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Italian Pages 239/242 [242] Year 2017
9 Collana Crocevia diretta da Aldo Maria Morace
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ANTONIO D’ELIA
‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante Prefazione di Dante Della Terza
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Volume pubblicato con un contributo della Banca di Credito Cooperativo Mediocrati
ISBN: 978-88-6822-634-3 Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Stampato in Italia nel mese di ottobre 2017 per conto di Pellegrini Editore Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com E-mail: [email protected]
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Indice
Prefazione di Dante Della Terza................................................ pag. 7 Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria.......................... » 9 Ringraziamenti.............................................................................. » 15 Capitolo I ‘L’itinerario figurale’ della Vergine e l’inizio del cammino................. » 17 Capitolo II Il ‘verso estatico’ del poeta-pellegrino e il genere letterario del ‘Mariale’....................................................... » 51 Capitolo III La ‘sollecitazione lirica’ di Maria..................................................... » 97 Capitolo IV Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità...................................................................... » 127 Capitolo V ‘Trasumanar significar per verba / non si poria’. Maria e il verso-redento: persona-figura ........................................ » 173 Indice dei nomi............................................................................. » 233
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Prefazione
Prefazione
Nel lontano 1910, mentre a Pisa, presso la Scuola Normale Superiore, il nostro maître à penser Luigi Russo s’iniziava alla ricerca letteraria, l’italianista cattedratico Francesco Flamini s’addestrava allo studio dantologico concedendo rilievo ai “significati nascosti” della Divina Commedia. Il poema dantesco si rivela attraverso gli anni come un quadro sinottico di verità esplorate e ci siamo addestrati a lasciarci guidare dall’incisiva cadenza contenuta nei capitoli degli scritti danteschi di Erich Auerbach dedicati a Passi della ‘Commedia’ dantesca illustrati da testi figurali e La preghiera di Dante alla Vergine (Par., XXXIII) ed antecedenti elogi. Soggiornando in America, abbiamo avuto agio di leggere gli studi danteschi di un nostro coetaneo – John Freccero – il cui scritto: Dante: la poetica della conversione risulta tradotto in italiano da Corrado Calenda per il Mulino di Bologna nel 1989. Ma ecco che siamo messi a confronto con un libro ancora inedito, ma divulgato a nostro vantaggio attraverso una sagace battitura a macchina. Lo ha scritto l’amico cosentino Antonio D’Elia e il titolo, singolare e personalissimo, non manca di coinvolgerci: ‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante. L’impianto analitico dedicato alla Vergine Maria cantata nella sua natura umana e nel portato ontologico della sua persona dà credito all’acquisita complessa originalità dantologica di Antonio D’Elia. E presenta un magistrale quadro genetico, indizio di come narrazione evangelica e narrazione autobiografica “strumentano il verso dantesco”. L’amore nuovo emerge e mai in iscacco con l’analogia. L’analisi della fiugura lirica della Vergine Maria nella poetica dantesca dà agio al pensiero platonico ed aristotelico di inserirsi nel dibattito auspicato da mente cristiana a noi coeva: quella di Antonio D’Elia, che ha saputo dare coerente sequenza alla voce autorevole di Erich Auerbach. L’Introduzione: Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria fornisce credito al primo capitolo del libro: ‘L’itinerario figurale’ della Vergine e l’inizio del cammino. La Vergine Maria persona-figura ispira a Dante il verso-redento e quello che il dotto D’Elia definisce il “genere letterario del Mariale”. 7
‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante
I cinque capitoli che danno estro al libro di Antonio D’Elia, strutturati entro un lucido e rigoroso esame critico-filologico, presentano a nostro consumo un quadro sinottico di verità religiose che diventano parola ornata e voce di poesia. Dante Della Terza Harvard University
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Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria
Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria
A Maria Redemptoris Mater
L’analisi della “figura lirica” della Vergine nella poetica dantesca, oggetto del presente studio, con specifico riferimento alla Divina Commedia, parte dall’individuazione del modello-teoria mariologico. Dentro e oltre il genere letterario proprio del “mariale”. Il quale, perfezionatosi a partire dal XI secolo, ma agente nella liturgia e nella “riflessione orante” molto prima, e in questo esame da noi assunto come traccia-esecuzione del particolare sguardo-intensità poetico verso la Madre dall’Auctor-Agens, investe i moti applicativi della persona-figura di Maria. Quella estratta dal racconto evangelico, così come si è venuta presentando nella strategia poematica del poeta-pellegrino. E ci siamo addentrati necessariamente nell’esamina figurale, com’è stata proposta dai Padri della Chiesa ed esemplarmente riletta per la poesia di Dante soprattutto dall’Auerbach. E significativamente ripresentata dalla riflessione sull’analogia-anagogia, pur nelle differenze, dal Singleton, e non solo. All’interno di una complessa rimodulazione dei suoi asserti, giungente a proposte critiche, inevitabilmente discordanti, ma di alto interesse analitico coinvolgenti studiosi, non solo europei, di varia estrazione esegetica. Le cui riflessioni vertono sulla disamina problematizzante, dalla metà del Novecento ad oggi, in alto scambio dialettico, dell’individuazione del portato valutativo ed edificativo del verso entro la “metaforizzazione”. E soprattutto nel ritrovato della transumptio, che ne è il più raffinato e complesso movimento lirico-iconografico, in cui il canto viene a formarsi soprattutto nel terzo regno. Con significativo moto ascensionale dalla rappresentazione di Cristo e di Maria. Ed essi sono cantati lungo il cammino lirico nell’incontro fisico-metafisico delle loro “persone” (forma: essenza e immagine) con il poeta, che li traspone in mobile figura-verso. Persona-figura è sintagma versificatorio compatto, in cui il primo termine è da rintracciare nell’“ingestione” da parte del poeta del pensiero 9
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cristiano venuto a contatto con la tradizione classico-pagana. Per cui la figura diventa in poesia prosecutrice inventiva in chiara esplicazione segnica della costruzione poietica del canto nel suo più alto e profondo germe costitutivo: il «trasumanar significar per verba / non si poria”. Una rilettura, questa, che, tuttavia, se fosse stata condotta unicamente a rendicontare della “figura lirica”, come immagine del preconio dei misteri divini, nella costituzione soprattutto della sua formula poematica più evidente, ossia l’adempimento di se stessa, quale umbra futurorum, avrebbe visto ad ogni costo la funzionalità di un sistema operato nel paradigma più ampio (figura-immagine-maschera-tipo), e, dunque, già eminentemente approntato, come quello inerente l’esamina dell’Auerbach. E, pertanto, sarebbe divenuto discorso, il nostro, tautologico: impianto, che, tentando di inglobarne gli assi su cui poggia una ulteriore riflessione (superamento allegorico e realizzazione insieme dell’allegoria nel portato proiettivo di figura), li avrebbe, infine, ripresentati nella insufficiente esplorazione di improbabili proiezioni esegetiche. Finalizzate, quest’ultime, a revisioni forzate: scarto di collegamenti perseguiti su impervi sentieri formatisi entro ermeneutici ammassi di “pure suggestioni”. Le quali provocano, in quanto detriti di detriti, non una compattezza di forma-contenuto, ma una inevitabile e continua “frana epistemica” (dissolvenza). Ciò che, invece, abbiamo cercato di evidenziare è tutto racchiuso nella lettura del suddetto sintagma persona-figura. Il quale, esponendo i sentieri di una visione complessa della lirica e della poetica dantesche (il moto ascensionale di Dante per Maria), mostrasse lo svolgimento-ampliamento di figura in quello di figura-persona. Un modo cioè di intendere col canto, ed ecco il nodo dell’esame proposto, la verità tanto della storia dell’Auctor-Agens (del doppio io, secondo la lettura del Contini) quanto di quella evangelica (l’esegesi già riferita dei Padri, così come pure di Agostino, Tommaso, Bernardo, con plurimi e, tuttavia, ben saldi accostamenti-rimodulazioni del pensiero platonico, da un lato, e aristotelico, dall’altro). Approdando sì entro una tautologia, che si differenzia da quella sopra indicata per il carattere paradossalmente tutto proiettivo del novello processo sintagmatico, come afferma Freccero (che riprende la lezione del Burke). Sintagma, quello di figura-persona, che è e dice, da una parte, la realtà terrena (nascita e morte: vita-non vita) del canto, e, dall’altra, la realtà metafisica (vita reale oltre il carneo) nella poesia della Commedia. Narrazione evangelica e narrazione autobiografica strumentano il ver10
Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria
so dantesco in quel paradosso dello scandalo cristiano che la poesia espone nell’emendatio tramite l’amore nuovo, e non in scacco con l’analogia. La quale, reimpostata-rinnovata la prima poesia (stilnovistica) di Dante, entro una costruzione allegorico-anagogica in moto trasfigurato, approda pienamente alla realtà figurale (profezia ed adempimento si compiono nel verso che Maria svela quale memorialità attiva), che dalla Selva sale all’Empireo mediante Caritas. E canta gli autori del viaggio, quasi lambendo l’idea che essi si sovrappongano: esprime col canto le loro Persone. Dante diverrebbe addirittura “per” Beatrice accogliente (discepolo e promulgatore) della figura Christi per antonomasia: Maria. Tale procedura lirica esprime la differenza con tutte le altre figure del poema. E fa sì che Maria sia centro ed assime mezzo insostituibile del canto affinchè il poeta possa indiarsi. E la figura lirica in generale è letta, a sua volta, in questo studio entro il campo metaforizzante del proprio portato escatologico. E la realizzazione di tale processo amplifica l’inventio da cui, attraverso il costante richiamo delle “presenze versificatorie” di Maria, di Cristo e del poeta-pellegrino alle loro persone storiche, la poesia invera l’intimità dell’unione tra l’Auctor e l’Agens strutturando la profezia della Commedia (e seguendo in questo tratto la lezione di Bruno Nardi). Ed aprendo al ritorno cadenzato delle questioni politologiche ed etiche presentate col verso dall’Exul immeritus. Svelando, assieme, il recupero di una costruzione attentissima del Sacro (lettura costante del Grande Codice) dentro il “fingimento” del genere comico, che abilita proprio la figura a trasporre il reale delle persone descritte. Sciogliendosi infine nella “veridicità biografica” del rapporto Dio-uomo. E consentendo alla “narratio poematica” di porre, quindi, nel verso l’esempio divino come accesso metodologico e formativo del visibile parlare. Ed è proprio con l’indagine condotta dall’intellectus spiritualis che il verso gestisce l’operabilità della stretta relazione tra integumentum e immagine: in poesia esposti con il superamento del “velle”, “l’alta fantasia”, “immaginativa”, a proiettare articolatamente, entro una tesa esposizione lirico-narrativa, i due rispettivi piani: sonno-visione ed estasi. Esposti e realizzati tecnicamente entro incardinamenti ritmico-sonori derivati al poeta dall’esperienza d’uso dell’esistere materico (cammino, dialogo, soliloquio, oratio, riflessione, giudizio, pentimento, revisione, descrizione di stati d’animo e presa visione del tempo come pure dell’ “antitempo”: eternità, che è proprio del terzo 11
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regno, Giustizia, bellezza, bontà, Verità, libero arbitrio, anima, corpo). Ed elargiti in proiettive sintesi vertiginose in cui il “termine poetico” si concentra sì sull’elevatezza dell’immagine, ma più ancora accelera, nell’ultima stazione paradisiaca, l’attesa dell’introdotta meraviglia che sta per esporre proprio nell’accumulo dello stesso spazio d’attesa. L’amore, così, è elevato a rango divino, quale unica modalità di definire, partendo dal carneo, il Sacro. Entro questo processo figurale dantesco, proprio per il modello mariologico, figura per antonomasia di cristofora, dentro la metafora dell’involucro-similitudo, che è, per sua natura, dissimilis similitudo con il Figlio, si attua il canto. Si parte dall’analisi dei luoghi poetici in cui Maria è richiamata ed è presentata quale donatrice di grazia: dalla Vita Nuova fino alla Commedia. E la “Tutta Pura” è cantata con più diretto riferimento del suo ruolocompito nel secondo regno, a significare maggiormente la sua natura, l’humilitas, che è anche frutto della succitata consapevole scelta deliberativa della Madonna (libero arbitrio, grazia, volontà di Dio). E il modello applicativo-figurale della Vergine è costruito liricamente tenendo presente l’operazione di adozione del sistema bellezza-luminosità, che, attraverso Beatrice, struttura il travalicamento nel segno mariologico. E se con “iperbole stravolgente”, ossia nella contraddictio propria della Commedia, Dante istituisce mediante figura l’intera peregrinatio, secondo la lettura dell’Auerbach e del Singleton, proprio in tale procedura avviene il rovesciamento fattuale del senso figurale, che è, quindi, la sua vertigine capovolta, a squadernare non più il reale quanto a presentare addirittura il Vero. Dante, exul immeritus, è portatore della profezia rinnovante l’uomo, nella singolarità della persona (propria e di ciascuno), della Chiesa e della societas. Ed è nell’atto di cancellazione della colpa (nel luogo in cui venne trasgredito il divieto, il Paradiso terrestre), che il canto trova il suo culmine nella poesia del Purgatorio. E nell’allestimento edenico esplica l’indicazione della giustizia umana derivata da Dio prima della corruzione, espressa nella figura di Matelda, preannunciatrice di Beatrice-cristofora. Ed, assieme, esposizione misticolirica della ricapitolazione del significato stesso di giustizia perfetta in seno alla formulazione poetologica. Se Beatrice è già presente in questo ampio passaggio-paesaggio, è 12
Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria
l’anticamera-preparazione figurale di Matelda, del suo sorriso-assenso verso i poeti pagani, Virgilio e Stazio, ed implicitamente verso il pellegrinopoeta Auctor-Agens, a rendere plausibile la gradatio ascensionale per la quale e Dante e il lettore si accomodano solo ora, meno traumaticamente, a concepire la comprensione del mistero cantato dal verso purgatoriale. Ed espresso sommamente negli exempla dai quali si mostra l’ulteriore piano d’aiuto di Maria per il poeta-pellegrino. E, ripercorrendo la strada peregrinante con il poeta, proprio nella figura della più volte richiamata humiltas, si può segnalare inequivocabilmente il senso-modo dell’allegoria e del portato metaforico relati, quindi, alla giustizia-umiltà. Se il modo della poesia, che è poi anche il suo fine, quello cioè di riverberare costantemente in ogni nota il nesso umanità-divinità, detto nell’appropriazione dell’immagine del resoconto scritturistico, ed espresso paradossalmente anche mediante collatio occulta, risulta eminentemento ‘pinto’ nell’immagine dell’Aquila-Monarchia, quale riferimento poetico innestato nella cristologia versificatoria dantesca, l’Aquila-M è figura del “VentreGeneratore”. E il discorso-teoria sul libero arbitrio e sulla purezza dell’anima guastata dal peccato d’origine e dalla volontà dell’uomo di ergersi ad “arbitro” va ripreso partendo dal murus, dalla civitas, dalla domus Dei, che Maria incarna. Il portato persona-figura in Maria si dispiega nel contrario dell’umbra futurorum. Avalorando quest’ultima e l’adempimento finale al quale, tuttavia, Dante, invece, dovrà partecipare, come tutte le creature. Pur avendo vissuto per grazia, come egli dichiara da Auctor-Agens, un’ esperienza straordinaria trasmessaci per la poesia. E se il canto dantesco annette il mistero di là da venire, in Maria già adempiuto, e che si svelerà a “noi-lettori” quando capiremo Dio, vedendolo “faccia a faccia”, lo scioglimento lirico-figurale nella Vergine è raccolto hic et nunc proprio nella testimonianza fattiva che dimostra lungo il cammino la persona terrena-celeste della Vergine. E l’umbra-figura è dissolta nel poema quando Maria ci mostra il Figliopersona, poiché in Lei «’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura». Maria diventa nella strategia lirica di Dante la figura della tensione memoriale (la cera-sigillo), che si dà in sommo grado nel segno poetico, con i risvolti drammatici propri della tragicità dell’Evento cristologico. Aprendo al linguaggio lirico dell’ineffabile. 13
‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante
Il poeta-pellegrino concepisce “l’unitività tra cielo e terra” poiché proprio il verso, l’esecuzione attenta e cadenzata del ritorno memoriale (la musica del ricordo, che si mostra al lettore nella strategia lirico-narrativa hic et nunc) nella “terzina”, promuove (soprattutto giunti alla fine del canto) l’inchoatio formae di Maria. Pertanto, la memoria pensata e la memoria pensante dette in alta sintesi proiettiva (analogia ed allegoria “conflati” nella Luce, nella metaforizzazione costruita per transumptio). E per le quali il canto ha spiegato al poeta e al lettore il contatto-raffronto tra il “genoma umano e quello divino” tutto liricamente racchiuso «ne la faccia che a Cristo / più si somiglia».1 A.D. E.
1 Il presente studio non riporta la bibliografia a sé stante alla quale si è rivolto il processo d’esecuzione esegetico, prima e durante il suo allestimento, per l’immane mole bibliografica relata alla figura-opera della Madonna, non solo in Dante, ma nell’intera cultura cristiana, e oltre. Pertanto, le note debitamente formulate, durante l’esplicazione dell’esamina sulla “figura-persona lirica” della Vergine Maria costituiscono i riferimenti ai testi e alle modalità di lettura della “mariologia lirica” dantesca entro quella più generale espressa in quel “modo” da noi indicato quale “mariale lirico”. L’aspetto poetico è, quindi, l’evidente centro del nostro esame. E da questo, partendo dalla notazione primaria, che è, dunque, il “canto-principio” dantesco ci siamo avviati alla ripresentazione della teoria persona-figura di Maria nella poetica di Dante, con specifico riferimento alla Divina Commedia. Per la Commedia, quando non diversamente citata, il testo a cui ci si è rivolti è La Commedia secondo l’antica vulgata, Milano, Mondadori, 1966-67, 4 voll., a cura di Giorgio Petroccho; per le altre opere ci siamo riferiti a dante alighieri, Opere minori Vita Nuova (a cura di Domenico De Robertis), Rime (a cura di Gianfranco Contini), Il Fiore e Il Detto D’Amore attribuibili a Dante Alighieri (a cura di Gianfranco Contini), vol. V, t. I, part. I, indici a cura di Rudy Abardo, direttori Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi, Alfredo Schiaffini, t. I, par. I, a cura di Domenico De Robertis, Gianfranco Contini, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2004 e dante alighieri, Opere minori: De Vulgari Eloquentia (a cura di Pier Vincenzo Mengaldo), Monarchia (a cura di Bruno Nardi), Epistole (a cura di Arsenio Frugoni e Giorgio Brugnoli), Questio de Aqua et Terra (a cura di Francesco Mazzoni), Egloge (a cura di Enzo Cecchini), indice a cura di Giovanni Bianchi, t. II, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2004; per il Convivio in t. I, p. II, a cura di Cesare Vasoli, Domenico De Robertis, in dante alighieri, Opere minori, indice a cura di Enrico Peruzzi, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2004 e ancora dante alighieri, Tutte le opere, a cura di Fredi Chiappelli, Milano, Mursia, 1965. Le citazioni dalle Sacre Scritture sono tratte rispettivamente da: Novum Testamentum Graece et Latine, Roma, Editrice Pontificio Istituto Biblico, 1992 e La Bibbia- Nuovissima versione dei testi originali, Roma, Edizioni Paoline, 1983.
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Il canto peregrinante e la figura-persona di Maria
Ringraziamenti
Un profondo grazie al professore Dante Della Terza per l’alto scambio dialogico relato soprattutto all’esposizioneenuclezione della “figura poetica dantesca” e sulle relazioni inerenti la figura-persona di Maria e di Dante nel portato lirico della Commedia: grazie per averci consigliati durante la procedura d’esecuzione con i preziosissimi indirizzi esegetici e filologici. Un grazie ancora al professore Della Terza per aver introdotto con la sua Prefazione il nostrro esame e per averci guidati negli anni nello studio della poetica dantesca entro un dibattito costante e altamente ricreativo. Un profondo grazie al professore Rino Caputo per i consigli preziosissimi inerenti l’esamina del linguaggio poetico ed in generale per gli indirizzi relati all’esecuzione rigorosa dell’esegesi.
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‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante
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Capitolo I - ‘L’itinerario figurale’ della Vergine e l’inizio del cammino
Capitolo I
‘L’itinerario figurale’ della Vergine e l’inizio del cammino
Sed ista mystica et invisibili unctione tunc intellegendus est unctus, quando Verbum Dei caro factum est; id est; quando humana natura sine ullis praecedentibus bonorum operum meritis Deo / Verbo est / in utero Virginis copulata, ita ut cum illo fieret una persona. Ob hoc eum confitemur natum de Spiritu Sancto et Virgine Maria:1
Sant’Agostino nel De Trinitate espone la natura divina, che ha assunto carne nel tempo e nella storia mediante il seno verginale di Maria, quel “seno-rosa”, come Dante canta nel XXIII del Paradiso: «Quivi è la rosa in che ’l verbo divino / carne si fece; quivi son li gigli / al cui odor si prese il buon cammino» (vv. 73-75). E la cristologia del poema, che è il centro figurale-lirico dell’intera opera, sustanzia mediante l’azione della Corredentrice sin dalla Selva e fino alla visione “conclusiva” l’etica poetologica della peregrinatio. Ed essa ha in sé il moto ascensionale del peccatore. Questi, attraverso la convinta e libera acquisizione della colpa e del suo superamento, espone il mistero trinitario a partire dal grembo virgineo di Maria, ossia dalla storia terrena della nuova Eva, come acutamente nota l’Auerbach: «simbolo d’un avvenimento storico»2 unico. «Hic autor nititur ostendere quomodo hic fecit ultimum de potentia, et contraxit omnes vires animae in unum, si forte posset aliquid imaginari ad manifestationem istus
1 Sant’Agostino Aurelio, De Trinitate, Testo Latino dall’Edizione Maurina confrontato con l’ edizione del ‘Corpus Christianorum’, introduzione di Agostino Trapè – Michele Federico Sciacca, trad. di Giuseppe Beschin, Nuova Biblioteca Agostiniana – a cura della Cattedra Agostiniana presso l’ ‘Augustinianum’ di Roma – Direttore p. Agostino Trapè, O. S. A. – Opere di Sant’Agostino, edizione latino-italiano, parte I: Libri – Opere filosofiche-dommatiche, vol. IV, 15, 26, 46, Roma, Città Nuova Editrice, 1973, p. 706. Su Maria e il dogma trinitario cfr. Raffaella Roberti, La Vergine Maria: la donna e la Trinità, in «Città di Vita», 1, gennaio-febbraio 2008, 63, pp. 3-14. 2 Erich auerbach, Studi su Dante, prefazione di Dante Della Terza, traduzione di Maria Luisa De Pieri Bonino e DanteDella Terza, Milano Feltrinelli, 2005, p. 308.
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‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante
humanitatis»:3così Benvenuto da Imola nel commentare il canto XXXIII del Paradiso (i versi 133 e seguenti): speculatio e immaginatio convergono, pur nella “contraddittorietà felice” dei rispettivi asserti-pensieri, a manifestare il processo lirico che dice in figura poeticamente salda il trasumanare della fictio nella visio. Finzione e realtà si oppongono e si fondono nel verso nel cantare l’ineffabile: la fantasia, intesa in senso medievale, quale moto ricreativo della razionalità, fa emergere ciò che altrimenti non potrebbe essere detto. In questo senso il poieo dantesco è contradictio felice (modello proveniente dal Grande Libro: “la felice colpa”), attuabile solo mediante l’estensione ritmico-musicale propria del segno-poesia. La quale di per sé è “bella menzogna” ed assieme dice il vero, seguendo l’insegnamento di Aristotele incardinato nella lezione dei Padri della Chiesa, esercitatasi sulle divine Scritture: «opera del poeta non è dire le cose accadute, ma quali potrebbero accadere e le cose possibili secondo probabilità o necessità […]. Lo storico e il poeta, infatti, non differiscono per il parlare uno in versi e l’altro in prosa […] ma differiscono per questo: per dire uno le cose accadute […] e l’altro le cose quali potrebbero accadere. Perciò la produzione poetica è più filosofica e seria della narrazione storica: la produzione poetica, infatti, dice soprattutto le cose universali, mentre la narrazione storica il particolare».4 Per cui l’illuminazione interiore del poeta-pellegrino viene detersa dall’esposizione della fantasia nel linguaggio versificativo quale capacità della mente di gareggiare con la razionalità che ne afferma il reale. In questa direzione la formula coniata da Bruno Nardi in merito alla
Benvenuto de Rimbaldis de Imola, Comentum super Dantis Aldighierii Comoediam, edito da Guilielmi Warren Vernon curante James Philip Lacaita, Firenze, tip. Barbèra, 1887, 5 voll., vol. V, p. 525. 4 Aristotele, Poetica, 9, introduzione, traduzione e commento di Daniele Guastini, Roma, Carocci, 2010, p.67. Ed ancora, per un dettagliato studio sulla Poetica rinviamo all’esame di Domenico Pesce, Introduzione a Aristotele, Poetica, traduzione, parafrasi e note di Domenico Pesce, Milano, Rusconi, 1981, pp. 7-60 e Marcello Zanatta, La ragione verisimile. Saggio sulla “Poetica” di Aristotele, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2001. In merito alla formulazione del poieo e, soprattutto, in riferimento all’arte poetica occorre riferirsi proprio allo Stagirita, se pur non volendo costituire alcun parallelismo stretto, alcuna ripresa palesemente diretta, ma tuttavia segnalare un imprescindibile punto di partenza, che trova, appunto, nella Poetica di Aristotele il “cominciamento” teoretico-filosofico-letterario a cui Dante inevitabilmente guarda mediato dalla cultura letteraria classica e dai Padri della Chiesa. 3
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Capitolo I - ‘L’itinerario figurale’ della Vergine e l’inizio del cammino
“‘visione profetica” di Dante, ed in specifico del poeta-pellegrino, spiega il centro del dire la verità in figura. Quella che, per molti versi, tanto l’Auerbach quanto il Gilson, pur in autonomie ermeneutiche differenti, riprendono dalla tradizione esegetica del Grande Codice nell’allestimento delle loro rispettive teorie. Aventi tutte come base la cultura medievale ed il richiamo necessario alla cultura platonico-neoplatonica, da un lato, e aristotelica, dall’altra: «Non credo che Dante abbia aderito ad una scuola filosofica ben definita, e neppure che le abbia distinte col rigore che noi cerchiamo di avere in questi studi. Seguire Alberto Magno in un aspetto, non significa senza dubbio per lui separarsi da san Tommaso. Come ha detto a ragione Bruno Nardi: ‘Egli non è averroista e neppure tomista; non esclusivamente aristotelico, né soltanto neoplatonico, o agostiniano puro’».5 E il mistero posto a base del verso viene espresso nell’adattabilità narrativa-narratologica (fictiones). E, quindi, la realtà osservata attraverso gli occhi della Madonna, del suo segno-figura, concede l’operazione pur labile di trascrivere la visione, nell’ultimo canto del terzo regno, del Dio-Figlio e della Trinità: «Dante affronta e tenta qui di rappresentare i misteri più alti e imperscrutabili, e conturbanti, del credo cristiano: quello dell’essenza unitaria e trinitaria di Dio – nelle tre persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo –, e all’interno di esso, particolarmente coinvolgente per il credente, il mistero dell’incarnazione, del Dio che si è fatto uomo per la salvezza dell’umanità, operando l’incontro fra l’umano e il divino. È il tema su cui si apre il canto, evocato nell’invocazione d’esordio della preghiera di san Bernardo alla Vergine».6 La notazione del Freccero in merito alla recapitulatio, quale espediente tecnico-linguistico, relato soprattutto al segno-simbolo metrico della terza rima, alla sua applicazione, e all’impostazione delle tematiche poetiche e teologico-dottrinarie è in sé l’attuazione di una teoria metaletteraria specifica. Per cui le tre cantiche, nelle modalità differenti di esposizione, in cui l’azione di inoltrarsi nel mistero gestisce il proprio principio d’intervento,
Étienne Gilson, Dante e la filosofia nel Convivio, in Idem, Dante e la filosofia, editoriale di Costante Marabelli, trad. it. di Sergio Cristaldi, ‘Biblioteca di Cultura Medievale’ diretta da Inos Biffi – Costante Marabelli, Milano, Jaca Book, 1987, nota 78, p. 147. 6 Enrico Malato, Dante al cospetto di Dio. Lettura del canto XXXIII del Paradiso, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 66-67. 5
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aprono alla perlustrazione tanto dell’io quanto del noi. In quell’ascesa, alla quale si è già accennato, verso la perfezione, che per il cristiano è Dio fattosi uomo. E la cui storia in quella dell’umanità ingloba l’operabilità del poeta-pellegrino e la sua proiezione di Auctor-Agens, nel mentre quest’ultimo affida il proprio cammino al lettore. Entro il portato valutativo (poesia che dice il proprio intervento nella Storia, ossia parla della propria struttura partendo dalle cause che l’hanno mossa) specificatamente del poema quale resoconto attualizzante del processo evangelico: Forse il parallelo più impressionante tra tema e forma metrica è quello che si esprime nell’azione drammatica del poema, il percorso del pellegrino. Un movimento in avanti che sia nello stesso tempo una ricapitolazione è rappresentato geometricamente dalla figura della spirale. […]. La complessa geometria del tema della spirale è il correlativo spaziale del paradosso temporale insito nella progressione della ‘terza rima’, che ricapitola alla fine il suo inizio. […] la forma metrica e il tema procedono entrambi attraverso una proiezione che è insieme una ricapitolazione. […] tale movimento vale anche a rappresentare spazialmente la logica narrativa, in particolare quella dell’autobiografia. Il carattere paradossale di questo particolare tipo consiste nel fatto che inizio e fine debbono coincidere, poiché l’autore e la sua persona coincidono. […]. “Terza rima” tema del poema e logica narrativa possono essere tutti rappresentati come una progressione che muove verso il suo inizio. […]. La struttura narrativa […] come lo schema metrico privilegia la fine, il momento della conclusione, facendolo coincidere con l’inizio. Questo rovesciamento logico corrisponde teologicamente al movimento della conversione, della morte e resurrezione. Il tema cristiano della conversione soddisfa le contrastanti esigenze dell’autobiografia introducendo una radicale discontinuità entro la sequenza continua di una vita, grazie alla quale è possibile raccontare la storia di questa vita come se fosse vera, definitiva, e conclusiva. Morte vuol dire fine della storia, ma, grazie a una resurrezione spirituale, tale storia può essere raccontata. La tematizzazione cristiana di questa struttura narrativa deve farsi risalire alle Confessioni di S. Agostino, ma si potrebbe anche affermare che è proprio que20
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sto tema cristiano a generare quella struttura.7
E l’intera vicenda del poeta si presenta quale graduale adesione dall’amore per Beatrice-donna carnea a Beatrice-Benedetta, invogliata proprio da Maria, che è in sé cristofora per antonomasia, a far partorire a Dante una “nuova vita”. Dopo e oltre l’elevazione scientifico-filosofica e soprattutto a patire dalla narratio attraverso i tre regni. Tale azione procedurale porta il germe grammaticale-lingustico e musicale di ascensione, come si è già affermato, e che tramite Maria significa l’attuazione concreta di una figuralità-metrica precisa. Quest’ultima adatta dall’infima lacuna all’Empireo la strategia di poter dichiarare l’impossibilità di dire il Mistero di Dio uno e trino. Mistero il quale, tuttavia, proprio tramite la Madre di Dio, donna e genitrice del Genitore, dice l’attuazione del trasumanare, partendo dalla storia del Cristo quale recapitulatio (aprire il rotolo della Storia Sacra e leggerlo-riscriverlo) nell’avventura personale-intima dell’Auctor e dell’Agens: Il termine recapitulatio ha una sua storia nell’occidente latino in riferimento al tempo dopo la crocifissione. Nell’accezione originaria della chiesa greca, esso indica soprattutto una restaurazione universale, e tale accezione si prolunga nell’esegesi latina con l’idea di Cristo nuovo Adamo. In occidente, soprattutto con il donatista Ticonio, il suo significato si fa più specifico, e la recapitulatio diviene una delle sette regole della Scrittura: essa si ha quando un autore biblico parla simultaneamente del tipo e dell’anti-tipo, della promessa e del suo adempimento. È in questa accezione che il termine passa nell’occidente latino, attraverso l’estesa parafrasi di Ticonio che Agostino fa nel suo De doctrina christiana. Come la vicenda narrata nella Divina Commedia, la storia cristiana è una progressione verso un termine conclusivo che coincide con l’inizio: ‘in principio era il Verbo…e il Verbo si è fatto carne’. […]. La teoria cristiana della ricapitolazione proviene da categorie linguistiche […]. Si direbbe che la teoria cristiana della storia deriva dal tentativo di imporre un termine linguistico al dominio della temporalità, trasformando
7 John Freccero, Il significato della ‘terza rima’, in Idem, Dante. La poetica della conversione, tr. it. di Corrado Calenda, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 341-343.
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l’entropia, quello che Agostino definirebbe il tempo del peccato, in un discorso formale, o tempo della redenzione. Se è possibile vedere nella forma letteraria adottata da Dante un riflesso delle sue opinioni in materia di teologia, è altrettanto possibile vedere in quella teologia la proiezione delle sue forme letterarie. Tra tutti i Padri della Chiesa, è Agostino, oratore e vescovo, quello che dimostra maggiore consapevolezza dell’analogia tra il regno delle parole e la teologia del Verbo. 8
Se, perciò, il paradigma poetologico segue la traccia cristica, e la segue nell’affermazione dichiarata non solo di una mimesi ricreativa innovativa, qual è quella del poema, ma soprattutto di una inventiva esecuzione (fictiovisio) dei piani del ‘doppio io’9 nel viaggio, è la memoria del poeta-pellegrino, la cui traccia negativa è cancellata dal superamento degli errori, a perlustrare la propria genesi. Attuando, dunque, sul piano teoretico-letterario, il saldo legame tra terra e cielo, madre e figlio, peccatore e salvato: La Divina Commedia non è soltanto un’ampia configurazione statica di luoghi, ma un percorso dinamico, un viaggio, durante il quale il pellegrino viene in contatto con tutta una serie di immagini mnemoniche, che deve imprimersi il più fedelmente possibile nella memoria […]. In questo modo il percorso mnemonico di Dante prepara già il discorso poetico dell’Alighieri. Nella loro arte della memoria i maestri di Retorica greci e latini erano unanimi nell’ammettere l’importanza mnemotecnica di buone condizioni di luminosità. […]. Per quanto riguarda l’Inferno, Dante non fa mistero del fatto che il buio sia quasi uniforme e tanto più quanto più i viandanti si avvicinano al fondo dell’Inferno. Esso è insomma il ‘il cieco mondo’ (Inf. IV, 13). […]. Quale rimedio esiste contro quest’ostacolo? L’unico rimedio per così dire tecnico, vale a dire mnemotecnica, si presenta alla mente di Dante in forma di una invocazione alle nove Muse, figlie di Mnemosyne. […]
Ivi, pp. 347-348. Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Idem, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976 (1ª ed. 1970), pp. 33-62. 8 9
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In che modo possono aiutare le Muse? La loro azione si fa lege artis, giacché le Muse sono le padrone delle arti. In questo caso l’aiuto viene dunque dall’arte della memoria. 10
Fuori dalla complessa logica poematico-metafisica della transumptio11 il discorso non può essere appieno compreso. E la figura della Vergine detiene ed espone in attenta e assieme discreta presenzialità l’antefatto e lo scioglimento poematico: cera-sigillo del Dio uno e trino nel poeta-viandante. Costituendo completamente il superamento dell’amore umano-carnale in quello divino. Ella è, così, l’altro nome per definire il viaggio in Dio, e Bruno Nardo significativamente segnala, sulla scorta della riflessione incentrata sull’opera di Pietro d’Abano, l’opportunità di gestire il piano empirico con e in quello, appunto, metafisico. Per i quali proprio Dante riorganizza tecnicamente la memorialità attenta del poema, in cui, a partire dalle considerazioni materiche, il moto dei pianeti, le stelle, le forze fisiche re-introducono col canto, tra gli altri, l’evento da cui tutto dipende. E per il quale la Commedia specificatamente si attua, ossia mediante Maria: «per virtù dello Spirito Santo la Vergine concepì il Cristo. Ora il miracolo dei miracoli, la nascita del Cristo, fu anch’esso preparato e segnato dall’ottima disposizione del cielo, cagione dell’ottima disposizione della terra. Poiché, da quando ‘esso cielo cominciò a girare, in migliore disposizione non fu che allora, quando di là su discese Colui che l’ha fatto che ’l governa: sì come ancora per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare’ [Conv. IV, V, 7]. Per questa ragione, ‘ottimamente naturato fue lo nostro Salvatore Cristo’ [Conv. XXIII, 10]». 12
10 Harald Weinrich, La memoria di Dante, Firenze, Accademia della Crusca, MCMXCIV, p. 7 11 Sulla modalità tecnico-esplicativa messa in opera da Dante nella trama linguistica accuratamente esposta seguendo soprattutto l’esempio applicativo della Sacra Scrittura e sulle formularità riguardanti i percorsi semantico-grammaticali in cui il poeta dice il ‘sensus profundi’ del Mistero, il vasto processo allegorico-anagogico-figurale da Platone ad Aristotele a Dionigi l’Areopagita ad Agostino e ai mistici è impiegato nella sottigliezza lirica in cui, quindi, la ripresa della ‘retorica pagana’ ne risistema molti assetti procedurali: cfr. su questo specifico tema l’importante studio di Marco Ariani, I ‘metaphorismi’ di Dante, in La metafora in Dante, a cura di Marco Ariani, Firenze, L. S. Olschki,, 2009, pp. 1-57. 12 Bruno Nardi, Dante e Pietro D’Abano. Influenze celesti sugli avvenimenti della storia umana.
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Maria è la «giovinetta donzella di tredici anni» (Conv. II, V, 4), per la quale è venuto al mondo il Verbo: «Cristo, figliuolo del sovrano Dio e figliuolo di Maria Vergine (femmina veramente e figlia di Ioacchino e d’Adam), uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita. ‘Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre’”, sì come dice Ioanni Evangelista; e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui non potavamo, né veder veramente» (Conv. II, V 1-3). Maria diventa anche simbolo topologico-topografico di una città, intimamente legata alla struttura lirico-teologica della poetica dantesca. Simbolo che secondo il Busnelli e il Vandelli deve essere ricondotto alla più complessa e definitiva visione di due nomi posti nel II canto dell’ Inferno: Maria e Lucia. Per cui, seguendo anche le notazioni dell’Austin e del Pézard13 (e non deviando in alterazioni esoteriche, o forzatamente complesse, soprattutto secondo quest’ultimo esegeta), e il riferimento alle due donne sante e al nome che esse danno alle due rispettive città risulterebbe un’indicazione chiara da parte del poeta. Maria designerebbe il polo nord e Lucia il polo sud della terra. Cosicché, nella strategia anagogico-simbolica l’uso dei nomi è da ricondurre alla costituzione dei significati profondi per i quali essi sono e per i quali il loro impiego non può essere stato da Dante utilizzato in modo improprio e superficiale né tantomeno non allusivo di una determinata realtà: «Per quanto concerne […] l’identità [specificatamente] di Maria con il polo artico, il Pézard offre un altro e utile suggerimento: il Sermo super Annuntiationem di Alano di Lilla […] che identifica appunto la figura del polo con quella della Vergine, mentre l’Anticlaudianus dello stesso autore […] sembra inserire la metafora del ‘polo’ in un’allegoria certo più vaga e di carattere filosofico: l’elogio della Sapienza». 14 L’utilizzo della figura di Maria è, pertanto, indicativo di una tradizione di cui Dante si serve per la costruzione del dire in versi la proiezione (teoretica) inerente l’aspetto-modo della discussione sul carattere complessivo
Sul Cristo, in idem, Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (1ª ed. 1930), p. 54. 13 Cfr. l’ampia nota a cura di Cesare Vasoli – Domenico De Robertis, in Dante Alighieri, Convivio- Opere minori, t. I, part. II, a cura di Cesare Vasoli – Domenico De Robertis, cit., pp. 346-349. 14 Ivi, p. 349
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del proprio impegno di intellettuale e di uomo politico, secondo le indicazioni del tempo in cui il poeta vive ed opera. È necessario ripercorrere ora i tratti della fisionomia, se fosse possibile dire, culturale-intellettuale, da un lato, del “Dante cristiano”, e, dall’altro, del Dante “laicista-laicistico” per sondare i processi di acquisizione dei modelli ai quali si riferisce. E più ancora per tentare di indicare, pur brevemente, “dove” (da “dove”) e tramite “chi” li ha attinti. Senza alcun dubbio il primo nucleo di profonda formazione culturale il poeta l’attinge «ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti» (Conv, II 12 7), 15unitamente allo studio personale, 16 che lo ha impegnato per tutta la via. 17
Sulla vita del poeta, per un ampio quadro generale, cfr. giorgio petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 1986. 16 Le necessitanti premesse di Francesco Bausi all’esegesi da questi compiuta sul canto XII del Paradiso non solo rilevano il moto procedurale relato al canto in questione ma aprono ad una lettura globale e nel contempo particolareggiata del cammino del poeta. Pertanto, uno studio che riveli nell’affannosa ricerca di fonti che abilitino il percorso del poeta-pellegrino, così come una lettura rivolta alla considerazione di “un Dante” limitato a pochi pur alti riferimenti interpretativi non costituisce un discorso che convince in fondo un serio moto perlustativo (cfr. Francesco bausi, Premessa, in idem, Dante fra scienza e sapienza. Esegesi del canto XII del Paradiso, Firenze, L. S. Olschki, 2009, pp. 7-15). 17 «Il rischio principale che corre chiunque si misuri oggi con la Commedia è quello dell’esasperata sottigliezza interpretativa, che può assumere forme molteplici: l’accanimento quasi nevrotico sulle cruces esegetiche più dibattute, l’insistenza capziosa su corrispondenze lessicali e ritmiche interne al testo (per dedurne forzati collegamenti a distanza), lo sforzo inesausto di raschiare il fondo della Patrologia Latina (per portare alla luce ulteriori, presunte fonti filosofiche e teologiche di Dante), l’inclinazione a leggere molti episodi e l’intero poema in una banalizzante, formalistica e de-teologizzante chiave metaletteraria, l’impegno speso nella puntigliosa decifrazione storica di passi profetici renitenti a qualunque tentativo di chiarificazione. D’altra parte c’e da capirlo, il povero dantista, soprattutto quello dedito al sempreverde rito delle Lecturae: come fare ad arrampicarsi in vetta al monte altissimo ma tutt’altro che dilettoso della bibliografia dantesca, e, una volta approdato in cima, dire qualcosa di nuovo, magari, come Petrarca sul Ventoso, aprendo a caso qualche libro? Forse bisognerebbe rassegnarsi a riconoscere che nuovo, nella critica dantesca, è solo ciò che ci sembra tale perché non conosciamo lo studioso o il commentatore che già l’ha detto. E in ogni caso, incombe sempre sul dantista il pericolo di fare la fine del giovane compositore che chiese a Rossini un parere sul suo ultimo brano appena eseguito: ‘Caro signore – rispose il grande pesarese –, nella sua musica c’e del nuovo e c’e del bello: ma quello che è bello non è nuovo, e quello che è nuovo non è bello’» (Idem, Incipit poema sacrum. Lettura del primo canto dell’Inferno, in Lectura Dantis Lupiensis, a cura di Valerio Marucci - Valter Leonardo Puccetti, vol. 3, Ravenna, Longo Editore, 2014, pp. 27-28). 15
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La conoscenza in Dante si “materia” nella poesia e si informa per la poesia, cosicché riprendendo le giuste indicazioni del Gilson e di Nardi, il Bausi individua nell’imprescindibile studio storico-filologico il motivo principe dell’analisi. Non deviando l’attenzione dall’auscultazione di più modelli, anzi di diverse istanze, prima tra tutte il discorso specificatamente logico-metafisico che Dante ha assunto, quindi, durante la prima formazione. Esponendo il principio di fede, il paradigma ontologico e la struttura metafisica (nella sintesi dialettica platonico-aristotelica) in quella derivatagli dal modello della poesia pagana (Virgilio, ma non solo) e dalla lettura dei Padri della Chiesa (fondamentale Sant’Agostino): «Alfonso Bertoldi [scrive Bausi] […] sapeva elegantemente e affabilmente coniugare – eredità del suo maestro Giosue Carducci – larghezze di dottrina, rigore d’indagine, passione morale e cordialità comunicativa, e non riteneva sconveniente concludere […] la perenne forza etica e religiosa del grido dantesco»,18 dal quale nasce il verso in generale. E per il quale la poesia dantesca, diremmo noi, dà forma drammaticamente singolare all’incontro umano-divino. Dal passaggio di ‘Beatrice-donna’ a ‘Beatrice-cristofora’ si avverte, così, il percorso formativo effettuato alla luce dell’azione di fede del poeta, che porta all’interno del verso le tematiche inerenti il rapporto, quindi, uomo-Dio. Non solo, il mondo politico di Firenze, dell’Italia e dell’Europa del suo tempo è costante stimolo a investire il profetismo quale antefatto della concezione politologica del cantore. Dante poeta della “Respublica Christiana” è posto al bivio, secondo la secolare esegesi, dello «schermo parigino-oxfordiano».19 Egli direttamente o indirettamente vi ha assorbito non solo l’esposizione degli autori sopra citati, ma li ha letti alla luce delle considerazioni urgenti proposte dai bisogni civili e religiosi, e ne ha vagliato criticamente o ne ha subito intimamente i moti. 20
Idem, Dante fra scienza e sapienza, cit., pp. 13-14. Egidio Guidubaldi, Pier Giovanni Olivi e Remigio De’ Girolami (due lezioni riflessesi in Dante), in idem, Dante europeo II. Il Paradiso come universo di luce (la lezione platonico-bonaventuriana), Firenze, L. S. Olschki, MCMLXVI, p. 73. 20 «Lo schermo parigino-oxfordiano che chiamiamo a fungere da nesso logico con l’esperienza visionaria presupposta dall’equilibrio poetico del Poema Sacro, si lascia 18 19
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A ciò occorre giustamente accostare l’insegnamento avuto in Santa Maria Novella e, «pur non lasciandosi oggi accettare nella sua integrità per tranquillamente raccogliere nel naturale sviluppo di un discorso dantesco che, iniziatosi in Firenze, si porta a poco a poco alle estese radici della ‘Respublica Christiana’, qui considerata nelle componenti intellettuali che ne dinamizzano l’intera struttura. […]. Le ‘lezioni’ che facciamo risalire all’Olivi e al Girolami prescindono, infatti, totalmente dal loro coincidere o meno con ore da Dante trascorse in S. Croce e in S. Maria Novella mentre vi insegnavano i due maestri qui ricordati; come pure da una storica documentabilità di loro presenza in Firenze già ai tempi di Dante […]. Procedimento storico […] appoggiato al ‘minimum’ sicuramente sostenibile: le due diverse intonazioni culturali di S. Croce e di S. Maria Novella (coerentemente protrattesi, per lo meno, lungo l’intero periodo in cui Dante poté beneficiarne) che nelle lezioni dell’Olivi e del Girolami videro rispettivamente concretarsi i loro momenti di qualificazione massima. […]. [Presso Santa Croce] ci conducono come prima scuola da Dante frequentata, ma anche in forza di una scelta suggerita da un atteggiamento francescano che non può non colpire […], soprattutto attraverso il Vernani, in campo domenicano. Laddove, infatti, nella stessa Firenze c’è dolorosamente da prendere atto del drastico intervento avutosi in S. Maria Novella in occasione del capitolo generale domenicano del 1335 in cui si proibiva di tenere e studiare Dante […], il messaggio che ci viene dai francescani in genere e da S. Croce in particolare è quello che uno dei più autorevoli storici dell’Ordine (P. N. Papini) ci ha tramandato in testa all’elenco dei primi Lectores in Florentia universitate […]. [E sulla scorta soprattutto degli studi del Davis, per i quali in S. Croce predominante è l’influsso neoplatonico-bonaventuriano su quello aristotelico-tomista] non tarda a precisarsi […] [la] sistematica organizzazione d’un discorso bibliofilo stilato a Firenze con lo stessissimo criterio con cui lo si sarebbe sviluppato in Inghilterra o nello studio francescano di Parigi. Accentuatissima è, anzitutto, la presenza del ‘Magister’ cui l’intero mondo francescano inglese deve non solo il primo benvenuto oltre Manica, ma anche l’intera strutturazione intellettuale originatasi in Oxford e poi da lì propagatasi sia in Inghilterra (Cambridge, ad esempio) che in altri centri europei. Di lui (il R. Grossatesta solitamente conosciuto in Firenze con l’epiteto episcopale ‘Lincolniensis’) troviamo le seguenti tracce nell’inventario descrittoci dal Mazzi: […] Compütus lincolniensis […] Dyonisius, de ecclesiastica ierarchia, cum commento linconiensis […] Dyonisius aereopagita de angelica ierarchia et De mistica theologia cum commento lincolniensi […]. Con il caposcuola troviamo, uno dopo l’altro, tutti gli esponenti più significativi, spesso addirittura accompagnati da un gioco di vicinanze legato in Firenze al nesso logico tipicamente neoplatonico con cui ad Oxford si giungeva a tali autori. Certe presenze arabe ad esempio (tra cui l’Algazel frequentemente ricorrente nelle opere di Tommaso di York) o certe altre appartenenti alla Scuola di Chartres […] [per esempio Guglielmo di Conhes] […]. In questa ricchissima rassegna di prosecutori dell’impulso grossatestiano […] ‘Adamo Di Buckfield’ […] ‘Bartholomaeus Anglicus’ […] ‘Giovanni Peckam’ […] Tommaso di York […] pennellata finale è l’imponente presenza di due autori che, lungo la scia neo-platonica […] riscontrata fungono da pietre miliari in Italia (l’uno come punto di partenza, l’altro come punto d’arrivo): S. Agostino e S. Bonaventura […]. Da uno sguardo […] alle indicazioni che ci offrono sia il Mattesini che il Davis, non è difficile approdare alla prassi vigente in fatto di registrazioni di ‘introiti’ di biblioteca. Si plaude all’ingresso degli ‘auctores’ (opere sacre come la Bibbia, S. Padri, autori classici, ecc.); […]. Quanto frequente fosse la prassi di circolare da uno studio all’altro con
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via dei diretti prelevamenti che Dante ha sicuramente fatto da S. Tommaso sui punti già inculcatigli dalla lezione del Girolami, indubbiamente serve a profilarci gli aspetti rilevanti di una sistematicità d’ascolto avviatasi con le ben diverse prospettive filosofiche e culturali in genere che Dante veniva a trovare nella S. Maria Novella legata all’impronta del Girolami».21 Aristotele è, così, gestore anche delle trame politologiche più raffinate aventi profondi e alti risvolti proiettivi soprattutto nel De Monarchia. Unitamente alla costituzione metafisica (nella sua più complessa assegnazione del termine)22 operante quale fondamento della visio dentro e oltre la fictio. Di un principio di indagine, cioè, dell’idea-pensiero generato dal Logos e avente in Platone l’indicazione principe, poi ripresa e rimodulata dalla cultura-speculazione dei Padri e dei medievale, ed in particolare dalla mistica.23
una buona scorta di testi scolastici di maggior uso è cosa che ci viene attestata da infinite fonti francescane [come bagaglio da viaggio, prosegue Guidubaldi, “tascabile”] di cui si munisce ogni ‘lector’ chiamato ad insegnare altrove o addirittura ogni studente francescano che, fatti i propri studi […] in Oxford o in Parigi [quest’ultimi sono i principali “Studia”, ma anche Firenze, Bologna, Tolosa, Colonia, Asti, Pisa, Rimini e Todi, come lo studioso ricorda in nota], se ne ritorna» (ivi, pp. 74-89). 21 Ivi, p. 100. 22 Di metafisica e di ontologia nel pensiero moderno e contemporaneo molti filosofi ne hanno ripreso le tracce considerando entrambi i termini processi di uno stesso sistema. Se con Aristotele metafisica indica sì la filosofia prima, e l’opera dello Stagirita viene designata dai suoi allievi come ricerca successiva a quella della fisica e, assieme, ‘sopra’ la fisica, le ‘espressioni’ ontologico e metafisico nei rispettivi impianti speculativi dei pensatori, in relazione alla ‘speculazione prima’ di Aristotele, designano allora la ricerca dell’essere in quanto essere e la ricerca su Dio (il Dio della filosofia) unitamente allo studio delle coppie concettuali che le costituiscono (qualità-quantità, necessità-contingenza, sostanza-accidente, mutabilità-immutabilità, causa-effetto, finitezza-infinitezza, identità-diversità): cfr., per un quadro d’insieme, Giovanni reale, Introduzione a Aristotele, Metafisica, Napoli, Loffredo Editore, 1978, Gianni vattimo, Etica dell’interpretazione, Torino, Rosemberg & Sellier, 1989, luigi pareyson, Ontologia della libertà, Torino, Einaudi, 1995, carmelo vigna, Metafisica ed ermeneutica, in «Hermeneutica», 1997, pp. 23-43, 23 Per un complesso studio relativo alla poesia e al pensiero di Dante in relazione ai temi trattati cfr. Bruno Nardi, Saggi di filosofia dantesca, cit. Per un profondo esame del pensiero medievale, dell’opera di Agostino e dei Padri della Chiesa, dentro e oltre lo specifico riferimento cui il verso-pensiero dantesco si rifà, cfr. Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, presentazione di Mario Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1973, Walter Berschin, Medioevo greco-latino. Da Gerolamo a Niccolò Cusano, ed. it. a cura di Enrico Livrea, Napoli,
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Sapienza del Padre che “si fa” nel Figlio mediante Maria con Amore, ossia Dio che si dichiara nella propria essenza, per virtù dello Spirito Santo. E così Dante riprende il motivo-avvenimento dell’Incarnazione e della Trinità sottolineando che tramite l’ “atto del sì” avvenuto grazie a Maria si ristabilisce l’identificazione nuova («riconformare», Conv. IV, V 3-4) per immagine (nel senso, quindi, biblico e platonico: sostanza che da Dio è emanata per sua libera scelta-volontà in caritas) tra Creatore e creature. Posizioni, queste, assunte e desunte dall’insegnamento ricevuto e criticamente esposto nel poeta attraverso «quell’atmosfera platonico francescana di Santa Croce […] [e con quella] genuinamente aristotelico-tomista rispecchiata dal Girolami per S. Maria Novella».24 L’Incarnazione riguarda, dunque, la storia, non solo del singolo, quale quella del poeta, ma dell’umanità tutta epitomata negli avvenimenti dell’impero di Roma. Per i quali la “sustanza” ha assunto corpo in quella specifica età-tempo. E il rapporto del poeta con la Madre, che è il cuore poematico, appunto, del verso mariano dantesco, si esplica proprio nella ritualità prefigurativa-figurativa di Maria così come è presentata nella Bibbia. Ed è esposta col canto entro il discorso ascensionale, per gradi, di derivazione bonaventuriana: Volendo la ’nmensurabile bontà divina l’umana creatura a sé riconformare, che per lo peccato della prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade che ’l Figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia. E però che nella sua venuta lo mondo, non solamente lo cielo ma la terra, convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione della terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella
Liguori, 1989; Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri - Massimo Parodi, Storia della filosofia medievale. Da Boezio a Wyclif, Roma-Bari, Laterza, 1990; Guido Bosio - Enrico Dal Covolo – Mario Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli I-IV, Torino, SEI, 19901993; Giovanni Reale - Carlo Sini, Agostino e la scrittura dell’interiorità, con introduzione e cura di Massimiliano Finazzer Flory, Edizioni San Paolo, Milano, 2006; Claudio Moreschini, Letteratura cristiana delle origini greca e latina, Roma, Città Nuova Editrice, 2007. 24 Egidio Guidubaldi, Pier Giovanni Olivi e Remigio De’ Girolami (due lezioni riflessesi in Dante), in Dante europeo II. cit., p. 99.
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cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma. E però [che] anche l’albergo dove ’l celestiale rege intrare dovea, convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, della quale dopo molti meriti nascesse una femmina ottima di tutte l’altre, la quale fosse camera del Figliuolo di Dio: e questa progenie fu quella di David, del qual discese la baldezza e l’onore dell’umana generazione, cioè Maria. E però è scritto in Isaia: ‘Nascerà virga della radice di Iesse, e fiore della sua radice salirà’; e Iesse fu padre del sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria (Conv. IV, V 3-7):
Il “canto virgineo” sembrerebbe drammaticamente squadernato dal poeta proprio nella sottigliezza raffinata del dire l’humilitas di Lei. Cameraintimità tra Dio e io aprentesi al “tutti e al ciascuno”. Maria è, appunto, definita «camera del Figliuolo di Dio» (Conv. IV, V 5): luogo-spazio in cui la grazia ha permesso che essa stessa prendesse forma-materia, prima ancora che nel Figlio, secondo un processo naturale, nella Donna Santa. Tali istanze-teorie sono in Dante il risvolto di uno studio capillare. Il quale, partendo dall’immagine-idea di Beatrice, trasfigura simbolicamente la donna del “Dolce Stil Novo” in sapienza filosofante diventa donna teologante e addirittura figura Christi nella definitiva narrazione lirico-poematica. Il percorso così delineato mostra la creazione di un modello letterario preciso, quello dell’applicazione segnico-figurale che incardina nella separazione graduale tra carne e spirito, mondo e oltremondo, tempo-spazio ed eternità i lenocini versificatori (il “trasumanar per verba” ne è la più compiuta manifestazione) su cui il narrato di un mortale ha la pretesa di gestire i sentieri dell’hic et nunc terragni nell’andirivieni poematico esposto dall’Auctor-Agens, come rileva il Contini.25 Entro la gestazione di una cultura, quella classico-pagana, che in Dante espone l’arditezza di una sintesi
25 Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Idem, Un’idea di Dante, cit., pp. 33-62.
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in quella cristiana. Per cui il linguaggio d’amore viene progressivamente elevandosi a linguaggio-grammatica metafisico. E l’eros proprio della figura di donna terrena e angelicata assurge a totale esperienza visionariaspirituale. E Dante ritrova l’antica lingua d’Adamo riscoprendo la nuova Eva attraverso il lessico cristico e mariologico esperimentato fino all’Empireo.26 La storia narrata dal poeta-pellegrino, che è in sé, dunque, storia d’amore-civile-morale, è nel cammino poetico assimilabile a quella biografica. E l’espediente narratologico della visio produce proprio nella fictio l’adattabilità straordinaria di un modello poetologico che in sé riversa le istanze, quindi, autobiografiche e artistiche specifiche. In cui forma-contenuto e impianto morale-religioso vengono “conflatti” non nell’indistinto accumulo dei contrari, ma nell’esposizione dettagliata del poeta e dell’autore, e se «il pellegrino può ascendere così dove amore è tutto ‘nel primo ben diretto’», tuttavia «il viaggio compete all’ ‘io’ storico di Dante, all’ ‘io’ che è ‘io’, poeta: e tutta la poesia […] è poesia d’amore. Ogni tappa e sosta del suo viaggio oltreterreno è una modalità del suo ‘io’ antico vittoriosamente attraversata; quei suoi interlocutori sono loro, storici, e sono altro, simbolo e funzione. Anche in loro dunque si attua la duplicità di piano che qualifica Dante, e a suo specchio Beatrice».27 E proprio il profetismo abilita la narratio a definirsi vera in quell’ “esistere poematico” coniugato da Dante nella singolarità detta dagli strumenti che ha a disposizione. La “bella menzogna”diventa il paradigma del suo stesso contrario. E la bellezza, che è ed ha in sé il vero e il buono (secondo la tradizione platonica e aristotelica, pur nella differenza degli impianti), è detta mediante un processo teoretico entro l’allestimento ampio di una parabola, quella autobiografica, appunto, espansa in moto anagogico-figurativo. E che nel profetismo lirico (dire il dopo nella visone eternatrice) esplica con l’allegoria il massimo grado della sua ascesa lirica: «il contribu-
26 Su questo specifico e significativo aspetto rinviamo allo studio di Corrado inerente, appunto, la teoria-forma e i passaggi tecnici sulla lingua poetica e sulla costruzione poematico-grammaticale evidenziati ed espressi dallo stesso poeta: massimiliano corrado, Dante e la questione della lingua di Adamo (De Vulgari Eloquentia, I 4-7; Paradiso, XXVI 124-38), Roma, Salerno Editrice, 2010. 27 Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, cit., p. 62.
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to di Nardi in Dante profeta [scrive significativamente la Barolini] e quello del Singleton sull’uso dell’allegoria dei teologi nella Commedia […] [sono] essenzialmente complementari. Singleton, sulla scia di Erich Auerbach, sottolinea la validità del senso letterale come storicamente vero, e la questione di Dante “profeta”, in definitiva, va al di là delle specifiche profezie all’interno del testo per abbracciare il più vasto problema di un poeta che si considera dicitore di verità, queste due tradizioni sono effettivamente modi paralleli di discutere l’unica questione centrale delle rivendicazioni di verità da parte del poeta». 28 La poetica d’amore subisce sempre più nel mentre si inoltra nella Selva per l’Empireo la conferma dei dati storici-biografici del poeta in una sintesi, che non è indistinta volontà di regredire entro un compromesso dato dall’accumulo, appunto, di due o più indirizzi evidentemente non sempre convergenti, quanto l’opportunità da parte del poeta di “voler comprendere” ed assicurare risvolti veritativi opportunamente vagliati a rimarginare, o tentare di farlo, una catacresi, per dirla con Contini, 29che sia frutto buono, a patto che sia sincero, ossia serio, di un cammino aperto all’inchiesta con precise finalità d’intenti. I quali, a loro volta siano, quindi, essi stessi buoni e veri.30 E pertanto il completo “trasumanare”, per cui la Madre
28 Teidolinda Barolini, Dante e la creazione di una realtà virtuale: realismo, ricezione e le risorse della narrativa, in eadem, La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, trad. it. di Roberta Antognini, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 13-14. 29 Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, cit., p. 33. 30 «Al contrasto tra ‘spirituali’ e ‘conventuali’ […] [che Dante poté osservare in Santa Croce], o a quello dovuto constatare, sempre in Firenze, tra S. Croce e S. Maria Novella […] si è sostituita un’asprezza polemica nella quale elemento dominante è il rimbalzo di scomuniche […] dall’uno e dall’altro dei fari culturali […] a conclusione delle perfette rispondenze riscontrabili tra i progressivi irrobustimenti del simbolismo insito in Beatrice e i paralleli acquisiti logico-psicologici verificatisi in Dante (lui pure passato dall’iniziale incanto della Vita Nuova, all’impegnata partecipazione nelle ‘disputazioni’ filosofiche fiorentine e, quindi, all’impulso d’azione con cui interviene nella crisi d’una civiltà) c’è da accennare ad un finale sviluppo esso pure caratterizzato da identico gioco di rispondenze: la Beatrice teologizzata del Paradiso (quella già additata come ‘speculum’ del Dio che in lei si riflette) e il ‘Theologus Dantes’; quello, cioè, che dalla fase sociale si sposta al momento contemplativo culminato nell’intuizione della ‘nostra effige’ dipinta nel ‘lume reflesso’. Il Dante-sintesi […] ci rivela […] un ulteriore acquisto distanziatissimo da quello già potuto additare nella simultanea funzione che egli fa dei due mondi filosofici in lotta. Dalla sintesi meramente umana […] [platonico-aristotelica] si approda alla ben più ardita sintesi che già S. Paolo
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di Dio (indicata da Beatrice, che sarà il segno principe del Figlio lungo il cammino), va a segnare la poetica di renovatio di Dante. E Beatrice partorendo i signa che comunicano il nesso Cristo-luce riassume, in questo primo momento esistenziale-poetico, la storia della salvezza: «è di fatto il lumen gratiae […]. Nel momento stesso in cui finalmente appare sul carro trionfale al centro della processione [Purg. XXX], […] [decifra] con la sua presenza l’ambiguità che era stata tenuta viva nell’attesa, [e] la sua analogia con Cristo [argomenta Singleton] è quanto più energicamente affermata (ma sempre e soltanto secondo i procedimenti indiretti della poesia) […] l’analogia Beatrice-Cristo, varca i confini della Vita Nuova, estendendosi negli ultimi canti del Purgatorio».31 Costruendo, assieme, quasi un percorso parallelo a quello del poeta. Anzi, sovrapponendosi al piano fenomenologico di quest’ultimo per agire analogicamente e figurativamente come filo dell’intera poetica dantesca. E la poesia arditamente costruisce un primo passaggio narrativo che ha nella sorprendente sequenzialità, Cristo-Maria tramite Beatrice verso Dante, il suo innovativo impulso simbolico-versificatorio. 32
aveva fissato nei termini di ‘ricapitolazione di tutto in Cristo’; sintesi di tutte le cose, cioè, raggiunta tramite congiungimento con quel Cristo che di tutte le cose è effettivamente, per volontà del Padre, il grandioso riassunto» (Egidio Guidubaldi, Pier Giovanni Olivi e Remigio De’ Girolami (due lezioni riflessesi in Dante), cit., pp. 123-125). 31 Charles S. Singleton, Viaggio a Beatrice, in idem, La poesia della Divina Commedia, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 169 e 214. 32 «In Beatrice il motivo orientale-cristiano della divina perfezione incarnata, la parusía dell’idea, prese una strada che fu decisiva per tutta la poesia europea. Il temperamento severo e appassionato di Dante, il suo desiderio sempre presente di realizzare il giusto, non sopportava una esperienza, una visione, che non potesse essere subito legittimata dalla ragione e dall’azione; l’arcana verità, che qui fu insieme il primo dolcissimo incanto dei sensi, egli la trasse dall’ambito della particolare, oscura lega segreta e su di essa fondò la realtà; la nostalgia di essa non è divenuta nel suo cuore infruttuosa eterodossia o misticismo informe. La Donna esoterica dei seguaci dello Stil Nuovo appare ora a tutti nel suo significato; essa è parte ordinata e necessaria, prevista nei consigli divini, della redenzione; in quanto sapienza teologica, Beatrice, la beata, è la necessaria mediatrice della salvezza per gli uomini che mancano di conoscenza. Questa sua posizione può avere un che di pedante e di non-poetico per i romantici increduli del XIX secolo; ma per Dante, il tomista per il quale sapere e fede erano cosa unica, l’amata sibillina- cui Maria ha dato il potere di salvare lui Dante con lo svelargli gradualmente la reale verità, il vero pensato e il vero essere- non è una figura mista, ibrida, costruita, ma la reale sintesi sensibile e razionale della perfezione.
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Secondo la lettura del Pascoli, Maria viene indicata, sulla scorta di San Bernardo, analogicamente con la “Pietra”.33 Pietra-fondamento, che diventerà, poi, trasformata dall’alta fantasia in numinosa esecuzione ritmicoversificativa, mistica rosa nel Paradiso indicata da Beatrice. Se, dunque, Maria è colei che schiude il viaggio alla Trinità, proprio la sua figura-simbolo si impone nella poetica dantesca quale azione-lingua in cui ogni rappresentabilità della Luce e ogni allegoria numinosa di derivazione biblica trova compimento perfetto. E il tema della Luce, che nella Trinità espone l’impareggiabile incoazione, e che per riflesso tutto speciale solo in Maria assurge a decriptatore dell’iperbole lirica detta, quindi, dall’humilitas, permette al poeta di intraprendere, mosso dalla bellezza-luce di Lei, la via pulchritudinis «che tutto il poema dantesco celebra, sulla traccia della Scrittura». 34 Il costante richiamo del poeta per la Madre si enumera in una dizione sottile e, assieme, articolatamente complessa, che procede dalla meditazione dei misteri ‘infratrinitari’ esposti, per mezzo di vari riferimenti, in particolar modo dalla figura del Figlio, lungo quasi tutto il percorso delle opere dantesche. E, simultaneamente, attraverso il richiamo esplicito ai testi evangelici. Quest’ultimi costituiscono il basamento e la forma mediante cui soprattutto la Commedia viene attuandosi. Attraverso la riflessione operata a partire dalla Scrittura, il carattere “religioso” e di fede, che assurge a valore intrinsecamente distintivo del pensiero dantesco, si colloca nello spazio della ricerca di quella Parola che il poeta va sempre meditando. Di una specifica definizione che possa fornire piena significazione al ca-
Molteplici motivi di origine diversa si intrecciano in questo mito della perfezione incarnata; Beatrice è insieme una santa cristiana e un’antica sibilla, come amata terrena è un sogno giovanile, i cui contorni sono a stento conoscibili, e come beata, membro della gerarchia celeste, è una figura reale» (Erich Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno, in Idem., Studi su Dante, cit., pp. 56-57). 33 Sull’identificazione della donna pietra si è perlustrato ampiamente lo spettro semantico che il termine ‘pietra’ considera, costituendo, spesso, complessi processi ermeneutici e riflessioni esegetiche assai labirintiche, come afferma il Contini; e su questo specifico argomento e in riferimento alla ripresa del Pascoli, all’interno di una ricapitolazione rigorosa delle istanze del sonetto C delle Rime cfr. Gianfranco Contini, in Dante Alighieri, Rime, Opere minori, vol. 5, t. I, part. I, cit., p. 431. 34 anna maria Chiavacci Leonardi, Maria, Via Pulchritudinis a Dio, in eadem, Le bianche stole. Saggi sul ‘Paradiso’ di Dante, Firenze, SISMEL – Edizioni del Galluzzo, 2010, p. 163.
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rattere sacro del verso, una lunga serie di studi si è avvicendata nel definire di volta in volta con varie formule la succitata “sostanza lirica”. E i già accennati motivi teologici, specificatamente trinitari e cristologici, unitamente a quelli morali e politici, sono, dunque, i riferimenti di più alta e raffinata esegesi operata lungo i secoli, infatti «tra le formule dottrinarie e teologali con cui si è sempre cercato di guardare al ‘poema sacro’, accanto a quelle di poema trinitario e di poema cristologico, merita senza dubbio di essere richiamata anche quella di poema mariano, non solo per il particolare affetto e devozione con cui Dante ha sempre cercato di guardare a Maria, ma anche per i numerosi elementi di dottrina mariana che sono stati inseriti nella sua opera».35 Nella Vita Nuova l’amore cortese viene esposto attraverso il movimento interiore-esteriore dello sguardo-vista: ecco la «donna dello schermo», che siede tra Beatrice e il poeta «in parte ove s’udiano parole della regina della gloria» (Vn. V, 1); e nel culmine della drammatizzazione terrena di Beatrice morta, il poeta riconduce a Maria l’analessi-prolessi dell’intetio dell’amata: «Quando lo segnore de la giustizia chiamoe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata» (Vn. XXVIII, 1). Il riferimento all’attributo massimo di Maria, che è in sé il fattivo moto d’adesione del poeta al nuovo canto, ossia l’humilitas, per cui Dante, appunto, passa ad un novello modo di concepire l’esistenza e, dunque, la poesia è dichiarato ancora nella Vita Nuova nel momento in cui, esponendo la “nuova immagine-funzione” di Beatrice, quest’ultima è posta proprio nel luogo, «Nel ciel dell’umiltate, ov’è Maria» (Vn. XXXIV). Questa è la sintesi teoretica dell’avventura lirica e poi del poema in cui l’amore cortese, i cui stilemi antichi ancora sono in uso a Dante, viene a trasformarsi nella celebrazione dichiarata del passaggio da Beatrice viva a Beatrice morta, da Beatrice donna a Beatrice benedetta. Smarrito dalla diritta via, il poeta recupera proprio nella traviata deficienza del cammino bloccato, detto nell’ “allegoresi infernale”, il senso intimo della propria avventura. Cosicché, rinvenuto dentro e assieme oltre lo stordimento succedutosi al risveglio nella Selva, espone al lettore col canto quello stato di assoluta
35 Bortolo Martinelli, «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco». Dante e il nome di Maria, in Idem, Dante. L’«altro viaggio», Pisa, Giardini Editori e Stampatori, 2007, p. 343.
