedi ed era scomparsa per sempre. Montserrat fece una pausa e tolse la copertina dalla bocca del cane, le zanne vi avevano lasciato due segni bianchi e profondi. Ma non è la stessa cosa, disse Joan, giornalista del paese e amante della radio, lui sapeva cos’era successo ma non poteva dirlo. Tutti lo incitarono a parlare ma lui alzò le mani scusandosi.

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– Mi dovete perdonare. – Bevve un sorso di caffè per ricreare una pausa drammatica. – È per rispetto alla famiglia. Hanno sopportato già troppo. – Poveri bambini. – Il libraio si fece vento con Le onde. – Già erano senza padre, ora anche senza madre. – Il padre ce l’hanno. – Guardai il libraio negli occhi. La mattina, mentre innaffiavo il giardino, avevo visto la nonna e il padre dei bambini. Lei aveva il volto rosso per il pianto e, quando la salutai, si soffiò il naso. Mi disse che il padre avrebbe portato con sé i bambini fino a che non l’avrebbero trovata. Ti rendi conto?, aveva aggiunto prima di abbassare lo sguardo, ho ancora la speranza che Judith torni. Il libraio sfogliò il libro, nervoso. – Immagino abbiate capito. – Cercò gli sguardi complici degli altri e mi chiese: – Come sta Eva? È molto turbata? – Sta bene. Cosa avete letto questa settimana? La signora Montserrat disse che con tutto quello che era successo non c’era riuscita, ma che aveva deciso di venire ugualmente per tirarsi un po’ su, perché quel che era successo l’aveva turbata. Gli altri le diedero ragione, e quando ricominciarono con la stessa storia mi alzai e me ne andai. Quando tornai a casa, Eva stava colorando le mappe. Colorava pinguini e orsi polari dell’Artico con gli acquerelli. I pinguini erano rosa e gli orsi prendevano il tè, malinconici, su una lastra di ghiaccio. Dopo cena, visto il caldo, ci stendemmo sul letto con le finestre aperte. Non avevamo sonno ma non sopportavamo più l’afa della sala da pranzo. Ci stendemmo l’una accanto all’altra. Faceva troppo caldo per abbracciarci. Eva mi chiese perché fossi tornata prima.

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– Non mi andava di rimanere. Non facevano che parlare della stessa cosa. Una brezza fresca gonfiò le tende come in hotel. Il giorno dopo non era rimasta traccia dell’afa, rimaneva soltanto il mare, azzurro e brunito. Eva non ricordava più i granchi e prendeva il sole con la schiena arcuata. Pensai che, se mi avessero dato qualche giorno di ferie, ci saremmo potute tornare. Il dottore ci aveva consigliato un cambio d’aria, ma quest’anno non potevamo permettercelo. Eva non si era ancora ripresa. – Credi che stia bene? Stavo per addormentarmi mentre pensavo alle vacanze, alla spiaggia e al dottore. La abbracciai. – Spero di sì. – Forse voleva solo fuggire da tutto. Mi parve di udire una giustificazione nella voce tremante di Eva. La luce della strada faceva diventare la stanza arancione e i suoi capelli sembravano lava fusa. Mi strinse forte la mano. – Vorrei soltanto dormire. Questa cosa gliel’avevo sentita dire di continuo, a voce bassa, appena arrivate in quella casa. Ora era sua, ma continuava a essere invasa dalle cose di suo padre, scatole, una gran quantità di immagini polverose di pecore e pastori, mobili scuri che toglievano luce. Un pomeriggio, tornata dal lavoro, l’avevo trovata stesa a terra con le braccia spalancate. Dai tagli sui polsi uscivano dei rivoli rossi che si spargevano sulle mattonelle. In camera da letto faceva freddo. Chiusi la finestra e tirai su il lenzuolo. Eva rannicchiò le gambe e io la abbracciai da dietro. I suoi capelli divenivano fredda pietra. La notizia pian piano si andò spegnendo per le strade del pae­ se. Nessuno parlava più di Judith. Ogni tanto sentivamo suonare il telefono nella casa accanto e Eva smetteva di mangiare

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il gazpacho, l’insalata o qualunque altra cosa stessimo mangiando e incollava l’orecchio alla parete. Sprofondò in un ostinato silenzio. Quando tornavo dal lavoro, invece di trovarla a dipingere, la trovavo in giardino. Fumava seduta sul gradino della porta che dava al patio, in ciabatte e con i capelli raccolti, mentre percorreva con occhi febbrili il fumo della sigaretta. Chiesi di anticipare le ferie, ma non fu possibile. Quando incontravo la nonna, le chiedevo di Judith e dei bambini. E lei mi rispondeva che continuavano a pattugliare l’oceano con elicotteri e lance a motore. L’avevano cercata ovunque. Erano passati tre, quattro giorni, una settimana. Il settimo giorno squillò il telefono a casa di Judith. Quel timbro insistente e ovattato che passava al di qua della parete, pareva provenire dal fondo del mare. La nonna prese il telefono e io mi misi a sedere sul letto. Alla mia sinistra, Eva dormiva, pallida. Un raggio di sole penetrava dalla finestra, attraversava la tenda e le dipingeva una palpebra d’oro. Dall’altra parte della parete, sentii come la nonna riattaccava. Per un po’ non si udì nulla, soltanto gli scricchiolii della casa e il respiro di Eva. Era domenica. Sentii il rumore della porta accanto, poi il suono del campanello. Mi infilai i pantaloni e scesi di corsa. – Hanno trovato qualcuno che le somiglia. – disse la nonna con la borsa blu e il nonno appiccicato alle spalle. – Ci hanno chiamato per l’identificazione. – Vi accompagno. L’avevano portata all’ospedale della costa. Il pronto soccorso pullulava di persone con punture di medusa, bruciature, ferite insanguinate e piene di sabbia. L’aria condizionata non funzionava, tossiva e alternava aria fredda e aria calda. Si sentiva l’umidità e la puzza di sudore, crema e salnitro. Ci sedemmo su delle sedie di plastica e aspettammo. La nonna alzava lo sguardo ogni volta che qualcuno entrava e usciva e sedeva a

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gambe strette con la borsa sulle ginocchia. Mi mostrò il suo contenuto. Il portafogli di pelle di Judith. Un cambio, dei pantaloni e la camicia a fiori bianchi che indossava il giorno che andai in gioielleria. Le onde, con una margherita secca come segnalibro all’ultima pagina. L’aveva trovato sotto il letto il giorno che erano andati via i bambini. – Ha questo vizio da quand’era piccola, sai? Nasconde le cose. Da quando i bambini sono andati via, la casa sembra ancora più vuota. Mi sono seduta sul letto e mi è venuta in mente quella volta in cui ripulivo casa, Judith aveva sugli undici, dodici anni. Sotto il letto trovai una scatola con alcune sue cose. Un diario, appunti e poesie, fiori secchi e libri che aveva comprato di nascosto. L’altro giorno ho trovato soltanto il libro. Non mi piace rovistare tra le sue cose, ma ho dovuto farlo. Volevo capire. – Le restituii il libro e lei rimise di nuovo tutto in borsa, ben ripiegato. – Credi che mi perdonerà? Non sapevo che dirle. Dopo un po’, un infermiere le chiese di seguirlo. È come se, una volta morti, ci dissolvessimo come sapone. Judith lasciava un sedimento bianco, pulito e leggermente appiccicoso. Delle correnti fredde e misteriose avevano trascinato il suo corpo fino a una lontana isola rocciosa. Era rimasta intrappolata tra gli scogli come un polpo. Un infarto, disse la nonna in macchina, le mani intrecciate, la borsa azzurra chiusa sulle ginocchia. Non disse altro durante il tragitto; ai bambini, però, non l’avrebbe detto così. Ci ritrovammo nella sala mortuaria ed entrammo a turno. La bara era chiusa e protetta da una teca di vetro, riproducendo una sorta di effetto matrioska. Chissà se l’avevano vestita o la seppellivano in costume. Mi veniva in mente l’immagine dell’estate precedente di lei in piscina con addosso il costume

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blu incrociato sulla schiena. Si era tuffata dal trampolino producendo un’impercettibile schiuma. C’era ancora suo marito. Guardavo Judith nuotare sott’acqua per poi riemergere, con i capelli più scuri e gli occhi rossi, tra i suoi due figli che nuotavano col salvagente. Proprio non capisco, pensai. Eva mi strinse la mano come se avesse sentito l’eco di quel mio pensiero e mi tirò a sé. Fuori la sala mortuaria il caldo ci piombò addosso, pesante come una tenda.

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Settembre

Júlia lascia l’ombrello accanto alla porta, su un fascio di ombrelli umidi, e sbatte i piedi a terra per far saltare il fango che le è rimasto attaccato alle scarpe. A terra, all’entrata, è pieno di orme bagnate e infangate e la pioggia picchia sul tendone. L’orchestra suona una canzone ritmata, c’è gente che balla e il bancone del bar è strapieno. Emma è in un angolo della pista. – Hai fatto tardi. È cominciato già da un po’. – Stavo aspettando che spiovesse. – Júlia si toglie la giacca. – Non smette di piovere. – Sembra che il sole non voglia più uscire. Emma smuove il ghiaccio della sua bibita con la cannuccia, la beve e lascia il bicchiere a terra. Prende Júlia sottobraccio. – Hai lasciato Arnau? – Non l’ho ancora visto, oggi. L’orchestra fa una pausa e tutti applaudono. Júlia ne approfitta per andare al bancone e Emma la accompagna. Attraversano la pista passando accanto a dei ragazzi che ballano senza musica, un bambino passa veloce tra le loro gambe facendo sollevare le gonne.

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Ordinano rum e cola e, dopo la pausa, l’orchestra rallegra il pubblico suonando una canzone dal ritmo veloce. Sono bravi come quelli dell’anno scorso, le grida Emma all’orecchio. Júlia annuisce, anche se l’anno prima lei non c’era stata perché aveva preferito passeggiare, mano nella mano, con Arnau. Era un buon momento, perché erano tutti al ballo e si sentiva soltanto, in lontananza, il tendone che riverberava come un binario all’avvicinarsi del treno. Arnau non dev’essere ancora arrivato. Júlia smuove il bicchiere con la mano per agitarne il contenuto, il ghiaccio è ormai sciolto. Si allontana per un momento da Emma, che intanto balla, poi va in bagno. Al ritorno, mentre una che conosce la ferma afferrandole il polso, lo vede entrare. Arnau posa l’ombrello all’entrata, come aveva fatto anche lei, e si appoggia su un angolo vuoto del bancone per chiedere un caffè. Mentre glielo servono fumante in una tazzina, la tipa che l’aveva fermata le dà un bacio sulla guancia e Júlia non lo vede più. Va a sedersi su una sedia vuota senza spostare lo sguardo dal bancone e, terminata la canzone, Emma le si siede accanto. – Ho incontrato Arnau. Mi ha chiesto di te. Júlia tira fuori uno specchietto dalla borsa e si guarda gli occhi attentamente, come se cercasse un granello di polvere, mentre Emma si alza e si aggiusta la gonna. – Non farlo aspettare troppo. Júlia guarda lo specchio, accavalla le gambe e segue il ritmo della canzone con la punta del piede. Emma balla con uno dei ragazzi della comitiva facendo volteggiare la gonna verde. Ha l’impressione che i musicisti suonino sempre più forte e che le gocce di pioggia che cadono sul tendone siano calde. Si alza, prende la borsa e la giacca. Dei conoscenti dei suoi genitori la fermano per salutarla. È praticamente fuori e prende a caso uno degli ombrelli dal fascio; Arnau le sorride dalla porta di olona aperta. – Ciao.

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Anche Júlia lo saluta e posa l’ombrello. – Andiamo a fare un giro? – Piove. – Saresti uscita comunque… Fuori, Arnau apre il suo ombrello nero, la pioggia scroscia dai bordi ed è talmente grande che potrebbero ballarci sotto. Si allontanano dal tendone e arrivano fino al ponte. Júlia sta attenta a non finire nelle pozzanghere, l’erba umida le fa solletico alle caviglie macchiandole i collant di fango. Dopo tanta pioggia, il torrente è cresciuto. Júlia si stringe al parapetto. Da piccoli, guardavano sempre il fiume quando pioveva. Camminavano sotto lo stesso ombrello, come adesso, arrivavano sulla sponda e guardavano giù. Si vedeva l’acqua marrone schiumosa sulla quale, di tanto in tanto, galleggiava una ciabatta di gomma o una bottiglia vuota. Col calare del buio, tornavano a casa e Arnau l’accompagnava, perché l’ombrello era suo, poi lei rimaneva sotto il portico a guardare come s’allontanava facendo vorticare l’ombrello e saltando le pozzanghere alla luce gialla dei fanali. Ora, fermi al centro del ponte, guardano giù e ascoltano il ripicchiare della pioggia sul legno e il torrente che leviga le pietre. – Ti accompagnerà tuo padre all’aeroporto? Júlia risponde di sì e Arnau le chiede se è nervosa. – Un po’. Arnau le prende la mano e se la mette in tasca, Júlia sente il pelo tiepido all’interno della giacca. È un calore lontano e nuovo, anche se fino a poco tempo prima si erano baciati dietro casa sua. Camminano per i viali di sabbia del parco, sotto gli alberi e la pioggia e Júlia pensa a tutti i giorni che dovranno passare prima che possa tornare.

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Júlia arriva in anticipo, prima degli altri, e Emma le racconta, mentre le fa vedere la casa e le chiede di lasciare il soprabito e la borsa sul letto in camera, che Arnau si è appena separato. Non so se sai che hanno un figlio, le dice mentre le mostra il suo piccolo, un bambino con gli occhi chiusi e il capo tondo e lanuginoso. Emma lo coccola, gli dà un bacio sulla fronte e chiude la porta. E intanto parla di Arnau, dice che è fuori di sé, che lavora al panificio più del dovuto e che, quando non lavora, difficilmente esce di casa. A cena, li fa sedere uno accanto all’altro. Sulla tavola ci sono crostini al salmone e pasta sfoglia con spinaci e noci. Júlia prende un crostino mentre Arnau le riempie il bicchiere. Le sembra così strano, con quella barba arruffata come un rovo e quelle dita bianche e spaccate. Gli altri fanno rumore, parlano dei figli, del lavoro, di com’è andata la settimana. Gli unici a non parlare sono lei e Arnau, e Júlia ricorda loro di quando erano piccoli e alla mensa della scuola si nascondevano sotto il tavolo fingendo che fossero cadute le posate. Lì sotto, anche se non potevano rimanere a lungo, si scambiavano sorrisi e tesori: una ghianda, una pietra luccicante. Come secondo piatto mangiano dell’anatra a fettine con una salsa ai mirtilli, viola e spessa. Emma si siede dopo aver servito i piatti agli invitati e si copre le ginocchia col tovagliolo. – Sabato era bellissima, tua sorella. Júlia appoggia la forchetta sul piatto. – Sì, è stata una cerimonia molto bella. Sono certa che saranno felici. Emma parla del suo viaggio di nozze a Bali e assicura che è stato un viaggio bellissimo. – Non c’è niente di più bello che stare lontano da casa, no? Júlia sente la sua voce lontana, come fosse il mormorio d’un fiume, e a stento capisce ciò che dice.

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– E tu, quando ripartirai? – La settimana prossima. Qualcuno le chiede se le piace vivere così lontano. Deve essere tutto così diverso. Júlia spiega come funziona la metropolitana e pensa all’ultimo tratto che percorre per tornare a casa. Ama attraversare il quartiere in bicicletta mentre tutti dormono ancora, fermarsi in uno di quei posti aperti ventiquattr’ore e bere un tè caldo prima di tornare, sotto il cielo cupo del mattino, nel suo appartamento. All’improvviso, il bambino piange, Emma si alza e va a controllare. Suo marito dice che sono le colichette. Dopo aver calmato il bambino, Emma sparecchia e gli invitati le danno una mano. Posano i bicchieri e portano il caffè e il dessert, una torta al limone. Arnau non mangia nulla, Júlia lo vede riempire il bicchiere e buttarlo giù d’un fiato. È un brutto momento, le ripete Emma, a bassa voce, quando lui va in bagno. Ti dispiace riaccompagnarlo a casa? Fa caldo e Júlia tira su le maniche del maglioncino, guarda attorno a sé: i resti del dolce sulla tavola, un tovagliolo a terra, le tazzine di caffè fumanti e gli altri invitati che chiacchierano con le sedie storte. – Allora, sarà meglio andare via. Emma gli porta le giacche e Arnau affonda sul sedile dell’accompagnatore con la faccia premuta contro il vetro. Ha l’alito fetido, gli occhi chiusi e respira lentamente. Júlia accelera ed esce dall’abitato. Sono sulla strada su cui aveva guidato per la prima volta dopo aver preso la patente. Un pomeriggio, avevano preso la macchina sgangherata di suo padre. Il cassetto del cruscotto si apriva ogni volta che prendevano una buca. Fu al termine dell’estate, l’anno prima della partenza, pensa Júlia, che abbassammo i finestrini e Arnau mise fuori il braccio, era quasi notte, e dovemmo fermarci perché non sapevo dove si accendevano le luci.

