Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire 9788878857278


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Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire
 9788878857278

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NEL TEMPO DELLE CATASTROFI Resistere alla barbarie a venire

Isabelle Stengers

NEL TEMPO DELLE CATASTROFI Resistere alla barbarie a venire a cura di

Nicola Manghi

Traduzioni di Nicola Manghi

© 2021 Rosenberg & Sellier prima edizione italiana: aprile 2021 isbn 978-88-7885-727-8 Pubblicazione resa disponibile nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0

LEXIS Compagnia Editoriale in Torino Srl via Carlo Alberto 55 I - 10123 Torino [email protected] www.rosenberg&sellier.it Rosenberg & Sellier è un marchio registrato utilizzato per concessione di Traumann s.s.

Indice

Stengers things Introduzione a un pensiero Nicola Manghi

esigente

7 Stengers Things. Introduzione a un pensiero esigente 9 Ereditare dai lumi 13 Autorità e autonomia 16 Evento 20 Guerra e pace 25 Presentarsi 28 Sguardi extraterrestri 33 Dopo il progresso 37 Bibliografia Nel

tempo delle catastrofi

Isabelle Stengers 43 Introduzione 45 Tra due storie 52 L’epoca è cambiata 59 L’evento OGM 66 L’intrusione di Gaia 73 Capitalismo 81 Non fare attenzione 87 La Scienza, lo Stato e l’Impresa 94 Enclosures 100 Cause comuni

108 Potrebbe essere pericoloso 115 Pericolo di regresso? 122 Stupidità 129 Apprendere 136 Operatori 142 Artifici 148 Onorare 153 Bibliografia Dopo l’intrusione Nicola Manghi 155 Intervista a Isabelle Stengers

Nicola Manghi (1991) è antropologo, dottorando presso l’università di Torino. Svolge le proprie ricerche tra Tuvalu, piccolo stato insulare polinesiano, e Aotearoa/Nuova Zelanda. Ha curato una raccolta di scritti di Bruno Latour (Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino, 2019).

Stengers Things. Introduzione a un pensiero esigente1 di Nicola Manghi

Il profilo di Isabelle Stengers è tra i più singolari nel panorama intellettuale europeo. Nata a Bruxelles nel 1949 e passata alla filosofia al termine degli studi di chimica che aveva inizialmente intrapreso, Stengers è assurta presto a notorietà internazionale, firmando a quattro mani con Ilya Prigogine, allora fresco vincitore del premio Nobel per la chimica, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, pubblicato nel 1979. Dopo il grande successo del volume, Stengers ha poi proseguito i propri studi in direzioni originali e che molti avranno ritenuto spiazzanti, occupandosi tra le altre cose d’ipnosi, droghe, magia, e accostando a questi studi una costante riflessione critica sui saperi scientifici e la loro storia. Attualmente, il suo nome è divenuto un riferimento impostante all’interno del rinnovato dibattito sull’ecologia politica. Quello che la lettrice e il lettore si trovano tra le mani è un pamphlet politico, che non indugia in dimostrazioni analitiche o discussioni dotte. Il tono politico, tuttavia, non riduce il tenore filosofico del volume – anzi impegna la speculazione sul versante particolarmente esigente dell’efficacia. Non è tanto questione di convincere accademici, arruolare alla propria scuola di pensiero, giustificare le proprie tesi di fronte alla storia della filosofia: nelle parole dell’autrice, si tratta piuttosto di capire che cosa potrebbe essere una risposta «non barbara» all’«intrusione di Gaia» (infra) e d’individuare le risorse che potrebbero servire al compito di costruirla. 1 Queste pagine costituiscono in larga parte il precipitato delle chiacchiere e riflessioni che hanno accompagnato anni di studio e letture spesso collettivi. Voglio qui ringraziare Marialena Avgerinou, Dario Bassani, Luca Fabbris, Giulia Gottardo, Niccolò Lucarini, Giulio Piatti e Jacopo Rasmi, che di queste chiacchiere e riflessioni sono stati in momenti diversi appassionati compagni, e di questo testo, in una qualche fase del suo sviluppo, attenti lettori. Michele Spanò merita un ringraziamento particolare per la consueta gentilezza e puntualità con cui ha letto e commentato una bozza di questo scritto – ma più in generale per un dialogo aperto che negli anni ha contribuito in maniera decisiva a nutrire i pensieri che qui trovano occasione di una loro formulazione. Evidentemente, nulla di tutto ciò toglie che limiti e insufficienze di quanto segue siano da imputare a me solo.

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Date queste premesse, è evidente come un’introduzione corra il rischio di appesantire quello che dichiaratamente si vuole un «intervento» (infra), una presa di parola che chiede di esser misurata non nei termini dell’esaustività, bensì in quelli, pragmatici, dei propri effetti. Se ciononostante abbiamo ritenuto che potesse valerne la pena, è perché per molti, in Italia più che altrove, il nome di Stengers rimane ancora in larga parte legato alla collaborazione con Prigogine e quel pensiero della complessità che allora, soprattutto nel nostro paese, l’accolse con entusiasmo2. L’inquadramento epistemologico del pensiero di Stengers, presto canonizzata come filosofa antipositivista e antiriduzionista, se indubbiamente intercetta un nucleo problematico che soprattutto ai tempi della pubblicazione de La nuova alleanza fu al centro delle sue esplicite preoccupazioni, si espone tuttavia al pericolo di smorzare l’originalità del percorso successivo dell’autrice – che a partire dagli anni Ottanta sarà sempre meno a proprio agio con la postura dell’epistemologia, e proprio nel tentativo di trovarne una alternativa giungerà a qualificare il proprio lavoro nei termini di un’«ecologia». Così, è nell’auspicio che a beneficiarne sia proprio l’efficacia dell’intervento che abbiamo ritenuto d’introdurre Nel tempo delle catastrofi ripercorrendo retrospettivamente alcuni fili dell’intricata opera stengersiana – e di farlo, più specificamente, alla ricerca della pista ecologica che la percorre. È nelle pagine di questo libro, pubblicato originariamente nel 2008, che Gaia, dopo qualche sparuta apparizione precedente, fa intrusione nel pensiero di Stengers. Ma sarebbe un errore intendere la preoccupazione ecologica come tema sopraggiunto d’improvviso all’interno della riflessione dell’autrice. Come si cercherà di mostrare, infatti, è il tragitto complessivo di Stengers, il suo procedere esigente all’interno del panorama variegato ed eterogeneo che attraversa, a meritare la qualifica di ecologico, più che l’oggetto fortuito, occasionalmente a forma di pianeta, di una “fase” del suo pensiero. In queste pagine, dunque, non si tratterà tanto di squadernare il vasto repertorio concettuale forgiato da Stengers, quanto piuttosto di seguire il percorso delle congiunture che, di volta in volta, ne hanno reso opportuno l’impiego, l’ampliamento e la rivisitazione. Benché, come detto, elegga l’efficacia a propria condizione di felicità, il pensiero dell’autrice si vedrebbe nondimeno privato della sua portata

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Cfr. Bocchi, Ceruti (1985).

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ecologica da parte di chi volesse ridurlo a cassetta da cui estrarre attrezzi all’occasione: è invece nelle pieghe della sua contestualità concreta – nella maniera in cui, di volta in volta, ha rinegoziato la propria pertinenza – che si dovrà andare alla ricerca della maniera specifica in cui esso pone la sfida della propria rilevanza. Ciò significa anche che il tragitto qui proposto attraverso l’opera stengersiana – scandito in tre tappe principali, corrispondenti ai tre volumi La nuova alleanza, Le politiche della ragione e Cosmopolitiche – in nessun modo può essere scambiato per una storia del suo pensiero. Il procedere cronologicamente ha invece l’ambizione di esporre la vena speculativa di una filosofia che, per essere colta nella propria portata, dev’essere seguita nel suo dispiegarsi storico – nel suo «divergere»3.

Ereditare

dai lumi

«Sono figlia dei Lumi», scrive Stengers in questo libro. E subito dopo precisa: «Ma chi si colloca come erede di un simile evento deve porre la questione di come ereditarne» (infra). Questa affermazione – insieme alla precisazione che la segue  –  dice bene la linea lungo la quale si svolge l’interrogazione ostinata che anima tutta l’opera dell’autrice: da un lato, la passione per le scienze e per il «nuovo uso della ragione»4 associato alla loro invenzione; dall’altro, evidentemente, l’impossibilità di lasciarsi definire passivamente da questa eredità – il rischio sempre presente di essere catturati dalle seduzioni dell’autorità che storicamente vi si è associata. Posta in questi termini la questione, è chiaro che parlare delle scienze, per Stengers, implichi di necessità l’evocazione di una scena più-che-epistemologica. È solo in seguito che Stengers parlerà di un approccio «etico, estetico ed etologico»5 alle scienze, ma già ne La nuova alleanza l’impresa scientifica veniva posta con decisione sul piano della storia naturale: «La scienza occidentale, fondata nel xvii secolo, ha aperto soltanto un nuovo capitolo nel dialogo senza fine tra la vita

3 In questa sede non potremo soffermarci sul lavoro più propriamente metafisico che Stengers ha condotto in particolare lavorando su Whitehead (Stengers 2002). Il cantiere del «pragmatismo speculativo» (Debaise, Stengers 2016) di Stengers, in ogni caso, non è limitabile a una serie di pubblicazioni scelte, e attraversa invece tutta la produzione dell’autrice. Le coordinate generali del rinnovamento metafisico che i lavori di Stengers hanno contribuito a propiziare sono ben descritte da Pierre Montebello (2015). Per approfondire, si veda anche Didier Debaise (2015). 4 Stengers (1993, tr. it. 101-106). 5 Cfr. Stengers (1993).

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e il suo ambiente»6. Coerentemente con un simile approccio, già quel volume, nel dettagliare la sfida che le ricerche di Prigogine, condotte al confine tra fisica e chimica, ponevano al pensiero scientifico e filosofico, si produceva in un’appassionata genealogia delle scienze moderne che proprio nella loro concreta storicità – nel dialogo serrato coi loro ambienti – individuava il profilo della loro originalità. Nella contingenza, l’obiettivo polemico di Prigogine e Stengers – che motivava anche il titolo del loro libro – era la caratterizzazione delle scienze che il biologo premio Nobel Jacques Monod, in un libro altrettanto fortunato, Il caso e la necessità, aveva offerto dieci anni prima. Monod aveva parlato di una scienza che, «senza proporre alcuna spiegazione, impone invece una rinuncia ascetica a qualsiasi altro cibo spirituale», proponendoci l’«Idea della conoscenza oggettiva come unica fonte di verità autentica», capace di denunciare «l’antica alleanza animistica dell’Uomo con la Natura, sostituendo a questo prezioso legame solo un’ansiosa ricerca in un universo gelido di solitudine»7. Le “strutture dissipative” su cui Prigogine concentrava le proprie ricerche, invece, configurando una dinamica di ordine e disordine intrinsecamente creativa, più articolata e complessa di quella, dicotomica, del caso e della necessità monodiani, sabotavano alla radice la pedagogica linearità del concatenamento di conseguenze che il biologo francese pretendeva di trarre dalle sue ricerche. Il chimico russo-belga, così, presentava la propria ricerca nei termini di un’avventura, e come avventura proponeva di caratterizzare l’impresa scientifica nella sua totalità: «Il sapere scientifico sbarazzato dalle fantasticherie di una rivelazione ispirata, soprannaturale, può oggi scoprirsi ascolto poetico della natura, processo aperto di produzione e d’invenzione, in un mondo aperto, produttivo e inventivo»8. Nel recensire entusiasticamente il volume su “Le Monde”, Michel Serres scriveva: «I risultati migliori sono quelli capaci, al tempo stesso, di dire il proprio metodo»9. E tuttavia, di un volume presto canonizzato come un classico della complessità, la lezione di metodo rischiava di rimanere lettera morta. Come Stengers avrebbe presto constatato, esporre la scienza come avventura non bastava a tenere

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Prigogine, Stengers (1979, tr. it. 6-7). Monod (1970, tr. it. 136). Prigogine, Stengers (1979, tr. it. 288). Serres (1980).

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il libro al riparo da un pubblico attratto in primo luogo dalla parola autorevole dello scienziato: «Mentre cercavamo di presentarvi la fisica come un’avventura, La nuova alleanza è stata ricevuta da molti come una garanzia: dei fisici ci autorizzano a pensare che il mondo non è la piattezza di leggi di cui ciecamente dedurre le conseguenze»10. Se Prigogine e Stengers avevano l’ambizione di creare una nuova pragmatica dei saperi, d’inaugurare una maniera nuova di proporsi alla città, la reazione entusiasta di molti – filosofi, sociologi, o quegli psicanalisti che «si erano messi a vedere nel corso dell’analisi delle “biforcazioni”, delle “strutture dissipative” con una mancanza di gusto veramente inquietante che offre testimonianza della fascinazione che loro avevano per le “scienze dure”»11 – tradiva la postura subalterna dalla quale questi guardavano alle scienze “dure”, più che esibire la gioia di una risvegliata capacità di pensare, insieme a esse, in direzioni inedite. Molti, insomma, sembravano soprattutto contenti che il discorso del fisico avallasse il fragile statuto epistemologico delle loro discipline, piuttosto che interessati alla sfida, che Prigogine e Stengers lanciavano, di ripensare in termini più simmetrici i rapporti tra i saperi. Per dirla con il lessico di Nel tempo delle catastrofi, Stengers scopriva d’improvviso le insidie tramite cui «ambienti malsani» (infra) minacciavano di avvelenare la proposta che con Prigogine aveva avanzato. È a questo snodo – a tutti gli effetti ecologico, se, come aveva scritto Bateson qualche anno prima «vi è un’ecologia delle idee cattive, proprio come vi è un’ecologia delle erbacce»12 – che va ricondotto il tono polemico che punteggerà tutti gli scritti successivi di Stengers. Si trattava allora, dal suo punto di vista, di rendersi immuni a queste tossicità, «incommestibili»13 a questi palati voraci. Ma una simile incommestibilità, evidentemente, non poteva essere oggetto di mera dichiarazione d’intenti – pena il ricadere nell’ingenuità di attendersi ambienti benevolenti. Se gli anni Ottanta saranno per lei momento d’incontri decisivi, in cui lavorerà a Parigi, dove avrà modo di frequentare, tra gli altri, Deleuze, Guattari e Latour, è proprio nella dimensione dell’incontro che Stengers coltiverà la ripugnanza della propria filosofia ai gusti indesiderati. Più nello specifico, nella dimensione dell’incontro con

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Stengers, Verstraeten, Mathieu (2000, 54). Grelet, Mangeot, Potte-Bonneville (2002, 6). Bateson (1972a, tr. it. 504). Grelet, Mangeot, Potte-Bonneville (2002, 6).

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una serie di “impresentabili” – ricercatori eretici, che si trovavano al capo opposto, rispetto a Prigogine, nella piramide del prestigio epistemologico, condannati al margine da quella medesima economia dell’autorità che al fisico offriva una velenosa posizione di privilegio. Vale la pena richiamare le circostanze di due tra questi incontri, dei quali anche Nel tempo delle catastrofi reca evidenti le tracce. In primo luogo, Léon Chertok e la pratica dell’ipnosi, che lo psichiatra coltivava e difendeva dalle critiche degli psicanalisti14; e poi i Junkiebonden olandesi, movimenti di tossicodipendenti che aspiravano a creare, e veder riconosciuta dagli esperti ufficiali, un’expertise collettiva sulle droghe e il loro consumo, levandosi – per usare la terminologia che si ritroverà in questo testo – dalla postura passiva dell’«utente» e assumendo quella, attiva e recalcitrante, dell’«utilizzatore», cui Stengers s’interesserà tramite l’amico terapeuta Olivier Ralet15. Sarebbe un errore interpretare questo interesse per saperi marginali come una pratica di relativismo o, chissà, un flirt con l’irrazionale, tentazione avvelenata di un “anything goes” da opporre alle rigidità del canone. Talune delle tematiche su cui Stengers avrebbe finito per lavorare – oltre all’ipnosi e le droghe, possiamo ricordare l’etnopsichiatria, la magia, gli ufo – erano certo lontane da quelle de La nuova alleanza; e tuttavia, nella disposizione certo meno subalternamente benevola che potevano attendersi dai lettori, risultavano forse meglio equipaggiate per esporre il profilo singolare di un approccio che, quanto a esso, rimaneva nella sostanza invariato: mettere in evidenza la maniera specifica in cui un sapere s’adopera per affermare la propria pertinenza, negoziando la propria autonomia su una scena necessariamente più ampia di quella, angusta e sorvegliata, dell’epistemologia; seguire un ricercatore nel suo sforzo per «far importare» (infra) l’oggetto delle sue preoccupazioni, e tentare di prolungarlo. Non si trattava, insomma, di gettare il bambino della singolarità delle scienze con l’acqua sporca dell’epistemologia – casomai, di evitare che vi annegasse. Mentre in questi incontri Stengers coltivava “sul campo” il profilo esigente della sua filosofia, però, eventi contingenti rendevano necessarie ulteriori precauzioni affinché la sua proposta non cadesse nuovamente vittima di ambienti tossici. Al volgere degli anni Novanta, mentre qualche osservatore disattento scambiava la fine della Guerra

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Chertok, Stengers (1989). Stengers, Ralet (1991).

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fredda per la fine della storia e altri farneticavano di civiltà destinate a scontrarsi, il panorama dei discorsi sulle scienze si era arricchito di nuovi approcci che avevano messo ’autorità della scienza nel mirino, e tuttavia con mezzi e scopi differenti da quelli della filosofa belga: si rendeva urgente distinguersene.

Autorità

e autonomia

Nel 1993 Stengers pubblicava Le politiche della ragione, con l’intento esplicito di «inventare», riguardo alle scienze moderne, «una nuova modalità di stupore, un punto interrogativo che non […] destini a privilegiare le scienze sperimentali, e identificare un “motivo”, nel doppio senso musicale e desiderante, che possa distinguere la scienza, renderla capace di diventare non certo oggetto di definizione, ma soggetto di storia»16. Si trattava, per usare un vocabolario caro all’autrice, di tentare una «storia speculativa» delle scienze – una storia, cioè, che s’impedisca di partire da una definizione consolidata di cosa la scienza “sia” per ricostruire a posteriori le tappe di quello che andrebbe riconosciuto come un destino, e ricerchi invece nelle pieghe di questa storia, nell’incertezza stessa delle definizioni, il profilo di una singolarità che l’avventura scientifica possa legittimamente reclamare. Così, se il volume giocava questa partita sul campo dell’invenzione delle scienze moderne, l’intento di Stengers non poteva arrestarsi a un’accurata storiografia, e si annunciava invece come «politico»: animato dall’ambizione, cioè, di recuperare la politicità che fu intrinseca all’evento di quell’invenzione. Riferendosi a Deleuze e Guattari, che in quei termini avevano parlato della nascita della filosofia in Grecia, il proposito era di caratterizzare la nascita delle scienze moderne come «processo contingente»17 – porle «sotto il segno dell’evento»18, e così svincolarle tanto dai sociologismi di “condizioni favorevoli” quanto da una metafisicamente argomentata indifferenza alle circostanze. «Il processo contingente ci invita a “seguirlo”, poiché ogni seguito è sia prolungamento che reinvenzione»19.

Stengers (1993, tr. it. 90-91). «Non c’è una continuità necessaria, dal punto di vista dello sviluppo della filosofia, che va dalla Grecia all’Europa passando per il cristianesimo; si tratta del ricominciamento contingente di uno stesso processo contingente, con altri dati» (Deleuze, Guattari 1991, tr. it. 91). 18 Cfr. Stengers (1993, tr. it. 89-111). 19 Ivi, 90. 16 17

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A ben vedere, erano intenti che non contraddicevano nulla dello spirito che aveva animato La nuova alleanza: collocarsi nel solco delle scienze moderne, per ereditarne un’avventura piuttosto che un privilegio. E tuttavia, come accennato, lo sforzo di Stengers doveva ormai confrontarsi con una nuova tossicità da cui bisognava immunizzarsi – un nuovo gusto cui farsi ripugnanti. Se, in effetti, alla fine degli anni Settanta, l’attività degli scienziati si trovava grosso modo indisturbata nella propria autonomia, oltre che venerata nella sua autorità, a partire dagli anni Ottanta erano cominciate a sorgere critiche di tipo nuovo, le quali, mosse dalla volontà – che era stata anche, almeno in parte, di Prigogine e Stengers – di farla finita con con una certa riverenza nei loro confronti, suscitavano negli scienziati reazioni di un fastidio particolare. Nel Regno Unito, un manipolo di studiosi – storici, filosofi, scienziati stessi – aveva sviluppato un approccio che pretendeva di estendere la portata della sociologia oltre quel “contesto” cui la lezione di Robert K. Merton aveva ritenuto dovesse limitarsi, per farsi anzi lente privilegiata nel portare alla luce le dinamiche di “costruzione sociale” del sapere scientifico. Non più sociologia della scienza, dunque, bensì sociologia della conoscenza scientifica – dell’ambito specialistico, interno, di fronte alla quale i sociologi erano stati sino ad allora felici di arrestare il dominio delle proprie ricerche. Sotto il nome di Sociology of Scientific Knowledge (ssk) erano andate radunandosi sensibilità e progetti intellettuali eterogenei, ma nondimeno accomunati dall’ambizione di demistificare l’ideale di una scienza autonoma rispetto ai propri ambienti, dimostrando che la sociologia aveva qualcosa da dire sulla dimensione tecnica del sapere scientifico – non soltanto laddove esso è colto in fallo bensì anche nei casi in cui esso si trova storicamente sanzionato come “vero”20. L’ambizione coltivata dalla ssk può essere efficacemente illustrata facendo riferimento al «principio di simmetria» che David Bloor aveva proposto in uno dei testi fondatori del campo di studi. Secondo quanto affermato da questo principio, «[g]li stessi tipi di causa […] devono spiegare le credenze vere e le credenze false»21. Verità e falsità delle «credenze», anche quelle scientificamente argomentate, diventavano così riflessi storici del più ampio contesto sociale e dei conflitti che lo attraversavano, tratteggiando i contorni di un relativismo che, pur

20 Per una ricognizione del campo variegato della ssk, nonché una valutazione delle sue ambizioni e portata teoretica all’interno della sociologia, si veda Shapin (1995). 21 Bloor (1976, tr. it. 13).

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spesso difeso come esclusivamente «metodologico»22 – pur ritenendosi, cioè, dissociabile da ogni pretesa di carattere epistemologico o ontologico –, definiva una postura provocatoria, destinata, Stengers rilevava, a «doversi scontrare frontalmente con la concezione che gli scienziati alimentano della scienza»23. È vero che la ssk riteneva di occupare, con i metodi della sociologia, uno spazio che era stato aperto da Thomas Kuhn, quando nel 1962 aveva proposto di descrivere l’attività degli scienziati nei termini dei «paradigmi» che tacitamente orienterebbero il loro operare, suggerendo modi di fare e maniere di trattare i problemi di volta in volta incontrati nelle loro ricerche. Ma, a differenza della ssk, la proposta di Kuhn non aveva affatto scandalizzato gli scienziati – i quali, anzi, «amavano molto i paradigmi di Kuhn»24. Dal loro punto di vista, in effetti, sottolineava Stengers, la descrizione proposta dallo storico americano «salvaguarda l’essenziale: l’autonomia di una comunità scientifica rispetto al proprio contesto politico e sociale»25. L’idea che a delimitare quest’autonomia fossero «paradigmi» che Kuhn voleva tra loro «incommensurabili»26, invece, sembrava recare scandalo presso i filosofi della scienza – i quali, osservava di nuovo Stengers, si trovavano d’improvviso privati di «ogni statuto privilegiato: non sono né arbitri né testimoni, e non sono nemmeno quelli che sanno decifrare le norme che funzionano implicitamente all’interno delle scienze e che permettono di distinguere la scienza dalla non scienza»27. L’inscrizione della ssk nel solco di Kuhn, dunque, poteva avvenire soltanto al prezzo di una traduzione dell’incommensurabilità dei paradigmi in una sostanziale arbitrarietà che, a dispetto delle intenzioni metodologiche, esponeva il lavoro degli scienziati a facile critica. La ssk finiva in tal modo per tradire tanto la proposta epistemologica di Kuhn – che per questo filone di studi avrebbe avuto solo parole di aspra critica  –  quanto la sua politica: sottoposti al «principio di simmetria», i paradigmi smettevano di garantire l’autonomia degli scienziati, per esibirla invece nella sua ingiustificabilità.

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Per esempio da Harry Collins (1981). Stengers (1993, tr. it. 17). Ivi, 5. Ivi, 6. Kuhn (1962). Stengers (1993, tr. it. 9).

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Evento Dalla prospettiva di Stengers, era un’operazione di cui si rendeva necessario evidenziare i pericoli. Mentre ripercorreva la storia delle scienze moderne con fare costruttivista, allora, l’autrice doveva preoccuparsi attivamente di distinguere quanto andava proponendo da un discorso con cui il lettore disattento avrebbe corso il rischio di scambiarla. La politicità che si trattava di creare era di tutt’altro segno rispetto a quella dei sociologi relativisti. Certo, la conoscenza scientifica è “costruita”, e un simile enunciato va difeso di fronte alla tradizione epistemologica; al tempo stesso, tuttavia, quest’artificialità non può finire per contrapporsi a una “verità” che di necessità rappresenta l’ambizione propria di ogni pratica che si dica scientifica. Dal punto di vista storico che l’autrice faceva suo nell’occasione, allora, bisognava mostrare che non solo verità e costruzione, realtà e finzione, non sono necessariamente contrapposte l’una all’altra; ma che la singolarità che le scienze moderne possono legittimamente rivendicare risiede – da un punto di vista storico tanto quanto speculativo – precisamente nel modo in cui, nell’ambito della loro vicenda, il rapporto tra questi due termini ha saputo essere reimpaginato. Per sostenere questa tesi  –  costruttivista, ma evidentemente non relativista –, Stengers non si richiamava a un qualche ricercatore eretico dimenticato dal canone di cui si tratterebbe di ravvivare la memoria; ma ritornava all’eroe culturale per eccellenza dell’avventura scientifica: Galileo. Non tanto il Galileo astronomo, martire della lotta contro la Chiesa, del quale l’autrice relativizzava la portata innovativa, quanto piuttosto il Galileo matematico – quello da cui ancora oggi è possibile ereditare in maniera diretta la descrizione delle leggi del moto. L’efficacia del gesto galileiano, nella lettura di Stengers, starebbe proprio nella maniera in cui il dispositivo da lui inventato, il piano inclinato, coniuga verità e finzione. La messa in scena sperimentale galileiana, infatti, esibisce la capacità di “far parlare la natura” in maniera nuova; nuova in quanto permette «al suo autore di ritirarsi, di lasciare che il moto testimoni in sua vece. È il moto, messo in scena dal dispositivo, che farà tacere gli altri autori, che vorrebbero interpretarlo in altro modo. Il dispositivo gioca dunque su un doppio registro: esso “fa parlare” il fenomeno per “far tacere” i rivali»28.

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Ivi, 107.

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Quello di Galileo è gesto pragmatico, allora, la cui politicità risiede nell’efficacia con cui riconfigura la scena convocata al proprio cospetto. Mentre “scopre” le leggi del moto, Galileo – genio doppio, come lo voleva Husserl – s’interroga anche, e attivamente, sulle conseguenze di più ampia portata che la sua scoperta-invenzione reca in sé: «Galileo ci presenta il problema di un evento e al tempo stesso una prima esplorazione del suo seguito, del significato che Galileo, in quanto creato-posizionato-prodotto dall’evento, gli conferisce»29. Separando un “come” dei fenomeni al quale lo scienziato dedicherà i propri sforzi descrittivi da un “perché” di fronte al quale s’arresta la sua competenza, e ridisponendo la scena in virtù di un nuovo «principio di spartizione dei diritti di parola»30, Galileo non solo porta alla luce un fenomeno nuovo, ma getta le fondamenta di un repertorio che chi vorrà ereditare dal suo gesto potrà invocare a propria giustificazione. Non ne va – non ancora – della verità di una proposizione, dell’esattezza di un sapere; quanto piuttosto di una domanda che affermava così la propria pertinenza manifestando il proprio potere: «questo è scientifico?»31. Se la grandezza del gesto galileiano sta, agli occhi di Stengers, nella maniera arrischiata in cui si propone pertinente, con la medesima mossa Galileo comincia anche a fabbricare quel riferimento a una “Scienza” che, nel riconoscere la portata limitata delle proprie ambizioni (il “come”, non il “perché”), erige l’avamposto da cui potrà reclamare un’autorità incontrastata. È in questa doppiezza di Galileo – nell’instabilità che Stengers vuole restituire al riferimento alla sua opera – che risiede l’intensità politica dell’evento-Galileo. Nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Galileo – ormai vecchio e già condannato – mette in scena le proprie dimostrazioni di fronte alle obiezioni di un Sagredo «relativista ante litteram»32, scettico rispetto a ogni tentativo di convocare la natura a convalidare proposizioni astratte. La sua argomentazione dovrà tentare d’«imporsi nonostante lo scetticismo relativista che forse accoglierà ogni proposizione astratta, chiunque ne sia l’autore»33. In effetti, nota

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Ivi, 93. Ivi, 103. Ivi, 92-93. Ivi, 96. Ibidem.

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Stengers, è sulla base di una concezione strettamente logicista della verità che Galileo era stato condannato dalla Chiesa nel 1633, secondo la quale, tra i fatti che si trattava di limitarsi a constatare e la logica aristotelica, cui anche la volontà divina doveva riconoscersi sottomessa, non poteva sorgere contraddizione: «Ogni definizione o spiegazione che, superando i fatti e la logica, possa per questo essere convinta di usurpare la piena libertà di Dio, ha ceduto al potere della finzione»34. A queste argomentazioni, Galileo non oppone un realismo ingenuo, la forza bruta di una verità conquistata: la sua argomentazione deve imporsi «innanzitutto contro l’idea che ogni conoscenza generale, astratta, sia essenzialmente una finzione»35. Così, la mossa di Galileo trascende i confini del metodo e dell’epistemologia: se la sua invenzione va riconosciuta come politica, è perché essa mira a proporre una nuova pragmatica della verità che, accettando la premessa di quel «potere della finzione» su cui si fondava lo scetticismo dei suoi accusatori, si propone come finzione differente, artificio che invita a essere messo alla prova, testato, a essere seguito nella maniera in cui s’adopera per distinguersi, per «divergere». Invenzione, dunque, sì, ma invenzione dotata di un’ambizione specifica, azzardata, che non ricerca garanzie ma si configura come una scommessa36, e proprio per questo diviene capace di distinguersi dalla fitta schiera delle finzioni ingannevoli. È in quanto l’esperimento pone le condizioni arrischiate della propria «riuscita» (infra), in altre parole, che il fatto di tipo nuovo inaugurato da Galileo può aprirsi alla dimensione dell’evento – alla dimensione di una differenza la cui verità non sta in una qualche garanzia di carattere logico, ma nella capacità (storica, concreta e contestuale) d’imporre la propria pertinenza. L’evento, infatti, «pur essendo creatore di differenza, non è per questo portatore di significato»37; fa una differenza, ma è muto rispetto alle differenze ulteriori che da essa dovranno seguire. Ecco allora che il riferimento a Galileo permette a Stengers, come da obiettivo, di porre le scienze «sotto il segno dell’evento». Di nuovo, la mossa non è però storiografica, ma speculativa, dal risvolto politico

Ivi, 100. Ivi, 97. 36 Mario Biagioli (2006) ha descritto Galileo, per quanto riguarda la sua attività d’inventore, nei termini di un imprenditore. 37 Stengers (1993, tr. it. 85). 34 35

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immediato: se ciò che avviene nel laboratorio – ciò che il laboratorio rende possibile – ha il tenore dell’evento, ne consegue che nessun criterio razionale, metastorico, potrà garantire la distinzione tra il “come” e il “perché”; e ogni tentativo di stabilirla nuovamente avrà il carattere di un prolungamento, di un’eredità attiva – di un evento ulteriore. Si precisa così meglio anche il compito che sta di fronte a chi, contemporaneo, guardi a Galileo con l’intenzione di ereditarne una sfida e non un privilegio – a chi voglia criticare l’autorità arrogante del discorso esperto senza per questo togliersi dal solco dell’avventura scientifica: «Il punto decisivo non è più negare le differenze a cui gli scienziati ambiscono, ma evitare qualsiasi modo di descriverle che implichi che gli scienziati abbiano il privilegio di sapere che cosa significano le differenze che li distinguono»38. Reimpaginata la storia delle scienze come la vicenda di un evento da cui si tratta di ereditare attivamente, ecco – nel contesto in cui il lavoro di Stengers voleva intervenire  –  che la singolarità di quell’avventura si sottraeva non solo al discorso degli epistemologi normativi e alla loro ricerca del criterio che definirebbe la distinzione della scienza dalla non-scienza, ma anche a quello di chi, per opporsi a esso, finiva per squalificare le pretese d’autonomia degli scienziati: «Nessun enunciato trae la propria legittimità da un diritto epistemologico, che giocherebbe un ruolo analogo al diritto divino della politica tradizionale. Appartengono tutti all’ordine del possibile e non si differenziano se non a posteriori, secondo una logica che non è quella del giudizio, che ricerca un fondamento, ma quella della fondazione: “qui possiamo”»39. Mostrando come la critica della ssk all’epistemologia mainstream implicasse di assumerne la posizione di giudice del lavoro degli scienziati, con il medesimo gesto Stengers si smarcava da entrambe. Al momento di definire le ambizioni assegnate a Le politiche della ragione, Stengers aveva scritto che «[r]iconoscere una dimensione politica costitutiva delle scienze significa innanzitutto capire perché sia prevedibile il conflitto fra le scienze e i loro interpreti non appena questi ultimi si accingono a giudicare, cioè a relativizzare, la distinzione

Ibidem. Ivi, 102. Sulla differenza tra «fondamento» e «fondazione» Deleuze scrive: «La fondazione concerne il suolo, e mostra come qualcosa si stabilisca su di esso, lo occupi e lo possieda, ma il fondamento proviene piuttosto dal cielo, va dalla sommità alle fondamenta, commisura l’uno all’altro il suolo e il possessore secondo un titolo di proprietà» (Deleuze 1968, 134). 38 39

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tra scienza e non scienza»40. Il conflitto che l’autrice prevedeva non avrebbe atteso lungo tempo prima di scatenarsi, conferendo alle sue parole il tono retrospettivo di una profezia. Alcuni scienziati americani, soprattutto fisici e matematici, in una serie di pubblicazioni, rompevano gli indugi e denunciavano il lassismo con cui molti, nelle scienze umane, impiegavano concetti scientifici benché dimostrassero di non saperli padroneggiare: erano cominciate le science wars. Il fisico Alan Sokal, in particolare, dava luogo all’affaire che recherà il suo nome, volendo dimostrare empiricamente – la riuscita del suo esperimento consistendo nella pubblicazione di un suo saggio volutamente ricolmo di assurdità da parte della rivista di studi culturali Social Text – che le scienze umane, in una sbornia di postmodernismo e di political correctness, avevano spinto troppo in là le proprie ambizioni decostruzioniste, e contrapporre un’insofferenza positivista a una tendenza che andava additata come irriverente dal punto di vista epistemologico e pericolosa da quello politico. Evidentemente, il conflitto si svolgeva ben lontano dalle profondità a cui Stengers ne aveva individuato le origini in Le politiche della ragione. E tuttavia, da lì bisognava ripartire per immaginare una pace. È lo sforzo a cui l’autrice dedicherà i sette volumi delle Cosmopolitiche, pubblicati nel 1997.

Guerra

e pace

Conviene precisarlo sin dall’inizio: la «cosmopolitica» di Stengers non ha nulla a che vedere con il cosmopolitismo. Non si tratta d’immaginare una pacifica convivenza globale in un mondo unificato, quanto piuttosto d’indicare il cosmo – nelle sue forme e nella sua tenuta – come oggetto d’intrinseca consistenza politica. Politica, dunque, non come fronteggiarsi di opinioni, valori, ideologie; ma come rinegoziazione incessante delle infrastrutture del vivere comune. Per richiamare la formula con cui Latour ha ben riassunto la proposta stengersiana, politica come «composizione progressiva del mondo comune»41. Date queste premesse, è evidente che l’auspicio della pace di cui Stengers andava in cerca non poteva poggiare su una buona volontà capace di convincere le parti a ridimensionare le proprie aspirazioni in virtù di un bene comune in grado d’imporsi unilateralmente come

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Stengers (1993, tr. it. 81). Latour (1999, tr. it. 13).

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prioritario. Nel primo volume delle Cosmopolitiche, Stengers scriveva: «[quello] di una pace data dalla rinuncia alle ambizioni e alle passioni che la critica condanna […] mi sembra un ideale di cui la storia consente di mettere in dubbio la pertinenza»42. La pace non si delineava probabile, esito attendibile di uno sforzo chiaro da perseguire con decisione: si trattava invece di aprirne lo spazio possibile, coltivarne l’eventualità. Al tempo stesso, però, il conflitto doveva essere riconosciuto più profondo di quanto la «tragicommedia accademico-mediatica»43 delle science wars non mostrasse. Qualche anno prima, Bruno Latour – già da tempo interlocutore di Stengers – aveva pubblicato un saggio destinato a segnare profondamente il panorama delle scienze sociali. In Non siamo mai stati moderni, con spirito analogo a quello de Le politiche della ragione, Latour metteva la propria traiettoria intellettuale nel campo degli science studies al servizio non di una critica della scienza, bensì di un’«antropologia dei moderni»44. Ciò che gli studi costruttivisti, spogliati dello spirito polemico che poteva animarli, esibivano della scienza, per Latour, non era tanto l’ingiustificabilità delle sue pretese a una differenza specifica, quanto piuttosto l’inadeguatezza dei «regimi di giustificazione»45 che, storicamente, avevano garantito il suo posto nella città. Seguendo Latour, quello tra gli scienziati e i loro interpreti irriverenti poteva dunque essere interpretato come un episodio particolarmente sanguinoso all’interno di una crisi di portata ben più ampia: a vacillare era l’orizzonte intero di un’epoca, la modernità, che mentre onorava le scienze come vettore di progresso per l’umanità, aveva catturato la singolarità della loro vicenda per metterla al servizio delle proprie ambizioni globalizzanti. Da un lato, le scienze garantivano l’io ideale dei moderni: in un mondo che pur essi, sulla scorta di Kant, avevano appreso a considerare inaccessibile, la relativa esattezza con cui le scienze mostravano di descriverlo – l’efficacia che le tecniche potevano vantare – singolarizzava la vicenda moderna rispetto a quella di popoli le cui culture sembravano invece brancolare nel buio di nature spiritualizzate

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Stengers (1997a, tr. it. 15). Stengers (2006, 7). Latour (1991). Cfr. Boltanski, Thévenot (1991).

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e mondi animistici. Dall’altro, tuttavia, esse, per accettare questo ruolo, dovevano rinunciare al proprio procedere avventuroso, e si destinavano a operare come macchina da guerra. Nell’ambito ristretto dell’interpretazione delle scienze, dunque, si giocava un episodio di un conflitto più ampio. Se il testo di Latour avrebbe gettato le basi per un rinnovamento «antinarcisistico»46 dell’antropologia, nonché aperto lo spazio concettuale per pensare la crisi ecologica che in quegli anni cominciava a manifestare i propri segni47, per Stengers, lo sguardo latouriano consentiva soprattutto d’intavolare le negoziazioni di pace: come rimanere eredi dell’evento Galileo senza «esserne i rentier» (infra)? In altre parole: come ereditare dai Lumi al cospetto degli altri? Parallelamente al dialogo con Latour, a propiziare un simile riorientamento dello sguardo aveva contribuito l’incontro con Tobie Nathan, che segna in profondità il tono delle Cosmopolitiche. Etnopsichiatra allievo di Georges Devereux, nel 1993 Nathan aveva fondato, a Parigi, un centro intitolato al maestro, con lo scopo di occuparsi di curare pazienti immigrati. A questo fine, sulla scorta di Devereux, s’interessava ai loro sistemi di cura, alle culture all’interno delle quali essi erano cresciuti e alla maniera in cui, presso queste culture, la “sofferenza mentale” è vissuta, pensata e trattata. Il tentativo era quello, per usare un termine latouriano, di «simmetrizzare» la scena della cura, accogliendo gli “altri” senza far pagare loro il prezzo preventivo di una traduzione dei loro «invisibili» nei termini di deliri, proiezioni o credenze. Un simile esercizio di simmetrizzazione, però, era operabile solo a condizione di accettare una constatazione che all’orecchio dei moderni, Stengers osservava, non può che giungere come scandalosa: «Accogliere i figli dei soninke, dei bambara, dei peul, dei diula, degli ewundu, dei duala, e regolarizzarli chiedendo loro di mettere i propri antenati nel ripostiglio degli accessori diventati inutili, è un atto di guerra»48. La mossa di Nathan era destinata a suscitare critiche feroci, da parte tanto di terapeuti quanto di antropologi – in un clima anticipatore di certi dibattiti che attraversano la Francia contemporanea, attorno a buzzwords come “separatismo” e “islamo-gauchisme”. L’ac-

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Viveiros de Castro (2009). Cfr. Manghi (2019). Stengers (2003a, tr. it. 13).

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cusa sarà quella di un culturalismo in fin dei conti razzista: perché mai gli altri dovrebbero essere oggetto di attenzioni particolari, se l’inconscio è universale49? Ma la pratica di Nathan si sottraeva preventivamente all’orizzonte che fondava simili rilievi, giacché non argomentava la propria pertinenza proponendo una nuova teoria della mente, inclusiva nei confronti delle sue versioni più o meno esotiche – «un preteso essere indifferente le cui leggi di funzionamento sarebbero ritenute capaci di dar conto della pratica stessa»50. Piuttosto, Nathan s’interrogava sul dispositivo terapeutico, un setting da riconoscere come attivo, operante, domandandosi come renderlo più accogliente verso altre concezioni della sofferenza e altre tecniche sviluppate per trattarla, al fine di rendere più efficace la presa in carico dei pazienti provenienti da contesti differenti da quelli della Francia metropolitana. E, ambizione destinata a suscitare scandalo ulteriore, lo faceva con l’intento di muovere un passo in direzione di una psicoterapia «finalmente scientifica»51. Curare gli immigrati, aprendosi alla possibilità d’imparare da loro e dai saperi che hanno contribuito a «fabbricarli»52 come farlo; smettere la postura del terapeuta supposto sapere, per sostituirvi la traiettoria di un apprendimento, necessariamente collettivo, capace di squalificare ogni preteso privilegio epistemico di fronte alla sfida della sofferenza e del suo trattamento. Insomma, reimmaginare il dispositivo terapeutico privandolo della dichiarazione di guerra che, nelle sue forme moderne, esso sembra recare inderogabilmente con sé. Ecco la missione di Nathan, che a questo fine popolava la scena della cura di attori abitualmente lasciati fuori dalla porta: mediatori culturali, linguisti, guaritori tradizionali… Nessun paternalismo, dunque, nessuno scrupolo culturalista: piuttosto, l’accettazione del fatto che «anche la psicologia occidentale o scientifica deve essere analizzata nei termini Cfr. Latour et al. (1999). Nathan (1998, tr. it. 70). 51 Ibidem. 52 In anni in cui l’antropologia sviluppava un profondo scetticismo verso la nozione di “cultura”, il lavoro di Nathan mostrava la proficuità di un impiego “forte” del concetto in ambito psicoterapeutico. Una delle premesse da cui muove l’etnopsichiatria è che gli esseri umani sono «fabbricati» dalla propria cultura. Una tale premessa, prima facie culturalista, non ha tanto l’ambizione di una teoria antropologica decisa a illustrare la radicale varietà del genere umano, quanto la pretesa – pragmatica – di aprire un campo di efficacie nuove per l’azione terapeutica (cfr. Nathan 1994). Non deve stupire, dunque, che il lavoro di Nathan, a prima vista in controtendenza rispetto ai sommovimenti della teoria antropologica di quegli anni, entri in consonanza con quello di autori – come Stengers e Latour – che di tali sommovimenti sono stati tra i principali propiziatori. 49 50

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di un’etnopsicologia»53, e che essa, di conseguenza, deve rinunciare a fondare la propria legittimità sul metalinguaggio di una modernità intesa come progressiva razionalizzazione del cosmo, disincanto del mondo, e argomentare la propria pertinenza a partire dall’efficacia che lo sforzo tecnico in cui si produce può esibire. L’incontro con Nathan era importante per due motivi. Da un lato, l’epistemologia nathaniana della cura si costituiva in maniera esplicita e integrale come un’epistemologia politica – rivisitazione delle premesse e delle infrastrutture dell’incontro con l’altro. Dall’altro, mostrava un campo, quello della psicoterapia, in cui il riferimento al repertorio moderno di giustificazione, portando il terapeuta “moderno” a interrogarsi sulla “razionalità” della sua teoria, correva il rischio di distogliere l’attenzione dall’efficacia della sua pratica. Il lavoro di Nathan, la sua ostinata ricerca di un dispositivo capace di produrre incontri «simmetrici», si offriva allora come il punto di partenza migliore per cominciare a immaginare la pace di cui Stengers si era messa in cerca. A dispetto della eco che le Cosmopolitiche recavano nel proprio titolo, allora, la pace che bisognava mostrare possibile doveva fondarsi su premesse radicalmente diverse rispetto a quella, «perpetua», auspicata da Kant: «Se l’idea di una pace fra popoli deve avere un qualche significato, si tratta di non partire, come Kant, dalle promesse di cui l’Occidente si vanta di essere portatore, ma piuttosto dal prezzo pagato dagli altri per questa autodefinizione»54. Se pace doveva essere, essa non poteva più essere ottenuta alle condizioni dei moderni, pensata “dall’alto”, nella postura di chi si crede arbitro finalmente imparziale, capace d’immaginare in anticipo la forma nuova del convivere che seguirà, a dio piacendo, il cessate il fuoco. Più che d’immaginare la pace, allora, gesto d’ambizione intrinsecamente moderna, si trattava di capire come giustificare le proprie pratiche senza contestualmente squalificare quelle altrui  –  insomma di ritirare la dichiarazione di guerra moderna. Sulla scorta di Nathan, bisognava imparare a presentarsi di fronte agli altri. Come dirsi “moderni” senza che quella stessa etichetta concorra a delegittimare ciò che si ha di fronte – il guaritore dogon, lo psichiatra ipnotista? Più in generale: «Come far sì che un ricercatore moderno possa presentarsi, giustificare la sua

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Beneduce (2002, 37). Stengers (1997a, tr. it. 93).