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imprendibilità dell’anima nell’orribile devastazione espressa dalla visione delle fiere. All’interno della perduta evocazione di un io, quello del poeta, che ricorda il personaggio del viaggio, e che, ricreando in alta sintesi figurale-anagogica il traviamento, definisce con altrettanta inventiva efficacia lirico-narrativa i tratti generativi e “poeticamente biografici” dell’AuctorAgens proprio ad inizio della peregrinatio. Epitomando, in questo modo ermeneuticamente profondo, la storia dell’uomo e del cantore in quella del personaggio che porta il suo nome. 36 Ed è la coscienza-ragione in veste di guida, Virgilio, a indurlo alla riflessività recuperante gradatamente le coordinate esistentive della ratio che
«In uno scritto dantesco pubblicato a Livorno nel 1898, dando inizio ad un suo elaborato percorso esegetico, Giovanni Pascoli così si esprimeva: ‘L’autore fingendo che l’attore sia ammaestrato nella verità via via, non può dire la verità quale è, d’un tratto. Abbiamo assistito attraverso gli anni [scrive Dante Della Terza] a tentativi di esperti di dare volto affidabile all’autore coinvolto nella strutturazione di un discorso plausibile, vuoi al livello allegorico, che a quello simbolico; di segnalare, con razionalità critica, il significato pregnante del dibattito tra l’autore e il pellegrino, l’autore e il lettore, a livello del viaggio. Basterà segnalare il nome di due dantisti di alta reputazione: Erich Auerbach e Charles S. Singleton. Essi sono stati in grado di delineare, con singolare perizia, i canoni della ‘figuralità’ e della gravitazione simbolica del pellegrino verso il proprio destino di salvezza […]. Ci troviamo di fronte a un quadro di sgomento che sembra travolgere il personaggio che dice io, smarrito nell’aspra selva del peccato. Perduta ogni lucida coscienza del proprio essere, il peccatore, confuso ancora dal sonno, non percepisce ancora la frontiera esistente tra gli anfratti della selva e i sentieri di una vita vera, coerentemente vissuta. Possiamo parlare della funzionalità espositiva che assume la ‘non-coscienza’ rivelatasi nella fisionomia trasandata del sonno. Ma il Dante che agglomera i dati topografici, indispensabile premessa al moto del pellegrino verso l’eterno, si trova nella difficoltà momentanea di gestirli, come assediato dalla propria invenzione. Il sonno ritroverà la propria strumentale funzionalità quando il poeta è chiamato a guidare il pellegrino, aggredito dall’impulso discriminante di Caronte, aldilà del fiume Acheronte. Come accadono le cose, il pellegrino non ce lo sa dire: il vento ‘balenante di luce vermiglia’ lo farà svenire. Il sonno verrà interrotto all’inizio del quarto Canto quando un ‘greve tuono’ ridarà coscienza al viaggiatore imprigionato nel suo cupo sopore. C’è un sonno metafora della condizione vissuta dal pellegrino nel peccato, e c’è un sonno provocato dall’esterno, da un paesaggio iperbolico non ritenuto descrivibile. Il primo sonno non blocca il moto del corpo che si aggira stentatamente dentro la selva in cerca di una via d’uscita. Il secondo è scanditamente mobilitato al fine di non rivelare i tempi e gli eventi collegabili al passaggio del fiume Acheronte; al fine di giustificare il non detto» (Dante Della Terza, Dante e la virtualità della trama. Gli inizi della ‘favola’ nella Commedia, in idem, Dante e noi. Scritti danteschi, a cura di Florinda Nardi, Roma, Edicampus Edizioni, 20013, p. 4). 36
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investe il poetare: «Virgilio assume il ruolo di guida precedendo il discepolo con adeguato passo verso i risvolti della verità infernale […]. La funzione della sua parola è sempre tempestivamente rettificante, collegabile sempre alla natura del dubbio e dell’assorta perplessità del pellegrino al cospetto delle implicazioni del viaggio».37 E sin dai primi momenti infernali Maria è dichiaratamente espressa per mezzo di Beartrice, trasfigurata nell’adempimento cristologico e diremmo mariologico (la storia di Maria, la sua icona muta) del viaggio nel resoconto fondamentale che proprio Vrigilio-pagano fa al Pellegrino. Il motivo dell’intervento diretto di Maria, che invita Lucia e, quindi, Beatrice a muovere l’operatività della figura-anima del poeta dell’Eneide in soccorso del Fiorentino attua l’indispensabile messa in moto del principio cardine per cui Maria è l’ “onnipotente per grazia”. In questo senso l’operazione di redenzione di Dio è sin dalla Selva attuata mediante le tre donne, che prefigurano il mistero trinitario e lo dischiudono in soccorso del poeta-pellegrino in opposizione alle tre fiere. È il Contenente Santo: la ‘donna gentile’ (Maria: salvezza-salute nel poema), del Contenuto-Dio-Figlio a gestire l’intero processo di soccorso: «Maria, che frange il duro giudicio, è più propriamente simbolo della potenza divina, che a redimere Dante e il genere umano muove Lucia, perché lo riconformi a sé nella giustizia; e Lucia muove Beatrice, simbolo della pietà. Per liberare gli uomini dalla lupa, Dio si serve dello stesso processo con cui li redense la prima volta, quando gli piacque di porre in opera la sua giustizia e la sua pietà (Par., VII, 109-114); con la differenza che allora operarono direttamente le Tre persone divine e ora operano le Tre donne benedette».38 Virtù contro vizio, umiltà contro superbia, amore contro odio-divisione: «Maria Vergine, il cui nome (come quello di Cristo) è per reverenza sempre taciuto nella prima cantica, ma che viene presentata in questa terzina [Inf. II, vv. 94-96] nel suo particolare attributo di “Mater misericordiae”, sollecita, anche se non richiesta, della salvezza dell’umana creatura […]. Donna è gentil. Non sarà inutile sottolineare la progressiva transvalutazione del signi-
Ivi, pp. 9-10 Luigi Pietrobono, Commento alla Divina Commedia, Canto II dell’Inferno, nota 102, vol. I, Inferno, quarta edizione interamente rifatta, Torino, Società Editrice Internazionale, 1983 (ristampa 1985), p. 24. 37 38
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ficato entro uno stesso significante: dalla “donna gentile” della Vita Nuova (XXXV-XXXVIII) al suo farsi simbolo della Filosofia nel Convivio (II VI 7 etc.) infine alla attuale perifrasi mariana. […]. Dante viene a riconquistare e a ritrovare, dopo lo smarrimento nella Selva oscura, tre fondamentali attributi di Dio creatore, per ora conosciuto soltanto prismaticamente, attraverso l’analogia dei trascendentali: come Misericordia (in Maria); come Giustizia (in Lucia […]); come Carità, cioè Amore (in Beatrice)».39 «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo’mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudico là sù frange. // Questa chiese Lucia in suo dimando / e disse .-Or ha bisogno il tuo fedel / di te, e io a te lo raccomando-.// Lucia nimica di ciascun crudele, / si mosse» (Inf. II, vv. 94-101): La Vergine Maria, commossa dall’affannoso vagare del pellegrino lungo la foresta del peccato, si è rivolta a Lucia, la grazia illuminante, perché venisse da lei Beatrice seduta accanto all’antica Rachele, moglie di Giacobbe e simbolo della vita contemplativa. Dalle labbra di Lucia è stato rivolto a Beatrice l’invito più calzante: Disse: - Beatrice, loda di Dio vera, ché‚ non soccorri quei che t’amò tanto, ch’uscì per te de la volgare schiera? Non odi tu la pieta del suo pianto? non vedi tu la morte che ’l combatte su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? (Inf. II, 103-108). Investito da eventi così coinvolgenti, il pellegrino si inoltra ormai senza più esitazioni accanto al suo duca, signore e maestro. Il poema si proietta decisamente in avanti; il lettore affida la propria intelligenza partecipe ad una più intensa credibilità della trama.40
39 Francesco Mazzoni, Il canto II dell’Inferno, in Idem, Saggio di un nuovo commento alla “Divina Commedia” – Inferno – Canti I-III, Firenze, G. C. Sansoni, 1967, pp. 283-284. 40 Dante Della Terza, Dante e la virtualità della trama. Gli inizi della ‘favola’ nella Commedia, cit., pp. 11-12.
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Intimamente unito al mistero di Dio, di Dio-Figlio, della Trinità, quello mariano è espresso a partire dall’Inferno in cui il poeta cantando «l’uom che nacque e visse sanza pecca» (Inf. XXXIV, v. 115), ossia Cristo, dice il parto virgineo della Madonna, schiudendo così il mistero mariano in quello cristologico. La plenitudo divinitatis, di cui parla San Girolamo, diventa il modello del canto nell’esemplarità esposta dalla vicenda dei martiri, che al Cristo e alla Madre si rivolgono, come afferma Sant’Agostino: «Nomen non inane portabat, non frusta Maria vocabatur mulier quidam illa, non virgo, non intacta de Spiritu Sancto, sed tamen pudica de marito, tale pignus peperat, quod ad gloriosissimam passionem suis potius exhortationibus deducebat, quam inde suis blanditiis revocabat. O sancta et tu Maria, impar quidem merito, sed par voto! Felix et tu».41 E significativamente Virgilio spiega a Dante (canti IX e X dell’Inferno, particolarmente il X) i molti eretici che affollano “il luogo infernale”. E, contemporaneamente, chiarisce al discepolo interrogante la modalità per la quale il peccato di disobbedienza luciferino ha permesso la formazione fisica del “cono rovesciato”, dando, così, origine materica al regno infernale. Allorquando, l’angelo luminoso, per superbia e avidità, volendo essere più del Creatore, disobbedendo con l’insensata rivolta, catapultato sulla terra ha formato la voragine. La logica-essenza infernale, anzi l’assenza di bene e di ratio che la struttura fisica del luogo infernale dimostra, è, quindi, il contrario di quella dell’uomo sanza pecca e, dunque, di Maria: persona-humilitas. L’Inferno è, perciò, il luogo-non luogo in cui Dio, non potendo avere dimora, non può che paradossalmente accogliere il rifiuto alla riconciliazione, che è sommo delitto. E Cristo, dopo la resurrezione, discende agli Inferi a significare la vittoria sulla morte e sul peccato che proprio quel luogo indica nel concentrato supremo di male operativo. Vincolato alla disobbedienza e, quindi, contrario alla scelta deliberativa dell’ “Ancilla Domini”. E i segni fisici sopraggiunti all’azione espressa mediante “descensus Christi ad inferos” esprimono l’azione di Dio operante nella Storia, dentro e oltre il tempo-spazio: né il Figlio né la Madre vengono espressamente
41 Sant’Agostino, Sermones, 284, 2, in Idem, Opere, edizione latino-italiano, Roma, Città Nuova Editrice, 1986, XXXIII, p. 122.
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chiamati con i propri nomi, come già ricordato, nell’Inferno. Maria è detta «Donna è Gentil nel Ciel» – Inf. II, 94; a Cristo, in Inf. IV, 53-55, il poeta si riferisce come «un possente, / con segno di vittoria coronato»: ossia Cristo con il vessillo della Croce e con la palma, segni di vittoria e regalità: «[il poeta] Tace il nome della Vergine come quello di Cristo in tutto l’Inferno, perché questi nomi sono troppo sacri e si profanerebbero pronunziandoli laggiù nel luogo del peccato, […] Dante circoscrive costantemente nell’Inf. il nome di Cristo, e per la gran riverenza a tal nome, e per non mescolarlo con le lordure dell’Inferno».42 La “Tutta Pura” è presentata con più diretto riferimento del suo ruolo-compito nel secondo regno, a significare maggiormente la sua natura, l’humilitas, che è anche frutto della succitata consapevole scelta deliberativa della Madonna, come precedentemente affermato. Indicando, così, col canto il modello figurale-lirico di contrapposizione al vizio. La risposta alla modalità applicativa del peccato di superbia è proprio la figura e l’opera mariane che Dante riporta entro una trascrizione funzionale a dire il momento topico della procedura estatica mariologica, che solo tramite solo tramite Lei si adempie. Pertanto, proprio di canto mariano occorre parlare, così come evidenzia Mario Apollonio, entro un’attenta, da parte del poeta, ricostruzione lirico-teologica curata secondo i rinvenimenti, criticamente vagliati e mediati da Dante, della trama della Vergine nel linguaggio scritturale: «L’ampia e feconda poesia mariana di Dante si riassume in tre modi preminenti, dei quali il primo è storico […]. Storie della Vergine, infatti, sono introdotte, nei loro lavori poetici e gnomici integrantisti, in tutte le cornici del Purgatorio, come esempi capitali di virtù, ad aprire le anime verso la salvezza».43 Un secondo “aspetto-modo” me-
42 Giovanni Andrea Scartazzini, rispettivamente la Nota 94 del canto II dell’ Inferno e Nota 65 del canto IV sempre della I Cantica, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, riveduta nel testo e commentata da Giovanni Andrea Scartazzini. Quarta edizione novamente riveduta da Giuseppe Vandelli col Rimario perfezionato di Luigi Polacco e indice dei nomi e di cose notabili, Milano, Ulrico Hoepli, Editore-Libraio della Real Casa, 1903 (Firenze T.p. di S. Landi, dirett. dell’Arte della Stampa), p. 20 e p. 65. 43 Mario Apollonio, Maria Vergine, in Dante-Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, vol. III, 1996, p. 836. Sulla complessa figura di Beatrice, alla quale sono stati dedicati numerosi studi, cfr. Aldo Vallone, Beatrice, in Dante -Enciclopedia Dantesca, cit., vol. I, pp. 542-551.
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diante il quale Maria viene presentata nel poema è quello biblico espresso attraverso l’exemplum medioevale: tramite esso la Commedia, e soprattutto il Purgatorio, secondo Le Goff,44 si materia e per esso nasce. Un terzo aspetto è quello relativo, da un lato, alla tradizione dei Padri della Chiesa e, dall’altro, alla tradizione popolare; inoltre, occorre nuovamente ricordare che gran parte della vita e dell’arte della Firenze di Dante si è svolta proprio fra Santa Maria Novella e Santa Maria del Fiore. 45 Abbisogna soffermarci, pur nei tratti principali della genesi e dell’evoluzione mariana-mariologica non solo nell’ambito teologico-liturgico, ma partendo da quest’ultimo soprattutto in quello letterario, sul ruolo-funzione e sull’esecuzione poetologico-esplicativa del segno mariano, cosicché proprio per la rilevanza profonda di Maria di Nazaret negli atteggiamenti e nei valori, nei tessuti di fede e culturali di generazioni, non sorprende la dovizia di scritti sulla sua persona e l’abbondanza di documentazione e letteratura mariologica e mariana di varia natura e di diverso valore, come testimonia da oltre mezzo secolo, tra altri possibili riferimenti che illustrano la sua presenza nella vita della Chiesa e in quella di numerosi popoli la Bibiliografia mariana. […]. Un primo orientamento è suggerito dal riconosciuto intrinseco richiamo che la Madre di Gesù ha con la storia della salvezza, tanto che alcuni teologi ritengono la figura della Vergine ‘chiave del mistero cristiano’, ‘icona del Mistero’, ‘microstoria della salvezza’, ‘modello rivelatore’. […]. La lettura spazio-temporale impiega o coinvolge anche quelle discipline che concorrono a configurare una riflessione teologica, non soltanto basata sulla reperibilità delle fonti classiche del teologare. […].È il molteplice riferimento [che dalle origini ebraiche, dalla Scrittura nell’interpretazione orientale e occidentale – dai Padri ai mistici – della figura di Maria fino al Medio Evo, per il quale la Madre di Dio] […] è considerata nell’ethos ammirativo e sapienziale laudativo degli spazi monastici e religiosi. […]. La
Cfr. Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, trad. it. di Elena De Angeli, Torino, Einaudi,1982. 45 Cfr. Mario Apollonio, Maria Vergine, cit., p. 839. 44
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consapevolezza dei Padri di riferirsi a Maria con la Chiesa e nella Chiesa trova tramite la cultura medievale una trasformazione di comprensione: Maria è collocata tra Cristo e la Chiesa […]. Nella maternità spirituale Maria non perde nulla della sua creaturalità né Cristo della sua centralità. Sia nell’alto medioevo, nelle cosiddette scuole carolingie, sia in ambito monastico e nelle scuole delle nuove università, sia nella riflessione più razionale della Scolastica, Maria, che oltre che nella diffusa pietà popolare sarà venerata con nuove formule liturgiche, nel giorno del sabato, ad esempio […]. [Poi] […] nel genere letterario del Mariale e dei Miracula mariani, l’ethos medievale d’una umanità debole ed esposta ad ogni esercizio della forza umana è vincolato assieme alla fiducia verso la Regina del Cielo ‘potente’, ma in relazione al Figlio Gesù.46
Dante fa pronunciare il nome di Maria a Virgilio, ponendo così in essere la spiegazione del compito della Vergine nella storia della salvezza: «Mestier non era partuir Maria» (Purg. III, v. 39): da qui si evince chiaramente il ruolo di Maria, vergine e Theotokos. E, contemporaneamente, l’impossibilità della ragione umana di travalicare il limite posto dal mistero. E, dunque, la conoscenza di Dio inizia a dispiegarsi nella non calcolabilità della verità di fede. Essa, tuttavia, dimostra come l’umana natura, quella eletta, per riscattarsi, abbia dovuto unirsi proprio col Dio che non può guardare, e che vede, simultaneamente, per mezzo della Madre del Cristo. Dalla tradizione scolastica a quella che giunge all’epoca di Dante, il mysterium Mariae viene collegato a quello dell’Incarnazione, così come è stato riferito in precedenza. E se in ambito teologico-filosofico-letterario il poeta si riferisce proprio alla tradizione consolidata nei secoli per la costruzione poetica della figura-verso di Maria, è senz’altro San Bernardo ad essere investito del più alto compito nell’introdurre il poeta-pellegrino al cospetto della Madre di Dio. La più attenta mariologia contemporanea ha “risistemato” le po-
46 Silvano M. Maggiani, Storia della mariologia: intreccio di teologia. Storia e culture e Introduzione al volume, in Storia della Mariologia, vol. 1, Dal modello biblico al modello letterario, a cura di Enrico Dal Covolo – Aristide Serra, introduzione generale e introduzione al primo volume di Silvano M. Maggiani, Roma, Marianum - Città Nuova Editrice, 2009, pp. 7-21.
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sizioni inerenti San Bernardo di Chiaravalle in merito alle tesi della sua “speculazione-teologante” sottolineando che una lettura dell’ “apparente avversione” alla dichiarazione concernente il mistero (ai tempi di Bernardo non ancora dichiarato dogma) dell’Immacolata Concezione di Maria è posta invero quale stimolo esegetico per l’approfondimento dello stesso. E una rivisitazione riguardante proprio il peccato d’origine, che non avrebbe intaccato Maria, è, quindi, assunta quale motivazione per esporre con maggiore forza teoretica il centro del suo dire mariologico, e che nel termine “mediatrice” riassume l’intera riflessione sulla verginità dall’origine dell’“Utero” da cui è stato partorito Cristo.47 In questo senso Dante riprende il pensiero di San Bernardo, in lui evidentemente mediato dalla scuola francescana, in aperta e costruttiva rivisitazione che al tempo del poeta si faceva proprio sulla costituzione di Maria quale Corredentrice: «Ci vengono immediate due indicazioni dall’ambito generale della cultura dantesca. È prima di tutto la filosofia e la teologia francescana, che conosce e utilizza le opere del santo cistercense – è stato notato che s. Bonaventura, per esempio, lo cita spessissimo – e ne riprende e ne sviluppa il misticismo. […]. Inoltre Bernardo viene considerato come il culmine della sapienza e spiritualità monastica nell’opera di Gioacchino da Fiore: la terza età; quella dello spirito, che vedrà la sua imitatio con s. Benedetto, avrà secondo il monaco calabrese, la sua grande figura appunto in Bernardo, che viene considerato l’unica persona davvero di rilevo nel secolo XII. […]. Nell’ambito di questo apprezzamento altissimo del grande mistico e della funzione svolta nell’ambito della vita della Chiesa è poi emerso anche il significato e il valore mariologico di Bernardo».48 La novella Eva è il nuovo frutto della terra, il seme rinnovato della nuova umanità, la luce purissima mediante la quale si travalicano teologia e filosofia per entrare nella dottrina che non può essere spiegata con la parola: Adamo e Cristo “si sposano” in un divorzio delle sostanze. E la
47 All’interno di una vasta bibliografia riguardante in specifico San Bernardo e Maria cfr. Ferruccio Gastaldelli, San Bernardo e l’Immacolata Concezione, in Ignazio M. Calabuig (a cura di), ‘Respice stellam’. Maria in san Bernardo e nella tradizione cistercense, Atti del Convegno Internazionale, Roma, Marianum, 21-24 ottobre 1991, Roma, Facoltà Teologica Marianum, 1993, pp. 111-124 48 Raoul Manselli, Bernardo di Chiaravalle, in Dante- Enciclopedia Dantesca, cit., vol. I, p. 604.
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natura umana, quella corrotta dal peccato viene redenta dal parto verginale cosicché Maria diventa la madre novella della terra rigenerata: «Può essere interessante notare che Dante non solo seguì la tradizione comune nel trattare il tema Adamo-Cristo, ma che ebbe modelli anche per lo sviluppo speciale della figura Terra-Maria».49 Ad inizio del canto III del Purgatorio, Virgilio spiega al timoroso discepolo che il soccorso che quest’ultimo ha ricevuto, rappresentato dall’intervento dello stesso poeta dell’Eneide, non gli verrà meno durante la peregrinatio. E che il dubbio concernente proprio la rappresentabilità delle anime che agli occhi del poeta-pellegrino mostrano le fattezze degli antichi corpi (ma, in vero di essi hanno solo la figura: qui vale per immagine), quello stesso “sembiante diafano”, dall’altra parte, prosegue Virgilio, in raffinata e concentrata mobilità delucidativa, non risparmia loro, tuttavia, di “sentire” anche in Purgatorio la pena come se avessero le antiche membra terrene: «A sofferir tormenti, caldi e geli / simili corpi la Virtù dispone, / che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli» (Purg. III, vv. 31-33). Ad un mortale è esposta liricamente, entro l’evidente operabilità nel raffronto materico, la rappresentazione di ciò che altrimenti Dante, oltre l’impianto figurale-anagogico, non avrebbe potuto recepire da Agens e trasmettere da Auctor ai lettori di ciò che ha visto. Esperienza cioè rivissuta nell’atto di fede e gestita dalla fantasia-creazione poetica. Si entra, per paradossale che possa sembrare, nella logica a-razionale del cammino, che rappresenta un unicum nella letteratura occidentale creata da un “laico-credente” nel raffronto tra cultura-fede religiosa e mito pagano. Ma più ancora sottile è l’edificazione della messa in atto nella poetica non solo del portato culturale cristiano, quanto, o soprattutto, della ripresa dei misteri più profondi che reggono la fede nel Risorto. Significativamente, il Virgilio-pagano introduce proprio il più intimo e sconvolgente mistero, quello di Dio uno e trino, quello dell’Incarnazione e, dunque, quello di Maria, allorquando, proseguendo nella spiegazione (di per sé impossibile a darsi), o meglio inoltrandosi nella sintesi liricoriflessiva su Dio, rivolge alle verità appena menzionate il fine del proprio argomentare: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la
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Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., p. 259.
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infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (ivi, vv. 34-36). Proprio Virgilio-ragione espone gli impossibilia, che costituiscono parte importante della narratio lirica della Commedia. E lo “duca” incentra sulla follia del conoscere per “argomenti” la Verità. Ma tale processo sottende anche altra mobilità teoretico-poetologica: Dante, Auctor-Agens, investe specificatamente sulla contradictio derivatagli dall’indicibilità di pronunziare ciò che ha visto l’unica formula che gli è consentita da mortale: il resoconto umano della rappresentazione per verba. Lo scontato gioco del rimando al paragone materico delle anime, ne è stato l’introibo adatto, ma abbisogna ora che il poeta-pellegrino ne dia ragguagli numinosi perché va approssimandosi a cantare la realtà verginale in cui Dio si è dato. E la storia di Dio e dell’uomo sembrano rivolte nel canto lungo un identico percorso, che è quello estratto dal Grande Codice: la proposizione per la quale se l’uomo non avesse avuto il peso della colpa avrebbe da sempre guadagnato l’immortalità e non avrebbe perito con la morte si fa eco profonda nella drammatica e assieme felice avventura dell’Incarnazione. E la palese quanto scontata affermazione dantesca sul parto virgineo relata alla tranquillità che lo “duca suo” invita ad assumere nell’accettare non tanto la realtà corrotta dal limite, ma la vivificazione che dall’Incarnazione apre inevitabilmente e per sempre alla speranza: «State contenti, umana gente, al quia; / ché, se possuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria» (ivi, vv. 37-39) argomenta ulteriormente il ruolo della Madonna nella trama del viaggio poetico. Il «quia» (ivi, v. 37) è utilizzato quale termine specifico ripreso sulla scorta della filosofia scolastica medievale, in cui Dante è pienamente inserito, per introdurre una subordinata dichiarativa susseguente verbi affermativi. Esprimendo una “realtà di fatto”, la quale non ha bisogno per l’evidenza di cui tutti hanno contezza di ulteriori affermazioni-spiegazioni. La soluzione che non può essere data sul piano prettamente logico si esplica proprio nel mistero detto in poesia. Il quale non rinnega la ragione, ma l’abilita nell’inclusione capace di arrestarsi: avere scienzacoscienza (conoscere) del proprio genoma. E per tale moto essa stessa accresce nella credibilità della propria azione germinativa: la ragione è alleata della fede. Se ciò non fosse, la ragione sarebbe incapace di contribuire a dire il Vero. Pertanto, il verso «State contenti, umana gente», indica tale processo di acquisizione del dato in sé. Questo procedimento 45
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lirico è assai sottile e promuove non soltanto ciò che dichiaratamente esprime, ma disvela anche l’opportunità di inquadrare la poetica dantesca dentro il complesso rapporto della concezione dell’anima e del corpo (Jacopo del Cassero, di Bonconte, di Pia) «sì che la gente deve fermarsi al ‘che’, al ‘quia’ dichiarativo, e non al ‘perché’ inquisitivo, dato che, se avessero potuto veder tutto, non era necessario che Maria partorisse Cristo rivelatore. Inutile fu così l’ingegno di Aristotele, di Platone e dei saggi dell’antichità […]. Nello stesso tempo si inaugura qui, in modo del tutto particolare […] il tema del distacco assoluto delle anime dal corpo, della non rilevanza delle sorti del corpo rispetto all’anima, rispetto al destino dell’anima».50 Occorre evidenziare come questo tema del corpo e dell’anima51 dopo la morte costituisca davvero un preconio delle realtà ultime. E l’utilizzo di tale formularità lirico-figurativa segnala l’eccezionalità di Dante che da Agens, tra i pochissimi mortali (pur rilevando che: «Io non Enëa, io non Paulo sono», Inf. II, v. 32) visita i luoghi ultramondani. Ed è singolare che la ripresa del binomio corpo-anima si installi proprio a partire dal mistero dell’Incarnazione e in Maria. La quale, non avendo subito il peccato originale, e, quindi, i suoi effetti, concepita integra sale al cielo in corpo e anima, così come il Figlio, pur con modalità diverse. Questo implicito riferimento all’Assunzione stabilisce un chiaro memoriale-lirico del moto d’ascesi del poeta-pellegrino, che dice ciò che ha visto nella totalità dell’esperienza di essere vero uomo in corpo e anima. Dunque, “lo state contenti” a cui si riferisce Virgilio parlando direttamente con il lettore-uditore indica, come afferma il Sapegno52 (il quale riprende Isaia, e, in riferimento al ‘quia’, Benvenuto), di riversare nel mistero il senso dell’umana ricerca, che è in sé sommamente ragionativa, proprio a partire dal parto virgineo. E il canto-figura, divenendo modello
Marcello Aurigemma, Canto III, in Lectura Dantis Neapolitana – Purgatorio, direttore Pompeo Giannantonio, Napoli, Loffredo, 1989, pp. 42-43. 51 Su questo particolare aspetto rinviamo allo studio già citato di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Le bianche stole. Saggi sul ‘Paradiso’ di Dante, cit. 52 Cfr. Natalino Sapegno, Commento ai versi 31-39 del Canto III del Purgatorio, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, introduzione e commento a cura di Natalino Spegno, Roma, Riccardo Ricciardi Editore-Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2004, p. 419. 50
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esistentivo, spinge gli uomini-lettori alla mimesi ricreativa sotto l’aspetto cerebrale-spirituale. Il solo pronunciare il nome di Maria implica l’allontanamento dalla condanna e apre all’esame, condotto nel regno purgante, della cancellazione-revisione del male operato in terra: «Quivi perdei la vista e la parola; / nel nome di Maria fini’, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola» (Purg. V, vv. 100-102). È Buonconte da Montefeltro che si presenta al poeta; figlio di Guido (la cui anima Dante ha incontrato nell’Inferno: Inf., XXVII vv. 19-132), è stato capo di parte ghibellina ed è morto nella battaglia di Campaldino: il poeta incentra nell’humilitas la virtù primaria della Vergine tramite la figura di Buonconte. La voce di quest’ultimo al “limitar di Dite” si arresta sul nome di Maria, che determina l’agone tra l’angelo e il demonio, il quale vorrebbe sottrarre l’anima del cavaliere: «referas hoc in mundo cum lingua et penna ad exhortationem omnium, ut numquam desperent licet fuerint peccatores usque ad mortem, et habeant spem in Maria [così Benvenuto]: il contrasto fra l’angelo e il demonio per l’anima di Buonconte si colloca parallelo a quello di Guido, rappresentato nel XXVII dell’Inferno; e come quello sottolineava l’inutilità di un lungo periodo di penitenza distrutto da un solo peccato senza pentimento; così questo ribadisce la forza di un istante solo di pentimento che basta a redimere un’intera esistenza di peccati». 53 In questa modalità applicativa il culto mariano è ripreso nella vivificante orazione che per secoli, sotto varie espressioni invocative-perorative, ha accompagnato la supplicatio e ne ha invogliato il complesso formulario di richiesta e di lauda. È la formula della richiesta, la preghiera che loda e propone in vista di un aiuto, il mezzo estremo, semplice ed assieme efficace, nel momento in cui è vero, che traspone la verità quale riflesso dell’intelligenza sincera. Per la quale Dio invocato risponde all’invocante nella operabilità non solo d’intervento, spesso oscuro per la mente umana, ma nella possibilità di interloquire tramite mediazione. Nella Mediatrice avviene l’incontro, sul “limitar della conoscenza”, tra scienza e fede, mediante il sapere “per verba”: l’oratio. Il ruolo della preghiera quale mezzo tecnico per esibire l’offerta scaturita dalla poesia si compie primariamente non nella effettiva domanda,
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Ivi, p. 447.
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quanto nella evidente, ma non scontata risoluzione del dramma dell’uomo nel mentre questi si dispone proprio a interloquire nel silenzio. Dante conosce bene il complesso “perigliare”, che accomuna tutti e ciascuno, ed egli sigillando in figura lirica la trama esistentiva ne espone il cominciamento, lo svolgimento e la conchiusione. Allegoricamente e analogicamente esprime la mimesi ricreativa dell’esistere, e nell’agone tra sensi, apparenze-immagini e realtà fisiche intravede la verità quale è data nella carne dall’avventura umana di Dio. Allora perché, ci domandiamo, giunti a questa tappa del cammino lirico, il ritrovato nella poesia della preghiera? Superando, anzi inglobando l’antica e sempre valida lettura di intendere la preghiera-poesia e la poesia-preghiera quando esse configurano un “oltre” quale orizzonte, appunto, che sventra nel limite del dire il motore propulsivo della stessa azione poematica, proprio l’invocatio si enumera nell’esposizione dei dati che il soggetto pur possedendoli non può per il limite proprio, hic et nunc, tenerli a mente. Esplicandoli continuativamente nella “fenomenologia del richiedere”. Dire dopo avere invocato, ed invocando esporre la richiesta verso un Tu in ascolto dell’io-mittente, per guadagnare (tenere a mente, sempre ricordare, e, ricordando, ri-costruire e appropriarsi della realtà dell’io: il bene) l’Origo. L’oratio, che è l’adattabilità memorifica dell’esperienza interiore e materica, riprende nel canto (assume cioè ogni volta un cominciamento, un “verso” propriamente, un incamminarsi di nuovo, non rinnegando le precedenti esposizioni) il dialogo interrotto frequentemente con Dio e il mortale. Acquisendo nel verso “credibilità locutiva” mediante la richiesta e sottolineando il senso-urgenza di leggere nella realtà la propria azione. E il cantore domanda ciò che gli manca e si inerpica nella solitudine dell’anima a ricavare il senso del suddetto limite per comprendere l’esistere. In tal modo la preghiera, sulla scorta di Sant’Agostino, scostandosi dalla roboante e futile applicazione redatta da una coscienza esposta unicamente dalla ricerca estrinseca del Sacro, entro i lenocini intellettuali, si abbevera, passando sempre per il “mondo”, ed in esso rimanendovi, nello scontro incessante e benefico dell’acqua rigenerata dalla conoscenza (memoria purgata) di svelarsi immortale. In tal modo, la preghiera è il frutto e la causa ad un tempo del cercare cristiano. Tale teoria sarebbe, se posta unicamente entro questi termini, il risultato di un “gioco diabolico” (divi48
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sorio e, pertanto, inconcludente): richiesta, da una parte, incessantemente esplicita per una soddisfazione nel superare la sofferenza del limite connaturato alla materia; e, dall’altra parte, l’attesa di e in quella pratica necessaria quale umiliazione a dire l’asservimento dell’io al Creatore. Il quale, mosso uncamente dal convincimento della supplica-invocazione, interverrebbe nelle modalità ignote della propria operabilità. Ma il presunto discorsoprincipio lirico così proposto si sfalda proprio in quell’humilitas per la quale la Vergine si dona, e la poesia specificatamente del poema suggella la verità della figura cristica della Madonna conducente il poeta- pellegrino a dire col canto la liturgia complessa dell’esistere: Incentrata sulla generosità delle due nascite – della Madre e del Figlio – la preghiera reca visibile la traccia del Natale e rovescia la liturgia del Venerdì santo e della Pasqua, che inaugura il viaggio del pellegrino, nel pensiero delle origini del cosmo e del divino nell’umano. In questo senso, la preghiera a Maria [in genere, e non solo quella finale] ci colloca ai limiti e oltre ogni limite dell’umano, là dove l’umano e il divino, l’elemento maschile e l’elemento femminile della divinità, si congiungono. Se, in quanto preghiera, gli ossimori di Bernardo conducono oltre la soglia del pensiero, come dramma del poeta, il testo esprime il desiderio di Dante che la sua favella diventi favilla (Par. XXXIII 71) per riorientare la «futura gente» (v.72) nel viaggio delle anime. In effetti, l’opera d’arte da lui prodotta, la Divina Commedia, ha ricapitolato la voce agostiniana-davidica dell’io, quella francescana dell’umiltà, e la benedettina (che implica le altre due e che trasforma l’impulso contemplativo in una metafisica della produzione e della fecondità). L’opera d’arte come preghiera diventa la via per costruire una nuova immagine del mondo, modellata su Maria, e sulle sue orme oltrepassa la condizione finita che è propria degli esseri umani. 54
54 Giuseppe Mazzotta, Conclusioni, in Preghiera e liturgia nella ‘Commedia’, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Ravenna, 12 novembre 2011, a cura di Giuseppe Ledda, Ravenna, Centro Dantesco Internazionale dei Frati Minori Conventuali, Provincia Bolognese dei Frati Minori Conventuali - Centro Dantesco onlus (Distributore: A. Longo Editore), 2013, p. 228.
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In tale modo-azione la preghiera è un poieo complesso e assieme fattivo: è liturgia in quanto canto profondo; ed è preghiera poiché esplica un fare, quindi, che svela col verso i moti trascendenti e pratici dell’uomo. L’ufficio, ossia il compito del poeta risiede nel disvelare l’unitività, pur nelle differenze (il dramma del poieo), tra e nelle due sfere: «Politico e sacro sono per Dante due rivoli originati dallo stesso fonte per indirizzare l’umanità verso lo stesso fine. […]. Nell’ideazione del “poema sacro”, Cristo, mediatore tra Dio e l’umanità, fondamento dei sacramenti e della grazia, strumento di giustizia, riequilibratore dell’universo offeso dalla ribellione degli angeli, appare centrale. Assolutamente centrale è anche Maria, principio dell’Incarnazione, tanto che le liturgie del paradiso appaiono prevalentemente rivolte alla Vergine, come alla Vergine è indirizzata l’ultima preghiera». 55
55 Erminia Ardissino, Introduzione, in eadem, Tempo liturgico e tempo storico nella “Commedia” di Dante, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009, p. 2. Sulla preghiera in Dante cfr. Antonio Lanci, Preghiera, in Dante-Enciclopedia Dantesca, cit., vol., IV, p. 642 e con specifico riferimento a: La preghiera religiosa in Dante cfr. la voce Preghiera a cura di Ricarda Liver, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol., IV, pp. 642-644.
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Capitolo II - ‘Il ‘verso estatico’ del poeta-pellegrino e il genere letterario del ‘Mariale’
Capitolo II
Il ‘verso estatico’ del poeta-pellegrino e il genere letterario del ‘Mariale’
Il modello figurale della Vergine è costruito liricamente tenendo presente l’operazione di adozione del sistema bellezza-luminosità, che, attraverso Beatrice, struttura il travalicamento completo nel segno mariologico: Quis ergo misericordiae tuae, o benedicta, longitudinem et latitudinem, sublimitatem et profundum queat investigare? Per te enim caelum repietum, infernus evacuarus est, instauratae ruinae celesti Ierusalem, expectantibus miseris vita perdita data. Ad hunc igitur fontem sitibunda properat anima nostra, ad hunc misericordiae cumulum tota sollecitudine misera nostra recurrat. Ecce in quibus potuimus votis ascendentem te ad Filium deduximus, et prosecuti sumus saltem a longe, Virgo benedicta sit pietatis tuis ipsam, quam apud Deum gratiam invenisti, notam facere mundo, rei veniam, medelam aegris, pusillis corde robur, afflictis consolationem, periclitantibus adiutorium et liberationem sanctis tuis precibus obtinendo. In hac quoque die sollemnitatis et laetitiae dulcissima mater Mariae nomen cum laude invicantibus servulis per te, Regina clemens, gratiae suae munera largatur Iesus, Filius tuus, Dominus noster, qui est super omina Deus benedictus in saecula.1
Mediante il principio di «sequenzialità», come sottolinea la Barolini, per il quale la gradatio ascensionale, dalla Selva all’Empireo, segna il rituale di elaborazione lirico-narratologico, individuato ed individuabile nel progressivo superamento dell’errore osservato, l’exemplum, che Dante garantisce quale veicolo principe di molte stazioni purgatoriali, presenta il can-
1 Bernardo di Chiaravalle, In assumptione beatae Mariae Virginis, Sermo 4, 9, in Idem, Opera, V, Roma, Editiones Cistercienses, 1957- 1968, p. 250.
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to-figura mariano in significativa esecuzione plasticamente tradotta nella ripresa mimetica del gesto motorio. Meditato ed offerto dal personaggio che dice “io” a Dante-uomo e al lettore-uditore, attraverso specifici argomenti proposti, con la transumptio. La quale si rivela nel regno purgatoriale, e si rivelerà in quello paradisiaco soprattutto, dentro e oltre la transupmtio orationis. Modello, questo, legato in specifico alla figuralità biblica, quando viene resa nella singolarità del simbolo-segno allegorico, quale prolungamento della metafora. E nell’applicazione di “sequenzialità”, appunto, si genera la forma poetica per la quale il verso e la sua storia adattano alla figuralità della Tutta Santa il suono nuovo di un’opera che ha in sé la ricapitolazione del prius della storia occidentale porgentesi al posterius esposto dall’annuncio evangelico. A partire dal V canto del Purgatorio Dante opera con più evidente insistenza la modalità liturgico-orante, che è in sé l’esplicazione della “salmodia mariana”, così vorremmo definirla: una particolare pratica d’elogio e d’aiuto, che non solo svolge la funzione di introdurre la richiesta del pellegrino-poeta, ma deliberatamente approfondisce con l’unico modo che Dante conosce, l’oratio, appunto, il mariale. Questa pratica, derivatagli dallo studio, ma soprattutto dall’uso giornaliero del credente, è in poesia figura complessa della Vergine prima della ripresa estatica del poeta e anticipazione assieme della visione di Lei unitamente al Figlio nel terzo regno. In questo senso, il mariale durante la Commedia è, quindi, inchoatio figurale adatta ad introdurre l’esposizione detta alla fine del percorso-cammino degli occhi di Lei: sostando nella liturgia di compieta che mirabilmente fa che la preghiera alla Vergine spieghi le ali nel crepuscolo delle grandezze mondane: ‘Salve, Regina in sul verde e ’n su’ fiori / quindi seder cantando anime vidi’ (VII 82-83). Anche dal grembo di Maria (VIII 37) vengono gli angeli che montan la guardia nella valletta dei principi a salvarli dalla tentazione superba e frodolenta del serpente. Lo spazio del Purgatorio della penitenza è già colmo della sua grazia per gli esempi delle sue storie; e le preghiere che l’invocano fioriscono dopo di quelle. Le anime degl’invidiosi penitenti sono appena apparse nei mantelli bigi che si confondono con la roccia, e subito intonano le litanie di quella comunione dei Santi che avversa e salva il bieco chiuso mondo dell’invidia; e Maria è prima nell’or52
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dine: «udia gridar: ‘Maria, òra per noi’ : / gridar ‘Michele’ e ‘Pietro’ e ‘Tutti santi’ (XIII 50-51).2
L’inchoatio formae di derivazione albertina significa a nostro avviso, letta alla luce di una esamina globale e assieme particolareggiata dell’azionefigura di Maria, l’operabilità lirica da parte di Dante di una voluta (programmatica) ricerca e della sua adattabilità poetologica dell’essere umano che più di tutti ha rappresentato per via straordinaria il preciso accesso ai signa linguistici del cammino. Attraverso cui il “metaforismo” della Commedia, inglobando a sua volta i velamina, per i quali si attua e sui quali si fonda, e proponendoli, quindi, in transumptio attiva, ha il compito di trasportare dalla visio alla fictio3 la realtà dell’unico-ente di natura tutta umana che è divenuta lo strumento di Dio. In questo senso, il discorso sulla ripresa di un certo modello letterario, se non deve essere circoscritto a univoche fonti imprescindibilmente vincolanti il verso dantesco alle asserzioni da esse scaturite, proprio l’ampio studio della cultura classica e medievale induce, così come ha indicato Bruno Nardi,4 ad una riflessione complessa, ma non complicata delle tracce a cui Dante dà credito. All’interno di una vastissima, ma non indistinta, operazione di studio-scavo tanto del lemmaimmagine quanto del nesso tra questo e il suono-memoria da cui nasce e per il quale si propone. Pertanto, la poesia verifica drammaticamente lo scontro-incontro dettato proprio nella Commedia tra ragione e fede.5
Mario apollonio, Maria Vergine, cit., p. 837. Cfr. Peter Dronke, La “Commedia” e le modalità di lettura medievali, in Idem, Dante e le tradizioni latine medievali, trad. it. di Marco Graziosi, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 17-64. 4 Bruno Nardi, Raffronti fra alcuni luoghi di Alberto Magno e di Dante, in Idem, Saggi di filosofia dantesca, cit., pp. 63-72. 5 «Col riconoscere i diritti della scienza greco-arabica, il pensiero cristiano entrava in una fase nuova della sua storia: fu in questo momento che cominciò a distinguersi la ragione dalla fede, la filosofia dalla teologia. Si chiamò theologia l’intuizione cristiana della vita e del mondo, basata sulla predicazione evangelica dei Padri elaborata in sistema dommatico. All’opposto, alle dottrine derivate da Aristotele, il philosophus per antonomasia, e dai suoi continuatori ed esegeti, si riserbò il nome di philosophia. Ma la filosofia veniva, così, intesa in senso restrittivo; essa non abbracciava tutto quanto il pensiero della nuova civiltà medievale, ma solo una parte di esso; quella parte rappresentata appunto dalla scienza greco-arabica, quella scienza che aveva esplorato tanti dominî rimasti sconosciuti fino allora ai popoli dell’occidente latino. Fuori dalla filosofia così restrettivamente intesa, 2 3
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‘ne la faccia che a Cristo / più si somiglia’: la poesia mariana di Dante
L’esposizione versificatoria avviene nelle modalità dell’ingresso della suddetta oratio. Mediante il passaggio lirico in quest’ultima attraverso il ruolo
rimanevano i dommi e le credenze cristiane, tutta insomma l’esperienza religiosa di dodici secoli. E anche questa era pur filosofia, sebbene non le si desse questo nome; anzi la vera filosofia, cioè il pensiero creatore di quella civiltà che si era sviluppata dal Cristianesimo. Ma la distinzione stessa, tra fede e ragione, teologia e filosofia, esigeva che un termine di ciascuno di questi binomî si subordinasse l’altro. Né la ragione e la filosofia potevano rimanere assolutamente indipendenti dalla fede e dalla teologia, né queste da quelle. Un dualismo siffatto è assurdo, perché distruggerebbe l’unità dello spirito. Anche la cosiddetta teoria della duplice verità, professata dagli averroisti, non giunse mai a realizzare nella storia del pensiero questo assurdo. Essa, anzi, fu ora tendenza fideistica e scettica a deprimere la ragione, che si diceva impotente a giustificare la verità di fede; ora negazione larvata dei domini religiosi; ora dichiarazione d’incompetenza in materie teologiche, da parte di chi, occupato dai problemi speciali delle singole scienze, e intento a risolverli coi metodi propri di queste, si sentiva davvero incompetente in fatto di teologia, ed era costretto continuamente a far riserve sulla portata delle teorie filosofiche che potevano offendere le verità religiose. Ma sincera e coerente professione di fede in una doppia verità non vi fu mai, perché è assurdo che vi fosse. Dei due termini del binomio ragione e fede, quello subordinato fu naturalmente il primo, la ragione. La filosofia fu accolta dai teologi come ancella della teologia: philosophia ancilla theologiae. Tuttavia il concetto della subordinazione non infirmò quello della distinzione. La philosophia humana ebbe per oggetto le cose create, studiate nella loro intrinseca natura e nelle loro naturali proprietà; e per mezzo di esse risaliva alla Causa Prima dell’ordine cosmico. La theologia invece, ossia la docrtina fidei christianae, considerava gli esseri creati in quanto sospesi alla libera volontà creatrice, e in quanto risulta in essi una somiglianza o vestigio della natura divina e sono ordinati a Dio come a fine ultimo di tutte le cose. Spartitosi il dominio delle proprie ricerche, il filosofo e il teologo seguivano ciascuno un proprio e diverso metodo d’indagine, un diversus cognoscendus modus: l’uno traeva le sue dimostrazioni ex propriis rerum causis, e si basava sull’esperienza sensata, secondo che le verità filosofiche sunt cognoscibilia lumine naturalis rationis; l’altro, invece, muoveva dall’esperienza religiosa di dodici secoli di Cristianesimo e dalla parola rivelata. Fermato il concetto di distinzione e della subordinazione, filosofia e teologia si erano ormai indissolubilmente saldate nello spirito del medio evo, di guisa che la vera Filosofia di questo periodo storico, non era più la vecchia philosophia aristotelica e neppure la theologia dei padri della Chiesa, ma l’una cosa e l’altra insieme, anzi l’una nell’altra insieme, cioè l’esperienza cristiana compenetrata dello spirito filosofico dell’aristotelismo.[…]. Il teologo medievale, prima di prestar fede alla parola rivelata, chiede le credenziali al nesso divino, e la ragione deve dirgli se queste credenziali sono, o no, autentiche. La ragione, insomma, deve controllare la veracità del rivelante e stabilire la razionalità della fede; ad anche quando ha accolto la parola divina, il teologo non si rassegna a credere ciecamente, vuole intendere, in qualche modo, ciò che gli si propone a credere, e chiede soccorso alla ragione […]. Le somme teologiche e i commenti dei dottori scolastisci alle Sentenze del Lombardo, sono impregnati tutti di metafisica aristotelica e neoplatonica» (Idem, La conoscenza umana, in Dante la cultura medievale, a cura di Paolo Mazzantini, introduzione di Tullio Gregory, Bari, Laterza,1983, pp. 166-169).
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significativo dell’exemplum da una memoria partecipata (l’errore osservato in sé attraverso le varie storie-figure esposte) che ha vissuto la colpa ed ora la tramuta nell’allontanamento da essa per tramite dell’acquisizione della Luce, quale traduzione, dunque, del sentimento rigenerato del sorriso di Beatrice in Dio, alla memoria purgata (funzione esercitata proprio nel secondo regno) dentro e oltre l’insegnamento dei Padri. Unitamente all’esposizione iconografica che in verbi o in formule indicanti l’azione plastica dischiudono la figura stessa di Maria nel portato poetico quale persona vivens. All’inizio del moto penitenziale in apertura del canto X del Purgatorio, la fatica nell’ascendere del poeta-pellegrino «per una pietra fessa» (v. 7) indica chiaramente il difficile conseguimento della virtù, proprio sul piano pratico-motorio, per cui i passi sono «scarsi» (v. 13). Il modello che il poeta contrappone alla vista-esame dei superbi è su tutti Maria protratta figuralmente quale simbolo lirico diretto: mediatrice primaria e non semplice intermediario con Dio. Siamo edotti dal canto di un processo che assomma l’assoggettamento del moto fede-ragione nell’auscultazione del sentimento del bene operare con il bel presentarsi dentro la natura umana, che è così riconciliata in Maria nel Mistero. Questa straordinarietà è rappresa tanto nella edificazione del modello esperito proprio da Maria, nella singolarità dell’evento evangelico, quanto nell’assunzione di tale evento all’universalizzazione che il suo portato espone quale motivo centrale della Storia. Gli elementi proprii dell’incisione delle scene lungo la parete rocciosa del monte dice a nostro avviso proprio la sintesi lirica tra il senso custodito e celato sotto i velamina dell’arte e il contenuto dell’esperienza tanto culturale-religiosa di Dante quanto di fede dell’Auctor-Agens. Le immagini presentate sono tratte sia dall’Antico che dal Nuovo Testamento: prefigurazione e compimento ad un tempo delle loro figuralità. Ma la figura-immagine di Maria gestisce sin da ora il ruolo di assommare l’umbra futurorum in “presentia incoativa perdurante”, così definiamo il ruolo poematico di Maria. Stabilendo con la suddetta singolarità versificatoria che il portato della propria azione storico-mistica espone il trampolino di lancio per accreditare “la bella menzogna” quale azione lirica attentamente programmata. In questo senso, il discorso del superamento della “bella menzogna” in riferimento ad un modello opposto per il quale il verso nel contrastivo apposito gioco risulta “giustamente-menzognero” (intentio auctoris) si rende, se non nella indicibilità del vero, per il quale il suddetto gioco 55
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non sarebbe, nella presa d’atto dell’ineffabile. Il cui paradigma indissolubile, come impresso nella cera, è non tanto espresso dalla figura della Vergine a depositarsi nel canto, quanto il verso a costruirsi sull’immagine del carattere, di per sé indescrivibile, dell’humilitas pienamente accettata da Lei. E la figura dell’humilitas dà credito altissimo alla messa in scena del rapporto non viziato dai sensi tra fede e ragione. Esaminiamo bene il “mariale lirico” espresso a partire dal x canto del Purgatorio. Di una determinata azione-condizione, pertanto, che blocca e nel contempo procrastina iterativamente il modello procedurale, e che il verso espone come verità data: «L’angel che venne in terra col decreto/ de la molt’ anni lacrimata pace, / ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, // dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava immagine che tace.// Giurato si sarìa ch’el dicesse ‘Ave!’; / perché iv’era immaginata quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella / ‘Ecce ancilla Dei’, propriamente / come figura in cera si suggella» (Purg. x, vv. 34-45): Maria è colei che può dischiudere il mistero dell’Incarnazione. E può, nello stesso tempo, aprire l’umano ad esso nella presenzialità della sua figura lirica. Ella è prefigurata nell’Antica Scrittura quale Arca dell’Alleanza, percorso per la nuova Gerusalemme terrena e rispecchiamento della Gerusalemme Celeste, dentro gli accostamenti-esempi lirici posti dal poeta vicini a quello mariologico di David e di Traiano. “Intagliato - immagine - atto impressa esta favella – figura – in cera si suggella” sono espressioni che presentano un’azione di “descrizione motoria” (fisico-cerebrale-spirituale) in cui si rapprende la formularità con la quale Dante gestisce il sistema dell’indiarsi per il mariale poetico: L’esempio neotestamentario si riferisce […] alla vita della Madonna, perché, oltre ad essere specchio delle sette virtù opposte ai vizi capitali, secondo l’insegnamento di san Bonaventura nello Speculum Beatae Mariae Virginis, rappresenta nell’economia della salvezza quel ‘termine fisso d’etterno consiglio’ (Par. XXXIII, 3) dal quale doveva dipartirsi il nuovo corso dell’umanità redenta ad opera dell’Incarnazione. La scena dell’annunciazione imposta nella roccia è una ‘mirabile prefazione a tutto il Purgatorio’ [così Sacchetto], ma è per Dante anche un momento centrale della storia, se rapportato alle altre 56
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due scene raffigurate, la danza di David davanti all’arca santa e la ‘gloria / del roman principato’ (vv. 73-4), alla luce di un passo del Convivio (IV, v. 1-6) [secondo la lettura del Chini] in cui viene annunziata la provvidenzialità della nascita sincronica di Davide e della città di Roma ai fini della realizzazione della salvezza operata dalla venuta di Cristo. […] la fondamentale finalità delle pene purgatoriali attiene la riconquista del retto amore del bene, come spiegherà Virgilio nel canto XVII, attraverso la poena sensus che diventa veicolo alla virtù opposta. In ciò consiste la fondamentale differenza con il sistema penale dell’Inferno, rispetto al quale è fuorviante individuare possibili corrispondenze. […] in san Tommaso è presente una distinzione tra l’humilitas in quanto poena e l’humilitas in quanto virtus […]. L’humilitas-poena del canto decimo si trasforma in humilitas-virtus nella considerazione della caducità della propria eccellenza proclamata da Oderisi da Gubbio nel canto successivo. […]. Nel vangelo di Luca (I, 26-28) è contenuto il sobrio racconto dell’annunciazione privo di ogni connotazione ambientale […]. Dante registra il farsi dell’istoria come summa delle possibilità del narrare per figure […]. L’artefice divino ha modellato le figure imprimendo ai loro gesti una tale carica di verità che le parole emergono dalla memoria di chi osserva naturalmente, ‘per forza d’impressioni’ [afferma Settis]. Ma le figure acquistano la loro capacità di far parlare la memoria dello spettatore solo dopo che questi ha riconosciuto ‘il tipo iconografico’ che gli sta di fronte: la terzina che avvia la descrizione dei tre exempla assolve appunto il compito di delimitare il campo dei riferimenti iconografici nel cui cerchio reagiscono e si rianimano le sedimentazioni della memoria stimolate dalla perfezione dell’intaglio […] riconosciuto l’angelo annunciante (tanto da parte di Dante auctor-agens quanto del lettore-uditore) la memoria immediatamente ripete il testo evangelico e lo scarno colloquio in esso riferito: Giurato si sarìa ch’el dicesse ‘Ave’; perché iv’era immaginata quella ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella ‘Ecce ancilla Dei’, propriamente 57
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come figura in cera si suggella (vv. 40-45).6
Il poeta trasferisce mediante l’integumentum, estratto e modulato nella plasticità del singolo vocabolo e, parimenti, nella mobilità delle figure presentate, il mantenimento del significato del termine in significanti appartenenti a campi semantici affini e assieme diversi. L’immagine, nel senso greco-latino e cristiano della parola: rappresentazione, e, nel contempo, sostanza, si dà in poesia quale esposizione della persona-figura. Ricordo-memoria di essa al cantore che la trasmette all’uditore-lettore, quale impressione, intesa, a sua volta, come moto fugace della mente-ricordo, che si stabilizza penetrando nel tessuto del “testo-cera”. Moto incisivo quest’ultimo, e diremmo decisivo della poetica dantesca, per cui la parola “favella”, con chiaro riferimento intrinseco all’impressione (in senso tecnico: imprimere fisicamente dentro, nella carne della mente-anima, col fuoco: “stampare”, memorizzare, e che in sé richiama l’incisione-l’intaglio «intagliato in un atto soave») data dalla trasmissione con la cera espone il motivo dell’ «‘Ecce ancilla Dei’, propriamente». Tale processo lirico è in Dante espresso nella coniazione della figura singolare della suddetta cera, del sigillo, che è poi il modello di riferimento, non solo sotto un puro profilo sensorio-immaginativo, ma matericamente dichiarativo, della scrittura-parola, soprattutto nel Medio Evo: Le valenze simboliche del potere attraverso immagini e parole sono presenti in […] [diverse] fonti mute. Fra queste vanno elencati anzitutto i sigilli, di solito in cera o ceralacca, che recavano i segni distintivi dell’autorità (sovrani, signori, pontefici, vescovi, capitoli, città, ecc.) costituiti da una figura, uno stemma, uno o più iniziali, una legenda. Venivano utilizzati per autenticare e chiudere documenti o lettere ufficiali e impedire la manomissione. La difesa del diritto al sigillo coincideva infatti con la difesa del diritto della giurisdizione. Nell’Apocalisse di Gesù Cristo a san Giovanni – capitoli
6 Tobia R. Toscano, Canto X, in Lectura Dantis Neapolitana – Purgatorio, cit., pp. 208, 213-14, 220-221.
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5 e 6 – è indicato come ‘libro suggellato con sette suggelli’ il testo che contiene l’avvenire e che solo l’Agnello, cioè Gesù, immolato per la salvezza del genere umano, può aprire.7
La Commedia esegue con precisione liturgica potremmo dire le più importanti scansioni della venerazione mariana, inserendole nella trama del poema quale antefatto e assieme fatto del canto. Consequenziali al dire l’esplicazione figurale di una o più anime, così come di un determinato “momento lirico”’. Assistiamo, pertanto, a vari episodi poetico-liturgici in cui la venerazione per la Madre è posta a base dei passaggi topici del più diretto incontro Dante-Cristo. Fra tutti il già accennato moto cristologico esposto prima della visio finale mediante Beatrice in e con Maria. Ci sembra rilevare un’applicazione proficua dei modelli medievali inerenti la mariologia da parte del poeta-pellegrino. E proprio l’“Ispiratrice di Letteratura”, come la indica nell’ambito poetico-letterario il Castelli, governa la narratio dantesca entro le tre realtà per le quali Ella dispone il proprio atto incoativo-poetologico: «sponsavirgo-mater».8 Complessa e assai profonda è la ricostruzione delle tappe mariologiche assunte da Dante nei suddetti Studia e nella meditazione dei misteri: Il ritrovato letterario in cui si esprime la cultura medievale a partire dal secolo XI in rapporto a Maria è senza dubbio il Mariale. Sotto questo termine si radunano forme differenti per genere e contenuto, che vanno dalla raccolta di miracoli, composizioni poetiche, sermoni, formulari liturgici, trattazioni scolastiche, ma tutte concordi nell’intento di lodare Maria. […]. Maria è domina, cioè
7 Salvatore Tramontana, Fonti mute e fonti orali. Testimonianze iconografiche, in idem, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Roma, Carocci, 2005, p. 127. 8 Ferdinando Castelli, Maria ispiratrice di Letteratura, in Figure poetiche e figure teologiche nella mariologia dei secoli XI e XII, Atti del II Convegno Mariologico della ‘Fondazione Ezio Franceschini’ con la collaborazione della Biblioteca Palatina di Parma, a cura di Clelia Maria Piastra – Francesco Santi, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2004, p. 11.
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colei che esercita un dominio e potere […]. Il termine mediatrice significa che Maria ‘è la via per la quale è venuto il Salvatore’[…]. In cielo Maria si interpone tra noi e la maestà di Cristo […]. La qualifica di avvocato indica nel linguaggio medievale chi assume la difesa di uno più debole di lui. Applicato a Maria significa che essa può trattare, in quanto madre del Giudice e madre di misericordia ‘in modo supplichevole ed efficace [afferma San Bernardo] gli affari della nostra salvezza’. […]. Per Bernardo, Maria ripara ciò che Eva aveva rovinato nella storia della salvezza.” Ella appare [pur nella differente trattazione dei diversi autori, dei Padri, dei mistici] un sommo ‘valore’ anzi un ‘sistema di valori’, in quanto il registro verticale proprio dell’epoca che accentua i doni ricevuti da Dio la rende un microcosmo […] sicché nella Vergine ‘si aduna / quantunque in creatura è di bontade’ […] secondo il principio dell’onnicontenenza. Maria condensa l’ideale ultraterreno della cristianità medievale e insieme costituisce un ‘referente collettivo’.9
È la preghiera il motivo-genere per il quale Dante istruisce il canto nella formularità che noi indichiamo quale “mariale lirico”. Esponendo per esso la relazione lirico-dialogica tra Dio e l’uomo in quell’assetto, quindi, liturgico-orante che è la celebrazione del Mistero della Cena, la Fractio Panis. Con tutta la “simbologia” e, pertanto, l’“esposizione figurale”, dette nel Sacro Rito. Ma anche nei momenti di preghiera collettiva o singola indicati dalla Chiesa.10
9 Stefano de Fiores, Modello della teologia monastica. Maria mediatrice misericordiosa tra Cristo e la Chiesa - Modello dell’autunno del Medioevo. Maria miracolosa tra spiritualità e critica, in Idem, Maria sintesi di valori. Storia culturale della mariologia, Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni San Paolo, 2005, pp. 181-185 e 207. 10 «Per i lettori moderni della Commedia di Dante, i numerosi riferimenti sia alla preghiera sia al culto collocano stabilmente il poema nel contesto della vita cristiana del tardo medioevo e, allo stesso tempo, non sembrano richiedere un grande sforzo interpretativo. Da questo punto di vista, l’uso della preghiera e dei rituali da parte di Dante sembra molto meno interessante di quanto non sia, per esempio, il suo rapporto con questioni di dottrina o con la tradizione classica. Quando leggiamo la spiegazione della dottrina dell’Incarnazione data da Beatrice nel canto VII del Paradiso, o il suo resoconto della metafisica della creazione nel canto XXIX del Paradiso, avvertiamo subito la difficoltà delle idee in gioco, la
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Il Mariale viene, quindi, a formarsi e a fondarsi tanto sulla devozione popolare di lode verso la Vergine, che è promozione dell’affetto sincero per la Madre, quanto sulla Scrittura. Entro una riproposizione liturgica del parallelo con la Vergine nel nunc in proiezione epifanica della sua figura tratta analogicamente dai signa nell’Antico Testamento.
loro alterità rispetto alle nostre abitudini mentali e quindi la necessità di confrontarci con esse nei loro stessi termini. Quando Dante cita un autore classico in un modo che non ci è familiare o che ci sorprende, come nel caso del Paradiso terrestre, dove l’arrivo di Beatrice è fitto di echi virgiliani, sentiamo il peso degli sforzi interpretativi richiestici dal testo: il bisogno di tornare alle fonti di Dante, di tenere conto dei filtri attraverso cui gli potevano essere giunte, di esaminare le ricche relazioni intertestuali evocate dal suo poema. Invece nel caso della liturgia, questi sforzi interpretativi sembrano meno pressanti. La liturgia è parte del caratteristico colore medievale del poema, ovviamente; eppure quando Dante descrive le schiere di beati che cantano inni di lode a Dio, o le anime del Purgatorio che cantano un salmo penitenziale, siamo tentati di pensare che ciò che il poeta sta facendo non richieda grande analisi da parte nostra. L’uso della liturgia potrebbe anzi sembrare soltanto decorativo, un semplice espediente per segnalare la presenza di particolari figure della pietà, o la loro mancanza. Di sicuro la pura energia intellettuale di Dante –subito chiara nel coinvolgimento diretto della Commedia in questioni politiche, teologiche, letterarie, metafisiche e sociali – è meno evidente a prima vista nel suo uso della liturgia. Per i lettori moderni, esiste la tentazione di assegnare la liturgia alla categoria del rituale: la parola stessa suggerisce obbligo, adesione a formule fisse – non proprio le qualità che tendiamo ad ammirare in un’opera così audacemente inventiva, costantemente sorprendente e spesso polemica come la Commedia. Di conseguenza quindi, e con alcune eccezioni degne di nota, l’attenzione della critica si è rivolta in gran parte altrove: non alle forme di culto praticate dalla Chiesa medievale, ma a questioni più chiaramente intellettuali, più ‘letterarie’, apparentemente più pressanti per il poeta e i suoi contemporanei. È per queste ragioni, possiamo supporre, che la liturgia nella Commedia di Dante è tuttora un campo di studi poco frequentato […].E tuttavia, se immaginiamo la liturgia come un rituale eseguito meccanicamente secondo delle formule fisse, non riusciamo a renderci conto della sua complessità e del posto centrale che occupa nella vita e nel pensiero medievali, e non riconosciamo la possibilità che la Commedia si confronti con quel ricco corpo di pratiche religiose in modi che non siano passivi e meccanici. La liturgia era al centro della discussione di questioni fondamentali per la cristianità medievale; anzi, il rito al cuore della Messa, l’Eucaristia, era uno dei campi della teologia medievale dibattuti più di frequente, in modo più approfondito e a volte più acceso. Se ci fosse bisogno di un’ulteriore prova del fatto che l’uso da parte di Dante della liturgia e di riferimenti liturgici non dovrebbe essere dato per scontato e liquidato come meccanico, basterebbe ricordare che le descrizioni della liturgia nella Commedia sarebbero apparse sorprendenti a un pubblico tardo-medievale» (Matthew Treherne, La Commedia di Dante e l’immaginario liturgico, in Preghiera e liturgia nella ‘Commedia’, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Ravenna, 12 novembre 2011, cit., pp. 11-13).
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E, pertanto, in senso tutto pre-figurativo dell’immagine-azione della Madre di Dio: Maria è detta quale Donna che schiaccerà il serpente. Donna che nell’Apocalisse viene portata al riparo dal drago. Intercettazione-esplicazione, secondo l’esegesi dei Padri sulla Sacra Scrittura, del simbolismo mariologico e cristologico giacente nelle “Vecchie Cuoia”. E, parimenti, ispirazione diretta sugli accadimenti esposti dal Nuovo Testamento: compimento della Grazie. Scioglimento, cioè, del sì mariano quale sublime snodo attuativo dell’Incarnazione.11
11 «Lo status nascendi della mariologia si inserisce nel paradigma circoscrivibile della Parola di Dio attestata dalle Scritture e al mondo da esse coinvolto in un crescente sviluppo, composto da testi e documenti che ampliano il senso e la comprensione delle stesse Scritture e animano molteplici esperienze di vita spirituale. Il processo culturale è tale che matura in modelli letterari specifici e singolari, in cui prevale, pur non esclusiva, la funzione poetica della parola. […]. Il modello storico-salvifico incentrato su Gesù Cristo, proprio perché narrazione storico-salvifica racconta progressivamente della ‘donna’ da cui egli è nato (Gal 4, 4), donna vergine (Lc 1, 27b); piena di grazia (Lc 1, 28); promessa sposa di Giueseppe (Mt 1, 18- Lc 1, 27); la Madre del Signore (Lc 1, 43), di Gesù (Gv 2, 1; At 1, 14); donna e madre (Gv 19, 25-27; Ap 12, 1-6). Racconta di una persona singolare che ha trovato grazia presso Dio (Lc 1, 30.48); che per opera dello Spirito Santo, da lei accolto, nasce il Figlio dell’Altissimo, il Figlio di Dio (Lc 1, 32. 35); persona che accompagna dagli inizi il cammino dei discepoli (At 1, 14) a lei affidati dal Figlio nella sua glorificazione in Croce e a loro affidata come Madre, e così compresa (Gv 19, 26-27) in una loro progressiva consapevolezza. […]. Il parallelo Eva-Maria, ‘in-ventato’ da Giustino († 165 ca) e approfondito in luce soteriologica da Ireneo († 202), feconda a più riprese il pensiero patristico d’Oriente e d’Occidente. Maria nella sua verginità e nella sua maternità, e soprattutto per la sua fede, è donna protagonista e nello stesso tempo ‘garanzia’ della discesa di Dio nella carne per salvare l’uomo tramite la carne e lo Spirito. Il modello gnostico-sapienziale racchiuso globalmente in una diacronia che dal II secolo si estende fino al VII secolo compreso, si interseca con eventi conciliari: chiari i frutti di un intenso processo di inculturazione del pensiero cristiano, che nella loro relativa sincronicità caratterizzano e qualificano il paradigma più vasto. I grandi concili di Nicea (325), di Efeso (431), di Calcedonia (451), il concilio Lateranense (649) non propriamente ecumenico e il Niceno II (787), l’ultimo dei grandi concili dell’ecumene motivato dalla crisi iconoclasta, pur incentrati nell’attestare la fede cristologica e soteriologica e difenderla, significano la ricezione degli essenziali riferimenti dei simboli di fede, preannunciano, stabiliscono e confermano in riferimento a Cristo, Verbo di Dio incarnato, unità intrinseca di natura umana e divina, la legittimità dello scambio degli attributi (communicatio idiomatum) in riferimento a Maria, cosicché giustamente e veramente la Vergine è chiamata Theotokos, Madre di Dio. Le tensioni conciliari, soprattutto nel concilio efesino, nascevano dalla volontà di non annullare nell’atto di fede nell’unica persona del Verbo né la natura
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Da questo ampio e complesso processo si attingono le modalità operative di versificazione redatte nella singolarità della matura strutturazioneumana di Cristo (monofisismo) né quella divina (nestorianesimo). E ciò che è singolare trascendendo radicalmente il pensiero greco sia quello del sistema platonico che di quello stoico. Il titolo Theotokos, presente nella formulazione del Sub tuum praesidium del III secolo di area egiziana, segno del supplice rivolgersi orante a Maria, feconderà lo sviluppo cultuale tramite traduzioni di vari sentimenti e atteggiamenti che dalla venerazione vanno all’ammirazione che si scioglie in preghiera fiduciosa e nell’imitazione. In questo sviluppo, che intride la poesia e l’iconografia, si manifestano dal II secolo eccessi stigmatizzati dai Padri. Si può ricordare in chiave minimalista l’antidicomarianismo, corrente avversaria e disprezzatrice della Vergine, e il collidirianismo, in chiave massimalista, corrente fautrice di una quasi divinizzazione di Maria alla stregua di una dea. Sia l’una che l’altra corrente, con minore o maggiore intensità, con altri accenti latenti o espliciti ritorneranno nelle epoche successive della storia della mariologia. Tuttavia […] il costante ritorno al paradigma storico-salvifico e la sua operatività nella patristica è chiave di volta per comprendere la ricchezza per la fede e per le sue manifestazioni di un equilibrato dire Maria e partecipare della sua presenza nella vita della Chiesa delle culture mediterranee. […] un ampio spazio è […] alle culture che diedero vita, oltre l’ellenismo, al paradigma medievale, frutto di una civiltà compiuta in se stessa, animata da un profondo senso del soprannaturale coinvolgente non solo l’uomo ma il mondo universo. Civiltà che conosce trasformazioni epocali come la fine dell’impero romano occidentale; la diffusione dell’impero romano-germanico che favorisce la diffusione del cristianesimo e si adopera perché sia accettato anche forzatamente; l’istituzionalizzarsi del feudalesimo; la nascita, in ambito italiano, dei Comuni. […] la periodizzazione della costellazione medievale copre idealmente una durata di circa mille anni dall’alto medioevo (secc. V-X) al basso medioevo (secc. XI-XV). Per la mariologia la documentazione da vagliare è amplissima; a giusta ragione si può affermare che Santa Maria, la sua figura, la sua presenza intride la vita del singolo e della società, del costume e delle istituzioni, le pratiche civili e quelle religiose, le scienze e le arti. Il medioevo è caratterizzato da un ethos mariologico-mariano di cui è ben difficile darne ragione esaurientemente, anche perché l’inculturazione mariologica è stata, nella sua diacronia, particolarmente dinamica. Di fronte ad una pluralità di modelli culturali contenuti nel macroparadigma, la scelta da compiere si è indirizzata a considerare quei tipi epistemologici (microparadigmi) stimati emergenti, soggettivamente ritenuti caratterizzanti, che permettono di tessere un ordito narrativo capace di far emergere l’essenziale dello sviluppo della mariologia. Schematicamente, in ordine successivo, si illustra il modello monastico; quindi il modello poetico-mistico al femminile; la transizionalità della pietà mariana nei vari modelli con attenzione a microparadigmi come la predicazione; il modello teologico tardomedievale, con attenzione a microparadigmi come quello mistico renano-fiammingo al maschile o al movimento della devotio moderna. Infine è considerato il modello della teologia e della pietà orientale dei secoli XIV-X. Attraverso la lettura di questi modelli, la figura di Santa Maria è considerata nell’ethos ammirativo e sapienziale laudativo degli spazi monastici: per mezzo di Maria a Cristo, mediante la Madre al Figlio […] Maria, nella sua esperienzialità, è considerata “filosofia dei cristiani”, in lei si trova la sapienza che porta a Cristo. Sapienza del cuore che si scioglie in fiducia orante e affettuosa alla Madre di Gesù. Ella è la Domina, termine e semantica analogica mutuati dal sistema medievale, chiamata ‘mediatrice’. […]. Nel
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esposizione poematica di Dante. La quale si dice nell’ unitività, quindi, orante, che è la Chiesa stessa, il suo Uffizio più alto, e che si dà vinculum charitatis entro la corrispondenza tra vivi e morti per Cristo, attinta da
trascorrere e nel susseguirsi dei modelli, si sono conosciuti fenomeni legati a concezioni ereticali come il nuovo adozionismo dell’VIII secolo, le discussioni sulla verginità nel parto del IX secolo, e nel progredire verso il tardo medioevo sono emerse opinioni esagerate, amplificazioni della presenza di Maria frutto di ignoranza […].È singolare che mentre si consuma nell’irrigidimento il dramma della rottura dell’unità tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente, l’Occidente si arricchisce dell’apporto alla mariologia nell’esperienza delle mistiche e dei mistici e l’Oriente, dopo il periodo considerato aureo, dell’VIII secolo, conosce una nuova intensa riflessione teologica su Maria ad opera di eminenti teologi» (Silvano M. Maggiani, Storia della mariologia: intreccio di teologia. Storia e culture e Introduzione al volume, in Storia della Mariologia, cit., pp. 17-22). Con il termine mariologia si intende lo studio che si interessa della figura e dell’opera di Maria: la disciplina che, all›interno della teologia, indaga l’operaazione di Maria nell’avvenimento della Salvezza. Nel primo millennio Maria, la sua figura è intrinsecamente legata, come è giusto sia, a Gesù Cristo. Nel Medioevo, dopo la definizione dei dogmi cristologici, Maria diventa sia a livello teologico che per quanto rigurda la pietà popolare punto e modello, pur discusso animatamente, di venerazione: si propone tra le altre pratiche il culto, quasi liturgia sgorgata dal basso e congiungentesi con la esposizione ufficiale della Chiesa, del santo rosario. Il Trattato della Santissima Vergine, di San Bernardo di Chiaravalle (†1153), è l’opera mariologica che caratterizza il Medio Evo. Da San Domenico di Guzmann (che rafforza il culto mariano proprio con il rosario e la pratica di indossarlo sull’abito dell’ordine, a cui apparterrà San Tommaso) al beato Giovanni Duns Scoto si avvia il rituale di venerazione alla Vergine, interrotto dalla Riforma e reintrodotto con forza dalla Controriforma. Il termine “mariologia” sarà definitivamente fissato da Placido Nigido agli inizi del Seicento. Occorre ripresentare un fondamentale argomento già affrontato dall’esegesi, quello relato proprio al San Domenico dantesco, il quale non fa alcun riferimento esplicito alla Madre di Dio. Questi, infatti, «creatore del culto del rosario, manca qualsiasi riferimento alla Madonna (ed è S. Bonaventura che parla!)» (mario apollonio, Maria Vergine, cit., p. 839). Tuttavia, proprio il nesso poetico, da noi evidenziato nel presente studio, e che verrà esplicandosi nelle pagine successive, collegando la mariologia lirica alla cristologia, che ne struttura l’asse portante del discorso letterario-religioso, espone il dato figurale-lirico relato alla persona di Maria come assunto e principio ad un tempo delle relazioni di intensità poetica che il dialogo implicito dell’Auctor-Agens con la Madre assume nella peregrinatio poetica mediante la forza desiderativa di adesione agli exempla mariani. I quali, velati o espliciti, proiettano la figura-persona Maria, che è predicato lirico co-primario, quindi, della teoresi del nuovo canto del poeta-pellegrino avvinto e convinto dalla Vergine gradatamente lungo la salito all’Empireo. Su questi temi, e sulle realzioni Cristo-Maria e, più ancora, sull’intensificazione della figura mariana nel Paradiso dantesco cfr. Umberto Bosco, Dante vicino. Contributi e letture, Caltanissetta - Roma, Salvatore Sciascia, 1966 e Giorgio Petrocchi, Itinerari danteschi, premessa a cura di Carlo Ossola, Milano, Franco Angeli, 1994.