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Arnau sospira e russa lievemente. Lo sente pronunciare il suo nome a voce bassa e gli chiede se ha bisogno di qualcosa. Le chiede di fermarsi. – Ho mal di stomaco. – Si siede a terra e si appoggia a un albero. Le luci della macchina illuminano parte della strada e l’erba umida del bordo. Júlia spegne la luce e il motore, si siede accanto a lui e ricorda i baci, l’ombrello. È una serena notte di fine estate e si odono soltanto i grilli e qualche macchina che, molto raramente, per un istante li illumina. Arnau le dice con voce roca che ha sete. Per fortuna, Júlia ha una bottiglia d’acqua in macchina e, nonostante sia calda, Arnau ne beve un bel sorso. – Stai meglio? – Sì, grazie. Avevo molta sete. Rimangono a lungo in silenzio. Júlia sa che se non andranno via subito, diventerà giorno. Nonostante il buio, distingue la macchina e Arnau appoggiato all’albero, sembra che anche lui la guardi. – Mi sei mancata. Júlia non risponde e ricorda che quando era tornata in estate, dopo alcuni mesi dalla sua partenza, lo aveva trovato felicemente fidanzato. Li aveva visti un giorno in paese mentre, sorridenti, tornavano dal supermercato mano nella mano. La fidanzata aveva preso una mela dalla busta e l’aveva morsa, Júlia aveva svoltato l’angolo e a settembre di quello stesso anno avrebbe conosciuto un americano dalle spalle larghe che l’avrebbe portata al cinema, uno della sua facoltà. Júlia si alza e gli dice che è ora di andare. Salgono in macchina e Arnau le restituisce la bottiglia, aveva praticamente finito l’acqua. Júlia gli dice di avvisarla se torna a stare male così si fermerà di nuovo. Stavolta guida piano. Arnau apre il finestri-

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no e mette fuori il braccio. Le chiede se ricorda il giorno in cui avevano preso la macchina, e Júlia annuisce. Entrati in paese, gli chiede dove vuole che lo lasci. Lui, mezzo addormentato, risponde che per il momento è tornato a stare dai suoi. Si fermano davanti al portone. La casa è ancora tinteggiata crema, in certi punti la pittura è scrostata e la cassetta delle lettere è rovinata. Non è cambiata affatto, dice Júlia e Arnau, dopo averla ringraziata del passaggio, le risponde che mai cambierà, e scende dalla macchina.

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Responsabilità

Prima di allora, non c’eravamo viste spesso: Aran e Elisabet erano sempre insieme. In classe erano sedute all’ultimo banco e ridevano sempre, erano così diverse. Aran aveva i capelli rosa e indossava t-shirt strappate, mentre Elisabet era una tipa da camicette stirate e appunti ricopiati in bella. Anch’io ero seduta all’ultimo banco, ma perché ero timida. Quando Aran era assente, Elisabet si sedeva accanto a me. Un giorno, dopo la lezione, mi propose di andare a fare colazione. Prese un caffellatte e un cornetto. Lo sminuzzò con le mani (quelle mani pallide inanellate, tanto sottili che parevano irreali), mise i pezzi nella tazza, uno a uno, con delicatezza, li affondò col cucchiaino fino a farli inzuppare e poi li mangiò, senza sporcarsi il mento. Si asciugò le labbra con un tovagliolo e mi chiese se quel fine settimana mi sarebbe piaciuto andare con loro al mare. – La sorella di Aran parte e ci presta la casa, in cambio dobbiamo aver cura del gatto. Venerdì non andammo a lezione, Elisabet venne a prendermi. Aran era già in macchina, sul sedile posteriore, braccia conserte. Guardava dal finestrino con gli occhi socchiusi e aveva un Chupa Chup in bocca. Ciao, dissi, e Aran a stento mi guardò,

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con quei suoi capelli rosa che le facevano sulla testa l’effetto di un’aureola. – Sali davanti. – Elisabet mi aprì lo sportello anteriore. – Aran ha avuto una brutta nottata. Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto, anche se Elisabet tentò, invano, di conversare. Parlava del tempo, della pioggia e del professore di francese. Non sapevo cosa risponderle e, nel frattempo, vedevo gli occhi di Aran inchiodati all’autostrada. Aran scese dalla macchina per aprire il cancello di ferro, e Elisabet parcheggiò davanti casa. Era bassa e moderna, brutta, pitturata di bianco, ed era situata in un complesso così lontano da tutto che né vedevamo né sentivamo il mare. Il gatto ci venne incontro e si strusciò contro le gambe di Aran, che lo prese e gli diede un bacio sulla testa. Poi lo rimise di nuovo a terra e, senza dire nulla, alzò le tapparelle, aprì le finestre e uscì in giardino; infine andò a sedersi su una sedia di vimini appoggiando le gambe su un tavolino basso. Il gatto le saltò in grembo e si acciambellò, muoveva la coda e alzava la testa di tanto in tanto. Non era ancora primavera e arrivava un’aria fresca che odorava di erba umida. – Non badare a lei – mi disse Elisabet mentre mi faceva segno di seguirla. Entrammo in cucina e posammo nella dispensa e in frigo le cose da mangiare che avevamo portato. – Veniamo spesso, sai? – aggiunse. – In estate, per Pasqua. A volte, veniamo anche a Natale. Sua sorella è contenta che badiamo al gatto e noi non potremmo mai rinunciare a qualche giorno di mare. Vieni, ti faccio vedere dove dormirai. Il mattino dopo, Aran preferì rimanere a casa e io e Elisabet andammo a fare una passeggiata in paese. Era un paese costiero arroccato su uno strapiombo con un castello. Il castello era sulla parte più alta. Aveva soltanto una torre con una bandiera

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e, di notte, mi disse Elisabet, accendevano dei fari puntati verso l’alto che lo illuminavano. Passeggiammo per il lungomare. Era un giorno grigio e invernale. Una nebbia sottile proveniente dal mare faceva rabbrividire la scogliera e i pini ritorti. Le onde s’infrangevano contro le pareti del lungomare schizzandoci il volto e i fazzoletti a fiori che ci proteggevano dal vento. – Aran è un po’ particolare – mi disse Elisabet quando ci sedemmo al bar per bere un tè caldo. – Non pensare che sia cattiva. Ha sempre avuto difficoltà a relazionarsi. E, in più, da un po’ di tempo, non si sente bene. L’ho convinta dicendole che un paio di giorni qui avrebbero fatto miracoli. Tornate a casa per pranzo, trovammo Aran addormentata sulla sedia di vimini, con il gatto in grembo. Mi chiesi se avesse trascorso lì tutto il mattino. Elisabet la prese per il braccio e la svegliò delicatamente. Aveva il volto pallido e gli occhi rannuvolati. Nel pomeriggio, dopo aver mangiato pochissimo e aver dormito di nuovo, Aran accettò di andare a fare una passeggiata in paese e di rimanere lì per cena. Sembrava una convalescente. Fumava delle lunghe sigarette al mentolo dalle quali venivano fuori odore di incenso e spirali di fumo, camminava davanti a noi a grandi falcate, come se avesse fretta di arrivare da qualche parte. Si erano da poco accesi i fanali, il sole era tramontato. C’era poca gente per strada e c’era vento, freddo e l’umidità prodotta dalla salsedine. Le onde, infrangendosi contro le rocce, producevano una pioggia di schiuma gelata. – Aran! – gridò Elisabet quando arrivammo davanti a un pub irlandese. – Andiamo a bere qualcosa! Entrammo nel bar col naso rosso dal freddo e un grappolo di campanelle arrugginite replicò con timidezza. Le pareti erano ricoperte di legno e di vecchie pubblicità di birra e sidro. C’erano dei trifogli verdi di feltro attaccati alle finestre piccole

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col vetro spesso, e si udiva una musica allegra. Elisabet e Aran dovevano esserci già state, perché andarono dirette a uno dei tavoli nell’angolo. – Ciao, Mike – sorrise Elisabet. Il cameriere le salutò e chiese se volevano il solito. Elisabet disse di sì, tre pinte, e il cameriere si allontanò per andare a prendere l’ordine. Elisabet iniziò a parlare del ristorante in cui avevamo cenato. Diceva che il pesce non sapeva di niente e il dessert era troppo dolce. Io, in qualche modo, la assecondavo. Aran beveva la birra con la testa appoggiata sulla mano, senza badare a noi. Disegnava spirali con la condensa che il bicchiere aveva lasciato sul tavolo. Il cameriere disse che avrebbero guardato la partita di calcio, così magari sarebbe venuta più gente, e Elisabet gli chiese come andassero le cose. Va come va, disse il cameriere mentre accendeva il televisore, ora, col freddo e la pioggia, va male mentre in estate va sempre bene. Le campanelle all’entrata rintoccarono con furia ed entrò una folata di freddo assieme a un gruppetto di ragazzi sorridenti e rumorosi. Si sedettero a un tavolo e uno di loro ci guardò, si alzò e venne verso di noi con un sorriso a trentadue denti. – Come va, ragazze? Abbracciò Aran e lei impallidì, i suoi capelli sembravano nuvole al tramonto, zucchero filato. Rispose alla meglio, balbettando e addirittura a me che non la conoscevo tanto mi sembrò non fosse lei. – Siamo arrivate ieri. Elisabet rise e chiacchierò un po’ con lui. Aran non disse altro. Guardava il tavolo, la condensa attorno al bicchiere di birra ormai calda. Quando il ragazzo andò via, s’alzò di scatto, prese la giacca e la borsa e uscì sbattendo la porta.

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– Per questo mi hai fatto venire? – insinuò a Elisabet quando le fummo dietro, una volta pagato il conto in tutta fretta. – L’ho fatto perché glielo dicessi. È una cosa che riguarda anche lui! Aran era furiosa. Batteva i piedi a terra, come se volesse scavare la buca in cui seppellire Elisabet. Elisabet premette le labbra ed io indietreggiai. Non volevo immischiarmi. Erano cose loro. Le lasciai una davanti all’altra senza capire assolutamente nulla; cosa ci facevamo là col mare che si infrangeva a sinistra e Aran sempre più infuriata. Il vento le smuoveva la frangia. – Dai, andiamo a casa. Hai bisogno di riposare. – Elisabet estrasse le chiavi della macchina e Aran iniziò a gridare, un grido che si alzò fino a ricoprirla come fosse una campana di plastica. Velocissima, le afferrò le chiavi e si dileguò oltre la strada, più o meno dove avevamo parcheggiato la macchina. Elisabet fu così sorpresa che non le corse dietro. Mi guardò e disse: – Ha preso le chiavi della macchina. Si sedette su una panchina e iniziò a piangere con le mani davanti agli occhi, emettendo dei singhiozzi strazianti, come se provasse vergogna. Le sedetti accanto. – Volevo soltanto aiutarla – sentii che diceva a bassa voce. – Perché se l’è presa tanto? – Lui doveva saperlo. La responsabilità è anche sua. Si soffiò il naso con delicatezza e, una volta calmatasi, mi raccontò che aveva accompagnato Aran in clinica perché non lo voleva tenere. Le era rimasta tutto il tempo accanto. Non l’avevo mai vista così spenta, così spaventata. Aran, che non aveva mai avuto paura di niente, le aveva stretto la mano e con gli occhi spalancati le aveva fatto promettere che non l’avrebbe mai rivelato a nessuno. Era un venerdì, quando uscirono di lì per

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andare a bere una cosa. Nell’autobus, tornando a casa, Aran si era addormentata e Elisabet le aveva accarezzato la testa. Elisabet mi disse che le dispiaceva di avermi invitata. – Pensavo che essendoci tu non si sarebbe arrabbiata tanto con me. Una volta arrivate a casa, in taxi, vedemmo la macchina di Elisabet parcheggiata male e le chiavi in cucina, ma di Aran e delle sue cose, nessuna traccia. Elisabet si chiuse in camera sua e non uscì fino al giorno dopo, col viso pulito e il rossetto sulle labbra. Mise del cibo e dell’acqua per Botons e chiuse il portone con il doppione delle chiavi che lasciò sotto un vaso. Poi salimmo in macchina e ce ne andammo. Sulla strada del ritorno, Elisabet rimase in silenzio per un bel po’. Era impegnata a guardare dal retrovisore e sorpassava le macchine quasi senza accorgersene. Eravamo già da un po’ in autostrada quando mi raccontò come aveva conosciuto Aran. Quando aveva otto anni, si trasferì in una palazzina in città. Prima viveva lontano, in una casa accanto al lago. Quel primo pomeriggio nel nuovo appartamento, i suoi genitori aprivano le scatole nella sua stanza e Elisabet si sentiva molto sola, soprattutto perché era sabato e non conosceva ancora nessuno con cui giocare. Era sdraiata a terra e guardava il soffitto, annoiata, arrabbiata e triste, quando udì dei rumori provenienti dal pianerottolo, corse e grida. Cacciò a poco a poco la testa dalla porta. Vide delle lettere di carta appese sulla porta dell’appartamento di fronte: “Buon compleanno, Aran”. Erano di colore rosso. Aveva aperto la porta e aveva visto Aran vestita da pirata, con un uncino di plastica sulla mano, un occhio bendato con un fazzoletto e la barba disegnata sul viso. Di sicuro Elisabet aveva fatto la faccia sorpresa quando Aran le aveva chiesto: Vuoi venire alla mia festa?, e lei le aveva risposto: Non

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ho un vestito da pirata, e Aran, allora, ridendo, aveva aggiunto che non serviva, perché, se voleva, poteva fare il pappagallo.

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Gatto

Era arrivato dal nulla, sporco e assetato, ma non ci accorgemmo che era sordo se non dopo un anno che viveva con noi. Quella fredda domenica pomeriggio, Martina si fece largo tra gli schiamazzi dei camionisti che si accalcavano sul bancone per prendere il caffè e mi tirò dalla camicia. – Oriol, hai visto Zampette? Mi asciugai le mani col grembiule e, mentre preparavo la caffettiera, dissi di no con la testa. – Qui c’è troppo chiasso, piccola. Cercalo vicino casa o al distributore di benzina. Deve essersi addormentato da qualche parte. Per un po’, girovagò ancora tra i tavoli, chiedendo se qualcuno avesse visto il gatto, ma poi mamma uscì dalla cucina e la mandò via. Dai vetri appannati, vidi la sua sciarpa rossa allontanarsi verso il distributore. Ore dopo, con il locale semivuoto dopo il turno della cena, uscii dalla cucina con uno strofinaccio sulla spalla e due buste di spazzatura in mano. Mentre aprivo il contenitore per buttarle, Martina mi chiamò e si avvicinò tutta sorridente. Aveva il gatto in braccio. Era paffuto, col pelo bianco e morbido e un occhio diverso dall’altro.

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– L’hai trovato. – Gli accarezzai le orecchie. Il gatto si svegliò e mi guardò contrariato. Quando smisi di toccarlo, si raggomitolò ancora di più tra le braccia di Martina. Mi disse che aveva visto uscire il nonno dall’officina col gatto preso dalla collottola, le sue urla contro l’aiutante sovrastavano il rombo del motore e il martellare del carrozziere. Il gatto l’aveva graffiato mentre allungava il braccio da sotto la macchina per afferrare la chiave inglese. Quando le aveva mostrato la mano ferita, Martina era scappata via assieme al gatto. Nessuno dei gatti che avevamo avuto si era mai avvicinato all’officina, né s’era mai sognato di andarci a dormire. Anche il bar, con i suoi camionisti dalla voce trifase e il perpetuo tintinnio delle tazze, era più tranquillo di quel covo maleodorante in cui si doveva parlare a grida. Martina doveva essersene accorta, perché gli diede un bacio e disse: – Credo sia sordo. Alcuni giorni dopo, Martina osservava il gatto nascosta dietro le scatole del caffè. Quando mi vide, si portò un dito sulle labbra e mi tirò per la mano. Mi abbassai alla sua altezza. Il gatto dormiva in una scatola piena di stracci vecchi un metro più in là. Martina, che aveva assunto un’espressione seria, senza perdere di vista il gatto, si tolse un petardo dalla tasca e lo accese. Contò fino a tre a bassa voce prima di lanciarlo con forza. Il petardo rimbalzò contro la parete e scoppiò accanto all’orecchio dell’animale, che continuò a dormire come se nulla fosse successo. – Vedi? – Martina mi guardò con gli occhi scintillanti e un sorriso a trentadue denti, ma d’un tratto terminò. – Poverino. Da allora, lo lasciava da solo soltanto quando saliva sull’autobus per andare a scuola. Nel pomeriggio, al ritorno da scuola, veniva al bar, ci dava un bacio, ingurgitava la merenda seduta al bancone e usciva di corsa a cercare il gatto, che la aspettava seduto sulla panchina di legno accanto alla porta. Trascorrevano il pomeriggio insieme, lei lo faceva correre sopra e sotto,

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facendogli rincorrere cordicelle, fili di lana, o il fascio di luce di una lampadina portatile. Quel gatto non miagolava mai, ma seguiva la sua padrona ovunque in silenzio. Terminato il turno del pomeriggio, li riportavo a casa e aiutavo Martina a fare i compiti. Ci sedevamo in cucina e il gatto si metteva sui suoi piedi. Dopo cena, guardavano un po’ di televisione sul divano, Martina rimaneva imbambolata davanti ai colori dello schermo e il gatto, acciambellato sulla sua gonna, muoveva la coda nel sonno. Quando arrivava l’ora di andare a dormire, finiva la pace ed erano lotte e pianti perché Martina non voleva che dormisse fuori. Trovava sempre il modo di nasconderlo, ma la mamma se ne accorgeva e le dava un paio di ciabattate sul sedere. Alla fine, la mamma si arrese, concedendole il permesso di farlo dormire nella sua stanza, ma a terra, in un giaciglio di stracci vecchi, mentre da mangiare gliene avrebbe dovuto dare nel patio dietro casa. Da quel momento, Zampette mangiò fuori e dormì nel letto di Martina. Un mattino d’estate andai al bar per dare il cambio alla mamma che, quel giorno, aveva fatto il turno di notte. Mentre mi allacciavo il grembiule dietro al bancone, mi disse di andare in officina perché papà mi stava aspettando. Corsi a cercarlo. Anche se il sole non era ancora alto, faceva già caldo e un vento torrido sollevava nuvole di terra per strada. Papà fumava una sigaretta con lo sguardo perso nel vuoto. Era accovacciato accanto alla scatola in cui aveva messo Zampette. L’aveva coperto con un panno e gli aveva chiuso gli occhi. Pensai che, non fosse stato per il panno macchiato e la mandibola storta, pareva che dormisse. Due lacrime mi rigarono il volto. Papà si alzò e mi diede un paio di colpetti sulla schiena. – L’ha investito Quim – disse con la voce roca. – Stamattina mentre tornava a casa era per strada… ha suonato il clacson, ha frenato, ma non si è spostato…

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– Come lo diciamo a Martina? Lo seppellimmo dietro casa e per segno ci mettemmo una pietra rossa che cercai di piantare bene nella terra scura. Non ce la sentimmo di dirle la verità. Quando Martina tornò da scuola e ci chiese dove fosse Zampette, le dicemmo che era andato a caccia di uccelli dietro casa e che sarebbe tornato di sicuro l’indomani. Papà mi diede un biglietto da cinque e mi prestò il furgoncino perché andassi in paese. Guidai per tutto il pomeriggio ma non trovai nessun gatto simile e tornai a casa a mani vuote. Papà mi aspettava sul portico. Mi raccontò che Martina aveva cercato il gatto ovunque. Col far del buio, l’avevo portata a casa per farle compagnia, ma andò a letto appena dopo cena. Papà si diresse in officina per aiutare il nonno, io andai in camera di Martina. Il suo letto mi sembrò grandissimo, lei piccolissima. Passarono diversi giorni e Martina non smise di chiedere del gatto e insisteva perché lo cercassimo ancora e più lontano. Ogni pomeriggio, dopo la merenda, ripercorreva il bar, il distributore di benzina, l’officina e i campi circostanti. Alla fine, dovetti dirle che forse Zampette s’era perso ma che un giorno sarebbe tornato. A partire da quel momento, Martina non fece più domande e, al ritorno da scuola, trascorreva il pomeriggio a fare disegni nella polvere con un bastoncino o a guardare le macchine che entravano e uscivano dal distributore. Un pomeriggio, trovai un gatto che somigliava a Zampette in un casolare, anche se il pelo era meno lucido e non era per niente docile. Lo inseguii per un bel po’ e alla fine riuscii a infilarlo in un sacco, poi lo misi nel furgone e imboccai la strada del ritorno. Prima di slegare il sacco, parcheggiai accanto al distributore di benzina. Martina sedeva sulla panchina davanti al bar e gioca-

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va con dei sassolini. La chiamai con il gatto in braccio e, tutta felice, corse verso di me: – Zampette! Ma, nell’avvicinarsi, il sorriso le sparì dal volto. – Guarda, Martina, Zampette è tornato – le dissi in modo non molto convincente. – Prendilo! Martina allungò le braccia con diffidenza e il gatto lasciò andare un miagolio minaccioso. Per alcuni secondi, lo guardò in silenzio mentre si contorceva nel tentativo di graffiarmi, e io guardai lei, quella bambina piccola con le ginocchia sporche di terra. Alla fine, lo prese con cura. Con un sorriso triste sul volto, mi disse grazie e se ne andò.

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Bosco

Va col bambino a raccogliere le more per la marmellata. Riem­ pie la busta di frutti impolverati e cammina con gli stessi passi lenti e meccanici di chi si muove nel salotto di casa. Il bambino la segue e, come uno scoiattolo, raccoglie nocciole e more e le infila nella busta. Quando sorge la luna, s’accorge che il sentiero non c’è più, rimane soltanto un garbuglio di spine nella radura circondata da querce. Non ricorda quella radura. Smuove con cautela gli arbusti col bastone, come se sotto vi fosse il sentiero pronto a dispiegarsi magicamente per riportarli a casa. C’è ancora un po’ di luce. Il bambino chiede se è ora di tornare e lei risponde di sì. Non possono essere molto lontani. Non possono essersi allontanati tanto. Quando era piccola suo padre le diceva di non inoltrarsi troppo nel bosco perché c’erano gli indiani pellerossa, le aveva costruito anche un tipi con le canne e un arco con un giovane ramo. Lei vi aveva dipinto su delle spirali gialle. Posizionava sulla testa una piuma di gallo, legata con un nastro viola preso dalla specchiera della madre, e si sedeva a gambe conserte nel tipi a mangiare i corbezzoli.

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I corbezzoli li andava a cercare lontano, dietro il colle. Lì, vi erano quattro arbusti attorno a una fontana, un tubo di metallo nella pietra viva. I frutti maturavano in agosto e brillavano come soli, se ne riempiva le mani e li mangiava sulla strada di ritorno verso casa. Faceva finta di essere un lupo e ululava, saltava i roveti, immergeva i piedi nei ruscelli e correva a più non posso. Arrivava a casa bagnata fradicia e senza alcuna voglia di mangiare, facendo arrabbiare sua madre. Allora, andava a nascondersi nel tipi, si stendeva a pancia in su e guardava le stelle tra gli spazi delle canne. Più tardi, mezzo addormentata, sentiva come suo padre la prendeva e la portava nel letto. È notte, continuano a camminare tra gli arbusti e sotto alberi che sembrano cattedrali. Il bambino, stoico come suo padre, porta la busta con le more e cammina con la schiena dritta, sicuro di sé, come se da solo sapesse trovare la strada. A volte si gira e le chiede, nonna, è di qua? E lei risponde di sì, lasciandosi guidare dal biancore osseo delle pietre, convinta che la strada non può essere lontana, invece vede solo buio attorno a sé e non riconosce niente. Vanno a sedersi su una grande pietra, avverte il proprio respiro e quello del bambino, le piume degli uccelli rannicchiati sugli alberi, il forte vento autunnale che agita le foglie e pare aver spazzato via la luna. Il bambino trema un po’, nonostante il giubbino, sta per dargli la sua giacca ma lui dice di no e le chiede se si sono persi. Presto arriveremo a casa, risponde, e il bambino l’aiuta ad alzarsi e le porge il bastone. Un tempo, da piccola, sarebbe potuta salire su una quercia, affacciarsi dalla chioma e vedere tutta la valle, il viale, l’orto di suo padre, la sua casa. I boschi erano immensi, sterminati. A volte, lasciava dei segnali, nel caso si fosse persa. Portava in tasca della cera rossa per fare dei disegni sugli alberi. Ma anche se fosse stato giorno, di sicuro non li avrebbe visti. La pioggia e il tempo li avevano di certo cancellati.

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Sono nella parte del bosco in cui inizia la salita, devono essere vicini al colle. Una volta in cima, vedranno la fattoria e potranno tornare a casa. Sente venir meno le gambe. Con le sue vecchie caviglie gonfie, procede a piccoli passi tenendosi ora al bastone, ora ai rami, ora alla piccola mano del nipote. Devono fermarsi, a volte, e si riposa tenendosi agli alberi. Non per molto però, perché ha paura di non poter più camminare. Riescono ad arrivare in cima. Gettano un sospiro e, presi per mano, si sporgono a guardare in direzione della valle buia. Non si vede nulla, neanche una luce o qualche scia di fumo uscire dai comignoli. Si chiede su quale colle siano. È un colle sconosciuto, un bosco che non è il suo. Si siede a terra e s’accorge di avere gli occhi e il mento bagnati di lacrime. Il bambino deve aver capito che sta piangendo perché le si siede accanto e inizia anche lui a piangere, dicendo che ha fame, sete e sonno. Lo stringe a sé e gli racconta che, tanto tempo fa, esisteva un folletto che aiutava i bambini smarriti nel bosco. Appariva sui viali bluastri di mezzanotte e li riportava a casa lasciando dietro di sé uno scoppiettio di scintille. Salendo sul colle, aveva sentito il mormorio di un ruscello. Asciuga le lacrime al bambino con un lembo della maglia e gli dice di farsi forza, di essere coraggioso e di aiutarla a camminare. Laveremo le more, sarà la nostra cena, e vedrai che in un baleno saremo a casa. L’acqua è freddissima, vi immergono le mani piene di more che poi mangiano grati, rannicchiati accanto al grande ceppo. Quando, a inizio estate, l’avevano riportata in quella casa, era andata subito a cercare il tipi all’entrata del bosco, ma aveva trovato solo un pezzo di corda putrida. L’orto di suo padre che era lì nelle vicinanze conservava ancora il recinto di canne, ma al suo interno vi era soltanto un limone, ormai inselva-

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tichito, con dei frutti talmente piccoli e acidi che non erano buoni a nulla. Il bambino si è addormentato. Lo sveglia dolcemente e si rimettono in cammino. Cerca in cima al colle e trova un viale stretto, nascosto dall’erba che brilla alla luce della luna e, giusto accanto, un cumulo di pietre. Dopo averlo percorso per un buon tratto, il viale diviene più ampio e avanzano più agevolmente, anche se le pesano le gambe e i piedi le fanno molto male. Stringe la mano del bambino che la segue come un sonnambulo. Arriveremo presto, ripete senza sosta, ma il bambino non risponde. All’improvviso, riconosce i quattro corbezzoli e la fontana, dalla quale sgorga un esile filo d’acqua. Lì accanto c’è un banco di legno. Bevono un sorso d’acqua fresca e il bambino si bagna la faccia. Al chiarore della luna vede che ha gli occhi lacrimosi per la stanchezza. Siedono sulla panchina per riposare e gli dice che ora sa dove sono, che devono camminare ancora un po’ ma presto saranno a casa. Il bambino poggia la testa sulla sua spalla, sospira e aggiunge che di sicuro i suoi genitori saranno furiosi. Lei gli accarezza la testa, sa già che, una volta a casa, il figlio l’avrebbe guardata male e l’indomani l’avrebbe cacciata assieme alle sue cose. I rumori del bosco la calmano. Producono l’effetto di una barca cullata dal mare. Il bambino dorme e la fonte sgorga, trasparente e serena. Lascia che dorma ancora un po’, ma quando s’accorge che anche lei sta per addormentarsi lo sveglia con un bacio sulla fronte e, aiutandosi mutuamente, riprendono a camminare. Quando finalmente rivede la fine del bosco e l’orto di suo padre è ormai giorno. Le luci della casa sono accese e ci sono un paio di macchine all’entrata. Si ferma e dice al bambino di entrare, i suoi genitori lo staranno aspettando. Il bambino è

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troppo stanco per protestare e si dirige verso casa. Alla luce giallastra delle finestre, lo vede mezzo zoppicante, con in mano la busta delle more, sporco di terra e con gli aghi di pino tra i capelli. Cerca il punto in cui una volta c’era il tipi e si siede, con la schiena appoggiata a un albero. Da lì può vedere l’orto. È nuvoloso come quel giorno di tanto tempo fa in cui suo padre era accovacciato con la camicia sudata. Rimuoveva la terra con la zappa e scavava patate. Lei era rimasta impalata dietro la recinzione. Di sicuro, il padre dovette accorgersi della sua presenza, perché si girò e socchiuse leggermente gli occhi, era miope, ma non sopportava gli occhiali, diceva che non erano per i contadini, era roba per gente perbene che s’era rovinata la vista per stare col naso infilato nei libri. – Te ne vai – le disse mentre metteva le patate in un sacco. – Fai buon viaggio. Prima che arrivino per portarla via, sarebbe bello addormentarsi un po’, pensa mentre si rannicchia odorando la terra umida del bosco. Sente il cinguettio degli uccelli che annunciano l’arrivo del sole, la luce grigia del giorno sulle palpebre e si addormenta come se fosse di nuovo al sicuro nel tipi. Di lì a poco, quando inizierà a fare freddo, tornerà a sentire i passi del padre, venuto a prenderla per riportarla in braccio a casa.

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Nord

La madre siede su una pietra ad attendere il figlio, partito da solo da alcune settimane per la sua prima battuta di caccia. È lì dal mattino, sepolta da un cumulo di coperte e con un cappello di pelliccia che le scalda la testa. Nonostante gli scarponi e due paia di calzini, il freddo le ha fatto gonfiare i piedi. La sua posizione denota una certa rigidità, ha gli occhi inchiodati all’orizzonte e ogni singolo muscolo del corpo è teso e vibrante come la corda di un arco. Dietro di sé, piantate nell’erba tenera della tundra, una mezza dozzina di tende; un insieme di legni antichi, pelli e tessuti colorati. L’accampamento è sveglio da un po’ e la donna, dalla pietra su cui è seduta, riesce a sentire il rumore del pentolame e il belato delle capre. Di tanto in tanto, una brezza gelida le porta zaffate di burro, latte e tè. Il sole del mattino solca debolmente il cielo. Gli occhi di falco della madre malvolentieri si chiudono, rimanendo fissi sulla linea dell’orizzonte dove si intravedono una nebbia grigia e lacera e l’ombra dei licheni verdi e rossi che chiazzano la piana. La brezza si converte in vento gelido che le raffredda la punta del naso. Si muove appena, irrequieta, e pensa che stanotte di

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sicuro gelerà. Rimangono ancora molte ore di luce. Forse stanotte Shiya non dovrà dormire a terra. D’un tratto, il vento smuove i campanelli appesi alle tende. La donna si desta di colpo, le è parso di vedere un punto lontano che si avvicina, ma è solo un cespuglio spinto dal vento. Recupera le coperte cadute a terra e torna a coprirsi. L’aria fredda le ha fatto rallentare il cuore, che fino a un istante prima batteva come un uccello in gabbia. Quando torna a sentire le voci smorzate, sa che è mezzogiorno: il tintinnio dolce del pentolame e l’odore pungente della carne che cuoce. Non si alza per andare a mangiare, non ha per niente fame. Rimane a vegliare la lontana sponda del cielo. La nebbia mattutina è ora una nuvola plumbea che lentamente si avvicina all’accampamento. Una dietro l’altra belano le pecore, hanno intuito il cambio di vento e annunciano la pioggia. Una le si avvicina e si adagia ai suoi piedi. Di tanto in tanto, bruca un po’ d’erba. Dopo pranzo, il cielo è completamente grigio. Inizia a cadere una pioggia insistente che fa sbiadire i contorni delle cose e l’orizzonte diventa un guazzabuglio di terra e acqua. La capra corre come un’ossessa a cercare riparo. A metà pomeriggio, un anziano si fa strada tra la pioggia, le si siede accanto e le fa compagnia. Un cacciatore ha fiutato la presenza di Shiya a nord, mormora. Per un momento la donna distoglie lo sguardo dalla tundra. I suoi occhi brillano e, per la prima volta dopo giorni, sorride. Smette di piovere e il vecchio va via. Dei bambini le si mettono accanto a giocare a bilie e lei pensa a suo figlio. Quando era piccolo, anche lui amava giocare. Ricorda il giorno in cui si salutarono, all’alba rossa di un mattino lontano. Tutto l’accampamento si stringeva attorno a loro. La madre gli pose tra le mani un talismano d’osso che lui strinse forte. Nonostante le armi da cacciatore, rimaneva pur sempre un bambino.

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Oggi Shiya non arriverà, pensa mentre si stringe ancora di più tra le coperte. Il vento ha spazzato via le nuvole. Il sole tramonta e tende le ombre, facendole diventare sempre più lunghe. La prima stella illumina il cielo color porpora. La madre immagina e vede davanti a sé Shiya verso nord, che cammina sotto la luna con la nostalgia di casa. È ormai notte fonda quando sua figlia le porta una tazza di tè caldo. Il vapore le scalda la faccia. Si accorge di avere freddo e beve ansiosa, senza aspettare che si raffreddi. D’un tratto, la tazza le cade dalle mani. Fiuta nell’aria l’odore pungente del sangue. Balza in piedi e scruta in lontananza, i campanacci delle capre rintoccano con furia e i cani abbaiano come impazziti. È Shiya che torna, lo riconosce anche se non è che una figura minuscola all’orizzonte. Stringe l’amuleto che porta al collo così forte che una punta le si infila nel palmo della mano. Ha l’impressione che zoppichi un po’, ma, quando il ragazzo si avvicina, si accorge che vacilla per il peso della cacciagione che trascina. È ricoperto di fango e sangue e delle corna di caribù gli coronano la fronte selvaggia e trionfale. Si prendono le mani e la madre vede rilucere negli occhi del figlio, come un lampo, un brillio sconosciuto che le fa intuire la solitudine, il freddo e la durezza dell’Artico. Sono occhi di cacciatore, dentro vi palpitano la lotta e l’ostilità del ghiaccio, di quella innocenza che vi era quando si salutarono, non rimane più nulla. Gli abitanti dell’accampamento li accompagnano con un bisbiglio antico verso casa. Un’ondata d’orgoglio invade la madre. Shiya è tornato uomo tra la sua gente.

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Volpe

In quella curva c’è sempre una volpe. Ci passo ogni notte in moto, con la luna che pende dal cielo blu scuro come un fanale. Quando sente la moto, la volpe arriva con gli occhi sfavillanti; mi pare di vedere tre code quando passo veloce e la vedo di sbieco, con quella sua bella faccia nascosta tra l’erba. Una notte, la moto non è partita e ho dovuto spingerla fino a casa. Tanto tempo fa, quando non c’erano né moto rotte, né viali isolati, i campeggiatori andavano in paese a passeggiare, a cenare e, nei giorni di festa, se ne tornavano all’alba impolverati e con le scarpe in mano. Io e Carles li vedevamo passare davanti alla reception. Ci piaceva fare il turno di notte, bevevamo e fumavamo senza giacca, solo con la camicia. Non lasciavamo mai la reception, ma una notte decidemmo di unirci agli altri e di andare nel bosco, camminando alla luce delle torce e portando con noi della birra in buste di plastica. Si rideva. Una brezza strana faceva vorticare le foglie degli alberi come parole. Anche oggi c’è la volpe. Mi aspetta sull’erba umida, accanto alla curva. Sento i grilli e sì, ha tre code, tre code come tre gatti, ognuna con vita propria.