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pratica, veder riconosciuto ciò che lo impegna, senza che questo impegno coincida con una squalifica?»55.

Presentarsi Presentarsi è un gesto pragmatico. Da un lato, si tratta d’impegnarsi in uno sforzo puramente descrittivo; dall’altro, l’oggetto di questa descrizione va riconosciuto come indefinibile a priori, se è vero che – salvo che non si aspiri a presentarsi con volontà bellicosa – la presentazione deve includere i rapporti necessariamente dinamici con quanto ci rende ciò che pretendiamo di essere. In altre parole, la presentazione, presa sul serio, impegna: non traccia il confine di una giurisdizione che si vorrà rispettata a qualunque costo, ma esplicita i rischi propri di una maniera, che si è scelta, d’introdursi al mondo. Ed è un gesto a tutti gli effetti speculativo, dunque, se è vero che deve mantenere aperta una breccia sul possibile, nominando dei “vettori di divenire” capaci di obbligare. In Cosmopolitiche, Stengers prende parola in quanto moderna – in quanto destinataria del messaggio moderno. E parla ai moderni, alla ricerca di una maniera d’ereditare dalla storia comune, per ripetere la formula già citata, «senza diventarne i rentier» (infra). Si tratta di una postura che va sottolineata nella sua specificità, e che caratterizza l’intera opera stengersiana. Seguendo il linguaggio che sceglie d’impiegare, si direbbe la posizione del «diplomatico» – di chi entra in gioco quando la guerra sembra ormai un destino. Il mestiere di diplomatico, scrive Stengers, è posto sotto il segno di una tensione irriducibile. Da una parte, si ritiene che il diplomatico appartenga alla popolazione, al gruppo, al paese che rappresenta, ne condivida le speranze e i dubbi, i terrori e i sogni. Ma, dall’altra, il diplomatico si rivolge ad altri diplomatici, e deve essere per loro un partner affidabile, che accetta insieme a loro le regole del gioco diplomatico. Il diplomatico non può quindi accomunarsi con coloro che rappresenta, altrimenti l’attività diplomatica sarebbe priva di senso o si ridurrebbe a questa altra strategia inventata dagli esseri umani per evitare il rischio di guerra generalizzata, il combattimento tra due eroi al cui destino ognuno accetta di affidarsi56.

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Stengers (1997a, tr. it. 61, tr. mod.). Stengers (1997b, tr. it. 685, tr. mod.).

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Da un lato, i vincoli di un mandato; dall’altra, quelli di una scena popolata di altri diplomatici, tutti intenti a coltivare la possibilità della pace senza che questa possa mai tramutarsi in un bene superiore capace d’imporsi unilateralmente, riconosciuta da parti in lotta improvvisamente disposte a rivedere le proprie ambizioni. Il diplomatico non si trova di fronte una “dura realtà” cui si tratterebbe d’arrendersi, ma i contorni incerti di una pace che, nell’impossibilità di definirla, nemmeno può – pena il tradimento del proprio mandato – cessare d’immaginare possibile. Insomma, con il diplomatico si tratta di «pensare il possibile contro il probabile»57, come Stengers dirà in altra occasione. Se la pace non permette di essere pensata in sé, però, e richiede invece che si tenti di mantenerne aperta la possibilità, apprendendo a presentarsi, allora pace non è nemmeno più la parola giusta. La forma di un convivere non belligerante, la premessa di un futuro che, anche conflittuale, possa nondimeno scampare alla «barbarie» (infra), assume piuttosto il profilo di un’«ecologia». A condizione, però, di accettare una specificazione: L’ecologia non è una scienza di funzioni: le popolazioni di cui descrive i modi d’esistenza ingarbugliati non sono del tutto definite dai rispettivi ruoli giocati nel groviglio, così da poterne dedurre l’identità di ciascuna in funzione del suo ruolo. Quest’ultimo è per definizione “metastabile”, ossia non è garantito rispetto a un’eventuale instabilità. È il prodotto di un “bricolage” di cui è necessario dire che “più o meno tiene”, e non il prodotto di un calcolo di cui si tratterebbe di mettere in luce l’economia e la logica. Correlativamente, le popolazioni interdipendenti non fanno “sistema” nel senso in cui potrebbero essere definite come parti di un tutto58.

Stabilita la posta in gioco nei termini di un’ecologia, si tratta d’individuarne le popolazioni «metastabili» – non protagonisti dall’identità definita, ma attanti che nell’articolazione ecologica giocano la partita della propria stessa consistenza. Nella riflessione di Stengers, sono le «pratiche» a trovarsi investite di questo ruolo: tramite questo concetto (che la lettrice e il lettore ritroveranno anche nelle pagine di questo libro), anch’esso debitore dell’incontro con Nathan, la riflessione stengersiana si estende oltre il perimetro delle sole scienze sperimentali, per investire il campo intero delle attività e dei saperi 57 58

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Stengers (2013, 92). Stengers (1997a, tr. it. 45, tr. mod.).

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che dalla modernità ricevono in eredità uno statuto privilegiato oppure, al contrario, lo stigma dell’eresia. A rendere possibile una simile estensione, tuttavia, va notato, è l’ambizione speculativa connaturata al concetto: impugnata alla maniera dell’autrice, infatti, la nozione di «pratica» non indica «né l’attività di un individuo, né il prodotto di tale attività[, quanto piuttosto] l’ingrediente senza il quale né questa né questo prodotto potrebbero esistere come tali»59. Aperta al divenire, la pratica non può essere individuata da un osservatore esterno, ma solo seguita nel movimento proprio del suo smarcarsi – del suo distinguersi e prolungare la differenza producendo la quale essa si costituisce. Nessuna «grande partizione»60 divide le pratiche tra razionali e irrazionali, garantendo la solidità di alcune e condannando le altre a statuto incerto; un brulicare di microdistinzioni e il loro prolungarsi, invece, disegna il tragitto del loro divergere sempre specifico, sempre locale. Pensare le pratiche – rivolgersi ai praticiens, come Stengers farà in questo libro – significa invitarle a esplicitare «obblighi» ed «esigenze» particolari che singolarizzando la loro traiettoria giustificano la loro pertinenza: ovvero i vincoli “interni” che una pratica impone al praticien, e quelli, “esterni”, che il praticien domanda al suo ambiente siano rispettati perché la sua pratica possa esistere. In altre parole, significa esortare i praticiens a esporre il profilo necessariamente arrischiato dei «modi immanenti di esistenza»61 delle loro pratiche, invece di ricercare le finte garanzie offerte da criteri metastorici. E, così facendo, creare gli auspici di un incontro simmetrico, le condizioni per una negoziazione effettivamente aperta, non pregiudicata in anticipo dal repertorio moderno e dalle sue dichiarazioni di guerra preventive. Ma rivolgersi ai praticiens, chiamarli a disporsi sul piano d’immanenza che offre attrito al divergere singolare delle loro pratiche, e invitarli a cercare lì, nell’avventura e nel rischio dell’incontro, le giustificazioni della loro pertinenza, non significa in alcun modo, è necessario specificarlo, adottare una posizione relativista («rispettare le differenze», come dirà criticamente Stengers nelle pagine di questo

Ivi, 82-83. Stengers (1993, tr. it. 76-80). 61 Stengers (1997a, tr. it. 37, tr. mod.). In questa occasione, Stengers sta facendo riferimento a Deleuze e Guattari; in anni più recenti, tuttavia, la riflessione sui «modi di esistenza», che Stengers intraprenderà insieme a Latour, seguirà la pista apocrifa tracciata da Étienne Souriau. Cfr. Stengers, Latour (2009). 59 60

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libro). Rinunciare alla trascendenza non equivale ad accettare che tutte le pratiche si equivalgano, ma, al contrario, disporsi per apprezzare le modalità specifiche tramite cui ciascuna s’individua. Le pratiche «non sono sottoposte a nessuna trascendenza ma fanno esistere, attraverso i vincoli che le specificano, le non equivalenze che tali istanze trascendenti sono generalmente incaricate di fondare»62. Le pratiche, insomma, devono la consistenza che sono capaci di esibire al profilo normativo che è loro intrinseco, teso lungo la piega che obblighi ed esigenze impongono alla topologia piana disegnata da Stengers. Ma il concetto di pratiche, tuttavia, reca in sé un’implicazione ulteriore. Esso non permette soltanto di porre sullo stesso piano le scienze e le pratiche non-moderne; bensì anche, come avevamo già visto accadere ne La nuova alleanza, di situarle nell’ambito della storia naturale. Si tratta di una naturalizzazione giustificabile, evidentemente, soltanto a patto di aver preventivamente denaturalizzato il concetto di natura stesso. Soprattutto, un tale gesto non ha l’intento di avallare considerazioni di carattere irenicamente olistico, restituendo l’impressione di una comunione universale. Piuttosto, come scrive Stengers, «[i]ntendere il riferimento all’ecologia in maniera non metaforica ma letterale significa conferire alla creazione di articolazioni tra pratiche il valore di evento che una tale creazione ha all’interno della storia dei viventi»63. Giunti a questo punto, è evidente che quella di Stengers è un’ecologia che per essere “politica” non ha più necessità di dichiararsi tale. Con il volgere del millennio, tuttavia, la radicalità della minaccia costituita dal riscaldamento globale comincerà ad apparire in tutta la sua chiarezza, e impegnerà nuovamente la riflessione di Stengers, costretta a rinegoziare la propria pertinenza di fronte a nuove esigenze. Se, da un lato, l’«ecologia delle pratiche» dimostrerà di essere tra gli approcci più utili a concettualizzare la crisi climatica, dall’altro l’autrice convocherà sulla scena una figura che, con la sua «intrusione» (infra), di cui proprio questo libro è il teatro, avrà il compito d’incarnare la portata e l’urgenza della minaccia ecologica: Gaia.

Sguardi

extraterrestri

Gaia è il nome che James Lovelock ha dato – su suggerimento di

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Stengers (1997a, tr. it. 65, tr. mod.). Stengers (2006, 243).

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William Golding, suo vicino di casa a Bowerchalke, nello Wiltshire – a un’intuizione sulla natura del pianeta. Nel 1961, James Lovelock aveva 42 anni. Studi in chimica e un dottorato in medicina, Jim, come rimarrà noto ai più, era all’epoca uno scienziato sui generis che si guadagnava da vivere grazie alla rendita garantita da alcuni strumenti tecnici che aveva inventato. In virtù di questa sua competenza tecnica, si trovava invitato presso il Jet Propulsion Laboratory (jpl) del California Institute of Technology di Pasadena, dove alla sua immaginazione inventiva era richiesto di mettersi al servizio del progetto ambizioso che vi si coltiva: colonizzare Marte. Se la domanda che riecheggiava nei capannoni ancora in allestimento del jpl era di tenore cosmologico – c’è vita su Marte? –, a Lovelock era richiesto di tradurla in termini tecnici e, a conti fatti, più terrestri: come indagare la presenza di vita sul pianeta rosso? La trasposizione tecnica del quesito, più che semplificarne il profilo, lo esponeva invece nella sua insolubile complessità, dispiegandone implicazioni a tutti gli effetti speculative. Se vi fosse vita su Marte, di che genere dovremmo aspettarci che sia? Come renderci sensibili a una vita che abbia negoziato la propria forma nel contesto alieno del pianeta rosso? Come immaginare una strumentazione adatta al compito? Lovelock trovava ispirazione nella concezione termodinamica della vita proposta da Erwin Schrödinger nel suo classico Che cos’è la vita?, dove il fisico tedesco indicava nel metabolismo il segreto della vita: «l’essenziale nel metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita»64. Se Schrödinger confinava la propria interrogazione all’organismo e al suo commercio energetico con l’ambiente, è su quest’ultimo che Lovelock concentrava invece lo sguardo, per notare che la vita «non si forma facilmente», ma «persiste indefinitamente e modifica enormemente il proprio ambiente»65. Così, contrariamente alla maggior parte degli altri consulenti tecnici della nasa, che proponevano d’inviare su Marte un laboratorio microbiologico, il chimico britannico suggeriva che analizzare l’atmosfera del pianeta sarebbe stato sufficiente: eventuali tracce di disordine, di disequilibrio, avrebbero testimoniato la presenza della vita.

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Schrödinger (1944, tr. it. 123). Lovelock (1965, 568).

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Il contesto della nasa non si sarebbe dimostrato ricettivo a queste idee di Lovelock – e il progetto Voyager sarebbe in ogni caso caduto vittima dei tagli al budget operati dal Congresso pochi anni dopo. Ciononostante, è presso il jpl che Lovelock avrebbe avuto occasione di vedere i risultati appena ottenuti presso il telescopio del Pic du Midi, dove, grazie all’impiego di strumentazione d’avanguardia, i coniugi Pierre e Janine Connes avevano analizzato per la prima volta lo spettro infrarosso dell’atmosfera di Marte e Venere. Le atmosfere dei due pianeti apparivano composte di pressoché sola anidride carbonica: «Seppi subito che Marte era privo di vita. E a compararla con l’atmosfera della Terra, dove si vedono coesistere gas reattivi come l’ossigeno e il metano…»66. Un’idea cominciava a profilarsi nella mente di Lovelock. Come avrà modo di scrivere in seguito, «Tutt’a un tratto, proprio come in un’illuminazione, mi venne in mente che se le caratteristiche dell’atmosfera [terrestre] persistevano e rimanevano stabili, doveva esserci qualcosa che la regolava conservandone costante la composizione»67. Nel profilo chimico dell’atmosfera di un pianeta che per la prima volta si faceva guardare dallo spazio, ecco emergere la sua singolarità. Nel tentativo di specificarla, Lovelock inizialmente parlerà  –  insieme a Lynn Margulis, grande biologa che contribuirà in maniera decisiva allo sviluppo dell’ipotesi Gaia – di un’«omeostasi da e per la biosfera»68, o di un pianeta-organismo capace di autoregolarsi. Si trattava di sistemazioni frettolose e presto ritrattate di un’intuizione tuttavia, quanto a essa, fondamentale: la Terra è vivibile perché è abitata; per comprendere l’abitabilità del pianeta è necessario prendere in considerazione l’attività della biosfera; su scala planetaria, la vita contribuisce a costruire e mantenere le condizioni di abitabilità dei propri ambienti. La storia dell’ipotesi Gaia sarà costellata di fraintendimenti, «ambienti malsani» pronti a riconvertire l’intuizione lovelockiana nei termini di una divinità benevola, provvidenza cibernetica d’ispirazione californiana. Nel tentativo di separare la sua ipotesi dalle sue interpretazioni new age, Lovelock si arrenderà a vedere nella Earth system science (ess), approccio interdisciplinare sorto a partire dagli anni

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Lovelock, Merchant (2010, 217-218). Lovelock (2000, tr. it. 289). Lovelock, Margulis (1974).

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Ottanta per studiare il pianeta nei termini della teoria dei sistemi, una maniera in cui Gaia finiva per entrare a far «parte del sapere convenzionale»69. Similarmente, Margulis sarà felice nel constatare l’influenza che una Gaia «sotto qualunque altro nome»70 dimostrava di aver ottenuto nel panorama delle scienze interessate al pianeta71. Ma tradurre Gaia nei termini di anelli di retroazione ingarbugliati, accettare che il suo nome proprio venga dimenticato, è operazione che, proprio nella misura in cui sembra promettere garanzie, si rivela densa di pericoli. Per questo, non è la Gaia razionalizzata dell’ess che Stengers invoca nelle pagine di questo libro – la natura sistemica di una Terra di cui scopriremmo l’inaudita “complessità”. Certo, Gaia non è un organismo; non riparerà lei, in nome d’interessi di forza maggiore, ai disastri che la modernità occidentale ha imposto al pianeta. Se la dimensione confortante dell’idea di un pianeta-organismo si è prestata a traduzioni new age, bisognerebbe simmetricamente domandarsi se presso altri, al contrario, non sia l’idea di una Gaia “scientifica”, disanimata, a offrire un simile sollievo. Gaia non è un organismo, eppure «ha una sua tenuta» (infra); non è provvista d’intenzioni, ma reagisce. La Gaia di Stengers è chatouilleuse – «suscettibile» (infra), sì, ma al solletico, capace di sentire e reagire, non di vendicarsi o nutrire sentimenti. Essa, allora, non è una macchina cibernetica più di quanto non sia un organismo; «antisistema» – come scrive Latour –, i cicli di retroazione che la compongono non si lasciano ridurre a modelli: «ha forse un ordine, ma non una gerarchia; non è ordinata per livelli, ma non è neppure disordinata»; quasi-organismo, essa non ci annuncia che la Terra è “viva”, «ma soltanto che non è morta»72. Gaia, insomma, è figura intermedia tra l’attivo e il passivo, il soggetto e l’oggetto, ed è in questo statuto instabile a risiedere la forma bizzarra di trascendenza che essa manifesta facendo intrusione nelle nostre storie – il profilo delle esigenze infinite che d’improvviso, muta, c’impone. Bruno Latour ha pertinentemente paragonato il gesto di Lovelock che, conquistato Marte con i suoi strumenti, rivolgeva lo sguardo sulla Terra, a quello di Galileo che puntava la Luna con il suo can-

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Lovelock (2004, 1). Margulis (2004). Cfr. Manghi (2020). Latour (2015, tr. it. 112).

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nocchiale: «Mentre Galileo, levando gli occhi dall’orizzonte al cielo, rafforzava la somiglianza fra la Terra e tutti gli altri corpi in caduta libera, Lovelock, abbassando lo sguardo da Marte in direzione nostra, diminuisce in effetti la similarità fra tutti gli altri pianeti e questa Terra così particolare quale è la nostra»73. L’apparato tecnico – il regime di sensibilità – sviluppato per immaginare la ricognizione di vita su un pianeta lontano si dimostrava il meglio equipaggiato per render conto in maniera nuova della sua manifesta onnipresenza sulla Terra. Le implicazioni di un simile gesto, evidentemente, non potevano rimanere confinate all’esiguo campo delle scienze della Terra; e, in effetti, l’ipotesi Gaia manifesterà le proprie conseguenze in un numero disparato di ambiti. Dapprima, l’intuizione lovelockiana mostrerà le sue implicazioni biologico-evoluzionistiche: se la singolarità del darwinismo stava nel «porre la specie umana sotto il segno del divenire»74, lo sguardo da Marte consentiva di estendere il gesto darwiniano al pianeta intero. Le vicissitudini della vita – «bricolage del minerale», secondo una felice espressione di Emanuele Coccia75 – non avvengono entro i confini saldi di un dominio stabilito, ma investono della propria storicità il pianeta intero. Adattamento e selezione, visti da lassù, si rivelano momenti solo illusoriamente distinti della metamorfosi lungo il cui tracciato la vita accetta la sfida di riprodursi sulla scala del pianeta76. Presto, tuttavia, sarà evidente che nemmeno un darwinismo riformato, cui Gaia fu in ogni caso rifiutato lo statuto dai gatekeepers della biologia evolutiva, avrebbe potuto accomodare pienamente la novità di cui la proposta di Lovelock e Margulis era portatrice. In anni recenti, e grazie in particolare al lavoro di Stengers e Latour, l’ipotesi Gaia ha potuto così manifestarsi in una vocazione che, a ripercorrere a ritroso la sua storia, le va riconosciuta intrinseca sin dagli esordi: se, sul piano della storicità profonda che essa dispiega, i concetti portanti della biologia devono rinegoziare la propria consistenza, ecco che Gaia rappresenta a tutti gli effetti una nuova filosofia della natura77. Ivi, 121. Stengers (2003b, 87). 75 Coccia (2020a, 16). 76 Parlare di una Gaia capace di riprodursi non significa ritornare alla metafora dell’organismo, ma, casomai, accettare la sfida di pensare la riproduzione – sessuata o meno – come caso speciale del fatto d’ordine più generale della metamorfosi (cfr. Coccia 2020). Lynn Margulis stessa aveva osservato che, da una prospettiva gaiana, la questione della colonizzazione di Marte coincide con la domanda sulla capacità di Gaia di riprodursi (Margulis, West, 1993). 77 Cfr. Dutreuil (2021). 73 74

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Così, è sotto gli auspici di questa divinità scientifica, al cospetto della sua intrusione, che pensatrici e pensatori contemporanei hanno potuto ravvivare il dibattito sull’ecologia politica, assumendone in pieno il tenore di sfida speculativa78. Proprio nella misura in cui Gaia si costituisce come filosofia della natura, essa ci offre l’occasione d’introdurre una dimensione supplementare dell’ecologia di Isabelle Stengers – un’esigenza ulteriore che il suo pensiero pone a ogni ecologia che si voglia politica. Esponendo la consistenza stessa del pianeta nella sua storicità radicale, Gaia c’impedisce di ridurlo ai termini di una vita e il suo ambiente intenti a commerciare materia ed energia; e mostra invece come ad animarlo e renderlo abitabile sia un brulicare di attanti che rinegoziano incessantemente i termini della propria convivenza. Visto da Marte, l’ambiente è «la vita degli altri»79 – non pone condizioni a cui basterà adattarsi, ma esibisce esigenze insieme alle quali si tratterà di comporre un mondo. Per questo motivo, non è possibile scambiare Gaia per una casa, confondere l’ecologia con un’economia domestica di portata planetaria80. Pensata lungo il vettore che Gaia costituisce, come Isabelle Stengers propone di fare, l’ecologia non può dunque che essere una «eto-ecologia»81. I viventi non dispongono di un supporto garantito su cui tracciare la loro fragile forma, di nicchie che, a patto di adattarvisi, saprebbero proteggerli da un mondo ostile. L’«ethos, la maniera di essere e di fare che si produce, è inseparabile dall’oikos, dall’ambiente in cui si produce»82. Nella topologia ingarbugliata di Gaia, forma-di-vita e forma-di-mondo coincidono, poste in gioco del medesimo sforzo, ambiti dischiusi dal solco incerto e precario segnato da uno stesso gesto.

Dopo

il progresso

Parlando di un’«intrusione» di Gaia, Stengers mette in scena la vicenda climatica raccontando una storia per certi versi opposta rispetto 78 Se a Stengers e Latour va riconosciuto il merito di averla invocata, Gaia ha presto radunato a sé le voci di autrici e autori tra i più innovativi della contemporaneità: oltre al già citato Coccia (2020a), si ricordino qui almeno Haraway (2016) – che con Stengers e Latour intrattiene un dibattito più che trentennale – e Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro (2014). Sulla lettura latouriana di Gaia, mi permetto di rimandare a Manghi (2020). 79 Coccia (2016, tr. it. 59). 80 Cfr. Coccia (2020b) e Manghi (2021). 81 Cfr. Stengers (2006). 82 Stengers (2003, 129).

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a quella, ormai di moda, dell’antropocene83: non la storia di un anthropos – tutto da testare nella sua consistenza unitaria – che fa il suo maestoso ingresso nella scala dei tempi geologici, bensì di un pianeta che proprio a nostre spese dà prova di costituire a tutti gli effetti «un “essere”» – «esattamente come riconosciamo che un ratto, per esempio, è un essere» (infra). È la costituzione materiale dei nostri collettivi, allora, a trovarsi messa alla prova – le storie che ci hanno fatti quello che siamo a dover cercare la maniera di raccontarsi al cospetto di questo essere tanto esigente quanto indifferente. Facendo intrusione, ci dice Stengers, Gaia porta con sé «una nuova temporalità» (infra), che mentre lascia intatte le sfide del passato, ne annuncia di nuove, terribili; «è qui per restare» (infra), e non permette d’immaginare un ritorno ai tempi in cui potevamo non curarcene. La barbarie che essa minaccia d’ingenerare non è quella di una guerra  –  che «per definizione», Serres ricordava, è «uno stato di diritto»84 –, ma quella, informe, di una violenza generalizzata. Ecco, allora, la sfida inedita posta dalla crisi ecologica: una scena politica che non si lascia organizzare nei termini di amici e nemici, ma pone in questione la tenuta stessa di un mondo incapace di offrire campi di battaglia che si promettano garantiti85. Di fronte a Gaia, allora, non si tratta di combattere, ma di apprendere a comporre con lei; e di farlo senza un alleato che, fino a non molto tempo fa, si era pressoché unanimemente considerato affidabile: il progresso. «Il progresso era meraviglioso; c’era sempre qualcosa di meglio ad attenderci nel futuro. Il progresso ci ha dato le cause “progressiste” con cui sono cresciuta. Sono in difficoltà a dover pensare alla giustizia senza il progresso»86, ha scritto Anna Tsing. «Il problema è che il progresso ha smesso di avere senso»87: la temporalità ingarbugliata che l’intrusione di Gaia inaugura gli ha fatto perdere ogni credibilità. Tsing ne conclude che, «in questo dilemma», si tratta di Per una ricostruzione critica del dibattito sull’Antropocene, si veda Bonneuil, Fressoz (2016). Serres (1990, tr. it. 17) 85 Per questo motivo, da un punto di vista giuridico, il tema dei “diritti della natura” necessita di essere concettualizzato con cautela, imponendo di rivisitare la topologia del diritto soggettivo, e non di limitarsi a riconoscere lo statuto di “persona” a enti naturali sinora pensati come “cose” (Spanò 2020). 86 Tsing (2015, 24-25). 87 Ibidem. 83 84

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sviluppare «new tools for noticing»88, strumenti per attenzioni di tipo nuovo, terminazioni di percezioni a venire. È questa la linea che anche Stengers sembra seguire in Nel tempo delle catastrofi, il compito verso cui in queste pagine tende la traiettoria intera della propria riflessione. Non si tratta di aggiornare gli strumenti di un pensiero critico in cerca di nuovo vigore, ma di fabbricare gli apparati per percezioni nuove, infrastrutture di sensibilità speculative, aperte all’incognito. Evidentemente, la percezione di cui si tratta è da intendersi come creazione: «ciò che è percepito non preesisteva» e «l’evento include indissociabilmente “ciò che è percepito” e “chi” percepisce»89. Di fronte a Gaia, non è la forza oggettiva di un discorso capace di svelare il mondo a promettersi efficace, ma nemmeno la delimitazione di una soggettività fatta di significati e valori “privati” che tenti di bastare a se stessa; piuttosto, il tragitto sensibile della linea lungo cui costantemente si rinegoziano i termini ingannevoli di questa topologia. Latourianamente, ne va della già richiamata «composizione progressiva del mondo comune»90, ma anche della costruzione, al contempo, di «nuovi popoli per i quali il termine “umano” non ha necessariamente significato e la cui scala, forma, territorio e cosmologia devono essere ridisegnati»91. Ne va, più precisamente, del medesimo gesto lungo il tracciato del quale il mondo e ciascun «popolo» che potrà dire di abitarlo misurano le proprie tenute rispettive. Di nuovo, nessun banale naturalismo: gli strumenti di queste attenzioni, i tessuti di questi organi sono integralmente artificiali – testimoniano anch’essi del «potere della finzione». Ma neppure un culturalismo ingenuo. Queste protesi non si tratta di usarle, la loro efficacia non è quella di strumenti da adoperare all’occorrenza; piuttosto, esse ci riposizionano, trasformando le premesse e il profilo della nostra presenza nel mondo. Cosmo-politica, dunque, negoziazione e composizione del mondo, ma anche, e inseparabilmente, tecnologia del sé, «cibernetica dell’io»92: è dunque l’intero tragitto intellettuale di Stengers che assume il rilievo politico che questo volume ha il compito

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Ivi, 25. Stengers (2006, 160). Latour (1999b, tr. it. 11). Latour (2015, tr. it. 207). Bateson (1972b).

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di esporre in purezza. «Creazione di concetti»93 – come l’autrice non cessa di qualificarla, sulla scorta di Deleuze e Guattari –, la filosofia è fucina di sensibilità, e in questo senso, praticata alla maniera di Stengers, diviene esercizio integralmente ecologico-politico: «Un sapere ha senza dubbio un contenuto, che si può conoscere o ignorare, ma ha prima di tutto un’efficacia. Fabbrica chi lo fabbrica. E se vi è scelta, libertà, essa non sta nell’indipendenza rispetto a ogni creazione, bensì nella maniera in cui fabbrichiamo con ciò che ci fabbrica»94. Così, nelle pagine di questo libro, è l’opera-vita di Stengers che si protende in cerca della sua efficacia politica attuale, prolungando lo sforzo di un pensiero esigente che, attraversata in lungo e in largo la vicenda moderna, è comunque nella contemporaneità che per vocazione individua il campo su cui si tratterà di render conto di sé e della propria pertinenza. Date le premesse da cui Stengers muove, cercare di scorgere lo spazio di un futuro non barbaro, rendervisi sensibili, significa anche già cominciare a costruirlo. Il potere della finzione, così, si trova arruolato a un compito di cui nessuna epistemologia potrà garantire il terreno, nessuna logica assicurare il lieto fine. L’assenza di garanzie può spaventare, certo; ma il compito di un pensiero che non ne ricerchi, di garanzie, dischiude il campo di una libertà nuova sulla quale vale la pena – anche contro il probabile – scommettere. Dopotutto, «sembra essere in gioco la vita sul pianeta»95.

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Cfr. Deleuze, Guattari (1991) e Stengers (2006, 153-162). Stengers (2001, 184). Tsing (2015, 25).

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NEL TEMPO DELLE CATASTROFI

Introduzione

Che i decenni a venire si annuncino cruciali non si tratta certo di dimostrarlo qui – così come non si tratta più, ormai, di soffermarsi a descrivere ciò che potrebbe accadere. Ciò che mi trovo a tentare in queste pagine è, piuttosto, dell’ordine di un “intervento”, come quando, durante un dibattito, un partecipante prende la parola e presenta la situazione dibattuta in maniera un po’ differente, suscitando un momento di sospensione. Certo, la discussione riprende subito dopo come se niente fosse accaduto; eppure, alcune tra le persone che ascoltavano diranno poi di esserne rimaste toccate. È ciò che accadde in occasione di un dibattito sul riscaldamento globale alla televisione belga, dove mi era capitato di affermare che «siamo pericolosamente mal preparati per affrontare ciò che sta accadendo». La scoperta che una tale osservazione potesse “fare intervento” è il punto di partenza di questo saggio. Intervenire richiede una certa brevità, dal momento che non si tratta di convincere, ma di far passare ciò che ci fa pensare, sentire e immaginare to whom it may concern – a chi potrebbe esserne toccato. Ma costituisce anche una prova molto esigente, un sentiero lungo il quale è facile scivolare e che è dunque importante che io non intraprenda da sola. Per questo, devo qui ringraziare chi ha letto questo testo a un qualunque stadio della sua elaborazione: le critiche, i suggerimenti, se non (o forse soprattutto) le incomprensioni mi hanno guidata, forzata a chiarire quanto andavo scrivendo, e dunque anche a comprendere meglio ciò che questo saggio richiedeva. Grazie, prima di tutto, a Philippe Pignarre, che sin dalla prima bozza mi ha detto “puoi”, a Didier Demorcy, che non ha smesso di sollecitarmi quanto alle esigenze di ciò che intraprendevo, e anche a Daniel Tanuro, che mi ha dato un impulso decisivo in un momento in cui non sapevo da che parte cominciare. Grazie a Émilie Hache, Olivier Hofman, Maud Kristen. 43

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Grazie ai membri del Groupe d’Études constructivistes e in particolare a Didier Debaise, Daniel de Beer, Marion Jacot-Descombes, David Jamar, Ladislas Kroitor, Jonathan Philippe, Maria Puig della Bellacasa e Benedikte Zitouni. Poter contare sulla generosità di simili ricercatori e ricercatrici, sul loro parlar franco, sulla loro pratica di un’intelligenza collettiva aperta ed esigente è un vero privilegio. Grazie infine a Bruno Latour, la cui lettura fine ed esigente s’inscrive in un processo che, da oltre vent’anni, testimonia del fatto che gli accordi tra cammini talvolta divergenti si creano grazie alla divergenza e non malgrado essa.

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Tra due storie

Viviamo tempi strani, come se ci trovassimo sospesi tra due storie, che parlano entrambe di un mondo divenuto “globale”. Una ci è familiare: è ritmata dalle notizie che giungono dal fronte della grande competizione mondiale e ha la crescita come freccia del tempo. Ha chiaro ciò che esige e ciò che promuove, ma appare notevolmente confusa quanto alle conseguenze che porta con sé. Dell’altra, al contrario, si direbbe che essa vede con chiarezza ciò che sta per accadere, ma le rimane oscuro ciò che esige – la risposta che si tratterà di elaborare. Chiarezza non significa tranquillità. Quando cominciavo a scrivere questo testo, la crisi dei mutui subprime già scuoteva il mondo bancario e venivamo a sapere del ruolo non trascurabile giocato dalla speculazione finanziaria nell’aumento brutale del prezzo delle derrate alimentari. Nel momento in cui lo completo (metà ottobre 2008), il tracollo finanziario è in corso, le borse sono in panico e gli stati, fino a ora tenuti ai margini dei luoghi del potere, si trovano improvvisamente chiamati a tentare di ristabilire l’ordine e salvare le banche. Non so quale sarà la situazione quando questo libro raggiungerà i suoi lettori. Quel che so è che, man mano che la crisi andava amplificandosi, voci sempre più numerose si sono levate a esporre in tutta chiarezza i suoi meccanismi, la fondamentale instabilità delle costruzioni finanziarie, il pericolo intrinseco di ciò a cui gli investitori si affidavano. Certo, la spiegazione viene dopo, e non permette di prevedere. Ma tutti, per il momento, sono d’accordo: bisognerà regolare, sorvegliare – se non, addirittura, vietare certi prodotti finanziari! A voler ascoltare queste voci frenetiche, l’epoca del capitalismo finanziario  –  questo predatore che l’ultraliberalismo reagan-thatcheriano ha liberato da ogni vincolo – sarebbe chiusa, dunque, e per le banche si tratterebbe di reimparare il loro “vero mestiere” e mettersi al servizio del capitalismo produttivo. 45

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È forse vero che un’epoca si chiude, ma si tratta di un episodio che appartiene, in quanto tale, a ciò che ho chiamato la “prima storia”, chiara e confusa al tempo stesso. Non credo di sbagliarmi pensando che, se quando questo libro raggiungerà i suoi lettori sarà ritornata la calma, in cima alla lista delle priorità si troverà la sfida di “rilanciare la crescita”. Domani come ieri, saremo chiamati ad accettare i sacrifici che la mobilitazione di tutti per questa crescita esige, e a riconoscere l’impellenza di una serie di riforme, dal momento che “il mondo è cambiato”. Il messaggio indirizzato a tutti, così, rimarrà immutato: «Non abbiamo scelta, bisogna stringere i denti, accettare il fatto che i tempi sono duri e mobilitarsi per una crescita al di fuori della quale non vi è alcuna soluzione concepibile. Se non lo facciamo ‘noi’, saranno altri a trarre vantaggio dalla nostra mancanza di coraggio e di fiducia». In altre parole, le relazioni tra i protagonisti della scena potranno anche modificarsi, ma si tratterà sempre della stessa storia, chiara e confusa. Parole d’ordine chiare, prospettive quanto mai confuse rispetto al legame tra queste parole ansiose di mobilitare e la possibilità di soluzioni all’altezza dei problemi che vanno accumulandosi – crescenti diseguaglianze sociali, inquinamento, avvelenamento da pesticidi, esaurimento delle risorse, prosciugamento delle falde acquifere… Ecco perché Nel tempo delle catastrofi, scritto in gran parte prima della catastrofe finanziaria, non ha dovuto essere riscritto a causa di essa. Il suo punto di partenza è un altro. Si regge su un fatto: affermare che ciò che va sotto il nome di “sviluppo” sia incapace di rispondere a simili problemi equivale ormai a sfondare una porta aperta. L’idea che spetterebbe a questo tipo di sviluppo, che ha nella crescita il proprio motore, riparare a ciò che esso stesso ha contribuito a creare non è certo morta, ma ha perso il sostegno di qualunque genere di evidenza. Il carattere intrinsecamente “insostenibile” di questo sviluppo, che alcuni annunciavano da decenni, è entrato a far parte del senso comune. Ed è proprio questo ingresso nel senso comune a creare la netta impressione che un’altra storia sia cominciata. Ormai sappiamo che, se stringeremo i denti e continueremo ad avere fiducia nella crescita, andremo a finire, come si dice, “contro il muro”. Questo non significa assolutamente che vi sia una rottura tra le due storie. Entrambe rendono evidente la necessità di resistere a ciò che ci spinge dritti contro il muro. In particolare, nulla di ciò che scriverò nelle pagine che seguono dovrà far dimenticare il carattere indispensabile delle grandi mobilitazioni popolari (pensiamo a quella di Seattle), che non hanno eguali nel risvegliare le capacità di resi46

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stere e nel mettere sotto pressione chi ci domanda di avere fiducia. Nello scrivere questo libro non intendo negare questa urgenza, bensì tentare di ascoltare ciò che, oscuramente, insiste. Certo, ci sono molte cose che dobbiamo esigere, fin da ora, da parte dei protagonisti che oggi definiscono cosa è possibile e cosa no. Ciononostante, e pur proseguendo la lotta contro quelli che continuano ad aggrapparsi alle magre evidenze della prima storia, si tratta di apprendere ad abitare ciò che ormai sappiamo, di apprendere ciò a cui quello che sta accadendo ci obbliga. Se il fatto, ormai divenuto senso comune, di sapere che stiamo andando dritti contro il muro richiede di essere abitato, è forse perché il suo essere parte del senso comune non testimonia di un’avvenuta “presa di coscienza” generale. Esso non beneficia, dunque, di parole, di saperi parziali, di creazioni immaginative, di molteplici convergenze che sarebbero stati capaci di produrre una simile riuscita, dando ragione a quelli che erano stati altre volte denunciati come uccell del malaugurio, partigiani del “ritorno alla caverna”. Come nel caso del crack delle borse, capace di provare che il mondo della finanza era vulnerabile nel suo insieme, non si tratta di idee che avrebbero trionfato, ma di “fatti” che hanno parlato. È stato necessario, nel corso di questi ultimi anni, arrendersi all’evidenza: ciò che veniva vissuto come un’eventualità, lo sconvolgimento globale del clima, è già ampiamente cominciato. Questa «verità disturbante1», come è stata molto giustamente chiamata, si è ormai imposta: la controversia tra gli scienziati è chiusa. Ciò non significa che siano scomparsi gli avversari in questa lotta; tuttavia, essi non sono più interessanti se non come casi esemplari delle commistioni con la lobby petrolifera o delle idiosincrasie psicosociali (come per esempio, in Francia, l’essere membri dell’Académie des sciences) che rendono apparentemente riluttanti a riconoscere ciò che disturba. Ormai “sappiamo”, e certi effetti divenuti osservabili forzano già i climatologi a modificare i loro modelli e le loro previsioni. Per esempio, lo scioglimento dei ghiacci è molto più rapido di quanto inizialmente

1 Stengers si riferisce implicitamente, qui, al documentario del 2007, scritto da Al Gore e girato da Davis Guggenheim, dal titolo inglese originale An inconvenient truth, tradotto in italiano come Una verità scomoda. Il titolo francese, che Stengers assume qui come formula al di là di un riferimento puntuale al film, Une verité qui derange, ha un significato lievemente diverso sia dall’originale inglese sia dalla traduzione italiana, che abbiamo preferito mantenere con l’aggettivo “disturbante” [N. d. T.].

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previsto, tanto all’Artico quanto all’Antartico, e i glaciologi si trovano costretti a correggere i loro modelli, che si dimostrano troppo semplici. Quanto al tasso di CO2 nell’atmosfera, esso progredisce con una rapidità tale da rendere evidente che il problema non è più solo l’aumento delle emissioni. Era stato previsto che il riscaldamento potesse implicare una diminuzione della capacità d’assorbimento dei gas da parte degli oceani e delle foreste tropicali  –  è uno di quei temibili anelli di retroazione positiva evidenziati dai modelli che si trattava di riuscire a non attivare, in quanto avrebbe accelerato e amplificato il riscaldamento. Tutto ciò, pare, ha cominciato ad accadere. I modelli devono essere corretti, mentre quelli che erano presentati come worst case scenarios guadagnano sempre più probabilità di realizzarsi. In breve, in questa nuova epoca, ci troviamo a che fare non più soltanto con una natura “da proteggere” dai danni causati dagli umani, ma anche con una natura capace veramente di disturbare tanto i nostri saperi quanto le nostre vite. Questa situazione nuova non significa affatto che le altre questioni (inquinamento, diseguaglianze…) siano passate in secondo piano. Piuttosto, esse si trovano federate, e in maniera doppia. Da una parte, l’ho già sottolineato, tutte tolgono credibilità alla prospettiva della crescita, identificata con il progresso, che continua nondimeno a imporsi quale unico orizzonte concepibile. Dall’altra, nessuna tra esse può più essere affrontata indipendentemente dalle altre, giacché tutte includono ormai il riscaldamento globale tra le proprie componenti. Quella che le minacce a venire delineano è una vera e propria forma di globalizzazione. Nuovi messaggi cominciano già a raggiungere lo sventurato consumatore, da cui una volta ci si attendeva una fiducia cieca nella crescita, e che oggi si trova invitato a misurare la propria impronta ecologica, vale a dire il carattere irresponsabile ed egoista delle proprie abitudini di consumo. Ci sentiamo dire che dovremo “modificare il nostro stile di vita”. A ogni livello si levano appelli alla buona volontà, e tuttavia lo stato di confusione in cui si trova il mondo politico è ormai evidente. Come tenere insieme l’imperativo di “liberare la crescita” per “vincere” nella grande competizione economica e la sfida di dover pensare un futuro che definisce questo tipo di crescita come irresponsabile – se non, addirittura, criminale? Malgrado questa confusione, è sempre la chiarissima logica di quella che ho chiamato la prima storia a prevalere, continuando ad accumulare vittime. Vittime recenti della crisi finanziaria, certo, ma 48

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anche e soprattutto vittime “ordinarie” sacrificate sull’altare della crescita a cui le nostre vite sono votate. Tra queste vittime, alcune sono lontane, altre più vicine. Si pensi alle persone che annegano nel Mediterraneo, che hanno preferito una morte probabile alla vita che conducevano nei loro paesi “in ritardo nella corsa alla crescita”, o a quelle che, giunte in Europa, vengono perseguitate in quanto “clandestine”. Ma non si tratta soltanto degli “altri”. La mobilitazione per la crescita raggiunge anche i lavoratori “di casa nostra”, sottomessi a imperativi di produttività intollerabili, così come i disoccupati, fatti oggetto delle politiche di attivazione e di motivazione, costretti a dar prova di passare il proprio tempo a cercare un impiego  –  quando non obbligati, addirittura, ad accettare qualunque lavoro. La caccia ai disoccupati è aperta. Il nemico pubblico numero uno, qui, è l’“approfittatore” che è riuscito a fabbricarsi una vita negli interstizi. Che questa vita possa essere attiva, produttiva di gioia, di cooperazioni, di solidarietà, importa ben poco, e anzi dev’essere denunciato. Il disoccupato che non si sente in colpa o non è disperato deve cercare di passare inosservato, poiché offre un cattivo esempio: quello di una smobilitazione, di una diserzione. La guerra economica richiede l’adesione di noi tutti  –  questa guerra in cui le vittime non hanno nemmeno il diritto agli onori, ma sono costrette a cercare in tutti i modi di ritornare al fronte. Era necessario ricordare questo contrasto sbalorditivo tra ciò che sappiamo e ciò che ci mobilita, per osare porre sotto il segno della barbarie l’avvenire che si prepara. Non quella barbarie che, per gli Ateniesi, caratterizzava i popoli definititi come non civilizzati, ma quella che, prodotta da una storia di cui siamo stati così fieri, veniva evocata nel 1915 da Rosa Luxemburg, in un testo scritto in prigione mentre «milioni di proletari di tutte le lingue cadono sul campo della vergogna, del fratricidio, del macello reciproco, col canto degli schiavi sulle labbra»2. Rosa Luxemburg, marxista, affermava che il nostro avvenire aveva l’orizzonte di un’alternativa: «socialismo o barbarie». Un secolo dopo, non abbiamo imparato granché a proposito del socialismo. In compenso, conosciamo già il canto di chi sopravvivrà in un mondo di vergogna, di fratricidio e di massacro reciproco. Esso reciterà: “è proprio necessario, non abbiamo altra scelta”. È un ritornello che 2

Luxemburg (1915, tr. it. 448).

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abbiamo sentito molte volte, soprattutto a proposito dei migranti irregolari. Segnala che ciò che fino a ora era considerato come intollerabile, quasi impensabile, sta cominciando a insediarsi tra le abitudini. E non abbiamo ancora visto nulla. Non è un caso che la catastrofe di New Orleans abbia tanto colpito gli animi. Ciò che si annuncia non è altro che la possibilità di una New Orleans su scala planetaria – turbine eoliche e pannelli solari per i ricchi, che potranno forse anche continuare a utilizzare le proprie vetture grazie ai biocarburanti, mentre per gli altri… Questo libro si rivolge alle persone che sentono di vivere come in sospeso. Tra loro, vi è chi sa che bisognerà “fare qualcosa”, ma si trova paralizzato dal sentimento della dismisura tra ciò che può e ciò che dovrebbe, oppure è tentato di pensare che è troppo tardi, che non c’è più nulla da fare, o ancora preferisce credere che tutto finirà per sistemarsi, anche se non riesce a immaginare come. Ma ci sono anche persone che lottano, che non si sottomettono alle evidenze della prima storia, che ritengono che questa storia, produttrice di sfruttamento, di guerre e di diseguaglianze sociali che crescono incessantemente, corrisponda già alla barbarie. Non si tratta, è importante sottolinearlo, di convincerli che la barbarie che viene è un’altra, di cui l’uragano Katrina sarebbe una prefigurazione, e che le loro lotte sarebbero, di conseguenza, superate. Tutto l’opposto! Se vi è stata barbarie a New Orleans, è proprio nella risposta che è stata data a Katrina: i poveri abbandonati a se stessi, mentre i ricchi si mettevano al riparo. E questa risposta non ha a che fare con quell’astrazione che qualcuno chiama l’“egoismo umano”, ma con ciò contro cui queste stesse persone lottano – con ciò che, dopo averci promesso il progresso, ci domanda di accettare il carattere ineluttabile dei sacrifici imposti dalla competizione economica mondiale: o crescita, o morte. Se oso scrivere che anche loro, nonostante tutto, sono “in sospeso”, è perché ciò di cui Katrina può rappresentare un segno precursore sembra esigere un tipo d’impegno di cui avevano ritenuto fosse possibile fare (strategicamente) a meno. Nulla è più difficile che accettare la necessità di complicare una lotta già così incerta, alle prese con un avversario capace di approfittare di ogni debolezza, di ogni ingenua buona volontà. Tenterò di far sentire che sarebbe tuttavia disastroso rifiutare questa necessità. Scrivendo questo libro, mi schiero con chi si vuole erede di una storia di lotte condotte contro lo stato di guerra permanente che il capitalismo fa regnare. È la domanda su come ereditare oggi da questa storia a farmi scrivere. 50

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Mentre ci troviamo in sospeso, alcuni s’impegnano in sperimentazioni che tentano di far esistere già da ora la possibilità di un avvenire che non sia barbaro – quelli e quelle che hanno scelto di disertare, di fuggire da questa guerra sporca condotta coi mezzi dell’economia, ma che «fuggendo, cercano un’arma», come diceva Gilles Deleuze3. E cercare, in questo caso, vuol dire innanzitutto creare, creare una vita “dopo la crescita”, una vita che esplori le connessioni con nuove potenze d’agire, di sentire, d’immaginare e di pensare. Loro hanno già scelto di modificare la propria maniera di vivere, praticamente ma anche politicamente: non agiscono più nel senso di colpa, alla ricerca di un rimedio alla loro impronta ecologica, ma sperimentano cosa significhi tradire il ruolo di consumatori fiduciosi che a noi tutti è stato assegnato. Sperimentano, cioè, cosa significhi entrare in lotta contro ciò che fabbrica quest’assegnazione, e imparare concretamente a inventare modi di produzione e di cooperazione che sfuggano alle evidenze della crescita e della competizione. È a loro che questo libro è dedicato, e più precisamente al possibile che tentano di far esistere. Non si tratterà, tuttavia, di farmi loro portavoce, di descrivere al posto loro ciò che si trovano impegnati a tentare. Sono perfettamente capaci di usare la propria voce, se è vero che, lungi dall’intraprendere un “ritorno alla caverna”, come certi li accusano di fare, sono esperti nell’uso dei siti web e delle reti informatiche. Non hanno bisogno di me, ma hanno bisogno che altri, come me, lavorino, con i propri mezzi, per creare il senso di quanto ci sta accadendo. Non attendetevi, da questo libro, una risposta alla domanda “che fare?” – l’aspettativa rimarrebbe delusa. Il mio mestiere sono le parole, e le parole hanno un potere. Possono rinchiudere all’interno di diatribe dottrinarie o ambire al potere proprio della parola d’ordine – ed è per questo motivo, per esempio, che mi preoccupa il termine “decrescita” –, ma possono anche far pensare, produrre connessioni nuove, scuotere le abitudini – ed ecco perché voglio onorare l’invenzione del nome “obiettori di crescita”. Le parole non hanno il potere di rispondere alla domanda imposta dalle minacce globali, molteplici e ingarbugliate di quella che ho chiamato la “seconda storia” – quella in cui, malgrado tutto, ci troviamo coinvolti. Ma possono, ed è ciò che questo libro tenterà di fare, contribuire a formulare questa domanda in un modo che ci forzi a pensare che cosa richieda la possibilità di un avvenire che non sia barbaro.

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Deleuze, Parnet (1977, tr. it. 130).

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L’epoca è cambiata

Questo libro può essere definito, in senso letterale, un “saggio”. In effetti, si tratta di saggiare le possibilità di pensare a partire da quella che è prima di tutto una constatazione: “l’epoca è cambiata”. E cioè di conferire a questa constatazione il potere di farci pensare, sentire, immaginare, agire. Un simile tentativo, tuttavia, reca in sé qualcosa di spaventoso: la stessa constatazione potrebbe anche essere impiegata per impedirci di pensare e per anestetizzarci. In effetti, man mano che lo spazio delle scelte effettive in grado di conferire senso a idee come quelle di politica o di democrazia andava restringendosi, quelli che d’ora in avanti chiamerò “i nostri responsabili” assumevano il compito di far comprendere alla popolazione che “il mondo è cambiato” – e che cambiare di conseguenza costituisce dunque un’impellente necessità. “Cambiare”, nel loro caso, significa rinnegare ciò che aveva fatto sperare, lottare, creare. Significa “basta sognare, bisogna arrendersi all’evidenza”. Basta, ci diranno, per esempio, sognare che certe misure politiche potrebbero rispondere alla crescita folgorante del prezzo del petrolio e dei profitti delle compagnie petrolifere. Di fronte al crollo del potere d’acquisto, bisognerà accontentarsi d’interventi di carità pubblica: siccome bisogna “aiutare le famiglie”, si taglieranno alcune imposte o tasse – salvo poi, ovviamente, tagliare anche i servizi. Impossibile rimettere in discussione l’evidenza che è riuscita a imporsi nel corso degli ultimi trent’anni: non si possono toccare né le “leggi del mercato” né i profitti delle grandi aziende. Si tratta dunque d’imparare ad adattarsi, con quel triste sospiro che uccide tanto la politica quanto la democrazia: “è pur necessario…”. “È pur necessario” è il Leitmotiv che abbiamo associato, Philippe Pignarre e io, in Stregoneria capitalista1, a quella presa che il capitali-

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Pignarre, Stengers (2005).

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smo, nonostante la scomparsa di ogni riferimento credibile al progresso, riesce oggi a mantenere più salda che mai. Come rivolgersi al capitalismo a partire dalla necessità di resistere a questa cattura era la nostra prima preoccupazione. In queste pagine riprendo quel lavoro, con una prospettiva complementare. Se non si tratta più di fare eco, qui, al movimento di resistenza altermondialista – e quindi anche anticapitalista –, non è, evidentemente, perché le sue istanze avrebbero perduto d’importanza, ma perché anch’esso ha di fronte a sé un avvenire le cui minacce hanno subìto, nel giro di pochi anni, una svolta terribilmente concreta. Coloro che, con occhi pieni di speranza, si affidano al mercato, alla sua capacità di trionfare di fronte a quelle che, non potendole più negare, chiamano ora “sfide”, hanno perduto ogni credibilità. Ma questo non basta, evidentemente, per offrire all’avvenire la possibilità di non essere barbaro. E la verità che disturba, quando si parla della lotta per un mondo “altro”, sta nel fatto che è adesso che bisogna diventare capaci di farlo esistere. È in questo senso che, per tutte e tutti noi, l’epoca è cambiata. Tentare di pensare a partire da questo “fatto”, cioè da qualcosa che, all’improvviso, è divenuto un’evidenza comune, significa evitare di assumerlo come una tesi (“siccome l’epoca è cambiata, allora…”). Bisogna invece assumerlo come una domanda, e una domanda posta non in termini generali, ma qui e ora, cioè in un momento in cui il grande tema del progresso ha già perduto la propria capacità di convincere. Così, per esempio, sono divenute quasi ridondanti le dimostrazioni del fatto che il capitalismo ci offre solo un’illusione di libertà, che le scelte che ci lascia sono soltanto, in realtà, scelte forzate. Bisogna ostinarsi a “credere al mercato” per aderire ancora alla fiaba della libertà data a ciascuno di scegliere la propria vita. Di conseguenza, si tratta di pensare in un momento in cui il ruolo delle illusioni e delle false credenze, in passato ritenuto cruciale, ha perduto la sua importanza, senza tuttavia che il potere delle scelte obbligate che ci vengono proposte ne abbia risentito – al contrario. Allo stesso modo, cinquant’anni fa, quando le grandi prospettive dell’innovazione tecno-scientifica erano sinonimo di progresso, sarebbe stato quasi inconcepibile non guardare con fiducia agli scienziati e ai tecnici, non attendersi da loro la soluzione ai problemi relativi a questo sviluppo di cui essi si vantavano di essere il motore. Eppure, anche su questo fronte – sebbene in modo meno evidente –, la fiducia è stata profondamente scossa. Non è assolutamente certo che le scienze, quanto meno per come le conosciamo, siano attrezzate per 53

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rispondere alle minacce dell’avvenire. Al contrario, con l’avvento di ciò che chiamo “l’economia della conoscenza”2, è relativamente certo che le risposte che gli scienziati non mancheranno comunque di proporre non ci permetteranno di evitare la barbarie. Quanto agli Stati, sappiamo che, in un grande slancio di entusiastica rassegnazione, essi hanno rinunciato a quell’insieme di strumenti che avrebbero permesso loro di assumersi le proprie responsabilità, per  affidare invece al libero mercato mondializzato la responsabilità per l’avvenire del pianeta – salvo poi, come vediamo regolarmente accadere, intervenire a “regolare” per evitare gli “eccessi”. Ecco perché li chiamo i nostri responsabili. Non sono responsabili del futuro – ritenerli tali significherebbe render loro un onore eccessivo. È di noi che sono responsabili, di farci accettare la dura realtà, di motivarci, di farci comprendere che è inutile volerci immischiare nella formulazione delle domande che ci riguardano. Se l’epoca è cambiata, possiamo dunque cominciare affermando che siamo quanto mai impreparati a produrre il tipo di risposta che, lo avvertiamo, la situazione nuova richiede. Non si tratta di una constatazione d’impotenza, quanto piuttosto di un punto di partenza. Se non c’è molto da attendersi da parte dei nostri responsabili, è forse allora più interessante concentrarsi su ciò che loro, che tanto ci hanno riempito la testa con le virtù della (buona) governance, sono incaricati di prevenire, e che li terrorizza. Li terrorizza il momento in cui perderanno la presa sul timone, quando si troveranno rivolte con ostinazione delle domande per cui non hanno risposta, quando sentiranno che i vecchi ritornelli non funzionano più, quando li si giudicherà per le loro risposte, quando ciò che pensavano stabile si sfalderà sotto i loro occhi. I nostri responsabili sono abbastanza prevedibili. Se qualcuno tra loro, per caso, dovesse aver letto i segni che ho elencato e percepito la direzione verso cui questo mio sforzo è diretto, avrà già alzato le spalle: loro sanno già, infatti, di cosa “la gente” è capace. Sanno che il momento a cui mi riferisco, quello in cui il timone scivolerà via dalle 2 Ritornerò su questa questione. Mi limito, però, a segnalare che quella che sembra una parola d’ordine vuota utile solo a scrivere report sulle sfide della contemporaneità (“la nostra è ormai un’economia della conoscenza…”) individua in realtà un deciso riorientamento delle politiche della ricerca pubblica, che, tra le altre cose, fa del partenariato con l’industria una condizione cruciale per il finanziamento della ricerca. Ciò equivale a dare all’industria il potere di pilotare direttamente la ricerca e di dettarle criteri di successo legati alle proprie esigenze (in particolare, l’ottenimento di un brevetto).

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loro mani, non produrrà altro che egoismi scatenati e una demagogia trionfante. Non sono altro che una snob, che si ostina a ignorare le dure realtà sociologiche. Non so cosa si possa intendere, qui, per “dure”. So tuttavia che, dove ho cominciato a imparare a pensare, presso gli scienziati sperimentali, non ci s’azzarderebbe a esprimersi in termini simili prima che l’enunciato in questione – “le cose stanno così e non altrimenti” – sia stato sottomesso a molteplici prove. Dove sono, qui, le prove? Dove sono le proposte attive che renderebbero possibile e desiderabile fare altrimenti, cioè insieme, gli uni per – ma soprattutto con – gli altri? Dove sono le scelte concrete negoziate collettivamente? Dove sono le narrazioni in grado di popolare le immaginazioni, mettendo in comune successi e traiettorie d’apprendimento? Dove sono, nella scuola, i modi di lavorare insieme che potrebbero creare il gusto per cooperazioni esigenti e l’esperienza della forza di un collettivo che apre alla possibilità di riuscire tutti insieme, contro la valutazione  che separa e giudica? Dobbiamo ricordarci di tutto questo, cioè della maniera in cui veniamo formati, attivati, catturati, svuotati; e non per lamentarci, bensì per evitare il sospiro d’impotenza con cui saremmo portati a concludere che “non possiamo farci nulla, siamo tutti colpevoli di passività” – e che, di conseguenza, “bisognerà aspettare che misure decise altrove, speriamo in tempo utile, ci costringano a subire i cambiamenti necessari”. Il sentimento d’impotenza ci minaccia tutti, ed è attivamente alimentato da quanti si presentano in nome della “dura realtà” e ci dicono: “cosa fareste, voi, al nostro posto?” Chiamare chi ci governa “i nostri responsabili” significa affermare che al loro posto, noi, non ci siamo – e non per caso. E significa anche impedire a loro e ai loro alleati di andare in giro ripetendo impunemente che quella che ho chiamato la “prima storia” (quella che parla di una competizione generalizzata, di una guerra di tutti contro tutti dove ciascun individuo, impresa, nazione o regione del mondo deve accettare i sacrifici necessari per avere il diritto di sopravvivere, sempre a scapito dei concorrenti) obbedisce al solo sistema che “si è dimostrato efficace”. Tra tutte le pretese all’evidenza empirica che ci è capitato d’incontrare, questa è la più oscena e la più inconsistente. Ed eccola tuttavia ricomparire, ancora e ancora, come un ritornello, e domandarci di fingere di credere che le cose finiranno per aggiustarsi, che se ci trovassimo al posto dei nostri responsabili faremmo come loro, e che il nostro compito si limiti a termoisolare le nostre 55

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case e sostituire le lampadine  –  ma anche continuare ad acquistare automobili, perché bisogna sostenere la crescita. Non c’è da discutere, da argomentare: renderemmo troppo onore a questa pretesa, ed è di tale onore che essa si nutre. Si tratta, invece, di recuperare le virtù del riso, della maleducazione, della satira. Quelli che chiamo “i nostri responsabili” protesteranno: rifiutare di mettersi al loro posto, rifiutare di argomentare, rifiutare di discutere educatamente delle virtù del mercato e dei suoi eventuali limiti significa rifiutare il dibattito, e dunque la comunicazione razionale  – insomma, rifiutare la democrazia! Peggio, significa rischiare il panico, padre dell’irrazionalità, aprendo alla demagogia. Il loro primo compito, in tempi difficili come quelli che si annunciano, non è forse quello di farci mantenere la fiducia per evitare questo panico? È per onorare questo compito sacro che alcuni hanno, in passato, taciuto sulle particelle radioattive fuoriuscite da Chernobyl, come se il confine francese fosse dotato del potere di arrestarle. Da allora, gesti eroici di questo genere si sono moltiplicati, s’imponeva l’inaggirabile imperativo di andare avanti come se nulla fosse, senza alcuna prospettiva al di là degli appelli a mantenere la fiducia e stringere i denti. In altre parole, i nostri responsabili sono responsabili della gestione di quello che potremmo chiamare un panico freddo, come testimoniano certi messaggi che, benché apertamente contraddittori, sono comunemente accettati: “consumate, la crescita dipende da questo!” – e al tempo stesso, però, “badate alla vostra impronta ecologica”; “sappiate che i nostri stili di vita devono cambiare” – ma “non dimenticate che siamo impegnati in una competizione da cui dipende la nostra prosperità!” Anche i nostri responsabili condividono questo panico. Essi sperano che, da qualche parte, un miracolo possa giungere a salvarci. Potrebbe essere un miracolo partorito dalla tecnica a risparmiarci la prova, o il miracolo di una conversione massiccia in seguito, chissà, a una qualche catastrofe. Nel frattempo, benedicono quel genere di esortazioni che colpevolizzano e propongono a ciascuno di concentrarsi su ciò che potrebbe fare nel proprio piccolo – a condizione, ovviamente, che non sia più che una minoranza a decidere di abbandonare l’automobile e che non si diventi tutti vegetariani, perché questo significherebbe infliggere un colpo basso alla crescita. Non mi spingerò fino a compatire i nostri responsabili, ma sono convinta che se riuscissimo a rivolgerci a loro nel registro della commiserazione e non in quello della denuncia – che implicherebbe continuare a pensarli effettivamente “responsabili” della situazione – lo 56

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sforzo potrebbe avere una certa efficacia. Si tratta, in ogni caso, di una scommessa che questo saggio fa. E la parola “saggio” trova qui il suo significato più preciso: si tratta proprio, infatti, di saggiare, di tentare, nel senso pragmatico del termine – in un senso, cioè, per cui è il tentativo stesso a cui spetta di definire le condizioni della propria riuscita. Nel caso specifico, se parlando dei “nostri responsabili” mi sono autorizzata a confondere ciò che, in una democrazia, dovrebbe essere distinto (i funzionari pubblici e i politici), questo non è per sostenere una sofisticata tesi concettuale sulla definizione dei rapporti tra Stato e democrazia politica, bensì per caratterizzare quella situazione di confusione linguistica istituita sotto il nome di “governance”. E il successo di questa operazione di caratterizzazione sta precisamente in ciò che un responsabile detesta maggiormente: che ci si rifiuti di mettersi al suo posto, e che lo si commiseri, invece, per il ruolo che svolge. Non facciamoci ingannare: quando arriverò, tra qualche pagina, a parlare del capitalismo e dello Stato, non si tratterà di proporre definizioni che pretendano di portare alla luce la vera natura di questi protagonisti meglio di quelle che le hanno precedute. Non faccio parte di quanti cercano una posizione che permetterebbe di svelare una qualche “verità” permanente dietro quell’epoca che si dice “essere cambiata”. Provo, piuttosto, a contribuire alla domanda che si apre nel momento in cui un simile cambiamento diventa percepibile: “a che cosa obbliga?” Non offrirò, al riguardo, né dimostrazioni né garanzie, né fondate sulla storia né sui concetti. Tenterò di pensare in un corpo a corpo con la domanda, senza conferire al presente in cui le risposte rischiano la propria pertinenza il potere di giudicare il passato – ma anche senza attribuire alle risposte date in passato ad altre domande il potere di estendere al presente la propria autorità. Di conseguenza, questa prima proposta di cui saggiamo l’efficacia – rivolgerci ai nostri responsabili secondo la modalità della commiserazione – non equivale a svelare infine il vero volto dei poteri pubblici. Si tratta invece di provare a caratterizzarli in modo da prendere atto della situazione in cui ci troviamo senza farne un destino, come se il passato avesse recato in sé dall’inizio il potere inesorabile di condurci qui, né uno scandalo, come se i nostri responsabili avessero tradito il proprio mandato (giacché l’idea stessa di un tale mandato suppone ancora l’idea del progresso), e neppure un incidente di percorso, come se il riferimento al progresso, entro un simile percorso, fosse accidentale. 57

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Il mio approccio alla situazione che “ci” tiene oggi in sospeso fa leva sulla differenza tra lo svelare e il caratterizzare. Svelare significherebbe ambire a passare dalla perplessità a un sapere che giudica, capace di andare oltre le apparenze. Al contrario, caratterizzare, cioè porre la questione dei “caratteri”, significa considerare la situazione in modo pragmatico: partendo da ciò che possiamo ritenere di sapere, senza tuttavia conferire a questo sapere un potere di definizione. Si tratta di ciò che fa uno scrittore quando si domanda che cosa siano capaci di fare i protagonisti del suo racconto nella situazione che egli stesso ha creato. Caratterizzare significa, partendo dal presente che pone la domanda, risalire verso il passato, non per dedurre questo presente dal passato, bensì per restituirgli lo spessore che gli è proprio: per interrogare i protagonisti di una situazione dal punto di vista di ciò di cui possono diventare capaci, del modo in cui sono capaci di rispondere alla situazione. Il “noi” che questo saggio fa intervenire è un noi che, oggi, pone domande di questo genere, un noi che sa che la situazione è critica, ma non sa a quale protagonista rivolgersi.

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L’evento

ogm

Rivolgersi a quelli che oggi possono essere caratterizzati come “i nostri responsabili” nel registro della commiserazione non implica alcuna simpatia – tutto il contrario. Si tratta, piuttosto, di prendere le distanze, di rifiutarsi fermamente di condividere il loro modo di percezione o di lasciarci assumere a testimoni delle loro buone intenzioni. Non è possibile aspettarsi granché da loro – non dobbiamo dunque abbandonarci ai tormenti della delusione e dell’indignazione. Ma non dobbiamo nemmeno, e questo forse è più difficile, abbandonarci a una contrapposizione frontale, sostenuta dall’evidenza di una situazione conflittuale che sarebbe intellegibile proprio a partire da questo conflitto. Non che il conflitto sia inutile o “superato”; è il suo legame con la produzione d’intellegibilità che voglio mettere in dubbio, nella misura in cui minaccia di offrire risposte prima che si sia imparato a formulare delle domande, di proporre delle certezze prima che si sia fatta esperienza della perplessità. Voglio qui rendere grazie a ciò che mi ha permesso, insieme ad altri, e tra altri, di vivere un’esperienza di apprendimento per me cruciale, senza la quale questo saggio non sarebbe stato scritto. Parlerò di “evento ogm” in quanto, per me come per molti altri, ciò che è avvenuto in Europa con il movimento di resistenza agli ogm ha segnato un prima e un dopo. Non perché si sarebbe registrata una vittoria – non è questo il caso. Gli organismi geneticamente modificati e brevettati hanno già invaso l’America e l’Asia e, sebbene siano sempre meno spesso associati alla loro pretesa iniziale (rispondere alla sfida della fame nel mondo), hanno trovato nella produzione di biocarburanti una magnifica promessa di riserva. Ciò che fa evento, ciò che fa sì che il movimento europeo di resistenza agli ogm possa far sentire la possibilità di agire invece che di subire, in questa nostra epoca sospesa tra due storie, è lo scarto che si è creato tra la posizione di chi sviluppava saperi sempre più concreti, sempre più significativi, 59

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e quella dei responsabili dell’ordine pubblico, incapaci di “riconciliare” l’opinione con quello che per loro era soltanto un nuovo modo di produzione agricola in grado di mostrare la fecondità dei rapporti tra scienza e innovazione. Persino l’establishment scientifico, generalmente pronto a rivendicare i benefici di un’innovazione industriale e a rinviare a terzi la responsabilità dei suoi danni, ne fu scosso. Momento terribile per la Scienza francese quel 12 febbraio 1997 in cui Alain Juppé, primo ministro, smentì la Commission du génie biomoléculaire1, rifiutando contro il suo parere di autorizzare la messa in commercio di tre varietà di mais geneticamente modificato. La Commissione agiva in buona fede. Per quanto riguarda la colza, è vero, essa si era inizialmente limitata a valutare il pericolo “intrinseco” della pianta prodotta tramite modificazione genetica; tuttavia, cominciava lentamente ad ammettere che si stava formando un flusso di geni in grado di favorire la resistenza agli erbicidi e che questo avrebbe potuto causare problemi. Se non si sognava di vietare, prevedeva comunque l’eventualità di realizzare un dispositivo di biovigilanza (il che significa, in parole povere, che lo sviluppo commerciale avrebbe costituito anch’esso una tappa sperimentale, finalizzata a “meglio comprendere il rischio”). Ma il mais non poneva problemi di questo genere, visto che non ha piante parenti in Europa! Il governo francese aveva dunque commesso l’imperdonabile, tradito la Scienza, ceduto alle paure irrazionali, preso posizione in una vicenda che non era di sua competenza e che riguardava solo gli esperti. Di fatto, i politici avevano compreso che la situazione stava sfuggendo dalle loro mani: gli scienziati erano apertamente divisi, la ricerca pubblica ne risultava posta gravemente in discussione, erano cominciate le proteste e, in seguito alla cosiddetta crisi della “mucca pazza”, la fiducia nell’expertise scientifica era ai minimi storici. Ma ciò che i politici non potevano prevedere è che, dieci anni dopo, ancora non gli sarebbe riuscito di calmare le acque. Con loro grande disappunto, i governi nazionali e la Commissione europea, pur sottoposti a enormi pressioni – da parte dell’omc, degli Stati Uniti, delle industrie e delle

1 Commissione incaricata da parte del governo francese, tra il 1986 e il 2008, di valutare i rischi per la salute e l’ambiente connessi all’eventuale diffusione di colture di organismi geneticamente modificati. La commissione era composta da membri provenienti dal mondo politico, scientifico, industriale e agricolo, così come da quello dell’associazionismo attivo nella difesa dei consumatori e dell’ambiente [N. d. T.].

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loro lobby, comprese quelle scientifiche –, non sono riusciti, a oggi, a normalizzare la situazione. Ciò che doveva avvenire senza trambusto e senza attriti, ancora non ha avuto luogo. Ancor di più  –  ed è proprio qui che sta, per me, l’evento  –, le argomentazioni su cui i nostri responsabili facevano affidamento hanno suscitato non soltanto delle risposte, ma soprattutto delle nuove connessioni, capaci di produrre una vera e propria dinamica d’apprendimento tra gruppi sino ad allora distinti. È importante poter dire “ho imparato” – dagli altri e grazie agli altri. A condurmi a un impegno personale, originariamente, era stata l’arroganza ignorante con cui certi scienziati annunciavano una risposta “finalmente scientifica” alla questione della fame nel mondo. Avevo anche la convinzione, fondata sul precedente del nucleare, che solo la messa in questione pubblica di una tecnologia di quel genere potesse produrre un sapere minimamente affidabile – più affidabile, in ogni caso, di quello degli esperti, nella maggior parte dei casi al servizio della “fattibilità” di un’innovazione che considerano ineluttabile (“non si può fermare il progresso!”). In questo caso, ero molto ingenua: non sapevo che ciò su cui questi esperti lavoravano non era altro che il dossier preparato dall’industria – dossier peraltro molto leggero, grazie, abbiamo appreso solo in seguito, a una serie di giochi di prestigio che testimoniano della connivenza tra consorzi industriali e amministrazione statunitense. Ignoravo anche che la maggior parte delle richieste di informazioni aggiuntive finiva per scontrarsi con il segreto industriale. Altro punto d’ingenuità, i famosi campi sperimentali, la cui distruzione veniva denunciata come irrazionale, come il rifiuto di lasciare che la scienza studiasse le conseguenze di una coltura ogm in ambiente aperto, non perseguivano assolutamente, nella stragrande maggioranza dei casi, questo scopo: si trattava di test agronomici prescritti con la sola finalità di omologare le sementi, per procedere poi a commercializzarle. Un’altra scoperta riguardò il fatto che, per i biologi, era evidente che gli “ogm insetticidi” avrebbero facilitato la comparsa d’insetti resistenti, ed era noto che Monsanto stava organizzando una vera e propria milizia privata, oltre a incoraggiare la delazione verso chi poteva essere sospettato di coltivare senza pagare le sementi di cui l’azienda era proprietaria. Ma le ripercussioni dell’evento hanno superato il solo caso degli ogm, finendo per porre la questione di cosa sia diventata l’agricoltura nelle mani delle industrie produttrici di sementi, dipendente dai 61

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lignaggi che queste selezionano in relazione a concimi ed erbicidi costosi e inquinanti, ottenendo il risultato di una doppia eradicazione: delle sementi tradizionali, spesso più robuste, e dei piccoli contadini; e finendo anche per condurre a una vera dimostrazione pratica di ciò che, oggi, si annuncia con l’“economia della conoscenza” – nel caso specifico, il pilotaggio diretto di settori interi della ricerca pubblica da parte del privato. Non soltanto l’interesse primario degli ogm, in fin dei conti, sta nell’appropriazione dell’agricoltura per mezzo dei brevetti, ma è la ricerca stessa, in biotecnologia e altrove, a trovarsi ormai determinata dai brevetti – non soltanto da quelli che si tratta di cercare di registrare per primi, ma anche da quelli già esistenti, che svuotano di ogni interesse economico piste di ricerca sempre più numerose. Possiamo stupirci, allora, che una gravosa legge del silenzio incomba sui ricercatori, forzandoli ad attenersi, contro ciò che pure sanno bene, allo slogan della “scienza al servizio di tutti”? Se la questione degli ogm ha fatto evento, dunque, è in quanto vi è stato un apprendimento effettivo, in grado di produrre domande che hanno fatto balbettare i responsabili scientifici e statali, e che hanno addirittura, talvolta, fatto riflettere i politici, come se un mondo di problemi che essi non si erano mai posti fosse divenuto improvvisamente percepibile. Appartiene a ogni evento di mettere in comunicazione l’avvenire che ne erediterà con un passato raccontato altrimenti. All’inizio, i promotori degli ogm, dopo aver annunciato la magnifica novità della loro creatura, avevano sostenuto a gran voce che gli ogm erano in continuità con le pratiche classiche dell’agronomia in materia di selezione delle sementi. Oggi, questa stessa continuità è fatta oggetto di narrazioni nuove o sino a quel momento reputate “reazionarie”, narrazioni che ormai si rispondono a vicenda e aprono l’evento a connessioni ulteriori, soprattutto con chi impara a recuperare pratiche di produzione che la “modernizzazione” aveva condannato (movimento slow food, permacultura, reti di recupero e di scambio delle sementi tradizionali…). Certo, il grido dei nostri responsabili è stato “crescita dell’irrazionalità”, “paura del cambiamento”, “ignoranza e superstizione”. Ma questo grido e il nobile compito che ne deriva, quello di “riconciliare il pubblico con la ‘sua’ scienza”, hanno avuto poco effetto. La questione del “pubblico” è stata d’altronde essa stessa messa in crisi. Cosa pensa “la gente”? Come “percepisce” una situazione? A queste domande rispondevano tradizionalmente i sondaggi: ci si rivolge a persone che “appartengono a un campione rappresentativo”, a cui si pongo62

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no domande a freddo su questioni a cui non necessariamente sono interessate. È in occasione della vicenda degli ogm che le cosiddette “giurie di cittadini” hanno dimostrato la propria capacità – quando il dispositivo deputato a riunirle lo consente – di porre delle buone domande, in grado di far balbettare gli esperti. Allo stesso modo, alcuni sociologi hanno riunito i partecipanti a un sondaggio sulle “percezioni del pubblico” in condizioni che permettevano loro di sentirsi rispettati in quanto esseri pensanti. E le domande e le obiezioni che essi hanno prodotto collettivamente si sono rivelate al tempo stesso pertinenti e molto fastidiose per i nostri responsabili. Così, oltre alla questione di sapere chi trarrebbe dei benefici da questa innovazione di cui si domanda che tutti accettino i rischi, essi hanno posto la questione del monitoraggio di questi rischi, di questa famosa “biovigilanza” che ci viene promessa: con quali risorse? Quanti ricercatori saranno coinvolti? Chi provvederà ai finanziamenti? Cosa succederebbe se dovesse andare male? E così via. Di fatto, le domande assolutamente “ragionevoli” di questi cittadini disegnano un paesaggio che ha poco a che vedere con quanto richiesto dall’“economia dell’innovazione” da cui sembra dipendere il nostro avvenire. Esse comporterebbero, per un industriale, la necessità di lanciare un’innovazione in un ambiente attivamente preoccupato delle possibili conseguenze, abilitato a rilevarle, a porre delle condizioni – per esempio di cominciare piano, procedere lentamente per poter, se necessario, tornare indietro –, a esigere che il promotore dell’innovazione ne finanzi il monitoraggio ma non lo organizzi, a imporre che tutte le conseguenze siano prese in considerazione, che nessuna parola d’ordine o promessa sia presa per oro colato. Un semplice contrasto: oggi, nei fatti, Monsanto beneficia direttamente della proliferazione dei “superinfestanti” divenuti resistenti al suo erbicida Roundup, i quali richiedono, di conseguenza, dosi dieci o venti volte più elevate di questo prodotto  –  esso stesso, peraltro, per nulla innocuo come era stato annunciato. Mentire inizialmente, affermare poi che “è troppo tardi”, per coprire infine il tutto grazie a una morale dell’ineluttabile (“il progresso non si ferma”): ecco ciò che la libertà d’innovare richiede. Oggi, le cosiddette consensus conferences sono divenute un simbolo promosso ufficialmente di partecipazione del pubblico all’innovazione. Ma ciò che è stato promosso è stato anche addomesticato. La maggior parte di queste conferenze sono organizzate in modo che i partecipanti siano portati a dare dei consigli “costruttivi”, accettando i limiti 63

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della domanda posta, collaborando, allo stesso titolo degli esperti, alla produzione dell’etichetta di “accettabile” – un nuovo tipo di etichetta di qualità per le innovazioni. La domesticazione è stata semplice, d’altronde, se è vero che i dispositivi che inducono alla sottomissione e alla docilità  –  pensare lì dove viene detto di pensare  –  sono più facili da realizzare rispetto a quelli che generano la capacità di porre domande che sappiano disturbare. Nonostante ciò, l’aver saputo che “la gente” può diventare capace di porre tali domande fa parte dell’evento ogm. Piuttosto che lamentarsi del fatto che esso sia stato “recuperato”, alla lotta politica spetta d’inventare la maniera di far importare ciò che è stato così appreso. L’evento ogm non è concluso. Abbiamo presentato tutti gli attori che, attivandosi, hanno prodotto questo evento, popolando una scena dove non erano attesi, dove la distribuzione dei ruoli era regolata in un modo che presupponeva la loro assenza. Senza di loro, i biocarburanti, presentati come soluzione miracolosa tanto al riscaldamento globale quanto all’aumento del prezzo dei carburanti, sarebbero stati così rapidamente declassati? Povera Commissione europea, che, con grande soddisfazione degli industriali dell’agricoltura, aveva già promosso questa “soluzione”! Non bisogna, tuttavia, procedere troppo rapidamente. Certo, l’evento ogm costituisce un’illustrazione esemplare di ciò che accade, oggi, a mettere in politica qualcosa che è abitualmente ritenuto esserne al di fuori – come il progresso legato all’avanzata irresistibile delle scienze e delle tecniche. Ma l’evento in sé risponde solo parzialmente alla domanda riguardante l’avvenire che si prepara. In effetti, contrariamente a quanto accadde nel caso degli ogm, non si tratterà soltanto di opporre un rifiuto. Le responsabilità quanto ai danni e alle minacce che vanno accumulandosi sono molto evidenti. Esse non rimandano in primo luogo a quelli che ho chiamato “i nostri responsabili”, ma a tutto ciò che definisce la Terra come risorsa sfruttabile a piacimento. Tuttavia, non ci troviamo di fronte a una corte di giustizia, dove chi si vede attribuita una responsabilità è anche chi deve “rispondere” di ciò che ha fatto, colui da cui si pretenderà una riparazione. Possiamo dire “no” agli ogm, ma non possiamo lasciare a chi è responsabile dei disastri che si annunciano il compito di rispondervi. Sta a noi creare una maniera di rispondere, per noi ma anche per le innumerevoli specie viventi che stiamo trascinando nella catastrofe. E tutto ciò in un contesto in cui questo “noi” non esiste che virtualmente, in quanto richiesto dalla risposta che si tratta di creare. 64

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Per marcare il carattere inedito di questa situazione, del modo in cui essa confonde le nostre prospettive, ho deciso di dare un nome a ciò che sta accadendo – qualcosa che, contrariamente agli ogm, non è stato né voluto né preparato da nessuno. Ciò a cui dobbiamo creare una risposta è l’intrusione di Gaia.

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L’intrusione di Gaia

Nominare Gaia, e caratterizzare i disastri che si annunciano nei termini di una sua intrusione costituisce – è cruciale sottolinearlo – un’operazione pragmatica. Nominare non significa dire il vero, bensì conferire a ciò che viene nominato il potere di farci sentire e pensare nel modo specifico che il nome invoca. In questo caso, si tratta di resistere alla tentazione di ridurre a un semplice “problema” ciò che fa evento, ciò che ci pone in questione. Ma anche di far esistere la differenza tra la domanda che ci troviamo posta e la risposta che bisogna creare. Invocare Gaia come “colei che fa intrusione” significa anche caratterizzarla come cieca, proprio come tutto ciò che fa intrusione, rispetto ai danni che provoca. Per questo, la risposta da creare non è una “risposta a Gaia”, bensì una risposta a ciò che ha provocato la sua intrusione e alle conseguenze che tale intrusione porta con sé. Gaia non è, dunque, in questo saggio, né la Terra “concreta”, né tantomeno quella a cui ci si riferisce quando si vuole affermare e far sentire una particolare connessione con il pianeta, suscitando un senso d’appartenenza là dove aveva prevalso la separazione, per attingerne nuove risorse di vita, di lotta e di pensiero1. Ciò che si tratta di pensare, qui, è l’intrusione, non l’appartenenza. E allora perché, si potrebbe obiettare, ricorrere a un nome che si presta a simili malintesi? Perché, mi ha proposto un amico, non dare a ciò che fa intrusione il nome di Uranio o di Crono, terribili figli della Gaia mitologica? L’obiezione merita di essere ascoltata: e tuttavia, se nominare significa operare e non definire – cioè appropriarsi –, il nome non può essere scelto in maniera arbitraria. Nel caso specifico, sono consapevole che la scelta di questo nome, “Gaia”, costituisce un

1 In Stregoneria capitalista, Philippe Pignarre e io abbiamo sottolineato il significato politico di questi rituali. Cfr. Pignarre, Stengers (2005).

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rischio; ma si tratta di un rischio che intendo accettare, perché voglio far sentire e pensare anche quanti potrebbero essere scandalizzati dall’idea di una Gaia cieca o indifferente. Desidero conservare la memoria di come nel xx secolo questo nome, Gaia, fu legato a una proposta d’origine scientifica. Il mio intento, così facendo, è di trasmettere la necessità di resistere alla tentazione di accettare una contrapposizione brutale tra le scienze e i saperi ritenuti “non scientifici”, tra cui sarà invece necessaria un’alleanza, se dovremo apprendere come rispondere a qualcosa che ha già avuto inizio. Quella che chiamo Gaia fu battezzata così da James Lovelock e Lynn Margulis all’inizio degli anni Settanta. Per loro, si trattava di trarre una lezione da ricerche che avevano mostrato il denso insieme di relazioni che connette tutto ciò che le discipline scientifiche hanno l’abitudine di trattare separatamente: i viventi, gli oceani, l’atmosfera, il clima, i suoli più o meno fertili. Dare un nome, “Gaia”, a questo concatenarsi di relazioni significava insistere su due conseguenze di quelle ricerche. Ciò da cui dipendiamo, e che è stato così spesso definito come qualcosa di “dato”, il quadro globalmente stabile delle nostre storie e dei nostri calcoli, è il prodotto di una storia di coevoluzione, i cui primi artigiani, nonché i veri, perpetui autori, furono innumerevoli popoli di micro-organismi. E Gaia, “pianeta vivente”, deve essere riconosciuta come un “essere” e non assimilata a una somma di processi, esattamente come riconosciamo che un ratto, per esempio, è un essere: essa è dotata non soltanto di una storia, ma anche di un regime proprio di attività e sensibilità, i cui processi costitutivi si legano l’uno all’altro in modi molteplici e aggrovigliati, tali che la variazione di uno ha ripercussioni differenti sugli altri. Interrogare Gaia, allora, significa interrogare qualcosa che ha una sua tenuta: le domande rivolte a un processo particolare possono richiedere una risposta, talvolta inattesa, da parte dell’insieme. Forse Lovelock aveva fatto un passo di troppo affermando che queste connessioni assicuravano un tipo di stabilità simile a quello che si attribuisce a un organismo vivente in buona salute, arrivando a sostenere che l’implicazione reciproca dei processi avesse l’effetto di diminuire le conseguenze di una variazione. Gaia ne risultava caratterizzata come una madre buona, premurosa, la cui salute doveva essere protetta. Oggi, la nostra comprensione del modo in cui Gaia “sta assieme” è molto meno rassicurante. L’aumento della concentrazione atmosferica dei gas detti “a effetto serra” suscita un insieme di conseguenze a cascata che gli scienziati hanno solo cominciato a identificare. 67

È evidente, allora, adesso più che mai, che Gaia è stata battezzata nel modo corretto: se in passato era onorata, infatti, lo era in quanto temibile, entità a cui i popoli agricoli si rivolgevano sapendo che gli umani dipendono da qualcosa di più grande di loro, da qualcosa che li tollera, e di una tolleranza di cui è opportuno non abusare. Questo avveniva prima che nascesse il culto dell’amore materno che tutto perdona. Forse Gaia era una madre, ma una madre irritabile, che bisogna evitare di offendere. E avveniva anche prima che i Greci conferissero ai propri dei il senso del giusto e dell’ingiusto, prima che attribuissero loro un interesse particolare verso i loro destini terreni. All’epoca si trattava più che altro di fare attenzione a non offenderli, a non abusare della loro tolleranza. Imprudentemente, un margine di tolleranza è stato rotto – lo dicono in modo sempre più chiaro i modelli, lo mostrano i satelliti, lo sanno gli Inuit. E la risposta che Gaia rischia di dare potrebbe essere smisurata rispetto a ciò che abbiamo fatto, un po’ come la scrollata di spalle con cui si reagisce al ronzare di un moscerino. Gaia è suscettibile [chatouilleuse], e proprio per questo dev’essere nominata come un essere. Non abbiamo più a che fare con una natura selvaggia e minacciosa, né con una natura fragile, da proteggere, né tanto meno con una natura sfruttabile a piacere. Si tratta di qualcosa di nuovo: Gaia, colei che fa intrusione, non ci chiede nulla, nemmeno una risposta alla domanda che pone. Offesa1, a Gaia non interessa scoprire chi siano i responsabili, e non agisce da giustiziera: pare che saranno le regioni più povere del pianeta a essere toccate per prime dagli effetti del riscaldamento globale, per non parlare di tutti quegli esseri viventi che sono totalmente estranei alla vicenda. Questo non significa, è importante sottolinearlo, che una qualunque indifferenza rispetto alle minacce che pesano sugli esseri viventi che abitano insieme a noi questa Terra sarebbe giustificata. Semplicemente, però, non è affare di Gaia.

1 Offesa, ma non vendicativa: evocare una Gaia vendicativa equivarrebbe ad attribuirle non soltanto una memoria, ma anche un’interpretazione di ciò sta avvenendo in termini d’intenzionalità e responsabilità. Per la stessa ragione, parlare, come James Lovelock fa oggi, della “vendetta” di Gaia, significa mobilitare un tipo di psicologia che non mi sembra pertinente: per attivare la modalità della vendetta, è necessario che l’offesa sia constatata, spesso attraverso innumerevoli rimuginazioni. Per esempio, si dirà: “mi pare che questo gesto l’abbia offesa, mi domando come mai”. Per le stesse ragioni, non siamo in lotta contro Gaia. Anche parlare di una lotta contro il riscaldamento globale è inappropriato; se di lotta si tratta, è una lotta contro ciò che ha provocato Gaia, non contro la sua risposta.