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Dante […] alla sintesi dovuta a Tommaso d’Aquino, che aveva affrontato il problema, discutendo dei novissimi nel suo Commentario alle Sentenze, con una questione in quattordici articoli, che costituirà poi la LXXI questione, nella parte finale della sua Summa theologiae, detta Supplementum (aggiunta – come si sa – all’opera incompiuta). Tommaso stesso nel secondo articolo di quella questione aveva risposto alle obiezioni di chi riteneva non possibile lo scambio di un aiuto tra vivi e morti, e aveva sottolineato che la Chiesa è costituita del vinculum charitatis e insieme che la charitas est vita animae. Il legame reale tra coloro che si sono amati non cessa di sussistere dopo la morte e come dopo la morte si continua a ricordare, così si continua ad amare. Questo sentire costituisce un vincolo e in Cristo esso costituisce il corpo mistico. Nel corpo mistico ogni elemento è suscettibile di ricevere una intentio amorosa, trasformandosi e perfezionandosi per essa. Sulla linea di Tommaso (e secondo una tradizione che giungeva ad Agostino), Dante accoglie pienamente l’idea che il funzionamento dell’amore in Cristo spiega la ragione dell’efficacia dei suffragi. Il giudizio divino muta, ma non è contraddetto («cima di giudicio non s’avvalla»), perché la preghiera cristiana può dare «ciò che de’ sodisfar chi qui si stalla» (Purg. VI 37-39) e lo può dare perché quanto manca ai penitenti è quel «foco d’amor» che la preghiera offre a Dio e che può passare dall’uno all’altro, appunto per quel vinculum charitatis che consente il movimento delle intentiones fra i cristiani. Pregare per qualcuno è riempirlo di quell’amore che gli manca per giungere a Dio, vivendo l’esperienza personale del proprio amore nell’esperienza spirituale del corpo mistico.12
Cosicché, nel xv canto della seconda Cantica, nel quale il poeta osserva la purgazione del peccato d’ira, sono presenti i mansueti. Dante viene colto da un raptus estatico, e durante questo rapimento gli si presentano scene singolari: tra le visioni offerte gli appare la figura di Maria, assieme a Giuseppe, suo sposo, in un particolare momento evangelico.
12 Francesco Santi, Il sorriso di Beatrice. Dante e la preghiera di intercessione, in Preghiera e liturgia nella ‘Commedia’, cit., p. 35.
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La mansuetudine è opposta all’ira, e Maria manifesta questo atteggiamento dell’anima e lo impone esemplarmente come valore all’umanità, quando, ritrovato Gesù nel tempio, mentre questi parla con i sapienti, con dolcezza gli chiede il perché del suo allontanamento. L’ira non sconvolge l’anima dei genitori, pur preoccupati per il figlio, e il comportamento della coppia santa offre a Dante l’opportunità di spiegare l’atto di predisposizione al perdono e alla comprensione da parte della Vergine: «Ivi mi parve in una visïone / estatica di subìto esser tratto / e vedere in un tempio più persone; / e una donna in su l’entrar, con atto / dolce di madre dicer: ‘Figliuol mio, / perché hai tu così verso noi fatto? / Ecco, dolenti, lo tuo padre e io / ti cercavamo’. E come qui si tacque, / ciò che pareva prima, dispario» (vv. 8593). Luca scrive: «Fili, quid fecisti nobis sic? Ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te» (Luca 2, 48): la condotta della madre addolorata e mite di cuore preannuncia il compito di Maria nella storia della Salvezza. Un cammino di educazione all’ascolto della Parola, quello della Madre, che definisce i tratti genetici della Corredentrice. Entro un dinamismo fattivo, funzionale all’ascesa del pellegrino: «Dante adotta un nuovo procedimento tecnico: la visione estatica. Essa, pur sentita dal poeta con quei modi di concretezza descrittiva e plastica che escludono ogni ricerca di effetti magici, serve a suggerire, soprattutto nella seconda serie, il ritmo rapido e denso della rappresentazione»13 e dell’anticipazione della visione ultima. Il processo estatico operato nel canto è da riferire ad una specifica costruzione medioevale, applicata al moto mistico da San Bonaventura. Proprio nell’Itinerario il Doctor seraphicus insegna lo svolgimento di tale acquisizione da parte dell’uomo:14 a partire dal “rapimento”, si raggiunge la quies.
13 Natalino Sapegno, Commento ai versi 85-87 del Canto XV del Purgatorio, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, introduzione e commento a cura di Natalino Spegno, cit., p. 568. 14 Le tappe dell’Itinerario mostrano la via che conduce l’ente a Dio e, attraverso un movimento ulteriore e decisivo, che è l’estasi, concessa solo a pochi, l’uomo può raggiungere la Luce del Vero: «contemplare Dio attraverso le sue tracce nell’universo; contemplare Dio nelle tracce presenti nella struttura degli esseri dotati di sensibilità; ricercare Dio nella struttura interiore (intelletto e volontà) dell’uomo; elevarsi a Dio attraverso i doni della grazia infusa sul credente; contemplare l’unità divina mediante il ‘nome dell’Essere’; contemplare la dinamica trinitaria attraverso il segno-simbolo del Bene. Contemplato questo tragitto, si arresta lo sforzo della speculazione e si apre lo spazio all’intervento divino, il solo che può concedere il passaggio all’ ‘estasi’, che in questa vita è concessa a pochi; compaiono qui
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Se il rapimento estatico si realizza, quindi, come trasposizione dell’evento evangelico, il raptus significa, da un lato, il cedimento di Dante alla Luce, o meglio alla pre-figurazione di essa nel combattimento con le tenebre. E, dall’altro, in quanto annuncio della visio ultima e “decisiva” e, contemporaneamente, unione tra mondo terreno e realtà celeste (il secondo regno è, infatti, sì ultramondano ma, assieme, risiede “in” terra), si manifesta proprio attraverso un “vestimento-atto” che concerne comunque ancora la capacità “fisica” dell’uomo di concepire il divino. Non a caso ciò che l’azione estatica subita dal pellegrino mostra, pur nella concretezza (redatta nella narrazione lirica) del suo promuovere l’evento sacro, è il frutto di un’elaborazione “razionale” del credente, dove il termine razionale è da noi inteso come “aggettivazione” dell’ente-uomo nelle sue movenze fisico-cerebrale-spirituali. È l’esempio della Madre che Dante osserva “come” riesame della pagina evangelica. Esso costituisce il basamento dell’esperienza che, accumulata lungo la peregrinatio, gli consentirà di vedere Dio: «Nel rapimento mistico l’anima si libera del corpo per giungere, sia pure per istantanea folgorazione, alla visione di Dio. Qui, invece, anima e corpo sono uniti indissolubilmente e rappresentano il positivo e il negativo dell’esperienza mistica. La positività dell’esperienza mistica, realizzata attraverso l’estatica contemplazione degli esempi di mansuetudine, è bilanciata dal rimprovero di Virgilio, che sottolinea […] la inadeguatezza fisica che è ancora di impaccio alla realizzazione del cammino di purgazione e finisce per assumere una valenza anche morale».15 Tutto si muove all’interno del conflitto luce-tenebra, e la conoscenza avviene mediante il rovesciamento della logica terrena, per cui le visioni assurgono ad elemento decisivo della struttura diegetica. E la differenza tra sogno e visione, e, ancora, tra quest’ultima e il raptus evidenzia il valore che Dante attribuisce alla pratica estatica, la quale disegna il percorso gno-
le categorie forti del linguaggio mistico, quali silenzio, tenebra, passaggio estremo (la Pasqua)» (alessandro ghisalberti, Filosofia, teologia e mistica nella grande Scolastica- Bonaventura da Bagnoregio, in Idem, La filosofia medievale. Da S. Agostino a S. Tommaso, Firenze, Giunti, 2002, pp. 171-172). Sulla filosofia medievale rinviamo rispettivamente a Alain de libera, Storia della filosofia medievale, editoriale di Costante Marabelli, trad. it. di Filadelfo Ferri, Milano, Jaka Book, 1995. 15 Salvatore Floro di Zenzo, Canto XV, in Lectura Dantis Neapolitana - Purgatorio, cit., p. 330.
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seologico in questo particolare momento del cammino lirico. Dalla succitata dialettica luce-tenebra al capovolgimento, che, dunque, proprio qui va imponendosi, della logica terrena, il poeta ricava l’opportunità di intendere e spiegare, in quanto viste come realtà soggettive (pertanto vere) le immagini offerte dall’estasi. E, contiguamente, proprio perché esse risiedono dentro il rispecchiamento della luce (impossibilitate dal tramutarsi in atti “contemporanei” con e ai tempi del secondo regno) dicono ulteriormente la realtà del sacro, che Maria indica. La mansuetudine dispone l’ente alla conoscenza di Dio, e Tommaso discorre sulla visione estatica, argomentando proprio sul raptus: «important simpliciter excessu a seipso […] sed raptus supra hoc addit violentiam quandam».16 E Dante dice di essere stato appunto «tratto» (rapito), azione questa che indica un atto di forza. Esso è realizzato nell’abbandono momentaneo dei sensi alla luce interiore. Attraverso la varietà delle formule con le quali il poeta presenta le figure esemplari17 del raptus estatico (Maria, Pisistrato, Santo Stefano) viene imbastito quel genere letterario, ossia l’exemplum, del quale si è detto, definito da molti studiosi “agitatario”, producendo la trasposizione di un’immagine, che traduce una porzione dinamica del racconto e la successiva reazione.18 E, nel contempo, l’istantanea “risposta” di colui che è tratto nel combattimento tra immagini e stupore per raggiungere il senso della parola-azione che gli viene esibita. Il “ratto estatico” si colloca quale sospensione del dire liricamente il discorso “continuativo” esposto nel viaggio al fine di sottolineare il limite dal quale Dante è soggiogato. Evidenziare, cioè, l’inadeguatezza umana di fronte alla nascita completa della consapevolezza, che verrà assunta al di là del tempo (il Paradiso) al quale fin ora abbiamo fatto riferimento (il
16 Cfr. Tommaso D’aquino, Summa Theologiae, Cinisello Balsamo (Milano), 1988, II, II, QU. 175, A. 2. 17 Sul rapporto visione-Libro cfr. Ernst Robert Curtius, Dante, in Idem, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di Roberto Antonelli, trad. it. di Anna Luzzato e Mercurio Candela, trad. delle citazioni e indici a cura di Corrado Bologna, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 361-367. 18 Cfr. Carlo Delcorno, Dante e l’ ‘exemplum’ medievale, in Letture classensi, vol. 12º, Ravenna, Longo, 1983, pp. 113-138.
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Purgatorio). Il viaggio così si arresta improvvisamente e il raptus estatico consente quella proiezione della perfetta coerenza dell’essere che per il momento (tempo purgatoriale) è solo intravisto dal pellegrino-poeta e nel quale vi entra, tuttavia, “violentato” per mezzo dell’esatto contrario di ciò che fissa nell’estasi: la mitezza. Questo sconvolgimento fisico-cerebrale è l’anticamera della riflessione ulteriore di Dante sulla salvezza e sulle modalità operate per la salvezza. E Maria incarna l’umiltà e la rinuncia al bene terreno: la mitezza del suo parlare non si riveste di autorità, ma si abbandona all’«atto / dolce di madre» (Purg. XV, vv. 88-89). Il poeta-viandante non può, dunque, assumere ancora la verità nell’intima natura dell’essere; e, tuttavia, la esprime in un fuggevole “simbolo”, quello estatico, che si presenta come rapido movimento all’interno dello stesso processo itinerale. Costruendo un’esperienza-immagine disorientante, alla quale accennavamo, che comunque si tramuta in esempio decisivo: preconio delle realtà più grandi. Se, infatti, il sogno prelude all’avvento di un fatto che si realizzerà quasi sempre di lì a poco dall’esperienza, appunto, onirica, “vissuta” nel tempo impreciso della colpa da purificare (aquila-Lucia, la donna balba, Lia e Rachele), il ratto mistico si compie, invece, quale spiegazione diremmo delle valorialità intrinseche all’atto profetico. E la “logica estatica” è da intendersi allora come il rispecchiamento-rovesciamento della ratio terrena. Se il sogno è esso stesso parte delle strutturazioni tecniche della narratio, le visioni estatiche procedono come decifratori di quel passaggio altrimenti oscuro tra luce e tenebra, umano e divino, di cui si è detto. Movimento, quest’ultimo, che testimonia come la parola che dice del sacro proferita nel Purgatorio non ha ancora la capacità di tradurre ciò che avviene; anzi, l’uso della visione estatica blocca l’azione “discorsiva” detta dal poeta-pellegrino. E questi, essendo stordito dalle impressioni ricevute, viene subito tratto nella “contingenza” da Virgilio, che lo induce nella metanoia dei tempora.19
Per una lettura che tenga conto dell’ampio studio sulle “categorie” di pensiero e sulle tecniche poetiche relative all’applicazione dei processi onirici rinviamo a Peter Armour, Viaggio, sogno, visione nella «Commedia» e nelle altre opere di Dante, in «Per correr miglior acque… Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio», Atti del Convegno internazionale di Verona-Ravenna 25-29 ottobre 1999, Roma, Salerno Editrice, 2001, t. I, pp. 146-165. Di rilevante interesse per l’accurato esame esposto su molti nodi della Commedia 19
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Questo ulteriore passaggio è conferma che l’utilizzo dell’estasi, della procedura del raptus estatico, indica quel capovolgimento delle “regole” proprie di un tempo “lineare” per dimostrare due particolari risvolti: il primo si riferisce alla condizione umana del viaggiatore, che è imbrigliato dal “proprio tempo” nel tempo purgatoriale. Assistiamo, così, ad una realizzazione scenica ultramondana entro la quale un uomo si inerpica ed è costretto dalla sua natura a subire il gioco del divino nascondimento dei segni, che, agenti nei simboli figurali, capovolgono paradossalmente lo stesso assetto ultramondano. Sottolineando, in fine, come Dante acquisti nozione di quella realtà nella “complicanza” (tutta cerebrale) di un’azione (cammino nel cammino) che viene generata da un evento nell’evento. Il viaggio di per sé non umano contempla moduli e formule che dimostrerebbero come esso, rispetto a “mezzi” quali l’estasi, sia quasi (e sembrerebbe questo il centro del paradosso fin qui esposto), un vero e proprio itinerario terreno. Infatti, se riflettiamo sul carattere specifico del secondo regno, che è tutto racchiuso nella purificazione, esso promuove la comprensione mediante eventi quali il sogno o l’estasi, che, pur oltrepassando la sfera del corporeo, si allineano nelle movenze fisiche, oltre le quali il gioco luce-tenebra non potrebbe essere riproposto, se non attraverso categorie speculativo-mistiche che attengono ad altro regno (il Paradiso). Tutta la razionalità è qui purgata nella misura di una conversione verso la luce, ma non in una cancellazione dei “principi logici” effettuati a partire dal sogno o dal rapimento estatico, che, pur indicanti i processi metafisici, si realizzano a partire dalla carne. E Dante, senz’altro più leggero rispetto all’Inferno, perché più vicino alla Luce, non può ancora guardare con occhio “sicuro” e libero dal velamento della mano i raggi dell’angelo, pur confortato da Virgilio: «Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia / la famiglia del cielo» (Purg. XV, vv. 28-29). Il secondo risvolto al quale ci riferivamo si chiarifica a partire dal primo e concerne l’atto della parola-estasi: proprio l’azione temporale spinge il poeta-pellegrino a non perdere di vista la stessa nozione della scansione diacronica dei passi. E la preclusione della parola, che cede il proscenio alle
cfr. Teodolinda Barolini, La “Commedia” senza Dio e la creazione di una realtà virtuale, cit. Sull’estasi e le sue “pratiche” cfr. Ioan Petru Couliano, Esperienze dell’estasi dall’Ellenismo al Medioevo, prefazione di Mircea Eliade, trad. it. di Maria Garin, Roma-Bari, Laterza, 1986.
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parole dette negli exempla, viene registrata in un uno spazio e in un tempo mai arrestatisi, come riassumenti dell’ascensione drammatica dello stato del poeta. Tutto ciò a dimostrazione che il motivo (causa) nella produzione dell’estasi è sì una grazia che la informa, alla quale però ha partecipato, per decifrarla, la razionalità che risiede in quella stessa fulminea “impressione” della mente del cantore. Qui gli stessi exempla non sono unicamente realtà di avvenimenti “straordinari-metafisici”, ma quasi una “cronistoria” succinta di eventi-storie, di fatti: storia. Eppure essi si mostrano attraverso un processo che indicherebbe l’esatto contrario. L’azione estatica è, dunque, introdotta proprio in questo specifico spazio purgatoriale come testimone lirico che avverte dell’ultramondanità del viaggio dantesco e, assieme, costituisce una ripresa-chiarimento del concetto espresso già nel II canto dell’Inferno, ossia quello relato alla natura della peregrinatio: «Io non Enëa, io non Paulo sono» (v. 32). È proprio Virgilio-Ragione che spinge Dante ad intraprendere la strada dell’umiltà: «dalla superbia del peccato all’umiltà del pentimento, che è lo stesso iter di Enea dal ‘superbo Ilïón’ (Inf. I, v. 75) all’ ‘umile Italia’ (Inf. I, 106)».20 Questa particolare pratica chiarisce, o meglio costituisce un vero e proprio memoriale del significato della Commedia: il poeta si trova a metà del processo lirico di elevazione nella deità. Il suo dichiarare di non essere né Enea né Paolo costituisce la sintesi della pericope poematica dell’intero viaggio ed il senso della sua visio.21 E quest’ultima si realizza attraverso un graduale processo che, appunto, include ragione e mistero in un unico, benché al suo interno distinto, afflato poetico-profetico. Se Dante è avvolto, da un lato, dalla logica terrena (espressa ed evidenziata dalle piaghe inferte dall’angelo e rimarginate solo attraverso la contrizione) che non gli fa capire il vero senso del bene («di vera luce
20 Roberto Mercuri, La «Commedia» di Dante: dall’ «alta tragedìa» al «poema sacro», in Letture classensi, cit., p. 119. 21 Sulla visio dantesca e sulle riprese di Enea e Paolo cfr. Giorgio Petrochi, San Paolo in Dante, in Dante e la Bibbia, Atti del Convegno internazionale promosso da «Biblia», Firenze 26-27-28 settembre 1986, a cura di Giovanni Barblan, Firenze, Olschki, 1988, pp. 235-248; Peter Dronke, La “Commedia” e le modalità di lettura medievali, in Idem, Dante e le tradizioni latine medievali, cit.; cfr. Giorgio Padoan (a cura di) Enea, in Dante-Enciclopedia Dantesca, cit., vol. II, pp. 677-679 e Enrico Malato, Il testimone di un’epoca, in Idem, Dante, Roma, Salerno Editrice, 1999, pp. 374-386.
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tenebre dispicchi», Purg. XV, v. 66), dall’altro, è rapito in estasi. E una volta “rinsavito” si interroga sui suoi «non falsi errori» (Purg. XV, v. 117). E se le visioni estatiche, dunque, prodotte all’interno dell’anima e registrati dall’animo (dunque interne, infatti il poeta canta: «Quando l’anima mia tornò di fori», Purg. XV, 115), sono realtà soggettive, pertanto non false, pur essendo qualificate come errori, poiché fuori dall’anima non si mostrano, proprio il capovolgimento della logica purgante attua il vero, dal momento che esso risiede nella sfera legata sì alla terra ma anche al cielo. Gli esempi di mansuetudine dicono la concretezza del senso di quel raptus: se la folgorazione ha indicato nelle raffigurazione i segni del vero, l’essenza di esso avvalora la concretezza dell’estasi e i suoi esempi. E Maria diventa così principio figurale della storia per antonomasia, proprio a partire dalla realtà purgante. I fumi densi verso cui il poeta-pellegrino si accinge indicherebbero la ricaduta nelle nebbie del torpore spirituale, ed esse non precedono l’estasi. Anzi, i “miasmi” significativamente si presentano dopo la visione, a voler, quasi, cancellare le realtà spirituali e i loro tangibili segni mostrati attraverso il raptus. Tutto ciò indica a nostro dire il ri-capovolgimento delle logiche umane, e la complicazione sembrerebbe farsi strada. La via verso la purificazione, della quale l’estasi è stata ammonimento e anticipazione, tuttavia, sta per compiersi. Il poeta-viaggiatore ha saggiato ciò che gusterà pienamente in un altro momento. L’estasi, soprattutto messa in relazione al richiamo dell’esempio mariano, si qualifica come l’inizio del nuovo cammino lirico, ancora irto di incitazioni volti a migliorare (ri-creare) il cantore-viandante. Da ora in poi Maria realizza il suo fare entro una logica di diretto impatto con l’accadente, e il poeta prende ad invocarla in un ritmo continuo, se pur discreto, nella realistica attivazione della sua persona-figura. Ed è proprio l’“inchoatio mariana” a spiegare più ancora degli altri esempi apportati il sistema realistico che Dante espone col verso: Nel mondo dei ‘non falsi errori’ ciò che sembra meno realistico [visione-sogno/sogno nella e con la visione] non è necessariamento meno vero […]. E la Vergine immaginata nell’atto di parlare, l’incenso immaginato i cui fumi avvolgono il salmista danzante [canto X del Purgatorio] […] sono ugualmente ‘reali’. Queste immagini sono reali, come nella straordinaria similitudine del canto xxx 72
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dell’Inferno il o del sognatore che desidera sognare (vv.136-138). Qui il sogno è realtà: il sognatore non ha più bisogno di sognare. Per tutto il tempo in cui agogna la realtà, ‘quel ch’è’, egli ne è in possesso, se solo potesse riconoscere la realtà del suo sogno, la verità – la non falsità – del suo errore. Come il sognatore, noi dobbiamo imparare che ci sono altri tipi di visione, altri tipi di realtà, su questi altri modi di vedere. Prima di accedere alla visione suprema, il testo ha instillato il rispetto per la mente che vede la verità nei ‘sogni’: dormendo, con la faccia ‘arrugata’. Che lo si chiami un dormire che conduce alla visione o un morire che conduce alla vita, questa è la condizione nella quale, liberata dalla carne e dalla rumorosa distrazione del pensiero cosciente, le nostre anime sono rese divinatorie, profetiche, ‘divine’ […]. Il pellegrinaggio della mente peregrina di Dante è un pellegrinaggio sulle orme di san Paolo, di san Giovanni: il pellegrinaggio di un visionario profetico volto a raccontare in versi limpidi i non falsi errori del suo divino immaginare.22
Il tema estatico, e quello specificatamente “mariano”, frutto della rielaborazione della fede del poeta-pellegrino, riorganizzante il sistema realtàvisione nella procedura lirica, che deterge la visio nella fictio, pur non attuandosi nelle modalità fino ad ora registrate, si perpetua lungo tutto il viaggio a designare una traccia decisiva della trama del poema. E Dante inizia a comprendere per quale motivo Maria lo abbia salvato dalla smarrita via. E nel canto XXXII del Paradiso il poeta canterà la rivelazione verginale della Madonna, la quale, essendo «faccia che a Cristo / più si somiglia» (vv. 85-86), è madre della umanità tutta, per cui si offre per la salvezza: questo non solo è atto d’amore in sé, ma è, assieme, compito d’amore reso per la progenie umana di e in tutti i tempi. Il cantore-pellegrino si ricollega all’interpretazioni dell’itinerario salvifico della tradizione medievale, che spiega la Sacra Scrittura anche sotto un aspetto iconografico. Nell’Antico Testamento esiste, infatti, una prefigurazione dell’evento della salvezza e l’arte medioevale se ne serve per
22 Teodolinda Barolini, I non falsi errori e i sogni veritieri dell’evangelista, in “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, cit., pp. 230-231.
eadem
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istruire e far conoscere, attraverso le eulogie figurative, di cui parla l’Auerbach, all’interno del simbolismo proprio di quell’epoca, la Scrittura e il suo senso. Tra i maggiori esponenti ricorre il nome di Adamo di San Vittore: «Il XII secolo segna l’apogeo del figuralismo ed in particolare delle serie figurative. Le laudi alla Vergine, ad esempio, in molte delle sequenze di Adamo e dei suoi imitatori, consistono proprio in tali serie. La Madonna viene rappresentata successivamente come Sara che ride all’annunzio della nascita di Isacco […] Maria è il giardino recinto, la fonte sigillata, la fontana dei giardini, la sorgente d’acqua viva del Cantico dei Cantici».23 La “catechesi peregrinante” del poeta si connota prima ancora che della percezione di un sentire l’approdo sicuro nel mistero di Dio, in Lei che lo rassicura maternamente: è Maria a suggellare la ierofania del Cristo nel tempo e nella storia. La Vergine può accogliere la colpa del poetapellegrino come mezzo di redenzione: e ciò si compie perché Lei è mite di cuore, come il Figlio. In Dante il riflesso della sua grazia, che è riflesso derivante da Dio, dilaga vertiginosamente e viene realizzato mediante il fondamento teologico, e, dunque, specificatamente mariologico, offerto, in forma incisiva, attraverso la costruzione della ripresa lirico-estatica, come decisivo supporto del canto: «La teologia comincia ad usare la poesia come strumento ermeneutico nell’XI secolo e stabilisce il principio che soltanto attraverso la coscienza di sé l’uomo diviene cosciente di Dio. La mariologia esprime pienamente questo mutamento, perché il problema della mariologia di questo tempo è conoscere la condizione di Maria prima dell’Incarnazione, la condizione della donna in grado di dire sì a Dio. Conoscere il modo della sua esistenza e conoscere il modo umano d’esistere che Dio ha scelto come supremo. Questa conoscenza avviene nella ricerca – esemplare in Bernardo- di ciò che vi può essere di Maria in noi: così Bernardo, contemplando Maria, scopre l’umiltà di lei e il fiat come possibilità di ciascun cristiano. Scopre in ciascun cristiano la replica dell’esperienza che nella Bibbia si narra di Maria».24
Erich Auerbach, Il simbolismo mitologico nella letteratura medioevale, in Idem, S. Francesco, Dante Vico e altri saggi di filologia romanza, Bari, De Donato, 1970, pp. 151-152. 24 Francesco Santi, Introduzione a Figure poetiche e figure teologiche nella mariologia dei secoli XI e XII, Atti del II Convegno Mariologico della Fondazione Ezio Franceschini con la collaborazione della Biblioteca Palatina di Parma, cit., p. XII. 23
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Occorre riprendere e meglio ridiscutere, giunti a tale momento esegetico, l’enucleazione del verso estatico del pellegrino. E, pertanto, riorganizzare ermeneuticamente l’immagine-suono da tale passaggio scaturito nella visio-fictio che la poesia restituisce quale traduzione dell’ineffabile-indecidibile a cui ci siamo già rivolti. Il XVII canto del Purgatorio viene segnalato dalla critica quale punto nodale della peregrinatio. L’appello al lettore in apertura, funzionale, dunque, a dischiudere lo squarcio dell’animo dell’Auctor-Agens, ossia della memoria intima, dell’esistere, affinché Dante ricavi l’adattabilità delle impressioni trasmesse dal canto, insegue la rappresentazione della formazione della luce. Quest’ultima, contrapposta alla nebbia e alla cecità della talpa, segnala incontrovertibilmente la ricerca della verità mediante i sensi. Verità offuscata tanto dalle percezioni connaturate nell’uomo quanto dal peccato commesso deliberatamente da quest’ultimo. In questo specifico caso ci troviamo di fronte coloro i quali sono stati accecati in vita dall’ira. Il processo penitenziale si avvale proprio della fenomenologia lirica dei segni per tradurre l’incapacità e ad un tempo la capacità dell’uomo di oltrepassare l’ignoranza del visibile e garantirsi mediante atto libero d’amore la visione reale: Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera del sol debilemente entra per essi; e fia la tua imagine leggera in giugnere a veder com’io rividi lo sole in pria, che già nel corcar era (Purg, XVII, 1-9).
Qui il risvolto enunciativo che il poeta muove dichiaratamente al lettore introduce l’operabilità versificativa nella “trazione motoria” della narratio. Ed essa agisce deliberatamente a trattare argomentazioni di assai complessa significazione: amore e libero arbitrio. Ai quali si connette, in modo altamente singolare, il tema della fantasia-immagine. Ecco che il poeta spiega la proiezione della fantasia quale scaturigi75
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ne dell’immaginatio espressa eminentemente attraverso il sistema della già citata luce. La quale generata nell’ente, mediante il “processo-infusione” della luce divina, che diventa “diffusiva” nell’uomo, apre al nesso humilitashumanitas-divinitas. E se ciò è impossibile sulla terra, proprio il regno purgatoriale produce tale fondativo passaggio lirico-memoriale: Dante vuole non solo rappresentare, ma anche far esprimere la sua condizione nella cornice degli iracondi, dove il denso fumo che impedisce la vista ormai si sta diradando, evocando le sensazioni del viandante per le alpi o i monti in genere, quando si dissolve la nebbia e di nuovo è visibile il paesaggio intorno, in questo caso il crepuscolo, poiché il sole è ormai tramontato, i cui raggi sono ‘morti già nei bassi lidi’ […]. La suggestiva raffigurazione non è solo una similitudine, ma è funzionale ad evocare sensazioni attraverso una percezione precisamente descritta e suggerisce il richiamo a una lontana memoria, un’immagine conservata nell’anima in forma di ricordo. Viene qui chiamata in causa una facoltà umana, la memoria, la prima di una serie […] che costituisce un’importante riflessione sulle attività dell’animo. […].L’essere umano può rappresentarsi altre realtà attraverso la ricostruzione del suo personale ricordo immagazzinato attraverso l’esperienza. Secondo la psicologia medievale, fondata su Aristotele, le immagini percepite dal senso della vista vengono immagazzinate nella memoria, che le offre poi in uso all’immaginazione e al pensiero, che vi attingono o per creare nuove figure o per conoscere. La visione si rivela essere il vero argomento della prima parte del canto […] infatti con un improvviso stacco il poeta passa a un argomento apparentemente molto lontano, relativo alla facoltà della fantasia, che apre a inattese riflessione anche di poetica. 25
La struttura morale del Purgatorio si rifà alla Summa Theologiae di san Tommaso, fondata sulla concezione dell’amore-caritas: ogni creatura prova amore naturale o d’animo. E, a seconda dell’indicazione che rivolge al
25 Erminia Ardissino, ‘L’alta fantasia’. Poesia e visione, in Dante, Ravenna, Longo Editore, 2016, pp. 110-111.
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eadem,
Umana “Commedia” di
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primo o al secondo indirizzo, espone la propria volontà di aderire in moto ascendente o discendente verso o dal Sommo Bene. Il “peccato” da purgare è inferiore a quello punito irreversibilmente nel regno infernale, e dopo aver indicato mediante Virgilio i procedimenti per i quali chi per superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria deve lavarsi per elevarsi alla “Piena Grazia”, l’Auctor-Agens si sofferma proprio sulla conditio d’amore e sul libero arbitrio. E più ancora sul rapporto-relazione tra queste due delicatissime questioni-forme, sfocianti nell’illustrazione lirica di una più ampia riflessione del poeta stesso sulla concezione, dunque, dell’amore e sui suoi “risvolti teoretico-letterari” nell’ascesa purgante. Il discorso approntato da Dante proprio sull’amore e il libero arbitrio legge inevitabilmente anche la pericope, che è in sé esame valutativo, sull’anima e sulla condizione dell’uomo dopo la morte. Discorso, questo, fondativo del cammino poetico: elemento lirico-narratologico importante “nella” Commedia, segnando, così, il tema centrale del poeta, Auctor-Agens, del Dante uomo e del Dante personaggio, che visita in figura e quale persona, da vivo, l’aldilà, porgendocelo in poesia. Occorre ora soffermarci sul particolare aspetto, sulla strutturazione lirica, quale Dante l’ha intesa ed esplicata, di figura-persona/persona-figura. Il concetto fondamentale e la sua trasposizione in modalità lirica e il passaggio, quindi, secondo la nostra analisi nella figura-persona segna un decisivo momento interpretativo: si attua il più difficile inveramento dell’essere nella “poematica realista” della poesia dantesca. Se con “iperbole stravolgente”, ossia nella contradictio che attiene alla Commedia, Dante istituisce mediante figura l’intera peregrinatio, secondo la lettura dell’Auerbach e del Singleton, che riprendono dai Padri esegeti della Sacra Scrittura questo metodo interpretativo, proprio in tale procedura avviene il rovesciamento fattuale del senso figurale, che è, quindi, la sua vertigine capovolta, a squadernare non più il reale quanto a presentare addirittura il Vero: La coerenza del poema viene spesso giudicata come un riflesso della coerenza della sua fede, intesa come realtà culturale primaria; ma la formula si potrebbe benissimo rovesciare, suggerendo che l’evidente coerenza della fede di Dante è, almeno in parte, una proiezione della coerenza del suo poema. Non si prenda tale rovesciamento come un cinico espediente decostruttivo: ci sono 77
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buone ragioni storiche che ci suggeriscono di mantenere una certa reversibilità di termini. In una cultura che definisce il suo principio basilare ‘il Verbo’, non può non esserci una certa omologia tra ordine delle cose e ordine delle parole. Si tratta di un modo diverso di enunciare quello che Kenneth Burke ha definito principio ‘logologico’: se la teologia consiste in parole che trattano di Dio, in cui si utilizzano analogie linguistiche per descrivere una divinità trascendente, allora la ‘logologia’ consiste nella riconversione di principi teologici entro il dominio delle parole. Ciò che garantisce la possibilità del rovesciamento è proprio il dogma centrale della Cristianità, la dottrina del Verbo, secondo cui linguaggio e realtà hanno una struttura analoga. Bisogna stare attenti a non privilegiare nessuno dei due poli: tra tematica (cioè, teologia) e poetica può esservi un collegamento che non ripugna né alle esigenze di comprensione storica, né a quelle dello scetticismo contemporaneo, giacché è in entrambi i casi si discute di una coerenza in primo luogo linguistica. Così il problema tradizionale di poesia e fede si sposterebbe su un piano filosofico: l’ordine del linguaggio riflette l’ordine della realtà, o la “realtà trascendente” è una semplice proiezione del linguaggio? Quello che abbiamo sempre considerato un problema della critica dantesca, si rivela come il problema epistemologico fondamentale di qualsiasi interpretazione. […]. [E proprio sul rapporto tra tema e forma, inserito nella creazione dantesca della terzina e della sua procedura endecasillabica, con moto teologante a dire il modulo trinitario del poema] Quando Singleton suggerisce paradossalmente che la storia va letta a partire dalla fine, e non solo dall’inizio, egli consiglia l’analogia […] tra la progressione del verso e quella del tema […] la forma metrica e il tema procedono attraverso una progressione che è insieme una ricapitolazione. Si può aggiungere a questo punto che tale movimento vale anche a rappresentare spazialmente la logica narrativa, in particolare quella autobiografica. Il carattere paradossale di questo particolare tipo narrativo consiste nel fatto che inizio e fine debbano coincidere, poiché l’autore e la sua persona coincidano.26
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John Freccero, Il significato della ‘terza rima’, in Idem, Dante. La poetica della conver-
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Pertanto, proprio Maria, unica persona che apre al Logos, è esposta dal moto ascensionale lirico, oltre e dentro la figura lirico-narrativa. Sembra, tuttavia, un discorso al limite di una verificabilità che pretenderebbe di esercitare sull’asserto teologico in veste letteraria e, dall’altra parte, su quello poetico in chiave teologante l’immissione di un principio di coerenza teoretica, che andrebbe, poi, ad assumere nella plasticità formale del canto un suo equilibrio. Su questo precipuo aspetto, che è poi il riferimento principe intrinseco ed estrinseco su cui poggia da secoli l’analisi della Commedia, l’interpretazione figurale sembra aver posto le basi non solo sul piano di una nuova esegesi, e non evidentemente in termini riduttivi, quanto la riproposta attualizzante di una sollecitante gestazione inerente metafora-allegoria-anagogia, che si rivolge allo studio della figura in alta filatura poematica inglobante tanto la cultura profonda del Medio Evo quanto la traditio inerente l’aspetto semantico del termine: il suddetto imprescindibile passaggio, che è infine il centro del poema, quello cioè inerente Eros-Caritas. Il quale è assieme la chiave di volta di un altrettanto importante superamento liricoteorico ad opera del Fiorentino: la pretesa di scomodare l’operabilità dei tracciati biografici, che si riferiscono alla costituzione del modulo “persona”, e che l’abilità del poeta innesta nel discorso visio-fictio. E che il portato valutativo del doppio io, dunque della persona vivens, che è persona narrante getta come un ponte appositamente strutturato agli altri viventi che ne accolgono il messaggio. La struttura-forma-modo di “figura” proprio in Maria unisce “letteralmente” impossibilia e mito, che ne avvalorerebbe il postulato verisimile, nel più ampio contenitore ricettivo, quello, appunto, letterario. Atto a dimostrare per via non argomentativa, quando esso non si deposita esclusivamente negli exempla, ma ne garantisce soprattutto per essi la nervatura della veridicità storica. Soffermiamoci su ciò che si intende per figura e su come l’Auerbach la espone: La Commedia […] è fondata in tutto e per tutto sulla concezione figurale. Nel mio studio su Dante, poeta del mondo terreno (1929) ho
sione, cit., pp. 337-341.
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cercato di mostrare che nella Commedia Dante ha voluto “presentare tutto il mondo terreno-storico… già sottoposto al giudizio finale di Dio e quindi già collocato nel luogo che gli compete nell’ordine divino, già giudicato, e non in modo tale che nelle singole figure, nella loro sorte escatologica finale, il carattere terreno fosse soppresso o anche soltanto indebolito, ma in modo da mantenere il grado più intenso del loro essere individuale terreno-storico, e da identificarlo con la sorte eterna”. […]. Per questa concezione, che si trova già in Hegel e sulla quale si fondava la mia interpretazione della Commedia, mi mancava a quel tempo la precisa base storica; nei capitoli introduttivi del libro essa era più intuita che riconosciuta. Ora io credo di aver trovato questa base: è l’interpretazione figurale della realtà, che domina le concezioni del medioevo europeo, sia pure in lotta continua con le tendenze meramente spiritualistiche o neoplatoniche; secondo essa la vita terrena è bensì assolutamente reale, della realtà di ogni carne in cui è penetrato il Logos, ma con tutta la sua realtà è soltanto “umbra” e “figura” di ciò che è autentico, futuro, definitivo e vero, di ciò che, svelando e conservando la figura, conterrà la realtà vera. In questo modo ogni accadimento terreno non è visto come una realtà definitiva, autosufficiente, e neppure come anello di una catena evolutiva in cui da un fatto o dalla concorrenza di più fatti scaturiscono fatti sempre nuovi, ma viene considerato innanzi tutto nell’immediato nesso verticale con un ordinamento divino di cui esso fa parte e che in un tempo futuro sarà anch’esso un accadimento reale; e così il fatto terreno è profezia o “figura” di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente nell’occhio di Dio e nell’aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo, o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata. L’opera di Dante è il tentativo di una sintesi insieme poetica e sistematica, vista a questa luce, di tutta la realtà universale. All’uomo abbandonato alla confusione terrena e minacciato di rovina – questa è la cornice della visione – viene in aiuto la grazia delle forze celesti. Fin dalla prima giovinezza egli godeva di una grazia particolare perché era destinato a un compito particolare; di buon’ora aveva potuto vedere la rivelazione incarnata in un essere vivente, in Beatrice – e qui, come spesso, la struttura figurale e il neoplatonismo si compenetrano a vi80
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cenda – che gli aveva accordato una particolare distinzione, sia pure velatamente, da viva col saluto degli occhi e della bocca, e morendo in una maniera inespressa e misteriosa. La morta, ora beata, che era stata per lui la rivelazione incarnata, trova ora per l’uomo smarrito l’unica via di salvezza che ci sia; essa è la guida che, prima indirettamente e in Paradiso direttamente, gli mostra l’ordine rivelato, la verità delle figure terrene. Quel che egli vede e impara nei tre regni è realtà vera, concreta, tale appunto che vi è contenuta e interpretata la “figura” terrena; vedendo, ancora vivo, la verità adempiuta, egli è personalmente salvato e nello stesso tempo diventa capace di annunciare al mondo la sua visione e di indicargli la retta via.27
E seguendo questa traccia esegetica, il percorso sulla qualità lirica (vale qui per sostanza-forma) del simbolo-strumento redatto mediante l’interpretazione espressa con il sintagma (ampio e nel contempo specifico) di persona-figura, il rapporto Cristo-Maria-Dante è detto, quindi, nella rappresentazione evangelica chiara: persona è, di conseguenza, per CristoMaria la vera espressione-forma lirica, la sua vera figura, che occorre adoperare. E che Dante di fatto opera liricamente. L’adempimento poetico nel mentre si verifica quale umbra futurorum, non già come promessa sciolta in terra, quanto verità-persona “carnea e divina” nelle relative relazioni dette nel canto. Cosicché, la profezia in Cristo per Maria è adempiuta ed è tutta coesa non nel “di là da venire-giungere” ma già nel “di qua compiuto”. Ed, assieme, iterativamente mossa entro la procedura eternante che dalla storia umana conduce alla coesistenza dell’ente-uomo con Dio. E Dante con la coniazione poetica della figura attua gli impossibilia Dei proprio attraverso la donna amata. La quale indica, traslata nel suo sensofigura numinoso, la Madre e, quindi, il Figlio. Una rilettura, questa, che vedrebbe ad ogni costo la funzionalità di un sistema operato nel paradigma più ampio, e, dunque, già eminentemente approntato, come quello inerentela “figura”, ad opera dell’Auerbach, non deve essere inteso quale tautologico impianto, che, tentando di inglobarne gli assi su cui poggia una ulteriore riflessione (superamento allegorico
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Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., pp. 223-224.
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e realizzazione ad un tempo dell’allegoria nel portato proiettivo di figura), lo ripresenti nella insufficiente esplorazione di improbabili proiezioni esegetiche. Finalizzate, pertanto, a revisioni forzate: scarto di collegamenti perseguiti su impervi sentieri formatisi entro ermeneutici ammassi di “pure suggestioni”. Le quali provocano, in quanto detriti di detriti, non una compattezza di forma-contenuto, ma una inevitabile e continua “frana epistemica” (dissolvenza). Ciò che ci preme evidenziare è tutto racchiuso nella lettura di persona-figura, che, esponendo i sentieri di una visione complessa della lirica peregrinante e della poetica dantesca in genere, mostri lo svolgimento-ampliamento, tramite il concetto-pensiero, di figura-persona, di un modo di intendere col canto la verità tanto della storia dell’AuctorAgens quanto di quella evangelica. Approdando entro una tautologia, come afferma Freccero (che riprende la lezione del Burke), che è, tuttavia, in sé “tautologia divina”: un inizio e una fine aperti e collegati tra loro. Poiché evidenziano, da un lato, la realtà terrena (nascita e morte: vita-non vita), e, dall’altra, la realtà metafisica (vita reale oltre il carneo). Tutto ciò funzionale, a sua volta, a spiegarci la formazione dell’iperbole immensa nel verso, che è l’intera Commedia. E, appunto, in quanto tautologia divina, il poema è un canto che, seguendo la linea del Singleton, occorre lo si legga nel momento cui esso si conclude, affinché lo si possa più ancora intendere, dalla fine, che è il suo fine. Ossia dalla nascita, aggiungiamo noi, dall’“utero di Maria”, che ha partorito anche Dante, da sotto il patibolo, all’indomani del ritrovamento del Sepolcro vuoto. Canto che non ricade, quindi, in una riflessione puramente “finalistica”. Narrazione evangelica e narrazione autobiografica strumentano il verso in “tautologia divina” intesa in alto grado (scandalo ed emendatio tramite l’amore nuovo) e non in scacco con l’analogia, che, reimpostata la prima poesia (stilnovistica) di Dante, entro la sua (successiva e, quindi, nuova) costruzione allegorico-anagogica in moto trasfigurato, approda alla realtà figurale, che dalla Selva sale all’Empireo mediante Caritas.28
28 «La concezione figurale, infatti, considera sì il passato come l’oggetto di una interpretazione, ma di una interpretazione garantita da un disegno provvidenziale. Se l’Antico Testamento, cioè, prefigura il Nuovo che a sua volta prefigura il futuro dell’uomo non ancora compiuto, ciò è possibile solo perché ogni evento storico è, al tempo stesso, compimento e
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Ed è questo balzo-scarto, che, esprimendo la differenza con le altre figure, sottolineandone il portato realistico più evidente delle loro incidenze nel cammino del poema, espone più ancora la straordinarietà del Figlio e della Madre nella relazione visio-fictio:
prefigurazione di qualcosa che è da sempre nella mente divina e che in essa si è da sempre realizzato. Il disegno provvidenziale, insomma, funge sia da chiave dell’interpretazione figurale sia da significato della figura: ne è cioè l’adempimento, e l’evento singolo diventa concepibile solo come l’elemento di passaggio, caduco e provvisorio, di un destino già scritto. Nella concezione moderna, invece, gli eventi storici sono provvisori in un senso ben diverso: nel senso che essi si svolgono orizzontalmente, lungo la linea temporale, senza rinviare più, verticalmente, alla trascendenza, senza che sia più possibile interpretare l’evento sullo sfondo di una finalità e di un termine ultimo della storia stessa […]. Solo nell’ultima parte del saggio sono affrontati gli aspetti propriamente letterari del figuralismo. Nella Commedia agisce una concezione figurale in base alla quale le anime incontrate da Dante nel suo viaggio sono l’adempimento di ciò che la loro esistenza terrena aveva solo prefigurato: tanto la loro condizione presente quanto quella passata sono storiche e concrete, benché lo stato post mortem superi in importanza la prima. Questo figuralismo che potremmo definire di secondo grado (rispetto a quello di primo livello immanente alle sacre scritture), è la spiegazione del dualismo di cui aveva parlato Hegel nell’Estetica. Gli esempi tratti dalla Commedia sono quelli di Catone, Virgilio e Beatrice, interpretati come “tipi”, rispettivamente, il primo della libertà cristiana quale adempimento di una libertà dalla tirannide politica conseguita in terra nel modo più alto (cioè a prezzo della vita); il secondo della piena realizzazione storica dell’ideale del ‘poeta-profeta’, che come tale potrà fungere da guida al pellegrino nella discesa agli inferi; e infine Beatrice come figura della ‘rivelazione’, vale a dire come inveramento atemporale di un’incarnazione miracolosa già avvenuta in vita […]. ‘Per Dante il senso letterale o la realtà storica di un personaggio non contraddice il suo significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta’ […]: qui sta, in sintesi, il senso del figuralismo dantesco, che è l’elemento decisivo per la comprensione estetica di quella che Croce chiamava la “struttura” della Commedia. L’individuazione nella “struttura” del principio figurale, infatti, permette di giustificare da un punto di vista che è al tempo stesso estetico e ideologico la scelta di Catone come difensore della virtù cristiana e come custode del Purgatorio: l’elemento figurale si rivela così assai più forte di quello dogmatico, in base al quale Catone dovrebbe condividere il medesimo supplizio di Pier della Vigna. La riscoperta della concezione tipologica come forma simbolica sottostante la Commedia rendeva così inconsistente la distinzione crociana tra poesia e struttura e permetteva allo stesso tempo di superare in un modo molto diverso da quello proposto da Croce la rigida opposizione presente nella critica dantesca di fine Ottocento tra il positivismo erudito della scuola storica e l’interpretazione simbolica rossettiana (e poi pascoliana), coniugando in modo inedito rigore filologico e passione ermenuetica.[…]. La figura, divenuta indipendente dal suo compimento, concede sempre più spazio all’uomo, alle sue passioni, alla sua vita terrena e alla sua storicità e, così facendo, anticipa alcuni tratti essenziali di ciò che sarà il realismo moderno» (Riccardo Castellana, Sul metodo di Auerbach, in «Allegoria», 56, Anno XIX, luglio-dicembre 2007, pp. 71-73).
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condensando il pensiero di Benvenuto [da Imola] non potremo non rivelare due verità fondamentali: - unità d’ispirazione d’origine del poema sacro - necessità della mediazione. In questo modo daremo a ‘visio’ e ‘fictio’ il loro vero significato, condensando il pensiero di Benvenuto su Dante in formule di questo tipo: 1) Origine di tutto il poema sacro è la ‘immaginativa’ o ‘phantasia’ i cui risultati si possono distinguere in due classi: le ‘visiones’, cioè le realtà mediate, rivelate da Dio all’uomo che ha raggiunto il fondo della sua speculazione; le ‘fictiones’, cioè le realtà medianti, che servono al poeta per comunicare la sua irripetibile esperienza. 2) ‘Visiones’ e ‘fictiones’ si trovano nel processo immaginativospeculativo, a diversa profondità, ma la priorità spetta alle ‘visiones’, traduzioni che poi si accostano alle realtà acquisite ed incomunicabili mediante un processo detto ‘comparatio’. 3) I due termini della ‘comparatio’ hanno origine dalla stessa facoltà, con processi diversi: alla ‘fictio’, cioè all’attività poetica, spetta il lavoro quasi meccanico di compararli, per istituire la mediazione: […] il poema sacro si può risolvere […] [per Benvenuto secondo tale processo]: Hic namque poeta peritissimus, ommiun coelestium, terrestrium, et infernorum profunda speculabiter contemplatus, singula quaeque descripsit historice, allegorice, tropologice, anagogice. 29
29 Mariano Welber, «Visio» e «Fictio» nel «Commentum Super Dantis Comoediam» di Benvenuto da Imola, in L’esperienza mistica di Dante nelle indicazioni dell’esegesi trecentesca. Primi risultati di una ricerca di gruppo effettuata nell’Istituto di Studi Danteschi dell’Università Cattolica del S. Cuore, Firenze, L. S. Olschki, MCMLXIX, p. 65.
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A garantire tale modulo che per Benvenuto va condensandosi proprio nella comparatio è il sistema prodotto e gestito dall’azione dell’immaginativa. Termine-azione, questo, come sottolinea il Welber, riscontrabile con funzione similare tanto nella parte finale del poema (canto XXXIII del Paradiso, esposto e condensato quale “alta fantasia”), in cui si assommano sciogliendosi i voti poetici protratti durante il cammino, quanto, in modo assai singolare, proprio ad inizio del canto XVII del Purgatorio (v. 13). Viene costruendosi, in tal modo, il sistema di equilibrio tra il concreto “estremismo della realtà terragna” e la descrizione di quest’ultima mediante l’unica facoltà, la memoria, per la quale il canto si rende credibile al lettore, che sa, appunto, di leggere-ascoltare una narrazione precisa. E che perciò stesso pone la credibilità del verso alla portata del valore di realtà. E la Barolini segnala proprio all’altezza del canto XVII del Purgatorio l’immissione proiettiva del portato lirico-narratologico in cui si fa strada l’applicazione tecnica del ritrovato estatico. Ed esso è immesso mediante la forza propulsiva che dall’invocatio d’apertura va protraendosi con sempre maggiore vigore a ribaltare le “cortesie” diremmo di un “amore languido” alla cessazione del timore dell’amato di fronte all’amante. E che ricapitola con azione lirica tutta attiva, quindi, e non azione passiva subita dall’amato, il senso stesso dell’eros. Il quale si dichiara in sommo grado nella persona-fugura di Maria, dentro e oltre il sogno. Quindi, le realtà “mediate” e le realtà “medianti” si condensano nel rapimento versificatorio, che di per sé non può essere gestito da altro se non dalla fugace ma intensissima vibrazione combinativa tra io (soggetto attivo-passivo) ed essere (sostanza “dell’io agisco”: l’esistere complessivame e profondamente): Benchè le visioni del pellegrino nel Purgatorio siano lungi dal costituire un incontro con l’essenza di Dio, il resoconto di Dante sul funzionamento della sua facoltà immaginativa, divisa dalla percezione sensoriale e guidata dall’alto, offre una spiegazione di come possa essere concessa anche l’estrema visione. Perfino la violenza insita nell’uso del verbo rapire nel sogno dell’aquila e del verbo rubare del canto XVII (‘O immaginativa che ne rube’) è conforme all’asserzione di san Tommaso che l’estasi implichi violenza. Le visioni estatiche sono situate alla fine del canto XV e all’inizio del canto XVII del Purgatorio in modo tale da delimitare il cinquante85
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simo canto del poema; esse suggeriscono il tipo di ispirazione che ha creato la Commedia, come se Dante iscrivesse, nel centro del suo edificio narrativo, il tipo di esperienza che gli ha dato origine.30
Pertanto, la poesia della Commedia concede ulteriore verità proprio mediante l’interpretazione figurale al portato valutativo della propria genesi e del suo intero sviluppo poematico. Includendo la persona nella figura, che partorisce, a sua volta, la maschera necessitante alla drammatizzazione: si adempie in modo aperto, quale finale aperto, appunto, la realtà della bella menzogna (dramma). O meglio, la realtà che per verificarsi nella storia e tramite i sensi all’uomo viene proferita come alterazione paradossale del vissuto. Sembrerebbe, questo, un contorto edificio teoretico, volto a fornire una sensazionalistica risposta alla costruzione strabiliante qual è il poema. Entro una smisurata premura di dare ulteriore credito ad aggiunta riflessione, come già riferito; invero, l’attitudine propria della ricerca innesca lo scavo dei nessi più evidenti in quelli taciti e ne scaturisce una inesausta esposizione non vacua e sterile, ma esigitiva del moto intimo dell’esistere. Fuori da questa necessità rigorosa di ricerca, che è poi il bisogno per il quale essa viene partorita, il discorso varrebbe unicamente nelle traiettorie mistificheggianti e pseudo-esaminative, ricoverate da suggestioni (già citate) mal acquisite e soprattutto innalzate a rango di realtà-scientifività.31
30 Teodolinda Barolini, I non falsi errori e i sogni veritieri dell’evangelista, in eadem, La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, cit., p. 216. 31 «La nuova direzione della critica dantesca dello Auerbach procede su due piani perfettamente complementari ed in ultima analisi convergenti: egli cerca da una parte di seguire la destinazione del sermo humilis cristiano, che autorevolmente rinnega la separazione degli stili postulata dagli scrittori classici, nei dialoghi o nelle descrizioni della Commedia, dall’altra cerca di applicare il principio dell’intelligenza figurale, usata da Tertulliano e Agostino per i testi sacri, alla Commedia servendosene come chiave interpretativa. Nascono di qui quelle analisi di particolari stilistici in cui il critico è particolarmente dotato, quella sua capacità di scorgere nell’uso di una certa locuzione, nella scelta di un certo giro sintattico un mutamento di gusto o una nuova interpretazione della vita, e anche quella sua capacità di mettere a fuoco, partendo da un tratto strutturale, tutto il pathos di un personaggio della Commedia. […]. Ci troviamo senza dubbio di fronte ad un caso limite di espansione teorica del principio figurale. [….]. Le due vie seguite comunemente dal critico, quella retorica e stilistica […] o quella contenutistica e storica convergono [….] verso lo stesso ambizioso
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È proprio il processo erotico-filosofico che espone in dramma allegorizzante il dissidio e il consequenziale, e non certo indolore, recupero tra poesia stilnovistica, profonda esposizione speculativa e tensione teologica. Sfocianti in una importante chiave d’accesso per l’enucleazione della figura, che dice il vero e, quindi, nella Commedia, il bello: Dio: la sua figurapersona nel Figlio. Così come argomenta la Lazzerini proprio in merito agli studi danteschi di Auerbach, esplorando significativamente il necessitante momento elaborativo, lungo e complesso, della “figura” giungente a Dante. Studio attento alla reimmissione del dato storico-realistico, per il quale occorre sistemare con nuova propulsione investigativa lo sguardo di chi è accolto, accecato e risanato dalla Luce sempre più crescente nel cammino verso Dio. E che il portato metaforizzante dell’ineffabile dice tramite i tre personaggi interattivi proposti dalla narrazione evangelica, teologica e dalla tradizione della Chiesa nel canto: Cristo, Maria e l’Auctor-Agens. Nella complessa conversione ad phantasmata delle similitudines dissimiles, per cui Cristo e Maria vengono riproposti nella loro “trasfigurazione figurale”. Dunque, la figura è letta, a sua volta, nel campo metaforizzante del proprio portato escatologico, e la realizzazione di tale processo amplifica l’inventio da cui soprattutto le figure del Figlio e della Madre, non apparentemente ingenerando dialogizzazione con il lettore, rinviano alle loro persone storiche, poiché la poesia le invera come tali. E proprio il recupero di una costruzione attentissima del Sacro, e della relazione Dio-uomo, rompendo il circolo comunicativo del “genere letterario”, applica quel succitato dramma dell’esistere, che non può che riprendere dal vero il riflesso, anche ingannevole, del cogito. E, comunque, abilitare la narratio lirica
risultato: il recupero dell’esatta prospettiva della cultura dantesca verso il passato biblico. […].Chi ha una certa consuetudine con la critica dantesca americana di questi ultimi anni sa quanto peso abbia avuto la lezione dello Auerbach sui dantisti americani, e specie sul più geniale di essi: Ch. S. Singleton. Il Singleton applica, infatti, con molto rigore il metodo figurale alla lettura della Commedia e rifacendosi alla Lettera a Cangrande oppure al Convivio, scritto secondo l’allegoria dei poeti, la quale si serve della bella menzogna per nascondere la verità, il maggior poema di Dante, scritto secondo l’allegoria dei profeti, per la quale la lettera è vera e reale altrettanto quanto essa significa. Nella Commedia vi è un viaggio nell’aldilà, reale e scritto da Dio, proprio come i testi sacri (Dante ne è lo scriba), il quale si collega ad un altro fatto o evento: il nostro viaggio sulla terra; ed entrambi puntano verso Dio» (Dante Della Terza, Prefazione a E. Auerbach, Studi su Dante, cit., pp. XII- XVI).
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a porre, partendo dall’esempio divino, l’accesso metodologico e formativo del canto nel visibile parlare.32
«resta […] essenziale per la comprensione non di Dante, ma di tutta la letteratura medievale, il rapporto strettissimo tra poesia, filosofia/teologia ed esegesi scritturale, che Auerbach ha perfettamente intuito. Quando Dante, nel Convivio IV I II, illustra le sue poetiche allegoriche nell’intento “pedagogico” di evitare fruizioni maldestre e dichiara ‘Per mia donna intendo sempre quella che ne la precedente ragione è ragionata, cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno ne li fiori rinfronzire e fruttificare la verace de li uomini nobilitade’, persegue un disegno non meramente auto esegetico, ma proteso all’interpretazione ‘autentica’ di tutta la lirica più pregevole. Le sue metafore evocano […] anche quello che è stato definito l’‘asintoto del desiderio’ trobadorico […]. Le considerazioni di Auerbach sulla poesia stilnovistica individuano peculiarità che, pur al di fuori della cerchia dantesca, appartenevano già agli antichi maestri provenzali: in primo luogo la fonte primaria della poesia, Amore, è di carattere religioso; tra i caratteri fondamentali di tale ispirazione religiosa (non solo mistica, ‘ma soggettiva in sommo grado’ [scrive Auerbach]) lo studioso berlinese segnala ‘la potenza d’Amore quale mediatore della sapienza divina, il legame immediato della Donna col regno di Dio, la sua virtù di concedere all’amante fede, conoscenza e intimo rinnovamento, e infine l’esplicita limitazione di questi doni agli amanti, con la relativa polemica sdegnosa verso tutti gli altri, i rozzi e i volgari’. Concezioni, queste, che ritiene prossime a correnti mistiche, neoplatoniche e averroiste oscillanti tra ortodossia ed eterodossia e connotate da una polisemia che veniva da lontano, da quell’astratta midoz dei trovatori che nella sua costitutiva ambiguità poteva fungere da icona formale di referenti diversi. […]. Con le stesse melodie e le stesse rime si poteva intonare sia un canto d’amore profano, occasionale celebrazione cortese (o cortigiana) priva d’implicazioni trans letterali, sia la tensione mistica verso quel Cristo-Sapienza che già nel Boeci, arcaico volgarizzamento limosino, aveva preso il posto della Philosophia boeziana, sia la criptica esaltazione di una gnosi eterodossa (in luogo della sapientia agostiniana, l’entendensa de be del credo cataro) che poteva essere rappresentata anche dall’enigmatica creatura femminile: del resto, le formule tradizionali rimasero pressoché identiche quando, nella sospettosa temperie postalbigese, il trobar si riconvertì forzatamente in lode della Madonna. Non solo […] l’intrinseca ambiguità fu surrettiziamente recuperata, e al di là dell’imposta accezione unidimensionale, l’originaria plurivocità riemerse negli ambienti ereticali, dove sappiamo (lo documentano i verbali degli inquisitori) che circolavano canti mariani in cui la Vergine copriva in realtà il riferimento alla chiesa catara. È una trasmutazione occulta che assume un valore emblematico testimonianza-limite della vicenda d’un canto d’amore che nella sua sostanziale invarianza, solo cambiando la cifra del ‘codice’ poté farsi veicolo delle più svariate esperienze del Medioevo. La permutabilità dei significati della ‘bella donna’ […] era già stata ampiamente esperita dagli autori ecclesiastici; che, autorizzati e sollecitati dal Cantico dei Cantici, fanno della metafora erotica un tópos quasi onnipresente, riplasmando di volta in volta l’identità femminile – pur sempre legata alla sfera della più alta conoscenza spirituale – a seconda del contesto. Se san Girolamo cita Salomone per esortare al connubio con la sapienza […]. La donna desiderata è la consideratio, ossia la ricerca spirituale finalizzata alla contemplazione, nel trattato composto da san Bernardo negli ultimi anni di vita e dedicato a papa Eugenio III […]. Sulla 32
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Ed è proprio l’indagine condotta dall’intellectus spiritualis, e che la poesia gestisce attraverso l’operabilità nella stretta relazione tra integumentum e vagheggiata copula spiritualis, descritta come un amplesso difficoltoso dove lo spirito resta ben nascosto tra le pieghe della metafora, il doctor mellifluus indugia con un realismo che può apparire sconcertante a chi non conosca in profondità la cultura medievale […]. La fisionomia proteiforme della dama vagheggiata agli albori della lirica romanza fa dunque parte del gioco, di quel gioco allegorico […] che lega in sottili e maliziosi intrecci allusivi testi sacri e poesia volgare. Tra l’accezione profana del modello–midons, adibita a mero intrattenimento mondano, e le sue varianti più impegnate (sul fronte della mistica d’ispirazione cistercense o, eventualmente, su quello eterodosso) si dispiega una vasta gamma di opzioni intermedie: la donna disdegnosa come metafora della Scrittura, che pretende uno “studio” – un “servizio d’amore” – lungo e difficile prima di concedersi al suo esegeta (ossia prima di aprirsi all’intelligenza spirituale); o come simbolo della resistenza della materia con cui deve lottare il trovatore-fabbro (secondo la definizione coniata nel Purgatorio dal ‘padre’ Guinizzelli, che sembra investire un’autorità critica perentoria, per il “miglior fabbro” Arnaut Daniel) nell’elaborazione del canto ideale. […]. Auerbach, che nell’assidua frequentazione della Patrologia aveva sviluppato antenne molto sensibili per l’auscultazione dei testi medievali, vede nello Stil Novo il momento in cui si formalizza e si rielabora sub specie filosofica, con accentuata consapevolezza elitaria/iniziatica, il legato simbolico dell’esperienza poetica occitanica, conservandone il nucleo fondante (ossia la centralità della polivalente figura femminile) […] la giovane donna amata da Dante nella vita terrena – se pur in forma meramente intellettuale – […] [è nella Commedia] la “figura” della verità rivelata e salvifica, ossia Cristo/Sapienza, Auerbach mette in luce il grande salto di qualità pensato da Dante, la sua allegoria non è più allegoria di poeti, è allegoria di teologi. Il Medioevo aveva da tempo imparato a conoscere nella fictio poetica, sotto la superficie della lettera, il dulciorem nucleum veritatis […]. Va detto che ad alcuni l’interpretazione auerbachiana di Beatrice è parsa contraddittoria. Se la definizione di figura è rigorosa, osserva per esempio Marc de Launay, Beatrice non può essere ‘incarnazione della rivelazione divina’ e figura Christi […]. Ma in realtà Auerbach mostra di aver previsto simili rilievi critici, e il suo saggio contiene un’implicita risposta all’accusa d’incoerenza. Una cosa è la figura veterotestamentaria – profezia di per sé indecifrabile, che s’invera e s’illumina solo alla luce del Vangelo -, un’altra l’applicazione letteraria, in cui la successione temporale non è così cogente […] i due poli della “figura” non sono né concetti né astrazioni, ma enti o eventi reali e inseriti nella corrente della vita storica, mentre solo l’intelligenza, l’intellectus spiritualis che li mette in relazione, è un atto spirituale» (Lucia Lazzerini, Gli studi danteschi di Auerbach, in Idee su Dante. Esperimenti danteschi 2012, Atti del Convegno, Milano, 9 e 10 maggio 2012, a cura di Carlo Carù, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2013, pp. 52 – 54 e pp. 60-62). Sui trovatori e la poesia in relazione al percorso versificatorio di Dante cfr. Pietro G. Beltrami, Arnaut Daniel e la ‘bella scola’ dei trovatori di Dante, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hollander, Atti del quarto Seminario dantesco internazionale – University of Notre Dame (Ind.), USA 25-27 settembre 2003, a cura di Michelangelo Picone, Theodore J. Cachey Jr – Margherita Mesirca, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004, pp. 29-59, Stefano Asperti, Dante, i trovatori, la poesia, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hollander, cit., pp. 61-92 e ancora Paolo Cherchi, Dante e i trovatori, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hollander, cit., pp. 93-103.
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immagine: signa vocalia precisamente coniati (su tutti “’l velle”, “l’alta fantasia”, “immaginativa”) a proiettare articolatamente entro una tesa esposizione narrativa i due rispettivi piani: sonno-visione ed estasi. Esposti e realizzati tecnicamente entro incardinamenti ritmico-sonori derivati al poeta dall’esperienza d’uso dell’esistere materico (cammino, dialogo, soliloquio, oratio, riflessione, giudizio, pentimento, revisione, descrizione di stati d’animo e presa visione del tempo come pure dell’antitempo proprio del terzo regno) ed elargiti in proiettive sintesi vertiginose. In cui il termine, e l’intera narratio-poematica, si concentra sì sull’elevatezza dell’immagine, ma più ancora accelera l’attesa dell’introdotta meraviglia che sta per esporre nell’accumulo dello stesso spazio d’attesa. Il canto diventa sentimento d’amore per l’attesa, presentandosi nell’emulsione dei dati sensoriali in quelli terragni. E da questi, quindi, ricoverati e ricreati dall’intellectus spiritualis. Formulati, a loro volta, in descrizione analettica-prolettica per tutta la Commedia. E con maggiore evidenza nei passaggi purgatoriali verso l’indefinibile. L’amore, così, è elevato a rango divino, quale unica modalità di dire partendo dal carneo il Sacro, ed istruendo dal grembo verginale di Maria la “nuova” peregrinatio del nuovo figlio d’Adamo. Mediante una continua, dinamica applicazione inventiva, estratta soprattutto dalla logica narrativa biblica: «lo stile biblico influenza l’Alighieri non solo sul piano del realismo e dell’oltranza corporea […] se l’analitica teologica deriva a Dante dalla filosofia scolastica, l’habitus compensioso gli deriva dalla sentenziosità, gnomicità, brachilogia didattica delle Scritture. Le soluzioni narrative rapide, il raccontare scorciato e balenante, ma anche soluzioni retoriche quali il parallelismo, la membrazione, il metaforeggiare concretissimo, l’adozioni di similitudini peregrine o sconvolgenti, assolutamente anti-classiche, questo e altro corredo biblico si impongono alla techne dantesca».33 E Dante, dunque, entra con ulteriore perizia tecnica, raggiunta mediante la lezione acquisita dal mondo classico e da quello cristiano, a modellare l’unica via possibile per narrare la visio attraverso l’intervento tutto predisposto a giocare sul paradosso, e che è in sé la drammatizzazione concreta del mistero in un linguaggio forgiato addirittura attorno ad un
33 Enzo Esposito, Dante e la Bibbia, in Memoria biblica nell’ opera di Dante, Roma, Bulzoni, 1996, p 11.
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principio complesso e inaudito quale quello esposto dall’improprietas. È essa che sancisce la fictio a credibile strumento letterario. E, assieme, eleva quest’ultimo a dicitore della narratio fabulosa. La quale porta in sé l’alta fantasia, esponente la revelatio lirica: l’immaginativa abilitata a scandagliare per transumptio a lei propria il mistero. E ci soccorrono qui, come debitamente ripresentati nell’approfondimento critico dello studio sulla metafora in Dante dell’Ariani, la cultura che da Platone ad Aristotele a Cicerone a Quintiliano (che parla in specifico di allegoria quale “continuazione strutturata” di metafore) giunge a San Tommaso, i ritrovati tecnici di un fare che, appunto, instaura proprio sul “mancamento”, che è l’inespresso, il dire la proprietas del canto.34
34 «Nella quaestio ‘De raptu’ della Summa Theologiae, Dante doveva prendere atto che la fenomenologia dell’esperienza visionaria non può prescindere da un’operazione che riguarda i sensi e i dati sensori forniti alla mente, i phantasmata. […]. La distinzione tra l’abstractio a sensibus nella visione (perché ‘totaliter feratur in Deum’) e il ricorso alle tracce sensibili rimaste nella memoria è essenziale: cessata la visio, solo covertendo ad phantasmata le divine species intellegibili potrà il pellegrino celeste ricordare e poi verbis exprimere le superstiti imprerssiones di un’esperienza vissuta abeunte sensibili. La metafora allora, in quanto espressione verbale secondaria di phantasmata, è uno strumento residuale, di ripiego, ma è l’unico a disposizione per fissare i labili dati sensibili della memoria abbandonata dall’intellectus hominis elevato ad ‘altissimam Dei essentiae visionem’. […]. Qui la trattazione di Tommaso è altamente tecnica, nel senso di una fondazione di una possibile rhetorica de divinis: se la proprietas di Dio è inesprimibile (“Deum secundum proprietatem dici non posse”) occorre di necessità servirsi dello strumento sostitutivo della metafora, in sé, come insegnano Aristotele e Cicerone e l’intera tradizione retorica, una paradossale improprietas che rimedia alla naturale inopia della lingua, con i connessi rischi di oscurità, enigmaticità, improprietà di grado secondo. Quando si tratti dunque di esprimere l’abissale eccedenza divina […] una proprietas in sé assolutamente inattingibile, i corpora vilia forniti dai sensi all’intelletto in forma di phantasmata sono l’unico mezzo a disposizione per dire e scrivere sub figuris, che altro non sono che similitudines radicalmente dissimili dall’oggetto metaforizzato. […]. L’adesione tomistica alla dottrina dionisiana delle similitudines dissimiles […] [verrà esposta] dietro la requisitoria di Beatrice nel IV del Paradiso: l’aderenza di quest’ultima al dettato retorico della scrittura divina postulata da Dionigi e Tommaso […] non stupirà allora l’equipollenza sancita da Alberto Magno, appassionato postillatore di Dionigi l’Areopagita, tra phantasmata e metaphora propria della lingua profetica: il resoconto scritto non può che darsi come referto transuntivo di una dissomiglianza in sé inesprimibile. La subalternità della metafora alla natura fantasmatica dei dati della visione è dunque la sua forza […] in una sorta di obbligata translatio del divino ineffabile nelle res e viceversa.Il dato tradizionale della improprietas quale caratteristica indelebile di ogni metafora è stato recuperato dalla teologia tomistica sulla base del metaforismo simbolico pseudodionisiano: è in questo ambito che va ricercato
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Entro questo processo lirico-figurale dantesco, proprio per il modello mariologico, figura per antonomasia di cristofora, dentro la metafora dell’involucro-similitudo, che è, per sua natura dissimilis similitudo con il Figlio, del quale Ella stessa è figlia, si attua il canto, cosicché dal retroterra latamente neoplatonico (Macrobio, Dionigi, Eriugena, Alano di Lilla, Bernardo Silvestre) dell’essenziale costituzione albertino-tomistica del metaforismo dantesco in tutta la sua abissale escursione comico-mistica, nel duplice meccanismo [appunto] della dissimilis similitudo e dell’involucro fabuloso-integumentale è possibile [dunque] reperire utili […] strumenti di penetrazione nello stratificatissimo universo della metafora dantesca. Metafora-involucro, metafora-allegoria, metafora fabulosa, figura infigurabilis, turpis imago, o sublime translatio, ma mai esornativa o meramente ecfrastica, la vis transuntiva di Dante costituisce uno dei pilastri della scrittura comica: ignorarne la possente funzione di visualizzazione dell’astratto, secondo il metodo del “visibile parlare” (Purg., X 95) da Dante stesso teorizzato e attuato, significa decurtare la Commedia di una delle sue più stupefacenti meraviglie, segni, tracce, sentieri, stille di un intrepido sincretismo che lavora sul lascito della cultura biblico-classico-medievale, letteraria come filosofica, per estrarne miriade di gemme formali che non hanno eguali nella tradizione occidentale. 35
A promuovere la visione dell’ineffabile attraverso il passaggio da una turpis imago alla dulcedo incarnata sono, nel moto delicatissimo esposto all’altezza della cornice dei superbi, proprio i dicta mariani. Incorniciati ed esperiti attivamente entro una contemporaneità d’azione-visiva, di Dante e del lettore, quali figure agenti in un tempo che fa dello spazio purgatoriale il riassumente mariologico per cui è Lei ad essere in rapporto poeticamente
lo statuto della metafora in Dante. Tanto più […] che una simile retorica divina doveva fare i conti col metodo platonico della narratio fabulosa quale velamen, integumentum, involucrum di verità altrimenti indicibili» (marco ariani, I ‘metaphorismi’ di Dante, in La metafora in Dante, a cura di Marco Ariani, Firenze, Leo S. OLSCHKI, MMIX, pp. 22-26). 35 Ivi, p. 57.
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attivo diremmo con Dante e con il lettore. Maria si presenta operativa nella gradazione dei dicta che assurgono ad exempla. Non ci stupisce che il poeta abbia riflettuto-cantato proprio l’ineffabile quale “iperbole elogiativa” mediante la ripresa dell’opera e della persona di Maria nella figura lirica. Con il termine ineffabile assistiamo alla messa in opera della scrittura volta a designare la possibilità di dire la modalità tanto razionale quanto mistico-religiosa di ciò che altrimenti rimarrebbe relegato unicamente alla sfera limitativa dei segni criptici di liturgie misticheggianti. Ed espresse, appunto, in simboli-modi-segni-suoni e formule estratti dal rituale classico-cristiano e indicante unicamente il Sacro. Senza precisarne l’indirizzo intimo del proprio carattere, che, invece, Dante ci trasmette con la poesia. L’Auctor-Agens impiega con innovazione straordinaria nel volgare il proprio principio teoretico, e non solo in riferimento al religioso, quanto alla suddetta connessione carne-(sacer)-deità. Il lessema ineffabile viene usato in modo specifico nella Vita Nuova: «e passando per una via, volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale oggi è meritata nel grande secolo, mi salutoe virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine» (Vita Nuova III, 1-2) e nel Convivio.36 Registrando l’incidenza dell’“aggettivo-sostantivo” soprattutto nella Vita Nuova in cui appare nel raffronto tra amore per Beatrice e lo stesso linguaggio amoroso.37
36 Per una attendibile schedatura posta in relazione ad un complesso quanto intenso e ragionato riscontro del termine-parola “ineffabile” nelle opere dantesche cfr. Manuela colombo ‘Ineffabile’ e ‘Ineffabilitade’ nella scrittura dantesca: La Vita Nuova, Il Convivio, La Commedia, in Eadem, Dai mistici a Dante:il linguaggio dell’ineffabilità, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia, 40, Dipartimento di Scienza della Letteratura e dell’Arte medievale e moderna, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1987, pp. 31-51. Cfr. Sebastiano Aglianò, Ineffabile e Ineffabilitade, in Dante-Enciclopedia dantesca, cit., vol. III, pp. 428-429. 37 «Il passo del III capitolo della Vita Nuova in cui appare il lessema ineffabile è […] pregno di una scottante novità, non soltanto perché la parola è con buona probabilità nuova per il volgare del tempo e tuttavia accede improvvisamente alla dignità letteraria, ma anche perché la sua prima comparsa getta scompiglio nel pacifico mondo della tradizione religiosa, sconvolgendo la tranquillità dell’uso latino e pretendendo per una donna l’attributo che la divinità aveva riservato per sé. […]. Sebbene ci sfugga, non doveva essere sfuggito ai lettori del tempo l’accostamento peregrino di un termine – cortesia – di incontrastato domi-
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Il vocabolo, ineffabile, nel Convivio non smentisce l’uso oltremodo esposto di un amore per la ragione speculante. E abbraccia nel proprio spettro semantico proprio la condivisione del valore sacrale con un intelletto, che è in sé, pur non dischiusosi totalmente al trascendente, specchio di ascensione verso l’Oltre.
nio nella poesia amorosa provenzale e italiana e di un altro – ineffabile – che l’aveva fatta da padrone fino a quel momento nella scrittura religiosa: si formava un nuovo sintagma che sembrava suggellare e definire la via percorsa da Dante nella Vita Nuova, in cui la lezione della tradizione e della nuova poesia bolognese e fiorentina – di Guinizzelli e di Cavalcanti soprattutto – si equilibrava e fondeva con quella mistica, dando luogo all’unico stil novo propriamente detto, quello dantesco, appunto. E infatti un vero e proprio cumulo di auctoritates scritturali e mistiche accompagna con solennità il rito sacrale del saluto beatificante della gentilissima: nascosta nelle pieghe di questa prosa dolcemente cadenzata, gli interpreti della Vita Nuova hanno infatti scoperto una stupefacente filigrana mistico-scritturale che accoglie passi dai Vangeli di Marco e Matteo per accompagnare l’epifania di Beatrice o immagini mistiche per descrivere il deliquio amoroso che colpisce il destinatario di un saluto così dolce. […]. ‘Il motivo dell’inferiorità della materia – scrive De Robertis – è un topos letterario e fa parte della tematica della lode’ […] [e] all’adozione dello stile della loda corrisponde però un effettivo incremento delle occorrenze del topos dell’infallibilità. […]. Dalla connessione lode-infallibilità di ‘Donne ch’avete’ si trascorre infatti al sonetto ‘Ne li occhi porta’ e alla prosa che l’accompagna, in cui Beatrice, operando miracolosamente, infrange la legge, già aristotelica, del passaggio dalla potenza all’atto, poiché ‘per lei si sveglia Amore’, […] non solamente […] là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella mirabilmente operando, lo fa venire’ e ‘di Beatrice [afferma De Robertis] si dà insomma quello che è proprio della divinità […], la creazione ex nihilo’ […]. Anche il contributo portato dal Convivio alla terminologia dell’ineffabilità è per molti versi innovativo: non soltanto perché grazie a quest’opera s’introduce, con ogni probabilità, nel volgare del tempo il sostantivo ineffabile, che fino a quel momento era stato vitale solo nella forma latina ineffabilis, e che per tutto il XIV secolo non comparirà più in volgare, ma anche perché, come già nella Vita Nuova, partecipa dell’attributo d’ineffabile ciò che, primariamente, non è divino, nel caso specifico la donna gentile, la cui identità è tuttavia frutto della convergenza della nozione laica aristotelica di filosofia e di quella cristiana di Sapienza. […]. Mentre l’ineffabilità, infatti, è sempre connessa all’altezza della speculazione filosofica nei trattati II e III (con una sola eccezione in III, V, 22 in cui è definita ineffabile la sapienza divina), alla luce della crisi teoretico-filosofica cui Dante va incontro nel IV trattato, non sarà casuale che le uniche occorrenze, già citate, del termine ineffabile riguardino l’una, nuovamente, la sapienza divina […] l’altra la carità, l’amor divino. […] [cosicché la] fiducia assoluta nella mediazione operata tra la filosofia aristotelica e la sapienza di stampo scritturale e nella creazione figurale amorosa della donna gentile che hanno sorretto Dante nel I e nel II trattato della sua opera si è incrinata: ineffabile non è più ormai la contemplazione del vero, ma solo Colui che è l’Ineffabile, Dio» (Manuela Colombo ‘Ineffabile’ e ‘Ineffabilitade’ nella scrittua dantesca: La Vita Nuova, Il Convivio, La Commedia, cit., pp. 32-39).
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Il percorso, quindi, dall’amore fisico-intelletuale a quello prettamente spirituale è ricercato ed è invocato teoreticamente nell’ambito della traditio mistico-religiosa. Ma il problema della conoscenza, implicito nel credente Dante mediante anche o soprattutto il dono (grazia) della fede, non scalza o addirittura non cancella l’impegno ragionativo, che è in sé, se ben diretto, il fine per conoscere il Vero. E per deliberare, entro un piano misterioso di Dio, il soccorso dell’ente-uomo al fine della propria salvezza: libero arbitrio, dunque, e conoscenza-amore in alto grado riproblematizzati proprio nella Commedia e riletti dalla visuale (dall’Empireo alla Selva) dell’ineffabile parlare: Il poema è percorso dal motivo dell’inadeguatezza della ragione umana, della sua incapacità di attingere la verità del mistero divino. Il motivo ha i suoi momenti salienti nella descrizione della condizione dei sapienti nel limbo, nel dialogo tra Dante e Virgilio mentre muovono i primi passi verso la montagna del purgatorio, in tutti i momenti in cui Virgilio si rivela incapace di superare gli ostacoli frapposti dal Maligno all’esperienza di Dante, nella dichiarazione di Dante (autore) che precede la descrizione con Stazio, nella prova di incapacità intellettuale data da Dante nel paradiso terrestre, in varie affermazioni di Beatrice e dei beati durante l’ascesa all’empireo. Il limite della ragione umana aveva sperimentato lo stesso Dante al tempo dell’irrigidimento della donna gentile, vale a dire, delle difficoltà incontrate nell’intendimento del rapporto tra Dio e la pura misera.38
38 Nicoló Mineo, La ‘Commedia’, in Idem, Dante, Roma-Bari, Laterza & Figli, 1992 (1a ed. 1970), p. 190.
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Capitolo III - La ‘sollecitazione lirica’ di Maria
Capitolo III
La ‘sollecitazione lirica’ di Maria
Nel canto XVIII del secondo regno due spiriti accidiosi «gridavan piangendo» (v. 99) e il loro grido si riferisce alla sollecitudine operante, che genera forte movimento cerebrale e fisico. Ed ecco il riferimento evangelico relativo alla Vergine: «Maria corse con fretta a la montagna» (v. 100): qui il verbo di moto apre il collegamento ad un evento specifico della storia mariana. Maria corre verso Ebron per raggiungere Elisabetta, sua cugina, che sta per partorire Giovanni il Battista. In tutta fretta, «cum festinatione», ci riferisce il Vangelo (Luca 1,39). Maria non rimane a contemplare ciò che l’angelo le ha preannunciato, corre “con”, “in” fretta per visitare la madre del precursore: annuncio nell’Annuncio della nascita del Figlio di Dio. Dante sottolinea il senso della sollecitudine di Maria riprendendo il verbo correre, che traduce l’impulso viscerale di una rapidità volta all’obbedienza. Qui il termine corse, a nostro sentire, indica, traslato “semanticamente” in un contenente diverso, il fiat pronunciato dopo la notizia dell’angelo. Maria corre per ripararsi nuovamente nel ventre di Dio, scegliendo incondizionatamente la libertà di ubbidire al Padre nell’offerta sponsale con lo Spirito per generare in carne il Verbo, «Verbum caro factum est» (Giovanni l,14), divenendo la prima portatrice del messaggio del Figlio, la prima Cristofora il primo testamento-testimone vivo e l’anticipatrice del viaggio nel mistero. Non si può prescindere, giunti a questo punto, dalla conoscenza e dai dibattiti inerenti la Madre di Dio, in parte già riferiti, unitamente al Verbo, propri dell’epoca di Dante e riferentesi alle dottrine fondative la poetica del Fiorentino. 1
1 Sulla complessa figura di Maria e sulla mariologia, all’interno di un’ampia bibliografia, e soprattutto in relazione alla figura del Figlio rinviamo a Gerhard Ludwig Müller, Nato dalla Vergine Maria, Brescia, Morcelliniana, 1994 e Stefano De Fiores, Maria sintesi di valori. Storia culturale della mariologia, cit. Sui rapporti umanità-divinità di Maria e più ancora sulla relazione Madre-Figlio in Dante la Chiavacci Leonardi sottolinea la dipendenza dell’uomo
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Seguendo la sollecitazione-indicazione del Nardi, dentro e oltre l’incalzante polemica che lo studioso articolatamente e finemente elabora, occorre precisare che se è vero che risulta improponibile, poiché è impossibile riferire le “fonti” dantesche, operazione, questa, «perfettamente inutile», dall’altra parte, «Utilissima, invece, anzi necessaria è la conoscenza dei problemi e delle preoccupazioni intellettuali che formano l’ambiente spirituale nel quale [si plasma] il pensiero filosofico di Dante», e non solo. E “ invadendo”, quindi, inevitabilmente tutti gli altri aspetti conoscitivi, ed in particolare quello poetico, che altamente li ricapitola: «personalissimo come ogni vero pensiero filosofico, si maturò nel diuturno sforzo della meditazione, spesso sorpassando, con penetranti e ardite intuizioni, il comune modo di pensare del suo tempo».2 Se il termine Theotokos è sconosciuto ai Vangeli, la formula Madre di Dio ricorre in tutto il Nuovo Testamento dall’Annunciazione, dove è implicito il segno cristologico, fino a Paolo, da Origene ai Concili. La sua figura è dibattuta e, in fine, confermata nel corso dei secoli come la Genitrice del Genitore. Ee la complessa storia della Vergine si propone con salda forza lungo tutto il Medioevo, molto prima, tuttavia, di una proclamazione dogmatica della sua Immacolata Concezione: Il dibattito teologico si accende sia intorno alla sua maternità divina contestata da vampate di adozionismo ed al suo parto verginale da spiegare e interpretare, sia intorno ai momenti iniziale e finale della sua vicenda terrena (Immacolata Concezione e Assunzione) […]. In questo periodo [il Medioevo occidentale] intensamente mariano si succedono quattro modelli o microparadigmi: carolingio, monastico, scolastico e tardomedievale. Essi documentano il passaggio
da Dio, di tutti gli uomini, e anche colei che è esente dal peccato partecipa, se pur in uno stadio elevato, alla “filiazione d’immagine”, diremmo: «se l’uomo è fatto a somiglianza di Dio, Maria è infatti tra le creature umane quella che, come sarà detta nell’ Empireo, più gli assomiglia» (Anna Maria Chiavacci Leonardi, «In te misericordia, in te pietate». Maria nella Divina Commedia, in Gli studi di mariologia medievale. Bilancio storiografico, Atti del I convegno Mariologico della Fondazione Ezio Franceschini con la collaborazione della Biblioteca Palatina e del Dipartimento di Storia dell’Università di Parma- Parma 7-8 novembre 1997, a cura di Clelia Maria Piastra, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2001, p. 327). 2 Bruno Nardi, Avvertenza, in Idem, Saggi di filosofia dantesca, cit., p. VIII.
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attraverso differenti approcci alla figura della Vergine Madre, che acquisisce nella percezione dei fedeli connotati e contenuti in parte ripetitivi, in parte nuovi. […]. […]. Rispetto ai padri il medioevo […] accetta ed enfatizza il doppio processo di umanizzazione ed esaltazione di Maria. […]. Colpisce il fatto che mentre il periodo patristico offre esigue testimonianze circa la maternità di Maria e l’Immacolaza Concezione, il medioevo proclama con sant’Anselmo la sua scoperta esistenziale: ‘Maria è madre nostra’ e chiarifica con Scoto che la santità originale di lei si armonizza con la redenzione universale operata da Cristo. Più problematica si rileva la tendenza di Bernardo ad allontanarsi dalla prospettiva dei padri che poneva Maria nella Chiesa fino a comprenderla in un’unica immagine come vergine e madre, per collocare Maria ‘tra Cristo e la Chiesa’ come mediatrice presso il Mediatore.3
Ed è soprattutto in veste di Mediatrice che il poeta la invoca. Nel canto xx del Purgatorio le anime degli avari e dei prodighi presentano gli esempi di povertà mentre piangono: qui Dante, nei versi 19-24 canta: «e per ventura udi’ Dolce Maria!, / dinanzi a noi chiamar così nel pianto / come fa donna che in parturir sia; / e seguitar: ‘Povera fosti tanto, / quanto veder si può per quello ospizio / dove sponesti il tuo parto santo’»: «Non un luogo preciso del Nuovo Testamento è riscontrabile nelle parole di Dante, se mai un riferimento, indicato dai commentatori, è al brano del Vangelo di Luca in cui si legge: ‘et peperit filium suum primogenitum et pannis eum involvit, et reclinavit eum praesaepio […] l’unico termine comune è rappresentato da ‘ospizio’ che traduce il ‘praesepium’ [‘mangiatoia’] emblema della Natività e simbolo essenziale della scelta di povertà insita nel progetto divino della Redenzione».4 Dante ripercorre la storia di Maria, pone in essere una sorta di mariologia poetica che è, a nostro avviso, uno dei cardini del poema: «È inne-
3 Stefano de Fiores, Maria nella cultura medievale, in Idem, Maria sitesi di valori, cit., pp. 161-162, 207-208. 4 Nicola Longo, L’ exemplum fra retorica medievale e testo biblico nel Purgatorio, in Memoria biblica nell’opera di Dante, Roma, Bulzoni, 1996, p. 82.
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gabile che la Divina Commedia è contrassegnata dalla massiccia presenza di quel senso della storia che l’esegesi patristica aveva riproposto e tramandato. […]. L’incarnazione di Cristo e la promessa della Gerusalemme celeste sono le giunture che danno alla sequela temporale dei frammentari accadimenti storici una configurazione e finalità irriducibili. […]. Libro privilegiato che custodisce nel suo generoso grembo le irreversibili promesse della storia della salvezza, la Bibbia è per Dante soprattutto il testo dello scandalo ermeneutico, di un esilio che va al di là delle tentazioni idolatriche e della fedeltà alla legge- le due opzioni del deserto».5 L’Auerbach nel suo celebre studio su Dante collega e mette a confronto, sulla scorta di un’importante esegesi, molti luoghi delle Scritture e delle opere dei Padri dai quali ricaviamo una rete di rimandi e rielaborazioni assai importanti. Così il Cristo è prefigurato da Adamo e Maria diventa significativamente la nuova Eva, l’Arca della santa alleanza è rinnovata dalla verginità della Madre, e molti degli avvenimenti contenuti nell’Antico Testamento sono prefigurazione del Cristo e della sua opera salvifica: da ciò la visione del poeta-pellegrino è abilitata nel e dal Testo per antonomasia: «Il contenuto della Commedia è una visione; ma quello che si vede in essa è la verità come figura, è dunque tanto reale che razionale».6 Le interpretazioni bibliche effettuate giungono a Dante dallo studio dei testi che all’Aenigma Dei si sono rivolti unitamente alla diffusione delle opere scolastiche, dei mistici cistercensi, dell’agostinismo francescano e del tomismo.7 Tra il XII e il XIII secolo il discorso su Dio diventa labirintica ricerca del suo senso e del suo esserci: con la diffusione delle opere di Bernardo e le Sentenze di Pietro Lombardo nel Duecento si cerca di comprendere il mistero attraverso una razionalità che non neghi i propri percorsi logici: il Dio-Figlio è il Cristo di Nazareth. Da Anselmo in poi il Figlio è inteso come l’azione concreta della Trinità, mentre per gli scolastici è la libera espan-
Giuseppe Mazzotta, Teologia ed esegesi biblica (Par. III-V), in Dante e la Bibbia, cit., pp. 97-100. 6 Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., pp. 144, 308. 7 Per un quadro d’insieme sulla filosofia medievale cfr. Bruno Nardi, Saggi di filosofia dantesca, cit. e Étienne Gilson, La filosofia del Medioevo, cit. 5
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sione della ragione divina, di per sé in-conoscibile.8 La cristologia diventa un modo singolare e complesso di interpretare Dio attraverso il Figlio e, parimenti, dire l’uomo mediante l’Incarnazione.9 Per cristologia-mariologia dantesca noi vogliamo intendere (unitamente al significato teologico che tale formula ha e dal quale il nostro ragionamento prende l’avvio) l’imitatio, la conformità del testo-poesia, del suo autore, e, implicitamente del lettore, al Cristo e alla Madre. Maria e Cristo sono le due persone divine, se pur nelle loro rispettive “divinità”, a mantenere nel regno ultraterreno i corpi. O meglio, il Cristo, che fino all’ultimo canto della terza cantica (singolare è la formulazione lirica in cui Dante riferisce della Persona del Figlio con la Luce nel canto XXIII del Paradiso, vv. 31-33: «e per la viva luce trasparea / la lucente sustanza tanto chiara / nel viso mio, che non la
8 Su questi temi rinviamo ai testi a cura di Claudio Leonardi, Il Cristo, vol. IV, Testi teologici e spirituali in lingua latina da Abelardo a S. Bernardo, e Il Cristo, vol. V, Testi teologici e spirituali da Riccardo di S. Vittore a Caterina da Siena, Milano-Roma, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, 1991-1992. 9 «Le diverse forme della cristologia biblica sono circoscritte da una radicale unità che può valere come punto di partenza e di arrivo di tutto il pensiero successivo su Gesù il Cristo: l’unicità e l’eccezionalità dell’evento di Cristo e il significato perenne e sovreminente di Gesù Cristo per gli uomini di tutti i tempi restano, al di là di tutte le differenze, il centro della fede cristiana e cristologiaca insieme: ‘Non vi è nessuna altra salvezza. Non esiste infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che possiamo essere salvati’ (Act. 4, 12). […].Così la cristologia neotestamentaria mostra un approfondimento della cristologia dell’esaltazione espressa dai primi credenti (cfr. Act. 2, 32-36: dopo la sua risurrezione Gesù viene innalzato e reso Messia e Signore) sulla cristologia, ugualmente prebiblica, dei due stadi (cfr.. Rom. I, 3 s: forma esistenziale terrena- forma esistenziale celeste di Cristo) verso l’esplicita affermazione della preesistenza celeste, dell’esistenza terrena e della esaltazione a Signore (cfr. Phil. 2,6- 11). Il Vangelo di Giovanni sviluppa l’orientamento verso la cristologia dell’incarnazione, previa impostazione di una ‘cristologia dall’alto’ (Io. I, 18)., mentre nei vangeli sinottici l’annuncio di Cristo mantiene lo sguardo rivolto al Gesù terreno. […]. L’unità della fede all’interno della cristologia viene conservata mediante questo fatto: accanto a tutti gli elementi variabili, la confessione fondamentale ‘Gesù è il Signore’ (I Cor. 12, 3; Rom. 10, 9; Ph. 2, 11) resta e deve restare determinante per tutti» (Arno Schilson – Walter Kasper, Cristologie, oggi. Analisi critica di nuove teologie, ed. it. a cura di Umberto Mattioli, Brescia, Paideia Editrice, 1979, pp. 10-12). Sulla cristologia rinviamo a Cristologia e catechesi patristica, Convegno di Studio e Aggiornamento - Pontificium Institutum Altioris Latinitatis (Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche), Roma, 8-9 marzo 1980, a cura di Sergio Felici, Roma, LAS, 1981.
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sostenea») è rappresentato mediante simboli e vestimenti, nell’ultima visione si rivela anche nella fattezza-umanità della sua Persona. Il Cristo è così il parto del Dio-Amore, e se Tommaso d’Aquino, concepisce, proprio attraverso l’evento del Figlio, la possibilità di pensare Dio nella razionalità tutta umana del parto virgineo, rivolgendosi a Maria con la formula «pura creatura», 10 mediante la quale indente il rapporto verginitàmaternità, Dante, da figlio si sente, appunto, accolto nella figura materna che lo protegge e l’accompagna: «Il Mistero di Cristo, nell’Atto salvatore, rimane sempre attuale, inglobando sempre uno per uno tutto ciò di cui è la fonte: ‘Jesus Christus heri, hodie, ipse et in saecula’».11 Dunque, la figura abilita il verso a rendere il reale quale testimonianza singolare (ovvero testimoni-testamenti di ciò che il Libro è) del divino: Il nuovo e peculiare significato che la parola [figura] acquista nel mondo cristiano si trova per la prima volta, e molto spesso, in Tertulliano. […]. È noto, in generale, l’energico realismo di Tertulliano. Per lui la “figura”, nel senso immediato, è una parte della sostanza, che egli identifica con la carne. […]. Dal IV secolo in poi la parola “figura” e il modo d’interpretazione che vi è connesso appaiono completamente sviluppati in quasi tutti gli scrittori ecclesiastici latini. […]. Le figure storico-reali sono da interpretare spiritualmente (‘spiritualiter interpretari’) ma l’interpretazione si riporta ad un adempimento carnale, ossia storico […], giacché, appunto la verità si è fatta storia o carne. […]. E così “figura” compare spesso nel senso di “significato più profondo” in riferimento al futuro: le sofferenze di Gesù ‘non fuerunt inania, sed habuerunt figuram et significationem magnam’. […]. Beatrice è incarnazione, è “figura” o “idolo Christi” […] e dunque è anche una persona umana. […] il suo rapporto con Dante è tale che non può essere espresso a fondo per mezzo di considerazioni dogmatiche. Le nostre spiegazioni de-
Tommaso d’Aquino, Summa, III, q. 5, A 5. Henri De Lubach, Una dottrina sintetica, in Idem, Opera ominia, vol. 20, sez. quinta, Scrittura e Eucaristia- Esegesi Medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. 4, a cura di Elio Guerriero, traduzione dal francese di Ezio Brambilla, Milano, Jaca Book- Edizioni Paoline, 2006, p. 147. 10
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vono soltanto mostrare [commenta Auerbach] che l’interpretazione teologica, sempre utile e indispensabile, non ci costringe affatto ad escludere la realtà storica di Beatrice: al contrario. 12
Il canto XXII, nella parte finale, vede i tre poeti, Dante, Virgilio e Stazio essere attratti da una voce, che esce da un grande albero rovesciato, a forma di cono. Essa ammonisce i visitatori con dei “riferimenti” riguardanti il cibo (l’essenza del sacrificio e della prodigalità, ma indica anche il peccato di gola): Dante richiama gli esempi di temperanza, fra i quali spicca quello di Maria: «‘Più pensava Maria onde / fosser le nozze orrevoli e intere, / ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde’» (vv. 142-144). E, come precedentemente, nel XIII canto, aveva ricordato la Vergine tra gli esempi di carità ammonitori degli invidiosi, anche qui, nel XXII, il riferimento per antonomasia è, appunto, a Maria e all’episodio evangelico delle nozze di Cana. La preoccupazione della Vergine, che è consapevole della non buona riuscita del banchetto nuziale, si ricollega non ad un puro soddisfacimento di un desiderio scaturito da un atto mosso (quello che Lei stessa indicherà di compiere di lì a poco) da sensazionalismo personalistico, ma alla preoccupazione della non buona riuscita del convito nuziale. La Vergine come scrive Dante Della Terza: «pensa solo alla gioia degli altri, al successo delle nozze, al consensuale gradimento di chi vi partecipa», 13 per cui invita, “ordina” al Figlio di compiere il primo miracolo. Si apre così, prima ancora della predicazione effettiva, con la quale il Verbo annuncia al mondo la salvezza, la vita pubblica del Cristo, per intercessione della Madre. Nel XXV canto il poeta ricorda nuovamente la Vergine come esempio di purezza spirituale e fisica riferendosi, attraverso l’espressione «Virum non cognosco» (v. 128), intonata durante il Summae Deus clementiae (Dante riprende questa formula, probabilmente un inno di S. Ambrogio, contro le tentazioni della carne), da parte di anime, che, in processione, attraversan-
Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., pp. 189, 191, 194, 226. Sulla cristologia di Tertulliano cfr. Raniero Cantalamessa, La cristologia di Tertulliano, Friburgo, Edizioni universitarie, 1962. 13 Dante Della Terza, Dante e Forese. L’incontro in Purgatorio, in «Dante. Rivista Internazionale su Dante Alighieri», I (2004), p. 101. 12
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do le fiamme (quelle nelle quali Virgilio tenta di non far cadere il discepolo), ripropongono, tra gli esempi di castità, anche l’annuncio a Maria e, indirettamente, la sua storia. Dante si riallaccia a quelle dottrine riguardanti la verginità della Madonna, e soprattutto al Vangelo, alle quali abbiamo fatto cenno e per le quali il poeta-pellegrino si inserisce, da Auctor e da Agens, nella riflessione attorno ad un complesso nodo teologico, e se, da un lato, «Vergine indica […] il rapporto di Maria con la costituzione dell’uomo Gesù come rivelatore di Dio, […] [dall’altro] Maria viene a tale riguardo chiamata Madre di Cristo, in quanto ha un rapporto materno con il Gesù fatto uomo, cioè parlando in termini di cristologia dell’incarnazione con la persona del Logos, che da lei ha assunto l’esser uomo». 14 Ella è, dunque, ritenuta già a partire dall’epoca del poeta Madre della Chiesa, e la cristianità ricorre a Lei per intercedere presso lo Spirito Santo affinché questi illumini la mente degli uomini: così il pianto di Beatrice è paragonato a quello della Vergine ai piedi della Croce. Il canto XXV apre alla gestione dei dubbi del poeta inerenti la costituzione delle anime dei golosi. “L’espressione-immagine” che Dante vede, appunto, della loro anima-umbra è detta, nel mentre scontano la pena, nel graduale dimagrimento di essa, per cui il procedimento penitenziale è assunto-desunto nel riportate le conseguenze ascrivibili ai mutamenti del “moto corporeo”. Discorso non conciliabile con la logica-metafisica del regno purgante. Vengono messi in campo proprio in questo canto i temi più volte indicati: l’anima, il libero arbitrio, la conoscenza, la fantasia, la visione, il processo logico-metafisico e la strutturazione-dichiarazione del nuovo sentire da parte dell’Auctor-Agens tra la vecchia e la novella poesia amorosa. Elvio Guagnini si rivolge a perlustrare le istanze appena esposte e a vagliarle alla luce delle considerazioni figurali (nel loro ampio assetto generale) e di quelle imprescindibili effettuate da Bruno Nardi, specificatamente sulla ripresa di motivi albertini. In opposizione-prosecuzione da parte dell’allievo Tommaso, e da Patrick Boyde, il quale si sofferma sul carattere antropologico del canto in esame. All’appetito concupiscibile si ascrive interamente, o in larghissima parte, il moto che fa nascere e sustanzia l’amore “giovanile” di Dante. Non
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Gerhard Ludwig Müller, Nato dalla Vergine Maria, cit., p. 20.
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dissimile, nella procedura formulatoria, e giungente ad esiti, se non addirittura identici, tra il Fiorentino e gli altri stilnovisti, in particolar modo Cino da Pistoia. Entro quella “presa d’atto” dalla mutevolezza del sentimento e più ancora dall’oggetto che il sentimento-amoroso andava in quest’ultimo imponendosi nelle cangianti-diverse forme che la donna proiettava. E il cui impeto tirannico ne assoggettava la coinvolgente esperienza d’incontro. Facendolo albergare nell’esilio sensorio-fisico di altre immagini-donne, che alla prima, in vari modi, si ricollegavano. 15
Dante, tuttavia, ha superato l’ “amor primiero” e consiglia gli amici antichi di ricoverare il “sentimento mutevole” nell’acquisizione di una nuova tensione, che è tutta conoscitiva, ed è in se stessa liberatoria: «l’amore di cui canta Cino, e con lui gli altri stilnovisti, Dante compreso nelle rime dell’adolescenza non che in quelle petrose e in qualche altra, è dunque passione che risiede nell’appetito concupiscibile, sebbene più o meno purificato dal tocco leggero della poesia; e può cambiare oggetto, passando da una donna all’altra, senza che possiamo ribellarci ad esso o tenerlo a freno colla ragione e la virtù. Questo confessava a Cino l’amico fiorentino, in un periodo della sua vita quando aveva ormai scoperto che la radice profonda di tutti i nostri desiderî è l’amore insito in noi per il bene perfetto. […]. Dunque, prima Dante attribuiva all’amore una specie di fatalità, sì che gli pareva vano tentare di tenerne a freno la forza impetuosa colla virtù del consiglio; più tardi invece esortava l’amico pistoiese a correggere colla virtù la volubilità della passione amorosa. Questo affinamento del senso morale coincide colla conquista della sua libera personalità nella Commedia, e colla vittoria sulle passioni che ancora lo trattenevano sulla piaggia deserta, impedendogli l’ascesa al dilettoso colle. […]. Liberatosi dal determinismo astrologico che uccideva nell’uomo la libertà del volere, il poeta chiede a Virgilio che gli ‘mostri amore’ al quale si riduce ‘ogni ben operare e’l suo contraro’. […]. La bellezza esistente fuori di noi imprime la sua immagine nella nostra facoltà conoscitiva, e questa per mezzo della fantasia la spiega interiormente sì che nell’anima sensitiva nasce quell’appetito o desìo che è amore, e che non dà tregua all’innamorato, finché questi non ha ottenuto la ricompensa delle sue pene, la mercede. […]. Ma il pensiero del grande poeta non s’è accontentato di ripetere in bei versi quello che molti avevano già detto a sazietà. Un dubbio s’affaccia al suo spirito, ed è tale da rivelare in lui la stoffa del pensatore acuto, abituato alla meditazione […] se bene è solo quello la cui immagine entra in noi dal di fuori e suscita nel nostro animo un sentimento di piacere, l’autonomia della coscienza morale è in noi irrimediabilmente annientata, e guida della nostra condotta sono soltanto le fugaci impressioni dei sensi, le illusioni del mondo esteriore. Un tal dubbio ci porta al cuore stesso della filosofia. […] [la] dottrina che sottomette la passione al controllo della ragione e all’ “innata virtù che consiglia”, con questa dottrina che riafferma la libertà del volere umano da ogni influenza venuta ‘di fuori’, il principio che nella palestra d’amore ‘liber arbitrio già mai non fu franco’, il principio che proclamava la fatalità dell’amore, è ormai definitivamente superato. […]. La nuova arte alla quale s’è rivolto il genio di dante, è il poema. Tutta la vita nelle sue più complicate forme, tutti i sentimenti che s’agitano nel cuore umano, dai più bestiali ai più divini, sono divenuti 15
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Ed è in Beatrice l’opportunità raccolta da Dante e resa in poesia quale integumentum-forma che lo espone nella graduale ascesa verso Maria. La Vergine offre, come tipo-figura irripetibile nel canto, l’adattabilità-iperbole della sua figura quale anticipo del più volte citato parsadosso versificatorio. Il virum non cognosco se, da un lato, rapprende il mistero di Dio nel Cristo ad opera di Maria, dall’altro, esposto in musicalità con esiti altamente plastici, intende la partecipazione del poeta, appunto, alla mutata formabellezza che proprio l’esempio mariano ha ricreato. Realizzando mediante Beatrice la nuova-definitiva ispirazione-aspirazione dell’ente a tradurre e sanare la deviazione fisica e cerebrale del non ben intendere le cose. Maria è così modello del modello poetico e, assieme, adempimento della saldatura della citata catacresi (specificatamente nella sua figura l’abuso-straordinarietà proprio dell’impossibile si rende possibile e, quasi, accessibile alla logica-grammatica umana). Se l’amore è redento dalla nuova Eva quale accoglimento nella gestazione della libertà sfociante in una volontà di aderire o meno alla sponsalità col Sacro, proprio il fiat virgineo (contiuamente presente: nuovo sempre) della Madonna introduce la logica dell’accoglienza. Facendo transitare il poeta-pellegrino dall’eros all’agape. Per cui la considerazione della conoscenza quale atto volontario di maturare l’escoriazione drammatica dell’agone sensi-ragione conduce l’io dell’Auctor-Agens ad aderire all’essenza intima della persona, immagine di Dio, nella modalità di riconquistare l’amore giovanile, appunto, nella verginità del primo sentire. Smentendo inevitabilmente la fisicità-istintività irreprimibile del succeduto moto carneo. Ma non annullandolo. Esso si infrange nell’ “inchoatio figurae”, e a partire da ciò vengono esplorati, mediante il processo poetico-liturgico, gli abissi cerebrali alla scoperta della sensatezza di un colloquio-poesia che consideri la quies quale autentica via d’accesso, poiché irremovibile azione ad essere. Il sonno e l’estasi acquistano ora i risvolti veritativi di un’azione portata all’apice delle loro parabole: il soggiacere libero dell’ente non più a governare l’onirico degenerativo, ma ad acquisire tutto ciò che l’io ha
materia dell’altissimo canto. Il sacro e il profano, la terra e il cielo, l’oscena bestemmia di Vanni Fucci e l’orazione di san Bernardo, il sommesso sospirare e l’angelico trionfale Alleluia si fondono in una polifonia piena, solenne, ricca di armoniche dissonanze, quale non s’era mai udita» (Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale, cit., pp. 66-79).
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imparato-assorbito in terra trasponendolo al grado massimo della formasustanza. Estasi e sonno, pur nelle rispettive manifestazioni, sono intesi, così, nell’articolato processo che Dante acquista da Aristotele, dal pensiero neplatonico e da Sant’Agostino, gestori del passaggio da “istinto-sensitività” a “ragione-sentimento”. Ed è proprio nel canto XXV che si delinea, preannuncio chiaro della liturgizzazione tempo-memoria/a-temporalità-a-spazialità (che verrà consumata nell’Eden) il primo moto complesso della visione-forma. E che “ripara” il moto fisico-spirituale della prima poesia d’amore: La ‘visione’ di Dante dipendeva certo, come ha ricordato il Padoan, dalla volontà del poeta di proporsi come protagonista di un’avventura eccezionale, portatore di verità: ma era anche coscienza della capacità di rappresentare e conoscere i misteri difficili, di mediare una conoscenza di fatti tecnici, spesso riservati agli addetti ai lavori. Coscienza di poter estrinsecare (in termini non riduttivi) problemi dibattuti in sedi specialistiche (teologiche e scientifiche) e da riproporre a un pubblico non specialistico ma neppure generico […]. Dante (con Virgilio e Stazio) si muove dal canto dei golosi a quello dei lussuriosi. I golosi hanno peccato per troppo attaccamento materiale ai beni terreni. Ed è proprio in relazione a questo girone (e a Bonagiunta) che ha modo di chiarire le differenze tra il vecchio e il nuovo stile della poesia amorosa, quella fondata sull’amorepassione e quella fondata sull’amore-virtù. 16
Questo processo viene promosso da un’azione che pone Dante quale, appunto, ministro di un culto da espletare alla comunità universale: al popolo dei credenti di tutti i tempi. Il mariale, quale coazione attiva, è così strutturato nell’innologia e nella simbologia frastica ad evidenziare in passaggi delicati e di alta musicalità i temi centrali del canto. La bellezza
Elvio Guagnini, Canto XXV, in Lectura Dantis Neapoletana - Purgatorio, cit., pp. 498, 500-501. Cfr. per un quadro più ancora dettagliato del canto e sulla relazione poesia amorosa-visione- fantasia- poesia-amore-virtù rispettivamente Giorgio Padoan, Il canto XXV del ‘Purgatorio’, in Letture degli anni 1976-1979, Roma, Bonacci, 1981, pp. 577-600 e Vittorio Russo, A proposito del canto XXV del Purgatorio, ora in Esperienze e/di letture dantesche (tra il 1966 e il 1970), Napoli, Liguori, 1971, pp. 103-158. 16
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fisico-spirituale dell’uomo è in Maria raccolta nell’autenticità (il fondamento è il Vangelo) della persona che in sé la detiene, e per la quale essa stessa è. Il libero arbitrio mosso da una ragione più impegnativa, poiché non corrotta dal peccato: conoscere il Mistero tramite l’intelligenza educata alla prodigalità e “intramata” dall’humilitas spiega l’adattabilità, e prima ancora la volontà di essere umile. Quindi, la ragione è posta sullo stesso piano dell’impegno di fede: mantenere la parola e ricordarsi di adempiere in se stessi alla promessa, che, pur indicata da Dio stesso, deve porgersi nella ripetizione costante (“inchoatio formae”: sensi e ragione non separati). Ecco che i temi fondativi del canto si riassumono e si aprono attraverso l’attivazione della ripresa degli snodi esegetici, i quali si adempiono proprio nel richiamo agli eventi dell’esistenza di Maria e alla sua presenza-figura nel camminamento umano del Figlio. La Chiavacci Leonardi ha segnatamente esposto tale processo poeticognoseologico riprendendo altrettanti percorsi avviati e supportati da secoli di riflessioni, in chiave addirittura numinosa. Collegando la figura-azione della Vergine alla modalità che più di ogni altra segna icasticamente il motivo principe del suo operare e il motivo stesso per il quale Dante muove il canto: il cammino, il concetto-attuazione della Bellezza. Il quale con Dante per Maria è Persona-Figura centrale della Commedia. Aggiungiamo che Maria stessa, modello per la prima Beatrice e anche per la stessa cristofora Beatrice e per l’umanità, è la peregrinatio-poietica conducente a dire, quindi, la Persona-Dio e la persona umana. Ossia la via: lo strumento “per” la poesia di Dante a narrare il coinvolgimento dell’io Auctor-Agens con l’Eterno: Della madre di Gesù non è mai descritta la bellezza in nessun modo. Non lo è della Maria storica, quale appare nella seconda cantica, di cui sono ricordati solo alcuni atti e parole, sempre importati a mitezza, dolcezza e premurosa carità; non lo è della Maria gloriosa del cielo, della quale conosciamo soltanto il ‘compiangersi’ (Inf. II, 94) e l’intervento soccorritore dell’inizio, e la muta risposta degli occhi alla preghiera di Bernardo alla fine. Soltanto due parole, nella visione dell’Empireo, riveleranno la seconda funzione che essa assolve nel poema, oltre a quella di impersonare la misericordia divina, e cioè l’offrire il fondamento appunto […] [alla] via pulchritudinis.[…]. Il tema della bellezza terrena come ricordo di quella divina e generatrice di amore è notoriamente svolto da Platone in 108
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alcune delle più alte pagine del Simposio e del Fedro. Ma se di platonismo si può parlare solo entro certi limiti per quanto riguarda la poesia stilnovista – come ha ben chiarito Bruno Nardi – l’affinità con il pensiero platonico appare invece ben evidente nell’opera di Dante, che sembra muoversi in singolare, profonda sintonia con il grande filosofo ateniese, al di là della stessa conoscenza che egli poteva averne, in via diretta o indiretta, come gli altri del suo tempo. […] [la concezione] del mondo creato, quasi specchio di Dio, in quanto realtà che a lui assomiglia, con il quale il creatore attrae l’uomo a sé, è espressione poetica – forse la più alta – […] [del] grande poema dantesco, nel quale la bellezza assume la stessa funzione adescatrice che le attribuisce il testo biblico […] mentre il valore di somiglianza o impronta (‘orma’) del divino creatore, è riconosciuto, all’inizio del Paradiso, in quell’ordine armonioso che regge l’universo […] [in quella] ‘Pulchritudo consistit in quadam claritate et debita proportio’ (Summa Theol., II-IIae, q. 180, 2,3). […] visibilità del divino che attrae irresistibilmente a sé l’uomo, idea che è alla base di tutto il mondo poetico dantesco [connesso al tema dell’amore] […] [e] la poesia della giovinezza di Dante ha quasi come solo argomento l’amore suscitato in lui, fin dall’infanzia, dalla bellezza di una giovine donna, Beatrice, nella quale sembrava manifestarsi la stessa realtà celeste […]. Questo motivo, già presente nella lirica dell’amore cortese (ripreso e rinnovato in Italia da quel movimento che Dante chiamò ‘dolvce stil novo’, e del quale egli stesso fu il maggiore rappresentante), vedeva nella bellezza femminile, assomigliata a quella angelica, un richiamo alla virtù che ingentiliva i cuori di chi la guardasse, e risvegliava in essi l’amore. […]. Ma tale motivo letterario, che resta negli altri stilnovisti circoscritto all’amore umano, diventa in Dante ragione di vita, che seguendo la via tracciata dalla Scrittura porta l’uomo a risalire alla fonte primaria di quella bellezza, cioè a Dio suo creatore. 17
Il tema della Luce-Bellezza è fondativo nell’intera formulazione poematica del Fiorentino. E l’allestimento della processione purgatoriale, che
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Anna Maria Chiavacci Leonardi, Maria, Via Pulchritudinis a Dio, cit., pp. 163-166.
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indica lo scioglimento dei tracciati speculativi-religiosi-di fede e politici nell’ampia acquisizione gnoseologica, introduce alla considerazione ulteriore sulla Bellezza-Verità-Giustizia. La quale, raggiunta in sé, indica Dio stesso nel mentre espone compiutamente cosa sia l’anima, e, dunque, per Dante la persona. Quest’ultima tende per desiderio innato e per desiderio diremmo “ragionato-contemplativo” all’Eterno. Quella «sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Purg. XXI, vv. 1-3) è in Maria l’antefatto che struttura la natura del suo essere. In ciò si dispiega la conoscenza per grazia. E la fede viene presentata liricamente quale azione soggiacente ad una presa di responsabilità non coercitivamente sopraggiunta, ma laboriosamente sussunta. L’uomo si rivolge a conoscere e a volere il bene di sé, intercettando fuori di lui oggetti che indichino una corrispondenza, pur labile, con il mondo interiore che governa l’ente. E questi gestisce attraverso amore l’indirizzo di una specifica applicazione sensoria o ragionativa in cui l’intelletto umano è rivolto a riconoscere il volere del Creatore, se non “cattivamente deviato” dalla superbia dei sensi e dall’arroganza lussuriosa dell’ignoranza, ossia dalla mancanza di Luce-bellezza, per cui il male, seguendo l’indicazione-esegesi di San Tommaso, è privatio, è carenza, non sostanza: «lungi dall’essere originario, è [...] avvertito come assenza di bene. Dove la nozione prima è quella del bene, più o meno chiaramente conosciuta». 18 In tal modo, tanto il desiderio fisico quanto quello spirituale vengono condotti da amore-ragione sulla via del disvelamento della forma-sostanza soggiacente e recuperabile nel confronto con il tu-noi, e quindi anche con Dio. In questa modalità l’inchoatio formae indica il grado di acquisizione sul piano ragionativo e su quello ontologico della natura umana non volta in sé al peccato, ma, appunto, deviata dal peccato-carenza ad occupare un posto che non gli spetta, poiché in sé non è adattabile: non può conquistare spazio. Il male è mancamento: un mancamento per essere deve ine-
Umberto Galeazzi, Introduzione a Tommaso D’Aquino, Il male e la liberà, trad. it. di Umberto Galeazzi e Raffaella Savino, Note di Umberto Galeazzi, Milano, BUR, 2007, p. 15. 18
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vitabilmente mancare a se stesso e, quindi, essere carente di sé. Ma poiché la mancanza è deviazione, è cosa non Luminosa, ma informe, risulta non Bella. In questa disperata volontà di non rientrare nel posto che non potrebbe mai occupare, in quanto privazione completa, dovuta alla deviazione che ha condotto la mancanza in un vicolo cieco, quest’ultima tenta di inerpicarsi invano e va contro il Creatore rifiutandolo. In Maria l’humilitas, la riconciliazione, il perdono a partire dal dono concesso è accettato e poi compreso nella dimensione, appunto, della peregrinatio attuata cum festinatione: «Può essere interessante notare il rilievo che acquista in questo canto di lussuriosi [XXVI del Purgatorio], il ricorso non certo casuale di Dante alla parola donna […] ‘Quinci su vo per non esser più cieco; / donna è di sopra che m’acquista grazia’». 19 Essa indica il processo poetico, giunto a questa tappa, della traslazione del modello rigenerato della “femmina”, che in Beatrice traspone il significato profondo della perfezione muliebre, che è in sommo grado Maria stessa. Il superamento del modello letterario stilnovista è chiaro e il discorso d’amore-Bellezza detto ormai nella unica veridicità che l’exemplum purgatoriale può elargire è oltremodo evidente nella persona di Maria. 20 Attraverso le parole di Stazio-ragione, che proprio per intercessione di Virgilio, sotto l’implicita funzione della Grazia, assurge a “nuova guida” del poeta fiorentino (modello pagano proiettato in tutta la fulgida armonia, del suo portato lirico e assurgente così a tipo-figura di salvato nel
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p. 512.
Michele Dell’Aquila, Canto XXVI – Purgatorio, in Lectura Dantis Neapolitana, cit.,
20 «Incontrando Guinizzelli […] Dante sembra voler porre subito in chiaro quale sia il vero amore, liquidando immediatamente ogni rischiosa simbologia stilnovista. E che la dichiarazione avvenga in un luogo di lussuriosi e di poeti d’amore non sembra essere senza significato. Innegabile è il superamento dell’amor terreno, di donna, come pur sempre era nelle liriche cortesi stilnoviste d’amore. Ma Dante sembra riproporre, sia pur velatamente, ma puntigliosamente, quella simbologia (la donna gradus ad coelum) ch’era alla base dello stil novo, nel momento stesso in cui ne nega la validità, indicandone il superamento e il vero significato salvifico. È una rinuncia ed un recupero insieme: un recupero attraverso una interpretazione autentica, si direbbe. La qual cosa gli permette di mostrare partecipazione ed impegno verso quella giovanile esperienza (episodio di Guido e di Arnaldo) nel momento stesso in cui se ne dichiara ormai distante. Distante, certo, per un evidente superamento, anche di poetica. Ma non senza responsabilità rispetto al passato, soprattutto nei confronti del pubblico cui quella letteratura era diretta» (ivi, pp. 512-513).
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secondo regno in attesa di essere tratto nella Luce-Bellezza divina come tutte le anime anelanti al Vero), «L’intervento dell’intelletto, l’ultima divina facoltà data all’anima direttamente da Dio, determina [dunque] la scelta»,21 espone palesemente la logica redentiva operante ante et post Christum natum e apre al tempo nuovo del canto. Cosicché, l’ingresso nel paradiso terrestre e l’inizio del percorso nella nuova poesia-caritas introducono di fatto l’opera compiuta del poieo, che in Maria trova il segno definitivo per un mortale del disvelamento del Bello-Bene. Un tono e un timbro, quelli espressi specificatamente nel secondo regno, intrinsecamente passionali: una tensione metafisica crescente durante la salita. Sgravata di continuo dalla ritualità liturgica di gesti e scene che riverberano di appetiti non più mondani l’anima del peccatore-pellegrino. I ritmi di realizzazione del moto ascensionale sono altamente proiettivi di quella che sarà l’ultima visione. Le immagini, soprattutto nell’edenico allestimento, vengono rette da ampio afflato lirico, che di continuo ingloba ed espelle la prece. Tanto nelle formule corali quanto nella scansione dei processi dialogici di una determinata anima rivolta al viandante e al lettore nella singolarità della visione-pensiero per la quale forma è. Di un tessuto argomentativo, quindi, che fa dell’itinerario e soprattutto del tratto attraverso le cornici-gironi il “sottile legame” teologico-mistico per il quale possiamo affermare che il regno precedentemente visitato e quello da visitare (Inferno e Paradiso) possono essere intuiti nella distanza-profondità purgante. Essa, appunto, nel presentarsi proprio a partire dall’Eden, ce li ri-presenta a sua volta attraverso l’anamnesi peregrinante connotativa della forza dell’uomo che si eleva dai patimenti e, assieme, nella rigenerazione dell’ente, che, quindi, inizia ad imparare a sperare. Si raggiungono così alte “temperature di fede” e poderose descrizioni dette nella poesia della renovatio. Ed è, appunto, nella distanza, che sempre più va “ingrandendosi” rispetto all’Inferno e sempre più “diminuendosi” nei confronti del Paradiso, che il poeta fissa maggiormente il proprio sguardo. E, a nostro avviso, immergendosi in questo specifico tratto della peregrinatio, Dante misura i divari smontando, in un secondo momento, le vicinanze, per cui, in ultimo,
21 Erminia Ardissino, Il cammino ‘al fine di tutt’i disii’, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., p. 53.
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possiamo affermare come l’Eden sia da ritenere spartiacque etico-teologico-ritmico, così vogliamo definirlo, della tensione salvifica del poeta. La serena aura orante, succedutasi con maggiore incisività nella mente del lettore dopo il passaggio dal Letè e dall’Eunoè22 da parte di Dante, il quale purificatosi dalla memorialità di non essere nella grazia, cancellata la colpa nella sopravvivenza dell’ammissione dell’errore, restituisce all’io la biografia intatta del proprio parto: essere creatura di Dio. E il richiamo specifico alla Rivelazione, protagonista della redenzione dell’io, mediante il segno-simbolo-figura, ossia Beatrice-Grifone-Cristo, dona nella poesia l’uomo educato a vedere ed ascoltare il senso per il quale è dopo l’esilio dall’Eden: il libero arbitrio. E riconoscere nell’esilio fisico il correlativo dell’esilio spirituale. 23
22 Su Letè e Unoè cfr. rispettivamente le voci Letè di Pietro Mazzamuto, in DanteEnciclopedia dantesca, cit., vol. III, pp.629-630 e Eunoè di Vittorio Russo, in ivi, vol. II, pp.765-766. 23 «Il pellegrino al termine del suo itinerario penitenziale ha ormai riconquistato integralmente l’uso del libero arbitrio […] che lo guida naturalmente all’ultima e più intensa stazione dell’esperienza purgatoriale: Virgilio e Stazio sono ancora con lui, ma la loro presenza riacquisterà spessore solo […] nel sorriso di compiacimento con cui accolgono le parole di Matelda sul potere concesso ai poeti di divinare le grandi verità di fede. […]. Il lettore della Commedia deve dal canto suo annotare che le linee entro cui si inscrive il tracciato dell’Eden dantesco non hanno più niente dell’ingenuo affastellarsi di colori e di presenze esotiche, su cui la minuziosità descrittiva delle visioni medievali si era esercitata fino alla banalizzazione. In Dante ‘le parole sembrano essere [scrive Quaglio nel suo esame al canto XXVIII del Purgatorio] le impronte stesse delle cose; figure di sigillo’. […] la dottrina è tutta assorbita nelle immagini, e solo nel momento in cui ci inoltriamo nella ‘divina foresta’ ci accorgiamo fino a che punto la rigorosa mente ordinatrice di Dante ha saputo sistemare in precise simmetrie motivi e spunti di una non lineare tradizione teologica sul Purgatorio […]. La montagna dell’Eden che si innalza nell’emisfero opposto a quello abitato e alla sua cima si accede dopo aver espiato la disposizione al male attraverso le balze del Purgtorio sottostante è il risultato della definitiva fusione dei due luoghi in un unico blocco. Riacquistata l’innocenza perduta, l’uomo ritorna degno dell’antica sede mediante il battesimo del fuoco, simboleggiata dalla spada fiammeggiante del Cherubino posto a guardia del Paradiso terrestre e che nella riflessione degli esegeti del testo sacro si era progressivamente trasformato nel fuoco del Purgatorio. […] [Ed ecco] L’incontro con Matelda: apparizione improvvisa in un contrasto di eterna primavera, vibrata sul ricordo di antiche tradizioni fiorentine [secondo Francesco da Buti] […] quasi materializzate mediante il ricorso a un intarsio lessicale di scoperta derivazione cavalcantiana che pare dar corpo a una visione femminile già predisposta alla gioia del possesso […]. Il ritratto si va costruendo poco alla volta: il poeta percepisce sulle prime la bellezza della donna come qualcosa di armoniosa-
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Nella figura di Matelda il poeta abbraccia traumaticamente “l’esegesi poematica” della transumptio per la quale, individuando nel sintagma forma-sostanza il sistema primigenio dell’ente-uomo posto direttamente da Dio dal nulla all’essere, espone il significato stesso della vita e la modalità dell’esistenza da vivere non come i progenitori, ma come Colei che ha redento l’antica Eva. E dopo aver attraversato le fiamme, il poeta entra nel Paradiso terrestre: proprio il passaggio nella fiamma, indicante il superamento-purgazione della colpa, che nelle figure bibliche di Lia e di Rachele, prefigurazioni (simboli nel simbolo) di Matelda e Beatrice, apre alla gestazione verginale dell’Auctor-Agens in Maria. Se Ella è infatti la figura-persona che più di tutte espone matericamente la Revelatio, Dante, ri-battezzato e riconfermato con l’acqua e con il fuoco, ritorna nel sigillo virgineo di Maria. Nella placenta della nuova Eva, come tutti i redenti, predisposto, quindi, tramite la connessione dell’amore purgato a vedere le stelle. E non altrimenti l’ultimo tratto purgatoriale potrebbe essere inteso, se non entro l’applicazione di un agieren cantato attraverso i sacramentali: confessione e battesimo, che verranno ripetuti definitivamente nel terzo regno e concessi mediante la rivisitazione (la suddetta connessione) dell’a-
mente inserito nella bellezza perfetta del luogo […]. Un movimento di danza colto su un fondale che ha la vivida freschezza di una antica pagina miniata; una sequenza rallentata […] che lascia tempo al poeta e a noi di cogliere ‘questo ideale gotico [scrive Assunto] di una bellezza muliebre flessuosa e aggraziata’ tutta raccolta in una cifra di pudore reso in immagine dallo sguardo abbassato, fino a che il canto, dapprima percepito come musica indistinta, si rivela nel suo significato. Solo a questo punto l’incontro trova il definitivo coronamento nell’incrociarsi degli sguardi. Dall’altra riva del fiume Dante rimane come folgorato […] il Paradiso terrestre era stato creato quale dimora perfetta per una umanità perfetta al momento della caduta […] [e] mentre dalla tradizione classica Dante attingeva il nome del Leté, rendendone in certo senso poù selettiva la qualità delle acque, che presso gli autori classici hanno il potere di cancellare ogni forma di memoria e qui invece cancellano solo la memoria del male compiuto; di conio esclusivamente dantesco è il nome di Eunoè, le cui acque attivano la memoria del bene» (Tobia R. Toscano, Canto XXVIII, in Lectura Dantis Neapolitana – Purgatorio, cit., pp. 534-543). Cfr. sulla relazione ampia tra Dante poeta del “mondo eterno” e poeta della “terra” all’interno di una vasta bibliografia relata anche all’aspetto politologicobiografico e del periodo in cui il Fiorentino opera Gino Tellini, Dante Alighieri. Il poeta-giudice nella prospettiva dell’eterno, in Idem, La letteratura italiana. Un metodo di studio, Firenze, Le Monnier Università-Mondadori Education, 2011, pp. 18-41.
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more carneo per le donne incontrate, e che portano la memoria-sigillo della cristofora: Maria. E, dunque, l’opera mariana di sollecitazione sempre operante per la salvezza del poeta-pellegrino è tramata dalla costante diade Luce-Profezia. Luce, che è intesa nel fulgore penitenziale; ed il richiamo implicito al “Contenente Santo” dal quale la Luce è sgorgata al mondo attiva il processo mimetico funzionale a designarte la natura poetica della figura mariana, svelante la Persona (maschera-velamen che indica la Sua sostanza) dentro i connotati biografici, e più ancora oranti della Madonna. Il poeta appronta una serie di passaggi che esprimono l’assunzione graduale alla Luce-Bellezza entro il rapporto educato dall’esegesi dei Padri di gradatio, appunto, ascensionale. E che designa analogicamente, secondo la lettura del Singleton, la figura quale anagogica applicazione del Vero. E l’oggetto-figura esposto nel verso significa l’esperienza primaria del linguaggio poetico dantesco, rilevante l’implicito significato da trasmettere al lettore: Dante, nell’Eden, posto per la prima volta davanti alle immagini di un’immagine e al nuovo linguaggio del divino, non può fare altro che ripetere ciò che vede, citando come supporto le due visioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, quella di Ezechiele e di Giovanni, ma trattandosi di ineffabili cose ‘forti a pensar’ non sa descrivere come esse si formino e da dove provengano, se non, appunto da Oriente, là dove sorge il Sole, la stella che riflette l’immagine del Dio invisibile. Dante a questo punto sa che specchio e visione sono due parole inscindibili e concentra in questi canti edenici una serie di messaggi che confermano la tecnica della speculazione, in senso etimologico e altro. Chiedevo […] a Singleton di affiancare alla prospettiva letterale, figurale, allegorica, anche quella dell’analogia entis, tipica della letteratura patristica e scolastica, poiché il poeta, giunto a questo stadio del suo viaggio, per descrivere le visioni e ripetere le parole volute dalla luce di Dio, si avvale soprattutto di immagini analoghe per via di rifrazioni speculari. […]. O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta 115
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e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso (Par. XXXIII, 124-128). Si trattava di mettere in piena luce un trattato che Singleton, nel suo Saggio sulla Vita Nuova, aveva tenuto in considerazione soprattutto per spiegare perché Beatrice era figura analoga di Cristo. Analogia, aveva scritto che lungi dall’essere un sacrilegio era piuttosto ad majorem Dei gloriam. Ma anche nel capitolo del Viaggio a Beatrice dedicato a Matelda, Singleton specificava che il termine ‘figura’ da lui adottato in questo contesto andava interpretato nel senso dell’agostiniano significandi gratia, dimostrando che le cose dell’Eden esistono per ‘il significato che esprimono’. Il [linguaggio-specchio della Bellezza-Verità divina] di Dante nell’Eden […] [è] proprio il riflettersi delle parole come se fossero immagini che brillano su una superficie specchiante. […] [Dante] comincia ad assaporare un’anticipazione e una ‘primizia’ al manifestarsi della sua mediatrice per eccellenza […] E la figura di Matelda, anticipatrice, ‘primizia’, ‘arra’ di Beatrice è costantemente legata al ‘rio’ […]. [E] La bella donna deve immergere Dante proprio nelle acque […] affinché possa affiancarsi alla vera mediatrice, che dovrà condurlo nel luogo della rifrazione per eccellenza. […]. Anche il Letè e l’Eunoè […] diventano il segno […] della realtà sacra e dell’artificio letterario [purificazione fisico-metafisica], dell’invenzione e della funzione poetica [appunto] in cui il nuovo discorso si compie. 24
Dante attua la riconciliazione tra sé e il vero amore, comprendendo l’errore di aver idolatrato la conoscenza non vera, quindi falsa, quale accumulo di smisurata egologia. In questo contesto non solo metafisico-morale, ma anche etico-politico si disvela la profonda esposizione del canto nell’inveramento della profezia (alla quale facevamo cenno) che il poeta conia per la Chiesa: comunità dei credenti.
24 Giovanni Ioli, Con Matelda nel Maryland: a colloquio con Charles Singleton, in Letture Classensi, Ciclo curato da Antony Oldcorn, volume 18, Ravenna, Longo, 1989, pp. 147-160.
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Particolarmente, nella Commedia il discorso ontologicamente delineato si muove nel recinto della morale civile-politica. E nella sempre ricercata palingenesi dei costumi e dell’anima che deliberatamente attua la congiunzione tra cielo e terra. Alla superbia luciferina, ossia alla cancellazione della libertà per guadagnare il posto di Dio da parte del principe degli angeli ribelli, il moto del recupero della memoria profonda, quale attuazione dell’io all’Origo, si oppone la dimensione del perdono in cui avviene il discorso evangelico. Anticipazione e ad un tempo scioglimento della parusia del Logos, e che Dante espone mediante l’umbra futurorum della figura, che è la figura stessa. Dal canto XXIX al canto XXXIII una inarrestabile sequenza di rapporti (tra umano e divino, segni-fatti, immagini-sostanze e immagini-figure, cose-fatti e pensieri-canto) muove a creare la riproduzione versificatoria addirittura dell’avvento-epifanizzazione del Cristo e di Beatrice all’interno di quello che può essere definito il “sacramentale della penitenza”. E quest’ultimo, mediante il dialogo-battaglia tra il poeta, Beatrice, il lettore e Dio stesso, seguendo la procedura della contritio cordis e della confessio oris dell’Auctor-Agens, attiva ancor più sottilmente la presentazione poematica dell’umbra futurorum. Dante porgendoci tale rilievo tramato col canto espone la storia del proprio peccato e quella dell’umanità. E accediamo, così, alla ricapitolazione della vicenda del poeta e alla relazione-differenza, già esposta dai Padri della Chiesa, in particolare Sant’Agostino, tra res e signum, detti mediante l’esplicazioni degli eventi, che si mostrano corpolariter, ma che dicono la realtà spiritaliter. 25 Da ciò si comprende come Dante non possa che costituire un unico discorso tra la propria vicenda personale e quella “generale”, tra l’ambiente politico e la condizione spirituale, anzi tra la safera religiosa e quella mondana. L’invettiva contro la corruzione e il modello dell’accusa inve-
25 Dante impiega la procedura esponente i signa e res e signa-signum/corporaliter e signasignum spiritualiter riprendendo tale pratica soprattutto da Sant’Agostino. Azione semanticolirica, questa, che apre in Dante alla comprensione segnica del metaforisma e fa accedere la prece alla costituzione della propria pratica liturgica, quale pre-figurazione visibile “dell’invisibile intendimento spirituale”, che agisce matericamente tramite figura completa come umbra di cose già avvenute e di fatto da compiersi nella futurità che in Dio è già tutta sciolta: cfr. Lucia Ricci Battaglia, Polisemicità e struttura della ‘Commedia’, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLII (1975), 2, pp. 161-198.
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stono inevitabilmente la vicenda dell’Exul inmeritus. E la peregrinatio va connotandosi della ricchezza sgorgata dalla congiuntura tra lamentazione-giudizio-condanna e atto compassionevole. Processo, questo, in cui Dante è inserito contemporaneamente da AuctorAgens nei diversi piani-ruoli. Ed è proprio l’ultima stazione purgatoriale a far emergere la realtà carnea e metafisica del viaggio-canto e del viaggiatore-poeta- exul, per ritrovare la sede perduta, come scrive Luzi: nel Purgatorio si attuano per coincidenza le due condizioni essenziali: quelle della perdita e del rimpianto e quella dell’esclusione del sommo gaudio. Progressivamente le anime si spostano dalla prima alla seconda, il primo senso di sradicamento cede al desiderio e all’attesa; l’allora è offuscato e cancellato dal non ancora. Sublime e umanissimo paradigma di quello che fu l’esperienza politica, morale e teologale dell’esilio per Dante: un uomo che come i suoi coevi aveva implicito il valore materiale ed etico della sede, dell’ubicamento civile: e come gli altri intellettuali formati nella dottrina tomistica aveva dello stesso soprannaturale una visione insediata. Bisogna, credo, tener presente questa sostanziale premessa per misurare il valore dello sconvolgimento e del superiore ritrovamento che l’esperienza dell’esilio ha riservato per Dante; e per meditare convenientemente sulla forza di rivelazione che egli vi ha scorto fino ad assumerla a immagine e a interpretazione totale del destino terreno e ultraterreno dell’uomo. 26
L’invettiva contro il “bell’ovile” (soprattutto verso il potere politico) e verso il clero corrotto è motivo cadenzato in tutte e tre le cantiche: il concetto politico, che affonda le proprie motivazioni nella libertà dell’ente di decidere, viene da Dante istruito entro parametri funzionali alla profonda scelta coraggiosa di un pensiero-azione concepito, esposto ed attuato in virtù della salute comunitaria. Dall’Infeno al Paradiso vengono dichiarati i motivi della condanna e
26 Mario Luzi, L’esilio, Dante, la poesia, in Idem, Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, pp. 207-208.
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dell’esilio, e si indicano fatti e persone-personaggi relati alla corruzione e al disfacimento dei costumi. Come pure all’implicita e spesso esplicita richiesta da parte dell’Auctor-Agens di rivelare al lettore il perché dell’accanimento, dentro l’evidente discorso-motivo politologico, della sua cacciata dalla città amata e dell’ostilità oltraggiosa verso la sua persona. Da ciò l’intensificazione della “figura” del poeta che ingloba quella del profeta. Ma una ben più articolata esposizione viene maturandosi proprio nell’ampio allestimento del Paradiso Terreste in cui Dante raccoglie, formula e proietta il nesso semantico sacrale tra creazione di Adamo, degenerazione dell’uomo, generazione della sposa-chiesa, morte del Cristo, Sua resurrezione, depravazione della Chiesa con il potere temporale, edificazione nella nuova Eva-Chiesa e del nuovo Adamo-Cristo ed, infine, ricostruzione corporale e spirituale dell’uomo esule nella valle di lacrime verso la Gerusalemme celeste. Il Singleton rileggendo acutamente la figura di Matelda e ricollegandola tanto alla modalità esecutoria estratta dalla verità-giustizia propria della Scrittura (per la quale il Paradiso terrestre venne creato appositamente per i progenitori, i giusti, prima della cacciata, avvenuta a seguito dell’in-giustizia contro il Creatore) e della tradizione classica (per la quale il critico si è connesso giustamente, all’interno dell’esegesi dantesca di secoli, al mito dell’età dell’oro) propone uno stretto legame con la figura della Giustizia-valore con il processo perdita/ri-acquisizione di quest’ultima da parte dell’uomo. E Matelda sarebbe personificazione memoriale della Giustizia “vera e giusta” e rimando alla volontà di Dio, quando i suoi tratti svelano il mito della divinità pagana di Astrea. Ma non solo, l’accostamento a queste evidenti modalità di richiamo trovano nel concetto di giustizia umana, collegata sia alla salute (sofferenza e salvezza) del poeta, exul immeritus, sia alla salute pubblica, una ulteriore applicazione, che, quindi, prosegue il Singleton, dichiarano “la lezione” prettamente politologica del De Monarchia. Purgata, tuttavia, dall’ascesi nell’umiltà intercettata dal cantore: nell’oltrepassamento poetico dall’amore-reos all’amore-agape prettamente metafisico. E nella “congiunzione” esposta dal sintagma giustizia-mansuetudine trova compimento l’intero sistema poetico-profetico dantesco: Matelda si è presa cura di spiegare diffusamente che il luogo che si offre alla […] vista [dei tre poeti: Virgilio, Stazio e Dante, Purg. canto XXVIII vv. 94-95] è l’Eden, il Paradiso creato per l’uomo 119
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[…] le sue [successive] parole [Purg. canto XXVIII vv. 134-148] affermano […] una relazione, come una specie di corrispondenza tra il racconto datoci dalla Genesi (che è la verità) di un ‘primo tempo’ trascorso nell’Eden e il sogno di un’età dell’oro fatto da ‘quelli ch’anticamente poetarono’. […]. L’affermazione di una certa corrispondenza tra quanto è ‘sogno di poeti’, da un lato, e la verità biblica, dall’altro, è una caratteristica del poema con cui il lettore si è ormai senza dubbio familiarizzato quando arriva agli ultimi canti del Purgatorio. […]. Quando […] osserviamo [Matelda] muoversi leggiadramente per il giardino sulla cima del monte e ascoltiamo la sua spiegazione, apprendiamo che questo è proprio il luogo che era stato dato all’uomo come ‘arra’ della vita di pace che sarebbe dovuta durare in eterno. Intanto, lì ci sono due poeti dell’antichità, uno cristiano e l’altro pagano: è a loro che Matelda rivolge ciò che ‘oltre promession … si spazia’, e ipso facto un ponte è gettato tra il loro antico sogno di un’età aurea di innocenza e la vera realtà della Bibbia, che ora si offre alla loro vista. Ora essi sanno che il loro sogno era ‘verace’, poiché era andato straordinariamente vicino alla verità. Matelda sta dicendo che tra il loro sogno e la realtà che possono contemplare ora c’è una singolare corrispondenza – una corrispondenza che li fa ridere quando la scorgono. […]. Non avremo forse dimenticato […] un elemento essenziale di quel ‘sogno di poeti’ riguardante un’età d’innocenza e il primo tempo dell’umanità? Mi riferisco al moto di una fanciulla chiamata Astrea (ma anche Giustizia), che, pur essendo una divinità, aveva vissuto tra i primi uomini, prima che essi si corrompessero. Astrea era nota anche come Virgo e poteva avere entrambi i nomi poiché divenne la costellazione del firmamento così chiamata. Era dunque una ‘fanciulla-stella’. La figura di Virgo non sarà certo facilmente dimenticabile dai lettori della Commedia, il suo ricordo essendo per sempre scolpito nella quarta Ecloga di Virgilio che tanto valore ha per la struttura del poema. I famosi esametri profetici in essa contenuti diventano infatti versi in terza rima in quel passo del Purgatorio in cui Stazio, che si è unito ai due pellegrini, narra come avvenne la sua conversione al cristianesimo. Letti quei versi, egli dichiara a Virgilio, compresi che il loro vero messaggio era una profezia dell’Avvento di Cristo: 120
Capitolo III - La ‘sollecitazione lirica’ di Maria
quando dicesti: ‘Secol si rinnova, torna giustizia e primo tempo umano, e progenïe scende dal ciel nova’ (Purgatorio, XXII, 70-72). 27
Se il Singleton riferisce, dunque, il mito suddetto, ripreso anche da Ovidio (il quale ne conosceva la versione greca del racconto, come pure Cicerone, che aveva tradotto il poema greco di Arato: Phaenomena) e da Arato, nonché da Lattanzio in riferimento alla Giustizia nel suo Divinae Institutiones, collegando all’età dell’oro l’epoca in cui la Giustizia era allacciata al mito della Virgo, la Vergine Astrea, quale collegamento tra Maria e la Virgo-Giustizia non sembra per il momento essere plausibile. Invero, prosegue con sottigliezza ermeneutica il critico americano: La presenza tra gli uomini della vergine Astrea in una primitiva epoca aurea tendeva a fare di tutto il mito di quell’età un mito della Giustizia. Di una giustizia originale, prevalsa un tempo e poi perduta […]. E Virgilio scrisse: Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; iam nova progenies caelo demittitur alto (Ecloga IV, 5-7). […]. I pagani potevano quindi pensare al mito di Virgo, ma i Cristiani avevano anche la Genesi per sapere che cosa dovesse essere in realtà l’età dell’oro, se erano abbastanza perspicaci da rilevare gli evidenti punti di corrispondenza tra i sogni dei poeti e la verità della Scrittura e della storia, e solo che ricordassero quanto avevano sentito dire circa l’avvento di un secondo Adamo. Fa meraviglia, piuttosto, che mentre le parole ‘nova progenies’ furono intese riferite a Cristo, ‘Virgo’ del verso precedente non fu presa a significare la Vergine Maria. A dire il vero ciò avvenne: lo stesso Imperatore
27 Charles S. Singleton, Virgo ovvero la giustizia, in Idem, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 342-345.
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Costantino intendeva così la profezia. Ma la sua restò l’interpretazione della minoranza, se va dato credito alle testimonianze che abbiamo. […]. Ma di una cosa tutta la teologia cristiana era sicura: Adamo ed Eva, nella loro ‘età dell’oro’, possedevano la giustizia originale. E quando peccarono disobbedendo a Dio, la cosa che perdettero immediatamente, come giusto castigo di quel primo peccato, fu proprio la condizione di giustizia in cui erano stati creati, nota perciò in teologia con il nome di giustizia originale. […]. 28
Tuttavia, l’esegesi riferentesi a Virgo-Vergine-Giustizia-Maria, se, da un lato, appare assai improbabile, come già riportato, frutto di una riduttiva suggestione “pseudo-nominalistica”, e giustamente, come sottolinea Ettore Paratore, «Dante si trova ben lontano dai molti che nel Medioevo vollero scorgere in Virgilio quasi un consapevole profeta del Cristianesimo […] iam redit et Virgo non è affatto interpretato come preannuncio della Vergine Maria». 29 Dall’altra parte, ricollegando Matelda, quale grazia annunciante la figura della Giustizia, che è Cristo, “sapienza di Dio e potenza di Dio”, e indicante quale donna del cielo parte della numinosità del Contenente del Cristo, alla figurazione esplicita di Maria, nell’Eden, non stupisce che la Giustizia terrena, che si è attuata solo per la Virgo-Maria, la stella più luminosa del firmamento, sia stata formulata in un preciso rapporto poetico, che, quindi, non appare poi del tutto infondato. Maria avrebbe dovuto in sé assommare, e così avvenne, la perfezione umana dei progenitori prima della cacciata, superandoli in Giustizia. E addirittura Dio stesso, il quale si è abbassato a diventare nel Figlio il figlio dell’uomo, il figlio d’Adamo, è divenuto per Maria carne di peccato e di riscatto. E Maria supera nel vincolo tutto speciale di grazia, riservato solo a Lei, l’opzione figurale-lirica della Donna benedetta e delle Donne del cielo, ponendosi nella discrezione dell’impiego del suo operare come garanzia ineludibile che il “viaggio giusto” si sarebbe dovuto compiere per Lei e giungere in Lei a dischiudere la Verità. Ella nel tempo dell’Impero ha partorito carnalmente la Giustizia ri-
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Ivi, pp. 349-351. Ettore Paratore, Canto XXII, in Lectura Dantis Neapolitana –Purgatorio, cit., p. 442.