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Affiora un ricordo, la cascata. Mentre mi preparo il caffè o vado in giardino ad annaffiare i fiori, sento il rumore della cascata e vedo Carles lì in alto e Lena che, assieme gli altri, lo esorta battendo le mani, salta! salta!, l’annaffiatoio bagna le piante e io lo ritraggo con un sussulto. Cercammo di tirarlo fuori dall’acqua. Era a faccia in giù, lo presi dalla testa, qualcun altro dalle gambe. Alla luce della torcia, ci accorgemmo che aveva lo sguardo vitreo e i capelli ricoperti di una sostanza verde vischiosa frammista a sangue. Corsero tutti a cercare aiuto tranne Lena, che gli teneva una mano, ed io, che gli tenevo l’altra. Per molto restammo in ginocchio, tremanti, a rianimarlo: Carles, guardaci! Carles, andrà tutto bene!, e gli davamo dei colpetti sulle guance, sempre un po’ più forti, cercando si svegliarlo, ma lui non reagiva. Lo coprimmo con una giacca. Restammo in silenzio e avvertimmo il suo respiro incerto, Lena mi disse che non ce la faceva più a vederlo così e che sarebbe andata nel bosco a cercare gli altri; presa la torcia, andò via. Io e Carles rimanemmo da soli. La volpe, nel vedermi, non scappa. Mi guarda come se mi conoscesse, poi sbadiglia. Appoggio la moto a terra e allungo il braccio. Si sfrega contro di me e ho il timore che una delle sue code mi rimanga tra le mani. Le siedo accanto e, per un po’, rimaniamo a fissare la strada. Ascoltiamo i grilli e gli alberi del bosco, il lontano mormorio del torrente. La volpe muove le code ogni tanto, si lecca il pelo e sospira. Dopo un po’, mi alzo e vado via. La luna fa brillare la strada e provo a immaginare se la volpe mi segue o è rimasta ferma nella curva. Magari, con l’arrivo del mattino, si dissolverà come una nuvola. Penso a lei che fissa la strada vuota con quegli occhi profondi come pozzi mentre ceno in cortile tra i vasi, poi mi addormento sulla sedia. Ero disteso accanto a Carles nel buio. Avevo il corpo intorpidito e i piedi ghiacciati; ma non ebbi il coraggio di lasciargli

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la mano. Era gelata. Qualche animale che andava a bere nello stagno mi sfregò il piede. Cadde una pietra, rimbalzò a terra per poi affondare in acqua. Non ricordo quando smise di respirare, per quanto tempo rimanemmo in balia della notte nuvolosa. Ricordo il silenzio. Forse mi addormentai. Sì, mi addormentai e sognai Carles e quella notte. Ho portato la moto dal meccanico. Niente di grave, ma ci vorrà un po’ per aggiustarla e dovrò tornarmene a piedi. Nel pomeriggio, si fa viva la volpe. Le do da mangiare. Nelle notti successive, le porto del pesce, del prosciutto e un pezzo di frittata di tonno che mangia con gusto, assieme a un pezzo di pane duro che fiuta nella busta. Adesso si spinge oltre, mi sfrega le code sulle gambe. Arriva sempre all’imbrunire. Scavalca il recinto e va a sedersi accanto a un albero, assumendo una posa nobile, e io le porto dell’acqua e del cibo. Mi piace pensare che siamo diventati amici. Quando Lena se ne andò e mi lasciò nel bosco al buio, pensai a tutte le cose che avrei voluto dirle. Ma quando tornai a casa, un paio di giorni dopo, qualcuno mi disse che si era licenziata perché voleva andarsene. L’aveva sconvolta troppo il fatto di Carles, mi disse quel qualcuno portandosi la mano alla nuca. Al funerale, la vidi da lontano. Indossava occhiali scuri e un vestito che le donava molto. Nel pomeriggio, venne alla reception. Mi chiese se potevo accompagnarla alla stazione in moto e le dissi di sì. Si strinse a me, dal retrovisore vedevo i suoi occhi inchiodati alla strada e le fascette dello zaino che svolazzavano come libellule. La accompagnai alla banchina. Mi disse, ci vediamo, Guillem, poi mi baciò sulla guancia e mi abbracciò. Quell’abbraccio mi fece sciogliere. Il treno in lontananza faceva vibrare i binari.

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– Ci hai lasciati soli. Lena fece un passo indietro e tirò con forza le spalline dello zaino. Scrollò le spalle e guardò a terra. Al fischio del treno rialzò lo sguardo, sorpresa, e mi accorsi che aveva gli occhi annebbiati. Guardava in direzione del treno in arrivo, il vento le agitava i capelli, sembrava che stesse dicendo qualcosa, ma il rumore del treno m’impediva di sentire. Una lacrima le rigò il volto, se solo mi avesse detto che le dispiaceva… Prima ancora che potesse emettere anche una sola parola, a denti stretti le dissi: – Non tornare mai più. Andai via a passi lenti. Sentii come saliva sul treno e il rumore delle porte che si chiudevano, mi parve di vederla di sfuggita seduta accanto al finestrino: con lo sguardo rivolto in avanti. Il treno mi passò accanto e vidi come si allontanava portando via Lena. Uscii dalla stazione, era buio e iniziava a piovere, un odore di fine estate mi fece rabbrividire, gli uccelli strepitavano. Mi piegai accanto al muro della stazione e iniziai a piangere. A volte, se c’è la luna, io e la volpe passeggiamo. Mi sta dietro o mi precede, esplora il bar vuoto o sale sulle macerie. Le piazzole dei camper, la reception e i bagni sono intatti, del bar non restano che quattro mura, mentre la piscina in cui Lena aveva fatto la bagnina non è che un pozzo putrido di acqua piovana e foglie. Dopo l’incendio al camping, provai a togliere i calcinacci e la cenere. Un po’ alla volta, se ne andarono tutti, ma io rimasi, non volli andar via. Pau mi diede le chiavi e trascorsi la prima notte da solo al camping. Ora, arrivo all’alba e me ne vado col buio, solo perché a casa ho le piante che mi aspettano. Quanto mi piacerebbe rimanere, soprattutto ora che c’è la volpe a tenermi compagnia.

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Mentre camminiamo penso che sarebbe bello darle un nome, ma, se lo facessi, forse tornerebbe nel bosco. A volte le chiedo perché viene e quasi attendo una risposta, poi lei mi guarda, scuote le code e batte le ciglia. Carles amava le feste. Lui e Lena si erano baciati per la prima volta a una festa. Era il compleanno di Lena e noi colleghi di lavoro eravamo tutti attorno a una grande torta al cioccolato con ventuno candeline infilate a cerchio. Qualcuno, scherzando, le disse che ora era maggiorenne in tutto il mondo. Tutti risero, poi brindarono. Carles prese Lena per la vita e le chiese di esprimere un desiderio. Lena spense tutte le candeline con un soffio e applaudimmo. Carles tagliò il dolce e ne mise un pezzo in un piatto di carta, Lena affondò un dito nel cioccolato e gli disse che voleva una birra ghiacciata, e lui corse a prendergliene una. Restarono tutta la notte insieme. Li vedevo dalla parete su cui ero appoggiato con una lattina in mano. Mi tornavano in mente tutte le volte in cui io e Carles c’eravamo ubriacati alle feste e poi, per farci passare la sbornia, eravamo andati al torrente a tuffarci vestiti. Tornavamo all’alba, con i vestiti pesanti e l’aria fredda del mattino che ci faceva battere i denti. Carles la prese per mano e uscirono. La musica era molto alta. Li seguii. Andavano verso il torrente, sentivo l’odore dell’acqua, intuivo la sua freddezza. Rimasi dietro un albero e mi accovacciai in modo che un’enorme felce mi coprisse il volto. Armeggiavano con qualcosa: Carles tagliò la lattina che aveva con sé e fece una barchetta. La misero in acqua per farla galleggiare, la lattina continuava a urtare contro le rocce, giù per il torrente. Mi arrivava assieme al vento la loro intimità. Carles si avvicinò a Lena e fece schioccare un bacio maldestro, fragoroso e sfavillante come una cometa che solca l’atmosfera.

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Mi alzai senza far rumore e tornai a casa, dimenticando la festa, il torrente e Carles. È una notte di fine estate e la volpe non è venuta. Sta piovendo, e fuori è talmente grigio che il verde delle foglie bagnate fa contrasto e brilla. Torno a casa prima, la pioggia mi batte sull’impermeabile e le ruote della moto slittano sul fango. Nei giorni successivi, anche se è bel tempo, la volpe continua a non farsi viva. Cerco ovunque tracce delle sue code, l’odore del suo bel pelo. Mi inoltro in ciò che, come un tempo, torna a essere bosco; giovane, verde, in cui ci sono alberi che sembrano spighe e querce bruciate che hanno ripreso a germogliare. C’è ancora il vialetto, anche se è ricoperto d’erba e si fa fatica a percorrerlo, ritrovo anche le fontane che però non funzionano più e in lontananza sento il rumore della cascata. Non ho il coraggio di affacciarmi a guardare, anche se penso che la volpe potrebbe essere lì, seduta su una pietra, ad ascoltare segreti. Lena era arrivata al camping a inizio giugno. Quando la vidi per la prima volta, stavo annaffiando il roseto davanti alla reception, aveva uno zaino sulle spalle ed era bianca come tutti quelli di città. Mi disse che era la bagnina e la portai da Carles che, intanto, controllava dei documenti in reception. Carles disse che le avrebbe fatto vedere il camping, il bungalow in cui avrebbe dormito, il bar, la piscina, e Lena sorrise perché capì che si piacevano. Poi ci fu la festa e Carles mi rivelò che Lena gli piaceva molto. A volte li vedevo insieme dopo il turno di Lena e dopo che Carles aveva finito di raccogliere le foglie secche sul viale. Pensavano tutti che fossero una bella coppia. Carles la prendeva per mano e la baciava, lei rideva, a volte lo faceva fermare perché aveva un sassolino nella scarpa, poi se la toglieva e venivano fuori costellazioni di sabbia.

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È inverno. Mi manca la volpe e mi chiedo se sarà in qualche tana al sicuro. Non vado più così spesso al camping, fa troppo freddo e starci senza di lei mi intristisce. Ho chiuso la reception a chiave, ci vado solo un paio di volte a settimana. Controllo che sia tutto in ordine e aspetto un po’, ho ancora la speranza di vederla arrivare. Ceno al bar del paese. Lì, c’è ancora un telefono a monete. Un tempo era verde e blu, ma col passare del tempo si è scolorito. Chiedo al cameriere se funziona e lui scrolla le spalle, provi, vediamo, e alzo la cornetta, infilo una moneta, compongo il numero di Lena e aspetto. – Lena? – Sì, sono io. Chi è? – Sono Guillem. Guillem del camping. Lena rimane in silenzio per un po’ e neanch’io dico niente, fino a che una voce mi avverte che sta per finire il credito e infilo un’altra moneta. Vorrei dirle che la perdono, che non la colpevolizzo, ma sarebbe una bugia. Attorciglio il cavo del telefono al dito. – Lena, io… non so neanch’io perché ti chiamo. È da un po’ di giorni che penso a Carles. Mi manchi. La voce di Lena suona triste e appena la sento. – Anche tu. Ci penso ogni giorno. E, dall’altra parte del telefono, un rumore inatteso, quello di una famiglia riunita per la cena.

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Barcellona

È martedì, e Sofia sale le scale con le buste della spesa. Li incontra mentre scendono con le bambine, e si sposta in un angolo del ripiano per farli passare. Raquel si ferma e le dà due baci, si dicono che è passato molto tempo dall’ultima volta che si sono viste, nonostante siano vicine di casa; poi Sofia appoggia le buste a terra, con dentro due confezioni di succo di frutta e un chilo di patate. – Come sta, tuo padre? – Raquel le tocca il braccio e Xavi e le bambine continuano a scendere i gradini, Sofia le sente gridare dalla tromba delle scale come scimmie chiassose. – Meglio, grazie. Adesso sta iniziando a mangiare. – Sono contenta. È un buon segno che mangi. – Raquel sorride e Sofia, riprese le buste, si accomiata perché deve iniziare a preparare il pranzo. Sta già salendo le scale quando Raquel la invita alla festa di venerdì. – È il compleanno di Xavi. Assurdo che sia già passato un anno, vero? – Estrae gli occhiali da sole dalla borsa e se li appoggia sulla testa. – Ci piacerebbe che anche quest’anno venissi. – Grazie, ma non credo che potrò.

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– Ma certo che potrai. Altrimenti, ci offendiamo. – Raquel torna a sorridere nella penombra delle scale e le fa un gesto col braccio. – A venerdì! Sofia la sente scendere. L’eco dei suoi tacchi rimbalza sulle pareti e la fa rabbrividire. Le buste pesano e, quando entra in casa, ha i palmi delle mani raggrinziti e rossi come quelli di un neonato. Venerdì serve la cena al padre prima del solito, dicendogli che esce ma non farà tardi. Mentre rimesta con la forchetta la verdura bollita, l’uomo le chiede dove va. – I vicini dell’attico danno una festa. Il padre annuisce, beve un sorso d’acqua e Sofia lo guarda mentre mangia. Quando termina, Sofia lo aiuta a sedersi sul divano, sparecchia la tavola, lava i piatti e si chiude in camera sua. Nell’armadio, conservato in un involucro di plastica, è appeso il vestito nuovo. È bianco e, in corrispondenza dell’orlo, c’è una fascetta azzurra. Prima di cena lo ha stirato e, una volta addosso, le pare di avvertire ancora un certo tepore. Si trucca gli occhi nello specchio dell’armadio. Il trucco è vecchio, fatica a stendersi e le macchia le guance di rosa. Allora, si ripulisce con un fazzoletto di carta che le graffia la pelle e si guarda nello specchio. Le pare di non riconoscersi e si distende a occhi chiusi sul letto. Il padre la chiama ricordandole che avrebbe fatto tardi alla festa. Sofia non risponde. Ascolta con attenzione le smanie dell’appartamento di sopra, coperte dal volume del televisore in salotto. Gli invitati saranno già arrivati, pensa, e trasalisce per lo schiocco dei baci, le risate, le corse dei bambini da una parte all’altra del corridoio. Qualcuno bussa alla porta, Sofia sente tre colpi e subito dopo le grida di felicità di Raquel. I suoi passi, potenti come un terremoto, fanno vibrare il lampa-

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dario sul soffitto. Sofia li segue fino alla stanza del padre. Poi i passi si allontanano, di certo si dirigono verso il terrazzo. Apre la porta del balcone ed è come se anche lei fosse lì. La festa è sopra di lei, quasi la tocca, se si sporgesse dalla ringhiera riuscirebbe a vederla. Hanno messo della musica e c’è qualcosa che ondeggia, forse delle bandierine agitate dal vento. L’aria del pomeriggio è umida e piena di salsedine, Sofia vede mani che stringono sigarette sulla ringhiera e il riflesso giallo di luci che sembrano dei piccoli soli. E Xavi, una mano che impugna un bicchiere e dalla quale proviene una voce tempestosa, furiosa come i temporali estivi. Se non fosse per il mugghio della musica e il brusio del televisore proveniente dalla sala da pranzo, riuscirebbe a sentire quel che dice. Chiude la porta scorrevole della stanza cercando di fare pianissimo, anche se sa che non la possono vedere e va a sedersi a terra, appoggiando la schiena a un vaso di aloe. Ascolta quella voce a lungo, fino a che il bicchiere si svuota e la mano scompare. Sofia prova a cambiare posizione, sta scomoda e avverte un solletico. Un ragno le si arrampica sulla gamba. Sofia osserva come si mantiene in equilibrio sulle lunghe zampe. Quando le arriva all’altezza del ginocchio, lo soffia via dolcemente, il ragno tocca terra e corre a nascondersi dietro un vaso. Sofia stende le gambe, prende un pezzo di aloe, succoso come un frutto, e lo usa per rinfrescarsi i polsi. Ha un buon odore. Si accorge che è tardi. Di sicuro, suo padre si sarà addormentato davanti al televisore. Nonostante la musica e il rumore delle macchine, riesce a sentire il suono delle stoviglie e ricorda come l’anno prima li avesse aiutati a preparare i tavoli, ricoperti con le tovaglie di carta e ricolmi di frittate, fuet, formaggi, patatine e insalate di tonno. Gli invitati mangiavano dai piatti di plastica e parlavano. Raquel andava e veniva dalla cucina. Fu allora che Xavi le disse delle scarpe. Le indicò con la forchetta di plastica e le chiese se, battendo i talloni, diventavano

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magiche. Sofia abbassò gli occhi, le scarpe rilucevano, erano di vernice rossa. Xavi le toccò il braccio. Dalla ringhiera le bambine si affacciano e la vedono. Sofia non sa da quanto sono lì. Assorta ad ascoltare la festa, non si era accorta di quelle due testoline tonde con le trecce e gli occhioni come lune. Sono due gocce d’acqua. Ogni domenica, di buon mattino, scendono i gradini di due in due, seguite dal padre. Comprano cioccolato e churros alla bancarella all’angolo e li mangiano nel parco davanti casa. Sofia li vede sempre dalla finestra, le bambine con il sacchetto pieno di churros e Raquel e Xavi che tengono in mano i bicchieri del cioccolato caldo. Dopo averli mangiati (i churros), con la faccia ancora sporca, le bambine buttano a terra le briciole, che all’istante scompaiono sotto le ali dei piccioni e la polvere del parco. Una delle bambine le punta il dito contro e urla: – Cosa fai? Sofia trasalisce, fa per andare via, poi sente una voce lontana che grida alle bambine che c’è la torta. Vanno via di corsa. Sofia torna a sedersi, si stringe le ginocchia al petto e tende l’orecchio. Qualcuno ha spento la musica. Fatto silenzio tra gli invitati, si sente soltanto il rumore del vento tiepido che fa ondeggiare le bandierine poi, all’improvviso, l’esplosione: cantano tanti auguri a te e Sofia riesce a vedere la luce tremolante delle candeline che si riflette sul pavimento del balcone. Finita la canzone, tutti battono le mani e Xavi propone di soffiare assieme le candeline. Esprimete un desiderio, uno, due e… tre! E Sofia vede i flash delle macchine fotografiche, come un preludio di tempesta, e sente il soffio delle candeline, le grida, le risate, lo schiocco dei baci sulla guancia. Si diffonde un odore di cera calda e stoppino bruciato. Nasconde la testa tra le gambe. L’anno scorso, in un momento in cui Raquel non guardava e non c’era già più nessuno, in

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un angolo del terrazzo, Xavi aveva afferrato Sofia per la vita. Aveva le labbra appiccicose, conservavano ancora il sapore della panna. Quel bacio la soffocò e gli strinse il braccio. A due passi la festa luminosa e sfolgorante, in quell’angolo scuro come una fossa oceanica loro che si baciavano. Il giorno dopo lo incontrò al supermercato, teneva le bambine per mano. Diventò rossa, le bambine la fissarono e Xavi disse loro di raggiungere la mamma, e corsero via lungo il reparto dei detersivi. È tardi. Soffia una brezza marina e Sofia, ancora appoggiata all’aloe, accosta la mano alla parete. È calda. Riproduce lo stesso effetto del miraggio sulle strade roventi d’estate, con il caldo che sale, brucia e vacilla. Non c’è più nessuno alla festa. Anche gli ultimi invitati sono andati via e Sofia segue l’eco vuoto dei loro passi lungo le scale. A un tratto, riappare la mano di Xavi sul corrimano. Sente come si accende una sigaretta. Sospira, poi aspira il fumo producendo una filigrana delicata. – Le bambine dormono? – Sì, finalmente. Erano molto elettrizzate. – Raquel sospira e prende la mano di Xavi. – È avanzata un po’ di torta? Raquel va a prendere la torta mentre Xavi spegne la sigaretta sulla ringhiera facendo cadere giù delle piccole scintille arancioni, Sofia chiude gli occhi. – È una notte serena. – Xavi parla con la bocca piena. – Guarda qui, ti sei sporcato la faccia. Parlano a lungo, come se non ci fosse nient’altro al mondo che loro due, la terrazza e le bambine addormentate. Solo dopo un bel po’, Sofia li sente che sbadigliano e chiudono la porta del terrazzo. Si alza lentamente, sporgendosi con cautela dalla ringhiera. Se non si lasciasse sopraffare dalla paura di andare giù e si al-

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lungasse, riuscirebbe a vedere i resti della festa. Hanno spento le luci gialle. Vede dei festoni caduti e dei bicchieri vuoti che rotolano a terra. Vede delle sedie riverse e le gambe dei tavoli con sopra le tovaglie di carta strappate, come fossero le tende di una casa abbandonata. Una folata di vento la fa barcollare. I capelli e il vestito, agitati, volteggiano. Prova a mantenere l’equilibrio poi scende a fatica e va a sedersi di nuovo a terra. Non riesce a respirare e rimane per un po’ di spalle alla strada. Spettinata, tremante e col vestito sporco, dirige lo sguardo alla stanza buia del padre.

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Copenaghen

È davanti al televisore quando Marta arriva con la sua enorme pancia, si siede sul divano e gli getta un braccio attorno al collo. – Per cena vorrei un panino – dice, e Ernest le risponde che oggi è domenica e che ormai sono le dieci, prima di sprofondare ancor più nella poltrona. Con quel caldo, non ha nessuna voglia di uscire, poi però si ricorda della bustina di plastica che il mercoledì prima gli aveva dato suo cugino. Fuma in strada, di ritorno dal negozio. Non ricordava quel bruciore alla gola e il gusto amaro dei filamenti di tabacco che s’incastrano tra i denti. Sorride, spavaldo, fino a che non gli pare di vedere due poliziotti. Si nasconde in una piazza in penombra, come durante quella manifestazione a Copenaghen, quando lui e Moshe dovettero correre a perdifiato per non essere perquisiti ed espulsi prima della fine del corso. Lancia il mozzicone a terra e lo schiaccia col piede. Era stato Moshe, Ernest pronunciava il suo nome all’inglese, che gli aveva insegnato a fumare, gli diceva di trattenere tutta l’aria nei polmoni e di lasciarla andare piano, piano; e poi chiedeva conferma: – Visto come sale?

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Una volta in ascensore, schiaccia il numero del suo piano, non sa perché, ma non vuole che Marta si accorga che ha fumato, e pensa che, forse, nasconderle qualcosa adesso che è incinta sarebbe ancora più grave. Spera di trovare delle gomme da masticare in tasca, ha dimenticato di ricomprarle. Ormai è fatta, una volta a casa, entrerà direttamente in bagno e si laverà i denti. Guarda i cavi dell’ascensore tendersi. La fastidiosa luce del neon gli fa socchiudere gli occhi arrossati. Ha la bocca semiaperta e secca. La sua immagine viene triplicata dagli specchi sulle pareti, ha una brutta cera e la tuta che indossa lo fa sembrare grasso. D’improvviso, l’ascensore si blocca e, per un istante, non ricorda se stava salendo o scendendo, uscendo o tornando a casa. Le porte si aprono con uno stridio, prima che possa mettere in atto una qualsiasi reazione. Entra uno dei vicini in jeans e ciabatte. Porta al guinzaglio un minuscolo cane che rimbalza come una palla e abbaia in modo stridulo strabuzzando gli occhi. Il padrone gli dice di smetterla, poi saluta Ernest chiedendogli se ieri ha visto la partita. E così inizia un monologo su attaccanti e arbitro, Ernest non ha nessuna voglia di starlo a sentire e per di più ha fame, non fa che pensare al pane che ha comprato per Marta e a quando era a Copenaghen e aveva fame che andava sempre a trangugiare tre o quattro würstel con la maionese da uno di quei chioschetti su ruote che i danesi parcheggiavano accanto al marciapiede. Per un po’, si sente soltanto il ronzio del neon; arrivati al piano rialzato, il vicino scende trascinando con sé il cane, poi guarda Ernest pensando cosa ci faccia lì impalato e, sopratutto, perché non scenda; si richiudono le porte. Quando il vicino entra in casa, Ernest torna a schiacciare il pulsante, ma non per tornare a casa, per salire all’ultimo piano. Mentre sale, ha l’impressione che quell’ascensore diventi sempre più stretto fino a soffocarlo, si sente sollevato all’idea di percorrere l’ultimo tratto a piedi per arrivare al terrazzo.

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L’aria è tiepida e avverte uno strano disagio, come se si fosse seduto su un posto precedentemente occupato da un altro e ne percepisse ancora il calore. Ernest si fa strada tra le lenzuola dei vicini. Il cielo e l’aria aperta lo calmano, respira profondamente mentre in basso vede ardere le luci aranciate di Barcellona. Pensa a quando era ragazzo ed era a Copenaghen. Il ricordo dell’ultima telefonata di Moshe, sei anni prima, lo tormenta, non vorrebbe ricordarla ma non riesce a evitarlo e una tristezza calda lo avvinghia. – Come stai? – Bene, non mi posso lamentare. – Neanch’io, fumi ancora? – No, dopo Copenaghen ho smesso. – Sì, anch’io non ho fumato più da allora, fa male. Moshe gli disse che negli ultimi tempi era molto occupato poiché gestiva le risorse umane dell’azienda di famiglia, una fabbrica di lacci di Tel-Aviv, e Ernest si congratulò con lui e aggiunse che anche lui aveva trovato lavoro, e che si era fidanzato. Ernest siede tra le lenzuola stese e stringe a sé la busta di plastica. Guarda il pane di Marta, che a quest’ora si starà chiedendo dove sia finito e perché stia facendo tardi. Ne spezza un pezzo e lo mastica, è buono, e ancora tiepido, e senza accorgersene lo finisce tutto. Riposa un po’; guarda il cielo e gli pare di stare meglio, sa bene però che è un’illusione e che, quando tornerà ad alzarsi, la testa gli girerà ancora e sarà stanco e assonnato come a Copenaghen, nella sua stanza bianca che sapeva di legno, dalla quale vedeva i treni fendere la notte con i loro fari anteriori accesi. Alquanto disorientato, pensa a Marta, che lo aspetta per cena. È sul punto di addormentarsi quando immagina di alzarsi, scendere le scale e arrivare da Marta.

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Segreto

Siamo due quindicenni e questo matrimonio è una noia. Mamma ha deciso di truccarmi e mi ha praticamente obbligata a indossare una scomodissima gonna a fiori e dei collant che mi stringono i piedi. Dice che, per la prima volta, porterò i tacchi come una signorina. Ariadna indossa un vestito giallo e anche lei ha i tacchi, siamo sedute allo stesso tavolo, assieme ai nostri genitori e agli zii. Gli sposi si baciano e fanno il giro dei tavoli. Dopo la torta, si spengono le luci principali e hanno inizio i balli. Siamo così annoiate che rimaniamo sedute al tavolo a fare miscugli di cola e caffè (Ariadna ha voluto per forza un caffè, ma non le è piaciuto). Zio si avvicina e dice: – Cosa ci fate qui sedute? Dai, su, venite a ballare! E prende Ariadna dal braccio. – Dai, papà, lasciami stare. Con gli occhi infuriati, si libera dal padre e scappa via. Ritorna dopo po’, con una bottiglia di spumante a metà e un pacchetto di sigarette tutto stropicciato. Zio se n’è andato e io guardo gli altri che ballano.

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– Vieni! Ariadna mi obbliga a lasciare borsa e cellulare sul tavolo perché dice che così non ci scocceranno. Ce ne andiamo senza che nessuno ci veda, saliamo le scale, prendiamo l’ascensore che è proprio davanti alla reception; se qualcuno ci vedesse, di sicuro ci farebbe tornare indietro. All’esterno c’è un venticello fresco che crea dei piccoli mulinelli nell’acqua turchese della piscina. È la notte di San Giovanni e i razzi fischiano in cielo spargendo una luce rossa. Ci sediamo su una sdraio sotto la palma e ci togliamo le scarpe, l’erba sintetica ci fa solletico ai piedi. C’è anche altra gente, qui in piscina, due che nuotano lenti e tre ragazzi più grandi di noi seduti due sdraio più in là. Uno di loro ha un braccialetto al polso. Urlano, bevono birra e fissano i nostri vestiti, decisamente troppo eleganti. Ariadna beve un sorso di spumante e caccia le sigarette che aveva nascosto tra le pieghe del vestito. I ragazzi si avvicinano per le sigarette. – Volete bere? – Gli allunga la bottiglia. Si siedono sulla sdraio accanto alla nostra. Ci chiedono da dove saltiamo fuori e come ci chiamiamo. – Siamo cugine, siamo al matrimonio. Ci passiamo la bottiglia e le sigarette. Ho le guance che mi bruciano e lo spumante mi rinfresca. Restiamo lì a fumare e a bere per un po’. Ho la nausea e vorrei tornare dai miei genitori che mi staranno cercando. A quanto pare è tardi ed è probabile che sia così. Ariadna inventa un sacco di storie. Dice di essere stata in Italia. Che si è persa a Venezia ed è finita a casa di un tipo che l’aveva invitata a bere un bicchiere di vino. E che dopo i genitori

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l’hanno messa in punizione per tutta l’estate e si è dovuta fare tutte le vacanze in hotel. Tutti parlano, tranne me, ho la nausea e non riesco a parlare. Mi alzo e vado verso la piscina. Metto subito le mani in acqua, poi mi tolgo le calze, salgo sul trampolino e tocco l’acqua con la punta del piede. – Ehi! – grida Ariadna. – Si può sapere che fai? – Ho caldo. L’acqua mi fa il solletico e mi attira, è un quadrato di luce nel buio. – Dopo ci sarà una festa in spiaggia – dice uno dei ragazzi. – Vi va di venire? Alzo gli occhi, Ariadna, al di là della piscina, fa finta di non essersi accorta che il ragazzo col braccialetto al polso le ha messo un braccio attorno ai fianchi. Scendo dal trampolino e mi avvicino. – Lo dovremmo chiedere ai nostri genitori. Ariadna mi lancia uno sguardo storto e muove il braccio con impazienza. – Io ci vado. Se non vuoi venire, resta qui. Scendiamo le scale e passiamo davanti al ristorante in punta di piedi. Si sentono ancora la musica e la confusione. I ragazzi si sono cambiati, non hanno più il costume e portano delle bottiglie, delle lattine e del ghiaccio nelle buste. Andiamo insieme al parcheggio, poi saliamo in macchina. Ariadna è capitata in mezzo, io, per fortuna, accanto a lei, dalla parte del finestrino, con qualcosa infilato nel fianco. Mi fa pensare ai viaggi in macchina d’estate con i miei genitori, col gran caldo e le risate. Anche adesso fa caldo e ridono, ma c’è puzza di sudore.

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Quando arriviamo in spiaggia mi gira ancora la testa e non rie­ sco a star loro dietro. Scoppiano petardi ovunque. Dei bambini accendono una fontana pirotecnica. Altri danno miccia a dei razzi che, esplodendo, mandano in aria pezzi di cartone. La sabbia è ancora calda e piena di petardi esplosi, diversi falò bruciano qua e là. Ci avviciniamo a uno dei fuochi. Attorno, ci sono ragazzi della stessa età di quelli con cui siamo venuti. Ridono, bevono e fumano. Ci offrono da bere, io prendo una Coca-Cola, la mamma dice sempre che fa bene, quando hai la nausea. Ariadna pare a suo agio e si mette subito a parlare. Il ragazzo col braccialetto al polso le porta una birra, sorridono e lui le prende la mano. Il falò proietta delle lunghe ombre che si fondono con la sabbia. Mi pesano le gambe e mi siedo. Affondo il bicchiere di CocaCola nella sabbia e solo allora mi accorgo di essere scalza perché ho i piedi sporchi e sono senza calze, devo averle lasciate in hotel. Un ragazzo viene a sedersi accanto a me. Mi chiede come mi chiamo, gli rispondo e, senza che glielo abbia chiesto, mi dice di chiamarsi Pere, che è di Camprodon, e che è venuto in spiaggia perché è San Giovanni; poi mi chiede se conosco il resto della comitiva. Gli racconto che ero con Ariadna a un matrimonio e che alcuni di quei ragazzi della comitiva ci avevano invitato alla festa. Ariadna arriva di corsa, con le guance rosse e un sorriso larghissimo. – Facciamo il bagno! E si toglie i sandali e il vestito. Mi prende per un braccio e io le dico di no, insiste, poi inizia a ridere. – Tornatene a casa, allora! – e prende la rincorsa fino all’acqua, che dev’essere davvero fredda, dove l’aspettano il ragazzo col braccialetto e tutti gli altri.

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Ariadna è in acqua già da un po’. La vedo mentre schizza il ragazzo col braccialetto, gioca e si lascia trasportare dalle onde. Alla fine, anche Pere è andato con loro e io sono rimasta da sola sulla spiaggia, accanto al falò che ora brucia più debolmente. Mi alzo perché ho le gambe addormentate e i piedi gelati. Ormai non c’è più tanta gente in spiaggia, né si sentono tanti petardi. Cammino fino al pontile. Mi arrampico sulle rocce, scalza, e arrivo fino alla fine. Mi pare di stare in mezzo al mare. Sento il rumore delle onde e il mormorio della festa, le risate forti di Ariadna. Scendo dal pontile piano, piano, cercando di fare attenzione ma scivolo sulle rocce e mi faccio un taglio sotto il piede. Arrivo zoppicando al falò, lasciando una striscia di sangue sulla spiaggia, mi fa male il piede e la sabbia mi entra nella ferita. Grido e muovo le braccia. Ariadna non mi sente, sta giocando ancora in acqua. Cerco dei fazzoletti tra le borse e i vestiti a terra per tappare la ferita. Mi siedo dov’ero prima e, dopo un po’, tornano Ariadna e gli altri con i capelli tutti sconvolti. Il ragazzo col braccialetto le dà un’altra birra. Ariadna si siede accanto a me, avvolta nel suo vestito come fosse un’asciugamano. – Mi sono tagliata. – Se venivi a fare il bagno con noi non ti succedeva. Pere mi prende il piede. – Non sembra molto profondo. Se non sbaglio c’è una postazione della Croce Rossa all’inizio della spiaggia. Se vuoi, ti ci accompagno. – Grazie, ma preferisco che venga Ariadna. – E cos’altro? Lui è più forte di me e ti può aiutare a camminare. – Ariadna mi fa la linguaccia. – Riportamela tutta intera, eh! Mi appoggio a Pere. Cammino alla meglio e cerco di non farmi vedere piangere.

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– Ti fa male? – No, non è nulla. Alla Croce Rossa mi mettono dei punti e mi bendano il piede. Per fortuna, Pere aveva ragione, il taglio non era molto profondo. – Vuoi che torniamo alla festa? Andiamo a cercare la tua amica? – È mia cugina. Quando torniamo, Ariadna e gli altri sono seduti attorno al falò, che ora è soltanto un mucchio di cenere e carbone. – Dai, andiamo. Pere dice che se vogliamo, ci accompagna. Si è fatto tardi e i nostri genitori ci staranno cercando. – Non voglio tornare. Rimaniamo un altro po’. Ha la testa appoggiata sulla spalla del ragazzo con il braccialetto, la voce impastata, e gli occhi persi nel vuoto. Sto per andarmene, ma non ho il coraggio di lasciarla sola. Chiedo a Pere se può aspettare ancora un po’ e lui scrolla le spalle e va a parlare con delle altre persone. Qualcuno inizia a cantare e a suonare la chitarra, Ariadna si alza, ride e beve da una bottiglia mezzo sotterrata nella sabbia. Il ragazzo col braccialetto le prende il braccio e la tira a sé. Le dà un bacio lungo, come quello degli sposi, che sembrano essersi sposati cento anni fa. Ariadna ricambia il bacio ma, all’improvviso, fa un gesto strano, ha come una convulsione e si allontana. Vomita. Il ragazzo col braccialetto si allontana. Gli altri le fanno cerchio intorno e la guardano, alcuni la prendono in giro e ridono. Ariadna è rimasta in ginocchio ed è un tutt’uno di capelli e sabbia. Non riesce ad alzare la testa e corro verso di lei. Le reggo la fronte, bollente per lo sforzo, e le raccolgo i capelli dietro la nuca.

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Una volta che ha finito, l’aiuto ad alzarsi. È nauseata, dice, e la stendo sulla sabbia. Le prendo il vestito, che volteggiava per la spiaggia, spiegazzato e sporco, e lo bagno con un po’ di acqua di mare per rinfrescarle la fronte. Faccio una buca accanto a lei nel caso dovesse vomitare ancora. A poco a poco, gli altri vanno via. Pere ci chiede di nuovo se vogliamo un passaggio, ma lei insiste e dice che non vuole andarsene. Non smette di ripetere, con un filo di voce, di non farla tornare. Ci siamo messe in un angolo, al riparo di uno scoglio. È quasi giorno, appare una linea rosa di sole all’orizzonte. Il mare è color piombo e la spiaggia è deserta. Ariadna mi prende la mano e dice, a bassa voce, che ha freddo. L’aiuto a mettersi il vestito e la copro con la sabbia. Quando le chiedo come sta, dice di stare meglio. Mi stringe più forte la mano dicendomi che vuole dormire, qui in spiaggia, e mi chiede di restare, di non lasciarla sola. Si addormenta. Mi appoggio allo scoglio e mi addormento anch’io.

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No

Fino a quel momento, gli eventi si erano susseguiti come una serie di numeri consecutivi, prevedibili e certi. Ora però, pensa Aura, le cose sono come quando il cuore salta un battito. Tornati dall’ospedale, Genís andava e veniva da lavoro mentre lei dormiva con le persiane abbassate, in una stanza accanto a quella che avrebbero dipinto d’azzurro in cui ora tenevano le scatole. Si sono trasferiti da diverse settimane, ma ci sono ancora delle cose da sistemare. Cumuli di libri e vestiti che sembrano appartenere ad altri sovrastano l’alluminio dell’appartamento nuovo e il grigiore degli elettrodomestici. Un aereo che vola basso la sveglia dal riposo pomeridiano. L’aria della stanza è ferma e spessa. Aura apre la finestra e vede i vicini in coda alla fontana dall’altra parte della strada; muniti di bacinelle e taniche, le riempiono con rassegnazione mentre seguono con lo sguardo le erbacce che crescono nelle fenditure del marciapiede. Si sente soltanto il fiotto dell’acqua che sgorga dal rubinetto dorato e logoro di una fontana nera che sembra un corvo. Mancava l’acqua da una settimana. E tutti gli inquilini del palazzo erano nella stessa situazione. Un tecnico con la tuta azzurra li aveva avvertiti che ci sarebbe voluto ancora molto prima che l’acqua tornasse.

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Aura trova nella sala da pranzo otto taniche piene, senza etichetta, una accanto all’altra. – Sono stato tutto il pomeriggio a fare viaggi – dice Genís che è in piedi in cucina. Beve del gin e smuove il ghiaccio nel bicchiere. Le sue mani sono rosse, ad Aura pare di vedere i palmi escoriati, forse per il trasporto delle taniche. La notte prima, nel buio, Aura ricorda che quella mano l’aveva cercata, ma lei si era girata, aveva chiuso gli occhi e non li aveva riaperti fino al momento del risveglio, al mattino, con i capelli che le facevano male per quanto erano sporchi, come se avesse avuto in testa una rigida parrucca. Mentre facevano colazione, per la prima volta, si era soffermata a guardare l’appartamento nuovo, rifulgente per l’alluminio e il sole, poi si era girata in direzione di Genís che prendeva il caffè sul balcone. La sua ombra cadeva pesante a terra come una di quelle nuvole che portano grandine. Aura siede su uno sgabello davanti a lui. Sfrega il marmo color cenere col palmo, è fresco. Vi appoggia la guancia e le viene una gran voglia di lavarsi, di insaponarsi i capelli facendo torri di schiuma, di mettere la testa sotto l’acqua fredda per far scorrere via il sapone, l’unto e i capelli morti verso lo scarico. Genís ha aperto tutte le finestre e la porta del balcone, ma non entra neanche un filo d’aria. Si sente, a intermittenza, soltanto il getto della fontana, come il ticchettio di un orologio. – Ti va di andare a cena fuori? – Aura percorre un pezzo di marmo con la punta delle dita. Lui lava il bicchiere del gin e prende le chiavi della macchina. Genís stringe il volante, la macchina fa fatica a rimanere entro le strisce bianche. A un semaforo, si gira e la guarda, con gli occhi aranciati per la luce della radio. Quando lui la baciò per la prima volta, avevano quattordici anni. Erano in vacanza al mare con i loro genitori. E le pare incredibile che fosse lo stesso giorno in cui sua madre, mentre faceva colazione, le

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aveva detto di mettersi un’altra maglietta perché quella le stava piccola. Le si vedeva la pancia, dorata come il miele. Quando incontrò Genís, Aura indossava un’altra maglietta. I loro genitori fissavano gli ombrelloni e aprivano le borse. Era talmente presto che la sabbia conservava ancora la freschezza della notte. Arrivarono in fondo al viale, dove c’era un laghetto maleodorante con una dozzina di anatre dalle piume marroni e arruffate. Non c’era nessuno. Si sedettero accanto alle anatre, sul solaio di cemento, Genís sceglieva con cura i ciottoli più levigati e piatti. Li accarezzava col pollice prima di lanciarli lontano e li guardava balzare sulla liscia superficie dello stagno. Aura gli chiese, di botto, se lei gli piacesse e lui scrollò le spalle. Quella sera, cenarono a casa sua. Genís la afferrò dal braccio mentre usciva dal bagno, la portò nella stanza buia accanto e chiuse la porta. Entrava un po’ di luna dalla finestra, si sentiva odore di pulito e gli occhi di Genís parevano quelli di un uccello notturno. Nel ristorante, sono seduti l’uno davanti all’altra. Prima di uscire di casa, Aura si è lavata alla meglio riempiendo una bacinella con l’acqua delle taniche. Quell’acqua calda che non sapeva di pulito le aveva ricordato l’acqua dello stagno in cui Genís lanciava i sassi che, prima di affondare, facevano uno sgradevole plof. Nonostante si sia lavata e cambiata, le pare di avere addosso un doppio strato di pelle e che anche gli altri notino il rilucere dell’unto. Vorrebbe tornare a casa. Non nell’asettico appartamento in cui vivono ora, ma nella casa in cui vivevamo prima, con le pareti bianche e il proiettore. Avevano l’abitudine di infilarsi sotto una coperta e guardare vecchi film. Dopo il film parlavano a bassa voce fino a quando cominciava a fare freddo e l’insegna luminosa dell’edificio di fronte si spegneva.

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Il cameriere porta il menù e prende nota. Genís ordina anche una bottiglia di champagne. Potevi chiedere qualcos’altro, dice Aura a bassa voce quando il cameriere va via, e lui ride. – Mangia – dice, mentre si riempie la bocca di insalata. Nel piatto rimangono dei rigagnoli di aceto e due foglie appassite di lattuga, Aura guarda il suo gazpacho e lo rigira col cucchiaio, come se dentro vi fossero idrometre e alghe. Riesce a finire il gazpacho e il secondo di carne, ma quando il cameriere porta la carta dei dessert, nel vedere tutte quelle coppe di gelato, quelle montagne di panna e cioccolata, la torta al whisky, le viene la nausea e corre in bagno. Si bagna la nuca e i polsi. Suda, ha caldo e freddo, riesce a controllarsi: fissa lo scarico del lavandino, argentato e tondo come una luna. Apre il rubinetto e fa scorrere l’acqua, soltanto per il piacere di vederla fluire, fresca e inesauribile. Sola sotto la luce dei neon e con lo sguardo fisso sullo scarico, sente il brusio della sala accanto provenire dalla porta. Si sente una risata, chiude il rubinetto e torna al suo tavolo, vede Genís con in mano il bicchiere di champagne e la bottiglia vuota lasciata inutilmente a raffreddare nel secchiello del ghiaccio. Cammina a piccoli passi fino a quel tavolo che sembra un’isola, con le palme ricamate sulle tovaglie e i bicchieri con dentro i resti rossi e dorati del vino e dello champagne. Si siede. – Stai bene? – Sì. – Perché ci hai messo tanto? – Sono andata a rinfrescarmi. A volte, soprattutto quando lo trova nella stanza delle scatole con le gambe incrociate e il bicchiere accanto, ha l’impressione che voglia starsene da solo. Ma quando sono in mezzo agli altri, la cerca, la esige, la stringe.

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– Mi manca l’acqua – dice lei senza pensare. – Presto la riavremo. Genís le ha ordinato un sorbetto. Aura lo mangia svogliatamente, mentre lui prende un caffè con ghiaccio. Vuota il bicchiere d’un sorso, lasciando tre cubetti di ghiaccio marroni e scheggiati. – Andiamo? Le mette il braccio attorno ai fianchi ed escono barcollando verso la macchina. Era da molto che non camminavano abbracciati, addirittura ridono. Si fermano a guardare il ristorante, un casolare con i fanali e il comignolo. Sentono il rumore della strada come fosse un mare alle loro spalle, ma non vedono i fari delle macchine. Il giorno del matrimonio, le mostrarono lo chignon da dietro, con uno specchio posizionato sulla nuca. Aura si smarrì in quella spirale scura, come il guscio di una chiocciola. La portarono in comune su una Rolls-Royce a noleggio. Genís l’adorava, era come quella di suo nonno. Aveva attaccato delle rose bianche sugli sportelli e dietro aveva lasciato un laccio appeso, che li seguiva producendo un vento gelido. Genís le apre lo sportello, lei entra. Si allaccia la cintura, accavalla le gambe e lui mette in moto. – Andiamo in un posto tranquillo. Te lo ricordi lo stagno? Poco dopo che Genís aveva preso la patente, in fondo a una di quelle strade esplorate con l’R6 di suo padre, avevano scoperto uno stagno. La macchina saltava a ogni buca. Aura alzava le braccia e si reggeva al tettuccio perché aveva paura di battere la testa. Avevano seguito la strada, prima a destra poi a sinistra, gli pneumatici facevano rumore sulla ghiaia. La macchina derapava di continuo e loro urlavano, a volte di paura, altre perché si divertivano, fino ad arrivare in un boschetto tra i colli deserti ricoperto di ginestroni e rosmarino.

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Ora procedevano su quello stesso viale al buio, il boschetto era ancora lì. Nello stagno, abbandonato da anni, rimanevano i resti di un muro e dei pezzi di rete d’acciaio che sostenevano la terra rossa pregna d’acqua. La prima volta che l’avevano visto, ad Aura era parso un grembo caldo. Ne aveva seguito i contorni con la mano, nel ritrarla il palmo era rosso e lo aveva passato sulla faccia di Genís, prima sulla fronte, disegnando la corona di un guerriero, poi sulla bocca, sporcandola di rosso come quella di un cannibale. È rimasto lo stesso, con quel tepore che lo fa sembrare vivo, il tremolio dell’acqua provocato da rane e zanzare. Le sentono dalla macchina mentre guardano l’acqua, Aura ha la mano sopra quella di Genís. Lui ritrae la mano e alza il volume della radio. Trasmettono una canzone allegra e Aura non sente più i rumori provenienti dall’esterno. La voce della cantante, praticamente in falsetto, parla di una festa in spiaggia, di un uomo dagli occhi azzurri come l’estate che le si avvicina ballando con un ananas in mano. Genís la bacia e lei ride, per la canzone. È ridicola, dice, e lui le appoggia, con dolcezza ma con una certa urgenza, la mano sul seno sinistro. Lei dice che non vuole. È afoso, e le torna in mente che non ha fatto la doccia. Così non le piace, ha la pelle appiccicosa e tiepida come la cera di una candela. Genís la prende per i polsi e lei, sorpresa, abbassa gli occhi. Guarda come la stringono le dita di lui, bianche per lo sforzo, e torna a dire di no. Lui cerca di avvicinarsi e lei lo lascia fare, ma le sfugge un singhiozzo, lui si ferma all’istante, lei cerca la maniglia, spalanca la portiera e si getta tra la polvere della stradina sotto gli alberi accanto allo stagno, che ora le pare un cratere, un lago in un cratere. Fa due passi indietro, e lo vede nell’oscurità della macchina, la radio ancora accesa e la canzone della ragazza che canta in falsetto e rimane lì impalata, lui, poi, abbassa il volume e dice: – Scusami.

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Aura non risponde e inizia a camminare. Ha camminato per un bel po’ tra la polvere e ormai si è lasciata lo stagno alle spalle, quando Genís, che l’ha seguita a passo d’uomo e con i fari spenti, le apre la portiera dall’interno.

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Cuore

Scesero dall’autobus con addosso gli zaini e i sacchi a pelo, Blanca si fece strada tra quelle braccia e gambe che svolazzavano come ali d’uccelli e si fermò in un angolo in cui appoggiò le sue cose. Una delle accompagnatrici salì su un masso che era accanto al viale e soffiò nel fischietto. Un po’ alla volta, fecero tutti silenzio, l’accompagnatrice disse di chiamarsi Mireia e che l’avrebbero dovuta seguire. La colonia era alla fine della strada, immersa nel bosco. Aveva un’entrata di legno, un porticato con delle panchine e, davanti, un prato pieno di altalene di ferro con tutta la pittura scheggiata. I bambini vi salivano, si spingevano e volteggiavano facendo cigolare le altalene. Blanca sentì, nonostante le urla, come ripartiva l’autobus. Seguì il suo gruppo lungo un corridoio che odorava di umido e fumo. Mireia li divise in due stanze piene di letti a castello, una per i ragazzi, un’altra per le ragazze. Le ragazze, tutte prese dalle loro chiacchiere, si affacciavano, guardavano sotto il letto o litigavano per chi doveva stare sopra. Blanca appoggiò il suo sacco a pelo sul letto a castello accanto alla porta. Mireia tornò a usare il fischietto e il gruppo si dileguò per andare sulla teleferica, a Blanca toccò restare in colonia.

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Si andò a sedere su una delle panchine del porticato e ricordò come suo padre l’avesse aiutata a preparare lo zaino. Non ci sarà solo lo sport, ci saranno anche tante altre attività, le aveva detto mentre ripiegava le magliette appena stirate e le metteva nello zaino. Canterete canzoni e farete fiori di carta. Ma lei lo sapeva che si sarebbe annoiata. Quelle due settimane, lei sarebbe rimasta volentieri a casa per cercare di dimenticare quella brutta cicatrice rossa che le era rimasta sul petto. Uno degli accompagnatori si affacciò dalla porta per chiederle come stava. Blanca gli disse che stava bene ma che era un po’ stanca e l’accompagnatore le suggerì di rimanere al fresco, poi le portò una vecchia rivista di viaggi che usavano per fare gli origami. Era spaginata e aveva le immagini sbiadite. New York era grigia, deserta, giusto qualche macchina d’epoca. Blanca la sfogliò apatica e alla fine si arrese a fissare il viale fino al ritorno degli altri. Entrarono in casa avvolti da una nuvola di polvere e lei li seguì fino alla mensa, erano affamati e chiedevano cosa ci fosse per cena. La mattina dopo, si fece la doccia prima degli altri e si chiuse in un bagno stretto per potersi vestire. Mentre infilava i pantaloni, cercando di non far toccare gli orli a terra, iniziò l’andirivieni delle ragazze nel bagno. Ridevano, alcune si lamentavano di non aver dormito bene, rimestavano nel necessaire, aprivano e chiudevano i rubinetti mentre si lavavano i denti e i capelli. Blanca uscì con i vestiti sotto il braccio e andò via in punta di piedi. A colazione, Mireia le portò una tazza con del latte e dei cereali e le disse che stavolta poteva andare in escursione col gruppo. Era un’attività leggera, la strada era in pianura e alla fine c’era un pantano in cui gli altri avrebbero potuto fare il bagno mentre lei avrebbe potuto solo bagnarsi i piedi. Si raggrupparono davanti alla colonia, muniti di zaino, asciugamano e panino, che sarebbe stato il loro pranzo, poi in fila

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marciarono lungo il viale del bosco. Blanca rimase indietro, era stanca e aveva il fiatone. La notte prima non era riuscita a dormire per il respiro delle altre e per il loro continuo rigirarsi nei letti, perciò era uscita dalla stanza senza far rumore. Era tardi, dormivano tutti, anche gli accompagnatori. Poiché il portone era chiuso, era passata dalla finestra. Era scalza, allo scricchiolio delle tavole di legno sotto i suoi piedi s’era unito il canto dei grilli nella notte. Aveva fatto il giro della casa ed era arrivata quasi a toccare il bosco, fitto d’ombre impenetrabili e da cui si percepiva un inquietante rumore di piume arruffate. L’erba era fredda come un gelato alla menta e non aveva tardato a rientrare. Nel chiudere la finestra, aveva visto le sue orme umide a terra. Arrivarono al pantano che il sole era già alto. Gli altri buttarono gli zaini, si tolsero con foga le magliette, i pantaloni, i vestiti e si tuffarono in acqua provocando con l’urto le onde. Parevano cento naufraghi sul punto d’affogare. Blanca stese l’asciugamano a terra e Mireia si sedette al suo fianco. – Non hai voglia di bagnarti almeno i piedi? – No. – Va bene, come vuoi, però credo che ti farebbe bene muoverti un po’. I tuoi genitori si preoccuperanno se torni bianca come quando sei arrivata. Si alzò e sgridò due ragazzi che giocavano a mettersi la testa sott’acqua a vicenda. Blanca sbuffò, si tolse le scarpe e i calzini e andò a bagnarsi la punta dei piedi. L’acqua non era molto fredda. Camminò per allontanarsi dal frastuono e arrivò a un masso che tra la sponda e il pantano generava una pozza. C’erano dei girini. Si muovevano, rapidi, e aprivano e chiudevano la bocca. Blanca mosse l’acqua con la mano e i girini si allontanarono verso i bordi verdi e melmosi. – Attenta, se li spaventi ti mangeranno il braccio.

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Blanca ritrasse la mano dall’acqua. Davanti alla pozza c’era un ragazzo con un secchio e una rete che indossava una maglietta come quella degli accompagnatori, ma sembrava avere all’incirca la sua età. – Come mai non sei con gli altri? Quello è il tuo gruppo, vero? – Non posso fare il bagno. Il ragazzo le sedette accanto. Posò il secchio e Blanca vide che dentro c’erano due pesci belli grandi, con le squame che rilucevano al sole. Nuotavano in circolo senza sbattere mai, si evitavano e si attraevano come calamite. – Li hai pescati tu? – Sì. Li darò alla mamma per la cena. – Non sei un accompagnatore? – No, abito nella colonia. Mi chiamo Isaac. Blanca gli disse il suo nome e Isaac allungò le gambe. – Ieri notte ti ho vista. – E aggiunse, nel vedere la faccia spaventata di Blanca: – Mi hai svegliato quando sei uscita dalla finestra. La mia stanza è proprio lì sopra, sai? Blanca gli disse che doveva andarsene e corse via. Andò a sedersi sul suo asciugamano, con il viso rosso, e Mireia le chiese cosa avesse e lei rispose niente e, con la coda dell’occhio, lo vide avvicinarsi con il secchio e la rete. Salutò gli accompagnatori con un cenno di testa e scomparve lungo la strada del bosco. Nel pomeriggio, i ragazzi andarono a fare arrampicata e lei rimase di nuovo sotto il portico da sola. Lei e la rivista di viaggi riposta in un angolo con le pagine gonfie per l’umidità. Isaac veniva dal viale con un carico di legna sulle braccia lasciando dietro di sé una scia di fango secco e rametti. – E gli altri? Non sei andata con loro?

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Blanca strinse le spalle e guardò a terra. – No. – Mi dispiace per prima. – Non fa niente. – Se vuoi ti faccio vedere un posto, ti va? Blanca fece di sì con la testa. – Porto la legna dentro e andiamo. Uscirono dalla casa e andarono nel bosco. Camminavano l’uno accanto all’altra, lentamente e senza parlare molto. Ogni tanto, Blanca si fermava per riposare un po’ e Isaac la aspettava. Arrivarono nel punto in cui erano stati al mattino e alla pozza dei girini, ma Isaac continuò e fece il giro di quasi tutto il pantano, poi si fermò in un angolo dove non c’era praticamente riva. La sponda era ricoperta d’erba e c’era una barchetta, un muro mezzo diroccato, una tavola e una sedia di legno verniciate sotto un limone ricolmo di frutti. La invitò a sedere sulla sedia e lui si sedette a terra. Il pantano, di pomeriggio, sembrava bello, con il sole che spuntava da dietro le montagne. Lontano, nell’acqua, fuoriusciva una torre con una punta di metallo. Isaac le disse che lì prima c’era stato un paese, ma che lo avevano sommerso per farci il pantano. I suoi nonni ci avevano vissuto e gli avevano raccontato com’era. C’era una fontana, le case erano di pietra e le strade di terra. Ora, tutto quel che restava era un pezzo di campanile e il muro diroccato, un tempo parte di una casa alla periferia del paese. A poco a poco, anche i fattori della zona erano andati via. Dicevano di essere rimasti troppo isolati. Nel bosco rimasero gli scheletri delle loro fattorie. Isaac ricordava di aver visto andar via gli ultimi. Vennero a prenderli in Jeep, con i loro grossi fardelli per bagaglio. Erano ormai vecchi per occuparsi della fattoria. L’avevano venduta a degli sconosciuti, e così il bestiame scomparve e i campi furono inghiottiti dal bosco.

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A loro le cose andavano bene per via delle colonie. I genitori lo facevano andare a scuola in città e gli toccava vivere per tutto l’anno scolastico con la zia, in un primo piano coperto da un altro edificio. Preferiva mille volte la casa in campagna. Non certo per occuparsi di bambini o adolescenti schiamazzanti, ma per pescare, per dare una mano al padre nell’orto, sgattaiolare di notte per andare a vedere la luna e aiutare gli accompagnatori a preparare le gincane e le teleferiche. Per spazzolare i cavalli. Blanca tremò e Isaac le chiese se avesse freddo. Lei rispose di no e gli raccontò che era stata operata tre mesi prima, per questo non poteva fare il bagno, né l’arrampicata, né altro. I genitori l’avevano obbligata ad andare con quei ragazzini che si divertivano ma che non capivano nulla. Non capivano niente di niente, disse, e lanciò una pietra che nell’affondare bagnò loro le scarpe. Rimasero in silenzio e rimasero a guardare l’acqua calma, fino a che fu buio e dovettero tornare a tentoni, mano nella mano e guidati dalla luce della colonia. Isaac le promise che avrebbero remato fino al campanile così avrebbe potuto vedere il paese sommerso. Prima di andare via, fecero merenda sotto il limone. Nei giorni precedenti, avevano raccolto i limoni per fare la limonata e ne avevano portato una bottiglia. Bevvero a turno, seduti a tavola, accanto alla quale adesso c’erano due sedie, e mangiarono un panino e della frutta che Isaac aveva preso dalla cucina. Più tardi, spinsero la barca con i pantaloni arrotolati alle ginocchia. Isaac vi salì per primo e la aiutò a salire. Le mancava il fiato e la faccia le andava a fuoco come il giorno in cui si erano conosciuti e lei si asciugava le gambe e si rimetteva i calzini e le scarpe. Isaac remava scalzo. La barca avanzava sull’acqua intorbidita dalle alghe e Blanca vedeva lo scintillio dei pesci sotto il movimento dei remi.

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Isaac fermò la barca e la legò a una delle colonne del campanile, una specie di porticato vuoto in cui dovevano esserci state le campane. Le avevano tolte quando avevano fatto il pantano artificiale, le spiegò mentre tirava i remi in barca. Il tetto gocciolava e si faticava a vedere qualcosa. Degli uccelli avevano fatto il nido sotto il tetto, cinguettavano, muovevano le ali e cacciavano fuori le testoline. Presero un pezzo di pane che avevano portato e ne bagnarono la mollica, che lentamente si disfò. Giunse una miriade di pesci a solleticargli i palmi. Quando i pesci, terminato il pane, andarono via, Isaac le sussurrò di guardare il fondo, ed entrambi avvicinarono il naso all’acqua fredda. S’intravedevano le ombre verdi delle case, delle strade, della fontana. Erano ricoperte di alghe e attraversate da pesci dorati. Rimasero così per un bel po’, con le onde che gli bagnavano la punta del naso. Magari avesse potuto vederlo prima che fosse sommerso, le disse. All’esterno, una tempesta scaricò tutta l’acqua di colpo. Decisero che avrebbero aspettato che spiovesse. Si sdraiarono nella barca e Blanca pensò che le sarebbe piaciuto addormentarsi e svegliarsi lontano, cullata d’acqua. La pioggia picchiava sul tetto del campanile e il vento freddo odorava di pietra bagnata. Da lei questo vento non c’era e mancavano pochi giorni al ritorno a casa. Avrebbe rivisto i suoi genitori, andati ad aspettarla alla fermata dell’autobus, che l’avrebbero aiutata a portare lo zaino e il sacco a pelo. Le avrebbero chiesto come era andata, sarebbero saliti in macchina, di corsa avrebbero attraversato la città e lei sarebbe rimasta in silenzio. Una volta a casa, il padre avrebbe cucinato una frittata e lei si sarebbe chiusa in camera sua e li avrebbe sentiti trafficare con le stoviglie in cucina. – Vuoi vedere una cosa? Si mise a sedere e la barca dondolò. Anche Isaac si sedette e le disse di sì. Blanca si tolse la maglietta, cercando di stare at-

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tenta a non far muovere troppo la barca, che dondolava come una culla, e si slacciò il reggiseno. Isaac abbassò lo sguardo e allungò l’indice. Lo avvicinò con delicatezza alla cicatrice e ne seguì i contorni induriti e lisci, Blanca sentì una pioggerella sulla schiena e avvertì un brivido. Si rivestì e Isaac la abbracciò. Fu allora che Blanca pianse tutte le lacrime che non aveva ancora pianto da quando l’avevano portata nella sala operatoria, l’avevano aperta e richiusa, l’avevano riportata in camera e lei, per la prima volta, aveva sentito il battito del suo cuore nuovo.

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Salto

La mamma mi spalmò la crema sulla schiena graffiandomi lievemente con la sabbia che le era rimasta tra le dita. Dall’ombra dell’ombrellone, vidi due ragazzi tuffarsi da uno strapiombo, cadevano in acqua con uno schianto umido e uscivano ridendo e scuotendo la testa. Chiesi ai miei di lasciarmi provare, lo facevano tutti, ma papà non rispose e la mamma disse che avrei potuto farlo da grande, perché ora avevo solo tredici anni. Si ripulì la crema dalle mani, distribuì dei panini e ci fece fare merenda, seduti in cerchio. Stetti a insistere per tutto il tempo, ma la mamma non alzò lo sguardo dal cruciverba fino a verso sette, quando andò a inseguire Gerard con un asciugamano mentre papà toglieva la sabbia dalle cose. Ogni pomeriggio faceva lo stesso, prima di andare via, ma, puntualmente, una volta a casa, era tutto pieno di sabbia, ce n’era così tanta che avremmo potuto riprodurre un deserto, con tanto di palme e tende beduine. Papà mi disse di spazzare e iniziò a preparare la cena. Quando terminai, feci una doccia veloce, mi prudeva la testa per la salsedine e avevo strati di crema sulla pelle che pareva pittura. In piscina non c’era nessuno. Feci un po’ di immersioni e il morto a galla fino a che Venere comparve nel blu pallido del

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cielo. All’osservatorio ci avevano spiegato che era fatto di pietra e gas, ma dalla piscina sembrava una lucciola. All’ora di cena, la mamma mi rimproverò perché avevo gli occhi rossi per il cloro e Gerard si mise a piangere perché era finito il gelato allo yogurt. Il giorno dopo, stufa del fatto che i miei genitori non mi facessero tuffare dallo strapiombo e visto che il mare era calmo, presi pinne e occhialini. – Non andare lontano! – mi disse la mamma, e Gerard mi seguì, ma iniziai a nuotare e lo seminai subito. Mi urlarono di non andare lontano e di portarlo con me. Feci finta di non sentire e nuotai verso lo strapiombo. Di tanto in tanto, si sentivano le grida e i tonfi della gente che si tuffava. Costeggiai per un po’ gli scogli, guardavo le alghe e i ricci di mare che si ammucchiavano nelle fessure. Andavo giù e prendevo pietre lisce o pezzi di conchiglie, o seguivo qualche corrente fredda che mi faceva venire i brividi. All’improvviso, mi imbattei in un paio di gambe bianche come la sabbia. – Scusa – dissi tirando su la testa dall’acqua. Era un po’ più grande di me e aveva i capelli scuri e gli occhi sgranati. Aprì la bocca e ingoiò un po’ d’acqua che la fece tossire. – Pensavo fossi una medusa. – No, qui non ci sono. Sei in vacanza? – Sì, è la prima volta che veniamo. Siamo arrivati stamattina. – Noi è più o meno da una settimana che siamo qui. Le prestai gli occhialini e continuammo a esplorare i fondali. Non era molto emozionante e non c’erano quasi pesci, soltanto banchi di pesciolini argentati che luccicavano con i raggi del sole e si nascondevano tra le alghe quando ci vedevano. Pren-

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demmo un pezzo di vetro eroso che trovammo sul fondale e giocammo a lanciarlo e a immergerci per andarlo a riprendere. Quando ci stancammo, ci sedemmo sulle rocce e la ragazza, che si chiamava Míriam, guardò verso dei ragazzi che si lanciavano dallo strapiombo. – Hai mai saltato da lassù? Proposi a Míriam di andare a esplorare una grotta nascosta lì nelle vicinanze, non molto lontana dalla spiaggia. Senza dirlo ai nostri genitori, indossammo occhialini e pinne. Era mezzogiorno e faceva molto caldo. Non correva aria e, appena fuori dall’acqua, i capelli si asciugavano immediatamente diventando una crosta di sale. Costeggiammo la scogliera ed esplorammo il fondo, man mano che ci allontanavamo dalla spiaggia si vedevano sempre più pesci, ricci e foreste d’alghe. A volte sbucava qualche pesce dorato, lo indicavamo e ci avvicinavamo. Arrivate alla grotta, Míriam si sedette su una pietra che fuoriusciva dall’acqua e guardò in direzione dell’entrata buia, dalla quale proveniva una corrente fredda. – E se ci sono degli animali o delle murene? – Non c’è nulla – dissi senza esserne molto convinta. – Ci sono soltanto pietre rosa sul fondale, sul soffitto e sulle pareti. E una piattaforma in pietra. Se vuoi ci possiamo salire. – Come lo sai? Le raccontai che mi ci aveva portato mio padre un paio di estati prima. La mamma si era arrabbiata molto e anche Gerard, perché sarebbe voluto venire con noi. – Vuoi entrarci sì o no? – Se vai avanti tu. Mi misi gli occhialini e nuotai lentamente. L’entrata della grotta era un corridoio stretto e l’acqua, quel giorno calma, sbatteva producendo piccole onde e schiuma. Guardai il fondale,

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perché avevo paura di fermarmi nel vedere il buio che avevo davanti. Come avevo detto a Míriam, c’erano pietre rosa e non c’era quasi sabbia. L’acqua era limpidissima, ma una volta dentro facevamo fatica a vedere. Salimmo sulla piattaforma. Non si sentiva niente, soltanto le onde e il rumore attutito della gente che si tuffava dalla scogliera. Sembrava di essere in una bottiglia. – Mi piacerebbe tuffarmi. – Míriam si strizzò i capelli e un filo d’acqua cadde sulla pietra. Dondolai le gambe. – Se siamo arrivate fino alla grotta senza farci vedere, possiamo anche tuffarci senza che se ne accorgano. Decidemmo che l’avremmo fatto il giorno prima della festa di compleanno di Míriam. Míriam sarebbe venuta a chiamarmi a casa prima di cena. Ognuna di noi avrebbe detto ai propri genitori che sarebbe andata a cenare a casa dell’altra, ma sotto i vestiti avremmo indossato i costumi e avremmo portato una busta con dentro un asciugamano, un paio di panini e le torce da usare lungo il cammino. Ci saremmo tuffate tutte le volte che avremmo voluto e saremmo tornate a casa dopo cena.

Ma il giorno prima della festa non vidi Míriam per tutto il giorno. Il pomeriggio successivo, tornati dal mare, feci la doccia e non andai a fare il bagno in piscina, e vidi Venere dal terrazzo, mentre la mamma mi spazzolava i capelli per farmi una treccia. Alle otto, mi lasciarono davanti al suo portone e mi dissero che sarebbero venuti a prendermi alle undici. Bussai e, mentre aspettavo che aprissero, mi lisciai il vestito; era blu scuro e nuovo, come i sandali. Mi faceva sentire strana, come se fossi travestita, perché in tutta l’estate avevo sempre indossato il costume e la maglietta con le etichette che mi sfregavano il collo. Venne ad aprire il padre di Míriam. Nella sala da pranzo c’era una tavola con sopra delle patatine, dei panini, delle bibite

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e un mucchio di regali. A destra c’era Míriam, circondata da ragazze che non conoscevo. – Ciao. Le ragazze ridevano in modo acuto e Míriam mi salutò con la mano. Le diedi il regalo, una bottiglietta di profumo avvolta in una carta argentata. Avrei voluto comprarle un’altra cosa, ma quando la mamma mi aveva chiesto cosa, non avevo saputo risponderle. – Grazie. Lascialo accanto agli altri, lo aprirò dopo la torta. – Míriam mi sorrise e continuò a parlare con le altre ragazze. Rimasi con loro. Sorridevo come se non fosse successo niente e aspettavo il momento di essere sola con lei per chiederle perché non era venuta. Volevo dirle che avevo dormito vestita e col costume, abbracciata allo zaino con l’asciugamano e due panini che avevo preparato di nascosto. Volevo sapere perché ora si comportava come se non fossimo mai andate alla grotta. Dopo un po’, assaggiai delle patatine e mi versai un bicchiere di Coca-Cola con molto ghiaccio. Non c’era modo di poter parlare con Míriam, che diceva, con bisbiglii accelerati, che i ragazzi stavano per arrivare, così andai a sedermi su una sedia di ferro in terrazzo e attesi le undici. L’appartamento era al settimo piano e da lì si vedeva il mare. Pensai alla spiaggia, e all’acqua, che a quest’ora doveva essere calda per tutto il sole che aveva preso di giorno, e ai pesci che, avevo sentito dire, saltavano soltanto con la luna piena. Attraversai il paese e mi infilai nella stradina che portava al mare. Udivo il canto dei grilli e c’erano le lucciole a farmi compagnia lungo il cammino. La luna era talmente piena che tingeva ogni cosa d’azzurro. Nel cielo, oltre alla luna, si vedeva soltanto Venere. Era un peccato, avrei voluto vedere le costellazioni indicateci all’osservatorio.

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Mi tolsi i sandali perché cominciavano a farmi male e continuai scalza. Ebbi la polvere calda e gli aghi di pino sotto i piedi fino a che mi lasciai il bosco alle spalle e iniziai a percorrere il viale che costeggiava la parte alta della scogliera. In spiaggia non c’era nessuno. Piantai i sandali nella sabbia, in un angolo, e salii sullo strapiombo. Avevo l’affanno e il vestito si attaccava alla schiena per il sudore. In cima, la roccia era un trampolino umido. Mi ci accostai in ginocchio e, afferrata saldamente perché c’era molto vento, sporsi la testa dal bordo. Sotto, l’acqua era scura e piatta. Mi tolsi il vestito, il reggiseno e le mutandine e li misi sotto una pietra perché non li portasse via il vento. Ora che ero in cima, lo strapiombo sembrava più alto, sicuramente di giorno avrebbe fatto meno paura e non si avrebbe avuto il timore di essere inghiottiti dal mare. Mi accorsi che se avessi indugiato anche solo un istante, non mi sarei mai più tuffata, così, presi la rincorsa e saltai più lontano che potei. Avevo gli occhi aperti ma non vedevo niente, avvertivo soltanto il vuoto tra lo strapiombo e il mare, il vento in faccia e poi l’acqua. Non sapevo se ero dritta o storta fino a che non toccai la sabbia del fondale con le dita e mi diedi la spinta verso l’alto, avvolta dalle bollicine e da una nuvola di sabbia. Tirai fuori la testa dall’acqua e iniziai a ridere, il cuore batteva forte e la pelle mi bruciava. Nuotai, feci immersioni e andai alla ricerca di pietre e conchiglie a tentoni. Quando mi stancai, galleggiai sotto la luna e Venere, dietro la loro luce rifulgevano tutte le altre stelle e pianeti. Avrei potuto rivederli, se fossi tornata. Rimanevano ancora molti giorni d’estate.