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Proprio nel fatto che Gaia non ci domandi nulla risiede la specificità di ciò che sta avvenendo, di ciò che si tratta di riuscire a pensare – l’evento di un’intrusione unilaterale, che impone una domanda senza essere interessata alla risposta. Perché Gaia, a differenza delle molte specie viventi che saranno spazzate via a causa dello stravolgimento dei loro ambienti, che si preannuncia di una rapidità senza precedenti, non è minacciata. Quegli innumerevoli esseri viventi che sono i microorganismi, infatti, continueranno a partecipare al suo regime d’esistenza, quello di un “pianeta vivente”. Ed è proprio perché non è minacciata che Gaia rende improvvisamente obsoleta ogni variante epica della storia umana – proprio nel momento in cui l’Uomo, dritto sulle sue due zampe e impegnato a decifrare le “leggi della natura”, si scopriva padrone del proprio destino, libero da qualsivoglia trascendenza. Gaia è il nome di una forma inedita, o forse dimenticata, di trascendenza: una trascendenza sprovvista di quelle speciali qualità che permettevano d’invocarla come arbitro, garante o risorsa; un concatenamento di forze suscettibile, e tuttavia indifferente tanto alle nostre ragioni quanto ai nostri progetti. L’intrusione di quel genere di trascendenza che chiamo Gaia fa esistere all’interno delle nostre vite un’incognita enorme, che è qui per restare. È forse la cosa più difficile da concepire: non esiste un futuro prevedibile in cui essa ci restituirà la libertà d’ignorarla; non si tratta di un “brutto momento da lasciarsi alle spalle” a cui seguirà il rassicurante lieto fine di un “problema risolto”. Non saremo autorizzati a dimenticarla. Dovremo, d’ora in poi, rispondere di ciò che facciamo di fronte a un essere implacabile, sordo alle nostre giustificazioni. Un essere che non ha portavoce, o, piuttosto, i cui portavoce si trovano esposti a un divenire mostruoso. Conosciamo il vecchio ritornello del “siamo troppi su questo pianeta, è questo il problema”, generalmente riproposto da esperti ben nutriti, abituati a viaggiare in aeroplano – i quali, dovessero scomparire improvvisamente, assicurerebbero sicuramente un notevole risparmio energetico. Ma se ascoltiamo Lovelock, divenuto oggi profeta del disastro, sarebbe necessario, per riappacificare Gaia e vivere ragionevolmente bene in armonia con essa, ridurre la popolazione umana a circa 500 milioni di persone. I calcoli apparentemente razionali che portano a concludere che l’unica soluzione sarebbe l’eliminazione della maggior parte degli esseri umani entro la fine del secolo dissimulano a fatica il delirio di un’astrazione mortifera e oscena. Gaia non domanda una simile eliminazione. Essa, semplicemente, non domanda nulla. 69

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Il fatto di nominare “Gaia” – cioè di associare un concatenamento di processi materiali, che non domanda né di essere protetto né di essere amato e che non sarà toccato dalla manifestazione pubblica dei nostri rimorsi, all’intrusione nella nostra storia di una forma nuova di trascendenza – non dovrebbe urtare particolarmente la maggior parte degli scienziati. Essi stessi hanno l’abitudine di dare un nome alle entità a cui riconoscono il potere di farli pensare e immaginare – ed è proprio questo il genere di trascendenza che intendo associare a Gaia. Grideranno certamente all’irrazionalità coloro che, ormai soli, rimangono arroccati nella posizione di “guardiani della ragione e del progresso”. Denunceranno una regressione panica che ci farebbe dimenticare l’“eredità dei Lumi”, la grande narrazione dell’emancipazione umana in grado di spezzare il giogo di ogni trascendenza. Il copione è già scritto. Dopo aver contribuito allo scetticismo di fronte ai modelli dei climatologi (si pensi a Claude Allègre2), dedicheranno tutte le loro energie a ricordare all’opinione, ai loro occhi sempre pronta a credere a tutto, che bisogna mantenere la rotta, aver fiducia nel destino dell’Uomo e nella sua capacità di trionfare su tutte le “sfide”. Il che significa, molto concretamente, dover credere alla scienza, cervello dell’Umanità, e alla tecnica, al servizio del progresso. Provocare le loro grida non mi diverte né m’intimorisce. Nominare non costituisce nella maniera più assoluta, allora, un’operazione antiscientifica. Al contrario, essa può far pensare gli scienziati, impedire loro di appropriarsi della domanda che l’intrusione di Gaia c’impone. I climatologi, i glaciologi, i chimici e altri ricercatori hanno fatto il loro lavoro, e sono riusciti a suonare l’allarme malgrado tutti i tentativi d’insabbiamento, a imporre una “verità disturbante” malgrado le accuse di cui sono stati bersaglio – quella di aver mescolato scienza e politica, o di essere invidiosi del successo di quei loro colleghi che contribuirebbero a cambiare il mondo, mentre loro si limiterebbero a descriverlo, o ancora di voler presentare come “provato” qualcosa che sarebbe, in realtà, soltanto ipotetico. Se hanno saputo resistere, è perché sapevano che il tempo era importante, e che non erano loro a mescolare questioni scientifiche e questioni politiche, bensì quelli

2 Claude Allègre è uno scienziato e politico francese. Dopo aver lavorato come ricercatore nel campo della biochimica, si avvicina alla politica, fino a ricoprire la carica di ministro dell’Educazione tra il 1997 e il 2000. È noto per lo scetticismo più volte manifestato rispetto alle origini antropiche del riscaldamento globale e per le feroci critiche riservate all’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite (ipcc) [N. d. T.].

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a cui si rivolgevano, intenzionati a sostituire alla politica un nuovo ordine economico che già cominciava a imporre i propri imperativi al pianeta intero. Nominare Gaia, allora, significa aiutarli a resistere a una nuova minaccia, la quale darebbe luogo alla peggior confusione tra scienza e politica: la minaccia che si domandi agli scienziati come rispondere, che ci si affidi a loro per definire cosa si deve fare. In realtà, tutto questo sta già avvenendo, seppur con “scienziati” di altro tipo. Oggigiorno sono gli economisti ad attivarsi, e in modalità che garantiscono che, così come molti altri effetti “indesiderati”, la questione climatica sia affrontata tramite la realizzazione di strategie “realistiche” – capaci, cioè, di farne una nuova fonte di profitto. Anche a costo di rassegnarsi, in nome delle leggi dell’economia – che sono dure, ma come tutte le leggi, a sentir loro, vanno rispettate – a una New Orleans planetaria. Anche a costo che le zone del pianeta identificate come profittevoli debbano, a ogni scala, dal quartiere al continente, essere difese con tutti i mezzi necessari contro la massa di quelli a cui si opporrà senza dubbio il celebre motto del “non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo!” Anche a costo, insomma, che il succedersi degli “è pur necessario…” realizzi pienamente, apertamente dispiegata, la barbarie che già insidia i nostri mondi. Gli economisti, così come gli altri candidati alla produzione di risposte globali fondate sulla “scienza”, non costituiscono altro, per me, che un potere nocivo. La loro autorità esiste solo a condizione che il mondo, il nostro mondo, rimanga ciò che è – vale a dire, destinato alla barbarie. Le loro “leggi” richiedono prima di tutto che “noi” restiamo al nostro posto, che ci atteniamo ai ruoli assegnati, che assumiamo quell’egoismo cieco e quell’incapacità congenita di pensare e cooperare che fanno della guerra economica il solo orizzonte concepibile. Sarebbe dunque perfettamente inutile nominare Gaia se si trattasse soltanto di combattere questi personaggi. Ma si tratta di combattere ciò da cui essi traggono la loro autorità – ciò contro cui già una volta si è levato il grido: “Un altro mondo è possibile!” Questo grido non ha per nulla, veramente per nulla, perduto di attualità. Ciò contro cui si è levato, ovvero il capitalismo (quello di Marx, chiaramente, non quello degli economisti americani), infatti, è già intento ad attivarsi per escogitare le proprie risposte alla domanda che l’intrusione di Gaia c’impone, risposte che ci conducono dritti alla barbarie. Questo grido ci dice che la lotta assume un’urgenza inedita, e che, al tempo stesso, quanti s’impegneranno in questa lotta dovranno affrontare una prova di cui non avevano davvero 71

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bisogno, e che potrebbero essere tentati d’ignorare, in nome proprio dell’urgenza. Nominare Gaia significa nominare la necessità di resistere a questa tentazione, la necessità di pensare a partire da questa prova: non abbiamo scelta, perché Gaia non aspetterà. Che non mi si domandi quale “altro mondo”, capace di comporre con Gaia, sia possibile. La risposta non ci appartiene: essa appartiene, piuttosto, a un processo di creazione di cui sarebbe insensato e pericoloso sottostimare la terribile difficoltà, ma che sarebbe al tempo stesso suicida reputare impossibile. Non ci sarà risposta se non avremo imparato a tenere insieme lotta e impegno all’interno di questo processo di creazione, per quanto esitante e balbettante esso possa essere.

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Capitalismo

Ho parlato dei nostri responsabili, di quelli che si sentono responsabili per noi e continuano a presentarsi come tali benché si trovino anch’essi in una condizione di panico freddo. Quello che Marx ha chiamato il capitalismo, al contrario, non conosce una simile condizione, benché lo “sviluppo” di cui è responsabile si trovi minacciato dall’intrusione di Gaia. Esso non conosce né panico né esitazione perché, molto semplicemente, non è equipaggiato per conoscerli. D’altronde, è proprio per questo che è possibile, oggi, inscriversi nell’eredità di Marx senza dover necessariamente essere “marxisti”. Chi insiste a dirci che “Marx è superato”, con un piccolo sorriso soddisfatto e osceno, si guarda bene, in genere, dal dirci perché il capitalismo descritto da Marx non costituirebbe più un problema. Ciò che implicitamente intende dire è, piuttosto, che esso è invincibile. Chi oggi ritiene vana la lotta contro il capitalismo sta in realtà dicendo: “La barbarie è il nostro destino”. Se abbiamo bisogno, oggi forse più che mai, della maniera in cui Marx ha approcciato il capitalismo – a condizione d’intendere come una caratterizzazione quella che lui propone come una definizione –, è prima di tutto per sbarazzarci della speranza che, facendo di necessità virtù, “loro” potrebbero finire per porsi delle domande, per comprendere che ne va del futuro dei loro figli quanto di quello dei nostri. E anche, quindi, per evitare di sprecare il nostro tempo a indignarci e a denunciare, per poi arrivare a infauste conclusioni sui difetti strutturali della specie umana, che starebbe ottenendo ciò che in fondo si merita. Quello che Marx ha chiamato “capitalismo” non ci parla degli “umani”, non dice nulla della loro avidità, del loro egoismo, della loro incapacità a porre domande riguardanti il futuro. Certo, ed è il senso stesso della caratterizzazione marxiana del capitalismo, i padroni, in quanto individui, sono uguali a tutte le altre persone. Non è impossibile che, negli anni Ottanta, alcuni padroni abbiano potuto credere all’emprise citoyenne, esempio d’imprenditoria 73

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“socialmente responsabile” mediante la quale si ambiva a riconciliare i Francesi. Sono questi stessi padroni o altri che oggi, in occasione di delocalizzazioni e fusioni, ci ricordano che l’unico mestiere dell’impresa consiste nel guadagnare denaro? Domanda insignificante: la congiuntura è cambiata. Così, oggi alcuni sono presi da una terribile inquietudine, mentre altri “hanno fiducia nel mercato”, che con la sua capacità d’adattamento e d’innovazione dovrebbe rispondere al “problema” posto dall’intrusione di Gaia. La psicologia individuale è perfettamente inutile quando si tratta del capitalismo. Piuttosto, esso dev’essere compreso come una modalità di funzionamento, o come una macchina, capace di fabbricare a ogni congiuntura la propria necessità e i propri attori e di distruggere chiunque non abbia saputo cavalcare le nuove opportunità. A loro modo, è ciò che gli economisti servili o profetici riconoscono quando parlano delle “leggi del mercato” che s’imporranno quali che siano i nostri progetti e le nostre futili speranze. Il capitalismo ha qualcosa di trascendente, in effetti, ma non come ce l’hanno le “leggi della natura”. E nemmeno si tratta del genere di trascendenza che ho associato a Gaia – implacabile, certo, ma in una modalità che chiamerei propriamente materialista, volendo così tradurre il carattere indomabile di quei concatenamenti di processi materiali sulla cui stabilità il cosiddetto “sviluppo” ha creduto di poter contare. Il genere di trascendenza proprio del capitalismo non è implacabile, bensì solo radicalmente irresponsabile, incapace di rispondere di alcunché. E non ha nulla a che vedere con il “materialismo” a cui lo associano, talvolta, le persone di fede. In contrasto con Gaia, dovremmo piuttosto associarlo a un potere “spirituale” di tipo malefico1, un potere che cattura, segmenta e ridefinisce al proprio servizio dimensioni sempre più numerose della nostra realtà, delle nostre vite e delle nostre pratiche. Il fatto che io sia portata a caratterizzare tanto una serie di processi materiali quanto un regime di funzionamento economico come modalità di trascendenza testimonia della particolarità della nostra epoca – del carattere planetario, cioè, delle domande a cui entrambi i fenomeni ci obbligano. La simultaneità di questo doppio divenire planetario non ha evidentemente nulla di casuale: la brutalità dell’intrusione di Gaia corrisponde alla brutalità di ciò che l’ha provocata,

1 Si tratta di ciò che Philippe Pignarre e io abbiamo associato a un potere di carattere stregonesco. Cfr. Pignarre, Stengers (2005).

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la brutalità di uno “sviluppo” cieco alle proprie conseguenze, o, più precisamente, non intenzionato a prenderle in considerazione se non dal punto di vista delle nuove opportunità di profitto che esse potrebbero generare. Ma la simultaneità delle domande non deve implicare alcuna confusione tra le risposte. Lottare contro Gaia non ha alcun senso, si tratta di apprendere a comporre con essa; comporre con il capitalismo non ha alcun senso, si tratta di lottare contro la sua cattura. Si sarà capito, fidarsi del capitalismo che si presenta oggi come “il miglior amico della Terra”, come “verde”, desideroso di conservazione e sostenibilità, significherebbe commettere lo stesso errore della rana della celebre favola, quella che accettò di trasportare uno scorpione sulla propria schiena per fargli attraversare un fiume. Se lo scorpione l’avesse punta, non sarebbero forse annegati entrambi? Ciononostante, a metà della traversata, lo scorpione la trafisse col suo pungiglione. Con le sue ultime forze, la rana mormorò: “Perché?” Giusto prima di sprofondare, quello rispose: “È nella mia natura, non ho potuto fare altrimenti”. È nella natura del capitalismo sfruttare le opportunità, non può fare altrimenti. La logica di funzionamento del capitalismo non può far altro che vedere nell’intrusione di Gaia la comparsa di un nuovo campo di opportunità. Andare accanto alle ferree leggi del “libero scambio”, di conseguenza, è fuori discussione. Sarà benvenuto, invece, il commercio delle quote di emissione di CO2, che rende già ora possibili operazioni finanziarie molto fruttuose. Al tempo stesso, l’evento ogm identifica bene ciò che, dal punto di vista di questa logica, è necessario impedire, che i nostri responsabili sono incaricati d’impedire e che ancor di più dovrà essere impedito quando gli effetti dell’intrusione di Gaia si faranno catastrofici: la produzione della capacità collettiva di ficcare il naso nelle domande che riguardano l’avvenire comune. E di  ficcare il naso, prima di tutto, nella maniera in cui queste domande vengono formulate, perché concentrarsi sulle soluzioni significa lasciare in mano ad altri il potere di formulare il problema da risolvere. Il concetto di governance descrive bene la distruzione di ciò che implicava una responsabilità collettiva rispetto all’avvenire, ovvero la politica. Con l’avvento della governance, non si tratta più di politica, ma di gestione, e della gestione, in primo luogo, di una popolazione che non deve immischiarsi in ciò che la riguarda. Nel caso degli ogm, i nostri responsabili hanno fallito nel compito che la divisione del lavoro tra il capitalismo e lo Stato – la distribuzione di ciò che il capitalismo fa fare allo Stato e di ciò che lo Stato lascia fare al capita75

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lismo – aveva definito come il loro. Non sono riusciti a far accettare che gli ogm rappresentassero un beneficio per l’umanità, o quanto meno un “fatto” a cui era impossibile resistere. Non hanno potuto lasciare che il capitalismo facesse ciò che, grazie agli ogm, aveva l’opportunità di fare: portare a termine la ridefinizione dell’agricoltura sottoponendola alla legge dei brevetti. O, quanto meno, non sono riusciti a far sì che esso ci riuscisse senza disturbo e senza intoppi. Il capitalismo non ama il disturbo. Ma non bisogna procedere troppo rapidamente, e trasformare il rifiuto degli ogm, la resistenza inattesa contro cui si è scontrata la logica operazionale chiamata capitalismo, in un modello. Non soltanto perché gli ogm sono ormai quasi ovunque – ed è in quel “quasi” che risiede il successo dell’evento  –, ma soprattutto perché questo rifiuto ha beneficiato di un effetto sorpresa. Si riteneva che gli ogm sarebbero stati accettati senza troppi attriti, in nome dello sviluppo promesso dalla santa alleanza tra la ricerca scientifica e il progresso dell’umanità. I consorzi industriali e i loro alleati scientifici hanno invece dovuto constatare, con loro grande disappunto, che questa strategia non funzionava più, che il riferimento al progresso aveva perduto il proprio potere. Tuttavia, è possibile immaginare che la lezione sia stata appresa e che l’argomento del progresso, rivelatosi incapace di produrre consenso, sarà sostituito in futuro da montaggi ben architettati di quelle che, in Stregoneria capitalista, Philippe Pignarre e io abbiamo chiamato «alternative infernali». Ciascuno è ormai familiare con ciò che producono queste alternative – “Rifiutate l’abbassamento della qualità della vita e chiedete un aumento dei salari? Vi toccheranno delle delocalizzazioni…”; “Rifiutate carichi di lavoro insopportabili? Ci sono altri che non vedono l’ora di rimpiazzarvi…” Ognuna di queste alternative infernali è stata, bisogna sottolinearlo, «frutto di pazienti fabbricazioni su piccola scala, di sperimentazioni caute»2. Ciò che si presenta come “logico” è stato fabbricato tramite molteplici processi di riorganizzazione detti “razionali”, mirati inizialmente, in maniera ostinata, a compromettere o catturare la capacità di pensare e di resistere di chi ne aveva i mezzi. Ecco perché le alternative infernali hanno inizialmente interessato il mondo del lavoro – le pensioni, la flessibilità, i salari, l’organizzazione del lavoro. Oggi, tuttavia, la retorica

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Pignarre, Stengers (2005, tr. it. 41).

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che annuncia che è impossibile, se non suicida, rifiutare ciò che non si vuole, ha guadagnato autonomia. Così, ci viene detto che lottare contro il prezzo esorbitante dei medicinali sotto brevetto, anche nel caso dei paesi poveri, significa condannare la ricerca che produrrà i medicinali di domani. Questa retorica, fatta propria dagli apparati statali, basta ormai a se stessa. È a una simile retorica che si è fatto ricorso di fronte al rifiuto, inatteso, degli ogm. Sono state escogitate delle alternative a vocazione infernale. Per esempio: “Se rifiutate gli ogm, i nostri migliori ricercatori fuggiranno verso altri lidi”, oppure: “Ci rallenterete nella grande competizione economica”, o ancora: “Così facendo, vi precludete anche gli ogm di seconda generazione, con tutti i benefici che – loro sì! – porterebbero con sé”. Ma era troppo tardi, e si trattava di argomentazioni poco convincenti: la proposta degli ogm non giungeva a coronamento di una costruzione politica in grado di sostenere la storia secondo cui “se rifiutate gli ogm, avrete di peggio”. Ciononostante, si può prevedere che alternative più convincenti prolifereranno in futuro. I biocarburanti sono una prefigurazione di questo tipo di alternativa: o la grande crisi energetica, oppure la confisca di una parte considerevole delle terre produttive. Le rivolte per la fame rischiano di complicare la faccenda, ma non è possibile tornare indietro: lo scorpione capitalista non ha modo d’impedirsi di approfittare delle opportunità – in questo caso, opportunità di speculare sull’aumento del prezzo delle derrate alimentari, accelerandolo. Bisogna dunque attendersi numerose alternative del tipo: “O così, oppure contribuirete alla catastrofe climatica”. Mentre possiamo stare certi che l’intrusione di Gaia non farà pensare o esitare il capitalismo, dal momento che il capitalismo non pensa né esita, alternative di questo genere potranno far esitare coloro che avranno saputo resistere alla stregoneria capitalista – che si dicano o meno marxisti. Essi hanno tutte le ragioni per temere che, di fronte alla minaccia climatica, venga proposta una mobilitazione che pretenda di trascendere i conflitti. Anticipo e al tempo stesso temo questo genere di sacri richiami all’unità, così come le accuse di tradimento che, automaticamente, vi faranno seguito. Un’altra cosa che temo, tuttavia, è che chi resiste possa essere portato a constatare controvoglia che il riscaldamento globale è in effetti un “problema nuovo”, ma solo per affrettarsi poi a dimostrare che questo problema, proprio come tutti gli altri, è da mettere in conto al capitalismo, e concluderne che si tratta dunque di perseverare sul cammino, senza lasciarsi distrarre da una 77

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verità che non deve disturbare le prospettive della lotta. Quelli e quelle che, come me, insistono sulla necessità di pratiche di lotta nuove, in grado di prendere atto che si tratta di cominciare sin da subito ad apprendere che cosa una risposta che non sia barbara alla domanda posta dall’intrusione di Gaia richieda – pratiche che, bisogna ripeterlo, non si sostituiscano alle lotte sociali, ma le abbinino ad altri modi di resistenza, riuscendo a stabilire delle connessioni là dove dominava la logica delle priorità strategiche –, saranno allora considerati come degli ingenui o trattati con sospetto. E la sfida di tali pratiche è in effetti temibile, se è vero che, nel momento del più grande bisogno, è necessario rinunciare proprio a ciò che era spesso servito da timone per la lotta – la differenza tra ciò a cui questa lotta obbliga e ciò che diventerebbe possibile “dopo”, se il capitalismo fosse finalmente vinto. Nominare Gaia, colei che fa intrusione, significa affermare che non esiste più un dopo. È ora che si tratta di rispondere, che si tratta soprattutto di creare delle pratiche di cooperazione e di spalleggiamento reciproco con quanti l’intrusione di Gaia fa già da ora pensare, immaginare e agire. Per esempio, con gli obiettori di crescita e gli inventori dei movimenti slow, che rifiutano quella che il capitalismo presenta come “razionalizzazione” e cercano di riappropriarsi di cosa significhi nutrirsi, viaggiare e apprendere insieme. Costoro avranno bisogno di alleati, e di alleati esigenti, è chiaro, ma non certo esigenti alla maniera di giudici che verifichino se ciò con cui hanno a che fare abbia effettivamente titolo a pretendere di costituire una forza d’opposizione al capitalismo – magari consultando il codice dove Marx ha già inventariato gli alleati non affidabili. Questi nuovi attori, infatti, non saranno provvisti, quasi per definizione, della legittimità richiesta. Comprendo bene che vi sia di che essere confusi. Quello che temo, tuttavia, è che questa confusione possa tradursi in una reazione difensiva, in uno di quei “lo so bene, ma…” che paralizzano e anestetizzano. E temo anche che l’eventuale alleanza con questi nuovi attori sia impregnata di tolleranza, cioè della speciale indulgenza che riservano ai bambini ingenui quegli adulti “che sanno” – adulti che continueranno dunque a “pensare tra di loro”, pur continuando a sostenere, a parole, tutte le velleità anticapitaliste dei giovani idealisti. Bisogna prendere atto del fatto che l’intrusione di Gaia mette in crisi le teorie che armavano questo sapere “adulto”, che erano ritenute offrire una bussola alle lotte, permettere di mantenere la rotta, di vedere chiaro malgrado le false apparenze, le illusioni e le chimere 78

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che il Grande Illusionista sistematicamente produce. Abbandonare questa bussola proprio nel momento in cui ci troviamo confrontati alla ridefinizione del mondo da parte di un capitalismo più potente che mai potrebbe sembrare sommamente irresponsabile, lo so. Nominare Gaia significa accettare di pensare a partire da questo fatto: non abbiamo scelta. Questo “non abbiamo scelta” è di quelli che i materialisti dovrebbero poter accettare. Si tratta, qui, di qualcosa di più che un semplice “accettare perché non c’è modo di fare altrimenti”. Si tratta di riconoscersi obbligati a pensare da ciò che accade. E la prova che ci tocca affrontare, forse, passa innanzitutto dall’abbandono senza nostalgia dell’eredità di un xix secolo accecato dal progresso delle scienze e delle tecniche, dalla rottura del legame stabilito a quel tempo tra l’emancipazione e ciò che chiamerei una visione “epica” del materialismo: una visione che tende a sostituire alla favola dell’Uomo “creato per dominare la natura” l’epopea di una conquista di questa stessa natura da parte del lavoro umano. Si trattava di una prospettiva seducente, e che tuttavia implicava la scommessa di una natura “stabile”, disponibile a questa conquista. Accettare di nominare Gaia, significa dunque abbandonare il legame tra l’emancipazione e la conquista epica – se non, addirittura, tra l’emancipazione e la maggior parte dei significati attribuiti a ciò che, dal xix secolo, è stato chiamato “progresso”. Ci dovrà essere lotta, ma essa non ha – non può più avere – quale scopo l’avvento di un’umanità infine liberata da ogni trascendenza. D’ora in avanti, dovremo fare i conti con Gaia, e dunque imparare, come i popoli antichi, a non offenderla. Si dirà, forse, che la prospettiva che sto criticando è una semplificazione, o una caricatura. Certo che la è – e non si tratta, qui, per esempio, di sapere cosa si possa trovare nei testi di Marx e cosa no. Se caricaturizzo, è per sottolineare la prova, la difficoltà che rappresenta, per noi, pensare che la questione che l’intrusione di Gaia ci pone non sia riducibile a un “brutto momento da lasciarsi alle spalle” di cui il capitalismo sarebbe l’unico responsabile. Indifferente alle ragioni umane, cieca alla grandiosità di ciò che noi chiamiamo emancipazione, questa intrusione pone sullo stesso piano tutte le persone che s’interrogano, perché nessun sapere può vantare privilegi quanto alla risposta che sarà necessario inventare. Non che ciò che sappiamo debba ritenersi inutile – assolutamente no. Sono le conseguenze di ciò che sappiamo a balbettare, vale a dire l’insieme degli “e dunque…” che concorrono a fabbricare degli adulti o dei giudici. 79

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Accettare la sfida che abbiamo di fronte non significa, per me, lo si sarà compreso, mettere in causa la nozione stessa di emancipazione, l’idea che vi siano delle ingenuità infantili di cui bisogna imparare a sbarazzarsi. Ma la prospettiva è un po’ differente. Se esiste ingenuità infantile, si tratta soprattutto della nostra, di quella che ha nutrito la nostra fiducia nella favola epica del Progresso, nelle sue versioni molteplici e apparentemente discordanti, che tutte convergono nei giudizi ciechi riservati agli altri popoli (da liberare, da modernizzare, da educare…). E se emancipazione dovrà esserci, essa si dovrà realizzare contro ciò che ci ha permesso di credere che si possa definire una rotta per il progresso dell’umanità tutta intera, cioè contro la presa di questa forma clandestina di trascendenza che si è impadronita di noi. Vi sono molti nomi per questa trascendenza, ma io la caratterizzerei, qui, evocando uno strano diritto che si è imposto in suo nome, un diritto che avrebbe spaventato tutti i popoli che sapevano onorare delle divinità come Gaia: il diritto di non fare attenzione.

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Non fare attenzione!

“Fare attenzione”: ecco, si potrebbe pensare, una competenza universalmente diffusa. Sappiamo fare attenzione a cose di ogni genere, e persino chi è più ferocemente attaccato alle virtù della razionalità occidentale non negherà questa capacità anche a quei popoli che pure giudica sottomessi alla superstizione. D’altronde, persino gli animali, quando stanno all’erta, dimostrano di saper fare attenzione... Eppure, quando si tratta dello “sviluppo” o della “crescita”, ci è richiesto soprattutto di non fare attenzione. Ne va, infatti, di ciò da cui dipende tutto il resto – compresa la possibilità di riparare ai danni che della crescita e dello sviluppo costituiscono il prezzo. In altri termini, pur disponendo di mezzi sempre più abbondanti per prevedere e misurare questi danni, ci viene richiesto di adottare lo stesso procedere cieco che siamo soliti attribuire a quelle civiltà del passato che hanno distrutto l’ambiente da cui dipendevano. A differenza loro, però, che l’hanno distrutto in maniera soltanto locale e senza esserne consapevoli, noi, nel corso di un secolo, abbiamo sfruttato fino all’esaurimento delle “risorse” che si erano costituite lungo milioni di anni di storia terrestre (o anche più, come nel caso delle falde acquifere). Quella che siamo stati portati a dimenticare non è tanto la capacità di fare attenzione, quanto piuttosto l’arte di fare attenzione. Se vi è arte, e non soltanto capacità, è perché si tratta di apprendere e coltivare l’attenzione – letteralmente, di fare attenzione. Parlo di “fare” in quanto l’attenzione, qui, non si riferisce ad aspetti del mondo che a priori ne sarebbero degni, ma obbliga a immaginare, a monitorare, a considerare delle conseguenze che mettono in gioco connessioni tra cose che abbiamo l’abitudine di trattare separatamente. In breve, se parlo di “fare attenzione” è per sottolineare che l’attenzione richiede di saper resistere alla tentazione del giudizio. L’arte di fare attenzione non si vede certo riabilitata dal principio 81

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di precauzione, benché le proteste degli industriali e degli scienziati loro alleati diano un assaggio di cosa significherebbe riabilitarla. Quando si ascoltano simili proteste, che ancora oggi si accaniscono contro questo sventurato principio, non si può che essere colti da un certo terrore – terrore di fronte al disprezzo che esse esprimono verso un popolo che ritengono spaventato di qualunque cosa e ostinato a pretendere il “rischio zero”, ma anche davanti all’apparente buona fede di quanti protestano, teste pensanti dell’umanità incaricate di condurre l’esercito umano verso il progresso. Questo principio, in effetti, è apparentemente molto ragionevole: si limita ad affermare che non è necessario, perché un rischio grave e/o irreversibile per la salute o l’ambiente sia preso in considerazione, che esso sia “scientificamente provato”. In altre parole, a provocare tante proteste è il semplice enunciato secondo cui, sebbene un rischio non sia provato, sarebbe opportuno fare attenzione. Sono state necessarie catastrofi sanitarie e ambientali perché i poteri pubblici fossero finalmente costretti, in Europa, a riconoscere la sensatezza di un principio di precauzione. Il fatto che rinomati scienziati, malgrado tali catastrofi, abbiano potuto gridare al tradimento getta una luce strana e inquietante sulla situazione che questo principio ha l’ambizione di riformare: una situazione paradossale, poiché la necessità di fare attenzione in caso di dubbio – quella che si esige dal “buon padre di famiglia” e viene inculcata ai bambini – si trova qui definita come nemica del Progresso. A scatenare le grida è qualcosa di estremamente modesto: il principio di precauzione, infatti, rispetta la scena codificata all’interno della quale interviene, una scena in cui la responsabilità di giudicare il valore di un’innovazione industriale è riservata al solo incontro con il mercato, e in cui ai poteri pubblici viene semplicemente riconosciuto il diritto di porre alcune condizioni a questo incontro. Il principio si limita a estendere un po’ questo diritto, ma non modifica assolutamente la logica della scena. La valutazione continua ad appartenere al mercato, e dunque non richiede di considerare criteri ulteriori. Quanto alle condizioni di applicazione del principio, esse sono estremamente limitate. Non soltanto i rischi devono riguardare la salute e l’ambiente, e dunque si trovano escluse, per esempio, le catastrofi sociali che un’innovazione può provocare; il principio suggerisce anche che le misure adottate in seguito alla valutazione del rischio debbano essere “proporzionate”. Si potrebbe pensare che la proporzionalità riguardi la valutazione dei benefici che un’innova82

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zione tecno-industriale saprebbe offrire all’“interesse generale”, visto che è quest’ultimo a trovarsi minacciato dal rischio. E invece no: al centro della proporzionalità in questione si trova la preoccupazione per il danno che le misure potrebbero comportare nei confronti dei titolari del diritto sacro d’intraprendere, di mettere sul mercato, di far circolare. Per esempio: sarebbe possibile contestare il “diritto d’impresa” di Monsanto facendo leva sul fatto che i suoi ogm rischiano, nei fatti, di accelerare la proliferazione degli insetti resistenti all’insetticida “incorporato” nelle piante? Certo che no. Ci si limiterà a stabilire qualche regola che miri a diminuire le probabilità che simili insetti compaiano, e a sperare che gli agricoltori obbediscano a queste regole che complicano loro la vita e diminuiscono i benefici previsti – e tutto ciò non per un periodo di transizione, bensì in permanenza. Non vi è altra possibilità: vietare gli ogm di Monsanto rappresenterebbe una misura “sproporzionata”. Quanto alle conseguenze socio-economiche degli ogm, esse non trovano alcuno spazio all’interno di queste considerazioni. La rovina dei piccoli agricoltori indiani non è un rischio grave o irreversibile, anche qualora dovessero suicidarsi. È il prezzo, duro ma necessario, della modernizzazione dell’agricoltura. Si dirà che ne va della libertà d’impresa. E ogni imprenditore ripeterà il ritornello: il rischio è il prezzo del progresso (oggi si direbbe: della competitività). Ma è proprio qui che bisogna rallentare e fare attenzione. Accettare d’identificare Monsanto con l’imprenditore di cui rivendica la posa eroica, quella di chi accetta con cuore impavido la possibilità del fallimento, quella dell’Uomo prometeico che non cessa di esplorare ciò che potrebbe diventare possibile, significherebbe cadere nel tranello di una di quelle messinscene drammatiche di cui le nostre “teste pensanti” sono esperte. L’intrusione di Gaia, così, sarebbe la punizione toccata in sorte all’Uomo che ha osato opporsi all’ordine delle cose. La cascata delle conseguenze ci mette con le spalle al muro: affidarsi al genio umano, oppure maledirlo e ravvedersi. Ci siamo forse dimenticati del capitalismo? La posa eroica assunta da Monsanto e affini non è ammissibile. Quando si tratta dei loro investimenti, è la sicurezza che esigono: sarà solo il mercato, vero giudizio di Dio, ad avere il diritto di metterli a rischio, non certo il problema delle conseguenze. Che questo “giudizio di Dio” sia esso stesso un imbroglio non è necessario specificarlo. Piuttosto, ciò che qui m’interessa è il fatto che, in nome di questo giudizio, i sedicenti imprenditori, che tanto amano vantarsi 83

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della passione per l’esplorazione del possibile, possano esigere che la questione delle possibili conseguenze non costituisca un argomento suscettibile di metterli a rischio. Al fine di separare coloro con cui abbiamo a che fare da quella storia d’imprenditori audaci e creativi a cui essi pretendono d’appartenere, forzandoci a scegliere tra l’avventura umana e la rinuncia prudente, li chiamerò d’ora in avanti Imprenditori, con l’iniziale maiuscola a indicare, come sarà il caso in seguito anche per la Scienza, che si tratta di una pretesa di facciata che nasconde un mutamento di natura. Non diremo che l’Imprenditore ha una fiducia (prometeica) in un progresso “capace di riparare a tutto”, una fiducia condivisa dalla maggior parte di noi, che “ci” radunerebbe di fronte alla gravosa questione della vocazione dell’Uomo e del suo avvenire. Ciò che c’insegna il doppio scandalo che l’evento ogm e il principio di precauzione hanno rappresentato per i nostri Imprenditori e i loro alleati è che non si tratta affatto di un questione di fiducia. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’esigenza. Parallelamente, il riapprendimento dell’arte di fare attenzione non ha nulla a che vedere con una sorta d’imperativo morale, di un appello al rispetto di una prudenza che “avremmo dimenticato”. Non si tratta di “noi”, ma di questioni in cui l’Imprenditore esige che non ficchiamo il naso. Quando Marx ha caratterizzato il capitalismo, la grande domanda che lo animava era: “Chi produce la ricchezza?” – da cui l’importanza della figura dello Sfruttatore, sanguisuga che parassita la forza viva del lavoro umano. Evidentemente, questa domanda non ha perduto nulla della sua attualità; e tuttavia, all’ingiunzione a non fare attenzione – anche nel momento in cui la barbarie è alle porte – possiamo far corrispondere un’altra figura che si aggiunge, senza ambizione di scalzarla, alla prima. Questa figura è l’Imprenditore, colui per il quale tutto è occasione – o, piuttosto, colui che esige la libertà di tramutare ogni circostanza in occasione – per un nuovo profitto, ivi compreso ciò che mette a repentaglio l’avvenire comune. “Questo potrebbe essere pericoloso” è un avvertimento che può essere compreso dal singolo capo d’azienda, e tuttavia non dalla logica operativa del capitalismo, la quale alla fine condannerà sempre chi arretra di fronte a una possibilità d’intraprendere. Insieme alla figura dell’Imprenditore è necessario evocarne altre due – giacché l’Imprenditore esige, ma è necessario che il suo esigere venga ascoltato. Queste due figure sono lo Stato e la Scienza. Potremmo forse dire che il momento in cui diviene possibile parlare a tutti 84

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gli effetti di capitalismo coincide con quello in cui l’Imprenditore è in grado di contare su uno Stato che riconosce la legittimità della sua esigenza, ovvero quella di una definizione “senza rischi” del rischio dell’innovazione. Quando un industriale afferma, con tono sacrale, che “sarà il mercato a giudicare”, eccolo celebrare la conquista di questo potere. Non deve rispondere delle conseguenze (magari disastrose) di ciò che viene introdotto sul mercato, a meno che esse non contravvengano a un interdetto esplicito formulato dallo Stato, un interdetto scientificamente motivato e rispettoso dell’imperativo della proporzionalità. Quanto alla Scienza, che è stata investita di un’autorità assoluta, priva di limiti, rispetto alla definizione dei “rischi” che devono essere presi in considerazione, essa non ha granché a vedere con le scienze. Non è una sorpresa, allora, che gli esperti che si prestano a questo gioco sappiano che i loro pareri saranno ritenuti plausibili solo se sapranno dimostrarsi “ponderati” – cioè, se riconosceranno pienamente la legittimità dell’innovatore “che ha investito”. Che cos’è questa Scienza che si trova a intervenire come terza nella scena diadica che ho presentato, arbitro tollerato dall’Imprenditore rispetto tanto al proprio diritto d’innovare, quanto al diritto d’interdire che egli riconosce (essendone costretto) allo Stato? Se le ho apposto l’iniziale maiuscola, è per distinguerla dalle pratiche scientifiche. Non per esonerare queste ultime da ogni responsabilità, o per contrapporre gli esperti (al servizio del potere) ai ricercatori (disinteressati); bensì perché, con l’alleanza Imprenditore-Stato-Scienza, ci troviamo infine prossimi alla leggenda che sempre s’impone quando si parla dell’“irresistibile aumento di potenza dell’Occidente”. Questa leggenda fa riferimento all’alleanza decisiva tra la razionalità scientifica, madre del progresso di tutti i saperi, uno Stato liberato dalle fonti di legittimità arcaiche che impedivano a una tale razionalità di svilupparsi, e lo sforzo industriale che le consente di tradursi in principio d’azione finalmente efficace – quello che i marxisti hanno chiamato lo sviluppo delle forze produttive. Da questa leggenda, è evidente, dovremo uscire; ma se l’arte di fare attenzione dev’essere riconquistata, sarà opportuno cominciare con il fare attenzione alla maniera in cui siamo suscettibili di uscirne. Qui, ancora, non si tratterà di definire la verità dello Stato o della Scienza, di riscrivere la “vera storia” che sarebbe stata mistificata dalla leggenda, bensì di attivare delle domande che si riferiscano prima di tutto al momento che viviamo – a ciò che esso ci forza a pensare e a ciò di cui ci richiede di diffidare. Ciò di cui conviene diffidare, in questo 85

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caso, sono le semplificazioni che ancora ratificherebbero la storia di un “progresso”, o che pretenderebbero d’invertirla in modo troppo diretto, facendo del capitalismo il solo vero protagonista e riducendo a illusione l’autonomia relativa degli altri due, oppure facendo dei tre protagonisti le teste di uno stesso mostro, cui spetterà all’interprete dare un nome. In ogni caso, ciò che manca all’appello è la domanda, oggi cruciale, su cosa potrà servire da risorsa nel compito che ci spetta di riapprendere l’arte di fare attenzione.

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La Scienza, lo Stato e l’Impresa

Ho scritto molto sulle scienze, e in particolare contro l’idea di un loro procedere neutro, oggettivo e razionale. Così facendo, non ho mai inteso attaccare le pratiche scientifiche, quanto piuttosto difenderle da un’immagine di autorità che nulla ha a che vedere con ciò che costituisce la loro fecondità e la loro relativa affidabilità1. In questa sede, mi limiterò a sottolineare che, quando si tratta di ricerca scientifica, la definizione di ciò che “deve” essere preso in considerazione non s’impone mai in maniera generale, ma traduce invece l’evento di una riuscita capace di aprire, a quelli e quelle che essa riguarda, un nuovo campo di domande e di possibili. La Scienza, al contrario, è estranea a questo tipo di evento, e concorre in maniera diretta a rinforzare il divieto di “fare attenzione”. “Non è provato, non è provato!” – quante volte degli esperti hanno fatto riecheggiare questo osceno ritornello. Un ritornello la cui autorità, bisogna sottolinearlo, non è rimessa in questione dal principio di precauzione, che fa riferimento esclusivamente a eventualità non ancora provate. Con la Scienza, non si tratta più della prova intesa come riuscita, come qualcosa capace di fare evento. La prova diviene ciò che bisogna poter esigere da chiunque avanzi una domanda, un’obiezione o una proposta suscettibile d’imbarazzare. Il ruolo principe del ritornello del “non è provato” è quello di mettere a tacere, di separare ciò che sarà ritenuto oggettivo e razionale da ciò che occorre rigettare in quanto soggettivo, illusorio o manifestazione di attaccamenti irrazionali a modi di vita sfortunatamente condannati dal progresso. Questo ruolo, accettato da molti scienziati, disonora chi lo fa proprio in maniera ancora più intima di quanto non faccia la partecipazione allo sviluppo delle armi da guerra, in quanto trasforma l’evento che ogni

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Si veda, su questo, Stengers (1993; 2006).

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vera prova costituisce, la riuscita rara che alimenta i ricercatori, che li forza a pensare, a obiettare, a creare, in un imperativo generale che aspira a una validità indipendente dalle circostanze. Questo disonore ha una storia lunga. Ho tentato di caratterizzare la novità pratica che la prova sperimentale ha storicamente costituito facendo riferimento a un evento: la scoperta che certi fatti, i quali saranno chiamati “sperimentali”, se accuratamente messi in scena in laboratorio, possono acquisire la capacità di testimoniare del modo in cui devono essere interpretati. Lì risiede quel tipo di riuscita che fa pensare, attivarsi, obiettare gli scienziati “sperimentali”, quelli che sanno cosa vuol dire “danzare nel proprio laboratorio” quando “funziona”. Tuttavia, chi ha scoperto che una simile riuscita era possibile, Galileo, si è affrettato a generalizzarla, vale a dire a trasformare la riuscita (riuscire a produrre un tipo di fatto che “provi”) in metodo (inchinarsi davanti ai fatti). Gli diventava così possibile contrapporre la nuova ragione scientifica, che riconosce autorità ai soli fatti, all’attitudine di chiunque prenda posizione riguardo questioni indecidibili, che conferiscono potere alle sue convinzioni o ai suoi pregiudizi. Questa messa in scena è senza dubbio una delle operazioni di propaganda meglio riuscite nella storia umana, se è vero che essa è stata ripresa e ratificata anche da parte dei filosofi – sebbene essi stessi ne risultassero spogliati della loro pretesa all’autorità. Certi vanno ancora oggi ripetendo il giudizio lapidario di Gaston Bachelard: «In linea di principio, l’opinione ha sempre torto. L’opinione pensa male; anzi, non pensa; traduce dei bisogni in conoscenze»2. Che questo giudizio sia stato emesso in un libro intitolato La formazione dello spirito scientifico è una circostanza capace di testimoniare di una logica profonda. Un tale “spirito scientifico” è definibile solo in contrapposizione a qualcosa che sarebbe “non scientifico” – e ciò vale anche quando qualcuno si crede intelligente a invertire specularmente il significato di questa opposizione, attribuendo alla “gente” una ricchezza soggettiva o emozionale di cui sarebbe invece privo lo spirito scientifico, freddo, calcolatore e razionale. Non tutti gli scienziati hanno aderito alla messa in scena della “Scienza contro l’Opinione”, che conferisce alla Scienza il compito di definire le “vere” domande, quelle che è possibile decidere “oggettivamente”, e rinvia il resto alla soggettività e ai suoi attaccamenti irrazionali. Ma tra quanti sanno che si tratta unicamente di propaganda,

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Bachelard (1938, tr. it. 12).

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alcuni pensano che essa sia pertanto “sfortunatamente necessaria”, e che, senza di essa, ai lavori scientifici non sarebbe stata riconosciuta la giusta importanza. D’altronde, anche Galileo forse la pensava così. Il disprezzo nei confronti della “gente” che l’opposizione tra Scienza e Opinione alimenta assume talvolta forme morbide (“le persone” non possono capire quello che facciamo), e tuttavia eccolo lì, anche nel semplice fatto che appaia accettabile il prezzo che è stato pagato, e che continua a essere pagato, affinché il valore della Scienza venga riconosciuto: è accettabile astenersi dal dire “tutta la verità, solo la verità, nient’altro che la verità”, dal momento che “le persone” non ne chiedono né meritano più di così. Se solo sapessero fino a che punto uno scienziato è mal preparato dalla sua disciplina a intervenire nelle questioni d’interesse collettivo, le “persone” perderebbero fiducia, e si precipiterebbero da ciarlatani, creazionisti o astrologi3. Così, la maggior parte degli scienziati, compresi quelli che sanno che lo “spirito” – o il “metodo” – scientifico di cui qualcuno si vanta è un prodotto di propaganda, è caratterizzata da una strana tolleranza nei confronti dei colleghi che hanno fatto proprio il ruolo conferito alla Scienza. Una forma di legge del silenzio s’impone nel momento in cui i colleghi in questione appaiono “in buona fede”, anche se questa fede è cieca. Tornerò in seguito sull’“economia della conoscenza” che sta asservendo le pratiche scientifiche, ma che non infastidirà assolutamente gli esperti né l’autorità dalle ambizioni infinite delle loro prove. Ma voglio sottolineare sin da ora il legame tra la triste passività degli scienziati che si sottomettono a questa economia, la loro incapacità di mettere in politica ciò che accade, e un riferimento alla Scienza che, dopo averli serviti così bene, oggi li strangola. “Dilagare dell’irrazionalità!”, “Non sanno quello che fanno!” – solo questo sono capaci di gemere. Ma una simile passività caratterizza l’insieme del mondo cosiddetto “accademico”, che sta venendo trasformato in profondità da quella che esso ha lasciato fosse definita, quando si trattava di giudicare gli altri, come “oggettività” – e in questo mondo includo, beninteso, anche quelli che hanno protestato contro il “regno dell’oggettività”. Tanto la celebre “classifica delle università” quanto i criteri di valutazione ai 3 Da cui, forse, l’eccitazione di molti scienziati di fronte all’“offensiva creazionista” contro l’evoluzione darwiniana: guardate, il mostro è lì, e ci attacca. Siamo dunque ancora, proprio come all’epoca di Galileo, un bastione contro l’oscurantismo!

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quali sono ormai sottoposti i centri di ricerca e i ricercatori vengono prodotti da “esperti” che sono anche, al tempo stesso, dei “colleghi”. E i “fatti” che questi esperti valutano, e che identificano come indici di eccellenza, possono certo essere denunciati come ciechi, non pertinenti o ingiusti; e tuttavia vanno fabbricando, in nome della Scienza e del suo imperativo di oggettività, una nuova definizione operativa della ricerca. Per limitarmi a un esempio, proprio come avrebbe escluso me, una simile definizione condanna alla marginalizzazione i ricercatori che rifiutano di pubblicare ciò che si deve, dove si deve. Non si tratta di lamentarsi, ma di constatare che, con il pretesto della modernizzazione, viene proseguito oltre il processo di distruzione delle risorse che potrebbero nutrire un’arte del fare attenzione – un processo il cui imperativo categorico è la mobilitazione di tutti, soprattutto di chi ancora beneficia di nicchie relativamente protette. Forse il capitalismo, di per sé, non chiedeva tanto, ed è qui che entra in scena quell’altro protagonista che è lo Stato. In parte, la passività dei ricercatori deriva dal fatto che essi si sentono traditi da uno Stato che pensavano al servizio di un ben definito interesse generale. Non lamentarsi, dunque, ma nemmeno dire “alla fine è giusto così”. L’intrusione di Gaia si oppone a questa morale, direttamente connessa alla grande narrazione epica del compimento dell’Uomo: chi si è dimostrato indegno, chi si è rivelato vulnerabile alle tentazioni del Nemico, sarà eliminato. Abbiamo bisogno, non mi stancherò di ripeterlo, di ricercatori capaci di partecipare alla creazione delle risposte da cui dipende la possibilità di un avvenire che non sia barbaro – e alcuni cominciano a manifestarsi, attivati in particolare dall’evento ogm. Non dirò che non abbiamo bisogno di Stato. Tuttavia, dirò che, di fronte all’intrusione di Gaia, non dobbiamo fidarci dello Stato. Bisogna abbandonare il sogno di uno Stato protettore dell’interesse di tutti, bastione contro gli “eccessi” del capitalismo, che avrebbe tradito la propria missione. La questione non è dunque di sapere “chi” manipoli (indebitamente) lo Stato, distogliendolo dal ruolo che dovrebbe essere suo, come si vuole implicitamente suggerire quando si parla di tecnocrazia (tanto che con il riferimento alla “tecnica” ci si riferisca alle scienze o al diritto). Mi sembra invece più interessante – soprattutto oggi che, in assenza di un qualsiasi riferimento credibile al progresso, l’interesse dello Stato sembra risiedere prima di tutto nella mobilitazione per la guerra economica – caratterizzare ciò che lo Stato fa a queste differenti pratiche, a quanti si attivano al suo servizio. Sappiamo che l’intervento dello Stato si traduce il più delle 90

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volte nella produzione di regole e di norme (di qualità, di sicurezza…) cieche alle circostanze locali e a quei saperi denigrati come “tradizionali” e nell’eliminazione correlativa di tutto ciò che non è conforme, standardizzato, o che si sottrae a una “valutazione oggettiva”. Ma attribuire tutto ciò alla “razionalità tecnica” significherebbe procede troppo rapidamente. Se li si definisce a partire dalle loro pratiche, i tecnici appaiono capaci di fare ben più che limitarsi a sottomettere tutto ciò che si muove al regno di categorie indifferenti alle proprie conseguenze. Le pratiche di uno scienziato, di un tecnico o di un giurista, infatti, implicano un’arte particolare dell’attenzione: si tratta di pratiche che permettono, e addirittura richiedono, quando non sono asservite allo Stato, di esitare e di apprendere. Al contrario, la cattura da parte dello Stato richiede che non vi sia esitazione, e definisce anzi ogni esitazione come un pericolo per l’ordine pubblico, come una minaccia di smobilitazione. Tuttavia, non si tratta, qui, di denunciare lo Stato come complice del capitalismo, se non addirittura come sua emanazione diretta. La denuncia fabbrica una divisione tra chi sa e chi è ingannato dalle apparenze, ma il sapere che essa produce ha il solo effetto di attribuire ancor più potere al capitalismo. Si potrebbe dire, invece, che tra le ragioni dello Stato moderno e il capitalismo sussiste una logica simile a quella dell’uovo e della gallina, che implica non di confondere i due protagonisti (tra i due non vi è simmetria), bensì di affermare l’impossibilità di comprendere uno senza far riferimento all’altro e viceversa. E questo nonostante tra i due non vi sia né complicità volontaria, né corruzione, né, del resto, amicizia. “Troppo Stato”, si lamenta l’uno incessantemente; “Bisogna regolare”, borbotta l’altro. Se si tratta di una logica dell’uovo e della gallina, è perché vi sono due logiche di funzionamento distinte che tuttavia si riferiscono l’una all’altra: quella della macchina cosiddetta “pesante e cieca” che definisce ciò che ha titolo a essere preso in considerazione, e dunque regolato, e quella dell’opportunista in agguato, ansioso di approfittare di tutto ciò che rimane escluso dalla considerazione pubblica. Anche in questo caso, non intendo definire la logica dello Stato, ma tentare di caratterizzarla, e di farlo a partire da ciò che è accaduto. Da oltre trent’anni siamo testimoni della distruzione di tutto ciò che era stato conquistato tramite le lotte politiche e sociali. “Flessibilità!” “Taglio dei costi del lavoro!” Tutti conoscono la potenza quasi consensuale che queste rivendicazioni padronali sono riuscite ad acquisire, il modo in cui esse sono divenute parole d’ordine capaci di trovare una debole 91

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adesione presso la maggioranza delle persone. Ma a trovarsi così poco e malamente difeso non è ciò che era stato conquistato, bensì la trasposizione di ciò che era stato conquistato nelle categorie della gestione statale. Propongo il termine “chiunque” per caratterizzare questa trasposizione. Ciò che è stato conquistato per tutti è stato ridefinito tramite categorie che s’indirizzano a dei chiunque, categorie produttrici di amnesia e, di conseguenza, vulnerabili alle alternative infernali escogitate dal capitalismo. La disfatta, più che la vittoria (nel caso specifico, la disfatta di chi aveva prestato fiducia allo Stato), permette di decelerare le logiche di funzionamento. All’epoca delle conquiste sociali è stato possibile attribuire allo Stato una dinamica “progressista”, ma sarebbe tuttavia un errore caratterizzare ciò che è accaduto in seguito come un tradimento: la sua logica è rimasta immutata. L’ordine pubblico ha bisogno di regole, e queste regole richiedono una “logica dei chiunque”, un chiunque che designa tutte le persone a cui una regola o una norma dovrà essere applicata, quali che siano le conseguenze di questa applicazione. Se vi è qualcosa in comune tra le logiche di funzionamento dello Stato e quelle del capitalismo, tra chi si pensa “responsabile dell’ordine pubblico” e chi rivendica il diritto all’irresponsabilità, condizione della libera impresa, esso sta nell’ostilità che entrambi, seppure per ragioni distinte, nutrono nei confronti dell’arte di fare attenzione alle conseguenze. Certo, per ciascuna regola abbondano le eccezioni, e queste eccezioni sono motivate da conseguenze che bisogna evitare. Ma esse si traducono sempre nei termini di sottocategorie, o di sotto-sottocategorie, che raggruppano ogni volta una nuova classe di “chiunque”, definita dall’omogeneità di quelli che essa include e sottopone alla regola. Quanto a chi non ha il potere di far sì che la propria rivendicazione all’eccezione venga ascoltata… peccato per loro. Peccato, per esempio, per i piccoli agricoltori schiacciati dalla burocrazia amministrativa oggi imposta in nome della sicurezza dei consumatori, che non hanno potuto far valere il fatto che solo le grosse imprese agricole sono capaci di sopportare questo carico. Ma peccato anche per quanti hanno saputo far ascoltare le proprie rivendicazioni, e hanno visto così ciò per cui avevano lottato venire ridefinito nei termini della gestione statale, trasformato in un funzionamento regolato, cieco alle proprie conseguenze. Non c’è bisogno di specificarlo: le grandi imprese, con i loro eserciti di avvocati e lobbisti, sfuggono alla categoria dei chiunque. Fanno ciò che non può fare “chiunque” – per esempio ottenere l’adozione di regole ad hoc, come accadde nel caso di Monsanto con l’amministrazione statunitense a proposito della sicurezza degli ogm, oppure far agire lo 92

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Stato come un’agenzia al servizio dei propri interessi, come nel caso delle ritorsioni unilaterali adottate dagli Stati Uniti contro i paesi giudicati negligenti in materia di rispetto dei diritti di proprietà intellettuale. Ma, in maniera sempre più routinaria, le imprese si accontentano di giocare al gioco dei chiunque, vale a dire di beneficiare della finzione giuridica che fa di esse delle “persone morali” capaci addirittura di rivendicare per sé dei diritti umani – anche perché dispongono di tutti i mezzi per aggirare una regolamentazione o farla giocare a proprio profitto. Non domandiamoci perché il mondo della “libera impresa” continui a essere contrapposto allo Stato pianificatore autoritario. Si tratta dell’alternativa che si dispiega quando i due banditi, lo Stato e l’Impresa – un’Impresa che possiamo chiamare “capitalista” –, raggiungono un accordo per fare il vuoto attorno a sé, per far tacere, o gettare nell’oblio, la voce di chi obietta, di chi lotta per rendere percepibili conseguenze impreviste, non prese in considerazione o intollerabili. Le voce, insomma, di quanti coltivano la capacità d’intervenire, di complicare il gioco, di ficcare il naso in qualcosa che, dal punto di vista dello Stato quanto da quello dell’Imprenditore, non dovrebbe assolutamente riguardarli. Se la questione che importa, oggi, è quella di una riappropriazione collettiva della capacità e dell’arte di fare attenzione, lo Stato, per come l’ho caratterizzato poc’anzi, non sarà d’aiuto: il sorgere di gruppi che si occupano di ciò che li riguarda, che propongono, obiettano, esigono di prender parte alla formulazione delle domande, e apprendono come farlo, rappresenta sempre, per lo Stato, un “disturbo dell’ordine pubblico” che è opportuno ignorare – o che si tratterà poi di far dimenticare. L’ordine pubblico non smette di  essere stabilito, con la sua pretesa di essere sinonimo della difesa di un interesse generale che ogni volta si tratta di far comprendere a una popolazione sempre sospettata di voler far prevalere i propri interessi egoistici. Siamo ubriachi di narrazioni consensuali, per le quali ciò che è riuscito a costituirsi come rilevante viene presentato come normale, la lotta è passata sotto silenzio, e chi è stato costretto ad accettare delle imposizioni diventa qualcuno che “ha dovuto riconoscere la necessità di…” Ecco perché bisogna fare attenzione al ritorno, oggi, di “altre narrazioni”, che forse annunciano nuovi modi di resistenza e che rifiutano quell’oblio della capacità di pensare e di agire insieme che l’ordine pubblico richiede. Qui, m’interesserò alle narrazioni che fanno riferimento alle cosiddette enclosures, cioè alla storia dell’appropriazione dei commons. 93

Enclosures

Parlando di enclosures si fa riferimento a un momento decisivo nella storia sociale ed economica dell’Inghilterra: lo smantellamento definitivo, nel corso del xviii secolo, dei diritti consuetudinari riguardanti l’utilizzo delle terre comuni, i cosiddetti commons. Queste terre furono recintate da parte dei loro proprietari legali, che vollero così impossessarsene in maniera esclusiva. Si trattò di un evento dalle conseguenze tragiche, poiché l’utilizzo dei commons era essenziale per la vita delle comunità contadine: un numero spaventoso di persone fu spogliato di ogni mezzo di sussistenza. The Tragedy of the Commons è, peraltro, il titolo di un libro di grande successo apparso nel 1968; e tuttavia è un’altra la “tragedia” che l’autore, Garrett Hardin, associa alla distruzione dei commons. Essa starebbe nel sovrasfruttamento (postulato da Hardin) delle terre comuni, dovuto al fatto che ciascun utilizzatore si sarebbe trovato a perseguire i propri interessi egoistici senza considerare che ne sarebbe derivato l’impoverimento di tutti. Chiaramente, questa favola ha avuto grande successo, in quanto permetteva di legittimare come “tristemente necessarie” non soltanto le enclosures ma, con esse, anche l’insieme delle privatizzazioni di ciò che era stato, sino ad allora, gestito collettivamente: l’interesse dei proprietari privati è anch’esso egoista, ma li spinge a far fruttare il proprio capitale, a migliorare i rendimenti, ad aumentare la produttività. Un’altra narrazione classica, quella di Marx, associa l’espropriazione dei commons a quella che egli chiama l’“accumulazione originaria del capitale”. Dal momento che non sarà più necessario prendere in considerazione la “riproduzione della forza lavoro”, la grande massa dei poveri ormai spogliati di ogni legame sarà sfruttata senza ritegno dalle nascenti industrie: i poveri potranno anche crepare nello svolgere il proprio lavoro – ve ne saranno sempre altri a sostituirli. In questo senso, le enclosures “preparano” l’appropriazione capitalista del lavoro di quanti, privati dei mezzi di sussistenza, saranno ridotti a 94

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mera forza lavoro. Tuttavia, Marx non celebra questa espropriazione nello stesso modo in cui celebra la distruzione delle corporazioni e di tutto ciò che connette gli esseri umani a delle tradizioni e a dei modi di vita – come l’eliminazione, cioè, di un ordine antico per la quale il socialismo futuro dovrà riconoscersi debitore al capitalismo. Forse a causa della brutalità impietosa dell’operazione, o perché ciò che venne distrutto era una forma di messa in comune delle risorse e dei mezzi, Marx vide nelle enclosures un furto, la distruzione del diritto dei poveri ad assicurare la propria sussistenza. Se il riferimento alle enclosures assume oggi nuovamente importanza, è perché la modalità contemporanea di estensione del capitalismo gli ha restituito tutta la sua attualità. La privatizzazione di risorse essenziali alla semplice sopravvivenza, come l’acqua, è all’ordine del giorno, così come quella dell’educazione, che nei nostri paesi era stata posta sotto la responsabilità pubblica. Non che la gestione dell’acqua non offrisse già opportunità di profitto, o che il capitalismo non abbia sino a ora ampiamente approfittato della produzione di lavoratori formati e disciplinati. Tuttavia, oggi assistiamo a un’appropriazione diretta, operata tramite la privatizzazione di ciò che era “servizio pubblico”. E la privatizzazione non si arresta qui. Il riferimento alle enclosures è evocato direttamente da quella “economia della conoscenza” che ho già menzionato, la quale promette semplicemente di cancellare la distinzione tra ricerca pubblica e ricerca privata tramite l’appropriazione diretta di ciò che aveva beneficiato sino a ora di un’autonomia, per quanto del tutto relativa. Oggi la produzione di conoscenza è considerata una posta in gioco troppo importante perché anche solo questa soglia minima di autonomia sia lasciata ai ricercatori, sottomessi ormai all’imperativo di stabilire partenariati con l’industria, assumere la registrazione di brevetti come obiettivo assoluto e inseguire la creazione di spin off come sogno di gloria. Tutto ciò con soldi pubblici, destinati a essere inghiottiti dai molteplici spin off che falliscono – mentre quelli che avranno successo verranno rilevati senza troppo rischio, con i loro brevetti, da un qualche consorzio. In breve, è cambiata la distribuzione di ciò che lo Stato lascia fare al capitalismo e ciò che il capitalismo fa fare allo Stato. Lo Stato lascia che il capitalismo metta le mani su ciò che era stato definito come sottoposto al dominio pubblico, e il capitalismo fa rivestire allo Stato il compito di perseguire chiunque infranga l’ormai sacrosanto diritto di proprietà intellettuale. Un diritto che si estende pressoché a tutto, dal vivente a certi saperi in passato accessibili liberamente. Un 95

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diritto al quale, in nome della difesa dell’innovazione, l’omc intende sottomettere il pianeta intero. Nonostante ciò, il riferimento contemporaneo alle enclosures, all’appropriazione di ciò che era bene comune, non è stato inventato né dai movimenti sindacali difensori dei servizi pubblici né dai ricercatori sottoposti al comando diretto, con la benedizione dello Stato, dei loro antichi alleati industriali. Sono stati invece degli informatici che, vedendo il proprio mestiere direttamente minacciato dalla messa sotto brevetto dei loro algoritmi, e dunque dei loro stessi linguaggi, hanno “nominato” ciò che li minacciava e creato una risposta – l’ormai celebre licenza pubblica generale, gnu. Questo fu il punto di partenza di un movimento collettivo di creazione di software liberi, che ciascuno può scaricare e, nella misura delle proprie competenze e del proprio tempo, contribuire a sviluppare. Non facciamoci trarre in inganno: non si tratta del regno angelico di una cooperazione disinteressata. Sono sorti altri modi per ottenere guadagni. Tuttavia, si tratta dell’invenzione di un modo di resistenza all’enclosure: chiunque utilizzi o modifichi i programmi sotto licenza gnu cade sotto il vincolo della non-appropriazione esclusiva di ciò che crea1. La resistenza degli informatici entra con difficoltà nelle categorie classiche della lotta allo sfruttamento, in quanto ciò a cui si tratta di resistere è il capitalismo dell’economia della conoscenza, e quanti lo servono raramente si definiscono come sfruttati. Certo, è sempre possibile conservare la bussola teorica, mantenere la direzione che identifica capitalismo e sfruttamento, parlando di una forma di “falsa coscienza”: loro non sanno, ma noi sappiamo. Nonostante ciò, mantenere la rotta, qui, equivale a negare l’originalità e l’efficacia relativa di ciò che gli informatici che hanno saputo opporre resistenza hanno realizzato. Se si fossero uniti alle masse sfruttate in lotta, i diritti di proprietà intellettuale regnerebbero oggi incontrastati sul mondo del software.

1 Il fatto che io citi qui il movimento dei software liberi non significa che essi siano “buoni”, mentre i “pirati” dell’informatica, che “crackano” i software protetti e divulgano i modi per aggirare le protezioni, sarebbero privi d’interesse. Si può dire che al livello degli effetti – del potere di nuocere al diritto di proprietà e di favorire l’accesso “libero” ai programmi – i pirati sono più efficaci. Ma non si tratta, qui, di scegliere  –  molti appartengono, peraltro, a entrambi i mondi. Né di contrapporre, come si contrapporrebbero riformismo e radicalismo. Entrambi i movimenti sono interessanti, nessuno è esemplare (se molti creatori di software liberi fanno buoni profitti, la pirateria “gratuita”, come ogni macchina da guerra, si trova ad aver a che fare con il problema del tradimento: molti “pirati” vengono ingaggiati come esperti e diventano cacciatori di pirati).

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Come raccontare questo tipo di resistenza, che ha trasformato il riferimento ai commons nella posta in gioco di una lotta? Distinguerei due tipi di narrazione – in modo un po’ caricaturale, certo, ma più che definire con precisione le posizioni in sé è importate far sentire la divergenza. La prima narrazione mette in scena un rinnovamento del teatro concettuale marxista che ne mantiene il genere epico – e il fatto di caratterizzarlo in questi termini, evidentemente, annuncia che si tratterà, per me, di prenderne le distanze2. Il capitalismo odierno dovrebbe essere qualificato come “cognitivo”, in quanto punterebbe meno a sfruttare la forza lavoro che ad appropriarsi di ciò che deve essere riconosciuto come bene comune dell’umanità, vale a dire la conoscenza: sono i lavoratori dell’“immateriale”, quelli che manipolano dei saperi astratti cooperando gli uni con gli altri, a costituire oggi la vera fonte di produzione della ricchezza. Questo “proletariato dell’immateriale”, come dice Toni Negri, sarebbe dunque ormai ciò da cui il capitalismo è destinato a dipendere, e anche, tuttavia, ciò che esso non sarà (forse) in grado di asservire. Poiché la specificità dei saperi immateriali – idee, algoritmi, codici… – risiede nel fatto che il loro valore d’uso è immediatamente sociale, come lo è già il linguaggio, che non esiste al di fuori della condivisione e dello scambio. Le nuove enclosures sarebbero sintomatiche di questa nuova epoca, in cui si tratta, per il capitalismo, d’impedire una dinamica sociale da cui esso ormai dipende e che tuttavia gli sfugge: il proletariato immateriale, mobile e autonomo, potrebbe effettivamente riuscire là dove le vecchie comunità contadine, attaccate com’erano ai loro terreni comuni e ai loro saperi concreti, non poterono. La rivolta degli informatici, la maniera in cui sono riusciti a costruire delle reti cooperative che affermano il valore immediatamente sociale dell’immateriale, sarebbe pertanto esemplare e profetica, giacché grazie a essa ogni utente è ormai libero di tradire Bill Gates e scaricare i programmi di cui ha bisogno. Si tratta dunque sempre di un’epopea dell’umanità – un’umanità alla quale il capitalismo ha, suo malgrado, rivelato la sua vera vocazione. Il “capitalismo cognitivo”, sfruttando un linguaggio che permette

2 La proposta da cui mi distanzio qui è quella di Toni Negri e Michael Hardt, i quali mettono in scena ciò che chiamano la “moltitudine”. Questa “moltitudine”, necessariamente anonima, nomade ed esperta, diviene la nuova “forza antagonista” in grado di minacciare il capitalismo. Quest’ultimo, divenuto cognitivo, ne ha un bisogno vitale, ma essa è capace di sfuggirgli, in quanto non è identificata dai modi industriali della produzione.

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la comunicazione di tutti con tutti, una conoscenza che, prodotta da parte di ciascuno, reca benefici a tutti, farebbe esistere, qui e ora, qualcosa che sarebbe “comune” agli umani, un comune necessariamente anonimo, senza qualità o proprietà particolari. Il capitalismo contribuirebbe così, senza volerlo, alla possibilità di un’umanità riconciliata, di una moltitudine mobile e creativa, emancipata dagli attaccamenti che mettono i gruppi in conflitto. E, giacché non può esservi che una sola epopea rivoluzionaria, la classe operaia è cacciata dal ruolo che le era stato riservato da Marx, se non addirittura definita in termini che anche retrospettivamente la squalificano a occupare una simile posizione. Si diceva che essa non avesse da perdere che le proprie catene – ma ecco che quelli che hanno perduto le proprie catene esistono già, o perlomeno hanno già acquisito un’esistenza concettuale. E così, la “vecchia classe operaia”, che lavorava la materia e che, per Marx, produceva tutta la ricchezza, appare ormai troppo attaccata agli strumenti della produzione per poter soddisfare il concetto, per farsi portatrice del “comune” dell’umanità. Dal punto di vista concettuale conta poco che, in nome della competitività, i lavoratori si trovino oggi sfruttati con un’intensità che ha pochi precedenti storici, o che, mentre nei paesi poveri si moltiplicano i cosiddetti “sweatshops”, nei nostri paesi facciano la loro comparsa lavoratori poveri, incapaci di soddisfare i propri bisogni tramite i salari che percepiscono. Ma, soprattutto, come in ogni teatro concettuale, ci troviamo calati in una prospettiva a lunghissimo termine, se non addirittura priva di ogni termine definito. I matematici parlerebbero di “teorema d’esistenza”: ciò che è messo in concetto dimostra l’esistenza di una risposta positiva alla domanda “esiste un candidato degno al ruolo?”, ma non dice nulla rispetto a come il candidato diventerà capace di occupare tale ruolo. È precisamente questo genere di ricerca di una garanzia concettuale che Gaia giunge a interrompere, e nel modo più “materialista” che si possa immaginare. La risposta alla sua intrusione non comporterà – non può comportare – garanzia alcuna, perché Gaia è sorda alle nostre idee. Ritorniamo all’appropriazione diretta alla quale gli informatici hanno saputo resistere, queste enclosures che dovevano sopprimere la loro maniera specifica di lavorare e di cooperare. Non potrebbe portarci alla mente un’altra dimensione del capitalismo, che non fa concorrenza allo sfruttamento, ma al contrario è da esso richiesta, e si propaga di conseguenza ovunque appaiano nuove risorse sfruttabili? A voler seguire questa seconda narrazione che propongo, la distru98

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zione operata dall’enclosure delle terre comuni non ha riguardato solo il modo di vita dei contadini poveri, ma anche un’intelligenza collettiva concreta “attaccata” a questo comune da cui tutti dipendevano. In questa prospettiva, è a una distruzione di questo genere che gli informatici avrebbero saputo resistere. Così essi smettono di essere la figura annunciatrice di un proletariato immateriale nomade, che incarna il carattere “sociale”, comune, di produzione dell’immateriale. Il “comune” che hanno saputo difendere era il loro, quello che li fa pensare, immaginare, cooperare. Che questo comune sia “immateriale” non cambia granché le cose. Si tratta sempre di un’intelligenza collettiva, concreta e situata, nel corpo a corpo con dei vincoli che sono tanto critici quanto i vincoli “materiali”. È il collettivo radunato dalla sfida configurata da questi vincoli – ben differente dall’insieme indefinito di quelli che, come me, utilizzano o scaricano da internet ciò che è stato prodotto – che essi hanno saputo difendere da ciò che s’ingegnava per dividerli. In altri termini, gli informatici avrebbero resistito a ciò che tentava di separarli da ciò che era loro comune, non all’appropriazione di qualcosa che sarebbe “comune all’umanità”. Si sono definiti come dei commoners, attaccati a ciò che fa di essi degli informatici, e non come dei nomadi dell’immateriale. La divergenza tra le due narrazioni verte dunque sulla questione della comunità. Dal punto di vista della prima narrazione, non vi è grande differenza tra i creatori di software e i semplici utenti come me – condividiamo entrambi questo linguaggio di tipo nuovo, astratto, che non appartiene a nessuno, libero dagli attaccamenti che dividono, oppongono, creano contraddizioni. Dal punto di vista della seconda, invece, il capitalismo “cognitivo” non tenta di appropriarsi dell’inappropriabile, ma distrugge (continua a distruggere) ciò che fa comunità. Il “comune”, qui, non ha le sembianze di una sorta di universale umano, garante (concettuale) di un mondo al di là delle opposizioni e delle divergenze. È ciò che riunisce dei commoners: io adopero l’informatica, ma i creatori di software, riuniti da ciò che li fa pensare, immaginare e creare in una maniera per cui ciò che ciascuno fa importa agli altri ed è risorsa per altri, ne sono i veri e propri utilizzatori. Ed è in quanto tali – dal momento che, cioè, l’economia della conoscenza minacciava ciò che per loro “fa comunità” –, e non in quanto precursori di una moltitudine liberata dai suoi attaccamenti, che essi hanno rivendicato il precedente delle enclosures.

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Cause comuni

Impiegare il termine “utilizzatori” per parlare degli informatici che hanno saputo resistere significa collocarli nell’eredità dei contadini che, in passato, hanno lottato contro la confisca dei loro commons in un modo che non definisce più questi contadini innanzitutto come “poveri”, bensì come comunità. E significa anche associare questa resistenza a una creazione politica recente: i “movimenti degli utilizzatori”. Hanno scelto di chiamarsi “utilizzatori” i consumatori di droghe illegali che, costituendosi in movimenti, intendevano creare una competenza collettiva riguardante il consumo, pretendendo che tale competenza fosse riconosciuta dagli “esperti”. Lo stesso è avvenuto con alcune associazioni di pazienti, di fronte ai medici e alle imprese farmaceutiche. Ma il termine è stato anche utilizzato per parlare di quanti si riuniscono attorno a un “comune”, per esempio un fiume o una foresta, con l’ambizione di smontare la diagnosi sinistra della “tragedia dei commons” e di riuscire ad apprendere gli uni dagli altri a non definirlo come un mezzo per soddisfare i propri fini, bensì come ciò attorno cui, in quanto “utilizzatori”, si tratta d’imparare ad articolarsi. In ciascuno di questi casi, e ne esistono molti altri, la riuscita del movimento risiede nel fatto che chi era inizialmente definito come semplice “utente” s’impadronisce di domande nella cui formulazione si riteneva non dovesse immischiarsi, e nel fatto che il “comune”, che era definito nei termini di utilizzi spesso rivali, riceve il potere di obbligare le persone che esso raduna a pensare, cioè a resistere a quella definizione, a produrre articolazioni che essa avrebbe reso inconcepibili, e a (ri)apprendere l’arte di fare attenzione. Nonostante ciò, non bisogna procedere troppo rapidamente. L’accostamento tra informatici e utilizzatori ci pone presto di fronte a delle difficoltà che sarebbe pericoloso ignorare. Che abbiano resistito oppure no, gli informatici sono consapevoli di essere, come per esempio gli scienziati o i giuristi, detentori di un sapere riconosciuto 100

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che fa di loro quelli che chiamerò dei praticiens3. I consumatori “impenitenti” di droghe e i membri di associazioni come act up, invece, si sono contemporaneamente trovati a creare un sapere collettivo e lottare perché esso fosse riconosciuto dai praticiens e dagli esperti. Che essi possano riuscire a trasformare questi ultimi, forzarli a fare attenzione a certe dimensioni di una situazione che non erano state prese in considerazione, è sicuramente importante; ma confondere nello stesso termine di “utilizzatori” questi due tipi di protagonista non significa forse introdurre un’ambiguità quanto al suo significato? Non ho smesso di sottolinearlo, la domanda che pongo non è “cosa fare di fronte all’intrusione di Gaia?” (domanda la cui risposta supera tutti quanti noi), bensì: “che cosa potrebbe richiedere il tentativo di rispondere all’intrusione di Gaia in un modo che non sia barbaro?” La risposta a una simile domanda avrà certamente bisogno dell’apporto di scienziati, tecnici e giuristi, ma non di quelli che lavorano sotto il giogo dell’economia della conoscenza, né di quelli che si definiscono in qualche modo tramite il disprezzo per “la gente”. Ecco perché considero prezioso il tipo di ambiguità a cui sono arrivata – a cui, per essere più precisi, la resistenza degli informatici e la creazione dei cosiddetti “movimenti di utilizzatori” mi hanno permesso di giungere. Il fatto d’impiegare lo stesso termine, “utilizzatori”, per riferirmi tanto a praticiens che difendono ciò che li fa pensare e immaginare, quanto all’insieme eterogeneo di coloro che apprendono a pensare attorno a qualcosa di cui smettono di essere meri utenti, crea un’ambiguità che non dev’essere rifiutata, bensì esplicitata. Rifiutarla significherebbe mettersi in cerca di una soluzione già pronta – e non ve ne sono, quando si tratta di “fare comune”. Esplicitarla, al contrario, vuol dire farne una dimensione intrinseca alle situazioni che, attorno a una questione comune, riuniscono tanto alcuni rappresentanti di movimenti di utilizzatori quanto praticiens e esperti, una dimensione che appartiene alla situazione e non può essere pensata indipendentemente da essa. Sto alludendo a una difficoltà ben nota ai movimenti di utilizzatori che sono stati capaci di conquistare il diritto d’intervenire nei dibattiti

3 Il termine francese praticien non ha un equivalente italiano. In una maniera che l’italiano “praticante” non consente, essendo utilizzato per indicare principalmente persone in corso di formazione, Stengers impiega la nozione di praticien per caratterizzare gli scienziati a partire dal riferimento pragmatico a ciò che li rende tali – le pratiche che li definiscono. Per un approfondimento sul ruolo dei concetti di “pratiche” e “praticien” nell’opera di Stengers, cfr.supra “Stengers things. Introduzione a un pensiero esigente” [N. d. T.].

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tecnici da cui si trovavano esclusi. Il momento di una simile riuscita, per quanto relativa, cioè quel momento in cui da una posizione di contestazione si passa a una posizione di partecipazione, è anche quello in cui s’annidano i pericoli maggiori. Chi partecipa a dibattiti di questo genere deve, in effetti, per imparare come riferirsi ai praticiens e agli esperti, imparare a conoscerli, a prendere le misure del loro sapere, e questa necessità è spesso fonte di grandi tensioni. L’impegno attorno a una causa comune è messo alla prova da una divergenza che può facilmente assumere la forma del conflitto personale. Ai sospetti riguardanti le ambizioni di alcuni – “parli come loro, sei diventato uno di loro!” – faranno eco i rimproveri rispetto alla mancanza d’impegno da parte di altri – “è colpa mia se sono l’unico a impegnarsi? Non dovete far altro che…” Esplicitare l’ambiguità non significa risolvere la difficoltà. Non esiste, qui, una soluzione generale; l’unica cosa a essere generale è la necessità di prevedere la tensione, e cioè, soprattutto, di nutrire l’impegno collettivo alla produzione di saperi, narrazioni ed esperienze che, al momento giusto, potranno forse permettere di non finire nella trappola. Nonostante ciò, non contrapporrò i praticiens, in quanto vera “gente del mestiere”, agli utilizzatori, amatori desiderosi di far valere le proprie obiezioni e suggerimenti, e tuttavia pronti a dividersi al momento di partecipare pienamente alla costruzione del problema. La questione dei gradi diversi d’impegno si pone ugualmente dal lato dei praticiens. Anch’essi possono dividersi a seconda che si comportino da “professionisti” o che si mostrino capaci di riconoscere il carattere particolare e specialistico della propria pratica. Nel primo caso, gli utilizzatori avranno a che fare con interlocutori che accetteranno magari obiezioni e suggerimenti, ma che sapranno già come porre il problema. Gli utilizzatori interverrebbero così al livello della soluzione, non della formulazione del problema, e chi tra loro dovesse accettare di entrare in questo gioco correrebbe il pericolo di trovarsi separato dagli altri, esposto a continue accuse di tradimento. Nel secondo caso, non è impossibile che essi possano, insieme e allo stesso titolo dei praticiens, contribuire alla costruzione del problema, dal momento che la situazione è ormai definita nei termini dei saperi, delle esigenze e delle maniere eterogenee di fare attenzione che essa riunisce. L’intervento degli utilizzatori attiva dunque un contrasto che diviene importante quando ne va del contributo che quelli che chiamo i praticiens possono offrire alla risposta da creare di fronte all’intrusione di Gaia. E questo contrasto costituisce ormai una posta in gioco 102

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politica tanto quanto la distinzione tra utilizzatori e utenti. Tanto nel caso degli utenti quanto in quello dei “veri professionisti” abbiamo a che fare con le figure su cui i responsabili dell’ordine pubblico e gli imprenditori possono contare al fine di non esitare. Ma la questione dei praticiens è dotata di una dimensione supplementare. È nel momento in cui si viene formati a una pratica che si apre la possibilità di diventare utilizzatori. E questo non ha a che fare con una gerarchia di un qualche genere, bensì con un’appartenenza, con il fatto che il sapere di un praticien, la sua capacità di partecipare alla costruzione di un problema, rinvia alla comunità a cui egli – o ella – appartiene. Oggi è ormai possibile immaginare un futuro in cui la nozione stessa di pratica potrebbe essere distrutta, in cui le scienze non produrrebbero più altro che professionisti, incapaci in quanto tali di ciò che l’incontro con gli utilizzatori richiede. Quando, alcuni anni fa, ho deciso d’interrogare le scienze a partire dal personaggio del praticien4, si trattava inizialmente di resistere al legame diretto che così spesso viene stabilito tra le scienze e una razionalità universale neutra, ma anche di annunciare l’inevitabile contraccolpo che la pretesa di un tale legame avrebbe provocato nel momento in cui degli studi un po’ seri cominciavano a mostrare che le pratiche scientifiche non obbediscono affatto a queste famose norme di razionalità. Bisognava, per evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca, tentare di “parlare nel modo giusto” delle pratiche scientifiche (in ogni caso di quelle che c’insegnano qualcosa di nuovo sul mondo e sulle cose, e dunque non di tutte le scienze), di descrivere la loro forza propria, irriducibile a una serie di rapporti sociali generali, e di svincolare questa forza da ogni rapporto con una razionalità di cui i non-scienziati sarebbero privi. Ecco perché ho tentato di caratterizzare i protagonisti delle pratiche scientifiche (in contrasto con quelli che servono la Scienza) come radunati da un “comune”, vale a dire da una “causa”: essi sarebbero impegnati da un tipo di riuscita, che assume una forma specifica all’interno di ciascun campo, la cui eventualità è capace di obbligare quanti appartengono a tale campo – li forza a pensare, ad agire, inventare, obiettare, vale a dire a lavorare insieme, in una dipendenza reciproca che lega gli uni con gli altri.

4 L’attenzione alle pratiche, e dunque ai praticiens, è introdotta nelle mie Cosmopolitiche (Stengers 1997) ed elaborata nella prospettiva di un’ecologia delle pratiche in La Vierge et le neutrino (Stengers 2006).

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Oggi, bisogna constatare che gli scienziati non hanno, a differenza degli informatici, inventato i mezzi per resistere alle enclosures che sono toccate loro in sorte sotto il regime dell’economia della conoscenza. Che il prezzo di questo insuccesso sia una perdita generale di fiducia è già riscontrabile nei numerosi casi di conflitto d’interesse emersi all’attenzione dell’opinione pubblica – quando, per esempio, si scopre che uno scienziato che si presenta come “esperto” di una questione  beneficia delle sovvenzioni di un’industria interessata alla  questione stessa. Ma, anche quando non sussiste un conflitto diretto, la situazione di dipendenza in cui tali scienziati si trovano a lavorare è sufficiente a minarne l’affidabilità, dal momento che dissolve l’obbligo di lavorare insieme. L’economia della conoscenza rende possibile “riuscire” in altro modo, con mezzi di tutt’altro genere. Così, avremo a che fare con dei “veri professionisti” che non esitano e che non temono più le obiezioni dei loro colleghi. Giacché, se tutti sono in una situazione di dipendenza, tutti legati da partenariati con l’industria, nessuno avrà voglia di sputare nel piatto in cui mangia, di condurre ricerche che indebolirebbero la legittimità di una ridefinizione industriale del mondo in cui sono essi stessi impegnati. Non c’è bisogno d’imbrogliare, è sufficiente evitare di lavorare troppo su domande in grado di disturbare e concentrarsi su quelle per cui abbondano sovvenzioni e incentivi pubblici. Anche a costo – come nel caso delle nanotecnologie – di passare da un’economia della conoscenza a un’economia della promessa. In questo caso gli scienziati, senza più temere obiezioni da parte dei loro colleghi, promettono mari e monti, una nuova rivoluzione industriale, un’epoca nuova in cui l’Uomo sottometterà non più la “materia” ma gli atomi, uno a uno, per disporli a proprio piacere; e le industrie, così come i poteri pubblici, seguono in un girotondo osceno, in cui non è più possibile dire chi creda, chi sia ingannato, chi manipoli… Ciò che sta accadendo con l’economia della conoscenza traduce bene l’associazione che sto tentando di stabilire tra le enclosures e la distruzione delle pratiche produttrici d’intelligenza collettiva, a profitto di specialisti che si comporteranno da “veri professionisti” e mostreranno il ghigno a chiunque affermi che la loro scienza potrebbe essere più che la mera applicazione competente di metodi strumentali sempre più sofisticati. Ma a essere distrutte non saranno solo le comunità di praticiens radunati da una causa che li fa pensare, immaginare, obiettare. In effetti, ciò che distingue il praticien dal professionista è anche la capacità di percepire la differenza 104

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tra quelle situazioni e quelle domande che “fanno comunità”, rese importanti da una causa capace di radunare attorno a sé, e quelle in cui il sapere di cui si è provvisti è utile, finanche necessario, e tuttavia privo della capacità di definire “il buon modo di formulare il problema”. Si tratta di una capacità che non è stata coltivata dalle comunità scientifiche e dai loro modi di formazione alla pratica – è il minimo che si possa dire. Ed essa costituisce una risorsa che, con il trionfo dei professionisti, corre il rischio di scomparire, mentre è di un’importanza cruciale quando si tratta di radunare saperi, esigenze, preoccupazioni eterogenee attorno a una situazione di cui nessuno può appropriarsi in maniera esclusiva. L’intrusione di Gaia, nella misura in cui pone la questione della nostra capacità di creare risposte che non siano barbare, conferisce una portata spaventosa alla distruzione delle cause comuni che ho associato alle enclosures di ieri e di oggi. E attribuisce un significato cruciale alla doppia distinzione che ho proposto tra utenti e utilizzatori e tra professionisti e praticiens. Si tratta di apprendere a resistere al malefico motivetto secondo cui “le persone sono fatte così (egoiste, intrappolate nelle proprie abitudini di pensiero…)”, un motivetto che si limita a riproporre quel tema che gli intellettuali chiamano della “servitù volontaria” – servitù sempre degli altri, ben inteso. No, la trasformazione degli utilizzatori in utenti (egoisti) o dei praticiens in professionisti (sottomessi) non suggerisce affatto che “la gente” sia portata a seguire la via più semplice. Piuttosto, essa rende manifesta la distruzione di ciò che raduna e fa pensare. Ma adottare questa prospettiva significa anche prendere atto che la risposta all’intrusione non verrà formulata da un’umanità infine riconciliata, riunita sotto il segno della buona volontà generale, ma dipende invece dal ripopolamento di un mondo oggi devastato dalla confisca e dalla distruzione delle capacità collettive e sempre situate di pensare, immaginare e creare. Da questo punto di vista, è importante ciò che l’evento ogm ha saputo produrre: far balbettare i nostri responsabili, far perdere presa alle supposte evidenze su cui essi fanno affidamento per condurre il loro gregge verso un futuro che, tuttavia, sono incapaci di concepire. La questione di sapere come potrebbero fare altrimenti, senza ricorrere a parole d’ordine dalla vocazione anestetica, è un’altra storia, che non è ancora la nostra. Quello che sappiamo sin da ora è che le storie che potrebbero aiutarci a creare una risposta all’intrusione di Gaia non passano per la presa del Palazzo d’Inverno o della Ba105

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stiglia. Non si tratta di un rifiuto di tipo morale, come quello di chi s’impedirebbe di prendere il potere pur di mantenere le mani pulite. La questione è tecnica: l’idea di “prendere il potere” suppone che vi sia un governo che ne abbia, di potere, e che sia nella posizione di tradire il ruolo a cui il capitalismo lo costringe. Domandarsi come acquisire margini di potere costituisce senza dubbio un quesito più interessante, ma ecco allora che la risposta passa attraverso la dinamica di una serie d’impegni capaci di produrre possibili, una dinamica che infranga il sentimento collettivo d’impotenza senza farlo scivolare nel terribile: “Insieme tutto diventa possibile!” Il compito d’infrangere il sentimento d’impotenza non ha, in effetti, nulla a che vedere con quello che è a tutti gli effetti il correlato speculare dell’impotenza, ovvero il sentimento di onnipotenza, il culto di poteri nascosti che non chiederebbero altro che di essere liberati, il sogno astratto di quel giorno in cui, finalmente, “il popolo scenderà per le strade”. Nella misura in cui non si tratta esclusivamente di riappropriarsi delle ricchezze prodotte dal lavoro, il popolo per le strade dovrebbe aver fatto esperienza concreta di ciò che tanto la riattivazione di connessioni con ciò da cui siamo stati separati quanto la riappropriazione della capacità di fabbricare le proprie domande richiede, e non di quali siano le risposte appropriate alle domande sempre a trabocchetto che ci vengono imposte. Non si fabbrica mai in generale, e non si è mai capaci in generale. Tuttavia, il popolo per le strade è un’immagine alla quale non voglio rinunciare, poiché è l’immagine di un’emancipazione che può essere svincolata dalla grande prospettiva epica a cui si trova solitamente associata. Dopotutto, prima che le nostre città fossero riconfigurate secondo gli imperativi di una circolazione senza attriti, purificate dalle minacce all’ordine pubblico di cui assembramenti e mescolamenti tra persone offrono sempre l’occasione, il popolo era per le strade… Tuttavia, per impedire che questa immagine si faccia veleno, sogno astratto, conviene forse rivisitare l’immagine della strada a cui si fa solitamente riferimento. Ai grandi viali che conducono ai luoghi del potere si potrebbe sostituire un labirinto di viuzze interconnesse, molteplicità radunate attorno a ciò che forza a pensare e immaginare insieme, attorno a cause “comuni” di cui nessuna ha il potere di determinare le altre, benché ciascuna richieda che le altre ricevano questo potere di far pensare e immaginare le persone che radunano. Una causa, infatti, se si trova isolata, rischia sempre di essere smembrata nei vari differenti interessi che le preesistevano. Ed 106

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essa rischia anche di suscitare una chiusura del collettivo, che sarebbe così portato a definire l’ambiente nei termini delle proprie esigenze e non come qualcosa con cui si tratterebbe di creare dei legami (com’è avvenuto, per esempio, nel caso delle comunità scientifiche). In breve, una causa che riceve il potere di radunare non deve domandare di essere definita come buona, innocente o legittima, ma dev’essere trattata con la lucidità che ogni creazione richiede.

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Potrebbe essere pericoloso!

Qualcuno potrebbe aver aggrottato le sopracciglia di fronte alla prospettiva che sto proponendo. Dopotutto, l’esempio delle scienze, a cui ho fatto riferimento, è un’arma a doppio taglio. Gli scienziati non avevano forse stretto alleanze privilegiate con le industrie, lo Stato e l’esercito ben prima dell’ingresso sulla scena dell’economia della conoscenza? E non hanno forse contribuito, a partire almeno dal xix secolo, a quel tipo di “sviluppo” che oggi ci costa l’intrusione di Gaia? Non hanno sfruttato la propria autorità per evitare che le conseguenze indesiderate o pericolose di questo sviluppo venissero prese in considerazione – in nome di un progresso futuro che avrebbe riparato i danni, o, più semplicemente, dell’idea che al progresso corrisponda un prezzo da pagare? In altre parole, le scienze non offrono forse un esempio di ciò che accade quando si obbedisce non all’interesse comune bensì agli interessi propri, fossero anche quelli di una pratica? Si potrebbe certamente controbattere che gli scienziati condividevano, per ciò che non riguarda le loro pratiche, la grande fiducia maggioritaria (maggioritaria tra quelli che si sono sentiti abilitati a parlare in nome dell’umanità…) relativa all’irresistibile slancio dell’Uomo prometeico, che rompe i limiti e ignora gli interdetti. Ma l’obiezione si spinge ancora più in là, perché, con l’esempio degli scienziati, è la maniera in cui propongo di associare i commons a una capacità di resistenza, di riappropriazione delle capacità di pensare e di agire insieme, che rischia di destare perplessità. La vulnerabilità degli scienziati alla grande narrazione di cui essi stessi erano gli eroi, che li rendeva il cervello collettivo dell’umanità, non dimostra forse che ripongo una fiducia eccessiva nell’intelligenza collettiva, quella che caratterizza i praticiens o gli utilizzatori? Certo, viviamo in un vero e proprio cimitero di pratiche e di saperi collettivi distrutti, ma questo è sufficiente per mantenere una visione idilliaca di quei 108

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commoners radunati da e attorno a un comune? Non vi sono riflessi corporativi che dovremmo temere? In breve, non sono forse caduta nell’illusione classica, denunciata senza posa dai marxisti, di una capacità di resistenza spontanea che non ha bisogno né di bussola né di teoria e alla quale si tratterebbe di affidarsi? L’obiezione è importante, ed è opportuno sottolineare che la prospettiva che tento di legare al tema delle enclosures – quella di un capitalismo che non si limita allo sfruttamento, ma che richiede e non smette di alimentare un’opera di distruzione – non significa affatto che quelli che ho chiamato praticiens o quelli che si sono voluti chiamare utilizzatori offrano in quanto tali una qualunque garanzia di affidabilità. Di fatto, chi volesse obiettare potrà fornire gli esempi più disastrosi. Per esempio, potrà essere evocata quella trappola che fu tesa ai lavoratori quando vennero associati ai “circoli di qualità”, in cui si trattava (già) di pensare insieme come ciascuno avrebbe potuto contribuire alla causa comune rappresentata dal bene dell’impresa. Oppure le ragioni per cui i sindacati che rappresentano i lavoratori del servizio pubblico diffidano di ogni alleanza con gli utilizzatori, temendo che questi potrebbero proporre delle “riforme” che disturberebbero, a detrimento dei lavoratori, rapporti di forza faticosamente stabiliti. In un altro ambito, si può anche pensare a certe associazioni di pazienti che sono divenute i migliori alleati di un’industria farmaceutica, reclamando che uno scarto rispetto alla norma (per esempio, l’iperattività) fosse riconosciuto come una “vera” malattia, per la quale la tale industria proponeva un farmaco. Ma soprattutto si può vedere profilarsi la questione più generale dello smantellamento del politico a profitto di una governance orientata dagli stakeholders, quelli che detengono un interesse (cioè, una parte) in una situazione. Non si sente forse, in sordina, malgrado le mie rassicurazioni, il grande ritornello degli stakeholders, credo ufficiale della Comunità europea, che recita: “che crepino gli altri, che scompaia l’insieme delle regole volte a evitare la cancellazione delle diseguaglianze, noi pretendiamo di poter far valere tutti i nostri vantaggi all’interno di una competizione ‘libera e non falsata’”? In breve, evocare i commoners, i praticiens o gli utilizzatori, le persone radunate da una “causa comune”, quelle che devono accordarsi attorno a ciò da cui tutte dipendono, per quanto in modi differenti, non costituisce un’operazione priva di pericoli. E il primo pericolo sta nell’evocarli come qualcosa che sarebbe fonte spontanea di alternative inedite, e permetterebbe così di resistere al sabotaggio capitalistico del 109

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futuro – si potrebbe persino arrivare a vedervi una nuova versione della contrapposizione affascinante tra il “paese reale”, perfettamente capace di prendere in mano il proprio avvenire, e la banda disparata degli attori che a esso confiscano il potere di agire e di autodeterminarsi. Ogni ingenuità, su questo fronte, sarebbe disastrosa. Nonostante ciò, bisogna comunque resistere all’“e dunque…” che segue troppo rapidamente la squalifica di chi annuncia la buona novella, la scoperta della capacità umana di autoorganizzarsi, risorsa nascosta che risolverà tutto. Giacché questo “e dunque…” scredita i tentativi sperimentali, sempre laboriosi, a volte sciagurati, che cercano di produrre effettivamente tale organizzazione. Tanto gli annunciatori della buona novella quanto gli scettici e gli inquieti, che argomentano a partire dalle derive pericolose alle quali simili tentativi sono vulnerabili, contribuiscono a indebolirli, come un ambiente malsano che infetta chi tenti di abitarlo. Avanzerei l’ipotesi che la questione dei commoners ha bisogno, un bisogno cruciale, di una versione particolare dell’arte di fare attenzione. Si tratta dell’arte di ciò che i Greci chiamavano il pharmakon, e che potremmo tradurre con “droga”. Ciò che caratterizza il pharmakon è al tempo stesso la sua efficacia e la sua assenza d’identità: può essere, a seconda del dosaggio e dell’utilizzo, tanto rimedio quanto veleno. La stessa cosa vale per l’attenzione che possono suscitare i movimenti di utilizzatori: il tipo di attenzione che ricevono da parte del loro ambiente è suscettibile tanto di nutrirli quanto di avvelenarli. E la stessa incertezza “farmacologica” riguarda anche ciò che questi stessi movimenti possono produrre. È chiaro, allora, che “potrebbero essere pericolosi” – ogni pharmakon può essere pericoloso. Ciò che si tratta di sospendere, riferendosi all’instabilità del pharmakon, rimedio o veleno, è il valore d’obiezione di un simile enunciato. Quando un responsabile urla – ed è da un simile grido che capiamo che si pensa responsabile – “ma potrebbe essere pericoloso!”, egli eredita, con questo “ma”, da una storia in cui sempre l’instabilità del pharmakon è stata utilizzata per condannarlo. Una storia in cui sempre è stato privilegiato ciò che presenta, o sembra presentare, le garanzie di un’identità stabile, che permette di evitare la questione dell’attenzione che è opportuno coltivare, dell’apprendimento delle dosi e delle preparazioni. Una storia in cui la questione dell’efficacia è stata sempre asservita, ricondotta a quella di cause capaci di spiegare i propri effetti. L’odio del pharmakon risale indietro nel tempo. Si può, se si vuole, 110

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ricondurlo a Platone, che, contro i propri rivali sofisti, capaci del meglio e del peggio, definì la filosofia tramite l’esigenza di una tale stabilità. Oppure al monoteismo cristiano, inventore di un Dio intrinsecamente buono. Oppure alla questione del potere di giudicare, che ha bisogno di fare astrazione delle circostanze. Oppure, ancora, alla passione per la ricerca del vero pretendente contro gli impostori, passione che nutre una certa sete di verità. La nostra storia è, in ogni caso, satura delle molteplici versioni di una stessa ossessione: quella di fare a meno del pharmakon, preferendogli qualunque cosa offra la garanzia di sfuggire alla sua detestabile ambiguità. Una simile pretesa non rappresenta forse essa stessa la seduzione di ciò che, suscitando l’imprudenza di un utilizzo privo di riserve, avrà l’efficacia di un veleno? Ritorniamo, da questo punto di vista, al contrasto tra la risposta che gli informatici hanno saputo dare all’operazione di enclosure che li minacciava e il risentimento passivo nutrito dalla maggior parte di quelli, tra gli scienziati, che non hanno ancora abbracciato la causa dell’economia della conoscenza. Contrasto che diviene peraltro più intrigante se si considera che il carattere cooperativo della ricerca scientifica è servito da riferimento per gli informatici. Come mai gli informatici sono riusciti non soltanto a difendere la propria capacità di cooperare, ma anche a pensare e inventare dei legami con gli utenti che, come me, contano ormai sulla possibilità di scaricare liberamente un programma che possa soddisfare le loro esigenze? E come mai, invece, gli scienziati hanno preferito legarsi allo Stato e all’industria e definire tutti gli altri attori come inadeguati (in quanto carenti di conoscenza e di razionalità), trovandosi di conseguenza, nel momento in cui i loro alleati hanno deciso di asservirli, nell’incapacità d’immaginare una possibilità di resistere? Pensare in termini farmacologici, qui, significa porre la domanda non dell’identità delle scienze, bensì della differenza tra gli ambienti di queste due pratiche – ambienti che non sono soltanto “esterni”, ma di cui fa parte il modo stesso in cui il praticien valuta i propri rapporti con essi. L’evento che ha costituito la “nascita delle scienze moderne” è, da questo punto di vista, significativo. Si trovano ancora oggi degli autori, talvolta anche interessanti, che vanno ripetendo certe sciocchezze: se l’Europa ha potuto svilupparsi come ha fatto, imponendosi soprattutto nei confronti della Cina, è perché essa avrebbe scoperto la potenza della razionalità scientifica e identificato, così, le leggi alle quali obbedisce la natura. Se questa operazione di propaganda, cominciata da Galileo, ha potuto avere un simile successo, al 111

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punto da infettare ancora oggi l’immaginazione tanto degli scienziati quanto dei non scienziati, è forse perché si tratta di una propaganda priva di un ideatore. La novità pratica che si poté associare alla prova sperimentale parve trovare un ambiente perfettamente pronto per offrirle questo tipo di eco. Per quanto i fatti detti “sperimentali”, capaci di testimoniare del modo in cui devono essere interpretati, siano rari, questa loro capacità fu in grado di riattivare l’antico odio verso il pharmakon, l’opinione instabile, le interpretazioni indecidibili. Ecco finalmente creato un rapporto razionale con il mondo! A fare evento, allora, non sarebbe stata tanto la novità della riuscita sperimentale, quanto il soddisfacimento di un’esigenza ben più antica, l’esigenza che una verità s’imponga, e cioè che sia capace di manifestare la sua differenza rispetto ai rivali. Non possiamo sorprenderci, allora, che il ritornello del “non è provato” abbia così facilmente finito per tradursi in un “non merita di essere preso in considerazione”, o che chi s’interessa a “ciò che non è provato” abbia finito per essere tacciato d’irrazionalità. Per contrasto, si potrebbe dire che la pratica degli informatici è stata posta sin dall’inizio sotto il segno della consapevolezza che ciò che essi andavano producendo sarebbe potuto essere tanto rimedio quanto veleno – e sotto il segno, soprattutto, di un possibile avvenire dominato dal Grande Fratello. La singolarità della storia delle innovazioni pratiche dell’informatica è un correlato di questo contrasto. Si tratta di un raro caso in cui le poste in gioco tecniche, culturali, sociali e politiche di una pratica si sono intimamente annodate. Un caso peraltro ancora più interessante dal momento che si tratta di una vicenda profondamente radicata nella storia dello sviluppo militare. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’informatica è da sempre legata alla guerra e che essa è oggi più che mai strumento di controllo, di repressione e di sfruttamento. Ma che essa non si trovi a non essere altro che questo lo dobbiamo forse alla particolarità dei suoi praticiens, che non hanno mai pensato la propria tecnica come innocente, che non hanno mai riservato alla responsabilità del politico la scelta di farne un uso buono o cattivo (si pensi alla celebre argomentazione utilizzata ritualmente dagli scienziati: è colpa di chi ha inventato l’ascia se questa è stata utilizzata per uccidere?). L’approccio farmacologico non permette di porre la domanda “di chi è la colpa?”, di procedere alla distribuzione della colpevolezza e dell’innocenza. Gli informatici che hanno saputo resistere non sono “migliori” degli scienziati che non ne sono stati capaci. Piuttosto, questo 112

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approccio propone di pensare par le milieu – attraverso l’ambiente. E il caso degli scienziati mostra come un ambiente ossessionato dal tentativo di stabilire una distinzione tra rimedio e veleno sia un ambiente esso stesso capace di avvelenare, di distruggere. Quanti tentativi sono stati squalificati perché non potevano offrire garanzie di un genere che nessuno dovrebbe sentirsi richiesto di offrire! Quanti giudizi brutali sono stati espressi nei confronti di qualcosa che, fragile e precario, domandava di essere nutrito e protetto! In ogni caso, il tempo delle garanzie è terminato – ecco il primo significato da riconoscere all’intrusione di Gaia. Il che non significa che, giunti a questo punto, ogni atteggiamento sia legittimo, dal sospiro rassegnato fino alle grida inorridite che ancora esprimono la ricerca di un qualche valore che permetta di denunciare i propri rivali come impostori. Piuttosto, significa che qualunque cosa a cui si attribuirà valore dovrà essere inizialmente definita come vulnerabile, e che saranno dunque vulnerabili per definizione le dinamiche di creazione dei saperi, delle lotte e delle esperienze che risponderanno all’intrusione – ciascuna di per sé insufficiente, e nondimeno importante per le sue eventuali ripercussioni, per le ulteriori creazioni che sarà capace di suscitare. Una risposta non è riducibile alla semplice espressione di una convinzione. Essa va fabbricata. Avrà successo o fallirà. Nessuna risposta deve attribuirsi una legittimità che trascende le circostanze, che domanda riconoscimento da parte di tutti, che sogna o esige che tutti l’accettino come determinante. Al tempo stesso, nessuna risposta può essere condannata in quanto sarebbe vulnerabile a una deriva pericolosa. L’arte del pharmakon propone al contrario a quelli che avanzano la diagnosi secondo cui qualcosa “potrebbe essere pericoloso” di riconoscere che l’obiezione li impegna, li rende parte integrante del processo di fabbricazione. Se essi intendono ignorare che ne sono parte integrante, vorrà dire che parteciperanno alla situazione nelle vesti del giudice e contribuiranno a dar luogo a un ambiente ostile o ironico. Tuttavia, potrebbero anche partecipare come alleati, con domande del tipo: “come possiamo contribuire a evitare questo pericolo?”; “come cooperare contro ciò che s’impegnerà per dar ragione alla nostra diagnosi?”; “come possiamo ‘fare ambiente’ in un modo che sia d’aiuto a ciò che si arrischia a esistere?” Una sola cosa è certa: il processo di creazione di possibili deve guardarsi con attenzione dalla modalità utopica, che fa appello al superamento dei conflitti, che propone un rimedio di cui ciascuno 113

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dovrebbe rispettare l’interesse. La sola generalità pertinente è che ogni creazione deve incorporare la consapevolezza di non starsi arrischiando in un mondo amico, bensì in un ambiente malsano, la consapevolezza di avere a che fare con dei protagonisti – lo Stato, il capitalismo, i professionisti… – che approfitteranno di ogni debolezza e che attiveranno tutti i processi suscettibili di avvelenarla (di “recuperarla”, come si dice), riconoscendo per esempio gli utilizzatori in una modalità che li trasforma in stakeholders, orchestrando situazioni che dividono quelli e quelle che cercano di cooperare, esigendo da loro garanzie fuori luogo, o fabbricando alternative infernali che smembrano qualcosa che tentava di creare un proprio posizionamento. L’ho già sottolineato, l’intrusione di Gaia perturba l’ordine delle temporalità. L’arte farmacologica è necessaria, allora, perché il tempo della lotta non può ormai rimandare al “poi”, quando non vi saranno più pericoli da temere, il momento in cui gli umani potranno dispiegare le proprie capacità creatrici – vita, pensiero e gioia – e coniugare i propri sforzi per il beneficio di tutti. Ma anche perché quelle e quelli che tentano di creare non possono farlo innocentemente, accusando chi lotta di voler “prendere il potere”, mentre loro avrebbero invece voltato le spalle a una simile ambizione. Il tempo della lotta e quello della creazione devono apprendere a coniugarsi senza confusione, passandosi il testimone, tramite prolungamenti e apprendimenti reciproci dell’arte di fare attenzione – consapevoli che l’alternativa è l’avvelenamento reciproco che aprirebbe il campo alla barbarie che viene.

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Pericolo di regresso?

Coniugare senza confusione lotta e creazione: suona bene, forse troppo. Il mio progetto, scrivendo questo saggio, non è di proporre delle prospettive che richiedano adesione, ma cercare di mettere in parole, e forse in pensiero, la maniera in cui ciò che ho chiamato l’“intrusione di Gaia” mette alla prova le nostre prospettive. Si tratta quindi di suscitare qualcosa di completamente diverso dall’adesione – qualcosa che cigoli, resista, protesti. D’altronde, è proprio per questo che vi è qualcosa dell’ordine della provocazione deliberata nella mia scelta di nominare Gaia, di designarla come una forma inedita, o dimenticata, di trascendenza. Si tratta di una provocazione che non mira a scandalizzare – da cui le mie precauzioni e le mie spiegazioni –, ma che nondimeno intende suscitare un minimo di perplessità o di fastidio. A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: se ciò che chiamo Gaia non domanda nulla, se non vuole essere adorato né pretende una conversione, perché dargli questo nome? Perché impiegare questo termine, “trascendenza”? A trovare espressione in questa perplessità o in questo fastidio è quella che potrebbe essere descritta come una “paura del regresso”, una paura tenace anche tra chi “non crede più al progresso”: vi sono cose, nell’eredità che riceviamo dal nostro passato, che non si possono rinnegare. Ma è qui che bisogna fare attenzione. Quella a cui risponde il rifiuto di rinnegare è la paura di essere in prima persona tentati di rinnegare, o è la paura che altri possano essere portati a rinnegare? In quest’ultimo caso, si tratterebbe di una questione completamente diversa. La distinzione che ho appena operato implica una prova a tutti gli effetti farmacologica. Temere “per gli altri” significa mantenersi nella posizione di “teste pensanti” dell’umanità, pensanti per e in nome di quanti sarebbero vulnerabili a tentazioni da cui si tratterebbe, dunque, di proteggerli. Ritornerò più tardi su questa paura velenosa, 115

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che si deve imparare a riconoscere e alla quale bisogna resistere. Per il momento, mi approccerò alla paura del regresso rivolgendomi alla perplessità dolorosa di chi si domanda se, nonostante le mie rassicurazioni, la mia non sia un’istigazione a tradire qualcosa a cui sarebbe invece opportuno rimanere fedeli. Non posso parlare per gli altri di ciò a cui sono fedeli. Parlerò dunque per me, che mi rifiuto di voltare le spalle a quel momento importante della storia europea che si è chiamato “l’epoca dei Lumi”, in cui si diffuse il gusto per il pensiero e l’immaginazione quali esercizi d’insubordinazione, in cui si forgiò un legame di tipo nuovo tra la vita e i possibili. Non intendo rinnegarli, questi Lumi, e non intendo avere nulla a che fare con quanti ne negano l’evento in virtù dei suoi limiti e delle sue ambiguità. Sono figlia dei Lumi, dunque. Ma chi si colloca come erede di un simile evento deve porre la questione di come ereditarne, e cioè, anche, di come evitare di diventarne i rentier – detentori di un privilegio acquisito su cui non è possibile ritornare, se non imboccando la strada del regresso. O, ancora, di come ereditare dal riso irriverente e dall’audacia che un Diderot riservava a quello “spirito scientifico” che si pretendeva anch’esso erede dei Lumi, ma nel nome del quale venivano messi a tacere gli insolenti. E soprattutto di come tradire, nel senso farmacologico del termine, ciò che i Lumi hanno onorato come rimedio per eccellenza contro l’umano errare: lo “spirito critico”. Non mi si fraintenda, non si tratta di contestare l’utilità della critica, né la sua necessità, quanto piuttosto la sua identificazione con un rimedio, vale a dire anche la sua trasformazione in un fine in sé – un fine che, tra tutti i popoli, farebbe di noi, eredi dei Lumi, i depositari di una singolarità eccezionale. È stata questa trasformazione a consacrare il grande genere epico che ha narrato le gesta di un Uomo che diviene adulto, prende in mano il proprio destino e taglia il giogo delle trascendenze illusorie. Così, l’avventura dei Lumi si è tramutata in una missione: lotta senza pietà contro i mostri che non cessano di spingerci verso il regresso e, contemporaneamente, mandato di “portare la luce” dove regna l’oscurità. Il mio intento, qui, è di far esitare le persone che si sentono impegnate in questa lotta – una lotta che, voglio sottolinearlo, non comporta grandi rischi nei nostri paesi, quelli che si dicono “moderni” e in cui è ormai estremamente raro che gli eroi della critica suscitino feroci levate di scudi da parte di quanti vedono le proprie illusioni minacciate. D’altronde, lo attesta il fatto che l’esercizio critico è divenuto il passatempo 116

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preferito degli universitari, non certo famosi per il loro coraggio, nonché un sentiero ben definito verso la carriera per le nuove reclute, le cui tesi di dottorato ancora s’impegnano per abbattere, nell’indifferenza e nella stanchezza generali, le credenze che sembrano dominarci. A testimonianza di ciò, si può anche richiamare l’eccitazione meschina con cui quelli che potremmo chiamare i “rentier dei Lumi” assumono pose eroiche quando le loro parole suscitano la collera o l’odio di qualcuno. Il nostro “diritto alla blasfemia” è in pericolo, si sente dire. Non è questione, evidentemente, qui, di difendere le reazioni d’odio, quanto piuttosto di sottolineare l’infamia di questo diritto che si suppone acquisito: bestemmiare non ha mai significato insultare le credenze degli altri lontani, ma quelle dei nostri vicini, talvolta persino le nostre, e cioè correre il rischio del rifiuto, dell’esclusione, della denuncia. Sarebbe facile dire che questo rischio di rifiuto è lo stesso che corro io di fronte a chi mi accuserebbe di favorire il regresso o d’incitare alla smobilitazione in un mondo in cui i nemici dei Lumi stanno rialzando nuovamente la testa. Ma non m’interessa sostenerlo, dal momento che qui mi rivolgo a chi immagino esitare, intento a domandarsi se rinnegare la potenza della critica, la sua capacità di distruggere l’illusione, non significhi privarsi della sola difesa di cui siamo provvisti in questo mondo pieno d’illusionisti. Invece è possibile condividere con chi esita la domanda che questa epoca c’impone – quest’epoca in cui è la possibilità del progresso stesso a trovarsi riposta sullo scaffale delle illusioni perdute. La barbarie che minaccia di definire il nostro futuro non risiede forse proprio in ciò che designa come illusione infine dissipata quanto ha fatto vivere e sperare quelle e quelli di cui non vogliamo rinnegare le lotte? E non ne abbiamo forse già oggi ben più che un assaggio, nel momento in cui la presa del capitalismo, per quanto esso si trovi spogliato dalle sue pretese di portare il progresso, è più forte che mai? In Stregoneria capitalista abbiamo scritto che «se davvero il capitalismo fosse messo in pericolo dalle denunce, sarebbe già crepato da un bel po’»1. Mi sentirei di aggiungere che nemmeno la barbarie teme la critica. Piuttosto, essa si nutre della distruzione di tutto ciò che, retroattivamente, apparirà come sogno, utopia, illusione, come qualcosa a cui la “realtà” impone di rinunciare. La barbarie trionfa quando tutto questo provoca risa o sospiri.

1

Pignarre, Stengers (2005, tr. it. 22).

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Nonostante ciò, il mio discorso sarebbe insufficiente se fosse recepito come un invito alla tolleranza, alla necessità di sospendere l’arma critica per consentire a una qualunque credenza arcaica o new age di nutrire la resistenza a questa “realtà”. Per questo motivo, è necessario spingersi un poco oltre e porre in questione l’immagine stessa dell’illusione in riferimento alla quale l’eredità dei Lumi si è costituita, che la caratterizza nei termini di qualcosa che oscura la luce, che ci separa dalla verità. Di quale verità si tratti, questo dipende dal portavoce di turno, ma in ogni caso vige la necessità imperiosa di dissipare le nubi, di “svelare”, “demistificare”, “non farsi ingannare”. Ciò che può colpire, quanto meno nei nostri paesi “moderni”, è la mancanza di resistenza, la quasi rassegnazione di quanti sono ritenuti rappresentare ciò che ci separa dalla verità. Come se essi stessi fossero consapevoli che la loro sconfitta è ineluttabile. Il solo grido che talvolta si leva è un pietoso “è troppo presto, non siamo pronti!”, come accadde in Belgio in occasione del dibattito sull’adozione da parte delle coppie omosessuali. La protesta del “non è possibile, non accadrà mai”, invece, suscita una curiosità un po’ voyeuristica, e il massimo del disonore è raggiunto quando i tradizionalisti si riducono ad avanzare argomentazioni di carattere psicologico per difendere le proprie convinzioni. Si tratta, qui, di pensare a partire dal fatto che la critica, lungi dall’essere il combattimento eroico che si vorrebbe, sembra avere ormai qualcosa di ridondante, come se non facesse altro che ratificare qualcosa che è accaduto prima di lei, che ha già operato, come se essa raddoppiasse un’operazione di distruzione precedente. È per questo, forse, che poco o nulla ricresce là dove un’illusione è stata distrutta – come se chi si vanta di questo successo si fosse limitato a strappare delle erbe già morte o morenti, uccise da un suolo avvelenato. Così, quando risuona l’eterno ritornello del “voi credete che questa cosa ‘esista veramente’, che abbia il potere d’imporsi su di noi, ma in realtà non è altro che una costruzione ‘sociale’”, non si avverte la sensazione di un possibile improvvisamente liberato. Tutto sembra essere stato detto – eppure nessun effetto pare seguirne. L’aggettivo “sociale”, di una generalità disperante, rimanda il più delle volte all’“arbitrario”, a qualcosa che sarebbe anche potuto andare altrimenti. Certo, ciò che è arbitrario è anche, di conseguenza, aperto al cambiamento – ma a che cambiamento? E soprattutto, “chi”, dal xix secolo, ha interesse che nulla resista al cambiamento? Che cos’è questa generalità, “tutto è ‘sociale’”, se non il risultato di una deliberata 118

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operazione di riduzione? Della distruzione, cioè, di qualcosa la cui rilevanza era irriducibile al registro della generalità, che reclamava non uno statuto eccezionale bensì la presa in considerazione della propria maniera specifica di divergere rispetto alla regola generale2? E ciò che chiamiamo “società”, allora, non si trova forse indifesa di fronte alle operazioni di ridefinizione eseguite dalle categorie statali e alla produzione di alternative infernali promossa dal capitalismo? Non nego che l’aggettivo “sociale” abbia potuto rivestire un significato eminentemente positivo e costruttivo nel momento in cui esso fu imposto da parte dal movimento operaio, quando questo stava imparando attivamente, sapientemente, a immischiarsi in ciò che non si riteneva dovesse riguardarlo, a creare dei rapporti di cooperazione, di solidarietà e di mutualità, a esplorare che cosa potesse significare un’educazione “popolare” e non “pubblica” (statale). Ma il fatto che oggi la critica possa raggiungere la tristezza del “non è altro che una costruzione sociale” segna la fine di questo momento intensamente “costruttivista”. L’aggettivo “sociale” si è svuotato quando l’ordine pubblico è stato ristabilito e lo Stato ha preso in mano ciò che era stato creato, sottomettendolo alle proprie categorie. E non sarà il lavoro immateriale, ritenuto immediatamente sociale, a restituire un significato positivo a questo aggettivo, che si trova oggi onorato proprio in quanto sarebbe astratto da tutto ciò che produce gli “attaccamenti” degli esseri umani, da ciò che crea dei rapporti non intercambiabili. Si può forse dire che la critica, che a un certo momento rappresentò senza dubbio un rimedio, si sia tramutata in veleno perché non ha saputo difendere la verità che è propria a ciò che è costruito, a ciò che “tiene”, a ciò che è fabbricato e pertanto possiede il potere di una “causa” che fa pensare, agire e sentire chi l’ha fabbricata3. E, forse, non ha saputo farlo per via del suo legame storico con la Scienza, con il suo riferimento al progresso scientifico che avrebbe sostituito

2 Bisogna qui intendere il divergere nel senso in cui, in La Vierge et le neutrino, ho potuto associarlo a un’ecologia delle pratiche individuate nella loro eterogeneità – un senso che è opportuno distinguere dalle prospettive di una qualunque gerarchia o contraddizione. La maniera specifica di divergere di una pratica, di un modo di vita o di un essere vivente designa ciò che loro importa, e questo in un senso non soggettivo, bensì costitutivo: se non riusciranno a fare importare ciò che importa per loro, ne risulteranno mutilati o distrutti. Cfr. Stengers (2006). 3 È ciò che Bruno Latour, anch’egli in lotta contro il (de)costruttivismo sociale, ha chiamato «fatticcio», rispondendo così all’antifeticismo che continua a denunciare chiunque attribuisca un’esistenza a ciò che invece non sarebbe altro che una costruzione. Si vedano Latour (1996) e i capitoli 4 e 9 di Latour (1999).

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alle credenze umane una verità corrosiva e che avrebbe espulso da questo mondo ciò di cui gli umani, raggiunta l’“epoca dei Lumi”, non sapevano più che farsi. Quando la critica comincia a celebrare come progresso della ragione la distruzione di ciò che offre attaccamenti, senza accettare che ciò che offre attaccamenti possa essere anche ciò che fa pensare, non lo fa forse seguendo proprio il sentiero della Scienza, che scopre la spiegazione sociale dietro le apparenze? Fino al momento in cui, da qualche decennio a questa parte, la critica ha cominciato a interessarsi alla Scienza stessa, scoprendo che anch’essa può essere assimilata a una forma d’illusione, a una “costruzione sociale” come le altre… Certo, la critica aveva le sue buone ragioni per compiere questa operazione, dal momento che gli scienziati si sono astenuti dal dire sempre “tutta la verità, solo la verità, nient’altro che la verità” su ciò che li rendeva dei praticiens. D’altronde, era la condizione perché i loro successi potessero essere presentati come “morali”, testimoni del progresso generale della ragione, ma anche perché i giudizi a tutto campo che la Scienza si trovava richiesti fossero accettati, riuscendo a separare ciò che dev’essere preso in considerazione da ciò che è solo soggettivo. Se le cosiddette science wars, alla fine del xx secolo, hanno visto alcuni scienziati denunciare, infuriati, la lettura critica delle scienze che veniva avanzata da certi studiosi, ciò è avvenuto perché erano loro stessi specialisti della materia. Sapevano che la critica liquidava i loro saperi, proprio come loro facevano con tutto ciò che “non è scientifico” bensì mera “costruzione sociale”. Tuttavia, anche questa guerra fa senza dubbio parte del passato. Con l’economia della conoscenza, la critica potrà operare serenamente in una ridondanza infinita. Per intere nuove generazioni di ricercatori “professionisti”, abituati ormai al mantra di “interessare l’industria”, l’idea stessa di una riuscita sperimentale che sia in grado d’imporre criteri di affidabilità più esigenti di quelli richiesti dai partner aziendali o dalla registrazione del brevetto apparirà senza dubbio come un’illusione romantica che appartiene al passato. Oggi, l’eroe dell’epopea critica è divenuto postmoderno. Svincolato dal suo riferimento alla Scienza, stabilita una volta per tutte la terribile relatività di ogni cosa, egli si trova a errare in una triste galleria di specchi. L’emancipazione sembra ridursi al compito interminabile – e, in quanto interminabile, apparentemente ancora più sacro – d’infrangere tutti gli specchi, ripetendo ogni volta il medesimo ritornello: “È costruito!” A meno di non voler postulare un nuovo ambito di sacralità 120

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(diritti umani, democrazia) capace, tramite la sua vuota astrazione, di sconfiggere la critica. Come si critica un postulato? La critica si trova ormai in una situazione di levitazione (uno stato di cose peraltro celebrato da alcuni come espressione di massima lucidità), essendo divenuta infine capace di assumere pienamente il dramma abissale della condizione umana. Supplico quanti potrebbero essere sedotti da questo canto di morte di pensare, con me, che questa radicalità un po’ “chic” ha qualcosa di osceno, come si trattasse di una dimostrazione per assurdo del fatto che la critica, lungi dal liberare nuove domande e nuovi possibili, insegue l’ombra di ciò che una volta era stato importante e aveva fatto vivere e pensare, e onora ciò che non riesce più a far vivere e pensare nessuno. Se la domanda che abbiamo di fronte, ormai, è quella relativa alle cause suscettibili di farci pensare, inventare e agire, di permetterci di ripopolare la nostra storia devastata, dobbiamo essere consapevoli sin da subito che esse saranno tutte vulnerabili all’attacco critico, quello che noi stessi abbiamo eseguito, come chimici pazzi che sottopongano alla corrosività dell’acido tutto ciò che si para loro innanzi per poi concludere: “Non resiste!” Invece, queste cause avranno bisogno dell’attenzione critica che l’arte del pharmakon propone; e allora non è più questione d’illusioni da vincere, ma si tratta piuttosto di sapere che ciò che può essere rimedio è tanto più suscettibile di divenire veleno quanto più viene utilizzato senza prudenza ed esperienza. Questa attenzione, allora, non ha nulla di epico, ed è anzi appartenuta a ogni epoca e a ogni tradizione. Mi sono rivolta, lo ricordo, a quelli e quelle per cui ciò che propongo potrebbe essere avvertito come una “terribile rinuncia”, il tradimento di ciò che è stato una volta il nostro bene più prezioso. Questo smarrimento rischia di essere accompagnato da un grido che dice: “questo significa aprire la porta a ogni sorta di mostro!” Ed ecco che la scena cambia, e a trovarsi in questione sono improvvisamente gli “altri”, vulnerabili alle più mostruose tra le tentazioni. Qui, di nuovo, si tratterà di nominare, per forzare a pensare. Nel nostro mondo detto “moderno”, il genere epico, quando il suo eroe si fa distruttore delle illusioni che sostengono il processo di emancipazione dell’umanità, può avere la conseguenza di conferire potere a ciò che chiamerò stupidità [bêtise].

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Stupidità

Così come Gaia non è riducibile a un oggetto di sapere, ciò che chiamo stupidità non è riducibile a una fragilità di carattere psicologico. Non si dirà che “la gente è stupida”, come se si trattasse di una tara o di una debolezza personale. La stupidità di cui parlo, piuttosto, è qualcosa che s’impadronisce di alcuni. E s’impadronisce in particolare di quanti si sentono in posizione di responsabilità, trasformandoli così in quelli che ho proposto di chiamare i “nostri responsabili”. Non è che i nostri responsabili, quelli che troviamo dappertutto, a ogni livello, siano “stupidi” nel senso che sarebbe sufficiente cacciarli, prendere il potere e mettere persone intelligenti al loro posto. E nemmeno intendo dire che ogni responsabile sia catturato dalla stupidità. Il tecnico responsabile del funzionamento di una rete informatica, per esempio, non lo è in maniera particolare, non in quanto tale. Come vuole il proverbio, è il cattivo artigiano che incolpa i propri strumenti, e la responsabilità, in questo caso, implica l’attenzione al possibile, la capacità d’immaginare l’imprevisto, una diffidenza da coltivare rispetto non alle situazioni bensì alle proprie routine. Al contrario, è verso di “noi” che i nostri responsabili sembrano mostrare diffidenza: ci considerano inaffidabili. “Inaffidabili”, tuttavia, è una parola troppo debole, se è vero che sembra implicare una situazione precisa, determinati compiti da svolgere o impegni da rispettare. I nostri responsabili, invece, ritengono di dover rispondere di noi alla maniera in cui un pastore deve rispondere di un gregge di fronte a colui che glielo ha dato in consegna. Si potrebbe pensare che, assimilando quelli che chiamo i nostri responsabili a dei pastori che devono rispondere del gregge ricevuto in affidamento, io stia associando la questione della stupidità al cosiddetto “potere pastorale”, quello di una guida che ha ricevuto il mandato di assicurare la salvezza delle persone che deve condurre. Direi che la stupidità è piuttosto ciò che rimane di questo potere quando 122

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non vi è più un mandato, o quando non ne resta che una versione impoverita, la quale mette in scena un’umanità recalcitrante, sempre pronta a lasciarsi sedurre, a seguire il primo ciarlatano, a lasciarsi ingannare dal primo demagogo. I nostri responsabili non sono dei pastori, poiché non ci guidano verso nulla; sono preda della stupidità, in quanto giudicano il mondo nei termini di pericolose tentazioni e seduzioni da cui si tratterebbe di proteggerci. Oggi, di fronte a un’intrusione di Gaia divenuta impossibile da ignorare, i nostri responsabili, come tutti, si trovano sospesi. Quasi si sente il “lo so bene, ma…” che riempie le loro teste, prendendo il posto del pensiero. In un certo senso, è una posizione nella quale ci troviamo tutti. Quella che, invece, non può essere considerata una reazione comune a qualcosa che risulta difficile da concepire, denuncia impotente di fronte a un evento che ci supera, è la risposta – quasi un grido – che puntualmente sentiamo opporre a certe proposte: “Ma questo significherebbe aprire la porta a…” Ascoltare questo grido significa fare attenzione alla differenza che corre tra la compassione eventuale per chi, trovandosi in una “posizione di responsabilità”, si senta superato dagli eventi, e la distanza che è necessario prendere da quelli che ho caratterizzato come i “nostri responsabili”. Questo grido è il grido della stupidità. Quando il “lo so bene, ma…” si associa al grido che invoca la “porta aperta” è inutile stare a discutere, perché non abbiamo a che fare con delle ragioni che si tratterebbe di ascoltare, ma con un essere catturato, stretto nella morsa di qualcosa che ha la capacità di squalificare qualunque ragione, il più delle volte adducendo un “ma sappiamo bene che…”1. Chi dice “sappiamo bene” non va preso per un idiota – quelli di cui la stupidità s’impadronisce non lo sono mai. Non deve ispirare disprezzo – piuttosto, terrore. Poiché ciò che lo fa reagire – anche se in cuor suo desidererebbe, magari, che il mondo fosse diverso, che la gente non fosse “così” – è dell’ordine di una forza con cui egli si scontra, e di una forza che, lo sentiamo, saprà nutrirsi di ogni sforzo di persuasione, di qualunque argomentazione a cui potremmo far ricorso2. La stupidità di cui parlo non ha a che

1 Distingueremo il “lo so bene, ma…” di chi si sente superato dagli eventi dal “ma sappiamo bene che…” di chi aspira all’autorità. 2 Nominare la stupidità significa riprendere in altro modo l’operazione che Philippe Pignarre e io abbiamo tentato in Stregoneria capitalista (Pignarre, Stengers 2005), quando abbiamo parlato delle «piccole mani», ossia quelle persone che non fanno semplicemente parte del “sistema”, come

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fare con lo stupore, con la paralisi, con l’impotenza  –  come quella, per esempio, che ci coglie quando un’argomentazione ottusa e cattiva ci stupisce, lasciandoci nella perplessità un po’ dolorosa di un “lo so bene, ma…” La stupidità di cui parlo è attiva, si nutre dei propri effetti, del modo in cui riesce a smembrare una situazione concreta e distruggere la capacità di pensare e d’immaginare di chi cercava maniere alternative di procedere, abbandonandolo all’idiozia o alla rabbia (finendo per confermare la diagnosi per la quale “vedete, questi vogliono solo la violenza!”). Mi sembra necessario, oggi, osare nominare la stupidità che s’impadronisce di quelli che il capitalismo investe della responsabilità di mantenere l’ordine pubblico. Mentre esso, peraltro  –  e questi responsabili “lo sanno bene, ma…” –, non cessa di perseguire, con atteggiamento irresponsabile, la creazione di nuove fonti di profitto. Non si tratta di accusare, come quando si denunciano complicità o corruzione. Accuse di questo genere suscitano l’idea che, se solo ci si potesse sbarazzare di questi venduti, tutto andrebbe bene – un’idea che fa il gioco di chi si presenta come portatore di salvezza, voce del popolo, della nazione… o della razza. E non fanno che rinforzare la necessità che i nostri responsabili associano alla propria missione  –  la convinzione, cioè, che quelli che li accusano “non contino nulla”. Quelli che sono presi dalla stupidità non meritano né accuse né indignazione. In effetti non meritano nulla: ciò che importa, piuttosto, è la forza che li sottomette alla propria presa. Questa presa si manifesta a tutti i livelli di responsabilità, e connette chiunque ne cada vittima, compresi quelli che sono estranei agli interessi diretti del capitalismo contemporaneo, e soprattutto quelli che sono stati catturati dal ritornello pedagogico del “che cosa fareste voi al nostro posto?” e vestono i panni dei “nostri responsabili” per procura. Gilles Deleuze, da cui ho ripreso questo concetto di «stupidità», ne faceva un problema nuovo, che s’imponeva nel xix secolo a chi interrogava l’errare del pensiero umano. Nel suo Abecedario, al momento

si usa dire, ma che vigilano sul suo funzionamento, non cessano di aggiustarne le articolazioni, di riparare le sue perdite, di estenderne la presa. Anche in quel caso, si trattava di diagnosticare una cattura e una presa, per la quale la piccola mano, quando dice “è pur necessario”, non lo dice più secondo la modalità di qualcosa che si subisce, bensì di un impegno che la farà ribellare contro quelli che insinuano che vi sarebbe un modo di fare o di pensare altrimenti. L’operazione di nominare costituisce sempre un rischio, e non si gioca a piacimento con le parole: pertanto, abbiamo dovuto riconoscere che, in francese, le piccole mani sono associate a un’immagine troppo simpatica (le petites mains dei grandi stilisti) per mutare così semplicemente d’impiego.

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di trattare la lettera «H comme Histoire de la philosophie», Deleuze intraprende una sorta di selvaggia galoppata. I filosofi del xvii secolo si preoccupavano, dice, dell’errore: come evitare l’errore? Nel xviii secolo, tuttavia, emerge un altro problema, quello dell’illusione, della vulnerabilità della mente a certe illusioni a cui essa aderisce, o che addirittura produce. Nel xix secolo, invece, è la stupidità a tormentare alcuni, come Nietzsche, o Flaubert, o Baudelaire, ad affascinarli e sconvolgerli. Che la questione della stupidità sorga nel xix secolo non significa che si scopra improvvisamente qualcosa che era stato precedentemente ignorato o frainteso. La stupidità è un fatto nuovo, così come è un fatto nuovo l’alleanza degli Stati moderni con il capitalismo. Ma il capitalismo non è suscettibile alla sua cattura, perché non vi è nulla a cui tema di aprire la porta. Esso vuole solo evitare, in quanto costituirebbe un “intralcio alle leggi del mercato”, ciò che potrebbe impedirgli di trovarsi al comando nel momento in cui si tratta di definire la maniera in cui i problemi devono essere posti. Piuttosto, la cattura della stupidità interessa quelli che, identificandosi come eredi dei Lumi, intendono vivere della rendita di una tale eredità, quelli che continuano la nobile lotta contro le illusioni e tuttavia (e questo fa una differenza decisiva) hanno abbandonato il senso dell’avventura in favore di una missione che li tramuta in pedagoghi. Quelli che hanno la missione di proteggere gli altri – quelli che sanno, mentre gli altri credono. Si tratta qui di pensare par le milieu, secondo l’espressione di Deleuze, cioè “nel mezzo”, senza scendere alle radici né risalire al senso ultimo, bensì nel corpo a corpo con un ambiente ormai saturo delle molteplici versioni di quel “loro credono, noi sappiamo” che fabbrica i nostri responsabili – quelli che sanno che, dietro la porta che non bisogna aprire, si accalca una massa temibile di credenze sempre pronte a invadere la scena3. In un modo o nell’altro, la rivendicazione dell’Imprenditore, che lo Stato assicuri i suoi investimenti, è parte della faccenda; ma qual è la gallina e quale l’uovo? Non si potrebbe ugualmente dire che lo Stato si è mostrato reattivo alle proposte dell’Imprenditore perché esse corrispondevano precisamente alla 3 È notevole il fatto che il grido della porta aperta sia lanciato solo raramente quando si tratta di un’innovazione sociotecnica – si parlerà, in quel caso, di un’offerta che deve incontrare i “bisogni” di una popolazione, salvo poi, magari, constatare in seguito che l’offerta aveva contribuito prepotentemente a far emergere il bisogno.

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concezione che esso stesso aveva delle proprie responsabilità, ovvero assicurare un progresso ordinato chiudendo la porta alle turbolenze irrazionali? In ogni caso, siamo alle prese con due protagonisti che sono il prodotto della loro stessa alleanza. Piuttosto che cercare d’identificare concettualmente questi due protagonisti e i loro ruoli rispettivi, pensare par le milieu, qui, vorrebbe dire produrre dei saperi che concorrano a fabbricare un’esperienza differente di questo milieu, a raccontare in modo diverso le nostre storie, e soprattutto ad apprendere a discernere il modo in cui la stupidità le ha avvelenate. Così, ma non si tratta che di un esempio, siamo oggi abituati a vedere degli scienziati assumere quale missione tra le più importanti e legittime il dare la caccia, nel nome della ragione, a quelli che essi denunciano come ciarlatani, impostori, ingannatori di un pubblico credulone, vulnerabile a tutte le seduzioni, suscettibile a ogni irrazionalità. Raccontare il modo in cui questo ruolo è stato assunto, in cui esso ha prodotto l’evidenza di una ragione scientifica in lotta contro l’opinione, significa anche raccontare il modo in cui la stupidità è stata capace di catturare l’avventura scientifica, contribuendo così a mettere il potere della prova al servizio dell’ordine pubblico. È ciò di cui mi sono resa conto studiando la vicenda delle scienze riunite dal re Luigi XVI nel 1784, appena prima della Rivoluzione francese, in una commissione d’inchiesta nominata per investigare le pratiche magnetiche del viennese Anton Mesmer4. Attorno al catino di Mesmer, riempito a sua detta di un fluido magnetico dalle proprietà curative, le donne svenivano e la folla si appassionava – una folla pericolosa per l’ordine pubblico, tramite la quale nel magnetismo finiva per risuonare l’affermazione dell’uguaglianza degli esseri umani, spogliati delle loro differenze di status al cospetto del fluido. La regina Maria Antonietta, si diceva, è suscettibile al fluido tanto quanto l’ultima delle sue cameriere. Per la prima volta, degli scienziati, tra cui i mastri sperimentatori Lavoisier e Franklin, si vedevano assegnato il ruolo di chi “si sente responsabile”: si sarebbero adoperati per trovare i mezzi per distruggere le pretese di questo ciarlatano. Per far ciò, avrebbero inventato un nuovo tipo di prova: non si sarebbe trattato di riuscire a dare un’interpretazione affidabile, in grado di resistere alle obiezioni, delle crisi e delle guarigioni che Mesmer attribuiva al fluido, bensì di aggrapparsi alla

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Cfr. Chertok, Stengers (1989).

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sola domanda: “Il fluido di Mesmer esiste veramente?” Domanda che per loro significava: ha degli effetti indipendentemente dall’immaginazione – indipendentemente, nel caso specifico, dal sapere di esser stati magnetizzati? In altre parole, i commissari si trovavano lì per squalificare, ed è ciò che avrebbero fatto grazie a una serie di messe in scena al centro delle quali non si trovava più la guarigione, ma l’inganno. Sarà sufficiente trarre in inganno dei soggetti, grazie all’aiuto di un complice che vesta gli abiti del magnetizzatore, per poter concludere: l’immaginazione è capace di produrre gli effetti che sono attribuiti al fluido, mentre il fluido, senza l’immaginazione, è privo di effetti. Mesmer non è altro che un ciarlatano. Certo, gli effetti prodotti dall’immaginazione della persona ingannata, che si pensava magnetizzata, non avevano granché a che vedere con gli effetti curativi osservabili attorno al catino. E allora bisognerebbe scrivere che, più che illuminarne il mistero, l’immaginazione era individuata come ciò che deve poterli spiegare – che non ha nulla a che vedere con l’evento della prova sperimentale. Per di più, i commissari non si azzardavano a definire il potere dell’immaginazione, né consideravano l’ipotesi che il fluido, per essere efficace, potesse doversi rivolgere all’immaginazione. Queste obiezioni, come molte altre, furono prodotte già all’epoca, ma invano, poiché la commissione non s’interessava alle pratiche terapeutiche di Mesmer, quanto alla loro pretesa di conferire al fluido il potere di spiegare le guarigioni che esso otteneva. Si tratta di pretese che hanno permesso di sottoporre la sua pratica a una prova imposta in maniera unilaterale, una prova che assomiglia a una sperimentazione ma che non ambisce a una riuscita, bensì solo al potere di giudicare. L’atteggiamento inaugurato dai commissari, da allora divenuto rappresentativo dello spirito critico proprio della Scienza, è fatto per uccidere, per segnare un punto d’arresto all’interno di una vicenda giudicata irrazionale. Ed esso si ripete ogni volta che uno scienziato conclude, di fronte a qualcosa che egli ritiene a rischio di suscitare un interesse inappropriato: “Questo deve potersi spiegare con…” La spiegazione di un fenomeno non corrisponde più a una riuscita sperimentale necessariamente rara, bensì a un giudizio che manifesta il potere della ragione di dissipare l’illusione. Nell’accettare l’offerta del potere, nel mettere la propria scienza al servizio dell’ordine pubblico, i commissari “sapevano bene” dell’abisso che separa il “questo deve potersi spiegare con…” – in questo caso, sempre con una causa generale, capace di svuotare di ogni interesse 127

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ciò che essa spiega  –  dall’evento della riuscita sperimentale: “Ecco una spiegazione!” Sapevano bene, ma ammetterlo avrebbe significato aprire la porta alla folla di quanti aderivano ciecamente all’autorità di quell’illusionista di Mesmer. Non lasciamoci ingannare, però: i commissari hanno effettivamente prodotto qualcosa che è dell’ordine dell’invenzione. Ciò che hanno inventato, tuttavia, accettando di contare tra i nostri responsabili, è il potere di smembrare, in nome della Scienza, una domanda concreta – cosa succede attorno al catino mesmeriano? –, per ridefinirla nei termini di categorie che li autorizzino a concludere: “Circolare, non c’è nulla da vedere!” Questo caso rende evidente quanto sia importante sottolineare che la presa della stupidità non fa di quelli che le si mostrano vulnerabili (in quanto “si sentono responsabili”) degli “sciocchi” o degli “ingenui”. Quando si dice di una considerazione che essa è “stupida e meschina”, infatti, le si attribuisce una notevole efficacia – un’efficacia distruttiva, capace di produrre la paralisi del pensiero in chi la subisce. Rendere percepibile il potere della stupidità, allora, non significa soltanto rendere percepibile il modo in cui essa anestetizza quelli di cui s’impadronisce, impedendo loro di lasciarsi toccare da ciò che, in una situazione data, può richiedere di essere avvicinato, sentito, pensato. Significa anche rendere percepibile come essa comandi loro d’inventare i mezzi per sottoporre tale situazione a esigenze a cui essa non è in grado di rispondere. Poiché l’importante, per loro, non è la situazione, ma ciò che si agita dietro la porta, la temibile massa informe delle illusioni che non attendono altro che l’occasione per invadere la scena.

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Apprendere

I membri della commissione avrebbero potuto ribattere: “Ma cosa avreste fatto voi al nostro posto?” Al che, una sola risposta è possibile, forse poco educata, ma sana: “Noi non ci troviamo al vostro posto”. Rifiutarsi di mettersi al loro posto, in effetti, significa rifiutare l’anonimato rivendicato da quanti “si sentono responsabili”. È questo il genere opportuno di risposta, per esempio, quando sembra che il rifiuto degli ogm metta i nostri responsabili in una situazione difficile di fronte alle regole dell’omc: “Se avete rinunciato alla possibilità d’impedire la coltivazione degli ogm sul suolo europeo, e ora avete dei conti aperti coi vostri padroni dell’omc, avete agito senza mandato”. Così come è senza un mandato che, oggi, i nostri responsabili tentano d’imporre ai paesi africani una liberalizzazione degli scambi e un’espansione dei diritti di proprietà intellettuale che porteranno a termine la rovina di quei paesi. Ed è senza un mandato che hanno definito i limiti dell’azione politica, sottomessa ormai integralmente a quelle che chiamano le leggi del mercato. Il che, concretamente, significa che tra le cose che il capitalismo è in grado di far fare ai nostri responsabili vi è ormai anche assicurare la nostra sottomissione. Come metterci “al loro posto” se a questo punto, tra le illusioni che si affollano dietro la porta che bisogna tenere chiusa, si trova anche l’idea che tentare di pensare l’avvenire collettivo sia un diritto legittimo? Nominare la stupidità al fine di renderla percepibile, per far sentire come accettare d’immaginarsi “al posto di…” significhi esporsi alla sua presa, è oggi ancora più importante, dal momento che si tratta di prepararsi a resistere agli appelli all’unità che andranno moltiplicandosi di fronte alla “sfida del riscaldamento globale”. Tuttavia, nominarla non è una cosa buona in sé. Anche in questo caso, è necessaria l’arte del pharmakon. In quanto rimedio, l’operazione può certamente contribuire a scoraggiare i nostri responsabili, i quali, per mantenere alto il morale, hanno bisogno che “ci si metta al loro 129

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posto”, vale a dire che ci si lasci infettare dalla stupidità che li ha catturati. Ma ogni rimedio è suscettibile di avvelenare. Se il rifiuto degli ogm ha costituito un evento, non è solo perché ha reso percepibile l’imbarazzo dei nostri responsabili, ma anche perché, in quel caso, hanno saputo farsi ascoltare dei saperi minori, capaci di fabbricare un paesaggio completamente diverso da quello degli esperti. La porta è stata aperta, in effetti, ma sulla molteplicità delle domande che erano state silenziate dalla parola d’ordine del “bisogna modernizzare l’agricoltura”. Di nuovo, non è in termini generali – generali come quelli, loro sì, che connettono l’impero degli ogm, cioè quello dell’agricoltura industriale, a una serie di catastrofi che, in maniera quasi programmata, sembrano attenderci nel prossimo futuro – che si potranno definire i bisogni di un’agricoltura “differente”, capace di comporre con Gaia, ma anche cessare di avvelenare la Terra concreta e i suoi molti e diversi abitanti, nutrendo, al tempo stesso, bocche umane sempre più numerose. Non che si tratti di un fine impossibile, ma le ipotesi devono essere formulate caso per caso, regione per regione, e soprattutto in un modo che sappia conferire un ruolo cruciale ai saperi delle popolazioni interessate. Il veleno, qui, starebbe nel sottostimare la sfida rappresentata dall’apprendimento, anch’esso caso per caso, di ciò che tutto questo richiederà – un apprendimento che dovrà evitare il riferimento a una volontà generale ricca di buone intenzioni. Le connessioni sono tutte da creare, sempre precarie, mai acquisite una volta per tutte. Se ritorniamo alla vicenda di Mesmer, che mi ha permesso d’illustrare il tema della stupidità, ritroviamo la medesima situazione. Minoritario all’interno della commissione, il naturalista Jussieu aveva sottolineato la necessità di uno studio accurato delle pratiche di quella che chiamava la “medicina del toccamento”, tra cui pensava rientrasse, malgrado le sue pretese “rivoluzionarie”, il magnetismo mesmeriano. Ascoltare l’appello di Jussieu, studiare le pratiche terapeutiche tradizionali dei guaritori di campagna invece di sottometterle a criteri stabiliti da giudici indifferenti, quando non ostili, e in ogni caso ben decisi a far valere il diritto d’indagine che è proprio della “Scienza”, avrebbe significato apprendere a lavorare con dei guaritori. Vale a dire, con dei praticiens non diplomati che, a differenza di Mesmer, non si sarebbero presentati come scopritori, bensì, nella maggior parte dei casi, come depositari di un sapere tramandato o di un dono. A questo fine, si sarebbe dovuto impedire che a prevalere fosse la grande separazione tra “quelli che credono” e “quelli che sanno”, e ricono130

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scere i guaritori come coloro da – e con – cui si tratta di apprendere. Galileo ebbe, dice la leggenda, il coraggio di mormorare “eppur si muove”, quando si trovò condannato ad abiurare. Ma a condannarlo non erano i suoi colleghi scienziati. Affermare, a proposito di praticiens dai riferimenti poco convenzionali, “eppur guariscono”, di fronte a dei colleghi scandalizzati, richiede un coraggio più grande  –  quel tipo di coraggio che i ricercatori non solo non coltivano, ma di cui sono attivamente incitati a diffidare (“questo significherebbe aprire la porta a…”). Esiste davvero, allora, qualcosa che si agita dietro quella porta che i nostri responsabili hanno il compito di mantenere chiusa, un affollarsi di apprendimenti da incominciare, talvolta dolorosi e sempre difficili, perché irriducibili a un qualunque buon senso di ordine generale. È a questo affollamento che penso quando mi riferisco alla maniera in cui Gilles Deleuze caratterizzava la differenza tra la sinistra e la destra – una differenza di natura, sottolineava, e non di convinzioni, poiché la sinistra (in un senso, qui, che i partiti cosiddetti di sinistra non cessano di tradire) ha bisogno, un bisogno vitale, che le persone pensino, e che immaginino, sentano, formulino le proprie domande e le proprie esigenze, che determinino le incognite della propria situazione1. Le istituzioni statali non possono che deludere un tale bisogno. Mi limiterò, qui, all’esempio della scuola, quando si trova dominata dall’imperativo statale di una “verifica delle conoscenze acquisite” capace di assicurare che “chiunque” abbia raggiunto una certa tappa sia in grado di fornire risposte comparabili alle stesse domande, di rispondere alle stesse esigenze. Sappiamo bene cosa producono verifiche di questo genere, le quali, lungi dall’essere un semplice elemento del dispositivo scolastico, ne costituiscono oggi l’anima stessa: la verifica cattura tutto ciò che la precede e definisce la trasmissione dei saperi (un’espressione ingiustamente criticata) come passaggio da una supposta ignoranza a un sapere definito integralmente dalle sue condizioni di verificabilità2. Il che rende la scuola, posta ufficialmente sotto il segno dell’uguaglianza, una produttrice sistematica di diseguaglianze – diseguaglianze peraltro generalmente ratificate dagli interessati stessi. Pensiamo, per esempio, alla triste rivendicazione delle

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Cfr. Deleuze (1990, tr. it. 168-170). Cfr. Roux (2007).

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“pari opportunità”. Che cosa rappresenta una tale rivendicazione se non l’astrazione di un “chiunque” appartenente a un insieme di persone che si vedono offerta la “stessa” chance di tutti gli altri, un po’ come un biglietto della lotteria ha la stessa probabilità di tutti gli altri di risultare vincente? Con la differenza che questa rivendicazione implica che chiunque non abbia saputo cogliere le opportunità che gli erano state offerte veda scaricata su di sé la responsabilità per il proprio destino. Oggi, la differenza di natura tra apprendere a porre le proprie domande e sottomettersi alle domande provenienti da altrove assume un significato drammaticamente concreto: è da questa differenza che potrebbe dipendere la possibilità di risposte all’intrusione di Gaia che non siano barbare. Le risposte che si tratterà d’inventare, infatti, non riguarderanno domande preconfezionate, indirizzate a “chiunque”. Saranno risposte sempre locali – di un “locale” che non significa “piccolo”, ma che si contrappone a “generale” o “consensuale”. Quanto alla “gente” che è vitale pensi, non si tratta di quegli “altri” – altri inaffidabili, vulnerabili all’irrazionalità – di cui parlano i nostri responsabili, senza mai includersi tra i loro ranghi. Apprendere a pensare, a porre le proprie domande, a situarsi sfuggendo all’evidenza dei “chiunque”, è una capacità che non si acquisisce mai in maniera permanente, e che non ambisce a definire un’élite contro il gregge dei sottomessi. Le cose che si possono acquisire, casomai, sono il gusto e la fiducia. E chi li acquisisce, oggi, è consapevole della propria fortuna, ed è in grado di raccontare l’incontro o l’evento a cui deve questa esperienza della quale la scuola e i media gli avevano fatto ignorare la possibilità: non “io penso”, ma “qualcosa mi fa pensare”. Imparare a riconoscere e nominare la stupidità è dunque importante, ma non dev’essere considerato come un fine a sé stante. Si tratta, piuttosto, di una condizione per altro, di una diagnosi attiva sui nostri ambienti, ambienti che rendono non impossibile ma comunque eccezionale (un’élite, non “la gente” o “le persone”) l’apprendimento di quell’esperienza che Deleuze chiama “pensiero”. Diagnosi eminentemente politica, poiché è con questi ambienti che hanno a che fare anche quanti s’impegnano a sperimentare cosa significhi “pensare” in un senso che sia rilevante dal punto di vista politico, cioè in un senso collettivo, gli uni con gli altri, gli uni per gli altri, attorno a una situazione divenuta causa comune che fa pensare. Si tratta di diagnosticare il carattere malsano di ambienti in cui sperimentazioni di questo genere si troverebbero smembrate, sottomesse a regolamentazioni cieche 132

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alle proprie conseguenze, costrette a rispondere ben oltre le proprie responsabilità, distrutte. Ma anche, eventualmente, indebitamente glorificate come “la” soluzione da quanti si affretteranno subito dopo a condannarle qualora non dovessero mantenere le promesse di cui essi stessi le avevano investite. Nel nostro mondo bisogna diffidare dei nemici, certamente, ma anche degli amici, sempre pronti a essere “delusi”. Tuttavia, bisogna anche aver fiducia nel fatto che, a costruirne in maniera appropriata l’occasione, le persone possano diventare capaci di (ri)apprendere il gusto del pensiero. Cioè, di scoprire che ciò che le disgustava, ciò di cui si sentivano incapaci, non era il pensiero, che è indissociabile da un’esperienza pratica concreta, bensì l’esercizio, in effetti piuttosto ripugnante, di un’astrazione teorica che richiede la riduzione ad aneddoto di ciò che si sa e di ciò che si vive. Utopia, si dirà. Tuttavia chi lo dice ci condanna alla barbarie. E alla barbarie ci condannano anche le narrazioni e i ragionamenti, nei quali letteralmente anneghiamo, che illustrano o danno per scontata la passività delle persone, il loro pretendere soluzioni preconfezionate o la loro tendenza a seguire il primo demagogo che passa. Non c’è da stupirsi: si tratta precisamente di ciò che permette e rinforza la presa della stupidità. Abbiamo disperatamente bisogno di altre storie – non dei racconti fiabeschi in cui tutto è possibile ai cuori puri, alle anime coraggiose o ai volenterosi, bensì di storie che raccontino come le situazioni possono essere trasformate quando quelli che le subiscono riescono a pensare insieme. Non di storie morali, ma di storie “tecniche” che raccontino questo genere di riuscita, di trappole a cui si è stati capaci di sfuggire, di vincoli di cui si è riconosciuta l’importanza. In breve, di storie che ci presentino il pensare insieme come opera da realizzare. E abbiamo bisogno che queste storie affermino la loro pluralità, poiché non si tratta di costruire un modello, ma un’esperienza pratica; non si tratta di convertirci, ma di ripopolare il deserto devastato delle nostre immaginazioni. L’accusa di utopia si fonda non su un’effettiva rarità di questi casi, ma sulla scarsità delle narrazioni, o sulla loro “esotizzazione”. Così, per affermare che non vi sarebbe nulla da apprendere dalle pratiche “non moderne” di riunione attorno a temi capaci di dividere, è sufficiente qualificare il complesso delle società che coltivano tale genere di pratiche come “organiche” (o “chiuse”, “stabili”, “fondate sull’adesione ai valori comuni”…). In questo modo, si è detto tutto – soprattutto, si è detto che interessarsi a quelle persone equivarrebbe a perseguire un ideale illusorio, se non addirittura regressivo. 133

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Eppure sappiamo che anche nelle nostre società cosiddette “moderne” esistono modalità di riunione che suscitano la capacità di fare cose di cui “le persone” sono ritenute incapaci. Se non vogliamo parlare delle pratiche scientifiche – quando sono vive, quando “obiettano” – pensiamo, per esempio, alla maniera in cui dei cittadini scelti a caso divengono capaci, senza che nulla li prepari, di partecipare in maniera efficace alla giuria di un tribunale – se non altro, perché la loro presenza vigile impedisce la connivenza tra i professionisti, sabotando i “sappiamo bene” che li legano. Non c’è da stupirsi che i professionisti rinnovino periodicamente il sogno di riunirsi esclusivamente tra propri pari. Parlano dell’incompetenza dei giurati, ma in realtà a disturbarli è soprattutto il fatto che il ruolo di cui questi ultimi sono investiti e il tipo di fiducia che esso implica abbiano il potere di suscitare la capacità di pensare, di obiettare, di formulare domande  –  di suscitare, cioè, tutto ciò che viene negato quando si dice che “le persone non sono capaci”. E le esperienze delle “giurie di cittadini”, riunite per discutere innovazioni tecnico-industriali, offrono lo stesso esempio di lucidità, quando non sono “truccate”, cioè riunite attorno a domande preconfezionate, o “animate” da professionisti della comunicazione le cui tecniche s’indirizzano sempre a gruppi che sono ritenuti incapaci di funzionare senza un “inquadramento”. In questi due casi, vediamo delle persone “qualunque” apprendere a orientarsi in una situazione complicata e conflittuale: i protagonisti della situazione sono costretti a produrla in una maniera che consenta loro di prendere posizione, perché il dispositivo che li riunisce ha permesso a questa situazione di essere “drammatizzata”, dispiegata nelle sue componenti divergenti, indecise e conflittuali. Nel caso delle “giurie di cittadini” la drammatizzazione è ancora più notevole, in quanto non si tratta della ripetizione di qualcosa che è stato prodotto in fase istruttoria: è all’istruzione stessa della questione che la giuria lavora, forzando il confronto tra esperti che d’abitudine s’ignorerebbero a vicenda, ponendo domande che portano dove questi esperti non vogliono andare, interessandosi a conseguenze che sono state ignorate o squalificate, oppure “esternalizzate”, cioè ritenute riguardare altri protagonisti, assenti dalla scena. Non può stupire che l’istituzione delle giurie di cittadini abbia, nel nostro mondo, una portata solo molto limitata, e che le forme di consultazione pubblica, molto alla moda, siano state di fatto ridotte, nella maggior parte dei casi, a operazioni cosmetiche prive di conseguenze. Lo abbiamo visto, gli Imprenditori esigono che la misura 134

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in cui – se proprio non potranno evitarlo – dovranno rispondere delle proprie azioni sia predeterminata. Come potrebbero accettare un’istituzione in cui delle “persone” producono resoconti aperti e apprendono a interrogare la maniera in cui i problemi vengono formattati, e dunque anche il criterio di distribuzione che presiede alla formattazione (ciò che lo Stato lascia fare al capitalismo, e ciò che il capitalismo fa fare allo Stato)? Ma è precisamente perché si tratta di un’istituzione in cui una simile distribuzione perde ogni evidenza consensuale che le giurie di cittadini sono importanti. Non solo perché hanno la capacità di rendere percepibile la stupidità di quelli che si presentano di fronte a esse come “responsabili”, di mostrare pubblicamente l’arroganza, l’ingenuità, la cecità di alcuni esperti, ma soprattutto in quanto sono, o potrebbero essere, produttrici di quel tipo di narrazioni di cui abbiamo disperatamente bisogno: narrazioni che conferiscono a chi le ascolta il gusto per ciò che le ha prodotte. Sì, una situazione può diventare interessante, degna di far pensare e capace di suscitare il gusto del pensiero, se è prodotta tramite un processo di apprendimento concreto, in cui le difficoltà, le esitazioni, le scelte arrischiate e gli errori fanno parte del racconto tanto quanto le riuscite e i successi.

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Operatori

Non illudiamoci. Se non faremo attenzione, il sentiero aperto dall’esempio delle giurie, quelle di cittadini come quelle di tribunale, potrebbe riportarci a ciò che si tratta di evitare: al contrasto tra, da un lato, esperti e professionisti ciechi e ottusi, e, dall’altro, un gruppo di cittadini provvisti di buona volontà capaci di provare che, quando venga loro concessa l’occasione, “le persone” sono capaci di pensare. Arrestarsi a un simile contrasto significherebbe accettare una contrapposizione frontale con i nostri responsabili e tutti i loro alleati, soprattutto quelli che sono già pronti a moltiplicare gli esempi a loro avviso in grado di testimoniare della “servitù volontaria”, di provare che “le persone” non attendono altro che di seguire il primo demagogo… La contrapposizione frontale è una tentazione da evitare, in quanto svuota il mondo, lasciando sussistere soltanto due campi mascolinamente opposti, capaci di funzionare solo l’uno in riferimento all’altro. Così facendo, essa nutre la stupidità, perché accetta di domandarsi se “le persone siano o meno capaci di…” Si tratta di domande astratte che non conducono da nessuna parte – salvo forse alla scuola e alle sue operazioni di verifica (“vediamo se sono capaci”). Da parte mia, non ho mai incontrato “le persone”, ma sempre delle persone o dei gruppi, e sempre in circostanze che non sono soltanto un “contesto”, ma che sono a tutti gli effetti attive, operanti. A interessarmi, allora, è l’ipotesi secondo cui l’esempio delle giurie, che siano di tribunale o di cittadini, non manifesta l’uguaglianza degli esseri umani di fronte al compito del pensiero, bensì l’efficacia di un dispositivo che costruisce le condizioni per l’uguaglianza. Per continuare con l’esempio della scuola, è significativo che l’efficacia del dispositivo “giuria” dipenda dall’esclusione deliberata di tutto ciò che potrebbe concorrere a inscenare una situazione di tipo scolastico, dove si viene ritenuti ignoranti, bisognosi di apprendere, prima di essere autorizzati a pensare, in un rapporto di perenne dipendenza con quelli che “ne sanno di più”. 136

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È cruciale sottolineare che l’idea di non presupporre l’ignoranza non ha nulla di demagogico. Il fatto di evitare la ripetizione di una situazione di tipo scolastico, cioè evitare anche di riattivare i “non ci capisco nulla” che regolarmente si producono a scuola, gioca un ruolo attivo all’interno del dispositivo. In effetti, il fatto che si debba seguire passivamente un corso d’ingegneria genetica prima di poter discutere di ogm non darà mai luogo a una situazione in cui questa innovazione potrà essere pensata. Le domande che contano verranno sempre dopo, e questo “dopo”, quando infine arriverà, non sarà stato preparato dalla lezione pedagogica – casomai, ne sarà stato catturato. Gli ogm saranno stati presentati inizialmente come conseguenza del “progresso delle conoscenze”, e la differenza tra l’ogm di ricerca (accuratamente sterilizzato, perché bisogna procedere con semplicità) e l’ogm di Monsanto non sarà evocata, se non eventualmente alla fine. Evitare le situazioni produttrici di diseguaglianze non è sufficiente, così come non sono per la maggior parte sufficienti quei protocolli di riunione cosiddetti “egualitari” che fanno dell’uguaglianza un’ingiunzione astratta, pretendendo di fare tabula rasa di tutti quei processi che concorrono a trasformare delle differenze in diseguaglianze. È questo il caso, per esempio, delle assemblee in cui “tutti hanno il diritto di esprimersi”. Noia, autocensura, timore, sentimento d’impotenza di fronte alle lingue lunghe e ai chiacchieroni impenitenti, domande che finiscono sempre per impantanarsi in conflitti e rivalità personali, desiderio sornione che qualcuno “prenda le cose in mano”, progressivo fuggi fuggi, compromessi stanchi e noiosi… è inutile proseguire nell’elenco, si tratta di un’esperienza ben nota a tutti quanti. Se le giurie di cittadini sono suscettibili di sfuggire a questo veleno, così come lo sono le giurie di tribunale, ciò sembra avvenire nella misura in cui il dispositivo riesce a radunare i partecipanti attorno a una “causa comune”, nella misura in cui esso, cioè, riesce a conferire a tale causa il potere di “mettere in uguaglianza” le persone che raduna. Ma questa causa non può essere l’uguaglianza stessa, o qualunque altra cosa che si ritiene trascenda le particolarità ed esiga eguale sottomissione da parte di tutti. L’uguaglianza è anch’essa un pharmakon, e può diventare veleno qualora venga associata non a un processo di produzione ma a un imperativo – e soprattutto, com’è spesso il caso, a un imperativo che seleziona sempre un certo numero di portavoce privilegiati. Una causa comune dotata del potere di mettere in uguaglianza quelli che raduna non può avere dei portavoce. Essa costituisce, piuttosto, una domanda, e una domanda la cui risposta dipende da quelle e quelli 137

che saprà radunare, senza che nessuno tra loro possa impadronirsene. O, più precisamente, una domanda la cui risposta sarà sbagliata se qualcuna tra le persone radunate se ne approprierà. È questo tipo di situazione, che definirei “questionante1”, che, quando ha successo, produce l’uguaglianza, vale a dire la capacità di “semplici cittadini” di prender parte a delle giurie. È essa a tramutare quella che si presenta come risposta esperta, produttrice di autorità, in un contributo di cui bisogna interrogare la portata, evidenziando ciò a cui attribuisce rilevanza e ciò che lascia nell’ombra. Guai all’esperto, allora, che venga colto a giudicare ciò che esula dalla sua competenza come privo d’importanza, destinato alla scomparsa o semplice prezzo da pagare per il progresso. È perché sono riunite da una situazione questionante che le giurie di cittadini possono dimostrarsi macchine formidabili nel far balbettare gli esperti, o nel valutare l’affidabilità dell’expertise su cui si fonda ciò che viene sottoposto alla loro attenzione. Oggi, si potrebbe dire che l’intrusione di Gaia produce una situazione questionante di questo tipo, nella misura in cui pone in questione l’insieme delle nostre storie e delle nostre prese di posizione – quelle che rassicurano, quelle che promettono, quelle che criticano. Tuttavia il potere di questa situazione è nullo se non si attualizza in dispositivi concreti capaci di radunare le persone attorno a situazioni concrete. Di nuovo, di generale vi è solo il carattere farmacologico della situazione. Abbiamo bisogno, terribilmente bisogno, di sperimentare dispositivi di questo genere, di apprendere ciò che essi richiedono, di raccontarne i successi, i fallimenti e le derive pericolose. E questa cultura del dispositivo non può essere costruita se non all’interno di tempi e domande reali, non in “luoghi sperimentali” protetti, poiché quello che si tratta di apprendere è precisamente ciò a cui questi luoghi, in quanto protetti, rinunciano: come “tenere” all’interno di un ambiente che, avvelenato dalla stupidità, si trova al contempo a essere terreno di caccia per i predatori della libera impresa? E come farlo senza richiudersi su se stessi, senza fabbricare un “bel piccolo mondo” che, per definizione, si tramuterebbe in uno stakeholder, intento a difendere i propri interessi a discapito del “resto” (“basta che facciate anche voi come noi…”)? 1 Chiaramente, si tratta di una situazione che è necessario distinguere in maniera netta dalle cosiddette “situazioni-problema” tanto care alla pedagogia, che sono definite nei termini di ciò che gli studenti dovrebbero finire per apprendere e delle operazioni mentali che dovrebbero trovarsi a impiegare.

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Che l’ambiente di un gruppo che sperimenta la possibilità di un regime collettivo di pensiero e d’azione possa essere al tempo stesso ciò che avvelena, ciò che minaccia e ciò con cui bisogna creare dei legami indica chiaramente che ogni scorciatoia di pensiero, qui, si promette letale – proprio come la ricerca di una qualsivoglia garanzia, o il tentativo di estrapolare modelli da ciò che è dell’ordine della sperimentazione. Le domande che un gruppo di questo genere suscita, essendo parte dell’ambiente di questo gruppo, sono domande operanti, anche e soprattutto se si pretendono neutre, come le domande del giudice o dello spettatore. Quanto alle risposte, non saranno mai generali, ma sempre legate all’invenzione di mezzi pratici per “fare risposta”. Prendiamo un esempio piuttosto cruciale: quello della “fiducia”, tra i membri di un gruppo così come tra questo gruppo e i suoi molteplici ambienti. Assumere la fiducia come domanda operante significa far divergere due significati possibili della parola – una fiducia che si “ha”, e una che si tratta a tutti gli effetti di “fabbricare”. Quando si è avuto fiducia e questa si è rivelata mal posta, ci si sente traditi, beffati, indignati; l’impotenza ha il sopravvento, e minaccia di tradursi in senso di rivalsa, in vendetta, in risentimento: “non mi fregherete più!” È un fatto piuttosto comune, che testimonia del carattere malsano dei nostri ambienti: non solo un gruppo può essere tradito da quelli che pensava essere i suoi alleati, ma può essere accusato di aver tradito la fiducia di chi lo prendeva come esempio. Al contrario, gli attivisti americani che praticano l’azione diretta nonviolenta ci hanno offerto l’esempio di vere “fabbriche” della fiducia. Il presupposto, nel loro caso, è che tutti saranno tentati di tradire nel momento dell’azione. Infatti questi attivisti sanno che devono prepararsi a una prova: la polizia cercherà di provocarli a gesti violenti, e le conseguenze giudiziarie delle loro azioni – denunce, galera, multe – saranno orchestrate in modo da dividere, da suscitare fraintendimenti e accuse reciproche. Questo significa che chiunque abbia partecipato “in fiducia” sentirà di essersi imbarcato in una situazione che non era in grado di affrontare, o di essere rimasto ostaggio di un processo decisionale che lo superava, oppure di essere stato abbandonato nel momento di affrontare le conseguenze: vergogna, risentimento, delusione, senso di colpa. Fabbricare la fiducia, per questi attivisti, significa fabbricare dei dispositivi capaci di far considerare l’azione a partire da simili prove e trappole prevedibili. E, di nuovo, questo implica resistere alla finzione dell’uguaglianza – nel caso specifico, alla finzione secondo cui sarebbe questione di mantenere i propri impegni, di dare dimostrazione 139

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di un’autonomia responsabile. Si tratta, al contrario, di conferire alle prove che verranno il potere di far sentire, pensare e osare dire, e questo in una maniera che renda percepibile e legittima l’eterogeneità delle modalità d’impegno di ciascuno, nonché l’eterogeneità di ciò di cui ciascuno si sente capace. In breve si tratta di costruire una pragmatica non della confessione, bensì dell’immaginazione e della creazione di mezzi che facciano passare l’uguaglianza attraverso delle differenze che non saranno oggetto di alcun giudizio ma che, se non saranno tenute in considerazione, offriranno vettori di tradimento a chi sarà pronto ad approfittarne2. Nulla è garantito  –  come sempre, d’altronde, quando si tratta dell’arte del pharmakon. Tuttavia, la trasformazione che conferisce alla prova il potere di far pensare, che la costituisce quale parte integrante della situazione questionante, è suscettibile di “trattare” certi veleni prevedibili. L’attenzione non riguarda più le persone, ma certe modalità di funzionamento collettivo che rendono alcune persone vulnerabili – persone il cui eventuale tradimento sarà poi evocato ogni volta che si vorrà accentuare la sfiducia o intensificare il sospetto, con la conseguenza di provocare tradimenti ulteriori. L’arte dei dispositivi non riguarda, evidentemente, gli stakeholders. Essi possono intralciarsi a vicenda quanto vogliono, ma non sono suscettibili di tradirsi, poiché a riunirli è la volontà di far valere ciascuno i propri interessi rispettivi, e non hanno altra causa da servire. E non riguarda nemmeno le persone riunite dal potere di una “causa comune” che possiede il carattere di una risposta, di una verità che rivendica il potere di mettere d’accordo, che propone un ideale di omogeneità – tutte mobilitate allo stesso modo da qualcosa che unifica, qualcosa di buono in sé. L’arte dei dispositivi è un’arte farmacologica perché quanti la praticano sono radunati da una domanda che, prima di tutto, richiede un apprendimento. La fabbricazione della fiducia fa parte di questo apprendimento. Non soltanto in quanto assume l’eventualità del tradimento come dimensione costitutiva della situazione, ma anche perché, attraverso la risposta che offre, essa conferisce un significato positivo all’eterogeneità del raduno, costituendola come qualcosa che deve essere riconosciuto – se non, addirittura, attivamente prodotto. Costituendola, cioè, come ciò che si tratta di apprendere.

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Su questo, si veda Starhawk (2003).

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E allora “tutti insieme!”, forse; e, tuttavia, questo “insieme” potrà essere robusto e pertinente solo se ciò che compone il “tutti” non si troverà sottoposto allo “stesso”, uno stesso che rinvia la responsabilità di questo insieme a ciò contro cui si lotta. L’insieme, per essere affidabile, non deve presupporre un’uguaglianza postulata, ma tradurre una serie di operazioni di produzione di uguaglianza tra partecipanti. Cioè, dev’essere dell’ordine dell’alleanza tra eterogenei, e non della fusione. Ciò che si tratta di apprendere, in ogni caso, è la maniera di far esistere, nominare e prendere in considerazione delle divergenze che sappiano fare una differenza là dove, altrimenti, avrebbe agito il veleno di differenze non confessate, motivo di vergogna, pretesto potenziale per manovre di divisione che non mancheranno mai. E si tratta di apprenderla non soltanto per resistere a queste manovre, ma perché la produzione di uguaglianza tra partecipanti, che richiede che la loro eterogeneità, lungi dall’essere assimilata a una sconfitta, venga attivata, è anche ciò grazie a cui le differenti dimensioni della situazione potranno dispiegarsi.

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Artifici

Rendere presenti e importanti le divergenze non ha nulla a che vedere col “rispettare le differenze di opinione”. È la situazione stessa, attraverso i saperi divergenti che suscita, a guadagnare il potere di far pensare ed esitare insieme le persone che raduna. Mi spingerò fino a dire che la riuscita di un’alleanza, vale a dire di una pratica dell’eterogeneità, non richiede di “rispettare le differenze”, bensì di onorare le divergenze. “Rispetto la tua differenza” è una frase un po’ vuota, che, ispirata dalla tolleranza, non impegna a nulla. Ciò che, al contrario, intendo evocare dicendo che si tratta di “onorarlo” è qualcosa che sarà trattato non come una caratteristica particolare dell’altro, bensì come qualcosa che l’altro fa importare, qualcosa che lo fa pensare e sentire  –  qualcosa che non si può, di conseguenza, sognare di ricondurre allo “stesso” senza insultarlo. Poiché ciò che viene colto in questo modo, in quanto irriducibile alla psicologia, o a una nozione tanto generale quanto quella di “cultura”, è qualcosa che, se sarà distrutto, renderà il nostro mondo più povero. La divergenza non appartiene a una persona – fa importare un aspetto di questo mondo. Nominare Gaia, nominare la stupidità, e adesso onorare le divergenze come qualcosa che appartiene alla situazione e non alle persone: si tratta di proposte la cui verità risiede nell’efficacia di cui sapranno dimostrarsi capaci. Un’efficacia che bisognerebbe definire “contro natura”, se dovessimo attenerci alla classica contrapposizione naturale/artificiale. Tuttavia, questa opposizione è priva di un qualunque significato positivo. La ricerca disperata di qualcosa che, “naturale”, si pretende non richieda artifici, infatti, tradisce ancora una volta l’odio del pharmakon – l’odio di ciò che, per essere utilizzato, richiede un’arte. A essere “naturali”, nel senso di tristemente prevedibili, sono le argomentazioni a cui faranno ricorso quelli che si sentono responsabili. 142

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Così, molti scienziati affermeranno che è necessario che “le persone” abbiano fiducia nella Scienza, dal momento che, se avessero idea di tutto ciò che gli scienziati non sanno, ridurrebbero – “reazione assolutamente naturale” – ciò che gli scienziati sanno a opinioni come le altre, opinioni che è possibile ignorare qualora disturbino, qualora pongano ostacoli a una soluzione “razionale”. Allo stesso modo, quelli che diffidano delle associazioni di utilizzatori temono che questi utilizzatori obbediscano a un egoismo “assolutamente naturale” che li spinge, in maniera tristemente prevedibile, a porre in questione ciò che impedisce loro di godere tranquillamente di ciò di cui fanno uso, ivi inclusi i meccanismi di solidarietà e di difesa dei lavoratori per creare i quali sono state necessarie così tante lotte. Se l’intrusione di Gaia significa la necessità di apprendere a “fare attenzione”, ad accettare delle “verità disturbanti”, abbiamo disperatamente bisogno di artifici, perché abbiamo disperatamente bisogno di resistere al “tristemente prevedibile”. È la barbarie, oggi, a essere tristemente prevedibile. La prova sta, ancora una volta, nell’abbandonare senza nostalgia né disincanto lo stile epico, la grande narrazione di emancipazione per la quale l’Uomo impara a pensare per se stesso, senza aver più bisogno di protesi artificiali. Questa grande narrazione ci ha avvelenati – non perché abbia fatto balenare la prospettiva illusoria dell’emancipazione umana, ma perché di questa emancipazione ha dato una definizione misera, marcata dal disprezzo per popoli e civiltà che le nostre categorie giudicavano ben prima che noi ci apprestassimo a offrir loro, con la loro benevolenza o tramite la forza, i nostri Lumi. Non riconosciamo forse nei loro riti, nelle loro credenze, nei loro feticci, quel genere di protesi artificiali di cui abbiamo saputo liberarci? Come stupirsi, allora, che la definizione dell’emancipazione rimanga segnata dalla polemica, se essa è stata, nei nostri mondi, associata alla lotta? Che l’emancipazione e la lotta siano giunte a identificarsi, che l’emancipazione sia finita per coincidere con la lotta contro le illusioni umane, che le scienze abbiano definito i propri successi – i quali sono prima di tutto creazione, produzione di protesi di un genere nuovo  –  nei termini di una smentita inflitta all’opinione: ecco ciò che ci ha resi dei pericoli planetari, pronti a individuare illusioni dappertutto. Certo, alcuni proporranno di tollerarle, ma con il leggero disprezzo di chi pensa di non aver bisogno, dal canto suo, di ricorrere a simili stratagemmi. Ecco tracciato il sentiero che dal disprezzo conduce alla stupidità. 143

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Quante volte l’ho sentito, questo disprezzo, quando descrivevo gli artifici inventati dagli attivisti americani. Quante volte ho sentito ridacchiare, assimilare le loro invenzioni a certi “trucchi” ben noti alla psicologia sociale, o utilizzare delle categorie pigliatutto come il “carattere performativo del linguaggio” o l’“efficacia simbolica”. Come nel caso del verdetto della commissione anti-Mesmer che riconduceva l’efficacia del fluido all’immaginazione, questi pretestuosi tentativi di archiviare la faccenda sono dotati di un’efficacia terribile. Anche in questo caso si tratta di operazioni di nominazione; tuttavia, la loro efficacia è opposta rispetto a quella che sto cercando di individuare. L’operazione, nel loro caso, corrisponde all’avvertimento: “Circolare, non c’è nulla da pensare!” E ci ricorda che nominare è, come ogni operazione efficace, rimedio o veleno, ma segnala anche che, se non percepiamo il veleno, se confondiamo il nome con una categoria di tipo scientifico, è perché siamo intossicati. Come pensare senza darsi alla demistificazione critica, come privarsi del dolce veleno del “non facciamoci ingannare, abbiamo le categorie in grado di identificare ciò che, pur senza saperlo, gli altri fanno”? Le persone che sono state avvelenate disprezzeranno l’arte del pharmakon, avanzando sempre e ancora la stessa protesta: ciò che è dell’ordine della verità non richiede artifici per imporsi. Oppure la vecchia obiezione: se accettiamo che l’efficacia di una proposta richieda un’arte da coltivare, la porta non è sempre minacciosamente aperta al relativismo? Non è necessario postulare che certe proposte abbiano il potere d’imporsi da sole se si vuole evitare che i conflitti di opinione e l’arbitrio dei rapporti di forza diventino un orizzonte insuperabile? Obiezione curiosa, se consideriamo che proviene nella maggior parte dei casi dagli scienziati, i quali sanno bene, tuttavia, che un’interpretazione scientifica non s’impone mai senza tutta una serie di artifici e fabbricazioni sperimentali la cui invenzione li appassiona ben più della “verità”. E il colmo del disprezzo e della derisione è raggiunto quando diviene possibile stabilire un’analogia tra determinati artifici e le tecniche utilizzate dalle aziende: “E perché non il bungee jumping, già che ci siamo, visto che funziona con i dirigenti…” Eh sì, le aziende si appropriano di tutto ciò che si promette efficace, perfettamente indifferenti alle nostre risate di scherno. Risate emesse in maniera quasi automatica da parte di quelli che, ancora e sempre, si mantengono nella posizione di “teste pensanti” dell’umanità. Non lasciamoci ingannare: ciò che provoca le risate ha molto a che fare con l’idea che il pensiero vada meritato, che esso richieda rinun144

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cia e solitudine. È per questo motivo, peraltro, che molte di queste “teste pensanti” s’inchineranno con rispetto di fronte alla passione di Antonin Artaud, che si lamentava e urlava che il pensiero non è “nella testa”. Ma a loro importa soltanto che lamenti e urla traducano un’esperienza radicale, prossima alla follia. Artaud, sacro eroe culturale, ci offre allora conferma del fatto che l’Uomo è capace di affrontare, a rischio di perdervisi, il caos abissale che è necessario tenere a distanza per riuscire a pensare. Ciò che fa ridacchiare è l’impiego di artifici che potremmo chiamare “democratici”, di quelli che è così facile ricondurre a superstizioni, a “giochi di ruolo” o ad “autosuggestione”. Artifici che richiedono, soprattutto, un’arte sperimentale, collettiva, radicalmente privata di ogni connotazione tragica. Che l’avventura umana possa passare per l’apprendimento delle “tecniche” di cui essi sono stati tanto fieri di sbarazzarsi sembra quasi indecente ai nostri ridacchioni, come un’impresa di deliberata infantilizzazione. Si dice spesso che le tecniche sono neutre, che tutto dipende dall’uso che se ne fa. Ma se si sostituisce l’idea di un uso che si tratterebbe di fare con quella di un utilizzo di cui bisogna apprendere le condizioni specifiche, però, ecco che la neutralità cambia di significato – smette di essere ciò che permette di respingere la responsabilità sull’utente, e appare come qualcosa che richiede le precauzioni, l’esperienza e l’attenzione di cui ogni pharmakon ha bisogno. L’odio degli artifici, sempre associati alla minaccia del relativismo, è l’odio del pharmakon. “Se tutto dipende da un artificio, allora è possibile far pensare alle persone qualunque cosa!” È evidente che si possono associare le cose peggiori agli artifici (i grandi rituali nazisti…). Ma, proprio per questo, non è forse importante praticarne l’arte, coltivare una capacità di discriminare tra i loro utilizzi possibili, l’esperienza della loro potenza? Mi è stato necessario comprendere il potere della stupidità per capire perché il pericolo potesse servire da argomento, per capire che quelli che “si sentono responsabili” pretendono che i soli mezzi legittimi siano quelli garantiti “senza rischi”, come i giocattoli per bambini. E finché avanzeranno queste pretese, finché saranno ossessionati dalla minaccia di un popolo fanatico, sempre pronto a seguire il primo demagogo che passa, l’uguaglianza che sognano rimarrà incantatoria, annullata dalla posizione di responsabili che si trovano a occupare. Nei fatti, tra riconoscere l’importanza dell’artificio e, invece, ignorarla passa talvolta una differenza minima. Così, Jacques Rancière ha superbamente descritto l’importanza dell’antico dispositivo ateniese 145

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che predisponeva la selezione dei magistrati tramite sorteggio1. Certo, esso riguardava unicamente i pochi che potevano aspirare a simili funzioni (non le donne, non gli schiavi, né, soprattutto, gli stranieri), ma il sorteggio è importante per Rancière in quanto significa che colui al quale è stato conferito un potere non lo ha conquistato, non ha dovuto sconfiggere altri candidati, non deve la sua posizione al riconoscimento del proprio merito. Tuttavia, non si tratta di quello che ho chiamato un “chiunque”, poiché chi è stato sorteggiato dovrà pensare, porre delle domande, partecipare a un processo deliberativo. Si tratta, al contrario, di un “chicchessia” [n’importe qui]. Chicchessia può diventare capace! E proprio per questo diviene magistrato. Per Rancière, questo “chicchessia” qualifica la politica come qualcosa che implica ed effettua una disgiunzione dall’ordine “naturale” – sarebbe naturale che i migliori, i più competenti o i più motivati governassero. Tuttavia, non si sofferma a descrivere l’efficacia del sorteggio come artificio, un artificio che caratterizza anche le giurie, quelle di cittadini come quelle di tribunale. Quelli che sono sorteggiati sanno che sono “chicchessia”, ed è senza dubbio questo a proteggerli da quel genere di connivenza che così facilmente s’instaura tra gli esperti e quelli che “si sentono responsabili”. Le persone sorteggiate non devono il proprio ruolo a un merito che le avrebbe distinte, e questo ruolo improvvisamente le obbliga, le costringe a ricercare ciò che la situazione richiede invece di pensarsi capaci di definirla. Certo, il caso qui perde un po’ della nobiltà concettuale che gli spettava quando era fatto valere come puro significante della politica; eppure, impegna a un pensiero dell’efficacia che si tratta di apprendere a onorare. Il caso è interessante perché situa in maniera molto precisa l’efficacia dell’artificio. Non si tratta di rimettersi al caso “che deciderà”, bensì di ricorrere a un procedimento che fa esistere, tra noi e ciò che facciamo, qualcosa che non è nostro, aprendo così a una situazione rispetto alla quale non dobbiamo pretendere di essere “all’altezza”. La maniera in cui l’idea di fare appello al caso quando si tratta di “cose serie” e non di giochi può respingere rende evidente come le ragioni del merito o della motivazione abbiano fatto terra bruciata attorno a sé, riuscendo a ridurre all’“arbitrario” tutto ciò che non si può spiegare. Ma il caso è anche il più semplice degli artifici. Un giorno, forse, proveremo una certa vergogna e una grande tristezza 1

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Cfr. Rancière (2005).

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per aver ridotto a superstizione pratiche millenarie, da quelle degli àuguri dell’antichità a quelle dei veggenti, dei lettori di tarocchi o dei lanciatori di conchiglie. Saremo capaci, allora, indipendentemente da qualunque credenza, di rispettare la loro efficacia, la maniera in cui esse trasformano la relazione che quelli che le coltivano intrattengono con i propri saperi, in cui li rendono capaci di un’attenzione al mondo e ai suoi segni appena percepibili che permette loro di aprire questi saperi alle proprie stesse incognite. Quel giorno, avremo appreso anche fino a che punto siamo stati arroganti e imprudenti a pensarci come quelli che non hanno bisogno di simili artifici.

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Onorare

Gaia, come ho voluto nominarla, non può essere associata – lei, la suscettibile – né alla preghiera, che si rivolge a divinità capaci di ascoltarci, né alla sottomissione, richiesta da quell’altra divinità cieca venerata con il nome di “leggi del mercato”. Onorare Gaia non significa ascoltare il messaggio proveniente da un qualche tipo di trascendenza, cioè accettare una forma di colpevolezza collettiva – “dobbiamo accettare di cambiare il nostro stile di vita”. Non abbiamo scelto questo stile di vita, e tutte le sapienti narrazioni sociologiche che descrivono in dettaglio l’“individuo moderno” ci parlano in realtà di un “resto”, di quel che è rimasto dopo che tutto ciò che aveva il potere di farci pensare, sentire e agire insieme è stato distrutto, quando la libera Impresa ha conquistato il diritto non fare attenzione e ridotto lo Stato al compito di “gestire i rischi”. Se si tratta di onorare Gaia, bisogna soprattutto non ripetere, con lei, quello che è stato forse l’errore degli eredi di Marx: fabbricare una prospettiva imperniata su una versione umanista della salvezza, in cui la domanda posta avrebbe a che fare con l’emancipazione di un genere umano finalmente capace di superare ciò che lo separava dalla propria verità. Forse è davvero questione di salvezza, ma in un senso per cui questo riferimento non garantisce nulla, non autorizza a nulla, non si associa a nessun “e dunque”, non implica alcuna morale provvidenziale che possa collegare l’intrusione di Gaia a qualcosa di cui la “nostra” storia aveva bisogno al fine di compiersi pienamente. Rispondere all’intrusione di Gaia con parole d’ordine trionfaliste che mettono in scena i fini dell’umanità significherebbe non aver imparato nulla – significherebbe accettare ancora una volta la grande narrazione epica che fa di noi quelli che indicano la strada. Non abbiamo forse inventato noi il concetto di umanità? Dovremo allora disintossicarci da queste narrazioni che ci hanno fatto dimenticare che la Terra non era nostra, al servizio della nostra Storia – narrazioni che sono 148

nel tempo delle cata strofi

dappertutto, nella testa di tutti quelli che, in una maniera o nell’altra, si sentono “responsabili”, detentori di una bussola, rappresentanti di una rotta da tenere. Non è sufficiente denunciare i pastori, responsabili di un gregge che hanno il compito di proteggere da seduzioni e illusioni. Se ho fatto l’elogio degli artifici, è perché è necessario recuperare ciò la cui distruzione ha fatto di noi un quasi-gregge – dovremo riappropriarcene, apprenderlo nuovamente. Ciò che ho chiamato “artificio” traduce questa necessità. Noi, che siamo gli eredi di una distruzione, i figli di quelli che, espropriati dei loro commons, sono caduti vittima non solo dello sfruttamento ma anche delle astrazioni che ne facevano dei “chiunque”, dobbiamo sperimentare cosa sia suscettibile di ricreare – “far riattecchire”, come si dice a proposito delle piante – la capacità di pensare e agire insieme. L’ho sottolineato più volte, una sperimentazione di questo genere è politica, dal momento che non si tratta di far “andare meglio” le cose, ma di sperimentare in un ambiente che sappiamo essere pieno di trappole, di alternative infernali, d’impossibilità escogitate, dallo Stato come dal capitalismo. Ma la lotta politica, qui, non passa per attività di rappresentanza, ma per la produzione di ripercussioni e la costituzione di “casse di risonanza” capaci di far sì che quanto accade agli uni faccia pensare e agire gli altri, e che ciò che riescono a fare gli uni – ciò che apprendono, ciò che fanno esistere – divenga allo stesso modo risorsa e possibilità sperimentale per gli altri. Ogni riuscita in questo genere di sperimentazioni, per quanto precaria possa essere, è importante. Nessuna sarà sufficiente, certo, a placare Gaia, ma tutte contribuiranno al tentativo di rispondere alle prove future in un modo che non sia barbaro. Non si tratta, certo, di sostituire una cultura della riuscita sperimentale alle necessità di una lotta politica aperta – che anzi sarà ancor più necessaria nella misura in cui si tratterà di raggiungere quegli spazi ritenuti “fuori dalla politica” in cui si attivano gli esperti, calcolando limiti, tentando di articolare le misure da prendere con l’imperiosa necessità di una crescita sostenibile. Anche la nozione di “limite”, apparentemente di buon senso, reca in sé la minaccia degli “è proprio necessario…” tristi ma inflessibili che annunciano la barbarie. I limiti si negoziano tra responsabili, vengono imposti a un gregge e tacciono È stato volutamente mantenuto lo stile “parlato” di questa conferenza. Fu pronunciata a Vancouver, Canada, nel settembre 2013, pochi giorni prima che fosse pubblicato il rapporto dell’ipcc, di fronte a un pubblico sensibile ai temi ecologici.

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sul fatto che, nel nostro mondo, attraversato da diseguaglianze radicali, sarebbe necessario un vero e proprio miracolo per impedire che si tramutino in un fattore di diseguaglianze ancora maggiori. E ciò indipendentemente da quali saranno i prodigi di questa tecnica che ci annuncia, oggi, che l’Uomo diventerà capace di manipolare la materia atomo per atomo, d’infrangere le proprie limitazioni biologiche, di vincere l’invecchiamento e di vivere all’interno di case “smart” che soddisfaranno i suoi minimi desideri. La lotta politica dovrà passare per ogni luogo in cui si fabbrica un avvenire che nessuno osa veramente immaginare – non limitarsi alla difesa di ciò che è stato conquistato o alla denuncia degli scandali, bensì impadronirsi della questione di costruirlo, questo avvenire. Chi paga i tecnici, come vengono formati gli scienziati, quali promesse alimentano i mulini della fascinazione, a quali sogni di ricchezza affidiamo il compito di “rilanciare l’economia”? Gli scienziati e i tecnici stessi hanno bisogno che domande di tal genere vengano poste, e certi, come Jacques Testart, hanno il coraggio e la lucidità di chiedere a gran voce che esse lo siano, di chiedere che la lotta attraversi i saperi tecnici e scientifici, dove oggi risuonano invece solo slogan apolitici del tipo “il pianeta è in pericolo, salviamo la ricerca!” Ma è proprio perché la lotta politica deve passare per ogni luogo che essa non può accettare di pensarsi nei soli termini di una “vittoria” o di una conquista del potere. E questo non per ragioni di ordine morale, ma perché nessun potere, qualunque sia la sua origine, qualunque sia la sua legittimità, potrà produrre, in quanto tale, le risposte di cui l’intrusione di Gaia fa avvertire dappertutto, a tutte le latitudini, la necessità. L’evento ogm offre l’esempio di un abbinamento di tipo nuovo tra lotta anticapitalista (e Monsanto rappresenta in maniera piuttosto esatta questo capitalismo intento a escogitare un avvenire barbaro) e produzione di pensiero. I nostri responsabili promettono oggi degli ogm di “seconda” (o terza) generazione, con lo slogan: “Se li volete, dovrete mandar giù quelli di prima generazione!” Facendo così, tuttavia, suscitano ancora più domande. Se non sono riusciti a isolare i “mietitori volontari”, ad appiccicargli addosso l’etichetta di “ecoterroristi”, è perché sono stati prodotti dei saperi capaci di far balbettare pubblicamente gli esperti, perché i biotecnologi produttori di brevetti non sono più in grado di radunare così facilmente i propri colleghi scienziati in una grande crociata contro il dilagare dell’irrazionalità, giacché alcuni tra loro sono, come lo è il pubblico, portati a farsi delle 150

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domande. Certo, sono rari quelli che, come il genetista Christian Velot, tradiscono la biologia genetica “dall’interno” – mettendo così in pericolo il finanziamento della propria ricerca, e dunque la propria carriera, per rendere pubblico ciò su cui loro colleghi tacciono. Ma l’evento ogm appartiene a quella classe di eventi che (si pensi anche alle lotte sulla questione dei medicinali, o, ormai, delle risorse energetiche), se “attivati” nel modo giusto, possono aiutare gli scienziati a porre in questione il proprio ruolo – tanto quello che è assegnato loro dall’economia della conoscenza quanto quello che, da tanto tempo, li abbandona alla cattura della stupidità, quello di guardiani dell’ordine morale, della razionalità contro un’opinione che, come diceva Bachelard, ha sempre torto. La possibilità di un nuovo profilo di ricercatori che sappiano inventare i mezzi di una propria indipendenza rispetto alle fonti di finanziamento che asserviscono le loro pratiche è ormai all’ordine del giorno. Questa possibilità fa parte delle poste in gioco che uniscono lotta politica e creazione, visto che, qualunque cosa accada, avremo bisogno di scienziati e di tecnici. Cosa manca all’evento ogm? Una cassa di risonanza politica all’altezza, prima di tutto: anche gli alleati politici, quando ne va della loro credibilità elettorale, hanno paura a mettere in connessione tutte le dimensioni dell’evento – soprattutto, a far entrare in politica la questione del progresso che la razionalità tecnico-scientifica è ritenuta portare con sé, o quella dell’economia della conoscenza, dei suoi brevetti e dei suoi partenariati. “Servono più soldi per la ricerca” è un ritornello che funziona ancora, e che non impegna a prese di posizione rischiose, proprio come “i francesi rifiutano gli ogm”, debole eco di un rifiuto che si trova così ridotto a mera faccenda di sondaggi e di rispetto dell’opinione pubblica (anche nel caso dovesse aver torto). Ma forse gli è mancato anche di esser celebrato come un evento, di esser nominato come tale, di aver suscitato dei testimoni che apprendessero a raccontare in cosa gli sono debitori, che cosa ne hanno imparato, come li ha radunati, come li ha forzati ad apprendere gli uni dagli altri. Abbiamo bisogno, un bisogno disperato, di fabbricare testimoni di questo genere, narrazioni di questo genere, celebrazioni di questo genere. Soprattutto, abbiamo bisogno di ciò che questi testimoni, queste narrazioni e queste celebrazioni possono far passare: l’esperienza che segna la riuscita di una connessione tra la politica e la produzione sperimentale, sempre sperimentale, di una capacità nuova di agire e pensare. Questa esperienza è ciò che, seguendo Spinoza e tanti altri, chiamerei gioia. 151

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La gioia, ha scritto Spinoza, traduce un aumento della potenza di agire, e dunque anche di pensare e d’immaginare. Essa ha qualcosa a che fare con il sapere, ma un sapere che non è di ordine teorico, se è vero che non designa un oggetto, ma riguarda invece il modo d’esistenza stesso di chi lo acquisisce. La gioia, si potrebbe dire, è la firma per eccellenza dell’evento, la produzione-scoperta di un nuovo grado di libertà, capace di conferire alla vita una dimensione supplementare, modificando così i rapporti tra le dimensioni già abitate. Gioia del primo passo, per quanto inquieto. E la gioia ha, inoltre, una potenza epidemica. È ciò di cui offrono testimonianza tanti anonimi che, come me, hanno gustato una tale gioia nel Maggio Sessantotto, prima che i responsabili, portavoce d’imperativi astratti, s’impossessassero dell’evento. La gioia si trasmette non dal sapiente all’ignorante, ma secondo una modalità che è essa stessa produttrice di uguaglianza – gioia di pensare e d’immaginare insieme, con gli altri, grazie agli altri. È ciò che mi fa scommettere su un avvenire in cui la risposta a Gaia non sia la triste decrescita, bensì ciò che gli obiettori di crescita cominciano già a inventare quando scoprono insieme le dimensioni della vita che sono state anestetizzate, massacrate, disonorate in nome di un progresso ridotto oggi all’imperativo della crescita. Forse, alla fine, sarà la gioia a demoralizzare i nostri responsabili, a condurli ad abbandonare la loro triste postura eroica e a tradire ciò che li ha catturati. Nulla suggerisce che tutto finirà bene: Gaia, offesa, è cieca di fronte alle nostre storie. Forse, non potremo sottrarci a prove terribili. Ma starà a noi, ed è proprio qui che può situarsi la nostra risposta a Gaia, apprendere a sperimentare dispositivi che ci rendano capaci di vivere queste prove senza scivolare nella barbarie, di creare ciò che nutre la fiducia là dove minaccia di prevalere un sentimento angosciante d’impotenza. Questa risposta, che lei non sentirà, conferisce alla sua intrusione la forza di un appello a vite che valgano la pena di essere vissute.

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Bibliografia

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Dopo l’intrusione. Intervista a Isabelle Stengers di Nicola Manghi

La conversazione di cui qui si riporta uno stralcio è avvenuta a Bruxelles il 5 agosto 2020, nel cortile sul retro dell’abitazione di Isabelle Stengers, alla presenza di un piccolo gatto che ha serenamente dormito sul suo grembo per tutta la durata dell’incontro. La chiacchierata si è svolta in francese e nel trascriverla e tradurla in italiano si è tentato di mantenere il carattere orale dello scambio, pur limando il testo in modo da renderlo fruibile senza eccessive difficoltà anche nella forma scritta. Desidero ringraziare Isabelle Stengers per la generosità e l’entusiasmo con cui mi ha ricevuto ed Elisa Adami per il prezioso aiuto prestatomi nella sbobinatura. NICOLA MANGHI

Quand’è che Gaia ha fatto intrusione nel suo pensiero? ISABELLE STENGERS

Quando è uscito Nel tempo delle catastrofi era già una decina d’anni che avevo cominciato a pensare con Gaia, ma quello è il momento in cui mi sono detta che bisognava scrivere un libro. Trovare il tono e l’approccio da adottare, però, è stato molto difficile. Non avevo voglia di fare un libro sul clima, non volevo scrivere un libro di denuncia. E tuttavia ci sono stati momenti in cui mi trovavo a scrivere pagine piene di collera. Mi ricordo di alcune pagine che erano tutta una lunga maledizione contro quelli che avevano preso questa idea, già noiosa di per sé, dello “sviluppo sostenibile”, e avevano addirittura pensato di trarne l’idea di una “crescita sostenibile” [ride]… Ma non avevo voglia di questo, non volevo fare volgarizzazione – ritenevo che già all’epoca la questione fosse stata sufficientemente “volgarizzata” [ride]. Di conseguenza volevo trovare un angolo che mi permettesse di dire qualcosa che fosse pertinente da un punto di vista politico. Quello che mancava in tutti questi discorsi sulla questione climatica era evidentemente la dimensione politica. Bisogna “cambiare stile di vita”, come dicono, ma in un senso politico – non semplicemente in 155

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contrapposizione al “capitalismo verde”, bensì per vaccinarci contro la tentazione di questa prospettiva. Ho scritto il libro in un momento che precedeva ancora il successo del negazionismo. Era l’epoca del green washing e di un capitalismo che prometteva di farsi “verde”. E io volevo trovare una risposta politica a questa idea. Diciamo che l’«intrusione di Gaia» è venuta in un modo antropologicamente consapevole e in fondo già “anti-antropocene”, anche se ancora non conoscevo questo termine. Significava dire: no, quello che succede non riguarda tutti. Certo, in un certo senso ci riguarda tutti, abitanti di questo pianeta, così come riguarda l’insieme delle specie viventi. Ma riguarda noi europei moderni in maniera specifica: è nella nostra storia che Gaia fa intrusione. Si trattava dunque di drammatizzare Gaia in un modo che impedisse di farne un evento che riguarda il genere umano. Le conseguenze dell’intrusione riguardano tutti gli abitanti del pianeta, ma nominare Gaia significa nominare qualcosa che domanda di porre in questione qualcosa che la nostra storia ha dato per scontato. In fin dei conti, la mia idea era, prima di tutto, di scrivere un libro per ritornare su quello che mi sembrava uno dei fallimenti politici più tristi degli ultimi decenni, vale a dire la mancata articolazione tra i “rossi” e i “verdi”, tra la tradizione marxista e la tradizione ecologista. Ci sono ottime ragioni per questo insuccesso: molti ecologisti erano totalmente apolitici, pensavano che la difesa dell’ambiente trascendesse i conflitti politici, che dovesse mettere tutti quanti d’accordo… In fondo seguivo un po’ il sentiero di Félix Guattari, che insieme ad altri “rossi” era entrato negli ecologisti, per trovarsi rifiutato o messo ai margini. E le sue Tre ecologie risalgono proprio a quel momento, in cui voleva trovare la maniera di convincere quegli attivisti che l’ecologia non poteva fermarsi al “rispetto della natura”. Parlare di Gaia nei termini di un’intrusione, allora, significa rimettere in gioco il significato stesso della politica, e farlo in un modo, in fondo, attivista. NICOLA MANGHI

E nello specifico da dove arriva il suo interesse per Gaia? ISABELLE STENGERS

Lovelock!

NICOLA MANGHI

Quindi era già una lettrice di Lovelock?

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ISABELLE STENGERS

Sì, avevo già letto Lovelock, e lo avevo avvicinato avendo in mente ciò che avevo imparato da Prigogine, vale a dire che tutti questi circuiti di retroazione non potevano tendere in generale alla stabilizzazione. L’idea che Gaia potesse accompagnare in maniera naturale il disordine climatico, questo non potevo immaginarlo, ma era nell’ordine delle possibilità… Non so dire esattamente quando ho cominciato a pensare con Gaia, ma ho letto Lovelock nel momento in cui si cominciava a parlare dei problemi climatici, quindi il collegamento era evidente. A interessarmi, però, fu soprattutto l’idea di prendere sul serio la figurazione, cioè di evitare di dire che si tratta di una semplice metafora. No, si trattava di farne un essere che esige: a cosa ci obbliga questo essere? NICOLA MANGHI

Lei scrive che Gaia è una sorta di trascendenza che interviene nella nostra storia. Latour, al contrario, mi pare caratterizzi Gaia nei termini di qualcosa che si tratta di comporre – o, come forse direbbe lei, con cui si tratta di comporre. Sono due maniere differenti di pensare Gaia, o due volti della stessa Gaia? ISABELLE STENGERS

Mah, Latour è rimasto molto più fedele a Lovelock e possiamo dire anche a Margulis, e dunque la sua Gaia non è tormentata dal rischio di trasformarsi in un universale [ride] – Lovelock sicuramente non era tormentato da questo genere di preoccupazioni. Latour accetta la mia Gaia, ma è vero che hanno due volti diversi. Viveiros de Castro ha parlato dei «mille nomi di Gaia»… Ma io non sarei potuta passare semplicemente da Gaia alla Pachamama. Volevo evitare di cadere in questo pericolo, perché è un insulto mettere in connessione diretta ciò che sta accadendo con una specie di rispetto per la Terra che potremmo rubare a qualche altro popolo – sarebbe del new age. Volevo veramente, fin dall’inizio, politicizzare la cosa. Era questa la mia idea, e anche il mio modo di lottare contro la collera: politicizzare la cosa e bloccare tutta una serie di voci che andavano moltiplicandosi e che suggerivano di abbandonare la politica: “fidarsi del capitalismo”, ma anche “fidarsi dello Stato”, eccetera. Ecco la storia all’interno della quale Gaia fa intrusione, forzando a mettere in discussione ciò che ci ha resi ciechi e irresponsabili. In questa storia, Scienza, Impresa e Stato si trovano necessariamente connessi. 157

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NICOLA MANGHI

C’è un momento preciso in cui il riscaldamento globale l’ha colpita in modo particolare? Penso per esempio a Latour, quando racconta di aver assistito a una conferenza di Clive Hamilton e di aver improvvisamente avvertito la gravità della situazione, al punto da non riuscire a dormire quella notte… ISABELLE STENGERS

Mi ricordo di un solo momento in cui ho avuto i brividi, ed è stato quando ho letto da qualche parte che gli Inuit stavano uccidendo i propri cani. Intendo dire che è in quel momento che il riscaldamento globale ha cessato di essere, per me, un’ipotesi scientifica relativamente astratta. All’inizio non avevamo nessuna idea della temporalità con cui le cose sarebbero progredite, non sapevamo che sarebbe avvenuto tutto così in fretta… Quando si è cominciato a parlare di effetto serra, s’immaginava che sarebbe potuto accadere nell’arco di due secoli – e invece abbiamo progressivamente constatato che stava accadendo tutto molto più rapidamente del previsto. Ma per me gli Inuit, in quanto popolo orale, rappresentavano persone che conservavano una memoria di carattere differente… Diciamo che forse mi fidavo di loro ancor più che dei meteorologi per capire cosa stesse succedendo, e il fatto che uccidessero i loro cani, che il loro modo di vita si stesse degradando… Beh, questo mi ha vaccinata contro lo scetticismo. Si tratta di una specie di lealtà verso gli Inuit. È la cosa più grave che potessero fare, uccidere i propri cani. Ed è quello che, a quanto leggevo, avevano cominciato a fare. Può sorprendere, ma è questo che mi ricordo. Perché per il resto si tratta di cose molto provvisorie… Per esempio, anche in Stregoneria capitalista il tema è presente. Ma ci trovavamo ancora nel post-Seattle, e i temi erano la lotta contro la globalizzazione, contro il capitalismo globalizzatore, e la questione ecologica ancora non pesava all’interno di quel discorso. Si sapeva che era presente, ma rimaneva parte dell’arredamento. E nel mio caso sono stati gli Inuit a “bucare” [percer]… Bizzarro, eh? NICOLA MANGHI

Era senza dubbio un’immagine forte… Quando uscì Nel tempo delle catastrofi il termine “antropocene” non era ancora diffuso nell’ambito delle scienze umane, ma come diceva prima in questo libro si possono trovare in qualche modo gli elementi per una critica del concetto. Come si posiziona all’interno del dibattito attorno a questo termine? 158

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ISABELLE STENGERS

La prima volta che l’ho sentito seriamente è quando dalla Haus der Kulturen der Welt a Berlino, dove avevo già partecipato a una conferenza sull’animismo, mi hanno invitata a partecipare a un evento sull’antropocene. Leggendo la presentazione che ne facevano, dell’uomo come forza geologica… Non ci ho pensato a lungo, ho risposto due giorni dopo con una lettera quasi d’insulti [ride], dicendo che non volevo avere nulla a che fare con l’antropocene. Ancora non avevo capito – ma me ne sarei resa conto molto rapidamente! – che il termine cominciava già a essere utilizzato dappertutto e si stava improvvisamente trasformando in una vera buzzword. Quando poi si è tenuta la conferenza a Berlino, ho ascoltato qualche intervento su internet, e c’erano dei pensatori, critici ambientali, che speculavano su come possiamo prendere la parola in quanto forza geologica. Mi sono detta: “ah, un nuovo turn, ancora meglio del post-umano, o del post-chissà cosa!” [ride]. Dunque il mio incontro con l’antropocene è avvenuto sotto il segno della rabbia, di una rabbia viscerale, direi. L’idea di qualificarsi come forza geologica – quando Gaia, come ho scritto, è «suscettibile» [chatouilleuse], la sua intrusione non è una faccenda morale, e ci dice piuttosto che siamo stati imprudenti e irresponsabili, che abbiamo coltivato la mancanza di attenzione – sembra suggerire che quel che abbiamo disfatto potremmo rifarlo. Mi è sembrata immediatamente un’idea di pessimo gusto. Mi pare di aver capito che quelli che per primi hanno suggerito il termine, tra i climatologi, speravano che se si fosse offerta una visione un po’ ottimista delle cose… Anche Latour era un po’ su quella linea, all’epoca. Cercava una maniera di presentare la situazione che fosse un po’ incoraggiante. Diceva “le persone non amano le cattive notizie. Bisogna dar loro delle speranze, bisogna sconfiggere i nazisti…” Era un fattore di mobilitazione. “Se si danno notizie che non offrono una via d’uscita…” Io rispondevo: ma con Gaia ci dovremo restare! Voglio dire, non è una “crisi”. E Latour diceva: “Senza l’impressione che si tratti di una crisi da cui, se solo riuscissimo a essere abbastanza bravi, potremmo uscire, non ce la faremo”. Forse non aveva del tutto torto, ma… Credo che all’inizio avesse quest’idea anche il climatologo che ha coniato il termine, come si chiama… NICOLA MANGHI

…Crutzen e Stoermer? 159

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nicola manghi

ISABELLE STENGERS

Crutzen! Vedere che il loro allarme non aveva gli effetti attesi suscitava una grande preoccupazione tra i climatologi, quindi credo che alla fine si siano detti: “Ecco! Forse questo darà un po’ di grinta!” [ride]. NICOLA MANGHI

È interessante il fatto che il termine “antropocene” sia apparso in una conferenza sulle interazioni tra la biosfera e l’atmosfera – un luogo molto “gaiano”, si potrebbe dire. In qualche modo, è al cuore di Gaia che il problema è stato visualizzato da questi scienziati. Ma è vero che la parola ha assunto una traiettoria pericolosa… ISABELLE STENGERS

È questo che per me ha rappresentato l’orrore, l’effetto di moda che ha avuto. Come se tutte le scienze umane, ivi comprese quelle critiche, ne fossero rimaste stregate: “le donne e l’antropocene”, “il femminismo e l’antropocene”, “l’architettura e l’antropocene”… Si era trasformato ciò che sta accadendo in una specie di svolta accademica, e come in ogni svolta tutto assumeva una prospettiva di progresso, l’impressione che si stesse diventando più intelligenti di quelli che non sapevano che siamo nell’antropocene. E questo ha suscitato tutta la mia insofferenza riguardo a ciò in cui si è trasformato il mondo accademico. NICOLA MANGHI

Però è vero che la parola “antropocene” ha permesso anch’essa di raccontare qualche storia interessante, attraverso le critiche che ha suscitato… ISABELLE STENGERS

Capitalocene!

NICOLA MANGHI

… e ha permesso di raccontarle su una scala geologica, e dunque su una scala molto più materiale di quelle abitualmente considerate in passato. ISABELLE STENGERS

Ma sì, però, come dice Haraway, se c’è una cosa che sembra certa sull’antropocene è che non sarà mai un’epoca geologica. Sarà piuttosto una transizione, e bisognerà cercare di fare in modo che questa tran160

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sizione sia il più breve possibile. Ma è una transizione, non è un’era e non è un’epoca. Sì, è un’epoca se si dice che abbiamo sempre vissuto nell’antropocene – per esempio, se ne si data l’inizio con l’invenzione dell’agricoltura lo si estende di qualche migliaio di anni… Ma a me piace molto la nozione di «plantationocene»1, che ci fa ritornare al xvi secolo. Alla fine ci vorrà ancora magari un po’ di tempo, ma fra, che so io, tre secoli nessuno parlerà più di “anthropos” – questo è sicuro [ride]. Il concetto di antropocene immagina un futuro in cui si guarderà al passato: dei geologi – chissà se saranno dei ragni giganti o qualche altro genere di esseri, continueranno in ogni caso l’impresa della geologia – troveranno delle tracce e potranno dire: “È successo qualcosa cento milioni d’anni fa!” [ride]. NICOLA MANGHI

Però da un punto di vista geologico è interessante che se l’antropocene dovesse essere riconosciuto come epoca geologica, sarebbe l’olocene a smettere di esserlo, in quanto non sarebbe durato a sufficienza per essere un’era, e nemmeno un’epoca. Questo mostra evidentemente il carattere spiazzante di quello che sta accadendo – o i limiti dello sguardo proprio della geologia. Avevano fatto i loro calcoli, avevano definito la scala dei tempi geologici e avevano definito l’olocene come un’era, attribuendole una durata di milioni di anni – e ora l’antropocene interviene a spezzare questa storia… ISABELLE STENGERS

Alla fine non potevano definirla, perché si trovavano al suo interno… NICOLA MANGHI

Sì, ma davano per scontato che sarebbe durata milioni di anni. Poi, Gaia ha fatto intrusione, e i geologi si trovano costretti a cambiare gli strumenti concettuali che utilizzavano, perché i tempi geologici cambiano velocità, per così dire. Questo dal loro punto di vista. Ma sono d’accordo che da un punto di vista politico più generale, il tipo di racconto che i geologi hanno prodotto non è molto interessante…

1 Il concetto di «plantationcene» è stato proposto da Donna Haraway e successivamente sviluppato in dialogo con Anna Tsing con l’intento di enfatizzare la connessione tra la devastazione ecologica contemporanea e l’espansione imperialistica dei paesi europei. Il riferimento alla forma-piantagione, con le sue implicazioni economiche, sociali, razziali e di genere, oltre che più strettamente parlando ecologiche, vuole catturare la crisi ecologica nella sua dimensione intersezionale.

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ISABELLE STENGERS

E anche da un punto di vista concettuale lascia piuttosto a desiderare… NICOLA MANGHI

Certo. Per salvare l’originalità dell’antropocene bisogna limitare il proprio sguardo ai geologi… ISABELLE STENGERS

Esatto – ma io me ne fotto dei geologi [ride]! Come ho scritto da qualche parte, questa idea della storia geologica del mondo è anche la maniera in cui una scienza che non può nascondere le proprie complicità con le varie operazioni di estrazione cerca di rifarsi una verginità pura. NICOLA MANGHI

Alla fine di Nel tempo delle catastrofi scrive che abbiamo un bisogno disperato di testimoni, facendo riferimento all’evento ogm ma implicitamente anche all’intrusione di Gaia. Bisogna avere dei testimoni che trasformino l’intrusione di Gaia in un evento, in qualche modo… ISABELLE STENGERS

Sì, per me è importante. Alla fine, una delle cose che tentavo di fare in quel libro era sottolineare l’importanza dei cambiamenti che hanno luogo in questo momento, come per esempio i commons che diventano nuovamente importanti – i commons difesi dagli attivisti, intendo dire. Parlavo già dei commons e di tutte queste operazioni di reclaim contro le espropriazioni, quelle che ne Le tre ecologie Guattari chiama «produzione collettiva di soggettività», in Stregoneria capitalista. Ciò che possiamo fare noi, della generazione degli adulti di oggi, rispetto alla generazione degli adulti a venire, cioè la generazione di Greta, credo sia creare dei dispositivi che permettano di restituire importanza e coltivare il genere di cultura che ora chiamo dell’interdipendenza: come fare i commons, come organizzare delle palabres2 – dispositivi generativi d’interdipendenza che potrebbero aiutare le generazioni a venire, le

2 La palabre è una modalità di assemblea di origine africana, ripresa a partire dagli anni Duemila da parte di alcuni gruppi attivisti, negli Stati Uniti così come in Europa. Assunta nella sua portata tecnica, come protocollo di riunione, rappresenta a tutti gli effetti un «artificio» di quelli discussi da Stengers in questo libro.

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quali non abbiamo alcuna idea di ciò che dovranno affrontare, ma che si trovano, come noi, sospese tra la fabbricazione di vite degne di essere vissute ed esistenze destinate alla barbarie. L’eventualità della barbarie continuerà ad accompagnarci, ma si comincia – e questo già dall’inizio di questo secolo – a prendere sul serio l’importanza dei dispositivi. È così, per quanto riguarda me, che ho scoperto le streghe neopagane: attraverso quei dispositivi che loro chiamano di empowerment, di reclaiming. Si tratta di recuperare nel senso di guarire, e di ricostruire una cultura di questi dispositivi tale per cui – il che già sarebbe una buona cosa – lo spreco sterilizzante prodotto da ciò in cui si è tramutata la scuola possa diventare impensabile. Si tratta di creare un’esperienza di questi dispositivi, dunque, di ciò di cui sono capaci. Ma ciò che ne faranno le prossime generazioni, semplicemente non dipende da noi. La scommessa che possiamo fare è: potrebbero trovare tutto ciò di qualche valore. Senza questo, senza questa prospettiva, la mia generazione sarebbe condannata a diventare la generazione più odiata e maledetta di sempre. In confronto, la difficoltà dei genitori tedeschi di fronte ai figli che chiedevano loro che cosa avessero fatto durante la guerra non è nulla [ride]! Non è dunque questione di sentirsi in colpa, perché “l’uomo” non è colpevole dell’antropocene; piuttosto, si tratta di provare vergogna per ciò che si lascia accadere. Greta stessa ha assunto questo vocabolario della vergogna: «Non vi vergognate?»  –  How dare you? Queste sono parole di oggi: “Come osate?” E sono parole che implicano anche un: “Esiste la maniera di fare altrimenti” – seppure su una scala ridotta. Si possono immaginare grandi progetti tra l’Europa e la Cina, ma non funziona così: le scale si organizzeranno per conto proprio – o meglio, si organizzeranno se potranno organizzarsi. Ma non è facendoci schiacciare da questi problemi, ereditando la globalità del mondo, che potremo uscirne. E in ogni caso sono già abbastanza quelli che si occupano della globalità del mondo [ride]. Ma Greta no, questa generazione sa che ciò che li preoccupa accadrà durante l’arco della loro vita. È una nuova generazione, e questo rappresenta un’incognita. Si tratta – è un termine che amo molto – di ripopolare le immaginazioni e di lasciare alle nuove generazioni degli strumenti in grado di far sì che queste immaginazioni non siano immaginari ingenui, ma operatori capaci di offrire suggerimenti utili. In ogni caso, dovremo cercare di lasciare qualcosa che non toccherà loro riapprendere da capo – racconti di ciò che potrebbe funzionare e di che cosa è richiesto perché funzioni. È per questo che nel libro 163

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ci sono molte considerazioni su tutti quei veleni che i gruppi che cercano di trovare la propria consistenza devono apprendere a evitare: “Attenzione, l’ambiente non è vostro amico!” Si tratta, in fin dei conti, di tramandare un’esperienza di tutte le trappole che abbiamo già visto in azione. Una cultura è anche questo: “Attenzione, questa cosa è pericolosa!” NICOLA MANGHI

E negli anni passati dall’uscita del libro come è cambiato il suo pensiero riguardo la situazione ecologica? ISABELLE STENGERS

Mah, diciamo che la contrapposizione tra rossi e verdi ormai fa parte del passato. Intendo dire che quando vediamo qualcuno con il passamontagna lanciare un sanpietrino non sappiamo a priori se si tratti di un verde o di un rosso [ride]. Considerata la catastrofe nella quale ci troviamo dal punto di vista dell’effettività politica generale questo non cambia granché, ma al livello dell’attivismo fa una differenza enorme. Quando ho scritto questo libro mi rivolgevo ai giovani, che erano divisi. All’epoca eravamo agli inizi della crisi del 2008 e avevo previsto, come poi è accaduto, che la crescita sarebbe presto tornata a essere la priorità assoluta, condizionando tutte le altre preoccupazioni. Di conseguenza, non bisognava affidarsi allo Stato. E questo mi pare non sia assolutamente cambiato. È vero, non avevo previsto l’austerità e non avevo previsto il negazionismo. Quest’ultimo in particolare non aveva ancora raggiunto l’Europa. C’era qualche negazionista, come il famoso ministro dell’educazione francese, il geologo, Claude Allègre. Ma tutto sommato, per quanto riguarda il fondo del problema, mi pare che le cose rimangano invariate: non c’è granché da attendersi da parte dello Stato, né del capitalismo, e neppure della scienza… Nel libro parlavo della questione degli ogm: in Francia e più generalmente in Europa, mi pare, l’agricoltura è diventata una questione politica, arrivando a coinvolgere gli agricoltori stessi. Ora ci sono degli agricoltori che… è buffo, ho visto un articolo in cui si definivano “contadini-ricercatori”. E effettivamente lavorano insieme! La rete delle sementi, ma non solo loro. Reclutano degli scienziati per porre loro dei problemi che li interessano. Questo è il genere di scienziati che stiamo aspettando, scienziati che non s’interessano a questi temi per far “avanzare la Scienza”, ma perché si tratta di 164

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buone domande. E sono scienziati di campo: ridivengono agronomi e scienziati di campo, con strumenti vari, con tutta una strumentazione che si trova al servizio della pertinenza del campo. Quindi esistono indubbiamente dei movimenti interessanti nelle scienze, ma sempre legati a movimenti pratici, di ripresa in mano pratica… C’è un termine che Latour utilizza sistematicamente nella sua Enquête sur les modes d’existence: «reprise». Riuscire a reprendre, potremmo anche dire reclaim, riprendere in mano il senso di ciò che si fa. NICOLA MANGHI

Con l’emergenza da Covid-19 ho l’impressione che lo Stato abbia riguadagnato, quanto meno in Europa, una certa legittimità, e di un tipo che mi sembra potenzialmente pericoloso, nel senso che corre il rischio di riesumare il sogno di uno Stato che sarebbe capace d’intervenire nelle rovine e portare ordine… Il sogno di uno Stato di cui ci si potrebbe fidare, per dirla nei suoi termini. ISABELLE STENGERS

È una situazione bizzarra… Le epidemie nella storia umana esistono da tanto tempo – da quando esistono concentrazioni di persone esistono epidemie. Ma in un mondo in cui tutto si sa e tutto va veloce, in cui tutte le informazioni circolano e tutto è interconnesso, le epidemie possono tramutarsi in pandemie nel giro di qualche mese. La peste ha impiegato anni per raggiungerci. Da questo punto di vista, la situazione attuale non ha molti precedenti. Non possiamo ancora sapere cosa succederà: per il momento questa emergenza ha messo in sospeso l’austerità, messo in sospeso tutto quanto, ma no, non credo proprio che cambierà qualcosa. Se qualcosa cambierà, si tratterà di un cambiamento forzato, che non avverrà perché “loro” avranno capito qualcosa o avranno sviluppato il gusto per la responsabilità. No, questa è solo cattiva fantascienza. Credo piuttosto che quelli al potere siano caduti nel panico per via di qualcosa che non aveva nulla a che vedere con il tipo di causalità sociale che abitualmente costituisce il loro problema. D’improvviso ci assomigliano. Certo, hanno la polizia… Ma improvvisamente ci si può dire: “Eccoli, esitano – e capisco che esitino…” Non credo però si tratti di una vera trasformazione. Sognano anche loro il ritorno alla normalità. Ci dicono: “Gli aerei riprendono a volare!” – e non si rendono conto che il ritorno alla normalità richiederà ancora tanto tempo, in attesa del vaccino. Quindi il mondo si trova in sospeso nell’attesa di un vaccino. Qui, evidente165

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mente, gioca un ruolo anche il desiderio che tutto abbia una soluzione. E fino a che non sono in possesso di questa soluzione, sono costretti a far affidamento sulla responsabilità delle persone. Credo ci siano delle grandi incognite in questa situazione, ma non bisogna attendersi una conversione di massa, anche se sarei ovviamente molto felice di sbagliarmi [ride] – molto contenta! Non accumulerò gli argomenti in favore dell’impossibilità, il possibile esiste sempre, ma francamente, il probabile sembra indicare altrove… NICOLA MANGHI

Le faccio un’ultima domanda: Michel Serres aveva pubblicato nel 1990 Il contratto naturale. Siccome mi pare che si tratti di un libro importante per la maniera in cui si è arrivati a concettualizzare l’ecologia nel dibattito contemporaneo, ma mi pare di notare che lei non lo citi, a differenza di altri lavori di Serres, vorrei chiederle cosa pensa di questo libro. ISABELLE STENGERS

Mah, credo si tratti di un libro interessante e importante. Ma è arrivato in un’epoca in cui cominciavo a essere sensibile alla questione del riscaldamento globale. E all’improvviso ero un po’ infastidita, c’erano molte cose che… Latour in La sfida di Gaia cita dei bei passaggi di Serres sul tema della negligenza. Ha selezionato bene quei passaggi, ci sono sempre delle cose molto belle in Serres, ma spesso quando lo leggo mi dico: “Sì, ma…! Sì ma…! Sì ma…!” Intendo dire che era talmente contento della sua intelligenza che non andava troppo in cerca di obiezioni. Non procedeva per problemi, ma attraverso il suo sapere, come un saggio che parla. Ho sempre avuto una maniera di pensare molto diversa da Serres, anche se di lui ho apprezzato tantissime cose… Ma non è un fratello [ride]! Una delle cose di fronte alle quali mi veniva da fermarmi era quest’idea del contratto. Non c’è contratto con Gaia. È implacabile, se ne fotte. Semplicemente, non è equipaggiata per far altro rispetto a quello che fa. Per chi si preoccupa del clima come astrazione separata e intellegibile, Gaia è un assemblaggio di forze, è qualcosa di integralmente comprensibile nei termini di flussi e scambi termico-chimici, ed è proprio per questo che dico che è implacabile. Non si vendica – le immagini scelte da Lovelock sono idiote da questo punto di vista. Gaia non è intenzionale, non ci punisce. Finché ci saranno batteri, lei continuerà a fare quello che ha sempre fatto. Quindi l’idea di un 166

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contratto… Il contratto è un dispositivo che fabbrica due parti, e in questo caso non saprei chi sia l’altra. Alla fine, non so che cosa possa essere la natura, nella misura in cui si tratta di riconoscerle un potere di contrattazione. La natura, per me, è sans foi ni loi [ride], fuorilegge. Ciò che m’interessa nei dispositivi è il modo in cui possono servire la lotta contro l’insensibilità, la noncuranza, i vari “si sistemerà” che rappresentano a tutti gli effetti un’anestesia, un non-sentire. Quindi quello che m’interessa nei dispositivi è tutto ciò che può attivare la sensibilità. Ma il contratto in questo caso non è un dispositivo interessante. Prima di passare a un contratto, servono dei megaesseri costituiti! E siamo molto lontani da questo. Quindi non sono sicura che si trattasse di una buona immaginazione, l’umanità che fa un contratto con la natura… Anche lui era forse un po’ troppo… Diciamo che era di una generazione che non sapeva che la decolonizzazione era un compito infinito. Alla fine, era solo cominciata.

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Finito di stampare nel mese di aprile 2021 presso Printbee, Noventa Padovana (PD)