Capitolo III - La ‘sollecitazione lirica’ di Maria
ordinando l’antico patto scomposto con la cacciata dal Giardino. E per la particolare e tutta speciale applicazione poematica relata al paradosso, anche qui Dante applica la drammatica inversione dell’assurdo, proprio del dramma-commedia: descrive il sorriso dei poeti per designare l’accoglimento prefigurativo, che di lì a poco si sarebbe sciolto con il carro e Beatrice, del Cristo e di Maria ascendenti dal luogo perfetto dell’uomo prima della colpa verso la sede del Figlio, alla destra del Padre. E il poeta sposta di continuo, e così anche nel Paradiso, la focalizzazione diretta sulla Madre, non solo per non implicare la Tutta Santa in diretta esposizione, quasi un rispettoso non coinvolgimento della Madonna, che sarebbe posta in stretto rapporto con Dante e con avvenimenti troppo terreni, e, tuttavia, non in modalità simile rispetto al non coinvolgimento della Madre nel primo regno. Piuttosto, un graduale avvicinamento liricofigurale verso il disvelamento di Maria dopo l’eplicazione versificatoria nei ritrovati del sonno e dell’estasi hanno introdotto la sua persona-figura con strategie narrative operanti possibilità di accostare significativamente per immagini sfere che fino a questo punto del poema sarebbero pasre impervie e astruse: illeggibili: moto pagano-storia cristiana. Una siffatta motivazione-spiegazione, se può apparire in parte riduttiva e quasi frutto, lo ribadiamo, di “infantile venerazione-rispetto”, che se così fosse ingenererebbe un feticcio, e, dunque, una poesia retta da superstizioni paganeggianti, e, di per sé incaute rilevazioni della ratio poematica, che è, invece, assai profonda e abilmente indotta della Commedia, rivelerebbe una giustificazione, appunto, ristretta e addirittura improponibile, se non fosse anch’essa individuata nell’azione procedurale del citato paradosso lirico. Il quale è in fondo il grande scandalo dell’annuncio evangelico. Nella sovrapposizione-intersezione dei piani per i quali si presenta: divino e umano. Ed è proprio la figura-persona di Maria ad essere preservata nel verso, così nell’attuazione evangelica, e nella sua prefigurazione detta nell’Antico Testamento, a garanzia della sua costante presenza. Quasi a indicare nella velatura-non esplicita presenza l’incessante operazione della Corredentrice. Ponendo mente all’attuazione già richiamata dell’esodo e del ritorno in patria del poeta-pellegrino, ecco che il ventre-Maria è, così, l’accoglimento-ritorno all’origine nella giustezza della prima creazione. E non a caso, ad inizio del percorso verso la prima patria, il Paradiso terrestre, conducente alla Patria celeste, il poeta ode il canto Salve Regina intonata dalle anime peregrinanti. E l’invocatio a Maria diventa la chiave di volta per capire come Dante possa su123
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perare l’afflizione per l’ingiustizia verso il suo esilio-ingiusto. E nel contempo redimersi in quanto peccatore come tutti gli uomini e guadagnare la scelta del ritorno non più nella valle di lacrime ma nel seno della Vergine Maria. E l’Exul immeritus non solo concepisce per la poesia l’allontanamento dal bell’ovile quale prova e quale risvolto comunque del peccato d’essere frale, ma anche come garanzia verso la scelta d’essere liberi di decidere nella colpa di abbracciare la grazia, che è Giustizia. Ed in Maria la Chiesa, sposa di Cristo, ritorna quale rinnovata-purificata figlia, che si presenta assieme, come nel Cantico dei Cantici, allo sposo nella perfetta adesione al patto nuziale del “venire incontro” entro l’irrefrenabile dialogicità dei coniugi. In questo senso la “Luce-suono” del XXIX canto (unitamente al sorriso di Matelda, canto XXVIII) indica il ritorno alla considerazione sulla trascendenza dell’ente-uomo, per cui Maria mostra la purezza carnea e spirituale della giustezza che l’Exul immeritus deve conquistare rinnovando in humilitas i costumi interiori ed esteriori e porgendoli profeticamente all’umanità nel canto: il salmo Delectasti dovrebbe ‘disnebbiar’ la nostra mente: come il Salmista, così anche Matelda si rallegra nelle opere di Dio, e il suo canto è un canto di lode di Lui. […]. L’amore è un’operazione dell’anima umana. La carità è retto amore, retta disposizione della volontà in vista del fine, che per l’uomo è Dio. […] l’amore di Matelda, evidente fin dal primo istante, trova il nome che gli spetta: amore di carità, che è amore di Dio sopra ogni cosa: e con ciò ella rappresenta lo stato originale dell’uomo in quello che ne era il più importante elemento costitutivo […] ella esemplifica la natura umana quale fu prima del peccato e come sarebbe continuata ad essere se il peccato non fosse stato commesso. […] L’amore di cui si è subito acceso Dante alla vista di Matelda è […] come quello di Leandro per la sua amata […] [e Dante avendo superato il fuoco che arde il desiderio carnale indica l’amore perfetto e non più quello fisico, e Matelda è] la perfezione naturale di cui l’uomo godette prima della caduta. 30
30 Charles S. Singleton, Matelda, in Idem, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 362-375. Su Mateda e sull’allestimento del Parasdiso Terrestre cfr. Aldo Coppa, L’eden
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E Maria preannunciata da Matelda ne vivifica la concreta ratio poetologica: la nuova Madre dell’umanità redenta in Cristo. E l’esilio in Egitto della Famiglia Santa prefigurato e in parte scioltosi, umbra futurorum, già in parte scioltosi nell’Esilio-Esodo del popolo Ebraico (così Dante, pur se su piani differenti), inevitabilmente espone il verso alla gestazione della pericope neo e veterotestamentaria verso la Terra promessa: la Gerusalemme celeste. La quale nel canto va identificandosi nell’anticipazione significativamente figurativa quale Terra-Madre, così l’Auerbach: il Purgatorio è un luogo dove, in speranza e aspirazione se non di fatto, si compie un movimento progressivo verso una ‘terra promessa’, e si ha sempre la sensazione che tale movimento abbia un carattere collettivo: interi gruppi di anime diventano pellegrini, insieme a Dante e Virgilio. È dentro i confini di quel settore che abbiamo finito di chiamare antipurgatorio che tale senso di moto progressivo è più intenso – e c’è poco da stupirsi, poiché è proprio questo il settore in cui l’Esodo è l’immagine regolatrice e dominante, in cui l’Esodo (simbolicamente) si ripete […]. […] [ad esempio] nell’Antipurgatorio, ancorché sopraggiungano le ‘tentazioni’, c’è un effettivo progresso verso le ‘promesse’ [ed ecco tra le tentazioni] veder affiorare in modo ancor più cospicuo la figura dell’Esodo quando l’ ‘antico avversario’, il serpente, viene dalle anime raccolte nella valletta dei principi. Al cader della sera, le molte anime che siedono sul ‘verde smalto’ cantano il Salve Regina, un inno quanto mai intonato all’ora […] quel canto non è altro che una preghiera rivolta a Maria dagli ‘esuli figli di Eva’ che ancora dimorano ‘in questa valle di lacrime’. Poco dopo nella crescente oscurità, le anime cantano un altro inno, il Te dulcis ante [preghiera rivolta a Dio affinché il Diavolo non pre-
di Dante, con saggio introduttivo e a cura di Antonio D’Elia, Cosenza, Lionello Giordano, 2012. Sull’esilio e sul nesso politico-religioso, su Matelda-innocenza e Stazio-personapersonaggio “ricoverato” nella fede cfr. Andrea Battistini, L’acqua della samaritano e il fuoco del poeta (Purg. XXI-XXII) e Tra memoria e amnesia (Purg. XXXIII), in Idem, La retorica della salvezza. Studi danteschi, Bologna, il Mulino, 2016, pp. 165-195 e 197-214.
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valga nella notte] […] e ovviamente tutti hanno lo sguardo rivolto al Cielo, perché la loro è una preghiera d’aiuto dall’alto, da parte di Maria (come nel primo inno), o da parte del Signore (come in questo) […]. La protezione implorata è concessa: due angeli discendono ‘dal grembo di Maria’ e, simili a guardie o sentinelle, prendono il loro posto sui due fianchi di questo ‘essercito’ di anime. […]. La mano del Signore guida e protegge, è qui a respingere il veniente Avversario. Non così sulla scena del prologo: le fiere infatti non erano state respinte. Certo lì c’era stata una trasmissione di grazia in Cielo, da Maria a Lucia, da Lucia a Beatrice, da Beatrice a Virgilio, e con quest’ultimo era giunto l’aiuto; ma questo aiuto non può certamente paragonarsi alla discesa dei due angeli dal grembo di Maria […] l’aiuto [qui] discende direttamente da Maria. 31
31 Charles S. Singleton, ‘In exitu Israel De Aegypto’, in La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 510-514.
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Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
Capitolo IV
Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
Quale scriba Dei, Dante procede alla formazione etico-religiosa del lettore ed evidenzia, a conclusione della sua permanenza nel regno purgatoriale, nuovamente e con forza maggiore, la tensione-invischiamento tra la Chiesa ed il potere politico. E nell’immagine della ‘puttana sciolta’ e del ‘gigante’ si rovescia per breve momento versificatorio l’epifania di Matelda ponendo, però, in ultimo l’intervento della grazia ascendente al Paradiso, ed in cui proprio il “transito” da uno stile letterale e retoricamente elaborato a un linguaggio di grande densità metaforica trova il proprio emblema dal letterale ‘puttana’ [Inf.] (XVIII 133) riferito a Taide al metaforico ‘puttaneggiar coi regi’ [Inf.] (XIX 108) della Chiesa nell’interesse dei papi ruffiani. L’uso ravvicinato di puttana e puttaneggiar (il primo usato solo due altre volte, entrambe nel canto XXXII del Purgatorio per la Chiesa, il secondo un hapax), sottolinea la transizione da un puttaneggiare letterale a uno metaforico e dunque le differenze retoriche fra i canti: la narrativa schietta e semplice del canto XVIII contrasta bruscamente con la magniloquenza del XIX, un canto che contiene tre apostrofi, che invero si apre con la squillante apostrofe diretta a Simon Mago e ai suoi seguaci prostitutori de ‘le cose di Dio’ 1
Teodolinda Barolini, La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, cit., p. 115. Sulla complessa questione relativa agli stili che Dante usa e alle fonti a cui si sarebbe riferito per la loro “traduzione” una lunga e amplia esegesi si è impegnata ad individuare, non senza polemiche, volte a inverare la posizione portante dei rispettivi asserti contro quelle avversarie, i moti propulsivi delle teoresi adottate ricavabili dal testo poetico e dai riferimenti impliciti ed espliciti a cui essi si riferirebbero. In relazione ai canti XVIII e XIX è stata notata una ripresa-distacco tra modello biblico e quello pagano. Ed ancora, ripresa del modello biblico riferentesi al sermo humilis unitamente ad altro modello biblico legato, invece, alla struttura possente della parola “alta” del Testo Sacro. Una complessa ri1
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Dalla confessione del poeta mossa per tramite delle accuse di Beatrice rinveniamo l’ultimo traumatico e, nel contempo, benefico moto che introduce l’Auctor-Agens alla visione profetizzante della vera e concreta realizzazione della sposa di Cristo. E l’intera processione purgatoriale con la visione della Chiesa corrotta esprime il rovesciamento, e, quindi, la realizzazione del preconio della Chiesa celeste: sposa amata e madre incorruttibile di tutto il popolo dei credenti. E Beatrice indicherà a conclusione della liturgica operazione processionale il completo accesso da una dimensione carnale-erotico-lussuriosa e di potere materiale alla conquista metafisica-morale e politilogico-teologica di Dante cittadino della Firenze ripulita dal male e della Roma avversa all’avara Babilonia. Le figure di città con segno epifanizzante l’oltremondano rinviano evidentemente alla Grazia operante e operata e alla visione della “nuova femminilità”, che in Beatrice e per Maria espone il definitivo moto trasfigurativo della poematica amorosa dell’itinerario. Beatrice è segno-figura della Donna Santa, e riabilita il nesso Eva-maternità che proprio in Maria ha esposto il nuovo patto tra il novello Adamo, Cristo, ed il Padre. Ed ecco che si ripresenta per squadernarsi ipertroficamente il già citato problema-questione della libertà-libero arbitrio del soggetto-uomo, della persona. Riguardante evidentemente l’intera comunità degli esseri umani. Se Catone e il suo gesto estremo avevano aperto singolarmente la seconda Cantica, proprio entro un’operazione di guadagno deliberativo verso la tirannide politica e morale, indicata in Cesare, parimenti, l’oltraggio massimo verso l’io e verso il Sacro, espresso nella negazione di concedersi l’opportunità di riscatto mediante il sacrificio, ribalta quest’ultimo, appunto, in un più intenso rovesciamento del bene fondamentale (la vita stessa). Addirittura sopprimendolo, mediante il suicidio, per un fine ancora più alto: la libertà: «libertà va cercando» (Purg, I, v. 71). Non solo quella relata, da parte del soggetto agente, al motivo di gestirsi e gestire, quindi,
cognizione relata anche al processo Aquila-Carro-Chiesa e figure componenti l’allestimento processionale ha ingenerato una mole di studi a cui l’esegesi più vicina a noi ha guardato giustamente con grande interesse, non svincolandosi, tuttavia, da “nuovi” incamminamenti interpretativi, che, appunto, e giustamente, alle antiche teorie, soprattutto riguardanti il rapporto con la Bibbia, hanno dovuto rivolgersi: cfr. Peter Dronke, Le fantasmagorie nel paradiso terrestre, in Idem, Dante e le tradizioni latine medievali, cit.
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Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
il “proprio”, ma una ben più sottile rivendicazione sottende al principiolibertà di Catone. E che è il risvolto del principio stesso dell’operabilità della Grazia nel secondo Regno: il bene comunitario. Detto, quest’ultimo, attraverso il gesto di togliersi la vita, contrario in sé al volere divino, quale atto di profezia e motivo-esempio, quindi, che Dante fa assurgere a figuravirtù. Opposto, appunto, al motivo del cristianesimo, alla Persona che ha dato la vita per la libertà: Cristo. Eppure, la procedura lirica assunta dalla storia “pagana” di Catone mobilita in modo tutto proiettivo la presenzialità fattiva della figura cantata. E, quindi, l’umbra futurorum della propria avventura gestisce nella Commedia l’operabilità del guadagno supremo con il supremo sacrificio. Nella figura complessa del Catone dantesco, 2 proprio la figura-custode purgatoriale, se da un lato blocca l’atto suicida quale segno, quindi, di convinta scelta di giustizia, che solo in quel modo, e solo in quel contesto si sarebbe potuta operare, dall’altra parte, proprio la figura incipitaria con e nel modello che Dante, Auctor-Agens, osserva, diventa il monito per conseguire sì la libertà, ma assieme amplificatio dell’archetipo che struttura e sorregge la figura di Catone su quella di Cristo. Il discorso “libertà-libero arbitrio-amore”, in relazione alla succitata tirannia e all’invischiamento potere politico-Chiesa espone un più complesso procedere, che per Beatrice, somma figura del Cristo e per Maria in modalità compiuta, quale ventre purissimo e donna della libertà conquistata nell’obbedienza, diventa l’essenza stessa del principio-libertà a cui Dante si rivolge. Quel principio di libertà che pone l’ente nella condizione primigenia. E che depone l’essenza dell’uomo all’origine della propria identità: creatura di Dio. Oltre ogni ristretto moto riflessivo, volto unicamente alla sensazionalistica esegesi relata ad una specifica, modaiola prassi di overinterpretations, occorre che l’interpretazione del canto sia sempre ricollegata alla forma-contenuto e alla struttura teologico-etica che la gestiscono e che comunicano il senso intimo del poema.3
Cfr. Pompeo Giannantonio, L’elogio della libertà (Purgatorio, I), in Idem, Endiadi. Dottrina e poesia nella Divina Commedia, Torino, Genesi, 1990, pp. 135-150; Luigi Pretto, La ricerca e il senso della libertà nella Divina Commedia, in Idem, Con Dante e Cusano alla ricerca della verità, Verona, Mazziana, 2005, pp. 111-139. 3 «Uno degli usi sorprendenti dei versi di Dante è quello mostrato in un recente saggio 2
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Il legame, quindi, tra libertà e sfrenatezza, scelta di fare il bene e scelta di rivolgersi al male dentro il Mistero della creazione produce lungo la di Dennis Looney, Freedom Readers, dedicato alla modalità con cui la comunità afro-americana durante il XIX e il XX secolo ha usato la Commedia, assumendola come punto culturale e politico. Erede di un impegno di Dante in veste anti-papale, diffuso nelle Chiese Luterane e Anglicane, ma anche dell’uso che i patrioti italiani nel Risorgimento, in particolare Mazzini, avevano fatto di Dante come oppositore del potere ecclesiastico e difensore del diritto delle genti, il movimento abolizionista americano, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, assorbì il messaggio di Dante come materiale culturale europeo di cui impossessarsi per trasformarlo per le proprie esigenze sociali e politiche. Tra le prime prove vi è un poemetto di cinquantadue versi di Cordelia Ray, scrittrice afro-americana, pubblicato nel 1885, in cui Dante viene figurato come un combattente per la libertà, che difende i propri ideali e dunque è offerto a modello degli attivisti dell’abolizionismo. Si tratta ovviamente di overinterpretations che legittimamente il lettore può derivare dal poema, ma che criticamente non sono sostenibili. Anche se Dante fu in lotta contro il potere papale e politico della sua città, il messaggio liberatorio attribuito anche da generazioni recenti al suo affascinante distico ‘libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta’(Pg I, 71-2) è improprio, poiché propriamente i versi hanno un contenuto morale, spirituale e teologico, non esistenziale e politico. […]. Tuttavia, nonostante non si possano assumere queste letture come criterio interpretativo, occorre sottolineare che la libera scelta è uno dei presupposti del poema, su cui si fonda il sistema di punizioni e premi messo in scena da quel grande tribunale che è il viaggio di Dante attraverso i regni dell’oltretomba. Da questo sistema e dai pronunciamenti del trattato filosofico e di quello politico si può dedurre una visione dell’essere umano come creatura assolutamente libera nelle sue scelte. Senza libera scelta non ci sarebbe responsabilità, come è ben indicato nel terzo trattato del Convivio: ‘l’uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare’ (Cn III, IV, 6) […]. Di quale libertà s’intenda nel poema è chiaramente esplicitato in Paradiso XXXI, 85, quando Dante, al termine del viaggio, ormai diretto dall’ultima guida, san Bernardo, mosso da Beatrice a ‘terminar lo [suo] disiro’ (ivi, 65) [verso ‘la regina del ciel, (ivi, 100), Maria, e, quindi, verso la vera libertà]. Questo è anche il significato da attribuire ai versi di Purgatorio I, che indicano con chiarezza che la ricerca di Dante viator è ricerca di libertà dalla schiavitù del peccato. Nel primo canto del Purgatorio Virgilio definisce Dante, rivolgendosi al guardiano del secondo regno, come colui che ‘libertà va cercando’, e sollecita il grande Catone morale con un richiamo alla sua esperienza di lotta contro un dominio troppo forte. Il suicidio di Catone, indomito contro un tiranno, Cesare, cui non voleva sottomettersi, si può in effetti leggere come una ribellione contro un ingiusto governo, ma anche in questo caso il riferimento alla libertà va approfondito e ricondotto al suo contesto cristiano. Catone è figura Christi, perciò con il suo amore per la giustizia può essere degno custode del luogo dove la giustizia naturale è ristabilita. Quando Dante raggiunge la fine delle sette cornici purgatoriali, dopo aver ricevuto la cancellazione delle sette ‘P’, gli sarà riconosciuta proprio la riconquista della libertà dalla schiavitù del peccato. […] [Poi] Nell’Eden […] Dante troverà anzitutto Matelda, che rappresenta la sapiente letizia dell’innocente felicità originale. Convincentemente l’enigma sul nome di Matelda è stato sciolto infatti come l’anagramma o il palindromo dell’espressione Ad letam, che indica la felicità
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Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
peregrinatio l’infittirsi della stessa esposizione del Sacro, che è così promosso a dire il fondamento su cui si poggia la Verità. E la “logica salmica”, mediante la quale proprio le istanze più intime si elevano al sommo grado intensificando ritmicamente la razionalità sempre più stretta tra terra e cielo, si fa strada nella Commedia. Il Salmo è inteso quale corda sulla quale il poeta arpeggia le sue note. Un fenomeno di mimesi compositiva, quella dell’esemplare il canto sulla poesia biblica: acies mentis pre-disponente le conoscenze in un ordine che procede per tappe. Trasformando l’apprendimento intuitivo in crescente consapevolezza cerebrale, mentre i sensi acquistano funzione di ‘‘trascendentali’’, che si basano sull’investigazione della propria ratio (le ‘‘percezioni dell’anima’’), per giungere alla Verità. 4
recuperata. Matelda sarebbe la sapienza incolume dal peccato che è lì per informare il viator del senso del paradiso terrestre, il luogo dove sopravvive e si recupera la libertà dell’umana natura» (Erminia Ardissino, ‘Lo maggior don… la libertò’ Volontà e libero arbitrio, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., pp. 73-76). 4 L’aspetto stilistico del salmo (ma non solo, anche di molti altri libri dell’Antico Testamento), così come si presentava ancora ai principi del secolo scorso, veniva formato da un gioco di regole e di motivi che hanno dovuto subire obbligatorie contraintes, collegate in primo luogo alla distinzione (di assai difficile operabilità) tra diversi generi commisti. Suddivisione, questa, che non sempre è potuta avvenire per l’applicazione di canoni inadeguati, basati su criteri che hanno individuato e classificato i componimenti in due categorie: ‘‘alti’’ e ‘‘bassi’’. I primi sarebbero quelli che trattano di guerra e di preghiere maestose rivolte a Dio dai capi del popolo, e i secondi identificati in lamentazioni e composti anche per la ‘‘massa orante’’. Un attento e capillare lavoro di riorganizzazione del materiale, soprattutto nel Novecento, ha portato alla messa a punto di un sistema filologico ed ermeneutico che, pur tenendo in dovuta considerazione gli studi operati nel corso dei secoli, ha evidenziato le suddette mancanze, procedendo ad una nuova ripartizione (mediante lo studio della lingua ebraica, la considerazione dei contesti storici, le traduzioni greche e latine) il cui principio risiede nella ricostruzione del ritmo unitamente al pensiero ‘‘laico e religioso’’ che lo regge. Nei Salmi si possono distinguere, infatti, vari modi letterari e diverse istanze singole, confluiti, per scelta degli autori o per ‘‘decisione-necessità’’ degli antichi copisti, in aree semantiche che condividevano, all’interno di uno stesso componimento, temi e motivi e che per l’incuria di chi non sapeva ben intendere la sistemazione dei versi, a causa della scorretta conoscenza del referente ‘‘linguistico/metrico’’, si è verificata una doppia e spesso tripla sovrapposizione di testi. Su questo specifico argomento cfr. Klaus Seybold, Poetica dei Salmi, «Studi poetologici sull’Antico Testamento», I, ed. it. a cura di Davide Astori, Brescia, Paideia Editrice, 2007 e Gianfranco Ravasi, Introduzione a ‘‘Lungo i fiumi...’’ – I Salmi, traduzione poetica e commento a cura di David Maria Turoldo, Gianfranco Ravasi, Cinisello Balsamo (Milano), Ed. San Paolo, 2003. Per un’ampia e, assieme, profonda sintesi
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Dante, che raccoglie la tadizione e la conosce nel mentre la esamina nella versione latina, utilizza operativamente il Salterio, che egli definisce «teodia» (Par., XXV v. 73), divenendo quest’ultimo «percorso privilegiato», scrive Ravasi, per la struttura interna del poema. 5
inerente la “lettura” dell’esegesi scritturale e di quella prettamente poetico-letteraria, anche o soprattutto nel Novecento rinviamo alle ‘‘norme’’ intepretative riportate da Bianco nel suo particolareggiato lavoro: Franco Bianco, L’interpretazione della Scrittura nel Giudaismo, nella Patristica e nella Scolastica, in Idem, Introduzione all’ermeneutica, Roma-Bari, Laterza & Figli, 2002, pp. 21-43. 5 «È indubbio […] il rimando a quel grande codice della civiltà medievale che è la Bibbia e questa indagine che è stata oggetto di particolare solerzia in passato merita sempre un approfondimento soprattutto in sede ermeneutica, andando oltre le mere rivelazioni statistiche e testuali. Rimane, tuttavia, interessante anche l’elaborazione di una recensione sistematica del palinsesto scritturistico sotteso al canto poetico dantesco sia nelle citazioni dirette, sia nella allusioni esplicite, sia negli ammiccamenti lessicali e simbolici. […]. Certo è che Dante, nella linea di tutti gli autori medievali, ha come testo di riferimento la Vulgata, probabilmente nella tipologia allora comune del codice Parisiensis […]. Il Salterio costituisce uno dei libri antico testamentari capitali nella tradizione cristiana, sia a livello poetico, sia in ambito teologico e mitico. Come affermava enfaticamente San Girolamo, ‘Davide è il nostro Simonide, il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Flacco, il nostro Catullo. È la lira che canta Cristo!’. Agostino, invece, esclamava: Psalterium meum, gaudium meum! Non si deve dimenticare che nelle circa 60.000 citazioni bibliche presenti nelle opere del celebre Padre della Chiesa, 20.000 appartengono all’Antico Testamento e di esse ben 11.500 sono dei Salmi, il libro sacro più citato dopo i Vangeli. […] Dante è conquistato dalla ‘salmodia’ (Purgatorio, XXXIII 2) che a più riprese fa cantare dai suoi personaggi, coniando per quest’opera orante un suggestivo termine: essa è una «teodia» (Par., XXV 73). Anzi egli è consapevole delle difficoltà che si interpongono nell’uso di questi cantici sia perché essi intrecciano poesia e teologia sia perché egli li accoglie attraverso una serie di mediazioni legate alle traduzioni: dall’originale ebraico al greco della versione dei Settanta fino al latino della Vulgata per approdare talora alla resa volgare. Scrive infatti nel Convivio (1 7 15), segnalando che la difficoltà di tradurre ‘ è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e di armonia; ché essi furono trasmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima trasmutazione tutta quella dolcezza venne meno’. Dell’ottantina di personaggi biblici evocati nella Divina Commedia (una sessantina dell’Antico e una ventina del Nuovo Testamento), Davide - considerato dalla tradizione l’autore del Salterio – è il più citato: egli è per antonomasia il ‘salmista’ in Purgatorio, X 65, sulla base dell’episodio della danza davanti all’arca riferita nel Secondo Libro di Samuele (6, 12-32); è il ‘cantor’ penitenziale a causa della ‘doglia del fallo’ compiuto nell’adulterio con Betsabea e dell’assassinio del marito di lei, Uria, considerato alla base del Salmo poù famoso il Miserere (Paradiso, XXXII 11-12); è il ‘cantor de lo Spirito Santo’ (Paradiso XX 38), anzi, il ‘sommo cantor del sommo duce’ (Paradiso XXV, 72). Ebbene, se si escludono poche scarne presenze di taglio allusivo nelle altre due cantiche, si può affermare che il Salterio è per eccellenza il libro del Purga-
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Maria diventa Ella stessa il Salmo6 in cui si inscrive circolarmente l’oratio-invocatio: Maria è la figura della preghiera stessa, è preghiera operante, cum festinatione, come già ricordato: è il testo in cui e su cui, quale sigillo, lo Spirito Santo imprime se stesso ed il Libro diventa Carne-Parola. Si passa mediante la Vergine da una esecuzione analogica del testo in atto ad una anagogica, e da ques’ultimo momento alla decifrazione letteraria della poesia “trasumanante”. Così Ella è in sé sigillo e spiegazione poetica nel contempo della Lettera: ossia Dante parte dalla storia per tradurre in universalizzazione lirica il compito del “Ventre Redentore”. Se Dante utilizza la mariologia nelle modalità di riprese citate, il mariale, quale ritrovato tecnico, di impianto letterario e teologico, includente e soggiacente un genere ben preciso, biografico-liturgico, assurge in poesia a figura anaforica compiuta. Stazionando nei tre regni entro la dinamicità che garantisce dalla conclusione l’operabilità del ritorno ad una continua rivisitazione, quindi, del poetapellegrino e dell’umanità, che stanno per cadere in peccato. E che, pur attraversandolo, vengono soccorsi, entro il piano redentivo del Verbo nella Storia, da Lei che ne indica altra esecuzione. Un dato, questo, incontrovertibilmente saturo della significazione per la quale la Commedia, volgendosi dal principio ad itinerario diverso da quello che il poeta sta per imboccare, e che lo condurrebbe alla perdizione completa, assume la deliberazione poematica di una libertà, appunto, che si fa alternativa ineludibile, proprio grazie a Maria. Ella essendo Madre
torio dantesco. Quello che era il testo della Chiesa orante durante il cammino nella storia diventa, così, il soggetto del canto di coloro che sono in marcia verso la purificazione e la liberazione. […] il Purgatorio rimane il luogo poetico e spirituale ove meglio risuona il canto salmico: dieci citazioni sono esplicite (una è mediata attraverso l’uso che ne fa Matteo) […] con la preminenza del […] Miserere […]. A proposito di questo Salmo penitenziale, Enrico Malato ha fatto notare suggestivamente che Miserere nel canto I dell’Inferno (v. 65) ‘è la prima parola che Dante personaggio pronuncia nel poema e sarà anche l’ultima evocata prima della sua immersione nel tripudio della candida rosa, attraverso un’allusione, nel discorso di san Bernardo, ‘al cantor [Davide] che per doglia/ del fallo disse: Miserere mei’ (Paradiso XXII 12) […] lo statuto metodologico dell’interpretazione biblica dantesca permane quello già in vigore nell’esegesi patristica» (Gianfranco Ravasi, Dante esegeta dei salmi, in Idem, I Salmi nella Divina Commedia, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 21-28). 6 Angelo Penna, Salmo, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. IV, pp. 1078-1079. Cfr. anche la voce Salmodia, senza curatore in ivi, p. 1079.
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della Chiesa, poiché madre del Cristo, geme quando la sposa del Figlio, nel tempo in cui dal di dentro è attaccata, diventa istituzione depravata. E Beatrice, figurazione della Chiesa orante e militante, viene rappresentata addolorata nel vedere la “magna meretrix”, la sua operazione lasciva. Il paragone di tale immiserimento-dolore è costruito ed è riferito nella figura della Donna benedetta all’episodio di Maria sotto la Croce. Lo strazio ed il tormento sconvolgono il poeta che vede anch’egli l’immiserimento della sposa di Cristo. E l’Auctor-Agens non ha altro riferimento da trasporre nel verso se non, appunto, il dolore più grande provato in terra. Ed il ricorso alla tradizione veterotestamentaria, sui cui quella neotestamentaria, mediante la ripresa salmica, si fonda e si completa apre ulteriormente alla mariologia il più drammatico “atto-mariale” detto in poesia. A compimento della figurazione di Beatrice, che collega il dolore di Maria a quello per la Chiesa non più povera ma corrotta nella mondanità. E, appunto, Beatrice «sospirosa e pia, / quelle ascoltava sì fatta, che poco / più a la croce si cambiò Maria» (Purg., XXXIII, vv. 4-6): «Sul Calvario, riferisce Gv 19,25, ‘stavano presso la croce di Gesù sua madre’ e altre donne. Dante rivede la scena pensando al dolore e al pianto di Maria. Le sette donne, simboleggianti le virtù teologali e le cardinali cantano il Sal 79 [78] con allusione ai mali della Chiesa. Beatrice le ode e si rattrista trascolorandosi in volto […]. In Francesco d’Assisi, afferma san Tommaso, trovò finalmente il suo fervido amante la Povertà che accompagnò Gesù fin sulla croce piangendo con lui: ‘dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce’ (Par. 11, 71-72)». 7 Tale procedura in Maria ha assunto, e nel poema continuamente va inverandosi, la successiva relazione tra il poeta e l’uomo generante con l’oratio-esemplarità la poesia dell’ineffabile. Maria è Ella stessa la Civitas in cui Dio prende dimora per fare dell’uomo il cittadino felice-perfetto: La vita di Maria, con i suoi dicta e le sue vicende, fornisce dunque a Dante gran quasi tutta la materia degli exempla contro la serie dei vizi, in una dimensione che vuol essere insieme dottrinaria, penitenziale e liturgica. […]. Tra gli appellativi di Maria […] spicca l’at-
7 Marco Adinolfi, Maria. I Personaggi neotestamentari nella ‘Commedia’, in Dante e la Bibbia, cit., pp. 140-141.
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tributo di murus; Maria è, infatti, civitas, domus, murus, fenestra, ianua. L’attributo di murus si rifà all’idea di Maria come fortezza, riparo, difesa, salvezza. Maria è la città fortificata dal muro della divina protezione […]. [Così] Riccardo di San Lorenzo: ‘Appone singulis proprias auctoritates, et hoc totum morales est’; e si direbbe che Dante nell’applicare questo canone a Maria, apponendovi i luoghi scritturali e gli exempla, non abbia fatto altro che attenersi al suo consiglio. […]. Riccardo di San Vittore […] [ricorda nel Sermo 46, In assumptione beatae Mariae] che tutto ciò che di più alto vi è in ogni creatura, si ritrova anche in grado più eminente in Maria; ed egli si accinge perciò a presentare la laus di Maria sotto l’attributo floreale della viola. E in questo contesto che viene così introdotto il canone delle sette virtù di Maria contrapposte ad altrettanti vizi. […]. Dopo Riccardo di San Vittore e Riccardo di San Lorenzo, il testo in cui si ritrova l’archetipo di Maria come specchio delle sette virtù contrapposte ai sette vizi, è lo Speculum di Corrado di Sassonia. […]. ‘In verbo’, ‘in facto’: anche agli occhi di Dante, come scrive Corrado di Sassonia, le virtù di Maria risplendono tanto nei fatti che nei detti, perché Maria è insieme un modello di locuzione e un modello di comportamento. 8
Proprio in base all’esempio della purezza umana per eccellenza, Maria, Dante istruisce il percorso di rigenerazione personale e politico-sociale, nonché ecclesiastico con la figura stessa della Purezza-persona. Non sarà allora inopportuno esporre la relazione tra Maria e la figura della Giustizia che Lei porta e comporta: Cristo, come già riferito. E più ancora, la procedura veterotestamentatia, salmica (e non solo, ma di molti altri libri della Bibbia), che fa da sfondo alla visione dell’Apocalisse giovannea. E, quindi, a Dante nell’esposizione dei phantasmata inerenti la ricreazione della visio. Le relazioni tra giustizia e “salvazione dell’anima”, all’interno del discorso sull’esilio e sulla conoscenza, e a sua volta nel rapporto Aquila imperiale e Cristo giudicante nel cielo di Giove, struttura ancor più sottilmente il processo di libertà-giustizia quale il poeta ce lo propone:
8 Bortolo Martinelli, «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco». Dante e il nome di Maria, cit., pp. 348-351.
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Il problema della giustizia trattato nel XIX del Paradiso è uno di quelli che trascendono il luogo specifico in cui vengono affrontati per investire l’intera struttura della Commedia. […] l’Aquila, simbolo temporale dell’impero, istituzione deputata all’esercizio della giustizia terrena (‘Monarcha potissime se habeat ad operationem iustitie’, prescrive perentoriamente il Monarchia I. 11, 19), e al tempo stesso espressione di Cristo giudicante, cui si deve l’assetto definitivo dell’ordine soprannaturale. Ecco perchè ‘il segno / che fè i Romani al mondo reverendi’ [Par. XIX] (vv. 101-102) corrisponde sì al ‘sacrosanto segno’ celebrato da Giustiniano nel canto VI [del Paradiso] (v. 32), ma non è più come là una vera metafora, risultando coreograficamente formato dalla realtà dei beati che sulla terra si distinsero per il loro intenso amore di giustizia e che, chiamati al Paradiso, formano un’entità celeste ed eterna. […] Fin dal primo colloquio con Virgilio l’utopia del veltro (Inf. I, 101), persecutore di ogni iniquità terrena, viene profetizzata proprio da chi nell’Ecloga IV aveva assicurato che ‘torna giustizia’ (Purg. XXII, 71). E in tutti i canti politici è sempre lo stesso, ossessivo fin da quando Ciacco viene richiesto ‘se v’è alcun giusto’(Inf. VI, 62), e Farinata maledice l’ ‘empietà’ del popolo fiorentino, tanto iniquo da promulgare pregiudizialmente ‘ciscuna sua legge’ contro i ghibellini. Nel Purgatorio Cristo, o il ‘sommo Giove’ viene poi pregato di volgere i suoi ‘giusti occhi’ alla terra (VI, 120), mentre il grifone protagonista della processione ambientata nel Paradiso terrestre insegna come ‘si conserva il seme d’ogne giusto’ (XXX, 48), amorevolmente curato anche nella terza cantica, che per un verso esalta, con l’aquila imperiale, la ‘viva giustizia’ (Par. VI, 88) e, con Cacciaguida, il popolo ‘glorioso / e giusto’ di Firenze antica (XVI, 150-151) e per un altro verso non manca di condannare i ‘regi’, deputati a esercitarla, i quali ‘son molti, e’ buon son rari’ (Par. XIII, 108). […] [Il ricorso-utilizzo delle Sacre Scritture è il mezzo primario per compiere il passaggio effettivo, ossia pratico-esistentivo in quello teoretico, e da questo nel piano poetico, da ragione a fede nell’] Aquila, per la quale le ragioni di dubbio in materia di giustificazione per fede, in sé fondate, possono essere rimosse con l’ausilio [proprio] della Sacra Scrittura. 9
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Andrea Battistini, Allusioni bibliche nel canto XIX del Paradiso, in Idem, La retorica della
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In virtù di tale passaggio, a noi sembra accada l’inveramento lirico della trasposizione del simbolo mariano della purezza-libertà-giustizia, sin dal Purgatorio, per poi realizzarsi in Paradiso significativamente in simbolosintomo di purezza-giustizia nella figura dell’Aquila. Dalla deliberazione per fede ad essere vincolati, come si è detti, alla libertà sponsale, sotto la legge, a “fiore” della realizzata giustizia, sopra la legge, nell’adempimento della Parola che significativamente Maria porta. E che, avveratasi profeticamente una volta per tutte, proprio la poesia della Commedia, ad imitazione del portato, quindi, escatologico della Scrittura Sacra, proietta nella metanoia del tempo, secondo l’indicazione dell’Apocalisse. Dunque, in tale “circolazione diegetica” osserviamo come l’umbra futurorum, attinente anche Cristo e la Madre, si realizzi poeticamente nell’esecuzione del fiat mariano e della sua pratica mariologica applicata da Dante. E il sillogizzare non attiene alla sfera unicamente filosofica, ma produce nel raffronto con la Scrittura il legame tra l’amore carneo e quello divino, tra Scrittura-Giustizia-Giustificazione-Impero-Chiesa e singolarità del cantore, che è testimone-profeta. Legame, questo, che trova entro la proposizione Cristo-Aquila-processione nell’Eden-Carro-Grifone-la magna meretrix-Beatrice, da un lato, e il canto salmico verso l’ingresso del Paradiso, che non viene indicato esplicitamente, dall’altro, il corrispettivo poematico nella figura piena della Giustizia-Impero-Chiesa-libero arbitrio in Maria. La quale è Giustizia “piena” di Cristo, che è la Giustizia in sé. Per cui il “giglio dei giusti” presentato liricamente in alta osmosi metaforizzante promuove visivamente nell’Incarnazione l’idea complessa di poesia vissuta e meditata, prima di essere cantata. Di un verso cioè intonato poiché percorso nella trama gestativa del parto dell’Exul immeritus. E che proprio per Maria fa assurgere il poema a completa figura Christi. Realizzando, appunto, il passaggio del poeta-pellegrino dalla monarchia terrena a quella celeste, dall’amore fisico alla comprensibilità dell’amore divino. Ed è nella definizione di fede che la poesia dantesca rigenera l’intero genoma della lirica europea e disegna in alta sintesi creativo-inventiva la relazione tensiva, il poieo, nella Revelatio Divinorum. Con il termine sustanza Dante intende la virtù che regola il valore di
salvezza. Studi danteschi, cit., pp. 215-220.
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chi crede, ed, assieme, espone la dimostrazione paradossalmente concreta di ciò che non si vede. In vero, occorre, a nostro avviso, allineare i termine del processo che Dante istruisce, nel canto XXIV del Paradiso, al fine di ricavarne il risultato: “fede-sostanza-cose sperate-argomento-non parventi”: separato ogni termine-sintagma, il quale è congiunto strettamente l’uno all’altro, otteniamo più stazioni in cui il poeta fedele-pellegrino si ferma e medita nella deità. Ogni parola estratta dai versi è infatti quasi una parafrasi di quella precedente, e, in successione, l’ultimo termine introdotto dalla negazione «le [cose] non parventi» dimostra l’indimostrabile, ossia acquisisce forza da una presa di posizione che è tutta coesa nella validità del sentire la sustanza non quale attributo della fede, ma coincidente con ed in essa stessa. Cosicché, la virtù-fede è la sustanza: in essa è la qualità per la quale è, e che dà vita, dunque, alla propria ratio. È la «quiditate» (ivi, vv. 66) che Dante intercetta dal proprio sentire la fede, anzi, diremmo, che ricava dalla “sua” fede. Ossia mette in mostra la qualità-sostanza recepita dalla propria esperienza, di peccatore-redento e di scriba Dei, e narra ciò che solo la Parola può testimoniare. Argomenta cioè il resoconto, mediante il canto, della propria vita: «Ritroviamo qui tutta la dottrina tradizionale della Chiesa e dei dottori del tempo di Dante, tanto che non è illegittimo scorgervi la ripresa di un insegnamento scolastico. Del resto Dante stesso paragona l’interrogatorio [colloquio: dialogo con san Pietro] a un vero e proprio esame. […]. La definizione che Dante dà della fede è tolta da Heb. 11, 1[…] ma da quello che segue sembra che Dante prenda i due termini sustanza e argomento in senso proprio, secondo un uso ormai dismesso dai teologi suoi contemporanei. Per costoro la sostanza di cui parla la Scrittura è il ‘fondamento’, e gli argomenti le prove». 10
Vincent Truijen, Fede, in Dante-Enciclopedia dantesca, cit., vol. II, pp. 820-821. Cfr. Giovanni Getto, Il canto della fede, in «Lettere italiane», 16, 1965, n. 1, pp. 1-18. Cfr. l’importante saggio di Paolo Martino, Lingua e lessico delle fede in Dante, in «Chi dite che io sia?». Dante e la fede, Atti del Convegno delle Scienze Umanistiche (Università LUMSA, Roma, 21 giugno 2013) organizzato nell’ambito del X Simposio Internazionale dei Docenti Universitari (Roma, 20-22 giugno 2013), «Le culture dinnanzi a Dio. Sfide, ricerche, prospettive. Dal Mediterraneo al mondo», Vicariato di Roma – Ufficio per la Pastorale Universitaria, a cura di Lia Fava Guzzetta e Paolo Martino, Firenze, Franco Cesati Editore, 2014, pp. 115-125. Quest’ultimo studio, «Chi dite che io sia?». Dante e la fede, è rilevatore di una importante e 10
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Dante spiega che la fede rende reale ciò in cui l’essere umano che crede spera, garantendo in se stessa la prova per la quale essa è: la fede stessa è la prova, ossia l’argomento di quello che non scorgiamo con gli occhi del corpo. Ed essa è proprio la sostanza della poetica a cui Dante approda supportato dalla speranza e dalla carità. Il processo drammatico esposto nei canti XXIV, XXV e XXVI del Paradiso è un continuum, dal quale, come già accennato, è inconcepibile staccarne una parte. A ben vedere, le virtù teologali, tutte, sono emanazione di Dio, che è Sustanza per antonomasia. E pertanto, definire, se non in legame di reciprocità, con esattezza raziocinante, la fede, ed anche la speranza e la carità, al di là dell’esemplarità dei loro effetti pratici, è cosa impossibile, come impossibile è definire razionalmente la sostanza di Dio, ovvero Dio stesso. Se ognuna delle virtù, dette, appunto, teologali, è consustanziale alle altre e co-partecipante all’itinerario lirico, Sustanza, che ha il suo referente primario in ὑπόστασις, attiene a Dio solo: «Sustanza [sustantia] per eccellenza è Dio, ed è assolutamente semplice […] ma nella semplicità e nell’assoluta unità sostanziale di Dio sussistono le tre persone divine, Padre, Figlio e Spirito Santo […]. Il rapporto che lega l’unità della sostanza divina alla trinità delle persone trascende la mente umana». 11 La fede dice delle cose non visibili ed è nel contempo argomento per se stessa e di se stessa: predica ciò che non può darsi nell’immediato. O meglio esplica, nel mentre si mostra, l’argomento veritativo connesso alla sua stessa sostanza: causa ed effetto in essa sono collegati: «‘E da questa credenza ci convene / silogizzar, sanz’avere altra vista: / però intenza d’argomento tene’» (ivi, vv. 76-78). Così si deduce per sillogismo la realtà metafisica. Ed è Maria l’unica attuazione vivens della fede, colei che salda la rottura tra Dio e l’umanità. E dal punto di vista lirico, seguendo il percorso del Contini, che legge nella catacresi, già citata, la possibilità
profonda esegesi relata alle strutture-modalità sulla fede e sul rapporto Giustizia-potereChiesa-annuncio evangelico come pure sugli aspetti del Dante laico-laicista. Sulla relazione fede-poesia e sull’esamina strutturata da San Pietro cfr. il significativo saggio di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo, Dante e San Pietro (Par. XXIV), in Chi dite che io sia?». Dante e la fede, cit., pp. 137-149. 11 Alfonso Maierù, Sustanza (Sustanzia), in Dante-Enciclopedia dantesca, cit., vol. V, p. 494.
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del guadagno nella realizzazione del suo stesso risvolto contrario, ossia il risanamento della poesia, che trasumana, diremmo noi per la Vergine. Ed è solo per Lei che avviene, dunque, l’inveramento del paradosso. Il quale si traduce nella guarigione della poesia d’amore inglobata e inglobante quella ontologica. 12 La fede è fondamento d’ogni altra virtù («Questa cara gioia / sopra la quale ogne virtù si fonda», ivi, vv. 89-90), e se ci ricolleghiamo a quello che abbiamo espresso in precedenza, ci rendiamo conto di come la fede è parte integrante del processo informativo delle altre due virtù teologali, tanto quanto quest’ultime partecipino alla formazione, alla sustanza della prima. E il poeta-pellegrino è vinto dalla “compagnia della Revelatio” e risponde
12 «Nei canti del Paradiso, dopo il definitivo distacco dagli interessi terreni, si celebra l’eterna gloria della tradizione vivente che, nata dalla rivelazione di Cristo, abbraccerà, nei suoi ultimi destini, l’umanità intera nella apoteosi apocalittica della Monarchia universale in terra, e nel trionfo, nei cieli, di tutti i redenti in Cristo. Dall’esaltazione dei grandi teologi Alberto Magno, Tommaso e Bonaventura, al riconoscimento dei valori di sapienza umana e religiosa di Salomone e Boezio, di Graziano e Pietro Lombardo; dalla difesa dei diritti della ragione naturale negli ‘invidiosi veri’di Sigieri di Brabante, all’omaggio reso alle virtù profetiche di Gioacchino da Fiore; all’accoglimento nel Paradiso cristiano dell’imperatore Traiano e di Rifeo troiano, simboli della giustizia umana, alla glorificazione di San Francesco, ‘alter Christus’, dal ‘santo riso’ di Beatrice, simbolo della grazia, come espressione viva dell’amore divino, alla preghiera alla Vergine di S. Bernardo, che implora per Dante il dono supremo della visione di Dio, è tutto un susseguirsi di situazioni spirituali nelle quali l’altezza del pensiero teologico e la contemplazione mistica delle verità supreme culminano nella folgorante rivelazione di Dio, nella quale si smarrisce e quasi annulla la mente del poeta e le sue stesse facoltà d’espressione. Certo quello del Paradiso dantesco è il mondo più difficile a comprendersi dai moderni, per la conoscenza che richiede di una cultura, specialmente teologica, nella quale Dante ha pagato il debito al suo tempo. Ma per quel che riguarda la conoscenza ch’Egli ebbe della Rivelazione cristiana e della storia della salvezza, estesa a tutti gli uomini di tutti i tempi, essa è di una attualità che desta meraviglia anche agli spiriti più spregiudicati. Alla domanda di S. Pietro su che cosa assicura il poeta che i miracoli siano la prova autentica dell’ispirazione divina delle Scritture, egli risponde: ‘Se ’l mondo si rivolse al cristianesimo / diss’io, sanza miracoli, quest’uno / è tal che li altri non sono il centesmo’ - Par. XXIV, 106-108-. Risposta che acquista quasi un valore di autenticità storica perfino nel pensiero moderno che si affatica nell’interpretazione dei fenomeni umani di ‘lunga durata’» (Raffaello Morghen, Dante tra l’«umano» e la storia della salvezza, in IDem, Dante profeta tra la storia e l’eterno, Milano, Jaca Book, 1998, pp. 169-170). Sull’aspetto propriamente “poetico-cristologico” in Dante ci permettiamo rinviare ad un nostro specifico studio: cfr. Antonio D’Elia, La cristologia dantesca. Logos-Veritas-Caritas: il codice poetico-teologico del Pellegrino, prefazione di Dante Della Terza, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2012.
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ulteriormente a San Pietro, indicando da dove, anzi specificatamente da chi deriva il suo convincimento. Ed è il processo mariologico, della Tutta Santa, a fargli comprendere (ossia a far sì che si adatti il mistero in lui) l’operazione dello Spirito Santo nella Vergine. Il poeta canta la proposizione da cui per azione dello Spirito Santo, appunto, trae la nozione-idea della sua fede: « ‘La larga ploia / de lo Spirito Santo, ch’è diffusa / in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia, / è silogismo che la m’ha conchiusa / acutamente sì, che ’n verso d’ella / ogne dimostrazion mi pare ottusa’» (ivi, vv. 91-96). E dall’interrogatorio-esame fattogli da San Pietro esce fuori sì il dato pienamente storico-biografico del poeta-pellegrino, ma assieme si condensa passato e presente nel nunc delle virtù teologali che esibisce nell’ultimo regno, come spiega Lia Fava Guzzetta: è l’identità multiforme e multidimensionale di Dante, che si è ormai strutturata sempre più nella sua autocoscienza, a spingerlo a riflettere sui rischi e sui peccati di una Chiesa temporalizzata, sull’equivoco della donazione di Costantino all’origine della dimensione materiale della Chiesa e a maturare in se stesso un desiderio, anzi una necessità, di purificazione anche personale. È così che il pellegrino Dante comincia ad affrontare gli ultimi gradini del suo ascendente cammino, verso una conquista sempre più solida delle verità cristiane attraverso una immersione sempre più profonda – durante il percorso biografico – nelle scritture e nei testi teologici, mentre – in quanto personaggio dentro il racconto del poema – si sottoporrà ai più importanti “esami” circa le verità della fede, le virtù teologali, le squisite conoscenze dei mistero. Ancora una volta si intrecciano i dati di una biografia che si dimostra stupefacente per la cultura e l’orizzonte delle conoscenze, e i dati di una costruzione poetica che è testimonianza di un approfondimento sempre più interiorizzato e vissuto di tali verità e conoscenze; ciò che costituisce, anche per il lettore dell’opera dantesca, il fascino (e la responsabilità) dell’essere convocato ad assistere nella terza Cantica, a quegli “esami” subiti da Dante in quei meravigliosi dialoghi con gli eccezionali interlocutori: San Pietro, San Giacomo, San Giovanni. 141
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Qui le verità di fede non sono solo fatti culturali, intellettuali, sell’uomo Dante, ma pittisto espressioni vitali di esperienza interiore e intima del cristiano Dante. Per cui questi canti densissimi di conoscenza teologica e filosofica, commuovono il lettore soprattutto per la sensazione di una immersione profonda e totale da parte di Dante dentro i misteriosi confini delle Verità in essi contenute. Una immersione che è emozionante e costituisce il definitivo, inglobante involucro della fisionomia dantesca, quel centro nodale che forse il poeta voleva aggiungere a svelarci attraverso tutto il lungo e frastagliato percorso del suo racconto.13
Professando la sua fede, che è la fede della Chiesa universale che in Roma ha il suo unico pastore («quel baron», ivi v. 115), Dante esprime il credo retto dal convincimento che per addentrarsi e dire sì al Cristo non occorre vi siano necessariamente miracoli (il prodigio dell’esistere e del vivere è di per sé evento straordinario: quel suo dire sì alla conversione, come pure la sua peregrinatio è quindi miracolo): la fede è in sé il miracolo per cui lo sforzo umano di credere mostra l’apertura di Dio che viene all’uomo attraverso la Parola «antica e la novella» (ivi, v. 97): in occasione della condanna di coloro che troppo frettolosamente prendevano i voti era giunto puntualmente il monito a seguire ‘il nuovo e ’l vecchio Testamento’ (Par. V, 76) e nel corso dei successivi esami sulla Fede e sulla Speranza lo stesso Dante richiamerà ‘l’antica e la novella / proposizion’ (XXIV, 88). Ma ancora più pertinente è il rinvio alla Bibbia per rendersi conto di quanto siano incomprensibili all’uomo il giudizio divino, la grazia e quindi la predestinazione, visto che un esempio tra i più inesplicabili è offerto dalla preferenza di Dio per Giacobbe al di sopra di Esaù (Gen 25, 22-34; Ml 1, 2-3), richiamato ormai nell’Empireo […] il canto XIX sviluppa idealmente due massime bibliche: quella richiamata in forma esplicita all’ingresso del cielo di Giove (‘Diligite iustitiam qui iudicatis terram’, Par. XVIII, 91 e 93) desunta da Sap. 1, 1 e fonte
13 Lia Fava Guzzetta, Fede, identità e laicità nella coscienza autoriflessiva di Dante, in «Chi dite che io sia?». Dante e la fede, cit., pp. 47-48.
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materiale del simbolo dell’Aquila, generato dalla M che chiude il versetto, e quella, ma ugualmente sottesa a ogni enunciato sulla predestinazione, proveniente dall’epistola di san Paolo agli Ebrei, dove, in un capitolo che Dante tradurrà idealmente nel suo esame intorno alla Fede (Par. XXIV, 148-1549) si sancisce che ‘sine fide impossibile est placere Deo’ (Eb 11, 6). […]. Fin dall’incipit, l’immagine imponente dell’Aquila ‘con l’ali aperte’ (v.1) è la stessa del Deuteronomio 32,11 […] Aquila […] ‘segno’ dalle molte valenze simboliche […] ‘signum magnum’ è detto nell’Apocalisse [12, 1] la ‘Mulier amicta sole et luna sub pedibus eius’ alla quale ‘datae sunt [….] alae duae aquilae magnae’ [12, 14].14
In questa ripresa Aquila-Apocalisse, il rinvio alla Giustizia nella formazione poetico-figurativa tradotta da Dante sembrerebbe, dunque, realizzare proprio nella “M” finale della parola il nesso Monarchia-salvezza, esposto tuttavia in una più alta gradazione di significato. La Giustizia si è data al mondo solo nella sua più alta espressione: il Verbo. E il raggiungimento umano di tale operazione si è potuto verificare unicamente tramite l’acconsentimento libero, come si è detto, alla volontà di Dio da parte della “natura umana” non colpita dal peccato d’Origine: ossia mediante Colei che ha “mutato il nome ad Eva”. La Giustizia divina è comprensibile a Dante solo per il tramite del processo di umiliazione che in Maria è avvenuto in sommo grado: la regina del cielo e della terra è così Colei che nell’umiltà ha fatto “esultare Dio”. E il Magnificat, che è in sé il primo e più sublime Miserere, apre e chiude la Commedia: «è la prima parola che Dante personaggio pronuncia nel poema e sarà anche l’ultima evocata prima nella sua immersione nel tripudio della candida rosa, attraverso [Par. XXXII, 12] un’allusione, nel discorso di san Bernardo, ‘al cantor che per doglia / de lo fallo sisse: Miserere mei’».15 Tale ripresa non sembra forzata, se, quindi, riprendiamo il discorso liricomariano e leggiamo nell’Aquila dell’Impero terreno, a sua volta simbolo di Cristo, il mariale perfetto ad esporre la natura del Verbo. Voler a tutti i costi
Andrea Battistini, Allusioni bibliche nel canto XIX del Paradiso, cit., pp. 220-221. Enrico Malato, Saggio di una nuova edizione commentata delle Opere di Dante. 1. Il canto I dell’Inferno, Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 39. 14 15
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interpretare i segni-simboli rivelanti “arcane misture letterarie-filosofiche” al solo fine di far rientrare sensazionalisticamente un’idea-concetto, magari frutto unicamente di suggestione, nell’ampio assetto dell’opera, interpretando per compiacere una pseudo-intuizione, risulterebbe scaturigine di cattiva ed infantile profilassi e, pertanto, vacua esegesi. Il discorso risulta, invece, convincente se i riferimenti da cui si parte per l’analisi, esposti nella trama della Commedia ed inevitabilmente recuperabili in parti ampie di essa, sciolgono i dubia mediante comunque un’applicazione del processo di analessi-prolessi delle fonti impiegate da Dante e magistralmente metaforizzate nel segno lirico a designare la più complessa ed in fondo lineare natura della velatio stessa. In questo passaggio, velatio è da noi intesa ed impiegata nel senso ecclesiastico del termine: prendere il velo-abito sacro. E poeticamente resa quale “forma della figura” indicante la persona rinnovatasi nel colloquio con il Sacro. E tutto ciò risulta il più alto espediente anagogico-allegorico in riferimento ai velamina in cui il lemma lirico si forma. E sotto il cui significato di “coprire” indica alla percezione visiva un intendimento non chiaro da ciò che, appunto, sotto il velo formerebbe (velamen-velaminis). Velatio che, “per transumptio”, secondo quanto già riferito nei capitoli precedenti, applica alle verità di fede il nesso opportuno tra immagini agenti con il lettore e significazioni plurime: tutte, comunque, indirizzate a legare terra e cielo. Al centro di ogni procedura, pur minima, del poema il canto pone sempre velatamente (mediante velamina), appunto, o dichiaratamente, per metaforizzazione, il Verbo. Connesso tanto alle relazioni metafisiche quanto al suo invischiamento nella storia; tanto nel rapporto in sé e per sé con la Trinità quanto con l’agire politico dell’uomo tramite la Chiesa e fuori da essa. E ciò non intende promuovere l’idea che un concettopensiero-immagine-suono sia da ricollegare necessariamente al principio, ribadiamo, ritenuto, con poco fondamento, criterio valutativo da applicare a tutti i costi. Ed infatti, se, da un lato Tutto ciò ha ovviamente valore allegorico […] [E] Alcuni vedono nella M l’iniziale della parola Monarchia, ma ciò implicherebbe un trapasso dalla figura della M a quella dell’aquila, cioè da monarchia ad impero, e quindi una diversità tra questi due enti: mentre la figura dell’aquila araldica è puro disegno, senza spessore, come richiede 144
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il suo trasformarsi da un segno non vivo, la M, e come di seguito conferma (Pd XX 35), ma anche sembra qua e là contraddire. Così quando il poeta insiste sull’umanità dell’aquila, paragonata a umanizzati uccelli: a un falcone contento di cacciare (XIX 34-38), a una cicogna (XIX 91-96) che rotea sui cicognini, lieta di averli pasciuti, a un’allodola inebriata dalla docezza del suo stesso canto (XX 73-75); o come quando il formarsi e modularsi della voce nell’interno del suo collo, come - e lo sottolinea il poeta stesso – se fosse bucato (XX 22-30). Certo, la vicinanza del simbolo dell’aquila, qui nel sesto cielo, a quello della croce, nel cielo quinto, non è casuale […] il poeta ha voluto collocare in due cieli contigui i simboli della redenzione e dell’Impero, ai quali Dante ha affidato l’ordine provvidenziale. 16
Dall’altra parte, pur considerando l’ampia immagine volta ad indicare anche il risvolto politologico del giglo e con il giglio, come nota la Chiavacci Leonardi, «fin dagli antichi commentatori si è riconosciuta - in questa lettera, che resta dipinta, sfolgorante d’oro, nel cielo dei giusti, l’iniziale di Monarchia, il solo regime che può assicurare la giustizia sulla terra come Dante scrive nel suo trattato (Mon I, XI 2) [e nella successiva, appunto, trasformazione della lettera in giglio] L’illustrazione grafica di questo mutamento si deve a […] Caetani», 17e ricollegando mediante «il verbo diligite e il nome iustitiam [che] furono le prime parole della scritta dipinta nel cielo […] Tutta la frase costituisce il primo versetto del libro della Sapienza […] [si comprendono] le successive fasi della metamorfosi che qui il poeta immagina, [e] occorre [dunque] partire […] dalla M maiscola del gotico epigrafico […] Improbabile [tuttavia secondo il Sapegno] l’ipotesi, avanzata dal Parodi, di una fase intermedia, in cui [appunto] l’immagine apparirebbe come un giglio […] figura della monarchia francese e della sua vana pretesa di sostituirsi al potere legittimo dell’impero».18 Per cui, sotto-
16 Umberto Bosco – Giovanni Reggio, Introduzione a Paradiso Canto XVIII, La Divina Commedia - Paradiso, Firenze, Le Monier, 1988, p. 296. 17 Anna Maria Chiavacci Leonardi, Commento vv. 94-96 e 98 del Canto XVIII del Paradiso, in Dante Alighieri, Paradiso, La Divina Commedia - Paradiso, commento a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994, pp. 512-513. 18 Natalino Sapegno, Commento ai versi 91-93 e 112-4 con riferimento all’ ‘ingigliarsi
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linea Enrico Malato, «gli spiriti giusti, dopo aver scolpito in lettere d’oro contro lo sfondo argenteo di Giove il primo versetto del libro biblico della Sapienza, enunciato come il principio fondamentale che regola la società umana […] [riprendendo il Buti che dà rilievo a come] la più alta giustizia trova il suo fondamento in Dio stesso»,19 a nostro dire proprio la relazione con il referente-soggetto primario dell’opera, l’humilitas, risulta evidente. E, ripercorrendo la strada peregrinante con il poeta nella figura della più volte richiamata humiltas, che è Cristo stesso, giustizia di Dio, e per Maria, umiltà prescelta e giustizia perfetta su tutti gli uomini, si può segnalare inequivocabilmente il senso-modo dell’allegoria e del portato metaforico relati, quindi, alla giustizia-umiltà. Se il modo della poesia, che è poi anche il suo fine, quello cioè di riverberare costantemente in ogni nota il nesso umanità-divinità, detto nell’appropriazione dell’immagine del resoconto scritturistico risulta eminentemente “pinto”, anche nell’immagine dell’Aquila-Monarchia, quale riferimento poetico innestato nella cristologia, detta ed assunta mediante il mariale, «Certamente, e in modo straordinario […] [quindi] se nella nostra memoria di Cristiani possediamo lo schema, la visuale che la forma del poema quale si è sviluppata può ora evocare quando la si osservi dal bersaglio. Il periodo del viaggio – dalla sera del Venerdì Santo alla mattina di Pasqua – e l’immagine della morte di Nostro Signore sulla Croce sono sufficienti a richiamare ora alla nostra mente quello schema di significato, se (quando guardiamo dalla fine) con l’umiltà che ne è la meta. É lo schema concettuale di una necessità, la necessità di discendere prima di ascendere, di una Discesa all’Umiltà prima che possa iniziare l’Ascesa: la necessità della Discesa di Cristo alla Umiltà della Crocifissione, perché l’uomo possa ascendere alla salvezza»,20 il senso-direzione dell’Aquila-M è figura del ventre-generatore. Sulla scorta della lettura del Pasquazi,21 il quale mette in relazione
dell’emme’ (v.113) del Canto XVIII del Paradiso, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, introduzione e commento a cura di N. Spegno, cit., pp. 1008-1009. 19 Enrico Malato, Emme, in Dante-Enciclopedia dantesca, cit., vol. II, p. 666. 20 Charles S. Singleton, L’irriducibile visione, in Idem, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 489-490. 21 Cfr. Silvio Pasquazi, Il canto XIX del ‘Paradiso’, in Nuove letture dantesche, vol. VI,
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l’Aquila-Cristo e la Donna dell’Apocalisse, e in riferimento a importanti studi di mariologia, che evidenziano, in ripresa dell’antica esegesi biblica neotestamentaria, il nesso Maria-Donna incinta, ed in rapporto all’analisi del Dronke sull’Apocalisse negli ultimi canti del Purgatorio connessi all’ideaimmagine di raffronto interiore tra l’io del poeta e il mondo esterno, del carro-prostituta-gigante, in cui si ha relazione tra Chiesa e Impero, occorre ricostruire tale immagine poetica partendo dal rapporto nuovamente ripresentato da Dante tra fede-ragione e libertà. Il centro dell’intera esecuzione poetologica è da rintracciare primariamente nel dramma interiore del peccatore e della propria avventura umana-spirituale.22 E da ciò, seguendo la lettura del Dronke, recuperare un chiaro riferimento poetico collegato, appunto, all’indicazione giovannea. Alle immagini apocalittiche, già in parte introdotte, definite nell’assunzione mimetica del poema in rapporto alla relazione più generale tra l’Auctor-Agens e Bibbia. Relazione tradotta in poesia mediante collatio occulta. Quale, dunque, vera e propria transumptio, a cui, se pur in modo diverso, avevamo già rivolta attenzione primaria attraverso la riflessione sulla “metaforizzazione”, e qui adempiuta nel passaggio tra il Purgatorio e il Paradiso: Questo concetto, coniato e definito dal più fine dei teorici della poetica dell’inizio del Duecento, Goffredo di Vinsauf, può illuminare molti aspetti del procedimento di Dante nell’ultima parte del Purgatorio. Secondo Goffredo, una collatio occulta è ‘un trapianto mirabilmente innestato (insita mirifice transumptio) dove qualcosa prende il suo stato nella trama come se fosse nata nel tema stesso – eppure è stata presa d’altrove, ma sembra essere di là… così oscilla dentro e fuori, lontana e vicina, remota e presente’ [Poetria nova, 250-5]. Mi sembra ci sia un’analogia stretta fra questa concezione della collatio occulta e il modo in cui alcuni pensatori medievali – notevolmente
Firenze, Le Monnier, 1973, pp. 235-259. Ed ancora: cfr. Giovanni fallani, Il canto XIX del Paradiso, Torino, Società Editrice Internazionale, 1959. 22 Cfr. Peter Dronke, Le fantasmagorie nel paradiso terrestre, in Idem, Dante e le tradizioni latine medievali, cit., pp. 97-129, con particolare riferimento al paragrafo 4: Il drago, il gigante e la prostituta, pp. 112-116.
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Riccardo di San Vittore, che Dante celebra nel cielo del Sole – avevano concepito i libri profetici della Bibbia. Vedevano il contenuto delle visioni dei profeti come fenomeni interiori, dentro dell’uomo, e allo stesso tempo come fenomeni esteriori, che il vates proietta nel mondo e nel futuro. Il poeta nell’atto di creare collationes occultae rassomiglia al profeta: ambedue realizzano qualcosa che è simultaneamente ‘dentro e fuori’. Quando Dante dice al lettore, parlando dei quattro animali nella sua processione, ‘ma leggi Ezechïel…’ [Purg. XXIX, 100], egli riconosce esplicitamente che ci sono dei dettagli della sua visione che sono stati ‘presi d’altrove’, per esprimerlo con Goffredo. Per ciò che importa più è la natura della trasformazione dantesca, del ‘trapianto mirabilmente innestato’. Ciò che Dante raggiunge negli ultimi canti del Purgatorio non può spiegarsi in termini del mondo poetico da solo, neppure del mondo profetico: Dante si serve di ambedue i modi, nella certezza che essi possano unirsi, perché sono già stati integrati nel suo proprio pensiero. […]. La puttana, nell’Apocalisse, è portata dalla bestia con le sette teste e dieci corna, come pure per Dante ella è portata dal carro trasformato in mostri. Anche qui mi pare che l’immagine dantesca non possa essere ridotta ad un’allegoria schematica. Dato che la puttana può ancora in questa visione, come nel Canto XIX dell’Inferno, avere le connotazioni dei papi che, per avarizia si sono prostituiti ai re […]. 23
Lo Scartazzini segnala nel commentare in nota, riportando l’esegesi del Buti, similare nella procedura-azione a quella del Landino, del Vellutello e di altri, l’espressione sapienziale: «Diligite Iustitiam […] Qui Iudicatis Terram» (Par. XVIII, vv. 91-93), come, appunto, la sentenza composta nell’approntare la figurazione della Giustizia nell’immagine dell’Aquila, concludendosi con “Terram”, produca la relazione del discorso in riferimento al mondo, prima ancora che si ricolleghi alla parola “Iustitiam”. La quale inglobando la seconda viene da quest’ultima sussunta a generare un nesso strettissimo, esplicato in alta modalità poetica, elargendo l’unitività tra il valore supremo del Sacro e la caratteristica del mondo fisico, che è il mondo fisico stesso: la Terra. Attuando, oltre e dentro l’allegorica fun-
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Idem, L’Apocalisse negli ultimi canti de ‘Purgatorio’, in Dante e la Bibbia, cit. pp. 81-91.
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zione motoria dell’ascesa nel fingimento poetico, l’attuazione piena del legame che avviene in poesia per transumptio: interno-esterno si ribaltano, e il “sopra” e il “sotto” si congiungono. Il primo termine, giustizia, è il valore da acquisire, mentre il secondo termine, terra, produce lo stato in cui si è e per il quale l’ente è mortale. E la poesia lega il discorso degli opposti e dei diversi nell’azione di unitività, quindi, che l’immagine produce, mediante un moto, quello dei beati, detto col verbo «scendere» (dall’Empireo, Par. XVIII, v. 97). E applica l’interscambio anabasi-catabasi, per cui la terra diventa anche il regno dei giusti. E il canto dantesco pone il mondo, che di per sé non è giusto, nella possibilità che in esso vi “saranno giusti”. E primariamente evidenzia che in esso vi sono stati già i giusti. E tutti i giusti prima dell’Incarnazione, pur non avendola conosciuta, hanno agito nell’etica del proprio procedere rettamente (volontà-libero arbitrio), sanati dal senso ragionativo per l’utilità verso la salute dell’io e del noi, del sopra e del sotto, potremmo dire. In quella forma-contenuto, propria del poema, e che Battistini indicherebbe quale strategia poetologica sgravante la “retorica della salvezza”. E così lo Scartazzini nel riprendere, specificatamente, il Buti intende che: Per questa fizione allegoricamente dà ad intendere che questo M del vocabolo quinto significa lo mondo, e però lo figura per la lettera M, perché è la prima lettera che abbia questo nome mondo, e però lo pillia dal quinto vocabolo che è terram, e non dal secondo che è iustitiam, che anco v’è l’M, perché la terra è lo mondo del qual elli intende. E per questo, che finge che rimaseno in questa figura de l’M, dà ad intendere che questi beati spiriti da lui veduti, e rappresentati quine infino a qui, erano li minori officiali e le persone singulari e private che erano valute nel mondo e nelli atti e nell’amore della iustizia. E per quelli altri beati spiriti, che finge che vedesse scendere poi sopra lo colmo dell’M e fare gilli a modo d’una corona, intese li regi e l’imperadori nel mondo, che sono stati nel mondo sopra li altri e governatoli con la iustizia’. Buti, così pure Land., Vell., ecc. 24
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Giovanni Andrea Scartazzini, Canto XVIII nota del verso 97, in Dante Alighieri,
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La collatio occulta avviene significativamente proprio nel moto giustiziamondo, per cui il desiderativo, in sé già attuato, e tuttavia da attualizzare, poiché stabilisce liricamente, a sua volta, la procedura etico-biologica dell’Auctor nella fantasaia dell’Agens, traducendo l’incontrovertibile professione di fede, elargita sommamente dalla speranza e sorretta dalla volontà divina e dall’incontro deliberativo con quella umana, la Caritas, espone il suddetto fingimento nell’osmosi, che è poi la catarsi letteraria ripensata nella liturgia del battesimo. E che Dante riceve nuovamente nel proclamare entro l’oratio «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, v. 145) nell’oratio a Maria. Se mai continga che ’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò ’l cappello; però che ne la fede, che fa conte l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi Pietro per lei sì mi girò la fronte (Par. XXV, vv. 1-12):
«È questa una full immersion nell’autobiografia del poeta, nel dramma personale di Dante, che realizza qui la fusione di speranza terrena e speranza celeste, o meglio assorbe la prima nella seconda».25 Occorre fare un passo indietro, che è poi un proseguire “in avanti” nella riflessione dantesca: un ritorno alla cornice dei superbi in Purgatorio e alla trama che il verso istruisce nell’allestimento di congiunzione lirico-
La Divina Commedia, riveduta nel testo e commentata da Giovanni Andrea Scartazzini, cit., p. 881. 25 Erminia Ardissino, La poesia della speranza e la speranza della poesia, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., p. 93.
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poematica (il verso e la forma-contenuto di esso sono inscindibili) alla figura di Maria. Attualizzata nell’incontro terragno della Giustizia, che Ella stessa predica. Per cui da tale passaggio tenteremo di estrarre l’operazione effettuata dal poeta di legare nell’azione-figura della Vergine, già in parte accennata, il mezzo-fine della poetica peregrinante. All’esecuzione mimetica dell’estasi e del ricorso al sogno, l’operabilità diretta dell’azione motoria vista e cantata dal poeta è in sommo grado relata alla Vergine, tanto nella visitazione ad Elisabetta, quanto nella dolcezza di Madre verso il Verbo: parola da Lei partorita ed in Lei accolta. Se l’estasi aveva fornito il modo di detergere il passaggio da un’azione, appunto, ripresa direttamente dalla Sacra Scrittura alla realizzazione lirica, senza, apparentemente, aggiungervi “nulla di più”. E dimostrando, invero, che proprio l’unitività dei paragoni impliciti, per dirla con Dronke, nell’operazione inventiva-mistica dell’uscire fuori da sé in un determinato momento del cammino (quindi nella ripresa della collatio occulta), forniva e fornisce la tensione creativa alla rappresentazione stessa, la grammatica coniante i verbi relati all’immagine, alla favella, alla figura, alla scrittura, alla pittura testimoniavano, con le figure-parole scolpite nei medaglioni dei superbi, la realizzazione della riproduzione metaforizzante in modo altamente credibile. Più credibile, dopo aver fatto memoria ed indicato il transito mediante l’estasi della purgazione nell’humilitas. E ciò avviene proprio perché è il referente mariologico, accreditato dalla poesia per tramite della Scrittura, a rendere attualizzabile il resoconto poetico della storia, che è rappresenta nel verso. In questo senso, dunque, se la “giustizia dei giusti” è il referente in terra dell’operabilità della buona volontà nel realizzare liberamente, nell’incontro-scontro fede-ragione/dentro-fuori, la Giustizia, il suo sbiadito “fantasma”, la terra, quale luogo rigenerato da Cristo, e specchio infranto dell’Antico Eden, rivolto alla futuribilità del guadagno della Giustizia alla fine dei tempi (il ritorno definitivo di Cristo) fa sì che la figura-persona di Maria sia, anzi è, quindi, in sé il risvolto tutto attivo della poesia trasumanante (memoria pensante) e della Giustizia fattuale (memoria pensata). Ed ecco che la creazione-rinnovamento delle istanze poetiche e formali, della musica-pensiero di Dante Auctor-Agens trova significativamente in Maria l’avvio e la germinazione. Cosa voglia intendere la figurazione del giglio da parte dei beati e dell’Aquila formata dai Giusti se non il correlativo tra la massima espressione terrena del dominio giusto e giustificato in 151
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terra per il poeta, l’impero, quale supremo reggime di governo, e l’analogia celeste, per di più, avveratasi matericamente nell’impero di Roma con l’Incarnazione per Maria regina del Paradiso? Senza oltrepassare sconsideratamente il significato in sé, tramite, appunto, una forzatura interpretativa dei significanti ad un determinato episodio, la scenna dell’Aquila-ingigliata è da ritenersi l’omaggio alla Giustizia e la venerazione al “ventre che l’ha generata” in terra. Nonché il monitoesempio per i regnanti a ben governare tenendo presente l’humilitas detta da Maria. Ella, che verrà pienamente glorificata nel XXII canto, raccoglie la procedura d’inveramento poetico. E la scrittura mimetica, esposta con forza nel Purgatorio, nel passaggio dal verosimile al reale, nell’allestimento poetico dell’Aquila-ingigliata raccoglie le movenze della fede del cantore. Ed è la Vergine, lo ribadiamo, il segno-figura-immagine in cui lo Spirito ha impresso il Sigillo. È Maria la cera che invera e attesta il “calco”. E come nella Scrittura è servitium per la Parola, così è testo vergine a cui riferirsi e in cui sigillare la parola-poesia. E nel raffronto scrittura-pittura-canto-parola Maria diventa in Dante il referente per forgiare la sua favella, “fioca”, che solo battezzata nell’humiltas è analogia con la Scrittura divina verso cui tenta ricalcarne i signa (immagine-cera-sigillo). E Dio è cantato in veste di sommo artista, per il quale l’artista-poeta può in humilitas confrontarsi, se non direttamente, attraverso la Donna-Giusta, che ha partorito Dio stesso. Cosicché, l’artista-Dante, da “superbo” (vale per mondano) tenta di assurgere a giusto (beato: cantore della teodia, novello Davide). L’arte si innalza a “tecnica orante”nella poesia del viator, e il raffronto tra Dante-Odisseo/Aracne-Dante –anti Odisseoanti Aracne, spiega, secondo la Barolini, la succitata logica capovolta. La quale lega nel poeta-pellegrino vita e arte/giustizia-salvezza-umiltà contro superbia-invidia-ingiustizia: Nella Commedia il problema della rappresentazione è affrontato più direttamente nella cornice dei superbi, nei canti che vanno dal IX al XII del Purgatorio, dove il pellegrino incontra una serie di rilievi marmorei. […]. Una rappresentazione che rappresenta una rappresentazione: contesto creato da Dante e scelto per una riflessione sui principi della mimesi validi per lui e per la sua arte. […]. La rappresentazione degli esempi di superbia nel canto XII è a sua volta contrassegnato da un lessico fortemente legato alla rappre152
Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
sentazione. I vizi scolpiti non si trovano sul fianco della cornice ma intagliati nel pavimento; come le tombe terragne recano incisi i segni atti ad identificare i resti lì chiusi ‘portan segnato quel ch’elli eran pria’, Pg. XII, 18 […] così queste lastre recano ‘figurati’ disegni superiori in bellezza a quelli delle tombe terrestri, grazie all’‘artificio’ (un hapax nella Commedia) del divino artefice (Pg. XII, 22-24): sì vid’io lì, ma di miglior sembianza secondo l’artificio, figurato Quanto per via fuor del monte avanza. Il suolo figurato viene imitato dal testo figurato, che utilizza ora l’artificio dell’acrostico: delle tredici terzine dedicate ai tredici esempi di superbia, quattro iniziano con ‘Vedeano’, quattro con ‘O’ e quattro con ‘Mostrava’, sicchè le prime lettere delle prime dodici terzine formavano VOM o UOM, parola che illustra graficamente il ruolo della superbia nella storia umana. [E Dante nel ricorrere alla figurazione di Ilion, riecheggiando la descrizione di Niobe e di Roboano] il cui segno non è più minaccioso: ‘O Roboàm, già non par che minacci / quivi’l tuo segno’ (vv. 46-47). Roboano, figlio di Salomone, pare essere stato assimilato al segno che lo rappresenta: ‘ ’l tuo segno’ stabilisce un’identità tra res e signum che ci fa ricordare che questa è un’arte divina, un’arte in cui non esiste frattura fra presentazione e rappresentazione, essere e parere. […] La più alta frequenza d’uso di segno e segnare, superiore a quella della cornice dei superbi, si riscontra nel cielo della giustizia, sede dell’aquila: considerato dalla prospettiva dei modelli rappresentativi, questo cielo sembra esemplato come una sorta di estensione della cornice dei superbi: contiene non solo l’altro acrostico della Commedia oltre a quello di Pg. XII, ma anche l’altra unica occorrenza del termine storia al di fuori di Pg. X […] questo cielo è ricco di terminologia littoriale, rappresentativa, testuale, linguistica e persino grammaticale: notiamo favella, figura, image, imagine, vocale, consonante, verbo, nome, emme, I, vocabol, lettere, volume, penna, scrittura, contesto, dipingere, dipinto e anche rappresentare in una delle due occorenze del poema. […]. Lo sforzo rappresentativo testimoniato da questa ricerca lessicale trova la sua massima espressione nella frase divina le cui lettere sono costituite dalle anime di questo cielo (Pd. XVIII, 88153
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89) […]. Il collegamento con Pg. X viene sottolineato ancora in Pd. XX dove ritroviamo tra le anime di quel cielo le stesse due figure che, insieme alla Vergine, svolgevano la funzione di esempi purgatoriali di umiltà [Davide cantore dello Spirito Santo, Traiano] […] [Dante consapevole di essere egli stesso preda di superbia riprende tra le figure in “ammonizione mimetica” anche o soprattutto Aracne] accompagnata [quest’ultimo personaggio] nella sua seconda e ultima apparizione del poema dall’aggettivo ‘folle’ che è segnale di Ulisse e ci suggerisce che ella ne è il surrogato nella sfera dell’arte […] [E il riferimento ad ‘Aragne’ e ad Ulisse corrispettivi dell’Agens prima della purificazione per salire in Paradiso] ‘Qui si conviene usare un poco d’arte’ (Pg. X), utilizzando un termine connesso a Ulisse attraverso quell’arte che rese possibile all’eroe sottrarre Achille a Deidamia e la statua di Atena ai Troiani. […]. L’acrostico che forma la parola UOM, una forma di poesia visuale che indica la peccaminosa tendenza dell’uomo verso la superbia, è anche un esempio dell’orgoglio che condanna, poiché procura al poeta - attraverso il disegno delle lettere sulla pagina - un modo di introdurre una sua arte visuale entro la rappresentazione dell’arte visuale di Dio, e così un modo di paragonare i due artisti e le loro opere. Similmente l’acrostico nel cielo della giustizia può essere interpretato come l’imitazione da parte del poeta della scritta divina presentata in quello stesso cielo; scolpendo le lettere LUE nel testo di Pd. XIX Dante crea un richiamo visuale e un’analogia con la frase DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM. 26
Si ripresenta all’attenzione del lettore, dunque, l’immagine di Davide, dell’Arca, il canto allo Spirito Santo inverati per Maria nella nuova ParolaGiustizia. Il giglio-l’Aquila-il Grifone-il Carro-il Mostro rappresentano il discorso poetico della Madre venuta a ripristinare in Terra l’antica Allenza mediante il parto virgineo. E se è giusto non discostarsi troppo dall’immagine dell’Aquila-giglio
Teodolinda Barolini, Ricreare la creazione divina: l’arte aracnea nella cornice dei superbi, in Studi Americani su Dante, a cura di Gian Carlo Alessio e Robert Hollander, introduzione di Dante Della Terza, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 145-163. 26
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inserita e suggerita dal concetto-pensiero di giustizia, come in precedenza rilevato, l’implicito richiamo all’esilio, a Firenze, il cui giglio è chiaro emblema della città amata dal poeta, alla purezza che in sé il fiore porta, è altrettanto indicativo di come esso esponga il processo di “clarità” che il segno-simbolo giglio-fiore-fiordaliso comporta. O meglio il fiore, che è in sé giglio-fiore indicante sin dall’inizio e poi in conclusione l’idea stessa di Paradiso, è il ventre della Madre da cui sboccia il fiore, che è Cristo, il quale è la diritta ed unica via: «il cammino divenuto buono: quivi son li gigli / al cui odor si prese il buon cammino [Pd. XXIII vv. 74-75]: i gigli […] indicano, secondo la maggior parte dei commentatori antichi e moderni, gli ‘apostoli’»:27e Maria è Madre degli Apostoli e della Chiesa. Ed ancora, il simbolo-fiore-giglio si riallaccia all’utilizzo nella liturgia e nella cultura popolare dell’implicito riferimento al Sacro, e più sottilmente alla figura-persona di Maria, contenente l’omaggio della poesia tramite il fiore alla donna amata e alla Donna Santa. Come pure occorre rilevare l’immagine del fiore-giglio nella variante di fiordaliso: «Il termine, uno dei francesismi - fleur de lis- assimilati dalla lingua dei primi secoli con l’usuale senso di ‘giglio’, compare due volte in Dante, nella seconda cantica della Commedia. In Pg. XX 86 veggio in Alagna intrar lo fiordaliso / e nel vicario suo Cristo esser catto, la voce indica figuratamente ‘i gigli della casa di Francia’ […] [E] in Pg. XXIX 84 ventiquattro seniori, a due a due, / coronati venien di fioraliso, ove all’interno del termine pare muoversi un’allegoria […] [tratta dall’Apocalisse, 4, 4: viginti quattor seniores] sono i ventiquattro libri venerandi del Vecchio Testamento, e il fiordaliso di cui i seniori sono coronati ne accenna la purità della dottrina che quei libri professano [così G. Rossetti]. Da tenere presenti […] Cant. 2, 2; 5, 13; Ecli. 39, 19, per l’allegorico senso di purezza connesso al bianco immacolato del giglio». 28 E poi il riferimento al fiore-giglio melato, a sua volta, alla Donna per eccellenza: Beatrice, che rinvia a Cristo per Maria. A tal punto che, nella candida rosa verranno disvelati i misteri più alti, proprio attraverso il fiore più splendente e più puro, intatto, ossia Maria stessa, rimandante al Fiore che ha assunto su di sé, come già riferito, il peccato: Cristo. 29
Antonio Lanci, Giglio, in Dante- Enciclopedia Dantesca, cit., vol. III, pp. 162. Bruno Basile, Fiordaliso, in ivi, vol. II, pp. 893-894. 29 Cfr. Idem, Fiore, in ivi, pp. 894-895. Sull’opera Il Fiore cfr. Gianfranco Contini 27 28
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E il discorso-teoria sul libero arbitrio e sulla purezza dell’anima guastata dal peccato d’origine e dalla volontà dell’uomo di ergersi ad arbitro, appunto, va ripreso partendo dal murus, dalla civitas, dalla domus Dei, che Maria incarna. Pertanto, il suddetto vincolo deliberativo, il diktat dell’amore, di per sé sciolto, quindi, da ogni legame trova nella religio-fede di Maria il rovesciamento-scioglimento in Caritas del suo essere libera in quanto schiava-ancella. Di una schiavitù che riconosce lo stato di creatura e che per tale motivo non insuperbisce il proprio essere, ma comprende poiché ama a tal punto da esaltrare per Lei ed il Lei Dio stesso con l’intonazione dell’oratio anti-egologica. Come nella Sacra Scrittura anche nel poema il nodo fondativo già ripreso verte sulla questione della scelta e della libertà dell’uomo in relazione al bene e al male. Problema-questione posto, come rilevato su tutti, all’interno di un’ampia esegesi numerologica ancorchè filologica e raffinatamente critica, dal Singleton quale nodo-snodo al centro dell’opera. Sono, dunque, i canti XVI, XVII e XVIII del Purgatorio ad affrontare la responsabilità individuale e il riferimento al giudizio, per il quale ci sarebbe la pena o l’assoluzione. 30
sempre in Dante-Enciclopedia Dantesca, cit., pp. 895-901. 30 «Nel cuore del poema sta dunque una riflessione sull’etica, insereita in quella sull’amore, che Dante sottolinea riccamente con i numeri delle unità minime e massime dell’opera: i versi, le terzine, i canti. […]. L’avvio è dato dalla domanda di Dante a Marco Lombardo relativa alle cause per cui il mondo è ormai ‘tutto diserto / d’ogne virtute’, addirittura ‘di malizia gravido e coverto’ (Pg XVI, 58-9) […]. Marco Lombardo, evidente portavoce del pensiero di Dante, afferma che nei fatti umani non esiste la necessità, che lega invece gli esseri irrazionali: non sarebbe infatti possibile giudicare colui che non fosse libero, poiché la giustizia si esercita sulla libertà di scelta e di azione. L’essere umano non solo è libero dagli istinti sensitivi che determinano l’agire degli animali, ma è libero anche dagli influssi astrali che sembrano tanto determinanti per una cultura in cui l’astrologia giudiziaria era fortemente creduta e usata. Dante non si oppone all’idea di influssi celesti che influenzano le azioni umane, ma difende il principio della libertà del volere. Alla base della fiducia nel libero arbitrio umano sta anzitutto il De libero arbitrio di Agostino, un trattato che fonda la definizione del problema nella storia cristiana. Prima di Agostino ne aveva trattato Origene, che aveva scisso la libertà di agire dalla causa di sé, che era il modo con cui Aristotele poneva il problema della volontarietà in Etica III, I, 1110 a. Agostino infatti associava la libertà all’autodeterminazione, ovvero all’atto di volere: la volontà deve essere libera, altrimenti non è volontà. Anche la Summa theologiae […] poteva orientare Dante […]. La ragione può scegliere e la volontà libera, che è il completamento del libero arbitrio, può
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E riprendendo poi il discorso sui voti mancati, in Pd. V, in cui si sottolinea la straordinarietà del dono di scegliere e di agire unitamente ad un’altra ampia esposizione relata ad un caso specifico indicante il rapporto società-politica e natura umana, nell’incontro con Carlo Martello (Pd. VIII, v. 93). Come pure nella definizione “per natura” e “per volontà” inerente gli appartenenti ad una stessa famiglia. I quali, pur avendo quest’ultimi indirizzi naturali e volontari diversi, ed è il caso di Roberto, differente per predisposizione naturale, appunto, e per volontà propria rispetto al fratello Carlo, non vengono dalla Provvidenza lasciati senza adeguata indicazione (seguendo in questo l’Etica aristotelica): La varietà delle disposizioni è dunque premessa necessaria alla realizzazione di una società civile che cooperi al conseguimento dell’umana felicità. […]. L’argomentazione di Dante è in perfetta coerenza non solo con i principi aristotelici e cristiani, ma anche con l’etica aperta della società comunale e della corrente poetica
decidere. La volontà va però allenata attraverso la faticosa lotta (‘le prime battaglie’) contro le propensioni affettive determinate dagli astri. La perseveranza nelle scelte è condizione necessaria per l’affermazione della libertà, come Dante indica anche in Convivio III, VIII, 17: i vizi ‘si fuggono e si vincono per buona consuetudine’. Il libero arbitrio consiste nella capacità di scelta e richiede la collaborazione tra giudizio e volontà. La libertà del volere e dello scegliere in rapporto a Dio è ben sottolineata nella terzina che contiene il paradosso di ‘liberi soggiacete’. L’espressione richiama la servitù di Dio, come indica san Paolo nel passo dell’epistola ai Romani […] una libertà che è obbedienza alla legge divina, che esige umiltà [come in Maria al massimo grado, aggiungiamo noi]. La sola soggezione dell’essere umano infatti dovrebbe riguardare solo tale legge o Dio stesso, ‘maggior forza e miglior natura’, creatore della stessa anima razionale, che non dipende dagli astri. Proprio questa dipendenza diretta da Dio rende l’anima talmente peculiare tra gli esseri creati da essere libera. Infatti sono le cose di pura materia a non avere libertà, ma non l’anima, come spiega in Paradiso VII, trattando della necessità della redenzione di Cristo, nella forma in cui è avvenuta, con la morte in Croce del Figlio di Dio. […] [Beatrice riconduce in Pd VII, vv. 70-81 il discorso al peccato originale e Marco Lombardo, Pg. XVI, aveva esposto la relazione tra anima e vizi, anima rappresentata quale pura fanciulla, non capace di razionalità e Dante] ribadisce l’idea che vi è una progressione graduale nella ricerca dei beni […]. All’attrazione istintiva, connaturata, dunque buona, si aggiungono altre attrazioni […] [le quali] devono essere valutate da una ‘virtù che consiglia’ […]. Che cosa sia questa nobile virtù è spiegato in Monarchia I, XII, 2-4 […]. La virtù deliberante è nobile anche perché è data per grazia» (Ermina Ardissino, Volontà e libero arbitrio, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., pp. 78-84).
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che con lo Stilnovo condannava l’erede di nobile schiatta come vile ‘fango’, per promuovere invece colui che ha ‘cuor gentile’ a una sorte più alta e più nobile. […] [è] un dovere, così come la società ha il dovere di favorirne lo sviluppo e non di contrastarlo. È questo un dovere pure cristiano, che Dante può aver sviluppato anche sulla base della parabola dei talenti (Mt 25, 14-30 e Lc 19, 12-27». 31
E se il termine umiltà è posto a decifrare nelle tre cantiche il mistero stesso dell’uomo e dire la “logica divina”, la rappresentazione della gestazione e il risultato del ritrovato tecnico-lirico nella poesia del processo sapienza-scienza/amore-sacrificio conducenti alla libertà, che trova in Maria il modello sublime, è rintracciato non solo nella riflessione metafisica e nel martirio, per i quali l’alter Christus ne è, in tempi vicini al poeta, esempio raro e profondo, figlio e fratello di madonna povertà, ossia San Francesco, ma anche nella ricapitolazione del sistema, già accennato, politologico, che l’Auctor-Agens salda nella propria teoresi poematica: la prima affermazione del Convivio è che lo ‘fondamentale radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice’. La felicità di cui Dante ragiona è quella che si può conseguire in questa vita e che compie il ‘naturale’ desiderio dell’uomo. Ed è duplice, come duplice è l’uso del nostro animo, cioè pratico, tutto rivolto all’esercizio delle virtù morali, e speculativo, ossia intento alla contemplazione del vero. Al raggiungimento di questa doppia felicità mirano, da un lato, la filosofia conducendo l’uomo a considerare l’opera di Dio e della natura, media la speculazione, e, dall’altro, l’Impero, reprimendo la cupidigia e imponendo che sia considerata la giustizia in tutte le operazioni che soggiacciono alla nostra volontà. E poiché l’autorità imperiale senza filosofia è pericolosa, e l’autorità filosofica senza quella imperiale è debole, non per sé, ma per la disordinanza della gente dominata della cupidigia, ‘l’una con l’altra congiunta utilissime e pienissime sono d’ogni vigore’. Nella filosofia, dunque, e cioè nella ragione umana, ha la sua norma e il
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Ivi, pp. 86-87.
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suo radicale fondamento l’Impero. L’ultimo capitolo col quale si chiude la Monarchia non aggiunge nulla a questa esplicita tesi del Convivio. L’altra affermazione, cui Dante dedica tutto il quinto capitolo del quarto trattato della stessa opera, e che compendia tutto il secondo libro della Monarchia e contiene il germe del terzo, è questa, che non forza, ma ragione, e ancora divina, fu il principio onde l’Impero Romano ebbe da Dio speciale nascimento e speciale processo. La divina elezione del Romano Imperio sembra a Dante provata abbastanza dal fatto ch’esso è, in certo modo, fratello gemello della Chiesa; ché Roma, la santa città, nacque contemporaneamente a David, radice della progenie di Maria; e quando il Figlio di Dio stava per discendere in terra, a redimere l’umanità dal peccato, ‘in Siria suso’ Dio apparecchiò nel seno di Maria l’albergo mondissimo e purissimo che doveva accoglierlo, e contemporaneamente ‘qua in Italia’ l’Impero ridusse il mondo nella migliore disposizione che fosse poi che il cielo cominciò a girare. 32
Se tale esempio-dimostrazione, che costituisce in sé per la procedura esplicativa tanto della “Buona Novella” quanto della poetica del Fiorentino, risulta quasi improponibile alle forze umane, proprio il paradosso detto liricamente nell’incontro impegnativo tra Mistero e procedura carnea declina poeticamente il tragico cristiano. Riletto da Dante nel suo più intimo rovesciamento, ossia la libertà vincolata dalla Caritas: Il tema della libertà dell’essere umano ha un’ulteriore sviluppo nei canti del cielo dei giusti, dove viene affrontato un problema complesso, quello della predestinazione. Dante pone lì diverse domande sulla giustizia divina, che è proclamata tale ma che evidentemente alla ragione umana non pare così giusta. Qui ha luogo la vera sfida che Dante compie a difesa della libertà di autodeterminazione del singolo, perché è una sfida addirittura sulla conoscenza dei piani divini. […]. Nel cielo della giustizia Dante azzarda la comprensione del
32 Bruno Nardi, Tre pretese fasi del pensiero politico di dante, in Idem, Saggi di filosofia dantesca, cit., pp. 282-283.
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legame tra salvezza o giustificazione e giustizia: com’è possibile che sia condannato chi, essendo vissuto prima di Cristo o in terre che non sono raggiunte dalla predicazione cristiana, non si è battezzato? È una domanda che Dante dice di essersi posto per lungo tempo, infatti è definita un ‘digiun cotanto vecchio’ (Pd XIX, 33). La risposta non chiarisce, ma conferma il mistero, che è irraggiungibile dai mortali […]. La giustizia divina c’è, anche se ad essa non ha accesso la nostra mente. […]. Proprio nell’umile rinuncia a capire il mistero divino risiede la difesa della libertà, che così non è negata […] pur confermando che la conoscenza di Cristo è necessaria per la salvezza, Dante anticipa che al giudizio finale forse coloro che hanno sempre in bocca il nome del Salvatore gli saranno meno prossimi di ‘tal che conosce Cristo’ (Pd XIX, 108). Nessuno sa di essere salvato o dannato, perciò è libero di scegliere il suo percorso, per cui otterrà premi o castighi […] l’inserimento di due ‘pagani’ nel cielo dei giusti, Traiano e Rifeo, salvi per vie diverse, ma salvi senza essere vissuti in epoche o in contesti cristiani, senza essere stati battezzati in vita. Accuratamente lo stesso occhio dell’aquila spiega come Traiano, secondo una ben assodata tradizione, si fosse salvato per aver le preghiere, fatte dopo la sua morte, permesso che lui tornasse in vita e si battezzasse (Pd XX, 106-117). Rifeo invece si è salvato per la forte fede nella giustizia (‘tutto suo amor là giù pose a drittura’ Pd XX, 121), per cui egli potè intravedere la futura redenzione di Cristo e ottenere il battesimo per desiderio (Pd XX, 118-129). 33
In questo senso, l’attacco duro che il poeta rivolge soprattutto alla gerarchia ecclesiastica corrotta pone l’antico nemico quale insinuatosi ormai nel cuore della sposa stessa del Cristo, divenuta deliberatamente traditrice. La prostituzione esercitata dalla curia avvilisce l’animo del poeta nell’immagine di distruzione, di implosione di una parte della Chiesa: il significato ultimo della storia umana è per Dante, al di là delle cadute e degli errori, nell’attuazione della giustizia e della prov-
33 Erminia Ardissino, Volontà e libero arbitrio, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., pp. 87-88.
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videnza divina […]. Intanto Beatrice spiega, corregge, chiarisce, interpreta le allegorie (‘Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe’, ‘Non sarà tutto tempo senza reda’), profetizza l’avvento del riformatore che ordinerà l’Impero e ucciderà la Chiesa degenerata (‘la fuia’). Il canto XXXII trapassa nel successivo e in esso si spiega. E si spiega, così, anche il carattere fondamentale dell’allegoria, che è insieme strumentale ed essenziale secondo i modi di vedere del Medioevo. Essa è strumentale quando appare a Dante che vede e non comprende, essenziale quando il suo significato verrà chiarito in maniera profetica al poeta che dovrà ridirlo ai vivi. 34
Il motivo di una Chiesa povera ricondotta all’originario messaggio evangelico, alle indicazioni di chi ha istruito il santo gregge e i suoi pastori, l’unico e vero maestro, ossia il Cristo, ritorna costantemente quale traccia comprimaria del poema. E l’esegesi (quella antica così come la più moderna) han individuato relazioni-inclusioni, ma anche differenze tra il moto-pensiero riformatore dell’abate calabrese Gioacchino e il pensiero religioso-politico di Dante. Il Piromalli, all’interno di un ampio processo esegetico, ricostruisce la relazione-distacco tra l’Abate Gioacchino da Fiore e il poeta. Tale esegesi risulta valida per la comprensione del profetismo, soprattutto dopo la scoperta e la visitazione filologico-critica del Tondelli inerente il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore. Unitamente all’idea etico-sociale e diremmo ecclesiologica dell’Auctor-Agens, che innesta nella Commedia la più volte richiamata “gradatio ascensionale” nella figura della Purezza-Giustizia, in chiave escatologica, prorio in rapporto alla Chiesa e, soprattutto, alla sua relazione con l’Impero. E, quindi, al nesso giustizia umana-giustizia divina: Dante, come Francesco d’Assisi e Gioacchino da Fiore, sente il problema del suo tempo, del Medioevo feroce nel quale egli viveva e che nei costumi e nelle stirpi era andato sempre più degenerando, come un problema morale. I costumi si sono venuti corrompendo dal tempo in cui la virtù della sobrietà e l’aspirazione all’armonia
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643.
Antonio Piromalli, Canto XXXII in Lectura Dantis Neapolitana –Purgatorio, cit., p.
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cittadina sono state abbandonate. […]. Da tutti i lati Dante ode nel suo tempo levarsi invocazioni di giustizia e di pace e crede che solo una vita spirituale più alta di quella che conducono in terra gli uomini può condurre l’umanità alla salvezza.35
La concezione politica di Dante, come già riferito, è una delle caratteristiche della forza del verso, e l’impegno civile e la pietà per i vinti sono decisivi per il concetto di Redenzione. Ed è la pietà, sottolinea Piromalli, ciò che distingue un Dante giudice anche di se stesso: «Il poeta lettore dell’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale e cantore di Francesco di Assisi, distaccato dagli spirituali sul piano della dottrina ma aderente ad essi con le ragioni morali, si può porre sulla linea pauperistica di S. Francesco ed esaltare gli apostoli Pietro e Paolo».36 Il cammino ora si arresta per introdursi nella condizione ultima, quella in cui si avrà la visione del Tutto. Nel Paradiso vi è la realizzazione della persona: il profetismo si compie definitivamente nella misticità delle anime poste a contemplare Dio. Il rapporto instaurato dal Tondelli tra Gioacchino e la Divina Commedia ha aperto un vasto dibattito, tra chi riconosceva le affinità tra Dante e il Profeta calabrese e chi, invece, le negava. Per il Tondelli le figure gioachimite spiegano, anticipandole, in una immagine d’impatto i canti del poema: «Nel lungo Medioevo si venne compiendo
35 Idem, Il canto VI dell’Inferno, in Lectura Dantis Scaligera, Istituto di Scienze Storiche ‘L. A. Muratori’, Verona, direttore Mario Marcazzan, Firenze, Le Monier, 1960, pp. 22-23. Il Tondelli ha curato nel 1940 Il Libro delle Figure di Gioacchino. Su questo argomento cfr. Bernard Mcginn, L’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale, Genova, Marietti, 1990, Francesco D’Elia, Gioacchino da Fiore. Un maestro della civiltà europea. Antologia dei testi gioachimiti tradotti e commentati, “Centro Internazionale di Studi Gioachimiti”, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 1999, I luoghi di Gioacchino da Fiore, Atti del primo Convegno Internazionale di Studio, Casamari, 25-30 marzo 2003, a cura di Cosimo Damiano Fonseca, Roma, Viella, 2006, Pensare per figure: diagrammi e simboli in Gioacchino da Fiore, Atti del settimo Congresso Internazionale di Studi Gioachimiti, San Giovanni in Fiore, 24-26 settembre 2009, a cura di Alessandro Ghisalberti, Roma, Viella, 2010, Antonio Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino Editore, 1984. La temperie mistica del Medioevo, con la sua “immagine paurosa” di Dio e della fine del mondo, ha spesso impedito una piena comprensione della figura di Gioacchino. La concezione dottrinaria di un rinnovamento radicale dell’uomo e della società, propria del pensiero di Gioacchino, ribalta la figurazione soffocante di “un soffocante Medioevo”. 36 A. Piromalli, Canto XXXII del Purgatorio, cit., p. 647.
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l’assimilazione, in Calabria, dei caratteri spirituali della civiltà bizantina che, sia pure con distacchi temporanei, è stata presente a lungo nella regione […]. L’ascetismo cristiano aveva avuto la sua culla in Egitto e con i numerosi eremiti, nella Tebaide e nella Palestina, ma il monachesimo entra nella storia della civiltà quando da eremitismo, da anacoretismo si trasforma in cenobitismo, in vita associata e comune». 37 Il poeta-pellegrino, esiliato dal “bello ovile”, è impegnato nella lotta politica portando avanti le proprie idee, ma rimanendo fedele alla Chiesa di Roma; Gioacchino, entrato nell’ordine cistercense per poi distaccarsene, rimane all’interno della regola benedettina: «Il pessimismo intorno al presente colorì di immaginosi accenti e di impressionante simbolismo la fede di Gioacchino in una nuova epoca del mondo».38 La speranza di un rinnovamento anima l’attività pastorale di Gioacchino legata alla concezione escatologica delle prime comunità cristiane. La storia è in Gioacchino ricondotta al fine di preparare il regno di Dio, e la sua è una filosofia della storia provvidenziale, in cui l’uomo è strumento della Provvidenza: «La concezione di Gioacchino non è intellettualistica né di pura teologia ma pragmatica nel senso che il mistero trinitario, quello cristologico, quello ecclesiatico, ad esempio, sono momenti, esperienze religiose aperte verso il più profondo mistero spirituale, quello della venuta del regno di Dio, della plenitudine dello Spirito. Come nella Trinità c’è molteplicità e unità di sostanza così nella storia provvidenziale sono tre epoche, di cui la seconda deriva dalla prima e la terza da ambedue».39 Il poeta è turbato dagli orrori della Chiesa, dall’animale apocalittico dalle sette teste (rappresentante i peccati capitali) che ha di fronte, 40 ma è consapevole che gli è stata affidata la missione profetica del rinnovamento della Chiesa e del mondo. Così il profeta calabrese, però in un contesto di differente determinazione dottrinale: «nel Canto XII del Paradiso Dante colloca Gioacchino nella sfera del sole, tra gli spiriti sapienti, nella seconda corona e lo fa così ricordare da San Bonaventura (139-141): ‘…e lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino, / di spirito profetico dotato’.
Idem, Gioacchino da Fiore e Dante, cit., pp. 9-10. Ivi, p. 19. 39 Ivi, pp. 20-21. 40 Cfr. Antonio Piromalli, Purgatorio Canto XXXII, cit., pp. 650-651. 37 38
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Gioacchino è tra gli spiriti eletti della ghirlanda francescana, siede al sinistro lato e riceve lode da San Bonaventura come Sigieri di Brabante si trova a sinistra ed è lodato da San Tommaso (Par., 10, 133-138)». 41 Il poeta senz’altro conosceva le condanne rivolte a Gioacchino e Sigieri, ma l’epoca in cui Dante opera è intrisa di un più forte pensiero laico e i pericoli di eresie ormai sono lontani. Dante vede nell’abate florense la santità, così come in Sigieri. Tuttavia, per Piromalli, non si può accomunare il Libro delle figure alla visione complessiva dell’opera dantesca. Occorre che si facciano delle differenze: «il richiamo alla iconografia del Libro delle figure è del tutto estraneo all’ut pictura poësis che è nel caso di Dante metodologicamente improponibile quanto deviante; esso vale, invece, come precedente storico allegorico, come elemento culturale che in Dante si traduce in autonomo specifico letterario». 42 Ciò nonostante, esiste un forte legame tra l’abate e il poeta: pur se Dante è lontano da idee triteiste, montaniste, amalriciane è in sintonia, invece, con la condanna morale e con la riforma di un regno di pace.43
Idem, Gioacchino da Fiore e Dante, cit., p. 44. Idem, Purgatorio Canto XXXII, cit., p. 651. 43 Seguendo, pertanto, tale impostazione ecco che l’intero allestimento della processione e l’introduzione di Beatrice che “accusa” e che porta le modalità di assoluzione nei confronti del poeta «compendia in un primo tempo la storia della salvezza dalla creazione alla Redenzione, vale a dire la storia narrata dalla Sacre Scrittura, dai primi libri dell’Antico Testamento agli ultimi scritti neotestamentari, è fonte di profondo stupore per Dante, che verso di essa muove, quanto per Virgilio. Preceduto da oggetti e da personaggi allegorici, figuranti i libri dei due Testamenti e le virtù, è accompagnato da un ricco corteo [canto XXIX del Purg.], giunge a un carro trionfale, che simboleggia la Chiesa, trainato da un grifone, immagine di Cristo nella sua natura, divina e umana. Un improvviso tuono fa fermare la processione. Nel canto seguente [XXX del Purg.], centro ideale del poema, si colloca, all’interno di una complessa coreografia, l’incontro tra Dante e Beatrice, dopo i dieci anni di separazione intercorsi tra la morte della giovane donna, nel 1290, e il viaggio del poeta nell’aldilà. Beatrice discende sul carro trionfale con la veste rossa che indossava in occasione del primo incontro con il poeta […]. Le dure accuse che Beatrice muove al poeta sul suo traviamento morale mirano a provocare il pentimento del pellegrino. Solo quando le lagrime avranno rigato il suo volto, Dante sarà degno di ascendere al Paradiso: alle lacrime sparse per l’improvvisa scomparsa di Virgilio subentrano le lacrime di dolore per i propri peccati. Gli angeli intervengono nel dialogo tra Beatrice e Dante, intercedendo per il poeta. Le accuse di Beatrice si fanno sempre più dirette e incalzanti nel canto XXXI: Dante confessa esplicitamente le proprie colpe, riconosce di aver perseguito, dopo la morte di Beatrice, beni ingannevoli e fallaci che lo hanno distolto dal retto cammino. Affranto, 41 42
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Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
E il poeta-pellegrino allestisce il proprio canto-processione purgatoriale estraendo dai suggerimenti iconografici-teologici esposti anche il poeta sviene. I riti di purificazione volgono al termine: Matelda può ormai immergere Dante nelle acque del Letè. Solo ora Dante è degno di ammirare infine disvelata (gli angeli hanno cessato di gettare fiori e lo sguardo del pellegrino è stato purificato dalle lacrime di pentimento) la bellezza sovrumana di Beatrice, più bella di quanto Dante la vide in terra. Negli occhi della donna amata, rivolti alla contemplazione di Cristo, il poeta intravede anche l’indicibile bellezza della duplice natura del Redentore. La processione allegorica, che si era interrotta, riprende negli ultimi due canti. Le metamorfosi del carro della Chiesa, oggetto di quattro drammatici quadri animati, rappresentano le prove subite dalla Sposa di Cristo, e la sua decadenza, lungo i secoli, sino al 1300, cioè all’epoca di Bonifacio VIII e dell’asservimento della Chiesa a Filippo il Bello. Il poeta pellegrino riceve da Beatrice, alla fine del XXXII canto, la promessa della sua salvezza eterna […] la ‘Roma onde Cristo è romano’ indica chiaramente il Paradiso […]. L’investitura profetica di Dante è ribadita solennemente nell’ultimo canto, quando Beatrice, riferendosi alla processione e alle metamorfosi del carro, ormai concluse, pronuncia parole profetiche su un registro apocalittico. Dopo gli ultimi rimproveri mossi da Beatrice al poeta pellegrino a riguardo di quella scuola filosofica (si tratta probabilmente dell’averroismo latino) che era stata troppo fiduciosa nei poteri della ragione e che Dante avrebbe avuto il torto di seguire, allontanandosi dalla verità, Matelda bagna Dante e Stazio nelle acque dell’Eunoè. […]. ‘l’uccel di Giove’ […] che, più rapida del fulmine (‘foco’) si scaglia sulla Chiesa (vv. 172-117) rappresenta la persecuzione dell’impero romano contro i cristiani; l’uccello imperiale colpisce con forza la Chiesa che sbanda, come una barca colta dalla tempesta, ma non cede ai colpi. […]. La volpe, autrice del secondo attacco sferrato al carro (vv. 118-123), rappresenta l’eresia che cerca di infiltrarsi con l’astuzia all’interno della Chiesa per portarvi lo scompiglio. Essa viene vigorosamente cacciata da Beatrice, la ‘donna mia’, immagine della teologia e del magistero della Chiesa. […] il terzo attacco subìto dalla Chiesa […] raffigura la ‘donazione di Costantino’, cioè la sovranità temporale su Roma e altri territori che l’impero romano avrebbe fatto al papa Silvestro I e ai sui successori nel 324. Per Dante la donazione di Costantino – che il poeta colloca in Paradiso -, pur nascendo da nobile e retta intenzione, è stata foriera di numerosi mali per la Chiesa. […]. Il drago che emerge dalle viscere della terra e che sfonda il carro, strappandone una parte del fondo e ritraendosi poi serpeggiando (vv. 130-135), è chiaramente una potenza infernale. Tale infatti è il significato del drago nella letteratura profetica cristiana. Basterà pensare all’Apocalisse di Giovanni […] il carro della Chiesa si trasforma in un mostro orrendo, dalle sette teste (o peccati capitali), tre delle quali sono spuntate sopra il timone e le altre quattro a ognuno degli angoli del carro, e delle dieci corna (o dieci comandamenti continuamente trasgrediti). […]. L’ultima visione (vv. 148-160) presenta, secondo i canoni della tradizione profetica e apocalittica, la Chiesa come ‘puttana sciolta’ che siede sul mostro. Questa prostituta rappresenta effettivamente, agli occhi di Dante, la Chiesa di Bonifacio VIII e dei suoi successori. Nella tradizione biblica, la ‘magna meretrix’ è colpevole di essersi allontanata da Dio: nel linguaggio biblico la fornicazione e l’adulterio indicano l’idolatria. Roma, e poi Avignone, sono la nuova Babilonia. Dante riprende immagini ampiamente diffuse nei polemisti anticuriali (basti pensare ai testi dei gioachimiti o degli spirituali, tra gli altri, Pietro di Giovanni Olivi). […]. Come ogni visione
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dall’Abate e soprattutto dalla Scrittura il processo di trasumptio che modula in figuralità accessa il moto d’inveramento dalla “lettera” allo “spirito”. In virtù dell’ascesa al cielo, che è il posto di Luminosità piena, Dante Auctor-Agens, ormai purgato nell’humilitas che lo pone quale membro, eletto dalla grazia, della comunità vera dei credenti nella visitazione della corte santa, “in carne” traspone la propria assunzione potremmo dire al limite di una sacralità, che in forma innovativa e straordinariamente inventiva reimposta i parametri della narrazione lirica. Se i riferimenti ad Enea e a San Paolo sono i chiari esempi della mimesi su cui il poeta elabora la propria visio, la modalità del raffronto nella visio delle realtà più alte pone nel circuito profetizzante la lirica a vaticinio sulla relazione-differenza in merito ai mezzi, scienza e fede, e alle possibilità, conoscenza e preghiera, per i quali recuperare, in prossimità del terzo regno e dentro esso, un dialogo ancora più credibile, ossia realisticamente mobile con il lettore nell’adattamento lirico hic et nunc. Nel mentre l’Auctor informa l’Agens dell’avvenuto, e quindi tra se stesso e la (sua) “memoria che non erra”, nella riesamina delle divergenze tra Chiesa e mondanità. E l’insegnamento evangelico è paragonato al latte-nutrimento, in sé purissimo, all’immagine delle due mammelle, rappresentanti l’Antico e il Nuovo Testamento, e a Maria, Madre della comunità dei credenti: modello su cui esemplare il comportamento cristiano ed esercitare la virtù della fede, non disgiunta, quest’ultima, dalla speranza e dalla carità: Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: non siate come penna ad ogne vento, e non crediate ch’ogne acqua vi lavi. Avete il novo e ’l vecchio Testamento, e ’l pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. Se mala cupidigia altro vi grida,
apocalittica, questa visione denuncia sì i mali che sfigurano la Chiesa, ma è soprattutto latrice di un’indefettibile speranza di un rinnovamento spirituale […] [E] Il rinnovamento civile e religioso della società, mediante il ristabilimento dell’autorità imperiale, sarà di nuovo annunciato nel canto XXVII del Paradiso (vv. 19-27, 40-66) da Pietro, il primo Pontefice» (François Livi, Polemica politica e profezia religiosa nella Divina Commedia, in Idem, Dante e la teologia, cit., pp. 155-158 e pp. 172-179).
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Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
uomini siate, e non pecore matte, sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida! Non fate com’agnel che lascia il latte de la sua madre, e semplice e lascivo seco medesmo a suo piacer combatte! (Par. V, vv. 73-84).
Potremmo dire che se Beatrice è pienamente figura Christi, Maria è la figura-presenza trasumante del canto in sé: è addirittura l’immagine del poema stesso, la sua più alta forma-lingua, il suo più implicito ed nel contempo dichiarato significato-modello. i rimandi ad Ambrogio, Agostino, Isodoro e Aimone di Halberstadt, in cui la Vergine (in Ambrogio e Isidoro) o la Chiesa (in Agostino e Aimone) allattano gli apostoli e il popolo cristiano con le loro mammelle (raffiguranti i due testamenti) […]. […] [ed ancora] il protendersi dei beati verso Maria viene paragonato allo slancio di tenerezza che il lattante ha verso la propria madre dopo averne succhiato il latte: E come fantolin che ’nver’ la mamma tende le braccia, poi che ’l latte prese, per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese (Par., XXIII 121-126). La comparatio domestica non svolge una mera funzione figurativa, perché già connotata in senso fortemente spirituale da tutta una tradizione di testi interamente dedicati al tema del latte e dell’allattamento di Maria, in cui la lactatio, oltre a rappresentare la pietas e la tenerezza verso il Figlio, diventa simbolo del suo atteggiamento misericordioso nei confronti di tutto il genere umano. […]. Nel XXII canto del Purgatorio la metafora [del latte] compare […] in un contesto collegato ad un ambito più propriamente intellettuale. Dante sancisce la superiorità di Omero dicendo che fu allattato 167
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(‘nutrito’) dalla Muse più di ogni altro poeta. […]. In relazione al rapporto latte eloquenza, è di un certo interesse […] [il riferimento a] Trifon Gabriele […] a commento di Purg., XXII 102: Idest, al quale le Muse dieder ’latte più che altro, ed eloquenza che è il latte delle Muse; e perciò dipingisi san Bernardo che tetta Maria Vergine, perché fu eloquentissimo, e di lì Petrarca nella canzon di Nostra Donna in vece di Musa invocò la Nostra Donna che gli desse di quel latte dell’eloquenza che largì a San Bernardo. Nella chiosa viene chiamata in causa la celebre lactatio Bernardi, le cui prime attestazioni sono riscontrabili, alla fine del XIII secolo, nella pittura spagnola dei monasteri cistercensi affiliati all’abbazia catalana di Poblet. Tra le fonti letterarie, la testimonianza più antica è stata individuata da Berlioz in una raccolta di exempla, il cossidetto Ci nous dit. Secondo il parere di Blangerz, che ha curato l’edizione del testo, tale raccolta fu messa insieme tra il 1313 e il 1330 da un religioso (appartenente ad un ordine mendicante) originario della regione di Soisson. L’anonimo autore, che dedica molto spazio alla figura di San Bernardo, ad un certo punto scrive: ‘Et Nostre Dame li mist sa saincte mamelle en la bouche et li aprint la devine science’. Il riferimento a questa leggenda interessa in questa sede soprattutto perché il miracolo della lactatio, come nella chiosa di Trifon Gabriele, verrà collegato in modo specifico non solo alla trasmissione in san Bernardo della Sapienza divina ma soprattutto alla sua proverbiale eloquenza, che gli valse l’appellativo di doctor mellifluus. Difficile stabilire se Dante potesse avere conoscenza di tale leggenda, vista anche la sua scarsa circolazione nel XIII e XIV secolo (almeno a quanto risulta finora) e se essa possa aver avuto una qualche influenza nella formazione della metafora. Più facile pensare che, come già ipotizzato dalla Villa, alla costruzione dell’immagine abbia contribuito in modo decisivo il ricordo dell’allattamento della Filosofia, della Retorica e della Grammatica, insieme con l’esistenza nella tradizione di un collegamento metaforico tra latte ed eloquenza. Si può in aggiunta ricordare che nel mondo classico veniva assegnato al carattere della nutrice e alla qualità del 168
Capitolo IV - Liturgia e profezia: l’oratio mariana e la poesia della Giustizia-Verità
suo latte una parte fondamentale nella formazione dell’indole. […]. Dante […] [chiama] in causa il latte con cui le Muse nutrono i poeti ma […] [allude] anche [canto XXIII del Paradiso] ai beati allattati da Maria. 44
Con l’ulteriore ingestione drammatica dell’io lirico con e nell’io biografico l’invenzione poematica (fictio e visio detti quali risvolti veritativi dell’ineffabile) mostra l’operabilità del paradosso nella più lucida dichiarazione di poetica. La quale è, dunque, l’ineffabile stesso detto dall’indicibile, che si fa uomo-storia. E l’esclusività di tale azione è resa dalla singolarità dell’esperienza-raccontata, che è in sé rivolta all’umanità tutta, nell’incontro, quindi, di “un” poeta fiorentino con Dio. E il consequenziale raffronto della narratio con gli altri uomini. Ecco che Dante riprende, al fine di plasmare in verità completa il dialogo con sé e con il lettore, il complesso, appunto, trasumanar dell’immagine, per cui ci dice di essere venuto a contatto con la visione della Madre di Dio. Con il muoversi narrativo “in carne ed ossa”, come per l’io biografico nel mentre ricorda la trama fisica del racconto metafisico che ci rivolge. Quindi, il termine persona, adottato a gestire il racconto della verità, che è la Verità, diventa basilare soprattutto nella relazione con Cristo e con la Madre. Il poeta-pellegrino conferma nell’immissione al Paradiso la visione ed il sogno quali espedienti dell’immaginativa e conferma al lettore, primo depositario, e che è anche in sé il primo detrattore, l’incontrovertibile realtà detta in figura del viaggio fisico-metafisico. Ma cos’è il “vero “detto dalla poesia e come Dante ce lo porge? Esso è tutto manifesto nel rapporto lirico di figura-persona, quindi, ristabilito nell’evidente messa in scena-maschera della propria avventura. E qui il “gioco” di individuare nel contrario del vero l’opportunità di esporre credibilità alla mente umana nel rinvio alla negazione offerta per immagini evidentemente ricostruite, non solo e non tanto espone l’ulteriore ammissibilità che esse siano frutto di realtà, non garantite dalla loro
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161.
Maurizo Fiorilla, La metafora del latte in Dante, in La metafora in Dante, cit., pp. 152-
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negazione e dalla evidenza di dichiarata verità (che sarebbe, se il discorso poetico si riferisse solo a ciò, un ripetuto modulo ideologico-scrittoirio), quanto l’intensificazione del paradosso stesso. Advenendo, in specifico, ad una serrata dinamicità lirica degli enti descritti. Facendo sì che il principio del “tutto vero”, poiché tutto “realmente vissuto”, promuova l’ineludibile nella presenzialità coerentemente redatta dal racconto di un viaggio dall’errore verso il Vero. Identificato, quest’ultimo, nel Dio cristiano, proprio dal doppio io. E in quanto Caritas incarnatasi espone in modo ineludibile la visio lirico per tramite degli occhi della Donna-Verità: il vero […] è talmente palese da sottostare alla più vivida illuminazione della coscienza, anzi dell’intenzionalità. Le strutture che le prospezioni moderne riconoscono nelle opere, sono dati oggettivi che non riguardano necessariamente la coscienza riflessa degli autori; in questo caso l’attributo dell’intenzionalità equivale a una visibilità tutta particolare, differenziale e addirittura ostentativa. […]. La verità insegue dunque e conferma se stessa; ma fino all’inizio del Paradiso se n’era avuto un tenue anticipo antifrastico e denigratorio nella battuta di maestro Adamo a Sinone: […] ‘Tu di’VER di questo; ma tu non fosti sì VER testimonio là’ ve del VER fosti a Troia richiesto’. […]. Nell’ultimo cielo del Paradiso l’eco spaziata e insistente rappresenta con fonica fisicità il limite di avvicinamento della verità, rapporto o ‘adequatio’, alla realtà. […] [E con il successivo passaggio dal] vero aggettivo al vero sostantivo, che è qui poi passaggio dal vero morale al vero teoretico, in una gradazione e progresso in cui si rispecchia l’etica intellettualistica di Dante, affermata esplicitamente più oltre nel canto quando si scaglionerà la beatitudine a norma intellettuale […]. Il primo vero è dunque un futuro rivelato: l’imminente dispiegato della vita morale in terra, da san Pietro indirettamente riferito a un nuovo ‘Scipio’ e riconfermato dalla sua fiancheggiatrice Beatrice […] si varia il verso che aveva chiuso il ‘credo’ di Dante, ‘e come stella in cielo in me scintilla’ […] il vero si collega col vedere. Se il cielo è il luogo dove si rivela la verità (‘come stella 170
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in cielo’), si conferma che l’allusione va a un motivo centrale. Il vero qui è la razionalità immanente a una certa situazione cosmogonica (sia pure inventata da Dante) […]. Vero si applica dunque a più accezioni: verità storica in prescienza; adeguazione dell’ ‘intellectus’ alla ‘res’; teorema di fatto; teorema nella sua razionalità, finalmente e supremamente, Dio stesso in quanto oggetto di contemplazione (‘alta luce che da sé è vera’). […] [Verità è, dunque, per Dante personaggio quando] egli assume la parte, il ‘genere’ del visionario, essa è solo quella di un’esperimento immaginato, ciò che non lo esonera affatto dalla mediazione della ragione discorsiva, e nella contesa fra intuizione e razionalità nel complesso gli esalta la razionalità. Ma Dante individuo storico, con la frequenza delle sue (per lo più celate) palinodie e contraddizioni, quelle indicate sugli ordini angelici e le macchie lunari […] appare uomo di temi più che di tesi […] [Ed è nell’Amore il dispiegamento lirico del vero] Al modo stilnovistico, i ‘belli occhi / onde a pigiarlo fece Amor la corda’. Corda, cioè lenza, laccio, rete, meglio ancora le ritorte del prigioniero: quasi fossimo in presenza della consueta agudeza trobadorica o pretrachesca del catturato, con la relativa etimologia di Amore da Amo, ovviamente inclusa da Dante, nel suo solito procedimento a spirale, ma qui non più esauriente. A quest’altezza, infatti, Amore non si limita alla banale ipostasi cortese, ma è l’Amore infinito di cui Dante è oggetto, Dio-amore vòlto alla sua salute magari mediante astuzie teologiche. Amore, in altre parole, ha valore euristico rispetto alla conoscenza.45
45 Gianfranco Contini, Il canto XXVIII del ‘Paradiso’, in Idem, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, cit., pp. 192-197.
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Capitolo V - ‘Trasumanar significar per verba / non si poria’. Maria e il verso-redento: persona-figura
Capitolo V
‘Trasumanar significar per verba / non si poria’. Maria e il verso-redento: persona-figura
La “preghiera invocante”, ma anche quella di lode, se mai potessero essere scisse in due strutture separate, base del canto e nucleo in cui il canto stesso viene germinato, e su cui si muove gran parte della diegesi poematica (soprattutto in momenti topici dell’opera, oratio che è in sè figura dell’azione del penitente nel mentre si realizza il suo discorso sulla Giustizia-Verità) rovescia l’usuale schema locutivo. La Vergine attira il poeta-pellegrino nello spazio paradisiaco in cui il vedere corrisponde allo specchiarsi. E Dante ascende “nel suo nome” all’Empireo in piena “assunzione corporale”, parafrasando, nel suo riportare ciò che gli è accaduto, uno dei misteri mariani: 1 «D’i Serafin colui che più s’india,
1 «Nel Paradiso dantesco la trama delle preghiere accompagna l’intero cammino del pellegrino segnando le tappe principali della salita all’Empireo, e intessendo di liturgia le pause digressive dal carattere dottrinale e teologico. Resa perfetta dai cori angelici, essa non appare più trasposizione terrena della liturgia celebrata dai viventi, come nel Purgatorio, ma partecipa della perfezione celeste ed estatica dei cieli. […] in Paradiso la tensione beatifica non è solamente in potenza, ma già in atto ed eternamente realizzata. […] le preghiere e gli inni non sono distribuiti nei dieci cieli paradisiaci in modo uniforme – come accade per il secondo regno – bensì simmetrico, creando così delle cornici liturgiche che inquadrano la cantica. […] Un’ampia sezione eucologica disposta a cornice è dedicata alla Vergine, discrimine tra l’aspettazione messianica dell’Antico Testamento e la venuta di Cristo fissata nel tempo dalle Nuove Scritture. Tutte le preghiere rivolte a Maria rievocano infatti il momento chiave della Redenzione: l’Annunciazione e dunque l’umiltà nell’accettare il volere divino, senza le quali non avrebbero avuto luogo l’Incarnazione e il conseguente sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità. A più riprese ribadito nel poema, il ruolo della Vergine è strettamente connesso alla sua essenzialità nel cammino di fede di ciascun cristiano: ella è colei che «frange» il giudizio di Dio, permettendo con il suo intervento di sottrarre il pellegrino alla perdizione della selva del peccato. […]. L’Ave Maria con cui Piccarda prende congedo da Dante nel cielo della Luna viene circolarmente ribattuta nel momento in cui il pellegrino, giunto all’Empireo, contempla l’ordine dei beati nella ‘candida rosa’: ‘Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,/ Maria’ cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave. (Par. III 121-123) ‘E quello amor che primo lì discese, / cantando
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/ Möisè, Samuel, e quel Giovanni / che prender vuoli, io dico, non Maria» (Par. IV, vv. 28-30). La modalità lirico-liturgica di Dante propone diverse formule applicative lungo la peregrinatio: in essa il poeta diventa spesso salmista, come già rilevato, e diremmo, appunto, liturgista. L’invocazione-convincimento da parte del querelante è l’anamnesi della propria specifica situazione, che, a sua volta, coinvolge l’intera biografia e la pone all’incrocio della dialiogizzazione sfenata con un Tu apparentemente irrisolto. E l’io è la voce della comunità della quale l’Auctor-Agens fa parte. Ed il noi (il lettore-uditore in prima fila: astante compartecipe è, tuttavia, lo stesso Dante orante) contribuisce a detergere la “struttura allucinatoria” del verso. Dentro il sogno e al di là di esso. Dentro il mistisco raptus e, nel terzo regno, fuori da esso, tanto da gestirne razionalmente addirittura la procedura del ricordo infittitosi nella Luce (in questo senso “allucinato” vale letteralmente quale “abbagliato dal sole”): «Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia / la famiglia del cielo» (Purg. XV, vv. 28-29). Entro una relazione veritativa con l’Assoluto di cui ci parla il poeta nel vincolo dell’interscambio testuale (il suo canto e il Grande Codice). Il quale, per dirla con Battistini, fa movere, il poeta-pellegrino nella “realtà filologica” diremmo noi del testo e del contesto detti tra l’antica novella e la nuova nell’esodo fisico-spirituale verso la patria celeste. Per tale motivo le preghiere intonate sono il frutto dell’esperienza della traditio raccolte nel verso entro la figura della più volte richiamata humilitas. La quale diventa voce accorata o “singola pronunzia” nel tempo stesso in cui il lettore incrocia il monito dantesco del
‘Ave, Maria, gratïa plena’, / dinanzi a lei le sue ali distese’ (Par. XXXII 94-96). Il Paradiso è incorniciato dalla preghiera che per eccellenza esalta lo spirito di umiltà e condiscendenza necessari per la salvezza. Coerentemente a quanto enunciato in precedenza circa la propria condizione di beatitudine («beata sono in la spera più tarda», Par. III51) e scevra dal desiderio di «più alto loco», Piccarda dedica alla Vergine la preghiera che ne ha fatto il simbolo dell’umiltà nell’accettazione del disegno divino. Da qui la regola fondante il terzo regno: seguendo l’esempio di Maria, «‘nostra volontà’ e ‘sua volontade’» vengono inevitabilmente a coincidere, elevando le anime dei beati alla vera altezza spirituale. Maria ‘umile e alta più che creatura’, nella sua grandiosità ancorata a una limitatezza e fragilità tipicamente umane, si staglia fin dai primi canti del Paradiso quale modello dell’adesione al volere di Dio di ogni ‘ben creato’ spirito, che prova appagamento nella propria condizione beatifica, qualunque essa sia» (Elena Gurioli, Le preghiere del Paradiso: Dante nel cielo delle stelle fisse, in Preghiera e liturgia nella ‘Commedia’, cit., pp. 89-90).
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Capitolo V - ‘Trasumanar significar per verba / non si poria’. Maria e il verso-redento: persona-figura
‘da me stesso non vegno’ (Inf. X, v. 61), e soprattutto sollecito nel cogliere in se stesso [in Dante Auctor-Agens e nel lettore] per un verso la fragilità dell’uomo verificata nelle infinite testimonianze dei propri limiti e per un altro verso la distanza inavvicinabile di Dio. […]. Le sue strategie arrgomentative non ambiscono a docere, ma a movere, e molta della sua parenesi, che non ha la pretesa primaria di insegnare cognizioni dottrinali diverse di quelle note a ogni ‘buon Cristiano’, fa leva sull’appassionata forza di convinzione, sull’‘ardor del desiderio’, sulla partecipazione emotiva, sull’entusiasmo della ricerca e del possesso della verità. 2
Il richiamo al sacrificio della Croce e a Beatrice esprime, in un crescendo sempre più drammatico e luminoso, appunto, il forte nesso semantico tra Cristo, la donna beata e la Madonna: «sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce» (Par. XI, vv. 71-72). Siamo nella “spazialità metafisica” intrisa dalla tensione di riportare e “discutere” i misteri della fede: la «Vergine pregna» (Par. XIII, v. 84) introduce la visione del Figlio. Pertanto, proprio da un punto di vista lirico la mariologia si struttura dal verso ed il mariale poetico da esso scaturito fa da base alla comprensione del più alto mistero cristiano: l’Incarnazione-la Resurrezione. Tutto è rinviato alla gestione mariana dell’ultimo momento della peregrinatio poematica. E la parola è il ripiegamento riformulato, ma anche ripensato, da parte di Dante, di Tommaso per il quale l’esistere è il vero, è la vera attualità di ogni cosa, e, dunque, Maria è “disposizione e forma di aiuto” concrete nella divinità che la muove. Per cui Ella, in questa duplice applicazione del suo essere-presentarsi, supera ed elargisce con la propria “esemplarità”, che è unica, le donne santificate del cielo, come già accennato. E moltiplica, attraverso l’azione-corredentrice, che la rende la sempre disponibile, il momento di peroratio prima della preghiera finale: Ella è pregna di Dio e Lo porta-porge costantemente all’uomo. Oltre e dentro il seno virgineo, nel predicato di cui è depositaria. La Luce, l’immissione del proprio sistema di rifrazione, mediante la
2 Andrea Battistini, Premessa, in Idem, La retorica della salvezza. Studi danteschi, cit., pp. 11-13.
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figura di Maria, non solo riproietta il fondo del negativo dell’immagine cantata, quindi la sua “lucidità più acuta”, ma fa dell’immagine-metaforizzante il vettore ascendente in cui, nel mentre eleva il “velle” nel desiderio, esso stesso raccoglie in quella diffusa emanazione tanto il “personalistico” (riferentesi all’io) moto gnoseologico quanto il personale (l’io nella Storia) del Dante carne-spirito in quell’ «avvertimento dionisiaco dell’ineluttabilità di una nominazione infima dell’inesprimibile».3 Ed è proprio la tentata, suggerita evasione nella Luce nel più ampio allestimento della visio della figura che abilita quest’ultima a proporre non più e non tanto la mediazione tra umbra futurorum e gestante hic et nunc incoativi, ma l’iperbato si assoggetta alla modalità lirica della trasumptio continuata per cui si giunge paradossalmente alla poetizzazione del factum, «veramente factum»,4 per dirla con Romano Guardini. E tale modalità di lettura implica da un punto di vista lirico proprio le istanze adottate dall’Auerbach nella riesamina, ai fini dell’interpretazione figurale dantesca, degli stessi presupposti “figurativi” su cui si basa tanto l’esegesi della figura della Sacra Scrittura quanto quella della figura specificatamente applicata alla Commedia, e con Dante poeta del mondo terreno […] [Auerbach] superò l’aspettativa [ermenutica]. Dante era designato come il poeta cristiano nel senso più profondo. Per cristiano veniva inteso quel modo di pensare che non lascia scivolare il concreto nel puramente empirico, ma lo lega all’Assoluto-Eterno e, dall’altro canto, non risolve l’esistenza dell’ideale ma lo conserva nella storia. Il presupposto è l’incarnazione di Dio e ciò che decide il cristianesimo di un pensiero è che esso accolga in sé questo fatto, – veramente factum, azione e verità nello stesso tempo, – come norma. Allora mi apparve chiaro come Dante sia il poeta che porta nell’eterno l’uomo, il mondo, la storia, l’esistenza tutta, senza che la forma finita sia dissolta. Essa è mutata, ma rimane conservata. 5
Marco Ariani, ‘Metafore assolute’: emanazionismo e sinestesie della luce fluente, in La metafora in Dante, cit., p. 219. 4 Cfr. Romano Guardini, Landschaft der Ewigkeit, München, Kösel-Verlag, 1958, pp. 251-252. 5 Ivi, p. 252. 3
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E Maria viene incontro al poeta-pellegrino non solo mediante l’iperbato in cui si muove per la peregrinatio, sostando nella similitudo, su tutte Luce-Povetà-Grazia-Giustizia, ma giacendo ininterrottamente, trasportata dalla figura che la predica in tutto, l’humilitas, nella relazione maternitàfilialità. Interpolando, così, in modo tutto attivo-proiettivo se stessa nel mistero trinitario: costruendo in se stessa poeticamente l’incontro nell’incohatio formae in cui si mostra, appunto, “sollecitamente operante” nel canto come nella storia: «ella con Cristo pianse in su la croce» (Par. XI, 72). E la Chiavacci Leonardi individua nell’esempio di fedeltà estremo proprio della Vergine ai piedi della Croce 6 il riscatto definitivo dell’uomo e, aggiungiamo noi, della poesia dantesca nel segno che più genara l’humilitas e dal quale quest’ultima a sua volta è partorita: la paupertas fisica e spirutuale: «Maria restò ai piedi della croce, ella vi soffrì insieme a Cristo. L’idea della fedeltà fin su la croce è nel Sacrum commercium (6, 9-13) […]. […] il confronto con Maria si trova soltanto nell’Arbor vitae crucifixae di Umbertino da Casale (V 3), che appare così sicura fonte, con Bonaventura e il Celano, di questa vita dantesca: ‘immo ipsa matre, propter altitudinem crucis… te non valente contingere, domina Paupertas…te plus quam umquam fuit strictius amplexata et tuo cruciatu iuncta».7 Ma perch’io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povertà per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi (Par. XI, vv. 73-78):
Sul tema Cristo-Croce fondamentale per Dante l’opera di Umbertino da Casale: Umbertino da Casale, Arbor vitae crucifixae Iesu, ed. Charles T. Davis, Torino, Bottega d’Erasmo, 1961 – ristampa anastatica dell’edizione Venetiis, Andrea se Bonettis, 1485. Sulla Croce-Cristo e sul percorso lirico dantesco esemplato sulla conversio derivante dal sacrificio della Croce cfr. Stefano Prandi, Il ‘Diletto Legno’. Aridità e Fioritura mistica nella Commedia, Firenze, L. S. Olschki, MCMXCIV. 7 Anna Maria Chiavacci Leonardi, Commento ai vv. 94-96 e 98 del Canto XI del Paradiso, in Dante Alighieri, Paradiso, cit., p. 316. 6
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e su questa povertà non esibita, ma pienamente incarnata si ingenera il confronto-raffrontro con il figlio diletto e amato dal Cristo, l’alter Christus: san Francesco. Ed è proprio il motivo della povertà-umiltà, relato all’essenza della pienezza della Vergine, ossia alla sua sapienza, che la libertà-libero arbitrio gioca nel verso il ruolo decisivo nel discrimine attuato dallo stesso canto in relazione alla conoscenza del Vero-Buono e del Bello. Nella ripresa di San Francesco, Dante rapprende il modulo di immedesimazione lirica dentro e con l’Incarnazione, porgendolo al lettore nella reiterazione del modello, appunto, cristico e mariologico esposto in alta proiezione lirico-profetizzante. Unitamente alla comprensione dei tracciati assunti nel canto dal pensiero teologico-filosofico indicato da varie scuole sul nesso Grazia-Giustizia/Bello-Vero-Buono: L’importanza attribuita da Dante al tema della povertà traspare anche dalla scelta dei dodici sapienti che compongono la seconda ghirlanda, alla cui illustrazione è dedicata l’ultima parte del canto XII (vv. 127-141): tra questi, infatti, oltre a Bonaventura, troviamo due dei primi francescani […] Illuminato e Agostino […] e, alla fine, quel Gioacchino da Fiore, che aveva profetizzato l’avvento di un’ età dello Spirito Santo in cui la Chiesa sarebbe ritornata all’originaria povertà, abbandonando il desiderio di beni materiali e la sete di potere temporale che ne avevano determinato la presente decadenza. Scelte precise, ancora una volta, quelle di Dante, e scelte, nella fattispecie, leggibili anche in chiave polemica antipapale, se è vero che negli anni in cui viene composto il Paradiso Giovanni XXII ha già avviato la sua dura offensiva contro gli Spirituali, contro le opere dell’Olivi e in genere contro le istanze pauperistiche (francescane e non solo). Dall’altre parte, l’ultimo dei sapienti nominati in questo canto [XII del Paradiso] è […] Gioacchino, la cui dottrina della Trinità era stata formalmente condannata dal Quarto Concilio Lateranense nel 1215; e la sua figura risponde dunque a quella dell’ultimo sapiente della prima ghirlanda, quel Sigieri di Brabante che per le sue tesi filosofiche fu perseguitato dalla Chiesa e, appellatosi al pontefice, dovette subire la condanna e venne trattenuto presso la Curia pontificia (a Orvieto, dove fu ucciso in circostanze misteriose, come si ricorda anche nel sonetto XCII 178
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del Fiore). […]. Nel Cielo del Sole – analogamente a Francesco e Domenico, qui affiancati e presentati come due ruote dello stesso carro – convivono Tommaso e Bonaventura […] che su moltre questioni, come ad esempio l’eternità del mondo, assunsero posizioni molto diverse, ma anche Pietro Lombardo e Gioacchino […] che, […], aveva duramente attacato Pietro in merito alla dottrina trinitaria, definendolo eretico e per questo si era attirato le aspre critiche degli stessi Bonaventura e Tommaso […] [e coabitano anche] Anselmo d’Aosta e Tommaso (che aveva confutato la famosa ‘prova ontologica’ dell’esistenza di Dio adottata da Anselmo nel Proslogion); e convivono, in generale, pensatori dagli orientamenti molto eterogenei, che furono talora protagonisti di accese polemiche (da una parte gli aristotelici scolastici, ad esempio, e dall’altra i mistici agostiniani e francescani). Ma non si tratta solo della charitas che porta ora i sapienti ad amare e lodare i loro antichi avversari, si tratta anche e soprattutto del riconoscimento della fondamentale concordia e unità d’intenti che, nella prospettiva ultraterrena, avvicinava quanti, sulla terra, si erano trovati su posizioni diverse e talvolta contrapposte. Non dobbiamo parlare, a questo proposito di eclettismo, o di tollerante ecumenismo (che implicherebbe un relativismo gnoseologico ovviamente estraneo a Dante), e neanche si tratta della vecchia utopia della concordia philosophorum da molti auspicata e vanamente tentata fin dall’antichità; qui è questione, piuttosto, della superiore riconciliazione di tutti i pensatori cristiani di fronte la Verità che essi ora hanno raggiunto, attingendo finalmente la mèta di quella ricerca che era comune e identica in tutti loro nei fini, anche se talora difformi furono i mezzi con cui la condussero. Alla luce della fede, nella carità onnicomprensiva del Paradiso si esaltano i motivi di unità in Dio e si superano, senza per questo annullarle, le antiche divergenze. 8
Il tracciato lirico-gnoseologico viene espresso nella tensiva ricerca del Vero-Bene corrispondente alla Giustizia-Verità, che il canto esibisce an-
8 Francesco Bausi, Dante fra i Sapienti, in canto XII del Paradiso, cit., pp. 75-92.
idem,
Dante fra scienza e sapienza. Esegesi del
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cora nella figura-persona di Maria. Ella è l’unica ad operare l’intercessione per Misericordia. Si saldano i motivi della peregrinatio: fede, giustizia, verità, umiltà, amore, povertà e grazia. E quest’ultima assomma ulteriormente per scelta divina il tutto nella Caritas: tanto il principio-giudizio della giustizia senza modulazioni di sorta, giustizia-condanna-assoluzione verso l’uomo in sé peccatore, quanto il principio di operatività-giusta per Maria in Cristo. Giustizia non intesa, tuttavia, come una giustificazione al limite del sentimentalismo pietistico. E San Francesco e San Domenico, santi mariani, incarnano l’humilitas, che è l’azione stessa della Giustizia, la quale, in quanto esposta per Misericordia, svela addirittura la Verità, ossia Dio stesso: Laddove Bonaventura [canto XII del Paradiso] afferma (vv. 40-42) che ‘lo’ Mperador che sempre regna / provide a la milizia, ch’era in forse, / per sola grazia, non per essere degna’, egli va implicitamente accostando la nascita di Francesco e Domenico a quella di Cristo: in entrambe le circostanze, infatti, la Misericordia e la Pace pevalsero (inducendo Dio a perdonare e a riscattare l’umanità) sulla Verità e sulla Giustizia (che lo spingevano, invece, a punire gli uomini per le loro inveterate colpe). Si tratta di un fugace ma evidente accenno al topos della disputa delle virtù, fra gli altri variamente trattato, sulla scorta del salmo 84 (11: ‘Misericordia et Veritas obviaverunt sibi, Iustitia et Pax osculatae sunt’), da Bernardo (nel primo sermone In festo Annuntiationis beatae Mariae Virginis) e dallo pseudo-Bonaventura (nel secondo capitolo delle Meditationes vitae Christi), nonché da Jacopone nella sua lauda L’omo fo creato vertüoso, dove lo scontro è fra Misericordia e Giustizia, e da Alano di Lilla nell’Anticlaudianus (dove Dio, richiesto da Fronesis di forgiare l’anima di un homo novus capace di redimere l’umanità, benevolmente acconsente, avendo deciso di perdonare gli uomini e di rinunciare a punirli – come Giustizia vorrebbe – per i loro peccati: ‘Iusticie vincit Miseracio normam, / Iudiciique rigor cedit Pietate remissus’). Che il verso dantesco in questione celi un’allusione a questo diffusissimo topos è confermato dal fatto che la disputa delle virtù ricorre anche nell’agiografia domenicana, e proprio in relazione al motivo per cui il santo di Calaruega venne mandato sulla terra […] nella visione romana di Domenico […] Maria convince Dio a non 180
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punire gli uomini (come pure meriterebbero), giacchè dispone, per convertirli, di due servi fedeli – Francesco e Domenico – che ella si accinge a inviare nel mondo. 9
Ed ecco che troviamo mediante la traduzione poetica di “persona” l’ordine teologico-filosofico a cui Dante si richiama per la composizione di tale passaggio lirico. Il quale dice la congiunzione tra forma e contenuto, immagine ed idea, dialogo e monologo, analogia e anagogia della Luce nella “traccia minima” (il verso-parola) della sua proiezione alla memoria. Il disvelamento cioè completo dell’essere nella terragna e metafisica enucleazione della sua integrità di uomo e di credente. E Dante svela il percorso lirico che traduce l’atto della sua fede, che è «sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi», Par. XXIV, vv. 64-65). Integrità-fede detta nel modulo versificatorio mediante il sermo humilis. Nell’humilitas, che è la profondità estrema, ossia l’altezza dell’io, il suo disvelamento: il silenzio della Parola, la Sua azione, la meditazione operante. 10
Ivi, pp. 130-131. «L’immagine che più si avvicina alla circolarità dell’amore umano-divino è proprio Maria. [Santa Chiara d’Assisi] la descrive come madre, facendo risalire la sua verginità conservata anche dopo il parto. I due termini non sono in contraddizione, in quanto Maria è l’esempio di una maternità spirituale, è l’emblema per eccellenza dei sentimenti che una consacrata nutre per Cristo. L’aspetto edificante è necessario per offrire […] il vero modo di vivere la contemplazione. Maria diventa lo spazio della meditazione; fisicamente la Vergine è il chiostro. Il corpo della Madre assume le caratteristiche dell’ambiente monastico. Il silenzio, la povertà dei mezzi sono le strutture fondamentali con cui rileggere la vita della Vergine Madre. Maria è povera, anzi poverella come veniva chiamata da Francesco e presentata negli scritti di Chiara. Il privilegio della povertà è stato per primo quello della Madre di Dio che ha deposto Gesù nella mangiatoia nudo e lo ha ricevuto nudo dalla croce. L’immagine del presepio di Greccio rivive nelle parole […] [di Chiara] come segno robusto della scelta di vita. L’aver custodito la povertà significa porsi accanto alla Vergine e portare nel grembo Cristo e partorirlo spiritualmente al mondo. Il chiostro è il grembo del monachesimo, ma è solo una metafora di come ogni donna di S. Damiano fa da madre a Cristo. Associare la maternità di Maria a quelle delle consacrate non assume valore di sublimazione spirituale dovuta ad una carenza affettiva, bensì è l’uso di una similitudine che fa scoprire i medesimi sentimenti e fa entrare ogni consacrata nell’intimità della fede.[…]. La sottolineatura monastica di Chiara non categorizza il sentimento materno di Maria, osservandolo solo come esempio della pia consacrata, bensì è quella dimensione della fede che viene espressa nelle ultime parole della stessa fondatrice: Maria è figlia in quanto discepola di Dio Trinità. Il suo discepolato è letto come una anticipazione del modello monastico, 9
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Ecco che l’Adamo-Dante, ritornato mediante la nuova Eva nell’Eden ed entrato in Paradiso, riprende in modo diretto, e senza alcun fraintendimento, il mistero dell’Assunzione corporale di Maria in cielo. Se, come ricordato, solo Cristo è risuscitato dai morti in corpo ascendendo alla gloria del Padre, Maria, per dono tutto speciale, è stata assunta in anima e corpo, seguendo, pur in modo diverso, il mistero del Figlio risorto: «Con le due stole nel beato chiostro / son le due luci sole che saliro; / e questo apporterai nel mondo vostro» (Par. XXV, 127-129). Il tema delle “bianche stole” forma un discorso lirico che dal XXV canto raggiunge il XXX del Paradiso per poi nell’ultimo essere assorbito entro la conoscenza per Grazia, ma invadente già il poema sin dall’inizio della peregrinatio. Il viaggio stesso, riprodotto da un linguaggio inadatto per se stesso a dire l’ineffabile, muove proprio dalla pochezza della parola a qualificare come straordinaria l’avventura poetica del cammino. Ed il tema del corpo-anima inserito nella visione-teoria globale del verso si distribuisce nei tre regni a segnalare con forza, nelle diversità degli approcci, l’inventio dantesca. La quale, in prossimità della visione trinitaria, fa appello in modo palese, rispetto agli accenni arcani presenti nelle altre due cantiche, all’intervento diretto del mistero mariano, per far comprendere anche lo “stare” di Dante, in maniera momentanea, in corpo e anima nel terzo regno. Tale procedere assomma e le istanze politologiche e quelle di fede del poeta: l’exul immeritus entra con pienezza etica al cospetto del lettore.11
per cui la vita di selenzio e di nascondimento diventa saldo principio della contemplazione. L’immagine che condensa l’ideale monastico è proprio la scena descritta da Giovanni evangelista: Maria stava sotto la croce. […]. Maria vive il distacco da Gesù nell’offerta totale del suo amore. Nel suo testamento Chiara ritorna a riflette sull’unità dell’incarnazione e della passione sotto l’aspetto della povertà. Maria è discepola della povertà, in quanto socia del Figlio nella passione» (Francesco Asti, L’esperienza mistica di Chiara d’Assisi, in Idem, Dire Dio. Linguaggio sponsale e materno nella mistica medioevale, presentazione di Vincenzo Pelvi, introduzione di Emilio D’Agostino, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2006, pp. 247-249). 11 Il mito poetico sembrerebbe, dunque, proiettare quello personale, al quale il poeta tenta di conformarsi da Auctor. Il motivo autobiografico, pertanto, riferito alle strutture e alle strategie “narratologiche” impiegate da Dante nella Commedia ha ingenerato, nel corso dei secoli, non pochi dibattiti attorno ad una scelta radicale da parte del poeta-pellegrino di conformarsi alle esigenze di uno stile-esempio, che aveva avuto precedenti illustri quali Bo-
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Un’etica formatasi alla scuola della fede. E non a caso l’etica poematica riverbera dell’assunto non solo confessionale del poeta-pellegrino quanto dell’assentimento alla scelta (libero arbitrio) di condursi da poeta-credente verso Cristo. E “il cammino della Commedia” è la stessa etica (percorso) formatasi lungo la via cristologica. E che racchiude la via, appunto, la verità e la vita: la Persona di Cristo: «Ἐγώ εἰμι ἡ ὁδὸς καὶ ἡ ἀλήθεια καὶ ἡ ζωή» (Κατα Іωαννην, 14, 2-12). 12
ezio e soprattutto Sant’Agostino. Ssu questi argomenti rinviamo agli studi, rispettivamente, di Domenico De Robertis, Il libro della «Vita Nuova», Firenze, Sansoni, 1970 e Giuliana Angiolillo, Un’isola «autobiografica». Viaggio nella medievalità di Dante, Salerno, Edisud, 1994. Sul genere autobiografico, per un quadro complessivo, rimandiamo al fondamentale volume di Philippe Lejeune, Le pact autobiographique, Paris, Seuil, 1980 e a Marziano Guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977. 12 «Il racconto della Divina Commedia traversa verticalmente l’universo. Quell’universo è finito, sferico, conoscibile, con un suo limite esterno (il Cristallino) ed un suo centro (che è il suo punto più basso, nel cuore della terra) […]. Ma quel viaggio così ben delineato si trova in una dimensione ambigua: siamo nell’aldilà, ma il tempo e lo spazio ci seguono. I luoghi di questo oltremondo sono inseriti nell’universo fisico: l’inferno è dentro la terra, il purgatorio poggia sopra di essa, ergendosi sull’oceano, il paradiso, fino al canto XXX, si percorre attraverso i nove cieli che l’astronomia definisce e descrive. Anche il tempo, sempre misurato dal sole e dai pianeti lungo il cammino, scandisce le tappe del viaggio. Questo aldilà è dunque oltre la morte e oltre la storia, che di fatto è giudicata, ma non oltre la dimensione dell’uomo, stabilita dalle categorie con le quali egli misura il mondo. Un aldilà intermedio, si direbbe, adiacente alla storia, un non tempo, che non è ancora eternità. Gli scambi tra questo oltremondo e la vita sulla terra sono infatti continui, come tra due prani della stessa casa, tanto che a volte non si sa bene da che parte veramente ci si trovi. […]. A un certo punto accade qualcosa di inatteso, un salto di livello, una brusca interruzione della linea retta sempre prima seguita: perché il viaggiatore esce dal tempo. La linea del viaggio va in salita, e, quindi, secondo la fisica, va dal pesante al leggero. L’aldilà dantesco è un aldilà di corpi, e questi corpi appaiono di estrema grevità e spessore nell’Inferno, leggeri e umbratili nel Purgatorio, finchè nel Paradiso, intravista ancora una vaga parvenza – gli ‘specchi sembianti’ del primo cielo – essi sono chiusi e fasciati dallo loro stessa luce, non più accessibili ai sensi se non per l’estremo fulgore. Dal corpo di mastro Adamo, la cui enorme epa non può spostarsi da un’oncia in cent’anni, a quello evanescente di Casella, al sembiante perlaceo di Piccarda, a Cacciaguida ‘chiuso e parvente del suo proprio riso’, c’è via via un assottigliarsi di consistenza fisica che segue coerentemente la legge di tutto l’universo. Sempre più leggero, sempre più sottile e diafano si fa il corporeo, come il linguaggio. La lenitas suprema toccata nel XXIII (‘Quale ne’pleniluni sereni – Trivïa ride tra le ninfe etterne…’) risponde, con uguale oltranza, alle rime aspre e chiocce del tristo buco infernale. E quando, lasciati i cieli dei pianeti, lasciato lo stellato, ultima sponda della storia, si entra nel Cristallino, appaiono allo sguardo le immateriali faville dei cori angelici, che
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E così il poeta dice con modulo di peroratio-invocatio il “da farsi”, l’operatività crescente (l’ultima tappa lirica del cammino) trasmessa dalla Madre:
non racchiudono più alcun corpo e danzano quasi un gioco puro ed astratto – il cerchio e l’uno – al di là ormai di ogni spessore, nell’assoluta forma geometrica dell’intelletto. Oltrepassato l’uomo, oltrepassato anche l’angelo, quando il viaggiatore abbandona l’estrema riva del tempo ed esce dallo spazio, non resta ormai che la pura divinità che abita nell’eterno. […]. Nella pua eternità senza tempo né spazio un’accolta immensa di bianche stole, cioè di corpi gloriosi, dove sono finalmente visibili le fattezze, gli atti, gli sguardi, udibile il timbro delle voci. Il tempo irrompe nell’eterno, il corporeo nello spirituale, e il lago di luce che fa da diaframma tra le fa le due dimensioni fa anche da tramote fra di esse. […]. Nel XXX canto del Paradiso, l’uomo che esce dal tempo e penetra nell’eterno, cambia di fatto dimensione. La progressiva salita dal corporeo al diafano corrisponde a quell’aldilà ‘intermedio’ che è poi quello sempre immaginato sulla terra, e che è, a ben guardare, la dimensione stessa in cui vive la coscienza profonda dell’uomo in questo mondo. Come scriveva Agostino, l’uomo può misurare il tempo perché in un punto della sua anima ne è in realtà al di fuori. E che Inferno, Purgatorio e Paradiso, quelli danteschi intendo, siano in realtà una proiezione della stessa vita terrena vista da un punto – la coscienza dell’uomo – che quella vita può giudicare, lo diceva già il Buti. E dopo di lui, fino allo Hegel e allo Auerbach, o più profondi lettori di Dante. Ma ciò vale soltanto fino a quel passaggio di Paradiso XXX. Allentrare nell’eterno (‘alletterno dal tempo’) la dimensione umana viene meno, saltano cioè le categorie dell’intelletto. […] [Questa visione-in-venzione] trae la sua vita da una profonda idea, forse la più alta, certamente la più nuova, tra le idee trasmesse dal Cristianesimo alla cultura occidentale: il grande tema biblico della resurrezione della carne […]. La Divina Commedia di Dante è forse solo il grande testo – non teologico – che di quell’idea sia portatore in quanto in essa ha le sue radici. Quell’idea fonda infatti la concretezza del poema, e la sua stessa possibilità. Il poema è fatto di corpi, non di spiriti, né di astratte figure allegoriche, come altri celebri testi medievali […]. La grandezza, e l’unicità della Commedia, sta nel fatto che essa attinge ad un’altra dimensione - quella oltreumana o divina – la dimensione dove il corpo fece il suo ingresso, nella storia dell’occidente, con il racconto evangelico della resurrezione di Gesù. […] nella visione del canto XXX, quando Dante oltrepassa la soglia del tempo […] [quest’ultimo] precipita nell’eterno, e l’ultimo giorno lo raggiunge all’improvviso. Le vesti di Isaia, le bianche stole di Giovanni, appaiono ai suoi occhi. Il rarefarsi del corporeo, prima sempre più sottile e diafano, e ormai quasi indicibile, gli consolida a un tratto davanti e gli ridà parole: ‘Nel giallo de la rosa sempiterna, /che si digrada e dilata e redole /odor di lode al sol che sempre verna,/ qual è colui che tace e dicer vole, / mi trasse Beatrice, e disse: «Mira / quanto è ’l convento de le bianche stole!’ (Par. XXX, 124-129). Più splendido linguaggio, ricco nel lessico e nelle immagini, mutevole nei toni, flessibile nella sintassi e nel ritmo, non è stato forse raggiunto dalla poesia, come questo che narra, negli ultimi canti del Paradiso dantesco, la pura visione dell’essenza stessa del divino nell’eternità. Perché in quella candida rosa che fiorisce nell’eterno, al termine insieme del poema e dell’universo, è significato tutto l’umano che rientra nel divino come nella sua patria [esule da Firenze, Dante, Auctor-Agens, ritorno nella “Firenze dell’anima” avendo visto-abitato la Gerusalemme celeste, così il lettore della Commedia di ogni tempo],
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è in ciò che più umile che si rivela Dio – ciò che è più lontano (umile) da Dio è più variato, e quindi più esemplare; mentre ciò che è più vicino è più ‘conforme’, e meno esemplare […]. Bonaventura […] distinguendo nella similitudo che ‘se ipsa est similis’ due punti di vista, afferma che la prima similitudo è ‘impressa’, mentre la seconda, quella divina, è ‘expressiva’. Se l’uomo può prendere la similitudo – la faccia ‘impressa’ – ad ‘regulamendum et dirigendum’, e tuttavia cadere in errore, è perché solo quella espressiva, cioè quella che viene incontro, essendo essa stessa la fonte della ‘regula’ e della ‘directio’, ‘errare non potest’ e ‘ponit impossibilitatem erroris’. […]. Fede, inchoatio e iperbato, come ultime istanze del processo delle similitudo luminose, sono in effetti collegati fra loro nella figura della ‘rosa’ […] [pensata] come un rosone di cattedrale che filtra e dà forma alla luce esterna illuminando l’interno. Ad un certo punto Dante stesso pare confermare l’ipotesi della rosa come una vetrata che consente di ‘ravvisar lo maggior foco’, quando nel XXIII canto [della terza cantica] già di fronte al trionfo di Maria, e denunciando le proprie insufficienze, egli si rappresenta nell’atto, consueto, di pregare il nome del bel fior ch’io sempre invoco. 13
Il riferimento del poeta a Bernardo, Alberto Magno e Corrado di Sasso-
in grazia dell’amore stesso di Dio [per Maria]: ‘nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo, ne l’etterna pace, così è germinato questo fiore’ Par. XXXIII, 7-9» (Anna Maria Chiavacci Leonardi, Il tema della Resurrezione nel ‘Paradiso’, in Dante e la Bibbia, cit., pp. 249269). Sul tema della resurrezione della carne nella Commedia, ed in pecifico sulla relazione non sempre lineare (soprattutto se relata all’Inferno e al Purgatorio) e, tuttavia, decisamente rilevante in senso altamente proiettivo dell’immagine fisica della corporeità negli abbracci, quale unitività tra corpo e spirito nella più grande relazione forma-contenuto della poesia dantesca nel Paradiso, tassello decisivo, questo, per comprendere il ‘trasumanare’ dantesco cfr. Manuele Gragnolati, Corporeità e identità: a proposito degli abbracci nella Commedia, in Il corpo glorioso. Il riscatto dell’uomo nelle teologie e nelle rappresentazioni della resurrezione, Atti del II Simposio Internazionale di Studi sulle Arti per il Sacro, Roma, Pontificia Università Lateranense, 6-7 maggio 2005, a cura di Claudio Bernari, Carla Bino, Manuele Gragnolati, collana “Biblioteca di Drammaturgia” – 2 – Materiali - diretta da Annamaria Cascetta, Pisa-Roma, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, Accademia Editoriale, 2006, pp. 71-81. 13 Paolo Bollini,Una lingua di luce, in Idem, Dante visto dalla Luna-Figure dinamiche nei primi canti del Paradiso, cit., pp. 262-278.
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nia è un continuum nella Commedia. 14 Dante pone dottrina, risvolto dogmatico e realtà storica come risultato di un processo che deterge la poesia dalla pura invenzione, introducendola nella fantasia-visione (in-venire nella realtà) e fa della storia il basamento della discussione teologico-filosofica, ma è la Bibbia il modello sacro occidentale di un liber che ha in sé tutto, alternativo a ogni altra scrittura, e da un punto di vista anche stilistico: i Vangeli, con la rivoluzione del sermo humilis sublime, paradossale e radicale; i libri profetici, con la violenta immaginazione vertiginosa, il Cantico, con la dulcedo erotico-mistica; Giobbe, con l’offesa al corpo e la maledizione, i Salmi, con l’ esaurimento di ogni possibilità di preghiera e poesia; il Pentateuco con la nostra storia illustrabile alla luce dei quattro sensi della scrittura […] Dante sa bene che la Bibbia, scrittura divina, è scrittura di carne per poter essere messaggio di spirito. 15
Ed è il rinvio alla preghiera, quale genere codificato nell’ambito liturgico, come già ricordato, preghiera che è in sé poesia, la lettura-meditazione che Dante esercita nella codificazione della propria. Alla struttura orante delle preghiere liturgiche inserite nel Sacramentario (dal gregoriano al romano, dal veronese al bergomense e gelasiano, e non solo) unitamente alle antifone raccolte nell’Antifonario romano o nel Sacramentario mozarabico,16 è Preces ad Sactam Maria il modello immediato, poiché più intimo, al quale il poeta si rivolge, non fuori da una rigorosa esecuzione, che ha referenti importanti ed imprescindibili. Tuttavia, l’affetto per la Madre fa rientrare nel genere lirico-orante anche le più semplici come, ovviamente, le più complesse invocazioni, ed il Medioevo segna il definitivo ingresso della Madre di Dio quale modello-persona insostituibile affinchè il genere umano nella
In realzione agli autori citati e alla ripresa da parte del poeta unitamente all’utilizzo che Dante fa del Nuovo Testamento cfr. Sergio Cristaldi, Dalle Beatitudini all’ Apocalisse. Il Nuovo Testamento nella Commedia, in Letture Classensi, ciclo curato da Nicolò Mineo, Ravemma, Longo, 1988, pp. 23-67. 15 Enzo Esposito, Dante e la Bibbia, in, Memoria biblica nell’ opera di Dante, cit., pp. 10-11. 16 Cfr. Stefano de Fiores, Teologia orante e laudativa. Modello della teologia monastica. Maria mediatrice misericordiosa tra Cristo e la Chiesa, in Idem, Maria sintesi di valori, cit., p. 179. 14
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sua totalità ed il singolo, dentro e fuori la comunità degli altri credenti, possa osare rivolgersi a Dio con meno timore. E comunque giustificato in partenza dalla protezione della Vergine: «‘Regina celi’ cantando sì dolce, / che mai da me non si partì ‘l diletto» (Par. XXIII, vv. 128-129). Tale fondativo passaggio è assunto da Dante a detergere il “femminino” o a esporre mediante la donna o le donne beate del cielo una poetica non vagamente misticheggiante: in Maria la poesia è rinnovata dalle viscere. Si spiega, così, l’imperativo d’affetto con il quale San Bernardo indica al poeta di osservare, guardare attento, profondamente la Madonna per vedere-capire Dio: «Rigurada omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia, chè la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo» (Par. XXXII, vv. 85-87). È un passaggio, quest’ultimo, delicatissimo e decisivo che ci permette di constatare non solo l’afflizione-affezione di Dante per la Madre di Dio, ma l’impiego poetico che il poeta fa della sua figura giunto ormai prossimo a vedere l’Assoluto: l’Auctor-Agens aprirà col canto la relazione, basata sul concetto di persona, tra sé, la poesia, appunto, e Dio passando e sostando nella Vergine Maria. Il mariale è definitivamente disigillato entro la rosa dell’empireo formata dai Beati («In forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa», Par. XXXI, 1-3), che sono i petali-prosecuzione della Luce, di Maria, ancella di Dio, «la regina», come la canta anche san Bernardo, «del cielo, ond’ïo ardo / tutto d’amor, ne farà ogne grazia» (ivi, vv. 100-101).17
17 «Le concezioni antropologiche del medioevo più che nei formulari liturgici sono rintracciabili nelle preghiere personali o comunitarie rivolte a Maria in prosa e in poesia che fioriscono nell’ambito monastico. Alcune di esse sono divenute famose, come Sancta Maria, succurre miseris, risalente forse al VII secolo e ripresa da Ambrogio Autperto e da Alano di Farfa, o Singularis meritis attribuita a Efrem ma composta nell’VIII secolo. Nella composizione delle preghiere a Maria si distinguono Anselmo di Lucca (†1086) e Anselmo di Canterbury (†1109), ambedue vescovi e santi. Il primo compone cinque preghiere mariane ad uso della contessa Matilde di Canossa (†1115), la cui guida spirituale gli era stata affidata da Gregorio VII. Sullo sfondo dei ‘peccati più numerosi dell’arena del mare’, la figura di Maria emerge come persona di ‘grandezza ineffabile’ ed ‘esaltata al di sopra della gloria di tutti i mortali e della dignità angelica’, ma insieme clemente e misericordiosa perché ‘grande madre’ che sul Calvario ‘ha adottato come figli’ tutti i credenti. Anselmo tende a scorgere in Gesù il ‘giudice risoluto’, mentre Maria interviene con clemenza ‘quale contrappeso alla
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Dante opera una intersezione sottile e complessa nell’avvicinarsi alla descrizione della Vergine, alla gloria in cui è inserita quale Madre di Dio e degli uomini, ponendo ancora una volta la figura di Beratrice come “mediatrice” del Mediatore e della Mediatrice. Espone con il sorriso della donna benedetta l’anticipazione diremmo ragionativa dell’umana adesione alla visione di Maria. Partendo, quindi, dalla donna amata ed ora trasfigurata in segno sacramentale: ciò rende disponibile il lettore ad entrare gradatamente nella complessa figurazione della straordinarietà dell’evento mariano. E il richiamo al personaggio femminile per eccellenza della Commedia, Beatrice, ci servirà per individuare il nesso, tra materia e spirito, il quale tenta di costruire un ponte ermeneutico, quindi, tra tangibile e intangibile, conoscibile e in-conoscibile: collegamento tra le realtà ultraterrene che Dante ci trasmette con il mariale poetico. La figura del Cristo viene intesa, in relazione a molti passi del poema, soprattutto nel Paradiso, come Iesus mater, in quanto la Chiesa sposandosi col Figlio di Dio, che né è il fondatore, perpetua nella contraddittorietà della storia umana lo stesso Verbo. E Cristo morendo non ha lasciato “vedova” la sua sposa, la Chiesa da Lui fondata, ma ha ri-partorito con
sua severità’. All’orante non resta che affidarsi totalmente, con affetto e speranza, all’intercessione di lei […]. Su ruchiesta di un monaco, Anselmo di Aosta compone tre preghiere a Maria, ognuna delle quali opera un progresso rispetto alla precedente. La prima orazione parte dal torpore nel peccato, passa al tormento della paura e giunge al predominio dell’amore. Il frutto della meditazione sul mistero della Vergine conduce anzitutto alla confessione del proprio male perché sia guarito dalla misericordia di lei, poi a trovare un luogo di rifugio ‘tra il dolce figlio e la dolce madre’, e infine a meditare su ciò che Dio ha compiuto in Maria comprendendo quanto il peccatore è amato da Dio. Le tre preghiere sono mirabili per il ritmo poetico che si esprime e rincorre instancabilmente in rime e assonanze, per l’introspezione nell’animo del credente in rapporto alla salvezza e per l’abbondanza dei titoli appropriati ad esprimere il rapporto di Maria con Dio, con l’umanità e con lo stesso cosmo. L’acme delle scoperte anselmiane è rappresentato dalla maternità spirituale della Vergine, su cui ritorna compiaciuto come per una consolante rivelazione. […]. Contro il luogo comune [dall’altra parte] che fa di Bernardo un ripetitore della dottrina tradizionale, dobbiamo constatare in lui l’iniziatore della mariana meditatio ad Christum. Seguendo l’ordine piramidale gerarchico in uso, egli si stacca dai padri che identificano Maria con la Chiesa per situare [argomento-concezione fondativo in senso teologico-dottrinario e liturgico] la prima in una posizione mediana, superiore alla Chiesa e subordinata a Cristo: ‘Come il vello si trova tra la rugiada e l’aia [Omelia nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione], e la donna fra il sole e la luna, Maria è stata collocata tra Cristo e la Chiesa’» (ivi, pp. 180-183).
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la morte, mediante la Risurrezione, il mondo. Uno slittamento figurale e semantico, in questo secondo passaggio, dunque, che vede Gesù madre: «Quello che Tommaso descrive nell’undicesimo canto […] sembrerebbe proprio un parto maschile con Dio padre nel ruolo di Maria, cioè come levatrice […] Erich Auerbach definisce lo scandalo come il nucleo poetico di questo canto [l’XI del Paradiso]» 18 e Beatrice è intesa nel genere maschile di guida, così come Virgilio. L’ancella dell’Ancella di Dio, strumento dello sguardo di Maria, coopera all’annuncio per la salvezza del poeta. Simbiotiche le due figure, creano nell’ascesa a Dio un teorema perfetto che condivide nella sua geometria ultraterrena l’umanità più viva: Beatrice come memoria, anche, dell’antico mondo che Dante ora può rifiutare, viatico per raggiungere lo sguardo di Lei e trovare l’Amore perfetto, da un lato, e, dall’altro, simbolo di redenzione. Cosicchè, Maria assume il ruolo ulteriore di strumento, possibilità di revisionare l’essere-persona affinchè il poeta-pellegrino ed il lettore possano elevarsi (astrarsi -estasi- nella concretezza del mistero che si è fatto storia) in Dio: «L’osservazione secondo la quale Maria sarebbe funzione che dà forma insieme all’esperienza e al testo di Dante dipende innanzi tutto dal parallelo che si stabilisce fra il III canto, quello sul quale si appuntano in modo concentrato fondamentali ricerche di Dante, e il XXXIII, cioè il canto dell’apoteosi di Maria».19 E Beatrice, riletta dalla visuale di Iesus mater, raggiunge, pur nella pluralità dei significati che la figura di volta in volta viene ad assumere, elevate vette poetico-teologiche, soprattutto quando è posta in relazione alla figura della Madre (pur rivestendo sempre il ruolo di guida-soccorritrice), e, insieme, ricopre il compito di legare l’affetto della Vergine alla incertezza e vacuità intellettuale dell’Auctor-Agens. Consigliera e guida: «Le due dimensioni del ruolo di Beatrice verranno sviluppate al suo apparire al termine del Purgatorio e in tutto il Paradiso. Dante celebra la bellezza di Beatrice e il suo potere su di lui, e nel contempo ne parla con un linguaggio legato fortemente alla figura materna. La maternalizzazione di Beatrice è fondamentale nella particolare forma di sublimazione scelta
18 Jeffrey T. Schnapp, Iesus mater, in Idem, Virgilio madre e Beatrice ammiraglio: generi grammaticali e letterari nella Commedia, in Studi Americani su Dante, cit., p. 230. 19 Paolo Bollini, Dante visto dalla Luna-Figure dinamiche nei primi canti del Paradiso, cit., p. 342.
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da Dante».20 E il nesso Beatrice-Maria lo si comprende drammaticamente con “più facilità”, quando, nel XXIII del Paradiso, la maternità si compone della verginità della madre di Dio, che Beatrice fa conoscere al poeta: «Quivi è la rosa in che ’l verbo divino / carne si fece; quivi son gli gigli / al cui odor si prese il buon cammino» (vv. 73-75). Ma in che modo Beatrice e Maria aprono la cristologia del poema? Quali i moti lirici attivati a garanzia di una mente, quella del poeta, che ripercorra la visione della seconda Persona della Trinità e ne fletta le gradazioni nel canto? È la Luce, oggetto-forza che deteniene in sé la capacità di esporre l’energia per la quale è, ad esercitare il ruolo di traghettatore figurale nel Mistero. Emanata ininterrottamente e, pertanto, gravata nell’accostamento figurativo in tutta la complessa esposizione drammatizzante entro un procedere in salita inarrestabile e sommamente vitale (ricapitolativo e proiettivo e allo stesso tempo) per il poeta-pellegrino: La luce […] appare [al poeta] ‘fluvida’, una fluentia alla quale può attingere: metafora assoluta dell’ineffabilità della visione, il ‘mio gurge’ (Par., XXX 68) è abyssus luminis, vi si immerge la ‘gronda’ degli occhi, ma non per questo viene meno l’inesprimibile tattilità della luce liquida, gustata nella suprema tensione di tutti i sensi nello sprofondarsi nel mistero della rivelazione. […] il Paradiso […] [tutto] è istituito come un’immane rappresentazione sinestetica dell’emanatio luminis, graduata nella fantasmatica visualizzazione della ierarchia entium, disposta nella scalatura ascensivo-discensiva dei cieli percorsi dal pellegrino.21
La poetica del “dolce riso” nell’avvicinarsi a Maria e a Cristo è redenta completamente in quell’ineffabile su cui si poggia la poematica della Luce. E giustizia e perdono ritornano lavate nella profezia dell’humilitas. Maria è madre della profezia, è Ella stessa profezia avvenuta e generatrice di spereanza profetizzante: profezia incarnata, che fa della pietas l’ardente appli-
Rachel Jacoff, Le lacrime di Beatrice: ‘Inferno’ II, in Studi Americani su Dante, cit., p. 33. Marco Ariani, ‘Metafore assolute’: emanazionismo e sinestesie della luce fluente, in La metafora in Dante, cit., pp. 193-194. 20 21
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cazione umana della Caritas cantata dal poeta nel trionfo di Cristo-Luce.22 E il trasumanar di Dante può realizzarsi proprio mediante la Vergine: «verso la fine del Paradiso egli ricorre al cliché lirico dell’amante di descrivere la sua donna, ma con una novità: poiché è impossibile raffigurare il
«La visione di Cristo [canto XXIII] abbaglia il poeta ma rende anche i suoi occhi capaci di sostenere la contemplazione del sorriso di Beatrice e di accogliere la verità di fede: ‘Apri gli occhi e riguarda qual son io:/ tu hai vedute cose, che possente / se’ fatto a sostener lo riso mio’. Dante è ancora sopraffatto dallo smemoramento mistico che fa dimenticare la folgorazione della visione pur lasciando nell’animo il sentimento di essa. La gratitudine verso Beatrice che lo ha invitato a guardarla è il primo sentimento dopo quello suscitato dalla visione ma neppure la bellezza di lei può essere descritta. L’ineffabile, la bellezza del ‘santo riso’ di Beatrice, reso più sfavillante dalla luce diffusa del ‘santo aspetto’ di Cristo, è espresso negativamente, secondo la maniera dei classici, imponendo la necessità della preterizione. ‘Non mihi si languae centum sint oraque centum’ aveva scritto Virgilio (En., VI, 625), ‘Non mihi si centum Deus ora sonantia linguis, - ingeniumque capax, totumque Helicona dedissit’ Ovidio (Met., VIII, 532), ‘Etiam si angelorum scientia mihi foret et omnia membra mea verterentur in linguas’ Agostino (Medit., XV): con la preterizione e con la protesta d’insufficienza Dante vuol dare vuol dare l’idea dell’eccedenza del divino sull’umano e la sublimità di Beatrice-Rivelazione, che non può essere descritta come non può essere descritto Cristo. Il sentimento mistico che era alle origini dell’amore di Dante per Beatrice è innalzato nella sfera ultraterrena, ora che la donna è stata la guida del poeta e il simbolo della via verso il cielo. […] ‘e così figurando il paradiso, / convien saltar lo sacrato poema, / come chi trova il suo cammin riciso’. Tuttavia la preterizione o rinunzia descrittiva, della quale sono esempi i classici, nella spirituale tensione dantesca ha la sua tradizione più intima nella teologia e nella mistica cristiana: […] Agostino […] S. Paolo che, rapito al cielo, ‘audivit arcana verba quae non licet homini loqui’ (II Cor., XII, 4), lo pseudo Dionigi, Giovanni Scoto Eriugena, S. Tommaso. […]. Le difficoltà dell’espressione danno maggiore ardimento al poeta: le consistenti metafore del ‘cammin riciso’, del ‘ponderoso tema’ del grande mare da attraversare segnano gli ostacoli da superare per esprimere in poesia il punto più alto dell’itinerario mistico. […]. Beatrice è elemento essenziale della nuova beatitudine (‘Parìemi che’l Suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sì pieni’) che consente a Dante di vedere le schiere dei beati:‘Perché la faccia mia sì t’innamora, / che tu non ti rivolgi al bel giardino / che sotto i raggi di Cristo s’infiora?’. Beatrice è stata la mediatrice tra l’umano e il divino, la guida del viaggio celeste, unico nella nostra storia della mistica e della poesia in quanto Cristo e Maria e i beati si muovono verso un poeta che dovrà cantare ‘la gloria di colui che tutto move’. Cristo entra in trionfo con la gloria e la potenza, immagine più delle Somme che degli Evangeli da dovere circonfondere da infinita distanza i beati con i suoi ‘raggi ardenti’ e senza che si possa vedere ‘principio di fulgori’. Ancora una volta la poesiadella divinità del Cristo sia anima in Dante, secondo il misticismo dei teologi, con la luce e con la gloria […]. Il Getto ha scritto che l’epica della gloria di Cristo suscita in Dante le immagini del Dio-Imperatore, del Dio-legislatore, del Dio-potenza’ […]. La stessa missione profetica di Dante riceve luce e solennità dalle norme legislative e cosmiche che devono essere conservate dagli uomini» (Antonio Piromalli, Il canto XXIII del Paradiso, in Idem, Indagini e letture, Ravenna, Longo, 1970, pp. 24-28). 22
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sorriso di Beatrice (Par. XXIII, 55 ss.), il ‘sacro poema’ dovrà compiere un salto e passare a un soggetto ancor più difficile, la Vergine Maria».23 La tecnia dantesca della descrizione del reale trova nella liturgia-Scrittura l’unica modalità non solo di non contraddire gli assunti con le immagini predisposte dall’iconografia-orante, quanto proprio quest’ultime, dette nella ripresa essenziale dell’oratio, amplificata per Maria, non camuffano le contraddizioni esposte dalla mente dell’uomo che dice il Mistero. Dante canta il Mistero partendo da ciò che ogni credente conosce. E cede, così, la memoria a tanto oltraggio, e sul versante propriamente speculativo e su quello di intensificazione teologizzante: la “bella menzogna” riferisce della perfezione col canto dell’essere terreno più alto: La sostanza teologica si anima liricamente di vita poetica nel trionfale tono che trasfigura la cultura in immagini. Già molti motivi teologici avevano acquistato forma poetica nella tradizione letteraria e giungevano a Dante in una sintesi psicologica e sentimentale di cui egli allarga e approfondisce il significato. Dante coglie il ritmo metafisico e analogico delle verità teologali: Quivi è la rosa in che il verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino. Immagini, analogie, simboli, derivati da fiori erano nella Bibbia, nella liturgia, nei mistici, nell’arte figurativa: ‘Rosa mystica’ è Maria nella liturgia, candida rosa per S. Bernardo, ‘flos ad cuius odorem reviviscunt mortui’ è Cristo, gigli e balsami gli apostoli, la beatitudine celeste ha nei mosaici ravennati – così il Fallani – e in tutta l’arte bizantina ‘come visione e tappeto, su cui i santi, il prato fiorito’. Certamente sacri erano per Dante i simboli biblici, autorevoli le parole tematiche, suggestive le allegorie, le figure di un linguaggio già costituito ‘ad esprimere [così il Getto] la realtà della vita dell’anima nella sua elevazione, la vita della grazia come gioia stupenda,
23 Joan M. Ferrante, Parole e immagini nel ‘Paradiso’:riflessi del Divino, in Studi Americani su Dante, cit., p. 204.
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preludio di una stagione gaudiosa e sacra’. […]. Il culto di Dante per la Vergine soffonde intorno all’immagine di Maria il sentimento devoto del fedele grato per la benignità, per la pietà, per la misericordia concessa al peccatore e il trionfo della rosa mistica, della stella del mare ha il carattere intimo dell’umiltà e della devozione popolare. Nella sublimità lirica del sentimento religioso concorrono musiche e canti angelici che portano subito l’esaltazione di Maria all’altezza della regina del Paradiso sicchè ogni motivo del culto divino si unifica nel purissimo lirismo della poesia […] L’incoronazione di Maria, dopo l’accento affettuoso di Dante, si ricompone nella prospettiva austera del trionfo di una corona di luce e di canto di cui è suprema espressione la ‘circulata melodia’ dell’arcangelo Gabriele: ‘È una delle più alte, – ha scritto il Momigliano – più armoniose e più melodiose scene del Paradiso. Unisce alla sublimità della tradizione biblica le linee pure e solenni dei più semplici riti della Chiesa quali si sono venuti atteggiando attraverso la lenta elaborazione di secolo. Ha insieme della drammaturgia e dell’inno e con un inno si conclude.’ […]. Il valore della linea teologica che collega la vita degli uomini e dell’universo a Maria benedetta fra le donne e che apre le porte del cielo è la fonte della poesia in cui Dante esprime le note più intense dell’adorazione quasi francescana. Non mancano i richiami al terreno della letteratura religiosa e la ‘viva stella’ di Dante è tale per Benvenuto da Imola perché ‘est enim stella matutina propinquior aeterno soli, et quae plus recipit de lumine’. […]. Le parole sono sillabate come da un orante, dense di musicali e innefabili risonanze prossime ai ritmi psicologici del sentimento di devozione e di fiducia religiosa, le replicazioni sono i segni dell’intensità sentimentale, su tutte le immagini, dalle ‘amate fronde’ (ben diverse dalla ‘fronde sparte’ e dal ‘tristo cesto’ dell’Inferno) ai ‘dolci nati’, agli ‘aspetti disiati’, alle ‘buone bobolce’, su tutte le figure (dai gigli, alla rosa, ai fiori, alla lira, allo zaffiro) si distende un ritmo di sentimento che va dalla contemplazione all’adorazione. 24
24
Antonio Piromalli, Il canto XXIII del Paradiso, cit., pp. 29-36.
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Paradosso e suo superamento, quindi, nella linearità, che è moto circolare del tutto in Dio della visione di Maria («Lo real manto di tutti i volumi / del mondo, che più ferve e più s’avviva / ne l’alito di Dio e nei costumi, / avea sopra di noi l’interna riva / tanto distante, che la sua parvenza, / là dov’io era, ancor non appariva: / però non ebber li occhi miei potenza / di seguitar la coronata fiamma / che si levò appresso sua semenza» Par. XXIII, vv. 112-120) apre all’inventiva lirica più acuta. Detta nel rapporto dialogico tra i tre enti compartecipi del canto (Cristo-MariaDante) verso la bellezza dell’ineffabile, che, appunto, Maria-fiore-profumo indica. 25
25 «La similitudine non basta tuttavia, per quanto al massimo grado analoga alla realtà, ad esprimere la soprannaturale bellezza. Interviene allora il topos dell’ineffabile, motivo ricorrente per tutta la cantica, ma che in questo ha un’ampiezza, una durata di svolgimento non ritrovabile altrove. E accade che qui […] e così, figurando il paradiso / convien saltar lo sacrato poema, / come chi trova suo cammin reciso. / Ma chi pensasse il poderoso tema / e l’omero ortal che se ne carca, / nol biasimerebbe se sott’esso trema. Il peso di questo lavoro, troppo grande per le spalle mortali, non era ancora stato rivelato così apertamente: di quell’umano tremoto siamo ora messi a parte; questi versi preparano da lontano il grande attacco del XXV canto – rivelatore di un altro e intimo sentimento, il dolore dell’esule – in questo stesso cielo: Se mai continga che’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per molti anni macro… In questa ardente e commossa trama, quasi non raccontabile, di visioni, esclamazioni, rinunce, che conduce il canto, c’è tuttavia una sosta. Quando la fortissima luce, in cui si è intravista la figura di Cristo, si è allontanata allo sguardo innalzandosi nel cielo, restano di fronte a Dante, come un fiorito giardino, i beati e in mezzo a loro Maria; su di lei si ferma il canto, come l’attento, affettuoso sguardo del poeta. Cristo è la luce della Chiesa, ma Maria è il suo conforto e soccorso in terra: a lei sono affidate nel tempo le sorti degli uomini, suoi figli. Per questo ella resta ora tra i beati, quando Cristo sale verso l’alto, come restò con gli apostoli dopo l’ascensione del Figlio. L’apparizione dell’angelo che le rende omaggio con il canto e la danza ricorda nelle parole pronunciate l’evento centrale della storia umana, e della vita di lei, l’annunciazione di Nazaret, quasi con le stesse espressioni usate poi da Bernardo nell’ultima preghiera: Io sono amore angelico, che giro / l’alta letizia che spira del ventre / che fu albergo del nostro disiro. Tutta la scena è pervasa di dolcezza, ma nulla vi si trova che sia in qualche modo riconducibile a una sensibilità puramente terrena: i termini astratti (amore angelico, letizia, disiro, circulata melodia) creano un insieme di soprannaturale realtà, quasi non circoscrivibile in forme corporee, pur nella profonda affettuosità che la ispira (l’alto affetto, dirà ora Dante, ch’elli avieno a Maria mi fu palese). Infine anche Maria s’innalza verso l’alto, seguita dalle luci protese dei santi, come le braccia dei bambini verso la madre. Il motivo dell’inizio, madre-bambino, vale a dire il rapporto Dio-uomo visto nella forma più umanamente dolce che si conosca, incornicia così il canto dove la terra si mescola al cielo e il divino si nutre dei più cari affetti terreni. Le due salite che si susseguono nel finale sembrano adombrare i due eventi dell’ascensione e dell’assunzione, quelli che nella storia conclusero il periodo
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Maria spiega l’ineffabile, poiché è Lei il segno vivo della persona che Dio ha scelto per operare la Redenzione: Prima della preghiera di San Bernardo alla Vergine, uno dei più alti testi di dossologia mariana medievale, sul finale della Commedia, avanzata sotto forma d’aiuto a nome del poeta, viene fatta risuonare […] la lode del nome di Maria, richiamato espressamente per ben due volte. La laus Mariae, per la mariologia del XIII e XIV secolo, si identifica in special modo con la laus nominis, che, come anche Dante asserisce, costituisce l’oggetto primario del rito dell’invocazione, assieme al nome di Cristo. Gli elementi della laus sono, dunque, il nomen e in fine gli attribuiti o epiteti, che Dante così ci presenta: Maria è illuminatrice, fiore, stella, mane, sera, letizia, e, infine, donna del ciel, cioè domina. La laus nominis di Maria risulta connessa, anche per Dante, prima di tutto all’interpretatio che ne dà San Girolamo […]. In Maria […] ha abitato, mediante il concepimento, la plenitudo divinitatis. Il nome di Maria è onorato e benedetto, per servirci di un carme di Venanzio Fortunato, e il suo nome è santo, come suona la glossa di Ugo di San Vittore alla salutazione angelica; il suo nome non era stato posto a caso, come leggiamo in Sant’Agostino, a proposito dell’ausilio prestato ai martiri […]. Con il nome di Maria i piedi dell’amore, come ali, corrono veloci verso le cose eterne, sentenzia Ermanno di Runa […]. Il suo nome è dolcissimo, come scrive anche Tommaso da Kempis […] [E] il nome di Maria, in ebraico, significa stella del mare e, in siriaco, domina, e non senza ragione, come scrive Beda – la ratio nominis nel repertorio dei santi esplicita sempre anche la ratio personae –, ‘totius mundi dominum et lucem saeculis me ruit generare perennem’. […] [Dai Padri ai medievali] Maria viene designata attraverso le cose celesti e superiori, le cose terrestri, i minerali, le acque, i vegetali, i fiori, gli edifici […] Maria è detta arca,
della presenza di Cristo sulla terra, centro del tempo e germe di tutta la fioritura dei beati del cielo, come dirà Bernardo: Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore -XXXIII 7-9 -» (Anna Maria Chiavacci Leonardi, Introduzione al Canto XXIII del Paradiso, in Dante Alighieri, Paradiso, cit., pp. 627-628).
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trono, casa, tempio, torre, muro. Rigurado alle cose terrene Maria è campo, monte, colle, deserto, pietra. Riguardo alle cose celesti Maria è sole, luna, orizzonte, Lucifero, aurora, alba, luce, giorno, nube; ma tra gli epiteti della luce, registati da Riccardo di San Lorenzo, figura, accanto ai termini Lucifer, aurora, diluculum, anche il termine mane. Ora mane designa il tempo della grazia e l’uscita dell’uomo dalle tenebre, per mezzo delle virtù di Maria […]. Accanto a mane non si deve però trascurare l’appellativo di diluculum, applicato a Maria, […] [e con] il termine diluculum si designa anche il passaggio dalla notte al giorno, dal peccato alla grazia […]. Con i termini mane e sera Dante ha [pertanto] voluto senza dubbio designare il ritmo della giornata liturgica, con il rito delle ore canoniche, che si concludeva al completorio, secondo un tipico modello che aveva come riferimento primario la figura di Maria, come si legge nelle consuetudines di molte scuole monastiche medioevali; ma mane e sera designano anche l’attitudine contemplativa di Maria, tutta dedita al divino, [così] come […] in uno dei sermoni di Matteo d’Acquasparta […]. Ma mane e sera designano altresì la plenitudo temporis con l’idea del decedere delle cose e del loro rinascere, alla luce della missione di Cristo […]. Quale stella del mare (‘stella maris’) Maria illumina e presta soccorso a tutti quelli che la invocano […]. In quanto poi Lucifer, cioè la stella del mattino, Maria risplende prima che faccia giorno, poiché la sua nascita ha preceduto la nascita del giorno, Cristo […] [e come] stella mattutina Maria si contappone così alla stella vespertina, Eva, e segna il passaggio dalla tenebra alla luce della grazia. […] [E] Attraverso l’impiego dei termini mane e sera Dante aveva, dunque, voluto mostrare la sua particolare fidelitas, non solo devozionale, ma anche culturale, verso il nome e la vita di Maria. 26
Si presenta ora il dettagliato percorso lirico in cui cristologia e mariologia, la seconda evidentemente dipendente dalla prima, vanno a rappresentare il vero della realtà umana e di quella divina. Se ben osserviamo, e tale riflessione è lungi da una semplice suggestione incipitaria, l’intero poema
26 Bortolo Martinelli, «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco». Dante e il nome di Maria, in Idem, Dante- L’«altro viaggio», cit., pp. 353-361.
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svolge la storia-vicenda del Cristo fattosi Storia. E legge, nelle acute punte riflessive mariologiche, proprio la vita del Figlio in Maria. Un “rosario lirico” (il canto dei misteri del Figlio per la Madre) così vogliamo definirlo: un movimento grammaticale-linguistico in cui l’impossibilità di dire Dio-Figlio è tutta racchiusa e sciolta ad un tempo nel canto entro il segno-nome, la rosa, che ripetuto e formante un roseto (l’addensarsi dall’apparizione di Cristo e di Maria, non cumulativa, ma massimamente espositiva delle qualità-forme-essenze della Madre di Dio), espande la “nominalità” trinitaria prima ancora della lode dell’Angelo, disseminando in verbi indicanti le azioni di “imprimere, chiudere, dischiudere” il predicato germinativo, che è Maria stessa: «In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate», Par., XXXIII vv. 19-21). In cui l’approssimarsi e, poi, l’ingresso proprio nella candida rosa apre il canto alla figura massima della trascendenza. Costruendo con l’operabilità della Luce a chi è a Lei prossima la relazione versificatoria tra i soggetti: i beati e Maria stessa. La Vergine è il nome-rosa-la rosa che in sé racchiude tutti i nomi, non nell’indistinto, appunto, lo robadiamo, delle sostanze ma nella realtà della persona che è il Fiore-perfezione, ossia Cristo: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore», (ivi, vv. 7-9). Potremmo dire che Dante dice liricamente, canta, entro la liturgia orante della Commedia, il culto del rosario, così come lo si è appena interecettato. Esso è pratica cultuale-popolare, la quale, invero, affonda la propria ratio proprio su un saldo-veritiero rapporto detto dal popolo (e non solo) come preghiera intima-domestica e, assieme, ufficiale. Disvelando la dialogicità più intima del rapporto uomo-Dio. Esposta dal singolo entro e fuori la recita comunitaria, formante una “corona segnica di nomi” (così le litanie), che rispecchiano nell’immagine, quindi, della rosa la circolarità perfetta (corona detta-disegnata tanto in cielo quanto in terra: liturgia predicativa, e non solo laudativa, di Maria) del sistema mittentedestinatario: La rosa, flos florum, è il fiore di Venere, quindi dell’amore e della carità, usata dall’allegorismo medievale per la donna, di cui massimo esempio è il Roman de la Rose. Rosa è però anche figura di Maria, Rosa mistica, come la chiama san Bernardo nel De beata Maria Virgine. Il profumo della rosa era usato inoltre per gli esorcismi e i suoi petali impiegati nella farmacopea per le proprietà terapeutiche. E 197
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rosa infine è anche la Chiesa per Alberto Magno, e al rosone delle chiese gotiche con i suoi numeri e la sua simbologia si può avvicinare la rosa dantesca. Ma la rosa è pure ampiamente documentata come simbolo di Cristo resuscitato e della resurrezione dei fedeli. […]. [Ed ancora] La comunità dei beati, essendo metaforizzata nel flos florum, si oppone al fiore di cui si nomina la città di Dante e al giglio che costituisce il suo stemma. 27
Rosario-canto, che è circolarità, appunto, e che chiude-apre alla relazionalità incoativa, per cui proprio il genere-forma del “rosario” rapprende nel Paradiso dantesco gli exempla disseminati in tutto il poema. Divenendo esso stesso nella figura della candida rosa il canto più alto del sempre-ritornare (l’esempio degli esempi: il Vangelo) a chidere all’Oltre per la Madre la grazia di vedere e di capire, cioè veramente amare: Così la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che più ferve e più s’avviva ne l’alito di Dio e nei costumi, avea sopra di noi l’interna riva tanto distante, che la sua parvenza, là dov’io era, ancor non appariva: però non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si levò appresso sua semenza. E come fantolin che ’nver’ la mamma tende le braccia, poi che ’l latte prese, per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese.
Erminia Ardissino, Boezio, Agostino e il ‘Popol giusto e sano’ di Paradiso XXXI, in EaTempo liturgico e tempo storico nella ‘Commedia’ di Dante, cit., pp. 146-148.
27
dem,
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Indi rimaser lì nel mio cospetto, ‘Regina celi’ cantando sì dolce, che mai da me non si partì ’l diletto (Par. XXIII, vv. 109-129).
La Commedia espone col viaggio-canto del poeta-pellegrino il tempo forte (così nella liturgia: la Settimana Santa), come già riferito, aperto al futuribile, ossia al Giudizio finale, in cui, profezia, suo annuncio-gestazione e scioglimento, si sono compiuti dalla notte del Giovedì Santo alla mattina di Pasqua. Il primo momento della spiegazione del Sacro è avvenuto nello scioglimento della Figura-persona di Cristo, così nel poema, spalancando, come indica la Scrittura, il senso della natura umana-divina nella Persona del Figlio assiso ora alla destra del Padre. E, quindi, attendente con la Parusia l’operabilità finale. Il canto dantesco realizza con la prima profezia avvenuta il senso di redenzione dell’ente-uomo (prima Parusia). Ed apre per gli occhi di Maria all’inveramento continuo dell’uomo nel suo trasumanare verso la revelatio. La figura che Dante espone, come più volte detto, è in Maria condensata quale figura-piena, per cui quando si parla dell’adattabilità del termine-sintagma “persona-figura” (e questo discorso volutamente reiterato costituisce il sinolo, nella repetitio che ne attiva il portato, appunto, del proprio asserto-principio del presente studio), ciò significa, in vero, il procedimento tutto particolare che investe e richiama nella strategia poematica le tre persone coinvolte nella relazionalità dell’inneffabile: Cristo-Dante-Maria. E che solo la gradatio lirica ne spiega il motivo-modo, che è la strategia di cantare la figura-persona, affinché Dante Auctor-Agens guardi «l’ultima salute» (Par. XXXIII, v. 27). Le “vite” osservate, con-vissute, descritte-cantate dal poeta-pellegrino durante il cammino sono esposte in tutti e tre i regni nella doppia proiezione-esecuzione del prima e del qui (sguardo retroattivo-sguardo nel nunc in cui l’anima si trova), e la narratio lirica di esse include la calcolabilità eticoescatologico insita “con” l’avvento di Cristo. Maria mediante transumptio ci porge ritmicamente di volta in volta la figura-Luce. Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, 199
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supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ’l sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!’. Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro. E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii (ivi, vv. 22-48): Poste le prerogative di Nostra Donna, nelle quali ha mostrato che ella è quel mezzo convenientissimo tra Dio e l’uomo, e quello mezzo che si puote e vuole giustificare e adempiere li giusti prieghi de’mortali […] in questa parte fa l’Autore sua domanda, e contiene due cose, la prima che disponga la vista dell’Autore al che possa vedere l’ultima salute; la seconda, che dopo tale visione li conservi li suoi buoni concetti, acciò che li possa rescrivere nella sua Commedia per rimuovere li mondani da’vizii, e dirizzarli in via di virtude – Dall’infima lacuna – cioè dal più basso stato che possa essere nell’uomo, cioè nel peccato […] Però che non è possibile a uomo congiunto l’anima col corpo, innanzi la glorificazione che avranno 200
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li corpi, dopo il dì del giudicio, a veder l’essenza divina, sì come mostra santo Tommaso, epperò abbisogna che quella oscuritade, che dà il corpo all’anima, sia per grazia levata, accio che possibile sia la disiata visione. E pero dice, che ’l sommo piacere, cioè Iddio, si la –dispieghi, si li si lasci vedere, o vero sia possibile a lui vederlo […] effetti [quelli di salvezza-custodia nel mortale Dante per Maria] possano essere pert tale conservazione in esso, utili ad altri, a cui elli la dirà [tale realtà] […], se non li perde, a memoria. 28
Nel XXX canto il poeta conclude la ricerca aperta nella Vita Nuova, lascia Beatrice per vedere Dio: descriverlo. Beatrice non scompare dal testo ma si compone nella riflessione della luce che Dante osserva negli occhi della Vergine.29 La donna beata accompagna Dante dalla Madre e il devoto Bernardo la implora perché la grazia si compia. Riteniamo che occorra un’analisi contenutistico/grammaticale-linguistica della figura di Maria, soprattutto nell’ultimo spazio paradisiaco: Maria è il rispecchiamento della genesi sintattico-lirica del procedimento ontologico che Ella enuclea e che, poi, conduce a Dio. È luce che irradia ed è irradiata secondo Alberto Magno,30 che parla di Maria definendola luce inaccessibile, dal momento che dal suon grembo è sgorgata la luce per antonomasia, così Dante: «illuminans et illuminatum prefulgens» (DVE I, XXVII 2). Nell’atto di contemplazione scaturito anche dall’inaccessibilità dello stesso mistero mariano si apre, grazie alla luce che esso emana, il più grande mistero trinitario: «La concezione di Maria come schermo illuminato e illuminante, di natura insieme linguistica e luminosa, agisce quindi già come una sorta di paradigma in fasi molto arretrate e decisive dell’ opera
28 Commento ai versi vv. 22-39 del Canto XXXIII del Paradiso, L’Ottimo Commento della Divina Commedia.Testo inedito d’un Contemporaneo di Dante, a cura di Alessandro Torri (Pisa 1827-1829), Saggio di Correzioni all’Ottimo Commento (Ristampa Anastatica, Firenze 1830) Paradiso, vol. III, Ristampa con Prefazione di Francesco Mazzoni, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1995, pp. 727-728. 29 Cfr. Guido Di Pino, La figurazione della luce nella Divina Commedia, Firenze, La Nuova Italia, 1952. 30 Alberto Magno, Il bene, a cura di Alessandra Tarabochia Canavero, Milano, Rusconi, 1987.
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di Dante». 31Maria si identifica come il venire incontro, preparando e, in parte, ristabilendo il patto tra l’uomo e Dio. Dunque, la mariologia dilaga nel poema e l’iperbato si dispiega in esperienza dinamica e similitudine. Maria è la testimone che il poeta chiama sempre in aiuto, la sostenitrice e lo specchio sul quale si infrange e, contemporaneamente, si riflette l’esperienza mistica realmente vissuta, attraverso l’estatica visione della ricerca-ascesa all’Empireo. Tutto si condensa in una descrizione di intensa melodia e tecnica pittorica: Beatrice gli aveva parlato di rosa mistica, ed il poeta tenta di guardare la Madonna, il cui nome invoca mattino e sera: atto di completa devozione. L’arcangelo Gabriele canta intorno a Maria e si dischiude l’inizio dell’ultimo atto di venerazione da parte del poeta. Perciò l’Assunzione della Vergine in corpo e anima al cielo 32 è nel poema anche, al di là del concreto dato teologico, parallelismo dell’ascesa di Dante al Sommo Bene. E se Maria, così come si è detto, è la Luce, Dante può definirsi salvato in quanto testimonemistico della realtà ultraterrena: «mistico è colui che esercita la mente alla speculazione della Luce anticipando la resurrezione nel nunc del frattempo, e quindi elevando a potenza escatologica i sensi spirituali restaurati attraverso Cristo».33 Da qui si comprende meglio anche l’aspetto allegorico proprio del poema, nel quale Dante è profeta-visionario, che esprime nell’immagine la sostanza che gli si è mostrata attraverso le parole liturgico-sacramentali: «L’allegoria dantesca non è né idea filosofica, né costruzione volitiva: è un linguaggio poetico […]. Il suo fondamento è dunque la fede cattolica del catechismo […]. E quando Dante invita a guardare la dottrina che si nasconde sotto i suoi versi, non intende già una dottrina ignota, […], ma la comune dottrina delle scuole e della Chiesa».34 Viene a determinarsi uno stretto collegamento, ora ancor più rilevante, fra il canto II dell’Inferno e il XXXIII del Paradiso:
31
p. 335.
Paolo Bollini, Dante visto dalla Luna-Figure dinamiche nei primi canti del Paradiso, cit.,
Sull’Assunzione di Maria al cielo cfr. Ferruccio Castaldelli, Una mariologia d’avanguardoa nel secolo XII. Immacolata Concezione e Assunzione Corporea di Maria secondo Goffredo d’Auxerre, in Figure poetiche e figure teologiche nella mariologia dei secoli XI e XII, cit., pp. 71-98. 33 Alessandro Raffi, Dalla metafisica della Luce alla metafora dello specchio: un percorso esegetico tra S.Bonaventura e Dante, in «Campi immaginabili». 26/27 (2002), p. 15. 34 Francesco Flora, La poesia della Commedia, in Idem, Storia della letteratura italiana, vol .I, Milano, Mondatori, 1940, p. 203. 32
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Il Paradiso dantesco condivide con l’Inferno il fatto di essere sottratto alle vocende del tempo. Tutto è sottoposto alla legge dell’eternità: ‘ ïo che al divino, da l’umano / a l’etterno del tempo era venuto’ (Par., XXXI 37/38). La memoria che corrisponde a ciò è la memoria sempiterna di Dio in cui vivono e riposano le anime pervenute alla salute eterna. Ma quale parte allora svolge in questo quadro la memoria tutta umana di Dante pellegrino del Paradiso? […] la luminosità abbagliante delle sfere celesti, in particolare dell’Empireo, è un rischio e un ostacolo serio alla percezioni delle immagini mnemoniche ‘Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, /e cede de la memoria a tanto oltraggio’(Par. XXXIII, 55-57). Le Chiose Ambrosiane spiegano questi versi come segue: ‘Quia non erat capax retinendi ea quae vidit et eadem recitandi’. Un effetto secondario della luminosità estrema e eccessiva, secondo la logica della metaforica dantesca, è il riscaldamento della “cera” della memoria in prossimità di Dio sole: ‘Così la neve al sol si disigilla’ (Par. XXXIII, 64). Questa cera, in altre parti del viaggio oltremondano esposta al rischio di indurirsi e persino di pietrificarsi, pare adesso sul punto di sciogliersi e di perdere quindi la capacità di ritenere nella sua materia plastica la forma spirituale delle immagini celesti. L’intero problema mnemonico culmina per Dante nel concetto della ‘vista sincera’: ‘ché la mia vista, venendo sincera, / e più e più intrava per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera’ (Par. XXXIII, 52-54). Mi pare ovvio che in questo passo, come in molti altri luoghi del Paradiso, Dante si sia valso dell’autorità d’Isidoro da Siviglia nell’intendere la voce sincero, invece del suo senso quotidiano, nel significato etimologico ‘sine cera’, riferendosi senz’altro alla cera della memoria sciolta dal calore del sole divino. È necessario dunque nel Paradiso, chiamato da Dante in un altro canto ‘il paese sincero’ (Par. VII, 130), un modo di conoscenza capace di funzionare progressivamente ‘oltre-memoria’ a misura che si avvicina alla fonte stessa della luce e del calore: ‘ché ’l piacer santo non è qui dischiuso, / perché si fa, montando, più sincero’. (Par. XIV, 138-139). La visione beatifica in cui culmina la vista sincera di Dante riunisce dunque due aspetti, l’uno positivo e l’altro privativo. […]. San Bernardo, nella sua preghiera alla Vergine, ha inteso benissimo questo problema e prega la Vergine di rimediarvi: 203
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‘Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli, che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi’ (Par. XXXIII, 34-36). […]. È un riflesso solo di un’eco che gli restituisce tuttavia al meno una parte della sua memoria perduta […]. Nei versi di questa preghiera non più bernardina, bensì dantesca, troviamo per un’ultima volta affiancati i grandi concetti della mnemologia (mente, memoria) e le espressioni modeste della finitezza umana (un poco, alquanto, una favilla sol). In questo modo, alla fine del Paradiso e dell’intera Divina Commedia, Dante conferisce una forma conclusiva e sommamente mirabile al dramma della memoria umana di fronte alla luce abbagliante del sole e delle altre stelle.35
Bernardo, l’orante, intercede presso la Vergine affinché venga disvelato al poeta-pellegrino il mistero trinitario tutto già preparato diremmo dalle formule ossimoriche ritenute (tenute a mente) dal viandante-cantore nella “definizione” di Maria: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, // tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. // Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo nell’etterna pace / così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, vv. 1-9). Maria opera nell’intimo della sostanza dell’individuo, tra l’io e il tutto, che anela alla liberazione «in luminosità crescente, volendo e dovendo, i suoi occhi penetrano nella profondità della luce [la quale accetta chi si redime], che esaudisce la sua aspirazione e fa trapassare la sua volontà nel moto d’amore dell’universo»,36 e formando liricamente un suo predicato altamente credibile da perpetuarlo quale memoria vivens, che è metafora della Parola vivens: Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna:
Harald Weinrich, La memoria di Dante, cit., pp. 26-28. Cfr., per un quadro che tenga in considerazione l’ineffabile-indicibile, all’interno di diversi indirizzi poi sussunti nel pensiero medeievale e assunti nel verso, Mira Mocan, L’arca della mente. Riccardo di San Vittore nella Commedia di Dante, Firenze, Olschki, 2012. 36 Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., p. 110. 35
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sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume (Par. XXXIII, vv. 85-90).37
La Vergine è il locus per antonomasia38 dal quale si muovono il discer-
37 «tutta la forza espressiva si concentra nel verbo ‘conflare’, sorprendente latinismo che non significa soltanto, per mezzo del prefisso cum-, unità, ma anche compenetrazione, inseparabilità, soffio aggregante, a conferma che la lettura dell’uomo medievale si attua oltre che attraverso gli occhi anche attraverso la bocca, divenendo a un tempo canto, preghiera, rito, iniziazione. Dall’altra parte il ‘quasi’ manifesta l’approssimazione dell’atto, il valore meramente figurato e analogico della descrizione, il risultato incerto di una lettura non analiticamente alfabetica ma sinotticamente intuitiva, come si conviene al libro che per san Bonaventura appare, come abbiamo sentito, scritto ‘intus’, secondo l’esplicito riferimento del verbo dantesco (‘s’interna’). […] Dante per designare l’Empireo quale ‘contenitore’ [libro-volume] unico e onnicomprensivo del molteplice contingente aveva nel Convivio fatto ricorso all’immagine architettonica della casa […] mentre nella Commedia il Paradiso è un più specifico ‘chiostro’. […]. La metafora di Dio ‘edificator’ di cose e persone, pur rientrando nel sistema classico nella ‘macchina mundi’, è largamente diffusa nella tradizione cristiana, familiare tanto nella linra di pensiero domenicana quanto in quella francescana. San Tommaso paragona Dio a un architetto avveduto che conosce nella sua mente le diverse ragioni di tutte le cose; san Bonaventura avvicina la ‘sensibilis corporalium machina’ a una ‘domus a summo opifice homini fabricata, donec ad domum veniat non manufactam in caelis’. […] il vertice semantico delle due terzine dantesche si appunta sull’hapax del verbo ‘squadernarsi’, modo dinamico del transito dall’uno al molteplice sottolineato nel verso seguente dal tricolon polisintetico: ‘sustanze e accidenti e lor costume’. L’aspetto durativo dell’azione, pur facendo ulteriormente l’inadeguatezza del ‘semplice lume’ con cui esso viene fruito, carica la visione di accenti spettacolari, avvicinando il simbolo del libro all’altro archetipo del mondo come teatro dal sipario finalmente sollevato, proprio come le pagine del volume si sono aperte al cospetto di Dante. Poco importa, a questo punto che è la meta finale del viaggio cosmico, se il poeta si dichiara incapace di riscrivere la sua lettura del libro dai fogli a un tempo spalancati e rinsaldati dalla virus unifica dell’amore divino: ormai le penne non gli servono più per farsi amanuense fedele ma, profittando della loro duplice funzione, gli tornano utili, da quest’altezza, per sperimentare fino in fondo l’ebrezza archetipica del volo ascensionale.» (Andrea Battistini, L’universo che si squaderna:cosmo e simbologia del libro, in Idem, La retorica della salvezza, cit. pp. 310-313). 38 Sulla figura della Vergine in Dante ed in stretta relazione al portato specificatamente teologico la lettura delle fonti della letteratura cristiana antica e non solo penetrati nella lezione dei Medievali e, quindi, come abbiamo avuto modo di vedere, in Dante ha gestito il portato litico nell’immissione figurale del legame dogmatico e speculativo della Vergine Immacolata prima-durante e dopo il parto e donataria per eccellenza di grazie, madre pertanto operativa del ben fare, ossia in termini specificatamente letterari diremmo noi della
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nimento della grazia nel mistero ed è la pupilla nella quale si rispecchia, quindi, l’umano e il divino. Dante opera due movimenti nel riportare le “sensazioni” avute nell’aldilà, di cui ha percezione: lavora seguendo l’indicazione della dottrina e, contemporaneamente, ricostruisce l’estasi, a partire dall’esperienza che il ruolo e l’opera di Maria hanno svolto nell’ambito della propria conversione. Applicando al “prodotto letterario” la ritualizzazione, molto spesso velata, di tributare all’‘onnipotente per grazia’ il discorso indiretto: esercitare mediante la ripresa di intensificazioni ritmiche, anche nei luoghi nei quali si avverte una lontana eco della sua figura, l’opportunità di richiamare nell’assenza la presenza della Madonna. Ella è la prima e ultima visione divina (a parte quella del Figlio, Dio-uomo, di Dio e della Trinità), che sigilla il poema. Visione nella quale Dante può vedere un essere umano e assieme il riflesso divino della grazia, che gli viene esibita, e dalla quale è stato turbato nella muliebrità perfetta. Il ruolo di Maria come sigillo è presente in diverse “regioni” del Paradiso ed è, simultaneamente, la spiegazione stessa della Trinità allorché, imprimendo il suo sguardo nella somma luce, apre la dialogicità della trascendenza, e la divinità trina e una si presenta nella logica di tre cerchi concentrici, che il “nervo ottico” di Dante può intuire dal riflesso di quello di Maria. La visione incarnata si esibisce poiché il “Contenente” del Verbo cle-
“poesia peregrinante”. Come è già stato ricordato, risulta quasi impossibile catalogare gli studi sulla figura della Vergine in relazione e dentro l’opera dantesca, pertanto, segnaliamo qualche analisi, oltre a quelle già riferite, indaganti, appunto, la relazione poesia dantescaVergine Maria: Pio Giuseppe caprì, La Vergine Madre nella Divina Commedia, Roma, Monaldi, 1865; Luigi Cannata, Il culto di Dante a Maria ovvero Maria nella Divina Commedia, Modica, Tipografia Carlo Papa, 1898; Giacomo Poletto, La Vergine-Madre nel pensiero e nelle opere di Dante, Siena, Tipografia San Bernardino, 1901; Hellmut Schnackenburg, Maria in Dantes Göttlicher Komödie, Freiburg/Breisgau, Verlag Herder, 1956; Giuseppe Palmenta, La Vergine Madre nella Divina Commedia, Catania, Edizioni Paoline, 1971; Ruggiero Stefanini, Le tre mariofanie del ‘Paradiso’: XXIII. 88-129; XXXI . 115-142; XXXII. 85-114, in «Italica», 68 (1991), pp. 297-309; Inos Biffi, La Vergine Maria nella ‘Commedia’, in Idem, La poesia e la grazia nella ‘Commedia’ di Dante, Milano, Jaca Book, 1999, pp. 69-86; Renato Nicodemo, La Vergine Maria nella Divina Commedia. Aspetti del pensiero teologico di Dante Alighieri, Firenze, Firenze Antheneum, 2001, Antonio D’Elia, La trama mariologica della Commedia e l’‘estasi’ del pellegrino, in «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», VI 2009, pp. 65-93.
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mentemente offre all’umano l’opportunità del perdono: «Da quinci innanzi il mio veder fu maggio» (Par. XXXIII, vv. 55): «L’ ‘alta fantasia’ ha quindi una funzione gnoseologica, che la bassa fantasia non ha. Del tutto indipendente dai sensi, in contatto diretto, per via delle immagini, con la realtà divina e soprannaturale […] per visibilia ad invisibilia […] facoltà che presiede a tutta la visione che costituisce il poema, e ad essa è riservata quell’attività poetica costituita dalle visioni, dunque anche il poema, che termina appunto quando cessa l’ ‘alta fantasia’».39 Maria, come più volte detto in questo studio, è presentata liricamente come persona vivens, ossia quale ente esposta nella sua più viva spiritualità (anche durante i moti estatici purgatoriali)40 e nella sua più alta carnalità (estratta dal Grande Codice41 e dalla tradizione42 entro uno specifico linguaggio43 costruito per rendere poeticamente la visio).44 Con il termine persona si vuole indicare, sulla scorta della tradizione filosofico-teologica e dogmatica,45 e non prescindendo «dalla definizione, rimasta classica per
Erminia Ardissino, ‘L’alta fantasia’. Poesia e visione, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., p. 118. 40 Sull’estasi cfr. Enrico Malato, Estatico, in Dante- Enciclopedia Dantesca, cit.,vol. II, p. 746. 41 Cfr. Northrop Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, trad. it. di Giovanni Rizzoni, Torino, Einaudi, 1986. 42 «Pare dunque che il richiamo biblico sopravvenga nella mente di Dante nel pieno di un movimento fantastico strettamente inerente alla narrazione del suo cammino, cioè all’interno della diegesi del poema. Il richiamo biblico passa […] subito attraverso una stratificazione che ne consolida senso e potere evocativo (Riccardo Scrivanno, «Tramature» bibliche del Paradiso-I canti dell’ esame, in Memoria biblica nell’opera di Dante, cit., p. 101). 43 «La lingua che comunica questa verità come figura, è perciò insieme la lingua di un resoconto e di un trattato didascalico. […] Ma il vero elemento della poesia, cioè la fantasia, sia quella epica, che ritesse liberamente il materiale di avvenimenti della lontana sfera della leggenda, lo riconnette, lo trasforma, lo elabora, sia quella lirica, che abbandona i limiti razionali per destare e far risuonare liberamente ciò che propriamente non ha limiti» (Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., pp. 144 e 145). 44 Su Visione e Visione rivelata cfr., rispettivamente, gli scritti di Riccardo Ambrosini e Vincent Truijen, in Dante- Enciclopedia Dantesca, cit.,vol. V, pp. 1071-1073 e, ancora, Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale, cit. 45 Di rilevante interesse risultano le conoscenze di Dante non solo delle opere di Tommaso e di Bernardo ma anche di quelle di Riccardo di S. Vittore e S. Agostino. Su Dante e il misticismo medievale cfr. Giorgio Petrocchi, Ascesi e mistica trecentesca, Firenze, Le Monnier, 1957. 39
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tutto il Medioevo, che della persona come individualità metafisicamente determinata aveva dato Boezio:‘persona est rationalis naturae individua substantia’ (De duabus naturis 3, Patrol. Lat. LXIV 1345)». E, quindi, in relazione al moto di fede, esposto, poi, nel portato lirico dantesco ripreso dalla lezione di San Tommaso.46
46 «la persona in generale, ne identifica la differenza dall’individuo nel fatto che questi è di per sé indistinto, mentre la persona, in una natura qualsiasi, significa ciò che è distinto in tale natura (‘persona igitur in quacumque natura significat id quod est distinctum in natura illa; sicut in humana natura significat has carnes, haec ossa, et hanc animam, quae sunt principia individuantia hominem’, Sum. theol. I 29 4) […]Allorquando persona ricorre in relazione al dogma trinitario (per rendere il concetto greco di ὑπόστασις o πρόσωπον), il suo significato è quello che la speculazione teologica era venuta definendo (cfr. Agost. Trin. VII IV 8 ‘Quod de personis secundum nostram, hoc de substantiis secundum Graecorum consuetudinem... oportet intelligi. Sic enim dicunt illi tres substantias, unam essentiam, quemadmodum nos dicimus tres personas, unam essentiam vel substantiam’). Così in Pd XXIV 139 ‘credo in tre persone etterne, e queste / credo una essenza sì una e trina, / che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’; Cv II V 7 e 9, Pg III 36, Pd VII 32 e 44, XIII 26 e 27. A questi esempi può essere accostato quello di Pg XXXI 81 la ‘fiera / ch’è sola una persona in due nature’, concernente il grifone-Cristo trainante il carro della Chiesa nel Paradiso terrestre. Illuminante è la definizione tomistica per chiarire il valore del vocabolo allorquando è riferito alla persona umana; l’esempio più valido è offerto da Pd XIV 44 ‘Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta’, anche per riflesso del contenuto dottrinario del passo (per il problema della fruizione della beatitudine dopo la resurrezione dei corpi, v. Tomm. Sum. theol. I II 4 5), ma pari peso per un’esatta determinazione semantica hanno Pg XI 51 troverete il passo / possibile a salir persona viva, e, qualora si accolga l’interpretazione proposta dal Pagliaro (Ulisse 17 ss.), anche If I 27 lo passo / che non lasciò già mai persona viva. Il luogo è assai controverso, anche sintatticamente, potendosi considerare sia che sia persona come soggetto od oggetto, e viva come attributo o predicato; di qua le due interpretazioni tradizionali, così riferite da Benvenuto: ‘che, idest qui passus viciorum, non lasciò, idest nunquam dimisit personam vivam, quin occiderit ipsam spiritualiter... che, idest quem passum viciorum, persona viva non lasciò giammai, quia oportet omnem hominem venientem in mundum peccare communiter’. A queste interpretazioni, entrambe fondate sull’identificazione del passo con la selva, il Pagliaro ne ha contrapposto una terza: per passo deve intendersi il passaggio attraverso cui il viandante dalla selva si porta sul monte, che è oggetto, viva è attributo di persona e non ha il valore di predicato riconosciutogli dalla maggioranza dei commentatori; il luogo starebbe cioè a indicare che “il passaggio dalla vita bruta, dominata dagli istinti, alla pura vita contemplativa, illuminata dall’idea di Dio, non è dell’ordine normale delle cose: quel varco non è mai permesso a persona vivente, in cui la fisicità sorretta dalla ragione è condizione permanente di peccato (Ulisse 22). Sarebbe così confermato che persona, ‘se non ha il significato... neutro di ‘uomo, individuo’ e al plurale di ‘gente, moltitudine’... ha costantemente in Dante il significato di “persona fisica’”(p. 19). Quest’ultima affermazione merita però di essere vagliata e chiarita. A difesa della lezione con
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Persona è forma-essenza della creatura: è la creatura: l’incontro germinato nella materia dell’individualità dell’essere con la propria accezione, unica, spirituale-metafisica e razionale così come Dio l’ha concepita nella libertà donata al soggetto-persona di essere (e contribuire a diventare) tale. Lungo questo procedere nella nostra analisi, il termine-sostanza “persona”, impiegato unitamente a “figura”, anzi costituendo con quest’ultima un unico sintagma coeso, trova liricamente il proprio fondamento entro la descrizione che Dante espone proprio nei riguardi di Maria e del Figlio. All’interno del sistema di relazione tra il poeta e, appunto, la Deità. Caso unico, come già ricordato, di mobilità lirica del termine persona, che, se da un lato,
la sua persona (contro la mia persona della ’21), per Pg II 110 ‘ti piaccia consolare alquanto / l’anima mia, che, con la sua persona / venendo qui’, è affannata tanto, il Petrocchi (Introduzione 192) osserva: a Dante preme ‘porre in rilievo che la sua anima affannata era giunta fin all’Antipurgatorio con ‘la veste corporale che le appartiene, che è sua’. D’altronde qui persona è intesa non nel senso materiale di ‘corpo’, ma in quanto unione del corpo all’anima’... (cfr. anche Barbi Problemi I 227)”. La tesi del Pagliaro va perciò precisata nel senso che in If I 27 persona non ha esclusivo riferimento corporeo, ma ricalca la definizione tomistica di ‘nesso di anima con il corpo’. Identico valore il vocabolo ha in un gruppo di esempi nei quali è, implicitamente o esplicitamente, posto in relazione con ‘anima’: Cv IV Le dolci rime 117 solo Iddio a l’anima ... dona [questa grazia] / che vede in sua persona / perfettamente star (altro esempio al v. 127), XX 7 e 8, XXV 11; Pg XIV 19 (dove l’interpretazione qui proposta, diversa da quella consueta di ‘corpo’, è suggerita dal confronto con i vv. 10-11). Invece, in Vn XXXI 11 Partissi de la sua bella persona / piena di grazia l’anima gentile, il valore di ‘corpo’ è chiaramente prevalente. Il vocabolo non potrà perciò mai essere applicato a personaggi del poema diversi da Dante dannati e penitenti sono infatti simili corpi (Pg III 32), ma non sono persona nel senso ora indicato proprio perché solo dopo la resurrezione saranno reintegrati in tutti e due gli elementi costitutivi della loro personalità. Di qui la proprietà, dell’esempio di If VI 36’Noi passavam su per l’ombre... / e ponavam le piante / sopra lor vanità che par persona’. Naturalmente dovrà essere considerato estensivo l’uso del vocabolo in If XVII 135 ‘discarcate le nostre persone’ (altro esempio in Pg XII 109) dove, oltre che a Dante, è applicato a Virgilio. […]. Abbastanza comune è la locuzione ‘in persona di’, seguita dal nome del personaggio che lo scrittore introduce a parlare: Cv IV XXVIII 6 dice Tullio, in persona di Catone vecchio; III XV 16, IV IV 11, V 2, XXI 9, XXVII 16. Con il significato di “ in nome di”: Vn XXXII 6 13 Voi udirete lor [i miei sospiri]... / dispregiar talora questa vita / in persona de l’anima dolente; vale “in luogo di”, in Cv I VII 5 le canzoni, che sono in persona di comandatore, sono volgari. Dal significato di “corpo” deriva quello di ‘vita’, frequentemente attestato nella lingua coeva; ne sono esempi Cv IV XIII 11 Quanta paura è quella [del ricco] ... non pur di perdere l’avere, ma la persona per l’avere!; II X 5 (dove si accosta al valore di “salvezza”); Vn V 2 cotale donna distrugge la persona di costui -che potrebb’essere anche semplice perifrasi per “costui”-» (Alessandro Niccoli, Persona, in Dante-Enciclopedia dantesca, cit., vol. IV, pp. 435-437).
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esplica la propria azione proiettiva nel più ampio sistema di connessione in rapporto a figura-corpo e anima, dall’altro proprio nell’esemplarità trinitaria il canto dice l’unitività del mistero. Il quale nella seconda persona della Trinità collega fisicamente-metafisicamente la carne umana alla sostanza divina nella pienezza dei due rispettivi modi. E tale collegamento è, quindi, attuato nel lettore dall’enuclezione lirica dell’abbassamento-innalzamento del termine persona: qui vale per umbra, e, pertanto, quale contenitore del futuribile. Se persona, quale concetto-forma non struttura alcuna specifica enucleazione poetica, se non come un riflesso dello stesso canto a dire l’improponibile (Dante non parla di carne né di spirito, né di anima-animo in riferimento alla Madre), proprio l’indicibile, che è il registrare nel poema una descrizione della persona ‘umile e alta più che creatura’, advenendo al paradosso più volte richiamato, va sincerando la poetica dell’ineludibile. Ed è il portato concreto della poesia quale attuazione visibile della persona-figura a sbalzare l’ineffabile nella categoria della similitudine con l’esempio-persona-figura perfetta a cui Dante, Auctor-Agens, guarda: Maria. Nell’immane formula poetica, che è la Commedia, il superamento del limite dell’immaginifico oltrepassa a sua volta l’invenzione stessa quando Dante dice di essere di fronte a Maria. “Quella Maria” di cui venera la fondatezza storico-religiosa del suo essere persona umana investita sommamente dalla grazia: il “ventre” è figura per antonomasia del suo compito. E tutti gli attributi ne qualificano la persona, e non definiscono unicamente l’umbra, poiché Ella in quanto persona completa è già tutta realizzata. Gli attributi, e lo si comprende nella preghiera finale, fanno parte del complemento predicativo del soggetto-persona e non sono aggettivi relati alla decifrazione del portato esclusivamente simbolico-figurale. La poesia dantesca attua anche tale balzo dal metafisico all’umano per Maria. Se con il termine creatura il verso ha inteso, proprio seguendo l’insegnamento di San Bonaventura, descrivere e porgerci le “ombre” delle anime, ma anche delle persone-figure in terra, per cui: «Le creature del mondo sensibile sono segni delle perfezioni invisibili di Dio, in parte perché Dio è la loro causa, il loro esemplare e il loro termine, e ogni effetto è segno della causa, l’esemplato è segno dell’esemplare e la via è segno del termine cui conduce»,47 con il termine creatura-creatue ciò si riferisce alla
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San Bonaventura, Conoscenza di Dio nelle sue ombre in questo mondo sensibilei, II, 12, in
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vita data da Dio ed imperfetta, poiché, quindi, non ancora realizzatasi (ma il termine è riferito anche agli angeli) nel congiungimento col Creatore. 48 Il portato persona-figura in Maria e Cristo si dispiega nel contrario dell’umbra futurorum, avvalorando quest’ultima e l’adempimento finale al quale, tuttavia, Dante, Auctor-Agens, dovrà, come tutte le creature, pur avendo vissuto per grazia una esperienza straordinaria, partecipare alla fine dei tempi. La prefigurazione è qui individuata-attuata lungo il cammino nella Madre, poiché, se la poesia annette il mistero di là da venire, in Lei già adempiuto, e che si svelerà a noi quando capiremo Dio, vedendolo faccia a faccia, lo scioglimento poetico-figurale in Maria è raccolto proprio nella sua persona terrena-celeste. E l’umbra-figura è dissolta nel poema quando Maria ci mostra il Figlio-Persona, poiché in Lei49«’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura». Occorre ora sottolineare un passaggio assai delicato e oltremodo rilevante nella considerazione-valutazione del processo costruttivo lirico di Cristo e di Maria.50
Idem, Itinerario della mente in Dio- Riconduzione delle Arti alla teologia, Conoscenza di Dio nelle sue ombre in questo mondo sensibile, ntroduzione di Letterio Mauro, trad. it. di Silvana MartignoniOrlando Todisco, Roma, Città Nuova Editrice, 2000, p. 59. 48 Cfr. la voce Creatura a cura di Freya Anceschi, in Dante-Encicloprdia dantesca, cit., vol. II, p. 251. 49 Se la cristologia (all’interno delle diverse formule della cristologia biblica: al centro sempre la rivelazione fondativa che Cristo è Signore) si pone, dunque, quale interpretazione di modi di dire Dio attraverso il Figlio e, parimenti, dire l’uomo mediante l’Incarnazione, e se con la formula “cristologia dantesca” noi vogliamo intendere (unitamente al significato che essa ha ripiegandosi inevitabilmente sugli asserti che le teorie madri hanno stipulato) un concetto inerente non tanto e non solo quello di imitatio quanto quello di conformità al Cristo, la poesia cristologica dice la realtà del Figlio nella “capacità” del Verbo di trarre Dante a sé. E, pertanto, la poesia ne predica le rifrazioni urgenti esposte nelle domande di senso dell’esistere. 50 È all’interno del modello-modulo cristologico che la mariologia lirica del poema trova adempimento. Maria è, così, assieme Madre e figlia, detentrice del mistero e rivelatrice di esso: «L’intero ‘poema sacro’, ‘al quale ha posto mano e cielo e terra’ risente del filiale affetto dell’Alighieri per Maria, da lui scelta come simbolo di bene sommo […]. Ella “il bel zaffiro, del quale il ciel più chiaro s’inzaffira” è presente all’inizio e alla fine del viaggio ultramondano di Dante» (Michele Bianco, La Vergine Maria e i personaggi del Nuovo Testamento nella Divina Commedia, in Idem, Il credo di Dante nella Divina Commedia, Avellino, Edizione “Il Ponte”, 2006, pp. 62-63). Essendo Maria una delle principali fonti
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E se la figura è segno-risvolto della «verità adempiuta che il poema rivela»,51 l’adempimento supera in sé la figura. Divenendo figura per antonomasia di se stessa e concretandosi nella ripresentazione del tutto compiuto (dell’adempimento) in Dio. Ossia presentandosi in termini poetici come la figura della sua figura, la quale, in caso tutto particolare, diremmo unico, è Persona. E, quindi, non un negativo della proiezione del dato reale in quello artistico. Per cui la Persona-figura è altamente credibile per la storicità derivatagli dall’interpolazione poetico-letteraria. Infatti, prorio la Vergine, la sua persona, non ha bisogno di presentarsi quale umbra futurorum. Maria è tutta realizzata (e quindi anche poeticamente) come il Figlio: pertanto la poesia non può che gestirne il portato completo della sua storia. Tale processo-esecuzione è l’adempimento scritturale che Dante compie nella costruzione poematica della sua opera. Sembrerebbe un’operazione in sé riduttiva, ma in realtà va esplicando una modalità originalissima nella letteratura occidentale, qella della mimesi ricreativa non di un testo classico-pagano, ma della Scrittura su cui si fonda il credo nella Persona del Risorto. Oltre ogni fideismo (mito personale-biografico e mito religioso in Dante si integrano, come già affermato) e dentro la cultura connessa inscindibilment a quella Persona. Ma la novità concreta, di una poesia che parte dal particolare dell’ente e dall’universale dell’essere, va esponendosi proprio nella ripresa del dato della Rivelazione. Dunque, quale altro impiego istruisce liricamente Dante nella relazione analogico-anaforica della forma-sostanza con la Persona-figura nella metaforizzazione della peregrinatio in riferimento alla Madre e al Figlio? Nella complessa trama figurale, l’Auebach si rivela profondo indagatore anche di questa ulteriore porzione poematica, che a nostro avviso,
per comprendere la cristologia, dal momento che il legame con il Figlio è paradossalmente derivato dalla verginità del corpo e del cuore di Lei, e Dante si rimette alla sua materna intercessione, che lo indirizzerà a comprendere mediante sensi e ragione umana. È Cristo “l’immagine umana” del Dio vivo, e la riflessione non può prescindere da questo elemento di profonda complessità. Un’indagine, questa, presente a partire proprio dal Nuovo Testamento (ovviamente) e articolatasi fino ai nostri giorni: «con le due stole nel beato chiostro / son le due luci sole che saliro; / e questo apporterai nel mondo vostro» (Par. XXV, vv.127-129). 51 Erich Auerbach, Figura, in Idem, Studi su Dante, cit, p. 223.
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letta dall’incremento dialogico nella riflessione tra il poeta e l’affezione per il Contenente Santo, rivaluta ulteriormente il portato figurale donandogli senso più ancora profondo. Collegandolo al dato di credibilità storica insita nel portato trascendentale della Commedia. 52 Se la figura attende in sé l’adempimento, il ventre di Maria, che ha partorito il futuribile (Cristo venuto e che sempre viene, perchè “venturo” è l’implicito atto del suo semper) apre liricamente alla relazione personale con il Dio rivelato, e che la poesia, giunta a dire Maria, apre addirittura, nell’attesa finale della Parusia, il primo adempimento: Però se ’l caldo amor la chiara vista de la prima virtù dispone e segna, tutta la perfezion quivi s’acquista. Così fu fatta già la terra degna di tutta l’animal perfezïone; così fu fatta la Vergine pregna; sì ch’io commendo tua oppinïone, che l’umana natura mai non fue né fia qual fu in quelle due persone (Par. XIII, vv. 79-87).
E l’Auerbach pone in relazione significativa, sulla scorta delle opere, che il filologo tedesco riferisce ancora al suo tempo essere dubbie, cioè quelle di Ugo di San Vittore (Allegoriae in Vetus Testamentum, c. VII, Patr. lat., CLXXV, 6391), il Sermo de aqueductu di Bernardo di Chiaravalle (In nativi tate B. Mariae Virginis, 6, Patr.lt., CLXXXIII, 441), il movimento di raffronto tra Vergine-Terra/Adamo Cristo/ Eva-Maria/ Eva-Maria-Chiesa. E con l’orante San Bernardo il poeta giunge a contemplare direttamente Maria, «la regina del cielo, ond’ïo ardo / tutto d’amor, ne farà ogne grazia, / però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo» (Par. XXXI, vv. 100-102). E vedere il mistero di Dio uno e trino proprio mediante «la regina, / cui questo regno è suddito e devoto» (ivi, vv. 116-117). Siamo giunti nell’intima sostanza del poema in cui, appunto, la figura-persona di Maria è trasposta dalla Luce del Figlio a dire liricamente Dio, la sua Persona:
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Ivi, pp. 223-226.
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Per Auerbach nella struttura della Commedia risiede il fondamento della poesia di Dante […]. Secondo Auerbach e come pure per Singleton, la struttura del poema è costruita ad imitazione della struttura del mondo creato da Dio. Di qui l’inferenza allegorica che in Auerbach si specifica come interpretazione figurale e in Sngleton come rispecchiamento analogico del senso letterale e del sendo duplice. […]. Affine poi a quella di Singleton è l’utilizzazione auerbachiana della ‘dottrina’ di Dante non separabile dal suo ‘genio poetico’. Di qui l’importanza totalizzante […] del fondamento cristiano dell’opera dantesca, inteso soprattutto nel suo aspetto ‘creaturale’ e cioè di valorizzazione intensa della specificità dell’umana creatura che, particolarmente nella sofferenza, è posta in contatto con il suo Creatore, nella persona di Cristo uomo e Dio. 53
Il risultato di tale formula trova nella lingua il suo primo e pulsante motivo: lingua-modo che la poesia peregrinante dice raccogliendo il portato valutativo esposto dal Logos nella Buona Novella ed elargito da Dante mediante il volgare. È Cristo la Parola, la sua azione, e Maria è forma-anticipazione e, assieme, prosecuzione lirico-narrativa del predicato primario. 54 Se si parte, come a nostro avviso abbisogna fare, seguendo le indicazioni dell’esegesi più avveduta, non solo antica, ma anche quella a noi più vicina, dal nesso parola-lingua-annucio, la poesia della Divina Commedia apre alla formazione della struttura-attuazione del modulo poematico nel-
53 Rino Caputo, Il dantismo di Singleton al di qua e al di là dell’Atlantico, in Idee su Dante. Esperimenti danteschi 2012, cit., pp. 15-16. 54 «L’inesausta dialettica tra lettera e spirito, presente nella Bibbia stessa è rivelata sempre dai suoi più grandi lettori (si pensi ancora una volta a Origene), attraversa l’intero poema di Dante, che da una parte cercava la pantera del Phisiologus al di sotto dei dialetti della penisola, e dall’altra ascoltava docilmente l’ispirazione del ‘dittatore divino’, che attraverso Beatrice lo aveva incaricato di compiere il viaggio narrato nella Commedia» (Enrico Dal Covolo, Dai Padri della Chiesa a Dante Alighieri. L’interpretazione spirituale delle Scritture, in Gillian Bonney - Rafael Vicent (a cura di), Sophia e Paideia. Sapienza e educazione (Sir 1,27). Miscellanea di studi offerti in onore del prof. Don Mario Cimosa, Roma, LAS, 2012, pp. 391-397).
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la Persona, e da essa gestisce la trama della propria avventura. 55 Nel descrivere la Trinità («Quell’uno e due e tre che sempre vive/ e regna sempre in tre e n’due e n’uno,/ non circunscritto, e tutto circunscrive», Par. XIV vv. 28-30),56 in tutto il poema, Dante, inserendo nella poetica le teorie-concezioni speculative sulla natura trinitaria 57 e su quella dei rispet-
55 «La poesia della Commedia condensando il citato autobiografismo, di matrice soprattutto agostiniana, inventa la persona lirica Agens-Auctor traendola nel tessuto narrativo entro la coniazione continuativa temporale-atemporale, e ponendo il dire stesso a granzia di tale pratica, tanto lineare (ed in parte scontata) quanto massimamente ricreativa di un fare che è nel mentre pone il narrato entro lo spazio percorribile dell’assurdo. Pertanto, Dante conquista il centro del proprio poieo giungendo a scavare nella religione cui dice essere devoto e raffrontare, come e più degli antichi, il modello di incontro, con le persone che a Dio sono più prossime. La riflessione-attuazione della persona è l’inveramento lirico primario in cui anche la figura nell’ultimo tratto del cammino è assorbita da Dio. In ciò il mistero trinitario dice la persona di Dio-Padre-Dio-Figlio-Dio Spirito Santo solo mediante Maria: «L’incarnazione del Verbo – la seconda persona della Trinità che assume la natura umana per riscattarla –, segna definitivamente l’irruzione di Dio nella storia: Cristo porta la pienezza della Rivelazione giacché Dio stesso rivela i misteri della vita intertrinitaria. Egli s’immola, vittima perfetta, per espiare i peccati di tutta l’umanità e, sacerdote e vittima sacrificale allo stesso tempo, si offre al Padre per riconciliare l’umanità col suo Creatore» (François Livi, Dante e la teologia. L’immaginazione poetica nella Divina Commedia come interpretazione del dogma, in Idem, La Divina Commedia e l’escatologia cristiana, cit. p. 33). Sul rapporto tra filosofia e teologia in Dante cfr. l’importante studio: Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di Alessandro Ghisalberti, Milano, Vita & Pensiero, 2001; Salvatore tramontana, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, cit.; Jacques Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, trad. it. di Cesare Giardina, Milano, Mondadori, 1979, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchiero, Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale, Roma-Bari, Laterza, 1987;Vito Fumagalli, Quando il cielo s’oscura. Modi di vita nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1987; Jacques Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, a cura di Francesco Maiello, Roma-Bari, Laterza,1984 e il già citato Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale, cit.; sul rapporto teologia-filosofia, su quello di “filosofia religiosa” e filosofia della religione e delle religioni soprattutto in ambito moderno-contemporaneo e con chiari rifermenti al periodo antico oltre ai testi già citati, cfr. Marco Ravera, Introduzione alla filosofia della religione, Torino, UTET, 1995. 56 Particolarmente su Agostino e Tommaso in relazione a Dante, per un quadro dettagliato, rinviamo rispettivamente alle voci Agostino Aurelio d’Ippona, di Alberto Pincherle, in Dante-Enciclopedia dantesca, cit, vol. I, pp. 80, 82 e Tommaso d’Aquino, di Kenelm Foster, in Dante-Enciclopedia dantesca, cit, vol. V, pp. 626, 649. Sull’opera e il “pensiero trinitario” di Agostino cfr. Sant’Agostino, De Trinitate, cit. 57 De Trinitate, V, 9. In riferimento a Dante e a Sant’Agostino sulla Trinità cfr. G. Fallani, Trinità, in Enciclopedia dantesca, cit., vol. V, pp. 718-720.
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tivi “componenti-persone”, non argomenta filosoficamente il suo canto, ma spiega la sua convinzione nel verso come colui che rinasce a nuova esistenza. E sente i benefici del nuovo nel sempre. Testimone e causa di questo processo è Cristo, 58 il risorto,59che Dante guarda nella maestà divina, 60 nella divinità trinitaria: «O luce etterna che solo in te sidi,/ sola t’intendi, e da te intelletta/ e intendente te ami e arridi» (Par. XXXIII, vv. 124-126).61
58 Sulla scorta dei Padri Dante rielabora la sua visione. Per Agostino, che tratta di Dio e della Trinità nel De Trinitate, il Padre, pur essendo diverso dal Figlio, non creato della stessa sostanza di quest’ultimo, è uguale al Cristo e allo Spirito Santo: la Trinità è relazione, dunque, dell’ uno all’altro, la quale relazione però non è accidentale, dal momento che Dio è sempiterno e immutabile. E da ciò Agostino aderisce con grande ingegno al dato neotestamentario, in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, infatti, non vanno detti né secondo la sostanza né secondo l’accidente. Il secundum relativum, di cui discute Agostino, è dunque un tertium quid. E per San Tommaso d’Aquino: «Persona igitur divina significat relationem ut subsistentem. Et hoc est significare relationem per modum substantiae quae est hypostasis subsistens in natura divina; licet subsistens in natura divina non sit aliud quam natura divina» (Summa Theologiae, I, q. 29, A 4). 59 Cfr. Giovanni Fallani, Trinità, in Enciclopedia dantesca, cit., vol. V, pp. 718, 720. 60 Il poeta parte da quell’Itinerarium mentis in Deum,mediante il quale Bonaventura spiega l’operazione trinitaria ed il rapporto con la realtà creata e nel contempo rimodula, ripensandoli, i termini descrittivi desunti da Gioacchino da Fiore con il quale Dante, come già ricordato, pur non aderendo alla costituzione del suo pensiero lo loda per l’alta struttura descrittiva esposta nelle opere e per la forza profetica e l’intenzione etica caratterizzanti il carisma del Calabrese. Al centro del suo pensiero e della sua actio versificatoria è, dunque, la fede nella Parola da cui trae i costrutti essenziali per la realizzazione sconvolgente della «materia del suo canto» (Par. I, v. 12), formula funzionale al giro timbrico del “trasumanare”. Cfr. San Bonaventura, Itinerario della mente in Dio- Riconduzione delle Arti alla teologia, cit.. Su Bonaventura ripreso da Dante (in merito all’aspetto innovativo dell’azione profetica del Calabrese, del rinnovamento morale e della ripresa di simboli e “figure” concernenti anche alcune descrizioni sulla Trinità), ed il riferimento, all’interno della questione trinitaria, del rapporto-distacco tra l’autore dell’Itinerario e le questioni esposte sulla Trinità da parte Gioacchino da Fiore cfr. la nota 5 del capitolo III di questo studio ed in più, in merito alla relazione-ripresa di Dante delle teorie cristocentriche accettate da Bonaventura e Tommaso e “ampiamente rivisitate e variamente discusse” dall’abate Calabrese verso il quale i Dottori citati rivolgono negativi giudizi sull’aspetto esposto cfr. Francesco Bausi, Dante fra scienza e sapienza, cit., pp. 88, 89 ed in particolare le note 41, 42, 43. 61 «Nella sua teologia laicale ed entro l’orizzonte dell’immagine platonica e scolastica del mondo, Dante, per la prima volta nella storia del pensiero cristiano, pone al centro ‘il mistero d’un amore eterno tra uomo e donna. L’eros è purificato dall’àgape e, attraverso tutti i cerchi dell’inferno e le sfere del mondo, è trasportato fino al trono di Dio’. […]. Dopo l’estetica teologica di Bonaventura, Balthasar trova in Dante l’espressione poetica
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Dante Della Terza con specifico riferimento al suo studio introduttivo sul Dante di Auerbach ha inteso fornire la penetrante lettura del complesso processo di acquisizione del segno-simbolo-figura da parte del dantista tedesco, ricollegando le fasi teoretiche della profilassi variamente composita, mediante cui si è giunti alla ripresa innovativa della struttura figurale, permettendoci, così, di investigare ulteriormente il nesso poetico personafigura.62 A partire dal XXXI canto l’oratio apre alla conclusione “aperta” della poesia della Commedia. Tale passaggio viene segnalato proprio dall’intensificazione lirica della figura della Madonna: da questo punto in poi l’atto stesso della Persona (Dante-Maria-Cristo-laTrinità)63 acquista la fattività dell’azione della peregnitatio nella metaforizzazione massima, che è, quindi, la Luce. La quale in sé è il realismo della Commedia. Inteso e visto, secondo la linea dell’Auerbach e del Singleton, con molto più intenso accento posto da quest’ultimo sulla “realizzazione vivens” diremmo del lettore “nella vita della poesia dantesca”.64 Pertanto, proprio un profondo e non ideologiz-
più alta dell’unità indissociabile tra estetica ed etica. Nel suo cammino spirituale – attraverso le Rime, il Convivio e soprattutto nella Commedia - esse si postulano e si richiamano reciprocamente: non c’è etica (eros) senza bellezza, e soprattutto non c’è bellezza senza etica. E la bellezza è cantata da Dante come ‘la forma espressiva del vero e del bene’. Il rapporto espressivo tra il fondo inesprimibile dell’essere e la sua autorivelazione nella forma dell’essere acquista un centro umano nella bellezza di Beatrice, la cui figura terrestre, è già nell’opera giovanile, un’espressione del cielo, e a tal punto squisita che il cielo è sempre in procinto di ritirare questa immagine e rivendicarla per sé» (Giovanni Marchesi, La Cristologia di Hans Urs Von Balthasar. La figura di Gesù Cristo espressione visibile di Dio, prefazione di Hans Urs Von Balthasar, Analecta Gregoriana, Roma, Università Gregoriana Editrice, 1977, pp. 108, 118). 62 Cfr. Dante Della Terza, Prefazione a Erich Auerbach, Studi su Dante, cit., pp. XII- XVI. 63 Charles S. Singleton, L’irriducibile visione, in Idem, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 469, 470. 64 Nell’esamina del Sigleton «il termine ‘figura’ [non] è assente dal lessico […] ma, come per tanti altri elementi compositivi dell’esegesi applicata al testo dantesco, esso deriva da una fonte che è esplicitamente dichiarata teologica: ‘le cose esistono per il significato che esse esprimono’, afferma il ctitico riprendendo l’agostiano gratia significandi […]. Ed è appunto evidente […] l’influenza, semiotica ante litteram, di Agostino, soprattutto nella netta e sicura distinzione tra verba e res, pur ricondotta alla matrice divina. […] Singleton argomenta che, poiché tutte le cose sono ‘in grembo a Dio’, quando esse sono ‘vedute’ acquistano un tratto imprescindibile di oggettività. Preciò il mondo terreno e creaturale è
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zante recupero della misura dialogica, “infra-scritturale” (pagano-cristiana), apre alla concreta lettura in quella transumptio che squaderna liricamente nella Luce la visio. Attuata in poesia quala finzione creduta, appunto, per mostrare la connessione tra possibilità umana (libero arbitrio) e grazia divina, propria del credente:65
per Singleton oggettivo e dunque non solo reale ma ‘realistico’. È nell’espressione umana delle ‘cose vedute’ che Singleton vede il ruolo più propriamente estetico della poesia; se esse non fossero espresse nella fictio rimarrebbero sì ugualmente reali, ma irrevocabilmente prive di ricezione umana. Echeggiando il passo agostiniano dei Soliloquia 11, 10 per cui ‘certe opere devono essere false per essere vere’, Sigleton approda a un fulminante paradosso sul realismo della Commedia ‘La fictio della Commedia è che essa non sia una fictio’. […]. Che cos’è dunque la Commedia? È il “viaggio a Beatrice” […] ma il viaggio della donna si ferma prima, nell’Empireo […] Dante mette letteralmente in scena la Bibbia, i libri della Sacra Scrittura […] la donna angelicata diventa Cristo, Beatrice come Cristo. È questa la grande eredità di Singleton: l’acquisizione spontanea e per così dire genetica delle Scritture incontra una comprensione profonda del testo che chiede al lettore di ‘vivere’ la Commedia, di entrare nel suo orizzonte teologico e culturale. Da qui si è mossa, con le necessarie e dovute correzioni, la critica americana successiva a Singleton, a cominciare da John Freccero, la cui decisione di accantonare l’opposizione tra poesia e teologia ha permesso di valorizzare la lettura di Singleton e recuperarla alla luce della critica psicanalitica della semiologia e della semiotica, con una maggiore attenzione alle problematiche della letterarietà dei testi. Grazie a Freccero, l’opera di Singleton mostra di poter funzionare ancora oggi, senza bisogno di rinnegare in toto il pur innegabile peso della teologia all’interno della visione singletoniana: scoglio esegetico tuttora problematico e irrisolto, se ha portato la studiosa italo-americana Teodolinda Barolini a invitare la più recente critica nordamericana a ‘deteologizzate Dante’, opponendosi provocatoriamente non tant a Singleton quanto a molti suoi epigoni. Ma proprio l’urgenza e la complessità delle critiche mostrano come uil magistero singletoniano sia ancora oggi un imprescindibile punto di confronto per la critica dantesca americana e un ineludibile riferimento per la antologia contemporanea nel mondo» (Rino Caputo, Il dantismo di Singleton al di qua e al di là dell’Atlantico, in Idee su Dante. Esperimenti danteschi 2012, cit., pp. 17-22). 65 Sul complesso modo interpretativo, soprattutto quello inerente la modalità storicofigurale, i suoi processi di integrazione nell’analisi scritturale-scritturistica-poetica, così come nei limiti di tale metodo, evidenziato da studiosi, in ripresa-distacco con altre modalità di profilassi (Nardi, Singleton, Gilson, Contini), lo studio critico-ricapitolativo del Casadei, presenta nell’ampia esecuzione interpretativa filologico-ermeneutica, i sistemi di critici e di esegeti i quali fanno convogliare nei propri metodi-invenzioni le istanze perlustrative e i ritrovati sintattico-teorici, con particolare riferimento al Novecento, e non solo e non tanto in ambito europeo, incentrando le coordinate del viaggio in quel moto gnoseologico che eleva il terragno a metodo-misura ascendente i più impervi sentieri dell’essere verso la Luce: Alberto Casadei, Dante nel ventesimo secolo (e oggi) e Dante oltre la Commedia, in Idem, Dante oltre la Commedia, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 145-224.
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Nel Paradiso l’allegoria in quanto processo dichiarato e/o evidente appare sempre meno necessaria, essendo risolutiva la rappresentazione in sé delle realtà ultime fino a quella di Dio stesso, nei limiti consentiti a un uomo. Mentre aumentano i riferimenti alla mistica (e non a caso l’ultima guida è san Bernardo di Chiaravalle, cistercense e devoto di Maria), Dante adotta un tessuto linguistico-stilistico di tipo metaforico sulla scorta, se si vuole storicizzare, delle teorie della transumptio, che lo spingevano a ricercare analogie innovative per riuscire ad esprimere l’essenza della condizione dei beati e addirittura di Dio: ‘Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza; / e l’un da l’altro come iri da iri / pareo reflesso, e ’l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri’ (Pd. XXXIII 115-120); sul modello analogico nel pensiero medievale e in Dante […]. La poetica dantesca deve prevedere un innalzamento stilistico per poter giungere a una teodìa, appunto deputata al ‘cantare divino’, all’immergere il lettore nella pienezza della Gloria di Dio […]. L’allegorismo lascia spazio a un discorso che dovrebbe rivelare le ontologie ultraterrene dall’interno, e quindi in una prospettiva mistica, secondo molti studiosi rintracciabile soprattutto nei canti conclusivi del Paradiso. […]. Le dichiarazioni di innegabilità non lasciano spazio a una mera serie di affermazioni-suggestioni asintattiche, quasi luminazioni irrelate […]. L’eccezionalità di questo itinerarium poetae in Deum è segnalata soprattutto dai tratti stilistici non riscontrabili nelle prime due cantiche. […] il livello di difficoltà delle metafore aumenta nel Paradiso, in prima istanza grazie a una sempre più forte interazione con il latino e con la terminologia filosofico-scientifica; in seconda, grazie a una sempre maggiore disponibilità alla trasposizione, ovvero alla creazione di metafore giustificate non da una proprietas evidente, ma da un’elaborazione concettuale che le rende esatte a un grado ulteriore e più complesso […] l’effetto è quello di ottenere un continuo spostamento gnoseologico, che costringe il lettore a creare mentalmente entità e metafore dai nessi non ovvi, o comunque modificate rispetto a quelle in uso, per rappresentare l’essenza esperita nell’aldilà. […] sebbene la realtà precisamente descritta costituisca ancora il fondamento del discorso letterale, esso però viene spinto a una purezza cristallina, in modo da poter rappresentare fenomeni fisici 219
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riconducibili al loro fondamento ultimo. 66
Se persona67 quindi, indica la realizzazione libera tra l’essere nel tempo e la responsabilità di esserci, il canto dantesco congiunge il procedimento opererante simultaneamente ad intra e ad extra. Ad intra, ossia la persona-figura di Maria si manifesta poeticamente nella relazione con le anime proiettate in umbra futurorum e realizzate, pertanto, solo in parte. Mosse cioè dal dopo (quando si comprenderà-vedra Dio nella “Parusia finale”) in cui la persona si conformerà, inglobata la figura, nell’Origine. Ad extra, la figura-persona di Maria manifesta la capacità di trasmettere l’immagine di Dio introducendo ed esponendo (ad intra e ad extra in questo “punto-movimento lirico” si compenetrano) poeticamente nel suo sguardo, “transumptio primaria”, il cantore e il lettore nella Luce: ‘Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ’mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
Ivi, pp. 217-219. Sulla concezione di Persona, anche ai fini di una codificazione-teorizzazione esposta “su basi di fede” in riferimento alla disposizione della sua forma-contenuto diversamente intesa rispetto alla tradizione classica graco-latina ed inserita pienamente, pur nelle differenze d’impostazione, quale principale germe costitutivo della fede-religione cristiana, su Cristo Persona e la Trinità, a partire dal Nuovo Testamento fino ai Padri, ad Agostino e Tommaso, giungente alla più moderna espressione, dentro e oltre la “filosofia del personalismo”, e, dunque, di Persona, cfr. Romano Guardini, Mondo e Persona. Saggio di antropologia cristiana, a cura di Silvano Zucal, trad. it. di Giulio Colombi, Brescia, Morcelliana, 2000 con specifico riferimento al capitolo La Persona, pp. 131-205. 66 67
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che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disïanza vuol volar sanz’ali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ’l sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!’» (Par., XXXIII, vv. 1-39).
Il canto- preghiera, dunque, è la sintesi-valore del poema. È il predicato che ci spiega liricamente la persona-figura, e dal momento che la persona si attua nell’azione, la poesia è figura piena, diremmo pratica (costruire) della Persona di Maria, che ci dà il risvolto della guarigione della catacresi sintattico-materica dell’uomo: «la preghiera […] è l’espressione per eccellenza nella quale l’elemento verbale e quello dinamico»68 aprono incoati-
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Paolo Bollini, Una lingua di luce, in Idem, Dante visto dalla Luna, cit., p. 278.
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vamente la Luce nella sua gradazione crescente e veniente in Maria. 69In prossimità del mistero della Trinità giunto nella candida rosa e mosso da Beatrice (“salutazione” della Vergine), la quale lo immette con Bernardo, «colui ch’abbelliva di Maria» (Par. XXXII, v. 107), riprendendo, così, il suo posto assenatogli dalla Grazia nella corte santa, Dante smuove il lettore alla definizione implicita ed esplicita del cosa sia la poesia: dapprima ci presenta una nuova laus di Maria, ‘regina del cielo’ (Pd XXXI, 100); quindi indica Maria posta nello scranno più alto della rosa mistica, con alla sua destra gli apostoli Pietro e Giovanni e, alla sua sinistra, Adamo e Mosè; in basso subito sotto Maria, troviamo collocata Eva e Maria, secondo un canone definito a partire da Giustino, viene presentata come colei che ‘richiuse e unse’ la ‘piaga’ che Eva, la prima donna, ‘aperse e […] punse’ (Pd XXXII, 4-6), facendoci altresì assistere ad una replica, liturgica e figurale, della scena dell’annuciazione […] ‘Ave, Maria, gratia plena’ […] (Pd XXXII, 94-96). A questa divina ‘cantilena’ risponde, da tutte le parti dell’anfiteatro della rosa mistica, la ‘beata corte’, in un accentuarsi di luminosità delle anime. […]. Beatrice frattanto era già risalita per collocarsi nello scranno della rosa a lei riservato e il poeta ricorre perciò direttamente all’aiuto, alla ‘dottrina / di colui ch’abbelliva di Maria, / come del sole stella mattutina’ (Pd XXXII, 106-108). 70
Il suo nome (su tutti rosa, rosa mystica, che sta all’origine delle parole donatele dal Verbo) è in sé dinamicamente fattivo nella costruzione della poesia della Commedia: il roseto, discreto, degli eventi della sua esistenza terrena e celeste, è il rosario perpetuo del poeta-pellegrino, dell’AuctorAgens, che la invoca mane e sera, e per il quale il canto è resoconto della testimonianza evangelica nel silenzio-loquace della Vergine. Per conoscere, infine, il nesso Dio-Dante, riprendendo la concezione di “persona”, propria del cristianesimo, la filiazione del poeta e del lettore,
Cfr. ibidem. Bortolo Martinelli, «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco». Dante e il nome di Maria, cit., pp. 372-373. 69 70
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introducendosi nella carne del Cristo, il verso “ci spiega” la persona che ha sigillato il Verbo e lo ha disigillato al mondo. E il canto offre tale esegesi: «quando l’Figliuol di Dio / carcar si volse de la nostra salma’» (Par. XXXII, vv. 113-114). Qui ogni ordine umano viene ribaltato nella Giustizia-ordine di Dio, non paragonabile al potere politico, e Maria viene significativamente indicata quale imperatrice, sulla scorta della dizione curiale, «Agusta» (Par. XXXII, v. 119). Maria-persona-figura che ridona la pienezza filiale in Cristo, che è nuovo Adamo. 71 Pertanto, la poesia è per (funzionale) Maria l’azione pratica della persona-soma (figura-maschera/persona-anima-corpo): è il suo sì. 72 Dante non pronuncia direttamente l’oratio, ma la fa pronunciare a San Bernardo, a significare ancora, pur se giunto davanti a Lei, il suo stato di
«La sua ‘preghiera’, il valore della ‘preghiera’ nasce qui nell’uomo solo che la pronunzia, che rigenera le parole, che crede nelle parole. In essa il poeta, ma anche il filosofo e politico (aspetti che si innestano intimamente tra loro con invisibile filo congiunti), esercita tutta la sua umana esperienza e l’ardore delle sue passioni, i propositi, la fede infine che gli assicura l’avvento di giustizia, bontaà, intelligenza regolatrici dell’umana civiltà. Alla poesia conta lo stato di tensione e di attesa, che sommuove il precetto, gli dà vita e trepidazione, lo scrosta dagli accidenti e lo rifà genuino come suonò nell’animo di chi lo pronunziò per primo o di chi per primo lo sentì» (Aldo Vallone, La preghiera, in Idem, Studi su Dante medievale, Firenze, L. S. Olschki, MCMLXV, p. 84). 72 «Strumento di conoscenza, di una conoscenza più profonda perché legata non solo – come per la filosofia e la teologia – alla ragione e ‘sillogismo’, ma anche all’elemento ‘affettivo’ ed ‘estetico’ (nel senso proprio e insieme in quello etimologico della parola, cioè il riferimento all’esperienza e alla percezione attraverso i sensi), di una conoscenza che può dunque, unica, saldare in una sola cosa intelletto e volontà, scienza e amore, vero e bello, sapienza e carità, configurandosi veramente come ‘amoroso uso di sapienza’ (Conv., III, XII, 12) e come suprema ‘comprensione’ di un Dio che è ‘luce intellettüal d’amore’ (Par., XXX, 40). In questo, il poeta è colui che nella sua persona e nella sua creazione più si avvicina al sommo Creatore, è l’artifex umano più vicino all’Artefice supremo, per cui conoscere equivale ad amare e a fare (a fare perché ama, e ad amare ciò che fa essendo egli ‘somma sapienza e sommo amore e sommo atto’), e la cui opera è essa stessa un’opera d’arte, anzi la più bella opera d’arte sulla quale devono essere esemplate – pallide ed imperfette imitazioni – quelle umane. […] la radice etimologica di poesis è il greco poire (ποιεῖ ν, ‘fare’: cosicché il poeta ‘fictor vel formator’ e poetari vale ‘carmina poemata facere vel componere’), e proprio in modo particolare della Commedia, che, come abbiamo appena ricordato si colloca nella sfera della filosofia ‘pratica’, ossia dell’etica e ad essa subordina anche gli aspetti più specificatamente speculativi» (Francesco Bausi, Dante fra i sapienti, in Idem, Dante fra scienza e sapienza. Esegesi del canto XII del Purgatorio, cit., pp. 116-117). 71
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allievo-discepolo: ha bisogno ancora, poiché mortale defettibile, di guida. Significando, questo, il suo non conclusivo atto poetico, ma l’incremento per il cominciamento effettivo in Dio, ed il successivo suo ritorno a riscrivere nella memorizzazione lirica (rivivere) il poema, per cui Ella, così come indicavamo, sulla scorta della più antica esegesi, sigilla-disigillandolo (Vergine-Madre: Purezza e Fecondità accoglienti la Lingua-Parola) il Testo-parola in Dio: La preghiera alla Vergine […] [espone] […] quella forma particolare dell’espressione nella quale l’elemento dinamico viene in primo piano, con grande effetto di evidentia, un gesto verbale che ripete, nell’esperienza della forma espressiva il venire incontro di Maria come inchoatio di Dio nella lingua come inchoatio dell’uomo. […] [cosicchè] le parti di cui si compone la preghiera: 1) apostrofe, 2) le formule predicative graduate – prima sull’essenza, poi sulla vita e l’efficacia di Maria, con il passaggio eulogico implicito dei vv. 22-24 –, 3) la supplica, corrispondono, per gli elementi dinamici presenti nello stile, ai tre modi dell’associazione, dell’eidetismo, dell’abreazione verbale già identificati rispettivamente nell’elaborazione dei tre canti della Luna […]. La preghiera, così concepita come concorso dinamico finale, rappresenta il punto in cui convergono l’aprirsi critico fondamentale della lingua alla divinità per un ritrovamento originario (sostanza, patria, nobiltà, orientamento ed escussione stilistica), e il manifestarsi di questa divinità nella lingua, rilasciandovi ‘aliquid perfectionis’. […]. Maria è descritta come la sede di ogni rappresentabilità: come allegoria nascosta nelle allegorie della Scrittura, aveva anticipato la chiarezza dei profeti, superandoli con un’evidenza fuori del tempo e della narrazione […] [specificatamente nel Paradiso] appare insieme come oggetto e metodo del movimento della ricerca intellettuale e vitale […]. Maria è il sigillo; come esemplare è la forma stessa della divinità, e quindi, essendo il luogo della discesa del divino, è la forma più perfetta, immediata coincidenza di significante e significato [diremmo forma-sostanza-forma-modo224
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struttura] forma e fine. […] La funzione di Maria come ‘sigillo’ di eternità e di storia, non-discorsività e ‘discorrimento’ è [….] [anticipata e sciolta prima dell’immissione del poeta nella sua vista che apre ai Tre Cerchi nella rappresentazione della] ‘Vergine pregna’. 73
La preghiera, quindi, sviluppa la necessità del continuum, il dovere di perpetuazione della Parola: «Gentilezza, benignità, libertà, misericordia, pietate, magnificenza, bontate sono in verità le lodi che Dante, lungo tutto il poema, attribuisce a Maria: qualità di eletta donna umana, doti di sovrana Signora del cielo […]. I versi che hanno subito la più sconcertante vicenda critica ed esegetica». 74 L’aretologia o dossologia, secondo l’esame dell’Auerbach, espone il Tu anaforico quale sistemazione centrale del rapporto dialogizzante, aggiungiamo noi, tra Maria-Dante-Dio-il lettore-il verso-preghiera. “Tu” indica il ribaltamento, quindi, e la realizzazione ad un tempo dell’Io cristiano, la confidenza in quell’affetto che il pronome personale rigenera, appunto, anaforicamente, tanto in moto implicito che esplicito. La genetica del canto, espressa proprio versificatoriamente nel «Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia, ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo» (Par. XXXII, 85-87), si spiega in Maria, presentando l’inconoscibilità quale moto veniente dalla mente di Dio: La virtù di Maria ha nobilitato il genere umano a tal punto, che per lei ‘si raccese’, si rinnovò il vincolo d’amore ‘tra Dio e l’omo, lo quale era spento per lo peccato d’Adam’, notò Francesco da Buti, e Dio stesso non disdegnò di farsi uomo per la salvezza dell’umanità. Il senso della portata straordinaria di questo evento è rimarcato dalla serie delle strepitose antitesi, inconcepibili dal senso comune, esibite in apertura dell’apostrofe: vergine e madre, figlia del tuo figlio, umile – da humus, prona alla terra – e alta, elevata ad altezze vertiginose, più di qualsiasi essere creato […]. ‘L’orazione di Bernardo – rilevò un altro grande commentatore antico, Cristoforo
Paolo Bollini, Dante visto dalla Luna-Figure dinamiche nei primi canti del Paradiso, cit., pp. 348-388. 74 Aldo Vallone, La preghira, in Idem, Studi su Dante medievale, cit., pp. 86-92. 73
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Landino – è composta con sommo artificio; e prima nel proemio capta somma benevolentia e attenzione e docilità, e certo può eccitare somma attenzione inverso l’auditore attribuire tali epiteti e’ quali in Maria sono miracolosi, ma veri, e in altri sono impossibili, perché non cade nella natura d’alcuno animale che una possi essere insieme madre e vergine, perché sono cose tra loro contrarie. Né figliuola del figliuolo; ma cadde in Maria per divina grazia. Dunque non si dicono queste cose senza stupore di chi ode. Onde risulta attenzione. Né sanza somma laude di quella della quale si dicono. A Maria Vergine, definita – sull’eco di san Bernardo, come ha mostrato l’Auerbach – ‘meridïana face / di caritate’, fiaccola ardente di quell’amore verso Dio e verso il prossimo che è la più vivificante delle virtù teologali; ‘di speranza fontana vivace’, vivida fonte di speranza, la forza che induce fiduciosa aspettazione ‘de la gloria futura’ (Par., XXV 67-68); generosa dispensatrice di grazia, che addirittura ‘liberamente al dimandar precorre’, concede spontaneamente la sua protezione prima che sia richiesta […] [affinchè il mortale poeta possa] elevare lo sguardo fino alla massima altezza, fino a Dio, l’estrema salvezza dell’uomo.75
Dante, il lettore e l’umanità tutta vengono posti con la preghiera-canto, hic et nunc, nel grembo della Madre per essere ripartoriti proprio dal seno verginale: figli di Dio, riammessi al Padre per Cristo, e, quindi, fratelli di quest’ultimo. Ecco che “il viaggio a Maria”, come significativamente è intitolato un testo su Maria nella letteratura, fonte di letteratura, di Carlo Ossola, Θεοτόκος, la Madre che dona il divino alla storia,76 “Madre poetarum”, diventa la gestazione laboriosa del rifare (cammino) con il linguaggio cristico la persona umana, immagine delle tre Persone della Trinità: «quel Dio cui neppure la teologia può portare l’uomo, giacchè, essendo Egli amore (‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’), il nostro fine non è tanto di conoscerLo, quanto unirci a lui col disio e il velle, col desiderio e la volontà, là dove diventa vano ogni sforzo di comprensione intellettuale».77
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Enrico Malato, Dante al cospetto di Dio, cit., pp. 16-18. Cfr. Carlo Maria Ossola, Viaggio a Maria, Roma, Salerno Editrice, 2016. Francesco Bausi, Dante fra i sapienti, in Idem, Dante fra scienza e sapienza, cit. p. 114.
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L’indiarsi del poema, dopo la vicenda reale di Dio fattosi uomo, procede (così il fine della Revelatio) a far partecipe l’uomo della propria originefonte: «eros, principio supremo del mondo, ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’, non può riferirsi, in Dante poeta, ai ‘principi dell’essere’, ma solo a realtà esistenti», dunque, all’essere in sé, in Cristo figlio di Maria, vero Dio, e che «abita nel cuore della Trinità e viene fuggevolmente percepito […] come la ‘quadratura al cerchio’».78 La Croce viene ribaltata nella peregrinatio poetica divenendo il viatico per ricomprendere, ritornato in terra, il motivo-funzione della selva: «L’alta fantasia ha quindi una funzione gnoseologica […]. La visione paradisiaca unisce non separa le facoltà umane, in essa l’essere si attua pienamente, ma della conoscenza che ha raggiunto non gli resta che la debole traccia di una ‘passione’, il ricordo delle sensazioni».79 E la memoria diventa memoriale della persona vivens, diventa sigillo di un racconto da rigenerarsi con la prova di sempre scegliere e indicare quale scelta ultima e prima l’Amor che move il sole e l’altre stelle: Nella terza cantica l’attività della mente, ispirata in modo addirittura violento […] rifunzionalizza l’insieme delle potenzialità già messe in atto nelle prime due: si punta adesso alla creazione di un effettivo oltre-mondo, nei quali i nessi logici lasciano spesso posto alle equivalenze non-mediate, ai neologismi sintetici, insomma alla densità energica, in cui il peso della materia si azzera e Dio si mostra, anzicchè essere dimostrato. […]. I tratti stilistici che caratterizzano queste linee di forza sono numerosi, ma due meritano una sottolineatura. Uno è ottenuto mediante la coniazione di vocaboli e in specie verbi parasintetici con prefisso in-, a indicare la piena compenetrazione degli enti nella totalità della glotia divina: da ultimo, l’‘indova’ di Pd XXXIII 138, notevole perché creato a partire da un uso sostantivato dell’avverbio ‘dove’, e quindi ancora più astratto-mentale (da parafrasare quasi ‘dove diventa dove’) rispetto ai suoi corrispondenti inmiarsi, intuarsi ecc. (l’unico confrontabile,
Hans Urs von Balthasar, Dante, Brescia, Morcelliana, 1973, pp. 17 e 93. Enrico Ardissino, ‘L’alta fantasia’. Poesia e visione, in Eadem, L’umana ‘Commedia’ di Dante, cit., pp. 118-121. 78 79
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ma molto meno rilevato, è l’ ‘inforsa’ di Pd XXIV 87). Un altro è generato dal ricorso a figure di parole, dall’annominatio al poliptoto, che creano una sorta di continua interconnessione fra le entità designate […]. L’absurdum di un Dio che si fa uomo viene spiegato e reso plausibile nel mondo paradisiaco grazie all’uso gnoseologicamente forte di neologismi e di figure, orientate a porre in luce le intime consonanze che rendono l’essere umano in grado di spingersi sino a intuire appunto ‘come si convenne / l’immago al cerchio e come vi si indova’ (Pd XXXIII 137-138). 80
Tutto è espresso in quell’esperienza straordinaria dell’uomo che, conosciuta la realtà di Dio-uomo, ossia l’Amore, la cui faccia-volto è la Vergine, espone «L’esasperazione e la torsione nell’uso di pronomi personali e dei numeri. L’archetipo ideale è nei paralogismi del dogma [….] ‘O luce etterna che sola in te sidi/ sola t’intendi, e da te intelletta/ e intendente te ami e arridi!’ (Par. XXXIII, 124-26) dove il pronome di seconda persona è presente [….]’ [nell’] l’elevazione del soggetto [….] [con] i verbi composti con trans ».81 Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ’l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne
Alberto Casadeie, Dante oltre la Commedia, in Idem, Dante oltre la Commedia, cit., pp. 219-220. 81 Cesare Segre, Il viaggio di Dante come esperienza totale, in Dante. Da Firenze all’Aldilà. Atti del terzo Seminario dantesco Internazionale, a cura di Michelangelo Picone, Firenze, Franco Cesati Editore, 2003, pp. 114-115. 80
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Capitolo V - ‘Trasumanar significar per verba / non si poria’. Maria e il verso-redento: persona-figura
l’imago al cerchio e come vi s’indova (Par., XXXIII, vv. 127-138): 82
è Maria che tramite i suoi occhi, da creatura umana, fa vedere il Figlio introducendo la vista del poeta-pellegrino nella Trinità, poiche a Lei nulla è impossibile. Entriamo, quindi, nel roseto-grammatica mariana per il quale gli “occhi” venerati da Dio stesso, fanno dire a Dante che «l’ardor del desiderio in me finii» (ivi, v. 48). Bernardo m’accennava, e sorridea, perch’io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea (Par., XXXIII, vv. 49-51):
la “fine” è il cominciamento umano nella replica orante, che è l’unica a far muovere la supplica, ossessionante ed acuta, alla Grazia, giaculatoria prex, per la quale il poeta ed il lettore, posti nel «compiacimento delle an-
«Si rivela ora al pellegrino (e un giorno Si rivelerà a noi) in una visione diretta (che ‘piglia’ i nostri occhi ‘per aver la mente’) di quanto è sostanza della nostra fede. Qui, nei tre cerchi ‘di tre colori e di una contenenza’, v’è l’immagine sufficiente di quella Trinità e Unità che sappiamo contempleremo quando potremo vedere non più per speculum, ma direttamente […]. Bisogna ammettere che, passati attraverso immagini umili e concrete come il gesto del centauro o le palpebre cucite degli invidiosi, ora ci stiamo muovendo in un’atmosfera quanto mai rarefatta, dove l’immagine, ridotta a semplici cerchi colorati, sembra aver raggiunto il massimo dell’asrtattezza, restando pur tuttavia immagine […] il poeta […] in una similitudine […] paragona il pellegrino in contemplazione al geometra che, assorto, davanti ad un cerchio, pensa a come trovare la quadratura […]. Gli occhi [dell’Auctor-Agens] sono ora fissi sul secondo dei tre cerchi, quello riflesso dal primo ‘come iri da iri’, sul cerchio che è il Figlio. In esso egli vede il quadrato, vede cioè la nostra ‘effige’ umana: il corpo e le sembianze di cui egli si rivestì quando […] assunse la nostra natura […]. Ma in questa immagine, l’ultima di tutte, tale visione non ci è concessa. Non ci è concesso di contemplare come e dove il Verbo si faccia Carne. Ed è giusto che sia così – proprio perché non ci è concessa, quella visione dovremmo desiderarla ancor più, come ha già detto il poeta. Qui abbiamo la fede che cerca di comprendere, fides quaerens intellectum, ma in una particolarissima messa a fuoco finale. […]. Ed evidentemente, quando infine arriviamo all’ultima immagine del poema – l’immagine negata – e al desiderio che essa esprime, ci sembra di poter dire che questo desiderio di visione è qualcosa che appartiene al cuore stessi dell’ispirazione, al sentimento impulso che mosse questo poeta medievale» (Charles S. Singleton, L’irriducibile visione, in Idem La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 553-556). 82
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titesi» mariane, Vergine-Madre/Figlia del tuo Figlio/Umile e alta, come afferma il Cosmo, 83 imparano l’umiltà nel richiedere Dio. Maria si presenta pienamente quale inchoatio formae:84 «Al fondo del lavoro dell’esemplarità luminosa [è] una semplice modificazione, in negativo (‘privatio’) della luce, sull’esemplare, che dà luogo alla manifestazione luminosa – luce su luce, da ultimo, involuta. […]. Al modo di un iperbato che incurvi lo spazio di una semplice prospettiva geometrica delle similitudini, l’inchoatio formae, come teoria delle origini, accosta direttamente l’esemplare in modo apofatico alla lux».85 Il segreto della poesia della Commedia vive in questa inesausta tensione tra i moti-sguardi del Figlio di Dio, di Maria e del cantore-lettore: «il genio del poeta è di vedere e di rendere possibile anche a noi i ‘verbi incarnati’».86 E l’umanità è volta nella deità: «L’immagine dantesca di Cristo, come amore incarnatosi nel seno della Vergine per la salvezza dell’umanità, è un simbolo d’un avvenimento storico insostituibile con altro esempio inseparabile dalla dottrina».87 Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. E’ mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ond’io presunsi
83 Umberto Cosmo, L’ultima ascesa. Introduzione alla lettura del ‘Paradiso’, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 339. 84 Sull’inchoatio formae, il suo modulo-pemsiero, sugli autori che ne hanno formulatoriformulato il concetto e, quindi, le procedure applicative in sede teorica, con particolare riferimento al portato somiglianza-similitudine da Agostino a Bonaventura a Bartolomeo da Bologna ad Alberto Mago, e con specifio riguardo a queat’ultimo cfr. Bruno Nardi, Raffronti fra alcuni luoghi di Alberto Magno e di Dante, in Idem, Saggi di filosofia dantesca, cit. 85 Paolo Bollini, Una lingua di luce, in Idem, Dante visto dalla luna, cit., pp. 274-275. 86 Charles S. Singleton, L’irriducibile visione, in Idem La poesia della Divina Commedia, cit., p. 557. 87 Erich Auerbach, La preghiea di Dante alla Vergine (Par., XXXIII) ed antecedenti elogi, in Idem, Studi su Dante, cit., p. 308.
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ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume (ivi, vv. 76-90):
consapevole nella e della memoria-parola che trasmette col poema, il poeta osserva-vive e, dunque, scrive-canta ponendosi nello sguardo della persona che ha nobilitato la natura umana, «termine fisso d’etterno consiglio». Per il quale termine, la poesia memoria vivens, è il resoconto innovativo del trasumanare nel ritorno sempre costante alle urgenze della persona dell’AuctorAgens: «Cielo e terra si saldano in un nesso unitario: la terra umanizza il cielo e il cielo spiritualizza la terra».88 In quel moto imprescendibile che è il bisogno di capire ed essere salvati con il mariale versificatorio. Ed esso è adempimento alla verginale (originaria) ragione del canto: il suo insausto cominciamento: hic et nunc nel semper del Verbo Incarnato. Rimpatrio (Maria simbolo della Patria celeste) “liricamente fattuale” e perdurante lungo tutta la Commedia «ne la faccia che a Cristo / più si somiglia».
88 Gino Tellini, Dante Alighieri. Il poeta-giudice nella prospettiva dell’eterno, in Idem, Letteratura italiana. Un metodo, cit., p. 24.
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Indice dei nomi
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Abardo R., 14n Abelardo P., 101n Adamo di Buckfield, 27n Adamo di San Vittore, 74 Adamo, 21, 24, 31n, 44, 90, 100, 119, 121, 122, 128, 170, 182, 183n, 213, 222, 223 Adinolfi M., 134n Agostino Aurelio (Santo), 10, 17 e n, 20-22, 23n, 26, 27 n, 28n, 29n, 39 e n, 48, 65, 67n, 86 n, 107, 117 e n, 132n, 156n, 167, 183, 184n, 191n, 195, 198n, 207n, 215 n, 217n, 220n, 230n Alano di Farfa, 187n Alano di Lilla, 24, 92, 180 Alberto Magno, 19, 53n, 91n, 140n, 185, 198, 201 e n, 230n Alceo, 132n Alessio G. C., 154n Algazel, 27n Ambrogio Aurelio (Santo), 103, 167 Ambrogio Autperto, 187n Ambrosini R., 207n Anceschi F., 211n Angiolillo G., 183n Anselmo d’Aosta (Santo, detto anche di Caterbury o di Le Bec), 99, 100, 179, 187n, 188n Anselmo di Lucca, 187n Antognini R., 32n Aracne (Aragne), 152, 154 Arato, 121
Ardissino E., 50n, 76n, 112n, 131n, 150n, 157n, 160n, 198n, 207n, 227n Ariani M., 23n, 91, 92n, 176n, 190n Aristotele, 18 e n, 23n, 28 e n, 46, 53n, 76, 91, 107, 156n, Arnaldo Daniello (Arnaut Daniel), 89n, 90n, 111n Assunto R., 114n Asti F., 182n Astori D., 131n Auerbach E., 7, 9, 10, 12, 17 e n, 19, 32, 34n, 36n, 44n, 74en, 77, 79, 81n, 83n, 86n, 87 e n, 88n, 89n, 100 e n, 103 e n, 125, 176, 184n, 189, 204n, 207n, 212n, 213 e n, 214, 217 e n, 225, 226, 230n Aurigemma M., 46n Austin H. D., 24 Balthasar H. U. von, 216n, 217n, 227n Barbi M., 209n Barblan G., 71n Barolini T., 32 e n, 51, 70n, 73n, 85, 86n, 127n, 152, 154n, 218n Bartholomaeus Anglicus, 27n Bartolomeo da Bologna, 230n Basile B., 155n Battistini A., 125n, 136n, 143n, 149, 174, 175n, 205n Bausi F., 25n, 26, 179n, 216n, 223n, 226n Beatrice, 11, 12, 21, 26, 30-32, 33 e n, 233
Indice dei nomi
34 e n, 35, 37, 38, 40n, 41n, 51, 55, 59, 61n, 65n, 81, 83n, 89n, 91n, 93-95, 102-104, 106, 108, 109, 111, 113, 114, 116, 117, 123, 126, 128, 129, 130n, 134, 137, 140n, 155, 157n, 161, 164n, 165n, 167, 170n, 175, 184n, 188, 189 e n, 190 e n, 191n, 192, 200-202, 214n, 217n, 218n, 221, 222 Benedetto (Santo), 43 Benvenuto de Rimbaldis de Imola, 18 e n, 46, 47, 84 e n, 85, 193, 208n Bernardo di Chiaravalle (Santo), 10, 19, 34, 42, 43 e n, 49, 51n, 60, 64n, 74, 89n, 99-101, 106n, 108, 130n, 133n, 140n, 143, 168, 169, 180, 185, 187, 188n, 192, 194n, 195 e n, 197, 201, 203, 204, 207n, 213, 219, 222, 223, 225, 226, 229 Bernardo Silvestre, 92 Bernari C., 185n Berschin W., 28n Bertoldi A., 26 Beschin G., 17n Bianchi G., 14n Bianco F., 132n Bianco M., 212n Biffi I., 19n, 206n Bino C., 185n, Boezio A.M.T.S., 29n, 140n, 183n, 198n Bollini P., 185n, 189n, 202n, 222n, 225n, 231n Bologna C., 68n Bonagiunta Orbicciani (o da Lucca), 107 Bonaventura da Bagnoregio (San), 27n, 43, 56, 64n, 66, 67n, 140n, 164, 177-180, 185, 202n, 205n, 211n, 216n, 217n, 230n 234
Bonifacio VIII, 165n Bonney G., 214n Bosco U., 64n, 145n Bosio G., 29n Boyde P., 104 Brambilla E., 102n Brugnoli G., 14n Buonconte da Montefeltro, 47 Burke K., 10, 78, 82 Busnelli G., 24 Buti F.di Bartolo, 113n, 146, 148-150, 184n, 225 Cacciaguida (Alighieri Cacciaguida), 136, 183n, Calenda C., 7, 21n Canavero Tarabochia A., 201n Candela M. 68n Cangrande della Scala, 87n Cannata L., 206n Cantalamessa R., 103n Caprì G. P., 206n Caputo R., 15, 214n, 218n Carducci G., 26 Carlo Martello, 157 Caronte, 36n Casadei A., 218n, 228n Casella, 183n Castaldelli F., 202n Castelli F., 59 e n Caterina da Siena (Santa), 101n Catone M. P. (l’Uticense), 83n, 128, 129, 130n, 209n Catullo G. V., 132n Cavalcanti G., 94n, 113n Cecchini E., 14n Cesare G. G., 128, 130n Chiavacci Leonardi A.M., 34n, 46n, 97n, 98n, 108, 109n, 145 e n, 177 e n, 185n, 195n
Indice dei nomi
Chini M., 57 Ciacco, 136 Cicerone M.T., 91, 121 Cimosa M., 214n Cino da Pistoia, 105 Colombi G., 220 Colombo M., 93n, 94n, Contini G., 10, 14n, 22n, 30 e n, 31n, 32 e n, 34n, 139, 155n, 171n, 218n Coppa A., 125n Corrado di Sassonia, 135, 185, 186 Corrado M., 31n Cosmo U., 230 e n Couliano I. P., 70n Cristaldi S., 19n, 186n Curtius E.R, 68n Cusano N., 28n, 129n D’Agostino E., 182n D’Auxerre G., 202n D’Elia A., 7, 8, 125n, 140n, 206n D’Elia F., 162n Dal Covolo E., 29n, 42n, 214n Dal Pra M., 28n, Davis C. T., 27n, 177n De Fiores S., 60n, 97n, 99n, 186n De Girolami R., 26n, 29n, 33n De Lubach H., 102n De Pieri Bonino M. L., 17n De Robertis D., 14n, 24n, 94n, 183n Delcorno Carlo, 68n Dell’Aquila M., 111n Della Terza D., 5, 8, 15, 17n, 36n, 38n, 87n, 103 e n, 140n, 154n, 217 e n Di Paola Dollorenzo G.M., 139n Di Pino G., 201n Dionigi l’Areopagita, 23n, 91, 191n Dronke P., 53, 71n, 128n, 147 e n, 151 Duns Scòto G., 64n
Eliade M., 70n Elisabetta (Santa, madre del Battista), 97, 151 Enea, 30, 46, 71 e n, 166 Eriugena G. S., 92, 191n Esaù, 142 Esposito E., 90n, 186n, Eva, 17, 31, 43, 62n, 100, 106, 114, 119, 122, 125, 128, 143, 182, 196, 213, 222 Ezechiele, 115, 148 Fallani G., 147n, 192, 215n, 216n Fava Guzzetta L., 138n, 141, 142n Felici S., 101n Ferrante J.M., 192n Ferri F., 67n Finazzer Flory M., 29n Fiorilla M., 169n Flacco G. V., 132n Flamini F., 7 Flora F., 202n Floro Di Zenzo S., 67n Fonseca D., 162n Foster K., 215n Francesco d’Assisi (Santo), 134, 161 Francesco da Buti, 113n, 225 Freccero J., 7, 10, 19, 21n, 79n, 82, 218n Frugoni A., 14n Frye N., 207n Fumagalli Beonio Brocchieri M., 29n, 215n Fumagalli V., 215n Galeazzi U., 110n Garin M., 70n Gesù Cristo, 7, 9, 11, 14, 21, 23, 24 e n, 33 e n, 37, 39, 40-44, 46, 50, 5759, 60 e n, 62 e n, 63n, 64 e n, 65, 235
Indice dei nomi
66, 73, 74, 80-82, 88 e n, 89n, 99, 100, 101 e n, 102, 103, 104, 106, 108, 113, 116, 117, 119, 120-125, 128, 129, 132n, 134-137, 140n, 142, 144, 146, 147, 151, 152, 155, 156, 157n, 160, 161, 165 e n, 169, 173n, 175, 177 e n, 178, 180, 181n, 182 e n, 183, 184n, 186n, 187, 188 e n, 189, 190, 191 e n, 192, 194 e n, 195-199, 208n, 211, 212 e n, 213, 214, 215 e n, 216, 217 e n, 218n, 220n, 223, 225, 226, 227, 230, 231 Getto G., 138n, 191n, 192 Ghisalberti A., 67n, 162n, 215n Giacobbe, 38, 142 Giannantonio P., 46n, 129n Giardina C., 215n Gilson É., 19 e n, 26, 28n, 100n, 218n, Gioacchino da Fiore, 43, 140n, 161, 162 e n, 163 e n, 164 e n, 178, 179, 216n Giovanni l’Evangelista (Santo), 59, 73, 97, 101n, 115, 141, 165n, 174, 182n, 184n, 222 Giovanni il Battista (Santo), 97, 174 Giovanni Peckam, 27n Giovanni XXII, 178 Giueseppe di Nazareth (Santo), 62n, 66 Giustiniano, 136 Giustino, 222 Goffredo di Vinsauf, 147 Gragnolati M., 185n Graziano (di Chiusi, o di Ficulle), 140n Gregorio VII, 187n Gregory T., 54n Grossatesta R., 27n Guagnini E., 104, 107n Guardini R., 176 e n, 220n Guastini D., 18n 236
Guerriero E., 102n Guglielminetti M., 183n Guglielmo di Conhes, 27n Guidubaldi E., 26n, 28n, 33n Guinizzelli G., 89n, 94n, 111n Gurioli E., 174n Hegel G. W. F., 80, 83n, 184n Hollander R., 90n, 154n Jacoff R., 190n Kasper W., 101n Lacaita J. F., 18n Lanci A., 50n, 155n Landino C., 148, 226 Lattanzio L.C.F., 121 Le Goff J., 41 e n, 215n Ledda G., 49n Lejeune P., 183n Leonardi C., 101n Lia, 69, 114 Liver R., 50n Livi F., 166n, 215n Livrea E., 28n Lombardo M., 156n, 157n Lombardo P., 54n 100, 140n, 179 Longo N., 99n Looney D., 130n Luca Evangelista (Santo), 57, 66, 97, 99 Lucia (Santa), 24, 37, 38, 69, 126 Luzi M., 118e n Luzzato A., 68n Macrobio A. T., 92 Maggiani S. M., 42n, 64n Maiello F., 215n Malato E., 19n, 71n, 133n, 143n, 146 e n, 207n, 226n
Indice dei nomi
Manselli R., 43n Marabelli C., 19n, 67n Marcazzan M., 162n Marchesi G., 217n Marco Evangelista (Santo), 94n Maritano M., 29n Martignoni S., 211n Martinelli B., 35n, 135n, 196n, 222n, Martino P., 138n, Marucci V., 25n Matelda, 12, 13, 113n, 114, 116 e n, 119, 120, 122, 124 e n, 125 e n, 127, 130n, 131n, 133n,165n Matilde di Canossa (Beata), 187n Mattesini F., 27n Mattioli R., 14n Mattioli U., 101n Mauro L., 211n Mazzamuto P., 113n Mazzantini P., 54n Mazzi C., 27n Mazzini G., 130n Mazzoni F., 14n, 38n, 201n Mazzotta G., 49n, 100 Mcginn B., 162n Mengaldo P. V., 14n Mercuri R., 71n Michele (Arcangelo Santo), 53 Mineo N., 95n Mnemosyne, 22 Mocan M., 204n Moreschini C., 29n Morghen R., 140n Müller G.L., 97n, 104n Nardi B., 11, 14n, 19, 23n, 26, 28n, 32, 53 e n, 98 e n, 100n, 104, 106n, 109, 159n, 207n, 215n, 218n, 230n Nardi F., 36n Niccoli A., 209n
Nicodemo R., 206n Odisseo (Ulisse), 152, 154 Oldcorn A., 116n Olivi P. G., 26n, 27n, 29n, 33n, 166n, 178 Origene, 98, 156n, 214n Ossola C.M., 64n, 226 e n Ovidio P. N., 121, 191n Padoan G., 107 e n, 71n Palmenta G., 206n Pancrazi P., 14n Paolo di Tarso (Santo), 32n, 71e n, 73, 98, 143, 157n, 162, 166, 191n Papini P. N., 27n Paratore E., 122 e n Parodi E.G., 145 Parodi M., 29n Pascoli G., 34, 36n, 83n Pasquazi S., 146 e n Peckam G., 27n Penna A., 133n Peruzzi E., 14n Pesce D., 18n Petrocchi G., 14, 25n, 64n, 71n, 207n, 209n Pézard A., 24 Piastra C. M, 59n, 98n Picone M., 90n, 228n Pietro (Santo), 53, 138, 139n, 140n, 141, 150, 162, 170, 222 Pietro d’Abano, 23 e n Pietrobono L., 37n Pincherle A., 215n Pindaro, 132n Piromalli A., 161 e n, 162 e n, 163, 164 e n, 191n, 193n Placido Nigido, 64n Platone, 23n, 28, 46, 91, 108 237
Indice dei nomi
Polacco L., 40n Poletto G., 206n Prandi S., 177n Pretto L., 129n Puccetti V. L., 25n Quiriconi G., 118n Rachele, 38, 69, 114 Raffi A., 202n Ravasi G., 131n, 132, 133n Ravera M., 215n Ray C., 130n Reale G., 28n, 29n Reggio G., 145n Riccardo di S. Vittore, 101n, 135, 148, 204n, 207n Riccardo di San Lorenzo, 135, 196 Ricci Battaglia L., 117n Roberti R., 17n Rossetti G., 155 Russo L., 7 Russo V., 107n, 113n Sacchetto A., 57 Sapegno N., 46 e n, 66n, 145 e n Savino R., 110n Scartazzini G. A., 40n, 148, 149 e n, 150n Schiaffini A., 14n Schilson A., 101n Schnapp J. T., 189n Sciacca M. F., 17n Scrivanno R., 207n Segre C., 228n Serra A., 42n Settis S., 57 Seybold K., 131n Sigieri di Brabante, 140n, 164, 178 Simonide, 132 238
Singleton C. S., 9, 12, 32, 33 e n, 36n, 77, 78, 82, 87n, 115, 116 e n, 119, 121 e n, 124n, 126, 146n, 156, 214 e n, 217 e n, 218n, 229n, 230n Sini C., 29n Stazio P. P., 13, 95, 103, 107, 111, 113n, 119, 120, 125n, 165n Stefanini R., 206n Tellini G., 114n, 231n Tertulliano Q.S.F., 86n, 102, 103n Ticonio A., 21 Todisco O., 211n Tommaso d’Aquino, 10, 19, 28, 57, 64, 65, 67n, 68 e n, 77, 86, 91 e n, 102 e n, 104, 110 e n, 134, 140n, 164, 175, 179, 189, 191, 201, 205n, 207n, 208, 215n, 216n, 220n Tommaso da Kempis, 195 Tommaso di York, 27n Tondelli L., 161, 162n Torri A., 201n Toscano T. R., 58n, 114n Tramontana S., 59n, 215n Trapè A., 17n Treherne M., 61n Truijen V., 138n, 207n Turoldo D.M., 131n Ugo di San Vittore, 195, 213 Umbertino da Casale, 177 e n Vallone A., 41n, 223n, 225n Vandelli G., 24, 40n Vanni Fucci, 106n Vasoli C., 14n, 24n Vattimo G., 28n Vellutello A., 148 Venanzio Fortunato, 195, 196 Vernani G., 27n
Indice dei nomi
Vernon G. W., 18n Vicent R., 214n Virgilio P. M., 13, 26, 36, 37, 39, 42, 4446, 57, 67, 69-71, 77, 83n, 95, 103, 104, 105n, 107, 111, 113n, 119122, 125, 126, 130n, 136, 164n, 189 e n, 191n, 209n
Weinrich H., 23n, 204n Wyclif J., 29n Zanatta M., 18n Zucal S., 220n
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Indice dei nomi
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