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Quest’uomo è davvero mio padre?

Era un sereno giorno d’inverno. Trasportavamo un carico di non so cosa molto lontano, al nord. Mio padre aveva riposto le mie cose in cabina e, prima di andare via, aveva controllato che fosse tutto in ordine. Dal sedile dell’accompagnatore, lo vidi frugare nel motore e macchiarsi la camicia di grasso. Poi, con un tubo, iniziò a bagnare il camion. Gli aveva dato un nome, come si fa con le barche, attaccando delle lettere adesive azzurre, ormai scolorite, sulla sua portiera. Papà guidò tutto il giorno, ci fermammo soltanto per pranzo a mangiare dei panini in un’area di sosta. L’erba era malmessa, sparsa a chiazze spettinate e marroni. Mangiammo in fretta, su una tavola gelida di pietra, poi buttammo la carta argentata e le bucce d’arancia in un cestino vuoto. Il camion vibrava e russava mentre papà taceva. Guidava con gli occhi inchiodati all’autostrada e stringeva forte il volante. Al calar del sole i campi e i colli divennero viola. I fari dei camion illuminavano la strada e le macchine che ci sorpassavano. Una di esse aveva la luce interna accesa. Una donna guardava una cartina, era dispiegata e occupava quasi tutto il parabrezza. Seguiva il cammino con un dito e indicava qualcosa al con-

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ducente. Li vidi solo per un istante, poi la macchina spense la luce e accelerò. Ci fermammo in un’area di servizio per trascorrervi la notte. Attraversammo il parcheggio, i camion e la gente che gridava in prossimità delle luci colorate del ristorante. Papà camminava davanti a me, a testa bassa, con passi lunghi e affrettati. Sedemmo al bancone e papà strinse la mano al cameriere, un uomo robusto che ci preparò una cena buona e calda e che ci offrì una fetta di torta. Chiacchierarono per un bel po’ mentre io facevo le parole crociate su un giornale che qualcuno aveva dimenticato. Al ritorno, gli altri camionisti ci videro e salutarono papà. Gli davano pacche sulle spalle. Mi chiedevano se fossi sua figlia e risposi di sì e diedi loro la mano. Papà mi prendeva dalle spalle, stringendomi. Preparammo il camion per la notte. Ricoprimmo i materassi con lenzuola a fiori e coperte di lana. Papà accese la luce interna dell’abitacolo, aprì poco poco i finestrini e mi disse che andava a prendere un caffè ma che sarebbe tornato presto. Chiuse la portiera e sentii come si allontanava. Dietro la tenda che divideva la cabina, infilai il pigiama e spensi la luce. Raggiunsi il letto superiore e mi coprii con la coperta. Udivo voci roche, ruggiti, cigolii, clacson. L’odore forte della benzina. Continuavo a muovermi. Mi rigiravo, mi mettevo a pancia in su, mi prendevo le ginocchia. La coperta pizzicava. La buttai giù dal letto col piede. Pensavo a quell’estate in camion con papà. Faceva molto caldo. Stetti per un giorno intero col braccio fuori dal finestrino, facendolo ondeggiare al vento caldo e furioso dell’autostrada, e così mi scottai. Papà estrasse un barattolo di crema da sotto il suo sedile e me la spalmò con cura. Mi disse che con quel braccio rosso sì che ero una vera camionista, e ridemmo. Passammo la notte in un’area di servizio non illuminata, persa nel buio. Papà spense le luci del ca-

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mion e tirò fuori due sedie pieghevoli dalla cabina. Cenammo con dei panini e della frutta, poi guardammo le stelle e papà iniziò a raccontarmi alcune delle sue avventure, come quella in cui aveva incontrato una volpe nel nord della Francia o quella del giorno in cui piovve così tanto che la strada si convertì in fiume e navigò su di essa a motore spento. Faceva un po’ freddo. Presi la coperta da terra e mi accorsi che c’era un insetto sul tetto. Pendeva a testa in giù e batteva le ali. Volò e ronzò per un bel po’. Pensai che forse era lì dall’estate e, col freddo che faceva, lì fuori sarebbe morto. Chiusi i finestrini. Mentre ero sul punto di addormentarmi, lo sentivo urtare contro il vetro e passarmi accanto all’orecchio, finché non lo sentii più. Papà tornò che era ormai giorno. Mi svegliò l’odore del caffè caldo e il rombo del motore. Aprii un occhio e, tra le tende, lo vidi bere da un termos fumante che, come un alito, appannò il parabrezza. Mi tirai su e scorsi la tenda. Eravamo in autostrada, ingrigita dalla luce del mattino. Sedetti al mio posto con ancora il pigiama e papà mi diede un croissant in un sacchetto di carta e un bicchiere di latte e cacao caldo. Attraversammo campi immensi e giungemmo ai freddi boschi del nord. Lasciammo l’autostrada e imboccammo una strada stretta e tortuosa. L’asfalto era umido e gli alberi alti e fitti. Per tutto il giorno ci fu una luce opaca, come se fosse sempre pomeriggio, poi il cielo si scurì di colpo. Attraversammo la frontiera che pioveva. Si vedevano una coda lunghissima e le migliaia di luci rosse delle macchine ferme come noi, papà mi disse di andare a dormire. La pioggia batteva sul tetto e un vento gelido entrando dal finestrino smuoveva la tenda. Mi coprii bene con la coperta e, quando mi svegliai, eravamo di nuovo in strada.

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Ci fermammo in un’area di servizio per fare colazione. Papà era rimasto sveglio tutta la notte, come altre volte era successo, però stavolta disse di voler fare un riposino, sbadigliò, si stese sul letto di sotto e si addormentò. Terminai la colazione e rimasi seduta, non sapendo che fare. Fuori pioveva ancora. Papà russava e si rigirava nel sonno. Sotto il sedile del conducente non trovai alcun ombrello, c’era soltanto un impermeabile che mi andava grande. Scesi dal camion e mi bagnai le scarpe e l’orlo dei pantaloni in una pozza. L’acqua era fredda e sporca, piena di fango, e la pioggia scivolava sul cappuccio bagnandomi il naso e la frangia. Dovevamo essere vicini alla frontiera, perché si vedevano molti camion provenienti da differenti paesi. Mi parvero bestie addormentate, e vi passai accanto in punta di piedi. Osservai targhe e cabine. La maggior parte di esse erano vuote, in alcune il conducente dormiva, leggeva o fumava. Più in là, c’era una casetta bianca, diversi erogatori di benzina e un negozio. Passando da dietro, arrivai a un prato che si estendeva fino a uno strapiombo affacciato sulla valle ricoperta di nebbia. Vi passeggiai per un po’, poi, stesa a pancia in giù, sporsi la testa dal bordo. Il biancore della nebbia era accecante. Era così spessa che avrei potuto staccarla come fosse ovatta. Lentamente saliva ricoprendo gli alberi ritorti dello strapiombo. Mi arrivò sulla faccia per un istante. Mi accarezzava come una mano fresca sulla fronte in un pomeriggio di febbre. Quando riaprii gli occhi, era tutto bianco e pioveva ancora, ritornai facendomi guidare dai rombi dei camion nel parcheggio. Passai accanto alla casetta dove una fila di camionisti si riparava sotto il tetto di lamiera. – Ehi, tu! – gridò uno di loro, un uomo corpulento e barbuto come un leone che emergeva dalla nebbia. – Tu non sei la figlia di Marc? Mi fermai all’istante e gli risposi di sì.

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– L’avevo immaginato. Sono Aitor. Ci incontriamo spesso, durante le trasferte, io e tuo padre. Ci siamo conosciuti qualche estate fa, forse non te lo ricordi. Eri una bambina molto sveglia. Quanti anni hai, adesso? – Quattordici. – Come passa il tempo. I miei hanno più o meno la tua età. – L’uomo accese un sigaro facendolo girare tra il pollice e l’indice. Mi guardava, lì sotto la pioggia, nello stesso modo in cui ci aveva guardati quando mamma se ne andò. – Ho saputo che gli terrai compagnia. Ti piace viaggiare con lui? Feci di sì con la testa e tirai i lacci del cappuccio. Sentivo i tuoni in lontananza. – Devo andare, papà mi sta aspettando. – Se facciamo la stessa strada forse più tardi ci rincontriamo. Salutamelo! Mi misi a correre. Feci fatica a trovare il camion tra la nebbia. Poi, finalmente, vidi sporgere la parte anteriore bianca e brillante. Papà mi aprì la portiera e mi infilai in cabina con in mano le scarpe e i calzini per non sporcare a terra. Papà mi chiese dov’ero stata, gli dissi che ero andata in esplorazione e che lo salutava Aitor. Annuì e azionò il riscaldamento. Mi tolsi l’impermeabile e, dopo essermi cambiata i vestiti, ci rimettemmo in viaggio. Dal retrovisore, vidi il camionista-leone sorpassarci. Fece due colpi di clacson e papà ricambiò mettendo fuori il braccio dal finestrino. Il bosco sembrava non avere fine. Gli alberi erano fitti, attaccati gli uni agli altri e la strada faceva di continuo su e giù. Avanzavamo lenti, col russare fioco di un orso addormentato. Ogni tanto, appariva uno scoiattolo. Lasciava delle orme sulla neve a bordo strada poi saliva sugli alberi, dai quali gocciolava neve sciolta.

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Ci fermammo in un’area di servizio di un paesino. C’era Aitor appoggiato al suo camion che fumava. Anche lui come noi si dirigeva a nord, per una consegna urgente di fiori di plastica. Cenammo nel bar accanto al distributore. Mentre ci servirono il brodo iniziò a nevicare, per quando portarono il secondo la neve si era già ammucchiata sulla finestra. Disse il cameriere che quella notte avrebbe gelato di sicuro. Aitor mise in bocca gli ultimi due pezzi di stufato e disse che non avrebbe rischiato, sarebbe partito per evitare di rimanere bloccato. Avrebbe attraversato il bosco quella notte stessa e il giorno dopo avrebbe dormito in una pensione che conosceva. Andò via senza mangiare il dessert. Papà lo guardava sparire dietro la cortina di neve e mi chiese se me la sentivo di fare lo stesso. Dissi di sì. Papà si fece riempire il termos del caffè e ce ne andammo. I fari del camion illuminavano la strada e i fiocchi di neve, che vorticavano come fossero cenere. Si faticava a vedere la strada. I rami secchi degli alberi graffiavano il tetto. Le spazzole facevano su e giù con un ticchettio d’orologio, papà stringeva il volante. Ogni tanto beveva dal termos, il caffè scaldava la cabina. Mi chiesi se avesse fatto molte volte quella strada, illuminata soltanto dai fari a mezzanotte, tenuto sveglio dal caffè e con gli occhi rossi per la stanchezza. Forse, qualche notte, pensavo stringendo la cintura di sicurezza mentre il camion ruggiva come una barca a motore in un lago scuro, gli era preso sonno e si era addormentato, pensando che non avrebbe nevicato, invece, al risveglio, aveva trovato la neve, rimanendo bloccato col camion e il carico congelato. L’ultima volta, eravamo stati via solo tre giorni, soleggiati e afosi, per una consegna lontana da casa. A quei tempi, il camion era più nuovo, le scritte sulla portiera non erano così scolorite e al ritorno c’era mamma ad attenderci.

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Papà fermò il camion in un’ampia piazzola e mi chiese di aiutarlo a montare le catene. Gli feci luce con la pila mentre le stendeva a terra e gli feci il segno per poter far marcia indietro con il camion, prima di fissarle sulle ruote. Per un istante la vidi, la rosa, rossa come brace nel bel mezzo della strada. Vi passammo sopra e affondò nella neve. – Hai visto? Sembrava un fiore… Papà scrollò le spalle. – Sono certo che non era niente. Poi ne comparvero altri, rose, magnolie, lillà e orchidee, brillanti e rigidi, mezzo coperti di neve, come a un matrimonio. Incantata, accolsi con sorpresa la frenata di papà e lo slittare del camion. Mi coprii la testa con le braccia e la cintura mi diede uno strattone sul petto che mi lasciò senza fiato. Quando fummo completamente fermi, papà iniziò a correre sulla neve, fu allora che vidi il camion di Aitor ribaltato. Tutto il carico era sparso in strada, quei fiori di plastica, quella primavera irreale. Non so per quanto rimasi in cabina. Vidi come papà arrivava al veicolo ribaltato. Sentivo il motore, ancora acceso, il vento e una voce spaventata, acuta e rotta. Forse era papà che gridava, o Aitor che chiedeva aiuto. Quella voce mi spinse ad uscire. Il freddo mi intorpidiva il viso e mi obbligava a serrare gli occhi. Attraversai la strada e andai verso il buio della cabina. Il parabrezza era completamente infranto, la carrozzeria, ammaccata. Vedevo i vetri sparsi sulla neve, una scia rossa a terra e due corpi più in là. Mi voltai verso il nostro camion lasciando andare un sospiro e portandomi le mani alla bocca; i fari mi accecarono e chiusi gli occhi. Sentii un’altra voce. Una voce grave e pacata e, mi accorsi, conosciuta. Era papà, papà che mi parlava.

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– Nora. Stai tranquilla. Vai a prendere le coperte e la valigetta del pronto soccorso. Portai la valigetta e tutte le coperte, i fazzoletti, le sciarpe e i maglioni che trovai con una fitta per lo sforzo e un’altra di paura nel petto. Per strada, calpestai una pozza nera che scioglieva la neve e si stendeva sull’asfalto fino ad arrivare alle mani di papà, completamente rosse, che stringevano la gamba di Aitor. S’era tolto il maglione e gli faceva una sorta di laccio emostatico con la camicia e un bastone. Prese le coperte e i vestiti che avevo portato e lo coprì per bene, gli avvolse persino la testa con la mia sciarpa. – Torno subito – mi disse dopo essersi rimesso il maglione. – Rimani accanto a lui e parlagli. Corse verso il camion e sentii il colpo di tosse emesso dalla radio. Poi azionò le luci di emergenza e vidi che tirava fuori i triangoli, indossava il gilet catarifrangente e spariva nel buio. – Presto verrà qualcuno – gli dissi. Mi inginocchiai accanto a Aitor. Aveva gli occhi aperti, ma era immobile e non parlava. Papà l’aveva coperto, tanto che sapevo che respirava per una nuvoletta d’alito che si produceva sulla sua bocca. Lo vedevo sfocato e giallo alla luce dei lampeggianti. Aveva il volto ferito e gonfio. I fiocchi di neve gli cadevano sulla fronte e sulle ciglia. Presi un pezzo di cotone morbido dalla valigetta dei medicinali e lo pulii, piano piano, sfiorandolo appena, fino a che la neve sciolta gli scivolò per le guance. Tremava. La sciarpa si allentò e, da sotto le coperte, venne fuori una mano tesa. Ebbi paura, molta paura. Lo ricoprii per bene, mi tolsi la giacca e lo rimboccai. Mi distesi accanto a lui e lo abbracciai fino a che smise di tremare. L’asfalto era gelido, la neve pareva quasi calda. Ci ricopriva maternamente. Riuscivo a sentire il debole battito di Aitor che, a tratti, tremava e allora lo strinsi ancora più forte iniziando a raccontargli dei giorni trascorsi con papà, della strada percorsa, delle cose viste.

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Lo stringevo e parlavo quando, in lontananza, vidi papà carico di scatole. Ci guardammo e fu come se non ci vedessimo da una vita. Aprì le scatole e ci coprì con i fiori, che si muovevano al debole respiro di Aitor facendomi solletico al naso. Odoravano come l’armadio di casa nostra. Una volta svuotate le scatole, papà si sedette lì accanto e mi strinse forte la mano. Mi disse: – Andrà tutto bene.

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Indice

Gli altri e noi Introduzione di Emanuela Forgetta



p. 11

Nelle città nascoste

Incendio

p. 19

Amore

p. 31

Settembre

p. 43

Responsabilità

p. 51

Gatto

p. 59

Bosco

p. 65

Nord

p. 71

Volpe

p. 75

Barcellona

p. 83

Copenaghen

p. 89

Segreto

p. 93

No

p. 101

Cuore

p. 109

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Salto

p. 117

Quest’uomo è davvero mio padre?

p. 123

Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste.

Nelle città nascoste «L’asfalto era gelido, la neve pareva quasi calda. Ci ricopriva maternamente. Riuscivo a sentire il debole battito di Aitor che, a tratti, tremava e allora lo strinsi ancora più forte iniziando a raccontargli dei giorni trascorsi con papà, della strada percorsa, delle cose viste. Lo stringevo e parlavo quando, in lontananza, vidi papà carico di scatole. Ci guardammo e fu come se non ci vedessimo da una vita. Aprì le scatole e ci coprì con i fiori, che si muovevano al debole respiro di Aitor facendomi solletico al naso. Odoravano come l’armadio di casa nostra. Una volta svuotate le scatole, papà si sedette lì accanto e mi strinse forte la mano. Mi disse: – Andrà tutto bene.»

Natàlia Cerezo nasce a Castellar del Vallès nel 1985 e A les ciutats amagades (2018) è il suo libro d’esordio. In esso allestisce una celebrazione del piccolo, del quotidiano, del particolare che, con linguaggio asciutto e diretto, fa arrivare al lettore in modo inequivocabile. A tratti, la sua scrittura ricorda quella della Munro, le sue ambientazioni rievocano quelle della Keegan, mentre il suo sguardo poetico, grato delle molte letture, restituisce il simbolismo magnetico della Plath.

Margini | 9 € 7,00

Collana diretta da Filippo La Porta

ISBN ebook 9788855291118