Napoleona. L'avventurosa storia di una nipote dell'imperatore 8883345177, 9788883345173

Napoleona Elisa Baciocchi, figlia di Elisa Bonaparte, era già da bambina una miniatura dello zio Imperatore: stessi line

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Indice
Ringraziamenti
1. Infanzia di una principessa
2. La fuga, l’esilio, la giovinezza
3. Congiure
4. Una viaggiatrice inquieta
5. A fianco del potere
6. Vassalla
Illustrazioni
Bibliografia analitica
Indice dei nomi
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Napoleona. L'avventurosa storia di una nipote dell'imperatore
 8883345177, 9788883345173

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A.  Angelica  Zucconi

Napoleona L’avventurosa  storia     di  una  nipote  dell’Imperatore

   VIELLA

La storia. Temi 9

A. Angelica Zucconi

Napoleona L’avventurosa storia di una nipote dell’Imperatore

viella

Copyright © 2008 – Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: gennaio 2008 ISBN 978-88-6728-233-3 (pdf)

Questo volume è stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano S.p.A. Finito di stampare nel mese di gennaio 2008 dalla Tibergraph s.r.l. Città di Castello (PG)

viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Ringraziamenti

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1. Infanzia di una principessa

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2. La fuga, l’esilio, la giovinezza

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3. Congiure

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4. Una viaggiatrice inquieta

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5. A fianco del potere

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6. Vassalla

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Bibliografia analitica

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Indice dei nomi

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Ringraziamenti

L’idea di questo libro nasce da una serie di mostre organizzate da Roberta Martinelli, allora assessore alla Provincia di Lucca, e da Giulia Gorgone, responsabile del Museo Napoleonico di Roma. Queste mostre volevano ricostruire il percorso di vita e di governo di Elisa Bonaparte Baciocchi, principessa di Lucca e granduchessa di Toscana; io ero stata incaricata di occuparmi di Elisa donna e madre e quindi di sua figlia Napoleona, che mi era subito sembrata un personaggio interessante ma mal conosciuto, e meritevole di uno studio più approfondito. Molte persone mi hanno aiutato a portare a termine il mio lavoro, e a loro va la mia gratitudine. Vorrei in primo luogo ringraziare Giulia Gorgone e Roberta Martinelli, per avermi offerto l’opportunità di occuparmi di Napoleona, e avermi poi fornito materiali e indicazioni. Giulia Gorgone, in particolare, mi ha seguito per tutta la preparazione del manoscritto e mi ha generosamente procurato documenti e suggerito idee (il primo capitolo è fondato sul suo saggio sull’infanzia di Napoleona). Vorrei poi ringraziare monsignor Luigi del Gallo di Roccagiovine, per avermi fatto consultare il suo archivio e raccontato le memorie di Napoleona tramandatesi nella sua famiglia, Maria Elisa Tittoni, dirigente ai Musei d’Arte Medievale e Moderna del Comune di Roma, per avermi fatto esaminare le lettere a Tenerani conservate nel Museo Braschi, e Giovanna della Chiesa Barberini, per avermi permesso di consultare la sua tesi di laurea. Peter Hicks della Fondation Napoléon è stato, come sempre, attento, competente e disponibile. Vorrei infine ringraziare i molti archivisti e bibliotecari che mi hanno aiutato nel lavoro di ricerca: Monica Guarraccino, che ha trascritto i documenti conservati nell’Archivio di Lucca, Jean-Michel Pianelli della Bibliothèque Marmottan, Silvia Fasoli della Fondazione Primoli, gli archivisti dell’Archivio Segreto Vaticano,

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dell’Archivio di Stato di Roma e della Société Polymathique du Morbihan di Vannes, Marco Pupillo del Museo Napoleonico di Roma. Una gratitudine speciale va a Catherine Lucas, che mi ha aiutato a trovare libri e documenti, ha letto e commentato il testo, e mi ha accompagnato in lunghe balades in Bretagna nei luoghi dove Napoleona è vissuta e morta. Vorrei poi ringraziare Edmondo Schmidt Müller di Friedberg e mia sorella Elisabetta, che hanno letto il manoscritto e suggerito correzioni e aggiustamenti. Sono molto e particolarmente grata, infine, a Eleonora Trevi, che mi ha seguito e incoraggiato per tutto il corso del mio lavoro. Questo libro è dedicato a mio figlio Giacomo, giovane rapper ma anche curioso di vecchie e nuove storie.

Nota Le traduzioni in italiano delle citazioni dei testi in lingua straniera sono mie. Per quanto riguarda le lettere di Napoleona, mi sono limitata a correggere soltanto le maiuscole, le doppie e gli accenti (sia in italiano che in francese) e l’ortografia in genere, mentre ho lasciato la punteggiatura così come era, anche se molto scorretta. Per l’albero genealogico completo della famiglia Bonaparte, si veda il sito http://www.napoleon.org/fr/essentiels/genealogie/genea-principal.html

Abbreviazioni AGR ANP ASL ASR ASV BMP BSL MHN MN MR

Archivio del Gallo di Roccagiovine Archives Nationales di Parigi Archivio di Stato di Lucca Archivio di Stato di Roma Archivio Segreto Vaticano Bibliothèque Marmottan di Parigi Biblioteca Statale di Lucca Musée d’Histoire Naturelle di Parigi Museo Napoleonico di Roma Museo di Roma, Palazzo Braschi

1. Infanzia di una principessa

Elisa Bonaparte Baciocchi, divenuta granduchessa di Toscana, arrivò a Firenze all’alba del 1 aprile 1809, quasi di nascosto, prendendo di contropiede la corte e il popolo che aspettavano con qualche diffidenza la nuova sovrana. La sera si presentò ai suoi sudditi al Teatro La Pergola, dove davano La Cleopatra; con sé nel palco reale aveva il marito, il principe Felice, e Napoleone Elisa, l’unica figlia rimasta dei tre che le erano nati. Il pubblico, dapprima incerto, applaudì invece con entusiasmo quando una dama di corte presentò loro la principessina, una bella bambina di neanche tre anni, che salutava con vivacità e che soprattutto – per quanto piccola – somigliava già in modo impressionante allo zio imperatore. Napoleone Elisa (come scritto nell’atto di nascita conservato all’Archivio di Lucca) o Elisa Napoleone (come la chiamava l’atto di nascita francese, inserito nel 1810 nel grande registro di Stato civile della famiglia imperiale) era nata il 3 giugno 1806 a Lucca, dopo neanche un anno dalla solenne presa di possesso della città da parte dei genitori. Napoleone aveva nominato nel marzo 1805 Elisa e Felice prima principi di Piombino, poi nel giugno – dietro richiesta dei deputati della città, che volevano cattivarsi l’imperatore – principi di Lucca. Felice Baciocchi, di antica famiglia corsa legata da lontana parentela ai Bonaparte, fino ad allora non aveva mai avuto un grande ruolo né militare né politico, limitandosi a seguire fedelmente la carriera del cognato. Il 14 luglio 1805 i due coniugi entrarono in Lucca con un magnifico corteo, preceduto da cento cavalieri della Guardia imperiale e dalla Guardia d’onore che aveva accompagnato il Sacre di Napoleone re d’Italia, in una lussuosa carrozza scortata da sei scudieri e seguita da altre occupate dalla corte, dai ministri e dai consiglieri di Stato. A Porta S. Maria, tra il tuonare delle artiglierie e il suono a festa delle campane, ven-

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nero loro consegnate le chiavi d’argento della città; poi, in cattedrale, li accolse l’arcivescovo per consegnare loro i simboli del potere, la mano d’argento, i due anelli simbolo della fedeltà e la spada della forza. A Palazzo Buonvisi (dove la coppia si era provvisoriamente installata) si diedero ricevimenti e balli per la buona società locale, mentre la borghesia e il popolo venivano rallegrati da rappresentazioni teatrali e corse di cavalli, si concedevano amnistie per i reati più lievi e venivano largite doti alle fanciulle povere. Nonostante tanta beneficenza e tanto sfarzo, tuttavia, la popolazione cittadina rimase abbastanza fredda, nostalgica dell’antica autonomia perduta e diffidente dei nuovi padroni. Elisa non si fece scoraggiare, nominò sue dame di palazzo e suoi ciambellani i componenti delle più nobili famiglie lucchesi e poi, con la consueta energia e decisa ad esercitare un potere effettivo, si mise al lavoro. Sapeva bene di essere stata designata dal fratello perché il suo Stato rimanesse nell’orbita dell’Impero, ed era quindi tenuta a seguire le indicazioni che venivano dal governo francese, ma voleva anche – per quanto possibile – mantenere un suo spazio di manovra. Procedette con rapidità: soppresse e chiuse la maggior parte dei conventi, incamerò i beni ecclesiastici (suscitando grandi resistenze e risentimenti), ordinò di rifare il codice penale sull’esempio francese, introdusse il sistema metrico decimale e l’obbligo della vaccinazione antivaiolosa, rinnovò l’assistenza pubblica, e progettò di riordinare la facoltà di Medicina e le scuole elementari. Lei che aveva passato la sua adolescenza nel celebre educandato di Saint-Cyr, volle fondare un istituto per fanciulle nobili, con insegnanti francesi, uno più modesto per ragazze povere e un collegio maschile. Nel suo Zibaldone lucchese l’abate Chelini, un cronista dell’epoca, racconta che la principessa, donna di un’attività indicibile tutto vuol sapere, e di tutto vuole essere informata. Ella si occupa molto negli affari politici, e specialmente negli economici. Si trattiene indefessamente per cinque o sei ore co’ suoi Segretari e Ministri in queste materie, e sbriga velocemente tutti li dispacci suoi particolari che due volte la settimana vengono da Parigi. In una parola ella è una donna instancabile.1 1. J. Chelini, Zibaldone lucchese, cit. in E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), p. 62.

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Alla fine del 1805 Elisa si accorse di essere incinta, ma non per questo si fermò, continuando per tutta la gravidanza a viaggiare nei suoi Stati; sperava di avere un bambino, perché secondo il decreto imperiale del 27 ventoso anno XIII (18 marzo 1805), che assegnava il principato ai Baciocchi, il governo doveva essere trasmesso al loro figlio maschio primogenito. Avrebbe poi voluto che il bambino nascesse nell’ambito della famiglia imperiale, per dargli una più forte legittimazione e per proporlo, così come facevano i suoi fratelli e sorelle, alla successione di Napoleone ancora senza eredi. Spedì perciò dall’imperatore il suo grande scudiero, Bartolomeo Cenami, per chiedergli il permesso di andare a partorire a Parigi; ma il fratello non le diede ascolto, limitandosi a inviarle per assisterla Jean-Noël Hallé, il suo medico personale. Napoleone Elisa, o madame Napoléon come veniva chiamata a corte, o Napoleona come la chiamarono poi in Italia, nacque a Palazzo Ducale, dove i suoi genitori si erano trasferiti e che stavano facendo restaurare. La sua nascita venne annunziata dal suono delle campane e non dagli spari d’artiglieria, trattandosi di una femmina, ma venne celebrata con tutti gli onori dovuti a una principessa di casa regnante; al suo battesimo erano presenti tutte le cariche di corte, e in cattedrale si cantò un Te Deum, davanti alle dame, ai ciambellani, agli scudieri e ai senatori. Fu però scarsa la partecipazione popolare, perché la gente di Lucca «mormorava altamente», racconta il Chelini, contro la soppressione dei conventi, e criticava «l’alienazione, che mostrava la corte alla religione».2 L’imperatore mandò a Felice le sue congratulazioni per la nascita della figlia, ma aggiunse alla fine, con la consueta brutalità: «la prossima volta, fate in modo di darmi un nipote maschio».3 Più dolcemente con Elisa si congratulò Louis de Fontanes, allora presidente del Corps législatif francese e suo antico amante e consigliere, scrivendole di dispiacersi soltanto che vigesse a Lucca la legge salica, perché «Una principessa cui voi trasmetterete la vostra anima e il vostro carattere non sarà mai inferiore a qualunque principe, per quanto grande, e peraltro sarà molto più amabile».4 2. J. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. VIII, c. 172. 3. Lettera di Napoleone I a Felice Baciocchi del 12 giugno 1806, ANP, 400 AP 15. 4. Cit. in P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, p. 112.

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Nonostante la delusione, qualche tempo dopo l’imperatore volle provvedere a dare un rango e un patrimonio convenienti alla nipote; nel 1808 la nominò principessa di Piombino, assegnandole un appannaggio di 150.000 franchi sui beni ecclesiastici e demaniali negli Stati di Parma e Piacenza, appena riuniti all’Impero francese sotto il nome di Dipartimento del Taro. Trentamila franchi dovevano essere destinati al suo mantenimento, e il resto doveva essere inserito con gli interessi sul Grand Livre de France, e andare a formarle la dote. Alla fine dello stesso anno la madre le costituì una Maison, composta da una dama di compagnia attachée à l’intérieur, Rose de Blair, e da due sottogovernanti, Marie-Felicité de Villemagne, che aveva insegnato musica presso la famosa scuola di Madame Campan, e Zoé Guilbauld de la Mégerie, di antica famiglia bretone e fresca sposa di Giusfredo Cenami fratello di Bartolomeo, il grande scudiero e favorito in carica di Elisa. La principessina si trovò così circondata da personale francese, e sottoposta a un cerimoniale preciso, che la madre (ben conscia del valore e dell’effetto dei gesti formali) amava fosse meticolosamente seguito. Già da molto piccola, Napoleona partecipava alla vita mondana lucchese: il suo primo compleanno venne festeggiato con un gran ricevimento e un concerto eseguito nella cappella di corte, e molto successo riscosse l’apparizione dell’«Augusta Principessina, la quale alla singolare bellezza unisce una felicissima costituzione di temperamento e fa travedere già fin d’ora quella forza di spirito che forma il carattere ereditario della Famiglia Imperiale».5 Venne organizzata anche una festa per i bambini del popolo, con fuochi d’artificio e distribuzioni di dolci e giocattoli, ma quando fu dato l’ordine di prendere nelle chiese soppresse i cestini da riempire di fiori per gettarli al passaggio della principessina, i genitori rifiutarono con orrore sucreries e balocchi. Nel dicembre 1807 Napoleona sostituì la madre (andata a Venezia a incontrare l’imperatore) nelle feste per l’anniversario del Sacre di Napoleone, e «con la più tenera commozione» i suoi sudditi poterono ammirarla «tra le braccia dell’augusto suo genitore fare i primi onori della danza compensando colla sua festosa ed amabile presenza la breve privazione dell’amatissima sovrana».6 5. «Gazzetta di Lucca», venerdì 5 giugno 1807, Notizie interne, BSL, Giornali Lucchesi 114, p. 227. 6. «Gazzetta di Lucca», venerdì 4 dicembre 1807, Notizie interne, ivi, p. 445.

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Elisa nel frattempo, oltre ad occuparsi con passione dell’amministrazione di Lucca, stava cercando in tutti i modi di ottenere dal fratello di allargare il proprio dominio all’intera Toscana, dal 1801 creata Regno d’Etruria da Napoleone e affidata alla reggenza di Maria Luisa di Borbone. All’inizio del 1808 la Toscana venne effettivamente tolta a Maria Luisa e integrata nel Regno d’Italia, ma sotto il governo del rozzo e screditato generale Jacques Menou, che però Napoleone amava molto perché era stato con lui dieci anni prima nell’avventurosa spedizione in Egitto. Finalmente, un decreto di Napoleone del 3 marzo 1809 assegnò ad Elisa la guida dei dipartimenti toscani, con il lo di granduchessa; era per lei più un’apparenza che una realtà di governo, e a Firenze avrebbe dovuto soprattutto rappresentare la volontà dell’imperatore, ma era anche una grande soddisfazione di amor proprio, e una rivincita nei confronti dei fratelli, divenuti sovrani di Stati molto più importanti della minuscola Lucca. Ancora meno peso di Elisa aveva il suo bonario marito, che preferiva fare con molta discrezione il principe consorte, e intanto rendersi la vita più piacevole possibile. La granduchessa, prima di partire per la nuova capitale, vi spedì in avanscoperta il suo grande scudiero e il marchese Girolamo Lucchesini, suo maestro di cerimonie; seppe così che – nonostante gli ordini di imbandierare le strade e di costruire archi monumentali – l’aspettava un’accoglienza tiepida da parte della popolazione e gelida da parte della nobiltà. Decise allora di partire di notte e di andare direttamente a Palazzo Pitti; ventuno colpi di cannone annunciarono a sorpresa ai suoi sudditi che la nuova sovrana era fra loro. Le dame e i signori delle migliori famiglie fiorentine inizialmente rifiutarono con disdegno di entrare nella sua corte, ma presto si ricredettero e fecero a gara a chiedere posti e prebende. Dopo la serata alla Pergola, Elisa andò a fare un giro in provincia, dove fu invece accolta in ben altro modo; a Pontedera l’aspettava un arco trionfale sormontato dal Genio della città che scriveva su una tavola di bronzo «Ecco Elisa aspettata e sospirata»; a Pisa il popolo staccò i cavalli dalla sua carrozza e la trascinò a braccia fino al suo palazzo; a Livorno, a Volterra e a Siena venne acclamata e festeggiata. Di ritorno a Firenze, riprese i tentativi di conquistarsi il popolo minuto, visitando e aiutando opere di assistenza pubblica, facendo pagare di tasca propria molti pegni al Monte di Pietà e recandosi l’11 maggio, per l’Ascensione, alla festa tradi-

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zionale del «grillo canterino» alle Cascine, dove i fiorentini vanno a cercare il grillo portafortuna per le loro case; aveva con sé la figlia e vi si trattenne a lungo, lei di solito così riservata e altera, conversando familiarmente con la gente e annunciando, tra il tripudio popolare, che quella bella passeggiata sarebbe stata da allora in poi aperta a tutti. Il 26 maggio, a cavallo – era un’amazzone appassionata – con Felice al fianco e Napoleona appollaiata sulla sella, passò solennemente in rivista le sue truppe. La piccola era con lei anche il 3 ottobre, alla distribuzione dei premi ai giovani artisti vincitori del concorso triennale all’Accademia di Belle Arti. Già dai tempi parigini, Elisa aveva sinceramente amato le arti e la letteratura (il teatro, in particolare) e aveva, con qualche ostentazione, protetto intellettuali e artisti. A Lucca, oltre a riorganizzare l’istruzione pubblica, aveva fondato un’Accademia Napoleone, nominato Niccolò Paganini “virtuoso di Camera” della corte, e messo il pittore Andrea Tofanelli a capo della scuola di Belle Arti; soprattutto, aveva fatto riaprire e rimettere in sesto le cave di marmo di Carrara, dando lavoro a molti giovani scultori. Dalle loro mani uscirono, per essere venduti in tanti esemplari (Elisa era anche un’abile donna d’affari), le riproduzioni dei volti dell’imperatore e dei Napoleonidi. Appena a Firenze Elisa fece fare da Lorenzo Bartolini il busto della figlia, e lo spedì come regalo di compleanno a Napoleone; la bambina, scrisse all’imperatore, «già comincia ad associarsi con i suoi teneri voti all’amore e alla riconoscenza della madre».7 Nel busto (la prima immagine che abbiamo di lei) la principessina ha un piccolo volto fermo e concentrato, effettivamente molto somigliante nel mento e nello sguardo allo zio. Un ritratto di Pietro Benvenuti dello stesso anno, destinato alla galleria di famiglia di Napoleone, rappresenta, sullo sfondo del Duomo di Firenze, la granduchessa in abito di corte che tiene per mano Napoleona vestita da principe francese; Elisa indica un busto dell’imperatore coronato di alloro, come per mostrare da chi dipendeva e a chi si riferiva il suo potere, e la piccola indossa un abito di solito riservato ai maschi, a ricordare che era lei l’erede. In effetti, nei molti ritratti e busti che le vennero fatti in quegli anni, Napoleona è raffigurata in vesti e con oggetti (tuni7. Lettera di Elisa a Napoleone I del 6 agosto 1809, cit. in Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi, p. 125.

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chette “romane”, simboli militari, immagini dell’imperatore) che riaffermavano come – nonostante la legge salica e in assenza di altri eredi – il potere della madre sarebbe passato nelle sue mani. Nelle occasioni ufficiali, Elisa portava spesso con sé la graziosa ed esuberante bambina, e teneva molto al ruolo che la piccola sosteneva; l’amava anche teneramente, e si compiaceva e si rassicurava (lei che aveva perduto altri due figli appena nati) della sua salute e della sua bellezza. Al fratello prediletto Luciano scrisse: «la mia piccola è un angelo e ne vado pazza»;8 aveva però troppo da fare – o pensava che non fosse il suo compito principale – per dedicarle cure e attenzione sufficienti. A Luciano, che aveva invece rotto con Napoleone e rinunciato a un trono per amore della moglie e dei figli, Elisa confessò che nella sua posizione «bisogna vivere solo per la gloria, e rinunciare ai propri affetti»9 e che si reputava felice, pur avendo abbandonato la Francia, perché aveva adempiuto al suo dovere, «vivendo nel paese che mi è stato affidato».10 La piccola era attaccatissima alla madre, e quando non era con lei le faceva scrivere dalla sua governante Zoé, mandando «mille tendres baisers à sa petite Mère cherie».11 Alla fine del 1809 Elisa si accorse di essere di nuovo incinta; scrisse subito all’imperatore che sperava di dare «al mio augusto fratello un nipote degno del suo nome e della sua gloria»,12 ma stavolta fu una gravidanza sofferta e difficile, che la costrinse a restare i primi mesi a letto. Cominciava appena a stare meglio quando la raggiunse l’invito – che era soprattutto un ordine – di Napoleone di recarsi a Parigi, perché l’imperatore, da poco divorziato da Giuseppina, si risposava con Maria Luisa d’Asburgo, figlia di Francesco I d’Austria. «In tale importante circostanza, ho deciso di riunire intorno a me i principi e le principesse della mia famiglia. Ve ne do avviso [...] desiderando che alcun impedimento legit8. Lettera di Elisa al fratello Luciano del 24 giugno 1808, in P. Marmottan, Lucien Bonaparte et sa soeur Elisa. Lettres inédites, in «Revue des études napoléoniennes», 32 (gennaio-giugno 1931), I parte, pp. 166-186, p. 185. 9. Lettera di Luciano Bonaparte a Elisa del 5 agosto 1805, ibidem, p. 171. 10. Lettera di Elisa al fratello Luciano del 1 ottobre 1805, ibidem, p. 175. 11. Lettera del 12 maggio 1809 da Poggio Imperiale, in O. Parenti Cenami, Lucca dei mercanti-patrizi lucchesi, Cardini, Firenze 1977, p. 294. 12. Lettera di Elisa a Napoleone I del 9 dicembre 1809, in F. Masson, Napoléon et sa famille, Albin Michel, Paris 1929, III ed., vol. VI, p. 264.

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timo si opponga a che voi siate a Parigi il 20 marzo»13 le ingiungeva il fratello ed Elisa, lasciato Felice a rappresentarla a Firenze, si mise in viaggio con la figlia e la sua sottogovernante, dame, ciambellani, scudieri, e parecchi domestici e paggi. La carovana, con sette carrozze e quattro furgoni, partì da Firenze l’8 marzo e giunse a Parigi il 16, dopo aver traversato il Moncenisio sotto una bufera di neve. Prima del valico toccò fermarsi, perché la principessina – non aveva mai fatto un viaggio così lungo – si era ammalata di stanchezza; forte e robusta, però, si riprese presto, e quando arrivò a Parigi e fu presentata alla nonna, agli zii e alle zie, che non l’avevano mai vista, ebbe un gran successo. Era carina, assomigliava al capo della famiglia, non aveva paura di nulla e diceva tutto quello che le passava per la testa; Napoleone e Maria Luisa si divertirono molto con lei, e la nuova imperatrice scrisse al padre che Elisa era molto intelligente ma molto brutta, mentre sua figlia era «la più bella bambina che abbia mai visto».14 Elisa approfittò del soggiorno parigino per incontrare i vecchi amici e per girare per negozi e manifatture, e vedere le brillanti novità che avevano creato per celebrare il matrimonio imperiale i fornitori preferiti di Napoleone, gli ebanisti Jacob o l’argentiere Biennais, i gioiellieri Nitot e Marguerite. Volle anche farsi ritrarre e fare ritrarre la figlia da tutti gli artisti in voga: nel quadro più riuscito, quello di François Gérard, siede su un divano all’antica, in un giardino fiorito, con Napoleona teneramente appoggiata al grembo e un cerbiatto steso al fianco. La pittrice MarieGuilhelmine Benoist fece un ritratto delizioso alla bambina, tutta vestita di cambric bianco, vicino a un carrettino pieno di fiori e con una tortorella tra le mani. Nella notte tra il 3 e il 4 luglio Elisa partorì un maschio, chiamato Gerolamo Carlo dai nomi del nonno e dello zio materni. Cento e uno colpi di cannone annunciarono ai fiorentini che era nato l’erede del Granducato, e in suo onore si graziarono prigionieri e si celebrarono Te Deum. A Lucca la notizia venne portata da una staffetta, e venne ricevuta (scrisse il 10 luglio la «Gazzetta di Lucca», voce ufficiale della corte) con tuonar di 13. Lettera di Napoleone I a Elisa del 26 febbraio 1810, ANP, 400 AP 15. 14. Cit. in Le Coeur de Marie-Louise. Marie-Louise Impératrice des Français, lettres et documents oubliés et inédits publiés par le Baron de Bourgoing, Calmann Lévy, Paris 1938, p. 34, tradotto in francese dall’originale tedesco.

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artiglierie, grandi feste e «un entusiasmo ed un trasporto di allegrezza che è difficile descriversi».15 La granduchessa e i due figli tornarono a Firenze e poi a Lucca nel settembre 1810, accolti da una folla immensa ma non troppo calorosa e con grande entusiasmo invece da «tutti i ministri, le cariche di corte ed ogni impiegato», ansiosi «di dare pubblici contrassegni di gioja per questo suo ritorno, e per averci assicurato la successione di questo nostro principato nella persona del neonato Girolamo Carlo».16 Elisa fremeva di riprendere le redini del governo, lasciate nelle mani esitanti del marito per tanti mesi. Con Felice e i bambini volle passare l’inverno nel clima più mite di Pisa, ma nell’aprile dell’anno seguente Gerolamo Carlo, che era nato idrocefalo e che era non era mai stato bene, morì improvvisamente nella villa di Marlia. La morte di questo bambino, su cui erano poste tante attese e tante speranze, fu per Elisa un dolore indicibile, una ferita bruciante. A Napoleone, lasciando il consueto tono ufficiale e deferente, scrisse disperata: Mi hanno appena portato qui, in uno stato che mi priva a ogni istante dell’uso dei miei sensi. Mio figlio Jérôme è spirato il 17 a Marlia, alle cinque del mattino, dopo una malattia che all’inizio sembrava solo una conseguenza della dentizione, ma che si è poi rivelata una idropisia del cervello. […] Prego dunque vostra Maestà di perdonarmi se non vi scrivo di mio pugno, ma sono così priva di forze che non riesco neanche a tenere la penna.17

Ancora qualche anno dopo, le bastava la vista di un bambino della stessa età che avrebbe avuto il suo, per farla scoppiare a piangere.18 Si attaccò allora più strettamente a Napoleona, preoccupata anche del carattere sempre più ribelle, rabbioso e instabile che la figlia andava sviluppando. Elisa era un’appassionata seguace delle teorie educative del15. Cit. in G. Sforza, Il testamento di Paolina Bonaparte, in Miscellanea napoleonica, a cura di A. Lumbroso, serie V, Roma 1898, pp. 425-426. 16. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. VIII, c. 456. 17. Lettera di Elisa a Napoleone I del 19 aprile 1811, da Poggio a Cajano, in E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaioaprile 1900), p. 64. 18. Journal d’Elisa Bonaparte et d’une de ses dames de compagnie, du 30 avril 1814 au 7 septembre 1817, ANP, 400 AP 24. Sabato 14 maggio 1814 Elisa vede Madame di St Thomas con il figlio di tre anni: «Sa vue me fit pleurer, car je me rappelai qu’il avait le même age d’un enfant que j’ai perdu».

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l’Émile di Jean-Jacques Rousseau (in quegli anni Rousseau era tra gli autori più richiesti presso i librai di Lucca) e credeva fermamente che i bambini dovessero crescere secondo Natura, lasciando che le loro disposizioni e la loro sensibilità si rivelassero e si esprimessero spontaneamente e liberamente. Il contatto con la società umana avrebbe poi corrotto la loro innocenza nativa e la loro mancanza di pudore, e avrebbe insegnato loro l’esistenza della vergogna e della colpa. In quel periodo lo scultore Lorenzo Bartolini stava scolpendo la statua di Napoleona come Ebe, con una coppa di nettare in una mano e l’altra stretta intorno al muso del suo levriero; quando l’artista cercò di allargare la scollatura del vestito della principessina, per copiare meglio l’attaccatura del collo, la bambina si mise a gridare ed Elisa, accorsa dal suo studio, con veemenza spogliò completamente la figlia, e volle che Bartolini la ritraesse così.19 Nella sua visione sempre molto teorica dell’educazione della figlia, Elisa non si era fino ad allora mai troppo inquietata della vivacità e della petulanza della bambina, e non aveva mai reputato necessario darle una disciplina. C’era anzi come un’aura di leggenda intorno a Napoleona; la lettrice di Elisa, Ida de Saint-Elme, racconta che la principessina proclamava con orgoglio «Sono la petite Napoléon», ma che aveva un cuore d’oro, e che un giorno corse dietro a una piccola mendicante che lo svizzero di guardia aveva duramente scacciato dalla villa di Poggio Imperiale, la prese sotto braccio e chiese con tono imperioso che le venisse dato da mangiare, qualche soldo e soprattutto calze e scarpe «perché, diceva, i sassolini dovevano fare proprio male alla sua protetta». Alla sua sottogovernante che le faceva presente come fosse troppo generosa, la principessina avrebbe risposto: «Ma dato che sono la petite Napoléon, devo essere più buona degli altri bambini».20 19. Esistono due versioni di questa statua, una al Musée des Beaux Arts di Rennes e l’altra al Cleveland Museum of Art. Cfr. M. Praz, Il Perseo e la Medusa, Mondadori, Milano 1979, p. 176; Praz si chiede perché M. Rheims, nel volume La sculture au XIXe, Paris 1972, giudichi kitsch la statuetta di Napoleona di Bartolini, «a meno che il Rheims, per un pregiudizio invalso dal principio di questo secolo, condanni come kitsch qualsiasi opera in cui trapeli una vena sentimentale». 20. Ida de Saint-Elme (1778-1845), Mémoires d’une contemporaine, ou Souvenirs d’une femme sur les principaux personnages de la République, du Consulat, de l’Empire, Ladvocat, Paris 1828, t. IV, cap. Le prince Félix Bacciochi – La princesse Elisa – Leurs enfans, p. 52.

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Crescendo, si fece più evidente in Napoleona la difficoltà ad accettare le regole e le frustrazioni; era, inoltre, arrivato il momento in cui doveva cominciare la complessa educazione al ruolo che avrebbe sostenuto un giorno se, come pareva, sarebbe rimasta l’unica erede di sua madre. Anche la scelta della governante responsabile dell’istruzione della figlia divenne per Elisa un affare di Stato: incaricò il marchese Girolamo Lucchesini, mandato a Parigi per il battesimo del re di Roma (il figlio di Napoleone appena nato), perché cercasse referenze sulla baronessa Cavaignac, su cui c’erano pareri discordi, poi si rivolse personalmente a Madame de Genlis, autrice di manuali educativi e romanzi per giovanette allora di gran moda. Elisa si rivolse a lei perché – come Madame Campan – Madame de Genlis era vissuta nella corte d’ancien régime (era stata la governante dei figli di Philippe-Égalité, tra cui il futuro re Luigi Filippo), e ne conosceva a perfezione i riti e le regole; lo stesso Napoleone ricorreva a lei per indicazioni e consigli di etichetta, e le passava una ricca pensione. Madame de Genlis, ben lieta di essere utile alla sorella dell’imperatore, le raccomandò una nipote, la baronne Henriette de Finguerlin, appartenente a una delle migliori famiglie della Borgogna.21 Henriette – assicurava – aveva «il tono e le maniere più gradevoli e più distinti», parlava quattro lingue, sapeva dipingere, ricamare, fare musica, e soprattutto aveva nel suo carattere «qualcosa di dolce, di paziente e di conciliante, e una sicurezza e una discrezione che la raccomandano ovunque»;22 possedeva, insomma, tutte le doti necessarie a una dama accomplie. Madame de Genlis si diede poi un gran daffare: procurò romanze per arpa, scatole di costruzioni e manuali esplicativi di lingua francese, scrisse per la principessina una favoletta pedagogica su una molto allusiva Fée Turbolente, raccolse in un grazioso libretto illustrato da lei i versi dei migliori poeti francesi; compilò anche un Journal dei fatti del giorno, dove venivano riportati «gli atti straordinari e i trionfi di S.M. l’Imperatore», e che avrebbe preparato Napoleona «all’idea delle meraviglie e dei prodigi»23 che l’aspettavano. 21. Henriette de Finguerlin, vedova di M. Mathison, si era risposata (per poi divorziare) con Gaspard-Henry de Finguerlin, da cui aveva avuto tre figlie. 22. Lettera di Madame de Genlis a Elisa del 29 giugno 1811, in P. Marmottan, Madame de Genlis et la Grande-Duchesse Elisa (1811-1813), lettres inédites, Émile Paul, Paris 1912, pp. 27-29. 23. Lettera di Madame de Genlis a Elisa del 28 novembre 1811, ibidem, pp. 33-35.

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Ai primi di febbraio del 1812 Madame de Finguerlin arrivò a Firenze, e la sua dolcezza e il suo tono da grande maison piacquero molto ad Elisa, che le aveva scritto «Venite, ho bisogno di un’amica»;24 ma tutte le sue doti non bastarono a tenere a bada la sempre più ribelle principessina, che si scatenava in capricci e pianti senza fine, e che – non abituata a una disciplina di studio – rifiutava di applicarsi. La madre non sopportava di vederla piangere: «Te ne prego non piangere, ti rovini la salute, e non ottieni niente piangendo», le scriveva; sapendo quanto la figlia le fosse legata, per punirla ed esortarla Elisa la privava delle sue lettere o della sua presenza: non ho risposto alla tua lettera di ieri, perché non ero contenta di te, e non potevo darti la più bella ricompensa per il tuo buon comportamento, quella di scriverti io stessa, allora sii buona, leggi bene, sai quanto piacere hai fatto a papà e a me, e credo che toccherà restarti lontana a lungo, se non t’impegni di più.25

Anche la nonna Letizia si preoccupava delle difficoltà della bambina, e si rallegrava dei suoi miglioramenti: Ho ricevuto la vostra lettera del 14 di questo mese, con quella scritta da Napoleona, di cui sono stata molto soddisfatta. Sono contenta di sapere che voi non ci avete messo mano e che è interamente opera sua. Mi pare che faccia rapidi e sensibili progressi e me ne rallegro con voi.26

Il bel ritratto che fece alla principessina in quel periodo FrançoisXavier Fabre è molto eloquente: Napoleona, i lineamenti sempre più simili a quelli dell’imperatore, l’espressione decisa, guarda fissa e seccata davanti a sé. Non doveva essere facile avere a che fare con lei; oltre a Madame de Finguerlin, aveva intorno sottogovernanti, insegnanti, cameriere e domestici, sotto la direzione di una delle più aristocratiche signore di Firenze, la marchesa Maria Francesca Riccardi (dama di corte di sua madre, ma che aveva già avuto lo stesso ruolo presso i granduchi Pietro Leopoldo e Ferdinando III), e la bambina sapeva bene approfittare delle loro gelosie e rivalità reciproche. 24. Lettera di Madame de Finguerlin a Elisa del 22 dicembre 1811, ibidem, p. 50. 25. Lettere di Elisa alla figlia Napoleona, ANP, 400 AP 22 (1812). 26. Lettera di Madame Mère a Elisa del 23 giugno 1813, in Lettere di Letizia Buonaparte, a cura di P. Misciattelli, Ulrico Hoepli, Milano 1936, pp. 75-76.

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Nell’estate del 1813, Elisa cercava di rassicurare la sorella Paolina sulla crescita della figlia: Questa cara bambina cresce parecchio, è molto graziosa, la sua intelligenza è molto al di sopra della sua età e i suoi progressi sono quelli che ci si può aspettare da una bambina di sei anni.27 Ha guadagnato molto dal punto di vista del carattere e della ragionevolezza e mi rende felice.28

Nel ritratto che in quel periodo Giuseppe Bezzuoli fece ad Elisa e a Napoleona, la granduchessa ha un braccio intorno alle spalle della figlia ma non la guarda, mentre la bambina quasi le si aggrappa, fissando la madre con uno sguardo pieno di adorazione. Si decise di chiamare di rinforzo anche Madame Waré Cavaignac, che già insegnava all’Istituto di educazione per le fanciulle di Lucca; fu un’idea azzeccata, perché era una persona di sicuro istinto pedagogico e insieme di carattere fermo e tranquillo, che seppe prendere in mano la situazione. Elisa la incaricò di farle una relazione dettagliata della vita della principessina, e in quel Journal Madame Cavaignac raccontò con cura e lucidità, giorno per giorno e ora per ora, i metodi educativi usati con Napoleona, le persone che si occupavano di lei, le sue abitudini e i suoi gusti, gli stati d’animo che la traversavano.29 Dalla mattina quando si alzava, fino alle otto e mezza di sera quando andava a dormire, Napoleona era continuamente occupata, secondo un programma rigidamente fissato dalla madre. Aveva (tranne la domenica) una lezione dopo l’altra, di varie materie, intervallate da brevi ricreazioni e passeggiate sulla terrazza di Palazzo Pitti o nel meraviglioso giardino di Boboli. Il risultato di ogni lezione (con sua grande ansia) veniva segnato con note di merito o demerito su una lavagna. Monsieur Ducler le insegnava geografia, aritmetica e grammatica, che la principessina odiava e 27. Napoleona aveva in realtà compiuto sette anni. 28. Lettera di Elisa alla sorella Paolina del 30 settembre 1813, cit. in Fleuriot de Langle, Elisa, p. 295. 29. Journal sur la princesse Napoleon. Septembre 1813 - Mars 1814, ANP, 400 AP 24. Il diario in realtà si ferma al 4 marzo 1814; fu redatto quotidianamente dal 6 settembre al 30 dicembre 1813, con esclusione del 1 novembre, del 2 dicembre, e dei giorni compresi tra il 10 e il 13 dicembre; si interrompe poi il 2 gennaio 1814, per riprendere il 29 dello stesso mese; nel mese di febbraio la stesura è parziale (10 giorni), e solo due giorni del mese di marzo, il 4 e il 5, vengono annotati; lettere di madame Waré Cavaignac sono presenti anche nella corrispondenza di Elisa, in ANP, 400 AP 21.

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che faceva una grande fatica a imparare e ricordare; se si applicava, riusciva a fare regolarmente le varie operazioni aritmetiche, ma le bastava poco per confondere addizioni e sottrazioni, e scambiava con facilità un numero con un altro, pretendendo che 18 o 81 fossero la stessa cosa, visto che le cifre erano le stesse. Amava invece la storia naturale, e si divertiva molto quando il maestro le portava campioni di metalli o pietre, o le descriveva la fabbricazione delle terrecotte. Ascoltava con piacere i lunghi racconti che Ducler le faceva quando erano in viaggio tra Firenze e Poggio Imperiale, le storie di Firenze, la costruzione del Duomo o la famosa O di Giotto. Erano invece un vero tormento le lezioni di scrittura che le dava Monsieur Chauvet, aggravato dal desiderio di Elisa che la figlia scrivesse sovente ai vari familiari. Napoleona si distraeva, brontolava, si mangiava le unghie, si metteva le dita nel naso e nelle orecchie, fischiettava, grattava il tavolo, faceva smorfie, diceva che aveva mal di testa, aveva fame o che doveva andare al bagno. Ogni volta che doveva imparare qualche lettera nuova si metteva a piangere e si lamentava perché le facevano fare «delle cose che lei non può fare delle lettere troppo difficili».30 Leggeva anche con grande difficoltà (per fortuna era Madame Cavaignac che la seguiva), impazientendosi se veniva ripresa e costretta a finire la pagina, cercando di indovinare una parola invece di leggerla, sostituendo una parola con l’altra e affermando con molta serietà che «dire una parola per l’altra non fa niente quando significano la stessa cosa».31 Eppure aveva memoria, capiva e si ricordava tutto quello che le veniva letto e si vergognava terribilmente di non sapere ancora leggere o scrivere bene; Madame Cavaignac cercò di sfruttare questo sentimento ma senza umiliare la bambina, anzi incoraggiandola e ricordandole che «Madame [così veniva chiamata Napoleona] per imparare qualcosa dipende da tutti gli altri, dato che non sa leggere!».32 La principessina cercava per qualche giorno di migliorare, di fare sforzi per leggere e scrivere con più attenzione, ma poi la riprendevano la rabbia e l’impazienza, dimenticava quello che aveva imparato la settimana precedente, ricomin30. Ibidem, 10 settembre 1813. 31. Ibidem, 22 dicembre 1813. 32. Ibidem, 18 ottobre 1813.

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ciava a distrarsi e a ribellarsi. Soffriva probabilmente di una forma di dislessia e disgrafia, e i rimproveri dei suoi insegnanti la facevano sentire incompresa e inadeguata, la riempivano di fastidio e di rancore. Il famoso miniaturista Salomon-Guillaume Counis, che Elisa aveva fatto venire da Parigi alla sua corte, le dava lezioni di disegno. Napoleona era abbastanza portata, aveva colpo d’occhio e mano sicura, ma anche qui non riusciva a concentrarsi. Counis sapeva però mantenere la calma e la tranquillità con lei, e si divertiva alle sue risposte (una volta che le aveva fatto osservare come avesse usato un tratto troppo grosso in un disegno per Elisa, la bambina gli rispose che aveva fatto così perché la madre «ci vedeva poco»);33 quando gli sembrava che la principessina non avesse voglia di lavorare, si alzava e se ne andava con la massima freddezza. Napoleona curava sempre molto, perché sapeva che sarebbero stati esposti in pubblico, i disegni destinati all’Istituto di educazione per le fanciulle di Lucca fondato dalla madre. Per completare la sua educazione, Napoleona doveva anche imparare a danzare, a cantare e a suonare il pianoforte. Non le piaceva affatto suonare, brontolava e faceva disperare sia il suo maestro, Monsieur Coppola, sia Madame Cavaignac che le faceva eseguire gli esercizi; dopo le prime resistenze si divertì invece a imparare a ballare, e danzava con vivacità e allegria. Aveva una bella voce, e come maestro aveva uno dei grandi sopranisti dell’epoca, Giovanni Battista Velluti, che le insegnava la difficile arte del «canto filato senza stancare i polmoni»; lei però trovava il bel Velluti noioso e anche méchant,34 e quando il cantante dovette lasciare Firenze si dimenticò di tutto quello che le aveva insegnato. Come sua madre, era appassionata di teatro, e la punizione che temeva di più era che le impedissero di andarci. A teatro era sempre attentissima; amava in particolare due drammi di Racine, Esther e soprattutto Athalie, di cui sapeva molti brani a memoria. Chiedeva sempre che le leggessero i versi di Athalie mentre passeggiava o faceva il bagno, e organizzava delle rappresentazioni di questa tragedia con le sue governanti e i maestri, sostenendo lei stessa parecchi ruoli: era profondamente affascinata dalla cupa storia biblica di Athalie, una regina assetata di potere che, per 33. Ibidem, 6 settembre 1813. 34. Ibidem, 7 settembre 1813.

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sterminare l’odiata stirpe di David, aveva fatto uccidere tutti i propri nipoti e che veniva sconfitta e fatta morire dall’unico scampato all’eccidio, un ragazzo salutato come re dai suoi soldati e dal gran sacerdote del vero Dio. Elisa, preoccupata con ossessività della salute della figlia, ne aveva regolato con cura la dieta: Napoleona aveva un vitto leggero e semplicissimo, con dei bouillons (brodini) la mattina, un uovo fresco (che la bambina amava molto) solo quando faceva il bagno, cioccolata e gelati molto raramente, qualche grano d’uva ogni tanto e scelto con molta attenzione, per merenda un pezzo di pane. Le direttive della granduchessa dovevano essere molto rigide, perché le governanti si consultavano tra loro e con Elisa ogni volta che la bambina desiderava qualcosa di diverso. Anche il cibo era diventato per Napoleona uno strumento di ricatto e di protesta: proclamò che voleva lasciarsi morire di fame perché la madre aveva ordinato di non darle la cioccolata, e una mattina che non aveva avuto un uovo fresco con il brodino, dichiarò che «la si voleva far morire, dandole del brodo per i gatti»; Madame Cavaignac la smontò prontamente, facendole notare che «se l’Imperatore avesse voluto dare a tutti i gatti del suo Impero un brodo simile a quello di Madame, gli sarebbe costato più che nutrire i suoi soldati».35 Alla fine Elisa ordinò di darle tutta la cioccolata e le uova che voleva, e fu la soluzione migliore, perché Napoleona se ne stufò subito. Madame Cavaignac si accorse presto di quanto la sua allieva, che studiava con tanta difficoltà e contrarietà, fosse invece molto abile e decisa nei lavori manuali, e quanto fosse profondamente interessata a tutte le questioni pratiche e tecniche. Amava molto andare a vedere gli operai che stavano lavorando a Palazzo Pitti, chiedeva loro cosa sapevano fare, quanto guadagnavano, quanto spendevano per nutrirsi, come usavano i loro attrezzi e i materiali. Portata a visitare l’Opificio delle Pietre Dure, non fece alcuna attenzione alla bellezza degli oggetti, ma si fece affascinare dal lavoro degli operai e dai loro utensili. Uno dei suoi giochi preferiti era imitare i vari mestieri, e lasciare gli altri indovinare di quale mestiere si trattasse. Lei così svogliata quando si trattava di mettersi a tavolino, si era data subito da fare quando le avevano proposto (era ancora una delle indicazioni di Rousseau) di impiantare un giardino suo; si sbrigava a fare i com35. Ibidem, 19 ottobre 1813.

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piti pur di seguire il lavoro del giardiniere, si faceva mostrare le piante da mettere in vaso, andava appena poteva a controllare come crescevano i suoi semi, voleva vedere come si potavano o si innestavano gli alberi. Tuttavia, notava Madame Cavaignac, la principessina avrebbe voluto continuare a zappare la terra e a seminare senza avere la pazienza di stare a vedere come crescevano piante e fiori; a fatica la governante riuscì a persuaderla a non farlo, a non distruggere quanto aveva fatto prima di vedere cosa ne sarebbe potuto nascere. Quando venne l’epoca della vendemmia, e le permisero di andare a vendemmiare a Poggio Imperiale, Napoleona era proprio felice; mentre in quei giorni non si riusciva a farle seguire le lezioni, nella vigna lavorava con passione, e seguiva con entusiasmo la fabbricazione del suo vino. Le piaceva anche molto andare a caccia e tirare con la balestra; nel fossato del palazzo teneva un falcone che voleva nutrire (con grande orrore di Madame Cavaignac e di Monsieur Ducler) con uccellini vivi. Uno degli ostacoli maggiori con cui dovevano combattere i suoi educatori era la preoccupante instabilità di umore della bambina, che passava da un momento all’altro «dall’umore migliore al peggiore»,36 dall’allegria all’aggressività e alla prepotenza, da una compiacente obbedienza a sfide disperate: i motivi erano i più futili, perché il suo valletto Georges non faceva tutto quello che lei gli chiedeva, perché le cameriere non la asciugavano come voleva, perché qualcuno le negava un oggetto di cui si era incapricciata. Non sopportava che venissero cambiate le sue abitudini, e si scatenava in scene furibonde in cui lanciava tutto quello che aveva sottomano urlando «Sacrebleu» e «Diable», parole certo non adatte al linguaggio di una principessa. La rabbia, l’incertezza e la diffidenza che le covavano dentro uscivano talvolta fuori in provocazioni e sfide: alla marchesa Riccardi che le spiegava come si svolge un matrimonio dichiarò: «Ah, io non farò certo così, quando tutto sarà pronto e tutti saranno presenti e mi staranno a sentire, invece di dire sì dirò no!»;37 quando Madame Cavaignac le diceva che doveva obbedire alla madre rispondeva «che non si sarebbe sottomessa neanche all’Imperatore»,38 e quando la governante le raccontò che la gran36. Ibidem, 8 settembre 1813. 37. Ibidem, 8 settembre 1813. 38. Ibidem, 10 settembre 1813.

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duchessa l’aveva rimproverata perché aveva saputo che la figlia aveva studiato male, le fece presente «che si comportava così apposta perché io fossi rimproverata, perché ciò la divertiva».39 Teneva molto all’approvazione della madre, ma aveva tanta paura di deluderla: una volta che Madame Cavaignac le riferì che Elisa era stata contenta del comportamento della figlia, Napoleona le replicò: «Ah! credete che voglio far contenta Maman tutti i giorni? assolutamente no si approfitterebbero di me!».40 Alle governanti che le raccomandavano di mettere più modestia nei movimenti, ribatté che «non le importava proprio nulla di mostrare il suo sedere, e che se non fosse stato per la paura di prendersi un raffreddore lasciandolo scoperto, lo avrebbe lasciato vedere a tutti andando a spasso per Boboli!».41 Se aveva qualche remora a infuriarsi con le sue governanti, Napoleona non ne aveva alcuna con i suoi servitori e le sue cameriere, che maltrattava con una durezza – anche per l’epoca – francamente odiosa, e spiegabile solo pensando a quanti pochi limiti le fossero stati imposti. Dichiarò a Madame Cavaignac che «i suoi domestici andavano bastonati perché la servivano troppo male», che aveva tirato un calcio alla sua cameriera «per divertirmi», e ai rimproveri della governante rispose: «non mi fate la morale perché voglio fare tutto quello che voglio, così è e così deve essere».42 Aveva la stessa scarsa considerazione anche per i suoi insegnanti, e se il maestro di danza protestava perché lei lo faceva aspettare, gli rispondeva sprezzantemente che «un ballerino dell’Opera può ben starmi ad aspettare».43 Si preoccupava anche con angoscia del giudizio delle altre bambine che venivano, molto raramente, a giocare con lei. Le accoglieva bruscamente, le teneva lontane, si scatenava in capricci e poi si vergognava di averlo fatto davanti a loro, e si agitava pensando a cosa avrebbero detto di lei. Raccontò a Madame Cavaignac con orgoglio come un generale napoletano avesse detto ad Elisa che lei era più carina di sua cugina Letizia Murat, e ci rimase male quando la sua governante le fece osservare con 39. Ibidem, 11 settembre 1813. 40. Ibidem, 12 settembre 1813. 41. Ibidem, 26 settembre 1813. 42. Ibidem, 7 settembre 1813. 43. Ibidem, 13 settembre 1813.

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molto realismo che il generale aveva solo voluto flatter sua madre, e che probabilmente sarebbe poi andato a dire a Carolina Murat, regina di Napoli, che sua figlia era più graziosa di Napoleona. Dal dicembre 1813 e per un paio di mesi Napoleona ebbe la compagnia dei figli di Fouché, che era stato inviato da Napoleone in missione a Napoli e che, vedovo da poco, aveva nel frattempo affidato i suoi quattro ragazzi ad Elisa; la principessina gradì molto la loro presenza, ma preferiva di gran lunga giocare con i tre maschi che con Mademoiselle Josephine. Napoleona era ossessionata dalla paura della morte, e insieme ne era affascinata, così come era attratta dalla follia: quando arrivava il suo medico Cherugi gli chiedeva sempre storie di pazzi e di defunti. La morte del fratellino, e il selvaggio dolore della madre, l’avevano spaventata e segnata, in un viluppo di gelosia e di aggressività, di senso di colpa e di terrore per sé. Temeva che morissero le persone che le stavano accanto quando si allontanavano e tardavano; aveva paura del buio, anche se cercava di vincersi e di non farlo vedere, ed era terrorizzata da qualunque ferita, da qualunque lesione: una volta che si era messa le dita nel naso e le era uscito un po’ di sangue, si impaurì moltissimo e implorò la sua governante «di non permetterle più in avvenire di mettersi le dita nel naso».44 Sentirsi parte della famiglia imperiale, avere notizie dello zio o dei cugini era per Napoleona una grande rassicurazione; il ruolo di principessina le piaceva, ma non le piaceva affatto il cerimoniale, le sembrava uno sforzo di cortesia inutile; si stupì molto quando le dissero che l’imperatore non solo amava molto essere salutato, ma che lui stesso salutava tutti «e con molta amabilità».45 Poco alla volta, cercò di imparare a “ricevere” gli adulti, i ciambellani o gli scudieri dei genitori, a conversare con loro in maniera graziosa e spirituelle. Le piaceva ascoltare la storia dei re francesi, soprattutto quella di Enrico IV, e ogni tanto chiedeva che le raccontassero la storia di qualche re bien méchant:46 anche qui oscillava tra l’ammirazione per personalità forti e prepotenti, e il desiderio di adeguarsi a un modello di bontà e saggezza. Una volta che le raccontarono la storia della regina Elisabetta 44. Ibidem, 21 settembre 1813. 45. Ibidem, 14 settembre 1813. 46. Ibidem, 23 settembre 1813.

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d’Inghilterra, Napoleona chiese se era buona, ed essendole stato risposto che proprio buona non era, la bambina disse che «quand’anche avesse avuto mille volte più meriti, a lei non sarebbe piaciuta perché non era buona»;47 ma quando Madame Cavaignac le parlò di Luigi il Bonario di Francia, che ancora al potere aveva diviso il suo impero in tre reami tra i figli, commentò con disprezzo: «Quanto era stupido […] a fare regnare i suoi figli prima della sua morte, e a non farli imprigionare quando se li è creduti contro!».48 Era molto legata ai suoi genitori, al padre da un caldo e spontaneo affetto, alla madre da un sentimento più forte e complesso, fatto di adorazione e ammirazione, ma anche di rancore e di timore del suo giudizio. Soffriva e si ribellava se la madre le negava qualcosa, ma era felice quando la vedeva contenta di lei, e si applicava più volentieri se sapeva che doveva mostrarle il suo lavoro. Elisa era per lei il modello di ogni grandezza e di ogni perfezione: quando le raccontarono che l’imperatore Tito diceva di aver perduto una giornata se non aveva fatto del bene, commentò: «È come Maman».49 Quando sapeva che la figlia si era comportata male, Elisa per punirla non andava da lei o non le dava un bacio, le diceva «Meritati che venga da te domani»;50 Napoleona si disperava, cercava di migliorare, e se la madre la trattava affettuosamente era tutta lieta. Si affezionava anche alle sue governanti; la marchesa Riccardi dovette a un certo punto partire e la principessina si mise a piangere, salvo rifiutarsi di scriverle qualche giorno dopo, perché – disse a Madame Cavaignac – «io non amo più le persone che non vedo per due o tre giorni!».51 La lontananza di chi le viveva accanto la faceva stare male, c’era sempre in lei la paura che queste persone fossero morte, o che l’avessero dimenticata. Sapeva di essere il centro di interesse del piccolo mondo di insegnanti, governanti e domestici che le girava intorno, e – quando non era travolta dalla rabbia – se ne occupava con inaspettata generosità; raccoglieva l’uva e ne metteva da parte i grappoli più belli per i suoi maestri, coltivava la lattuga per regalarla alla marchesa Riccardi (salvo poi pentir47. Ibidem, 24 settembre 1813. 48. Ibidem, 7 ottobre 1813. 49. Ibidem, 11 settembre 1813. 50. Ibidem, 19 ottobre 1813. 51. Ibidem, 17 settembre 1813.

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sene e chiedere di tenerla per sé) e, se le portavano i fagiani dalle partite di caccia, li regalava volentieri a Madame Cavaignac. Era però capace di tormentare chi le era vicino con scherzi pesanti, anche se senza malizia: una volta piazzò un ferro caldo sulla mano di Monsieur Chauvet, ma quando si rese conto di avergli fatto male davvero si mise a piangere. Si divertiva a regalare caramelle disgustose, e poi del buon cioccolato per farsi perdonare; se era di buon umore le piaceva dare delle energiche pacche sulle spalle di Madame Cavaignac, che alla fine si seccò e le fece presente con serietà che «per lei picchiare per gioco era di pessimo gusto e non doveva proprio prenderne l’abitudine».52 Napoleona aveva abbastanza senso dell’umorismo, e rideva se veniva presa in giro con dolcezza: una volta si era intestardita che in un certo armadio c’era il pane per la sua colazione, ma quando Madame Cavaignac andò ad apriglielo e le fece vedere che dentro c’era solo un pezzo di crosta muffita, si mise a ridere come una matta. Nel momento in cui Madame Cavaignac era stata chiamata ad occuparsi di Napoleona, la situazione doveva essere ingestibile. La governante cominciò subito ad applicare fermamente le indicazioni di Elisa: per esempio, quando la bambina trattava male un insegnante, questi si alzava e se ne andava, e la madre veniva subito avvertita. Le prime volte Napoleona si disperò, poi si rassegnò e seguì un po’ meglio le lezioni. Continuò a fare scene violente a Madame Cavaignac, ma la governante non si scomponeva finché la principessina, pentita, le veniva accanto e le diceva che le dispiaceva di averla fatta arrabbiare, che prometteva di non farlo più, che voleva farla contenta. Mantenendo una calma imperturbabile, facendo ragionare la principessina ogni volta che pretendeva qualcosa, aiutandola con dolcezza ad ammettere le sue difficoltà con la lettura, sollecitandola a non comportarsi comme un enfant, Madame Cavaignac cominciò ad ottenere i primi risultati. La sua situazione non era tuttavia semplice perché accanto a sé, con un ruolo simile, aveva Madame de Finguerlin, ed entrambe dovevano comunque riferirsi alla marchesa Riccardi, che a sua volta era responsabile dell’educazione della principessina di fronte ad Elisa. Napoleona si rendeva benissimo conto del delicato equilibrio esistente tra le sue gover52. Ibidem, 18 dicembre 1813.

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nanti, e ci giocava, spostando i suoi favori dall’una all’altra. Si legò però poco a poco a Madame Cavaignac, percependo la sua sicurezza e il suo autentico interesse per lei. Talvolta tra loro era lotta dura: per impedire alla sua allieva di mettersi le dita nelle orecchie o nel naso, la governante le infilava dei guanti, e la bambina dopo un po’ si ribellava dicendo che si sentiva soffocare, che non sopportava un simile impiccio. Il momento della toilette della principessina era spesso difficile, perché Napoleona era insofferente, non voleva che la lavassero, pettinassero e vestissero; una mattina che tempestava perché le stavano mettendo «un abito così accollato da farla soffocare e lei non sopportava che la facessero soffocare dal caldo»,53 Madame Cavaignac le disse con calma che se aveva veramente tanto caldo, non sarebbe certo stato prudente andare la sera a teatro, dove avrebbe sicuramente fatto più caldo ancora; Napoleona si mise a ridere e si lasciò vestire. Anche Madame Cavaignac si affezionò alla sua allieva; le stringeva il cuore vederla piangere e disperarsi, ed era contenta quando la vedeva più serena, più dolce e gentile. Si era data come norma di non tornare mai con lei su un rimprovero già fatto, stava attenta a non chiederle troppo a lezione quando la vedeva pensare alla vendemmia, al suo giardino o alla caccia, valutava più la buona volontà che la piccola dimostrava che i risultati effettivi. Mentre la principessina e le sue governanti, tra l’estate e l’autunno 1813 e l’inverno 1814, battagliavano sulla cioccolata o la lettura, Napoleone cercava disperatamente di salvare il suo impero che andava sfasciandosi. Aveva tentato di negoziare con le altre potenze europee coalizzate, ma venne costretto a ricominciare la guerra; si trovò infine ridotto a difendere la Francia invasa dalle truppe nemiche. Elisa cominciava a rendersi conto dell’imminente rovina, anche se nel luglio 1813, mentre l’imperatore trattava con Metternich e l’esercito francese abbandonava la Spagna, la corte fiorentina se ne era andata tranquillamente ai bagni di mare a Livorno (così come avevano fatto gli altri Bonaparte). Nel novembre 1813 la granduchessa dovette organizzare la difesa della Toscana e di Lucca, che il 9 dicembre fu invasa e poi subito abbandonata dagli inglesi agli ordini di Lord Bentinck. Elisa si trovò, come scrisse alla 53. Ibidem, 17 ottobre 1813.

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sorella Paolina, in una «crudele posizione»,54 dovendo decidere se schierarsi (come fecero Murat e Carolina) contro Napoleone e conservare il potere, oppure rimanere al fianco del fratello. Era stanca, preoccupata e fragile; si era appena accorta di essere ancora una volta incinta. I primi di gennaio 1814 arrivò a Firenze, reduce da Napoli, il suo vecchio amico Fouché, mandato da Murat per convincere la granduchessa ad abbandonare il campo napoleonico e ad allearsi con lui, lasciando Firenze agli alleati e mantenendo Lucca. Ma la situazione a Firenze si fece sempre più tesa, la popolazione sempre più ostile, e il 31 gennaio Elisa decise di far partire per Lucca Napoleona con tutte le sue governanti e il suo tesoro. Durante la notte del 1 febbraio i primi soldati napoletani entrarono a Firenze e all’alba seguente partì anche Elisa; la sua carrozza, per quanto scortata dai gendarmi, venne fatta segno di ingiurie e di lancio d’immondizie: Chateaubriand (che pure era stato un protetto di Elisa, e che le doveva la sua prima nomina come segretario d’ambasciata a Roma), raccontò con ironia che la granduchessa se ne andò da Firenze seguita dai gridi ingiuriosi della «plebe» e che Elisa, mettendo la testa alla portiera della carrozza «diceva alla folla, minacciandola con il dito: “Tornerò, canaglie”. Madame Bacciocchi [sic] non è più ritornata, e la canaglia è rimasta».55 Felice Baciocchi raggiunse moglie e figlia il 4 febbraio, per poi ripartire per Genova il 19, diretto in Francia. Nonostante la situazione incerta, a Lucca Napoleona si ritrovò sottoposta al suo solito regime, con i suoi insegnanti e le sue governanti, e la compagnia dei figli di Fouché, ma – inevitabilmente – tutta la calma e la disciplina acquisite nei mesi precedenti erano sparite. La principessina dichiarò a Madame Cavaignac che se non era mai contenta era perché era troppo severa, e la governante capì di essere stata criticata davanti alla sua allieva. Napoleona aveva smesso di migliorare nella lettura e nella scrittura, disegnava e cantava svogliatamente, non voleva più fare lezione di piano con la scusa che «le principesse hanno chi suona per divertirle senza che si prendano la pena di farlo loro stesse». Ricominciò a grogner, a pic54. Lettera di Elisa alla sorella Paolina, cit. in Fleuriot de Langle, Elisa, p. 307. 55. F.-R. de Chateaubriand, Mémoires d’Outre-tombe, Bibliothèque Nationale de France, ed. elettronica dell’ed. Acamédia, Paris 1997, Livre 30, chap. 8, Mes relations avec la famille Bonaparte. Chateaubriand scrive, sbagliando, che Elisa stava andando via da Lucca e non da Firenze.

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chiare il suo valletto («Volevo uccidere Georges», disse a Madame Cavaignac),56 a chiamare bêtes le sue cameriere. Eppure, malgrado l’evidente nervosismo della madre e delle sue governanti, non si rendeva conto della gravità della situazione; si preoccupava solo di preparare sciarade da rappresentare davanti alla corte e si compiaceva molto del successo ottenuto, giocava con i piccoli Fouché, andava alla villa di Marlia a cogliere violette per Elisa, danzava con gran piacere la boulangère. L’ultima domenica di Carnevale la portarono al corso a vedere le maschere, ma la strada era quasi deserta, c’erano solo la sua carrozza e qualche bambino vestito da Arlecchino. Erano gli ultimi giorni di governo di sua madre: l’11 marzo le truppe inglesi presero Livorno, e Lord William Bentinck rispose sprezzantemente al marchese Girolamo Lucchesini, che gli chiedeva di lasciare Elisa a Lucca fino alla fine della sua gravidanza, «Dite a quella signora che, se non se ne va entro 24 ore, la faccio prigioniera».57 La mattina del 13 marzo Elisa convocò tutti i dignitari della corte e dello Stato, annunciò che doveva partire ma promise di tornare dopo tre mesi; affidò al Consiglio la cura del paese, raccomandando la quiete e la moderazione e pregando di non distruggere le istituzioni da lei create. La sera fece circolo come di consueto, scrisse il Chelini, «dimostrando in volto quella maggiore ilarità e disinvoltura che le circostanze le permettevano»; spiegò alle sue dame e ai cortigiani che doveva cedere a un nemico più forte, perché «questa era la sorte di tutti i piccoli sovrani», ringraziò loro e il popolo lucchese per il loro affetto, e raccomandò loro le sue proprietà «per non avere di nuovo a spenderci quando fosse tornata a Lucca; e mille altri sogni andò dicendo di questa fatta».58 Poi si alzò, abbracciò tutte le dame e se andò nella sua camera. La mattina dopo, prima dell’alba, partì per Genova scortata dalla gendarmeria, che doveva accompagnarla fino al confine del suo ormai decaduto principato. Il 15 settembre 1814 tornò a Firenze il granduca Ferdinando III di Asburgo-Lorena, accolto con giubilo dai sudditi, e alla fine di novembre 56. Journal sur la princesse Napoleon, 3 marzo 1814. 57. Cit. in Fleuriot de Langle, Elisa, p. 312. 58. Chelini, Zibaldone lucchese, cit. da Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi, p. 154.

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1817 il Ducato di Lucca venne solennemente consegnato da Saurau, governatore austriaco della Lombardia, al rappresentante di Maria Luisa, l’ex regina di Etruria. Non sappiamo quando Madame Cavaignac lasciò i Baciocchi, mentre Madame de Finguerlin seguì ancora per qualche tempo con fedeltà le vicende di Elisa e della sua famiglia. La marchesa Francesca Riccardi riprese invece il suo posto come dama di corte e maggiordoma maggiore presso il granduca Ferdinando III. Nell’ottobre del 1817, insieme con altri esponenti dell’alta nobiltà fiorentina, fu incaricata dal granduca di andare a prendere a Trento l’arciduchessa Maria Anna Carolina di Sassonia, promessa sposa del figlio del granduca, Leopoldo. Con il marito, nominato ciambellano, fu poi presente a tutti i festeggiamenti, anche a una brillante serata al Teatro della Pergola, dove – come Elisa e la sua famiglia otto anni prima – i novelli sposi vennero accolti dal «triplice viva dal numeroso popolo ivi congregato, per ammirare i pregi della reale sovrana sposa».59

59. Giuseppe Conti, Firenze vecchia. Storia, cronaca aneddotica, costumi (17991859), capitolo XI, Le nozze dell’arciduca Leopoldo, R. Bemporad, Firenze 1899.

2. La fuga, l’esilio, la giovinezza

Partirono con Elisa da Lucca, sistemati in tre carrozze, la figlia Napoleona con Madame de Finguerlin, la lettrice Ida de Saint-Elme e Francesco Lucchesini, figlio di Girolamo, che aveva da qualche tempo sostituito nel cuore della granduchessa il grande scudiero Bartolomeo Cenami. Il piccolo corteo passò per Massa e Sarzana, arrivò il 15 marzo 1814 a Genova dove si aggiunse Felice Baciocchi, ripartì per Torino e poi per Chambery, intendendo prendere la via di Parigi; ma lì i viaggiatori seppero che gli austriaci avevano già occupato Lione, e sbarravano loro la strada. Si diressero allora verso Grenoble e poi in direzione di Valence, per fermarsi infine a Montpellier il 23 marzo; lì la principessa affittò un piccolo castello fuori città, lo Château de la Piscine, decisa ad aspettare gli eventi. In quei giorni convulsi, Elisa cercava di apparire tranquilla e sicura di sé ai suoi familiari e alla popolazione cittadina; quando andò a visitare il locale Orto botanico, accompagnata dal direttore Augustin-Pyramus de Candolle che aveva partecipato alla spedizione d’Egitto, gli chiese con la massima disinvoltura consigli sul modo di inspirare il gusto della botanica alla figlia, promettendogli «al suo ritorno in Toscana» di inviargli degli esemplari di piante.1 Ma il 31 marzo Parigi si arrese agli alleati e il 2 aprile il Senato votò la caduta di Napoleone; il 6 aprile l’imperatore abdicò senza condizioni e lo stesso giorno il Senato chiamò a divenire re dei francesi il conte di Provenza, fratello di Luigi XVI, con il nome di Luigi XVIII. Il 20 aprile il sovrano decaduto lasciò Fontainebleau per l’Isola d’Elba, di cui il trattato dell’11 aprile gli aveva assegnato la sovranità; Elisa però non aveva alcu1. Mémoires et souvenirs de Augustin-Pyramus de Candolle..., écrits par lui-même et publiés par son fils (Alph. de Candolle), Cherbuliez, Genève 1862, pp. 245-246.

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na intenzione di raggiungere il fratello e il 15 aprile partì da Montpellier per Marsiglia, decisa a dirigersi su Roma e a chiedere ospitalità al papa. Sperava ancora di recuperare parte dei suoi Stati: si rivolse ai sovrani alleati, a Fouché e alle persone influenti che conosceva nel nuovo governo, pregando che le venisse lasciata almeno Lucca. «Sarei troppo felice di terminare la mia vita in quel paese», scrisse il 18 aprile a Talleyrand, assicurandolo che «Non è certo da temere la mia influenza; desidero vivere in pace e tranquilla in Italia» e chiedendogli, in nome della loro antica amicizia, «di concederle una sorte indipendente».2 Non ottenne nulla: le risposero che i trattati che ridavano i suoi Stati ai loro antichi monarchi non si potevano cambiare, e che il suo patrimonio personale era sufficiente a garantirle un’esistenza onorevole. Lasciò allora a Marsiglia Felice, Napoleona con Madame de Finguerlin e il piccolo seguito di fedeli che non l’avevano abbandonata, e partì per Bologna, dove voleva incontrare il re di Napoli Gioacchino Murat, e chiedere il suo appoggio. Arrivò a Bologna il 27 aprile nel più stretto incognito, vide subito – ma senza alcun risultato – il re di Napoli, suo cognato, poi prese alloggio presso il conte Antonio Aldini, avvocato ed ex ministro di Stato del Regno d’Italia. Dovette attendere, con grande inquietudine, qualche giorno per avere notizie della figlia, rimasta sola con l’«incomparabile»3 Madame de Finguerlin perché Felice era stato costretto a nascondersi. In tutte queste traversie, la dolce e mite Henriette de Finguerlin si era rivelata un’anima salda e sicura; quasi stupita della sua fedeltà nella sventura, Elisa incaricò Eugène Le Bon, il segretario del marito, di dirle che per tutta la sua vita sarebbe stata «sa plus tendre et reconnaissante amie».4 Era ormai al settimo mese di gravidanza e non era più tanto giovane (aveva trentasette anni), eppure si dava da fare senza tregua per farsi ascoltare dalle potenze vincitrici e salvare quello che poteva delle sue proprietà, e per trovare il modo di farsi raggiungere a Bologna dal marito e dalla figlia. Si preoccupava molto che in tutte quelle tribolazioni il carattere e l’educazione 2. Cit. P. Marmottan, La Grande-Duchesse Elisa à Montpellier. Mars-avril 1814, in «Revue des études napoléoniennes», 22 (gennaio-giugno 1924), pp. 140-195, p. 149. 3. Journal d’Elisa Bonaparte et d’une de ses dames de compagnie, du 30 avril 1814 au 7 septembre 1817, ANP, 400 AP 24 (venerdì 13 maggio 1814). 4. Lettera di Elisa a Eugène Le Bon, segretario di Felice Baciocchi, del 16 maggio 1814, in Fleuriot de Langle, Elisa, pp. 363-366.

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della bambina fossero stati trascurati: il 3 giugno 1814, il giorno in cui Napoleona compiva otto anni, scrisse nel suo Journal che se la figlia dal punto di vista fisico era bene sviluppata, il suo morale lasciava invece a desiderare per qualche impazienza difficile da correggere, è vivace, ha spirito, istruzione, parla francese, tedesco e italiano molto bene. Se non avessi tanto viaggiato, scriverebbe perfettamente, e deve ora leggere benissimo, i lavori femminili non le sono mai piaciuti, ha sempre preferito lavori o giochi più vicini alla sua voglia di darsi da fare.5

Non si fidava dei nuovi potenti, e voleva seguire di persona i propri interessi; a metà giugno, dopo aver fatto arrivare e sistemare a Bologna la famiglia, si fece rilasciare dal generale austriaco comandante della piazza il passaporto e partì per Vienna, dove voleva perorare con Metternich la restituzione del suo patrimonio lucchese, e chiedergli di potersi stabilire in Austria. La accompagnavano Francesco Lucchesini e sua figlia, che per troppo tempo le era stata lontana. Metternich non la fece arrivare fino a Vienna, ma la ricevette nei dintorni della capitale e le ordinò di tornare a Bologna; Elisa andò invece da suo fratello Gerolamo, l’ex re di Westfalia, che con la moglie Caterina del Württemberg si era stabilito a Ekensberg, presso Vienna. La principessa vi rimase cinque settimane, finché – avvicinandosi per lei il tempo di partorire – il 3 agosto decise di ripartire per Bologna, accompagnata dal fratello; ma l’8 agosto, vicino Palmanova nel Friuli, Elisa avvertì i primi dolori del parto e Gerolamo fu costretto a chiedere ospitalità nella villa Manin di Passariano, dove nel 1797 Napoleone aveva firmato con l’Austria il trattato di Campoformido. Lì, il 10 agosto, la principessa diede alla luce un bambino debole e gracile, che venne chiamato Federico Felice Napoleone, detto Fritz. Nonostante il parto e la fatica del viaggio, Elisa sembrava dotata di un’energia sovrumana e di una grande forza d’animo; il 21 agosto era a Trieste per accogliere la cognata Caterina – anche lei in procinto di partorire – portando con sé la figlia e Andrea Vaccà Berlinghieri, un famoso chirurgo e ostetrico di Pisa, che era stato suo medico personale e che effettivamente con la sua abilità salvò madre e bambino. 5. Journal d’Elisa Bonaparte, venerdì 3 giugno 1814.

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Il 2 settembre, finalmente, Elisa fu di ritorno a Bologna con i due figli. Risolta a stabilirvisi, a novembre acquistò, subito fuori Porta S. Felice, la villa Caprara, circondata da campi e da un bel parco. Con l’aiuto dell’avvocato Antonio Aldini, stava recuperando una parte del suo patrimonio e sembrava disposta a investirlo in proprietà a Bologna, con la clausola (che rivelava, insieme con una residua fedeltà a Napoleone, una grande sfiducia nel nuovo re francese) di rescindere ogni contratto «nel caso che i Borboni fossero intenzionati a dominare su questa provincia».6 I Baciocchi cercavano di condurre una vita appartata e discreta, anche se l’attenzione del Buon Governo pontificio e del pubblico era sempre fissata su di loro; in agosto, quando Felice era solo a Bologna, una sera al ritorno da teatro fu fatto segno di un colpo di archibugio: il principe sentì vicinissimo il sibilo della pallottola, che spaventò i cavalli e li fece andare a sbattere contro il cancello di ingresso della villa, ma nessuno rimase ferito e non si seppe mai chi fosse stato. Pur se la polizia pontificia cercava di esercitare uno stretto controllo sui movimenti loro e dei loro familiari, il governo austriaco desiderava invece che fossero trattati con particolare riguardo, e impedì una sorveglianza troppo vessatoria. Su richiesta dell’imperatore d’Austria, andò a visitarli il granduca Ferdinando III di Toscana, di passaggio a Bologna per recarsi a Firenze; Elisa scrisse lusingata ad Antonio Aldini che il granduca si era interessato ai loro affari, aveva promesso di occuparsene e di fare «tutto ciò che fosse in suo potere per essermi gradito».7 Ora Elisa aveva il tempo di occuparsi dell’educazione della figlia e – come al suo solito – cercò di prendere quanto di meglio poteva trovare a Bologna: come maestro di musica scelse Gioacchino Rossini, che era allora l’idolo della società bolognese. Riprese anche a partecipare alla vita mondana della città, e durante il Carnevale comparve tra le maschere con marito e figli, «in un bellissimo legno a secondare li altri nobili e popolazione di Bologna».8 Diede qualche ricevimento, ma le era rimasta l’altez6. M. Proni, La cronaca manoscritta di Francesco Rangone, in «Il Carrobbio», XII (1986), pp. 276-291, p. 290, nota 68. 7. Cit. in Fleuriot de Langle, Elisa, p. 327. 8. Cit. in F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra a Belpoggio presso Bologna. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, p. 47.

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zosità di quando era granduchessa che, mescolata al carattere severo e chiuso, intimidiva e imbarazzava i suoi ospiti. Francesco Rangone descrive nella sua Cronaca una festa da Elisa: Si presenta la Società e lei non c’è. Giunge in seguito, tutti si alzano dalla sedia, tutti parlano sottovoce, e co’ titoli di Altezza, tutti parlano e siedono in seguito. Dopo un’ora di zelo si licenzia. Per quelli che poi vanno a pranzo ecco il formulario. Intervengono alle cinque, la Principessa compare alle sei. La stanza si apre. La sala ha un solo servizio, tutti prendono posto. La Principessa parla poco, mangia meno e in fretta, si alza al Desert dei frutti e dei dolci. I Convitati si alzano e la frutta e i dolci rimangono intatti.9

Elisa seppe della fuga di Napoleone dall’Elba il 4 marzo 1815 da un viaggiatore che veniva da Livorno, e nonostante mantenesse un grande riserbo e avesse consigliato la prudenza anche a suo fratello Gerolamo, fu sospettata di corrispondenze e di contatti segreti. Il 25 marzo un distaccamento austriaco circondò villa Caprara e portò via lei e il marito, con Napoleona e qualche domestico e familiare, lasciando il piccolo Fritz a Bologna. I Baciocchi vennero scortati per Ferrara e Padova verso la frontiera austriaca e poi fino a Brünn (l’attuale Brno) in Moravia. In questa città straniera e inospitale, sormontata dalla cupa fortezza dello Spielberg, Elisa e i suoi rimasero non prigionieri ma confinati durante tutti i Cento Giorni e dopo la caduta di Napoleone, fino alla primavera del 1816. Furono mesi difficili e inquieti, funestati dalle tragiche notizie della sconfitta di Waterloo e poi, in settembre, da quelle della sfortunata impresa di Murat di riconquista del Regno di Napoli, e della sua tragica morte a Pizzo Calabro. Nelle sue lettere ad Aldini, che era allora ministro plenipotenziario del papa a Vienna, ai parenti e a tutte le persone che pensava potessero aiutarla ad andarsene in un luogo più salubre, Elisa si lamentava del clima orrendo che la faceva stare sempre male e non la faceva dormire, dell’impossibilità di fare i bagni di mare necessari alla salute sua e della figlia; le pesava stare lontana dal figlio piccolo («mi si dice che Fritz è di una bellezza e di una bontà incantevoli; mangia le sue pappette con il brodo, e non ha ancora messo i denti», scriveva alla cognata Caterina), ma era contenta di averlo lasciato a casa, perché era certa che – come aveva perduto 9. Proni, La cronaca manoscritta di Francesco Rangone, p. 286.

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gli altri – così «nelle strade spaventose per cui sono passata» avrebbe perduto anche questo bambino. La inquietava anche la mancanza di insegnanti adeguati per Napoleona, che si limitava a imparare un po’ di tedesco; la stretta vicinanza della madre sembrava però calmare la piccola, tenere a freno le sue «impazienze».10 Dopo qualche tempo arrivarono anche Carolina con i figli, e la presenza dei cugini dovette sicuramente distrarre e rallegrare Napoleona. Alla fine Elisa, in gravi difficoltà economiche, fu costretta a mandare a Vienna il suo scrigno di gioielli per essere venduto. Nei primi mesi del 1816 Metternich le concesse di stabilirsi non in Italia ma a Trieste, assicurando con disprezzo al suo imperatore che «questa donna è divenuta talmente insignificante, e la sua insignificanza è talmente nota al pubblico in tutta Italia, che la scelta del suo soggiorno non ha alcuna importanza».11 Il famigerato e temuto ministro austriaco di Polizia, Sedlnitzky, ordinò però ai suoi subordinati triestini di tenere i Baciocchi (che avevano preso il nome di conti di Compignano, da una loro proprietà di Lucca) e le persone con cui fossero entrati in contatto sotto costante sorveglianza, pur se con «un certo grado di riguardo».12 Anche la loro corrispondenza doveva essere assoggettata a «una quanto mai attenta manipolazione segreta»13 (la “manipolazione segreta delle lettere” era l’eufemismo usato dalle autorità austriache per designare l’attività del cosiddetto Gabinetto nero, che apriva e leggeva la posta dei sospettati). Elisa e Felice erano nel frattempo riusciti ad arrivare a una transazione economica con il governo austriaco per quanto riguardava le loro proprietà lucchesi; ne ottennero un’ampia rendita di 300.000 franchi l’anno e poterono quindi acquistare a Trieste la tenuta di Campo Marzio, una grande villa sulle colline circondata da giardini. La fecero restaurare e ampliare, la arredarono elegantemente con quadri e statue e con mobili di moga10. Lettera di Elisa alla cognata Caterina da Brünn, 14 maggio 1815, cit. in G. Sforza, Ricordi e biografie lucchesi, Baroni, Lucca 1918, p. 283. 11. Rapporto di Klemens von Metternich all’imperatore d’Austria del 26 febbraio 1816, cit. in Fleuriot de Langle, Elisa, pp. 335-336. 12. Il ministro di Polizia Sedlnitsky a Carlo Cattanei de Momo, direttore di Polizia di Trieste, cit. in V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIII, 691 (1926), I parte, pp. 231-290, pp. 235-236. 13. Indicazioni dalla direzione di Polizia di Vienna alle autorità triestine del 13 agosto 1816, ibidem.

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no che portavano intagliata la lettera E, vi fecero costruire una cappella e una biblioteca, e nel giugno del 1816 vi si installarono con figli e domestici. Finalmente tranquilla dopo tante angosce, Elisa – come sempre, l’anima e il centro della famiglia – seppe organizzare per tutti una vita ritirata, ma comoda e quieta. Agli altri Bonaparte, sparsi esuli per l’Europa, descriveva un’esistenza serena, una «vita domestica […] molto piacevole», «una ragazzona che vi mette allegria»,14 un ambiente familiare «perfetto», unito e affettuoso, ribadendo con orgoglio che «sono delle ricchezze che non può sottrarmi né la gelosia né l’odio, e tutto ciò lo devo unicamente al mio carattere e alla mia filosofia».15 La sua filosofia l’aiutò anche ad accettare l’abbandono di Francesco Lucchesini, che scappò portandosi via migliaia di franchi in gioielli. I Baciocchi vedevano poche persone: Gerolamo e Caterina – che alla fine del 1819 vennero anche loro a stabilirsi a Trieste, sotto il nome di principi di Montfort – e gli esuli francesi (Savary duca di Rovigo, Maret duca di Bassano, Arrighi duca di Padova, più tardi Fouché con la nuova moglie e i figli) che si erano lì rifugiati. Poi Elisa chiese che venisse un po’ allentato il continuo controllo della polizia sulla sua famiglia e sul personale di servizio, e che le venisse permesso di accogliere a casa sua una «scelta società»16 di triestini. Le venne concesso di invitare qualche persona notevole della città, purché «di mentalità non pericolosa»,17 dei banchieri, dei medici e avvocati, dei grandi negozianti, qualche musicista (anche Paganini, di passaggio a Trieste nel settembre 1816). Il teatro era ancora per lei una grande passione, aveva palchi nei principali teatri della città, e a casa sua dava dei «piccoli divertimenti lirico-drammatici»,18 interpretati dai suoi familiari e amici. Durante queste serate, per sua stessa ammissione, la prendeva però il tedio, forse lo sdegno per essere ridotta (lei che era 14. Lettera di Elisa alla cognata Ortensia de Beauharnais, datata 6 gennaio (1817 o 1818) e scritta da Trieste, Archivio del MN, inv. M.N. 4672. 15. Lettera di Elisa alla sorella Paolina del 17 maggio 1817, cit. in Fleuriot de Langle, Elisa, p. 339. 16. Relazione del governatore di Trieste barone Spiegelfeld sul colloquio avuto con Elisa nel giugno 1818, cit. in Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, I parte, p. 243. 17. Ibidem, p. 244. 18. Ibidem, p. 261.

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sorella di un imperatore e che aveva governato uno Stato) a una compagnia così meschina; si distraeva allora dalla conversazione, e lasciava il salone. Scrisse a Fouché che le pesava molto «abituarsi ai normali disagi della vita di società», ma che «le circostanze per me e per i miei sono tali che in coscienza mi si può passare qualche stranezza».19 Aveva accettato di farsi chiamare contessa dalle autorità austriache, ma mostrava di gradire molto quando la chiamavano principessa, e le davano il titolo di Altezza. Elisa stava bene attenta a non mettersi in urto né con il governatore austriaco, né con il diffidente console francese, a non suscitare sospetti su eventuali contatti con il fratello prigioniero a Sant’Elena. Aveva però bisogno di attività, di darsi da fare; volendo impiegare i suoi capitali e «assicurare e conservare il suo avere ai suoi bambini»,20 fondò una casa di commercio a Trieste, comprò alcune case in città, poi nel settembre 1818 una grande tenuta a Villa Vicentina, vicino Gorizia, con casa padronale, parco, granai, case rurali e molti campi, dove prese a passare parte dell’autunno e della primavera. Le ritornò l’amore per l’archeologia, e fece fare a sue spese degli scavi nell’antica Aquileia; anche lì la seguì (organizzata con la consueta efficienza) l’occhiuta sorveglianza della polizia austriaca. Sedlnitzky aveva incaricato di controllarla («in modo occulto quanto mai»)21 i responsabili del governo nella zona, i maestri di posta intorno a Villa Vicentina, un medico che Elisa aveva assunto al suo servizio, perfino l’ispettore idraulico di Aquileia Girolamo de Moschettini, che assisteva agli scavi. De Moschettini rimase affascinato dalla gentilezza di lei, dalla sua tranquilla attitudine al comando, dalla sua sensibilità «ai mali che affliggono l’umanità».22 Con il suo solito perfezionismo, Elisa si occupava infine dell’educazione dei figli, soprattutto di Napoleona che era ormai adolescente. Dopo 19. Lettera di Elisa a Fouché del 18 ottobre 1819 da Villa Vicentina, proveniente da una collezione privata e pubblicata in Fleuriot de Langle, Elisa, pp. 367-371. 20. Relazione del governatore di Trieste barone Spiegelfeld sul colloquio avuto con Elisa nel giugno 1818, in Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, I parte, p. 244. 21. Comunicazione di Sedlnitzky al conte Chotek, gerente il presidio governale di Trieste, del 15 luglio 1818, ibidem, p. 246. 22. Relazione di Girolamo de Moschettini, ispettore idraulico di Aquileia, alle autorità di Polizia, ibidem, p. 259.

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due anni e più di fughe e traversie, Napoleona aveva ritrovato un ritmo di vita normale, accanto ai genitori e al fratellino. Tutte le peripezie che aveva passato non l’avevano tanto angosciata e preoccupata, perché era troppo piccola, e poi – tranne per un breve periodo – perché sua madre era sempre stata accanto a lei. Anzi, le avventure vissute dovevano averla divertita, lei che non aveva paura di viaggiare, e che temeva sopra ogni cosa di essere obbligata a occuparsi con regolarità di cose noiose e incomprensibili. Non era più la principessina capricciosa e tirannica, l’erede di una dinastia la cui educazione veniva strettamente seguita e sorvegliata da una piccola corte, era ormai solo la figlia di una ricca famiglia, che doveva imparare il minimo indispensabile per completare la propria educazione, con un futuro vago ma assicurato davanti a sé. A distinguerla dalle sue coetanee rimase lo stigma – che la segnò per il resto della sua vita – di essere una Bonaparte. Napoleone era lontano e recluso, irraggiungibile, ma la sua presenza (o il suo fantasma) erano percepibili non solo nella sua casa, nei ritratti e nei ricordi di un passato così folgorante e così vicino, ma anche nella paura di chi li sorvegliava (anche se con discrezione), nell’atmosfera sospesa in cui si sussurrava di complotti per rapirlo e riportarlo sul trono, o condurlo libero in America, nelle voci delle sue orribili sofferenze, nelle leggende che già nascevano sul suo destino. Napoleona prendeva lezioni di tedesco e di disegno, di danza dai primi ballerini del teatro di Trieste, di musica dal compositore Giuseppe Farinelli. Era ricomparso (con suo grande dispetto), e aveva ripreso a darle lezioni di canto, il celebre sopranista Velluti. Crescendo, la fanciulla aveva perso la sua bellezza infantile fatta di solidità e di salute; in un disegno di quegli anni di Louis Dupré è un’adolescente grassa e un po’ goffa, con un grande seno, i lineamenti pesanti anche se tipicamente napoleonici. Del suo carattere sappiamo che le sue «impazienze» sembravano calmarsi nella tranquillità di una vita familiare regolare, che le piaceva disegnare e ricamare, ma che soprattutto si appassionava a passatempi considerati allora tipicamente maschili, come tirare di scherma, andare a cavallo, maneggiare le armi. Era insomma un vero garçon manqué, un personaggio che si ritroverà poi stilizzato in molti romanzi per fanciulle di fine Ottocento, in cui spavalde ragazze rivendicano i modi e le occupazioni dei maschi, per poi cedere e recuperare la loro dolcezza e femminilità quando si innamorano. A Napoleona in particolare (a partire dal tito-

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lo) sembra ispirato un romanzo di inizio Novecento di Jean Rosmer, Napoléone, la storia di una figlioccia dell’imperatore, figlia di un fedele militare morto in battaglia, che ha i modi rudi e violenti di un vecchio soldataccio, ma che – accolta da Napoleone e Giuseppina – impara dalla vita a corte e soprattutto dalla benefica influenza dell’imperatrice a diventare una ragazza ammodo, coraggiosa ma piena di grazie, femminile ma non smancerosa. Elisa, pur essendo dotata di grande energia, aveva sempre avuto una salute incerta, e cominciava ad essere stanca e logora. Nell’estate del 1820 era a Villa Vicentina e andava quasi tutti i giorni a ispezionare gli scavi di Aquileia; secondo i cronisti dell’epoca, in quella zona paludosa si prese una “febbre malarica”, un «Putrido maligno con infiammazione»23 che doveva essere in realtà tifo, perché insieme con lei si ammalò anche Eugène Le Bon, il segretario di Felice. Alla fine di luglio il suo stato si aggravò e la sera del 7 agosto – a soli 43 anni – Elisa morì. I suoi affari erano in ordine, ma lei era angosciata dal futuro dei figli, dal carattere debole e superficiale del marito: «il povero principe perderà la testa», disse al fratello Gerolamo qualche ora prima di morire, «Prenditi cura di lui, è buono, ma perderà la testa».24 Napoleona non era accanto a lei: quando le annunciarono la morte della madre sembrò impazzire dal dolore, e cercò per due volte di buttarsi dalla finestra. Le sembrava inconcepibile perdere d’improvviso l’unico punto fermo e reale della sua vita, la persona che soprattutto negli ultimi anni (da quando Elisa non aveva più compiti di governo) le era stata vicina. Napoleona aveva appena quattordici anni, e la morte di Elisa lasciò irrisolto – un sentimento che le rimase dentro per sempre – il legame così pieno di amore ma anche di conflitti presente tra loro, conflitti tra le esigenze della madre e la ribellione confusa e piena di senso di colpa della figlia, tra la riconoscenza e l’ammirazione della ragazza per Elisa e la sensazione di non essere mai alla sua altezza. 23. Dall’atto di morte conservato nell’Archivio parrocchiale di Villa Vicentina, Libro delle morti, t. IV, p. 65, n. 7. 24. Lettera di Caterina del Württemberg al cardinal Fesch dell’8 settembre 1820, in Correspondance inédite de la reine Catherine de Westphalie, née princesse de Wurtemberg, avec sa famille et celle du roi Jérome, les souverains étrangers et divers personnages, publiée par le Baron A. Du Casse, É. Bouillon, Paris 1893 (rist. anastatica Elibron Classics, Adamant Media Corporation, Boston, MA 2005), p. 262.

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Elisa era la prima a morire tra i fratelli Bonaparte, e la sua morte e i suoi funerali vennero annunciati e commentati in tutta la società europea, anche con sciocca malignità: un giornalista francese, Achille Jouffroy d’Abbans, scrisse al barone Édouard Mounier, antico segretario di Napoleone e allora direttore della Polizia di Luigi XVIII, di avere saputo dai diplomatici austriaci presenti al Congresso di Lubiana che Elisa era stata condotta al cimitero «in una povera carretta, coperta da un lenzuolaccio e seguita da una sola persona, la sua cameriera».25 Portata a Trieste, la salma di Elisa ebbe invece funerali solenni – quasi principeschi – nella cattedrale di S. Giusto, senza stemmi o emblemi esposti ma decorata con ghirlande che riportavano al centro la lettera E. La cerimonia venne accompagnata dalla musica dei migliori orchestrali della città, e vi assistettero il clero di Trieste con il vicario generale, il console francese e rappresentanti dei ceti cittadini; tutto si svolse (scrisse con sollievo il direttore della Polizia Cattanei al governatore Spiegelfeld) «in perfetto ordine, senza che si avesse dovuto lamentare il benché minimo incidente».26 Presenziavano alla cerimonia, in profondo lutto, Felice con i figli e i familiari, ma non Gerolamo e Caterina, già in dissidio con Baciocchi. I Bonaparte avevano una scarsissima fiducia nel carattere e nelle capacità di Felice, e ancora meno nella sua intenzione di allevare i figli nella tradizione familiare. Madama Letizia, «Madame Mère», che si era stabilita con alcuni dei figli a Roma ospite del papa, era molto preoccupata che i nipoti vivessero in un ambiente non adatto a loro, che crescessero lontano da lei; scrisse accorata a Napoleona che avrebbe voluto esserle vicina «per guidarvi, con i consigli nati dalla mia esperienza, nel mondo e soprattutto con i principi che devono guidare tutti i figli della mia famiglia».27 Correvano voci e insinuazioni su Mademoiselle Gadelia, figlia della governante di Napoleona, si diceva non soltanto che fosse l’amante di Felice, ma che lo dominasse così come lo aveva dominato la moglie; si 25. Lettera di Achille Jouffroy d’Abbans al barone Édouard Mounier del 6 aprile 1821, da Laybach, presente nel catalogo n. 37 (marzo 1998) della Casa d’aste L’Autographe S.A., Geneva, Switzerland, n. 110. 26. Rapporto del direttore di Polizia di Trieste Cattanei al governatore Spiegelfeld sulla messa funebre tenutasi a Trieste ai primi di settembre 1820, in Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, I parte, pp. 277-278. 27. Lettera di Madame Mère a Napoleona del 9 settembre 1820, in Lettere di Letizia Buonaparte, p. 124.

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diceva anche che l’entourage più stretto del principe detestasse e trascurasse la giovane principessa. Elisa aveva lasciato un patrimonio cospicuo (più di due milioni di franchi tra proprietà immobiliari a Trieste e a Villa Vicentina, mobili, gioielli e opere d’arte, per una rendita annua di 300.000 franchi) e sufficiente – se bene amministrato – ad assicurare un futuro più che agiato a Napoleona e a suo fratello. Felice però era stufo dell’esilio triestino, dell’orgoglioso isolamento in cui l’aveva costretto la posizione così delicata della moglie, e voleva andare a vivere in una città più allegra e accogliente. Chiese alla Santa Sede e ai delegati della Santa Alleanza, riuniti in congresso a Lubiana, il permesso di stabilirsi a Bologna e, ottenutolo, nell’autunno 1821 vi si trasferì con i figli e un seguito di ben 36 persone. Deciso a farsi accettare, e ad integrarsi pienamente nella vita cittadina, si fece iscrivere nel Libro d’oro della nobiltà bolognese, riprendendo (con il beneplacito di Metternich) il titolo di principe concessogli da Napoleone; nel marzo 1822 comprò il secentesco Palazzo Ranuzzi e lo fece restaurare splendidamente, chiamando ad abbellirlo i più noti pittori e decoratori del momento, Felice Giani, Luigi Cini, Antonio Basoli, Giovan Battista Sangiorgi. I soggetti scelti per i loro affreschi (le storie di Enea, i fasti di Augusto e degli imperatori romani, i sacrifici a Marte) alludevano con discrezione alle vicende gloriose che i Baciocchi avevano alle spalle. L’infilata degli eleganti saloni culminava in un vero Pantheon, in cui erano riunite le statue colossali di Napoleone, di sua madre Letizia, i busti degli altri Bonaparte e un grande ritratto dell’imperatore nelle vesti del Sacre. Per molti anni, gli stranieri di passaggio a Bologna chiesero di visitare il palazzo, quasi fosse un museo dell’epopea napoleonica: Henry T. Tuckerman, un americano che viaggiava in Italia in quegli anni, davanti a questi memorabilia rifletteva Quanto poco tempo è bastato per trasportare le gesta del moderno conquistatore dell’Europa nella calma sfera della storia, e insediare il suo formidabile nome nell’ormai non più temibile sebbene solenne passato!28

Palazzo Ranuzzi, diventato Palazzo Baciocchi, venne alla fine «accomodato» (racconta la Cronaca di Francesco Rangone) «di quanto 28. H.T. Tuckerman, Rambles and reveries, James P. Giffing, New York 1841, pp. 166-167.

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può ricercarsi al gusto, alla ricchezza, ed alla generosità ed alla convenienza di un principe»;29 oltre che nella dimora di città, Felice volle impiegare i suoi vasti capitali anche nell’acquisto della grande tenuta di campagna di Mezzolara, nel territorio di Ronchi di Bagnarola. Aveva sempre amato la vita mondana: comprò palchi nei principali teatri della città e nel marzo 1824 aprì i suoi saloni alla società bolognese in cui – con la sua amabilità e benevolenza, la sua voglia di divertirsi, il suo tenersi accuratamente fuori da beghe politiche – trovò presto un posto di rilievo. La raffinatezza dei suoi ricevimenti, i suoi larghi mezzi e la sua generosità divennero leggendari: «Ricco come Baciocchi» rimase a lungo un detto comune a Bologna.30 Napoleona era affidata alla sua governante Gadelia, ma sembrava soprattutto fare di testa sua, abbandonando – ora che non era più strettamente sorvegliata – ogni studio regolare; pur conoscendo bene italiano, francese e tedesco, scriveva (come fece per il resto della sua vita) le parole e le frasi a orecchio, con una calligrafia incomprensibile e un tranquillo sprezzo di punteggiatura, ortografia, grammatica e sintassi. Cominciò però allora ad appassionarsi alla politica e alla storia, soprattutto a quella dello zio; dalla bella biblioteca di casa – che era stata quella di sua madre – prese tutti i libri e i giornali che riguardavano il periodo rivoluzionario e imperiale, e li portò nelle sue stanze per leggerli e meditarli: anche se nel suo modo disordinato e approssimativo, cercava di assomigliare alla colta e impegnata Elisa. Le rimase l’amore per il disegno e il ricamo, e ancora da adulta amava mandare come segno d’affetto alle persone cui era più legata (soprattutto al padre) degli oggetti cuciti con le sue mani. La maggior parte del tempo, tuttavia, lo passava a caccia, a cavallo o a tirare di scherma, a interessarsi dell’amministrazione del patrimonio o dei lavori agricoli nelle tenute che suo padre aveva comprato presso Bologna. Coraggiosa e forte, non aveva paura di sfidare i rigori dell’inverno; vestiva, ricorda un cronista bolognese, «con ricchezza e insieme anche con negligenza».31 29. Proni, La cronaca manoscritta di Francesco Rangone, p. 286. 30. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra, p. 60. 31. L. Sighinolfi, Il Palazzo di Giustizia. Il Palazzo Baciocchi, in «Bollettino del Comune di Bologna», XII (dicembre 1924), pp. 698-708, p. 704.

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Era diventata una ragazza alta e robusta: «le sue forme», racconta Francesco Rangone, erano fresche, maschie e senza essere belle esibiscono interessante carattere per chiamare una particolare attenzione. Ella assomiglia pienamente a Napoleone ed avvi in quella fronte gran parte di quei tratti apparenti dell’illustre ed immortale suo zio.32

Effettivamente, in una miniatura del suo vecchio maestro Counis, Napoleona giovinetta ha il viso quadrato, i lineamenti forti e ben segnati e gli occhi infossati dell’imperatore ma con uno sguardo opaco e abbastanza inquietante, come fissato nei suoi pensieri e refrattario all’ascolto degli altri. Fu sempre fierissima di essere una Bonaparte: l’appartenenza alla famiglia materna, e la sua somiglianza a Napoleone, la riavvicinavano alla madre, la aiutavano a colmare il vuoto di paura e insicurezza e rabbia che si portava dietro, l’autorizzavano a sentirsi esentata dal rispettare le regole della vita comune. Morta Elisa, nessuno (tanto meno il padre) era più in grado di tenerle testa; Napoleona voleva fare sempre a modo suo, non ammetteva che le si dessero ordini, si mettesse un freno ai suoi capricci, ai suoi desideri e alle sue spese. Era tornata l’instabilità del suo carattere, che passava «con la maggior rapidità dalla più gentile amabilità al più severo contegno e al più imponente aspetto».33 Aveva ormai raggiunto l’età da marito, e il padre desiderava ardentemente sistemarla e non doversene più occupare. Da principio Felice volle seguire le indicazioni che Napoleone aveva lasciato circa il matrimonio dei suoi nipoti: Desidero – aveva scritto l’imperatore nel suo testamento – che sia manifesto alla mia famiglia che io desidero che i miei nipoti si sposino tra loro o negli Stati Romani, o nella Repubblica Svizzera, o negli Stati Uniti d’America. […] a meno di un ritorno di fortuna in Francia, desidero che il mio sangue sia il meno possibile presente nelle corti dei re.34

Nel maggio 1822 Felice combinò un incontro con Luigi Bonaparte e i suoi due figli di cui il maggiore, Napoleone Luigi, aveva due anni più di 32. Proni, La cronaca manoscritta di Francesco Rangone, p. 286. 33. Sighinolfi, Il Palazzo di Giustizia. Il Palazzo Baciocchi, p. 704. 34. Testamento di Napoleone, Instructions pour mes exécuteurs testamentaires, point 30.

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Napoleona e poteva essere un partito possibile; sembra però che i due ragazzi non si fossero piaciuti affatto e in effetti, se l’intellettuale e sensibile Napoleone Luigi interessò poco Napoleona, lui – abituato alla tenera femminilità della madre Ortensia Beauharnais e della nonna Giuseppina – dovette sicuramente rimanere terrorizzato dalla bruschezza e dalla prepotenza di lei. La ricerca di un marito adatto continuò con difficoltà, nonostante la ricca dote che sarebbe stata data alla ragazza e l’eredità materna che le sarebbe arrivata una volta maggiorenne. A creare problemi non erano solo il carattere – così bizzarro per i canoni dell’epoca – e la vita libera e senza controllo di Napoleona, ma anche la situazione della sua famiglia, ambigua e incerta nell’Italia della Restaurazione. I Bonaparte, pur facendo parte delle migliori società nelle città dove avevano scelto di vivere, per le vecchie élites aristocratiche erano dei parvenus, e poi – sempre sospettati di velleità di rivincita e di riconquista – erano sottoposti a uno spionaggio continuo sui loro atti o le persone che frequentavano, ed erano tenuti a chiedere il permesso di tutti i rappresentanti delle potenze della Santa Alleanza ogni volta che dovevano spostarsi. Nonostante l’aiuto dell’arcivescovo cardinal Carlo Oppizzoni, cui Felice si era legato d’amicizia, tra la nobiltà bolognese non si trovò nessuno disposto a chiedere la mano della principessina; finalmente il cardinale scovò un conte anconetano, Filippo Camerata Passionei de’ Mazzoleni, un ragazzo diciannovenne appena uscito dal collegio, figlio del commendatore Pacifico e nipote del cardinale Passionei, uno dei grandi eruditi della Roma settecentesca. Il 17 luglio 1824 i due giovani si incontrarono a Palazzo Baciocchi e parvero piacersi; il 22 luglio venne firmato il contratto nuziale davanti all’arcivescovo, al notaio Francesco Aldini, ai familiari e ad altri invitati di riguardo. A Napoleona fu assegnata una dote di 70.000 franchi, un’uguale somma di estradotale e un magnifico corredo; l’eredità materna ammontava a quasi 800.000 franchi, ma fino alla maggiore età della ragazza era sottoposta all’autorità pupillare. Lo sposo si impegnava a mantenere tre carrozze e sei cavalli, una decina di persone di servizio, una residenza ad Ancona e a Senigallia, una «superba villeggiatura»35 a Colle Ameno presso Ancona, palco a teatro e uno 35. Sighinolfi, Il Palazzo di Giustizia. Il Palazzo Baciocchi, p. 703.

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spillatico di 100 scudi (50 franchi) al mese. Gli sposi sarebbero andati a vivere con il suocero, vedovo, e nel caso volessero andare per conto loro avrebbero avuto una rendita di 10.000 scudi (5.000 franchi). In una miniatura di allora Filippo Camerata ha un bel viso romantico, una rada barba bionda e occhi azzurri dallo sguardo ingenuo. Orfano di madre e completamente sottomesso al padre, era un ragazzo mite e sprovveduto: alla cerimonia di firma del contratto apparve intimidito e quasi stordito, mentre la fidanzata si mostrava disinvolta e sicura di sé. Lui fu – e lo rimase a lungo – affascinato e soggiogato dalla forte personalità di lei, dalla sua capacità di ribellarsi e di prendere decisioni; Napoleona vedeva invece nel matrimonio «uno stato costante di dissipazione» e d’«indipendenza assoluta»,36 e soprattutto il modo di andarsene da casa, di avere un’amministrazione sua in cui un marito così mansueto l’avrebbe lasciata fare e disfare senza proteste. La data del matrimonio fu fissata al 27 novembre 1824, e le feste cominciarono parecchi giorni prima. Filippo era arrivato da qualche tempo, e i familiari notarono che sembrava essersi un po’ svegliato, appariva meno impacciato e «d’aspetto assai fresco, sano e piacente»;37 Napoleona si mostrava con lui molto riservata, rinfocolando le voci che la davano indifferente al suo promesso. Il 23 novembre le famiglie più nobili e conosciute di Bologna vennero invitate a un ricevimento, che il principe Felice aveva voluto apparisse «quanto di più grandioso e magnifico»38 fosse mai stato dato in città: il palazzo era lussuosamente arredato e illuminato, il «trattamento» (i rinfreschi) erano superbi, preparati da un famoso «credenziere» napoletano, erano presenti – sfolgoranti di tutte le loro onorificenze – i più importanti personaggi cittadini. La sposa era molto elegante, coperta di ricchi gioielli; aprì le danze con lo sposo ma poi danzò con altri fino alle cinque del mattino, mentre lo sposo se ne stava a chiacchierare con i suoi amici di collegio. La mattina del 27 novembre intorno a Palazzo Baciocchi e all’Arcivescovado, dove dovevano svolgersi le nozze, si radunò una grande folla di curiosi, che dovette aspettare un bel po’ perché gli sposi 36. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona del 31 gennaio 1826, ANP, 400 AP 22. 37. Sighinolfi, Il Palazzo di Giustizia. Il Palazzo Baciocchi, p. 704. 38. Ibidem.

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erano in ritardo; si notò, quando arrivarono, che il principe Felice era molto agitato. La sposa era vestita di bianco, con una meravigliosa sopravveste di merletto blonde, rose bianche in testa e sul petto, e una collana di perle al collo. Celebrata la cerimonia nella cappella privata dell’arcivescovo (testimoni furono il conte Cesare Bianchetti ed Eugène Le Bon), mentre gli sposi e gli invitati tornavano a palazzo accompagnati dalla banda militare, in una caserma vicina vennero distribuite delle elemosine ai poveri, un paolo agli uomini e mezzo paolo ai ragazzi. La sera ci fu gran ballo a Palazzo Baciocchi, con una cantata composta appositamente e lettura di composizioni poetiche. Il marchese Girolamo Zappi, poeta dilettante, amico e compagno di cavalcate di Napoleona, le dedicò un’erudita elegia in cui celebrava la sua bravura ippica ma soprattutto – sotto il velo delle immagini mitologiche – le raccomandava di rientrare nei ranghi. «Te che di nobile ardimento», diceva a Napoleona, «L’anima accesa hai di trattar vaghezza / I Cavalli, e sul tergo a lor seduta / Di Felsina trascorri le contrade», era ormai ora che diventasse «di caste Matrone esempio e lume». La paragonava a Ippodamia, a Climene, a Ippolita, ad Angelica fuggitiva, a Clorinda, Erminia e Bradamante, che furono «con la scorta di tua nobil arte / Segno ai sospir d’ogni guerriero amante», ma le raccontava anche la storia del cavallo Pegaso, domato da Castore: «Or chi sarà di tanto ardito core / Che il fren gli ponga, e a lui divenga Duce / E di sua libertà vinca l’amore?». Napoleona, «stirpe chiarissima di Marte», appariva «sull’arcione Amazone novella», ma doveva ricordarsi come con la «dolc’esca» di una carezza fosse possibile domare anche il cavallo più ribelle.39 La mattina dopo gli sposi si prepararono a partire per Ancona. Al momento di lasciare la casa paterna, il fratellino cui era molto legata, e la sua vita di ragazza, Napoleona ebbe paura e abbracciando il padre scoppiò a piangere; poi si asciugò le lacrime e salì sulla carrozza insieme a Filippo, salutando con sorrisi la gente che si era radunata per vederla partire. Il padre e il piccolo Fritz li accompagnarono fino a Porta S. Lazzaro, quindi tornarono indietro e Napoleona e Filippo seguitarono il loro viaggio. Per giorni in città si continuò a parlare del matrimonio, delle feste e 39. G. Zappi, Alle illustri nozze della Principessa Elisa Napoleona Baciocchi con il Conte Filippo Camerata Passionei, Tip. dei Nobili, Bologna 1824.

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dei regali, ma si mormorò anche molto sull’avarizia del commendatore suocero, che – pareva – non aveva pensato né al vestito di gala per il figlio (ed era stato costretto a cedergli il suo la mattina del matrimonio, facendo aspettare tutto il corteo), né all’anello nuziale, cui aveva dovuto provvedere il principe Felice; si diceva che il commendatore si fosse portato da casa polli e vivande e che se li facesse cucinare nell’albergo dove era sceso con figlio e servitori, e il resto se lo andasse a comprare da sé al mercato. Tutti poterono vedere che, la mattina della partenza, il commendatore si presentò in giacchetta e con la pipa in bocca, in palese contrasto con la raffinatezza e l’eleganza di Felice e dei suoi familiari. Appena arrivata, Napoleona sembrò trovarsi bene; scrisse a Felice che tutto le piaceva, «il mio appartamento è molto comodo e fino ad ora non posso essere più contenta»,40 che Colle Ameno era «un posto incantevole».41 Poi cominciò a sentire la nostalgia della famiglia e dei suoi cavalli, ad annoiarsi nella vita sonnolenta e provinciale di Ancona. Il padre si precipitò a darle buoni consigli dettati dal suo spensierato buonsenso, a ricordarle che sua madre – che veniva «da una delle posizioni più brillanti mai esistite» – aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita senza vedere nessuno, che è necessario «saper godere del presente che solo abbiamo a nostra disposizione, e che non può esserci restituito né dai rimpianti del passato, né dai vani desideri dell’avvenire», che le loro prime difficoltà di adattamento dipendevano dal loro non avere un’occupazione precisa, «perché il non far nulla è il più grande nemico della felicità».42 Ma Napoleona era sempre più contrariata, si sentiva abbandonata dal padre, non sopportava gli obblighi della sua nuova posizione, e moriva di freddo nella casa di campagna di Colle Ameno, dove porte e finestre non chiudevano e la pioggia entrava dentro. Abituata alla vivace vita bolognese, trovava Ancona «d’una tristezza senza pari»,43 le sembrava «il posto più freddo più nero più triste che si possa immaginare».44 Soprattutto, fin dai primi giorni si scontrò con il suocero, che era non solo avaro ma anche dispotico e abituato a dettare legge a casa sua. Da 40. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 30 novembre 1824, ANP, 400 AP 23. 41. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 8 dicembre 1824, ivi. 42. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 16 dicembre 1824, ivi, 400 AP 22. 43. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 17 gennaio 1825, ivi, 400 AP 23. 44. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 24 gennaio 1825, ivi.

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anni Napoleona era libera di disporre di se stessa, e si era sposata anche per poter gestire senza controlli il proprio denaro; non ammetteva quindi che un estraneo (da lei peraltro considerato inferiore alla sua famiglia) le dicesse cosa doveva fare, regolasse le sue spese e decidesse della vita sua e del marito. Lei e il commendatore fecero da subito scintille, e le voci sui loro dissapori arrivarono presto alle orecchie di Felice, che ne scrisse preoccupato alla figlia. Napoleona (per cui esisteva una sola realtà, la sua) gli rispose che non era vero nulla, anzi, che lei faceva il possibile per mantenere l’armonia in famiglia, in pieno accordo con il marito (e questo era vero, perché Filippo sembrava magnetizzato dalla moglie). Gli disse però che intendeva quanto prima chiedere l’emancipazione dall’autorità pupillare sulla sua eredità materna, e che era molto preoccupata per la situazione economica di casa Camerata: andando ad esaminarla più da vicino le sembrava di constatare che la sua dote non fosse stata assicurata secondo quanto richiesto dalle leggi e dal contratto nuziale, e che anzi fosse servita a rimettere in sesto il patrimonio gravato di passività del suocero. Si lamentò con il padre di non avere abbastanza denaro e di doversi privare di molte cose, e qui Felice si arrabbiò: ero lungi dal prevedere che sposata da due mesi, e con un corredo che ti avrebbe dispensato dal comprare nulla per parecchi anni, tu finissi con il trovarti in difficoltà con 100 scudi al mese per le tue spesucce. Non eri stata abituata così nella tua casa paterna – le scrisse –, spetta a te, mia cara Napoleona, saper limitare i tuoi desideri, e ti vedrei con dispiacere disposta a dissipare in qualche anno i frutti delle economie fatte da noi in tempi migliori, per non dire delle privazioni che ci siamo sovente imposti per assicurare il vostro avvenire.45

Era certo paradossale che il ricco e gaudente Baciocchi consigliasse economia e parlasse di «privazioni», ma Felice conosceva bene la prepotenza capricciosa di Napoleona, e se l’aveva fatta sposare un po’ affrettatamente era anche perché qualche d’un altro la tenesse a bada. Temeva però di essere accusato (soprattutto dai Bonaparte) di non avere sufficientemente tutelato gli interessi della figlia: prima del matrimonio si era effettivamente informato sulla posizione finanziaria dei Camerata, e le informazioni ricevute erano state tutto sommato positive, anche se la 45. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 29 gennaio 1825, ivi, 400 AP 22.

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situazione non era chiarissima; Felice non approfondì ulteriormente, ma quando Napoleona volle occuparsene più da vicino scoprì che il patrimonio del marito era stato messo in difficoltà dalla cattiva amministrazione del vecchio commendatore (che, a suo dire, dissipava il denaro «in fabbriche inabili ed in cure di nessun vantaggio anzi di dissesto per la famiglia»),46 mentre non erano stati garantiti neanche i diritti del maggiorasco di Filippo e la dote della sua defunta madre. Napoleona – pur divertendosi ad occuparsi d’affari, a stare in mezzo ad amministratori e avvocati – era sempre più infuriata, perché si riteneva ingannata e truffata. E nel fondo, soprattutto, si sentiva (lei così giovane e instabile) smarrita e sola in una città sconosciuta, accanto a un marito bambino, lontana dagli affetti, dall’agio e dalla sicurezza della casa paterna. Chiese più volte al padre di venire ad Ancona, per starle vicino e prendere in mano la situazione: «non è mai stato necessario come in questo momento che tu mi dia un poco dell’affetto che mi ha sempre dimostrato»;47 Felice tuttavia non aveva alcuna intenzione di muoversi e di mettersi in mezzo ai due litiganti: Hai torto a credere – le scrisse – che la mia presenza possa rimediare a tutto: non capisco niente di affari e sarebbe necessario un uomo di legge per metterli in regola, quanto alle vostre dispute, mi farei solo cattivo sangue inutilmente, perché non ho abbastanza sangue freddo per mettermi tra te e tuo suocero: avete due teste troppo calde. Quando verrò ad Ancona, sarà per godermi la compagnia di voi tutti, e per divertirmi, e non per essere obbligato a fare prediche.48

Mandò comunque alla figlia il suo avvocato di fiducia con tutte le carte necessarie, affinché esaminasse a fondo la situazione finanziaria e trovasse un accordo con il suocero, rispettando i diritti dei due giovani sposi; ma Napoleona non chiedeva solo assistenza legale, chiedeva appoggio e rassicurazione. E, dato che il padre se ne era in qualche modo lavato le mani, si rivolse a chi sapeva l’avrebbe accolta, alla famiglia di sua madre (la Famille con la maiuscola, la chiamava nelle sue lettere), ai Bonaparte. Scrisse a Roma alla nonna Letizia e agli zii, raccontando loro 46. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 4 aprile 1825, ivi, 400 AP 23. 47. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 20 aprile 1825, ivi. 48. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 20 aprile 1825, ivi, 400 AP 22.

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(con grande rabbia di suo padre, che sapeva quanto poca stima avessero di lui, e temeva molto le loro critiche) tutte le difficoltà in cui si trovava. Ho […] visto con piacere che vostro padre si è finalmente deciso a mettere ordine nei vostri affari, in modo vantaggioso per voi – le rispose la nonna –, sono tuttavia stupita che abbia aspettato fino ad ora per farlo; tutto, mi pare, avrebbe dovuto essere portato a termine prima del matrimonio.49

Lei e gli altri Bonaparte invitarono caldamente Napoleona a raggiungerli a Roma, e a rivolgersi al governo pontificio per chiedere l’emancipazione del marito. La ragazza non aspettava altro: si precipitò a domandare al padre i soldi per il viaggio ma Felice era contrario, perché temeva che una protesta così pubblica avrebbe potuto inasprire il commendatore; convinto di avere assolto ogni suo dovere nei confronti della figlia, era molto seccato che lei gli creasse ancora problemi: «speravo dopo tutti i sacrifici che ho fatto per ben sistemarti, di vederti perfettamente felice e contenta»,50 le scrisse esasperato. La situazione tra il suocero e Napoleona si faceva sempre più tesa, e per quanto Felice cercasse di tirarsene fuori dovette sorbirsi anche le rimostranze del commendatore: relativamente alla Principessa sposa – gli scrisse il vecchio conte, sdegnato che la nuora osasse contestarlo –, devo con sincerità dichiararle che il suo carattere violento; inconsiderato ed artente non è certo comune, né comodo, ed adattato in Famiglia, avendo ne abbia pur veduti dei tratti non indifferenti anche l’Al[tez]za Vrd. quando avrà fatto il paterno potere; Tutto spiga con l’urto, e con modi cui l’educazione non fa da plauso certamente: dovunque vi è ordine – proclamava con sintassi confusa ma con molto sussiego –, deve esservi una regolare dipendenza, ma è quando non se ne vuole conoscere alcuna, quando si vuole che il Capo della Famiglia divenga il fine, lascio decidere si possa dissimularsi.51

Felice non aveva scelta: dette alla figlia i soldi necessari al viaggio, e i primi giorni di giugno Napoleona e Filippo (anche lui convinto che questo viaggio fosse l’unico mezzo per «salvare il suo patrimonio»),52 quasi 49. Lettera di Madame Mère a Napoleona, 26 aprile 1825, in Lettere di Letizia Buonaparte, p. 150. 50. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 10 maggio 1825, ANP, 400 AP 22. 51. Lettera di Pacifico Camerata a Felice Baciocchi, 27 maggio 1825, ivi, 400 AP 23. 52. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 28 maggio 1825, ivi.

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di nascosto dal commendatore, partirono per Roma. Vi arrivarono il 4 giugno, accolti e festeggiati dalla nonna Letizia (che non vedeva Napoleona dal 1810, dai tempi del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa), dal cardinal Fesch, da Julie moglie di Giuseppe e da Gerolamo e Caterina, a Roma dal 1823 e stabilitisi in strada Condotti con i tre figli piccoli; Gerolamo, anzi, volle assolutamente che la giovane coppia andasse ad abitare in una casa di sua proprietà, vicino al suo palazzo. Il 9 giugno morì a Firenze la zia Paolina Borghese, lasciando a Napoleona un legato di 15.000 franchi, che la ragazza si affrettò a investire: era contenta di gestire i suoi affari da sola, di stare a Roma, dove si sentiva al sicuro e «tutte le persone della mia famiglia sono molto buone con me»,53 di stare lontana dall’odioso suocero con cui comunicava solo tramite avvocati. A settembre lei e Filippo raggiunsero Gerolamo a Porto S. Giorgio (o Porto di Fermo), dove l’ex re di Westfalia si stava facendo costruire una villa lussuosa. Gerolamo era, tra i fratelli di Elisa, lo zio che Napoleona conosceva meglio: aveva vissuto con lei gli anni di Trieste, i più sereni della sua vita, le era molto affezionato («lo zio [...] mi incarica di dirti che ti vuole sempre teneramente bene», le scriveva la zia Caterina),54 le era stato accanto nel dolore per la morte della madre; aveva una quarantina d’anni, era un uomo gentile e affascinante, ma cinico, avido e superficiale, un enfant gâté, il piccolo della famiglia cui neanche Napoleone era mai stato capace di negare nulla e di portare rancore. Per quanto ripetutamente e clamorosamente tradita, la moglie, figlia del re del Württemberg e imparentata a tutte le case reali d’Europa, lo amava moltissimo, e alla caduta dell’Impero gli era coraggiosamente rimasta accanto. In quei mesi Napoleona si fece sedurre da lui; mentre per Gerolamo fu – come sempre – una storia di sesso, per lei divenne invece un legame profondo e complesso, complice e protettivo: fu probabilmente l’unico uomo di cui Napoleona s’innamorò mai, e una delle poche persone che amò sinceramente. Come lei, Gerolamo era convinto che essere un Bonaparte gli rendesse tutto permesso e tutto dovuto; in lui Napoleona ritrovava l’orgoglio, la sprezzatura e l’amore per il fasto della madre, uniti a una totale mancanza di scrupoli per la provenienza delle somme necessarie a mantenere 53. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 22 luglio 1825, ivi. 54. Lettera di Caterina del Württemberg a Napoleona, 16 gennaio 1818, ivi, 400, AP 16.

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un tenore di vita ancora regale. Per molti anni – anche una volta finita la relazione amorosa – Napoleona continuò a sentirsi legata a lui, a proteggerlo nelle difficoltà economiche in cui lo metteva la sua incosciente prodigalità, a combinare con lui affari sempre più chimerici. La loro storia era così esibita (ma Gerolamo non aveva mai esitato a portare le amanti a vivere sotto il suo tetto), che cominciarono ad arrivare a Felice, bloccato in Friuli da un incidente di cavallo, voci allarmanti sul comportamento della figlia. Le scrisse chiedendole cosa fosse successo con Filippo, che oltre ad avere un «eccellente carattere» era sempre stato tenero e compiacente con lei, le ricordò brutalmente che qualunque tipo di accordo economico con il suocero presupponeva l’armonia tra lei e il marito («Tutte le legislazioni sono uniformi su questo punto. Tu puoi dunque sperare in un reale miglioramento della tua posizione presente e futura soltanto se vivi in buon accordo con tuo marito»), che il tribunale pupillare per concederle l’emancipazione avrebbe valutato la sua condotta, che era ora che smettesse la sua vita errante e tornasse ad Ancona. Senza nominare Gerolamo, la esortò ad ascoltare chi della famiglia le aveva mostrato interesse e amicizia, perché non c’è nessuno dei tuoi parenti che non debba biasimare il distacco che mostrerai a tuo marito. I nostri veri amici sono quelli che non temono di dispiacerci quando ci fanno dei rimproveri severi, non quelli che lusingano le nostre passioni e le nostre follie giovanili.

Concluse, con un tono un po’ cinico e complice, Fidati della mia esperienza, mia cara Napoleona, al momento di entrare nel mondo non scherzare con l’opinione pubblica, cura la tua reputazione dopo averla perduta una giovane donna fa molta fatica a riacquistarla vorrei che tu mi dicessi francamente se da qualche mese in qua è successo qualcosa di sgradevole tra te e Filippo avrei il diritto di chiedertelo come padre, ma preferisco domandartelo come un amico.55

Napoleona gli rispose da Roma, dove era tornata, stupendosi che si fossero dette su di lei «tante falsità», ribadendo che i suoi rapporti con il marito erano ottimi (e, in effetti, Filippo non sembrava geloso) e che si era stabilita a Roma perché, essendo in litigio con il suocero, non le sembra55. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 31 gennaio 1826, ivi, 400 AP 22.

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va conveniente stare ad Ancona, e soprattutto – e questa era una stoccata a Felice, che l’aveva spedita a vivere lontana da sé – perché lì era «nel seno della mia famiglia».56 Nella sua tranquilla mancanza di morale, Napoleona non vedeva nulla di riprovevole nella sua relazione con lo zio, e poi ormai rifiutava il controllo di Felice, gli chiedeva soltanto di sbrigare i suoi affari economici e di togliere gli ultimi ostacoli giuridici che potevano ancora impedire la sua emancipazione. Ogni tanto, tuttavia, nell’altalenarsi dei suoi sentimenti tornava l’attaccamento per il padre e per il fratellino, e allora scriveva loro con affetto e nostalgia, si informava con premura della loro salute, mandava un regalino a Fritz chiedendogli di non dimenticarla. Fece sapere al padre che era incinta solo un mese prima della nascita del bambino perché, gli scrisse, «fino a [questo] momento era incerta»;57 aveva sempre avuto per ciò che riguardava il suo corpo, la sua femminilità in particolare, un pudore rigido e scontroso. Napoleone Carlo Felice Antonio Benedetto Camerata nacque il 20 settembre 1826 ad Ancona, dove Napoleona e Filippo erano tornati nel corso dell’estate; al bambino non venne messo il nome del nonno paterno, e padrino e madrina (per procura, nessuno dei due era presente) furono Felice Baciocchi e Madame Mère. Si disse allora che il padre di Napoleone Camerata fosse Gerolamo: era sicuramente vero, e tra l’altro i due si somigliavano moltissimo. Secondo la figlia di Gerolamo, Matilde (che però amava raccontare la storia della sua famiglia con molta fantasia), Napoleona le avrebbe dichiarato un giorno: «Credete che possa accordare a un altro che a un Bonaparte il diritto di farmi fare un figlio?»;58 anche sotto il Secondo Impero era opinione corrente che il giovane Camerata fosse uno dei tanti figli dell’ex re,59 e ancora alla fine dell’Ottocento Julie Bonaparte di Roccagiovine, 56. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 15 febbraio 1826, ivi, 400 AP 23. 57. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 29 agosto 1826, ivi. 58. M. Castillon du Perron, La princesse Mathilde, Perrin, Paris 1963, p. 25. 59. Cfr. i Carnets d’une demoiselle de Saint Denis, publiés par L. Xavier de Ricard, Histoire mondaine du Second Empire. En attendant l’Impératrice (1850-1853), Librairie Universelle, Paris 1904, p. 81: «Imaginez-vous le prince Napoléon, qui a de la peine à aimer sa sœur, obligé d’eparpiller son affection entre l’innombrable posterité dans lequelle a pullulé la prodigalité passionnelle de son père […]? Avez-vous remarqué, chère comtesse, qu’il ait des sentiments d’une tendresse exceptionnelle pour M. Jèrôme David, pour

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una cugina più giovane, scrisse con naturalezza che Napoleona «assomigliava a Napoleone di cui aveva il culto, e al re Gerolamo da cui aveva avuto un figlio».60 Napoleona si fermò poco ad Ancona; presto ripartì per Bologna, per andare a far conoscere il piccolo a Felice, poi tornò a Roma. La occupava ora completamente la sua emancipazione dal tribunale pupillare, e tormentò il padre in tutti i modi affinché l’appoggiasse presso i giudici che dovevano prendere la decisione; aveva fretta di entrare in possesso dell’eredità materna, per fare «operazioni molto vantaggiose»,61 e si arrabbiò moltissimo con Felice quando il suo avvocato la informò che il principe non avrebbe dato il suo consenso all’emancipazione, prima di sapere come la figlia avrebbe investito il denaro. Scrisse furiosa al padre ricordandogli che, per dare il suo assenso, lui non aveva mai posto alcuna condizione, che si era sempre parlato di un’emancipazione «in tutta la forza del termine e senza restrizioni», che quando lo si crede capace di amministrare il figlio che accetta una emancipazione condizionata che consente malgrado l’emancipazione a restare dipendente da altri per quanto concerne l’amministrazione dei suoi beni confessa da solo la sua incapacità di amministrare ammette in qualche modo la propria storditezza confessa che non sono abbastanza buona per dare il mio consenso visto che mi sento la capacità di amministrare ciò che mi appartiene.

Orgogliosa, presuntuosa e sempre incerta, non sopportava di essere criticata e controllata, e tanto meno che il padre la facesse sorvegliare a sua insaputa; spiegò a Felice che aveva già pensato a come investire proficuamente il denaro, piazzandolo in prima ipoteca su beni immobili valutati al catasto al di sopra del mio capitale. Occasioni non ne mancano né nelle Marche né a Roma. Quando avrò il denaro a mia disposizione sceglierò cosa troverò di meglio e nel frattempo lascerò i miei soldi in deposito nella mia Banca per trarne provvisoriamente un interesse. M. Billault, pour M. d’Orsay qui réclame à hauts cris l’honneur de cette bâtardise princière, et pour le jeune Camerata et tant d’autres, tant d’autres!!!». 60. Portraits de famille par la princesse Julie Bonaparte, copia di Giuseppe Primoli, AGR. 61. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, s.d. ma ricevuta il 15 dicembre 1826, ANP, 400 AP 23.

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Voleva dimostrargli di saperci fare, di essere indipendente: «Vi dico ciò mio caro papà solo per dimostrarvi che ho qualche competenza circa l’amministrazione di questi beni».62 Felice nel frattempo si godeva la vita, dava feste sontuose con centinaia di invitati, andava ad ammirare da intenditore le cantanti e le attrici che calcavano le scene bolognesi, e con la sua bonomia e il suo tatto era spesso chiamato a fare da paciere quando signore e cavalieri della buona società litigavano tra loro. Le continue seccature che gli dava la figlia dovevano esasperarlo e così alla fine cedette, e dette il suo assenso all’emancipazione: ma i suoi problemi non erano finiti, e Napoleona (pur firmando sempre le sue lettere Votre très obéissante et très soumise fille) continuò a lamentarsi con lui perché i suoi uomini di affari non le mettevano subito a disposizione le somme che le erano dovute, e che lei aveva già impegnato, sempre – a suo avviso – in modo «vantaggiosissimo».63 Sembrava posseduta dalla febbre degli affari, dalla smania di radunare capitali e investirli, era avida di denaro ma non avara; i soldi che aveva a disposizione non le bastavano mai, e sembravano ingoiati da un pozzo senza fondo. Riprese la richiesta che il padre, come suo tutore, aveva già presentato nel 1822 al governo francese, per riavere 200.000 franchi di arretrati e 30.000 franchi di rendita. L’articolo 4 della legge del 12 gennaio 181664 ordinava il sequestro dei beni posseduti dai Bonaparte in Francia e loro accordati a titolo gratuito, e quindi anche della dotazione destinata a Napoleona dallo zio imperatore nel 1808; gli avvocati di Felice fecero presente che venivano richieste le sole rendite provenienti dagli investimenti effettuati con i risparmi della dotazione, ma un’ordinanza reale del 2 agosto 1826 (resa secondo l’avviso del Consiglio di Stato) decretò che le rendite acquistate grazie a prelievi fatti annualmente sulle rendite del maggiorasco istituito in favore di Napoleona facevano parte di detto maggiorasco, ed erano quindi sottoposte a confisca. 62. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 12 aprile 1827, ivi. 63. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 11 agosto 1827, ivi. 64. «Les ascendants et descendants de Napoléon Bonaparte, ses oncles et ses tantes, ses neveux et nièces, etc., ne pourront posseder en France aucun bien, titre, pension à eux accordés à titre gratuit, et qu’ils seront tenus à vendre, dans le délai de six mois, les biens de toute nature qu’ils possèdent à titre onéreux».

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Napoleona incaricò un celebre avvocato, André Dupin detto l’ainé, di presentare reclamo contro tale giudizio. Il 30 marzo 1827 Dupin portò la causa in tribunale, sostenendo che, certo, le rendite del maggiorasco erano state date a titolo gratuito, ma che i frutti tratti da tali rendite, e poi investiti, andavano considerati una proprietà separata e indipendente dalla proprietà principale, e non erano quindi soggetti alla confisca che aveva riguardato la rendita gratuita. Nella Francia della Restaurazione, e soprattutto durante il regno di Carlo X, qualunque cedimento agli interessi dei Bonaparte sembrava impossibile, e lo stesso Felice ne era ben conscio;65 Napoleona continuò tuttavia testardamente a riproporre la sua istanza anche sotto i successivi governi francesi e contro il parere di Madame Mère, che la rifiutò come un oltraggio alla memoria dell’imperatore, in quanto – basandosi sull’esecuzione dell’articolo 6 del trattato di Fontainebleau del 1814 – avrebbe riconosciuto che tutto ciò che era stato invece deciso nel 1815, durante i Cento Giorni, era nullo. Risale a quest’epoca un suo romantico ritratto, eseguito da Francesco Podesti, che la rappresenta sullo sfondo del porto di Ancona, con in mano il Pastor Fido di Guarino (un dramma pastorale che si conclude felicemente nel matrimonio); Napoleona appare molto imbellita, ma il suo viso, per quanto incorniciato da morbidi boccoli e ricamati veli svolazzanti, continua ad essere duro e i suoi occhi cupi e velati. Preferiva allora farsi chiamare Madame Napoléon, come quando era bambina, sembrandole mediocre e non degno di lei il titolo di contessa Camerata; la sua rudezza e la sua arroganza la facevano giudicare più cattiva di quanto realmente fosse: il commerciante Giuseppe Dessalle, che l’aveva conosciuta a Trieste, chiese in seguito al cognato Eugène Le Bon se Napoleona si fosse decisa a prendere «delle maniere un po’ più civili, un po’ meno brusche e più gentili», aggiungendo duramente che «se qualcosa brilla in lei, sarà il genio del male».66 Più indulgente fu una viaggiatrice inglese, Marguerite 65. Lettera di Felice Baciocchi al cognato Luigi Bonaparte del 1 aprile 1828 (dal gran libro degli autografi donati dall’imperatrice Eugenia a Giuseppe Primoli, Archivio del MN), in cui Felice scrive che per il momento non c’era niente da sperare in Francia «pour les intérêts de ma fille. Peut-être les changements survenus dans l’administration et dans la composition de la Chambre rendraient-ils de nouvelles tentatives moins infructueuses». 66. Lettera del commerciante triestino Giuseppe Dessalle al cognato Eugène Le Bon del 30 maggio 1828, cit. in J. de Bourgoing, Le fils de Napoléon, Payot, Paris 1932, p. 230.

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Gardiner contessa di Blessington, che la incontrò a Roma nel marzo del 1828, in casa della zia Ortensia. La contessa la trovò fresca e smagliante, ma (forse perché così fiorente) non tanto simile a Napoleone come si diceva; rimase invece molto colpita dal suo coraggio e dalla sua bravura nel cacciare e nel cavalcare, dai suoi interessi storici e politici e, soprattutto, dalla sua buffa maniera di trattare le altre donne: Sebbene brusca, è gentile e di buon cuore; tratta le donne con una specie di aria di protezione, simile a quella che prendono con il gentil sesso i vecchi soldati, e ciò appare piccante e divertente in una donna giovane e graziosa.67

Ai suoi contemporanei Napoleona appariva “strana”, diversa da qualunque modello femminile accettato, e veniva quindi considerata un uomo mancato; ma se le sue maniere spicciative, la passione per i passatempi maschili e la politica, i lineamenti marcati e il corpo robusto facevano dubitare sulla sua identità di genere, lei, in realtà, non avrebbe voluto essere un uomo – piuttosto, avrebbe voluto avere il potere e la libertà che gli uomini avevano a loro disposizione, soprattutto la facoltà di gestire il denaro a loro piacimento. Amava gli sport violenti perché le servivano a sfogare la rabbia che continuava a covarle dentro, ma aveva un gusto molto femminile per gli abiti e gli ornamenti di lusso (in un altro ritratto risalente a questo periodo68 appare florida e vistosa, ornata di ricchi gioielli e di merletti) e sapeva essere tenera e sollecita con le persone che amava. Dell’essere donna disprezzava la fragilità fisica e la passività morale, l’essere in balia delle decisioni altrui. A Roma la incontrava spesso anche Chateaubriand (allora ambasciatore del re di Francia), mentre passeggiava al Pincio o a Villa Borghese, «con un’aria cupa» e con un pugnale alla cintura; Chateaubriand non riusciva a perdonare a lei e agli altri Bonaparte di non essere al livello dello zio, che lui aveva ammirato e odiato quando l’imperatore aveva rifiutato i suoi servigi. I membri di una famiglia che ha dato vita a un uomo straordinario – sentenziò – diventano un poco folli per imitazione: si vestono come lui, riproduco67. Countess of Blessington, The idler in Italy, A. and W. Galignani, Paris 1839, p. 397. 68. Ne abbiamo solo una riproduzione, in Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra, p. 82; nel 1914 il ritratto risultava ancora presente nella casa padronale della tenuta di Mezzolara (cfr. «Il Resto del Carlino», 6 giugno 1914).

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no con affettazione le sue parole, le sue maniere, le sue abitudini; se è stato un guerriero, si direbbe che andranno a conquistare il mondo; se è stato un poeta, che scriveranno Athalie. Ma ai grandi individui non succede come alle grandi stirpi; si può trasmettere il proprio sangue, ma non il proprio genio.69

Riportò anche una voce che correva, secondo la quale Napoleona usava la pistola per chiamare la sua cameriera; questa storia ebbe fortuna – si adattava così bene alla bruschezza e alla violenza di lei – da rimanere (ampliata e colorita, Napoleona avrebbe sparato un colpo per chiamare la cameriera, due per il maggiordomo, tre per il segretario) nella tradizione familiare dei Napoleonidi. Su di lei girava un’altra leggenda secondo la quale Napoleona, quando era ospite dello zio Gerolamo nella villa di Porto S. Giorgio, spesso sarebbe andata al trotto sul suo grande cavallo baio scuro, seguita da due palafrenieri in uniforme blu con grossi stivali e alti cappelli a cilindro gallonati in oro, fino a San Benedetto del Tronto, al ponte di barche che segnava il confine tra lo Stato pontificio e il Regno di Napoli. Qui (raccontò alla fine dell’Ottocento il marchese Cesare Trevisani, che l’aveva conosciuta) «faceva ai doganieri del regno nemico un atto assai basso e volgare colla mano e colla bocca, gridando poi a squarciagola: “Questo per quel cafone del vostro re”».70 Altrove venne scritto che riempiva di insulti i poveri doganieri, perché il loro re aveva rubato la corona e fatto uccidere suo zio Gioacchino Murat. Si disse infine che queste ripetute provocazioni avessero indotto il governo borbonico a chiedere al governo del papa l’allontanamento di Gerolamo Bonaparte e della sua famiglia, costringendo l’ex re di Westfalia a vendere la bella villa che si era appena fatta costruire a Porto S. Giorgio.71 La storia è stata ripresa in tutte le biografie di Napoleona, o dove si parli di lei ma, in realtà, i Borboni già dal 1826 si erano preoccupati della 69. Chateaubriand, Mémoires d’Outre-tombe, Livre 30, chap. 8, Mes relations avec la famille Bonaparte. 70. C. Trevisani, Girolamo Bonaparte ex re di Westfalia al Porto di Fermo, in «Il Fanfulla della Domenica», 13 (1891). 71. Lettera di Gerolamo Bonaparte a un cardinale non identificato del 16 agosto 1828, in cui scrive: «Je viens d’être informé que la Cour de Naples fait de nouvelles démarches pour m’empêcher de jouir de ma propriété de Porto di Fermo» (lettera messa in vendita il 16 settembre 2006 da Michel Lhomme, Liège, cfr. Catalogo, lot 18, p. 5).

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presenza di Gerolamo (sempre sospettato di trame bonapartiste) ai loro confini, e avevano subito incaricato il loro ambasciatore a Roma di trasmettere ai rappresentanti delle potenze della Santa Alleanza il loro desiderio che l’ex re rinunciasse al suo possesso; tanto insistettero, che Gerolamo venne costretto a disfarsene per una somma molto inferiore a quella che gli era costato. Anche le pittoresche spedizioni di Napoleona sembrano essere state molto esagerate; un articolo di qualche decennio dopo i fatti racconta in modo molto più plausibile che una volta la ragazza, ospite a Porto S. Giorgio di Gerolamo e Caterina, nonostante le proibizioni avesse deciso di fare una scappata a cavallo in territorio napoletano, e che fosse sfuggita a stento dall’essere catturata dai soldati del re Borbone di guardia al ponte sul fiume Tronto. Furibonda, avrebbe allora gridato loro: «Non si deve dire alla nipote di Napoleone dove deve andare; non è la vassalla di nessun sovrano!».72 Assetata di affetto, Napoleona si era molto legata al figlio, che chiamava sempre nelle sue lettere le Petit e di cui seguiva la crescita con orgogliosa tenerezza; come appare in un ritratto di Podesti, era un bambino molto grazioso, con grandi occhi dolci e tristi, «un prodigio di bellezza»73 secondo Carlo Luciano, uno dei cugini Bonaparte. I primi tempi Napoleona si separava con difficoltà da lui, preferendo portarselo dietro ovunque ma poi, ripresa dall’inquietudine e dalla smania di viaggiare, cominciò ad affidarlo al padre e a seguire i suoi parenti in giro per l’Europa. Nell’estate del 1828 lo lasciò a Bologna, andò ad Arenenberg con la zia Ortensia, poi tornò a riprenderlo per portarlo a Trieste, da dove scrisse a Felice che la zia Carolina l’aveva invitata a raggiungerla a Vienna, e che quindi il padre, conoscendo il suo «gusto per i viaggi» e non essendo lei, nella sua posizione finanziaria, in grado di sostenere la spesa, le facesse il piacere di mandarle 1.000 fiorini (2.000 franchi) e di prendersi carico del piccolo.74 Poteva essere da parte di Napoleona una provocazione, oppure semplice incoscienza, o la rivendicazione di un diritto a 72. Catherine of Würtemberg. Royal Life in the Nineteenth Century, in «Chambers’ Journal», e riportato in «Littell’s living age», 701 (31 ottobre 1857), pp. 292-296, p. 296. 73. Lettera di Carlo Luciano Bonaparte a Felice Baciocchi, 25 novembre 1828, ANP, 400 AP 23. 74. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 29 agosto 1828, ivi.

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suo parere dovutole; in ogni caso il padre le rifiutò il denaro, facendole notare che lei lo reputava più ricco di quello che fosse mentre lui viveva «strettamente delle sue rendite»,75 e che era invece necessario che lei sorvegliasse le sue spese. Napoleona non se la prese più di tanto per il rifiuto, protestò invece furibonda quando seppe che il padre aveva criticato con Filippo i suoi investimenti, e gli fece notare piccata che «per quanto riguarda le mie spese le calcolerò sempre sulla base delle mie rendite».76 Ma la sua situazione finanziaria era sempre più intricata, i suoi agenti vantavano dei crediti su di lei e bloccavano i pagamenti che le venivano fatti. Napoleona – che si sentiva sempre perseguitata – se la prese con gli uomini d’affari del padre, che «appena si tratta di me […] giudicano sempre le cose in modo a me ostile».77 Felice, per quanto si arrabbiasse e fosse spesso dalla parte della ragione, con lei finiva sempre per mettersi sulla difensiva: Comunque sia, cara Napoleona, e se non posso contare sulla tua gratitudine in cambio di tutto quanto ho fatto finora per te sono perlomeno aldilà del tuo strambo comportamento e dei tuoi ingiusti rimproveri. Può rendermene testimonianza la tua stessa coscienza, e se non essa non me la rifiuterà l’opinione pubblica.78

C’era tra loro un circolo vizioso di rivendicazioni, provocazioni, accuse e richieste sempre più alte da parte di Napoleona, e di concessioni e – oltre un certo limite – di reazioni di difesa e di distacco da parte del padre, cui seguivano immancabilmente le scuse e le proteste di innocenza (addolorate e quasi infantili) di lei. Lei proclamava la sua indipendenza e voleva fare di testa sua, ma quando era in difficoltà ricorreva subito al padre: nel maggio 1829 scrisse a Felice che era costretta a passare tutta l’estate ad Ancona, «per il buonissimo motivo che avendo investito tutte le somme che avete avuto la bontà di pagarmi in anticipo non ne ho per viaggiare»,79 poi, poco più di un mese dopo, gli riscrisse chiedendogli un ulteriore anticipo, aggiungen75. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 30 agosto 1828, ivi, 400 AP 22. 76. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 16 settembre 1828, ivi, 400 AP 23. 77. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 5 febbraio 1829, ivi. 78. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 13 febbraio 1829, ivi, 400 AP 22. 79. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 12 maggio 1829, ivi, 400 AP 23.

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do con protervia e candore insieme che «forse la mia richiesta vi sembra indiscreta ma mi lusingo che voi non mi opporrete un rifiuto perché sono in grandi imbarazzi», e che «senza il vostro aiuto dovrò fare debiti e penso che a voi non piacerà sentir dire che ne faccio ecco dunque ciò che potete impedire».80 Quell’estate era particolarmente inquieta e rabbiosa; finì in tribunale con il tenente colonnello Barbieri, comandante del Battaglione Marche dell’esercito pontificio, perché un soldato aveva fatto a botte con il guardaportone del suo palazzo a Senigallia. Secondo il suo avvocato,81 durante la fiera di Senigallia, nei primi giorni di agosto, «in quell’ore bollenti in che Venere e Bacco v’hanno le più grandi faccende», un cameriere di Napoleona se ne stava a una finestra di palazzo Camerata, posto vicino alle mura, quando vide passare per la strada «un soldato di linea, che avendo seco una femminetta da mercato, adocchiava l’erboso terrapieno, atteggiandosi svergognatamente a quella guerra scandalosa in che certo non sarebbesi insanguinato». Il cameriere «mal sofferendo quel vituperio sotto il palazzo, anzi sotto gli occhi de’ suoi padroni» lo invitò ad andarsene, ma il soldato gli rispose con aria beffarda «vatti a far f… t’ho in c…», e avendogli il cameriere e un oste che passava fatto presente che lì alloggiava una principessa, «con istupenda temerità» aggiunse: «Ho in c… a te, ed a tuoi padroni». Venne allora chiamato il solenne guardaportone del palazzo che, visto che si trattava di un militare, «in tuono placido e dimesso lo consigliò a sgombrare, non essendo quello il posto da battagliare alla scoperta con donne», ma il soldato non si fece mettere in soggezione, e urlandogli «Ho in c… te, ed il tuo padrone» gli si avventò addosso: il guardaportone lo respinse, il soldato cadde a terra, si fece male, si rialzò e scappò via, mentre il portiere si rifugiava dentro il palazzo. Il fisco (la polizia) locale venne poi ad arrestarlo e lo mise in carcere, a disposizione delle autorità pontificie. Il colonnello Barbieri raccontò invece, nel suo Bollettino politico alla Segreteria di Stato del papa, che durante la fiera «Il Guarda Portone di 80. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 27 giugno 1829, ivi. 81. R. Savelli, Difesa per Giuseppe Dehaseleer del Brabante, al servizio della principessa Napoleona Bacciocchi Camerata avanti il Tribunale Criminale in Pesaro, Tipografia Nobili, Pesaro 1829.

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Casa Camerata si permise di battere un soldato della guarnigione esprimendosi antidecentemente in questi termini, volete vedere come si fà [sic] a bastonare un soldato del Papa»;82 anche la polizia confermò le «percosse inferite al Cacciatore Tommaso Cataldi dal Guarda Portone del Sig. Conte Camerata Giuseppe Deheseller»,83 e che il soldato si stava recando al Forte quando si incontrò con il guardaportone con un bastone in mano che, brontolando «Ci vuol tanto a bastonare un soldato del Papa?», gli tirò due legnate in testa. Napoleona, «inclita Principessa dispregiatrice magnanima d’ogni mezzo obliquo a piegar la giustizia», ribelle e insofferente, non ammetteva che i suoi domestici venissero maltrattati, tanto meno dai soldati del governo pontificio da cui si sentiva vessata, e si affrettò a fare querela all’«austero colonnello».84 Non sappiamo come andò a finire il processo, ma certo il racconto del guardaportone sembra molto più plausibile delle relazioni di polizia e forse – per una volta – aveva ragione Napoleona. Le autorità pontificie da qualche tempo la tenevano d’occhio, così come sorvegliavano gli altri giovani Bonaparte della seconda generazione, che avevano compiuti i vent’anni e che cominciavano a cercarsi un ruolo e un destino. Lo Stato della Chiesa e gli altri Stati italiani, dopo aver dormito per un quindicennio, scossi ogni tanto da qualche moto carbonaro scoperto e punito con ferocia dai governi, si venivano risvegliando, e riemergevano le memorie e la nostalgia della Rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica: la gioventù concepita «entre deux batailles»,85 i militari messi al demi-solde durante la Restaurazione, i magistrati degli Stati napoleonici e gli aristocratici che avevano partecipato alle guerre o al governo imperiale, e che erano dovuti tornare ad occuparsi delle loro 82. ASV, Segreteria di Stato (parte moderna), Rubr. 155 (Interni), b. 742, Delegazione di Pesaro, Ancona, Macerata, Fermo, Perugia, Viterbo, Fros.ne, Benevento. Battaglione Marche, Bollettino politico del mese di luglio 1829 riservato all’Eccmo, Rev. Principe il Sig. Cardinal Albani Segretario di Stato [inviato da Ancona il 7 agosto 1829 dal tenente colonnello Barbieri], Rubrica Senigallia. 83. Ivi, Polizia, Rapporto politico del Delegato Apostolico da Pesaro al cardinale Segretario di Stato del 1 settembre 1829, Articolo 9: Fiere, Mercati, ed altre Adunanze. 84. Savelli, Difesa per Giuseppe Dehaseleer del Brabante. 85. A. de Musset, Confession d’un enfant du siècle, La Renaissance du Livre, Paris s.d., p. 1.

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terre o delle loro beghe cittadine, guardavano ai giovani Napoleonidi come ai candidati a un cambiamento possibile. Soprattutto nello Stato della Chiesa, dopo la morte del saggio Pio VII e sotto i regni del reazionario Leone XII e dell’incolore Pio VIII, il controllo della gerarchia ecclesiastica sulla società civile era esclusivo e soffocante, sospettoso di ogni influenza esterna, di ogni critica, di ogni idea nuova. Fecero seguire Napoleona: in un Rapporto politico al delegato apostolico residente ad Ancona, un anonimo sbirro, sotto la Rubrica Sospetti, Facinorosi, e Vagabondi, riferì di una gita che la ragazza aveva fatto a Porto S. Giorgio con l’innocuo scopo di vedere una barca da comprare, descrivendo quali persone avesse incontrato ma assicurando che non aveva visto né lo zio Gerolamo né i suoi familiari.86 Erano anche controllati e trattenuti i libri spediti a Napoleona; il cardinale Cesare Nembrini, vescovo d’Ancona, scrisse al governatore di Roma monsignor Cappelletti dando chiarimenti su «alcuni volumi venuti da Parigi, e diretti alla Sig.ra contessa Baciocchi Camerata, e sequestrati da questa mia Curia». Si trattava di due riviste letterarie, la «Revue de Paris» e il «Pirate», su cui scrivevano i più importanti autori dell’epoca ma che – secondo il cardinale – avevano «sparso qua, e là del veleno a danno del costume, della religione, e della sana politica» e riportavano «per ogni lato pungenti motteggi a danno della morale e della religione».87 Il fascicolo della «Revue de Paris» sequestrato conteneva una deliziosa novella di Prosper Mérimée, Federico, la storia di un giovin signore napoletano che si è rovinato al gioco, ed è costretto a ritirarsi in una sua remota campagna. Un giorno gli si presenta Gesù Cristo con gli apostoli, e il generoso Federico imbandisce loro quanto di meglio ha in casa; Gesù, per ricompensarlo, gli concede di chiedere tre grazie: il giovane gli chiede di rendere invincibile il suo mazzo di carte, di poter costringere chiunque salga su un albero a non scendere più se non per sua volontà, e chiun86. ASV, Segreteria di Stato (parte moderna), Rubr. 155 (Interni), b. 742, Delegazione di Pesaro, Ancona, Macerata, Fermo, Perugia, Viterbo, Fros.ne, Benevento. Rapporto politico del Monsignor Delegato Apostolico residente in Ancona del 12 novembre 1829, Rubrica Sospetti, Facinorosi, e Vagabondi, Porto S. Giorgio 4 novembre 1829. 87. ASR, b. 2659, a. 1830, Sorveglianza sui libri antipolitici ed antireligiosi e sulle merci con motti sovversivi, lettera del Cardinale Cesare Nembrini Pironi Gonzaga, vescovo d’Ancona, al governatore di Roma Cappelletti del 26 gennaio 1830.

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que segga su uno sgabello accanto al suo focolare a non alzarsi più. Il giovane torna allora in città, vince chiunque giochi con lui e diventa enormemente ricco; ormai vecchio, la Morte viene a prenderselo ma lui una prima volta la fa salire sull’albero, facendola scendere solo se gli concede altri cent’anni di vita, poi una seconda volta la fa sedere sullo sgabello, facendola alzare solo se gli concede ancora altri cent’anni. Alla fine la Morte riesce a portarlo via, ma quando arriva in cielo Federico ricorda a Gesù come una volta lo abbia accolto, Gesù lo riconosce e lo fa entrare nella sua gloria. Nello stesso numero della «Revue» un poemetto di Casimir Delavigne, Un conclave, descriveva la morte del papa e l’elezione del suo successore, gli intrighi tessuti tra i cardinali e le pressioni esercitate dai governi stranieri, ricordando come, accanto ad autentici santi, fossero talvolta stati eletti individui indegni del loro ruolo: Près des pontifes saints, dont la cendre s’indigne L’indolence et l’envie ont aussi leur cercueil. […] Les sept péchés mortels ont porté la tiare: Lequel choisira-t-on pour la porter encore? Accanto a santi pontefici, le cui ceneri fremono d’indignazione Giacciono anche l’indolenza e l’invidia. […] I setti peccati mortali hanno portato la tiara: Chi verrà scelto per portarla ancora?

Si trattava quindi di testi certo non così eretici e comunque di alto livello letterario, ma al cardinal Nembrini che chiedeva il parere del papa su cosa fare di questi volumi, e se permetterne o meno la libera circolazione, fu seccamente risposto che «i Libri di cui si tratta son proibiti di sua natura».88 Dopo tutte le sue provocazioni e le dichiarazioni di indipendenza, i rapporti tra Napoleona e il padre si erano molto allentati; lei però – come al solito – si pentì della sua arroganza, e gli scrisse umilmente che le sarebbe piaciuto fargli une «piccola visita», se non avesse temuto «che la mia presenza a Bologna vi fosse sgradita».89 Gli mandò anche gli auguri per il nuovo anno, assicurandogli che venivano «da una figlia che vi ha caro».90 88. Ivi. 89. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 15 novembre 1829, ANP, 400 AP 23. 90. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 1 gennaio 1830, ivi.

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Lui in realtà era soprattutto preoccupato di non sapere bene che genere di vita facesse la figlia, che – gli era stato detto – non frequentava neanche più i suoi parenti: vi sarei veramente obbligato se mi diceste come e perché lei ha improvvisamente smesso di andare da Madame [Mère] e soprattutto dallo zio Gerolamo – scrisse al nipote Carlo Luciano Bonaparte –. Vi rinnovo la preghiera di […] parlarmi di mia figlia, spiegandomi se potete le cause del suo allontanamento da Gerolamo, e dell’isolamento in cui è vissuta quest’inverno.91

Il rapporto tra Napoleona e lo zio era quindi ormai per lui così scontato, e forse anche tranquillizzante (qualcun’altro si faceva carico della figlia), che i loro litigi gli causavano inquietudine. Non essendo chiaro quando fosse finito il loro legame amoroso, non sappiamo se il dissidio tra Gerolamo e Napoleona fosse dovuto a motivi di gelosia (Gerolamo aveva molte amanti insieme) o a questioni di denaro, oppure – come vedremo in seguito – a un coinvolgimento di lei e del marito nei primi tentativi di trame e complotti rivoluzionari, di cui Gerolamo diffidava altamente. I contrasti si risolsero comunque presto, e Carlo Luciano (anche per lui, come per gli altri Bonaparte, doveva trattarsi di una storia ben conosciuta e accettata, e che non creava alcuno scrupolo morale) si affrettò a rassicurare Felice che «La riconciliazione tra mia cugina Napoleona e suo zio è perfetta e l’intimità è stata ritrovata il che deve provarvi, caro zio, quanto fossero frivoli i motivi del raffreddamento».92 Nel giugno del 1830 Napoleona era a Roma, in attesa della celebrazione del processo intentato da lei e dal marito contro il commendatore; era sicura, scrisse al padre, che sarebbe terminato «interamente in mio favore».93 Dopo qualche giorno gli riscrisse trionfalmente ma – una volta ancora – distorcendo la realtà: «ho vinto il mio processo dopo tutto si richiede il versamento di 5.000 piastre all’anno fino a quando siano state prese tutte le decisioni»;94 in realtà, nulla era stato ancora definito, e Napoleona dovette passare tutta l’estate a Roma in attesa del giudizio. 91. Lettera di Felice Baciocchi a Carlo Luciano Bonaparte, 4 aprile 1830, AGR. 92. Lettera di Carlo Luciano Bonaparte a Felice Baciocchi, giugno 1830, ANP, 400 AP 23. 93. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, giugno 1830, ivi. 94. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, fine giugno 1830, ivi.

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Alla fine di agosto non ebbe neanche il coraggio di scrivere direttamente al padre che l’esito del processo era ancora incerto, e che lei e Filippo erano in grossi imbarazzi finanziari; mandò in Friuli, dove Felice passava l’estate, il conte Roberti, un amico del marito, a parlargliene, e a chiedere al padre un ennesimo aiuto. Felice si inquietò molto, ma non poteva lasciare la figlia in mezzo ai guai e ai debiti, e si rassegnò – sulla base dell’impegno preso da Napoleona di «un migliore sistema economico» nelle sue spese – ad accordarle un sussidio annuale di 1.200 piastre (6.000 franchi) fino a quando avessero vinto il processo, o Filippo avesse in qualche modo ottenuto l’amministrazione dei beni della sua famiglia. Si limitò a raccomandarle in tono accorato di pensare un po’ più seriamente di quanto tu abbia fatto finora alla tua posizione reale, e al tuo avvenire. Non puoi come al momento del tuo matrimonio illuderti sullo stato del tuo patrimonio, ed è su questa base che devi infine mettere ordine nelle tue spese.95

È da chiedersi dove fossero finiti tutti i soldi che le erano arrivati dalle eredità ricevute e dalle rendite che le passava il padre: come la rimproverava Felice, sicuramente non aveva nessun ordine nella sua amministrazione, e amava togliersi tutti i capricci (Planat de la Faye parla in una lettera a Philippe Le Bas, precettore di Luigi Napoleone Bonaparte, del «gusto per il fasto» di Napoleona)96 e viaggiare a suo piacimento senza badare a spese; ma i suoi capitali dovevano essere stati bruciati soprattutto nelle «operazioni vantaggiosissime», nelle speculazioni e negli investimenti fatti in quei pochi anni in modo disordinato e arruffato, sull’onda dei suoi impulsi, delle iniziative prese senza ascoltare nessuno e senza accettare alcun controllo. Fin da quando era bambina, Napoleona aveva sempre visto la realtà come un freno e una condanna ai suoi desideri e alla sua volontà, e non come un terreno su cui confrontarsi e interagire. Agognava riprendere l’esempio della madre come donna d’affari, in tutt’altra situazione politica però, e con una molta minore solidità di carattere e di intelligenza; imitando Elisa, si era messa a trafficare anche in opere 95. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 9 settembre 1830, ivi, 400 AP 22. 96. Stèfane-Pol (pseudonimo di Paul Contaut), La jeunesse de Napoléon III. Correspondance inédite de son precepteur Philippe Le Bas, Felix Juven, Paris s.d., pp. 290-291.

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d’arte, intrattenendo una fitta corrispondenza con artisti come Pietro Tenerani e Bartolomeo Pinelli. Si sentiva tuttavia in torto con il padre, e cercò disperatamente di difendersi – truccando le cifre, come le fece stancamente notare Felice – e insieme di chiedere più di quanto le era stato offerto: per quanto molto riconoscente delle proposte che mi fate vi farei osservare che nella mia posizione attuale mi sarebbe molto più utile ricevere una somma di denaro tutta insieme per la semplice ragione perché gli avvocati i procuratori le decisioni dei tribunali romani tutto si paga e si paga enormemente e quindi così dove trovare i fondi necessari per sostenere queste spese. […] abbiamo fatto dei debiti – confessò, cercando di giustificarsi – vedo bene che vi hanno detto che non avevo ordine né economia ma a delle parole risponderò con dei fatti. Voi mi avete dato dalla mia parte dell’eredità di mia madre 47.000 piastre [235.000 franchi] e ne ho investito 60.000.97

Aveva in realtà un bisogno immediato, come rivelò finalmente al padre, di almeno 8.000 piastre. Napoleona scrisse questa lettera da Trieste, dove era arrivata all’inizio di settembre, lasciando il figlio e il marito ad Ancona accanto al suocero gravemente ammalato; vi si fermò brevemente ad aspettare la zia Carolina, poi raggiunse il padre a Villa Vicentina, infine ritornò a Trieste per incontrare Necker, il suo uomo d’affari negli Stati austriaci. Il 23 ottobre Felice, appena tornato a Bologna, seppe che la figlia era segretamente partita qualche giorno prima da Trieste per Vienna.

97. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 18 settembre 1830, ANP, 400 AP 23.

3. Congiure

Le barricate parigine della fine del luglio 1830 avevano spazzato via in tre giornate (le Trois glorieuses) il governo di Carlo X, l’ultimo re Borbone di Francia. Carlo X e il suo primo ministro Polignac, sostenuti dai politici e dagli aristocratici ultras (quelli che dopo la rivoluzione del 1789 non avevano «rien appris, ni rien oublié»),1 pensavano di poter reggere il paese regolando con ordinanze sovrane la libertà dei cittadini; non si rendevano conto del peso che aveva assunto l’opinione pubblica, per quanto imbavagliata e controllata, di quale asse di forza si fosse creato tra il popolo di Parigi, gli intellettuali e i giornalisti, la piccola e la grande borghesia emergente. Il vuoto di potere che si era improvvisamente creato fu in pochi giorni colmato dall’elezione a re, proposta da Adolphe Thiers e fatta ratificare il 7 agosto dalle due Camere, del duca Luigi Filippo d’Orléans, figlio di quel Philippe Égalité che aveva votato la condanna a morte del cugino Luigi XVI. Luigi Filippo, le roi citoyen, dichiarò fin dal primo momento di considerarsi il sovrano scelto dai francesi e non tale per diritto divino, e – con una scelta di grande valore simbolico – accettò di adottare la bandiera tricolore della Rivoluzione francese al posto dei gigli borbonici. I bonapartisti francesi, e i Bonaparte a Roma, rimasero spiazzati dal velocissimo succedersi degli eventi: per loro il legittimo pretendente al trono francese poteva essere solo il re di Roma, il figlio di Napoleone e Maria Luisa, in favore del quale il padre aveva abdicato dopo Waterloo. Il 1. La frase è correntemente attribuita a Talleyrand, ma venne usata anche da Napoleone, a proposito dei Borboni, nel suo proclama Les généraux, officiers, et soldats de la Garde impériale, aux généraux, officiers et soldats de l’Armée, scritto il 28 febbraio 1815, quando preparava lo sbarco al Golfo Juan.

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giovane principe (che in famiglia chiamavano Franz) viveva a Vienna presso il nonno Francesco I, l’imperatore d’Austria, con il titolo di duca di Reichstadt; si sapeva poco di lui e correvano voci discordi, si diceva che fosse stupido, incapace, o totalmente estraniato e ignaro della storia di suo padre e della Francia. Convinto che il regno di Luigi Filippo fosse illegittimo – e comunque precario – nei primi giorni di settembre 1830 il maggiore dei fratelli di Napoleone, Giuseppe, volle sostenere la candidatura del nipote presso il generale La Fayette, una delle personalità più autorevoli del nuovo regime francese; La Fayette gli rispose però che il duca di Reichstadt era ormai un principe austriaco, e che non era da pensare a un suo ritorno sul trono. Giuseppe scrisse allora ai deputati francesi, ai vecchi marescialli napoleonici, a Maria Luisa divenuta duchessa di Parma; all’imperatore Francesco I chiese addirittura di affidargli il duca per condurlo in Francia dove – ne era sicuro – «Solo, con una sciarpa tricolore, Napoleone II sarà proclamato [imperatore]».2 Ripeté la proposta a Metternich (con grande ingenuità, perché il cancelliere austriaco era il più acerrimo nemico della sua famiglia e di quanto essa rappresentava): Luigi Filippo «non essendo stato chiamato né dal diritto di successione né dalla volontà nazionale chiaramente e legittimamente espressa» avrebbe potuto mantenersi al potere solo «blandendo tutti i partiti», mentre il giovane «Napoleone, Imperatore dei Francesi, sarebbe per riconoscenza, per cuore, per interesse politico, legato all’Austria, la sua unica alleanza familiare e politica sul continente».3 Il primo ministro austriaco non gli diede risposta, e si affrettò anche a far negare il passaporto all’altro fratello Luciano, che aveva chiesto di andare a Vienna a sostenere la causa del duca di Reichstadt. Il governo orléanista appena installato, peraltro, si affrettò a confermare con la legge dell’11 settembre 1830 la proscrizione dei Bonaparte dalla Francia. La rivoluzione di luglio riaccese le speranze di Madame Mère, appena ripresasi da una rovinosa caduta che l’avrebbe costretta all’immobilità per il resto della vita; non poteva credere a una soluzione che li avrebbe 2. Lettera di Giuseppe Bonaparte all’imperatore d’Austria Francesco I del 18 settembre 1830, in Baron Du Casse, Mémoires et correspondance politique et militaire du Roi Joseph, Perrotin, Paris 1858, t. X, p. 325. 3. Lettera di Giuseppe Bonaparte a Klemens von Metternich del 18 settembre 1830, in Du Casse, Mémoires et correspondance, t. X, pp. 322-324 e in Mèmoires, documents et écrits divers laissés par le Prince de Metternich, Plon, Paris 1881, t. V, pp. 159-161.

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ancora una volta tenuti lontani dal trono francese: «Gli eventi che si succedono in Francia non sembrano avere una fine. Una fazione poco numerosa si è impadronita di un movimento veramente nazionale per volgerlo ai suoi interessi privati. Dio solo può sapere cosa ne verrà fuori»,4 commentò con la nuora Julie, la moglie di Giuseppe. Ma più che sui figli, che continuavano a cercare chimerici accordi con la corte austriaca e che – lei lo sapeva bene – temevano in fondo di perdere la tranquillità faticosamente raggiunta, l’energica matriarca dei Bonaparte contava sui giovani nipoti, che sentiva meno disillusi, più arditi ed entusiasti dei loro padri; sempre prudente, era attenta a moderarne gli ardori: «La vostra lettera è quella di un giovane entusiasta» scrisse al nipote Luigi Napoleone. Per giudicare bene le cose, è necessario vederle con freddezza e pur rendendo piena giustizia allo slancio vigoroso del popolo parigino, sono lungi dal considerare una rivoluzione di filosofi questi assalti sostenuti con coraggio da dei francesi. Non si è mai dubitato dello spirito intrepido dei francesi. Aspettiamo gli eventi per poterli giudicare.

Al tempo stesso, esaltava il loro coraggio: «Alla vostra età è d’altronde meglio avere troppo fuoco che troppo poco»;5 aveva fiducia nel futuro della sua famiglia: «Viviamo in un’epoca in cui i giovani devono profittare dei tempi di pace per prepararsi agli eventi di cui è gravido il presente»,6 scrisse a Ortensia, la madre di Luigi Napoleone. Luigi Napoleone era il secondo figlio di Luigi Bonaparte e Ortensia Beauharnais, a sua volta figlia di Giuseppina; dopo la separazione dei genitori, mentre il fratello Napoleone Luigi era stato affidato al padre, lui era vissuto con la madre – cui era teneramente affezionato – tra la Svizzera, la Germania e l’Italia. Educato sotto la guida del precettore Philippe Le Bas, un austero repubblicano, aveva poi studiato artiglieria; era un ottimo cavaliere, non era bello ma aveva molto successo con le signore, era affascinato (e talvolta irretito) dalla compagnia femminile. Si serviva tuttavia della fama di dongiovanni per mascherare le sue ambizioni e, sotto 4. Lettera di Madame Mère alla nuora Julie del 17 agosto 1830, in Lettere di Letizia Buonaparte, pp. 205-206. 5. Lettera di Madame Mère a Luigi Napoleone Bonaparte del 17 agosto 1830, ibidem, pp. 206-207. 6. Lettera di Madame Mère alla nuora Ortensia, fine di agosto 1830, ibidem, pp. 208-209.

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la sensualità e lo charme, nascondeva un carattere tenace e ostinato (un doux entété, un dolce testardo, lo chiamava Ortensia), e una fiducia cieca nel destino suo e della sua famiglia. Ad Arenenberg, dove risiedeva con la madre, viveva a stretto contatto con il commandant Parquin, un ex militare napoleonico che aveva sposato la lettrice di Ortensia e che accoglieva nella sua casa congiurati e settari provenienti da tutta Europa. Dal 1823 lui e la madre passarono gli inverni a Roma e lì, oltre a ritrovarsi con gli altri parenti, Luigi Napoleone si legò ai gruppi di giovani liberali che di nascosto si riunivano, discutevano e sognavano un mutamento di regime e l’unità dell’Italia intera sotto un solo sovrano. Le loro aspirazioni si alleavano ai desideri di riconquista dei giovani Napoleonidi: dalla morte di Napoleone in poi, il nome di suo figlio era stato un punto di riferimento per le speranze e i progetti degli scontenti di tutta Italia. Si affermò allora che il fratello maggiore di Luigi Napoleone, Napoleone Luigi (quello che era stato proposto come marito a Napoleona, e che si era poi sposato con un’altra Bonaparte, Carlotta figlia di Giuseppe, e viveva a Firenze), si era già da anni affiliato alla Carboneria, mentre non è chiaro (i pareri sono molti e discordi) se e quando Luigi Napoleone si fosse fatto carbonaro; fu però lui a tenere le fila di un complotto contro il governo del papa in cui, oltre a militari, artigiani, medici e studenti romani, romagnoli e corsi, e a dipendenti della famiglia Bonaparte, erano implicati alcuni esponenti della nobiltà romana tra cui il marchese Ludovico Potenziani, Filippo Lante della Rovere comandante della Guardia civica e il conte Dante Domenico Troili guardia nobile del papa. Facevano parte della congiura anche Napoleona con il marito Filippo Camerata e Gerolamo Napoleone, il figlio sedicenne di Gerolamo Bonaparte. Negli ultimi, travagliati anni, oltre ad occuparsi dei suoi complicati affari, la ragazza si era fatta coinvolgere nei progetti di rivincita dei cugini; a spingerla non erano tanto ideali liberali e patriottici, piuttosto una confusa insofferenza e ribellione all’autorità, e la solidarietà e la fedeltà alla famiglia. Nell’estate del 1830 Luigi Napoleone era alla Scuola militare di Thoune, vicino Berna in Svizzera, e tornò a Roma solo all’inizio di novembre; nel frattempo, il gruppo di cospiratori che a lui si riferiva aveva deciso di inviare Napoleona a Vienna, perché si mettesse in qualunque modo in contatto (si disse anche a costo di rapirlo) con il duca di

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Reichstadt, e lo convincesse a unirsi a loro. Napoleona fu prescelta perché, dovendo raggiungere il padre a Villa Vicentina, non avrebbe avuto difficoltà a richiedere il passaporto per gli Stati austriaci, perché era coraggiosa e spavalda e perché, essendo una donna, avrebbe dato meno nell’occhio. Fino ad allora si era incontrata con il cugino una sola volta: nel 1828, ospite della zia Carolina nel castello di Frohsdorf, andando in giro per Baden si era imbattuta in Franz e, riconosciutolo, con la sua consueta violenza gli aveva urlato dalla carrozza: «Non ti vergogni a portare l’uniforme austriaca?».7 Napoleona arrivò a Vienna il 22 ottobre, con un permesso di soggiorno valido fino al 15 novembre; scese con il suo piccolo seguito all’Hôtel Zum weissen Schwan e si diede subito da fare per vedere il cugino. Tutte le sere andava a teatro e cercava di avere un palco vicino a quello imperiale per farsi notare ed eventualmente parlare con il duca, andava alla promenade sui bastioni dove Franz avrebbe potuto recarsi, e mise anche goffamente in giro la voce che voleva avere un abboccamento con Metternich e Maria Luisa. Prima di partire, aveva parlato dei suoi progetti alla zia Carolina e al padre, che avevano tentato in tutti i modi di dissuaderla. Anche Gerolamo era al corrente del suo viaggio, e anche lui era seccamente contrario; era spaventato dall’esaltazione di Napoleona e diffidava di lei e degli altri nipoti. A sua cognata Ortensia scrisse (e il distacco che esprimeva, in una lettera che sarebbe stata sicuramente aperta e letta, era destinato ad allontanare da lui i sospetti): Non ti parlo, cara sorella, della Contessa Camerata, perché lei non ci riguarda affatto. È talmente stravagante che tutto quello che di meglio si può dire è che è folle!!! si dice che sia partita da Roma senza suo marito per andare in Austria dove finirà probabilmente per farsi rinchiudere, ciò che non sarà per noi una disgrazia.8

Felice aveva avvertito la figlia che, se fosse andata a Vienna, lui le avrebbe tolto l’aiuto finanziario concessole: Napoleona aveva promesso di obbedirgli, ma poi – come al solito – aveva fatto di testa sua. Baciocchi le scrisse furibondo: «Hai certo soldi a bizzeffe da sprecare visto che ti 7. Cfr. de Bourgoing, Le fils de Napoléon, p. 231. 8. Lettera di Gerolamo Bonaparte a Ortensia, 8 settembre 1830, ANP, 400 AP 31.

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diverti a buttarli così sulle strade e negli alberghi»; la figlia aveva pensato solo a soddisfare una delle sue «fantasie», mentre le circostanze generali in cui allora si trovavano avrebbero dovuto farle sentire quanto fosse inconveniente «darsi in spettacolo quando tutto impone come legge il riserbo più assoluto». Il suo posto era accanto al marito e al figlio, e il suo colpo di testa avrebbe nuociuto non solo all’interesse di lei, ma anche a quello di tutta «la famiglia di cui fai parte».9 Napoleona si mise sulla difensiva: gli rispose con incongruenza che, avendo avuto negli ultimi mesi tanti problemi finanziari e non essendo riuscita a risolverli, «ho pensato di andare a visitare Vienna», che non vedeva cosa potesse esserci di male in un breve soggiorno in quella città, ma che (era così insicura, e sperava sempre di dimostrare al padre e alla famiglia che era capace di grandi cose, che la sapeva più lunga di loro) da molto tempo mi sono abituata a non trovare nella mia famiglia che detrattori invece del sostegno che ognuno dovrebbe avere convengo che alla luce di una stretta economia si potrebbe disapprovare la mia condotta ma mi pare che per giudicarla in modo così perentorio sarebbe stato necessario aspettare il mio ritorno.

Ribatté infine piccata al padre (perché l’aveva toccata su un punto dolente, la paura di non sapersi dare un contegno) che il suo viaggio non l’avrebbe certo potuta «dare in spettacolo vi sbagliate molto credendo ciò sono troppo poca cosa perché ci si occupi di me».10 Pensava, se non di passare inosservata, perlomeno di non suscitare particolari sospetti, e soprattutto di mantenere nascosto il vero scopo del suo viaggio. Non sapeva che era stato Metternich a chiedere al conte di Lützow, l’ambasciatore austriaco a Roma, di vistare il suo passaporto (e Lützow l’aveva fatto senza difficoltà, assicurando al primo ministro che negarglielo avrebbe significato «dare importanza a una giovane donna che non ne ha nessuna. Non ha a mio avviso né le capacità né abbastanza tatto per immischiarsi di affari politici e le sue finanze non le potranno certo in questo essere d’aiuto»).11 Una volta arrivata a Vienna, Metternich fece sor9. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 23 ottobre 1830, ivi, 400 AP 22. 10. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 30 ottobre 1830, ivi, 400 AP 23. 11. Lettera del conte di Lützow a Klemens von Metternich del 14 settembre 1830, cit. in de Bourgoing, Le fils de Napoléon, p. 231.

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vegliare strettamente lei e la sua gente dalla polizia; anche lui era convinto che Napoleona fosse molto più innocua degli zii, ma voleva tenerla sottocchio e – soprattutto – voleva utilizzarla come esca per Franz, per capire quali fossero le vere intenzioni e i progetti del giovane duca. Napoleona venne a sapere che Maria Luisa, di ritorno in Italia, sarebbe passata il 23 ottobre al Wienerberg, le colline sopra Vienna, e che Franz l’avrebbe accompagnata; lì, sotto la guglia gotica della Spinnerin am Kreuz, la ragazza li aspettò nella sua calêche e riuscì ad avere con loro un breve e insignificante colloquio. Nei giorni seguenti, riuscì a vedere il cugino solo da lontano; la sera dell’11 novembre Franz andò, come faceva sovente, a passare la serata da uno dei suoi insegnanti, il barone Obenaus: appena entrato nel portone, gli si fece incontro Napoleona, che era stata avvertita da un domestico di Obenaus, da lei assoldato. Era vestita di un mantello scozzese, e si precipitò a prendere la mano del cugino per baciarla; il barone Obenaus la scorse e le gridò «Che fate?» e Napoleona gli rispose: «Chi può impedirmi di baciare la mano del figlio del mio sovrano?», mentre Franz – che aveva riconosciuto la cugina – si liberava e saliva precipitosamente le scale. L’entourage più stretto del duca cominciò a preoccuparsi di questa persecuzione, anche se non sembrava rappresentare un pericolo immediato: Maria Luisa scrisse al precettore di Franz, il conte Moritz von Dietrichstein, che avrebbe desiderato sapere lontana da Vienna la marchesa [sic] Camerata «perché è una grande seccatura per mio figlio».12 Franz si trovava allora in un momento delicatissimo, in cui doveva essere deciso il suo futuro; da quando era fuggito con Maria Luisa dalla Francia nel 1814, si era sempre trovato in una posizione profondamente ambigua: allontanato quasi subito dalla madre, era stato allevato alla corte austriaca come un principe della casa d’Asburgo, e rappresentava un pegno e uno spauracchio in mano all’Austria nei confronti delle altre potenze alleate, dei successivi governi francesi, e anche dei bonapartisti. All’inizio degli anni Trenta costituiva una pedina importante, che l’Impero austriaco avrebbe potuto manovrare a proprio vantaggio; ma, mentre il nonno Francesco I gli era sinceramente affezionato, e se fosse stato possibile era anche disposto ad appoggiarne l’ascesa a un trono qualunque, 12. Lettera di Maria Luisa duchessa di Parma al conte Moritz von Dietrichstein, cit. ibidem, p. 233; seccatura è in italiano nel testo.

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francese, greco o polacco, Metternich era il suo peggior avversario, colui che pur stando a vedere come avrebbe potuto utilizzarlo, avrebbe detto con scherno di lui: «Una volta per tutte, escluso da tutti i troni».13 Troppo forti erano l’astio e la diffidenza del cancelliere nei confronti di tutto quello che poteva richiamare Napoleone e l’Impero napoleonico, troppo diversa era la sua visione dell’equilibrio europeo. Al contrario di quanto si diceva, il duca di Reichstadt conosceva a fondo la storia e le gesta di Napoleone; dei pochi anni da piccolo re e soprattutto del padre aveva conservato ricordi vivissimi, che aveva imparato a tenere per sé, e che riemersero con forza quando raggiunse la maggiore età, e la situazione sembrava offrirgli vaghe ma numerose possibilità di farsi valere. Si sentiva, ed era, prigioniero alla corte, ma era anche molto attaccato al nonno imperatore ed era legato alla famiglia reale austriaca da un patto di lealtà e di solidarietà; avrebbe voluto rispettare senza tradirle entrambe le fedeltà che riconosceva come sue: l’eredità napoleonica e il legame con gli Asburgo. Studiava e si preparava a diventare un militare e un uomo di governo, mentre intorno a lui veniva crescendo un’atmosfera di attesa e di speranza, cui partecipavano la madre, il suo affezionato anche se pedante precettore Dietrichstein, e un nuovo amico, il giovane diplomatico Anton Prokesch. Franz era un bel ragazzo, alto e sottile, con i folti capelli biondi e gli occhi blu della madre, ma con lo stesso sguardo intenso e concentrato, la stessa fronte e la stessa carnagione mate di Napoleone, e un’aria malinconica in cui tutti si compiacevano di vedere le stigmate del malheur. Le sue maniere erano perfette, un po’ cerimoniose e molto riservate, come se con l’impassibilità avesse voluto conservare a tutti i costi il suo segreto e tenere lontani i curiosi, e soprattutto salvare la sua dignità in una situazione così incerta, irregolare e discussa. Aveva imparato a dominare la sua rabbia e la sua sensibilità, a tacere e ad osservare, a giudicare con disincanto, a non fidarsi e a riconoscere i suoi nemici (Metternich per primo), a coltivare dentro di sé la sua divorante ambizione, e ad attirare con la sua forza di seduzione chi pensava potesse servirgli. Ma era giovane e inesperto, e gli scappavano talvolta delle “frasi a effetto”, qualcosa delle sue 13. Così disse il 26 novembre 1830 Metternich parlando di Franz nel salone della suocera, la contessa Molly Zichy, cfr. ibidem, p. 229.

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speranze nascoste, delle imprudenze che venivano notate e criticate nella società in cui viveva. Nell’estate del 1830 si era legato di grande amicizia con Anton Prokesch, autore qualche anno prima di una memoria su Waterloo in cui difendeva Napoleone; con lui parlava liberamente dei suoi sogni e delle sue paure. Prokesch era stato un protetto di Metternich e del suo consigliere Gentz, ma si dedicò con tutto il cuore – anche se venne in seguito sospettato di avere fatto il doppio gioco – alla causa del duca. Franz aveva il terrore di essere considerato un avventuriero, o di diventare «il balocco dei partiti», e al tempo stesso – tagliato fuori dalla Francia e da qualunque legame con la famiglia paterna – non aveva alcuna idea di quale potesse essere la forza di un partito “imperiale”. «Ma esiste oggi una Francia imperiale?», confidava a Prokesch, «Lo ignoro! Qualche voce isolata, qualche voce senza influenza non possono avere alcun peso. Risoluzioni tanto gravi meritano ed esigono basi più solide».14 I ripetuti tentativi da parte di Napoleona di avvicinarlo lo misero in uno stato insieme di eccitazione e di inquietudine. Napoleona cominciava a impazientirsi: stava finendo i fondi a disposizione senza riuscire a raggiungere il suo scopo, e se l’incontro con Franz sulle scale del barone Obenaus era stato molto suggestivo, non aveva però prodotto alcun risultato pratico (al cugino Felice Francesco Baciocchi scrisse che aveva visto il duca «da lontano sul soglio del suo palazzo; senza toccarne le pietre, triste, ho scosso i miei polverosi calzari»).15 Era stato un errore, da parte dei congiurati, incaricarla di una missione che avrebbe richiesto grande abilità e astuzia, mentre Napoleona era solo audace e temeraria, imbevuta dell’orgoglio familiare, testarda e incapace di flessibilità e intuizione. 14. Comte de Prokesch-Osten, Mes relations avec le duc de Reichstadt, publié avec des commentaires, des notes et des documents inédits par J. de Bourgoing, Plon, Paris 1934, pp. 20 e 13. 15. Lettera di Napoleona al cugino Felice Francesco Baciocchi del 14 novembre 1830, conservata negli Archivi di Stato di Vienna, cit. in de Bourgoing, Le fils de Napoléon, p. 233. Non sappiamo se Felice Francesco fosse al corrente del complotto; era stato però già segnalato nel novembre 1830 «qual persona da sorvegliarsi»: cfr. Rapporto del 18 gennaio 1833 di Gaetti De Angeli, console sardo a Milano, a Della Torre, ministro degli Esteri piemontese, cit. in E. Passamonti, Felice Baciocchi cospiratore in Italia (1833), in «Archivio storico di Corsica», III, 4 (luglio-dicembre 1927), pp. 187-225, p. 191.

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Il 24 novembre il solito domestico di Obenaus consegnò a Franz una lettera della cugina, datata 17 novembre, in cui lei, dopo averlo informato che quella era la terza lettera che gli mandava, gli chiedeva se voleva agire «come un Arciduca austriaco, o come un Principe francese». Nel primo caso, lo sfidava, consegnate le mie lettere. Perdendomi, acquistereste probabilmente una posizione più elevata, e questo atto di devozione vi sarà attribuito a gloria. Ma se, al contrario, volete profittare dei miei consigli, se agite da uomo, allora, Principe, potrete vedere come gli ostacoli cedono davanti a una volontà calma e forte. Potete sperare solo in voi stesso. Che l’idea di confidarvi con qualcuno non si presenti neanche al vostro spirito. Sappiate che se domandassi di vedervi anche davanti a cento testimoni, la mia domanda sarebbe rifiutata; – che voi siete morto per tutto quanto è francese o della vostra famiglia. In nome degli orribili tormenti cui i re dell’Europa hanno condannato vostro padre, pensando alla sua agonia di esiliato con la quale essi gli hanno fatto espiare il crimine di essere stato troppo generoso con loro, pensate che siete suo figlio, che i suoi occhi morenti si sono fermati sulla vostra immagine, penetratevi di tanto orrore, e non imponete loro un altro supplizio di quello di vedervi seduto sul trono di Francia. Profittate di questo momento, Principe. Ho forse detto troppo: la mia sorte è nelle vostre mani e posso dirvi, che se vi servirete delle mie lettere per perdermi, l’idea della vostra vigliaccheria mi farà più soffrire di tutto quello che mi si potrà fare.

La lettera era minacciosa, e insieme vaga, non conteneva alcuna informazione precisa, nessuna proposta positiva; era firmata «Napoléon C[omtesse] Camerata».16 Franz si confidò subito con Prokesch: era chiaro che le prime due missive erano state intercettate dalla polizia, e che la terza gli era stata fatta arrivare per tendergli un tranello e controllare le sue intenzioni. I due amici decisero di mandare a Napoleona una risposta molto cauta, in cui le spiegavano che le altre due lettere non erano mai arrivate, e la pregavano di non scrivere più; ma, prima che questa venisse spedita, la sera dello stesso giorno arrivò un altro messaggio di Napoleona, scritto in modo affrettato, angosciato e pieno di errori: 16. La lettera è stata pubblicata sia da Prokesch-Osten, Mes relations avec le duc de Reichstadt, pp. 39-40, sia da de Bourgoing, Le fils de Napoléon, pp. 235-236. Ho seguito la versione di Bourgoing, che era stata controllata sul manoscritto originale.

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Principe, salvatemi da una grande inquietudine, ditemi se volete parlarmi, dove devo venire, cosa devo fare e siate certo che tutto verrà eseguito puntigliosamente, ma vi supplico, una risposta, almeno una parola […] pensate che sono giorno e notte a vostra disposizione; andrò dovunque volete per parlarvi ma non posso fare nulla se voi non volete e se questo fosse il caso, fatemelo sapere sarà l’ultima illusione che perderò.17

Il duca e Prokesch decisero allora di raccontare tutto al barone Obenaus e al precettore, e di chiedere consiglio al fratello di questi, il diplomatico Franz Joseph von Dietrichstein. Si decise che Franz dovesse evitare qualunque contatto con la cugina, o con altri Bonaparte che non fossero Giuseppe o Luciano, ma che Napoleona – e dello stesso parere era anche il ministro di Polizia Sedlnitzky – per quanto attentamente sorvegliata, non dovesse essere inquietata: i Dietrichstein non volevano dare luogo a chiacchiere sgradevoli che si sarebbero riverberate anche su Franz, mentre Metternich e il suo ministro Sedlnitzky volevano dimostrare a Napoleona e a chi l’aveva mandata che il duca non si sarebbe mai mosso senza l’approvazione del governo austriaco. Napoleona continuò a cercare di parlare a Franz, tentando di seguirlo a caccia, andando a passeggiare sui bastioni e chiedendo in giro ai negozianti come fosse possibile incontrarlo, ma fu così avventata e maldestra – mentre era tanto accurato il controllo esercitato su di lei – che il suo soggiorno a Vienna e il suo scopo divennero di pubblica notorietà, e vennero commentati con scherno; a una cena da Metternich Prokesch sentì parlare di lei come di una «donna stravagante», «una pazza», come la chiamò il padrone di casa.18 Definirla “pazza” faceva gioco a tutti, a chi l’aveva mandata per lavarsi le mani del suo fallimento, ai suoi parenti per deviare i sospetti, al governo austriaco per screditarla e mandare un avvertimento a Reichstadt. Alla fine di novembre Prokesch, su richiesta di Franz e sapendo che era stato ordinato a Napoleona di lasciare Vienna, andò a trovarla nel suo albergo. Lei all’inizio si mostrò riservata e diffidente; Prokesch le fece 17. Conservata come la precedente negli Archivi di Stato di Vienna, è riportata in de Bourgoing, Le fils de Napoléon, p. 238. 18. Cfr. ibidem, p. 240, e Prokesch-Osten, Mes relations avec le duc de Reichstadt, pp. 51-52.

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rilevare la sua imprudenza, che avrebbe potuto creare forti imbarazzi al duca e limitare la libertà che gli veniva accordata, poi le parlò a lungo del cugino, del suo carattere, delle sue idee e delle sue speranze, della passione con cui leggeva i libri che parlavano del padre e ne studiava la storia. Napoleona l’ascoltò con stupore, perché nella sua immaginazione il cugino doveva vivere prigioniero e isolato da tutto quanto gli ricordava la famiglia paterna, e non capiva quale sottile manipolazione fosse esercitata su di lui, quali spazi di libertà gli fossero stati lasciati e in quali giochi di potere potesse essere coinvolto. Prokesch le chiese brutalmente informazioni sul partito che intendeva sostenere Franz, e Napoleona non riuscì (perché effettivamente non lo sapeva) a dirgli nulla di certo, «al di fuori di assicurazioni generiche che indicavano le sue aspirazioni, ma non i suoi mezzi d’azione».19 La ragazza rimase ancora quasi un mese a Vienna, indecisa sul da farsi. Non era stata in grado di portare a termine il compito che le era stato assegnato dai cospiratori, ma non intendeva tornare a Roma (anzi, scrisse a Tenerani che voleva affittare la sua casa); cominciava a capire di avere fatto una grossolana sciocchezza, a sentirsi ridicola, e a caricarsi di rabbia nei confronti di chi l’aveva mandata allo sbaraglio e poi l’aveva abbandonata a se stessa. Si preoccupava anche molto di cosa avrebbe pensato di lei la Famille, di avere creato problemi agli altri Bonaparte; scrisse alla zia Carolina raccontandole «les désagréables affaires»20 in cui era incappata e confessandole di essersi amaramente pentita di non avere seguito i suoi prudenti consigli. A Roma, nel frattempo, pur mancando di notizie positive da parte di Napoleona, il gruppo di congiurati aveva deciso di passare all’azione, approfittando della confusione seguita alla morte del papa Pio VIII il 30 novembre, e del momento di sede vacante in attesa del Conclave e della proclamazione del nuovo pontefice. Il piano formato sotto la guida di Luigi Napoleone prevedeva che i complici si radunassero a piazza S. Pietro, dove il giovane principe, alla testa dei dragoni pontifici conquistati al complot19. Prokesch-Osten, Mes relations avec le duc de Reichstadt, pp. 46-47. 20. Lettera di Napoleona alla zia Carolina da Vienna del 15 dicembre 1830, cit. in F. Masson, L’Aiglon et la Comtesse Camerata, in «Revue de Paris», VII, t. 3 (maggio-giugno 1900), pp. 613-620, p. 616.

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to e con la bandiera tricolore in testa, li avrebbe raggiunti per poi andare all’armeria pontificia a impadronirsi delle armi; un gruppo si sarebbe in seguito diretto a Trastevere e alla Lungara per distribuire denaro e trascinare il popolo nell’impresa, mentre il grosso dei ribelli doveva assalire simultaneamente il Banco di S. Spirito, per rifornirsi di denaro, e Castel S. Angelo dalla parte delle mura fuori Porta Angelica, per farne uscire i detenuti. Un terzo gruppo doveva fare prigionieri e tenere in ostaggio i cardinali capi d’Ordine (che esercitavano il potere in attesa della nomina del papa) e il governatore della città. In Campidoglio si sarebbe poi insediata una reggenza provvisoria di governo, con a capo Luigi Napoleone, pronto a cedere il potere non appena si fosse riusciti a far arrivare da Vienna il duca di Reichstadt (il quale, non essendo riuscito a salire sul trono francese, avrebbe avuto quello italiano); nella stessa notte, con l’aiuto dei prigionieri liberati, si sarebbe marciato su Civita Castellana dove, per mezzo di alcuni ufficiali conquistati al complotto, sarebbero stati liberati i detenuti e occupata la fortezza. Il giorno dopo sarebbe dovuta scoppiare la rivoluzione a Bologna, nelle Romagne e nelle Marche, dove erano presenti altri congiurati. Il fratello di Luigi Napoleone, Napoleone Luigi, doveva infine raggiungerli da Firenze con un migliaio di uomini. I cospiratori si riunivano nell’ufficio di copisteria di uno di loro, Francesco Canali, a Campo Marzio, dove si fabbricavano cartucce e munizioni, mentre le donne cucivano coccarde e una grande bandiera tricolore. Il collegamento con i Bonaparte era tenuto da Vito Fedeli, maestro di casa di Carlo Luciano Bonaparte il quale però, impegnato nei suoi studi scientifici, si era defilato rispetto ai cugini, in attesa di vedere come si sarebbero messe le cose. Le donne Bonaparte sembravano invece all’oscuro della congiura, anche se erano al corrente della presenza di Napoleona a Vienna: Carlotta, moglie di Napoleone Luigi, scrisse il 22 novembre alla sorella Zenaide (a sua volta moglie di Carlo Luciano Bonaparte, un altro matrimonio combinato secondo le volontà di Napoleone) che «la Camerata è a Vienna, dove intende restare ancora qualche mese».21 I congiurati erano anche sicuri dell’appoggio di Madame Mère, che pare conoscesse il piano, e avesse promesso di consegnare – in caso di riuscita – un milione di franchi al marchese Potenziani. 21. Lettera di Carlotta Bonaparte alla sorella Zenaide, 22 novembre 1830, AGR.

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La data della sollevazione venne fissata per il 10 dicembre, ma la sera di quel giorno a piazza S. Pietro erano presenti solo una sessantina di congiurati; dopo qualche momento arrivarono Luigi Napoleone e Dante Domenico Troili con l’ordine di ritirarsi, perché i dragoni si erano rifiutati di aiutare i rivoltosi, i compagni di Bologna avevano fatto sapere di non essere pronti, e la polizia aveva fatto chiudere i cancelli di Castel S. Angelo e consegnare la guarnigione. Venne dato l’ordine di vedersi il giorno seguente a Campo Vaccino, ma anche il giorno dopo si ritrovarono in pochi. Era successo che uno dei complici era stato arrestato per altri motivi, aveva parlato e – una volta promessagli l’impunità – aveva rivelato anche i nomi degli altri cospiratori. Furono effettuati degli arresti e delle perquisizioni nelle case dei sospetti, e in casa di Vito Fedeli venne trovato il piano d’azione;22 la sera dell’11 dicembre la polizia obbligò Luigi Napoleone a partire sotto scorta dei gendarmi per Firenze, poi andò a prelevare altri cospiratori, tra cui Troili e Gerolamo Napoleone, il figlio maggiore di Gerolamo, che però scampò all’arresto grazie all’energica resistenza del padre e all’intervento dell’ambasciatore russo (lo zar Nicola I era parente di sua madre Caterina). In città si sapeva che c’erano stati dei fermi, ma non se ne conoscevano i motivi; comunque, l’Università rimase chiusa, e i cardinali capi d’Ordine ordinarono di alzare i ponti levatoi di Castel S. Angelo durante la notte, di scegliere con cura gli ufficiali di guardia, di aumentare il numero delle sentinelle e di tenere l’artiglieria pronta a reagire. L’allarme si diffuse anche presso le sedi diplomatiche, e l’ambasciatore austriaco Lützow chiese spiegazioni a monsignor Paolo Polidori segretario del S. Collegio, che gli rispose rassicurandolo. Il 12 dicembre Polidori si decise a mandare una comunicazione ufficiale a tutto il corpo diplomatico, in cui diceva che essendosi scoperto qualche perverso disegno follemente concepito da persone traviate, ed incaute onde turbare la pubblica tranquillità di questa capitale essenzialmente pacifica, si è dovuto procedere all’arresto di alcuni dei prevenuti e all’allontanamento dai Stati della S. Sede di alcuni altri fra i 22. È ora conservato in ASR, Processi politici della Sacra Consulta (1830-1831), sotto il titolo: Piano che doveva eseguirsi in Roma per far succedere una rivoluzione, scopo della quale portava l’innalzamento al trono di Roma come re il figlio di Napoleone Bonaparte.

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quali havvi il Sig.re Luigi Bonaparte figlio secondogenito del Sig. Conte di S. Leu, partito perciò fino dalla sera di jeri alla volta di Firenze.23

Il coinvolgimento dei giovani Bonaparte fu infatti subito evidente: il 18 dicembre il nunzio apostolico a Firenze, monsignor Giacomo Luigi Brignole, scrisse al governatore di Roma, monsignor Benedetto Cappelletti, che Appariva dalle deposizioni di quegli arrestati in Forlì che il sovrano destinato dai ribelli all’Italia era il Duca di Reichstadt. Ora io scorgo che il maneggio dei giovanastri di costì tiene allo stesso scopo. […] Scorgo quindi che l’orditura di Roma era tutta nelle dita di casa Buonaparte. Invero da tutti i miei corrispondenti ritraggo che vi erano immischiati il figlio di Luigi, quel di Girolamo, il Troili di Macerata tutto intriseco al Camerata altro ramo della razza famosa.24

Nonostante il soggiorno di Napoleona a Vienna fosse di pubblico dominio, le autorità pontificie se ne erano accorte con un notevole ritardo (evidentemente, l’ambasciatore Lützow e Metternich si erano ben guardati dall’avvertirle), ma a quel punto divenne evidente il collegamento con il complotto appena sventato. Il nunzio apostolico a Vienna, Ugo Pietro Spinola, segnalò in un primo dispaccio del 23 dicembre di aver negato due giorni prima a Napoleona il passaporto per recarsi a Pest al seguito del duca di Reichstadt, messo in allarme dalla «stranezza del progetto di una donna sola di recarsi a Pesth» e dal «carattere di lei sordido, sospetto ed intraprendente».25 Il 23 dicembre Napoleona lasciò Vienna dopo che la 23. Cit. in R. Del Piano, Roma e la Rivoluzione del 1831 (con documenti inediti), Tip. Paolo Galeati, Imola 1931, p. 28. 24. ASR, Miscellanea Carte politiche e riservate, b. 83, cartella n. 2677: Notizie politiche inviate al governatore di Roma dal Nunzio Apostolico in Firenze [Giacomo Luigi Brignole], in esse dà notizie della tentata rivoluzione di Roma, dei Bonaparte e dice che dalle deposizioni degli arrestati in Forlì appariva che il sovrano destinato all’Italia dai ribelli era il Duca di Reichstadt [18 dicembre 1830]. 25. Dispaccio n. 1344 del 23 dicembre 1830 del nunzio apostolico a Vienna Ugo Pietro Spinola, arcivescovo di Tebe, a monsignor Paolo Polidori, segretario del S. Collegio. Questo dispaccio è citato in Del Piano, Roma e la Rivoluzione del 1831, p. 37, come presente in ASV, Segreteria di Stato, b. 165, ma manca nel fascicolo dei dispacci del nunzio apostolico da Vienna; è citato anche in un dispaccio seguente, il n. 1389, che è però conservato in ASR: cfr. nota seguente.

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polizia austriaca le aveva cortesemente ma fermamente fatto capire che doveva partire ma, invece di tornare in Italia come le chiedevano insistentemente il padre e il marito, andò a Praga. Anche lì Napoleona continuava a farsi notare, a mantenere «il suo strano ed inquieto contegno»; il nunzio aveva raccolto ulteriori notizie sul suo soggiorno viennese: Quando era in Vienna oltre alla sua stravagante condotta, ai suoi discorsi imprudenti relativamente a ciò che riguarda la sua famiglia materna, sono da rimarcarsi i continui sforzi che faceva per avere communicazioni col Duca di Reichstadt, ora rimettendogli con arte de’ biglietti, ora con attenderlo nei Corridori del Palazzo Imperiale per dove aveva egli a passare e cose simili: nel che non essendo in modo alcuno corrisposta da S.A. Serenissima, non ha ottenuto altro frutto che rendersi la favola dei discorsi della Città.26

Napoleona si stava facendo prendere dal panico e – come sempre aveva fatto – si rivolse per aiuto e sostegno ai familiari: pur non avendo notizie dal padre dopo la lettera furibonda di due mesi prima, scrisse umilmente e piena di buone intenzioni a lui e al fratello Federico, per mandare loro gli auguri di nuovo anno, e per comunicare che i désagréments provati a Vienna erano finiti, che era a Praga dove sperava che l’avrebbero presto raggiunta il marito e il figlio, e che ormai desiderava solo restare tranquilla «perché comincio a sentirne il bisogno ma tutto al mondo ha il suo momento e la saggezza come ogni altra cosa».27 Il padre le ricordò con puntiglio che aveva sempre criticato il suo viaggio a Vienna e lo scopo che si era proposta, e che tutti i suoi guai venivano «dai passi falsi cui ti sei lasciata trascinare seguendo solo l’esaltazione delle tue idee».28 Il 2 gennaio 1831 Filippo Camerata venne arrestato ad Ancona «per cospirazione e sedizione»,29 anche se, in realtà, non aveva partecipato 26. Dispaccio n. 1389 del 22 gennaio 1831 del nunzio apostolico a Vienna Ugo Pietro Spinola, arcivescovo di Tebe, a monsignor Paolo Polidori, segretario del S. Collegio, ASR, Miscellanea Carte politiche e riservate, b. 85, cartella n. 2804 (vecchia numerazione 2681). 27. Lettere di Napoleona a Felice e a Federico Baciocchi, 27 dicembre 1830, ANP, 400 AP 23. 28. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 10 gennaio 1831, ivi, 400 AP 22. 29. ASR, Miscellanea Carte politiche e riservate, b. 83, cartella n. 2672, Indice alfabetico di tutti gli individui, carcerati, abilitati e spontanei compresi in tutte le cause politiche di Roma, trattate dal dicembre 1830 fino al…, n. 9.

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direttamente alla congiura perché mancava da Roma dalla fine dell’estate precedente, quando era dovuto tornare ad Ancona presso il padre ammalato. Il 20 ottobre il vecchio commendatore era morto, ma allora Filippo si trovò ad affrontare i problemi della successione paterna, e dovette occuparsi di tutti gli affari che il padre aveva lasciato in disordine. Passò giorni di ansietà, cercando affannosamente di salvare quello che poteva del suo patrimonio e ricevendo solo notizie incerte e saltuarie di Napoleona. Lo vennero ad arrestare come «informato delle supposte turbolenze Romane»30 perché a casa di uno dei congiurati, il suo amico Dante Domenico Troili, erano state trovare alcune sue lettere risalenti a qualche tempo prima, a detta degli inquirenti «ripiene di espressioni metaforiche, il di cui apparente significato sembra riferibile a materia settaria». Troili si difese asserendo che le «sospette metafore, o Ingerghi» si riferivano invece a «materie sensuali», e a una storia d’amore tra Filippo e una «Nobile Signora». Venne allora mandato ad Ancona un giudice istruttore per interrogare Filippo (all’oscuro delle dichiarazioni dell’amico), e per confrontare le sue spiegazioni con la versione che era stata fornita da Troili. A casa Camerata vennero trovate alcune lettere di Troili, in cui si usavano le stesse espressioni metaforiche. La corrispondenza incriminata non si è più ritrovata, ma da una cartellina intitolata sarcasticamente Roma. Camerata Conte Filippo Gozzano Ernesto - Troili Conte Domenico, accusati di cospirazione. Si parla anche della Contessa Camerata e del Principe Luigi Bonaparte, e di altre cosette molto allegre e punto rivoluzionarie,31 sono saltati fuori i verbali degli interrogatori, con le citazioni dei passi salienti delle lettere e le relative spiegazioni dei due accusati. Troili dichiarò che le lettere alludevano alla marchesa Anna Azzolini (o Azzolino), amante di Filippo, e che quando Filippo parlava delle difficoltà di incontrarsi con «quell’amico, stante che il can cerbero, non desiderava, per la scusa del caldo, di stare in quella campagna», si trattava di lei, strettamente sorvegliata dal marito. Con le metafore usate tra loro: «commercio; capo del Tribunale di 30. Lettera dell’avvocato Luigi Cipolletti da Ancona a Felice Baciocchi del 2 gennaio 1831, ANP, 400 AP 23. 31. ASR, Miscellanea Carte politiche e riservate, b. 85, cartella n. 2804 (vecchia numerazione 2681), 1831.

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comercio; affari commerciabili» lui e Camerata intendevano parlare di «materie galanti, e donne di partito rilevandosi dall’assieme dei costituti che il Principe Luigi [Luigi Napoleone Bonaparte], Troili, e Camerata, se l’intendevano assieme riguardo a femine, e dediti non poco alla deboscia». Per esempio, Filippo scriveva a Troili il 23 luglio 1828, di ritorno da un soggiorno ad Arenenberg in Svizzera, presso Ortensia Beauharnais e suo figlio Luigi Napoleone: Ti ho lasciato in Roma Capo della Banca del Commercio cerca che questa fiorisca: dove sono stato ho fatto in questo genere buoni affari senza essere bruciato, vado occupandomi adesso di cambiali per la fiera di Sinigallia, a cui starai a parte meco. = Sul tamburro si decide la partenza per l’indomani ti puoi figurare tal decisione qual sensibilità abbia su di me prodotta per lasciare così interrotti gli affari del Banco Commerciale sì bene incominciati.

Entrambi spiegarono che durante il viaggio in Svizzera Filippo aveva fatto «acquisti di femmine» «senza essere bruciato», cioè senza essersi preso una malattia venerea, e che la partenza improvvisa («sul tamburro») aveva interrotto una sua relazione amorosa («una graziosa battelliera mi prodigava le sue cure»). Nel seguito della lettera si parlava di «cambiali», e qui i due divergevano, Troili ritenendo si parlasse di «condon», cioè di preservativi, che i commercianti della fiera di Sinigallia vendevano sotto il nome di cambiali, mentre Filippo disse che intendeva parlare di «donne da partito». In una lettera dell’anno seguente Filippo diceva che «Napoleone non fa che domandare di Pompeo», e si rincresceva che «questa amicizia non sia stata coltivata»: Troili spiegò che si trattava dei loro due figli bambini, i cui nomi effettivamente corrispondevano (ma poteva anche essere un’allusione a Luigi Napoleone e a Pompeo Azzolino, un loro caro amico, figlio della marchesa Anna e anche lui coinvolto nella congiura). Il 31 ottobre 1829 Filippo scrisse a Troili che il «Principe Luigi» era in viaggio per Roma, e che era compito di Troili preoccuparsi che «il nostro Stato Maggiore, e Settimia con tutta la Segreteria vada a complimentarlo». I due spiegarono che Settimia era «una lenona che dava ricetto in casa a delle tresche, e si diceva che vi andasse pure il Principe Luigi». Ancora su Luigi Napoleone, Filippo raccontò a Troili che il principe «l’anno passato partì da Roma con un grosso carico di mercanzia, che forse non avrà dato fondo; ed ha cuore d’intraprendere nuovi acquisti! Merita che la nostra

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camera di comercio gli erigga una statua», e aggiungeva «Mi farai un favore, se per la pr.[ima] Diligenza, mi manderai il numero delle carte Romanesche che t’indicava; giacché al comercio tanto propenso per la Francia, voglio apprendere questo gioco natio»: Camerata spiegò che le «carte Romanesche» erano donne romane con cui Luigi Napoleone l’anno precedente si era presa una malattia venerea («un grosso carico di mercanzia») e che, ciononostante, si fosse lanciato in nuove conquiste («nuovi acquisti»); il «comercio tanto propenso per la Francia» erano «conversazioni di donne», in cui si poteva contrarre “il mal francese”, «gioco natio» perché si richiamava all’origine francese del principe. Il 19 dicembre 1829 Filippo mandava i suoi saluti «al Console Generale di tutte le Isole commercianti nostro buon Principe Luigi», e anche qui i due spiegarono che si trattava di «femmine» e di «materie galanti», e che Luigi Napoleone era stato definito il loro capo, «come il più dilettante di donne da partito». Ma l’ultima lettera era la più compromettente: il 7 gennaio 1830 Filippo scrisse al suo amico di aver appena ricevuto una sua missiva e appena letta l’ho data alle fiamme, secondo il tuo volere, e profondam.[ente] ne conservo del contenuto il segreto. Dell’accaduto mi ha recato stupore, non che un vivissimo dispiacere per l’amico. Voi altri stolidi cavalieri spagnoli, pretendere di riformare il mondo è troppo, anch’io me l’ero immaginato, ma mi sono persuaso della follia.

Qui i due si contraddissero: Troili disse che nella lettera bruciata aveva parlato di un affaire, che andava tenuto segretissimo, tra Luigi Napoleone e una nobildonna spagnola, la marquesa de Villacampo, e che lo «stolido cavaliere spagnolo» era il marito di lei, il quale pareva «pretendere che la moglie gli fosse fedele». Filippo invece prima rispose che si parlava della marchesa Azzolino, la quale sembrava si fosse trovata un altro amante, poi «risovvenendosi, si rese conteste al Troili». La corrispondenza era perlomeno ambigua, e gli inquirenti si erano infatti insospettiti; i due accusati, peraltro, avrebbero potuto benissimo mettersi d’accordo in precedenza sul significato da dare ai loro «Ingerghi», nel caso le lettere venissero sequestrate. La Società dei Guelfi (una setta segreta molto diffusa nelle Marche e in cui si fondevano carbonari e massoni), per esempio, usava termini e metafore commerciali molto

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simili a quelli usati da Filippo e Troili.32 Le dichiarazioni fornite furono tuttavia reputate soddisfacenti dal giudice istruttore, e Filippo venne presto «Dimesso dall’esame con precetto di ripresentarsi»,33 mentre Troili veniva liberato il 9 febbraio con la clausola «tamquam non repertum culpabilem»34 (cioè fino a quando non venisse provata la sua colpevolezza). I due non subirono in seguito alcun processo, anche se vennero inseriti in un Elenco dei compromessi nella Rivoluzione del 1831, e nell’Indice alfabetico di tutti gli individui, carcerati, abilitati e spontanei compresi in tutte le cause politiche di Roma, trattate dal dicembre 1830. Nello stesso Indice alfabetico venne compresa Napoleona, lei sì accusata esplicitamente di essere stata «incaricata dai Settarj a portare via da Vienna il Duca di Reichstadt per condurlo in Italia».35 Le autorità pontificie preferirono quindi – a parte qualche commento sprezzante – credere a spiegazioni che dimostravano un cinismo e una mancanza di scrupoli rivoltanti. L’affascinante marchesa Anna Azzolino nata Bandini, infatti, di cui Filippo (sposato e padre) si dichiarava – senza timore di comprometterla – tanto innamorato, non solo era la madre di un suo caro amico, Pompeo, ma era anche notoriamente la maîtresse in carica di Gerolamo Bonaparte (a sua volta, amante o ex amante della moglie di Filippo), sempre presente in tutte le villeggiature dei Montfort e loro frequente ospite, con i figli, a Roma. Il marito geloso, peraltro, era morto intorno al 1825. Filippo aveva poi confessato di essersi dato, con Troili e Luigi Napoleone, a un’autentica «deboscia» (come l’aveva chiamata lo sbirro che aveva compilato il verbale), frequentando a Roma «lenone» e 32. Cfr. D. Spadoni, Sètte, cospirazioni e cospiratori nello Stato Pontificio all’indomani della Restaurazione. L’occupazione napoletana, la Restaurazione e le sètte, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, Roma-Torino 1904, pp. 104 sgg. e 145 sgg. 33. ASR, Miscellanea Carte politiche e riservate, b. 83, cartella n. 2672, Indice alfabetico di tutti gli individui, carcerati, abilitati e spontanei compresi in tutte le cause politiche di Roma, trattate dal dicembre 1830 fino al…, n. 9. 34. Ivi, b. 85, cartella n. 2804 (vecchia numerazione 2681), lettera di ignoto a monsignor Paolo Polidori, segretario del S. Collegio, del 5 febbraio 1831. 35. Ivi, b. 83, cartella n. 2672, Indice alfabetico di tutti gli individui, carcerati, abilitati e spontanei compresi in tutte le cause politiche di Roma, trattate dal dicembre 1830 fino al…, n. 9 e n. 10, e cartella n. 2686 (1831). Ancona, Elenco dei compromessi nella Rivoluzione, n. 51, elenco spedito con lettera del delegato apostolico di Ancona (Direzione provinciale di Polizia) del 6 ottobre 1834.

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«donne da partito», e scorrazzando per l’Europa a caccia di puttane e di avventure di bassa lega. Tutto ciò non sembrava scandalizzare particolarmente gli inquirenti, molto più preoccupati che dei sudditi del papa, o dei nobili appartenenti alla migliore società, si ribellassero al potere costituito, e si facessero coinvolgere in trame, complotti e società segrete. Era un momento molto delicato per lo Stato della Chiesa, prima durante il Conclave (che durò dal 14 dicembre 1830 al 2 febbraio 1831) e poi nei primi tempi di governo del nuovo papa Gregorio XVI; si decise quindi di usare la mano leggera nei processi contro i congiurati, mandando assolti (anche se sottoposti a sorveglianza) i membri della nobiltà, e comminando pene durissime ai cospiratori appartenenti al popolo o alla borghesia, pene che (a differenza di quanto era avvenuto con i carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, ghigliottinati a piazza del Popolo il 23 novembre 1825) vennero poi condonate o mitigate per grazia sovrana. Per quanto riguardava Luigi Napoleone, benché ritenuto il principale responsabile e giudicato «reo di pena capitale», «in considerazione delle sue alte attinenze» si decise di limitarsi ad allontanarlo da Roma.36 Filippo aveva perduto tutti gli ardori rivoluzionari: era un uomo debole e insignificante, che si era sempre fatto influenzare e guidare prima dal padre e poi dalla moglie e dall’entourage dei Bonaparte, e una volta passata la paura dell’arresto e dell’interrogatorio, ormai padrone del suo – per quanto dissestato – patrimonio, desiderava solo tornare a vivere tranquillamente ad Ancona con la famiglia. Sperava che la moglie, «dall’esperienza divenuta ormai ragionevole»37 e come lui delusa e spaventata, lo avrebbe raggiunto quanto prima. Ma Napoleona voleva rimanere a Praga, e non aveva alcuna intenzione di tornare in Italia. Aveva mandato il suo maggiordomo a Roma a disdire la casa e a vendere i mobili, e chiedeva invece al marito di raggiungerla con il bambino, o di mandarglielo, come «l’unica consolazione»38 che le fosse oramai rimasta. Era confusa e arrabbiata, si sapeva sbeffeggiata dal pubblico e criticata da tutta la famiglia, da chi (come il padre o gli zii) l’aveva sconsigliata ma anche da quelli che 36. Lettera di monsignor Paolo Polidori, segretario del S. Collegio, al nunzio all’Aja Capaccini del 25 gennaio 1831, cit. in Del Piano, Roma e la Rivoluzione del 1831, p. 35. 37. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi di metà gennaio 1831, ANP, 400 AP 23. 38. Ivi.

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l’avevano mandata, o che – se avesse raggiunto il suo scopo – ne avrebbero approfittato senza scrupoli. La zia Carolina scrisse alla figlia Letizia che il «comportamento indiscreto» di Napoleona aveva costretto il governo austriaco ad allontanarla, anche se garbatamente, da Vienna e ad invitarla a tornare a casa,39 e Felice Baciocchi rispose alla nipote Carlotta che gli chiedeva notizie della figlia che Napoleona avrebbe fatto meglio a tornare in Italia e che era sperabile che i désagréments subiti a Vienna «la correggeranno del suo amore per il Nord».40 Al nipote Carlo Luciano, senza nominare Napoleona o gli altri congiurati, e affinché lo ripetesse negli ambienti romani, Baciocchi fece sapere che, malgrado «gli immensi eventi che sono accaduti», sperava che la pace generale non sarebbe stata turbata, e che era convinto come «un riserbo estremo debba essere la prima regola di condotta anche per le persone meno in vista; e non capisco che ci si possa esporre a cuor leggero a fastidi come quelli che molti giovani hanno dovuto patire».41 Napoleona si vergognava del suo operato, ed era insieme mortificata dalle umiliazioni che le era toccato subire – un sentimento che la faceva sentire a disagio e la metteva in furore, specie contro il marito che si permetteva di criticarla, rifiutandosi di raggiungerla o di mandarle il figlio. Con spavalderia, però, scrisse a Juliette de Villeneufve, cugina delle sue cugine Bonaparte, che anche se i suoi parenti la stavano aspramente criticando, lei non era affatto pentita, anzi sperava che le sue lettere avessero realmente impressionato Reichstadt, e che forse un giorno egli si sarebbe risollevato, dimostrandosi degno «della sua alta origine».42 L’impresa viennese fu la grande avventura della sua vita, anche se lei non amava parlarne; negli anni seguenti e soprattutto durante il Secondo Impero, quando Luigi Napoleone era diventato Napoleone III e i Bonaparte erano tornati in Francia, il suo gesto non sembrava più ridicolo, appariva anzi romantico e cavalleresco. Ancora, negli anni successivi, insieme con le 39. Lettera di Carolina Murat alla figlia Letizia, cit. in Masson, L’Aiglon et la Comtesse Camerata, p. 617. 40. Lettera di Carlotta Bonaparte alla sorella Zenaide del 17 gennaio 1831, AGR. 41. Lettera di Felice Baciocchi a Carlo Luciano Bonaparte, 9 gennaio 1831, ivi. 42. Lettera di Napoleona a Juliette de Villeneufve del 7 febbraio 1831, cit. da J.-É. Picaut, Madame Napoléon, I, Les tribulations de l’Aiglonne, Liv’Éditions, Le Faouêt 2007, p. 332.

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storie pittoresche che si raccontavano sulle sue abilità sportive e sul suo caratteraccio, il ricordo della spedizione fece di lei lo stereotipo dell’eroina impetuosa e senza paura, della donna-Bonaparte specchio simmetrico dell’uomo-Napoleone. All’inizio del Novecento – quando le vicende di Napoleone e della sua famiglia erano ormai entrate a far parte dei miti letterari europei – Edmond Rostand (mescolando avvenimenti storici con invenzioni drammatiche) raccontò nel dramma L’Aiglon il tragico destino del figlio dell’imperatore, e il tentativo di Napoleona di liberarlo e di riportarlo sul trono di Francia. Nella finzione del dramma, nell’estate del 1830 Napoleona – un’«Amazon sans casque, / Portant avec orgueil sa race sur son masque» («Amazzone senza elmo / Che porta con orgoglio la sua stirpe sul suo volto»), per avvicinare il duca di Reichstadt si finge aiutante di un sarto anche lui congiurato; il duca si ricorda allora di averla incontrata una sera dell’inverno precedente, e che lei gli ha baciato la mano ed è poi fuggita, gridando «J’ai bien le droit, peut-être, / De saluer le fils de l’Empereur mon maître!» («Ho forse il diritto / di salutare il figlio dell’Imperatore mio signore»). Napoleona si dichiara disposta a tutto; Franz le dice ammirato: «Cousine, vous avez le coeur d’une lionne» («Cugina, avete il cuore di una leonessa»), ma non si sente sicuro che i francesi lo desiderino veramente, e soprattutto non si sente pronto a regnare. Napoleona e l’altro congiurato gli rivelano che in Francia si dice che lui sia ormai solo austriaco, che non sappia nulla della storia di suo padre, e allora Franz li fa assistere da dietro un paravento alla sua lezione di storia con il barone Obenaus, in cui si esalta nel raccontare le gesta e le vittorie di Napoleone. Un anno dopo Prokesch lo va a trovare e gli chiede cosa ne è della contessa Camerata, ma Franz ha paura che l’abbia dimenticato, o che l’abbiano scoperta, e si pente di non essere fuggito con lei l’anno precedente. Intanto ha studiato e si è preparato, ma continua ad avere dei dubbi sulla sua capacità di regnare. Flambeau, un antico sergente della Guardia napoleonica, che è riuscito a diventare lacchè di corte ed è stato messo a sorvegliare il duca dal ministro di Polizia, gli si rivela, e gli racconta che era stato preso come maestro di scherma da sua cugina, e che lei lo ha poi spedito con falsi documenti a Vienna. La contessa è in città, e ogni giorno si incontra con Flambeau nel parco di Schönbrunn. Flambeau esorta Franz ad andare a Parigi: il duca desidera partire, ma vorrebbe le prove che la nazione lo

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aspetta veramente, e Flambeau come un giocoliere tira fuori tutti gli oggetti che vengono fabbricati in Francia e che portano il suo ritratto, bretelle, tabacchiere, pipe, coccarde, piatti, carte da gioco, cravatte. Il duca accetta di recarsi in Francia ma prima, tuttavia, vuole parlare con il nonno imperatore e tentare di avere il suo appoggio, altrimenti andrà via di nascosto; Franz riesce a convincerlo, ma arriva Metternich che finge di essere d’accordo, per poi prenderlo in giro perché diventerebbe un «empereur républicain»; il vecchio imperatore si spaventa, e rinuncia a qualunque speranza per il nipote. Il duca decide allora di fuggire con l’aiuto di Flambeau e di Napoleona. Il giorno dopo c’è un ballo mascherato organizzato da Metternich nel parco, e Prokesch gli annuncia di aver ricevuto un biglietto in cui si chiede a Franz di andare alla festa con la sua uniforme bianca sotto un mantello violetto. Franz vi si reca ma è pieno di dubbi, e pensa di darsi all’amore; corteggia la sua amica arciduchessa, poi dà appuntamento a Thérèse, una ragazza francese che lo ama. Anche Napoleona è al ballo, e sotto il mantello nero è vestita con l’uniforme bianca da colonnello austriaco; si è tagliata e tinta i capelli di biondo, e assomiglia a suo cugino «à tromper les miroirs!» («da ingannare anche gli specchi»). Franz deve quindi solo cambiare con lei di mantello e fuggire, mentre la cugina rientrerà a Schönbrunn e prenderà il suo posto fino al giorno dopo; lui troverà all’uscita del parco un fiacre che lo porterà al luogo dell’appuntamento, a Wagram, dove lo aspetta Prokesch. Napoleona arriva e il duca esclama: «Oh! Je me reconnais! / C’est moi qui viens vers moi dans l’ombre qui s’étonne!») («Ah, mi riconosco! / Sono io che mi vengo incontro nell’ombra stupita»), poi si scusa con lei per i pericoli che le ha fatto correre, e Napoleona gli risponde fieramente che lo ha fatto «Pour le nom, la gloire, et mon sang sur le trône». Franz avverte la cugina che deve andare a un appuntamento con Thérèse, e la contessa se ne sdegna, ma accetta di recarvisi al suo posto. Si scambiano poi i mantelli, e mentre Napoleona assume la parte di Franz, il duca va con Prokesch e Flambeau a Wagram, dove li raggiungono gli altri congiurati; esita però a muoversi perché scopre che il fratello di Thérèse ha deciso di ucciderlo per difendere l’onore della sorella, e che quindi assassinerà la contessa al suo posto. Ma appare Napoleona nell’uniforme del duca, «couverte de boue, pâle, échevelée, hors d’haleine» («coperta di fango, pallida, scapigliata,

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senza fiato») e gli urla di partire, perché ha già affrontato e battuto l’avversario al grido di «Défends-toi! Cette femme est un Napoléon», ed è poi fuggita. Dietro di lei arrivano il ministro di Polizia Sedlinsky e i poliziotti, che circondano il gruppo di cospiratori. La contessa si rivolge furiosa al duca: «Ah! Songe-creux! idéologue! barguigneur!» («Ah! Sognatore! idealista! senza carattere!»), Sedlinzky rimane stupefatto davanti ai due cugini identici, poi capisce e ordina di arrestare la contessa, che si butta tra le braccia di Franz sospirando «Ah! malheureux enfant, tu pouvais être un chef» («Ah! povero ragazzo, potevi essere un capo»). Napoleona viene portata via, Flambeau si accoltella al cuore e muore tra le braccia del duca, mentre dalla piana di Wagram si alzano i fantasmi dei morti in battaglia. Nell’ultimo atto, l’anno dopo, il duca sta morendo; vicino a lui sono la madre, i medici che lo curano, la famiglia imperiale al completo, e Metternich. Prokesch conduce anche Thérèse e la contessa, che chiede a Metternich «Vous ne regrettez rien?» («Non rimpiangete nulla?»), e lui le risponde di avere fatto solo il suo dovere. La famiglia imperiale se ne va, e Franz rimane con l’arciduchessa e Napoleona; la cugina, commossa, lo saluta dolcemente: «Adieu, Bonaparte!». La pièce teatrale andò in scena con grande successo il 15 marzo 1900; Sarah Bernhardt interpretava en travesti il duca di Reichstadt, a sottolineare la fragilità androgina del suo personaggio, in contrasto con l’energia e la sprezzatura virile di Napoleona. Pur stilizzando il carattere della contessa, Rostand aveva tuttavia colto qualcosa della persona reale, la brutalità che nascondevano il suo coraggio e la sua lealtà, la sua generosità pronta e immediata ma poi rapidamente dimenticata, il cinismo che tutto spianava in nome del potere della sua famiglia. Il personaggio del duca ne riprendeva invece la figura convenzionale, ne faceva una vittima, un ragazzo incerto, timoroso e debole, inadeguato a farsi carico dell’eredità paterna. Negli anni Trenta del Novecento, dall’Aiglon vennero tratti un film e un’opera lirica nei quali l’elemento portante era sempre la fascinazione per la gloria napoleonica, ma che esprimevano anche la diffidenza crescente verso la supremazia e la prepotenza germanica.43 43. Il film è L’Aiglon, di Victor Tourjansky, girato nel 1931; l’opera lirica L’Aiglon, in cinque atti, musica di Arthur Honegger e Jacques Ibert, su libretto di Henri Cain, venne rappresentata per la prima volta all’Opéra di Monte Carlo l’11 marzo 1937.

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Se si esamina lo svolgersi effettivo dei fatti, in realtà Napoleona prese un’iniziativa che in seguito apparve audace e coraggiosa, ma che era allora soltanto sconsiderata (e altrettanto avventati erano i cospiratori che l’avevano mandata); Franz giudicava invece molto più chiaramente la sua situazione, sapeva come guardarsi intorno, come difendersi, come valutare le persone che lo circondavano. Sognava di riprendersi il trono di Francia, ma non pensava proprio al Regno d’Italia – anche per lealtà nei confronti del nonno, che non avrebbe mai accettato cambiamenti nel governo delle sue terre italiane o nello Stato pontificio. Si comportò, in tutta la vicenda, con prudenza e accortezza, dimostrando che i molti anni passati a tacere e osservare, riflettere e studiare non erano stati sprecati. Dovette però presto rendersi conto che Metternich non gli avrebbe mai permesso di lasciare la corte, e meno che mai di avere un ruolo qualunque; si sentì isolato e chiuso in gabbia, e il dolore e la delusione si ripercossero sulla sua salute, che era sempre stata delicata: neanche due anni dopo il viaggio di Napoleona a Vienna, il 22 luglio 1832, appena ventunenne, Franz morì a Schönbrunn consumato dalla tubercolosi. La sua morte fu certo un grande sollievo per Metternich, ma qui il cancelliere si fece accecare dalla malevolenza e dalla presunzione; Franz, infatti, era il più intelligente e il più ambizioso dei giovani Asburgo, e in un’Europa che ribolliva e minacciava rivoluzioni avrebbe potuto essere – con la forza del nome che portava e la sua fedeltà alla famiglia della madre – un sicuro sostegno per la vecchia e criticata monarchia austriaca.

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La congiura di Roma era legata alle trame che le sette carbonare attive nello Stato pontificio stavano tessendo da mesi. Quando venne dato il via all’insurrezione romana i complici nelle altre regioni non erano ancora pronti a intervenire, ma una volta tornata calma e sotto il controllo delle autorità la capitale, la ribellione riprese forza in Emilia, in Romagna, in Umbria e nelle Marche. A Modena, Ciro Menotti, un prospero commerciante di idee liberali, tramite l’avvocato Enrico Misley aveva da qualche tempo segretamente preso accordi con il duca Francesco IV, che – nella speranza di accrescere i suoi domini – aveva fatto capire di poter appoggiare un’eventuale rivolta. I congiurati erano in contatto con il Comitato degli esuli italiani rifugiati a Parigi, e contavano molto sul principio di “non intervento” negli affari di un altro paese che i ministri di Luigi Filippo – in contrasto con le norme stabilite dopo il Congresso di Vienna – continuavano a ribadire con forza davanti all’Assemblée législative francese e all’opinione pubblica europea. Alla fine di dicembre 1830 Menotti andò a Firenze a incontrare Luigi Napoleone e il fratello, e a chiedere ancora il loro aiuto economico e il loro intervento, assicurandoli che il nome Bonaparte sarebbe stato salutato con entusiasmo da tutta l’Italia. L’insurrezione doveva scoppiare nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1831 contemporaneamente a Bologna, Modena e Parma, ma la mattina del 3 febbraio il duca Francesco IV (che si era spaventato, o che forse aveva sempre finto il suo appoggio per poi svelare il complotto a Vienna) fece arrestare alcuni liberali; Menotti decise allora di anticipare lo scoppio della sommossa a quella notte stessa. Il duca lo venne a sapere da alcuni delatori, mise subito ronde di guardia, fece rinforzare le guardie alle mura e mandò ad arrestare il patriota. Il giorno dopo Modena fu messa in stato d’assedio, ma Bologna e le altre città emiliane insorsero e la rivoluzione si propagò a tutte le Romagne; il 5 febbraio il prolegato pontificio abban-

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donò Bologna e venne formato un governo provvisorio, il 6 febbraio il duca di Modena fuggì dalla città, portandosi dietro Menotti, il 9 febbraio venne formata una commissione di governo a Pesaro e a Urbino, il 13 febbraio si sollevò Spoleto, il 14 Perugia, Assisi, Foligno, Todi, il 15 febbraio Maria Luisa lasciava Parma e il 17 e il 18 febbraio gli insorti prendevano Ancona e le altre città marchigiane. Il 26 febbraio si riunirono a Bologna i delegati delle città dell’Emilia Romagna e delle Marche, e proclamarono l’indipendenza dallo Stato pontificio e la costituzione del governo delle Province Italiane Unite, adottando come bandiera il tricolore. Il 2 febbraio a Roma era stato finalmente eletto il papa, Bartolomeo Cappellari, con il nome di Gregorio XVI. Si ebbe qualche sporadica manifestazione (la sera del 5 febbraio al Teatro Apollo a Roma, durante l’opera Gli Arabi nelle Gallie di Pacini, quando il baritono cantò «Sotto l’acciaio / Della vendetta / L’iniqua setta [i preti] / Cader dovrà», tutti si misero ad applaudire), qualche scaramuccia tra congiurati e truppa, venne proibito (si era in carnevale) di girare con il volto mascherato, ma nell’insieme la città rimase tranquilla; il popolo trasteverino, anzi, manifestò rumorosamente la propria fedeltà al papa e il desiderio di correre in suo soccorso. Il 14 febbraio il cardinal Bernetti, nuovo segretario di Stato, pubblicò un editto in cui minacciava «gl’ingrati, i perfidi, gli empi» che spargevano voci «per ispirar timore», contando sui «nomi illustri che falsamente vantano di avere per istigatori e compagni». I «nomi illustri» (che solo per ipocrisia venivano dichiarati «falsamente» implicati) erano i Bonaparte, su cui faceva gioco alle autorità pontificie scaricare la piena responsabilità della rivolta: era molto più utile attribuirla alle loro ambizioni di rivincita, piuttosto che a un reale stato di disagio e di ostilità delle popolazioni. In una deferente in apparenza, ma in realtà minacciosa lettera a Gerolamo Bonaparte, che chiedeva le ragioni delle accuse lanciate contro il figlio sedicenne, il cardinal Bernetti ribadì che Riguardo ai suoi accusatori, prima di denunziarli alla pubblica esecuzione, e punirli siccome calunniatori, resterà a vedersi se costoro ingannati da chi fa vanto di nomi celebri per trovare in occulto partigiani alla sua intrapresa non siansi uniti in molti ad asserire unanimemente ciò che benché falso tutti credevano per vero.1 1. Lettera del cardinal Bernetti a Gerolamo Bonaparte del 16 febbraio 1831, ANP, 400 AP 80.

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I più anziani dei Bonaparte presero subito le distanze dai ribelli, ma Napoleone Luigi e Luigi Napoleone, intorno al 20 febbraio, lasciarono Firenze di nascosto da tutti (anche dai loro familiari) per unirsi agli altri congiurati. Li raggiunsero in Umbria, ed erano con il generale Sercognani quando l’armata degli insorti si spinse verso Roma, arrivando fino a Rieti e a Civita Castellana. Gli zii e i genitori, preoccupatissimi, mandarono loro lettere ed emissari per convincerli ad andarsene; anche molti tra i capi dell’insurrezione non volevano connotare troppo fortemente il movimento in senso bonapartista, e soprattutto temevano di mettersi contro Luigi Filippo, sempre diffidente nei confronti dei Napoleonidi. Alla fine uno dei capi militari dei ribelli, il generale Pier Damiano Armandi (che era stato precettore dei due principi e del figlio maggiore di Gerolamo), ordinò loro formalmente di lasciare la prima linea e di andare da lui ad Ancona: Napoleone Luigi e Luigi Napoleone dovettero cedere, raggiungerlo e poi recarsi a Bologna. La loro presenza tra gli insorti fornì a Metternich la scusa per riprendere il controllo della situazione: dopo avere sventato il tentativo di Napoleona di arrivare fino al duca di Reichstadt, si sentiva in credito nei confronti di Luigi Filippo («A Parigi nessuno ha ancora pensato ad esserci grati per come ci siamo comportati correttamente nei confronti di Napoleone II?», scrisse al conte Appony, il suo ambasciatore a Parigi, «Meriteremo proprio qualche elogio al proposito»)2 e ora aveva in mano le carte necessarie per spaventare il re francese. Assicurò ad Appony che Questa vasta trama, tessuta da lungo tempo in Francia, porta con ogni evidenza il sigillo del bonapartismo. Il piano, dai dati che possediamo, è di togliere al Papa il suo dominio temporale, di formare un Regno d’Italia sotto il Re di Roma costituzionale; la nuova dinastia è già trovata. […] Nulla è più naturale di una perfetta intesa tra noi e il Re dei Francesi – aggiunse – quando esiste una così evidente comunanza d’interessi.3

Non esitò neanche a mandare al re, per convincerlo, le lettere che Giuseppe Bonaparte aveva scritto l’estate precedente a lui e all’imperatore d’Austria. 2. Lettera di Klemens von Metternich al conte Appony del 3 gennaio 1831, in Mèmoires, documents et écrits divers laissés par le Prince de Metternich, Plon, Paris 1881, t. V, pp. 119-120. 3. Lettera di Klemens von Metternich al conte Appony del 15 febbraio 1831 e annessi, ibidem, t. V, pp. 151-156.

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Nel frattempo in Umbria l’armata di Sercognani, priva di armi e di rifornimenti, si era fermata e sbandata; il governo pontificio decise allora di chiedere l’intervento dell’esercito austriaco, e insieme – di concerto con Metternich – di bloccare un’eventuale risposta del governo di Luigi Filippo: il cardinal Bernetti sottolineò all’incaricato di affari francese a Roma che la straordinaria circostanza della presenza dei due figli di Luigi Bonaparte nelle file dei ribelli, i quali provvisti di ampli mezzi pecuniarj, e senza assumere l’esteriorità del comando tutto vi dirigono e nel militare e nel politico senza mistero. Ho da questa circostanza dedotta la necessità, in cui è l’Europa intera e più che alcun’altra potenza la Francia di combattere in tutti i modi un Governo che a poco a poco abbraccerebbe tutta l’Italia, e che sorgerebbe sotto gli auspicj ed influsso di una Famiglia proscritta nuovamente costì dopo la rivoluzione di Luglio, e in riguardo alla quale sono tuttora in vigore i trattati che le tolsero ogni speranza di ritornare all’usurpato potere.4

Anche la monarchia orléanista, suggeriva il cardinale, doveva temere l’affermazione di una dinastia che poteva forse vantare una maggiore legittimità a regnare sulla Francia. Il nunzio pontificio a Parigi venne incaricato di spiegare a Luigi Filippo come l’ambizione della famiglia in discorso avesse gran parte nelle rivolte accadute, e che anche per questo riflesso il Re non era meno di noi interessato, che i disordini d’Italia fossero prontamente repressi, poiché altrimenti egli stesso potrebbe trovarsi vittima delle rivoluzioni.

Il re effettivamente si impensierì, e chiese cosa fosse possibile fare. Il rimedio – rispose il nunzio – è facilissimo. V. M. conviene che la proclamazione dell’assunto principio di non intervenzione ci ha fatto molto male. Or per ripararci, e mettere un termine alle nostre sciagure, il di Lei Governo non ha che ad intendersela con l’Austria, e far sentire a tutti, che si è nell’interpretare un tal principio, il di cui fine era quello di conservar la pace e non già d’incoraggiare le rivolte che la compromettono, e che l’Austria prenda dunque le misure che giudicherà convenienti, d’accordo co’ Governi Italiani, per mantenere la loro sicurezza e riposo interno.5 4. ASV, Segreteria di Stato (parte moderna), Rubr. 165 (Esteri), b. 130, Dispacci dei Nunzi in Francia, minuta della risposta del segretario di Stato, cardinal Bernetti, ad Antonio Garibaldi, nunzio a Parigi (n. 866), 1 marzo 1831. 5. Ivi, dispaccio del nunzio a Parigi al segretario di Stato, cardinal Bernetti, del 22 febbraio 1831, relazione di un’udienza avuta dal re (n. 673). Cfr. anche il dispaccio del nunzio da Parigi al segretario di Stato cardinal Bernetti del 25 febbraio 1831 (n. 678).

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Convinto Luigi Filippo (il governo francese tentò di salvare la faccia raccomandando un rinnovamento amministrativo e giudiziario dello Stato pontificio), il 1 marzo Gregorio XVI annunciava al corpo diplomatico residente a Roma di avere chiesto l’intervento dell’Austria; il 3 marzo venne concluso un trattato tra la Santa Sede e lo Stato asburgico, e gli austriaci passarono il Po, mentre l’esercito dei ribelli abbandonava le città conquistate e ripiegava su Bologna; il 21 marzo gli austriaci occuparono Bologna, il 26 cadeva Ancona e il 30 Sercognani si arrendeva a Perugia. Gli austriaci diffusero un proclama in cui promettevano l’amnistia agli insorti se deponevano le armi, amnistia da cui erano esclusi solo il generale Zucchi e Luigi Napoleone, condannati alla fucilazione per alto tradimento. I due fratelli Bonaparte partirono da Bologna e arrivarono a Forlì il 9 marzo; lì Napoleone Luigi si ammalò di morbillo e lì, esausto e mal curato, morì il 17 marzo. La madre Ortensia, che era corsa loro incontro da Firenze, riuscì a raggiungere Luigi Napoleone a Pesaro, poi ad andare con lui ad Ancona, che trovarono già occupata dagli austriaci; il giovane principe rimase nascosto qualche giorno mentre la madre diffondeva la notizia che era partito per Corfù; poi partirono entrambi, con Luigi Napoleone travestito da domestico, in un viaggio affannoso che li portò attraverso l’Italia fino al confine francese. Durante tutto il periodo della rivolta, Napoleona era rimasta a Praga, lontana dagli sconvolgimenti e dalle speranze che agitavano la sua famiglia; alla fine di dicembre 1830 Felice Baciocchi aveva scritto a Metternich (è immaginabile con quale imbarazzo) per chiedergli di lasciare ritornare la figlia in Italia, e dopo un mese il cancelliere gli aveva risposto con grande urbanità e gentilezza, prendendosi la soddisfazione di trattare Napoleona – che aveva osato sfidarlo – come una bambina scervellata per la quale il padre dovesse chiedere scusa. Il governo austriaco, dichiarava Metternich, non poneva alcun ostacolo al ritorno della giovane principessa, anzi lo chiedeva esplicitamente; Felice fece presente a Napoleona come anche Madame Mère fosse dello stesso avviso, e come sembrasse incomprensibile a tutti «che a cuor leggero, e senza motivi plausibili», lei si ostinasse a vivere lontano dal marito e dal figlio. Una volta morto il commendatore, e diventato padrone di tutto Filippo, era dovere di Napoleona e anche suo precipuo interesse tornare in famiglia; a Felice sembrava poi veramente assurdo che la figlia potesse preferire «il

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disordine e il vuoto della tua situazione presente» a «la vita onorevole e comoda e adatta al tuo rango, che tu puoi trovare solo nella tua propria casa», accanto a un marito sempre pronto a compiacerla in tutto. Felice scrisse questa lettera il 5 febbraio, nei primi giorni dell’insurrezione, dalla quale cercò peraltro di tenersi più possibile fuori, pur partecipando (come molte altre famiglie nobili della città) alla raccolta di fondi in favore del governo provvisorio. A Napoleona raccomandava una grande prudenza: Le circostanze attuali sono così gravi per tutti che l’ingiunzione che ti ha fatto il Governo austriaco è il consiglio più saggio che ti possa dare, e insieme il più conforme ai tuoi interessi e ai desideri di chi ha per te un affetto veramente sincero.6

Quando la rivoluzione si avvicinò ad Ancona, Filippo (che, appena sfuggito agli inquisitori pontifici, si ritrovava con i suoi antichi complici al potere e non sapeva bene come comportarsi) mandò a dire al suocero che la moglie si tenesse lontana da tanta «effervescenza» e «irrequietezza»7 e che, pur lasciando la Boemia, si fermasse per il momento a Villa Vicentina o a Canale d’Isonzo (una proprietà presso Gorizia acquistata da Felice Baciocchi nel 1821). E a Villa Vicentina Napoleona arrivò alla fine di aprile, quando si andavano spegnendo i focolai di ribellione, e la pax austriaca regnava sull’Italia centrale. Desiderava fuggire dalla sua vita antecedente, pensare a ricostruirsi un’esistenza altrove, in un paese nuovo, lontana dagli errori commessi, dalle umiliazioni e dagli inganni subiti. Voleva stabilirsi a Praga o, se questo non era possibile, rifugiarsi nella tenuta di Canale; chiese al padre di vendergliela, bluffando sugli «affari parigini» (la richiesta di restituzione delle sue rendite fatta al governo francese) che, a suo dire, si erano «risolti felicemente»,8 o su una somma che doveva darle lo zio Gerolamo. Il marito, se lo desiderava, poteva raggiungerla, ma in ogni caso – reclamava insistentemente Napoleona – doveva inviarle il bambino. Felice mise subito le mani avanti su un’eventuale vendita di Canale: a lui la proprietà serviva per passare l’estate lontano dai calori di Bologna, e l’avrebbe venduta solo per acquistarne un’altra; per fare questo aveva biso6. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 5 febbraio 1831, ANP, 400 AP 22. 7. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi, 11 febbraio 1831, ivi, 400 AP 23. 8. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 1 maggio 1834 [ma 1831], ivi.

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gno di fondi liquidi, e non si fidava affatto né delle promesse degli avvocati che millantavano appoggi nelle alte sfere francesi, né tanto meno del prodigo cognato Gerolamo: «so troppo quanti dispiaceri sia costato a me e alla principessa consentire a vincolarmi a lui, per voler sia personalmente, sia in modo indiretto, immischiarmi in affari in cui lui fosse coinvolto».9 Il padre le faceva difficoltà sulla vendita di Canale, e il marito non si decideva a partire o a mandarle il piccolo; Napoleona non sopportava di dover aspettare le decisioni degli altri e così, senza dire nulla a Felice, spedì ad Ancona il suo maggiordomo con l’incarico di rapire il figlio. Il povero bambino (non aveva neanche cinque anni) la notte tra il 12 e il 13 maggio venne prelevato dalla casa paterna con la complicità della sua governante, messo sotto falso nome su una barca battente bandiera austriaca e portato per mare fino a Trieste e di lì a Villa Vicentina. A Filippo Napoleona fece lasciare un biglietto, datato 26 aprile (era quindi qualche settimana che meditava il progetto): Mio caro Filippo, quando vi sarà consegnata questa lettera Napoleone sarà lontano, sulla via per raggiungermi. Mi rincresce amaramente che la vostra ostinazione nel seguire dei cattivi consigli, mi abbia obbligata a un simile passo, non avevo altra scelta che questa, o un processo: e abbiamo avuto abbastanza fastidi da qualche tempo in qua perché voglia far risuonare le mie lamentele in qualche aula di tribunale! dopo la decisione che ho presa, dovete capire che ogni passo per riavere Napoleone si rivelerebbe inutile. Se volete venire a Praga, vi vedrò con piacere, ma non contate di rivedermi in Italia. Addio ti abbraccio Napoleona contessa Camerata.10

Il tono era tranquillo e quasi affettuoso – ancora una volta, Napoleona sembrava non rendersi conto della gravità delle sue azioni – ma Filippo giustamente addolorato e furibondo richiese l’intervento di Felice perché il figlio non venisse «trascinato dall’uno all’altro polo»11 e gli fosse restituito, minacciando altrimenti di rivolgersi alla Segreteria di Stato pontificia e alle autorità austriache: «le mie voci giungeranno alle orecchie dei sovrani a cui reclamerò, né disdegneranno di ascoltare un padre tradito».12 9. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 7 maggio 1831, ivi, 400 AP 22. 10. Il biglietto è incluso nella lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi del 15 maggio 1831, ivi, 400 AP 23. 11. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi, 14 maggio 1831, ivi. 12. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi, 15 maggio 1831, ivi.

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Il rapporto tra Filippo e Napoleona si era sempre retto sulla remissività di lui (e, per quello che sappiamo di lui, sembra molto inverosimile la sua folle storia d’amore con la marchesa Azzolino o il suo andare a caccia di «donne da partito») e sulla prepotenza di lei: una volta liberatosi della tutela del padre, Filippo aveva fatto un timido tentativo di chiamare a sé la moglie (contando blandamente sul suo «amor di consorte»),13 poi si era rassegnato alla sua lontananza con malcelato sollievo: «ai diritti di marito mi sforza per le tante stravaganze il dover rinunziare».14 Lei era invece molto sorpresa della ribellione di Filippo, e scandalizzata che lui si permettesse di disobbedirle. Quando scrisse al padre per annunciargli il rapimento del bambino, si giustificò dicendo che il marito si era comportato in «maniera sleale» e che era arrivato a minacciarla di fuggire con il figlio nel Regno di Napoli; s’infuriò ancora di più quando scoprì che Filippo si era rivolto alla polizia austriaca, e commentò con disprezzo: «ignoro il successo che potrà avere il suo modo di procedere ciò che è sicuro è che in tal modo ha rotto ogni legame tra noi».15 I due infatti finirono per separarsi definitivamente, con lunghi strascichi di rancori e dispetti; molti anni dopo Julie Bonaparte di Roccagiovine raccontò che, mentre Napoleona diceva «mio marito è un imbecille», Filippo aveva una paura matta di lei e dichiarava «mia moglie è un diavolo».16 Napoleona aveva scritto al padre con la solita arroganza, ma sapeva bene che Felice si sarebbe arrabbiato moltissimo; cercò allora di convincerlo, raccontandogli (cosa molto improbabile) che il marito «faceva mancare tutto a Napoleone non volendo spendere nulla per il suo mantenimento».17 Il padre – che aveva sperato di poter finalmente tornare alla sua vita pacifica – uscì infatti dai gangheri, ma dovette rassegnarsi a fare da tramite tra marito e moglie; Filippo si affrettò a fargli avere una proposta di accordo in cui esigeva che gli venisse subito restituito il figlio, accettando però di affidarlo dopo qualche tempo al nonno, che lo avrebbe tenuto con sé fino ai sette anni, al momento di andare in collegio – per sfiducia o per rabbia nei confronti della moglie, non voleva che il piccolo fosse 13. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi, metà gennaio 1831, ivi. 14. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi, 15 maggio 1831, ivi. 15. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 15 maggio 1831, ivi. 16. Portraits de famille par la princesse Julie Bonaparte. 17. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 15 maggio 1831, ANP, 400 AP 23.

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affidato a lei. Accettava senza protestare di separarsi da Napoleona, tenendo tuttavia a regolare minutamente i loro rapporti economici: per tratto di sua connaturale condiscendenza e, per affezione verso la medesima, benché si potrebbe chiamare esonerato da tutte le prestazioni, promesse alla Consorte nell’Antenuziale, ed anche in visa delle peculiari emergenze avvenute, maggiormente potesse sostenere, questo suo inconcusso diritto null’ostante, accorda di continuare a passare il solo mensile assegno di scudi cento convenuto nello stipulato nuziale, anche durante la di lei assenza.18

Le lasciava inoltre i gioielli che gli erano stati dati in conto di dote, e che Napoleona si era ripresa e, per aiutarla a comprare Canale, concedeva a Felice di investirvi la rata ancora dovuta della dote. Napoleona scrisse subito a Felice che il marito le metteva a disposizione parte della somma necessaria per comprare Canale, che lei stava cercando con ogni mezzo di mettere insieme il denaro restante, ma che il padre doveva avere la pazienza di accontentarsi di quanto aveva al momento: altrimenti – lo metteva con calma davanti a un ricatto –, «vi prego di riflettere che tutti i tentativi e i sacrifici che voi avete avuto la bontà di fare per facilitarmi una sistemazione stabile diventerebbero inutili».19 Nonostante lo scetticismo di Felice, si era rivolta alla zio Gerolamo, perché era su di lui che Napoleona soprattutto contava, la persona cui si sentiva più complice e vicina. Che fosse ancora amorosa od ormai solo affettiva e d’affari, la loro relazione era sempre per lei un punto di riferimento e un riconoscimento di identità; è certo paradossale che si fidasse tanto di uomo così volage e privo di scrupoli, ma Gerolamo era il fratello di sua madre, un uomo del suo stesso sangue, e il senso di appartenenza alla famiglia Bonaparte continuava ad essere per lei il centro di gravità, il terreno su cui si sentiva più sicura e insieme più solidale, più responsabile, più tenuta a rispettare le regole. Desiderava così fortemente avere il figlio accanto a sé proprio perché era carne della sua carne, perché voleva che non avesse nulla a che fare con i Camerata. Gerolamo tuttavia non volle – o non poté – esserle di grande aiuto, per le sue consuete difficoltà economiche e perché le autorità pontificie gli avevano fatto 18. Lettera di Filippo Camerata a Felice Baciocchi, 5 giugno 1831, ivi. 19. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 18 giugno 1831, ivi. Il sottolineato è nell’originale.

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chiaramente capire che era bene se ne andasse da Roma; nell’estate del 1831, dopo una villeggiatura ai Bagni di Lucca, lui e la sua famiglia si trasferirono definitivamente a Firenze. Felice dovette cedere, e venderle Canale alle condizioni che lei gli aveva proposto; dovette anche sobbarcarsi lo sgradevole compito di chiedere a Metternich il permesso per la figlia di entrare in possesso di Canale e di risiedere negli Stati austriaci. Il principe s’incaricò poi di scrivere al cardinal Bernetti segretario di Stato (Filippo Camerata era suddito pontificio), per spiegargli che aveva cercato di riconciliare la figlia con il marito o di trovare un accordo amichevole tra loro, e per pregarlo confidenzialmente di informarlo se il genero si fosse rivolto alle autorità giudiziarie o diplomatiche per avere giustizia. Lo informò anche della richiesta fatta a Metternich, e gli chiese di concedere la sua approvazione nel caso la Segreteria di Stato venisse consultata, perché nell’attuale situazione dell’Italia mia figlia dà prova di saggezza cercando di allontanarsi dalla scena dei disordini per andare a vivere isolata in mezzo alle montagne della Carinzia, e darsi interamente alle cure di una grande amministrazione rurale.

Felice chiedeva quindi la comprensione del cardinale (toccava a loro, gli uomini maturi, parare i guai combinati dai giovani) perché lo aiutasse a evitare «tra i due sposi una di quelle altercazioni domestiche la cui pubblicità è il minimo inconveniente, e che vengono amaramente rimpiante quando non è più tempo di rimediare allo scandalo che hanno occasionato», e soprattutto perché tenesse a bada Filippo che «nell’effervescenza dell’età, e dell’amor proprio irritato da consigli imprudenti» si sarebbe potuto lasciare andare «ad atti che avrebbero avuto un risultato diametralmente opposto a quello che vogliamo ottenere».20 All’inizio di luglio Napoleona andò a Bologna per incontrarsi con Filippo; il figlio rimaneva a Villa Vicentina e li avrebbe raggiunti in seguito per essere riconsegnato al padre, ma Filippo cominciò a opporre difficoltà, ad avanzare «pretese esagerate».21 Tutto si bloccò in attesa della 20. Lettera di Felice Baciocchi al cardinale Tommaso Bernetti, segretario di Stato, 1 agosto 1831, ivi. 21. Lettera di Mesnil, intendente di Felice Baciocchi a Villa Vicentina, al direttore di Polizia Cattanei, 1 agosto 1831, Archivio di Stato di Trieste, Pol. Num. 382/1831, cit. in Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, II parte, p. 148.

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risposta da Vienna, che finalmente arrivò ai primi di settembre: l’imperatore austriaco permetteva a Napoleona di comprare e di abitare Canale, ma l’approvazione era subordinata al divieto di recarsi a Vienna o nella bassa Austria (si voleva evitare qualunque possibilità di contatto con il duca di Reichstadt), alla necessità di un permesso speciale per intraprendere qualunque viaggio (anche nelle altre province imperiali), e al mantenimento di «una condotta costantemente tranquilla»,22 onde rendersi degna del permesso che le era stato dato. Il ministro di polizia Sedlnitzky era stato incaricato dall’imperatore di esercitare sulla ragazza una severa vigilanza: «particolari osservazioni mi devono essere immantinente comunicate», scrisse il ministro al direttore di Polizia triestino Cattanei, «ma particolarmente devono essere informati gli impiegati triestini, addetti alla manipolazione secreta delle lettere [die Postlogisten], dell’imminente arrivo della contessa Camerata, onde venga accuratamente perlustrata la sua corrispondenza, come quella dei suoi congiunti».23 Erano condizioni umilianti, ma Napoleona – che in quel momento desiderava solo trovare un rifugio in cui ripararsi – le accettò senza ribellioni. A metà settembre tornò a Villa Vicentina, poi andò a Canale per evitare di incontrare Filippo che era venuto di persona a riprendersi il figlio. Il marito seguitò con il bambino per Bologna, poi per Ancona; secondo i patti decisi tra loro, quando il piccolo non era con il padre era affidato in «immediata custodia e garanzia»24 al nonno; la madre vi aveva accondisceso pensando però che la tutela di Felice si sarebbe esercitata da lontano, e che la primavera seguente il figlio sarebbe tornato da lei e vi sarebbe rimasto fino al momento di andare in collegio. Il distacco dal piccolo Napoleone fu per lei un vero sacrificio, una separazione «ben crudele»,25 accettata solo per evitare ulteriori problemi e difficoltà; a parte questo dolore, si sentiva più tranquilla e sicura: aveva scelto di andare a vivere a Canale perché così finalmente la sua movimentata esistenza «si troverà fissata – assicurò al padre – non voglio questa terra per farvi un corto sog22. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 13 novembre 1831, ANP, 400 AP 23. 23. Nota di Sedlnitzky a Cattanei dell’8 settembre 1831, Archivio di Stato di Trieste, Pol. Num. 454/1831, cit. in Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, II parte, p. 149. 24. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 2 ottobre 1831, ANP, 400 AP 23. 25. Lettera di Felice Baciocchi a Carlo Luciano Bonaparte, 3 ottobre 1831, AGR.

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giorno un’estate ma proprio per stabilirmici e colmare il buco che troppo frequenti viaggi hanno creato nel mio patrimonio».26 Era piena di entusiasmo e di buona volontà di ricominciare da capo, di gratitudine nei confronti del padre, di desiderio di dimostrargli che era cambiata, che non avrebbe più combinato guai: «siate persuaso che so apprezzare i sacrifici che avete fatto per me, & che mi sforzerò sempre di ricompensarli evitando nella mia condotta tutto quanto fino a presente aveva potuto dispiacervi».27 Felice non voleva illudersi troppo, ma anche lui si augurava che fosse la volta buona: spero che le rudi lezioni da lei ricevute da un anno in qua, e la solitudine cui ha voluto essa stessa condannarsi (almeno per qualche tempo) – scrisse al nipote Carlo Luciano – apporteranno grandi e utili cambiamenti nella sua maniera di vedere e di agire. Il tempo delle illusioni sarà per lei tanto più breve perché ne è stata più crudelmente disingannata.28

Sperava, scrisse a Napoleona, che il possesso di Canale e il suo soggiorno là l’avrebbero aiutata «a fissare e a dirigere verso risultati utili la tua attività naturale, e la vivacità della tua immaginazione».29 Intervenne anche presso il genero perché aumentasse la somma che le passava, ma Filippo si rifiutò, allegando le difficoltà finanziarie in cui si trovava, e – sorprendentemente – offrendosi invece di garantire a Napoleona il tenore di vita fissato dal contratto nuziale se lei tornava ad Ancona. Fosse un escamotage di Filippo per non sborsare denaro, o un suo residuo desiderio di riunire la famiglia, Felice consigliò alla figlia di non mostrare tanta ripugnanza davanti alla prospettiva di una riconciliazione, che a lui sembrava comunque inevitabile e augurabile; ma, per quanto decisa a rientrare nei ranghi, Napoleona si rifiutò decisamente di tornare con il marito: «essendo impossibile un accomodamento tra lui e me. È meglio non vederci, perché stare lontani ci dà tranquillità».30 Felice si preoccupava anche della prodigalità della figlia, della sua faciloneria nel procurarsi denaro: le raccomandò, accorato, di non fare «spese straordinarie e di pura fantasia», di non buttarsi in affari azzardati, 26. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 19 maggio 1831, ANP, 400 AP 23. 27. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 2 ottobre 1831, ivi. 28. Lettera di Felice Baciocchi a Carlo Luciano Bonaparte, 3 ottobre 1831, AGR. 29. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 1 novembre 1831, ANP, 400 AP 22. 30. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 13 novembre 1831, ivi, 400 AP 23.

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di rinunciare a fare venire dall’estero oggetti di lusso, di non mangiarsi in anticipo le sue rendite, e soprattutto di non ricorrere a prestiti e di non ipotecare la proprietà.31 Napoleona lo rassicurò, «fino ad ora non ho sicuramente da rimproverarmi la minima spesa di lusso, o anche che non fosse assolutamente necessaria», ma ancora in lei spuntava la paura di essere disapprovata: «entro in questi dettagli solo perché la vostra lettera mi fa temere, che siate stato prevenuto in modo sfavorevole su quanto faccio qui».32 Non le era tuttavia passata l’avidità di riunire più denaro possibile, e non aveva abbandonato la speranza di ottenere l’indennizzo per i beni confiscati dallo Stato francese; senza farsi scrupoli, incaricò il suo avvocato di cercare l’appoggio della sua antica governante, la baronne de Finguerlin, che era stata educata con Luigi Filippo e che avrebbe potuto esserle utile: «se avete la possibilità di parlarle per mio conto, ella non si rifiuterà sicuramente di usare la sua influenza».33 Si preoccupò molto quando seppe che il fratello Federico (un alto, timido e appassionato ragazzo di diciassette anni) era sfuggito alla sorveglianza del suo precettore ed era scappato in Romagna per arruolarsi nella Guardia nazionale. Già da qualche mese Napoleona conosceva i progetti del fratello, e per lealtà nei suoi confronti non li aveva comunicati a Felice ma solo al segretario Eugène Le Bon; ora però le premeva avvertire il padre che la situazione bolognese e soprattutto la gente che Federico frequentava, e che continuava a coinvolgerlo in «agitazioni politiche», avrebbe potuto portarlo a «conseguenze molto spiacevoli» e che, se Felice voleva preservare il figlio da compiere «passi che vi sarebbero forse estremamente penosi», il solo mezzo era allontanarlo da Bologna: «allontanato da lì perderà presto l’interesse che adesso rivolge a tutto quando vi avviene». Se il padre lo riteneva utile, Napoleona si offriva anche di ospitarlo a Canale «e non risparmierei nulla di quanto fosse in potere per dare un’altra direzione alle sue idee». Napoleona temeva che il fratello potesse fare, rimanendo a Bologna, «qualche stupidaggine»,34 voleva risparmiargli le traversie attraverso cui lei era passata. 31. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 1 novembre 1831, ivi, 400 AP 22. 32. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 13 novembre 1831, ivi, 400 AP 23. 33. Lettera di Napoleona all’avvocato Ravioli, 20 novembre 1831, ivi, 400 AP 22. 34. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 13 gennaio 1832, ivi, 400 AP 23.

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Intanto, si avvicinava il momento in cui il marito doveva riconsegnare il figlio al nonno; ma gli accordi appena presi saltarono subito, perché Filippo chiese di tenere il piccolo ancora due mesi per non farlo viaggiare nel cuore dell’inverno, e Napoleona prima acconsentì – pur dichiarando che il bambino era abituato «a ogni sorta di viaggio»35 – poi ci ripensò e, anzi, si infuriò e minacciò di andare di persona nelle Marche a riprenderselo. A questo punto Felice, dopo tante agitazioni, obblighi sgradevoli e pazienti tentativi di trovare una soluzione, esplose esasperato: «tutto quanto è successo, purtroppo per la tua pace e la mia, da diciotto mesi in qua dovrebbe provarti l’inutilità per non dire i gravi inconvenienti che risulterebbero da tale iniziativa»; lui, per parte sua, non ne poteva più: se malgrado tutte le pene che mi do per riparare il male passato, e per cercare di migliorare i tuoi futuri rapporti con il Cte tu andrai a fare quella che tu chiami una scenata non ti aspetterai certo che io ti approvi, e capirai come dopo aver esaurito tutti i mezzi di riconciliazione tra di voi io non possa tuttavia logorare la mia vita in agitazioni tanto contrarie alla mia salute e fatali al riposo dei miei vecchi giorni.36

Napoleona – come sempre se veniva trattata con durezza – si quietò e non fece la temuta scenata; non riuscì tuttavia a rimanere ferma: andò a Firenze, poi all’inizio di agosto chiese alle autorità austriache il permesso di recarsi a Roma e in poco più di un mese, con solo due domestici al seguito, andò e tornò,37 fermandosi a Bologna a riprendersi il figlio. Quando però, nell’autunno seguente, spettava a lei rimandare il bambino al marito, si rifiutò di farlo e non volle sentire ragioni. Era contenta di avere una proprietà tutta sua di cui occuparsi, e – come quando era bambina e coltivava il suo giardino a Boboli – si dava da fare con fervore ed energia, decideva cambiamenti e migliorie e seguiva i lavori di persona, nella dolcezza di una stagione tiepida e piena di sole. Aveva accanto a sé il figlio, che stava imparando a leggere e scrivere, andava a caccia e sembrava molto felice di stare a Canale; Napoleona si sentiva così bene che trovava assurdo restituire il figlio a Filippo e ritro35. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 2 gennaio 1832, ivi. 36. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 20 febbraio 1832, ivi, 400 AP 22. 37. Cfr. il passaporto rilasciato dalle autorità austriache il 5 agosto 1832, Archivio del MN. A metà settembre Napoleona era già di ritorno in Friuli.

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varsi sola. E poi, il disprezzo che provava per il marito («tutte le buone azioni sono perdute con un uomo del suo carattere», scrisse al padre) si allargava all’ambiente provinciale e meschino in cui lui viveva: Filippo, secondo lei, non era in grado di dare al figlio «un’educazione e dei sentimenti adatti alla sua posizione»38 e lei era irrevocabilmente decisa a tenerglielo lontano. Per il momento gli diede una scusa ridicola, scrivendogli che non glielo rimandava tramite il padre perché «le cure delle donne gli sono ancora necessarie», e Felice non ne aveva nessuna «in sua casa appropriata».39 Rassegnato, Felice dovette un’ennesima volta spiegare la situazione al genero, e tentare di ristabilire tra i due coniugi dei rapporti civili; tenne però a comunicare a entrambi che non se la sentiva più di avere il nipotino in affidamento. Per fortuna, Filippo non si arrabbiò troppo – doveva essersi abituato a vivere lontano dal figlio o, forse, era meno preoccupato del genere di vita che gli faceva fare Napoleona. Lei nel frattempo, dato che il padre non voleva più tenere il bambino, aveva avuto un’altra idea: sarebbe andata a Firenze dallo zio Gerolamo, per convincerlo a prendersi carico del piccolo fino al momento di metterlo in collegio. Non che la separazione dal figlio non le fosse estremamente penosa, ma faceva questo sacrificio perché era sicura che, se il bambino rimaneva a Firenze, il marito non sarebbe andato a riprenderselo. Era quindi pronta – senza alcun dubbio o riguardo – ad espropriarlo del suo ruolo di padre, affidandone il figlio all’uomo cui la voce pubblica attribuiva la sua vera paternità. La sua unica preoccupazione era che il marito facesse dei «passi a Roma»,40 l’accusasse cioè davanti ai tribunali dello Stato pontificio, di cui lei aveva ancora molta paura. Scrisse anche con alterigia a Filippo, stupendosi che non avesse accettato senza fiatare «le ragioni assai potenti che vi avevo dato per rimanere Napoleone a Canale», e dichiarandogli che avrebbe mantenuto i patti fissati, «benché non mi creda punto obbligata a farlo», solo quando «tutto si schiarirà ed allora non sarete più tentato di andare a cercare dei pretesti là dove non ve ne occorrono».41 38. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 20 ottobre 1832, ANP, 400 AP 23. 39. Copia della lettera di Napoleona a Filippo Camerata del 18 ottobre 1832, ivi. 40. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 20 novembre 1832, ivi. 41. Copia della lettera di Napoleona a Filippo Camerata del 20 novembre 1832, ivi.

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Gli dovette riscrivere con molta minore baldanza da Firenze qualche settimana dopo, perché lo zio, per delle «particolari ragioni», si era rifiutato di tenere presso di sé il piccolo (e in effetti Gerolamo, da poco trasferito a Firenze con tutta la famiglia, doveva avere già tanti problemi da non volervi aggiungere anche il carico di un nipote-figlio da allevare); Napoleona faceva allora al marito due proposte: o lei avrebbe tenuto con sé il piccolo fino a quando avesse compiuto nove anni, lasciandolo a Filippo per due mesi l’anno, oppure – per amore del figlio e superando «tutte le considerazioni che mi siano puramente personali» – acconsentiva a tornare ad Ancona fino all’entrata in collegio del bambino, con l’intesa che Filippo le avrebbe fatto preparare la casa «conformemente alle stipulazioni del mio contratto di matrimonio». Metteva comunque bene in chiaro che la sua presenza ad Ancona «non influenzerà in nulla il nostro modo di essere intendendo vivervi completamente libera».42 Era quindi da parte sua – seppure espressa con condiscendenza – una decisa marcia indietro, ma anche Gerolamo l’aveva caldamente consigliata a farlo, spiegandole che in un momento così difficile dal punto di vista politico e finanziario era meglio usare prudenza. Napoleona aveva le idee sempre più confuse, e alla fine ritornò a pregare il padre di accollarsi ancora per un anno la cura del piccolo. Felice accettò di riprendersi il nipote, ma solo al ritorno da un viaggio a Roma che stava progettando; lo preoccupava però l’irrequietudine che sembrava aver ripreso la figlia, la smania di viaggiare (parlava di andare a Roma anche lei, e si era affrettata a chiedergli il denaro necessario), come se si fosse dimenticata le promesse che aveva fatto ritirandosi a Canale. Se proprio doveva spostarsi, tornò a insistere Felice, che andasse ad Ancona con il piccolo e cercasse di riavvicinarsi al marito, perché «questa lunga separazione del tutto volontaria da parte tua» finisse, se non altro «per la gente, e per la buona impressione che farebbe nella famiglia».43 Alla fine, spinta anche da Gerolamo, Napoleona si convinse ad andare ad Ancona per tentare questo «riavvicinamento»,44 ma riuscì solo a tro42. Copia della lettera di Napoleona a Filippo Camerata del 10 dicembre 1832, ivi, 400 AP 22. 43. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 16 gennaio 1833, ivi. 44. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 3 febbraio 1833, ivi, 400 AP 23.

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vare con il marito un accordo per cui il bambino sarebbe stato restituito a Filippo, e le sarebbe stato rimandato dopo qualche mese; tornò allora a Canale e si stava preparando ad accompagnare il figlio ad Ancona, quando la raggiunse un’orribile notizia: il 7 aprile il fratello Federico, che era andato con il padre a Roma, era stato buttato a terra da un cavallo ribelle ed era morto sul colpo. Per Napoleona fu un dolore amarissimo, perché il fratello minore era una delle rare persone cui lei voleva sinceramente bene; si lamentava spesso che lui non le scrivesse o non si ricordasse di lei, si sentiva responsabile di lui e amava (lei così avventata ed egoista) proteggerlo e consigliarlo. Scrisse disperata al padre «non mi consolerò mai della perdita di mio fratello»,45 offrendosi con premura di ospitarlo a Canale o di accorrere con il figlio a Bologna per stargli vicino. Ma il padre la gelò e la respinse: «sono sensibilmente toccato dal tuo dolore e dalla parte che prendi al mio che mi tormenta senza tregua», le rispose con distacco, ma desiderava restare a Bologna, dove «la presenza e gli sforzi di alcune persone a me vicine riescono almeno a calmare ogni tanto il mio dolore perché nulla potrebbe distrarmene»; alla sua compagnia preferiva quindi quella di altre persone. Non desiderava poi – le scrisse quasi con rancore – vedere il piccolo: temo te lo confesso l’impressione troppo viva che produrrebbe in me la vista del tuo bambino. Io spero che in seguito egli sostituirà tutto ciò che ho perduto ma oggi la sua presenza e le sue carezze potrebbero solo aumentare i crudeli rimpianti quando ho invece bisogno di tutta la mia forza per abituarmi al vuoto che nulla potrebbe ancora colmare intorno a me né nel mio cuore. […] Dipenderà anche da te – le ricordò infine – di spargere tante consolazioni sui miei vecchi giorni, e ci faccio conto.46

L’anno dopo il duca Francesco IV fece pubblicare e distribuire a Modena un pamphlet, in cui il ragazzo veniva attaccato «nel modo più odioso e più menzognero»;47 probabilmente Federico veniva accusato di essersi compromesso con i moti rivoluzionari o con le società segrete, ed effettivamente aveva partecipato – se non altro con tutto il suo entusiasmo 45. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 15 aprile 1833, ivi. 46. Lettera di Felice Baciocchi a Napoleona, 25 aprile 1833, ivi, 400 AP 22. 47. Lettera di Felice Baciocchi a Carlo Luciano Bonaparte del 21 febbraio 1834, AGR.

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– ai giorni della ribellione, e poi era fuggito per arruolarsi nella Guardia nazionale. Il duca (che doveva ancora scacciare da sé gli ultimi sospetti di complicità) colse l’occasione di coinvolgere un altro giovane Bonaparte, ma Felice non sopportò quest’attacco alla memoria del figlio morto, e protestò indignato con il cardinale Bernetti e con Metternich, chiedendo una riparazione ufficiale dal governo di Modena. Nei mesi seguenti Napoleona girò come una trottola tra Bologna, Roma, Firenze, Arenenberg in Svizzera ospite della zia Ortensia; andò anche ad Ancona ma si scontrò duramente con Filippo, che si comportò – secondo Napoleona – «in un modo indegno»,48 chiedendo l’intervento della polizia e impedendo che le venisse rilasciato il passaporto. La conclusione di tutti i litigi e le discussioni familiari fu che lei e Filippo decisero di mettere il bambino (che aveva compiuto i sette anni) in un collegio di Ginevra, dove Napoleona lo condusse nel maggio del 1834. Nonostante le lotte accanite per tenersi il figlio, lei sembrava sollevata di non doversene più occupare («è una grande preoccupazione in meno di saperlo ben sistemato durante gli anni che durerà l’accordo concluso con mio marito», scrisse al padre); era contenta di essere libera, e non voleva neanche sentir parlare di una riconciliazione con il marito (come invece Filippo sembrava ora desiderare): «non arriverò mai alla separazione per evitare ogni scandalo e per la stessa ragione non tornerò ad Ancona convinta come sono che ogni riavvicinamento servirebbe solo a far nascere nuove dispute».49 Divise la sua vita tra Canale in estate, dove continuava a seguire i lavori in giardino e nei campi, e gli inverni a Firenze – senza farsi immalinconire troppo dai ricordi di quando, bambina, vi aveva vissuto da principessina ereditaria; lì, grazie alla discreta ospitalità del granduca Leopoldo II, vivevano, oltre a Gerolamo, gli zii Carolina e Luigi, e Julie moglie dello zio Giuseppe, con la figlia Carlotta vedova di Napoleone Luigi Bonaparte. Napoleona continuava a trafficare in opere d’arte con Pietro Tenerani, gli faceva fare dei ritratti del duca di Reichstadt o di altri membri della famiglia per poi venderli; in quel periodo Lorenzo Bartolini la ritrasse in un busto in cui appare appesantita, ma con una sempre più 48. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 31 luglio 1833, ANP, 400 AP 23. 49. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 16 maggio 1834, ivi.

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accentuata somiglianza all’imperatore.50 Una sera del marzo 1835 il poeta francese Joseph Méry la incontrò a una serata musicale da Gerolamo a Palazzo Orlandini; lì, in mezzo a una brillante folla cosmopolita, Napoleona attirava l’attenzione di tutti: «ha lo sguardo, il volto, il fuoco di Napoleone; si parlava della sua cavalleresca avventura a Vienna, quando cercò di rapire a Schoenbruun lo sfortunato duca di Reichstadt».51 A giugno andava a Ginevra a riprendersi il figlio, e lo conduceva in Italia per le vacanze. Il piccolo Napoleone Camerata sembrava ansioso di compiacere tutti, di essere bravo e di comportarsi bene; studiava con profitto e i suoi insegnanti erano molto contenti di lui. Nel luglio del 1835 Napoleona lo portò con sé ai bagni di Livorno e – si fossero raddolciti i loro rapporti, o le facesse comodo averlo vicino – scrisse a Filippo di raggiungerli; lui – per amore del figlio, o ancora soggiogato dalla moglie – si affrettò a farlo. Nonostante tutta la sua buona volontà e il suo zelo, per il bambino staccarsi dalla madre e tornare in collegio era duro e doloroso; per quanto agitata e incerta fosse sempre stata la loro vita insieme, il piccolo amava teneramente la mamma e (sensibile com’era) sentiva che anche lei gli era legata. Napoleona, pur se superficiale e rude, si rendeva conto della sofferenza del figlio: «Ho lasciato Nap. ben sistemato e contento quanto si può esserlo al momento di una separazione sempre penosa»,52 scrisse qualche anno dopo a Felice. Nell’inverno del 1836, aggravandosi le condizioni di salute di Madame Mère, Napoleona partì per Roma, ed era presente la notte del 2 febbraio, quando la nonna morì. Scrisse poi al padre scandalizzata per il modo assolutamente non «conveniente» con cui erano stati celebrati i funerali: Madame era morta il lunedì notte, e martedì mattina non era ancora stato dato alcun ordine, nessun prete vegliava la salma, non era ancora stata detta la messa nella cappella di Palazzo Bonaparte e non erano state ordinate distribuzioni di elemosine ai poveri; il giovedì il corpo venne imbalsamato e messo in una bella bara posta per terra (more 50. Adesso al Museo Napoleonico dell’Avana a Cuba, ma una copia in gesso è conservata alla Galleria Nazionale di Firenze. 51. J. Méry, Les nuits italiennes, contes nocturnes, Michel Lévy Frères, Paris 1868, p. 65. 52. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 27 agosto 1837, ANP, 400 AP 23.

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nobilium), ma senza un prete presente e con dei candelabri da tavola messi intorno. Questa mancanza di formalità e soprattutto di messe e di elemosine aveva indisposto i romani, e così alla cerimonia del sabato sera nella parrocchia di S. Maria in via Lata si sentirono dei fischi (secondo Napoleona, diretti solo «au directeur de la cérimonie») e la grande M messa sulla porta della chiesa venne coperta di fango. Napoleona si lamentava soprattutto perché non era stata organizzata alcuna cerimonia pubblica, perché non si parlava ancora di costruire un monumento, insomma perché «tutto sembra lasciato nell’oblio».53 Era indignata soprattutto con la sua famiglia, che celebrava con tanta poca solennità la morte della madre dell’imperatore. Anche Giuseppe Gioacchino Belli rimase così colpito della meschinità della cerimonia da dedicarvi un sonetto: A tutta sta ginìa de Napujoni Figurateve un po’ cosa j’importa Si quela vecchia de la madre è morta. Funerali de gnocchi e maccaroni. Ce faranno un tantino li piagnoni Co lo scoruccio e la boccaccia storta; E appena che ssarà ffor de la porta S’anneranno a spartì li su’ mijoni.54

Effettivamente Napoleona si consolò con la prospettiva del lascito che le sarebbe arrivato, visto che – come sempre – aveva problemi di denaro; aveva contratto un grosso debito con la zia Carolina, con cui non riusciva a trovare un accordo, e per anni continuò a litigare con lei e con il cardinal Fesch sull’eredità di Madame Mère. Napoleona aveva sempre paura che si parlasse male di lei, soprattutto nella Famille, e che le voci malevole arrivassero al padre: «La contessa di Lipona [Carolina] va in giro per tutta la città raccontando menzogne sul mio conto non l’ho ancora vista e penso proprio di non vederla mai», scrisse a Felice da Firenze. Con lo zio Gerolamo, invece, combinava affari, in cui cercava di coinvolgere il padre (che si guardava bene dall’impegnarvi i suoi capitali): «Ci sarebbe ora», gli propose, «una maniera facile se volete fornire il vostro 53. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 3 marzo 1836, ivi. 54. La morte de Madama Lettizzia, sonetto 1727, 8 febbraio 1836, in G.G. Belli, Tutti i sonetti romaneschi, Newton Compton, Roma 1975, vol. IV, p. 540.

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aiuto di assicurarsi da 25 a 30/m[ille] piastre io da sola non riuscirei a ottenerlo».55 Gerolamo era in grossi imbarazzi finanziari, perché alla fine del 1835 era morta sua moglie Caterina e lui aveva perso il sussidio che passava loro il cognato re del Württemberg. Nonostante ciò, non voleva rinunciare al suo tenore di vita lussuoso; chiedeva soldi in prestito ai fratelli, non pagava i fornitori e continuava a dare nel suo palazzo ricevimenti sfarzosi e ricercatissimi. Sembra che Napoleona, come il resto della sua famiglia, non avesse approvato il fallito colpo di mano di Luigi Napoleone a Strasburgo del 30 ottobre 1836, quando il principe (divenuto, dopo la morte del duca di Reichstadt, il pretendente al trono imperiale), con alcuni complici e contando su un certo numero di ufficiali pronti a seguirlo, tentò di sollevare la guarnigione della piazza militare di Strasburgo. Nel periodo precedente Napoleona era spesso andata a trovare ad Arenenberg la zia Ortensia, e i due cugini si erano incontrati; ma lei doveva essere rimasta troppo scottata dall’esperienza del 1830, e – soprattutto – Luigi Napoleone aveva imparato a scegliersi dei compagni di avventura più affidabili e a nascondere i suoi progetti anche alla famiglia. I giornali francesi vicini al governo orléanista accomunarono comunque, in una medesima riprovazione, l’echauffourée di Luigi Napoleone con una bravata fatta da Napoleona qualche settimana dopo, quando si presentò ai funerali dell’ex re di Francia Carlo X morto a Gorizia, e lì si mise a prendere in giro con «appositi motteggi e scherni» i parenti del defunto.56 Quando Napoleona seppe che il marito era stato ospite di Palazzo Baciocchi a Bologna, ne approfittò subito per chiedere al padre di intervenire presso Filippo perché le aumentasse la rendita che le passava, o perché venisse lui a Canale per vedere il figlio senza che lei dovesse spendere per mandarlo ad Ancona, con la scusa che faceva troppo caldo e non si poteva far viaggiare «un bambino naturalmente delicato e che è stato abbastanza seriamente malato quest’inverno».57 Chiese anche al padre, dicendo che non voleva avere nulla a che fare con il marito, di ottenere da Filippo 55. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 1 gennaio 1837, ANP, 400 AP 23. 56. Cronaca manoscritta del marchese Luca Marsigli, 30 dicembre 1836, cit. in Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra, p. 96. 57. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 13 giugno 1837, ANP, 400 AP 23.

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i permessi che, secondo le leggi dello Stato pontificio, ogni donna doveva avere dal proprio coniuge per qualunque transazione economica: «non è un capriccio ma il diritto che mi impedisce di rivolgermi al conte Filippo iniziativa che il suo comportamento verso di me mi fa trovare umiliante e che stabilirebbe un spiacevole precedente nella mia posizione verso il conte».58 Impastata di contraddizioni, Napoleona continuava a creare problemi a Felice, ma al tempo stesso cercava in tutti i modi di dimostrargli il suo affetto, magari ricamando per lui cuscini e bretelle; si preoccupava molto della salute dell’ormai anziano padre, e quando seppe che il colera – presente nell’Italia centrale dall’anno precedente – imperversava a Roma e stava raggiungendo anche Firenze e Bologna, gli scrisse: «è con vivo dispiacere che vi vedo soggiornare in un paese in preda a una spaventosa malattia e in una stagione che in tutt’Italia è la più malsana dell’anno»,59 offrendosi di ospitarlo a Canale dove non il morbo non aveva mai fatto la sua comparsa. Avendo sempre paura di comportarsi male e di essere criticata, Napoleona temeva che le persone più vicine a suo padre lo mettessero contro di lei; nel maggio 1837, quando gli scrisse per fargli gli auguri di compleanno, aggiunse che lo pregava di ritenerli sinceri «qualunque sia l’opinione che coloro che vi circondano possono darvi di me».60 Napoleona sembrava non riuscire a stare ferma a Canale: in agosto era andata ad accompagnare il figlio in Svizzera, ed era quindi passata a trovare la zia Ortensia gravemente malata; ai primi di novembre si recò a Milano ad incontrarsi con Gerolamo e sua figlia Matilde, per poi proseguire per Firenze. Alla fine di novembre andò a Bologna «in caratella» per parlare d’affari con il padre, viaggiando di notte e guidando di persona nel gelo, «robusta e virile nei suoi usi quella donna», commentò un cronista bolognese.61 Un ritratto che le fece Charles Kunz in quegli anni la mostra ingrassata, con i capelli riportati in una crocchia stretta, il mento fermo, gli occhi più espressivi. Tutti quei viaggi non facevano che peggiorare la sua situazione finanziaria; aveva (nonostante le raccomandazioni paterne) messo un’i58. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 27 agosto 1837, ivi. 59. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 8 settembre 1837, ivi. 60. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 15 maggio 1837, ivi. 61. Cronaca manoscritta del marchese Luca Marsigli, 25 novembre 1837, cit. in Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra, p. 98.

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poteca su Canale, e continuava ad arrabattarsi per trovare denaro. Aveva anche offerto di vendere la proprietà alla duchessa di Angoulême, che si era stabilita nella vicina Gorizia, ma non erano riuscite a mettersi d’accordo sul prezzo. Nel dicembre 1837 cercò di fare una lotteria di una sua carrozza, ma al momento del sorteggio arrivò un impiegato governativo annunciando che in Austria erano proibite le lotterie di carrozze senza un’autorizzazione preventiva, e senza un pagamento del diritto del 10% dell’intera somma. Le toccò così pagare 60 fiorini per il permesso e 120 di multa per non averlo chiesto; la lotteria venne rimandata al 10 gennaio e Napoleona implorò il padre di prendere qualche biglietto «per rimediare un poco l’affare».62 Nel frattempo erano arrivate al padre voci di un’altra iniziativa sballata della figlia, sempre pronta ad impegnarsi in qualche affare che le sembrava interessante. Tre anni prima un certo conte de Piemme l’aveva sentita dire in casa della principessa Galitzine che trovava una tenuta appartenente a M. de Beaumont molto bella, e – secondo Napoleona – senza avere una sua procura ne aveva trattato l’acquisto in suo nome e le aveva mandato il contratto. Ma l’acquisto era fittizio e tutto l’affare finì davanti al tribunale di Ginevra, che condannò Piemme a pagare il costo dell’acquisto: probabilmente Napoleona aveva gestito nel suo solito modo arruffato e pasticciato la vicenda, incaricando il dubbio intermediario e poi lavandosene le mani. L’unica cosa che la preoccupava, comunque, era che il conte de Piemme rendesse pubblica la cosa: tramite il suo avvocato gli aveva intimato «di non pubblicare nulla nei giornali se tuttavia lo farà se ne troverà male».63 Propose a Felice di prendere in gestione anche la tenuta di Villa Vicentina, in cambio di una rendita fissa «molto superiore a quella che la villa vi fornisce in questo momento»; secondo lei, i debiti dei coloni del padre non facevano che aumentare, mentre quelli dei suoi coloni di Canale erano «quasi interamente esauriti»,64 ma il padre sapeva ormai bene che doveva guardarsi dai progetti chimerici della figlia, e le rispose seccamente che lui la pensava in tutt’altro modo, così come le impedì di 62. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 22 dicembre 1837, ANP, 400 AP 23. 63. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 7 febbraio 1838, ivi. 64. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, s.d. [ma 1 giugno 1838], ivi.

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mettere su un allevamento di cinghiali che – nelle viste di lei – avrebbe dovute renderle «più di 1000 f».65 Napoleona era a Firenze quando morì improvvisamente a Sarzana sua cugina Carlotta, vedova di Napoleone Luigi; Napoleona le voleva molto bene («sono così triste e così colpita da questa morte che vedo appena quello che scrivo», scrisse al padre),66 anche se le due cugine non potevano essere più diverse. Carlotta e sua sorella Zenaide, figlie di Giuseppe Bonaparte e di Julie Clary, erano due donne di grande dolcezza e discrezione, che avevano sempre vissuto ritirate in famiglia; Zenaide, piena di buon senso e di carattere, aveva sposato il cugino Carlo Luciano, figlio di Luciano Bonaparte, e ne aveva avuto dodici figli, che aveva allattato e allevato lei stessa; Carlotta, più sensibile e malinconica, disegnatrice raffinata, non aveva avuto figli dal suo matrimonio con Napoleone Luigi, e aveva sofferto moltissimo per la perdita del marito. Aveva sempre vissuto in una scelta cerchia di amici intellettuali e artisti, tra cui Pietro Giordani e Giacomo Leopardi, e il pittore Léopold Robert a lungo e senza speranza innamorato di lei. Nell’inverno del 1839, durante un soggiorno presso la sorella a Roma, si era accorta di essere incinta, e ai primi di febbraio era partita per partorire segretamente. Il nome del padre del bambino è poi diventato, negli anni, uno degli enigmi di cui amano occuparsi la petite histoire e gli amatori di cose napoleoniche; con ogni probabilità si trattava di un cugino di Napoleona, Felice Francesco Baciocchi, con cui Carlotta aveva passato un periodo felice a Livorno l’estate precedente.67 Felice Francesco era però sposato con Maria Teresa Pozzo di Borgo, figlia di un ciambellano dell’imperatore austriaco e nipote dell’ambasciatore russo a Parigi. Carlotta andò da lui a Livorno, si trattenne qualche tempo perché si sentiva molto male, poi proseguì per Lucca e Sarzana, diretta verso la Francia. A Sarzana dovette fermarsi nuovamente perché stava sempre peggio; Felice Francesco la raggiunse, e qui dopo qualche giorno Carlotta diede alla luce con il taglio cesareo un bambino morto e morì anche lei di emorragia il 3 marzo. Il corpo della principessa venne riportato da Felice Francesco a Firenze l’8 marzo; nel suo testamento, stilato durante la sosta a Livorno, 65. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 2 ottobre 1838, ivi. 66. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 5 marzo 1839, ivi. 67. L’ipotesi è stata avanzata da G. Gorgone, Morte di una principessa, in Napoleone e il suo tempo, Società Editrice Buonaparte, Sarzana 2001, pp. 94-103.

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Carlotta gli aveva lasciato 100.000 franchi, sicuramente perché – in caso di sua morte – li utilizzasse per allevare il bambino che doveva nascere. Napoleona tuttavia sembrava non sapere nulla della gravidanza della cugina, e raccontò al padre che era morta per «un Polipo nella matrice che le ha provocato tali perdite di sangue che al momento della sua morte non ne aveva in corpo più di 4 libbre».68 Non la interessavano le chiacchiere che cominciavano a nascere, la commuoveva invece molto la morte di questa donna così fragile e dignitosa, per la quale – come talvolta le capitava con le altre donne – aveva un’amicizia brusca e protettiva; si indignò (lei tanto attaccata al denaro) quando seppe che Carlo Luciano si era arrabbiato per il legato a Felice Francesco (legato che andava a diminuire l’eredità destinata ai suoi figli), e che aveva quindi deciso di vendere tutto all’asta, «i suoi poveri piccoli mobili i disegni ecc. insomma quando si vede tutto ciò da vicino si resta proprio addolorati dall’avidità che dirige tutto questo affare».69 A maggio 1839 era morto anche il cardinale Fesch, e l’affare della vendita della sua celebre collezione di quadri occupò a lungo Napoleona; su di lei confluivano successivamente eredità che via via sparivano, ingoiate da una gestione caotica e da investimenti imprudenti. Fu costretta a vendere la terra di Canale ma, infine, le arrivò anche l’eredità del padre; a metà aprile del 1841 Felice cadde ammalato e morì il 27 del mese. Napoleona non gli era accanto: era a Firenze, e riuscì ad arrivare a Bologna solo il giorno dopo. Il testamento del padre – di cui era rimasta l’unico successore – non la soddisfece affatto: era stata nominata erede universale, ma Felice (non fidandosi della sua capacità di gestire il patrimonio), le aveva lasciato solo le rendite dei beni nel bolognese e non la libera proprietà del capitale. Nel testamento, datato 10 marzo 1840, il padre aveva infatti sottoposto le sue proprietà «a sostituzione Fedecomissaria Primogeniale perpetua, con obligo ingiunto a tutti quanti li chiamati, e sostituiti di assumere il mio nome di famiglia, e lo stemma gentilizio del mio casato».70 Il fedecommesso era affidato in primo luogo a Napoleona, poi al suo primogenito maschio; nel caso che Napoleona 68. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 9 marzo 1839, ANP, 400 AP 23. 69. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, 21 marzo 1839, ivi. 70. Testamento di Felice Baciocchi, stilato a Bologna il 10 marzo 1840, copia conservata in BMP.

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morisse senza prole, il padre le dava la facoltà di nominare un successore fra i discendenti maschi di Luigi o Gerolamo Bonaparte o di Carlo Luciano, oppure del nipote Francesco Maria Baciocchi. Secondo una perizia del 16 giugno 1840, il suo patrimonio consisteva nel palazzo di Bologna, nella tenuta di Mezzolara, nella villa di Bel Poggio comprata dopo la vendita di Canale, e nella tenuta di Villa Vicentina (esclusa dalla fideiussione), compresi gli arredi, la biblioteca, i quadri e i ritratti di famiglia, le statue e gli oggetti d’arte, l’armeria e le decorazioni. Arrivò a Bologna anche Filippo, che però non si fece vedere da Napoleona e andò ad alloggiare in un’altra parte di Palazzo Baciocchi; anche lui non era per niente contento dell’eredità e «strepitava perché il figlio fosse rimasto soltanto usufruttuario delle robbe del Bolognese e non di tutto l’asse dell’avo».71 La prima cosa che fece Napoleona fu licenziare i vecchi amministratori di fiducia del padre e nominarne di nuovi, poi sembrò presa dalla mania di economizzare (come tutti gli spreconi, ogni tanto decideva di fare economia, e riteneva che questo fosse segno di buona amministrazione); fra le critiche dei bolognesi, che la trovarono più stravagante che mai, fece «disfare e colare l’oro degli abiti e manti di Corte del padre suo quando era consorte della sovrana di Toscana l’Elisa sorella dell’imperatore Napoleone Bonaparte per il poco valore e guadagno di 400 scudi».72 Era ormai lei la padrona, ma si trovava male a Bologna, e preferì tornare a vivere a Firenze. Il padre le aveva lasciato la facoltà di nominare un erede se fosse morta senza prole, e lei si affrettò a nominare tale (pur avendo un figlio vivente) suo cugino Napoleone Gerolamo, il figlio minore di Gerolamo, come se la famiglia dello zio fosse l’unica che le fosse rimasta. Alla fine dell’anno precedente era entrato a fare parte di questa famiglia, sposando Matilde, un ricchissimo nobile russo, il conte Anatolij Demidov, l’erede di una famiglia di proprietari di miniere e di fonderie nobilitati da Pietro il Grande nel XVIII secolo. La madre di Anatolij, Elisabetta Stroganov, aveva lungamente vissuto con i due figli a Parigi e aveva trasmesso ad Anatolij un’ardente ammirazione per Napoleone. Morta la madre nel 1818, i due ragazzi avevano seguito il padre Nikolàj 71. Cronaca manoscritta del marchese Luca Marsigli, 20 maggio 1841, cit. in Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra, p. 101. 72. Ibidem, p. 103.

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in Toscana, dove era stato nominato ambasciatore di Russia; morto anche il padre, Anatolij rimase a Firenze, nella sua villa di San Donato, amministrando il suo patrimonio e circondandosi di artisti, letterati e scienziati. Nel 1826 finanziò una spedizione scientifica che esplorò dal punto di vista zoologico, botanico ed etnologico la Russia meridionale e i cui risultati, pubblicati nel 1840 in sei volumi, lo resero famoso nel mondo intellettuale dell’epoca. Anatolij aveva sostenuto questa iniziativa soprattutto perché sperava di ingraziarsi lo zar Nicola I, che non lo amava affatto: gli rimproverava di essersi stabilito lontano dalla Russia, di condurre una vita di eccessi leggendari, e soprattutto di passare sovente ai giornalisti parigini una serie di notizie negative sul governo autocratico russo. Nel 1839, grazie al suo amico giornalista Jules Janin, Anatolij riuscì a farsi ricevere da Gerolamo Bonaparte, e rimase affascinato dalla giovane Matilde, che oltre ad essere molto bella e vivace, riuniva in sé il sangue napoleonico e la parentela (tramite sua madre Caterina) con lo zar. Matilde veniva da una delusione amorosa: era stata brevemente fidanzata nel 1835 con Luigi Napoleone, ma dopo il colpo di mano di Strasburgo, e con suo grande dolore, era stata costretta a rompere il fidanzamento; voleva ora sposarsi per fuggire all’incertezza e alla confusione dell’ambiente familiare. Il padre, pieno di debiti e in condizioni finanziarie più che mai disastrose, vedeva in un genero così ricco una vera salvezza; dopo una trattativa lunga e complicata (in cui dimostrò un’avidità e una disonestà disgustose) Gerolamo “vendette” sua figlia al più alto prezzo possibile: secondo l’accordo prenuziale la dote di Matilde era di 290.000 franchi, di cui 50.000 in gioielli, vestiti e strumenti musicali, ma Anatolij si impegnò a pagare i debiti di Gerolamo e a comprargli a carissimo prezzo reliquie napoleoniche (tra cui statue dell’imperatore e di Madame Mère) e i gioielli di Caterina (valutati un milione di franchi), che avrebbero dovuto far parte della dote di Matilde. Demidov (il quale peraltro non vide mai un soldo della dote) doveva infine pagare 118.000 franchi l’anno di pensione a Gerolamo. Matilde e Anatolij si sposarono il 3 novembre 1840, e partirono dopo qualche tempo per la Russia, dove li aveva richiamati lo zar. Arrivati a San Pietroburgo nel marzo 1841, Matilde venne accolta molto affettuosamente da Nicola I, che invece ignorò il marito. Le difficoltà tra i coniugi cominciarono subito e quando si stabilirono a Parigi, nell’agosto 1841, il

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matrimonio era già in crisi: lui aveva un carattere impossibile, tradiva la moglie, la picchiava, la sbeffeggiava quando lei era costretta a chiedergli soldi per il padre; lei era ancora giovane e inesperta, ma già manifestava il temperamento forte e deciso, l’intelligenza, l’orgoglio e la passione che avrebbe poi dimostrato nel corso della sua lunga vita. I primi tempi Anatolij era molto lusingato dalla gentile accoglienza che gli aveva riservato la famiglia di Matilde; la moglie di Giuseppe, Julie, che si era sempre occupata della ragazza da quando era rimasta orfana, aveva seguito di persona tutte le vicende del fidanzamento, e Felice aveva ospitato a Bologna gli sposi in viaggio per la Russia. Napoleona era entusiasta del matrimonio: scrisse al padre che Demidov era disposto a pagare tutti i debiti del suocero (era anche una bella occasione per lei di recuperare il denaro che le doveva Gerolamo) e a passargli una pensione; anche se l’entourage del principe sembrava ostile al nuovo venuto, a lei Demidov piaceva, le sembrava che in lui «il cuore e i sentimenti valgano più delle forme esteriori».73 Si illudeva soprattutto di avere a che fare con un parvenu così affascinato dal nome dei Bonaparte da essere pronto a sborsare qualunque somma e ad accettare qualunque richiesta; ma dovette presto ricredersi, perché Anatolij era fatto della sua stessa pasta, anzi, era molto più duro e spietato di lei, e sapeva bene quale uso fare della sua enorme ricchezza. Napoleona – che si era assunta il compito di tutelare e di proteggere Gerolamo – si rivolse allora alla cugina Matilde, rampognandola sulle tristi (a suo dire) condizioni in cui viveva il padre; la ragazza le rispose con dignità che era troppo attaccata a Gerolamo «per non sapere quali siano i miei doveri; gli ho dato tutto ciò che non avevo e su questo non mi si possono fare dei rimproveri e se avessi avuto di più glielo avrei ancora dato anche se ti confesso che non so a cosa ciò porterà».74 Napoleona reagì con violenza: Non voglio entrare con te in una discussione sulla maggiore o minore utilità delle spese di tuo Padre ma permettimi di dirti che se c’è una persona al mondo che non ha il diritto di criticarlo sei tu che durante tanti anni hai approfittato delle sue spese e hai sempre cercato di aumentarle per divertir73. Lettera di Napoleona a Felice Baciocchi, dicembre 1840, ANP, 400 AP 23. 74. Lettera di Matilde Bonaparte a Napoleona, 12 ottobre 1841, ivi, 400 AP 24.

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ti. Siamo troppo vecchie conoscenze cara Matilde perché la tua lettera possa ingannarmi e avrei preferito che invece di nascondere il tuo pensiero ripetendo stupide calunnie tu mi avessi detto molto chiaramente che preferivi spendere il tuo denaro per divertirti ciò che sarebbe stato più vero di tutto quello che mi dici.

Si arrogava il diritto di giudicare l’affetto e i doveri di Matilde verso il padre, la ricattava con l’idea di lui caduto in miseria: è possibile che prestando denaro al principe di Montfort si faccia un cattivo affare ma non ti ho mai parlato di investire i tuoi fondi in modo vantaggioso credendo che fossi in un affare tutto di cuore e di sentimenti al sopra di così miserabili considerazioni ciò che so bene è a cosa porterà il costante rifiuto di aiuto che patisce mio zio e non so se il biasimo che ti ricadrà addosso nella tua posizione non sia un affare peggiore di tutto quello che tu avresti potuto e dovuto dare a tuo padre.75

Gerolamo viveva ormai mantenuto dal genero e dai fratelli, ma senza per questo diminuire in nulla il suo tenore di vita; perseguitato dai debitori, nel 1844 si rifugiò da Napoleona a Villa Vicentina per non assistere alla vendita del suo mobilio, come raccontò il ministro francese a Firenze a Guizot.76 Ingannò comunque anche la nipote, contraffacendo la scrittura e la firma di sua figlia per impadronirsi di 25.000 franchi che Matilde aveva affidato a Napoleona.77 Nel settembre 1846 Matilde, esasperata dai continui maltrattamenti di Anatolij e innamoratasi di Émilien de Nieuwerkerke, un bello scultore di origine olandese, lasciò la sua casa parigina, mettendosi sotto la protezione di Nicola I. Anatolij cercò di farla tornare ma lo zar gli ordinò di non raggiungere Matilde, di lasciarle tutti i suoi gioielli e di passarle 200.000 franchi l’anno di rendita. Nonostante si fosse separato con tanto clamore 75. Lettera di Napoleona a Matilde Bonaparte, 20 ottobre 1841, ivi. 76. Dispaccio del 19 luglio 1844 del ministro francese a Firenze Louis Pierre Bellocq al ministro degli Esteri François Guizot (Archives des Affaires Étrangères, Toscane, vol. 177, f. 171, Direction Politique, n. 99), cit. in Commandant Weil, Les Bonaparte (Jérôme et Caroline) à Florence. La mort de Madame Mère (1836). La mort et la succession de Caroline (mai 1839-octobre 1842), in «Revue des études napoléoniennes», t. XVI (lugliodicembre 1919), pp. 133-156, p. 142. 77. Mémoires du comte Horace de Viel-Castel sur le règne de Napoléon III (18511864), Paris 1883-1884, vol. VI, p. 75, giovedì 5 luglio 1860.

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da sua cugina, Napoleona continuò a frequentare Demidov, a ospitarlo a Villa Vicentina, a chiedergli consigli finanziari e denaro in prestito, e a offrirsi di fare affari con lui; lui accettava l’ospitalità, ma rifiutava decisamente di darle denaro, pretendendo anzi con puntiglio la restituzione delle somme (anche piccole), che le aveva già dato. Nel 1845 Napoleona aveva comprato una casa a Firenze, il cosiddetto Casino Pecori vicino al ponte della Carraia in Oltrarno, ma la sua situazione economica era vicina al disastro: pur non potendo toccare i possedimenti di Bologna, ne aveva già impegnato in anticipo le rendite; aveva inoltre gravato la tenuta di Villa Vicentina di ipoteche per 600.000 franchi, e doveva pagare cambiali per 380.000 franchi. Era così disperata che cercò anche in tutti i modi (ma inutilmente) di vendere – tramite Demidov – il gran collier dell’ordine del Toson d’oro, appartenuto a Napoleone e all’imperatore di Spagna Carlo V, che le era arrivato in eredità. Alla fine, spaventata e senza via di scampo si rivolse, perché l’aiutasse ad uscire dai guai, al figlio Napoleone, che aveva ormai 19 anni e stava tranquillamente seguendo gli studi universitari a Strasburgo. Lo tormentò a lungo quando il giovane, alla fine del 1845, se ne tornò all’università, riversandogli addosso le sue angosce e le sue difficoltà, sollecitandolo a ricorrere al padre perché tirasse fuori il denaro che le era necessario, chiedendogli di lasciare gli studi per farsi carico di tutta l’amministrazione. Napoleone Camerata era diventato un bel ragazzo, identico a Gerolamo nei lineamenti e nella voce; era coscienzioso, delicato, disponibile e pieno di attenzioni (Demidov scrisse a Napoleona che «Nap […] ha il talento di farmi bene all’anima ogni volta che mi scrive», salvo eclissarsi quando il giovane gli chiese un aiuto finanziario).78 Si preoccupò moltissimo della situazione della madre: «è soltanto con l’ordine e una stretta economia che potrai rimetterti in sesto»,79 le consigliò accorato; la supplicò di non fare più cambiali e le promise di mettersi d’accordo subito con il padre in modo da non gravare più su di lei, almeno per il suo mantenimento. Si rifiutò però, perché non sarebbe stato di alcuna utilità, di lasciare l’università e di andare ad amministrare Villa Vicentina, raccomandando invece alla madre di diminuire le spese, soprattutto nelle scu78. Lettera di Anatolij Demidov a Napoleona [1845], ANP, 400 AP 24. 79. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 10 novembre 1845, ivi, 400 AP 22.

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derie, di vendere i cavalli e di licenziare gli stallieri, e di lasciar perdere «tanti lavori d’abbellimento»80 che invece Napoleona continuava sconsideratamente a ordinare. Lei non ammetteva che nulla le fosse rifiutato e continuò a insistere; Napoleone cercò dapprima di farla ragionare: «non ho alcuna esperienza d’affari e sono del tutto incapace di misurarmi con uomini astuti e esperti d’affari come quelli con cui tu hai a che fare in casi simili è meglio rivolgersi a un avvocato onesto e capace e non a un giovanotto di diciannove anni», rassicurandola al tempo stesso sulla sua tenerezza e sulla sua premura: «stai sicura che ti voglio tanto bene, e che il mio desiderio più caro è di vederti tranquilla e felice. Vorrei vivamente che la tua salute non risentisse affatto di tutti i guai in mezzo a cui stai».81 Tentò di resistere, di convincere la madre che era meglio per lui restare a Strasburgo, non perdere l’anno e finire con calma gli studi, ma lei non volle sentire ragioni, perché non era in grado di sopportare angosce e preoccupazioni, e se ne scaricava subito su chi le era vicino. Il giovane Napoleone era, nei suoi riguardi, particolarmente vulnerabile: dopo tanti anni passati in collegio, solo e lontano dalla famiglia, bruciava di nostalgia per l’affetto materno: «mi faccio una festa di essere nelle tue braccia», le scriveva, «sarò presto vicino a te, e cercherò di consolarti e di dimostrarti che ti voglio bene e te ne vorrò sempre con tanta tenerezza».82 Si era portato dentro a lungo il desiderio di farsi amare e apprezzare dalla madre, di rendersi utile in modo da trattenersela accanto senza che lei gli sfuggisse; aveva sviluppato, nei suoi confronti, un forte senso di responsabilità, un bisogno di proteggerla e salvarla dai problemi e dai disagi in cui si era messa. «Ti prego non dubitare più di me», le scrisse da Strasburgo, «sii sicura che non desidero altro che la tua felicità e la tua tranquillità e che in ogni caso non dimenticherò mai quanto ti devo».83 Alla fine il ragazzo cedette, finì in fretta gli esami e si precipitò a Villa Vicentina e poi ad Ancona, a proporre a Filippo Camerata un progetto di salvezza finanziaria per la madre, anche se per lui il padre era ormai quasi un estraneo («che strano tipo che è mio padre» scrisse a Napoleona).84 80. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, s.d. [ma 1845], ivi. 81. Lettere di Napoleone Camerata a Napoleona, 20 gennaio e 8 febbraio 1846, ivi. 82. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 1 marzo 1846, ivi. 83. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 23 marzo 1846, ivi. 84. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 8 maggio 1846, ivi.

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Filippo prese tempo per decidere e nel frattempo il giovane andò a Bologna ad affittare Palazzo Baciocchi e a vendere quello che poteva di mobili, argenteria e biancheria, per mettere insieme altro denaro liquido; nel giugno 1846, con uno sforzo che lui stesso definì «sovrumano»,85 riuscì a inviare alla madre 70.000 franchi per pagare i debiti più pressanti e, grazie ai primi denari forniti dal padre, ad evitare «qualunque scandalo».86 Si decise quindi (con un rogito del 22 luglio 1846) che Napoleona avrebbe donato tutto il suo patrimonio (beni fidecommissari nel bolognese e beni liberi in Friuli, inclusi tutti i carichi pendenti) al figlio, e che lui le avrebbe in cambio passato un vitalizio di 4.000 franchi l’anno. Filippo (con un contratto firmato il 23 luglio 1846), sulla garanzia delle proprietà bolognesi di cui il figlio era fidecommissario, gli versò infine 350.000 franchi, perché il patrimonio venisse liberato dalle ipoteche. Il giovane si adoperò anche affinché venisse tolta l’interdizione che era stata posta sulla madre per richiesta del marito. Napoleone Camerata fece per tutta l’estate la spola tra Ancona e Bologna, combattendo con i maneggi degli avvocati e le diffidenze del padre, che lo lasciò in sospeso per settimane e cambiò idea più volte. Dovette anche superare le difficoltà create dal contratto di matrimonio della madre (che era stato stipulato con grande leggerezza) e dalle leggi dello Stato pontificio, che la tutelavano molto poco in caso di separazione. Napoleona, per parte sua, stava a Villa Vicentina e rifiutava di muoversi anche quando sarebbe stato necessario per concludere il contratto, perché non voleva seccature; si agitava però e protestava, pretendendo una soluzione immediata: «ti prego», le scrisse con pazienza il figlio, «non ti irritare cerca di restare calma e vieni prima possibile a Bologna».87 Talvolta il povero Napoleone non ne poteva più («Dio quando sarà finito tutto questo e potremo stare un po’ in pace», sospirava),88 e faceva amare riflessioni: «Quanto è doloroso a questo mondo essere costretti a chiedere aiuto agli altri»;89 si annoiava da morire, e (era ancora un ragaz85. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 11 giugno 1846, ivi. 86. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 14 giugno 1846, ivi. 87. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, estate 1846, ivi. 88. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 11 giugno 1846, ivi. 89. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 14 giugno 1846, ivi.

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zo) nella lunga e calda estate anconetana il suo unico svago, tra gli incontri con gli avvocati e il padre, era andarsi a fare il bagno in mare. Quando l’accordo venne finalmente concluso era sollevato ma stanchissimo: «Ecco finalmente portato a buon fine questo disgraziato affare ma non puoi immaginarti quante noie e quanta pazienza ci siano volute per arrivarci»;90 si illudeva anzi che il padre gli avrebbe affidato l’amministrazione dei suoi beni («Non sarei sorpreso se mi cedesse l’amministrazione», scrisse a Napoleona).91 Ma era soprattutto contento di vedere la madre tranquilla e sistemata, con la sua rendita, una comoda casa a Firenze e il soggiorno di Villa Vicentina, sufficienti per farla vivere «onorevolmente e fare ovunque una figura degna della tua posizione».92 Si preoccupava solo che Napoleona gli avesse tenuti nascosti altri debiti, ma per una questione più di affetto che economica: vorrei che tu avesse in me una confidenza piena e intera e che prendendo una volta per tutte una buona risoluzione tu regolassi i tuoi affari in modo da non dover più soffrire la minima difficoltà e non rischiare più di ritrovarti nella sgradevole posizione da cui sei potuta uscire solo con tanta fatica e subendo tante prepotenze.93

Per se stesso, Napoleone progettava un futuro di economie, ritirato in campagna a Villa Vicentina almeno per qualche anno; ancora insicuro di sé, voleva dimostrare al padre e agli avvocati, «che hanno una così buona opinione di me», che non c’era sacrificio che non fosse disposto a fare. Aveva coraggio e buona volontà: Con l’ordine e l’economia spero di cavarmela con onore sempre che il diavolo non ci metta la coda. Puoi capire come sia per me una questione d’amor proprio di fare prosperare l’amministrazione e anche se devo privarmi di ogni piacere per 2 o 3 anni lo farò volentieri.94

Per il momento, girando tra Bologna, Firenze e Roma, continuò a cercare di sbrogliare gli affari della madre, a seguire le istanze inoltrate presso i tribunali pontifici perché venissero regolate le vertenze ancora pen90. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 14 luglio 1846, ivi. 91. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 8 luglio 1846, ivi. 92. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 14 luglio 1846, ivi. 93. Ibidem. 94. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 29 luglio 1846, ivi.

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denti sulla sua dote e sul mantenimento che doveva esserle versato, ad occuparsi dei processi in corso con i parenti Bonaparte. A Firenze vedeva sempre lo zio Gerolamo, a cui si sentiva molto legato, come se sapesse e accettasse che si trattava del suo vero padre. Gerolamo doveva ancora restituire il prestito a Napoleona, ma prometteva di farlo con gli interessi se fosse riuscito ad ottenere la pensione che aveva – senza nessuna remora – chiesto al re di Francia Luigi Filippo. Morti i fratelli maggiori, Gerolamo aveva esaurito tutte le fonti di reddito, anzi rischiava una citazione e un processo per debiti; oltre alla pensione chiesta al governo francese, pretendeva che la figlia Matilde gli passasse 60.000 franchi di pensione, ricattandola con la paura di uno scandalo, «quando tutti sanno che sua figlia ha 200.000 franchi di rendita».95 Napoleone Camerata manteneva anche i contatti con il padre, che doveva finire di versargli il denaro promesso: cercava di tenersi in difficile equilibrio tra i genitori, senza accusare la madre ma mettendo bene in chiaro che disapprovava i suoi sistemi finanziari; fu felice di poter annunciare a Filippo che era stata tolta l’ipoteca accesa con i banchieri Levi e Sinigaglia, ma si dispiaceva – scrupoloso com’era – di avere rilevato nelle lettere del padre «una certa diffidenza verso di me sembrate credermi ingrato e disposto a seguitare l’antico andamento di mia madre od almeno disposto a darle la mano, se credesse il che non possiamo supporre di ricominciare quei giorni fatali per i quali ho già tanto sofferto». Teneva a fargli rilevare che più di una volta ho avuto la consolazione di persuadervi che avevate dei sospetti e dei timori falsi sopra la mia condotta, spero anche questa volta farvi cambiare opinione per quanto possi amare mia madre, per quanto le sia riconoscente degl’immensi sacrifizi che ha fatto per me sarei certo l’ultimo a consigliarli quei giri che l’hanno rovinata e pei quali a [sic] sofferto più di chiunque, ciò sarebbe renderli assai ma assai cattivo servizio.96

Dal marzo del 1847 era riuscito a stabilirsi a Villa Vicentina; vi si trovava bene, andava a cavallo e a caccia, si occupava con piacere dei lavori della campagna, della semina, delle bestie e dell’amministrazione della 95. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 19 luglio 1847, ivi. 96. Copia della lettera di Napoleone Camerata al padre Filippo, nella lettera a Napoleona del 13 luglio 1847, ivi.

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filanda: dopo tanto tempo, era finalmente tranquillo a casa sua. Se ne staccava malvolentieri, quando doveva andare per affari a Bologna o a Firenze: «Dammi notizie della Villa sono impaziente di ritornarvi»,97 scrisse alla madre nell’estate del 1847. Era molto amato dalla gente della tenuta; un suo amico del paese lo ricordava molti anni dopo come un giovane «molto semplice, di modi affabilissimi, adorato e stimato da tutti in generale e dai suoi dipendenti in particolare».98 Cominciavano frattanto a vedersi i primi timidi risultati positivi della sua gestione: i debiti più urgenti erano stati pagati e i beni bolognesi cominciavano a rendere. Nelle lettere alla madre, tra i problemi finanziari, Napoleone inseriva talvolta degli accenni alla situazione politica; all’inizio di giugno del 1846 le scrisse che Luigi Napoleone era evaso dal forte di Ham (e la lontananza di Napoleona dal suo antico compagno di congiure è misurabile dalla mancanza di qualunque cenno, nella sua corrispondenza, sia al mancato colpo di mano del cugino a Boulogne ai primi d’agosto 1840, sia alla sua susseguente, lunga prigionia), e che – morto papa Gregorio XVI il 1 giugno 1846 – Bologna si manteneva tranquilla, ma correva la voce che 20.000 austriaci avessero passato il Po. Nei mesi seguenti, dopo l’assunzione al soglio pontificio il 16 giugno del cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti con il nome di Pio IX, Napoleone Camerata raccontò a Napoleona di avere incontrato, a una cena dallo zio Gerolamo, il generale Pier Damiano Armandi che aveva guidato i moti del 1831 ed era appena tornato dall’esilio francese («un uomo notevolissimo e che credo sia destinato ad avere un grande ruolo a Roma»),99 molto legato a Pellegrino Rossi allora ambasciatore di Francia a Roma; nel luglio 1847 le scrisse che il papa aveva concesso la Guardia nazionale, commentando che «Il popolo ha costretto il papa con adunate ecc. a molte concessioni che il papa non sembrava volergli accordare!!!».100 Con l’elezione di Pio IX, lo Stato della Chiesa sembrava entrato in una fase di rinascita, dopo i lunghi anni di repressione esercitata dal suo 97. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 11 luglio 1847, ivi. 98. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, II parte, p. 153. 99. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 25 ottobre 1846, ANP, 400 AP 22. 100. Lettera di Napoleone Camerata a Napoleona, 11 luglio 1847, ivi.

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predecessore; nel 1831 Gregorio XVI si era rifiutato di sanzionare l’amnistia promessa dai suoi delegati, punendo con intransigenza i colpevoli della rivolta. Aveva poi completamente ignorato le istanze che gli erano state presentate nel maggio 1831 con un Memorandum dalle potenze straniere, affinché apportasse miglioramenti nell’amministrazione finanziaria e giudiziaria del suo Stato, e per tutto il suo regno aveva ribadito la condanna del liberalismo e riaffermato con forza il potere temporale. Ciò nonostante, la ribellione aveva continuato a serpeggiare, soprattutto nelle Marche e in Romagna, dove aveva preso peso e importanza la Giovane Italia repubblicana fondata da Giuseppe Mazzini, un’organizzazione unitaria molto più efficiente e strutturata degli sparpagliati gruppi di carbonari. Alla morte del papa non solo la situazione sociale e politica degli Stati romani era ormai degradata, ma erano ridotte al collasso anche le loro condizioni economiche e finanziarie: in un mondo che stava evolvendosi con sempre maggiore rapidità, lo Stato pontificio rimaneva immobile e tagliato fuori dal progresso tecnico, retto e governato da una gerarchia quasi esclusivamente ecclesiastica, diffidente nei confronti di ogni novità, incapace di individuare e punire la corruzione presente ovunque, totalmente dipendente per mantenere l’ordine pubblico dall’appoggio militare austriaco. La rigidità e l’ottusità del governo pontificio erano diventate così plateali da suscitare l’indignazione, e la richiesta di rinnovamento, anche tra i politici più moderati e di provata fede cattolica. Nel suo primo mese di regno Pio IX concesse l’amnistia ai condannati per reati politici, e le feste popolari con cui venne accolto l’Editto del perdono diedero la misura di quanta esasperazione covasse sotto la cenere. Il papa procedette con passi prudenti ma continui: in novembre promosse commissioni di studio per le riforme da compiere, nel marzo dell’anno successivo venne pubblicata la legge sulla stampa che allentava (senza abolirla) la censura preventiva, il 19 aprile 1847 venne creata la Consulta di Stato (composta da rappresentanti delle province pontificie), a metà giugno venne istituito il Consiglio dei ministri (sempre formato da ecclesiastici), ai primi di luglio – come annunciava Napoleone Camerata – veniva costituita la Guardia civica per Roma e province. Ancora, il papa protestò – appoggiato dal re di Sardegna Carlo Alberto – presso la corte di Vienna quando, nel luglio 1847, Ferrara fu occupata dalle truppe austriache.

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Anche altri Stati italiani sembravano disposti a nuove aperture: nel maggio 1847 il granduca di Toscana Leopoldo II concesse una maggiore libertà di stampa e di istruzione, prospettò una riforma dei codici e, nel settembre, concesse la Guardia civica; Carlo Alberto annunciò interventi in campo amministrativo e sociale e infine, il 3 novembre 1847, lo Stato pontificio, il Granducato di Toscana e il Regno di Sardegna formarono una lega doganale. Non si parlava affatto di cambiamenti, invece, nel Regno delle due Sicilie, dove le sommosse in Calabria e a Messina in settembre, e a Napoli in dicembre, vennero duramente represse, e così nel Ducato di Modena e a Parma, dove – morta Maria Luisa il 18 dicembre 1847 – si erano reinsediati i Borboni. Napoleona non sembrava coinvolta in questo agitarsi di speranze; nel gennaio 1848 se ne stava a Villa Vicentina, seguendo da lontano i lavori di restauro e ripulitura della sua casa fiorentina. Aveva trovato modo – perché la disturbavano – di prendersela con i renaioli che estraevano la rena dall’Arno di fianco al suo palazzo, e di citarli presso il magistrato (che però rifiutò la sua istanza), affinché si spostassero a lavorare su un altro punto del greto del fiume. Era ancora a caccia di soldi: cercò di vendere una delle sue carrozze a Demidov, che le rispose cortesemente di non averne bisogno, e con altrettanta urbanità le rifiutò un prestito, ricordandole (nonostante gli sforzi del figlio, Napoleona di debiti ne aveva ancora) come entro il 6 febbraio lei gli dovesse restituire 4.000 franchi: «Quando questo debituccio sarà restituito», aggiunse, «sarò allora prontissimo a farvi un nuovo prestito».101 Ma il 1848 era appena cominciato e, nel giro di qualche mese, la vita di Napoleona Baciocchi avrebbe preso un corso del tutto imprevisto.

101. Lettera di Anatolij Demidov a Napoleona, 6 gennaio 1848, ivi, 400 AP 24.

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Le rivolte popolari che, nel corso del 1848, scuoterono i paesi europei, erano di ben altre dimensioni dei moti degli anni Trenta, e molto diverse erano le richieste fatte ai governanti. I carbonari erano pochi, legati tra loro da giuramenti solenni; sognavano di recuperare l’esperienza rivoluzionaria o le speranze patriottiche vissute sotto Napoleone ma – privi di qualunque influenza – avevano dovuto cercare l’appoggio e stringere alleanze segrete con personalità o dinastie con proprie ambizioni, che li usarono e poi li tradirono o li abbandonarono quando non potevano più essere loro utili. Le moltitudini che insorsero a partire dai primi mesi del 1848 (in quella che già allora venne chiamata la «primavera dei popoli») erano vaste e si muovevano in modo spontaneo, attorno a nuclei politicamente preparati e strutturati, composti da persone più giovani, nate durante o dopo il periodo napoleonico. All’inizio non venivano chiesti cambiamenti chimerici, o ribaltamenti dei poteri stabiliti, ma l’allontanamento di ministri particolarmente sgraditi e Costituzioni che rendessero le masse popolari – anche se solo in parte – partecipi del governo del loro paese, o riconoscessero le identità nazionali. Non vi furono colpi di mano o complotti segreti, le folle riempivano le vie e le piazze (furono sollevazioni quasi esclusivamente cittadine), inneggiando ai governanti quando questi esaudivano le loro richieste; sembrò allora possibile che i popoli e i loro reggenti trovassero un accordo senza rivoluzioni violente e sanguinose. In Italia gli animi erano già esaltati e le spinte al sollevamento erano più forti, perché la penisola era frazionata in molti e differenti Stati, con il Lombardo-Veneto sotto il diretto controllo austriaco, e quasi tutti gli altri governi legati da patti di alleanza e protezione all’Austria. Si cominciò a

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Milano il 1 gennaio con lo sciopero del fumo, per colpire il fisco austriaco, poi i disordini si estesero al resto della Lombardia, a Livorno, alla Sicilia e a Napoli, finché – nel giro di poche settimane – Ferdinando II di Borbone, il granduca Leopoldo II di Toscana, re Carlo Alberto in Piemonte, papa Pio IX e il duca Carlo II a Parma, si decisero a concedere uno dopo l’altro la Costituzione. Ma la Lombardia e il Veneto volevano anche scrollare il giogo dell’Austria, e tra la metà e la fine di marzo Milano e Venezia si sollevarono e cacciarono le truppe austriache; il 23 marzo re Carlo Alberto annunciò l’intervento piemontese a fianco delle popolazioni insorte, e al suo esercito si aggiunsero i volontari che affluivano da tutta Italia. I piemontesi e i loro alleati conquistarono le prime, inaspettate vittorie a Goito e Pastrengo, ma troppo precarie e incerte erano le forze su cui contavano: alla fine di aprile Pio IX richiamò i volontari romani, dichiarando di non voler prendere – in quanto pontefice di tutti – le parti di nessuno dei contendenti in conflitto; lo seguirono subito, chiedendo il ritorno dei loro corpi di spedizione, il granduca di Toscana e il re di Napoli. Tra giugno e luglio le armate austriache ripresero il sopravvento sui piemontesi, ai primi di agosto tornarono a Milano e il 9 agosto costrinsero Carlo Alberto a firmare l’armistizio. In Austria, il 13 marzo, una grande manifestazioni di studenti e lavoratori a Vienna aveva costretto l’imperatore Ferdinando I (successo al padre Francesco I nel 1835) a concedere la Costituzione e a licenziare Metternich, che – dopo quasi quarant’anni di permanenza al potere – dovette fuggire e nascondersi finché le acque non si furono calmate; nei giorni seguenti insorsero Budapest e Praga, proclamando dei governi nazionali provvisori e chiedendo l’indipendenza. L’esercito imperiale ebbe ragione delle città ribelli, ma a ottobre Vienna si sollevò ancora, venne cinta d’assedio e occupata; a dicembre Ferdinando I dovette infine cedere e abdicare, lasciando il trono al giovane nipote Francesco Giuseppe, destinato a regnare sull’Impero austriaco fino alla prima guerra mondiale. In Germania, le sommosse di Berlino costrinsero il re di Prussia Federico Guglielmo IV a concedere la Costituzione e a promettere di impegnarsi per l’unificazione della nazione tedesca; nel maggio venne riunita a Francoforte un’Assemblea nazionale costituente rappresentativa di tutti gli Stati della confederazione germanica, che lavorò a lungo ma non riuscì a trovare un accordo, e l’anno seguente si sciolse.

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Fu tuttavia in Francia che la sollevazione popolare riuscì – in poche e concitate giornate – a rovesciare il potere del re e a cambiare il regime: il 22 febbraio 1848 il governo di François Guizot proibì un corteo e un banchetto organizzati dall’opposizione, che reagì con una manifestazione spontanea; il 23 mattina le strade di Parigi si coprirono di barricate e Guizot fu costretto a dimettersi, ma la sera la truppa fece fuoco sui dimostranti, lasciando numerosi morti. La ribellione prese forza e il 24 Luigi Filippo dovette abdicare in favore del nipote e fuggire in Inghilterra, mentre i repubblicani e i democratici formavano un governo provvisorio, insediato all’Hôtel de Ville di Parigi e presieduto dal poeta Alphonse de Lamartine; la mattina del 25 febbraio il nuovo governo proclamò solennemente la Repubblica, il 5 marzo fu deliberato il suffragio universale maschile, e le elezioni per l’Assemblea costituente vennero fissate per il 23 aprile. In queste elezioni (che portarono all’Assemblea una maggioranza di repubblicani moderati e di ex deputati orléanisti) risultarono nominati tre dei figli dei fratelli di Napoleone, ormai tutti vicini od oltre la quarantina: Pietro (figlio di Luciano), Napoleone Gerolamo (figlio di Gerolamo), e Luciano Murat (figlio di Carolina e di Gioacchino Murat). Alle elezioni successive vennero eletti anche Luigi Napoleone, e altri due figli di Luciano, Luigi Luciano e Antonio. Gerolamo Bonaparte aveva da tempo chiesto a Luigi Filippo l’abrogazione della legge che esiliava dalla Francia lui e suo figlio Napoleone Gerolamo; si accontentò alla fine dell’autorizzazione – concessagli alla fine del 1847 – di tornarvi e restarvi tre mesi. Andò a ringraziare il re alle Tuileries; fu ben ricevuto e Luigi Filippo si dimostrò anche disposto ad aiutarlo nelle sue difficoltà economiche – dopo la fuga del re furono trovate sulla sua scrivania due ordinanze, che nominavano Gerolamo pari di Francia e gli accordavano una pensione di 100.000 franchi. L’improvvisa caduta della monarchia orléanista gli sembrò tuttavia un’occasione da non perdere: già il 26 febbraio scrisse ai membri del governo provvisorio ricordando loro di essere «Il vecchio soldato di Waterloo, l’ultimo fratello vivente di Napoleone», rassicurandoli sulle sue ambizioni: «Il tempo delle dinastie è passato per la Francia!» e chiedendo la definitiva cancellazione della legge d’esilio, ultima conseguenza dei trattati del 1815: «Chiedo che il governo della Repubblica proclami che la mia proscrizio-

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ne era un’ingiuria per la Francia ed è scomparsa con tutto quanto ci era stato imposto dallo straniero».1 Suo figlio Napoleone Gerolamo aveva già dal 1844 ottenuto dal governo di Guizot il permesso di tornare brevemente in Francia, ma si era subito legato con i capi del partito democratico e il governo, allarmato, si era affrettato ad allontanarlo. Rientrato con il padre nel 1847, pubblicò anche lui il 26 febbraio una lettera di formale adesione alla Repubblica, «essendo dovere di ogni buon cittadino di raccogliersi intorno al governo provvisorio della Repubblica».2 Il 23 aprile venne eletto rappresentante della Corsica all’Assemblea costituente; l’altro deputato della Corsica era suo cugino Pietro, un personaggio inquietante, con alle spalle un passato tempestoso e violento: era scappato di casa a sedici anni per unirsi ai moti del 1831, aveva poi combattuto nelle guerre sudamericane, era tornato in Italia ma ne era stato esiliato per aver ucciso un ufficiale pontificio e aveva in seguito vagabondato per l’America e l’Europa. Negli anni precedenti il 1848 si era stabilito nei boschi delle Ardenne, da dove aveva offerto la sua spada ai regnanti europei, che l’avevano regolarmente rifiutata; quando scoppiò la rivoluzione di febbraio si precipitò in Francia e il 29 febbraio scrisse ai membri del governo provvisorio che «figlio di Luciano Bonaparte, nutrito delle sue idee repubblicane, idolatrando come lui la grandezza e la felicità della Francia» accorreva «figlio della patria» per mettersi a loro disposizione, dominato da «un patriottico entusiasmo» e dalla convinzione che «la prosperità e l’avvenire della Repubblica sono stati decisi il giorno in cui il Popolo vi ha messi alla sua testa».3 Pietro, come gli altri Bonaparte, si era presentato al governo provvisorio e all’opinione pubblica come convinto e fedele sostenitore della Repubblica, ma tutti loro vennero in realtà scelti dagli elettori soprattutto per il prestigio del nome che portavano e delle memorie che evocavano. Non fu invece facile il ritorno di Luigi Napoleone, rifugiatosi a Londra dopo la fuga dal forte di Ham nel 1846; il 27 febbraio il principe si imbar1. Cit. in Dictionnaire des parlémentaires français, comprenant tous les Membres des Assemblées françaises et tous les Ministres français, depuis le 1er mai 1789 jusqu’au 1er mai 1889…, publié sous la direction de A. Robert et G. Cougny, Bourloton, Paris 1889, vol. I, p. 377. 2. Ibidem, p. 380. 3. Ibidem, p. 378.

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cò per la Francia e, appena giunto a Parigi, si annunciò anche lui al governo provvisorio: «avendo il popolo di Parigi distrutto con il suo eroismo le ultime vestigia dell’invasione straniera, accorro dall’esilio per schierarmi sotto la bandiera della Repubblica appena proclamata». Pur se mise subito in chiaro di non avere altra ambizione che quella «di servire il mio paese»,4 le sue imprese precedenti e il suo status di pretendente lo rendevano molto più sospetto dei cugini, e Lamartine dovette pregarlo di andarsene al più presto e di tornare solo quando la situazione si fosse stabilizzata. Non si presentò alle elezioni del 23 aprile, ma alle votazioni complementari del 4 giugno risultò eletto in quattro dipartimenti. La sua nomina venne contestata e poi validata; Luigi Napoleone decise di dare comunque le dimissioni e si trovò quindi – per sua fortuna – lontano dalla Francia e dalla politica durante l’insurrezione popolare del 23 giugno e la conseguente, feroce repressione condotta nei giorni successivi dal generale Cavaignac. Nel frattempo, con l’aiuto dei suoi più fedeli seguaci (Persigny, che gli era vicino dai tempi dell’affare di Strasburgo del 1836, il segretario Mocquard, il comandante Fleury), Luigi Napoleone cercava e tesseva alleanze, si costruiva un suo originale ruolo politico, metteva in piedi un sistema di propaganda. Era un sistema basato su un’efficace mescolanza di orgoglio nazionale, di desiderio di ordine e insieme di attenzione per le difficoltà della parte più povera della popolazione – gli operai e i contadini – attenzione che Luigi Napoleone aveva già espressa nel 1844 nel pamphlet Extinction du paupérisme, scritto durante la prigionia a Ham; il collante di più intensa carica emotiva era però la tradizione napoleonica, quel «feticismo bonapartista»5 di cui parlava il deputato democratico Pierre Joigneaux, che opponeva militari e borghesi, di fede repubblicana, a un’aristocrazia irrigidita e devota, legata alle monarchie borboniche. Il popolo aveva dimenticato il governo dispotico di Napoleone, e quanti uomini avessero ingoiato le sue guerre; amava invece ricordare l’imperatore delle petits gens celebrato nella canzoni di Béranger, il sovrano brusco ma giusto e generoso, il cui motto era stato «Tout pour le peuple français». I suoi vecchi soldati raccontavano di averlo visto, di avergli parlato, conservavano come tesori i ricordi della sua epoca e, mentre i capi 4. Cit. in A. Dansette, Louis-Napoléon à la conquête du pouvoir, Hachette, Paris 1961, p. 218. 5. P. Joigneaux, Souvenirs historiques, Marpon et Flammarion, Paris 1891, t. I, p. 15.

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repubblicani erano conosciuti solo da una ristretta élite operaia e cittadina, il ricordo dell’imperatore era presente in tutte le classi della società, era entrato nella memoria collettiva anche degli analfabeti, si era diffuso in tutti i villaggi della Francia. Alle elezioni parziali del 17 settembre, Luigi Napoleone venne rieletto in cinque dipartimenti, e stavolta accettò; l’11 ottobre, una legge aboliva definitivamente l’esilio per i Bonaparte. Ai vecchi capi di partito (i Burgraves, come vennero chiamati un paio d’anni dopo dal titolo di un dramma di Victor Hugo), agli ex orléanisti, ai repubblicani moderati, il principe sembrò un personaggio incerto e malleabile, poco brillante alla tribuna, del tutto privo della prepotenza e dell’incisività dello zio: Thiers all’inizio lo giudicò «un cretino» che si sarebbe lasciato guidare, il duca de Broglie un avventuriero «insieme folle e incapace», Lamennais «una specie di idiota»;6 anche Proudhon lo reputò un mediocre. Quindi, quando presentò la sua candidatura alla presidenza della Repubblica in competizione con il generale Cavaignac (un repubblicano intransigente ma odiato dalle masse popolari dopo le giornate sanguinose di giugno), il parti de l’ordre decise di appoggiarlo; a sostenerlo fu soprattutto Thiers che aveva capito come Luigi Napoleone – sostenuto dai militari e dalla fama del suo nome – avesse più chances di tutti. Thiers sperava di fargli adottare il suo programma elettorale, ma in realtà il principe aveva già un suo progetto e suoi collaboratori di fiducia, anche se fingeva di accettare con deferenza i consigli degli uomini politici più navigati; nei lunghi anni di complotti, di esilio e di prigionia, aveva raffinato la sua abilità a nascondere sotto un’aria neutra e cortese i suoi veri intenti. Il 10 dicembre Luigi Napoleone venne eletto presidente della Repubblica a stragrande maggioranza, raccogliendo i voti del popolo delle grandi città, dei quartieri operai di Parigi e – soprattutto – il voto massiccio dei contadini: il popolo era stato brutalmente deluso dal governo repubblicano, e cantava Voulez-vous du mic-mac Choisissez Cavaignac. Voulez-vous d’la canaill’ Choissez Monsieur Raspail. 6. Cit. in Dansette, Louis-Napoléon à la conquête du pouvoir, p. 237.

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Mais voulez-vous du bon Choisissez Napoléon. (Volete un pasticcio Scegliete Cavaignac. Volete una canaglia Scegliete Monsieur Raspail. Ma se ne volete uno buono Scegliete Napoleone).7

Come vice-presidente il principe scelse Henri Boulay de la Meurthe, un deputato non molto conosciuto ma legato da tempo ai Bonaparte. Il nuovo presidente (che veniva chiamato le prince-président) reputava certo utile la presenza dei suoi parenti nell’Assemblea e in Francia, e – nel caso – sapeva avvantaggiarsene: per la sua elezione si fece aiutare finanziariamente dalla cugina Matilde, e sfruttò l’alone di leggenda che ancora circondava lo zio Gerolamo, l’ultimo fratello rimasto dell’imperatore; usò Napoleone Gerolamo come tramite con gli ambienti democratici e contò sui voti dei cugini, ma non si fidava ciecamente di loro e non li faceva partecipi dei suoi progetti, temendo – spesso a ragione – che volessero far prevalere le loro ambizioni personali. Trovò invece un efficace consigliere e alleato nel fratellastro Charles-Auguste de Morny (figlio illegittimo di Ortensia e del generale de Flahaut), che incontrò per la prima volta al suo arrivo a Parigi, ma di cui imparò presto ad apprezzare l’intelligenza e la capacità di mediazione. Napoleona giunse a Parigi alla fine del 1848; si considerava anche lei di ritorno dall’esilio, come se la sua vera patria fosse la Francia in cui era stata solo da bambina, e non l’Italia dove aveva passato tutta la vita. Riprese il nome di principessa Baciocchi e, tra Gerolamo e i suoi cugini, si sentiva ancora una volta al sicuro, «nel seno della sua famiglia»; inoltre – con la sua cronica, compulsiva avidità di denaro – l’arrivo al potere di Luigi Napoleone le sembrava l’opportunità ideale per risolvere i suoi problemi economici. Si buttò con slancio nella vita politica: era una donna e non poteva essere eletta deputato come i suoi cugini, ma appena possibile andava ad assistere alle sedute dell’Assemblea, e tormentava Boulay de la Meurthe per avere i biglietti necessari («mi sono persa ieri Lamartine 7. Cit. ibidem, p. 251.

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si dice che Thiers parlerà oggi e non avendolo mai sentito desidero molto andare all’Assemblea»),8 soprattutto quando la seduta prometteva di essere «agitatissima»9 o «interessante e scandalosa».10 La sua presenza a Parigi fece riemergere il ricordo dell’avventura del 1830, romanzata e arricchita di particolari fantasiosi: il giornale parigino «Spectateur», ripreso dal giornale fiorentino «Il Conciliatore», raccontava come Napoleona si fosse adoperata sotto mano, fino alla morte del Duca di Reichstadt, a fomentare una rivoluzione italiana in favore di lui, che non aveva mai cessato di essere per lei il Re di Roma. Nella sua fanciullezza graziosissima era la figlia di Elisa; fu passionata fino alla stravaganza, e di un’attività di spirito spinta all’intrigo. Non ebbe sul Duca di Reichstadt viste solamente politiche; nutrì dei progetti d’amore.11

In realtà Napoleona non sembrava interessata agli eventi che ancora travagliavano l’Italia; soprattutto, non si fece coinvolgere nell’esaltante e tragica vicenda della Repubblica romana, come se si fosse ormai lasciata definitivamente alle spalle le esperienze e i legami passati. Nel settembre 1848, Pio IX aveva nominato capo del suo governo Pellegrino Rossi, il giurista ed economista di origine toscana che era diventato pari di Francia e poi ambasciatore di Luigi Filippo a Roma e che, dopo la caduta del regno orléanista, era rimasto a Roma come consigliere del pontefice. Rossi aveva tentato – con una politica rigorosa e repressiva – di riprendere in mano il potere lasciato al Parlamento eletto, ma il 15 novembre venne assassinato dal figlio di Ciceruacchio, uno dei capi del partito popolare. Ne seguirono tumulti e la formazione di un nuovo governo di idee più avanzate, che chiese al papa l’elezione di un’Assemblea costi8. Lettera di Napoleona al conte Henri-Georges Boulay de la Meurthe, s.d., Archivio del MN, inv. 10324/25. 9. Lettera di Napoleona al conte Henri-Georges Boulay de la Meurthe, 5 febbraio 1850, ivi, inv. 10324/19. 10. Lettera di Napoleona al conte Henri-Georges Boulay de la Meurthe, 13 maggio 1850, ivi, inv. 10324/23. 11. «Il Conciliatore», II, 42 (11 febbraio 1849). Qualche anno dopo, sotto il Secondo Impero, Guy de l’Hérault, nella sua biografia del duca di Reichstadt, ripeté la stessa descrizione di fantasia della vicenda (G. de l’Hérault, Histoire de Napoléon II, roi de Rome, H. Morel, Paris 1853, pp. 212-217).

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tuente, in vista dell’adesione a uno Stato italiano unitario. Il 24 novembre Pio IX, incapace di controllare la situazione, fuggì da Roma e si rifugiò a Gaeta sotto la protezione del re di Napoli, designando una Commissione governativa che gestisse gli affari politici; il Consiglio dei deputati decise invece di indire le elezioni per la Costituente e nominò una Provvisoria e Suprema Giunta di Stato, che reggesse il potere esecutivo con il compito di «serbare l’ordine interno, aiutare lo svolgimento delle libere istituzioni, ricondurre la prosperità in ogni classe, cooperare con ogni sforzo al conseguimento della Indipendenza Nazionale».12 La Giunta era composta da persone scelte fuori dal Parlamento: il senatore di Roma Tommaso Corsini, il senatore di Bologna Gaetano Zucchini (sostituito poi da Giuseppe Galletti) e il gonfaloniere di Ancona Filippo Camerata. Filippo Camerata tornava quindi alla ribalta, dopo tanti anni passati oscuramente in provincia; era stato scelto anche per ingraziarsi il presidente della Repubblica francese, suo parente acquisito e compagno di congiure nel 1831. Nella sua cronaca Luigi Carlo Farini lo giudicò «per dovizia, per rettitudine e pieghevolezza dell’animo, più che per ingegno e dottrina, notabile», insomma un brav’uomo, ricco e docile ma di nessuna levatura intellettuale e personale e che, diventato gonfaloniere di Ancona «in tempi di universale commozione», si era barcamenato come poteva: di libertà amico non avventato, né pure caldo forse, aveva accettato il supremo ufficio per fuggire i pericoli che il ricusare poteva trar seco in Ancona: uomo da esser governato dagli eventi, dai colleghi, dal timore, non da governare uomini ed eventi.13

Filippo aveva esitato ad assumere l’incarico, dichiarando che la popolazione in realtà desiderava la convocazione immediata di una nuova Assemblea; eppure – per quanto titubante – rimase al suo posto nella Giunta di Stato fino alle elezioni della Costituente, di cui venne nominato deputato. Dopo la caduta della Repubblica romana, andò esule a Firenze pres12. «Programma della Suprema Giunta di Stato, indirizzato Ai Popoli degli Stati Romani il 20 dicembre 1848», cit. in D. Demarco, Una rivoluzione sociale. La Repubblica Romana del 1849 (16 novembre 1848-3 luglio 1849), Mario Fiorentino, Napoli 1944, p. 62. 13. L.C. Farini, Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1850, 4 voll., a cura di A. Patuelli, Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma [1990] (riproduzione dell’ed. Le Monnier, Firenze 1850-1853), p. 485.

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so il suo amico Pompeo Azzolino e lì, senza più far parlare di sé, visse molti anni ancora, fino alla morte nel 1882. Le elezioni per l’Assemblea costituente (a suffragio universale maschile) si svolsero regolarmente il 21 gennaio 1849, nonostante Pio IX avesse proibito ai suoi sudditi di parteciparvi. I deputati eletti, convocati per la prima volta il 5 febbraio, proclamarono la Repubblica, il cui governo venne affidato a un triumvirato composto da Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti; gli ultimi due furono sostituiti in marzo da Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi. L’Assemblea cominciò subito a lavorare a ritmo serrato, occupandosi dei tanti problemi economici e sociali che affliggevano gli Stati romani; nei suoi pochi mesi di vita, vi vennero discussi e deliberati provvedimenti che riguardavano temi di grande rilevanza in campo politico, amministrativo e civile, dalla soppressione dell’Inquisizione e l’abolizione della censura alla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici (che dovevano essere suddivisi e dati in affitto ai contadini), all’apertura del Ghetto ebraico. Vicepresidente dell’Assemblea costituente venne eletto un altro Napoleonide, Carlo Luciano Bonaparte. Fino a una decina d’anni prima quest’ultimo si era occupato solo di studi zoologici, in cui aveva raggiunta una notorietà internazionale, ma partecipando all’organizzazione dei Congressi degli scienziati italiani (che presto assunsero un colore politico) si era fatto sempre più coinvolgere nel movimento liberale e unitario, fino ad assumere un ruolo di spicco nella vita pubblica romana. Il 23 marzo 1849 i piemontesi, che avevano nel frattempo ripreso la guerra, vennero definitivamente sconfitti dall’esercito austriaco a Novara, e re Carlo Alberto fu costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele; per poter riprendere il pieno controllo dell’Italia l’Austria doveva ormai solo schiacciare la Repubblica veneziana, e riportare il papa a Roma. Il governo austriaco si accordò con il re di Napoli e il governo spagnolo per aggredire la Repubblica romana, chiedendo anche alla Francia di partecipare alla spedizione. L’Assemblea costituente francese si divise sulla decisione da prendere, tra i democratici avversi al potere temporale e i conservatori che vi erano invece favorevoli, eventualmente pretendendo una riforma in senso liberale del governo del papa. Luigi Napoleone esitò a lungo, trattenuto dalle sue personali convinzioni; temeva però che l’Austria si impadronisse dello Stato romano e vi instaurasse un regime assolutistico e – soprattutto – sentiva come il suo ruolo nel

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governo non fosse ben saldo, e non voleva perdere l’appoggio dei cattolici francesi. Il 16 aprile l’Assemblea decise di mandare un corpo di spedizione a Roma, con il voto contrario della Montagne (la parte più radicale dell’Assemblea); dei deputati cugini del presidente, Luciano Murat votò a favore e Pietro Bonaparte contro. La Repubblica romana venne stretta da una manovra a tenaglia: gli austriaci calarono da Nord verso Bologna e Ancona, mentre gli spagnoli e i napoletani salivano da Sud e il corpo di spedizione francese, agli ordini del generale Oudinot, sbarcava a Civitavecchia. A Roma arrivarono volontari da tutta la penisola, con in testa Garibaldi e la sua Legione italiana; si batterono con un tale coraggio da respingere il 30 aprile i francesi che avevano attaccato la città, e da fermare a Palestrina e Velletri l’esercito borbonico. Luigi Napoleone – fosse per prendere tempo in attesa delle elezioni dell’Assemblea legislativa, o perché desiderava trovare una soluzione pacifica – mandò a Roma il diplomatico Ferdinand de Lesseps a tentare una mediazione con il governo repubblicano; de Lesseps stipulò una convenzione con il governo della Repubblica, che sospendeva le ostilità e proponeva un voto popolare con cui i romani avrebbero deciso la loro sorte, sotto la protezione dell’esercito francese. Le elezioni del 13 maggio segnarono però in Francia il trionfo del parti de l’ordre; i deputati appena eletti respinsero subito la protesta della Montagne, che ricordava come secondo l’articolo V della Costituzione la Repubblica francese si impegnasse a rispettare «le nazionalità straniere», a non intraprendere «nessuna guerra a scopo di conquista» e a non impiegare mai «le sue forze contro la libertà di nessun popolo». Luigi Napoleone lasciò cadere ogni ipotesi di mediazione, Lesseps venne sconfessato e richiamato in patria, Oudinot ricevette rinforzi e nuove istruzioni e vincendo una disperata, leggendaria resistenza degli assediati i francesi occuparono la città il 3 luglio, mentre – come ultimo atto di affermazione di sé – l’Assemblea della Repubblica romana votava la sua Costituzione. Ancora qualche settimana, e alla fine d’agosto 1849 anche Venezia venne riconquistata dagli austriaci. Carlo Luciano Bonaparte, mandato in extremis dal governo della Repubblica come ambasciatore a chiedere aiuto all’estero, venne esiliato da Roma dove era rimasta la sua famiglia, e dovette vagare a lungo fra l’Inghilterra e l’Olanda; chiese ripetutamente al governo francese il permesso di stabilirsi a Parigi, ma Luigi Napoleone – che non voleva in

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Francia un membro della famiglia così compromesso con la Rivoluzione romana – glielo negò per molti mesi. Tra i due cugini si interpose generosamente (al contrario di altri Bonaparte, che si rifiutarono di intervenire presso il presidente) Napoleona, che pure negli anni precedenti aveva più volte avuto con Carlo Luciano litigi e scontri per motivi finanziari. Nel luglio del 1850, dopo un colloquio con Luigi Napoleone, scrisse a Carlo Luciano che il presidente non si opponeva più al suo ritorno in Francia, con la sola condizione che si impegnasse ad andarsene «alla prima intimazione se la vostra condotta creasse inquietudine al governo».14 Napoleona si era data molto da fare per il cugino in disgrazia, ed era contenta di essergli stata utile: le sembrava importante e naturale che i membri della sua famiglia si riunissero in Francia intorno al presidente e fossero tra loro solidali, perché credeva ciecamente nel destino dei Bonaparte, e trovava ingiusto e dannoso ogni dissidio tra loro. Altrettanto salde erano la sua fedeltà e la sua lealtà al presidente, sul cui operato non si permetteva nessuna critica; suo figlio (che l’aveva raggiunta a Parigi) si preoccupava invece più lucidamente della fragilità della posizione di Luigi Napoleone: Politicamente parlando stiamo credo molto male in Francia, il Presidente scrive molto bene ma non sa mettere i suoi atti in accordo con i suoi scritti. […] La Francia non chiede che essere governata con fermezza, ed è pronta a sottomettersi a un giogo di ferro purché chi glielo impone sappia farsi rispettare15

scrisse a Carlo Luciano nel settembre 1849, quando il presidente sembrava indebolito dall’ostilità sempre crescente della destra e dalla scarsa gratitudine che gli dimostrava Pio IX. Qui le cose non migliorano – gli ribadì nel maggio dell’anno seguente – sempre la stessa inerzia da parte del governo, i Burgraves sono in gran favore, questi uomini maledetti che hanno perduto tutti i governi cercano di rendersi indispensabili e al tempo stesso fanno di tutto per fare perdere al Presidente la sua popolarità.16

Luigi Napoleone seguiva intanto – come sempre fece durante il suo governo – linee di azione diverse e contraddittorie; nella sua posizione uffi14. Lettera di Napoleona a Carlo Luciano Bonaparte, 1 luglio 1850, AGR. 15. Lettera di Napoleone Camerata a Carlo Luciano Bonaparte, 19 settembre 1849, ivi. 16. Lettera di Napoleone Camerata a Carlo Luciano Bonaparte, 18 maggio 1850, ivi.

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ciale aveva mandato i soldati francesi contro la Repubblica romana e si affermava come paladino del potere temporale, ma non dimenticava i suoi antichi complici del 1831: quando venne nominato presidente della Repubblica, fece venire e sistemare in Francia Dante Domenico Troili e Pier Damiano Armandi, che prese la cittadinanza francese e finì bibliotecario nel castello di Saint-Cloud. Così – come in un romanzo di Dumas padre – si ritrovarono a Parigi, con Luigi Napoleone arrivato al potere e Napoleona istallata al suo fianco, i principali responsabili del complotto che quasi vent’anni prima aveva progettato di rovesciare il governo della Chiesa e di incoronare re d’Italia il figlio dell’imperatore. Il presidente non amava rievocare il ricordo del duca di Reichstadt (la cui scomparsa lo aveva spostato in prima fila nel raccogliere l’eredità napoleonica), ma conservava tenace la memoria del fratello e il rimpianto per la sua tragica morte durante la loro fuga dalle armate austriache: sotto la sua flemma e la sua indifferenza, Luigi Napoleone non dimenticava né rancori né gratitudine. Napoleona reputò che fosse venuto il momento di riprendere l’istanza che, nel corso di quasi trent’anni, prima suo padre e poi lei avevano presentato al governo francese, per riavere le rendite provenienti dagli investimenti effettuati con i risparmi della dotazione fattale da Napoleone I. L’aveva cocciutamente riproposta – ma senza esito – anche sotto il governo di Luigi Filippo, e quando si fu definitivamente stabilita in Francia si affrettò a ripresentarla, sembrandole naturale che sotto il governo del cugino dovesse risolversi in suo favore; tra l’altro, l’avvocato che l’aveva assistita vent’anni prima, André Dupin l’ainé, era diventato il presidente dell’Assemblea legislativa. Non fu tuttavia un affare semplice: all’inizio del 1850 Napoleona ripresentò l’istanza al Tribunale civile della Senna, il quale il 21 giugno 1850 dichiarò incompetente l’autorità giudiziaria. La principessa interpose appello, chiedendo l’aiuto del vicepresidente Boulay de la Meurthe: «vengo a domandarvi di volere gentilmente fare qualche passo presso i magistrati che conoscete sapete meglio di chiunque quanto la mia richiesta sia giusta e conto sulla vostra amicizia per rendermi questo servizio».17 Il 28 gennaio 1851 fu deciso che il Tribunale civile della Senna era invece competente, e le parti vennero rin17. Lettera di Napoleona Baciocchi a Henri Boulay de La Meurthe del 29 luglio 1850, Archivio del MN, inv. 10324/21.

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viate davanti a detto Tribunale. Il presidente della Repubblica decise però (cedendo secondo Napoleona all’influenza dei suoi ministri) di rimandare l’istanza davanti al Tribunal des conflits (che aveva il compito di risolvere i conflitti di competenza tra le giurisdizioni ordinaria e amministrativa) con grande delusione di lei, che si sentiva tradita proprio da colui su cui più contava. Il processo si concluse nel corso del 1852: Napoleona ebbe causa vinta e ottenne il risarcimento richiesto (che ammontava ormai a un milione di franchi); fare parte della famiglia Bonaparte – avesse o no ragione dal punto di vista formale, fosse o meno stata sostenuta dal principe-presidente – le fu certamente d’aiuto, nei mesi in cui si preparava la restaurazione dell’Impero. Il denaro ottenuto, pur se non le venne corrisposto subito, non solo la metteva al sicuro dai creditori, ma le forniva anche i capitali per l’impresa agricola che voleva impiantare. Nelle more del processo, aveva venduto l’usufrutto di Villa Vicentina al figlio per 100.000 franchi (una cifra in realtà molto alta e superiore al valore dell’affare); con le somme che aveva ora a sua disposizione, acquistò una tenuta a una quarantina di chilometri da Parigi, sulla strada tra Melun e Meaux, con un vecchio e pittoresco castello chiamato Vivier-les-Ruines dove, nel XV secolo, era stato richiuso re Carlo VI il Folle. Nell’ottobre del 1849 Luigi Napoleone aveva ripreso in mano, nominando un nuovo governo composto di ministri di sua scelta e a lui sottoposti, il potere che l’Assemblea legislativa aveva cercato di sottrargli; nei mesi seguenti aveva da una parte ceduto ai voleri della maggioranza, facendo votare le leggi Falloux che favorivano la libertà d’insegnamento degli ordini religiosi e la legge del 31 maggio 1850 che limitava il suffragio universale, e dall’altra aveva coltivato il suo personale carisma e il suo rapporto diretto con la popolazione e con l’esercito. In numerosi viaggi in giro per la Francia, distribuendo decorazioni, visitando ospedali e inaugurando ferrovie ed edifici pubblici, aveva, in discorsi brevi e semplici ma di grande efficacia, ricordato la tradizione napoleonica e presentato le sue idee di governo. Al palazzo dell’Eliseo (sotto la supervisione di Felice Francesco Baciocchi, che era subito entrato tra i suoi collaboratori) dava lussuose ed eleganti feste; a fare gli onori di casa lo aiutava la cugina Matilde, perché era ancora scapolo – per quanto con una maîtresse in carica, Miss Howard, una ricca demi-mondaine inglese. Elargiva anche con

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generosità aiuti e sussidi a chi ricorreva a lui; si trovò in breve in gravi imbarazzi finanziari e dovette più volte chiedere all’Assemblea di aumentare il suo appannaggio. Le tensioni nella vita politica si facevano più forti, mentre si avvicinava la scadenza del 1852, quando avrebbero dovuto essere rieletti sia il presidente che l’Assemblea legislativa; secondo la Costituzione della Repubblica, Luigi Napoleone non poteva essere eletto una seconda volta, ma era evidente la sua ambizione di rimanere al suo posto, mentre il parti de l’ordre non riusciva a mettersi d’accordo su una candidatura solida da contrapporgli. Intanto, in attesa delle elezioni crescevano – apertamente o in società segrete – l’attività e l’influenza dei cosiddetti démoc.-soc. (il partito democratico e sociale, in cui si erano uniti i repubblicani avanzati e i socialisti); soprattutto nelle campagne impoverite, e tra la piccola borghesia, montava l’attesa quasi messianica di una nuova, definitiva rivoluzione. Questo spectre rouge terrorizzava i conservatori di ogni tendenza, e li rendeva disponibili a qualunque compromesso: come aveva capito da tempo il fine e intelligente Napoleone Camerata, la nazione francese avrebbe accettato senza ribellarsi un governo dispotico, purché le assicurasse stabilità, sicurezza e quel progresso economico che era parte fondante del programma politico del principe-presidente. Alcuni degli stretti collaboratori di Luigi Napoleone, Morny e Persigny in particolare, avevano più volte voluto convincerlo a tentare un colpo di Stato; lui aveva sempre esitato, per una residua fedeltà al giuramento costituzionale, e anche perché era rimasto troppo amaramente scottato dai fallimenti precedenti. Nel corso del 1851, si fecero sempre più frequenti le voci su tentativi di insurrezione organizzati dagli Orléans e dai militari a loro fedeli; Luigi Napoleone si decise allora a dare il suo assenso all’organizzazione del colpo di mano, cercando appoggi sicuri nell’esercito e chiedendo sostegno finanziario alla cugina Matilde e a Miss Howard. Nella notte tra il 1 e il 2 dicembre 1851, dopo un ricevimento all’Eliseo, Luigi Napoleone si riunì nel suo studio con i suoi collaboratori al corrente del complotto e lanciò il piano d’azione; i militari andarono ad occupare il ministero degli Interni e la sede dell’Assemblea legislativa, fecero chiudere le tipografie e i luoghi di riunione, poi mandarono ad arrestare i deputati ritenuti più ostili e giornalisti, scrittori e agitatori di sinistra o di parte orléanista. Nel frattempo venivano stampati i

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proclami da affiggere in tutta Parigi e in provincia: vi erano annunciati lo stato d’assedio, la dissoluzione dell’Assemblea (definita «un focolaio di complotti») e il ristabilimento del suffragio universale; il popolo, con cui Luigi Napoleone esibiva un rapporto diretto, e che proclamava «giudice» definitivo, era convocato il 20 e il 21 dicembre a votare con un referendum l’elezione di un capo del governo pienamente responsabile e nominato per dieci anni. Il presidente – nel momento in cui non solo si giocava tutto il suo avvenire politico, ma rischiava anche di essere arrestato per alto tradimento – si mantenne (raccontò sua cugina Matilde) «eroicamente calmo»:18 più che dall’eroismo, la sua calma derivava dal suo temperamento, in cui all’indifferenza ai pericoli – ne aveva passati tanti – e all’abitudine alla segretezza si mescolavano il fatalismo, una superstiziosa fiducia nel suo destino, e un profondo scetticismo nei confronti delle intenzioni e del coraggio altrui. Ricordando quei giorni cruciali, uno dei suoi sostenitori, il giornalista docteur Véron, davanti alla fisionomia sempre calma e impassibile di Luigi Napoleone commentò ammirato: «In una simile impresa, che ha come scopo la salvezza della Francia e della società, la sua era la flemma che arrivava fino al genio!».19 Ma anche qualche settimana dopo, mentre gli venivano comunicati i risultati del referendum del 21 dicembre, il presidente rimase seduto silenzioso, con un viso smorto e immobile, finché Napoleona, che gli stava accanto, perse la pazienza e gli urlò in faccia: «Siete fatto di pietra?».20 Lei non aveva mai dovuto nascondere i suoi impulsi e i suoi pensieri, muoversi con circospezione, riflettere su quello che faceva; e infatti, quando era stata mandata dai congiurati a Vienna a incontrare il duca di Reichstadt, si era comportata con 18. Il deputato Achille Jubinal, amico ed ex lettore di Luigi Filippo, raccontò a Madame Léotard che la vigilia del 2 dicembre aveva passato la serata dalla principessa Matilde, appena tornata dall’Eliseo: «Elle nous dit qu’après dîner et réception, réunion peu nombreuse et silencieuse, elle suivit son cousin dans son cabinet particulier. Il paraissait héroïquement calme»; lettera cit. in M. Foresi, Di un principe russo e di una principessa napoleonica, in «Nuova Antologia», 177 (giugno 1915), pp. 587-606, p. 593. 19. L. Véron, Mémoires d’un bourgeois de Paris: comprenant la fin de l’Empire, la Restauration, la Monarchie de Juillet, la République jusqu’au rétablissement de l’Empire, Librairie nouvelle, Paris 1857, t. 5, p. 259. 20. E.E., Nassau Senior’s Journals and Conversations, in «Fraser’s Magazine», ripubblicato in «Littell’s Living Age», 1946 (1 e 8 ottobre 1881), pp. 48-59, p. 54.

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una tale imprudenza e faciloneria da rendere subito chiaro alla polizia e al pubblico quale fosse il suo scopo. L’appel au peuple di Luigi Napoleone si tradusse in un plebiscito: i sì al cambiamento della Costituzione repubblicana furono più di sette milioni (più dei voti presi quando era stato eletto presidente), i no poco più di 600.000. Ma, i giorni seguenti il colpo di Stato, prima Parigi e poi le campagne francesi furono scosse da ribellioni disperate e violente, che vennero represse con ferocia, e fecero parecchie centinaia di morti. Domate le rivolte, mentre i deputati arrestati venivano rilasciati o espulsi, gli oppositori e gli insorti imprigionati (alcune migliaia di persone) vennero esiliati, o deportati alla Caienna o in Algeria, o messi sotto stretta sorveglianza dalla polizia. Gli ordini più duri erano stati dati da Morny, diventato ministro degli Interni e da Maupas, nuovo prefetto di Polizia; il presidente tuttavia non era stato in grado di tenerli a freno, e su di lui ricaddero rabbia e risentimento, avvelenando gli anni in cui fu al potere e facendo di lui – un uomo spregiudicato e ambiguo, ma non spietato – il tiranno sanguinario evocato dagli Châtiments di Victor Hugo. Il mattino del 2 dicembre Gerolamo Bonaparte, che non era stato coinvolto nella preparazione del colpo di Stato, fu convocato all’Eliseo, e venne invitato ad uscire a cavallo con Luigi Napoleone e a passare con lui in rivista le truppe acclamanti. Nei giorni seguenti il presidente gli ordinò di spedire all’estero suo figlio Napoleone Gerolamo, che non solo si era dichiarato contrario al colpo di mano, ma si era anche unito a un Comité de résistance dell’opposizione. Napoleone Gerolamo si sottomise, e in cambio lui e suo padre ebbero la parte del leone nella spartizione degli onori e dei favori che il nuovo regime assicurava alla famiglia Bonaparte: Gerolamo, già nominato governatore degli Invalides e maresciallo di Francia, divenne presidente del Senato, Napoleone Gerolamo (chiamato ormai semplicemente prince Napoléon) fu nominato senatore; insieme con lui entrarono al Senato Luigi Luciano Bonaparte e Luciano Murat. Il ristabilimento dell’Impero sembrava naturale e inevitabile, auspicato e desiderato dall’esercito e dal popolo francese: il 7 novembre 1852 un senato-consulto decise di sottoporre a referendum popolare «il ristabilimento della dignità imperiale nella persona di Luigi Napoleone Bonaparte», il 21 novembre un altro plebiscito lo approvava e il 2 dicembre (anniversario del colpo di Stato e della vittoria di Austerlitz) il

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Secondo Impero era proclamato; Luigi Napoleone prendeva il nome di Napoleone III, riconoscendo l’effimera nomina, dopo Waterloo, del figlio bambino di Napoleone I. Il senato-consulto del 7 novembre definiva anche l’ordine di successione di Napoleone III «nella sua discendenza diretta, legittima e adottiva», e divideva i parenti dell’imperatore in famille impériale, che comprendeva i membri destinati a ereditare, e famille civile, che comprendeva i figli delle sorelle di Napoleone I (i Murat e Napoleona) e i figli di Luciano (escluso da Napoleone dalla linea di successione). Napoleone III designò come suoi successori – finché non avesse avuto figli suoi – Gerolamo e poi i discendenti dal suo matrimonio con Caterina del Württemberg. Nei primi giorni del 1853, però, con una decisione impulsiva nata dall’irritazione per il rifiuto opposto alle sue offerte di matrimonio da alcune principesse europee, e dalla passione che lei seppe ispirargli, l’imperatore decise di sposare una bella ragazza spagnola, Eugenia di Montijo contessa di Teba, figlia di un nobile che aveva combattuto al servizio della Francia. Nel discorso con cui annunciò il suo matrimonio ai corpi dello Stato riuniti alle Tuileries l’imperatore rivendicava la sua diversità, il suo ruolo originale di sovrano scelto dal popolo: Quando, davanti alla vecchia Europa, si è portati dalla forza di un nuovo matrimonio all’altezza delle antiche dinastie, non è invecchiando il proprio blasone che ci si fa accettare, piuttosto ricordandosi sempre della propria origine e conservando il proprio carattere, e prendendo francamente di fronte all’Europa la posizione di parvenu, titolo glorioso quando lo si ottiene grazie al libero suffragio di un grande popolo.

Pur sottolineando la sua differenza rispetto alle altre famiglie regnanti europee, Napoleone III sapeva tuttavia di aver bisogno – per non apparire isolato anche davanti alla società francese – di una corte familiare e mondana intorno a lui. Chiese quindi a tutti i membri della sua famiglia, sparsi tra l’Italia, l’Inghilterra e l’America, di venirsi a stabilire in Francia; molti di loro accettarono, allettati dalla brillante situazione promessa loro dall’imperatore. Napoleone Camerata aveva, negli anni precedenti il colpo di Stato, fatto la spola tra la Francia e l’Italia, dove aveva allargato la sua attività di uomo d’affari. In realtà, pur essendo l’unico erede di una solida fortuna, aveva un reddito modesto e non aveva molti capitali a disposizione;

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aveva però un grande credito, e la possibilità di prendere senza difficoltà grosse somme in prestito. Dopo aver messo ordine, con rigore e onestà, nel patrimonio dissestato cedutogli dalla madre, finì tuttavia per approfittare con troppa leggerezza dell’apertura di credito concessagli, e con l’accumulare debiti pesanti. Napoleona lo aveva fatto venire a Parigi quando Luigi Napoleone era diventato presidente, ma il giovane si era presto reso conto che in Francia era uno sconosciuto, e che non vi poteva godere delle stesse possibilità finanziarie che aveva in Italia. Tornò quindi in patria, rifiutandosi di aiutare la madre nella conduzione del suo processo – sul cui esito positivo non contava affatto; dopo il colpo di Stato, nell’estate del 1852, mentre la sua posizione in Italia continuava a peggiorare, si decise a trasferirsi in Francia, istallandosi in un piccolo appartamento vicino alla madre, in rue de la Ville l’Évêque, dietro la chiesa della Madeleine. Napoleona aveva avuto il suo risarcimento, ma non intendeva aiutare il figlio; lo spinse invece a entrare come auditore al Consiglio di Stato, decidendosi poi a prestargli 150.000 franchi che lui avrebbe dovuto restituirle con gli interessi. Per il momento questa somma tirò Napoleone Camerata fuori d’imbarazzo, ma non risolse la sua situazione: i suoi redditi erano sempre gli stessi, mentre crescevano gli interessi dei debiti che dovevano pagare. Tentò, ingenuamente, la fortuna in borsa, ma perse ancora: lasciò degenerare la sua posizione sempre più, e all’inizio del 1853 il suo deficit ammontava a 250.000 franchi (una somma forte ma non spropositata), e i creditori si stavano facendo pressanti. Il giovane, vedendo che l’imperatore distribuiva con larghezza denaro e prebende alla sua famiglia, si illuse di potere essere aiutato anche lui: andò da Napoleone III, ma non ottenne nulla, si rivolse poi a Gerolamo, ancora a sua madre, ma senza risultato. Disperato, confessò a Napoleona che se non lo avesse aiutato, sarebbe stato costretto alla fuga: «perderò ogni credito, sarei perduto per l’avvenire», le disse; senza scomporsi, lei gli rispose con cinismo: «se fuggite scoppierà lo scandalo e non si pagherà nulla». Il giovane si vide perduto, con lo spettro di una «vita miserabile» davanti e il rimorso di «aver compromesso nella sua rovina persone che avevano avuto fiducia» in lui; gli restava ancora – come fecero molti della sua famiglia – la possibilità di fare un matrimonio d’interesse, ma da qualche tempo era legato a un’attrice, Elisa Letessier detta Mademoiselle Marthe, da un amore sincero, ed era troppo onesto per sposare una donna che,

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scrisse, «avrei reso infelice e cui avrei portato via il suo denaro». Il suicidio gli sembrò l’unica via onorevole di uscita: la mattina del 4 marzo 1853 si tirò un colpo di pistola nella sua casa di Parigi, e nove giorni dopo anche la sua amante si uccise, asfissiandosi con una stufa a carbone.21 Nella sua ultima lettera (che Napoleone, non fidandosi, volle fosse copiata più volte, e consegnata all’imperatore, a Gerolamo, a Matilde, ai suoi genitori e a un vecchio amico della madre, Joachim Clary), il giovane ripercorreva la sua breve vita: ricordava come la madre lo avesse costretto a lasciare gli studi per salvarla dal fallimento, come si fosse prestato a chiedere il denaro necessario al padre per darlo alla madre, «perché per me a quell’epoca, mia madre e io, pensavo fossimo la stessa cosa. Ebbene!», aggiungeva con dignità, «oggi, nel momento supremo in cui mi trovo, sulla mia anima e sulla mia coscienza, quel contratto non era giusto, la parte fatta a mia madre era troppo larga». Era fiero di avere conservato fino in fondo la sua «reputazione di puntualità in affari», e teneva a ribadire alla madre che quando nel 1851 le aveva comprato l’usufrutto di Villa Vicentina, glielo aveva pagato un prezzo troppo alto, anche se tutti – Napoleona compresa – erano convinti «che l’avevo derubata!». «Indipendente per carattere», non volle chiedere nulla all’imperatore, fino a quando la situazione si fece insostenibile: si decise allora a chiedere aiuto, ma ebbe solo rifiuti. Sua madre, aggiunse amaramente, «avrebbe potuto aiutarmi se avesse voluto vedere la gravità della mia posizione e se vi avesse messo solo dell’amore materno». Al pensiero di un matrimonio d’interesse rinasceva in lui il dolore della sua infanzia abbandonata e solitaria: «non avevo mai conosciuto le gioie della famiglia – tutto ciò cui avevo assistito con i miei genitori non mi spingeva certo ad aumentare i miei legami». Finì la lettera domandando perdono al padre per le pene che gli aveva dato e riconoscendo che avrebbe dovuto ascoltare i suoi consigli; pregò appassionatamente Napoleona di pagare tutti i debiti che lasciava, «è perché ciò avvenga che dono la mia vita». La tenerezza soffocata e delusa per sua madre riemergeva straziante: Lei non mi rifiuterà perché dopo tutto è mia madre e tutto tra noi è stato il risultato della nostra educazione. Lei e io siamo stati allevati soli – solitari – 21. Ultima lettera di Napoleone Camerata, 3 marzo 1853, ANP, 400 AP 22. Lettera e testamento presenti anche in ASL, Carte Cattaneo, n. 1.

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istinti forti e immutabili si sono sviluppati in noi – non sapendo fare alcuna concessione da una parte e dall’altra, senza mai un momento di confidenza, e me ne accuso molto sinceramente. Siamo così arrivati, volendoci tutti e due bene, ad avere l’aria di essere due nemici – che Dio mi perdoni e che mi perdoni mia madre, glielo domando in ginocchio – sono stato uno scapestrato ma non cattivo un carattere difficile lo confesso ma in fondo buono.

Nel suo testamento, Napoleone Camerata lasciava tutti i suoi beni alla madre, a parte qualche ricordo donato al principe Napoleone, a Matilde, a Joachim Clary, ai suoi servitori e ai dipendenti di Villa Vicentina; a Napoleona chiese di dare una dote di 1.000 fiorini a «una ragazza onesta della parrocchia di Campo Marzio a Trieste»22 e di farlo seppellire nel parco della Villa, dove aveva passato gli anni più sereni della sua vita. L’orgoglio e la coscienza del suo valore e della correttezza del suo operato avevano sorretto il giovane, finché non si era scontrato con le prime difficoltà di un mondo spietato; aveva allora ceduto, aveva imbrogliato i suoi affari, scivolando verso la situazione equivoca e precaria in cui aveva sempre vissuto sua madre. Qui riaffiorarono le sue incertezze, le sue fragilità, il suo essere cresciuto troppo in fretta; lui non resse più e – piuttosto che perdere il suo buon nome e la dignità, diventare un avventuriero – preferì morire. L’imperatore, che aveva pagato senza fiatare i debiti di persone che gli erano indifferenti od ostili, si rifiutò di aiutare Napoleone Camerata, forse perché temeva di incoraggiarlo sulla stessa strada di dissipazione della madre, o perché pensava che i Baciocchi (una volta ottenuto il famoso risarcimento) avessero già avuto abbastanza. Napoleona – pur nel suo ottuso egoismo – era molto attaccata al figlio, ma non capì quanto dolore covasse il giovane dentro di sé, quanto tenesse alla sua reputazione: pensò in buona fede che lui avrebbe potuto fallire (come aveva sovente fatto lei, uscendone sempre indenne) con leggerezza, senza troppo preoccuparsi. La morte di Napoleone Camerata fu il primo scandalo della società imperiale appena costituita, anche se si cercò di attribuirla (come si scrisse sui giornali) a un attacco di fièvre chaude. Il suicidio, pochi giorni dopo, della donna che amava, aggiunse clamore: la tenera Mademoiselle Marthe era molto conosciuta, e il suo funerale fu celebrato in chiesa e seguito – 22. Ivi, Carte Cattaneo, n. 1, inserto: Testamento di Napoleone Carlo Camerata stilato a Parigi il 3 marzo 1853.

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raccontò scandalizzato il pettegolo cronista Horace de Viel-Castel – da tutte le attrici di Parigi. La notizia che il giorno prima della sua morte la casa di Marthe fosse stata perquisita dalla polizia rinfocolò le voci di un fosco complotto:23 in un clima di rigido controllo poliziesco, il pubblico e i giornali, che durante gli ultimi anni del regno di Luigi Filippo avevano assistito a una serie di scandali nell’alta società (il più grave nell’agosto del 1847, quando un pari di Francia, il duca Charles de Choiseul-Praslin, aveva assassinato la moglie, e si era poi ucciso in prigione), sospettarono che la verità fosse un’altra. Alla realtà dolorosa ma banale di un uomo sensibile, onesto, debole e non capito, venne contrapposta una storia grottesca, cupa e crudele, degna dei Mystères de Paris di Eugène Sue, e che rimase poi nella leggenda nera del Secondo Impero. Si raccontò che Napoleone Camerata era follemente innamorato dell’imperatrice, e che aveva pubblicamente dimostrato il suo dolore e la sua gelosia al momento del matrimonio di lei con l’imperatore (Eugenia si era in verità impietosita sulla sua sorte e, quando le annunciarono il suo suicidio, esclamò: «Povero ragazzo, se avesse ricorso a me, non l’avrei abbandonato!»).24 Durante una serata alle Tuileries, il giovane si sarebbe anche permesso di sussurrare parole infuocate a Eugenia, che se ne sarebbe lamentata con il marito. Napoleone Camerata era stato subito preso in consegna da un certo Zambo, un agente segreto, e assassinato durante un tentativo di fuga. Il suo corpo sarebbe stato trasportato in seguito nel suo appartamento, dove sarebbe stato inscenato il suicidio. Zambo, terrorizzato, era fuggito a Londra, dove l’aveva raggiunto un altro agente segreto, il corso Griscelli, per ucciderlo e gettarlo, completamente sfigurato, sotto un ponte. Tornato a 23. T. de Banville, Odes Funambulesques. La Voyageuse. A Caroline Letessier (1858), in Oeuvres de Théodore de Banville, Lemerre, Paris 1889-1892, Commentaire del 1873: «Mademoiselle Caroline Letessier […] est la nièce de cette adorable Marthe, qui créa le rôle de Laïs dans le Diogène de Félix Pyat, à l’Odéon, et dont la mort sanglante a été un des drames les plus épouvantables de l’Empire. Mêlée à une histoire dangereuse, elle s’était réfugiée à Londres. Elle revint à Paris pour chercher des papiers, et on la trouva morte dans son ancien logement. On n’a jamais su si sa mort avait été le résultat d’un assassinat ou d’un suicide» (da Oeuvres poétiques complètes de Th. de Banville, textes électroniques, a cura di P.J. Edwards, Mount Allison University, Sackville 1996). 24. La princesse Julie Bonaparte marquise de Roccagiovine et son temps. Mémoirs inédits (1853-1870), a cura di I. Dardano Basso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975, p. 28 (7 novembre 1853).

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Parigi, Griscelli sarebbe stato convocato da Napoleone III, che gli avrebbe detto (in italiano, per sottolineare l’indole banditesca dei Bonaparte) «Sempre la vendetta», cui Griscelli avrebbe risposto: «Sono Corso».25 Si disse anche che Napoleone Camerata avesse detto all’imperatore che voleva sposare Marthe e, di fronte alla reazione negativa di Napoleone III e alle sue minacce di cacciarlo dalla famiglia e di mandarlo in esilio, fosse rimasto talmente sconvolto da uccidersi. Nonostante le chiacchiere, la morte del giovane venne generalmente rimpianta, perché nel mondo ufficiale era riuscito a farsi apprezzare per la sua intelligenza e la buona volontà, ed era considerato uno dei migliori componenti della famiglia imperiale; anche Napoleone III, che pure si era rifiutato di pagargli i debiti, lo stimava e intendeva attribuirgli il titolo di principe Baciocchi. Horace de Viel-Castel scrisse che Napoleona («vecchia pazza e spendacciona che ha ancora degli amanti e che nella sua vita si è mangiata dei milioni non si sa bene come») davanti alla morte del figlio aveva dimostrato un cinismo rivoltante, «una secchezza di cuore, un egoismo di cui non si può dare l’idea»;26 in realtà lei era rimasta schiantata, incapace di reagire: per la prima volta nella vita non poteva passare oltre, ignorare le dure conseguenze del suo operato. Il sacrificio del figlio, il suo ultimo disperato appello, la sua tenerezza e la sua dignità spezzarono la corazza di indifferenza e di spregiudicatezza in cui Napoleona era sempre vissuta, lasciandola inerme, piena di rabbia e di rimorso, incapace di accettare un gesto così estremo per motivi che a lei sembravano tanto futili. Pagò in parte i debiti del figlio; poi le rimaneva da esaudire il desiderio di Napoleone di essere sepolto a Villa Vicentina. Ritrovò l’energia per lottare contro gli impedimenti che l’arcivescovo di Gorizia metteva a celebrare un funerale religioso per un morto suicida: il prelato si rifiutava di farlo perché «il benedire quel sito di sepoltura, e sepelire [sic] il corpo su menzionato con benedizioni del rito sacro da Santa Chiesa è proibito. Io, quale ministro della Chiesa, ho l’obbligo di seguire le leggi della Chiesa».27 25. Cfr. A. Colocci, Griscelli e le sue memorie, E. Loescher, Roma 1909, pp. 138-140. 26. Mémoires du comte Horace de Viel-Castel sur le règne de Napoléon III (18511864), Paris 1883-1884, vol. II, pp. 169 e 172 (sabato 5 marzo e lunedì 14 marzo). 27. Lettera dell’arcivescovo di Gorizia Francesco Saverio Luschin a Napoleona del 26 agosto 1853, ANP, 400 AP 24.

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Napoleona gli rispose polemica, con qualche sprezzo, che il figlio era morto a Parigi e che quindi a giudicare se fosse o meno il caso di dare al suo corpo una sepoltura ecclesiastica era la curia arcivescovile parigina: Ora questa curia che sulla faccia dei luoghi a [sic] potuto bene ponderare le circostanze che accompagnarono tale disgraziato avvenimento, non ha fatto la benché minima difficoltà di fare adempiere verso il defunto gli uffici ordinati dal rito sacro e venne la sua salma posta provisoriamente (come il qui accluso certificato ne fa fede) nella Chiesa parrocchiale della Madelena dove tutt’ora si trova. Quello che adesso vengo a chiedere a V.A. Rev.sa si è di permettere il trasloco di un corpo già situato in sito consacrato per essere posto in luogo appositamente consacrato. Nessuna legge, per quanto mi consta, vieta un tale trasloco, anzi molte famiglie della stessa Monarchia Austriaca hanno le loro tombe particolari e la questione della sepoltura ecclesiastica, una volta decisa dalla competente Autorità, non ammette nuova Controversia. Mi lusingo pertanto che V.A. R. non vorrà non riconoscere il giudizio pronunziato con piena cognizione di causa da una delle più rispettabili curie di Francia.28

L’arcivescovo di Gorizia, di fronte alle decisioni prese da tali autorità, si sentì allora «a sufficienza autorizzato a concedere da parte della Chiesa»29 il permesso di trasportare il corpo del povero ragazzo a Villa Vicentina. E qui, in una cappella costruita nel parco di Villa Elisa, Napoleone Camerata venne sepolto qualche anno dopo; lo accompagnarono i suoi contadini, che gli avevano voluto molto bene, e che a lungo non vollero credere al suicidio: aveva sempre avuto un sacrosanto terrore delle armi da fuoco, dicevano, e poi era troppo attaccato alla vita. Lo deposero in un sarcofago di marmo bianco, con le armi dei Baciocchi e dei Camerata ai lati e in mezzo un’immagine che lo ritraeva ancora fanciullo, con gli stessi occhi gravi e malinconici di quando era piccolo, e i lineamenti così simili a quelli della madre e di Gerolamo.

28. Lettera di Napoleona all’arcivescovo di Gorizia, Francesco Saverio Luschin, del 9 settembre 1853, ivi. 29. Lettera dell’arcivescovo di Gorizia, Francesco Saverio Luschin, a Napoleona del 20 dicembre 1853, ivi.

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Il testamento del figlio restituiva a Napoleona tutte le proprietà italiane che lei gli aveva donato nel 1847, ma lei ora desiderava disfarsi degli immobili (il palazzo Baciocchi e la villa di Belpoggio) che suo padre aveva acquistato e decorato con cura. Questo patrimonio era però vincolato dal maggiorasco istituito da Felice Baciocchi e che, dopo la morte di Napoleone Camerata (così come era stato deciso già nel 1841), era passato al principe Napoleone; con il suo consenso, e con quello dell’imperatore, alla fine del 1853 la principessa chiese al ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys di intervenire presso il governo pontificio perché venisse annullato il vincolo fidecommessario. Nel 1858, con l’autorizzazione del governo romano, Napoleona permutò il palazzo Baciocchi e la villa di Belpoggio con il conte Enrico Grabinski suo affittuario a Bologna, che in cambio le diede la tenuta de La Gajana. Sembrava volersi liberare – per ricavarne denaro, o per poco attaccamento – anche delle altre sue eredità familiari: nel 1854 vendette a Napoleone III la sua collezione di opere d’arte, che comprendeva numerosi ritratti e statue della famiglia imperiale. Napoleona aveva ormai quasi cinquant’anni; le fotografie dell’epoca – le prime che abbiamo di lei – la ritraggono spietatamente grossa, pesante, con i capelli lisci spartiti sulla fronte, infagottata con trascuratezza, senza alcuna civetteria, in cappottoni informi e cravatte quasi maschili. La sua voce, ricordava Julie Bonaparte di Roccagiovine, era diventata «forte, imperiosa e scandita»,1 il suo sguardo era immobile e duro, il volto era scavato e fissato nel masque napoléonien che la rendeva così somigliante a Gerolamo, al principe Napoleone e ad Alexandre Walewski, il figlio di Napoleone e Maria Walewska. 1. Portraits de famille par la princesse Julie Bonaparte.

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Il dolore per la morte del figlio continuava a tormentarla, a renderla inquieta: nel testamento che fece stilare nel gennaio del 1858, abbandonando la consueta arroganza, pregava Dio di «perdonare i miei errori e di accogliermi nella sua misericordia dopo aver tanto sofferto nella mia vita».2 Quando voleva, era capace di affetto e premura (specie se si trattava di suoi familiari); così come aveva aiutato il cugino Carlo Luciano a tornare in Francia, si prese a cuore la sorte dei figli orfani di Joachim Clary e Juliette de Villeneufve, cugina delle sue cugine Bonaparte e sua antica amica. Prima di morire nel 1856 Joachim Clary aveva affidato i due ragazzi a Napoleona: L’amicizia della Principessa per me e i miei figli mi è di sicura garanzia che lei accetterà e si consacrerà a loro; possano essi attenuare il rimpianto per il figlio che ha perduto e i miei figli ripagarla con il loro affetto e il loro rispetto della cura che essa si prenderà per fare prevalere le mie idee sull’avvenire dei miei figli […]. La bontà della Principessa […] mi ha deciso a pensare a lei che è così teneramente attaccata ai miei figli.3

Al momento della morte, nell’estate del 1857, di Carlo Luciano Bonaparte, Napoleona scrisse alla figlia Julie Bonaparte di Roccagiovine poche parole, sicuramente sentite ma un po’ brutali: «non voglio tardare ad esprimervi tutta la parte che prendo alla vostra perdita ma il triste stato di salute di vostro padre e le lunghe sofferenze da lui patite devono essere per voi un motivo di consolazione pure nel rimpianto della perdita».4 Napoleona aveva ormai il suo ruolo ufficiale nella famiglia dell’imperatore: dal 1856 in poi figurava nell’Almanach Impérial con il nome di principessa Baciocchi e il titolo di Altezza, e con un decreto del 30 marzo 1858 era stata reintegrata nella sua qualità di cittadina francese. Le Dispositions relatives aux princes de la Famille Impériale le componevano una Maison (come quando era la principessina ereditaria di Lucca), con uno chevalier d’honneur e un secrétaire des commandements: dal2. Testamento fatto da Napoleona il 25 gennaio 1858 presso il notaio Mocquard, ANP, 400 AP 22, art. 8. 3. Testamento di Joachim Clary, datato Parigi, 15 giugno 1856, Archivio del MN, Fondo Boulay de la Meurthe, inv. 10319/5. 4. Lettera di Napoleona a Julie Bonaparte di Roccagiovine del 9 agosto 1857, ivi, inv. 9049.

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l’ottobre 1857, quale chevalier d’honneur le venne assegnato AlexandreÉlisabeth marchese de Piré de Rosnyvinen, un personaggio stravagante e bizzarro, che faceva degnamente il paio con le eccentricità di Napoleona. Il marchese de Piré, di antica famiglia bretone, era figlio di uno dei capi della chouannerie, diventato poi uno dei più valorosi generali di Napoleone; eletto deputato del Corps législatif come candidato governativo, era l’enfant terrible dell’assemblea, sempre pronto a interrompere i discorsi più gravi dei ministri o dei suoi colleghi con qualche bon mot, a perseguitarli con divagazioni e sarcasmi, a porre questioni bislacche come decidere quante volte la truppa dovesse fare il bagno, o quale dovesse essere la nuova sistemazione del giardino del Luxembourg. Era un sincero sostenitore del regime imperiale ed era spesso molto acuto e divertente, ma era un frondeur nato, e così imprevedibile che il presidente del Corps législatif gli dava sempre la parola con grande timore. Nel 1843 aveva sposato Laurence (detta Laure) de Lambilly, giovane vedova del conte Gustave de Martel; lei aveva sofferto per anni di una malattia ossea, e per curarla il marito l’aveva accompagnata tra il 1846 e il 1848 in un lungo viaggio in Italia, nel corso del quale avevano conosciuto e fatto amicizia con Gerolamo Bonaparte e la sua famiglia. Nel 1848 tornarono in Francia, con Laure guarita, e andarono a stabilirsi a Rennes; il marchese si impegnò in politica e appoggiò in tutti i modi l’elezione a presidente di Luigi Napoleone – anche se con scarsi risultati, visto che nell’arrondissement di Rennes il principe raccolse molti meno voti di Cavaignac. Dopo il colpo di Stato del 2 dicembre, la coppia riprese i rapporti con la famiglia imperiale e fu invitata a trasferirsi a Parigi. La carica di chevalier d’honneur di Napoleona dava al marchese de Piré il diritto di portare un’apposita uniforme nelle cerimonie ufficiali, ma era per il resto puramente onorifica; i due bisticciavano spesso e alla compagnia del marchese Napoleona preferiva, di molto, quella della moglie. Nella marchesa Laure de Piré, Napoleona trovò l’ultimo affetto che venne a scaldarle il cuore – nonostante le malignità di Horace de Viel-Castel, non aveva amanti e, a parte Gerolamo, non risulta averne mai avuti. Non fu un legame di sesso (Napoleona sembrava priva della forte sensualità di altre Bonaparte), ma un sentimento tenero e amoroso per una donna graziosa, vivace, dolce, ironica, piena di vita; la principessa – cosa rara in lei così poco espansiva – lo esprimeva apertamente: «Ma chère Laurence», le

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scriveva quando le era lontana, «je vous embrasse et vous aime».5 La marchesa era l’opposto di Napoleona (diversamente dal marito, era anche una convinta legittimista, una sostenitrice della monarchia borbonica), ma le si affezionò e passò molto del suo tempo con lei: nonostante il carattere insopportabile e l’arroganza, con la sua devozione ingenua e sincera la principessa sapeva farsi amare. Napoleona era presente a tutte le occasioni importanti della famiglia imperiale, al matrimonio di Napoleone III, alla nascita e al battesimo di suo figlio; il 16 marzo 1856, mentre con il resto della famiglia aspettava alle Tuileries che Eugenia partorisse, era così vicina all’imperatore che lo sentì mormorare – pensiero del tutto incongruo in quell’occasione – mentre passeggiava avanti e indietro: «Bisognerà bene far qualcosa per l’Italia».6 Assisteva anche ai dîners settimanali alle Tuileries in cui l’imperatore riuniva i suoi parenti, alle cerimonie ufficiali, alle riviste militari, all’apertura del Corps législatif; nel maggio del 1859, era con gli altri Bonaparte a salutare l’imperatore che partiva per la campagna d’Italia. In quegli anni – i migliori del regno di Napoleone III – il regime imperiale si rafforzava all’interno e si conquistava, prima con la guerra di Crimea a fianco dell’Inghilterra e poi con la guerra d’Italia insieme al Piemonte, alleanze e simpatie all’estero. Napoleona avrebbe voluto assumere un ruolo autorevole nel mondo politico, perché pensava di potere essere utile al cugino, e poi voleva riprendere l’esempio della madre Elisa, che era stata saggia e ferma donna di governo; ma Napoleone III non aveva alcuna intenzione di imitare lo zio, non intendeva conquistare regni per distribuirli ai parenti, e poi preferiva tenere alla larga dal potere le donne della sua famiglia – l’inaffidabile principessa Baciocchi in particolare. Nella società del Secondo Impero, per una donna – anche per una Bonaparte – l’unico modo di avere un’influenza rilevante era tenere un salon politico e letterario, come fecero Matilde Bonaparte e Julie di Roccagiovine. Napoleona tentò di attirare uomini politici e di cultura a casa sua, ma con scarso successo; le mancavano le doti indispensabili a una salonnière: una solida cultura (qui venivano fuori tutte le pecche della 5. Cit. in A. Cahuet, Le voyage de Madame de Piré, Fasquelle, Paris 1950, p. 73. 6. Napoleona lo raccontò a Marco Minghetti, cfr. M. Minghetti, I miei ricordi, Roux, Torino 1890, vol. III, p. 106.

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sua educazione), uno spirito brillante e poi doti tipicamente “femminili” come la grazia, l’amabilità, talvolta la flatterie, la pazienza di tessere e mantenere una rete di rapporti con personalità importanti, la capacità di cancellarsi davanti a uomini che avevano il potere effettivo in mano. Julie Bonaparte di Roccagiovine raccontò nel suo diario di avere cenato una sera del marzo 1856, con poche altre persone, da Napoleona: sua cugina le sembrava intelligente, e «nell’intimità è anche amabile» – il che significava che in genere in pubblico appariva brusca e sgarbata. Il pittore Eugène Delacroix scrisse in effetti nel suo Journal di averla incontrata in società e di essere poi andato a una serata da lei, ma che ricevendolo a casa sua la principessa non gli aveva neanche rivolto la parola, «per timidezza» la scusò un altro ospite.7 Più che timida, Napoleona era impacciata e impaziente, e poi era troppo diversa, nell’aspetto, nell’abbigliamento, nei gusti, nei modi, dal modello di donna bella ed elegante esaltato allora, e di cui erano esempi fulgenti l’imperatrice Eugenia e la contessa di Castiglione: «I suoi gusti sono più mascolini che femminili», aggiungeva Julie di Roccagiovine, «ama i cavalli, le armi, il gioco, la politica, gli affari, e disprezza la toilette, la musica e tutto quello che in genere amano le donne».8 Il ricordo di quando aveva tentato di rapire il duca di Reichstadt le dava certo un’aura leggendaria, ma al tempo stesso la isolava, la immobilizzava in un’icona fuori moda. Si sapeva anche che aveva vissuto avventurosamente, che aveva divorato dei patrimoni; la morte disperata del figlio le gettava addosso un’ombra cupa. Napoleona si trovava a disagio nel vortice di feste, ricevimenti, spettacoli che allora rendevano Parigi la città più vivace e gaia d’Europa; l’esposizione universale del 1855 e il congresso che all’inizio del 1856 aveva concluso la guerra di Crimea, la rapida crescita economica avevano attirato nella capitale francese diplomatici e teste coronate, ricchi stranieri, industriali, uomini d’affari e avventurieri. La vita politica, limitata da un regime autoritario e da una potente polizia, languiva e poteva esercitarsi solo – con prudenza – nelle brevi sessioni del Corps législatif, su alcuni 7. E. Delacroix, Journal, trad. it. Diario, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 698 (21 gennaio 1856). 8. La princesse Julie Bonaparte marquise de Roccagiovine et son temps, p. 43 (3 marzo 1856).

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giornali e riviste e nei salons dell’opposizione legittimista e orléanista; la vita mondana in cambio era brillante, quasi travolgente. Al centro della fête impériale stava la corte di Napoleone III e di Eugenia, strutturata secondo un’etichetta severa, con ciambellani, dame di palazzo, elemosinieri, scudieri e aiutanti di campo. Le Tuileries ospitavano grandi cerimonie e sfarzosi ricevimenti; le dimore di campagna della corona (SaintCloud, Fontainebleau, Compiègne, Rambouillet) accoglievano in autunno o in primavera delle séries di invitati scelti con cura. Napoleona andò a Rambouillet nella stagione della caccia, portandosi dietro la sua amica Laure, ma in genere non prendeva parte volentieri ai divertimenti della corte, né vi era accolta con particolare calore. Aveva la sua proprietà di Vivier-les-Ruines di cui occuparsi e poteva disporre – oltre al suo patrimonio personale – di un appannaggio annuo di 150.000 franchi; aspirava tuttavia a impegni di maggior rilievo. Nel 1857 andò a fare un viaggio in Bretagna, invitata nel castello di Coët-Candec, presso Lanvaux, dal conte Henri de la Bourdonnaye, ciambellano dell’imperatore e membro del Consiglio generale regionale; visitando il Morbihan, si appassionò all’idea di strappare all’abbandono la landa desolata che si stendeva a nord della città di Vannes. Anche i marchesi de Piré, originari di Rennes, la sollecitavano a interessarsi della regione bretone; di ritorno a Parigi, Napoleona chiese e ottenne dall’imperatore l’autorizzazione e i finanziamenti necessari per acquistare nel comune di Grand-Champ una vasta proprietà, chiamata Korn-er-Houët, intorno al piccolo centro abitato di Colpo. Si trattava di terre in piccola parte dissodate o a bosco, ma in maggioranza lasciate incolte, a prateria o a palude. Erano occupate da un’ottantina di famiglie di zingari mendicanti, alloggiate in baracche miserabili; il comune diede loro un indennizzo e li mandò via, poi si iniziò a dissodare e a costruire stalle per il bestiame e alloggi per i contadini. Napoleona si stabilì in uno châlet di legno fatto arrivare a pezzi da Parigi, in mezzo agli operai; si sentiva finalmente nel suo elemento, attiva, entusiasta e piena di energia. I lavori procedettero con una tale velocità che nell’agosto del 1858, quando l’imperatore e l’imperatrice vennero in viaggio ufficiale in Bretagna, tutto era pronto per accoglierli. Circondata dai bambini che gettavano fiori, da contadini a cavallo, dalle donne nei loro pittoreschi costumi, dai curati e dai notabili del luogo, e accompagnata dai marchesi de Piré, la principessa ricevette Napoleone III,

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Eugenia (elegantissima in una «deliziosa toilette blu cielo con bordure bianche, e un incantevole cappello dello stesso colore») e il loro figlio, il piccolo principe imperiale, sotto un arco di trionfo formato da rami verdi, fiori e strumenti dell’aratura, sormontato dalle armi imperiali e su cui era scritto in dialetto bretone «Duel mal er Korn-er-Houët» («Benvenuti a Korn-er-Houët»). I sovrani, il loro seguito e le autorità pranzarono nello châlet ornato dai ritratti di famiglia, in una sala rustica tappezzata da muschio e fiori di campo, mentre fuori nella brughiera mangiava la folla vestita a festa; dopo il pranzo, l’imperatore – tra le «grida di gioia» dei contadini – si degnò di visitare la proprietà, di approvare i lavori e le migliorie fatte, e di ricevere le autorità locali, intrattenendosi con loro sulle «necessità del paese, e soprattutto degli agricoltori, la cui sorte è oggetto della costante preoccupazione del Sovrano». Napoleone III, in effetti, sapeva bene quale sostegno gli fosse sempre venuto dalla Francia rurale. Era stata Napoleona a organizzare tutto, a far arrivare da lontano i viveri necessari a sostentare le «devote popolazioni», quasi cinquemila persone. I maggiorenti del paese espressero al sovrano la loro riconoscenza per «l’insediamento fondato da sua cugina nelle brughiere del Morbihan»; Cassac, membro del Consiglio generale, lo ringraziò della presenza sua e dell’imperatrice, degli «incoraggiamenti all’agricoltura», e soprattutto perché per aiutarVi nello scopo che Vi proponete una Principessa della vostra famiglia ha sacrificato i piaceri e la tranquillità assicuratigli dalla sua alta posizione, per vivere nella solitudine e usare la sua influenza sullo spirito dei nostri contadini indirizzando la loro educazione professionale all’adozione di buoni metodi di cultura e all’uso di nuovi attrezzi per arare.9

Anche il clero locale era riconoscente a Napoleona, che aveva fatto restaurare a sue spese un’antica cappella in rovina dai tempi della Rivoluzione; la cappella era stata ornata da quadri dovuti a un pittore italiano, Giovanni Rota, da un organo dono della principessa e da un altare scolpito, ed era stata riconsacrata il 15 agosto, il giorno della festa dell’imperatore. 9. J.-M. Poulain-Corbion (historiographe du voyage impérial), Récit du voyage de Leurs Majestés l’Empereur et l’Impératrice en Normandie et en Bretagne, août 1858, Amyot, Paris 1858.

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Il progetto della principessa riprendeva (certo virata in una visione quasi feudale, dato che il proprietario effettivo della tenuta era l’imperatore, e a lei ne era affidata la gestione) l’idea delle colonie agricole formulata da Luigi Napoleone Bonaparte nel suo pamphlet Extinction du paupérisme. Il principe aveva proposto di mandare gli operai disoccupati (la classe dangéreuse e pronta alla ribellione, ma le cui drammatiche condizioni di vita preoccupavano i politici e gli economisti più avanzati), inquadrati in un’organizzazione quasi militare, a coltivare le campagne in abbandono. Gli operai sarebbero stati ospitati in villaggi modello, forniti di tutte le strutture necessarie (scuole, ospedali, chiese) a rendere tranquilla e sicura la vita loro e delle loro famiglie. Per un gioco di combinazioni fortunate, quindi, Napoleona non solo era riuscita a coronare il suo sogno di gestire in piena autonomia una grande proprietà, ma anche a inserirsi a pieno titolo e con prestigio nella politica imperiale, dando di sé un’immagine solida e positiva; non era più l’ideatrice di progetti chimerici e irrealizzabili, in cui continuava a perdere i denari propri e altrui, si era tramutata in una persona autorevole, competente e volenterosa, che rappresentava e garantiva, con la sua presenza e la sua attività, la premura e l’attenzione del sovrano nei confronti del suo popolo. Se non frequentava la corte non era perché vi fosse snobbata, ma perché aveva spirito di sacrificio e compiti più importanti da assolvere. Finalmente, nel doppio ruolo di vassalla e di padrona, si placarono armoniosamente le contraddizioni del suo carattere che le avevano sempre rovinato la vita. La popolazione bretone l’accolse con speranza e riconoscenza, perché da troppo tempo si sentiva emarginata e trascurata – per la lontananza, la reciproca diffidenza, le diversità di tradizioni e cultura – dal governo centrale. Erano ancora vivi i ricordi della lotta violenta dopo il 1793 tra gli chouans e le autorità rivoluzionarie, contro la coscrizione obbligatoria e in difesa del re e dei preti; i ribelli erano stati definitivamente sconfitti sotto Napoleone, ma i rancori erano durati a lungo, ed era forte la resistenza ai cambiamenti che venivano dalla capitale. Nel Morbihan in particolare – una zona poverissima, in cui la vita era molto dura – il regime imperiale non era mai stato amato: infatti, era stato uno dei quattro dipartimenti che alle elezioni del 10 dicembre 1848 non avevano dato la maggioranza relativa a Luigi Napoleone Bonaparte.

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Anche il prefetto, il più alto rappresentante locale del governo centrale, notò la benefica influenza della principessa sulla popolazione e sui notabili locali: Ho constatato, dopo ognuno dei viaggi di Sua Altezza – scrisse nel suo rapporto al ministro degli Interni –, che un progresso politico si opera non solo nella popolazione, ma anche tra i funzionari, e ho la convinzione che opponendo, in questo paese, a tutte le influenze contrarie l’influenza di Sua Altezza la cui alta intelligenza è oggi ben conosciuta, ne potrebbe risultare per l’Imperatore e per l’Impero un vantaggio certo e considerevole.10

L’arrivo di una parente stretta dell’imperatore, decisa a stabilirsi tra loro e disposta a sostenerne bisogni e richieste, sembrò ai contadini e ai marinai bretoni quasi un miracolo, un dono del Cielo; Jean Montels, il primo biografo di Napoleona – di origine bretone, e il cui padre aveva fatto in tempo a vederla – ricordava come nel XVIII secolo un mendicante guaritore e profeta che girava i paesi del Morbihan, Er Roué Stevan (il re dei mendicanti Stevan, un personaggio realmente esistito e il cui ricordo è ancora vivo e conosciuto), avesse predetto che «Una grande principessa stabilirà la sua dimora in questo paese e lo trasformerà […] si stabilirà a Colpo, vi costruirà una chiesa e un castello e trasformerà questo povero paese in una contrada fertile, in cui il contadino bretone non vivrà più nella miseria».11 Pur ignorando le speranze millenaristiche riposte in lei, Napoleona era tutta presa dalla sua opera; nel novembre del 1858 mandò da Rennes all’imperatore un’accurata relazione sullo stato dei lavori: la proprietà era composta di 369 ettari, di cui 60 dissodati e 18 di bosco; altri ne dovevano essere comprati, per arrivare fino alla cifra di 500 fissata da Napoleone III. Oltre allo châlet erano stati costruiti una fattoria con alloggi per il personale, pollai, stalle, scuderie e l’ovile; erano stati comprati anche cavalli da lavoro, buoi, vacche, un toro, montoni e maiali. Il tutto era costato 10. Rapporto trimestrale del prefetto Féart al ministro degli Interni Delangle dell’11 gennaio 1859, cit. in L.-T. Federspiel, Les forces politiques en Ille-et-Vilaine de 1848 a 1870, Mémoire présenté et soutenu en octobre 2004, Centre d’Histoire du droit de l’Université Rennes 1, p. 47. 11. J. Montels, La petite Napoléon, Éditions du Cerf Volant, Paris 1969, p. 17. Cfr. anche P. Boissière, Un vagabond-prophète du XVIII siècle: “Er Roué Stevan”, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 116 (1990), pp. 281-290.

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161.450 franchi, ma ora ne occorrevano altri 15.000 per terminare le opere iniziate, e poi 5.000 franchi al mese per un anno (ridotti a 3.000 per l’anno seguente) per terminare di acquistare i terreni. A Napoleona premeva dimostrare al cugino che non sprecava il suo denaro e, soprattutto, come la sua iniziativa potesse integrarsi nella visione di miglioramento delle condizioni materiali del popolo che stava a cuore all’imperatore: quanto all’effetto morale che ha potuto produrre questa azienda in uno dei cantoni più ostili al governo Vostra Maestà ha potuto giudicarlo nel corso del suo viaggio lascio all’amministrazione il compito di far conoscere all’imperatore i risultati ottenuti uno soltanto non credo debba passare sotto silenzio ed è la fine della mendicità in un comune in cui era diffusa all’estremo termine.12

Eugène Tisserand, un ispettore del Demanio imperiale mandato a visitare Korn-er-Houët l’anno seguente, confermò nella sua relazione l’avanzamento dei lavori di dissodamento e coltivazione delle terre, la «grande attività» dispiegata, le «importanti migliorie» realizzate e la «saggia e giudiziosa economia» che aveva ispirato tutte le iniziative. Alla fine l’ispettore (che poi rimase a Korn-er-Houët come amministratore) riconosceva il buon lavoro fatto da Napoleona: Dedicandosi così a un’agricoltura condotta con serietà, Madame la Principessa Baciocchi ha già potuto trovare nei risultati ottenuti la giusta soddisfazione che ispira la riuscita di un’impresa circondata all’origine da ogni genere di difficoltà. Sua Altezza ha lavorato per il bene e l’avvenire della sua proprietà e anche per la gente del paese che ha trovato a Korn-erHouët solidi e buoni esempi da seguire.13

Il viaggio di Napoleone III e di Eugenia, la presenza della loro cugina, riavvicinarono anche il tanto diffidente clero bretone al governo centrale; nel 1859 l’imperatore decise di finanziare la costruzione di una nuova chiesa a Napoléonville (la città bretone fatta edificare da Napoleone I nel 1805, e poi ribattezzata Pontivy), e Napoleona venne mandata a sovrintendere alla posa della prima pietra. Il 21 luglio 1860 il sottoprefetto inviò una 12. Relazione di Napoleona a Napoleone III da Rennes del 28 novembre 1858, ANP, 400 AP 23. 13. Relazione svolta da Eugène Tisserand sul domaine di Korn-er-Houët da Parigi il 17 ottobre 1859, ivi.

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circolare a sindaci, curati, vicari e rettori per invitarli a partecipare al rito: «Una cerimonia imponente e di grande significato per la nostra regione avrà luogo il 29 di questo mese. Sua Altezza Madame la Principessa Baciocchi verrà, in nome dell’Imperatore, a posare la prima pietra della chiesa di Napoléonville, dono della magnificenza di Sua Maestà».14 La presenza di Napoleona era richiesta non solo nel Morbihan, ma anche nel resto della Bretagna, e costituiva il segno tangibile del nuovo legame tra i Bonaparte e il popolo bretone. Nel settembre 1861, con l’assenso dell’imperatore, andò in viaggio ufficiale nell’arrondissement di Brest a inaugurare un istituto scolastico e a visitare le isole della costa vicina, per portare il saluto e il segno dell’interesse imperiale in quei luoghi remoti e ignorati. Fu un viaggio faticosissimo, ma che Napoleona fece con grande entusiasmo e il suo solito coraggio. La relazione del viaggio raccontava che «Madame la principessa Baciocchi che, da tre anni a questa parte, offre alla Bretagna tanti segni del suo interesse, ha onorato l’arrondissement di Brest di una sollecitudine che il paese non dimenticherà mai»; «Sua Altezza» aveva visitato «le popolazioni rurali, le coste, le isole, facendo del bene ovunque, tra le più vive dimostrazioni di devozione all’Imperatore da parte di tutte le classi della società». Domenica 1 settembre, accompagnata dai marchesi de Piré, dal sottoprefetto di Brest e da Monferrand, suo secrétaire des commandements, Napoleona aveva presieduto a Guipavas alla posa della prima pietra di una scuola per i bambini della campagna e di un istituto per l’istruzione agricola. Era arrivata in carrozza, accolta da quasi ventimila persone e scortata dai contadini a cavallo, «che l’hanno ricevuta con grida entusiaste di Vive l’Empereur, e che hanno seguito la sua carrozza al gran trotto, facendo a Sua Altezza tutto l’onore che potevano e anche molta polvere. Ma Mme la principessa Baciocchi non sembra temere né la polvere né la pioggia, e preoccuparsi solo del bene delle popolazioni, felice quando riesce a realizzarlo». Il sindaco, nel suo discorso, ricordò che l’istruzione della gioventù era stata fino ad allora lasciata indietro nel loro paese, ma che ormai era loro assicurato un avvenire migliore: «La vostra presenza tra noi, Madame la Principessa, ne è sicura garanzia» affermò. 14. Circolare del 21 luglio 1860 del sottoprefetto del Morbihan ai sindaci, curati, vicari e rettori dell’arrondissement, cit. in C. Floquet, Pontivy-Napoléonville. Une cité impériale, Mission du Bicentenaire de Napoléonville, Pontivy 2003, p. 155.

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Sapendo, Madame la Principessa, quanto vi interessiate all’agricoltura, conoscendo tutto il bene che diffondete intorno a voi, le riuscite trasformazioni che avete apportato in una zona della nostra Bretagna che fino ad allora era ancora allo stato di landa incolta, convinti soprattutto che, per la realizzazione del nostro progetto, ci era indispensabile il vostro alto patrocinio, ci siamo presi rispettosamente la libertà, per ottenerlo, di rivolgerci alla vostra benevolenza.

«Nulla può farci prevedere un miglior avvenire quanto la protezione di una principessa così conosciuta in tutta la provincia per il suo zelo per l’agricoltura e le sue opere di beneficenza», aggiunse il curato. Madame, ciò che onora i principi agli occhi di Dio e dei popoli, non è tanto l’aureola di gloria che li circonda quanto l’esempio delle virtù cristiane da loro praticate, e, a tale titolo, Madame, siamo fieri di vedere tra noi colei che, lungi dagli splendori della Corte, sembra aver consacrato la sua nobile esistenza a visitare le nostre capanne, a rendere fecondi i nostri campi e a spargere sui suoi passi la gioia e l’abbondanza.

Il sottoprefetto, infine, ricordò quale grande prova della sua sollecitudine avesse dato l’imperatore inviando in mezzo a loro sua cugina: «È certo grande questo segno di bontà, e non si sono visti sovente principi di famiglia regnante venire così, in un comune rurale, in mezzo agli abitanti della campagna, a presiedere a un’opera di interesse locale». Napoleona era fiera di tanti omaggi («ognuno ha potuto notare la soddisfazione che illuminava il suo volto», racconta la relazione), ma dovette trovarsi un po’ in imbarazzo quando toccò a lei rispondere – non era abituata a parlare in pubblico; fece un discorso semplice e conciso: era venuta, disse, con l’autorizzazione dell’imperatore, a porre la prima pietra di una scuola dove i bambini avrebbero trovato insieme l’educazione morale e religiosa che rende gli uomini forti, l’insegnamento agricolo che ne farà dei coltivatori intelligenti, capaci di capire i miglioramenti e di praticarli. Essi dissoderanno la landa, sostituendo così l’agio alla povertà. Le lezioni ricevute nell’infanzia non si dimenticano; sono quindi convinta che saranno tutti fedeli all’Imperatore e all’Impero nella persona del Principe Imperiale. Coraggiosi come i loro padri, essi combatteranno sempre, marinai o soldati, per la gloria della Francia.

Nei giorni seguenti, Napoleona decise di andare a visitare le isole di Ouessant e di Molène; erano terre difficili da raggiungere, perse in mezzo

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a scogli pericolosi e a violente correnti, ma lei non si fece spaventare: il 4 settembre, alle 6 di mattina, partì in battello a vapore con il marchese de Piré e il sottoprefetto per Ouessant, l’ultima propaggine della Francia nell’Atlantico, un’isola scoscesa, senza vegetazione e battuta dai venti, abitata da 2.500 persone (donne, bambini e vecchi, perché gli uomini erano tutti imbarcati). Tutta la popolazione dell’isola era ad accogliere la principessa al suo arrivo, con in testa il sindaco e il curato; anche qui il sindaco la ringraziò di essere venuta: ciò che è per noi il colmo di ogni favore, ciò che ci legherà sempre alla vostra famiglia e alla vostra dinastia, è che una principessa della famiglia imperiale, S. A. la principessa Baciocchi, malgrado il mare e i così difficili passaggi che ci separano dal continente, ha sfidato i pericoli che ci circondano per venire di persona a dare ai marinai di quest’isola la prova più clamorosa della sollecitudine dell’Imperatore e dell’Imperatrice.

Seguita da tutti gli abitanti dell’isola, Napoleona andò poi a porre la prima pietra della cappella, annessa a un ospedale, a una casa per le suore e alla scuola per le ragazze che l’imperatore aveva deciso di far costruire. «Quest’isola povera e ignorata», le ripeté il curato, «poteva solo credere di restare sconosciuta, e non avrebbe soprattutto mai osato sperare che una grande principessa sarebbe venuta a visitarla». In una cerimonia semplice e spontanea le ragazze del luogo le offrirono mazzi di fiori selvatici, i giovani mozzi le portarono gamberi e pesci su un letto di alghe, le bambine le regalarono un montone e due galline; il sottoprefetto (che rappresentava l’autorità centrale) assicurò che il futuro dell’isola sarebbe stato migliore: Il giorno della giustizia finisce sempre per venire, per i popoli come per gli individui. L’avete atteso per secoli. Sotto il regno di Napoleone III, non poteva ancora tardare. Oggi sorge, e la principessa che venite a gara a salutare con tante speranze, rappresenta per voi un sovrano che, al disopra di tutti i suoi titoli gloriosi, mette quello di padre del suo popolo. Finiranno dunque i lunghi secoli di sofferenza in cui vi sono mancate le cose più necessarie alla vita, sovente il pane, e sempre la cultura intellettuale, e in cui voi eravate, cosa incomprensibile, voi gli uomini più interamente devoti al servizio dello Stato e dell’umanità, i più diseredati della grande famiglia francese.

Il suo era il linguaggio (e le promesse) del politico, e Napoleona fu più stringata:

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Abitanti di Ouessant, la mia presenza nella vostra isola è una nuova prova della sollecitudine che ha l’Imperatore per le popolazioni più lontane del suo impero. Spero che il mio viaggio non sarà per voi inutile. Riferirò all’Imperatore i vostri bisogni, e invocando su di voi la sua benevolenza e la bontà sempre caritatevole dell’Imperatrice, vi avrò dato il miglior segno del mio interesse.

Si interessò poi alla zona paludosa dell’isola, raccomandando di farla bonificare e lasciando al sindaco il denaro necessario; si commosse profondamente quando vennero a salutarla un gruppo di vecchi soldati del primo Impero, decorati con croci e le medaglie di Sant’Elena, ringraziandola per la sua presenza che rinnovava in loro «il ricordo del nostro antico Imperatore Napoleone I». Si era fatto tardi, e stava salendo la nebbia: Napoleona dovette ripartire, con tutta la popolazione che rimase a lungo a guardare allontanarsi «la sola principessa che avesse mai pensato a mettere piede sul suo territorio». Si dovette rinviare di qualche giorno la visita all’isola di Molène, e alle otto di sera la principessa sbarcò a Brest, stanchissima e un po’ sconvolta dal mare agitato, «ma non rimpiangendo né pene né sofferenze».15 La vita di Napoleona era ormai fissata e circoscritta al Morbihan, e le sue proprietà lontane non la interessavano più; aveva già venduto Vivierles-Ruines per 600.000 franchi al diplomatico Raymond Sabatier e nel marzo 1861 cedette i suoi beni bolognesi a Napoleone III, in cambio – in aggiunta al suo appannaggio – di un vitalizio annuale di 100.000 franchi. Contemporaneamente il principe Napoleone, ex titolare del maggiorasco Baciocchi (i maggioraschi erano stati aboliti quando l’Emilia era stata unita al Regno d’Italia, e i beni fidecommessi erano stati divisi in parti uguali tra Napoleona e il cugino), vendette i suoi diritti all’imperatore per 500.000 franchi. Negli intricati affari che erano stati tessuti tra Napoleona e il figlio di Gerolamo, la principessa doveva ancora al cugino una rendita annuale e vitalizia di 12.000 franchi, per la cui garanzia aveva messo Villa Vicentina. Anche i rapporti con Parigi e la corte (a parte le relazioni tecniche mandate all’imperatore) si facevano rari: il 24 giugno 1860 era morto Gerolamo, e Napoleona non aveva legami stretti con il resto della sua 15. Voyage de son Altesse Mme la Princesse Baciocchi à Brest, septembre 1861, J.B. & A. Lefournier, Brest 1861.

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famiglia. A partire dal 1861, si stabilì definitivamente in Bretagna; nell’aprile del 1860, per 75.000 franchi, aveva comprato a Rennes, tra la rue des Francs-Bourgeois e la rue de Corbin, l’Hôtel de Châteaugiron, il vecchio e un po’ delabré palazzo seicentesco di famiglia del primo marito di Laure de Piré. Napoleona lo fece restaurare, ammodernare (l’imperatore le aveva dato allo scopo 100.000 franchi), e fece abbellire con ricchi lampadari e raffinati pavimenti intarsiati le grandi sale di ricevimento. Il nuovo borgo di Colpo stava nel frattempo assumendo un volto definitivo: il 4 giugno 1864 il paese venne eretto a comune, e il 21 febbraio 1866 diventò parrocchia; pagata dalla cassetta personale dell’imperatore, intorno a un’avenue principale era iniziata la costruzione, in mattoni e pietra chiara, delle scuole, di un ospedale, del municipio, di una chiesa con presbiterio e campanile. La chiesa, a una sola navata, ad archi gotici, pavimentata di lastre di pietra, venne decorata con due vetrate rappresentanti sant’Agostino e san Carlo Borromeo, e arredata con confessionali e un coro di stile gotico, e con un portamessale fregiato dell’aquila imperiale; sulle chiavi di volta del soffitto erano rappresentate – insieme allo stemma del vescovo di Vannes – le armi di Napoleone III e dei Baciocchi. Sull’aguzzo campanile erano appese la campana grande che la principessa aveva regalato alla chiesa (la Napoléone), e quella piccola (l’Olive), donata dal prefetto del Morbihan. Il fragile châlet di legno di Korn-erHouët venne sostituito da un castelletto di pietra grigia e rosa, alto sulla strada che portava a Vannes e circondato da un vasto parco; era costituito da un corpo centrale, con un’ala laterale da una parte e una veranda dall’altra, piccoli abbaini spuntavano dal tetto, e graziose balaustre di ferro battuto a volute floreali decoravano i balconi. Sulla facciata, sopra l’entrata, erano scolpite nella pietra le aquile napoleoniche e le iniziali della principessa, NB; nel giardino, Napoleona fece piantare alberi rari, sequoie e querce, cespugli di erica e di lillà, fece scavare un pozzo e un laghetto e costruire una colombaia dal tetto a cono. Era convinta di doversi fare eco delle necessità della popolazione locale (in seguito le vennero attribuite iniziative che erano in realtà già state prese prima, per esempio la costruzione del potente faro di Creac’h sull’isola di Ouessant) e si sentiva autorizzata a intervenire nelle decisioni pubbliche. Cercò di ottenere che la linea ferroviaria AurayNapoléonville, allora in costruzione, venisse sostituita dal tragitto Vannes-

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Napoléonville, con tappa a Colpo; non vi riuscì, ma il 18 dicembre 1864 fu mandata in rappresentanza dell’imperatore a inaugurare la nuova linea. Qualche giorno dopo era a Lorient, a distribuire soccorsi agli operai dell’arsenale vittime di un’epidemia di colera. Se era a Rennes presenziava sempre ai dîners ufficiali della prefettura, dove alla fine portava regolarmente il brindisi alle Loro Maestà, e la domenica andava a messa nella sua carrozza scortata da gendarmi a cavallo: era, insomma, considerata la legittima rappresentante della famiglia imperiale nella zona. Quando però cercò di intromettersi nella politica bretone, sommergendo il ministro Billault, originario di Nantes e uno dei grands commis del governo di Napoleone III, di richieste di interessamento e di raccomandazione per prefetti e sottoprefetti, le venne gentilmente ma fermamente fatto capire che il suo era un ruolo di alto valore simbolico e morale, e che si limitasse a questo. Billault, che era un grande amico di Matilde Bonaparte e soprattutto di Julie di Roccagiovine, e che era anche vicino di campagna di Napoleona, le rispondeva sempre con molta cortesia, ma doveva esserne esasperato; Fanny Busson, la figlia di Billault, scrisse al marito che pur stando poco bene il padre si sentiva in dovere di pranzare dal vescovo con la principessa, «ciò che sarà poco gradevole essendo lui sofferente».16 La gestione della tenuta agricola dava invece a Napoleona grandi soddisfazioni: aveva comprato altra terra, e adesso la proprietà ammontava a 525 ettari; qualche anno dopo, prese anche una piccola fattoria in affitto presso Rennes. Era un terreno difficile, una brughiera paludosa che andava drenata e lavorata, ma qui Napoleona sapeva come muoversi; con passione cercò e si fece mandare da tutta la Francia gli attrezzi e i materiali migliori e più moderni, e si fece fabbricare dagli artigiani del posto, su suo disegno, gli utensili più adatti. Nella sua biblioteca, a Rennes e a Korn-er-Houët, teneva libri e riviste di architettura, di agricoltura e zootecnia; il bestiame era stato scelto con cura, i maiali erano stati fatti arrivare dall’Inghilterra, le mucche erano quelle famose dell’Ayrshire e dal loro latte veniva ricavato un ottimo formaggio, simile a quello olandese. Piena di idee, fece piantare dei pini nella penisola di Quiberon, si fece 16. N. Blayau, Billault, ministre de Napoléon III, d’après ses papiers personnels, 1805-1863, Librairie C. Klincksieck, Paris 1969, p. 368. Negli Archives de la LoireAtlantique, dove sono conservate le carte di Billault, sono presenti 21 lettere e biglietti di Napoleona.

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dare in concessione una baia a Toulvern e la fece chiudere per creare un vivaio di pesci, poi mise su un allevamento di ostriche nella rivière di Auray e prese in gestione una miniera di carbone vicino Brest. Nel 1862 aveva fondato a Korn-er-Houët, sotto il patronato del principe imperiale, un concorso agricolo che incentivasse i contadini del Morbihan a dissodare le loro terre; all’agricoltore del Morbihan (proprietario o fittavolo), che avesse «il più e meglio dissodato» i suoi campi, sarebbero stati assegnati una medaglia d’oro con l’effigie del figlio di Napoleone III e un premio di 1.500 franchi. Insieme ai marchesi de Piré e al suo segretario Monferrand, Napoleona faceva appello a «tutti coloro che amano l’agricoltura o che se ne occupano in modo serio», perché si tassassero annualmente e finanziassero la sua iniziativa.17 La fama di una rappresentante della famiglia imperiale, che si occupava di agricoltura con coraggio, competenza, intraprendenza e “spirito moderno”, e che era andata a “colonizzare” una regione così remota, si diffuse anche fuori della Francia: in una guida della Bretagna (allora considerata una delle zone più pittoresche d’Europa) una signora inglese, Mrs. Fanny Bury Palliser, raccontava la bella storia della «Princess Baciocchi» che, rimasta impressionata dalla «landa selvaggia» del Morbihan, aveva chiesto al cugino imperatore di intervenire e in pochi anni aveva operato una «meravigliosa trasformazione». Era stato costruito un «villaggio modello», era stata riunita una «ben organizzata popolazione di agricoltori», la sterile landa era stata resa fertile e lì the benevolent Princess aveva stabilito la sua residenza, «tra il popolo di cui aveva tanto migliorato le condizioni».18 La circondava la stima dell’opinione pubblica, ma stavano anche venendo fuori le difficoltà di un’impresa tanto azzardata, perché – per quanto Napoleona godesse dell’appoggio economico dell’imperatore – le imprese iniziate erano troppe e disordinate, le spese erano altissime e i finanziamenti non erano illimitati; nell’estate del 1865 la principessa era molto preoccupata, e comunicò bruscamente al marchese de Piré che non 17. Appello cit. in Montels, La petite Napoléon, p. 86. Cfr. anche F. Robiou de la Trehonnais, Défrichement des landes de Bretagne. Concours de Corn-er-Houet sous le patronage du prince impérial, 27 juillet 1863, Ad. Lainé et J. Havard, Paris 1863. 18. Mrs. Bury Palliser, Brittany & its byways. Some account of its inhabitants and its antiquities: during a residence in that country, John Murray, London 1869, pp. 187-188.

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aveva alcuna intenzione di viaggiare perché non aveva soldi: «L’ho detto parecchie volte a Mme de Piré che è persuasa che io abbia un sacco di denaro nella mia scrivania e che dovrebbe ben credermi quando le dico che non ne ho».19 Nel governo e nella corte, dove si era sempre diffidato di lei e delle sue capacità, si riaccesero le critiche e l’ostilità al suo progetto; oramai abituata a decidere e comandare senza restrizioni, Napoleona non sopportava né le contrarietà che le venivano da Parigi, né gli inciampi e i contrasti con le autorità e la popolazione locale, e cominciò a pensare ad abbandonare tutto. Per sua fortuna, Napoleone III trovò vantaggioso aiutarla; si trovava infatti in un momento difficile del suo governo, l’opposizione politica aveva ripreso forza, e lui stesso, da tempo, desiderava rendere più liberale il suo regime. Aveva quindi un estremo bisogno dell’appoggio delle popolazioni rurali, che gli avevano sempre fornito la sua più solida base di consenso: venne ancora una volta – stavolta da solo – in visita alla cugina; il 7 novembre 1865 era a Korn-er-Houët e alloggiò nel castelletto, poi nei giorni seguenti visitò la proprietà e le nuove costruzioni di Colpo. L’11 decorò Chartier, il fattore, e il giorno dopo mandò una lettera pubblica di congratulazioni a Napoleona; tornato a Parigi, si assicurò che le venissero forniti i finanziamenti necessari a portare a termine il progetto. Napoleona si sentì allora molto più confortata e fece riprendere i lavori, per quanto con la consueta lentezza; qualche mese dopo respinse recisamente la proposta che le faceva il marchese de Piré, di vendere Korn-er-Houët e di comprare la tenuta di famiglia dei de Piré: È vero che mi avete sentito dire che ne avevo abbastanza della Bretagna e dei bretoni, ma era prima del viaggio dell’Imperatore quando tutto quanto mi veniva da parte del governo sembrava fatto apposta per essermi sgradevole, ma dopo che l’Imperatore è venuto, e che ha fatto per Colpo quello che voi sapete, come potete pensare che io voglia abbandonare la landa. Finché avrò vita Korn-er-Houët non sarà venduto.

Era anzi preoccupata che le voci di un’eventuale vendita arrivassero fino a Parigi, che si dicesse come – una volta partito l’imperatore – lei pen19. Lettera di Napoleona al marchese de Piré del 17 agosto 1865, in J.-J. Milhiet, Lettres inédites de la Princesse Baciocchi au Marquis de Piré, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 94 (1967), pp. 3-7, p. 3.

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sasse solo ad andarsene; «Sapete come si è sempre pronti a fare chiacchiere e a interpretare male tutto quello che uno fa»20 aggiunse, perché le erano rimasti – anche se aveva sessant’anni e molte esperienze alle spalle – la paura di sbagliare, il timore di essere giudicata e rimproverata. Nei mesi successivi, tuttavia, la commissione che doveva valutare la prosperità delle tenute agricole del dipartimento lodò la sua opera, e il ministero dell’Agricoltura le conferì una coppa d’onore. Era sempre più irritata con il suo chevalier d’honneur che, nei suoi interventi al Corps législatif, continuava a difendere il potere temporale del papa. In quegli ultimi anni di governo, Pio IX si reggeva solo grazie alla presenza delle truppe francesi a Roma; quando, con la Convenzione del settembre 1864 con il Regno d’Italia, venne decisa la loro evacuazione dallo Stato Pontificio, il marchese de Piré fu tra i più strenui oppositori, mettendo così in difficoltà Napoleona di fronte all’imperatore e ai suoi ministri. Sulla situazione italiana, le sue idee erano rimaste quelle della giovinezza, rafforzate dalla fiducia cieca che aveva nell’operato di Napoleone III. Sapendo che il marchese intendeva parlare in aula della questione romana, gli scrisse di essere assolutamente contraria: «Non ho mai cercato di farvi votare secondo le mie idee perché, ai miei occhi, il voto è una cosa di completa libertà individuale, ma un discorso è cosa del tutto differente e credo che fareste bene ad astenervi dal parlare»;21 Piré non le diede ascolto, e il 1 marzo dichiarò dalla tribuna che la convenzione gli sembrava «lo sgozzamento pacifico del potere temporale». Nel giugno 1866, venendo a sapere che il marchese aveva preso ancora una volta posizione contro il governo, Napoleona gli riscrisse furiosa: Ma che passione avete dunque di parlare sempre su tutti gli argomenti! Non ho mai avuto la pretesa di costringervi a rappresentare le mie idee al Corps Législatif, ma mi sembra che potreste smettere questa opposizione costante senza che ciò diminuisse in niente la vostra indipendenza, perché infine potete sempre votare come volete e sapete bene come io non mi sia mai immischiata in nessun modo nei vostri voti.22 20. Lettera di Napoleona al marchese de Piré del 16 febbraio 1866, ibidem, p. 4. 21. Lettera di Napoleona al marchese de Piré del 22 febbraio 1866, in Cahuet, Le voyage de Madame de Piré, p. 78. 22. Lettera di Napoleona al marchese de Piré del 28 giugno 1866, in Milhiet, Lettres inédites de la Princesse Baciocchi au Marquis de Piré, pp. 5-6.

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Le molte traversie in cui era incappata le avevano ormai insegnato che – per quanto insubordinata e ribelle lei fosse – esistevano degli interessi più forti da rispettare, anche obtorto collo; era però rimasto forte in lei il bisogno di libertà dalle convenzioni e dalle costrizioni: amava tanto vivere in Bretagna perché lì – al contrario di Parigi – poteva girare a cavallo per la città, magari con il sigaro in bocca, poteva vestirsi come le pareva (anche con i pesanti indumenti dei contadini bretoni) e tagliarsi i capelli corti, poteva andare a caccia, esercitarsi a sparare e tenere a casa una notevole collezione di armi, poteva sorvegliare di persona i lavori e sedersi accanto agli operai fumando la pipa. La gente del posto le voleva bene e le era riconoscente, pur trovandola molto eccentrica; dopo la sua morte, a Colpo e a Rennes continuarono a ricordare le sue stravaganze: anche loro (come Chateaubriand) raccontavano che chiamava i suoi domestici sparando con il revolver – e, quindi, forse lo faceva veramente. Dopo la venuta dell’imperatore Napoleona aveva ripreso con entusiasmo il suo ruolo; verso la fine del 1866 andò a confortare e a portare aiuto ai colerici di Arzon all’uscita del golfo del Morbihan, poi s’interessò a una nuova fabbrica di laterizi che era sorta nei paraggi. Ma cominciava a risentire del clima rigido e di una vita faticosa in cui, contando sulla sua forte fibra e sulla resistenza fisica, non si era mai risparmiata, così come non si era mai preoccupata o lamentata della sua salute (nelle sue lettere, al contrario di quanto si faceva allora normalmente, non parlava mai di malesseri o malattie). Nel gennaio 1867 si ammalò di una grave affezione cardiaca, giunse in punto di morte, poi – quasi miracolosamente – si riprese. Nei mesi seguenti si diede ancora molto da fare per creare nel dipartimento ulteriori sezioni della Société du Prince impérial, di cui era presidente, e che aveva lo scopo di aiutare agricoltori e artigiani bretoni a fornirsi di utensili e ad apprendere nuovi metodi di coltura; all’Esposizione universale che si tenne quell’anno a Parigi le venne anche conferito un Brevet de récompense per la sua attività agricola. Il 16 agosto 1867 stava abbastanza bene da accogliere a Sainte-Anne d’Auray, il più celebre Pardon della Bretagna, il contrammiraglio La Roncière venuto in pellegrinaggio con i suoi marinai. Nel febbraio dell’anno seguente, nel suo palazzo di Rennes, salendo in carrozza scivolò e si ruppe una gamba; stette molto male ma non volle – aveva sempre avuto pudore delle sue sofferenze, e non aveva mai volu-

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to mostrare le sue debolezze agli altri – che si sapesse, soprattutto a Parigi e tra le persone da cui si sentiva (ed era) trascurata: Vi prego non annoiate nessuno con i bollettini sulla mia salute – scrisse al marchese de Piré –. Capite bene che se il Principe Napoleone e i Murat li desiderano sanno bene come domandarli. Non vorrei per nulla al mondo annoiare nessuno con il mio incidente. Sto meglio, hanno aperto l’apparecchio questa mattina e non c’è differenza sensibile tra una coscia e l’altra. Il dottor Jacobet che ha toccato la gamba, così come M. Regnault, hanno constatato che la saldatura si è fatta, anche se naturalmente non è ancora resistente. Non strombazzate a tutti questa notizia a Parigi, ve ne prego.23

Un dolore più cocente la colpì quando in aprile, ancora giovane, morì Laure de Piré; la marchesa fu molto rimpianta (il «Journal de Rennes» scrisse che aveva lasciato nella società locale «il ricordo dei brillanti successi della sua giovinezza come donna di mondo elegante, spiritosa e dotata di notevole bellezza»)24 ma, soprattutto, lasciò un gran vuoto nella vita di Napoleona. Le mancavano la presenza quotidiana di Laure, la sua allegria e la sua dolcezza, la sua capacità di mediare tra la prepotenza e il carattere tagliente di Napoleona e i colpi di testa del suo chevalier d’honneur. La principessa si trovò sola, per quanto circondata dai fedeli domestici, che l’avevano quasi tutti seguita da Villa Vicentina; per fortuna, come nuovo secrétaire des commandements le era appena stato assegnato un suo lontano cugino, il giovane luogotenente Jules-Étienne Baciocchi. La pena peggiore fu per lei – sebbene la frattura della gamba si fosse saldata – di non poter più camminare. Per un po’ di tempo, sperò di poter recuperare le forze e ricominciare a muoversi: stringendo i denti, nel giugno 1868 scrisse al marchese de Piré per dargli sue notizie, che non sono un gran che. Da due giorni soffro molto, il ginocchio che mi dicono sempre non avere niente non mi lascia un istante di tranquillità. Le mie insonnie mi hanno impedito di cercare di alzarmi: d’altronde l’apparecchio che deve permettermi di farlo sarà pronto solo stasera, proverò domani.25

Nonostante la sua forza di volontà e la tenacia, la forza e la robustezza di cui aveva sempre goduto la stavano abbandonando: le ultime foto23. Lettera di Napoleona al marchese de Piré, s.d., ibidem, pp. 6-7. 24. Cit. in Cahuet, Le voyage de Madame de Piré, p. 81. 25. Lettera di Napoleona al marchese de Piré dell’8 giugno 1868, in Milhiet, Lettres inédites de la Princesse Baciocchi au Marquis de Piré, p. 7.

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grafie la ritraggono distesa su una poltrona, fragile e quasi inerme, smagrita in modo impressionante, con i capelli cortissimi e lo sguardo sofferente e smarrito. Riuscì, all’inizio di novembre 1868, ad assistere a Rennes al matrimonio di Jules-Étienne Baciocchi, poi andò a poco a poco declinando; morì, nella sua casa di Korn-er-Houët, alle nove della mattina del 3 febbraio 1869. Accanto a sé aveva il giovane Baciocchi, Pietro Zaccaria che era il suo intendente in Friuli, il suo maggiordomo Valentino Covaric con la moglie Giuditta cameriera e Barbara Mancinelli guardarobiera, due medici, una suora dell’ordine dell’Espérance e Madame Falian de Cimier, un’amica che le era stata affettuosamente accanto negli ultimi tempi. Era morta nel cerchio ristretto delle poche persone che vivevano con lei; quando la notizia si diffuse nel paese e nella regione intorno, però, accorsero a renderle omaggio le autorità locali e soprattutto, e in gran numero, la gente del posto: per giorni, finché non si celebrarono i funerali, i contadini andarono a inginocchiarsi, con ordine e discrezione, nella camera ardente, dove giorno e notte due preti vegliavano in preghiera. Mostravano, raccontò il suo intendente Eugène Tisserand, «raccoglimento e dolore, segni della sincerità dei rimpianti di questi bravi contadini bretoni»; nella morte il volto di Napoleona era rimasto lo stesso, aggiunse Tisserand, e assomigliava ancora in modo impressionante a quello «del suo augusto zio».26 I funerali furono celebrati l’11 febbraio, per dare il tempo di organizzare una cerimonia solenne e di far arrivare da Parigi i rappresentanti del governo e della famiglia imperiale. Napoleone III non venne: era stato molto male l’anno precedente e continuava a non stare bene, e poi non poteva lasciare la capitale e una situazione politica estremamente tesa; le leggi del 1868 sulle libertà di stampa e di riunione avevano permesso la nascita di associazioni e giornali che ormai criticavano aspramente e apertamente il suo regime, i suoi ministri litigavano tra loro, e anche la sua politica estera aveva subito una serie di sconfitte. Negli ultimi mesi del 1868 due giornali repubblicani avevano lanciato una sottoscrizione per elevare un monumento al deputato Baudin, morto durante i moti di piazza del 3 dicembre 1851; la sottoscrizione aveva avuto un grande succes26. Lettera di Eugène Tisserand da Korn-er-Houët del 5 febbraio 1869 ad Alphonse Gautier, secrétaire général du ministère de la Maison de l’Empereur, ANP, 400 AP 22.

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so, il governo aveva maldestramente citato in giudizio i giornali e aveva vinto il processo, ma l’avvocato difensore Léon Gambetta, in un’arringa violenta e riportata ovunque, aveva duramente attaccato il colpo di Stato e gli uomini che l’avevano compiuto. Si stavano poi preparando, in un’atmosfera di eccitazione e di rivincita, le nuove elezioni che dovevano svolgersi nel maggio 1869. L’imperatrice non si mosse per i funerali, e così fecero il principe Napoleone e Matilde (che pure erano da sempre stati legati a Napoleona) e altri membri della famiglia; era una stagione troppo rigida per fare un viaggio così lungo, e poi la principessa Baciocchi – da tanto tempo ritirata in Bretagna, lontana dalla vita e dagli intrighi della corte – era stata quasi dimenticata. Come rappresentante della famiglia imperiale fu mandato Joachim Murat, figlio di Lucien, uno dei lions del mondo ufficiale, bello, pettegolo e vanitoso (nell’esercito lo chiamavano «le Prince crétin»);27 come membro del governo arrivò il maresciallo Vaillant, ministro della Maison de l’Empereur, mentre il principe Napoleone inviò in sua vece il colonnello Ragon suo aiutante di campo. Venne anche Adolphe Clary, figlio di Joachim, che era stato affidato a Napoleona dopo la morte del padre, e che era diventato ufficiale d’ordinanza dell’imperatore. Intervennero invece in massa le autorità civili e religiose del Morbihan, il prefetto e il sottoprefetto, i magistrati, i funzionari amministrativi, i membri del Conseil général, gli alti gradi militari, i sindaci, e poi gli arcipreti, i superiori dei Seminari, i Gesuiti e i Fratelli dell’Istruzione cristiana, i curati e i vicari, e migliaia di contadini; 15.000 persone fecero ala al corteo funebre, mentre i soldati del 10° reggimento di fanteria di stanza a Vannes rendevano gli ordini militari. In una giornata gelida e inclemente, dodici contadini portarono a spalla il feretro fino alla chiesa di Colpo, dove Napoleona aveva chiesto di essere sepolta; il suo corpo, secondo la sua formale e più volte reiterata volontà, era stato avvolto in uno dei lenzuoli che erano stati sul letto di Napoleone a Sant’Elena: voleva, nella morte, ancora una volta confondersi con il fondatore e il capo della sua famiglia.28 27. Cfr. La princesse Julie Bonaparte marquise de Roccagiovine et son temps, p. 357 (20 maggio 1867) e p. 436 (12 aprile 1869). 28. Il lenzuolo in cui si fece seppellire Napoleona, e che stava sul letto di morte di Napoleone I a Longwood, le era arrivato con la seconda divisione tra gli eredi delle reliquie napoleoniche, avvenuta il 29 dicembre 1836; cfr. la dichiarazione di seppellimento

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Il vescovo di Vannes, Jean-Marie Bécel, celebrò il rito; nella sua bella e penetrante orazione funebre sulla «très-noble, très-puissante et trèsbonne Princesse Napoléone-Elisa Baciocchi» (una formula che aveva il sapore arcaico della Bretagna medievale), ricordò «la rispettosa simpatia» che gli aveva ispirato «questa donna d’intelligenza, di cuore e di carattere, il cui nome sarà sempre benedetto e amato tra noi», e «che non aveva nulla di volgare, e le cui contraddizioni, talvolta eccessive, potevano ingannare facilmente». «Qui se humiliat, exaltabitur!», chi si abbassa sarà esaltato, ricordò, rivendicando l’appartenenza di Napoleona alla Bretagna: «Grazie a una specie di attrazione provvidenziale, quest’anima energica, che, senza cercare le difficoltà, non temeva di lottare, investì interessi considerevoli da tutti i punti di vista in un paese accidentato, arido, incolto e quasi deserto». La popolazione ne venne favorita, ma anche «Colei che doveva essere oggi il centro di una marcia trionfale piuttosto che funebre» vi trovò consolazione e sollievo: «Conducendola nella solitudine, Dio intendeva parlare al suo cuore e porre un balsamo lenitivo su piaghe aperte, e che mai si sarebbero chiuse». Rammentò anche, con discrezione, la dolce figura della marchesa de Piré: Ciò di cui aveva bisogno, dopo i legami naturali e intimi che solo la morte poteva spezzare, era un’amicizia discreta, devota e intelligente. Dio le fece questa grazia. La compagna più assidua del suo ritiro doveva precederla di qualche mese nella tomba. Sua Altezza ne provò una pena profondissima, che forse si tenne dentro troppo a lungo.

Risalì all’epoca dell’arrivo di Napoleona nel Morbihan: «Chiunque avesse previsto, vent’anni fa, che un angoletto delle lande di Lanvaux sarebbe presto diventato la residenza di una Principessa che aveva gioito degli splendori del primo e del secondo Impero francesi, sarebbe stato giudicato un sognatore»; lui stesso si era potuto spiegare la volontà di lei di venirsi a stabilire in un luogo così povero e desolato solo pensando a un intervento provvidenziale, e conoscendo «il carattere di questa donna straordinaria». La principessa, infatti, capiva bene le necessità della nostra epoca. Con la penetrazione che Dio le aveva dato, aveva previsto che sarebbe stato possibile realizzare teorie più o dei medici a Korn-er-Houët del 6 febbraio 1869, ANP, 400 AP 22, e J. Lemaire, Le Testament de Napoléon. Un étonnant destin, 1821-1857, Plon, Paris 1975, pp. 145-173.

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meno pratiche, e risolvere problemi tanto ardui da mettere in imbarazzo gli economisti più autorevoli e gli uomini di Stato meno suscettibili di utopie.

Concluse chiedendo a Joachim Murat di portare all’imperatore le loro condoglianze, e insieme la loro gratitudine per avere lasciato tra loro «le spoglie mortali della sua augusta Cugina. Questo prezioso tesoro ci darà consolazione e speranza». Sperava ancora, aggiunse, che le loro maestà, «augusti pellegrini», sarebbero tornati a rendere visita a «un angoletto di terra fecondo di miracoli»,29 portando con loro il giovane principe imperiale, pegno e speranza per il futuro. Dal suo discorso traspariva lo stesso timore che angosciava le autorità e la popolazione del luogo: che, una volta morta Napoleona, l’imperatore e il governo centrale si disinteressassero del Morbihan, e lo lasciassero nell’abbandono in cui la principessa l’aveva trovato. Il corpo di Napoleona venne deposto nella cappella a destra dell’altare – dove lei seguiva sempre la messa – in un sarcofago di granito grigio, ornato delle iniziali NB, delle api e dell’aquila imperiale, delle armi di Lucca e Piombino e delle armi dei Baciocchi; l’iscrizione recitava semplicemente: Son Altesse Napoléon Elisa Baciocchi née à Lucques le 3 juin 1806 décédée à Korn-er-Houet Morbihan le 3 février 1869.

Con alcune modifiche, il suo testamento era rimasto in sostanza quello del 1858: Napoleona dichiarava di morire «nel seno della Chiesa cattolica Apostolica Romana, in cui sono nata il 3 giugno 1806» e lasciava – come già nel 1858 – tutti i suoi averi al principe imperiale, perché «Tutto ciò che possiedo mi viene dal primo Impero, ed è giusto che ritorni al secondo». I suoi beni consistevano nell’Hôtel de Châteaugiron a Rennes, in un terreno nel comune di Thorigné, nella grande proprietà di Villa Vicentina e in un terreno a Neuilly, presso Parigi; quest’ultima proprietà, il mobilio e gli oggetti di valore dovevano essere venduti per pagare una serie di legati alle persone che le erano state più vicine: 150.000 franchi al suo intendente Pietro Zaccaria, piccole rendite agli altri suoi 29. À la mémoire religieuse de Son Altesse Madame la Princesse Baciocchi par l’Évêque de Vannes, L. Galles, Imprimeur de Monseigneur l’Èvêque, Vannes 1869.

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collaboratori e un anno di paga a tutti i domestici. All’ospedale di Colpo andavano 200.000 franchi, 10.000 franchi ai poveri del paese, 1.000 franchi alla chiesa in cui sarebbe stata seppellita. Nel suo primo testamento aveva chiesto di donare alla marchesa de Piré una delle poche opere d’arte che ancora possedeva, una Vergine con bambino e Giovanni Battista attribuita al Tintoretto, pregandola di «accettare questo piccolo ricordo come segno della mia sincera amicizia»; alla sua ultima amica, Madame Falian de Cimier, lasciò un servizio da tè d’argento e la coppa d’onore vinta al concorso agricolo di Vannes, e ad Adolphe Clary assegnò la redingote grigia portata da Napoleone I durante la campagna di Francia nel 1814.30 Il meticoloso inventario degli oggetti e dei valori contenuti nel palazzo di Rennes e a Korn-er-Houët rivelava la semplicità della sua vita da “gentiluomo di campagna”: pochi gioielli, i quadri di famiglia che non aveva venduto all’imperatore (i ritratti di Napoleone I, del duca di Reichstadt, quelli delle persone che aveva amato di più, i suoi genitori, Gerolamo, il principe Napoleone e Matilde, tante foto e immagini del figlio, Napoleone III, Eugenia e il piccolo principe, anche Demidov), una bella collezione di armi (sciabole, spade e pugnali, carabine e fucili da caccia, revolvers, cartucce), un po’ di argenteria, cannocchiali, scatole di sigari, canne e ami da pesca. Napoleona, nonostante la sua vita avventurosa, aveva imparato ad apprezzare la lettura e possedeva molti libri, oltre a quelli che le servivano per l’attività agricola: classici, libri di storia e di viaggi, ancora le opere di Madame di Genlis che aveva sovrinteso alla sua educazione di bambina. Nella sua biblioteca c’era anche una copia de l’Insurrection de Strasbourg le 30 octobre 1836, et procès des prévenus de complicité avec le prince Napoléon-Louis devant la cour d’assises du Bas-Rhin, pubblicato nel 1837; dentro il volume erano custodite due lettere autografe, datate 1830, una di Luigi Napoleone e una di sua madre Ortensia. Dovevano avere un grande interesse, se Napoleona le aveva conservate per tanto tempo, ma purtroppo non sappiamo né cosa contenessero né se siano comprese tra quelle ora presenti negli Archives 30. Testamento stilato da Napoleona il 25 gennaio 1858 presso il notaio Mocquard, art. 8, e lettera del notaio Aubrée a Mocquard, da Rennes, del 5 febbraio 1869, ANP, 400 AP 22. Si veda anche l’inventario dei suoi beni, ivi.

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Nationales di Parigi; a lato nell’inventario è annotato «Questo volume è stato consegnato a Mons. Gautier il 28 settembre 1869» e Alphonse Gautier era il segretario generale della Maison de l’Empereur, che dovette averle prese e consegnate nelle mani di Napoleone III. Il ministro Vaillant era stato incaricato dall’imperatore, con grande premura, di riportare indietro con sé gli oggetti appartenuti a Napoleone I che la principessa aveva ereditato da Madame Mère, e che aveva gelosamente conservato in tutte le sue travagliate vicende. Si trattava di libri annotati dall’imperatore, della redingote lasciata ad Adolphe Clary, della spada da primo console opera di Nicolas Boutet, di alcuni effetti di vestiario provenienti da Sant’Elena (tra cui una di quelle sciarpe di Madras che l’imperatore si arrotolava intorno alla testa quando non si sentiva bene), delle lenzuola in cui era morto (tranne quello usato per avvolgere il corpo di Napoleona), di un paio di speroni d’argento, di un piattino in vermeil, e di parecchie tabacchiere preziose. Napoleone III teneva molto a entrare in possesso di questi ricordi: le reliquie del primo imperatore potevano essergli utili per risvegliare memorie gloriose, e ridare smalto a un regime che si andava indebolendo tra i contrasti interni e la crescita minacciosa della potenza prussiana all’esterno. Era sempre stato un uomo superstizioso, che aveva creduto fermamente al suo destino e alla sua stella anche quando sembrava non avere nessuna speranza, ma fino ad allora non aveva mai dato tanta importanza a questi cimeli – l’unico talismano che portò con sé nel portafogli per tutta la vita fu l’ultima lettera che gli aveva mandato la madre Ortensia, piena di tenerezza ma priva di qualunque riferimento all’epopea napoleonica. Sui giornali si parlò di Napoleona e della sua morte come di un ultimo vestigio del primo Impero che scompariva, di una figura quasi mitica: Réné du Merzer, nel suo necrologio su «L’Illustration», ricordò il suo «temperamento virile, di una tempra vigorosa», il suo tentativo di rapire il duca di Reichstadt, la sua scelta – sempre per servire la causa della dinastia – di ritirarsi nella «solitudine» di Korn-er-Houët, decisa a «diffondere, in questo paese mal coltivato, i metodi perfezionati della scienza. Ha dissodato lande aride, ha insegnato come usare il letame del bestiame, ha mostrato come coltivare in grande, non è indietreggiata di fronte ad alcun ostacolo». I contadini bretoni l’avevano molto amata, grati «a questa principessa dalle maschie virtù, che ai piaceri parigini preferiva le lande e le

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brughiere della Bretagna, e che come loro amava l’azione, il lavoro e il proprio dovere». L’articolo era accompagnato dalla riproduzione di un bel busto di lei in età matura, opera dello scultore Antoine-Samuel Adam Salomon, che sembrava ricalcato nell’espressione e nella fermezza dei lineamenti sui ritratti ufficiali di Napoleone I.31 L’eredità che aveva lasciato al principe imperiale era cospicua, ma molti lavori erano rimasti da completare, molte pendenze dovevano ancora essere pagate: tra gli onorari dei medici che l’avevano assistita, degli architetti e dei costruttori impegnati a Colpo e le spettanze ancora dovute agli impiegati e ai fornitori di materiali edili, la Maison de l’Empereur dovette sborsare la somma di 38.764 franchi, e i funerali ne costarono più di 9.000. L’imperatore dovette inoltre regolare, restituendo il capitale al principe Napoleone, la questione della rendita vitalizia che Napoleona si era impegnata a passare al cugino.32 Il Secondo Impero intanto seguitava la sua apertura liberale; le elezioni del maggio 1869 portarono nel Corps législatif un forte nucleo di oppositori che, all’apertura della sessione, chiesero una riforma del governo. Napoleone III si dichiarò disposto a concederla: il governo guidato da Eugène Rouher – un fedelissimo dell’imperatore – diede le dimissioni e l’8 settembre un senato-consulto allargava le prerogative dei deputati e li affrancava dalla tutela del regime imperiale. Per formare un nuovo governo Napoleone III si rivolse a Émile Ollivier, un giovane e brillante oratore dell’opposizione: il governo Ollivier nacque tra le speranze e gli entusiasmi di chi credeva alla possibilità di un Empire libéral, trasformato in un regime parlamentare e approvato nel maggio 1870, con un plebiscito, dalla stragrande maggioranza dei francesi. Ma le tensioni tra le varie forze politiche erano ancora forti; i funerali del giornalista repubblicano Victor Noir, ucciso a bruciapelo durante un 31. R. du Merzer, La princesse Baciocchi, in «L’Illustration, journal universel», 20 febbraio 1869, p. 117. 32. Per la rendita annuale e vitalizia che Napoleona doveva al principe Napoleone, cfr. il rapporto all’imperatore del maresciallo Vaillant, ministro della Casa dell’imperatore, del 12 luglio 1869, ANP, 400 AP 22. Vaillant scrive a Napoleone III che come rimborso del capitale della rendita annuale e vitalizia di 12.000 franchi che Napoleona doveva al principe, e per la cui garanzia lei aveva messo Villa Vicentina, il principe aveva fissato a 190.000 franchi «le prix du rachat de la rente dont il s’agit».

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litigio da Pietro Bonaparte, si tramutarono una grande manifestazione di protesta contro il regime imperiale, mentre la cerchia intorno a Napoleone III (i ministri del governo precedente e l’imperatrice, in particolare) diffidava e cercava di boicottare i cambiamenti. Il governo di Ollivier sembrava tuttavia raffermarsi quando, per una questione riguardante la candidatura di un principe prussiano al trono spagnolo, la diplomazia francese entrò in collisione con quella del re di Prussia e del suo primo ministro Bismarck: gli animi s’infiammarono, non venne ascoltato chi (come Adolphe Thiers) continuava a ripetere che la Francia non era pronta e il 19 luglio Ollivier dichiarò davanti al Corps législatif di accettare «a cuor leggero» la guerra contro la Prussia. Fu un disastro: nel giro di poche settimane l’esercito francese venne più volte battuto dalle armate di Bismarck; il 1 settembre fu accerchiato a Sedan e fatto capitolare, e l’imperatore venne preso prigioniero. Il 4 settembre, quando la notizia della sconfitta arrivò a Parigi, i manifestanti invasero il Corps législatif (il marchese de Piré fu tra i pochi deputati a rifiutarsi di lasciare l’Assemblea) e i deputati repubblicani – mentre Eugenia e gli altri membri della famiglia imperiale fuggivano – proclamarono la Repubblica. Napoleona morì come era nata, da principessa di casa regnante; ma, per sua fortuna, si spense appena in tempo per non vedere la sconfitta e il crollo improvviso della sua dinastia. Tra le sue proprietà, dopo la caduta dell’Impero, l’Hôtel di Rennes divenne – ed è tuttora, tranne il periodo dell’occupazione tedesca tra giugno 1940 e agosto 1944 – la sede del quartier generale della regione militare; la tenuta di Villa Vicentina rimase di proprietà della famiglia imperiale anche dopo la morte di Napoleone III nel 1873 e del principe imperiale nel 1879 (ucciso da un’«inconscia zagaglia barbara»33 nello Zululand), fino a che l’imperatrice Eugenia, sopravvissuta quasi centenaria a tutti i suoi, la vendette subito prima che scoppiasse la grande guerra. Le sue creature, il borgo modello di Colpo e la tenuta di Korn-erHouët – per quanto non godettero più di una particolare attenzione da parte del governo – non andarono in rovina, anche se si spense il suo sogno di rendere fertile una terra così dura e sfortunata. Sotto la Repubblica il castelletto venne venduto al generale de Courcy; i suoi 33. G. Carducci, Per la morte di Napoleone Eugenio, in Odi Barbare, Libro primo.

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discendenti nel 1938 finirono per cederlo alla Caisse départementale des Assurances sociales, che ne fece una casa di salute per bambini malati. Il ricordo della principessa è stato conservato a lungo nel paese; all’inizio del Novecento il suo nome veniva citato ogni prima domenica del mese in testa alla lista dei morti, ed era ancora vivo il suo fornaio, Jéhanno, che tanti anni prima, da ragazzo, le portava ogni mattina dei panini a lei molto graditi. Il 31 luglio 1966 è stato celebrato il centenario della creazione della parrocchia di Colpo, con numerose autorità locali e rappresentanti delle associazioni napoleoniche; sul castello è stata posta una targa commemorativa, e l’avenue principale, che prima si chiamava Avenue des Tilleuls, adesso si chiama semplicemente Avenue de la Princesse. Nel bar principale del paese una grande fotografia di Napoleona, con uno sguardo finalmente benevolo, sorveglia gli scaffali colmi di patatine e di souvenirs locali. Il turismo ha nel frattempo scoperto la selvaggia bellezza e l’aria pulita del Morbihan, e la zona non è più così povera; delle tante iniziative messe in piedi da Napoleona non c’è più traccia, ma a Colpo sono sorte piccole fabbriche di marmellate e di conserve, che utilizzano la buona frutta e gli ortaggi del luogo. Nella memoria di Napoleona e di suo figlio, il paese di Villa Vicentina e Colpo si sono gemellati, e delegazioni friulane e bretoni si sono incontrate e festeggiate. Il castelletto di Korn-er-Houët è adesso disabitato, e nel parco è stato costruito un edificio moderno che fa da casa di riposo e di convalescenza; la strada che scorre davanti è molto trafficata ma dietro, sotto il cielo grigio e basso, c’è ancora la landa aperta e libera come ai tempi di Napoleona, con l’erba alta e le farfalle.

1. Pietro Benvenuti, Elisa Bonaparte, Granduchessa di Toscana con la figlia Napoleona Elisa (1809), Fontainebleau, Musée National du Château.

2. François Gérard, Elisa Bonaparte, Granduchessa di Toscana e sua figlia, Napoleona Elisa (1810), Roma, Museo Napoleonico (MN 18).

3. Marie-Guilhelmine Benoist (Leroux-Laville), Felice Baciocchi (1806), Roma, Museo Napoleonico (MN 202).

4. François-Xavier Fabre, Napoleona Elisa Baciocchi (1812), Boulogne-Billancourt, Bibliothèque Marmottan.

5. Louis Dupré, Napoleona Elisa, Boulogne-Billancourt, Bibliothèque Marmottan (album da disegno, inv. 5252).

6. S.-G. Counis, Napoleona Elisa Baciocchi giovinetta, miniatura, Fossombrone, Pinacoteca Comunale. 7. Anonimo, Ritratto del conte Filippo Camerata, miniatura, Fossombrone, Pinacoteca Comunale. 8. Francesco Podesti, Ritratto di Napoleone Felice Camerata Passionei bambino (1829 ca.), Fossombrone, Pinacoteca Comunale.

9. François-Séraphin Delpech, Gerolamo Bonaparte (1810), litografia, da una miniatura di Costantin Abraham.

10. Achille Sirouy, Mathilde Bonaparte (1853), litografia, dal ritratto di Eugène Giraud.

11. Luigi Schiavonetti (attribuito), Il Duca di Reichstadt in abiti civili, Roma, Museo Napoleonico (MN 613).

12. Francesco Podesti, Ritratto di Elisa-Napoleona Baiocchi Camerata, Fossombrone, Pinacoteca Comunale.

13. Charles Kunz, Napoleona Elisa principessa Baciocchi, litografia, Roma, Museo Napoleonico (MN 203).

14. Napoleona Elisa Baciocchi, fotografia (1855 ca.), per gentile concessione della Fondation Napoléon, Parigi.

15. Napoleona Elisa Baciocchi, fotografia (1855 ca.), per gentile concessione della Fondation Napoléon, Parigi.

16. Disegno del busto in marmo realizzato da Antoine-Samuel Adam Salomon e raffigurante Napoleona, riprodotto su «L’Illustration, journal universel» del 20 febbraio 1869.

17. e 18. Colpo (Morbihan, Bretagna), vedute di Korn-Er-Houët.

Bibliografia analitica

Biografie di Napoleona Elisa Baciocchi J. Montels, La petite Napoléon, Editions du Cerf Volant, Paris 1969 A. Biancoli, Napoleona Baciocchi, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1979 J.-É. Picaut, Madame Napoléon, vol. I, Les tribulations de l’Aiglonne, Liv’Éditions, Le Faouêt 2007; il vol. II, La providence de la Bretagne, è in corso di pubblicazione

1. Infanzia di una principessa Arrivo a Firenze E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), p. 105 F. Demartini, Armorial de la Corse, Éditions Alain Piazzola, Ajaccio [2003], t. I, p. 88 E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaio-aprile 1900), pp. 46-71, p. 49 P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, pp. 193 sgg. F. Vidal, Elisa Bonaparte, sœur de Napoléon Ier, Pygmalion, Paris 2005; l’ultimo capitolo, Descendance, riassume il saggio di A.A. Zucconi, Sull’arcione Amazone novella. La tempestosa storia di Napoleona Elisa Baciocchi, in Elisa Bonaparte, ritratti di famiglia, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003, pp. 36-54.

Atto di nascita Bruno Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’État-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184. L’atto lucchese è conservato in ASL, Segreteria di Stato e di Gabinetto, 1806, registro n. 5, pp. 57-58, mentre l’atto francese è conservato negli Archives Nationales de France, Dossier d’état civil d’Elisa, princesse de Lucques, côte AE I 11-12, n. 14 (n. 68) G. Sforza, Ricordi e biografie lucchesi, Baroni, Lucca 1918, p. 272 nota

192

Napoleona

Entrata in Lucca di Elisa e Felice E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 45 sgg. E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 69 (gennaio-aprile 1899), pp. 273-301, p. 273

Nascita di Napoleona Lettera di Elisa alla cognata Ortensia da Lucca, in cui le comunica di avere inviato il suo chevalier d’honneur a Parigi, Archivio del MN, inv. n. 4670 J. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. VIII, c. 172

Appannaggio di Napoleona E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 69 (gennaio-aprile 1899), pp. 273-301, pp. 284, 295 P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, p. 159 B. Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’État-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184, p. 175: il decreto fu firmato il 24 marzo 1808 nel palazzo di Saint-Cloud, ed è conservato negli Archives Nationales de France, AF IV, 416, pl. 3101, décret n. 44. I beni furono amministrati da Pierre Ruelle S. Bongi, Inventario del R. Archivio di Stato di Lucca, Intendenza della Casa dei Principi di Lucca e di Piombino, e Cassa dello Straordinario, 13 agosto 1813 - 1 febbraio 1815, Service de S. A. I. Madame la Princesse Napoléon de Piombino, Minutario delle lettere scritte da Pietro Ruelle incaricato degli affari di Napoleone Elisa figliuola de’ Principi di Lucca

Maison di Napoleona ASL, Segreteria di Stato e di Gabinetto, n. 6, cc. 14 e 15, nomine del 3 gennaio 1809 E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 69 (gennaioaprile 1899), pp. 273-301, p. 295 nota; festeggiamenti per il suo compleanno, p. 300 O. Parenti Cenami, Lucca dei mercanti-patrizi lucchesi, Cardini, Firenze 1977, p. 294

Elisa granduchessa di Toscana E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 85 sgg., p. 109 E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 70 (maggio-agosto 1899), pp. 282-300, p. 297 E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaio-aprile 1900), pp. 46-71 E. Ferrero, Elisa, Sellerio, Palermo 2003 P. Marmottan, La Grande-Duchesse Elisa et Fouché, in «Revue d’Histoire diplomatique», XL, 4 (ottobre-dicembre 1926), pp. 9 sgg.

Bibliografia analitica

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P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, pp. 193 sgg. J. Primoli, Une nièce de l’empereur, Charlotte Bonaparte, in «Revue des études napoléoniennes», 24 (marzo-aprile 1925), pp. 97-132

Viaggio a Parigi J. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. VIII, c. 406 E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 113 sgg. E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaio-aprile 1900), pp. 60 sgg. P. Marmottan, Le voyage de la Grande-Duchesse Elisa à Paris en 1810, in «Revue des études napoléoniennes», 7 (gennaio-giugno 1915), pp. 39-57 e 145-167 Le Coeur de Marie-Louise. Marie-Louise Impératrice des Français, lettres et documents oubliés et inédits publiés par le Baron de Bourgoing, Calmann Lévy, Paris 1938, pp. 20 sgg.

Nascita di Gerolamo Carlo P. Marmottan, Le voyage de la Grande-Duchesse Elisa à Paris en 1810, in «Revue des études napoléoniennes», 7 (gennaio-giugno 1915), pp. 39-57 e 145-167 E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaio-aprile 1900), p. 61 E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 116 sgg. J. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. VIII, c. 429

Ritorno in Toscana e morte di Gerolamo Carlo J. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. X, c. 9 E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), p. 119 E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaio-aprile 1900), pp. 63 sgg.

Ritratti di Napoleona C. Del Bravo, Bartolini interpretato con Jean-Jacques, in «Artibus et historiae», 14, 27 (1993), pp. 141-152 A. Luxenberg, Befitting the Bonapartes: Bartolini’s portrait of Napoléone Baciocchi as a “naturalized” mythological allusion, in «Cleveland Studies in the History of Art», 2 (1997), pp. 16-31 M. Tinti, Lorenzo Bartolini, Reale Accademia d’Italia, Roma 1936, vol. I, p. 57 Il principato napoleonico dei Baciocchi (1805-1814). Riforma dello Stato e Società, catalogo della mostra, Lucca, Museo di Palazzo Mansi, 9 giugno-11 novembre 1984, a cura di A. Tosi, Nuova Grafica Lucchese, Lucca 1984, p. 283 G.L. Mellini, Bezzuoli pittore emblematico, in «Labyrinthos», 3/4 (1986), pp. 56-69

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Napoleona

L’educazione di Napoleona P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, p. 245 Madame de Genlis, Adèle et Théodore ou Lettres sur l’éducation, contenant tous les principes relatifs aux trois différens plans d’éducation des princes, des jeunes personnes et des hommes, Inalf, Paris 1961 (Bibliothèque Nationale de France, riproduzione dell’ed. a cura di M. Lambert e F.-J. Baudouin, Paris 1782) P. Marmottan, Madame de Genlis et la Grande-Duchesse Elisa (1811-1813), lettres inédites, Émile Paul, Paris 1912 Lettere di Elisa alla figlia Napoleona, ANP, 400 AP 22 Journal sur la princesse Napoleon. Septembre 1813 - Mars 1814, ANP, 400 AP 24 A.A. Zucconi, L’educazione delle principessine Bonaparte, in Napoleone, le donne, Atti del convegno, Roma, 9-10 novembre 2006, Fondazione Primoli, Roma, in corso di stampa Genealogia e storia della Famiglia Ginori, descritto da Luigi Passerini, coi tipi di M. Cellini, Firenze 1876

Invasione di Lucca, partenza da Firenze, partenza da Lucca E. Rodocanachi, G. Marcotti, Elisa Baciocchi en Italie, in «Revue historique», t. 72 (gennaio-aprile 1900), pp. 66 sgg. E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 145, 151 sgg. J. Chelini, Zibaldone lucchese, ASL, Fondo Sardini, t. X, c. 213 P. Marmottan, La Grande-Duchesse Elisa et Fouché, in «Revue d’Histoire diplomatique», XL, 4 (ottobre-dicembre 1926) G. Conti, Firenze vecchia. Storia, cronaca aneddotica, costumi (1799-1859), cap. XI, Le nozze dell’arciduca Leopoldo, R. Bemporad, Firenze 1899

2. La fuga, l’esilio, la giovinezza La fuga da Lucca, Montpellier P. Marmottan, La Grande-Duchesse Elisa à Montpellier. Mars-avril 1814, in «Revue des études napoléoniennes», 22 (gennaio-giugno 1924), pp. 140-152 E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 145, 157 sgg. F. Masson, Napoléon et sa famille, Albin Michel, Paris 1929, III ed., vol. X, pp. 83-84

Viaggio in Austria, nascita di Federico Baciocchi, Bologna F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, a p. 38 cita il Diario delle cose principali accadute dall’anno 1796 all’anno 1821, ms conservato nella biblioteca dell’avv. Raimondo Ambrosiani, Bologna, c. 173

Bibliografia analitica

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Journal d’Elisa Bonaparte et d’une de ses dames de compagnie, du 30 avril 1814 au 7 septembre 1817, ANP, 400 AP 24 P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, pp. 323 sgg. Lettera di Madame Mère a Felice Baciocchi del 18 agosto 1814 dall’Elba, in Lettere di Letizia Buonaparte, a cura di P. Misciattelli, Ulrico Hoepli, Milano 1936, p. 81 P. Marmottan, La Grande-Duchesse Elisa et Fouché, in «Revue d’Histoire diplomatique», XL, 4 (ottobre-dicembre 1926) A. Varni, Il Palazzo dei Baciocchi, in Palazzo Ranuzzi Baciocchi. Sede della Corte d’Appello e della Procura Generale della Repubblica, Nuova Alfa Editoriale-Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna 1994, pp. 139-152 G. Sforza, Ricordi e biografie lucchesi, Baroni, Lucca 1918, pp. 279 sgg.; Sforza cita il Journal di Caterina del Württemberg da A. von Schlossberger, Briefwechsel der Königin Katharina und des König Jérôme von Westphalen, sowie des Kaisers Napoleon I mit dem König Friedrich von Württemberg, verlag von W. Kohlmammer, Stuttgart 1887, II, pp. 125-127 P. Marmottan, Lucien Bonaparte et sa soeur Elisa. Lettres inédites, in «Revue des études napoléoniennes», 32 (gennaio-giugno 1931), II parte, pp. 229-239, p. 237 C. Colitta, Elisa Bonaparte e Felice Baciocchi a Bologna, in «Strenna storica bolognese», XXIII (1973), pp. 81-100 M. Proni, La cronaca manoscritta di Francesco Rangone, in «Il Carrobbio», XII (1986), pp. 276-291

Prigionia a Brünn Bulletin de Police de Strasbourg, 20 juin 1816, e relazioni del direttore della Polizia, ANP, Police, F/7/6667 e 6668 P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, pp. 329 sgg. A. Varni, Il Palazzo dei Baciocchi, in Palazzo Ranuzzi Baciocchi. Sede della Corte d’Appello e della Procura Generale della Repubblica, Nuova Alfa Editoriale-Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna 1994, pp. 139-152, pp. 143 sgg. F. Masson, Napoléon et sa famille, Albin Michel, Paris 1929, III ed.,vol. X, pp. 166 sgg. E. Lazzareschi, Elisa Buonaparte Baciocchi nella vita e nel costume del suo tempo, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2003 (riproduzione dell’ed. or. del 1931), pp. 164 sgg. C. Colitta, Elisa Bonaparte e Felice Baciocchi a Bologna, in «Strenna storica bolognese», XXIII (1973), pp. 92 sgg.

Trieste V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIII, 691 (1926), I parte, pp. 231-290 P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, pp. 336 sgg. P. Marmottan, La Grande-Duchesse Elisa et Fouché, in «Revue d’Histoire diplomatique», XL, 4 (ottobre-dicembre 1926) F. Masson, Napoléon et sa famille, Albin Michel, Paris 1929, III ed., vol. X, pp. 358 sgg. J. Rosmer, Napoléone, Éditions Gautier-Languereau, Paris 1929

196

Napoleona

G. Ganzer, Borboni e napoleonidi in Friuli. Sulle tracce di uno “stile”, in Ottocento di frontiera, Gorizia 1780-1850. Arte e Cultura, catalogo della mostra, Gorizia 14 luglio-31 dicembre 1995, Milano 1995, pp. 178-183 Correspondance inédite de la reine Catherine de Westphalie, née princesse de Wurtemberg, avec sa famille et celle du roi Jérome, les souverains étrangers et divers personnages, publiée par le Baron A. Du Casse, E. Bouillon, Paris 1893 (rist. anastatica Elibron Classics, Adamant Media Corporation, Boston, MA 2005), pp. 247-268 J.-É. Picaut, Madame Napoléon, I, Les tribulations de l’Aiglonne, Liv’Éditions, Le Faouêt 2007, pp. 225 sgg. (per la gestione finanziaria del loro patrimonio)

La morte di Elisa P. Fleuriot de Langle, Elisa, soeur de Napoléon I, Denoël, Paris 1947, pp. 346 sgg. Mémoires et correspondance du roi Jérôme et de la reine Catherine, Balitout, Paris 18611866, t. VII J. Montels, La petite Napoléon, Éditions du Cerf Volant, Paris 1969, pp. 101 sgg. V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIII, 691 (1926), I parte, pp. 231-290, p. 270 V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, rispett. 1826, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIV, 701 (1927-1928), II parte, pp. 139-158. A pp. 141 sgg. c’è un esatto inventario del patrimonio lasciato da Elisa J. Bonaparte, Mémoires du roi Jérôme, t. VII, pp. 393 sgg. F. Masson, Napoléon et sa famille, Albin Michel, Paris 1929, III ed.,vol. X, pp. 365 sgg. Correspondance inédite de la reine Catherine de Westphalie, née princesse de Wurtemberg, avec sa famille et celle du roi Jérome, les souverains étrangers et divers personnages, publiée par le Baron A. Du Casse É. Bouillon, Paris 1893 (rist. anastatica Elibron Classics, Adamant Media Corporation, Boston, MA 2005), pp. 259-264

Trasferimento a Bologna, Palazzo Ranuzzi A. Varni, Il Palazzo dei Baciocchi, in Palazzo Ranuzzi Baciocchi. Sede della Corte d’Appello e della Procura Generale della Repubblica, Nuova Alfa Editoriale-Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna 1994, pp. 139-152, pp. 145 sgg. C. Colitta, Elisa Bonaparte e Felice Baciocchi a Bologna, in «Strenna storica bolognese», XXIII (1973), pp. 81-100, pp. 93 sgg. M. Proni, La cronaca manoscritta di Francesco Rangone, in «Il Carrobbio», XII (1986), pp. 276-291, pp. 286 V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, rispett. 1826, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIV, 701 (1927-1928), II parte, pp. 139-158, p. 143 sul titolo di principe Baciocchi Palazzo Ranuzzi Baciocchi. Sede della Corte d’Appello e della Procura Generale della Repubblica, Nuova Alfa Editoriale-Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna 1994

Bibliografia analitica

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L. Sighinolfi, Il Palazzo di Giustizia. Il Palazzo Baciocchi, in «Bollettino del Comune di Bologna», XII (dicembre 1924), pp. 698-708 H.T. Tuckerman, Rambles and reveries, James P. Giffing, New York 1841, pp. 166-167 Mezzolara: una tenuta e una comunità tra il XVI e il XIX secolo [Lo scarabeo, Bologna], stampa 1998 F. Servetti Donati, Mezzolara: appunti per una storia, a cura del Comitato Fiera di Mezzolara, Mezzolara [1986] F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 60 sgg.

Matrimonio di Napoleona Texte intégral du Testament de l’Empereur, in J. Lemaire, Le Testament de Napoléon. Un étonnant destin, 1821-1857, Plon, Paris 1975, pp. 189-228 F. Charles-Roux, Rome, asile des Bonaparte, Hachette, Paris 1952, p. 110 A. Varni, Il Palazzo dei Baciocchi, in Palazzo Ranuzzi Baciocchi. Sede della Corte d’Appello e della Procura Generale della Repubblica, Nuova Alfa Editoriale-Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna 1994, pp. 139-152, pp. 146 sgg. F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910 Stèfane-Pol (pseudonimo di Paul Contaut), La jeunesse de Napoléon III. Correspondance inédite de son precepteur Philippe Le Bas, Felix Juven, Paris s.d., p. 222 G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, ossia Storia cronologica de’ suoi stabili sacri, pubblici e privati, 5 voll., Tip. delle Scienze di Giuseppe Vitali, Bologna 1868-1873, t. V, p. 187 L. Sighinolfi, Il Palazzo di Giustizia. Il Palazzo Baciocchi, in «Bollettino del Comune di Bologna», XII (dicembre 1924), pp. 698-708 B. Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’Ètat-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184 V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, rispett. 1826, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIV, 701 (1927-1928), II parte, pp. 139-158, p. 144 G. Zappi, Alle illustri nozze della Principessa Elisa Napoleona Baciocchi con il Conte Filippo Camerata Passionei, Tip. dei Nobili, Bologna 1824

Ancona Corrispondenza di Napoleona Elisa Baciocchi e suo padre Felice Baciocchi, dal 30 novembre 1824 al 4 gennaio 1841, e lettere di Pacifico e Filippo Camerata a Napoleona e a Felice Baciocchi, ANP, 400 AP 22 e 23 État de divers objets consignés à Madame la Princesse Napoléon par ordre de S. A. le Prince Felix à l’occasion de son mariage, signé le 19 novembre 1824, BMP Lettere di Letizia Buonaparte, a cura di P. Misciattelli, Ulrico Hoepli, Milano 1936, p. 150

198

Napoleona

I Bonaparte a Roma e Gerolamo Stendhal, Promenades dans Rome, Supplement VIII, Les Ambassadeurs. Le comte de Blacas et les Bonapartes, in Voyages en Italie, Gallimard, Paris 1973 (Bibliothèque de la Pléiade), pp. 1256-1263 F. Charles-Roux, Rome, asile des Bonaparte, Hachette, Paris 1952 S. Papetti, Villa Bonaparte. Porto San Giorgio, in Nel segno di Napoleone. Ville e dimore marchigiane tra Settecento e Ottocento, a cura di A. Montironi, Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, Macerata 2002, pp. 162-167 A. Martinet, Jérôme Napoléon roi de Westphalie, Société d’Éditions littéraires et artistiques, Paris 1902 M.-A. Fabre, Jérôme Bonaparte roi de Westphalie, Librairie Hachette, Paris 1952 J. Bertaut, Le roi Jérôme, Flammarion, Paris 1954 B. Melchior-Bonnet, Jérôme Bonaparte ou L’envers de l’épopée, Perrin, Paris 1979 Mémoires et correspondance du Roi Jérôme et de la Reine Catherine, Dentu, Paris 1866, t. VII, pp. 427 sgg. Correspondance inédite de la reine Catherine de Westphalie, née princesse de Wurtemberg, avec sa famille et celle du roi Jérome, les souverains étrangers et divers personnages, publiée par le Baron A. Du Casse, É. Bouillon, Paris 1893 (rist. anastatica Elibron Classics, Adamant Media Corporation, Boston, MA 2005), pp. 356-393

Nascita di Napoleone Camerata B. Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’État-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184, p. 183

Felice Baciocchi a Bologna F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 71-72

Affari di Francia Question de confiscation sous la Charte Constitutionnelle. Mémoire de M. Dupin ainé au sujet de la réclamation de Mme Napoléon-Elisa Baciocchi, Imprimerie d’E. Duverger, Paris [1827] Lettere di Madame Mère alle nuore Giulia e Ortensia del 7 settembre 1830 e 15 settembre 1830, in Lettere di Letizia Buonaparte, a cura di P. Misciattelli, Ulrico Hoepli, Milano 1936, pp. 210 e 212 À la Chambre des députés, la princesse Napoléon-Elisa Baciocchi, comtesse Camerata, nièce de l’Empereur Napoléon, réclame une inscription de rente sur le grand livre de la dette publique de 31.165 francs, acquise à titre onéreux, ainsi que les arrérages échus et non perçus; question de confiscation sous la Charte constitutionnelle, petizione sostenuta nel 1844 da Dupin ainé, conservata nella Bibliothèque Nationale de France Lettera di Napoleone Camerata alla madre del 25 ottobre 1846, ANP, 400 AP 22

Bibliografia analitica

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Napoleona a Roma Mémoires de Valérie Masuyer, dame d’honneur de la reine Hortense, Plon, Paris 1937, p. 34 M. Castillon du Perron, La princesse Mathilde, Perrin, Paris 1963, p. 25 D. Silvagni, La Corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Arturo Berisio, Napoli 1967, vol. III, pp. 56 sgg.

Affari e viaggi Corrispondenza di Felice e Napoleona Baciocchi con Messieurs Dessalles, Caire et Cie (i loro agenti d’affari a Trieste), BMP

Napoleona a Porto di Fermo B. Melchior-Bonnet, Jérôme Bonaparte ou L’envers de l’épopée, Perrin, Paris 1979, p. 338 M.-A. Fabre, Jérôme Bonaparte roi de Westphalie, Librairie Hachette, Paris 1952, p. 205 J. Bertaut, Le roi Jérôme, Flammarion, Paris 1954, p. 210 S. Papetti, Villa Bonaparte. Porto San Giorgio, in Nel segno di Napoleone. Ville e dimore marchigiane tra Settecento e Ottocento, a cura di A. Montironi, Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, Macerata 2002, pp. 162-167, p. 166 J. Montels, La petite Napoléon, Editions du Cerf Volant, Paris 1969, p. 45 Catherine of Würtemberg. Royal Life in the Nineteenth Century, in «Chambers’ Journal», riportato in «Littell’s living age», 701 (31 ottobre 1857), pp. 292-296 C. Trevisani, Girolamo Bonaparte ex re di Westfalia al Porto di Fermo, in «Il Fanfulla della Domenica», 13 (1891) F. Charles-Roux, Rome, asile des Bonaparte, Hachette, Paris 1952, p. 122, dispaccio al ministro degli Esteri francese del 26 aprile 1826 e pagine seguenti per tutto il complicato svolgersi della vicenda

Querelle con il tenente colonnello Barbieri R. Savelli, Difesa per Giuseppe Dehaseleer del Brabante, al servizio della principessa Napoleona Bacciocchi Camerata avanti il Tribunale Criminale in Pesaro, dalla Tipografia Nobili, Pesaro 1829 ASV, Segreteria di Stato (parte moderna), Rubr. 155 (Interni), b. 742, Battaglione Marche, Bollettino politico del mese di luglio 1829 riservato all’Eccmo, Rev. Principe il Sig. Cardinal Albani Segretario di Stato [inviato da Ancona il 7 agosto 1829 dal tenente colonnello Barbieri], Rubrica Senigallia. Polizia, Rapporto Politico del Delegato Apostolico da Pesaro al cardinale Segretario di Stato del 1 settembre 1829. Articolo 9: Fiere, Mercati, ed altre Adunanze; La Situazione e Diramazione del Battaglione Marche all’epoca 31 agosto 1829, nel Bollettino Politico [inviato dal tenente colonnello Barbieri al cardinal Albani da Ancona del 9 settembre 1829]

Speculazioni finanziarie Lettere di Napoleona Baciocchi a Pietro Tenerani, Archivio del MR, Carte Tenerani, scatola 8, f. 38

200

Napoleona

3. Congiure Proposte di Giuseppe e Luciano Bonaparte D. Spadoni, Napoleonidi e corsi nel moto italiano del 1830-31, in «Archivio storico di Corsica», VI, 4 (ottobre-dicembre 1930), pp. 423-469 Mémoires, documents et écrits divers laissés par le Prince de Metternich, Plon, Paris 1881, t. V, pp. 158-161 Baron du Casse, Mémoires et correspondance politique et militaire du Roi Joseph, Perrotin, Paris 1858, t. X, pp. 322-325

Luigi Napoleone Bonaparte P. Milza, Napoléon III, Perrin, Paris 2004, pp. 49-76 Mémoires de Valérie Masuyer, dame d’honneur de la reine Hortense, Plon, Paris 1937, pp. 119-120 Souvenirs du commandant Parquin, presentés et annotés par J. Jourquin, Tallandier, Paris 1979, pp. 335 sgg. Rapporti del prefetto dell’Haut-Rhin, ANP, Police, F/7/6669, f. Parquin Lettere di Luigi Napoleone Bonaparte alla madre Ortensia, 1831, ANP, 400 AP 39 M. de la Fuye, É.A. Babeau, Louis Napoléon Bonaparte avant l’Empire, Éditions Française d’Amsterdam, Paris 1951, pp. 69 sgg. Stèfane-Pol (pseudonimo di Paul Contaut), La jeunesse de Napoléon III. Correspondance inédite de son precepteur Philippe Le Bas, Felix Juven, Paris s.d. F. Giraudeau, Napoléon III intime, Paul Ollendorff, Paris 1893, III ed., pp. 11-33 D. Angeli, I Bonaparte a Roma, Mondadori, Milano 1938, pp. 303-314 A. Dansette, Louis-Napoléon à la conquête du pouvoir, Hachette, Paris 1961, pp. 33-70 F.A. Simpson, The rise of Louis Napoléon, Longmans, London 1950, III ed., pp. 62-78

Il duca di Reichstadt e Napoleona Comte de Prokesch-Osten, Mes relations avec le duc de Reichstadt, publié avec des commentaires, des notes et des documents inédits par J. de Bourgoing, Plon, Paris 1934 F. Masson, L’Aiglon, in «Revue de Paris», VII, t. 2 (marzo-aprile 1900), pp. 585-598 F. Masson, L’Aiglon et la Comtesse Camerata, in «Revue de Paris», VII, t. 3 (maggio-giugno 1900), pp. 613-620 H. Fleischmann, Le Roi de Rome et les femmes, Albert Méricaut, Paris 1910, pp. 99-137 J. de Bourgoing, Papiers intimes et journal du duc de Reichstadt, Payot, Paris 1928, pp. 130 sgg. J. de Bourgoing, Documents inédits sur le Fils de Napoléon, in «Revue des études napoléoniennes», t. 35 (luglio-dicembre 1932), pp. 5-83 J. de Bourgoing, Le fils de Napoléon, Payot, Paris 1932, cap. XI, La Comtesse Camerata, pp. 230-242 F. Herre, Metternich, RCS Libri, Milano 1983, pp. 256b sgg. F. Sanvitale, Il figlio dell’Impero, Einaudi, Torino 1993, pp. 502 sgg.

Bibliografia analitica

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É. Dard, Le duc de Reichstadt, in «Annales de l’École Libre des Sciences Politiques», XI (1896), pp. 265-288 E. Rostand, L’Aiglon, Gallimard, Paris 1986

I Bonaparte e le congiure in Italia E. Passamonti, Felice Baciocchi cospiratore in Italia (1833), in «Archivio storico di Corsica», III, 4 (luglio-dicembre 1927), pp. 187-225 (si tratta di Felice Francesco, un nipote del principe) R. Del Piano, Roma e la Rivoluzione del 1831, Tip. