Napoleone in sala stampa. Strategie d'immagine nella storia
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comunicazione, giornalismo, mass-media

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Gabriele Parenti

Napoleone in sala stampa Strategie d’immagine nella storia

www.mauropagliai.it

© 2009 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.polistampa.com ISBN 978-88-564-0053-3

SOMMARIO

Introduzione

pag. 9

PRIMA PARTE Capitolo 1 - Il Prete Gianni e la ricerca del Paradiso Capitolo 2 - Cenerentola a Bisanzio? Capitolo 3 - Il sole di Austerlitz Capitolo 4 - Un processo mediatico Capitolo 5 - L’illusione di Tripoli Capitolo 6 - La capriola mussoliniana Capitolo 7 - Femme fatale Capitolo 8 - Prove di colpo di stato Capitolo 9 - Il sole nero di Hiroshima Capitolo 10 - Robert Kennedy: un leader dimenticato Capitolo 11 - I colori del vento. Il mito di Che Guevara

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SECONDA PARTE Cui prodest? » 135 Misteri dal passato remoto - Filippo e Alessandro - Rinascimento in nero - Filippo Strozzi - Bianca e Francesco - Dietro il pugnale di Ravaillac - Padri e figli - Assassinio in palcoscenico - Sarajevo, 1914

Bibliografia essenziale

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Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti W. Shakespeare As You Like It (Come vi piace)

INTRODUZIONE

La distruzione di una città alla periferia dell’Impero hittita passò quasi inosservata nei grandi regni del Vicino Oriente e non produsse conseguenze di rilievo nemmeno nello scacchiere egeo. Eppure, grazie ai poemi omerici, la guerra di Troia è l’assedio più famoso della storia. Ancor più significative le varianti del mito omerico: a Troia non c’era Elena ma un suo “simulacro”. Un artificio narrativo per salvare la rispettabilità della regina di Sparta? O si suggerisce che la guerra fu combattuta per motivi ancora più futili, per una questione di principio? Certamente si vuole anche sottolineare che le vere motivazioni erano occultate da una strategia di comunicazione che non si faceva scrupolo di ricorrere ad un plateale falso. D’altronde, la comunicazione-immagine è sempre stata una componente essenziale della politica e dell’arte della guerra, come ben sapevano Giulio Cesare e Napoleone che effettuavano mosse a sorpresa per disorientare gli eserciti nemici ed erano maestri nell’amplificare i propri successi. Perché una battaglia è davvero vinta quando il nemico si è convinto di averla perduta e per il successo di una rivoluzione è stato sempre decisivo indurre l’opinione pubblica a ritenere di trovarsi di fronte ad un fatto compiuto.

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Spesso, l’insorgere di un’ottica deformata è scaturito da una strategia comunicativa adottata dagli apparati di potere, altre volte da fattori casuali, da un’eterogenesi dei fini. In ogni epoca, l’opinione pubblica non ha accettato che la morte di un grande personaggio potesse essere provocata da un evento naturale e si è elaborata una teoria del complotto che, se in qualche caso ha riscontri oggettivi, in altri non porta da nessuna parte. Ma è importante anche abbandonare stereotipi fissati nella coscienza collettiva come in un ritratto: Riccardo, il Cuor di leone, Carlo Alberto il re tentenna, Francesco II di Borbone declassato a Franceschiello dalla pubblicistica risorgimentale. Quali inquietudini celavano le gesta eroiche di Riccardo Cuor di leone? Quali passioni si nascondevano dietro la fredda abilità diplomatica di un Cavour o di un Talleyrand? E quanto poco è mancato che Napoleone passasse alla storia come un oscuro generale giustiziato per un tentativo di golpe fallito? Ci sono, poi, distorsioni letterarie. L’ironia del Manzoni che mette alla berlina la piaggeria del partito “spagnolo”, incapace di riconoscere il genio politico di Richelieu, è stata così efficace da creare un nuovo stereotipo: quello del modesto “Conte Duca” che pretendeva di misurarsi con il celebre Cardinale. Eppure, come rivela la monumentale biografia di J. H. Elliott, il duca di Olivares fu uno statista di notevole spessore. La storiografia pullula di luoghi comuni, spesso necessita di reinterpretazioni. Il “feroce Saladino” era, in realtà, un uomo di fede, oltre che un grande statista. In modo analogo, quel Federico Barbarossa che la letteratura risorgimentale presentava come l’irriducibile nemico dei liberi

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Comuni, a pochi anni dalla battaglia di Legnano diveniva il migliore amico di Milano, che lo accoglieva con tutti gli onori dovuti ad un imperatore. Personaggi come il Cid Campeador sono stati visti come eroi “ad una dimensione” secondo lo stereotipo del crociato, minimizzando la loro capacità diplomatica dispiegata in un’ottica multiculturale. C’è, insomma, un lato oscuro di ogni personaggio che non si può ridurre al mero rapporto tra “la maschera e il volto”: la comunicazione comporta una semplificazione per cui un aspetto viene messo in evidenza e altri restano in ombra. Ciò può avvenire per una deliberata scelta del soggetto stesso (Augusto che aveva poteri sovrani ma si atteggiò a “privato cittadino”) o di chi aveva interesse a presentarlo in determinate sembianze. Così avvenne per la madre di Carlo V, passata alla storia come Giovanna la Pazza, perché – ha rilevato Edgarda Ferri – modesti disturbi mentali furono presi a pretesto dai “maschi di famiglia” per isolarla dal mondo e toglierle il governo del regno di Castiglia, di cui era la legittima sovrana. “Se indossi il costume arabo, quando ti trovi tra le tribù, ne acquisterai la fiducia e la confidenza”. Quando scriveva queste raccomandazioni, Lawrence, invitava a “calarsi nella parte” per strumentalizzare la fiducia degli arabi per i propri fini o cercava di acquisirne la mentalità per meglio servire i loro interessi? Il suggerimento successivo (Se indossi abiti arabi, va’ fino in fondo. Lasciati dietro sulla costa i tuoi amici e le tue abitudini inglesi) non risolve il quesito. Anche se è ipotizzabile, in Lawrence, un cambiamento di mentalità: all’inizio si sente “come un attore in un teatro sconosciuto, che

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recita giorno e notte”; ma poi, dopo la guerra, si appassiona alla causa dell’indipendenza araba e deplora la spartizione dell’ex impero ottomano fra inglesi e francesi. In ogni caso, avverte l’importanza di una full immersion (non avere altre idee né altri interessi […] il tuo cervello sia saturo di una cosa sola […] evitare quei piccoli errori che distruggerebbero il lavoro in molte settimane). In effetti, il lato oscuro si accentua in tutti i personaggi dal duplice profilo. E Franco Cardini ha parlato di una “sindrome del traditore”, avvertita da chi si trova ad essere ponte fra due opposte rive. Nella storia si presentano spesso situazioni che offrono una doppia chiave di lettura: l’importante è uscire dallo stereotipo per coglierne i caratteri reali. Ecco allora Gioacchino Murat, che quando siede sul trono di Napoli è debole, indeciso. Solo quando torna a combattere per Napoleone ritrova fiducia in sé stesso. È capace di decisioni fulminee alla testa dei suoi cavalieri ma, come re, si barcamena fra i due contendenti e finisce per scontentarli entrambi. Ci sono, infine, casi in cui la stampa ha determinato un’ottica deformata. Ne sono esempio le avventure coloniali presentate come la conquista della “Terra promessa”. La carta stampata, comunque, ha un incedere argomentativo anche quando fa appello alle emozioni. Nella televisione, invece, le immagini prevalgono, divengono le icone del nostro tempo. Pensiamo all’attentato alle Twin Towers, ai tedeschi che sfilano sotto l’Arco di Trionfo a Parigi nel 1940, all’attentato di Dallas, ai carri armati a Praga o a Piazza Tienammen, alla caduta del muro di Berlino. Sequenze drammatiche, immagini-mito, a causa di una reiterazione che spesso è addirittura ossessiva. C’è,

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però, il rischio di perdere la ricchezza polisemica a vantaggio di un’interpretazione lato sensu didascalica o, viceversa, di far prevalere la suggestione sull’interpretazione argomentativa. Cinema e televisione parlano per metafore, per allegorie e richiedono un lavoro di decodifica, come nelle arti figurative. Solo a questa condizione aiutano a far emergere il lato oscuro di personaggi ed episodi della storia.

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PRIMA PARTE

CAPITOLO 1

Il Prete Gianni e la ricerca del Paradiso

La strategia d’immagine e l’opera di disinformazione che spesso l’affianca non sono un prodotto esclusivo dei mass media. Nel XII secolo, per rianimare l’opinione pubblica europea scossa dal fallimento delle crociate, si “inventò” la notizia che un potente quanto fantomatico sovrano stava per scendere in campo contro i turchi. Nel 1145, il vescovo siriano Ugo di Gebel riferì a papa Eugenio III una voce diffusa in tutto il Vicino Oriente: un potente re cristiano conosciuto come Prete Gianni, proveniente dall’India e discendente dei Magi, aveva sconfitto i turchi ad Ecbatana e si apprestava a portare aiuto al regno crociato di Gerusalemme; ma avendo trovato difficoltà nell’attraversamento del fiume Tigri era dovuto, per il momento, tornare indietro. Il vescovo Ugo sapeva bene che questa voce avrebbe rincuorato i cristiani di Gerusalemme ma avrebbe avuto un effetto controproducente in Europa. Se un potente re orientale stava per abbattere la potenza musulmana, diveniva meno impellente una nuova crociata. Così calcò la mano sul quel fiume Tigri che il Prete Gianni non era riuscito ad attraversare e che lo aveva costretto a rinunciare all’impresa. Il racconto del Vescovo Ugo poggiava su una base di verità perché, effettivamente, nel 1141 i musulmani erano stati sconfitti nei pressi di Samarcanda dai mongoli di

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Gur-Khan che aveva tra i suoi vassalli dei cristiani; c’erano, infatti, nell’Asia centrale, grosse comunità che professavano un cristianesimo nestoriano. Eugenio III bandì la seconda crociata ma la spedizione subì una completa disfatta. I turchi restarono padroni di Gerusalemme ed il regno cristiano di Palestina si ridusse a poche roccaforti costiere. Del Prete Gianni si tornò a parlare solo venti anni dopo quando, in tutta Europa, si diffuse il testo di una lettera pervenuta all’imperatore d’Oriente Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa. Roboante nei toni quanto vaga nelle indicazioni del mittente, la lettera divenne uno dei documenti più famosi del medioevo, ebbe un’immensa influenza sull’immaginario dell’Europa cristiana e, grazie anche a numerose interpolazioni, fu uno dei veicoli più potenti del fascino dell’esotismo, dell’attrazione per le meraviglie ed i misteri del lontano Oriente. “Presbiter Iohannes, potentia et virtute Dei et domini nostri Iesu Christi… Io prete Giovanni, sommo sovrano per grazia di Dio, e del nostro Signore Gesù Cristo, saluto te Manuele governatore dei Greci. È stato riferito alla maestà nostra che tu hai grande considerazione del nostro potere e che è ti giunta notizia della nostra grandezza”. Dopo aver magnificato la propria potenza (“settantadue re mi rendono omaggio”) il Prete Gianni accennava esplicitamente all’intenzione di portare aiuto ai crociati assediati dai turchi, avendo fatto voto di visitare il S. Sepolcro alla testa di una grande armata, “come si conviene alla gloria della maestà nostra, per combattere e disperdere i nemici della croce di Cristo ed esaltare il Suo Santo Nome” Passava, poi, con particolari mirabolanti, alla descrizione del proprio regno… “La nostra magnificenza […] raggiunge

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l’estrema India là dove riposa il corpo dell’Apostolo Tommaso […] Settantadue province ci obbediscono e ciascuna ha un proprio re. Nei nostri territori vivono elefanti, dromedari e cammelli e quasi tutti gli animali della terra, nel nostro paese scorre il miele e dovunque c’è abbondanza di latte…” Sono evidenti i ricordi biblici e le fontane di latte e miele sono un topos dell’abbondanza in tutta l’antichità. Il racconto diveniva ancor più iperbolico con riferimenti al Paradiso terrestre che la cultura medievale considerava realmente esistente ai confini del mondo: “[nelle nostre terre] non ci sono serpenti né scorpioni né animali velenosi, scorre il fiume Pison che sgorga direttamente dal Paradiso terrestre […] in questo fiume si trovano smeraldi, zaffiri, topazi, onici…” Il documento accennava anche alla fontana della giovinezza e ad una pietra che guariva tutte le malattie. “Tra noi – affermava il Prete Gianni – c’è abbondanza di oro, di animali, non ci sono poveri, non c’è avarizia né invidia; accogliamo tutti gli stranieri e pellegrini perché ladri e predoni non esistono nel nostro paese […] quando partiamo per la guerra le nostre truppe sono precedute da tredici enormi croci d’oro e ciascuna è seguita da diecimila cavalieri e da centomila fanti”. La lettera si chiudeva con una minuta descrizione del palazzo reale: i tetti d’ebano e oro lo rendevano luminoso giorno e notte, le sale avevano colonne di cristallo ove bruciavano balsamo e oli profumati, il letto del re era di zaffiro, pietra che aveva il potere di mantenere la castità mentre il pavimento dei cortili era in onice, una pietra che infondeva ai soldati la virtù guerriera. La tavola della sala da pranzo era di smeraldo, vi sedevano ogni giorno trentamila persone. Il Prete Gianni era

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servito a tavola, a turno, da 7 re, 62 duchi e 365 conti. Alla sua destra pranzavano ogni giorno 12 arcivescovi e alla sua sinistra 20 vescovi. Tra loro il Patriarca di S. Tommaso, il Protopapa di Samarcanda, l’Arciprotopapa di Susa mentre 365 abati officiavano nella cappella del Palazzo. “Il nostro maggiordomo – concludeva il Prete Gianni – è arcivescovo e re, il nostro ciambellano è un re, il maestro di cerimonie è un arcivescovo; io assumo il titolo di prete per manifestare la nostra grande umiltà […] se tu sei in grado di contare le stelle del cielo e i granelli di sabbia del mare allora sarai in grado anche di valutare la grandezza del nostro regno e del nostro potere”. Il testo era troppo fantasioso per poter sperare di essere ritenuto realistico, anche nell’Europa del XII secolo che considerava l’Oriente una terra favolosa. In effetti, il tono vanitoso e arrogante male si addice ad un tentativo d’instaurare relazioni amichevoli con l’imperatore di Bisanzio. Inoltre, un’analisi del testo può rintracciare le fonti letterarie delle descrizioni iperboliche in biografie romanzate di Alessandro Magno, in fonti classiche latine e greche (in particolare Plinio e Giuseppe Flavio), negli scritti di Isidoro di Siviglia, nelle Mille e una notte (in particolare nei racconti di Sindbad che facevano riferimento ai fiumi di pietre preziose). Si è ipotizzato allora che la lettera non fosse un mero falso ma un artificio a scopi politici; un po’ come adombra Umberto Eco in Baudolino quando il vescovo Ottone chiede al protagonista del romanzo d’inventare nuove notizie sul Prete Gianni per distogliere l’attenzione del Barbarossa dalle questioni italiane e gli dice: “Bada, non ti chiedo di testimoniare ciò che ritieni falso, che sarebbe peccato,

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ma di testimoniare falsamente ciò che credi vero, il che è azione virtuosa perché supplisce alla mancanza di prove su qualcosa che certamente esiste o è accaduto” Al contrario di Talleyrand, che sapeva ingannare senza mentire, Ottone fingeva di poter mentire senza ingannare. C’è chi ha invece ritenuto che la “lettera” volesse stimolare la curiosità dell’opinione pubblica europea per promuovere spedizioni e viaggi in Oriente alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Né si può escludere l’ipotesi che il documento fosse solo un espediente narrativo, escogitato dall’autore di un testo letterario. Tuttavia, almeno in apparenza, la lettera fu considerata autentica dalle Corti europee. Anzi fu presa tanto sul serio che il Papa inviò una risposta. E qui si aggiunge un ulteriore quesito. Se era abbastanza evidente che la missiva era un falso, perché il Papa Alessandro III decise di rispondere? Probabilmente intendeva utilizzare uno strumento mediatico che accentrava l’attenzione dell’opinione pubblica per affermare la propria superiorità sui poteri temporali e presentarsi come l’interlocutore più idoneo a parlare, anche sul piano politico, a nome dell’Europa cristiana Il 27 settembre 1177, Alessandro III inviò in Oriente il proprio medico, mastro Filippo, con una lettera indirizzata “al magnifico sovrano Gianni” nella quale si affermava: “quanto meno ti vanterai della tua potenza e delle tue ricchezze, tanto più facilmente esaudiremo il tuo desiderio di avere una chiesa a Gerusalemme e un altare a Roma”. Insomma, un benevolo e condiscendente invito all’umiltà e una riaffermazione della propria superiorità (tra l’altro il Papa si rivolgeva al “re Gianni” senza mai chiamarlo prete).

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Peccato che di mastro Filippo si persero le tracce dopo Gerusalemme, senza sapere quale direzione avesse preso. Altro aspetto interessante è che la lettera del Prete Gianni mostrava ostilità verso i bizantini. Infatti, definiva Manuele I Comneno governatore dei romani invece di attribuirgli il titolo di imperatore che non poteva essere ignorato da chiunque avesse avuto notizie dell’Impero bizantino – tanto più da chi si professava cristiano. Inoltre i bizantini erano definiti graeculi: un diminutivo che suonava come una derisione. In una versione francese del Trecento recentemente tradotta da Dario Chioli c’è un passo, frutto d’interpolazione, che se la prende con i Templari (“avete alcuni del vostro lignaggio e delle vostre genti che stanno coi saraceni, nei quali voi avete fiducia e pensate che vi aiutino e debbano aiutare, ed essi sono falsi e traditori”). Ed è evidente che utilizza il prestigio della famosa lettera per portare acqua al mulino di Filippo il Bello e della soppressione dell’Ordine. Tornando alla lettera originaria, con molta probabilità l’autore del falso era un occidentale che conosceva bene il Vicino Oriente come rivelano numerosi particolari geografici, a cominciare dall’ancora sconosciuta città di Samarcanda. Forse intendeva avvertire l’Occidente che in Palestina la partita non era ancora perduta. Ma era, al tempo stesso, una proiezione del desiderio collettivo di un’Europa accerchiata dall’Asia musulmana. Il risultato – almeno come effetto immagine – fu eccezionale: del Prete Gianni si continuò a parlare per secoli e le grandi scoperte geografiche ne furono in parte influenzate. Crebbero le interpolazioni, il testo si arricchì di racconti mirabolanti consacrando il mito dell’Oriente.

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Certamente, nella “lettera” c’era anche uno scopo allegorico – didattico: esortare i principi cristiani a porre fine alle lotte di supremazia fra Papato e Impero, bandire le discordie per sconfiggere i nemici della fede. A ciò si aggiunge il gusto letterario che trasforma l’allegoria in una pittoresca narrazione di meraviglie esotiche. In un mix fra elementi storici e letterari si colloca anche Marco Polo: i mongoli sarebbero stati vassalli del prete Gianni identificato con Ung-Khan, sovrano che dominava un vasto regno a nord di Pechino fino a che non fu sconfitto da Gengis Khan. E questa è oggi la tesi maggiormente accolta: il presunto regno del Prete Gianni sarebbe un vasto territorio che originariamente era situato nel Sinkiang, vicino al deserto di Gobi, che, nel periodo di massima espansione, avrebbe raggiunto il lago d’Aral dove si erano insediati sacerdoti nestoriani. Ma la leggenda del Prete Gianni ha un significato più profondo: descrive quel regno di utopia che in varie epoche ha scosso l’immaginario collettivo dell’uomo europeo, dalle isole Fortunate all’ultima Thule. “Il Paradiso terrestre è un luogo amenissimo in Oriente – annotò Cristoforo Colombo nelle carte preparatorie della sua impresa – il regno di Tarsi pacifico e ricchissimo, dove si recavano le navi di re Salomone con un anno e mezzo di navigazione.” In Oriente si concentrano i luoghi delle magiche virtù come la fonte della giovinezza e le genti mostruose e strane dell’immaginario medievale: popolazioni senza bocca o con un labbro enorme. In Africa vivevano i Lemmi, gente senza testa e gli antipodi che avevano i piedi in direzione opposta a quella del corpo. In Asia, oltre il Mar Caspio, c’erano le stirpi maledette di Gog e Magog che avrebbero

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invaso la terra alla fine dei tempi. Alle sorgenti del Don vivevano ciclopi e cannibali. E in Oriente c’era anche il Paradiso terrestre. D’altronde, dal tempo di Alessandro Magno, l’Europa ha guardato sempre ad Oriente. Anche l’espansione di Roma nel Mediterraneo fece dei regni ellenistici le gemme dell’Impero che spostò progressivamente verso Oriente il proprio baricentro. E dopo le invasioni barbariche lo sguardo della pars Occidentis restò rivolto al bacino orientale del Mediterraneo da dove partivano la via della seta e le vie delle spezie, crocevia di commerci con l’India e con la Cina. Anche quando i grandi navigatori portoghesi e spagnoli si addentrarono nell’Oceano Atlantico lo fecero per raggiungere l’India e il Catai. Marco Polo, Giovanni da Pian del Carpine e molti altri viaggiatori medievali affrontarono imprese epiche per raggiungere la Cina. Di fronte all’Oceano Atlantico, invece, si arrestava anche la fantasia. Tutte le composizioni fantastiche che narravano viaggi immaginari erano ambientate in Asia. Né faceva eccezione il viaggio dell’Ulisse dantesco perché la meta dell’eroe greco non era una nuova terra ma la conoscenza di ciò che c’è oltre la vita, dei confini ultimi dell’umanità. Eppure, proprio il “folle volo” trasformò lo spazio circoscritto del mondo mediterraneo, l’hortus conclusus medievale, in un universo potenzialmente infinito. Colombo non incontrò, come Ulisse, la montagna bruna ma una terra lussureggiante, immensa, un Paradiso terrestre che si contrapponeva ad un’Europa dilaniata e perennemente accerchiata. Da quel momento, la prospettiva mutò radicalmente. L’aprirsi di un Nuovo Mondo rendeva meno incombente la

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minaccia ottomana che la conquista di Costantinopoli aveva trasformato in un incubo per la cristianità. Oltre le colonne d’Ercole sorgeva una nuova alba per l’umanità: sull’opposta riva non c’era la morte ma la pienezza della vita Colombo, nel suo terzo viaggio si spinse a sud seguendo le indicazioni degli indigeni di Hispaniola che parlavano di una grande terra nell’emisfero meridionale. Il 31 luglio 1498 approdò a Trinidad, di fronte al Venezuela, dove trovò terre lussureggianti e indigeni che indossavano eleganti indumenti di cotone, avevano la pelle chiara e apparivano più civilizzati di quelli incontrati in precedenza. D’altronde, la tradizione medievale faceva dell’Atlantico la sede di isole incantate come Antilia, Brasil e l’isola delle Sette città. Era forse il Paradiso terrestre che i testi più autorevoli dal venerabile Beda a Isidoro di Siviglia, collocavano nell’estremo Oriente? Colombo non aveva trovato il Paradiso terrestre ma aveva scoperto la terra che avrebbe dato vita al Paradiso laico. La sua fu la vittoria dell’uomo del Rinascimento che si scrollava di dosso il peccato originale per puntare decisamente sull’Eldorado: l’America era la modernità, il jeffersonismo, la terra del diritto alla felicità. Per Tasso, la soglia del Nuovo Mondo era il favoloso giardino d’Armida. Ma il poeta intuì che l’eterna primavera poteva celare insondabili oscurità e Bartolomeo de Las Casas rivelò che nel nuovo mondo imperava il Wasteland. Dalla tragedia della colonizzazione emergeva un interrogativo inquietante: quali orrori potevano celarsi dietro la modernità? Restava, peraltro, in piedi il mito medievale del Prete Gianni, che dall’Oriente si spostò in Africa. Vasco de Gama

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sostenne di aver sentito parlare di un re di nome Giovanni che regnava nell’interno dell’Africa Orientale. I portoghesi che si spinsero sempre più a sud, lungo le coste di un’Africa che sembrava interminabile, affermarono di andare alla ricerca del favoloso regno. Queste almeno, le intenzioni proclamate nel 1415 dalla regina Filippa che, nell’allestire una spedizione di duecento navi, voleva unire alle esigenze commerciali una motivazione politico-religiosa. Il figlio, Enrico il Navigatore, che continuò le esplorazioni, affermò di andare in cerca di alleati cristiani contro l’islam. Nel 1486, ricevuto in udienza da Innocenzo VIII, annunciò che le sue navi stavano per compiere il periplo dell’Africa per mettersi in contatto con la costa dei barbari (Zanzibar) e con popolazioni devote a Cristo. In effetti, alcune spedizioni partite dal Golfo di Guinea si avventurarono nell‘interno ed ebbero notizia di un grande re cristiano che dominava la costa orientale dell’Africa. Trovò, così, credito la tesi che collocava la sede del Prete Gianni in Etiopia. I sovrani etiopi si proclamavano, infatti, discendenti di re Salomone, erano cristiani monofisiti ed erano a capo di un vasto regno dove un’antica civiltà si univa a grandi eserciti e ad uno sfarzo di costumi e di cerimoniale che poteva benissimo far pensare alla famosa lettera del 1165. Per di più, molti di essi si chiamavano Giovanni, al punto da far pensare che si trattasse di un appellativo onorifico accanto a quello di Negus. Pertanto, gli ambasciatori etiopi presenti nel 1439 al Concilio di Firenze, che intendeva sancire la riconciliazione fra tutte le religioni cristiane, furono considerati senz’altro gli inviati del Prete Gianni. Per avvalorare questa ipotesi si citava anche il

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Sinus magnus di Tolomeo in cui si afferma a proposito dell’emisfero meridionale: “Tutta questa terra, mare ed isole, paesi e re sono stati dati dai Tre Re Magi all’Imperatore Prete Gianni” Nel 1488, Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza. Una volta raggiunta l’India, per i portoghesi lo scontro fra cristianità e islam coincise con un ben più prosaico conflitto per il possesso dei porti e delle piazzeforti che assicuravano il controllo della via delle spezie. Eppure, da un secolo, la leggenda del re cristiano d’Oriente era tornata di attualità: nel 1355 un medico belga aveva pubblicato un manoscritto ereditato da un paziente, John de Maundeville che, nel corso dei suoi viaggi in Africa, aveva soggiornato nel favoloso regno del Prete Gianni. Si scoprì presto che il manoscritto era un falso ma la localizzazione africana rimase nelle carte geografiche tardo-medievali, come il mappamondo di Martin Behaim. Quando a Lisbona prevalse l’opinione che il regno del prete Gianni fosse davvero in Etiopia, la corona lusitana inviò ambasciatori che, per le difficoltà delle comunicazioni, impiegarono anni per tornare in patria. Nel frattempo, erano cambiati i sovrani di entrambi i Paesi e le trattative tornarono al punto di partenza. Tanto più che gli ambasciatori avevano riferito che la monarchia etiope, benché disponesse di grandi ricchezze e di moltitudini di armati, appariva troppo arretrata per poter essere un valido alleato in una guerra contro i turchi. Le trattative continuarono, quindi, stancamente, per oltre un secolo e non portarono ad alcun risultato. Intanto, la geografia del mondo era mutata radicalmente e la leggenda del Prete Gianni si era definitivamente dissolta.

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CAPITOLO 2

Cenerentola a Bisanzio?

La straordinaria vicenda dell’imperatrice Teodora che, dopo essere stata una famosa cortigiana, salì sul trono di Bisanzio, è di solito narrata secondo lo schema povertà / dissolutezza – redenzione / successo che è una variante del paradigma delle donne fatali. Infatti, la redenzione, in forma di crisi mistica, appare una nuova forma di seduzione che spiana la via del potere Pesa su questa versione, il fatto che, in ogni epoca, gli storici si siano riferiti alla biografia di un contemporaneo, Procopio di Cesarea, fortemente ostile a Giustiniano e a Teodora. Rielaborando in modo tendenzioso alcune voci popolari, Procopio riportò episodi più o meno verosimili che presentavano Teodora come una prostituta-ninfomane: la moglie ideale per Giustiniano, il “principe dei demoni” In realtà, proprio il contrasto fra la cortigiana e la ieratica imperatrice ha creato il mito di Teodora, secondo uno schema che vede protagoniste molte donne di successo, da Caterina II di Russia a Evita Peròn. È l’eterna favola di Cenerentola che si unisce all’archetipo della Maddalena, la peccatrice redenta Tant’è vero che il teatro e il cinema se ne sono impadroniti, a cominciare dal dramma di Victorien Sardou rappresentato a Parigi nel 1902 dalla mitica Sarah Bernhardt. E Teodora è uno dei soggetti preferiti della

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decima Musa fin dall’epoca del muto. Il primo film è del 1909; ne sono seguiti altri, con sorprendente frequenza, nel 1914, nel 1922 (con una sensuale Rita Jolivet); infine, il kolossal di Riccardo Freda nel 1954, con una splendida Gianna Maria Canale. Queste opere hanno alternativamente rappresentato l’imperatrice di Bisanzio come una prostituta in carriera che restò maestra d’intrighi e di nefandezze o come una donna che seppe afferrare la propria occasione (una sorta di Pretty woman). Nel film di Freda, Giustiniano, che gira in incognito per Costantinopoli, incontra una ballerina e la “trasforma” in sovrana di Bisanzio. Mentre, nel film del 1922, che si rifà a Sardou, Teodora non rinuncia alla sua vita dissoluta e prima di essere smascherata da Giustiniano, la belle dame sans merci ha il tempo di far divorare il suo ultimo amante dai leoni del circo Ma qual è stata la verità storica e quale il profilo che la stessa Teodora si costruì? Di umili origini, figlia di un guardiano d’orsi nell’ippodromo di Costantinopoli, conobbe l’indigenza a seguito della morte del padre. Secondo Procopio, in questo caso sostenuto anche da Giovanni di Efeso, fin dalla più tenera età si concedeva agli spettatori del teatro in cui recitava la sorella Comitò. Poi, all’età di dodici anni, cominciò a calcare le scene. Essere un’attrice annoverava già Teodora come cortigiana; ma Procopio sostenne che fu succube di qualsiasi forma di piacere, che non si prostituiva solo per denaro ma per lussuria: durante i banchetti era capace di accoppiarsi con tutti i commensali ed i loro servitori, in preda ad una libidine sfrenata Con una compagnia di mimi si esibì nelle dimore patrizie, divenne la diva del momento. Viveva nel lusso ma

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desiderava una vita rispettabile. Così lasciò le scene per seguire Ecebolo, un funzionario nominato Governatore civile della Pentapoli, in Cirenaica, la più lontana provincia dell’Impero. Forse pensava che in una località così remota avrebbe ottenuto quella rispettabilità difficile da riacquistare a Costantinopoli. Sperava forse di farsi sposare, ma Ecebolo la lasciò al rango di concubina. Quando gridò che non ne poteva più di essere una proprietà del Governatore, di vivere segregata, Ecebolo la cacciò di casa Senza mezzi, in terra straniera, decise di tornare a Costantinopoli. Il viaggio sarebbe durato mesi: occorrevano soldi e non si poteva mettersi in strada da soli Secondo Procopio si mantenne prostituendosi; poi ad Alessandria, ebbe un’esperienza mistica (che, così descritta, ha tutta l’aria di una montatura). Ma altri autori, i monofisiti Zaccaria, Giovanni vescovo di Efeso, Michele di Sirio, Patriarca di Antiochia presentano uno scenario assai differente L’unica possibilità di ottenere i mezzi per percorrere migliaia di chilometri era di ricorrere alla Chiesa. Così si aggregò ad un gruppo di sacerdoti che si recava ad Alessandria. Durante il viaggio doveva dare prova di redenzione: s’interessò alle questioni di fede e si appassionò alle dispute teologiche fra ortodossi e monofisiti. Gli uni asserivano la doppia natura, umana e divina, di Cristo; gli altri ritenevano, invece, che il Salvatore avesse solo una natura divina. Teodora capì che non era solo una discussione metafisica e ne colse le profonde implicazioni politiche e sociali. Ad Alessandria assisté alle prediche di famosi teologi ed entrò in contatto con i capi spirituali della città, in parti-

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colare con Severo, il leader dei monofisiti e con il Patriarca Timoteo, che era secondo solo al Vescovo di Roma Alessandria – sottolinea Paolo Cesaretti autore di un’importante biografia su Teodora – “era il luogo dove tutto poteva succedere”, come aveva dimostrato S. Maria Egiziaca, la prostituta salita alla gloria degli altari. Teodora non divenne santa ma conobbe la sua metanoia (trasformazione): la frequentazione di grandi personalità come Severo e Timoteo, fece apparire remoto, insignificante, il tempo passato con Ecebolo. Una nuova Teodora si rimise in viaggio. Ad Alessandria aveva frequentato il partito degli Azzurri che gli fornì i mezzi per risalire la Palestina e la Siria. Conobbe grandi città con strade affollate, negozi e umili villaggi con le loro case d’argilla. Ad Antiochia fu accolta da Macedonia, una ballerina ed esponente degli Azzurri che era in corrispondenza con Giustiniano, nipote ed erede dell’imperatore. Giunse, infine, a Costantinopoli, dove, riabbracciata la famiglia, condusse vita appartata e prese contatto con gli Azzurri, in attesa di un appuntamento con Giustiniano che Macedonia aveva promesso di procurarle Il giorno dell’udienza si recò a palazzo con trepidazione. Aveva ventidue anni e la sua leggendaria bellezza era valorizzata da un abbigliamento elegante ma austero. Fu amore a prima vista; magico incontro di due personalità. Come rileva Cesaretti, Giustiniano, autorevole, colto, instancabile nell’ attività di governo, apprezzò il racconto del lungo viaggio, l’acuta descrizione delle città e dei popoli dell’Impero, le valutazioni di ordine politico e religioso. Teodora (il nome significa “dono di Dio”) gli apparve davvero un dono divino.

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Le concesse il titolo di “patrizia” e le parlò di matrimonio. Le loro visioni politiche divergevano ma non crearono attriti. Giustiniano si considerava erede di Roma, preferiva il latino al greco ed era espressione dell’aristocrazia. Teodora, invece, guardava alle province orientali, indulgeva al monofisismo ed era legata ai ceti emergenti della borghesia Erano divergenze che avrebbero potuto scatenare gravi conflitti, invece determinarono una straordinaria complementarietà. Se Giustiniano condannava i monofisiti, Teodora curava che non subissero persecuzioni; contro i privilegi dei nobili, strappava concessioni per i borghesi… una sorta di balance of powers che ebbe risultati positivi. Il carattere di Teodora divenne riservato, evitò l’applauso delle folle. La sua “scena” fu il palazzo imperiale dove visse appartata mentre la fiducia di Giustiniano accresceva ogni giorno il suo potere Poiché la legge proibiva il matrimonio di un patrizio con donne considerate “infami”, Giustiniano l’abolì e il matrimonio fu celebrato con fasto. Poi, quando salì sul trono e divenne l’uomo più potente del mondo, anche Teodora fu incoronata imperatrice, un onore che poche mogli di imperatori avevano avuto. S’inaugurò una sorta di diarchia che ebbe proprio in Teodora l’elemento propulsore. Durante la rivolta di Nika, Giustiniano stava per fuggire ma Teodora lo convinse a combattere affermando che non si sarebbe mossa dal palazzo perché “il trono [era] un glorioso sepolcro e la porpora il miglior sudario”. L’Impero giunse al suo apogeo: con il codice giustinianeo, una delle maggiori glorie della civiltà romana, e con la costruzione della basilica di Santa Sofia. L’imperatrice

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dichiarò reato la prostituzione e mise fine alla tratta delle prostitute-schiave. Dopo la sua morte (548), presagita dallo spezzarsi di una colonna, l’iniziativa politica di Giustiniano apparve sensibilmente indebolita. Ecco perché la vicenda di Teodora non è la favola di Cenerentola che ha per traguardo il matrimonio con il principe azzurro. Più che conquistare Giustiniano, Teodora conquistò se stessa; la sua metanoia rivelò carisma, capacità di leadership Ma la leggenda nera è prevalsa, con quella distorsione che caratterizza il cattivo giornalismo a caccia d’interpretazioni tendenziose: un giornalismo che ha i suoi antesignani nel corso dei secoli, compreso il grande storico Edwdard Gibbon autore del Declino e caduta dell’Impero romano, che ha fornito un’interpretazione distorta attraverso notazioni ironiche, sottintesi, allusioni. Il suo racconto prende avvio da un commento: la singolare ascesa dell’imperatrice “non può essere certo salutata come il trionfo della virtù femminile”; ciò induce il lettore a pensare che Teodora fosse passata da un letto all’altro per far carriera (e non sarebbe stata poi una cosa insolita), mentre sappiamo che l’incontro con Giustiniano fu una vera love story. Poi Gibbon ironizza: “la sua carità era universale […] le sue grazie venivano cedute a una folla promiscua di ogni rango e professione”. Il passo successivo è consequenziale: la fine della relazione con Ecebolo viene imputata alla “concubina costosa o infedele” che, ripudiata, tornò a prostituirsi (ogni città dell’Oriente ammirò e godette della bella etera). Nemmeno un accenno ai contatti con gli ambienti religiosi di Alessandria. Sul ritorno a Costantinopoli, Gibbon sostiene che da abile attrice si dedicò alla filatura della lana e ostentò

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castità e solitudine. Come questa silenziosa messinscena riuscisse ad attirare l’attenzione di Giustiniano in una città di tre milioni di abitanti, non lo spiega: si limita ad osservare che “forse infiammò, con pudico riserbo e poi con allettamenti sensuali, i desideri di un amante dedito a lunghe veglie e a una dieta frugale”. Insomma, il potente uomo di governo viene dipinto come una sorta di eremita, a cui era facile far perdere la testa. Comunque Gibbon riconosce che placati gli ardori iniziali, Teodora conservò lo stesso ascendente su di lui “con i più solidi pregi del carattere e dell’intelligenza”. È la prima ammissione della forte personalità di Teodora ma serve a giustificare la capacità “dell’astuta amante” di farsi sposare. E fin lì passi. Ma poi accade quello che lo storico reputò davvero incomprensibile Giustiniano, per soddisfare l’ambizione di Teodora, la fece sedere sul trono come collega, con i suoi stessi poteri. In realtà il ruolo d’imperatrice non fu mai paritetico a quello del marito ma enfatizzarne i poteri serviva a rendere più eclatante l’epilogo: “la prostituta che alla presenza di innumerevoli spettatori aveva avvilito il teatro di Costantinopoli, fu adorata come regina” da severi magistrati, da generali e da monarchi dei Paesi sottomessi. Da quel momento – Gibbon ne dà atto – Teodora condusse una vita irreprensibile; ma ciò doveva essere l’effetto di un nuovo tipo di libido: il compiacimento del potere assoluto. Insomma, come nel giornalismo “a tesi”, ogni argomento può essere piegato a sostenere quanto si considera già dimostrato a priori.

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CAPITOLO 3

Il sole di Austerlitz

Uno dei momenti più suggestivi dell’epopea napoleonica fu certamente la sera che precedette la battaglia di Austerlitz. Sul declivio di una collina, i soldati francesi cercavano di riposare qualche ora in attesa dell’alba. Di fronte a loro, a portata di voce, gli austro-russi. I fuochi dei bivacchi punteggiavano l’intera collina. Bonaparte scese da cavallo, attraversò a piedi gli accampamenti per tornare al suo bivacco: un soldato accese una torcia per controllare chi passava attraverso le linee. All’incerta luce delle fiamme riconobbe Napoleone e gridò viva l’imperatore! Dagli altri bivacchi risposero migliaia di voci che si propagarono come un’eco; e migliaia di torce si accesero, come un’onda, per tutta la collina. Il grido viva l’imperatore!, che rimbalzava di colle in colle, apparve al nemico un sinistro presagio. Napoleone contemplò a lungo quella scena fantastica ed esclamò: “È la più bella sera della mia vita” Il giorno dopo, quando la nebbia che gli aveva consentito di concentrare le truppe all’insaputa degli austro-russi si diradò e spuntò “il sole di Austerlitz”, Bonaparte si rivolse ai suoi generali con un semplice Allez Messieurs in cui c’era tutta la nonchalanche dell’orgoglio francese (come quando, all’assedio di Candia nel 1643, il duca di Beaufort aveva ordinato l’assalto dicendo ai suoi ufficiali: “Signori, avete delle spade, usatele”)

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La vittoria di Austerlitz, conseguita nell’anniversario dell’incoronazione (2 dicembre 1805) segnò il punto più alto dell’epopea napoleonica: una straordinaria avventura iniziata da un ufficiale d’artiglieria che univa una notevole competenza tecnica ad una grande capacità tattica. Ma la carriera del giovane generale còrso aveva bisogno di alcune mosse vincenti fuori dal campo di battaglia, come il matrimonio con Josephine Beaurnhais, regina dei salotti, che gli aprì le porte della politica. La bella e chiacchierata Josephine fu una perfetta agente di pubbliche relazioni; la sua amicizia con Barras, l’uomo forte del Direttorio, riuscì a far assegnare al giovane marito il comando dell’Armata d’Italia. Il resto… Lodi, Rivoli, Arcole fu merito del genio militare di Napoleone che, comunque, sapeva immediatamente trasformare in leggenda le sue gesta. I bollettini di guerra erano un modello di comunicazione massmediale: poche frasi, senza concessioni alla tradizionale retorica ampollosa, davano il senso di uno scontro epico e i soldati sentivano che le loro gesta sarebbero passate alla storia. In effetti, le vittorie di Napoleone erano fulminei colpi di mano che eccitavano la fantasia. Otteneva dai soldati imprese eccezionali perché sapeva essere protagonista, in modo ben diverso dai condottieri dell’epoca, che erano a contatto solo con i propri Stati maggiori. A Lodi sguainò la spada e guidò l’assalto sotto il fuoco nemico. Ad Arcole, per conquistare un ponte difeso da una batteria di cannoni, afferrò una bandiera e si gettò contro le postazioni austriache; i suoi uomini lo seguirono con uno slancio travolgente. In Francia divenne così popolare che la strada in cui abitava fu ribattezzata rue de la Victoire.

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Ovviamente, la sua fama dava ombra al sempre più screditato Direttorio. Così, quando propose una campagna in Egitto per tagliare le linee di comunicazione della Gran Bretagna con l’India, l’estemporanea richiesta fu accettata perché si pensò che fosse il modo migliore per liberarsi di un personaggio ingombrante. Eppure, avere un’intera armata su un fronte secondario e lasciare sguarnita l’Italia fu una dispersione di forze rischiosa, una mossa avventata, in un’epoca in cui occorreva molto tempo per spostare truppe su lunghe distanze. Napoleone vinse la battaglia delle Piramidi (20 luglio 1798), s’insediò al Cairo, si atteggiò a Gran Visir, brandì la spada dell’islam, si spinse in Medio Oriente ma non riuscì ad ottenere un risultato significativo perché la Gran Bretagna restava padrona incontrastata del Mediterraneo e la spedizione francese era virtualmente prigioniera. Per di più, l’assedio di S. Giovanni d’Acri non dette risultati apprezzabili e, a causa delle malattie che falcidiavano le truppe, la situazione di stallo rischiava di trasformarsi in una disfatta. Con il consueto tempismo, Bonaparte decise di tornare in Francia: l’ormai certo fallimento dell’assedio lo avrebbe trovato lontano e non ne sarebbe apparso direttamente responsabile di fronte all’opinione pubblica. Per forzare il blocco inglese lasciò l’Egitto da solo. Un gesto che avrebbe potuto facilmente costargli l’accusa di essere fuggito, abbandonando l’armata. La Francia lo accolse, invece, come un trionfatore. La notizia del suo sbarco in Provenza si diffuse in tutto il Paese. Quando arrivò a Parigi era ormai un personaggio leggendario: giocò a suo favore il fascino delle vittorie in un Paese lontano, in un contesto esotico che ricordava le imprese dei cavalieri crociati.

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Ormai il dado era tratto. Napoleone impersonò la parte dell’eroe in attesa di alti destini. Passeggiava per la capitale con al fianco una scimitarra, teneva lezioni all’Accademia delle Scienze. Nessuno, al Governo o in Parlamento, osò chiedergli conto della spedizione in Egitto. Autorevoli personaggi decisero, allora, di scommettere su di lui per abbattere il Direttorio. Prese, così, avvio quello che fu definito da Tocqueville un colpo di stato “maldestramente progettato ed eseguito e magistralmente riuscito” Il prologo, con la regìa di autorevoli membri del Governo come Sieyès e Talleyrand, fu l’elezione del più giovane dei Bonaparte, Luciano, a Presidente di uno dei due rami del Parlamento: il Consiglio dei Cinquecento. I fratelli Bonaparte confidavano in Sieyès, che era maestro d’intrighi politici ma questi mise in piedi un piano farraginoso e pasticciato: un colpo di stato che avrebbe dovuto svolgersi in due giorni, il 18 ed il 19 brumaio (novembre) 1799 con la conseguenza che, alla fine della prima giornata, le opposizioni avrebbero avuto modo di riorganizzarsi e di resistere. Inoltre, la maggior parte dei “congiurati”, a cominciare dallo stesso Luciano, non voleva instaurare un regime militare ma utilizzare il prestigio di Napoleone per formare un governo autorevole su solide basi parlamentari. In sostanza, un colpo di stato legalitario per convincere le Camere a disfarsi del Direttorio. Il primo atto, il 18 brumaio, fu la denuncia di un inesistente complotto di anarchici e la nomina di Napoleone a Comandante della guarnigione di Parigi per assicurare l’ordine. Il passo successivo furono le dimissioni dei membri più influenti del Direttorio (Sieyès e Barras) che dele-

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gittimarono il Governo. In questo modo si spianò il terreno per affidare il potere esecutivo a tre Consoli: un organismo di cui Sieyès, in virtù della sua esperienza politica, pensava di divenire l’arbitro. Occorreva adesso la mossa finale: come responsabile dell’ordine pubblico, Napoleone avrebbe dovuto suscitare allarmismo circa il fantomatico complotto terroristico per ottenere dalle assemblee la nomina del Consolato, dato che il Direttorio, ormai paralizzato, non appariva in grado di gestire la crisi. Bonaparte preparò il terreno organizzando una grande parata per risvegliare l’entusiasmo dei parigini, avviliti dagli insuccessi del Direttorio. Fu in questa occasione che, incontrando un collaboratore di Barras, pronunciò la celebre apostrofe: “Che ne avete fatto di questa Francia che io vi ho lasciato così splendida?” La prima giornata si svolse senza intoppi ma per il carattere di Napoleone, abituato a colpire con rapidità, quell’attesa era pericolosa. E fu con un senso d’inquietudine che all’alba del 19 brumaio si diresse verso SaintCloud, alla testa del contingente che doveva garantire l’ordine pubblico Indossava un’uniforme da semplice ufficiale, che contrastava con lo sfarzo dei Parlamentari e degli altri generali. Prima di uscire si assicurò la lealtà di Lefebvre, comandante della guardia del Direttorio, assicurandogli che non avrebbe attentato alla repubblica e, in segno di stima, con un gesto teatrale, gli donò la sua sciabola. Lefebvre gli promise che, se necessario, avrebbe gettato nella Senna i legulei del Parlamento. Ma l’oratoria secca e vibrante che suscitava forti emozioni nei soldati non ebbe effetto sui deputati che usavano

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un linguaggio zeppo di ideologismi e una retorica classicheggiante. Il Consiglio degli Anziani, accolse con freddezza l’appello ad un governo forte e molti pretesero spiegazioni sull’inesistente complotto anarchico. Bonaparte non apparve convincente, s’innervosì, perse il filo del discorso, s’impantanò in espressioni vaghe sulla congiura, sull’onore della Francia. Alla fine, quasi fuggì dalla sala. Ma non desisté; anzi, si diresse subito verso l’Orangerie dove erano riuniti i Cinquecento, l’assemblea più autorevole e a lui più ostile perché i giacobini vi contavano una rappresentanza numerosa. Il suo discorso, continuamente interrotto dagli oppositori, non faceva che parlare della “gloria conquistata sul campo di battaglia” … della “grandezza della Francia”. Bonaparte quasi balbettava mentre cresceva il coro hors de la loi! (fuori legge). Molti chiesero di votare una risoluzione per dichiararlo fuori legge; il che equivaleva a riconoscerlo colpevole di cospirazione contro lo Stato e comportava la condanna a morte o l’esilio. Alcuni deputati lo strattonarono, qualcuno lo colpì al volto. Il generale che aveva attraversato il ponte di Arcole sotto il fuoco nemico, venne colto dal panico. Fuggì dalla sala, raggiunse Sieyès, che in una sala d’attesa stava attizzando il fuoco di un camino, e gridò “Vogliono mettermi fuori legge”. L’anziano statista, imperturbabile, senza nemmeno voltarsi, rispose: “E voi metteteli fuori dai piedi” In quello stesso momento – quasi avesse sentito le parole di Sieyès – nell’Orangerie Luciano Bonaparte portò a compimento il colpo di stato. Con la sua autorità di Presidente si rifiutò di mettere ai voti la mozione che avrebbe significato la fine di Napoleone. Poi, poiché il tumulto cresceva, si tolse la toga, emblema della sua ca-

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rica, e dichiarò sospesa la seduta per l’impossibilità di mantenere l’ordine. Quindi uscì nel cortile, gridò alla guarnigione che un gruppo di facinorosi condizionava l’Assemblea, per impossessarsi del potere e uccidere il loro generale. Bisognava ad ogni costo ristabilire l’ordine. Di fronte al Presidente dell’Assemblea anche le Guardie del Parlamento, notoriamente fedeli alle istituzioni, non esitarono. Murat ebbe via libera e ordinò ai suoi granatieri “buttate fuori questa marmaglia” Di fronte alle baionette i deputati fuggirono nel parco. Alcune ore dopo, Luciano ne radunò qualche decina a cui fece votare l’istituzione del Consolato e la nomina di Napoleone a Primo Console Il progetto di Sieyès venne, dunque, capovolto. Il potere esecutivo fu attribuito interamente a Bonaparte; gli altri due Consoli ebbero solo un potere consultivo. Non più un organo collettivo ma una dittatura appena mascherata. Questa forte accelerazione creò sconcerto nel Paese: tanto più che si doveva varare una nuova Costituzione. Napoleone capì subito che i frutti dell’audace colpo di mano avrebbero potuto essere effimeri: per evitare di essere spodestato dai politici avrebbe dovuto conquistare il favore popolare, senza alcuna mediazione Occorreva una grande vittoria militare e poiché la guerra sul Reno era in una situazione di stallo, giocò la carta di una nuova Campagna d’Italia. Quale scenario più adatto a colpire l’immaginazione dei francesi? Era ancora vivo il ricordo delle splendide vittorie del giovane Bonaparte e bruciava lo smacco subito dai suoi sostituti che, in poco tempo, avevano perso tutto quanto era stato conquistato nella campagna del 1796.

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Napoleone si presentò all’opinione pubblica come il nume vendicatore. E la sua prima mossa fu uno splendido coup de theatre. Ci si attendeva che valicasse le Alpi al Monginevro o al Moncenisio per marciare su Torino. Invece, con un’impresa spettacolare, dopo aver ingannato gli austriaci con falsi spostamenti di truppe, attraversò il Gran San Bernardo dalla Svizzera, inerpicandosi su un impervio sentiero con un’intera armata, comprese le artiglierie. Piombò, così, alle spalle degli austriaci e s’impadronì di Milano. Fu un colpo psicologico di enorme portata. I pittori facevano a gara per immortalare l’epica traversata del San Bernardo in mezzo ai ghiacciai che, già prima del combattimento, fece apparire formidabile l’Armata transalpina. Per di più, entrando in Lombardia, i francesci s’insediarono, con una sola mossa, nel cuore dell’Italia settentrionale. Cominciò allora una guerra di movimento, con due eserciti che si studiavano, s’inseguivano e attendevano l’occasione propizia per la battaglia campale. Napoleone, ineguagliabile per la capacità di costringere il nemico a combattere nel momento e nel luogo che da lui prescelto, questa volta si fece sorprendere. Quando l’austriaco Melas attaccò a Marengo, il Primo Console era ancora convinto che gli austriaci intendessero sganciarsi e non capiva che stava per iniziare una grande battaglia. Le forze francesi erano, dunque, alla ricerca del nemico, disperse su un ampio territorio; di conseguenza, nonostante la strenua resistenza dei difensori di Marengo, gli austriaci riuscirono a sfondare. Alle due del pomeriggio avevano, praticamente, vinto la battaglia. Il feldmaresciallo

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Melas, tornò ad Alessandria e inviò a Vienna un dispaccio esultante. Aver allentato la presa gli fu fatale. I francesi si riorganizzarono e l’improvviso arrivo da Novi della divisione Desaix apportò le energie necessarie al contrattacco che si trasformò, ben presto, in una rotta rovinosa per gli austriaci. Desaix cadde sul campo. Napoleone pianse ma ebbe cura di minimizzare il ruolo decisivo che il suo generale aveva avuto nel rovesciare l’esito dello scontro. Nello scrivere il bollettino della vittoria, evitò che si avesse sentore del suo errore di valutazione e della serie di circostanze fortunate che aveva impedito una completa disfatta. Marengo apparve a Parigi e a Vienna una prodigiosa mazzata ed è passato alla storia come una di quelle battaglie che da sole decidono una guerra. L’intera Italia tornò in mano a Napoleone ed il suo potere non ebbe più limiti. Primo Console per dieci anni, poi a vita. Infine, la corona imperiale. Anche su questo piano, Bonaparte si rivelò geniale. Evitò di restaurare il titolo di re che avrebbe comportato un paragone con la precedente monarchia facendolo apparire un usurpatore ai legittimisti e un emulo dei Borbone ai repubblicani. Invece, l’Impero era una forma di monarchia completamente diversa dall’Ancien Régime (non a caso scelse di essere chiamato Imperatore “dei francesi” anziché “della Francia”): una monarchia che non rinnegava la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e le conquiste della rivoluzione ma prometteva ordine, stabilità, prestigio internazionale. Inoltre, il termine Impero aveva una capacità evocativa su più versanti: ricordava i fasti dell’antica Roma, assumeva una portata sovranazionale, sanciva l’unione della

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Francia con tutta una serie di regni satelliti. Il titolo di imperator, a Roma, aveva avuto origine sui campi di battaglia per designare il condottiero vittorioso. La coreografia imperiale contribuì, dunque, al mito napoleonico e rispose alle aspettative dei francesi che s’illudevano di coniugare il prestigio, la grandeur dello Stato con l’orgoglio repubblicano, di essere citoyens anziché sudditi. In sostanza, Bonaparte fu il primo a capire che nella società di massa l’assolutismo deve poggiare su un potere plebiscitario. Da qui il profilo dell’eroe carismatico che nel XX secolo avrebbe avuto funesti imitatori. Poi Napoleone passò con disinvoltura dalla porpora alla divisa da soldato semplice, perché si capisse che non erano le spalline ma il genio strategico a legittimare la sua autorità. Condivideva il rancio dei soldati e le loro marce, cadeva sfinito sul letto da campo e i suoi uomini lo adoravano. Lo chiamavano il Piccolo caporale e per lui si gettavano con foga nella mischia. Anche in questo aveva avuto un mirabile predecessore in Giulio Cesare che manteneva alto il profilo di discendente della gens Iulia, di origini addirittura divine, ma prendeva il rancio insieme alla truppa con la quale condivideva gli scherzi più triviali. I legionari erano orgogliosi di questo cameratismo ma sapevano quando era il momento di ristabilire le distanze. E come Giulio Cesare, Napoleone fondava la propria leadership sulla capacità di dialogare, di avere con sé non semplici pedine ma compagni di lotta, di avventura. Fece sapere in giro di aver risposto all’ambasciatore inglese Worthworth che accompagnava le sue condizioni con minacce di guerra: “vedete, milord, si può uccidere il popolo francese, ma intimidirlo, mai”.

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Altre volte usava la tattica opposta. Il 29 novembre 1805, ascoltò con aria preoccupata, quasi umile, l’ambasciatore russo che esponeva le sue pretese per una tregua mentre le truppe francesi stanno indietreggiando, come se temessero la battaglia. Ma quando l’emissario dello zar si allontanò, Bonaparte rivelò ai suoi collaboratori: “Bene! è un arrogante… riferirà che ho paura di loro” Poi passò la notte al bivacco. Il 30 novembre dettò un memorabile bollettino: volle che ogni soldato sapesse quale partita si stava giocando. L’Imperatore dei francesi voleva essere un leader, non come quei sovrani che mandavano a morire i loro uomini come semplici pedine. Espose, dunque, il suo piano di battaglia, convinto che se ogni soldato avesse capito la manovra a cui avrebbe preso parte, la grande Armata sarebbe stata invincibile. Poi annunciò che si sarebbe tenuto al riparo, a meno che non li vedesse indietreggiare; allora sarebbe andato nelle prime file, “per l’onore della nazione”. Al contrario di quei sovrani che, per galvanizzare le truppe, proclamavano che avrebbero marciato alla loro testa, Bonaparte sapeva che ai soldati francesi stava a cuore la sua incolumità Dormì qualche ora, poi salì a cavallo e raggiunse la linea del fronte: all’alba la pioggia cessò; il cielo era ancora coperto ma, ad oriente, una striscia luminosa annunciava il bel tempo. Mentre passava davanti ai reggimenti di fanteria gridò: “Il sole di Austerlitz!”. Quando i soldati risposero: “Fidati di noi!… non dovrai esporti!” un fremito lo percorse.

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CAPITOLO 4

Un processo mediatico

Il caso Dreyfus è passato alla storia come l’esempio del modo in cui i pregiudizi sociali, amplificati da una forsennata campagna di stampa, possono condizionare una vicenda giudiziaria, costruendo un “colpevole ideale”. Ma anche la ricerca della verità fu resa possibile dalla pressione dell’opinione pubblica: le prove a discarico sarebbero state ben presto archiviate e Dreyfus sarebbe morto in carcere se non fossero state sostenute da eventi mediatici, come il J’accuse di Zola. La vicenda ebbe inizio nell’ottobre 1894, quando un’addetta alle pulizie nell’ambasciata tedesca a Parigi, stipendiata dai servizi segreti francesi, trovò in un cestino della carta straccia dell’addetto militare von Schwartzkopen i frammenti di una lettera in cui un anonimo ufficiale dello Stato maggiore francese annunciava l’invio di documenti militari segreti. Uno dei tanti casi di spionaggio, che attirò l’attenzione dei vertici militari solo perché il documento tirava in ballo lo Stato maggiore, che era una casta rigidamente selezionata. Ma fra i giovani ufficiali ce n’era uno che appariva sospetto perché era ebreo e aveva un cognome tedesco: Alfred Dreyfus. Tra la calligrafia del capitano Dreyfus e quella della lettera incriminata c’era una notevole rassomiglianza e questo bastò per ordinare l’arresto dell’indiziato.

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Tuttavia, interrogatori e perquisizioni non portarono ad alcun risultato ed i giudizi dei grafologi erano discordanti; per di più mancava un valido movente: benestante, membro di una famiglia alsaziana nota per il suo patriottismo, Dreyfus non aveva il profilo del traditore. La vicenda stava per essere archiviata quando il 1° novembre la «Libre Parole», il periodico nazionalista di Henri Drumont, annunciò a titoli cubitali che era stata scoperta una spia fra gli ufficiali ma che l’inchiesta era stata insabbiata. Travolto da interrogazioni parlamentari, il ministro della Guerra Mercier annunciò che un indiziato era tuttora in stato d’arresto. Ma anziché placarsi, la «Libre Parole» rincarò la dose: la spia, un ebreo, aveva confessato ma la lobby ebraica era intervenuta per soffocare lo scandalo. Tradimento, spionaggio, poteri occulti: c’erano tutti gli ingredienti per coinvolgere emotivamente l’opinione pubblica. Altri giornali scesero in campo. In particolare, «L’Intransigeant» chiese perché il ministro della Guerra avesse scelto un ebreo per incarichi che davano accesso a documenti segreti e perché non lo si rinviasse a giudizio. Forse c’erano complicità eccellenti che non si volevano svelare? In un clima di psicosi collettiva, il problema delle prove a carico di Dreyfus divenne un elemento trascurabile. Inviso alle sinistre, il ministro non intendeva perdere anche le simpatie dei nazionalisti; e il Governo, che aveva le stesse preoccupazioni, avallò la decisione di arrivare al processo sulla base del solo bordereau (come fu chiamato, da allora, per antonomasia, il documento incriminato). Così, il 19 dicembre 1894, il capitano Dreyfus comparve di fronte a un tribunale militare, proprio nel momento in cui ulteriori perizie calligrafiche davano esiti discordanti e,

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per spiegare le differenze tra la calligrafia di Dreyfus e quella del documento, non si trovò niente di meglio che parlare di auto-contraffazione (!). Questo giudizio prevale su quello del perito della Banca di Francia che aveva notato eguaglianze con la grafia di Dreyfus nei caratteri generali e anche nei particolari; ma, avendo rilevato anche “diversità numerose e importanti”, concluse che “il bordereau sembrava essere di persona diversa da quella sospettata”. Tuttavia, di fronte alla totale assenza di prove, i giornali nazionalisti ipotizzarono l’esistenza di documenti che non potevano essere presentati in dibattimento perché avrebbero rivelato l’esistenza di un complotto internazionale. Si adombrarono minacce di guerra, si parlò di un fantomatico ultimatum che diffidava dal divulgare i documenti. Sulla «Cocarde», Maurice Barrès denunciò la connivenza fra diplomazia francese e tedesca sotto l’egida di poteri forti che tenevano la Francia in ostaggio. Altri temevano, invece, che un’assoluzione di Dreyfus avrebbe spostato il sospetto sull’intero Stato Maggiore in un momento in cui la Francia, minacciata dalla Germania e dalla rivalità coloniale con l’Inghilterra, era particolarmente vulnerabile. Pressioni che influirono, evidentemente, sui giudici perché, basandosi su una mera rassomiglianza di calligrafie, il tribunale ritenne Dreyfus colpevole e lo condannò alla degradazione con infamia e alla deportazione perpetua. Quando subì l’onta della pubblica degradazione, di fronte alla gente che lo insultava, trovò la forza di gridare: “Sono innocente! Viva la Francia!” Ma nessuno se ne curò: ormai era solo un galeotto destinato all’isola del Diavolo, in Guyana, una roccia desolata che il clima torrido rendeva inabitabile.

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Sull’intera vicenda calarono due anni di silenzio. Invano, la famiglia presentò un’istanza di revisione del processo. Nazionalisti e socialisti erano, una volta tanto, concordi nel ritenere che il ricco ebreo avrebbe meritato la pena di morte e nell’ambiente israelita molti temevano che la riapertura del caso avrebbe potuto provocare un’ondata di antisemitismo. Ma qualcosa cominciò a muoversi nei ranghi stessi dell’esercito. Nel luglio 1897, il colonnello Picquart, nuovo capo del Servizio informazioni, scoprì che l’ambasciata tedesca era da tempo in contatto con il maggiore WalsinEsterazy, un nobile invischiato in affari loschi. Contemporaneamente, un agente francese a Berlino rivelò che i servizi segreti tedeschi non conoscevano Dreyfus: il loro informatore era un maggiore dell’esercito, nobile e sempre a corto di denaro. Tra l’altro, si aggiunse una coincidenza degna di un romanzo giallo: alcuni giornali avevano fatto uno scoop pubblicando la foto di una pagina del famoso bordereau: un banchiere vi riconobbe la calligrafia di un suo cliente che gli dava da tempo grattacapi: il maggiore Estheràzy. Il banchiere avvisò Mathieu Dreyfus e gli portò un autografo del maggiore. Mathieu si rivolse, allora, ad un coraggioso giornalista ebreo, Bernard Lazare, che scrisse un articolo intitolato: Un errore giudiziario: il caso Dreyfus, un pamphlet in cui denunciò dettagliatamente l’incredibile vicenda giudiziaria. L’ipotesi dell’innocenza di Dreyfus colpì Picquart come una mazzata e divenne certezza quando scoprì che la calligrafia del bordereau somigliava straordinariamente a quella di Estherazy. Quanto alle altre prove “segrete”, di cui aveva parlato la stampa, non ne trovò alcuna traccia negli

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atti del processo. Eppure, di fronte a queste rivelazioni il Capo di Stato Maggiore, generale Boisdeffre, non batté ciglio. E poiché Picquart insisteva per riaprire il caso, rispose con veemenza: “Che m’importa di quell’ebreo? Che resti all’isola del Diavolo!”. Poi assegnò al troppo zelante subordinato una missione in Tunisia, in territori infestati da tribù ribelli, dove si poteva facilmente cadere vittima di un agguato. Nel frattempo, con singolare tempestività, una falsa notizia della fuga di Dreyfus, divulgata da un quotidiano londinese, mobilitò i nazionalisti contro le “trame” della lobby ebraica. Il Parlamento si allineò e, con soli cinque voti contrari, respinse la domanda di revisione del processo Per Dreyfus tutto si risolse in un inasprimento della pena: il ministro della Giustizia dispose che di notte il prigioniero fosse legato a un letto di contenzione; allegò poi alcune disposizioni nel caso di un eventuale funerale. L’unico a non arrendersi fu l’anziano senatore ScheurerKestner che aveva preso visione delle scoperte di Picquart. Ma fu facile dipingerlo come un vecchio rimbambito, vittima della consorteria ebraica. Il solito Drumont commentò: “È protestante, quindi mezzo ebreo” Per il momento, non s’intravedevano nuovi sbocchi. Piquart fu messo sotto inchiesta mentre Estheràzy dichiarò alla stampa di essere vittima di tenebrose macchinazioni e chiese di essere giudicato da un tribunale militare ove prevalse un ennesimo sofisma: il bordereau somigliava alla calligrafia di Estheràzy perché il vero colpevole l’aveva imitata. L’inevitabile assoluzione fece di lui l’eroe del momento: la folla lo accolse al grido di “Viva la Francia, morte agli

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ebrei!” Il Capo del governo, Méline, che cercava i voti delle destre, poté rassicurare il Parlamento che non esisteva alcun caso Dreyfus. La sfrontatezza del processo Estheràzy spinse, però, lo scrittore Emile Zola a lanciare su «L’Aurore» il celebre J’accuse: una lettera aperta al Presidente della Repubblica che denunciava dettagliatamente, inganni, falsificazioni e responsabilità. Era il 13 gennaio 1898: la vicenda di Alfred Dreyfus ebbe risonanza mondiale; divenne l’Affaire per antonomasia e determinò la presa di posizione di intellettuali come Lucien Herr, Anatole France, André Gide, Marcel Proust, Claude Monet, ed il cattolico Charles Péguy. Su tutti emerse la possente personalità di Georges Clemenceau, “il tigre”, che si scagliò con veemenza contro il fronte nazionalista e antisemita. Fino ad allora, la famiglia e gli amici Dreyfus avevano agito con riservatezza per non dare modo ai nazionalisti di agitare l’ipotesi della lobby ebraica. Anche l’azione di Picquart, coperta dal segreto militare, era trapelata solo a livello di indiscrezioni. Con la lettera di Zola, invece, l’opinione pubblica fu investita direttamente dall’Affaire. Il caso giudiziario divenne lotta politica: gli ambienti anticlericali, la borghesia radicale appoggiarono la causa di Dreyfus, mentre i socialisti esitavano ancora ad uscire dai rigidi schemi della lotta di classe. In campo opposto erano allineati ambienti militaristi, legittimisti e cattolici conservatori. E dall’Affaire, nello schieramento della destra, sorse l’Action française di Charles Maurras, che si dichiarava figlia della civiltà occidentale depurata degli elementi giudaico-cristiani. Incriminato per calunnia, Zola fu processato il 7 febbraio 1898, in un clima di morbosa eccitazione. I

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generali giurarono sul loro onore che Dreyfus era colpevole: per i patrioti che avevano fiducia nell’esercito, le prove erano superflue. I giurati condannarono Zola a un anno di reclusione. La paradossale sentenza suscitò scalpore all’estero, ma fu applaudita dai parigini e dal Parlamento. Ciò convinse il nuovo ministro della Guerra Cavaignac ad estirpare definitivamente il virus maligno dell’Affaire che impediva la riconciliazione fra nazionalisti e repubblicani. Cavaignac credeva nella colpevolezza di Dreyfus e volle esibirne le prove in Parlamento per eliminare alla radice ogni polemica. In particolare, decise di presentare i documenti del dossier segreto: si trattava di alcune lettere dell’addetto militare Von Schwarlzkopfen ad un collega dell’Ambasciata (anch’esse ritrovate stracciate in un “fatidico” cestino) nelle quali si faceva esplicitamente il nome di Dreyfus. Quando ricevette una lettera di Picquart che si dichiarava in grado di dimostrare che quei documenti erano falsi, Cavaignac s’infuriò: ordinò l’arresto di Picquart e minacciò di fare altrettanto con gli esponenti dello schieramento dreyfusardo. Al contempo, però, intuì che i metodi del controspionaggio francese erano a dir poco disinvolti e dispose un’inchiesta riservata proprio nei giorni in cui (agosto 1898) il socialista Jean Jaurès pubblicava sulla «Petite republique» una serie di articoli intitolati La prova dell’innocenza di Dreyfus per denunciare che le prove processuali erano dei falsi fabbricati dai servizi segreti. Poco dopo, anche l’inchiesta del Ministero della Guerra ebbe sviluppi clamorosi: un costernato Cavaignac apprese che i documenti del dossier segreto erano stati fabbricati utilizzando frammenti di lettere diverse. Così, nel settembre 1898, l’opinione pubblica restò sbalordita nell’ap-

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prendere che il colonnello Henry, subentrato a Picquart a capo dei Servizi d’informazione, era stato arrestato e si era suicidato in carcere dopo aver ammesso di essere l’autore dei falsi. C’era, adesso, il fatto nuovo che imponeva la revisione del processo ma la destra parlò di sordidi complotti e considerò il colonnello Henry un martire della consorteria ebraica. Il paradossale Maurras asserì addirittura che i documenti “fabbricati” da Henry erano un falso patriottico: per la Francia minacciata da nemici esterni e interni, l’esercito era l’estrema garanzia di sopravvivenza. Quindi i dreyfusardi erano “pericolosi proprio se Dreyfus era innocente”, perché rischiavano di demolire il prestigio e l’autorevolezza delle forze armate. Nonostante i continui ostacoli frapposti dal Parlamento, la Cassazione compì l’iter della revisione e fece emergere una rete di collusioni fra Stato Maggiore, spie e delinquenti comuni. La Corte Suprema ordinò la celebrazione di un nuovo processo con una motivazione che era, di per sé, un’autorevole presunzione d’innocenza. I nazionalisti si videro perduti e agitarono la piazza. Ma le intemperanze militariste determinarono uno spostamento a sinistra dell’elettorato di provincia, tradizionalmente moderato. Anche le masse operaie parigine non si mostrarono più ostili al caso del “ricco borghese”. A Jaurès e Vaillant, scesi in campo per fermare la cospirazione militarista, si aggiunse il marxista Jules Guesde che dichiarò: “la lettera di Zola è il più grande atto rivoluzionario del secolo” La svolta finale dell’intera vicenda fu data dalla morte del presidente della Repubblica Felix Faure, tenacemente antidreyfusardo, e dall’elezione di Emile Loubet, il candi-

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dato di Clemenceau. Durante i solenni funerali di Faure, in mezzo a una folla che gridava “Viva la Francia, viva l’esercito”, il deputato nazionalista Déroulède afferrò le briglie del cavallo del generale Rouget, comandante della guarnigione di Parigi, e gridò: “Generale! All’Hotel de Ville! All’Eliseo!”. Ma Rouget restò impassibile e i nazionalisti vennero dispersi. Nel solco della tradizione blanquista del colpo di mano preparato da una campagna di stampa parossistica, Dèroulède guardava ad una repubblica su basi popolari e nazionalistiche: un tentativo destinato a fallire perché i più accesi antidreyfusardi erano monarchici. A sua volta, Drumont dichiarò di non credere più in generali che, invece di impugnare la spada, falsificavano documenti. A luglio del 1899 Dreyfus fu rimpatriato. Era convinto che l’incubo fosse finito. Invece, appena sbarcato, si trovò rinchiuso in un carcere militare per evitargli di essere linciato. Il fronte antidreyfusardo (nazionalisti, membri della società antisemita, i camelots du roi) crearono disordini all’ippodromo di Auteil dove, in completa assenza di misure di ordine pubblico, il presidente Loubet venne raggiunto da un colpo di bastone. La gravità dell’episodio aiutò i sostenitori di Dreyfus. La domenica successiva, insieme a Clemenceau, agli intellettuali, ai deputati radicali, si ritrovarono più di centomila operai parigini che, con una rosa all’occhiello, occuparono l’intero percorso da Place de la Concorde al Bois de Boulogne gridando “Viva Loubet, viva Picquart, viva Dreyfus!”. Il Parlamento capì che il sostegno popolare rendeva inarrestabile l’ondata dreyfusarda e si spostò progressivamente a sinistra. Il governo cadde e fu sostituito dal Gabi-

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netto Waldeck-Rousseau, un esponente della grande borghesia, che si pose alla testa di una coalizione di “difesa repubblicana” formata da moderati, radicali e socialisti. L’Affaire aveva, dunque, provocato un clamoroso capovolgimento politico: un governo di sinistra che, per la prima volta, comprendeva anche esponenti socialisti. Fino ad allora, la Terza repubblica era sopravvissuta stentatamente, solo grazie alle divisioni fra i monarchici (legittimisti, orleanisti, bonapartisti). Il blocco delle sinistre rafforzò la repubblica, ridusse il potere dell’esercito, sottraendo allo Stato Maggiore la nomina dei generali e punì il connubio tra destra e ambienti clericali con la legge sulle congregazioni religiose che caratterizzò il laicismo della Terza repubblica. Nell’agosto 1899 si celebrò a Rennes il nuovo processo a Dreyfus. La cittadina bretone fu invasa da giornalisti di tutto il mondo: all’estero l’innocenza dell’imputato era ormai un fatto scontato, specie dopo le ultime dichiarazioni di Estheràzy che, da Londra, aveva ammesso di essere l’autore del bordereau, sostenendo di averlo scritto su incarico del controspionaggio per infiltrarsi nella rete tedesca. Ma in aula la vicenda prese una piega imprevista. A carico di Dreyfus non c’era più l’ombra di una prova, nemmeno il bordereau. I generali, però, scuotevano la testa, lasciavano intendere che c’erano prove segrete che non si potevano esibire e nemmeno menzionare. Si sparse la voce che quello presentato in aula fosse solo una copia del bordereau. Quello vero, scritto in modo inequivocabile da Dreyfus, non si poteva mostrare perché conteneva un’annotazione autografa dell’imperatore tedesco Guglielmo II e accusare il Kaiser di aver personalmente commissionato azioni di spionaggio sarebbe equivalso ad una dichiarazione di guerra.

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Il fantomatico bordereau annotato aleggiò sull’intero processo e restituì credibilità alle prove di cui Picquart aveva dimostrato la falsità o l’inconsistenza. Così, un’incredibile sentenza dichiarò nuovamente Dreyfus colpevole: gli riconobbe alcune attenuanti e lo condannò a dieci anni di lavori forzati. L’indignazione scoppiò in tutto il mondo con manifestazioni di protesta davanti alle ambasciate francesi. La regina Vittoria definì Dreyfus un “martire” La vicenda rafforzò il dreyfusianesimo più radicale. Ma si doveva pur risolvere il caso umano. Nonostante l’opposizione di Clemenceau si decise di evitare che Dreyfus tornasse in prigione e la grazia del Presidente della Repubblica lo restituì alla sua famiglia. Giustizia non era stata fatta, ma sul piano politico il movimento dreyfusardo aveva vinto. Nel 1902, il voto della provincia francese, allarmata dagli intrighi dei militari e dai rischi di colpo di stato rafforzò la vittoria delle sinistre. Tuttavia, ci fu chi non si accontentò del successo politico: il 6 aprile 1903 Jaurès, con un memorabile discorso in Parlamento, riaprì l’Affaire. Il grande tribuno socialista chiese un’inchiesta sull’ operato dei Servizi segreti dell’esercito, definiti “un’officina di falsificazioni”. Il ministro della Guerra accolse la sua proposta di aprire gli archivi. Nei forzieri si trovarono solamente grossolane contraffazioni: del fantomatico bordereau annotato e degli altri documenti segreti evocati nel processo, non c’era traccia. Ancora una volta un “ fatto nuovo”, che determinò una seconda revisione del processo: il 25 dicembre 1903, davanti alla Suprema Corte, tornarono a sfilare i generali che ormai non avevano più “segreti” a cui appellarsi.

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Dopo tre anni d’indagini, il 12 luglio 1906 la Cassazione annullò definitivamente la sentenza di Rennes e riconobbe la piena innocenza di Dreyfus: il Parlamento lo reintegrò nell’esercito con il grado di maggiore, mentre Picquart fu nominato generale. Ad accelerare l’iter del processo aveva contribuito non poco Clemenceau, leader dell’ala intransigente del dreyfusianesimo, che era divenuto ministro degli Interni. Alcuni mesi dopo, si costituì un nuovo governo presieduto proprio da Clemenceau che nominò ministro della Guerra Georges Picquart, l’uomo che era stato espulso dall’esercito e arrestato per essersi opposto agli intrighi orditi da un’aberrante concezione della ragion di Stato. Nel 1930, la pubblicazione postuma delle memorie dell’addetto militare tedesco von Schwartzkoppen (il destinatario del bordereau) confermò che non si trattava di un depistaggio: i documenti militari gli erano stati consegnasti a più riprese da Estheràzy che, a causa di rovesci finanziari, aveva urgente bisogno di denaro. Ma un altro mistero si apre: von Schwartzkoppen afferma di avere avuto i documenti ma non la famosa lettera che li elencava: il famoso bordereau. Eppure essa era stata ritrovata nel cestino della carta straccia dello stesso Von Schwartzkoppen strappata in cento frammenti. Evidentemente i Servizi segreti mentivano. Perché? Forse si voleva “bruciare” Estheràzy per fermare lì l’inchiesta? Bruno Revel autore di una documentata storia dell’Affaire sostiene che la vera spia era il colonnello Henry. Infatti, Estheràzy, era un personaggio che non godeva di sufficiente credito per avere accesso a documenti segreti. Quindi, sarebbe stato solo un uomo di paglia manovrato da Henry. Ma si può supporre che lo stesso Henry coprisse un

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personaggio ancora più in alto, un generale ai vertici dello Stato maggiore? Insomma, il caso Dreyfus non è stato un clamoroso errore giudiziario ma una macchinazione ordita per trovare una capro espiatorio? All’inizio, quando Dreyfus stava per essere scarcerato per mancanza d’indizi, la «Libre parole» scatenò una campagna di stampa che spinse il generale Mercier a chiedere il rinvio a giudizio. Ebbene, si scoprirà molti anni dopo, che la «Libre parole» era stata informata della vicenda da una lettera anonima che denunciava un complotto ebraico e che l’autore della lettera era il colonnello Henry. Anche dopo la conclusione dell’Affaire la sua virulenza non si placò. Due anni dopo, durante i funerali di Zola, un fanatico sparò a Dreyfus provocandogli una ferita superficiale; il tribunale della Senna assolse l’attentatore. La destra sconfitta assunse pose sempre più aggressive e l’Action française fornì un modello politico-culturale al fascismo italiano. Nel 1914, Maurras imputò al dreyfusianesino le sconfitte militari ad opera dei tedeschi ma Clemenceau, le père de la Victorie, s’incaricò di smentire che una democrazia non potesse avere tempra sufficiente per vincere la Grande guerra. Le conseguenze del caso Dreyfus interessarono tutti i campi della vita pubblica: dalla separazione fra Stato e Chiesa alla subordinazione dei militari al potere civile, dalla scissione fra socialisti e comunisti, all’antisemitismo di Vichy. Non a torto, è stato affermato che l’Affaire fece entrare la Francia nel XX secolo mentre nel resto dell’Europa gli schemi ottocenteschi avrebbero retto fino al 1914.

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Ma Alfred Dreyfus avvertì la rivoluzione culturale provocata dalla sua vicenda? Tornato alla vita di ogni giorno cercò, invano, di dimenticare le atroci sofferenze ma anche la popolarità che ne era scaturita. Riprese la carriera militare e non pensò mai di entrare in politica, dove avrebbe ottenuto facilmente un seggio in Parlamento. Dopo aver sopportato con stoicismo le atrocità dell’isola del Diavolo, protestò e si dimise perché la sua promozione a maggiore non era stata retrodatata. Invano Pèguy osservò che era ben più importante “essere stato promosso Dreyfus” Tornò nell’esercito col grado di colonnello, nella prima guerra mondiale. Ai suoi sostenitori che lo consideravano un simbolo della lotta per la giustizia, rispose “sono stato solo una vittima; quanto al personaggio Dreyfus, l’uomosimbolo, siete voi che l’avete creato”.

CAPITOLO 5

L’illusione di Tripoli

Dopo la disfatta di Adua (1896) e la fine dell’avventura abissina, l’orgoglio nazionale italiano fu ulteriormente mortificato, agli inizi del XX secolo, dal Protettorato francese sul Marocco che fece seguito allo “schiaffo” inferto dai cugini transalpini con l’occupazione della Tunisia. Contemporaneamente, l’Austria, annettendo la Bosnia-Erzegovina poneva fine alle mire italiane sui Balcani. La stampa nazionalista cominciò, allora, a puntare gli occhi sulla Tripolitania e la Cirenaica, l’unica porzione di Mediterraneo di cui le potenze europee non si erano ancora impossessate ma che attirava da tempo l’interesse dei grandi gruppi finanziari. La campagna di stampa poggiava su tre capisaldi: 1) La Libia era una terra ricca e avrebbe risolto il problema della disoccupazione che costringeva molti italiani ad emigrare in Sud America; 2) era legata all’Italia dalle memorie dell’Impero Romano e dalla vasta colonia italiana che la madrepatria aveva il dovere di tutelare; 3) aveva un’importanza strategica (la quarta sponda) e se fosse caduta in mano alla Francia, alla Gran Bretagna o alla Germania, il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo ne sarebbe risultato compromesso A tutto ciò si aggiungeva la convinzione che la conquista sarebbe stata poco più di una passeggiata militare,

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perché si riteneva che l’Impero ottomano fosse già rassegnato alla perdita di quella lontana provincia e che avrebbe opposto solo una resistenza formale Il primo aspetto era il più rilevante perché una terra così vicina, scarsamente popolata e fertile, almeno nella zona costiera, appariva davvero una Terra promessa. Quindi, s’insisté a fondo sulle risorse agricole – il sogno delle masse contadine del nostro Meridione – e sulle ricchezze minerarie che la popolazione locale non era in grado di sfruttare. Medana e Piazza, nel libro La Terra Promessa, parlarono di raccolti particolarmente abbondanti di olio e orzo Erano temi cruciali, nel momento in cui la congiuntura economica stava creando nuova disoccupazione. Così, ignorando le argomentazioni di quanti sostenevano che la Libia era una terra povera e che, per svilupparsi, avrebbe avuto bisogno d’investimenti che l’Italia non era in grado di sostenere, molti opinionisti calcarono la mano sugli oliveti, sui vigneti, sulle palme da datteri, citando soprattutto autori classici: testimonianze antiche di venticinque secoli e, per di più, male interpretate. Ad esempio, «L’Idea Nazionale» si appellava ad Erodoto per asserire che in Tripolitania si potevano avere fino a tre raccolti l’anno: in realtà, lo storico greco parlava di tre zone di coltura che avevano diversi tempi di raccolta. Ma si preferì sposare la tesi di straordinarie potenzialità “dimenticate” dagli arabi che non sapevano coltivare né l’ulivo né la vite. Ci fu chi identificò l’altopiano della Cirenaica con il mitico giardino delle Esperidi: un immenso frutteto che si alternava a coltivazioni di orzo, tabacco, frumento; e miniere che attendevano solo di essere sfruttate. Si affermò su «La Stampa» che, al tempo di Settimio Severo, la Cirenaica provvedeva da sola alle esigenze di

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Roma. Più concretamente, Giustino Fortunato sostenne che si doveva andare in Libia perché il flusso marittimo verso il canale di Suez rendeva strategicamente importanti le coste della sponda sud del Mediterraneo. C’erano, peraltro, molte voci contrarie, a cominciare dai socialisti: e non solo in nome di un’ideologia pacifista e anticolonialista ma anche per ragioni di convenienza. Si riteneva che la Libia non avrebbe dato terra coltivabile ai contadini meridionali (uno “scatolone di sabbia” la definì Salvemini); anzi, a causa delle spese militari, sarebbe aumentata la pressione fiscale. Qualcuno adombrò anche il rischio di una nuova Adua perché si trattava di far guerra non ad un popolo primitivo ma all’Impero ottomano. Anche Cesare Lombroso, in un articolo intitolato Il pericolo tripolitano, affermò di temere una sconfitta ma che un successo avrebbe creato pericoli ancor più gravi, perché, inebriata dalla vittoria, l’Italia avrebbe potuto rivolgersi non verso una crescita della democrazia ma verso l’imperialismo ed il militarismo (cfr. S. Romano, La quarta sponda, Milano 2005, p. 28). Intanto, cresceva il miraggio delle ricchezze libiche: geografi e geologi scesero in campo per descrivere il patrimonio minerario. In pochi mesi furono pubblicati una decina di libri nei quali, fra riferimenti storici e suggestioni emotive, si asseriva che se i francesi o tedeschi si fossero impadroniti delle miniere di zolfo, avrebbero fatto una concorrenza spietata a quelle siciliane; circa la fertilità del terreno, si prevedeva che il lavoro italiano avrebbe fatto miracoli e che, comunque, andare in Libia era un dovere verso la civiltà: gli arabi ci attendevano a braccia aperte, le popolazioni locali erano docili e sarebbe stato facile farsi obbedire.

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Al fondo di ogni ragionamento c’era, poi, l’opinione che avere una colonia così vicina alle proprie coste era come ampliare il territorio nazionale. L’Italia proletaria – a cui alluse anche Giovanni Pascoli – aveva bisogno di terre per evitare che i suoi figli fossero costretti ad emigrare in Brasile e in Argentina. E Giolitti? Il suo carattere pragmatico non cadeva certo in queste suggestioni Probabilmente decise la guerra per motivi di politica interna, per recuperare consensi a destra dopo essersi spostato a sinistra con la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e con la promessa del suffragio universale. Sembra, però, condivisibile la tesi di Sergio Romano secondo la quale Giolitti sfruttò l’occasione per rendere meno virulenta l’opposizione alle sue riforme, ma non progettò a freddo l’impresa libica; in più occasioni aveva espresso la propria contrarietà e ne aveva sottolineato i rischi: sapeva bene che non si trattava di una conquista coloniale contro tribù africane ma di una guerra contro la Turchia, con inevitabili reazioni delle potenze europee, e che l’indebolimento dell’Impero Ottomano avrebbe provocato nei Balcani contraccolpi pericolosi per l’equilibrio europeo (S. Romano, op. cit, pp. 46-48). Un’analisi che si rivelò lungimirante, dato che la crisi dell’Impero turco, conseguente alla sconfitta in Libia, provocò un’instabilità che viene oggi posta fra le cause remote della prima guerra mondiale. Perché, allora, mantenne riservate queste perplessità? Temeva di suscitare appetiti concorrenziali nelle grandi potenze, ben più attrezzate ad una simile impresa, o non voleva contrapporsi all’ondata crescente di nazionalismo?

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Intanto, mentre furoreggiava Tripoli bel suol d’amore cantata dalla procace Gea della Garisenda, gli italiani sognavano la Terra promessa, suggestionati dalla stampa che parlava di immensi frutteti e di due milioni di palme da datteri nelle oasi. Per di più, gli opinion’s leaders sottolineavano che questa sorta di Eden era a portata di mano, perché l’Impero turco era in piena decadenza e la popolazione araba attendeva solo di essere liberata. Quando testimoni diretti ribattevano che in Libia gli arabi erano ostili agli occidentali, si mutava versione e si sosteneva che era un sacro dovere aiutare la colonia italiana minacciata dal sentimento xenofobo della popolazione. Si parlò di gravi minacce contro gli europei e, in specie, contro gli italiani; si disse che a Tripoli regnava ormai il panico per le irrefrenabili esplosioni di fanatismo. Il momento culminante della pressione sull’opinione pubblica fu quando il giornalista e scrittore Giuseppe Bevione narrò su «La Stampa» le difficili condizioni degli italiani in Argentina e sottolineò che l’Italia inviava emigranti in terre non sue mentre avrebbe potuto dare loro una nuova patria sulle sponde del Mediterraneo. Poi Bevione si recò in Tripolitania da dove inviò una serie di corrispondenze scrivendo in termini entusiastici dell’oasi che circondava Tripoli: un vero Paradiso terrestre (P. Maltese, La Terra promessa, p. 44) con due milioni di palme da datteri; una cifra assurda, vista l’estensione dell’oasi. In realtà – rilevarono vari oppositori – le terre migliori erano tutte coltivate e in queste zone c’era un’alta densità di popolazione; quindi, non sarebbe stato possibile ottenere concessioni per i contadini italiani. Anche l’idea che

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molte terre fossero res nullius era basata su un equivoco. Le terre dei beduini erano indivise, appartenevano a tutta la tribù ma non erano certamente prive di proprietario. Eppure, Enrico Corradini teneva conferenze parlando di grandi aree coltivabili (da 80 a 500 mila ettari) mentre le palme da datteri nell’oasi di Tripoli divenivano 3 milioni. Scrisse ne L’ora di Tripoli di aver visto olivi fittissimi, per ore ed ore, viaggiando da Cirene a Bengasi e citava Erodoto come testimone: in Libia, per otto mesi, non si faceva che raccogliere e l’altopiano della Cirenaica era letteralmente coperto di grano e d’orzo. Ma sopra ogni altra considerazione, quella era l’eredità che ancora ci restava dell’Impero romano. Poi, la pressione dei nazionalisti divenne parossistica: si espresse timore per imminenti mosse francesi e inglesi. Ne seguirono interpellanze in Parlamento nelle quali si sosteneva che alcune carte topografiche britanniche comprendevano vaste porzioni della Libia orientale e che i francesi, sconfinati dalla Tunisia, si erano già impossessati di oasi importanti. Il 28 luglio «La Stampa» pubblicò un appello a Giolitti: se l’equilibrio nel Mediterraneo fosse mutato, l’Italia non avrebbe più potuto avere aspirazioni da grande potenza. «La Tribuna» aggiunse che a Tripoli gli italiani scrutavano l’orizzonte in cerca di uno sbarco che venisse a “rinfrancare gli animi” L’ultimo grido di allarme fu che gli Stati Uniti stavano per chiudere le frontiere all’immigrazione: la Tripolitania apparve l’unica soluzione alla questione meridionale. Si aggiungeva, poi, il timore che i coloni italiani abbandonassero la Libia ove la situazione era ormai insostenibile. Che sarebbe successo se questi connazionali fossero tornati

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in patria ad aumentare la massa dei disoccupati? Che si attendeva ancora ad intervenire? Constatando che la campagna di stampa dei nazionalisti aveva ormai coinvolto strati sempre più ampi dell’opinione pubblica, Giolitti cavalcò la tigre e lo fece con la sua proverbiale determinazione. Rifiutò di prendere in considerazione le proposte concilianti del governo turco e rispose in termini ultimativi che le province libiche erano in una situazione di completo disordine; gli italiani si sentivano minacciati dalla popolazione locale sobillata dai turchi. Pertanto, il Governo di Roma “aveva deciso di occupare il territorio della Tripolitania e della Cirenaica” La Sublime Porta si mostrò ancor più remissiva e concesse all’Italia di governare la Libia dietro un indennizzo in denaro e il mantenimento di una sovranità nominale turca. Ha osservato, infatti, Sergio Romano che Roma ed Istanbul commettevano lo stesso errore di considerare la conquista di Tripoli un’impresa facile per le truppe italiane. Le proposte della Turchia furono, quindi, respinte e il 29 settembre, dopo la formale dichiarazione di guerra, la flotta italiana iniziò il cannoneggiamento di Tripoli. Il 5 ottobre le prime truppe sbarcarono senza incontrare resistenza, perché la guarnigione turca si era ritirata nell’interno. La spedizione cominciava in un clima di festa; in Italia si cantava: “i turchi nun so’ boni ’e tené manco una luna / e ne tèneno mezza solamente”; si recitava un poemetto sui martiri d’Otranto per proclamare che “chiunque dei turchi s’impaura… in terra non trovi sepoltura” A Tripoli, il Governatore militare rassicurò i rappresentanti della comunità araba circa il rispetto della proprietà e della religione musulmana. I giornalisti italiani riporta-

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rono la soddisfazione dei notabili e parlarono di un rapporto paterno fra conquistatori e la popolazione locale Ma l’8 ottobre i turchi ricomparvero sulle dune e la flotta fu costretta ad un nuovo bombardamento. Si scavarono trincee ai margini dell’oasi, che erano un labirinto di case e di orti recintati. Un terreno difficile da controllare, presidiato da oltre ventimila uomini. Il maggior pericolo veniva, però, dai guerriglieri arabi che sbucavano dal nulla e colpivano all’improvviso, come avvenne a Sciarra Sciat, dove furono uccisi 250 bersaglieri. Il clima mutò radicalmente: iniziarono le perquisizioni, le fucilazioni, l’internamento di arabi ritenuti pericolosi. Anche le canzoni mutarono tono: non più Tripoli bel suol d’amore ma “o mia cara da Tripoli ti scrivo / attendendo un po’ alla penna ed al fucil / è un miracolo grande se son vivo / perché, se tu non sai, l’arabo è vil” Fece seguito la deplorazione dell’opinione pubblica internazionale che suscitò indignazione in Italia. Nessuno, infatti, aveva protestato per le repressioni operate dai francesi e dagli inglesi nelle loro conquiste coloniali. Ma ciò era avvenuto alcuni decenni prima. Ormai si era nel XX secolo e c’era una nuova sensibilità per i diritti umani. Per di più, la Turchia era uno stato con un ordinamento di tipo europeo e non si poteva parlare di popoli barbari da civilizzare. La delusione più grande fu, però, l’atteggiamento della popolazione locale che non aveva accolto gli italiani come liberatori. Così, dopo Sciarra Sciat si passò dalla benevolenza alla repressione; gli arabi furono considerati “traditori” mentre, ad essere tradite, erano state le attese indotte da una campagna di comunicazione a senso unico.

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CAPITOLO 6

La capriola mussoliniana

“Con quella figura d’asceta, quella voce a mormorio di foresta, quel gesto di persona quasi agitata da un incubo, esercita fatalmente una potenza fascinatrice e trascinatrice”. Così scrisse di Mussolini «L’azione socialista», in occasione del XIV Congresso del PSI che si tenne ad Ancona nell’aprile 1914 e che fu un trionfo per il giovane direttore dell’«Avanti!». Come ha osservato Dino Biondi, i socialisti forgiarono un Duce da consegnare nelle mani della borghesia al momento opportuno “Mussolini stava al gioco fingendo di respingere gli adulatori”. Insensibile alle contumelie e alle lodi “della platea”, si diceva, però, colpito dall’elogio di quanti stimava intellettualmente e moralmente, come Prezzolini, che scrisse sulla «Voce»: “Quest’uomo è un uomo e risalta tanto più in un mondo di mezze figure e di coscienze sfilacciate…” Pertanto, il passato socialista di Mussolini non può essere considerato un episodio di giovanilismo, tutto sommato marginale nella sua biografia. Il futuro duce del fascismo ebbe un ruolo importante in una fase di svolta nella vita del PSI: si schierò con i massimalisti contro i riformisti e dopo il Congresso del 1912 divenne direttore dell’«Avanti!» ma considerò i massimalisti solo degli occasionali alleati, perché li riteneva prigionieri dei dogmi del socialismo scientifico e privi di idee su

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come intervenire nella politica italiana. In effetti, Mussolini era più vicino al clima ideologico del futurismo e della «Voce» di Prezzolini. L’«Avanti!» risentì subito di questa impostazione: i titoli divennero violenti e di grandi dimensioni, gli articoli erano incalzanti, miravano a suggestionare anziché a convincere. Il nuovo direttore era convinto che in politica occorressero “tre centesimi di merce e novantasette di tamburo” e che la maggiore incisività del giornale potesse trasformare il partito in strumento di lotta capace di conquistare, violentare, fecondare la realtà sociale. Quando il 13 gennaio 1913, a Rocca Gorga, in Ciociaria, l’esercito sparò sulla folla uccidendo sette persone, l’«Avanti!» denunciò a tutta pagina La politica della strage e proseguì nei giorni successivi con titoli incalzanti. Quando dalle colonne del giornale riformista «Il Lavoro» fu accusato di limitarsi ad espressioni verbali, rispose che il Partito socialista, ridotto ad un ramo secco, per il momento non consentiva altro che comizi. Per rinverdire il ramo secco, Mussolini guardava a Sorel e, in particolare, allo sciopero generale, per portare il proletariato in rotta di collisione contro le classi dominanti “Mi pare un brutto sogno” – commentava Anna Kuliscioff e Turati replicava laconicamente che Mussolini era “matto”. Poi, dalle colonne della «Critica sociale», rimproverò all’«Avanti!» di agitare il fantasma fosco dello sciopero generale e Treves definì “funesta e non socialista” la concezione della lotta di classe come guerra guerreggiata che ricalcava il “vano linguaggio” della dottrina nietzschiana del superuomo “dottrina individualistica, aristocratica, di violenza, che […] lusinga l’elegante poltroneria degli insofferenti ai piccoli sacrifici quotidiani”.

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Anche Serrati, leader degli intransigenti, deplorava che “bella e fiera ribellione”, come moto rivoluzionario, ogni manifestazione follaiola. Insomma, Mussolini appariva isolato nel partito ma non se ne curò troppo, consapevole che, nelle sue mani, il quotidiano socialista era divenuto un efficace strumento politico e che i militanti apprezzavano il suo linguaggio vibrante di passione. Scrivendo su «La Folla» con lo pseudonimo L’homme qui cherche, si spinse oltre, dichiarando che le rivoluzioni erano la rivincita della follia sul buonsenso (“Le rivoluzioni sono pazze, acefale, violente, idiote, bestiali, sono come la guerra”) e al riformismo di Turati e di Bonomi contrappose il socialismo degli “scamiciati, dei malfattori, della canaglia” Un ribellismo, anzi un’esplosione dionisiaca, che consentì a Mussolini di ottenere una vasta popolarità nell’estrema sinistra. Sebbene la sua linea lasciasse perplessa la direzione “massimalista” del Psi, nessuno se la sentiva di averlo come avversario. Infatti, il partito era in netta ripresa; nelle elezioni dell’autunno 1913 ottenne 53 deputati passando dall’8,1% all’11,3%. Nel 1914, al Congresso di Ancona, parteciparono 1200 delegati in rappresentanza di 45102 iscritti e di 1565 sezioni, con un incremento di circa il 60% in soli due anni. Mussolini ne fu l’indiscusso protagonista: vantò i successi dell’«Avanti!» e sfoggiò la propria abilità oratoria. Ma le pose tribunizie nascondevano un vuoto politico. Nell’ora del successo apparve inquieto: probabilmente anch’egli, come Sergio Panunzio, riteneva che il partito socialista organizzasse l’industria del niente e che non avesse prospettive.

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Due mesi prima, nel febbraio 1914, a Firenze, di fronte ad un pubblico numeroso ed eterogeneo, aveva esaltato l’attivismo delle minoranze. Distaccandosi dal concetto marxista di lotta di classe, aveva affermato: “noi dobbiamo creare in seno al proletariato una minoranza abbastanza numerosa, cosciente, audace che al momento opportuno possa sostituirsi alla minoranza borghese. L’enorme massa la seguirà e obbedirà”. Stava ormai elaborando una nuova concezione politica fondata sulla teoria delle élites e sulla tecnica del colpo di mano. Per il momento, però, era ancora perplesso sulla via da seguire. Questo spiega il suo comportamento durante la “settimana rossa”. Restò, infatti, stranamente inerte di fronte ad un’agitazione nella Romagna e nelle Marche che assunse i colori della rivolta. Gli stessi resoconti dell’«Avanti!» avevano titoli meno vistosi. Solo dopo il fallimento dell’insurrezione, Mussolini tornò a vestire i panni del giacobino, si atteggiò a padrone della forza d’urto proletaria e proclamò la tregua d’armi. “Noi accettiamo il buono e il cattivo, il proletariato e la teppa” – scrisse sulla rivista «Utopia» – “non abbiamo ammainata la bandiera rossa ma l’abbiamo invece distesa e sventolata […] tregua d’armi dicemmo e sarà tale!” Un’ambiguità che può essere variamente interpretata. Forse Mussolini pensava che l’occasione rivoluzionaria avrebbe dovuto presentarsi in un contesto più ampio e che, per il momento, si dovesse solo sfruttare il clima di tensione a fini propagandistici. Usò toni roboanti, minacciosi, quando l’agitazione si era ormai spenta. Sull’«Avanti!» del 25 giugno concordò con il giudizio negativo di Giovanni Papini sulla “settimana rossa”; e su

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«Utopia» del 31 luglio si espresse ancora più chiaramente: “In Italia – affermò – esiste uno stato d’animo rivoluzionario; non sarà la rivoluzione sociale? Che importa! Ogni rivoluzione politica, diceva Carlo Marx, è anche sociale […] l’Italia ha bisogno di una rivoluzione e l’avrà”. Una posizione in cui confluivano tratti di futurismo, di vocianesimo, di bergsonismo, non di socialismo. Per “rivoluzione politica” intendeva, infatti, la mera conquista del potere, senza soffermarsi sulla complessità dei rapporti tra fattori politici, sociali, economici e culturali. Di conseguenza, Treves ne trasse spunto per polemizzare con le “affinità elettive” tra rivoluzionari, sindacalisti e nazionalisti, fondate sul comune convincimento che “l’Idea governa il mondo e la Volontà governa l’Idea”. Anche Zibordi individuò nel mussolinismo la psicologia del nazionalismo e chiese di farla finita con i “burattinai” che muovevano a loro piacimento il proletariato “rendendolo schiavo della superstizione della sommossa”. Certamente, aveva ragione Croce (e con lui De Felice) che rilevò l’incapacità dei riformisti d’ intendere realmente la posizione del direttore dell’«Avanti!», perché ciò richiedeva di risalire al movimento di reazione al positivismo, “del quale essi erano rimasti affatto ignari”. Mussolini riteneva che stesse iniziando una nuova era, che occorressero mutamenti radicali, ad ogni costo, con qualsiasi mezzo, chiunque ne fossero i protagonisti, perché le posizioni rivoluzionarie dell’estrema sinistra servivano solo ad attivare psicologicamente le masse, a farle uscire dall’apatia riformistica nella quale sopravvivevano, ma difficilmente avrebbero potuto portarle al potere. Era, insomma, alla ricerca di una qualunque novità. Così, quando la prima guerra mondiale suscitò un violento dibattito sul-

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l’intervento dell’Italia, l’«Avanti!» si attenne alla posizione neutralista adottata dal Partito Socialista; ma gli articoli di Mussolini mostravano un crescente disorientamento, accentuato dalla conversione all’interventismo di numerosi anarchici e dei più noti esponenti del sindacalismo rivoluzionario. E se era prevedibile l’atteggiamento di Arturo Labriola, di Olivetti e Orano, già a suo tempo favorevoli all’impresa libica, destò, invece, impressione la scelta interventista di Corridoni e De Ambris, leaders dell’organizzazione anarco-sindacalista legati al movimento operaio; rappresentanti di quelle élites su cui Mussolini contava per la realizzazione del “fatto rivoluzionario” al quale le masse proletarie avrebbero dovuto adeguarsi. In una lettera a Leda Rafanelli, il direttore dell’«Avanti!» confessò di essere scoraggiato perché si sentiva isolato dal suo ambiente politico e culturale (“È un contagio che non risparmia nessuno – scriveva – non ho in tutta Milano, oserei dire in tutta Italia, due persone con le quali possa avere dimestichezza”) Infatti, Papini e Prezzolini inneggiavano alla guerra, Salvemini, su «l’Unità», gli ricordava che non poteva auspicare la lotta violenta nei conflitti sociali e non in quelli internazionali: dalle colonne di «Utopia», Panunzio lo esortava ad uscire dalla neutralità per aprire le porte ad una prospettiva rivoluzionaria; intanto, i dirigenti dell’Usi, l’unione anarcosindacalista, avevano seguito De Ambris e Corridoni. Mussolini si sentì sempre più solo. Anche il fedele Valera, che lo aveva sempre fiancheggiato con il suo giornale, «La Folla», aveva passato il Rubicone. Ed il proletariato, invece, gli appariva “sordo, confuso e lontano”. Il direttore dell’«Avanti!» rivelò, così, una crescente insofferenza per la “passività ”del neutralismo socialista.

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Ben presto, questo stato d’animo, che trapelava nei suoi articoli e in conversazioni private, divenne “il segreto di Pulcinella” come dichiarò Libero Tancredi (Massimo Rocca) che, attraverso una lettera aperta sul «Resto del Carlino» s’incaricò di smascherare Amleto-Mussolini. Quest’ultimo replicò, con evidente imbarazzo, che la guerra era ormai una questione da esaminare “da un punto di vista nazionale”. A questo punto, piovvero gli attacchi da parte socialista ma anche gli appelli degli anarco-sindacalisti a saltare il fosso. Non ce n’era più bisogno: la parabola socialista di Mussolini si era conclusa. Con un articolo intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante abbandonò la linea del partito. Temendo di giungere in ritardo all’appuntamento con la Storia (un analogo stato d’animo lo avrebbe indotto, nel 1940, a gettare l’Italia nel secondo conflitto mondiale) “saltò il fosso” e respinse ogni possibilità di compromesso con la direzione socialista. Immediata conseguenza furono le dimissioni dall’ «Avanti!». Incontrandosi con varie sezioni socialiste dichiarò: “la mia fede è immutata”. Ma un mese dopo uscì «Il Popolo d’Italia» e Mussolini scese in campo con gli interventisti Di conseguenza, il 24 novembre un’affollata e tumultuosa assemblea della sezione milanese lo espulse dal PSI. Uscendo di scena dichiarò: “sono e rimarrò un socialista”. In realtà non lo era più fin dai giorni della settimana rossa, quando si era appellato alle minoranze audaci affinché si sostituissero alle masse e provocassero un imprecisato evento rivoluzionario. Il PSI non comprese le radici profonde di questa scelta; accese una polemica di basso profilo sulle fonti di finan-

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ziamento del «Popolo d’Italia» insistendo ossessivamente sul Chi paga? e sul desiderio di Mussolini di possedere un giornale, di essere padrone della fabbrica. Mancava, invece, un’analisi politica che avrebbe consentito di comprendere il fenomeno fascista. Infatti, la capriola mussoliniana non fu una mossa sorprendente od opportunistica. Al contrario, rappresentò la prima manifestazione di una nuova concezione ideologica. Lo stesso Mussolini ne aveva offerto in anticipo la chiave interpretativa, quando aveva affermato che l’Italia avrebbe avuto, in qualunque modo, una rivoluzione: un passo che De Felice ha sottovalutato nella sua analisi dell’ideologia mussoliniana e ciò lo ha portato a dichiarare che il futuro Duce restò socialista fino alla svolta di Caporetto. In realtà, già nel 1915, la posizione di Mussolini oltrepassava la reazione contro il determinismo ed il fatalismo del PSI e denotava l’esaltazione futurista e protofascista dell’azione per l’azione; perciò, la sua scelta si orientò sui gruppi sociali che gli sembravano svolgere un ruolo attivo sulla scena italiana: la borghesia interventista nel 1914, gli agrari e industriali nel 1921, dopo l’occupazione delle fabbriche.

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CAPITOLO 7

Femme fatale

Danzatrice, avventuriera, millantatrice, spia, cortigiana o ingenua raggirata? Nella vicenda di Mata Hari, il cui nome è divenuto sinonimo del mix tra mistero e seduzione, la strategia di comunicazione ha operato su più versanti. Il successo come danzatrice fu il frutto di un’immagine costruita “a tavolino”, per nobilitare lo streap-tease attraverso il fascino dell’Oriente. Ma anche la condanna di Mata Hari per spionaggio fu influenzata da esigenze di comunicazione: in una guerra che esigeva altissimi sacrifici di vite umane, attribuire gli insuccessi a spie che tramavano nell’ombra, dimostrare che i traditori venivano scoperti e puniti senza alcun riguardo per personaggi famosi, serviva a tenere alto il morale delle truppe (e ad assolvere le gerarchie militari accusate d’inettitudine). Eppure, la spia per antonomasia che, sul grande schermo, è stata mirabilmente impersonata da Greta Garbo (1931) e da Jeanne Moreau (1970) e che nell’immaginario collettivo ha il fascino della dark lady, capace di tenere in scacco i servizi segreti di mezzo mondo, fu, con tutta probabilità, un’ingenua usata dai tedeschi per depistare il nemico dai veri agenti. Ed è possibile che anche i francesi, per non ammettere di essere stati beffati, abbiano fatto della cortigiana – ormai additata come perfida avventu-

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riera – un capro espiatorio, nei giorni in cui la Caporetto francese allo Chemin des dames provocava ammutinamenti nell’esercito. Le disavventure di Marguérite Zelle, in arte Mata-Hari, iniziarono con il rapido declino del suo successo artistico. Era divenuta celebre come inventrice della danza sacra “indù”: una messinscena che sfruttava la passione per l’esotismo e faceva della danza erotica un’espressione del misticismo orientale. Per accrescere l’alone di mistero affermava di aver appreso, in India, rituali di sette segrete ove la danza univa l’ascesi a riti sanguinari (il nome prescelto, Mata Hari, in lingua malese significa Occhio del giorno, quasi una premonizione della futura attività spionistica). Un insieme kitsch che non sarebbe sopravvissuto alla belle époque. Dopo cinque anni di successi nei quali si era esibita nei locali più alla moda della ville lumière e aveva posato per la pubblicità dei più svariati prodotti, dalle sigarette ai biscotti, la danzatrice non ottenne più scritture di rilievo. Avendo dilapidato somme enormi, per mantenere il proprio tenore di vita sfruttò il fascino della donna famosa e le amicizie influenti. Si trovava in Germania quando la guerra mise fine alla vita di società. Espulsa in quanto filofrancese, tornò a L’Aja, poi cercò di raggiungere Parigi via mare ma il percorso includeva un approdo in Gran Bretagna. Gli inglesi, senza spiegazioni, le negarono il visto. Probabilmente la consideravano sospetta perché in Germania aveva frequentato diversi alti ufficiali. Questo episodio avrebbe dovuto metterla in guardia. Tanto più che a Parigi si accorse di essere pedinata. I francesi, allertati da Londra, la tenevano sotto controllo costante. In tali condizioni, qualsiasi spia avrebbe interrotto la propria attività.

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Mata Hari pensava, però, che la sua celebrità la ponesse al di sopra di ogni sospetto. Alloggiava al Grand Hotel e frequentava i ristoranti alla moda in compagnia di occasionali amanti. Poi s’innamorò di un ufficiale russo, poco più che ventenne, il tenente Maslov. Era una donna di quarant’anni ma aveva un nome celebre, carico di suggestioni. Per l’epoca era particolarmente alta (m 1,77) e ciò le conferiva un aspetto statuario. Il suo fascino era leggendario; si diceva che nessun uomo fosse riuscito a resisterle. Ma era, sopratutto, la sex symbol che avvertiva il peso dell’età e cercava di sentirsi ancora irresistibile. Proprio questa relazione innescò alcune circostanze destinate a divenire fatali. Quando Maslov fu ferito al fronte, Mata Hari volle assolutamente andare a trovarlo a Vittel, in zona di guerra; ma, per ottenere il permesso, dichiarò di volersi recare alle terme: un motivo che appariva facilmente un pretesto. E poiché il visto le fu negato, mise in moto alcuni amici, i quali la “raccomandarono” a Ladoux, un ufficiale del controspionaggio. Ladoux le disse brutalmente che la sospettava di essere una spia tedesca; ma quando la donna protestò i suoi sentimenti filofrancesi, mutò tattica e le chiese di utilizzare a favore dell’Intesa le amicizie altolocate che aveva in Germania; poi le concesse il permesso per Vittel. A metà ottobre, trovandosi in ristrettezze economiche perché Masolv le domandava somme sempre più forti, che perdeva regolarmente al gioco, Mata Hari decise di accettare la proposta di Ladoux. Promise di ottenere informazioni di vitale importanza e chiese un milione di franchi, una cifra che le avrebbe assicurato una rendita considerevole. Per raggiungere l’obiettivo avrebbe sedotto alcuni alti ufficiali tedeschi e fantasticò addirittura di avvicinare

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il figlio del Kaiser, che aveva conosciuto prima della guerra. Ladoux acconsentì ma al processo avrebbe affermato di aver finto d’ingaggiarla solo per scoprire i suoi intrighi. Nei giorni successivi Mata Hari chiese un anticipo per comprare vestiti e cosmetici necessari alla sua opera di seduzione. Poi, il 5 dicembre, si recò in Spagna, paese che era divenuto un crocevia dello spionaggio internazionale. Alloggiò al Ritz di Madrid e divenne l’amante del maggiore von Kalle, addetto militare dell’ambasciata tedesca ma si lasciò corteggiare anche dal colonnello Denvignes, capo della rete francese in Spagna; intanto, anche agenti russi cercavano d’ingaggiarla. L’ex ballerina assaporò il gusto di essere di nuovo al centro dell’attenzione e cercò, forse, di giocare la carta rischiosa della spia doppiogiochista. O s’inebriò all’idea di una partita che aveva per posta i destini del mondo Von Kalle le parlò di un’operazione segreta in Marocco: agenti tedeschi sarebbero sbarcati da un sommergibile per fomentare la rivolta antifrancese. Era una notizia risaputa ma alla donna apparve di notevole rilievo. Per ottenere la fiducia del suo amante gli aveva, a sua volta, riferito voci di una difficile situazione politica in Francia; in particolare, dell’ostilità della popolazione per la crescente ingerenza inglese e delle trame di una principessa francese per far salire il marito sul trono di Atene. Si trattava di notizie di pubblico dominio o di semplici pettegolezzi ma, nel corso dell’inchiesta le presunte “rivelazioni” sarebbero state usate contro di lei. Per ironia della sorte, nello stesso albergo, un altro ufficiale tedesco, il colonnello Von Khron, divenne l’amante di Marthe Richard, un’agente francese che ebbe un destino parallelo ma di segno opposto a quello di Mata

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Hari (dopo la guerra fu insignita della Legion d’Onore ed entrò in Parlamento). Inoltre, in questa guerra di spie al femminile, i tedeschi avevano assoldato Fraulein Doktor, la donna che si procurò una lista degli agenti francesi nei paesi neutrali. Nei giorni successivi, Kalle forzò il gioco. Finse di arrabbiarsi per la fuga di notizie sul sommergibile e quando Mata Hari chiese come facesse a saperlo, rispose che possedeva il codice radiotelegrafico francese. Se la notizia fosse stata vera, Kalle avrebbe commesso un’imprudenza inaudita, rivelando che i tedeschi potevano leggere i messaggi cifrati francesi. Evidentemente, si trattava di un’esca, tanto più che l’ira del maggiore sbollì fin troppo facilmente. Fra le braccia dell’amante, aggiunse en passant un’altra “imprudente” notizia dicendole che stava per andare a Barcellona dove si trovava la Centrale spagnola dei servizi segreti tedeschi. Nei giorni successivi, Mata Hari, che riteneva di aver fatto l’en plein, trasmise le notizie a Ladoux, poi raggranellò i fondi per tornare a Parigi concedendosi a due politici spagnoli. Arrivata nella capitale francese il 4 gennaio 1917, cercò subito Ladoux che la rimproverò di aver fornito solo informazioni senza valore. Mortificata e senza l’atteso compenso, per sopravvivere ricorse ad un suo ex amante, il barone olandese Van der Capellen. Ottenuti 5000 franchi, tentò di recarsi in Belgio per portare a segno il suo “colpo sensazionale”: sedurre il Comandante tedesco della piazza di Bruxelles e ottenerne informazioni importanti. Nel frattempo si verificò un altro evento decisivo. Fin da dicembre, quando Mata Hari era ancora a Madrid, la stazione radio della torre Eiffel aveva intercettato messaggi

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tedeschi nei quali la centrale spagnola riferiva le informazioni fornite dall’agente H21: una principessa stava sfruttando la relazione intima con Briand per porre il marito sul trono di Atene, il governo appariva molto debole e la Gran Bretagna controllava politicamente la Francia. Erano le stesse notizie che Mata Hari aveva fornito a Kalle ma ciò che fece sobbalzare Ladoux fu la matricola H21: significava che non si trattava di un informatore occasionale, bensì di una spia reclutata dai tedeschi. Alcuni giorni dopo, Berlino ordinò di dare a H21 3000 franchi e si lamentò del fatto che l’agente non volesse usare l’inchiostro simpatico. Kalle rispose di aver consegnato la somma e che ulteriori compensi sarebbero stati pagati tramite il console olandese a Parigi. Il 5 gennaio, infine, Berlino chiese precisazioni sulla questione della principessa greca. Non poteva passare inosservato il fatto che l’agente tedesco usasse un vecchio codice che sapeva decifrato dai francesi; evidentemente si voleva compromettere Mata Hari. Ma perché la Germania intendeva bruciare la propria spia? Per capirlo – pensarono i servizi francesi – bisognava forzare il gioco. Così, il 13 febbraio, il giudice istruttore Bouchardon ordinò l’arresto di Mata Hari. Interrogata dal magistrato, la danzatrice rivelò di essere al servizio della Francia e ritenne di aver chiarito l’“equivoco”. Restò sbigottita quando apprese che sarebbe stata rinchiusa nella prigione di Saint Lazare. Dopo alcuni giorni d’isolamento, la donna fu trasferita in una cella comune, nella peggiore ala del carcere, il famigerato serraglio, dove restò in attesa dell’interrogatorio che avvenne solo dopo alcune settimane. Le domande verte-

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vano su indizi vaghi, soprattutto sui 5000 franchi ricevuti dal console tedesco di Amsterdam: invano la prigioniera affermò che si trattava di denaro inviatole dal barone Van der Capellen. Dopo un mese di prigione, Mata Hari, che aveva chiesto invano biancheria e abiti pesanti, che tremava di freddo ed era prostrata, rinnovò, senza esito, la richiesta di libertà provvisoria o, almeno, di ricovero in ospedale. Peraltro, l’inchiesta non procedeva: anche un misterioso flacone contenente ossicianuro di mercurio, una sostanza che avrebbe potuto trasformarsi in inchiostro simpatico, si rivelò un semplice spermicida. Ma il 6 marzo 1917 venne intercettato un nuovo messaggio di Berlino – l’unico trasmesso con il vecchio codice – che chiedeva a Madrid notizie dell’agente H21, ottenendo la risposta che era partita per Parigi. Il giudice istruttore aveva ricevuto solo la copia “in chiaro” di tutti i radiomessaggi e non poteva capire che erano stati trasmessi con il vecchio codice. Né trovò strano che – se la spia H21 era davvero Mata Hari – i tedeschi non sapessero ancora dell’arresto di un personaggio così noto. Il 21 maggio, dopo tre mesi di reclusione, la prigioniera, ormai distrutta, chiese un nuovo interrogatorio per dire “tutta la verità”. Rivelò che nel maggio 1916 si era presentato a casa sua, in Olanda, il console tedesco di Amsterdam, Kremer. Aveva parlato di Parigi, di come l’arroganza degli inglesi fosse mal tollerata dai francesi; poi le aveva offerto 20.000 franchi per andare in Francia a raccogliere informazioni per la Germania Mata Hari aveva pensato di prendere quei soldi per ripagarsi del danno subito dai tedeschi che, nel 1915, quando, l’avevano espulsa sequestrandole i bagagli che

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contenevano costose pellicce. Perciò aveva finto di accettare l’incarico. Insieme al denaro, il console le aveva consegnato tre flaconi d’inchiostro invisibile e la sigla H21. L’accusata sostenne di aver taciuto tutto questo a Ladoux perché intendeva giocare la possibilità d’infiltrarsi nella rete tedesca con un coup de theatre a vantaggio della Francia. Così, aveva intascato i 20.000 franchi e non si era più fatta viva con Kremer. Questa “truffa” spiegherebbe, in effetti, perché i servizi tedeschi avessero deciso di punirla. Ma al giudice istruttore la rivelazione apparve, viceversa, la prova del tradimento. Infatti, quella che appariva alla danzatrice una cifra modesta (dato il suo solito tenore di vita che comprendeva una suite al Grand Hotel) erano una grossa somma e non si ritenne plausibile che i tedeschi l’avessero sborsata senza avere avuto in cambio alcun servizio; perciò questa divenne la prova definitiva che l’accusata aveva fornito al nemico informazioni di rilievo. Di conseguenza, l’intero racconto di Mata Hari fu letto al rovescio: la relazione con il colonnello Kalle non serviva ad estorcergli informazioni ma a fornirgliele. Invano Mata Hari, pur non conoscendo la questione del doppio codice segreto, replicò che tutta la vicenda era una vendetta dei servizi tedeschi per averli ingannati, intuendo che forse trasmettevano solo ciò che volevano far sapere ai francesi. La danzatrice era arrivata a sospettare l’inganno oppure sapeva già che il codice era stato decrittato e che i tedeschi intendevano bruciare la “loro” spia? Era stata un’ingenua o era particolarmente astuta? Prevalse quest’ultima ipotesi. Nel corso di un nuovo interrogatorio, che si tenne il 12 giugno, il giudice ribadì che una somma così elevata non

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poteva essere stata pagata senza contropartita. Insomma, la spontanea rivelazione fatta per spiegare perché le fosse stata tesa una trappola, divenne, in mano agli inquirenti, un’arma formidabile che, saldata ai dispacci intercettati dalla torre Eiffel, costruiva uno scenario coerente. Restava l’inconsistenza dell’oggetto, ovvero delle informazioni, che erano prive di ogni valore strategico, ma il rapporto con il nemico era già motivo sufficiente per una condanna. Certamente, alla luce della “strana” confessione di Mata Hari, tutta la vicenda può essere diversamente interpretata. Se era stata davvero reclutata dai servizi segreti tedeschi fin dal 1915, allora il soggiorno a Vittel avrebbe potuto davvero nascondere intenti spionistici e l’idillio con Maslov sarebbe stato solo un’utile copertura. Anche l’incontro con Ladoux potrebbe avere una diversa chiave di lettura: non la vanitosa dilettante ma la spia audace che gioca su due tavoli per ottenere informazioni da entrambe le parti, in attesa di mettere a segno il grosso colpo che l’avrebbe resa ricca. In questo modo si capirebbe anche perché, accortasi del pedinamento, non avesse chiesto spiegazioni alle autorità, come farebbe qualsiasi comune cittadino. Se si ammettesse che la donna non aveva affatto truffato i tedeschi di 20.000 franchi ma lavorava davvero per loro, si spiegherebbe perché il denaro, che Mata Hari asseriva provenire da un suo ex amante, Van der Capellen, le fosse inviato a Parigi tramite il console tedesco di Amsterdam. Ed i soldi avuti da Kalle non sarebbero stati il corrispettivo di notti d’amore ma compensi autorizzati dai radiomessaggi di Berlino. Resta, però, la questione dell’uso di un codice decrittato. Perché i tedeschi avrebbero voluto “bruciare” una propria agente? È senz’altro il maggiore indizio a favore dell’inno-

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cenza di Mata Hari; ma una spiegazione potrebbe anche risiedere nell’intenzione di disfarsi di una doppiogiochista di poco conto per coprire altre e più importanti fonti d’informazione o, addirittura, per stanare i francesi che, se avessero svelato la trappola, avrebbero ammesso di aver decrittato il codice. Conoscere o tenere celata un’avvenuta decrittazione è d’importanza capitale e questo potrebbe addirittura spiegare perché i servizi segreti francesi evitarono di menzionare nell’inchiesta la “strana” vicenda del doppio codice: se avessero ammesso di poterlo leggere, la loro scoperta avrebbe perso ogni valore. Forse conosceremo la verità nel 2017 quando si potranno consultare i documenti riservati dell’inchiesta, coperti da segreto militare per 100 anni. Ciò permetterà di appurare se oggetto della presunta attività spionistica erano solo le inconsistenti informazioni citate dalle intercettazioni radiotelegrafiche o se ve ne fossero altre tenute segrete proprio per non sottolinearne l’importanza. Per il momento si può constatare che entrambi gli scenari sono plausibili e che oggi ciò basterebbe ad una giuria per parlare di ragionevole dubbio. Ma questa formula, nel 1917, era fuori luogo. La Francia, duramente provata dalla difesa di Verdun era un paese esausto; il generale Nivelle tentava di risvegliarne le energie con un’offensiva che cercava di dare al nemico la spallata decisiva. Nel momento in cui si chiedeva alle truppe il massimo sforzo, si pensò che anche sul fronte interno non era il momento di mostrare cedimenti L’offensiva scattò il 6 aprile ma si concluse in un bagno di sangue. I fanti francesi attaccarono frontalmente le salde difese tedesche e furono falciati dalle mitragliatrici.

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In pochi giorni si contarono centinaia di migliaia di morti. Per Nivelle venne coniato l’appellativo di beveur de sang. A maggio, dopo un nuovo, inutile massacro, molti reparti si ammutinarono e si temé una sollevazione generale che avrebbe significato la resa della Francia. Si adottarono provvedimenti eccezionali con centinaia di condanne a morte per gli ammutinati. Non era il momento di avere troppi riguardi per una spia e tanto meglio se si poteva dimostrare che le disfatte erano imputabili ai traditori che vendevano la Francia ad un’avventuriera che si portava a letto i generali per ottenere notizie che erano costate la vita a migliaia di giovani. La seduzione, una prerogativa squisitamente femminile, appariva un’arma subdola, che colpiva l’immaginario collettivo. Il processo, celebrato da un tribunale militare, e i cui atti sono ancora coperti da segreto, suscitò ampio clamore sulla stampa ma non portò elementi di novità rispetto all’inchiesta. La conclusione fu rapida. Dopo appena quaranta minuti di camera di consiglio i giurati ritennero che l’imputata avesse fornito al nemico informazioni vitali per le operazioni belliche. La condanna alla pena capitale era l’unica possibile nel momento in cui si fucilavano senza troppi riguardi i soldati che fuggivano dalla carneficina del fronte. L’Appello fu respinto nello spazio di due mesi. Alle quattro del mattino del 15 ottobre, passi cadenzati si avvicinarono alla cella di Mata Hari. Una prescrizione carceraria imponeva che i condannati non conoscessero il giorno dell’esecuzione. Fu comunicato alla donna, intorpidita dai sedativi, che la domanda di grazia era stata respinta. Marguerite indossò in silenzio uno dei suoi abiti più eleganti, senza trascurare le calze di

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seta e un ampio cappello. Arrivata nel cortile del tetro Castello di Vincennes, salutò affettuosamente le suore che l’avevano assistita negli ultimi giorni e a testa alta affrontò il plotone d’esecuzione dopo aver rifiutato di essere bendata. Morì con una dignità che impressionò tutti i presenti. Le se ultime parole, con un tono di fatalistica rassegnazione furono: “non è possibile!” Altri testimoni hanno riportato che restò padrona di sé, sprezzante del pericolo. Si è detto anche che avesse gettato un bacio al plotone d’esecuzione, ma sembrano tutte versioni inverosimili, appropriate alla leggenda della dark lady. Quattro giorni dopo, Ladoux fu a sua volta arrestato con l’accusa di spionaggio a favore della Germania. Il processo fu celebrato dopo la guerra e prosciolse l’imputato da ogni addebito. Ma se l’arresto del principale accusatore di Mata Hari fosse avvenuto prima, sarebbe stato un motivo sufficiente per una revisione del processo. Resta ancora oggi l’interrogativo se Mata Hari sia stata una dilettante caduta in trappola o se davvero avesse intrapreso la difficile via della spia doppiogiochista. Il carattere superficiale, portato alle vanterie, incapace di accorgersi del temporale che si addensava sulla sua testa, fanno propendere per la prima ipotesi. Ancora una volta, l’ambizione di essere la prima sulla scena le aveva giocato un brutto colpo. In ogni modo, quasi per un beffardo “risarcimento” è ricordata come la regina delle spie. La sua leggenda mischia il fascino dell’esotismo della danzatrice sacra all’astuzia della mantide che seduceva le proprie vittime e strappava loro segreti militari per rivenderli a peso d’oro alle potenze belligeranti. Nella sua vicenda pesò il fatto che nell’immaginario collettivo

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avesse le phisique du role dell’agente segreto al femminile. E chi avrebbe saputo interpretarlo meglio di Mata Hari, che aveva fondato il suo personaggio sul mistero, che aveva fantasticato di sette indù, di riti sanguinari, di avventure esotiche, che era maestra di seduzione e faceva cadere tutti gli uomini ai suoi piedi?

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CAPITOLO 8

Prove di colpo di stato

Il 1923 fu un anno molto difficile per la Germania: schiacciata dal peso delle riparazioni di guerra chiese una proroga dei pagamenti, ma Francia e Belgio risposero con l’occupazione del bacino minerario della Rhur. L’inflazione tornò a livelli vertiginosi e le merci scomparvero dai negozi. L’invito del governo alla resistenza passiva contro l’occupazione provocò, tuttavia, un soprassalto di patriottismo e unì tutte le forze politiche, ad eccezione del piccolo Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler che, a sorpresa, si dissociò dalle manifestazioni antifrancesi affermando che i veri nemici della Germania non erano a Parigi ma a Berlino. Infatti, il governo di Gustav Stresemann, dopo aver usato il pugno di ferro contro le insurrezioni comuniste in Turingia e Sassonia, aveva promesso altrettanta durezza contro l’estremismo di destra. La Baviera, spostata più a destra rispetto al governo federale, accentuò le posizioni nazionaliste. Il potere fu assunto da un triumvirato guidato da Gustav von Kahr (un monarchico che intendeva restaurare la dinastia dei Wittelsbach), affiancato dal generale Otto von Lossow e dal capo della polizia Seisser. I tre commissari parlavano apertamente di rovesciare il governo federale e non escludevano la collaborazione dei

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nazisti, iniziata quando von Lossow aveva consentito che le SA (sturmabteilungen, ovvero Reparti d’assalto) fossero addestrate nelle caserme in funzione anticomunista. Quando Stresemann chiese alla Baviera di chiudere il giornale nazista Volkischer Beobachter, Hitler esortò a marciare su Berlino prima che Berlino marciasse su Monaco ma garantì che le SA sarebbero sempre state a fianco dell’esercito e della polizia locale. “Sarei un idiota – dichiarò – se tentassi qualcosa contro di loro”. Poi aggiunse che in Germania c’erano alberi sufficienti per impiccare tutti i democratici e i socialisti. Ma quest’ultimo passaggio era troppo anche per il triumvirato che prese le distanze e minacciò di ricorrere alla forza per fermare i nazisti. Hitler si trovò in un vicolo cieco ed il tempo giocava contro di lui. Se Stresemann fosse riuscito a ridare tranquillità al Paese, il nazismo avrebbe avuto i giorni contati. Inoltre, Hermann Göring ed Ernst Röhm lo avvertirono che non sarebbero riusciti a tenere a freno ancora a lungo i propri uomini. Il Führer decise, allora, di passare all’azione: si sarebbe impadronito di Monaco l’11 settembre, anniversario del vituperato armistizio. In occasione dell’esercitazione militare prevista per quella data, le formazioni d’assalto sarebbero entrate in città e avrebbero proclamato lo stato d’emergenza, per costringere von Khar ad agire contro Berlino. Ma poi giunse la notizia che la sera dell’8 i tre Commissari avrebbero tenuto un discorso ai notabili bavaresi nella birreria Burgerbraukeller. Perché? Forse volevano precederlo annunciando la secessione della Baviera dal Reich? Hitler decise che doveva assumere l’iniziativa per

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non essere scavalcato. Tra l’altro, l’occasione gli parve particolarmente propizia perché, se avesse convinto i triumviri a seguirlo nella secessione, avrebbe evitato i rischi di una prova di forza. Così, all’inizio della serata, irruppe nella sala alla testa delle sue guardie del corpo e sparò un colpo in aria. Poi salì sul podio e gridò che la rivoluzione nazionale era cominciata, che l’edificio era circondato dai suoi uomini in assetto di guerra, che l’esercito e la polizia marciavano sotto le bandiere della svastica. Sempre brandendo la pistola, si appartò con i tre Commissari che le SA avevano rinchiuso in una saletta attigua. Von Khar rivolto a Seisser esclamò: “In che bel pasticcio ci ha cacciati la sua polizia?” ma von Lossow, aggiustandosi il monocolo sussurrò ai colleghi “manteniamo la calma e recitiamo la commedia”. Dalla saletta non giungevano notizie e il pubblico dette crescenti segni di nervosismo. Molti cominciarono a protestare di essere tenuti prigionieri. Goring, rispose: “Non ce l’abbiamo con voi ma con quelli sciagurati ebrei del Governo berlinese” ma faticava a mantenere l’ordine. Intanto, le trattative sembravano senza esito. Hitler sollecitò i triumviri a mettersi al suo fianco per contribuire al successo del nazionalsocialismo e offrì loro posti-chiave nel nuovo Governo (von Khar reggente della Baviera, von Lossow ministro della Guerra del Reich e Seisser ministro di Polizia) “ In caso contrario” – esclamò – “ho quattro colpi in canna, per me e per voi”. Poiché in sala la protesta cresceva e le SA non riuscivano a contenerla, Hitler tornò sul podio e tutti ammutolirono, specie quando annunciò la formazione di un governo provvisorio in cui il nuovo Comandante dell’eser-

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cito era il generale Ludendorff, l’eroe nazionale che durante la guerra mondiale aveva battuto i russi a Tannenberg e ai Laghi Masuri. Adesso avrebbero marciato su Berlino, la “Babele peccaminosa”. La forza di suggestione del Führer nazista e la sua capacità di bluff suscitarono l’entusiasmo dell’assemblea: rientrò, quindi, nella saletta per “dimostrare” ai suoi recalcitranti interlocutori quali fossero le attese della gente. In quel momento fece il suo ingresso Ludendorff. Chiamato dai suoi seguaci, il generale, che era all’oscuro di tutto, non voleva essere scavalcato da Hitler né restare fuori dal gioco. Von Lossow e Seisser scattarono sull’attenti e si misero ai suoi ordini. Allora anche von Khar cedette e i cinque salirono sul podio accolti dall’applauso dei presenti. Hitler era entusiasta. Ludendorff pronunciò un breve discorso affermando che tutti loro avrebbero lavorato per un grande compito: “liberare la Germania dalla miseria e dalla vergogna” I triumviri ne approfittarono per eclissarsi; con il pretesto di andare a verificare la situazione dell’ordine pubblico, si rifugiarono in una caserma mentre le SA assalivano le abitazioni degli avversari politici e la sede del giornale socialista. Intanto, Hilter si era ritirato a scrivere un proclama per mettere fuori legge “i traditori del 1918” e per istituire un tribunale che avrebbe giudicato “i crimini di Weimar”. Poi diramò farneticanti istruzioni alle SA per marciare su Berlino. Ma già all’alba von Khar aveva ripreso il controllo della situazione, tanto più che, durante la notte, gli ufficiali dell’esercito avevano intimato al loro comandante von Lossow di ritrattare l’accordo con Hitler. Così, sui muri di Monaco apparve un manifesto con cui i triumviri si disso-

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ciavano dal putsch nazista. Il testo era perentorio: l’inganno e la perfidia di camerati ambiziosi avevano trasformato una serata patriottica in un atto di violenza. Si precisava che le dichiarazioni estorte nella birreria non avevano alcun valore. Seguiva l’ordine d’immediato scioglimento del Partito nazista e delle SA. I nazisti, che si apprestavano davvero a marciare su Berlino, avevano rinunciato a presidiare i punti chiave della città; ma poiché non riusciva a trovare i tre Commissari, Hitler capì che qualcosa non andava. Ne fu certo quando seppe che Wilhelm Frick, il suo emissario nella polizia, era stato arrestato. Giunse però Röhm per comunicargli che l’opinione pubblica era con loro e che in molti palazzi sventolavano le bandiere naziste: bisognava organizzare una grande manifestazione popolare e assumere il controllo della città. Hitler riprese fiducia ma era indeciso: aveva progettato un colpo di stato in collaborazione con le forze dell’ordine e non intendeva giungere ad uno scontro armato. Così mandò a cercare il principe Rupprecht, pretendente al trono di Baviera, perché facesse da mediatore con von Khar. Ma Ludendorff ruppe gli indugi gridando alle SA “in marcia!” e a mezzogiorno alcune migliaia di nazisti sfilarono in corteo, con Hitler ormai costretto a giocare la partita decisiva. Un fitto cordone di polizia schierato sul ponte sull’Isaar fu neutralizzato da Göring con la minaccia di uccidere gli ostaggi, ma sulla Odensplatz c’erano altre forze dell’ordine: echeggiò uno sparo e, per alcuni minuti, ci fu un nutrito scambio di colpi. Rimasero sul terreno dodici dimostranti e tre poliziotti, Göring fu ferito e Hitler fuggì senza curarsi dei suoi uomini (più tardi avrebbe dichiarato

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di essersi allontanato per soccorrere un bambino ferito). Salì su un’auto e si rifugiò in casa di amici a 60 km da Monaco dove manifestò l’intenzione di suicidarsi. Due giorni dopo fu arrestato e tradotto nella fortezza di Landsberg. Era convinto di essere destinato alla fucilazione. Quando, invece, seppe che si stava preparando un regolare processo, capì che poteva giocare la carta del martirio e usare l’aula del tribunale come una tribuna. Anzi, con il passare del tempo, si rese conto che il fallimento del putsch poteva essere trasformato in un successo politico e propagandistico. Il processo iniziò il 24 febbraio; tra gli imputati c’era anche Ludendorff e questo fu un altro punto a favore di Hitler che, abilmente, fece leva sul patriottismo. Anziché minimizzare le proprie responsabilità, se ne fece carico ma respinse l’accusa di alto tradimento, sostenendo che non poteva essere rivolta a coloro che avevano cercato di liberare la Germania dai traditori del 1918. Aggiunse che se proprio si voleva insistere sulla tesi dell’alto tradimento, allora non poteva essere circoscritto all’azione del 9 novembre ma doveva essere esteso ai preparativi di marcia su Berlino, agli accordi e alla connivenza con i governanti della Baviera, con i capi dell’esercito e della polizia. Il tribunale gli lasciò pronunciare un’infuocata arringa contro la Repubblica di Weimar mostrando aperta simpatia per gli imputati. Nel corso delle udienze la popolarità del capo nazista crebbe rapidamente, tanto che accorsero giornalisti da tutta la Germania e dall’estero. Nella requisitoria finale, il procuratore generale, invece di limitarsi ad elencare i capi d’accusa, elogiò il patriottismo e le qualità morali di Hitler; rilevò che l’imputato non poteva essere definito un demagogo, che aveva condotto

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un’esistenza privata “immacolata” pur essendo il capo di un partito e che, partendo dal niente, si era conquistato un posto di primo piano nella vita pubblica. Fu, insomma, una requisitoria molto simile ad un’arringa difensiva e che finì per sconfinare nell’apologia: “In nome delle sue idee si è esposto al sacrificio, come soldato ha sempre compiuto il proprio dovere” Un putsch maldestro divenne un’audace impresa patriottica. Inoltre, accollandosi tutta la responsabilità ed evitando ai giudici l’imbarazzo di dover condannare Ludendorff, Hitler si guadagnò la loro riconoscenza e recuperò il ruolo di capo incontrastato del movimento nazista. Scomparve il ricordo della sua fuga, comparve quello del capo eroico e generoso che aveva dedicato la sua vita a combattere i “traditori” della patria. Così, nel suo discorso conclusivo, Hitler poté dichiarare che l’impresa dell’8 novembre non era affatto fallita. “Il movimento che noi abbiamo creato” – dichiarò – “cresce rapidamente, di giorno in giorno, di ora in ora” e manifestò “l’incrollabile speranza” che queste schiere disorganizzate sarebbero diventate battaglioni, reggimenti, divisioni. Quella sarebbe stata la sentenza di assoluzione del supremo, eterno tribunale, l’unico abilitato a giudicare, e che ogni diverso verdetto della Corte, la storia lo avrebbe fatto a pezzi. A fatica, il presidente del tribunale riuscì a strappare agli altri giudici una sentenza di condanna; ma la Corte optò per il minimo della pena (sei anni) e raccomandò che all’imputato fosse concessa quanto prima la libertà provvisoria. Nella prigione di Landsberg, Hitler fu trattato con il massimo riguardo: una cella confortevole, da dove entrava e usciva quando voleva. Durante la giornata faceva lunghe

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passeggiate nel parco o si riuniva con gli altri capi nazisti detenuti, riceveva continuamente visite e una montagna di lettere A pranzo e a cena si univa agli altri detenuti che lo attendevano rispettosamente in piedi finché non raggiungeva il suo posto, a capotavola, sotto una bandiera con la svastica. Con il passare del tempo s’immedesimò sempre più nella parte del profeta-martire da immergersi nella lettura di Nietzsche, Marx, Darwin, Chamberlain, Schopenauer, senza trascurare l‘astrologia e l’occultismo. Terminate le letture, convocò il fedele Rudolf Hess e gli dettò un libro che intitolò “Quattro anni e mezzo di lotte contro le menzogne, la stupidità e la vigliaccheria”; un titolo che l’editore semplificò in La mia battaglia (Mein Kampf) e che costituì la summa dell’ideologia nazista: dalla volontà di potenza allo spazio vitale, dall’antisemitismo alla teoria del complotto contro la Germania. L’8 novembre 1923 avrebbe potuto segnare la fine del nazismo ma l’atteggiamento indulgente delle autorità e le connivenze nella magistratura consentirono che proprio dal putsch di Monaco si determinasse un salto di qualità: da movimento di ambito regionale il Partito nazista divenne punto d’attrazione dell’intero estremismo di destra. L’alone del martirio e lo spostamento della proposta politica su un orizzonte così vasto, conferirono ad Hitler il ruolo di capo carismatico sottratto alle normali regole della leadership politica.

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CAPITOLO 9

Il sole nero di Hiroshima

… E allora, tu grida forte: la vita contro la morte (R. Vecchioni, Figlia)

“Non assomigliava ad un essere umano, era qualcosa di mostruoso. Ogni parte del suo corpo era annerita… il viso grottescamente gonfio. Gli occhi sporgevano in modo orribile. Non aveva il naso né i capelli. La bocca rimaneva spalancata come un immenso buco e le labbra nere occupavano quasi metà del viso” Sembra un film horror, un incubo tratto da un racconto di fantascienza: invece è la scena cui assisté ad Hiroshima il dottor Shuntaro Hilda, quindici minuti dopo l’esplosione e che è riportata dallo scrittore e regista Stephen Walker nel libro Appuntamento ad Hiroshima. Un contributo ancor più significativo, dato che nella sterminata bibliografia e nell’altrettanto imponente produzione cinematografica e televisiva sulla seconda guerra mondiale, la distruzione di Hiroshima e Nagasaki ha un rilievo decisamente modesto: è il dark side dell’Occidente che, sebbene non ignorato, viene psicologicamente rimosso. Anche la Tv, che è sempre ansiosa di utilizzare gli anniversari per accrescere l’attenzione degli spettatori, nella ricorrenza dei 50 e dei 60 anni, si è limitata a trattare l’ar-

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gomento in trasmissioni specializzate. Nei programmi generalisti e nei Tg ci si è soffermati ad una notizia con immagini di circostanza, fredde, distaccate, senza il soprassalto emotivo che distingue altri tragici eventi del passato. Ancora più grave la carenza del cinema. Ad esclusione del delicato film francese Hiroshima mon amour, non c’è mai stata una storia di stampo hollywoodiano, a tinte forti, con emozioni intense come nei vari remake di Pearl Harbour e dello sbarco in Normandia. Forse è meglio così, perché è stata evitata una spettacolarizzazione dell’evento, ma è l’ennesima riprova che i media, come la storiografia, sono fisiologicamente dalla parte dei vincitori. Tra l’altro, si è soliti, ancora oggi, “giustificare” l’evento affermando che servì a porre fine al conflitto e risparmiò un milione di vite umane perché tante ne avrebbe richieste l’invasione del Giappone (Truman, in realtà, aveva parlato di un quarto di milione ma, si sa, con il tempo… tutto cresce). Certo, è un’argomentazione formalmente ineccepibile. In ogni epoca si è sostenuto che si deve sacrificare il plotone per salvare il reggimento, figuriamoci quando si tratta di un “plotone” di nemici. Ed è un ragionamento fondato sulla premessa che il Giappone non avrebbe mai accettato una resa incondizionata. Si dice che la storia non si fa con i se e con i ma. Invece, talvolta, dovremmo farlo. Si sarebbe potuto raggiungere un armistizio che non fosse una resa incondizionata? Circondato dalla marina americana a sud, dall’Unione Sovietica a nord, isolato dal resto del mondo, dopo la resa della Germania, il regime nipponico avrebbe potuto solo prolungare la sua agonia. Aveva, probabilmente, abbastanza fanatismo per farlo. Ma una cosa è il regime, una cosa la

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popolazione. Forse si poteva indurre il popolo ad imporre al governo una pace negoziata. In ogni caso, si sarebbe dovuto tentare anche l’impossibile, piuttosto che l’orrore venuto dal cielo. Non è, inoltre, da scartare nemmeno la versione che considera il duplice olocausto nucleare un monito rivolto più all’Unione Sovietica che al Giappone. Infatti, mentre il regime nipponico era allo stremo, Stalin premeva alle frontiere con la Cina e gli americani non volevano una seconda cortina di ferro in Asia. Hiroshima e Nagasaki avrebbero mostrato ai russi cosa sarebbe potuto accadere anche alle loro città. Un’ipotesi troppo cinica? Sopratutto inutile, perché Stalin, che già sapeva della nuova arma, non si scompose troppo: tanto più che anche la Russia stava costruendo l’atomica. Speriamo, dunque, che questa interpretazione sia solo una congettura. Sarebbe ancor più terribile che i morti di Hiroshima, quei corpi orrendamente mutilati, siano stati solo misere cavie nel braccio di ferro Usa-Urss. Il 6 agosto 1945, alle ore 8,16 di un bel mattino estivo, il bombardiere Enola Gay sgancia il più potente ordigno mai creato dall’uomo. Esplode a 500 metri da terra e in un’infinitesima frazione di secondo 86.000 persone ardono vive. Altre 72.000 persone subiscono terribili ustioni. In un solo secondo, 6.820 case sono sbriciolate e scagliate in aria dal risucchio di un vuoto d’aria per chilometri d’altezza. È stato osservato: “In questo secondo, l’uomo che Dio aveva creato a propria immagine e somiglianza aveva compiuto, con l’aiuto della scienza, il primo tentativo di annientare se stesso. Il tentativo era riuscito” (K. Bruchner, Il gran sole di Hiroshima).

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Sadako, una bambina di due anni, che giocava nel parco Hijiyama è spazzata via dall’esplosione ma viene ritrovata viva, tra ammassi di corpi, tra persone mutilate, senza volto, braccia, gambe. Dieci anni dopo sembra tornata la felicità: ragazzi e ragazze gareggiano nel parco di Hiroshima, Sadako è raggiante perché ha battuto la maggior parte degli “avversari”. Ma è terribilmente esausta. La “grande folgore” (così è chiamata la bomba atomica) ha colpito ancora. Quel 6 agosto le radiazioni non l’avevano risparmiata. Comincia un calvario. In ospedale, dove lotta contro la leucemia, Sadako costruisce delle gru di carta, simbolo di longevità e di felicità. Una credenza giapponese dice, infatti, che se un ammalato costruisce mille gru di carta, gli dei lo guariranno. Riesce a realizzarne 664 prima di morire. La bambina sapeva bene che si trattava solo di una tradizione ma voleva lanciare verso il futuro una piccola gru di carta, perché divenisse messaggera dell’appello a far sì “che i bambini non dovessero più morire così” Oggi i visitatori del Memorial Park di Hiroshima dove sono ricordati gli orrori dell’atomica, depongono una gru di carta sul monumento dedicato alla piccola Sadako Questa vicenda è ricordata in numerosi libri fra cui i famosissimi Orizuru no kodomotachi (I bambini della gru di carta) di Masamoto Nasu e Il grande sole di Hiroshima di Karl Bruckner che tutti dovremmo leggere, per non dimenticare, mai. Perché attraverso gli occhi dei bambini appare l’accecante follia di un nuovo sole blasfemo il cui bagliore non dà vita ma morte. L’orrore di Hiroshima, ripetuto tre giorni dopo a Nagasaki (quando, di fronte ad un Giappone sbigottito e prostrato, le motivazioni di tipo militare, dirette a “spingerlo alla resa”

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apparivano ancora più labili) ha finora dissuaso il mondo da utilizzare l’arma atomica ha costretto le grandi potenze a mantenere i nervi saldi anche quando il braccio di ferro rischiava di sfociare in un conflitto, come a Cuba nel 1962. Ma oggi, a sessant’anni di distanza, dobbiamo almeno rendere il tributo della chiarezza a vittime troppo dimenticate perché è vero che i bombardamenti di Monaco, di Norimberga, furono egualmente distruttivi ma ad Hiroshima si delinearono scenari fino ad allora inimmaginabili e sospinsero l’umanità, secondo la nota espressione lapiriana, sul crinale apocalittico della storia: un incubo da cui non siamo affatto liberi, visto che il ricatto nucleare è un pericolo attuale. Tra l’altro, non si può tacere il tono baldanzoso con cui l’evento fu annunciato. Certo, si veniva da cinque anni di guerra, con milioni di morti e con atrocità spaventose ma oggi è difficile non sussultare di fronte ai toni trionfalistici che furono usati allora, a cominciare dal generale che annunciò ad Oppenheimer “il grande botto”, fino alla nota frase del Presidente Truman “questo è il più grande evento della storia” (cfr. S. Walker, Appuntamento ad Hiroshima, cit., p. 308). Forse lo era davvero, ma non nel senso da lui indicato. Se nel corso della successiva guerra fredda non ci fosse stato sufficiente self control, sarebbe stata la fine dell’umanità. In ogni caso, resta aperto, per tutti noi, l’interrogativo posto dai versi di Sofia Jannello: Ma chi mi riscatterà da quel fungo di tenebra che s’aprì nel sole di quel mattino ad Hiroshima?

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CAPITOLO 10

Robert Kennedy: un leader dimenticato

I personaggi mito che hanno appassionato e commosso intere generazioni subiscono la legge dell’entropia. Come le stelle possono spegnersi e trasformarsi in fredde icone. Ma con una lettura obliqua, trasversale è possibile coglierne la perdurante funzione simbolico-evocativa. I miti del nostro tempo sono personaggi quasi sempre scomparsi prematuramente, quasi avvinti da un destino ineludibile, la “possente ananke” delle tragedie greche. Ma a differenza della mitologia classica, in cui si traggono sempre nuovi significati e molteplici simbologie, restano cristallizzati in un evento di cui si perde la pregnanza. Ciò vale per Evita Peron o per i due Kennedy prigionieri dell’archetipo successo e morte. Analogamente, il mito di Marilyn Monroe si avvale del medesimo archetipo, cui si aggiunge la suggestione della teoria del complotto, perché è difficile resistere al richiamo del mistero, dell’intrigo. In ogni caso, i protagonisti si trasformano in stereotipi forgiati dal tragico destino impresso nella memoria collettiva. Dopo essere stati due figure-mito del ‘900, John e Robert Kennedy sembrano oggi caduti nell’oblio. I media se ne occupano solo per pettegolezzi postumi sulle avventure galanti, o per la “leggenda nera” delle molte morti precoci nella loro famiglia.

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In effetti, la popolarità dei due fratelli Kennedy ha sempre creato imbarazzo. I conservatori hanno considerato la loro politica estera come un cedimento nei confronti del comunismo. Eppure, proprio per effetto della distensione, per la prima volta dall’inizio della guerra fredda, l’Unione Sovietica perse terreno e l’Occidente s’impose come esempio per il blocco orientale e tra i non allineati. Negli ambienti di sinistra, invece, si è ritenuto che il loro pacifismo fosse, tutto sommato, propaganda di un nuovo American dream. Inoltre, il fallito sbarco alla Baia dei Porci e l’invio di consiglieri militari in Vietnam, li ha fatti apparire prosecutori di una politica di potenza tipica della guerra fredda. Peccato che si ometta di ricordare che lo sbarco degli anticastristi era un’eredità dell’amministrazione Eishenower e che l’operazione fallì perché Kennedy rifiutò di far intervenire l’aviazione che avrebbe provocato migliaia di morti e forse una guerra mondiale. A causa di ciò, i “falchi” lo considerarono uno smidollato. E come dimenticare che nella seconda crisi di Cuba, nel 1962, il Comitato per la sicurezza nazionale voleva un attacco aereo per abbattere le rampe missilistiche sovietiche? Ma i fratelli Kennedy si opposero all’idea che gli Stati Uniti bombardassero Cuba. Come riporta Arthur Schlesinger, che era presente alle riunioni del comitato per la sicurezza nazionale, Bob evocò Pearl Harbour per affermare che non si poteva “attaccare di sorpresa la domenica mattina uccidendo migliaia di persone”. Il Presidente seguì il suo consiglio e salvò la pace. Circa il Vietnam, fu effettivamente un grave errore l’avere alimentato un conflitto, divenuto poi la guerra sanguinosa che tanto ha segnato la storia americana. Un errore ingi-

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gantito da Johnson e riconosciuto invece da Bob che si oppose ai bombardamenti e divenne sostenitore di una pace negoziata. Dei due Kennedy, la figura più sottovalutata è quella di Robert, di solito presa in considerazione di riflesso a quella del fratello John, di cui fu il più stretto ed entusiasta collaboratore durante i “mille giorni”. John, fine intellettuale, politico di ampie vedute, era il leader indiscusso. Il trentatreenne Robert, che aveva mostrato grinta e leadership come organizzatore delle campagne elettorali, entrò nel Governo come Ministro della Giustizia ma sopratutto fu il consigliere più accreditato del Presidente, con un ruolo decisivo in politica estera e nella difficile battaglia per i diritti civili. Tuttavia, all’esterno appariva un “doppio” del Presidente, quasi una controfigura Poi, dopo quel tragico 22 novembre 1963, scelse la politica a tutto campo e nella breve stagione in cui rialzò il vessillo della Nuova Frontiera, rivelò una forte leadership e un insospettato carisma. John appariva razionale, trasmetteva sicurezza anche quando aveva accenti utopici. Bob era impulsivo, trasmetteva emotività: non usava il fioretto ma la spada. Di lui si è detto che aveva la scorza dura di un manager; ma perché non aggiungere che questa “durezza” la usò per combattere la criminalità organizzata (a cominciare dal celebre processo Hoffa) e il razzismo? Quando, nell’autunno 1961, uno studente di colore, John Meredith, chiese l’ammissione all’Università di Oxford (Mississippi) ed il Governatore in persona si presentò a sbarrargli la strada, i fratelli Kennedy capirono che la prova di forza era inevitabile. Il Presidente autorizzò

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l’invio delle truppe federali e Robert dichiarò che, se il Governatore non avesse adempiuto al suo dovere, sarebbe stato deposto. Quando questi propose d’iscrivere Meredith ad un’altra Università del Mississippi ed avrebbe garantito che tutto sarebbe filato liscio, Robert replicò: “A Meredith piace Oxford”. Il gesto dei Kennedy ebbe grande risonanza nel mondo, soprattutto in Africa. Il Presidente del Burkina constatò ammirato che si erano inviate le truppe per consentire ad un nero di andare a scuola. JFK mise in gioco tutta l’autorità del Governo e Robert gli faceva da battistrada: il “cinico” organizzatore di campagne elettorali non si curò del calo di popolarità, del rischio di compromettere la rielezione del fratello. Un leader del movimento commentò: “Senza Robert Kennedy ci sarebbero stati molti neri uccisi o bastonati; ha fatto di più lui per i nostri diritti che tutti gli altri Ministri della Giustizia messi insieme”. Ma a proposito di RFK restano da chiarire alcuni interrogativi. In particolare, quale fu l’origine del contrasto con Johnson? La delusione per il tradimento della Nuova Frontiera o il tentativo di recuperare il potere perduto dopo Dallas? Il fatto che Bob fosse il più popolare personaggio del momento conferiva un’enorme forza ad ogni suo gesto. Quando, nell’autunno del ’66, fece parte della Commissione sui problemi delle aree metropolitane, alle sedute intervennero corrispondenti esteri di tutti i continenti. Lo stile di Bob era inconfondibile: quando il Sindaco di Los Angeles osservò che in certi campi non aveva autorità, replicò con asprezza: “Lei è il Sindaco. A chi si deve rivolgere la gente quando c’è bisogno? Lei potrà anche non

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essere specificamente responsabile di vari problemi ma è il Sindaco della città e pretendiamo che la guidi”. RFK delineò, poi, un programma sociale alternativo all’assistenzialismo di Stato: i progetti dovevano essere in grado di autofinanziarsi, di trasformarsi in fonti di reddito. Guerra alla povertà doveva significare aiutare i poveri a divenire cittadini attivi e produttivi, non “beneficiari passivi” delle briciole cadute dalla tavola dei ricchi. “L’America deve misurarsi con il suo sogno” – affermò – “il sogno di una nazione che promette a tutti la possibilità di condividere i diritti, i privilegi e i doveri della democrazia”. Quando Johnson dichiarò che nessun popolo era fortunato quanto quello americano, Bob rispose: “questo paese può fare meglio e deve fare di più affinché il mondo che daremo alla prossima generazione sia migliore di quello che abbiamo ereditato”. E aggiunse: “non possiamo consentire che la nostra gioventù languisca in una condizione inutile a se stessa e alla propria famiglia. I neri sono l’11% della popolazione ma fra i caduti nelle giungle del Vietnam il 22% sono neri”. Concluse ricordando che raddoppiare lo stanziamento non era gran cosa, visto che si spendevano 500 milioni di dollari per fornire gratuitamente munizioni ai club di tiro a segno. Un altro esempio del nuovo ruolo di RFK si ebbe nel ’68 quando, dopo l’uccisione di Luther King, esplose la collera della popolazione di colore. Nemmeno la polizia osava mettere piede nei ghetti. Il Senatore Kennedy entrò nei ghetti in rivolta perché, come scrive Bisiach, “era forse l’unico bianco in America in grado di uscirne vivo” e questo non in forza del “mito” ma perché da anni si batteva a fianco della gente di colore contro la discriminazione razziale.

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Come non ricordare il discorso di Bob del 2 marzo 1967? Ammise lealmente di condividere la responsabilità di errori passati ma accusò la Casa Bianca di avere intensificato la guerra proprio quando le occasioni per un accordo erano a portata di mano e delineò un programma di pace. Concluse esclamando: “Non siamo andati in Vietnam per recitare la parte dell’angelo vendicatore che riversa morte e distruzione… Ormai dovrebbe essere chiaro che i bombardamenti del Nord non pongono fine alla guerra nel Sud ma che, piuttosto, la stanno prolungando” Avrebbe pagato con la vita lo straordinario consenso popolare che stava per portarlo alla Casa Bianca. E comunque, il mutamento di linea politica non avvenne in maniera lineare ma con le esitazioni e le contraddizioni di un’esperienza di vita. Si è detto che Robert Kennedy era un idealista che sapeva giocare la partita con freddezza e con un certo cinismo. Allora una domanda s’impone: il fine giustificava i mezzi o le posizioni ultraliberali erano un mezzo per la conquista del potere? Come corollario c’è da chiedersi se Bob guardasse alla Casa Bianca per riconquistare “il trono” del fratello – come recriminava Johnson – o perché la politica del Presidente Kennedy era stata tradita. Certo, se Robert Kennedy fosse giunto alla Casa Banca, forse il ‘68 sarebbe stato diverso e forse il blocco comunista si sarebbe incrinato con vent’anni d’anticipo. Peraltro, Musil avverte che la storia non segue mai percorsi lineari. La personalità di RFK avrebbe aperto una fase nuova, non prevedibile. Considerato il portavoce, poi l’erede del Presidente Kennedy e della Nuova Frontiera, Bob, nella sua breve stagione, è stato un leader con un proprio carisma, con uno stile originale.

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Allora, se non era un’immagine riflessa e, per di più, esasperata (come accade sovente alle “imitazioni”) qual era, in realtà, la personalità di Robert Kennedy? Alcuni opinionisti dell’epoca, a cominciare da Jules Feiffer affermavano che in lui convivevano passione e prudenza, idealismo e opportunismo. Ed il progressista «Village Voice», riprendendo questa dicotomia, affermò che al Bob sicuro di sé, che sapeva organizzare il consenso elettorale come un’operazione di marketing, si contrapponeva ormai un Kennedy che, turbato dalla miseria dei contadini sudamericani, aveva gli stessi toni idealistici di Che Guevara, che sosteneva la lotta di Luther King e le rivendicazioni dei pacifisti. “Se Kennedy non si presenta nel ‘68 – insisteva il «Village Voice» – il lato migliore del suo carattere morirà. Lo ucciderà ogni volta che violenterà la sua coscienza e farà un discorso a favore della campagna elettorale di Johnson. La migliore qualità di Kennedy – concludeva – è di essere se stesso, autentico […] è la qualità che i giovani apprezzano in lui e che perderà se non scende in campo: diverrà un politico convenzionale, succube dei tatticismi e della retorica”. Forse RFK meditava su queste frasi, quando annunciò la propria candidatura. Dichiarò che ormai Johnson era un elemento di divisione per il Partito e per il Paese. Denunciò il fallimento della sua azione di governo nel Vietnam, nella lotta alla povertà e su tutti i temi sociali. Ma quale Bob era sceso in campo? I liberals non avevano dubbi. Il Bob calcolatore sarebbe rimasto all’ombra di Johnson per arrivare in carrozza alla Presidenza quattro anni dopo. Quello che aveva scelto di rischiare, di far prevalere la tensione ideale, era senz’altro il Bob idealista. Per i conservatori era l’opposto: il Bob

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buono avrebbe sacrificato la sua ambizione al bene comune; il Bob calcolatore era quello che spaccava il Partito e il Paese pur di riconquistare la Casa Bianca e che usando cinicamente il suo carisma, rinnegava il proprio passato e si trasformava in demagogo pur di opporsi a Johnson. In realtà, era una controversia oziosa perché Bob Kennedy non soffriva di schizofrenia. Nella sua personalità, una sincera tensione ideale si univa in modo naturale ad un fiuto politico, alla capacità di compiere scelte vincenti perché tenevano conto degli equilibri in gioco. La definizione più acuta è di Bisiach (Bob era un uomo “duro e fragile, sorridente e triste”) che coglie l’aspetto più pregnante di un personaggio-mito del nostro tempo. Parlando a Detroit il 5 maggio 1967, RFK dichiarò che la crescita economica non significava di per sé progresso, che i successi nazionali non si potevano valutare sulla base dell’indice Down-Jones “perché il prodotto interno lordo comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette […] la distruzione delle sequoie e la morte del Lago Superiore […] cresce con la produzione di napalm e dei missili i nucleari e comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica. Viceversa, l’indice del PIL non tiene conto dello stato di salute delle famiglie, della qualità dell’educazione dei bambini, è indifferente alla sicurezza delle nostre strade e delle nostre fabbriche […] non si interessa della giustizia, del coraggio civile della, saggezza, della compassione o della devozione al Paese. Misura tutto, insomma, eccetto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta” Robert Kennedy non cambiò le sue opinioni per opportunismo. Si spostò a sinistra negli anni della Casa Bianca quando avrebbe avuto convenienza a presidiare il centro.

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Poi, invece di vivere sulla rendita di posizione del mito dei Kennedy, compì una scelta radicale – l’opposizione ad un Presidente del suo stesso Partito – che, prevedibilmente, gli avrebbe alienato molti esponenti democratici e avrebbe potuto mettere fine alla sua carriera. D’altronde, la sua vita è sempre stata segnata da scelte radicali. Era stato così al tempo delle rischiose inchieste giudiziarie contro la mafia e quando aveva lasciato il Ministero della Giustizia per giocare la carta del Senato. Poi, dopo aver acquistato una leadership che poneva in ombra qualsiasi altro uomo politico, si rimise in discussione per una campagna elettorale quanto mai incerta. “Benché, grazie al suo status sociale, non avesse conosciuto da vicino le sofferenze della povera gente” – commenta Sorensen – “John Kennedy riusciva egualmente a comprenderle. Ma Robert le sentiva nel proprio corpo”. Nel giugno 1966, quando RFK si recò in Sud Africa, il governo di Pretoria gli concesse il visto a condizione che nessun giornalista lo accompagnasse. Ma proprio queste misure dettero al viaggio la pubblicità internazionale che Bob non aveva cercato. RFK divenne un simbolo di speranza per i movimenti antirazzisti di tutto il mondo. A Pretoria fu accolto con straordinario calore dagli studenti che gridavano “ti vogliamo bene Bob”. A Città del Capo, dove paragonò l’apartheid alle leggi razziali naziste, si ripeterono le scene di entusiasmo. Con un discorso di grande respiro, denunciò le sofferenze esistenti in varie parti del mondo: negli stessi Stati Uniti dove restava la discriminazione razziale e sociale, nell’America Latina dove i lavoratori erano trattati come schiavi, in India dove si moriva di fame, in Russia dove i

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dissidenti perivano nei gulag, fino all’Indonesia dove erano i filocomunisti ad essere massacrati. “Il coraggio morale – affermò – è una virtù più rara del coraggio che si dimostra in battaglia ed è la qualità vitale di coloro che vogliono cambiare un mondo che non si lascia cambiare facilmente”. A Soweto, il ghetto nero di Johannesburg tenne un discorso che iniziava con le parole: “E se Dio fosse nero?”. La gente piangeva ed esultava. La straordinaria risonanza del suo viaggio arrecò un duro colpo al governo dell’apartheid. Ad Addis Abeba, ove partecipò alla riunione dell’Organizzazione per l’Unità africana, la stampa internazionale rilevò che nessun bianco aveva mai ottenuto un simile successo. Il 31 marzo, a sorpresa, Johnson ritirò la candidatura. Da allora la campagna elettorale assunse caratteri nuovi perché RFK divenne di colpo il candidato più accreditato e la poderosa macchina elettorale dei Kennedy si mise nuovamente in moto. Tuttavia, battere il Vice presidente Humphrey, che poteva contare sull’appoggio della Casa Bianca, non era poi così facile, perché alla popolarità di Bob non corrispondeva una posizione solida all’interno del Partito. Ma solo Robert Kennedy suscitava l’entusiasmo dei giovani, della popolazione di colore, degli immigrati ispanoamericani. In un memorabile discorso in Senato denunciò che molti bambini vivevano in abitazioni malsane, frequentavano scuole che insegnavano ben poco. Né si fermò alla denuncia ma lanciò proposte di riforma del sistema scolastico; chiese un sistema sanitario alla portata di tutti, un piano straordinario per la casa e un progetto per l’occupazione. Bob parlava alla mente e al cuore, dischiudeva gli orizzonti di un’America più libera, più pacifica, capace di guar-

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dare ai tempi nuovi. Durante le primarie subì però alcune sconfitte che mettevano in forse la candidatura. Tutto si decideva nelle primarie della California e la gara si preannunciava ardua. Se avesse perso in quello Stato che aveva il più alto numero di delegati, avrebbe dovuto ritirarsi. La tensione era al massimo, i primi risultati davano in vantaggio Mc Carthy; poi ci fu una fase d’incertezza e, infine, la TV annunciò che Bob aveva vinto. Sul suo volto tornò il consueto sorriso. Scese nel salone dell’albergo gremito fino all’inverosimile e disse: “Il Sindaco Yorty ritiene che siamo qui da tropo tempo […] ha ragione. È tempo di andare a Chicago” (sede della Convention nazionale). Sommerso dalle ovazioni, per evitare la folla, passò dalle cucine dell’albergo. Qui, in un corridoio, fu colpito a morte. Bob era un idealista che amava il potere. Stratega di molte battaglie guidava un imponente apparato perché sapeva che le elezioni presidenziali impongono una durissima campagna elettorale. Non bastava avere un messaggio, bisognava comunicarlo. I suoi uomini erano ritenuti arroganti perché avevano la baldanza di chi non è abituato a perdere, sapevano che la contesa era senza esclusione di colpi e allora, alludendo ai molti nemici, gridavano “Alla faccia loro, Bobby”. Questo slogan divenne un grido di guerra che non piaceva agli intellettuali o ai teorici della Nuova Sinistra ma che faceva presa sulla folla. Non aveva il tradizionale stile della classe politica. Piaceva ai giovani, alla gente comune, perché affrontava avversari e problemi prendendoli di petto, senza giri di valzer. Questo lo sapevano anche i suoi nemici, come i boss della malavita, che non potevano permettersi di avere come Presidente colui che, come Ministro della Giustizia, li aveva tenacemente combattuti.

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È stato detto di lui: “conosce l’uso del potere e sa porlo al servizio dei valori”. Se John è stato il simbolo dei fermenti innovativi degli anni ‘60 che hanno chiuso l’epoca della guerra fredda, Robert è stato l’interprete di un vasto movimento di idee che ha fatto compiere una forte accelerazione alla svolta kennediana. Infatti, l’esperienza di governo aveva fatto crescere nei due fratelli l’interesse per i problemi dell’Africa e dell’America latina. I Paesi del terzo mondo, oppressi dalla fame e dal colonialismo apparvero loro ben diversi da quando, nelle discussioni accademiche ad Harvard, vedevano gli Stati coloniali o di recente indipendenza come semplici caselle nello scacchiere internazionale. “Non vogliamo trasformare il mondo a nostra immagine e non accetteremo che il mondo sia trasformato a immagine di una qualsiasi società o di un qualsiasi credo dogmatico” fu la parola d’ordine del Presidente Kennedy. E se è comprensibile che l’America conservatrice esorcizzi il mito kennediano in quanto troppo attento alle ragioni degli “altri” e quindi incompatibile con la politica di potenza, è più difficile capire l’ostilità della sinistra. Che ha una spiegazione solo nell’inconscia “gelosia” di chi, con Marx nuovamente in soffitta, vuole mantenere almeno la nominale egemonia della tradizione socialista e teme l’intrusione di un messaggio ben più vitale della retorica gauchiste sfociata in un terzomondismo di maniera, dopo avere abbandonato le ragioni del mondo del lavoro e della giustizia sociale.

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CAPITOLO 11

I colori del vento. Il mito di Che Guevara

Signor Colonnello sono Ernesto Che Guevara Mi spari. Tanto, sarò utile da morto come da vivo (M.V. Montalban, J.C. Biondini, F. Guccini, Canzone per il Che)

“… dopodiché [Che Guevara] disse: comunque sia, andiamo dove è vietato andare”. In quell’ottobre del 1967 – scrive Athos Bigongiali nel romanzo Le ceneri del Che – finiva la leggenda del guerrigliero inafferrabile. I capi militari brindarono. Ma a Valle Grande nasceva una figura-mito del ’900 Ernesto Guevara era un marxista intransigente e aveva portato un contributo decisivo alla svolta comunista della rivoluzione cubana. Eppure era rispettato, ammirato anche dagli anticomunisti per la coerenza che lo aveva allontanato dal potere. Nel ’68 le frange extraparlamentari elogiavano l’intransigenza politica del Che in antitesi al riformismo del PCI; mentre altri consideravano il suo volontario “esilio” da Cuba come una sconfessione della dittatura instaurata da Fidel D’altronde, la capacità di rigore rivoluzionario “senza perdere la tenerezza” sottolineata da Pablo Ignacio Taibo ha contrapposto l’immagine solare del guerrigliero alla

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visione nichilista di un estremismo terreno di coltura del terrorismo. La figura di Che Guevara ha attraversato la crisi del marxismo e la fine del socialismo reale. Ma, gradualmente, è uscita dalla storia, ha perso spessore politico per assumere i caratteri tipici del mito come rivelano alcune costanti antropologiche. In particolare, prevale il senso del tragico in cui l’eroe (Sigfrido, Parsifal, Achille) ha la generosità, l’audacia, la spontaneità di un fanciullo perché ha comportamenti antitetici all’utilitarismo, alla razionalità strumentale che contraddistingue gli adulti (solo Parsifal, il “puro folle” è destinato a trovare il Santo Graal). Proprio perché, come il bambino della fiaba, proclama che “il re è nudo”, l’eroe va incontro ad un destino funesto. Tuttavia, la cifra della sua grandezza – si pensi ad Ettore o a Odisseo – si coglie quando l’epos si unisce al senso del tragico, quando la lotta è contro l’inesorabile ananke; un tema riproposto dall’epica medievale in opere come la Chanson de Roland, o il Cantar de mio Cid e in tutto il ciclo arturiano ove il sacrificio è essenziale per la rinascita. Per l’eroe – profeta, più che il pensiero vale l’esempio; “Come tutti gli eroi – ha sottolineato Giovanni Sole… [il Che] combatte contro il drago che affama e inghiotte la povera gente […] acquista via via una saggezza, una nobiltà e una forza d’animo che lo fanno apparire come un profeta e una guida” (G. Sole, Il mito del Che). È, dunque, con una lettura obliqua, trasversale, che possiamo cogliere la cifra del mito del Che nella cultura contemporanea. Una lettura polisemica che data dal ’68, quando la contestazione degli studenti opponeva l’utopia

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libertaria alle angustie del socialismo reale. L’effigie del Che sulle bandiere rosse ricordava che a Nanterre, a Francoforte, i giovani inneggiavano a Mao e a Marcuse ma più che ai risvolti dottrinali erano attenti alla prassi o, meglio, alla testimonianza. La rivoluzione culturale che prese avvio a Parigi affondava le radici nella grande stagione dell’esistenzialismo, si rifaceva a Camus, a Sartre, al viandante di Joyce, ai Dannati della terra di Fanon, una delle letture privilegiate dal giovane di Rosario. Ernesto Guevara impersonava, dunque, il sogno che la rivoluzione tradita potesse riprendere il cammino dal sud del mondo, dimenticando Stalin e Breznev in nome dell’egualitarismo e dell’etica del sacrificio. Una seconda scelta interpretativa conduce alla tipologia dell’eroe romantico del XIX secolo, quando Pisacane guidava i trecento nel vallone della morte. Non a caso, un serial televisivo ci ha mostrato un Garibaldi con il basco, che richiama anche ad un noto copricapo della Resistenza. Sulla stessa linea, il Comandante è stato poi paragonato a Robin Hood, e al prediletto Don Chisciotte; ma anche ai cavalieri del Graal e a Saint-Just. Per quest’ultimo, il paragone si limita all’intransigenza, non ai metodi di lotta politica, dato che il furor rivoluzionario del giovane emulo di Robespierre era molto lontano dal calore umano di Ernesto Guevara de la Serna. Il XX secolo ha conosciuto una diversa tipologia di eroi. Profeti come Ghandi e Luther King, profili del coraggio come Massimiliano Kolbe, Salvo d’Acquisto, che affrontarono la morte perché era ciò “che si doveva fare” in quel momento. Ma si è perso il mito del cavaliere errante, cui il romanticismo aggiunge l’esaltazione del vinto, in una fatale scissione tra ideale e reale simboleggiata dai giacobini

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partenopei, dalla repubblica romana e che diverrà un topos (solo la sconfitta connota la purezza degli ideali). Ma la vicenda di Ernesto Guevara ricorda maggiormente quella degli eroi antichi o di molti santi ove elementi storici e leggendari si confondono. Misteri e prodigi postmortem sono sempre serviti, in ogni epoca, a sottolineare lo straordinario spessore del personaggio. Nel Medioevo era diffusa la leggenda del “ritorno dei re”. Colpito a morte, Artù fu portato nell’isola di Avalon in uno stato di sospensione della vita, in attesa di tornare a difendere la Britannia nel momento dell’estremo pericolo. La sua tomba recherebbe, infatti, l’iscrizione rex quondam, rex venturus. Così, nel 1250, non si poteva credere che il grande Federico II di Svevia, stupor mundi fosse morto. Si disse che, in realtà, l’imperatore fosse nascosto in un luogo segreto e fosse al tempo stesso “vivo e non vivo”, in attesa di tornare sulla terra alla fine del mondo (con una doppia chiave di lettura, a seconda che fosse considerato imitatio Christi o incarnazione dell’Anticristo). Di Carlo Magno si narrava che dormisse nella montagna di Wotan e di Federico Barbarossa il poeta Friedrich Ruckert, rifacendosi a leggende medievali, scrisse: “l’imperatore Federico / sta nell’incantesimo / in un castello sotterraneo / Egli non è mai morto / e chiuso là dentro vive ancora / si è nascosto nel castello / ed è immerso nel sonno. / Tornerà alla fine / quando sarà il tempo”. Nel XX secolo si era lontani dagli stilemi medievali; ma i militari boliviani, per evitare che la tomba del Che divenisse meta internazionale di pellegrinaggi ne occultarono il cadavere e nascosero le modalità della sepoltura. Il governo e l’esercito lasciarono trapelare, alternativamente,

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che era stato murato in un edificio a Valle Grande o che era conservato sotto ghiaccio o che le sue ceneri erano state sparse da un elicottero. Versioni fantasiose che hanno involontariamente contribuito al mito. E un significativo apporto è stato dato dalla “maledizione del Che” ovvero da una sorprendente serie di coincidenze per cui, nel giro di quattro anni, sono morte in modo violento o per misteriose malattie una ventina di persone coinvolte nella cattura e nell’esecuzione del Comandante Guevara. Morti, per lo più, dovute a congiure e a colpi di stato che hanno riguardato i militari boliviani ma la serialità, amplificata dai media, ha creato un alone di mistero, una nemesi che ricorda la morte misteriosa dei carnefici di Giovanna d’Arco e dei persecutori dei primi cristiani nell’Impero romano. Della figura di Ernesto Che Guevara è, poi, divenuta emblematica la entrañable transparencia che lo ha distaccato dai contingenti aspetti politici. Colpisce soprattutto il fatto che avesse abbandonato il potere per gettarsi in una nuova avventura e non per dirigerla dal ponte di comando, ma sul campo, rischiando di persona. Don Chisciotte invece del nuovo Principe, un tipo di comunista su cui Lenin avrebbe avuto da ridire. Certo, sul pensiero e sull’azione politica del Che pesano numerosi interrogativi. Nella sua attività di Ministro dell’industria ritroviamo gli snodi su cui si era arrovellato il marxismo per oltre un secolo, dai problemi della transizione, alla riforma agraria, alla teoria del plusvalore… Analogamente, le ore di lavoro in fabbrica per i dirigenti politici, l’esaltazione della manualità, l’emulazione socialista, riproducevano stereotipi tipici di tutti i regimi populisti.

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Più significative, l’avversione per la burocrazia politica, l’ostilità all’epurazione ideologica, la ricerca di una “via cubana” ad un socialismo dal volto umano. Significative ma perdenti perché, in un mondo diviso in blocchi, gli spazi per un terza via erano molto angusti e Cuba non aveva la posizione strategica della Jugoslavia, a cavallo fra i due mondi, ma scontava gli effetti della dottrina Monroe. D’altronde, anche a sinistra il Che era segno di contraddizione. Non sappiamo quanto lui e Raoul Castro abbiano influenzato Fidel che non era marxista, né tanto meno filosovietico, o quanto l’intesa con Mosca sia stata frutto della miopia degli Stati Uniti che, boicottando il nuovo regime, gli impedirono uno sviluppo autonomo. Si era alla metà degli anni ’60 ed il mondo comunista era lacerato fra il revisionismo sovietico e la rivoluzione culturale di Pechino. Guevara disapprovava il regime burocratico del Cremlino; molti ne hanno dedotto che fosse incline al maoismo (quindi, il potenziale antagonista di un Castro filosovietico); per altri storici, è stato, invece, la longa manus di Mosca in Africa e in America latina. Quesiti che non è facile chiarire, perché la personalità del Che non sembra inquadrabile in nessuno di questi schemi. Il rigore rivoluzionario lo fa, piuttosto, paragonare a Trotsky, anche se ha sempre tenuto le distanze dal settarismo dei gruppi trotskisti, e lo rende un personaggio scomodo per gli stessi comunisti, ma soprattutto per chi cercava il dialogo fra i due mondi; perché il Che rappresentava l’intransigenza o era, comunque, percepito come tale. Una certa analogia può essere, invece, trovata con Gramsci che intendeva “liberare la lezione marxiana […] dall’arido meccanicismo che accomunava riformisti e intransigenti”. E accogliendo le tesi di Hebbel che “vivere

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vuol dire essere partigiani” il giovane Gramsci esclamava: “Odio gli indifferenti – mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi di come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente proclamando che sono gli uomini, le coscienze a prevalere sugli schematismi dottrinari”. Affermazioni che Guevara avrebbe potuto sottoscrivere e che ricordano da vicino la parabola evangelica dei talenti. Ma nella fantasia, l’immagine sua; gli eroi son tutti giovani e belli (F. Guccini, La Locomotiva) Che Guevara è considerato un marxista eterodosso, come certi eretici del passato che furono per la Chiesa cattolica un richiamo ai valori originari. Franco Cardini ha sottolineato in modo icastico che la sua figura è, in fondo, quella dell’avventuriero “che combatte sempre contro i mulini a vento e il cui vero fine, la sua profonda Verità, la sua intima vocazione, è il Nulla […] Il cavallo di don Chisciotte non porta da nessuna parte. E il dottor Guevara lo sapeva benissimo: al punto tale che, in realtà, lo inforcò solo quando si rese conto che, nello scontro con il dottor Castro per la leadership, stava uscendo perdente” Eppure, il Che non è stato perdente perché il suo esempio ha consentito d’infrangere le due ortodossie. In tempo d’ideologie contrapposte, allorché contava solo il cui prodest? non era lecito combattere il colonialismo, se s’indeboliva la coesione del blocco occidentale. E, parallelamente, la rivendicazione della libertà nei paesi dell’Est era vista come un aiuto alla propaganda americana. In entrambi i campi prevaleva la realpolitik. Chi stava dall’al-

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tra parte poteva apprezzare i motivi ideali di determinate battaglie ma non poteva sentirli “suoi”. Anche Riccardo d’Inghilterra ed il Saladino si scambiavano segni di stima ma restavano in campi avversi. L’eterodossia del Che fu il segno che si potevano infrangere logiche monolitiche. Così, quando ci appassionammo per la sua ultima avventura operammo una sorta di rottura epistemologica: opporsi alla tirannia era un imperativo categorico e gli equilibri internazionali non potevano avere la precedenza. In realtà, per il giovane argentino che viveva i drammi dell’America Latina, il vero problema politico erano i regimi militari. Non ignorava i gulag sovietici ma gli erano oggettivamente e psicologicamente più lontani. È vero che il mito del cavaliere errante subì duri colpi in Africa quando le truppe cubane furono emissari della penetrazione sovietica. Tra l’altro, in una situazione contraddittoria, perché proprio allora egli si diceva convinto che il regime di Mosca non potesse essere considerato comunista Ma anche in questo caso il simbolo prevalse sullo scenario politico perché aveva in sé i germi di un rinnovamento dell’idea socialista partendo dal sud del mondo, dalle contrade più dimenticate. Ad arricchire ulteriormente la leggenda del Che contribuì, nel 1965, la sua “scomparsa” dalla vita pubblica che suscitò una ridda d’ipotesi. All’inizio, divenne la “primula rossa” della rivoluzione; la sua presenza fu segnalata in quasi tutti i paesi dell’America latina. Poi, l’improbabile versione diramata dal governo cubano (era andato a tagliare canna da zucchero) dette fiato alle ipotesi che fosse stato imprigionato o giustiziato per dissensi con Castro, che fosse rinchiuso in un ospedale psichiatrico,

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che si fosse suicidato in esilio (e che addirittura fosse sepolto a Las Vegas!). Altri affermavano che era stato ucciso in battaglia in un’imprecisata località dell’America Latina ma che la sua morte era tenuta segreta. Poi Castro svelò l’enigma quando la presenza dei cubani in Congo stava per divenire di pubblico dominio [Ricordatevi che] altri sono saliti a strappare la bandiera di servitù dall’Acropoli e che li hanno buttati loro e la loro gloria ancora ansante nella fossa comune della storia (L. Aragon, Studenti di Francia) “Miei cari genitori, ancora una volta sento sotto i talloni le costole di Ronzinante, mi rimetto in cammino con il mio scudo in braccio; molti mi diranno che sono un avventuriero e lo sono, solo di un tipo diverso, di quelli che rischiano la pelle per dimostrare le proprie verità” (Lettera ai genitori, 1/4/1965) Il saggio di Taibo (Ernesto Guevara también conocido como El Che) riporta Ernesto Guevara de La Serna alla sua reale dimensione storica e umana. Prevale la motivazione etica che ha attratto le nuove generazioni più della visione eroica e romantica. Fu figlio della propria epoca per quanto riguarda il giovanilismo, la retorica del vestire sempre in divisa, l’ostentazione del sigaro: segni del sessantotto che era ormai nell’aria e che si caratterizzava per l’anticonformismo. Ma si eleva oltre, per l’inflessibile senso del dovere, la capacità di essere “dalla parte della gente”.

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Certo, chi ha analizzato il suo pensiero vi ha trovato ingenuità, contraddizioni. L’insistenza sulle eterne dispute dottrinali del marxismo, a partire dalla questione della coscienza rivoluzionaria dei contadini e del loro attaccamento alla proprietà privata, che Stalin aveva “risolto” con le deportazioni di massa. Poi, l’industrializzazione, che il neo-ministro sperimentava, cercando di adattare alla realtà cubana il modello sovietico. Ma Guevara era tutt’altro che sprovveduto. Il suo riferimento al giovane Marx (quello dei Manoscritti economico-filosofici del 1844) s’inseriva nel dibattito in corso nella Sinistra europea con una visione anticipatrice, perché legava la dialettica della liberazione all’umanesimo rivoluzionario, con un’implicita predilezione rispetto al Marx “maturo”, quello del socialismo scientifico; e ciò avvenne proprio all’epoca in cui imperava l’antiumanesimo di Althusser. Questa visione si esprimeva anche nell’ammirazione (ricambiata) di Guevara per Sartre e per Fanon che anticipava di alcuni anni i più significativi fermenti della rivoluzione culturale di Berkeley e di Parigi. Nella sua epopea ci sono due momenti simmetrici: da un lato la rivoluzione cubana, (la guerriglia sulla Sierra Maestra, l’assalto al treno blindato, la conquista di Santa Clara). E qui la narrazione di Taibo ricorda, per molti versi, la spedizione garibaldina descritta da Giuseppe Cesare Abba in Da Quarto al Volturno (Noterelle di uno dei Mille). Come Garibaldi, il Che si orienta con le stelle, affronta con un pugno di uomini l’esercito di Batista facendo leva su un entusiasmo che i militari del regime non possedevano. Per la loro giovanile spavalderia, i barbudos sono i nuovi “moschettieri” che ottengono il favore

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popolare e attirano l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Anche nei momenti più difficili della guerriglia, si ha la sensazione che la rivoluzione, finirà per abbattere un regime in decomposizione. Prevale la contrapposizione fra lo stile di vita sobrio, austero dei guerriglieri e la Cuba di Batista capitale della prostituzione e del gioco d’azzardo. Dall’altro lato, invece, il Diario boliviano rivela uno scenario di segno opposto. Ci si batte con coraggio, ma quasi con la consapevolezza di un’impresa destinata a fallire. Dall’epos si passa al senso del tragico, con, in più, l’aura della entrañable transparencia: il Che andava in pattuglia e lo faceva senza ostentazione perché non si considerava alla pari di uno dei suoi uomini ma era realmente uno di loro. Così, quando curava i prigionieri feriti, non lo faceva per mostrare generosità ma perché era un medico e riteneva suo dovere interessarsi di tutti i bisognosi di cure. … ma sempre contro finché ti lasciano la voce (R. Vecchioni, Figlia) In Bolivia appariva difficile pensare ad una seconda Cuba. Non ci sarebbe stata una nuova Sierra Maestra, in un momento in cui la dottrina Monroe era applicata in modo ferreo e proprio la statura di leader internazionale rendeva il Che più vulnerabile, perché il comunismo arretrava in Europa ma avanzava nel Sud del mondo. E siamo giunti all’ultimo archetipo, quello cristologico. Il Che asseriva di non essere un filantropo, un emulo di Cristo. In realtà l’amore per gli ultimi, il senso del sacrificio spinto fino alle estreme conseguenze, ricorda la liturgia del

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venerdì santo, la simbologia della croce, che emerge dal romanzo di Athos Bigongiali (Le ceneri del Che) “[…] il Che somigliava ai ritratti del Che, sforbiciati dalla riviste e mostrati ai fotografi dai soldati in posa, ma somigliava anche al Cristo, a Gesù Cristo Nostro Signore mentre viene pianto e deposto là a Valle Grande e dovunque si celebri una sacra rappresentazione” Fino alla conclusione, allorché il mito diviene messaggio universale: “[…] Chi erano i bambini che sui muri delle scuole scrivevano coi gessi “viva el Che”? Chi erano quegli artisti, scrittori, editori, venuti in Bolivia a cercare il Che Guevara? Chi erano i minatori che scioperavano, gli studenti che occupavano le università, i preti che dicevano una messa in suffragio del Che?” (A. Bigoniali, op. cit.) E oggi, quando nelle manifestazioni, nei concerti rock, magliette, bandiere, spille portano la classica effigie del Che nella stilizzazione della celebre foto di Korda, è proprio a questa immagine mitica, non alla figura storica che si fa riferimento; il computer ci ha abituati a leggere le icone, come nuovi ideogrammi. Ecco, quindi, che il Che diviene simbolo universale e astratto (in quanto destoricizzato) di coraggio morale Allora anche quelle magliette acquistano un nuovo significato. Molti ragazzi ignorano le vicende storiche del personaggio ma, nell’epoca del disincanto, vogliono esprimere un desiderio di giustizia, di pari dignità fra nord e sud del mondo. Il nuovo Don Chisciotte non era un ingenuo; sapeva che quando il nemico si fa d’ombra non serve affrontarlo

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lancia in resta. Occorre sagacia diplomatica e una buona dose di machiavellismo. Forse si poteva giocare meglio la “carta cubana” nel mondo socialista e fra i non allineati; ma lui non era Robespierre, non era Lenin né Castro, era Ernesto Che Guevara, il sogno del riscatto per milioni di campesinos, di giustizia per i desparecidos, il simbolo della lotta contro la fame, la speranza di chi gridava Hasta siempre, Comandante! L’eterogenesi dei fini ha messo da parte il marxismo del Che per porre in primo piano le ragioni dell’etica. Il pensiero e l’azione politica sono materia per la storiografia. Ma il mito suscita emozioni anche per chi, rifiutando ogni forma di violenza, ha però fame e sete di giustizia e crede che non ci sia Resurrezione senza Passione.

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SECONDA PARTE

Cui prodest?

Al pari delle rivoluzioni e dei colpi di stato, i delitti politici hanno modificato bruscamente il corso della storia ma lo hanno fatto in modo più subdolo; tanto che i cultori del complottismo ne hanno amplificato il numero applicando fuori misura la regola del cui prodest? e del cum hoc ergo propter hoc. Talvolta, come accadde per l’assassinio di Giulio Cesare, il delitto è stato la premessa di un colpo di stato; altre volte, come nell’uccisione di Lincoln e di Aldo Moro è servito ad invertire una linea politica. C’è poi il caso fortuito, il delitto del folle o la morte naturale scambiata per assassinio. Spesso, infatti, alla fantasia popolare ripugna pensare che personaggi illustri, grandi sovrani come Alessandro Magno o Federico Barbarossa siano morti per una malattia o per un banale incidente. Da qui la semina di dubbi che apre spazi ai cacciatori di misteri. Enumerare la serie di delitti causati da motivazioni politiche è praticamente impossibile perché spesso la morte violenta del sovrano è stata il metodo normale di successione. Nella storia, la lotta per il potere è un susseguirsi di fatti di sangue e, in un mondo che viveva quasi perennemente in stato di guerra, il delitto politico sollevava più scalpore che esecrazione. Dei molti casi controversi se ne riportano

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alcuni come semplici esempi. Senza scomodare Jung e la teoria della sincronicità, occorre sottolineare che, talvolta, le coincidenze sono inquietanti ma che il cui prodest? da solo non riesce mai a dipanare la matassa. Ai fini della discussione sulla strategia d’immagine merita sottolineare che inventare un inesistente complotto o mascherare un complotto vero, sono due modi simmetrici e altrettanto efficaci di alterare la percezione delle reali vicende politiche. Misteri dal passato remoto La storia è disseminata di delitti politici, come forma di avvicendamento nel potere, fin dai tempi più lontani. Prendiamo alcuni esempi, fra i tanti, per continuare col gioco del cui prodest? ma ripetendo l’avvertenza che serve solo a formulare ipotesi: per avere indizi concludenti, ovviamente, occorrono le prove, come in qualsiasi caso giudiziario. Nell’Egitto della XVIII dinastia (1580-1314 a.c.) il faraone Amenofi IV, che regnò dal 1372 al 1354 a.c., attuò una rivoluzione religiosa di straordinario rilievo perché sostituì al tradizionale politeismo il culto monoteista di Aton, il Dio unico raffigurato come il disco solare. Proclamando che il culto del Dio unico non aveva intermediari e che il sovrano ne era l’unico interprete, il faraone, che mutò il proprio nome in Akhen-Aton, inaugurò un totalitarismo inviso ai sacerdoti di Tebe che attorno ai templi di Ammon-Ra a Karnak avevano costruito un centro formidabile di potere politico ed economico. Il busto di Akhen-Aton conservato al museo del Cairo rivela, anche dal punto di vista fisico, tratti diversi da quelli degli altri faraoni. Un torso esile ed un bacino enorme. Si è parlato di figura androgina: il cranio allungato, le labbra pro-

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nunciate gli conferiscono una sensualità quasi femminile e rivelano il carattere inquieto, ma forte. Sua moglie, la bellissima Nefertiti, era una principessa Mitanni che ebbe forte influenza sulla riforma religiosa e sul rinnovamento del costume. La sua origine mediorientale fa presumere che avesse conosciuto il culto persiano di Aura Mazda, il Dio invisibile Per alcuni anni Akhen-Aton tentò di convivere con la casta sacerdotale di Ammon-Ra, al punto da essere soprannominato Colui che Ammon ha prescelto. Poi, evidentemente, la diarchia fallì ed il faraone edificò 350 km a nord di Tebe, nel basso Egitto, una nuova capitale: Akhet-Aton (l’orizzonte di Aton) con splendidi palazzi e grandi viali, innovativa anche dal punto di vista urbanistico perché, a differenza delle altre città egizie, non si espandeva a raggiera ma come una lunga fascia di oltre 15 Km. Sicuro di sé, il faraone non si curava dell’ostilità dei sacerdoti che videro avviarsi rapidamente la decadenza di Karnak. Nei diciotto anni di regno fu interamente assorbito dalla riforma religiosa che antepose anche alle questioni di politica estera, al punto che gli Ittiti occuparono la Palestina senza alcuna reazione da parte dell’Egitto. Poi, non ancora trentenne, Akhen-Aton morì. Gli successe suo genero Tut-han-Aton un bambino di nove anni che poi mutò il proprio nome in Tut-han-Kamon. Altre versioni riportano che per un breve periodo (circa tre anni) il successore di Akhen-Aton sarebbe stato una misteriosa Ankhtkheperura Neferneferuaton, nome dietro cui si sarebbe celata la regina Nefertiti o la figlia di AkhenAton Merit-Amon, che già negli ultimi anni di regno del padre aveva un ruolo rilevante nelle cerimonie ufficiali. Ma sarebbe stata solo una breve parentesi.

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Forse si trattava solo di una reggenza per conto di Tuthan-Kamon, il cui cambiamento di nome è particolarmente significativo perché indica il ritorno al potere dei sacerdoti di Tebe e l’abbandono della nuova religione. Anche Nefertiti, ormai priva di poteri, non poté opporsi. Una restaurazione così repentina porta a supporre che Akhen-Aton sia stato ucciso anche se non esiste alcun indizio diretto. Ma si sospetta che anche Tut-han-Kamon, il restauratore della religione tebana, morto a 18 anni, sia stato assassinato perché nella mummia del faraone, rinvenuta nella Valle dei Re insieme all’inestimabile tesoro, è ancora visibile la profonda ferita dietro la nuca provocata da un oggetto contundente. Per quali motivi? E perché in nessuno scritto dell’Antico Egitto ci sono notizie o allusioni ad una morte violenta di Tut-han-Kamon? I primi sospetti, per un omicidio così ben occultato, cadono sulla casta sacerdotale che provvedeva all’inumazione dei sovrani. Ma quale era il movente? Forse il giovane faraone, giunto ad un’età adulta, si voleva sottrarre alla tutela dei sacerdoti per gestire personalmente il potere, forse voleva ricalcare le orme del suo predecessore. Infatti, durante la minore età del faraone, i veri padroni erano i sacerdoti attraverso Aye, il Maestro di Palazzo. Dopo la morte di Tut-an-Kamon proprio Aye salì sul trono e sposò Nefertiti per acquistare legittimità. La regina garantì una transizione non traumatica per quattro anni. Ma dopo la sua morte, con una procedura del tutto inconsueta per l’antico Egitto, nei monumenti e nelle iscrizioni fu tolto ogni riferimento al faraone Akhen-Aton e alla moglie. La città di Akhet Aton fu abbandonata e in pochi anni fu coperta dalla sabbia del deserto.

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Filippo e Alessandro Nel 337 a.c. Filippo di Macedonia era al culmine del suo potere. Dopo aver assoggettato la Grecia, ripudiò la moglie Olimpiade, la madre di Alessandro, per sposare Euridice, nipote di Attalo, uno dei suoi generali. Alessandro, che già affiancava il padre nel governo dell’Ellade, non accettò il ripudio della madre che poneva in pericolo la sua successione al trono. Quando Attalo, nel corso del banchetto nuziale, brindò alla coppia regale augurandole di dare un erede legittimo alla Macedonia, Alessandro gridò: “Scellerato, ed io chi sono, un bastardo?” L’anno successivo (336) Filippo era al colmo della gioia: Euridice aveva partorito un figlio maschio. Per Olimpiade e Alessandro fu invece un evento funesto perché quest’ultimo, esiliato per contrasti con il padre (si era rifiutato di scusarsi con Attalo per la scenata durante il banchetto di nozze), la prospettiva del trono si allontanava. Ma in un istante tutto mutò: mentre si recava al teatro per una cerimonia, Filippo fu pugnalato a morte da Pausania, una guardia del corpo. La versione ufficiale, riportata da Aristotele, è che Pausania odiava il re perché Filippo aveva riso quando, otto anni prima, Attalo, dopo averlo ubriacato, lo aveva fatto violentare da un servo; ma è un po’ strano che il soldato se la prendesse con il riso del re invece che con lo stesso Attalo e che la vendetta avvenisse dopo tanti anni. La versione di Aristotele, precettore di Alessandro, è ad usum delphini. Infatti, la voce popolare accusava Olimpiade di aver commissionato il delitto e alcuni estendevano l’ombra del sospetto allo stesso Alessandro. La realtà è che appena il figlio salì sul trono, Olimpiade fece uccidere Attalo, Euridice e il figlio avuto da Filippo.

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È inquietante che Pausania, secondo uno schema che si sarebbe ripetuto molte volte nella storia (ad esempio negli attentati contro Lincoln e Kennedy), fosse stato subito ucciso dai suoi inseguitori e che non si potesse sapere se aveva complici o mandanti. Infatti, il regicida era un nobile che proveniva da una località che prima di essere annessa alla Macedonia, era parte dell’Epiro e la sua famiglia era imparentata con quella della regina Olimpiade. Anche se appare eccessivo quanto ci ha tramandato Giustino, che Olimpiade avrebbe fatto innalzare un tumulo in onore del regicida, certamente il partito epirota di Corte aveva interesse ad avere come re Alessandro che si sentiva legato all’Epiro, per parte di madre. Invece, la versione che i mandanti dell’assassinio fossero i nemici di sempre, i persiani, sembra una mera mossa propagandistica perché fu divulgata solo dopo molto tempo, dallo stesso Alessandro, nel corso della spedizione in Asia e appare la ricerca tardiva di un casus belli. Insomma, una morte controversa quella del re macedone, non diversa da quella, per molti aspetti misteriosa, che avrebbe colpito il suo successore. Conquistato l’Impero persiano, e divenuto signore dell’Asia, Alessandro Magno si spinse ai confini del mondo allora conosciuto, per realizzare il sogno della monarchia universale Ma a Babilonia fu colpito da una violentissima febbre, forse di origine malarica, e morì all’età di 33 anni. C’è chi ha messo in risalto che il conquistatore del mondo era ormai un uomo isolato. I suoi macedoni più volte si erano ribellati perché non sopportavano di essere considerati alla stessa stregua dei persiani ma anche questi ultimi non gli perdonavano di avere abbattuto il loro impero. Ales-

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sandro cercava, invano, di fondere vincitori e vinti in un unico popolo. Invece di riuscire ad avvicinare mentalità, lingue e costumi, suscitò dissapori e discordie. Si susseguirono complotti e ammutinamenti nell’esercito. Dopo la morte del sovrano si sparse, dunque, la voce che la febbre mortale accompagnata da sete inestinguibile e da forti dolori fosse stata provocata dal veleno. Difficile fare ipotesi sui responsabili perché troppi avevano un valido movente, ma si può anche pensare che la febbre fosse frutto delle eccessive fatiche, della vita dissoluta e dell’abuso di vino a cui negli ultimi tempi, per dimenticare i dispiaceri, si era abbandonato con foga forsennata. Rinascimento in nero Ogni morte che ha interrotto un progetto politico di ampia portata è apparsa sospetta, come rivela anche la vicenda di Ippolito de’ Medici Giulia Gonzaga (1513-66) era considerata la più bella donna della cristianità tanto che nel 1534 il pirata Barbarossa aveva allestito una spedizione per rapirla e per portarla come preda al Sultano, che ne avrebbe fatto la regina del suo harem. Mentre i turchi assediavano il castello, Giulia con l’aiuto di un servo si era calata da una finestra ed era fuggita nel bosco in camicia da notte. La leggenda narra che la pudica e altera contessa, una volta tornata al castello, aveva fatto uccidere il servo “colpevole” di averla vista in abiti succinti. Di Giulia era follemente quanto platonicamente innamorato Ippolito de’ Medici (1511-1535). Affascinante cavaliere, raffinato letterato, passava con lei ore incantevoli

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nel castello di Fondi quando, come un fulmine a ciel sereno, gli giunse la notizia della nomina a cardinale. Lo zio, papa Clemente VII, aveva, infatti, destinato al trono di Firenze il figlio naturale Alessandro e assegnando a Ippolito il compito di rappresentare i Medici nel collegio cardinalizio. Una nomina che garantiva forti rendite e non richiedeva di abbracciare il sacerdozio: avrebbe potuto condurre una vita principesca con l’unico obbligo di non contrarre matrimonio. Ma una donna come Giulia non avrebbe mai accettato di essere l’amante di un uomo di Chiesa. Costretto ad accettare, Ippolito, quasi per ripicca, condusse una vita fastosa che sarebbe restata celebre nella Roma rinascimentale. Aprì il suo palazzo ad una folla di artisti e cortigiani, indisse balli, feste, grandiosi banchetti. Ma, in realtà, si sentiva felice solo quando abbandonava la sua affollata corte romana per immergersi nell’atmosfera raffinata di Fondi dove la duchessa si circondava di letterati. Il cardinale Ippolito aveva vent’anni e non poteva accontentarsi di un amore platonico. Per convincere Giulia a sposarlo accarezzò il progetto di lasciare la porpora e di impadronirsi della signorìa di Firenze. Del resto, era l’ultimo discendente legittimo dei Medici e il duca Alessandro, nipote o figlio di papa Clemente VII, era solo un bastardo. Per di più, il potere del “rozzo” Alessandro stava vacillando. Stanche del suo atteggiamento tirannico, le più importanti famiglie fiorentine avevano chiesto l’intervento dell’imperatore Carlo V ed Ippolito, nominato capo della delegazione che doveva recarsi a Napoli dall’Imperatore, si sentiva sicuro che sarebbe stato designato a succedere al cugino.

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Giulia esitava ma le implorazioni di Ippolito, che minacciò il suicidio, e degli esuli fiorentini che gli offrivano la corona di una delle più splendide città d’Europa, la convinsero. A Fondi, Giulia gustò il piacere dell’attesa. Ma una mattina fu avvisata che Ippolito, in viaggio per Napoli, era stato colpito da una violenta febbre. Malaria? I più pensarono che un servitore lo avesse avvelenato per incarico del duca Alessandro che non era nuovo dall’assoldare sicari per sbarazzarsi dei suoi avversari. Ma nessuno avrebbe potuto accusare il duca protetto dal Papa. Tramontò così il sogno di dare a Firenze un governo illuminato e di rinnovare la fama di Lorenzo il Magnifico Anche Alessandro, poco tempo dopo, andò incontro ad una morte violenta e, per di più, avvolta nel mistero, che non riguarda il nome dell’ assassino bensì il movente. Ad uccidere il duca fu un suo lontano parente, Lorenzino, appartenente al ramo “popolano” dei Medici, che era il suo segretario e la sua anima nera. Lorenzino sembrava l’unico capace di convivere con un “padrone” arrogante e dispotico come Alessandro. Trovava cento forme per adularlo, arrivava a fargli da ruffiano. E proprio lasciandogli credere di avergli combinato un appuntamento notturno con una signora dell’alta società, riuscì ad attirare il duca in un’imboscata in un appartamento di Via Ginori, dove lo pugnalò a morte. Dall’omicidio non trasse alcun vantaggio; anzi, perse potere e ricchezza, fuggì in esilio. Per anni, con singolare pervicacia, il nuovo duca Cosimo sguinzagliò spie per l’intera Europa finché, scovato in un convento a Parigi, braccato, esasperato, Lorenzino decise di tornare in Italia, a Venezia, dove fu raggiunto e ucciso dai sicari del duca. Cosimo trasse il maggior vantaggio dalla morte di Ales-

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sandro. Sconosciuto cadetto di casa Medici non aveva alcuna speranza di successione ma l’assassinio di Alessandro impose al partito mediceo di trovare un successore che impedisse ai sostenitori della repubblica di rialzare la testa. Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande Nere, apparve l’unico capace di evitare la guerra civile. Alcuni, dunque, hanno letto nell’accanimento contro Lorenzino non la volontà di punire la morte di Alessandro, che nessuno rimpiangeva, ma di far tacere l’affiliato ad una congiura. Una tesi che appare fragile perché, per sottrarsi alla sua “vendetta”, Lorenzino lo avrebbe senz’altro denunciato come complice del complotto. Allora il movente deve essere ricercato in quello sguardo d’odio che era riuscito a cogliere Benvenuto Cellini quando faceva un bozzetto al duca? Mentre adulava il suo padrone, Lorenzino, che sedeva alle sue spalle, aveva nello sguardo una feroce espressione. Un po’ poco, in verità, per parlare di un desiderio di vendetta a lungo represso. Ma è debole anche l’immagine di un Lorenzino che si erge a Bruto, difensore e vindice delle libertà repubblicane. Debole perché contrasta con un’intera vita condotta da opportunista. Né si può parlare di gesto inconsulto, visto che omicidio e fuga furono progettati fin nei più piccoli particolari. È, infatti, con singolare sangue freddo che Lorenzino chiese il lasciapassare per uscire da Firenze, alle prime luci dell’alba, quando già nel Palazzo di Via Larga si era dato l’allarme per la scomparsa del duca: confidò, a ragione, che la notizia avrebbe impiegato un certo tempo per giungere al posto di guardia di Piazza S. Gallo. Il piano ebbe successo ma poi Lorenzino sembrò non avere altro pensiero che fuggire: non tentò alcuna mossa politica, non si legò ai fuorusciti, quasi che il suo progetto

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si esaurisse con l’assassinio di Alessandro. Ma non aveva fatto i conti con il fatto che Cosimo, per essere legittimato come erede, non doveva avere alcuna indulgenza verso chi gli aveva inaspettatamente spianato la strada del trono. Filippo Strozzi A proposito di Cosimo e della pervicacia con cui perseguì i propri nemici, occorre ricordare lo strano suicidio di Filippo Strozzi che aveva guidato un’insurrezione per restaurare la Repubblica. Colto, enormemente ricco, lo Strozzi non si doleva molto di vivere in esilio, perché a Roma come in Francia era l’animatore della vita mondana. Per i suoi interessi finanziari era una potenza internazionale e non aveva alcuna intenzione di occuparsi della vita politica di Firenze. Tanto più che ne aveva avuto solo dispiaceri. La sua famiglia era tradizionalmente avversaria del potere mediceo ma lui aveva sposato una Medici, Clarice, e, per questo, aveva dovuto prendere la via dell’esilio quando i Medici erano stati banditi da Firenze. La loro restaurazione lo aveva visto ondeggiare fra un iniziale sostegno e un’aperta opposizione, che gli era valsa nuovamente l’esilio, man mano che s’inaspriva la tirannia del duca Alessandro. Dopo l’uccisione del duca, si era ricorsi a Cosimo come extrema ratio ma la sua posizione appariva debole. Allora, l’ambizioso figlio di Filippo, Piero Strozzi, sospinto dalla Francia, che intendeva sottrarre Firenze all’influenza spagnola, decise di approfittarne per restaurare la Repubblica. I fuorusciti allestirono una spedizione militare; erano così sicuri del successo che scoppiarono rivalità sul futuro

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assetto dello Stato. Per riaffermare la sua leadership, Filippo volle essere tra i primi ad entrare in Firenze e si unì all’avanguardia che si distaccò troppo dal grosso delle truppe, attardate dal maltempo sui valichi dell’Appennino. Intercettato a Montemurlo dalla cavalleria spagnola, Filippo fu catturato e rinchiuso nella Fortezza da Basso che era sotto la giurisdizione dell’imperatore Carlo V La sorte dello Strozzi divenne un caso di politica internazionale e la partita si giocò a Madrid. L’ambasciatore di Firenze reclamò il prigioniero, mentre gli inviati degli Strozzi (tra cui Bernardo Tasso, il padre di Torquato) offrirono, per la liberazione del banchiere, un riscatto che avrebbe potuto rinsanguare le esauste casse imperiali. Carlo V esitava perché non intendeva inimicarsi Cosimo, (irremovibile nel voler giustiziare il ribelle) ma, per il momento, non prese alcuna decisione e gli emissari della famiglia Strozzi ritennero che il rinvio fosse una tattica per alzare il prezzo del riscatto. Nel 1538, a Nizza, l’imperatore, il Papa ed il re di Francia s’incontrarono per appianare le controversie in sospeso. Carlo V pretese di dare soddisfazione all’alleato Cosimo ma a Firenze attesero invano la consegna del prigioniero: gli Strozzi ripresero animo e offrirono un riscatto ancora più ingente. Filippo, invece, era pessimista; e non aveva torto perché Cosimo voleva ad ogni costo la sua testa. Per convincere l’imperatore, modificò il capo d’imputazione: dichiarò che lo Strozzi aveva avuto parte nell’assassinio del duca Alessandro. Per convalidare queste accuse, del tutto campate in aria, fece arrestare un amico dello Strozzi, Giuliano Gondi, che fu torturato finché non confessò un inesistente complotto.

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Poi inviò i verbali dell’interrogatorio a Madrid e ottenne di poter sottoporre a tortura lo stesso Strozzi ma non ne ricavò alcuna confessione. Intanto anche il Gondi ritrattò ed il Papa tornò alla carica per ottenere la liberazione. Carlo V, però, ritenne che un voltafaccia gli avrebbe fatto perdere la fedeltà di Cosimo e il 21 novembre 1538 ordinò che il prigioniero fosse nuovamente torturato. Ma non si arrivò a un nuovo interrogatorio. Il 18 dicembre Filippo Strozzi trovò nel carcere una “provvidenziale” spada e si uccise. Si disse anche che Cosimo avesse fatto assassinare il prigioniero da un sicario ma difficilmente il duca avrebbe rinunciato alla pubblica esecuzione: è più probabile che fosse stato lo stesso Filippo a corrompere il castellano spagnolo per ottenere il favore di abbreviare la propria agonia. Bianca e Francesco A proposito di strane malattie, cosa accadde nella villa medicea di Poggio a Caiano quando il duca Francesco e la duchessa Bianca morirono a pochi giorni di distanza uno dall’altro, per una febbre improvvisa quanto violenta, di cui non si conosceva la causa? La vicenda aveva avuto inizio molti anni prima a Venezia, quando una giovane di nobile famiglia, Bianca Cappello, fuggì di casa per sposare il fiorentino Pietro Bonaventuri. Ma Pietro non era ricco come le aveva fatto credere e la nobile Bianca, che a Venezia aveva a disposizione uno stuolo di servitori, a Firenze si ritrovò a fare i lavori domestici. Per di più, la sua famiglia cercava di riportarla a Venezia dove l’avrebbe rinchiusa in un convento. Viveva, quindi, confinata in casa mentre il marito se la spassava con gli

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amici e con le cortigiane. L’unica distrazione era assistere dalla finestra alle parate militari in Piazza S. Marco, specie quando c’era Francesco, figlio ed erede di Cosimo de’ Medici. Un giorno Bianca gettò una rosa ai piedi del principe che volle conoscere la misteriosa dama. Quando riuscì ad incontrarla, restò folgorato dalla sua bellezza. E Bianca divenne ben presto l’amante del giovane Medici. Il marito, Pietro Bonaventuri, che i fiorentini ribattezzarono subito “corna d’oro” trasse cospicui benefici dalla vicenda e continuò a spassarsela finché morì in un agguato teso dai parenti di una donna che aveva molestato. C’era, però, chi sosteneva che Francesco, nel frattempo salito sul trono con il titolo di Granduca, era stato preavvisato dell’agguato da un rapporto di polizia. Bianca era vedova ma la sua situazione non migliorò. Secondo la legge del tempo, tornò nuovamente sotto la giurisdizione del padre che intendeva obbligarla ad entrare in convento per gestire il patrimonio che il Granduca le aveva donato e che comprendeva ville e palazzi. Improvvisamente, però, anche Francesco restò vedovo. Senza nemmeno attendere la fine del periodo di lutto sposò Bianca, nonostante il parere contrario della Corte e, in particolare, del fratello, il cardinale Ferdinando. Il matrimonio rese popolare la Cappello ed i veneziani la proclamarono “dilettissima figlia della Serenissima”. Solo Ferdinando restò ostile ma la generosità di Francesco, che pagava i suoi debiti senza discutere, lo rese malleabile. Il segno della definitiva riconciliazione avrebbe dovuto essere una visita “ufficiale” del cardinale a Firenze. La coppia granducale lo ospitò nella villa di Poggio a Caiano per approfittare delle splendide giornate autunnali, adatte alla caccia.

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È appunto al ritorno da una partita di caccia con il fratello che il Granduca venne assalito da una violenta febbre che non diminuì con il passare dei giorni. Ferdinando mise a disposizione il suo medico. Poi rispose a tutti coloro (segretari, consiglieri, ambasciatori) che volevano vedere il Granduca, che l’ammalato non poteva assolutamente ricevere visite e assunse in sua vece la guida degli affari di Stato. Nel frattempo, anche Bianca, affranta, cadde in uno stato di prostrazione. La figlia di Bianca e Francesco, moglie del duca d’Este, inviò il proprio ambasciatore per conoscere le condizioni dei genitori; ma anche a lui si rispose che i due ammalati non erano in condizione di ricevere visite. Poi Francesco morì e Ferdinando s’insediò sul trono. Passarono solo pochi giorni e fu annunciata anche la morte di Bianca. I due granduchi avevano un figlio, Don Antonio, nato prima del matrimonio e che Francesco pensava di legittimare per inserirlo nella linea di successione. Ferdinando, invece, rispolverò le chiacchiere che si erano fatte al tempo del parto (si era parlato di uno scambio di neonati perché Bianca avrebbe partorito una femmina). Con testimonianze compiacenti dichiarò che Don Antonio non era figlio del fratello e lo privò di ogni lascito. Bianca non fu sepolta nelle Cappelle medicee e per rimuoverne la memoria si cancellò ovunque il suo stemma. Intanto, Ferdinando si avviava a divenire uno dei più potenti e illuminati sovrani della stirpe medicea. Dietro il pugnale di Ravaillac Nella primavera del 1610, il re di Francia Enrico IV radunò un poderoso esercito per chiudere la secolare partita con gli Asburgo e assicurare alla Francia la suprema-

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zia in Europa. Il 13 maggio, a Saint Denis, la regina Maria de’ Medici, fu nominata reggente. Il giorno successivo, quando l’esercito stava per mettersi in marcia, il re passò in carrozza per via della Ferronerie, una strada angusta nel centro di Parigi. Ad un certo punto, la carrozza fu costretta a fermarsi da un carro che ingombrava la strada. Tra la folla sbucò un uomo che si avventò su Enrico IV e lo pugnalò a morte. L’assassino era François Ravaillac, un monaco fanatico, ossessionato dal timore che il re progettasse di massacrare i cattolici per far prevalere la religione protestante. Insomma, un colpevole ad hoc ed un movente plausibile. In realtà, i nemici di Enrico IV erano molti. In prima linea i grandi feudatari che, a causa della condotta energica del re, temevano di perdere potere; poi gli spagnoli che, durante le guerre di religione, spadroneggiavano in Francia e che adesso si trovavano ad essere attaccati nei loro possedimenti olandesi. Ma alcuni hanno guardato con sospetto anche all’entourage della stessa regina: i principali indiziati sono due fiorentini, i coniugi Concini, che, durante la reggenza della Medici, assunsero un potere quasi assoluto. E c’era anche Enrichetta d’Etrangues, una ex amante del re che non riusciva ad ottenere dal sovrano il permesso di sposare il capo della fazione cattolica, il Duca di Guisa. Un movente che può sembrare più debole ma fu proprio un’amica di Enrichetta, madame de Tillet, che si mise in contatto con Ravaillac e lo ospitò nel suo palazzo di Parigi. Tra l’altro l’amante della Tillet, il duca d’Epernon, era un nemico giurato del re. Al suo arrivo nella capitale, Ravaillac frequentò ambienti oltranzisti cattolici e affermò che intendeva uccidere

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il re. I gendarmi ne furono informati e quando fu visto aggirarsi attorno al Louvre, venne arrestato. L’interrogatorio rivelò che il frate era solo un mitomane esaltato. Negò di avere minacciato il regicidio e poiché dichiarò che voleva solo esortare Enrico IV a non discriminare i cattolici, ci si limitò ad espellerlo da Parigi. Il frate obbedì docilmente ma, giunto ad Etampes, tornò sui suoi passi. È difficile stabilire cosa o chi gli avesse fatto cambiare idea. Dopo l’attentato, Ravaillac fu catturato e condannato a morte per squartamento. Al processo, nonostante le torture, negò di avere avuto complici o mandanti. Eppure sulla carrozza, accanto al re c’era proprio il duca d’Epernon. E fu lo stesso Epernon che, presa in mano la situazione, si occupò dell’inchiesta. Addirittura, per la teoria del cui prodest? i sospetti sfiorano la stessa Maria de’Medici. Senza alcun indizio concreto. Ma il tenace attaccamento al potere di cui la regina dette spesso prova, non la rende esente da ombre, specie se si pensa all’influenza inquietante dei coniugi Concini. L’attentatore apparve, insomma, all’opinione pubblica una persona psicologicamente debole, usato come sicario di un complotto che doveva avere menti ben più brillanti. D’altronde, lo stesso Enrico di Borbone non era stato esente da sospetti quando un altro fanatico, il monaco Clément aveva assassinato il suo predecessore, Enrico III, l’ultimo dei Valois. I due Enrichi si erano alleati e assediavano Parigi che si era ribellata. Il 30 luglio 1589, ammirando dalla collina di Saint Cloud gli splendidi monumenti della capitale, Enrico III aveva detto al Borbone: “È quasi un crimine distruggere una città così bella ma non c’è altro da fare per ridurla all’obbedienza”.

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Poco dopo Jacques Clement, gli chiese udienza, ed il re acconsentì a riceverlo. Dopo alcune frasi di circostanza, il frate estrasse un pugnale e lo uccise. Parigi fu salva perché il Borbone tolse l’assedio: salito al trono con il nome di Enrico IV, preferì impadronirsi pacificamente della capitale. Padri e figli Negli ultimi anni di regno di Solimano il Magnifico (1520-1566) la lotta per la successione coinvolse la corte e in particolare l’harem, centro nevralgico degli intrighi per il potere. La corona spettava al primogenito Mustafà che, per di più, aveva dato buona prova come governatore. Ma Solimano era soggiogato da una delle sue mogli, la bellissima Roxelane, che ordì una trama complessa per porre sul trono suo figlio Selim. Come prima mossa fece sposare una propria figlia al Gran Visir in modo da procurarsi un potente alleato all’interno del Divano Tuttavia, eliminare Mustafà dalla successione appariva un’impresa difficile perché era un personaggio popolare. Piaceva alla gente perché univa coraggio e spirito religioso, le virtù più apprezzate dai turchi. Soprattutto, era amato dai giannizzeri, le truppe scelte del Sultano. Roxelane, però, era determinata ad ottenere quello che si era prefissa. Per prima cosa rese difficile la vita alla madre di Mustafà, Gul-Bahar, mettendole contro tutte le donne dell’harem. Esasperata, Gul-Bahar cadde nel tranello: durante una lite graffiò la rivale. Roxelane, sdegnata, si chiuse nelle sue stanze e si negò al Sultano, sostenendo di preferire la morte piuttosto che comparire deturpata al cospetto del suo signore.

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Solimano, allontanò Gul-Bahar dalla capitale e le ordinò di raggiungere il figlio, che era governatore della provincia di Manisa. A corte non restò nessuno a difendere gli interessi di Mustafà e Roxelane, con l’aiuto del Gran Visir, lo mise quotidianamente in cattiva luce. Insinuava che Manisa era una provincia sediziosa, che Mustafà aveva troppo ascendente sulle truppe. Quando si accorse che stava perdendo la fiducia del padre, Mustafà reagì nel modo sbagliato, con fierezza e sdegno, proprio come prevedeva Roxelane. Altrettanto orgoglioso, Solimano scambiò l’indignazione del figlio per un gesto di ribellione, per di più in un momento delicato perché a corte si mormorava che era troppo vecchio per governare e che avrebbe dovuto cedere il posto al più risoluto Mustafà. Perciò, quando il principe si pose alla testa delle truppe per far guerra alla Persia, Solimano pensò che la mobilitazione fosse un trucco per impadronirsi del potere. Mancavano, però, le prove della congiura. A fabbricarle ci pensò Roxelane. Un soldato che fungeva da portaordini fu convinto a testimoniare che le truppe erano pronte a seguire Mustafà contro il Sultano. Solimano, noto per essere astuto e imperturbabile, prestò fede a questa storia fantasiosa. Infuriato, convocò Mustafà per avere spiegazioni. Il figlio accorse, confidando sulla propria innocenza, ma appena mise piede nella sala del trono fu afferrato dalle guardie di Solimano e strangolato. Nel frattempo un sicario uccise anche il figlio di Mustafà. Eliminato l’ultimo ostacolo, Roxelane riuscì a far salire sul trono il figlio Selim II che si rivelò un docile strumento nelle mani del Gran Visir e dell’harem.

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Assassinio in palcoscenico L’attentato che costò la vita ad Abramo Lincoln precorse con una serie inquietante di analogie l’assassinio di John Kennedy a Dallas. Anche l’attentatore di Lincoln fu descritto come un esaltato, ed anche allora un “patriota” lo uccise in un “impeto d’ira”, prima che potesse rivelare i retroscena del complotto. Anche nel caso di Lincoln, come in quello di Kennedy, varie ricostruzioni divergono dall’inchiesta ufficiale: sostengono che il movente dell’assassinio era di segno ben diverso da quello dichiarato dall’esecutore e che le fila della congiura erano tirate da personaggi potenti. Tant’è vero che, in entrambi i casi, l’attentato modificò profondamente la politica del governo americano Nell’aprile 1865, con la resa del generale Lee, terminò la guerra di Secessione che da quattro anni insanguinava l’America. Abramo Lincoln intendeva ricostituire l’unità nazionale: ebbe, quindi, un atteggiamento moderato. Ma i sudisti vedevano in lui l’artefice della propria rovina. Tra questi c’era Wilkies Booth, un noto attore che, sebbene originario del Maryland del Nord, parteggiava per la causa sudista. Insieme ad alcuni complici, Booth aveva progettato di rapire il Presidente per scambiarlo con prigionieri sudisti. Assalirono una carrozza sbagliata ma la Polizia non approfondì l’episodio. Poi, dopo la resa del Sud, Booth apparve smarrito ed abbandonò l’idea del rapimento. Ma il 13 aprile apprese dai giornali che il giorno successivo il Presidente si sarebbe recato a teatro insieme al generale Grant. Ritenne che quello fosse un segno del destino: poteva “vendicare” il Sud uccidendo i due maggiori “responsabili” della sconfitta. Radunò i suoi complici e passò all’azione.

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Il 14 aprile era venerdì Santo e a Lincoln non sembrava la sera adatta per recarsi a teatro. Per di più, la giornata era stata faticosa La riconciliazione nazionale era osteggiata dai repubblicani radicali che chiedevano l’occupazione militare degli stati confederati e la confisca dei beni. A questi principi s’ispirava, appunto, il piano sulla ricostruzione del Sud presentato dal Ministro Stanton e respinto da Lincoln. Ma il Presidente sapeva che i radicali erano forti in Senato ed aveva passato il pomeriggio a convincere i più influenti esponenti del Congresso. Era ancora impegnato in questi colloqui quando la moglie lo esortò a prepararsi per il teatro. Sebbene fosse molto stanco non se la sentì di deludere quanti avevano comprato il biglietto proprio per poter vedere il Presidente. Nel pomeriggio Booth si recò ad assistere alle prove ed esaminò il percorso per la fuga. Poiché quello presidenziale era un palco di proscenio, con un salto di tre metri poteva raggiungere il palcoscenico, attraversarlo e arrivare ad un’uscita di servizio. Stabilì anche il momento per entrare in azione. Ad un certo punto della commedia brillante Il nostro cugino americano c’era una battuta che provocava immancabilmente l’ilarità del pubblico. Le risa e gli applausi avrebbero coperto il colpo di pistola. Radunati i complici che avrebbero dovuto “completare” il piano uccidendo anche il vice Presidente Johnson nel suo albergo, Booth tornò al Ford’s Theatre per l’inizio della rappresentazione. Raggiunse il corridoio che portava al palco presidenziale ed ebbe la piacevole sorpresa di trovarlo deserto. Il poliziotto che quella sera sostituiva Cook, la fedelissima guardia del corpo del Presidente, era andato al bar. Al momento previsto della commedia Booth irruppe nel

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palco e sparò due colpi alla testa del Presidente, poi raggiunse il palcoscenico con un salto; cadde, si rialzò zoppicando e fuggì, approfittando dello sbigottimento degli attori e del pubblico. Accorsero i medici ma dopo un’agonia di alcune ore Lincoln spirò. Il Vice Presidente Johnson, fortunosamente scampato ad un analogo attentato perché il sicario all’ultimo momento aveva desistito, prestò giuramento come nuovo Presidente Intanto, nonostante una caccia senza quartiere coordinata dal Ministro Stanton che aveva posto una taglia di 50.000 dollari, Booth uscì indisturbato dalla città per l’unica strada dove non era stato installato un posto di blocco. Tuttavia, dodici giorni dopo, il 26 aprile, fu rintracciato e accerchiato dai soldati in un fienile della Virginia. Costretto ad arrendersi, uscì con le mani alzate ma, fatti pochi passi, fu abbattuto dalla fucilata di un sergente che dichiarò di aver sparato perché temeva che il ricercato fuggisse. È, però, difficile credere che Booth, circondato, potesse darsela a gambe e, d’altronde, tutti sapevano che aveva un femore fratturato Anche i complici di Booth vennero arrestati. Quattro di essi furono sbrigativamente condannati a morte e giustiziati, altri scomparvero dalle rispettive prigioni dopo che si era cercato invano di far loro confessare un collegamento con ambienti Confederati. In realtà, i leaders sudisti avrebbero dovuto sapere che con la morte di Lincoln si allontanava la speranza di una pace moderata e che gli estremisti avrebbero imposto l’occupazione militare del Sud. (Non a caso, il complotto prevedeva anche l’uccisione del Vice Presidente e del Segretario di stato Seward, entrambi di tendenze moderate).

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Il Ministro Stanton sostenne, invece, che dietro ai congiurati c’era una vasta cospirazione sudista e ottenne di far processare il Presidente confederato Jefferson Davis. Ma il tribunale non trovò nessuna prova a suo carico e lo assolse. Alcuni giornali come il «The people’s Weekly» parlarono, addirittura, di un complotto in funzione antisudista diretto da Stanton, e dai servizi segreti. Ma è stato solo molti anni dopo, nel 1940, che Otto Eisenschim, dopo minuziose ricerche sulle incongruenze e le lacune dell’inchiesta, ha sollevato dubbi inquietanti. Il primo interrogativo riguarda la guardia del corpo che al momento dell’attentato si trovava al bar e che, nonostante questa incredibile negligenza, non subì alcuna punizione. Per di più, in passato, il gendarme era stato più volte punito per ubriachezza e suscita quanto meno perplessità che fosse stato scelto per un incarico così delicato. Tanto più che quella stessa sera Lincoln aveva chiesto la protezione del maggiore Eckart, un uomo di grande esperienza e abilità, ma gli era stato risposto che il maggiore era impegnato in una missione che, però, non fu mai precisata. Gli interrogativi più inquietanti riguardano, però, la fuga e la cattura di Booth. Il Ministero della Guerra aveva subito ordinato ai comandi periferici di bloccare tutte le vie che uscivano da Washington. Ma Eisenschim, consultando le copie dei telegrammi conservate nell’archivio di Stato, ha scoperto che mancava proprio quella della strada scelta dall’assassino per fuggire in Virginia. I lati oscuri della vicenda convergono, poi, nell’episodio dell’uccisione di Booth. Il sergente che asserì di aver sparato, fu subito internato in un manicomio. In realtà, secondo Eisenschim, la traiettoria proverebbe che a sparare

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era stato un ufficiale appartenente al servizio segreto. E molti dubbi si addensano anche sulla figura di Booth. Fanatico sudista o strumento degli estremisti nordisti? Un doppiogichista o un ingenuo manovrato da abili burattinai? La personalità dell’attentatore appare, infatti, contraddittoria: più volte aveva confidato di voler uccidere Lincoln per passare alla storia come il vendicatore del Sud. Ma nonostante le ostentate simpatie per la causa dei Confederati, durante la guerra Booth aveva continuato a vivere a Nord e si era ben guardato dall’arruolarsi nell’esercito di Lee, adducendo come motivazione la fobia per il sangue e per le cicatrici. La strana scelta di complici notoriamente inetti e la folle idea del rapimento fa pensare piuttosto ad un agente provocatore. Ma allora, se i servizi segreti conoscevano l’esistenza della banda e avevano progettato i finti agguati che avrebbero dovuto servire a screditare il Sud, si comprende la mancanza di misure preventive e come si riuscì, dopo l’assassinio, ad arrestare tutti i complici senza difficoltà. E si è pensato che forse anche l’attentato doveva essere solo una messinscena, sempre a scopi propagandistici (si spiega così la preparazione di una via di fuga) ma che Booth colse l’occasione per fare sul serio… La tesi di un Booth al servizio del controspionaggio che, all’improvviso, sfugge ad ogni controllo per mero protagonismo o per divenire strumento dei nordisti estremisti è più convincente di quella di un complotto guidato da personaggi del calibro del Ministro Stanton. Perché se è vero che il Ministro guidava la caccia agli attentatori quando si verificarono molte delle situazioni ambigue descritte, fu però lo stesso Stanton che si preoccupò della sicurezza del Vice Presidente Johnson e degli altri membri del Governo. In

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assenza di indizi, ad accusarlo non bastano certo le sue posizioni politiche radicali. Infatti, la maggior parte dei leaders rimproverava il Presidente di non usare le maniere forti e pochi, anche fra i suoi più stretti collaboratori, simpatizzavano con la politica di riconciliazione. Anche nel caso di Lincoln, dunque, come per l’assassinio di Kennedy, si è sospettato che il movente fosse di segno ben diverso da quello dichiarato dall’omicida e che la realtà non fosse quella che era stata posta sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Quanto alle altre analogie, oggi diffuse in molti siti web e che fanno parlare di “vite parallele”, esse rientrano nel campo della mera curiosità. Lincoln era stato eletto nel 1860, Kennedy nel 1960; entrambi vennero assassinati di venerdì, alla presenza delle proprie mogli e tutti e due furono colpiti alla nuca. I loro successori si chiamavano entrambi Johnson, erano democratici e del sud. Andrew Johnson, successore di Lincoln, era nato nel 1808, Lyndon Johnson nel 1908. Booth era nato nel 1839 e Lee Oswald nel 1939. Il segretario di Lincoln si chiamava Kennedy, la segretaria di Kennedy si chiamava Lincoln. Booth uccise ll Presidente in un teatro e si rifugiò in un magazzino, Oswald sparò da un magazzino e si rifugiò in un teatro. Entrambi gli assassini morirono alla stessa ora delle loro vittime: Booth alle 7,20 del mattino, Oswald alle 13,00. Narra una leggenda che Lincoln appare ad ogni Presidente che sta per essere ucciso. Ebbene a Dallas non ci fu un’apparizione ma c’è comunque una coincidenza: Kennedy era a bordo di un’auto di marca Lincoln.

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Sarajevo, 1914 La cronaca dell’attentato all’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando, che precipitò l’Europa nel crogiolo della Grande Guerra, rivela che si trattò, per molti versi, di un delitto annunciato. Eppure quella di Sarajevo fu una giornata degli inganni: ancora una volta un complotto che sembra avere molto in comune con l’attentato di Dallas del 1963. Una vicenda che per gli aspetti ancora oscuri, per le possibili connivenze dei servizi segreti, per la tecnica che “precorre” quella di altri celebri attentati, appare di sconcertante attualità. Domenica 28 giugno 1914, alle finestre di Sarajevo sventolavano le bandiere gialle e nere dell’Impero danubiano. Il suono delle campane annunciava la visita dell’arciduca d’Austria e i negozi esponevano la foto dell’illustre ospite. Nella polveriera balcanica, la Bosnia era un’area di forte tensione: alla dominazione turca si era sostituita quella austriaca e ciò rappresentava uno smacco bruciante per la causa del panslavismo, patrocinato dalla Serbia e dalla Russia. L’irredentismo serbo-bosniaco era esasperato dalle società segrete che facevano capo a Belgrado, prima fra tutte la famigerata Mano nera che era in stretto contatto con il colonnello Apis alias Dragutin Dimitrievic, capo dei servizi segreti serbi. Da qui l’esitazione di Francesco Ferdinando a prendere parte alle manovre militari che si tenevano a Sarajevo con la chiara intenzione di “mostrare i muscoli” alla Serbia. L’Arciduca temeva per la sua incolumità; prima di partire chiamò il nipote Carlo (il primo nella linea di successione) per dirgli: “So che tra poco mi uccideranno. In questa scrivania ci sono i documenti che ti affido”. Più che una

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premonizione, la consapevolezza di essere un bersaglio fin troppo allettante per i terroristi. In effetti, Francesco Ferdinando era il nemico più odiato perché, ritenendo inevitabile lo scontro con la Russia, auspicava una guerra preventiva contro la Serbia. Tanto più che in politica interna, per ridimensionare il potere degli ungheresi, ipotizzava un impero multietnico (gli Stati Uniti della Grande Austria) con un assetto federale che avrebbe tolto mordente all’irredentismo e al sogno della “grande Serbia”. Ma questa politica indispettiva anche i tedeschi e suonava come un’offesa per gli ungheresi che non volevano rinunciare alla supremazia sulle popolazioni slave. Del resto, l’avversione per i magiari era una costante della sua politica. La stampa di Budapest riportò che durante una riunione con i suoi collaboratori avrebbe detto: “gli altezzosi unni un giorno dovranno lucidarmi gli stivali” Una serie di forze ostili si addensavano, dunque, attorno all’erede al trono che, però, non poteva esimersi da quell’impegno. Assistendo alle manovre nella nuova veste di Ispettore generale, Francesco Ferdinando aveva una buona occasione per accrescere il proprio prestigio. Inoltre, a spingerlo verso Sarajevo c’era anche un motivo privato: per l’assurda etichetta di Corte, sua moglie Sofia, non essendo di sangue reale, non aveva lo stesso rango del marito. Il divieto, però, non valeva per cerimonie legate al grado militare: si trattava, dunque, di una rara occasione nella quale Francesco Ferdinando poteva avere al suo fianco l’amata Sofia. Eppure, la preoccupazione di attentati lo rese esitante. Riteneva che il Governo gli avrebbe impedito di partire, per

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motivi di sicurezza. Ma ciò non avvenne. Tacquero anche il Capo di stato Maggiore Corirad von Hotzendorf e il Governatore di Sarajevo Potiorek. L’imperatore gli disse solo: fai come vuoi. Avvertendo che si scaricava su di lui la responsabilità politica di una defezione, l’Ariciduca decise di rompere gli indugi. Il soggiorno in Bosnia sembrò smentire i sinistri presagi. Le manovre furono giudicate “eccellenti” e anche la permanenza nella cittadina di Ibidza, a 9 km da Sarajevo, fu piacevole. La sera del 27 giugno, in occasione del pranzo di congedo, l’arciduca apparve insolitamente cordiale. A raffreddare l’atmosfera giunse un imprecisato avvertimento che era stata ordita una cospirazione. Ma ormai non era più possibile annullare la parata né Francesco Ferdinando era tipo da lasciare la Bosnia come un fuggiasco: scacciò dalla mente ogni motivo di preoccupazione, come un pensiero inopportuno. Il mattino dopo, gli illustri ospiti giunsero a Sarajevo alle 9,40, accolti da salve di cannone. La vista della città, adagiata in un anfiteatro di montagne, era incantevole. Alla parte antica, con i quartieri musulmani, costellati di minareti, si aggiungeva la città nuova, in stile asburgico, con imponenti palazzi che si richiamavano a quelli viennesi. In mezzo, un torrente impetuoso (la Miljacka), costeggiato da un viale. Proprio sul lungofiume Appel si avviò il corteo: Francesco Ferdinando e la moglie erano saliti su un’automobile decappottabile, preceduta da due auto della scorta. Tra la folla festante c’erano sette giovani armati, tre dei quali giunti da Belgrado. Alle 10,15 il corteo passò davanti al caffè Mostar. Uno dei congiurati stava per entrare in azione ma si accorse di avere un gendarme alle proprie spalle e non si mosse.

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Anche un secondo attentatore desisté, per timore di colpire la duchessa Sofia. Non esitò, invece, il diciannovenne Cabrinovic che scagliò una bomba contro l’auto dell’arciduca. L’ordigno rimbalzò sul cofano e scoppiò, causando numerosi feriti tra la folla. Francesco Ferdinando restò illeso; la duchessa Sofia riportò una lieve escoriazione al collo. Cabrinovic si gettò nel fiume dopo aver ingerito una capsula di cianuro; ma il veleno non fece effetto e fu catturato dalla polizia. Quando il corteo giunse in municipio, il sindaco, sebbene sconvolto dall’accaduto, volle comunque, in perfetto stile austroungarico, attenersi al programma e lesse il discorso di benvenuto. Visibilmente scosso e irritato da quel declamare retorico, l’arciduca lo interruppe esclamando: “Ma che città è questa? Veniamo a farvi visita e ci accogliete con le bombe!” Al termine della cerimonia era previsto il pranzo ufficiale al Palazzo del Governo ma Francesco Ferdinando volle prima andare a far visita alle vittime dell’attentato. Nella confusione più totale, nessuno avvertì gli autisti del mutamento d’itinerario: né si pensò a rafforzare il servizio d’ordine. Mancavano dieci minuti alle undici quando Francesco Ferdinando uscì aggrottato dal Municipio e nel salire sull’auto (che, contro ogni logica, manteneva la capote abbassata) esclamò: “Oggi ci prendiamo altre pallottole!” Il corteo imboccò nuovamente il lungofiume Appel. Ignorando il cambiamento di programma, l’autista, all’altezza dei ponte Leitener, voltò a destra. Il Governatore Potiorek, gridò eccitato che aveva sbagliato percorso e che doveva tornare sul lungofiume per recarsi all’ospedale. L’autista si fermò, innestò la marcia indietro (un’operazione che, all’epoca, richiedeva qualche secondo in più di

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oggi). Proprio quando, a causa della manovra, l’auto era praticamente ferma, Gavrilo Princip, appostato sull’angolo fra l’Appel-Quai e la FranzJosephstrasse si trovò a non più di tre metri di distanza dalla coppia imperiale. In rapida successione sparò quattro colpi che raggiunsero l’arciduca e la duchessa. Francesco Ferdinando gridò: “Sofia! Sofia! Devi vivere per i nostri figli!” Ma entrambi morirono dopo pochi minuti. Sottratto al linciaggio, Princip ingoiò una capsula di cianuro che però, anche nel suo caso, non fece effetto. Un’altra delle mille stranezze di quella giornata. Al processo, lo studente bosniaco avrebbe dichiarato che prima della fatale inversione di marcia dell’auto, aveva ormai rinunciato a sparare a causa della velocità e dell’eccessiva distanza dalla vettura. Merita, infine, rilevare un’ennesima coincidenza: l’inversione di marcia rese inutile la protezione del conte Harrach che stava in piedi sul predellino di destra, proprio per interporsi fra l’arciduca e la folla assiepata sul lungofiume. Dopo che il telegrafo e le agenzie di stampa ebbero diffuso la notizia, arrivarono a Sarajevo ministri, diplomatici e alti ufficiali. Si trovarono di fronte ad una città vuota, silenziosa, attonita. Le bandiere afflosciate, i festoni, le ronde militari che presidiavano strade e piazze dove non c’era più nulla da difendere, avevano un aspetto irreale, grottesco. Fin qui la cronaca dell’attentato. Ma chi organizzò il complotto? Ci furono connivenze e complicità eccellenti? Fin dalle prime indagini apparve evidente il legame fra gli attentatori e le società segrete panslaviste. Successivamente, si appurò che la congiura era stata “diretta” dal colonnello Dimitrievic e dal maggiore Vladislav Tankosic

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che aveva fornito le armi e addestrato i congiurati in un poligono militare. Ma la pista serba presentò ben presto elementi contraddittori e interrogativi inquietanti. A cominciare dall’atteggiamento del primo ministro Nicola Pasic, un abile diplomatico, che si muoveva a proprio agio nell’intricata politica balcanica. Ai primi di giugno, Pasic era preoccupato da notizie di azioni terroristiche che minacciavano di coinvolgere la Serbia. Sebbene fosse noto per la sua determinazione, non prese iniziative. Temeva che la Mano nera potesse ucciderlo o addirittura effettuare un colpo di Stato? Nel 1924 Ljuba Jovanovic che, nel ’14 faceva parte del Governo Pasic, pubblicò un articolo in cui rivelò che il Primo Ministro, ai primi di giugno, aveva sentito dire che era in atto un complotto per colpire l’arciduca a Sarajevo. L’unica misura adottata fu quella di avvertire il personale di frontiera. Ma le istruzioni erano arrivate troppo tardi per fermare i congiurati o forse le guardie di confine facevano parte del complotto. L’ammissione di Jovanovic che a Belgrado si sapeva dei preparativi dell’attentato, provocò, nel 1924, uno scandalo internazionale. La stampa occidentale chiese a Pasic una smentita: il Primo Ministro jugoslavo si limitò ad annunciare che sull’intera vicenda avrebbe pubblicato un libro bianco che non uscì mai. Probabilmente avrebbe dovuto ammettere che la Mano nera, era stata usata dai servizi serbi per tenere aperta la questione bosniaca, ma era poi divenuta un vero Stato nello Stato, sfuggendo così ad ogni controllo, e che il maggiore Tankosic aveva forti legami con la Russia. Perciò, si può presumere che Pasic, sebbene fosse un moderato e quindi nemico del terrorismo, non avesse osato denunciare il pericolo rappresen-

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tato dalle società segrete per non dare all’Austria il pretesto per un intervento armato. Aveva fatto, però, alcuni passi diplomatici. L’allora ambasciatore di Serbia a Vienna Jovan Jovanovic rivelerà, dopo la guerra, di aver avvertito il ministro austriaco Bilinsky, Amministratore della Bosnia-Erzegovina, di un possibile attentato. L’avvertimento non fu preso sul serio. Perché? Per leggerezza del governo austriaco o perché era un’informazione così vaga da non apparire credibile? E perché l’ambasciatore non avvertì il suo diretto interlocutore, il ministro degli Esteri Berchtold, ben più autorevole di Bilinsky? Si può ipotizzare che l’astuto Pasic cercasse una via “informale” per non far identificare la fonte delle informazioni. Non meno inquietante il comportamento del Governo austro – ungarico. In una situazione esplosiva come quella bosniaca occorrevano molte precauzioni e misure drastiche per stroncare ogni potenziale pericolo. Eppure Vienna non predispose adeguate misure di sicurezza. Addirittura, Bilinsky non si sentì in dovere d’intervenire perché l’organizzazione del soggiorno era di competenza del generale Potiorek, quello stesso che, dopo il duplice omicidio, esclamò: “Signori, è stata una grande disgrazia. Ma bisogna pur mangiare. Andiamo a pranzo”. Fu la conclusione – simbolo di una giornata allucinante, dove tutto concorreva alla realizzazione di un “delitto annunciato”, a cominciare dalla straordinaria inefficienza della polizia. Al momento del primo attentato erano schierati sul lungofiume Appel, a poche decine di metri l’uno dall’altro, ben cinque congiurati e altri due erano appostati all’im-

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boccatura del ponte, senza che la polizia effettuasse alcun controllo. Eppure alcuni, come Ilic, erano noti alle autorità locali e si sapeva che molti giovani bosniaci erano affiliati alle società segrete. Anche dopo l’esplosione della bomba, i complici di Cabrinovic si allontanarono indisturbati con le armi; addirittura, Princip e Grabez restarono al loro posto. C’è da chiedersi perché, dopo un evento così grave, non si presero misure adeguate facendo presidiare le strade dai reparti militari che avevano preso parte alle manovre. Ma l’inefficienza dei servizi segreti di Vienna appare inaudita fin dai primi passi del complotto che prese corpo in una riunione tenuta, nel gennaio 1914, in un caffé di Tolosa, noto ritrovo degli studenti serbo-bosniaci. I congiurati ritenevano che l’attentato avrebbe provocato un rivolgimento dell’assetto balcanico. “Abbiamo smembrata la Turchia – affermarono – e smembreremo l’Austria”. In aprile si trasferirono in Serbia, nell’abitazione del maggiore Tankosic. Poi, avuta la conferma della visita di Francesco Ferdinando, si misero in viaggio per Sarajevo lungo itinerari diversi. Un primo gruppo attraversò il confine a Sabaz dove entrò in contatto con esponenti della rete clandestina. Princip, invece, attraversò la Drina a Priboj, travestito da guardia di finanza. Lungo il tragitto, la sbadataggine della polizia austriaca permise ai cospiratori di superare circostanze fortuite che avrebbero potuto tradirli. L’episodio più sconcertante accadde a Doboj: la valigetta che conteneva le bombe e le pistole fu rubata o, incredibilmente, venne dimenticata dai congiurati nella sala d’aspetto della stazione. Ma fu recuperata, in modo altrettanto misterioso, nella bottega di un sarto.

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C’era, poi, un ottavo congiurato, un certo Ciganovic, che scomparve nel nulla per ricomparire nel ‘17 a Salonicco. Probabilmente era un agente dei servizi segreti serbi che faceva il doppio gioco. Infine, pare ormai accertato da documenti resi noti negli anni Sessanta, che il colonnello Apis, temendo di essere scoperto, avesse cercato all’ultimo momento di annullare l’operazione, ma che gli attentatori si fossero rifiutati di obbedire. Tuttavia, anche il comportamento dello stesso Francesco Ferdinando contribuì a spianare la strada all’attentatore. Alle esitazioni che l’arciduca aveva avuto prima della partenza, aveva fatto seguito un atteggiamento temerario, quasi di sfida. Dopo la bomba di Cabrinovic, Francesco Ferdinando non volle interrompere la visita a Sarajevo: e ciò era in linea con il suo carattere. Meno comprensibile l’atteggiamento che lo fece andare incontro alla rivoltella di Princip con una sorta di fatalismo, quasi di rassegnazione. A questo proposito, si è discusso a lungo attorno alla frase pronunciata dallo stesso principe: “Oggi ci prendiamo altre pallottole!” considerata frutto di una sensazione di morte o di una sfida al destino. Un nichilismo contraddetto dalle sue ultime parole, che manifestano soprattutto preoccupazione per la moglie e per i figli. Restano, però, il rifiuto di precauzioni che portò Francesco Ferdinando a protestare per la presenza del conte Harrach sul predellino e l’assurdità della capote dell’auto ancora abbassata quando, ormai, non c’era più alcuna parata e il clima di festa si era dissolto Quanto all’atteggiamento di Francesco Giuseppe, si sa che appena informato dell’accaduto esclamò: “Terribile! Poveri figlioli!” È dubbio, invece, che abbia davvero pronunciato la famosa frase “Non si sfida impunemente l’On-

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nipotente! Una potenza superiore ha ristabilito l’ordine che io non ero stato in grado di mantenere”, alludendo al matrimonio morganatico che avrebbe violato l’ordine asburgico e affrettato la decadenza della monarchia. D’altronde, l’imperatore non aveva risparmiato espressioni crude nemmeno al figlio Rodolfo, dopo la tragedia di Mayerling. Anche dopo la morte, Francesco Ferdinando dovette subire le conseguenze del suo matrimonio. Anziché un funerale di Stato, come spettava all’erede al trono, fu celebrato un funerale di seconda classe (corrispondente al rango della moglie) senza invito ufficiale ai Capi di Stato stranieri. Il cerimoniale di corte si spinse fino all’assurdo: la bara della duchessa Sofia venne esposta in un catafalco di 35 centimetri più basso di quello del marito. Non ci furono corone di fiori della Casa d’Asburgo né picchetti militari. Sotto una pioggia battente, un centinaio di amici, sfidando il divieto dell’imperatore, accompagnarono le salme fino alla stazione ferroviaria. Avendo chiesto di essere seppellito accanto alla moglie, Francesco Ferdinando aveva dovuto rinunciare alla Cripta dei Cappuccini, l’ultima dimora degli Asburgo. Fu scelto il suo castello di Artsetten, dove venne tumulato alle due di notte. Il governo imperiale fece di tutto per far dimenticare lo sfortunato arciduca, eppure si preparava a scatenare una guerra in suo nome. Scenae serviendum est Bisogna accondiscendere alla platea (Cicerone, Epistole)

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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa Febbraio 2009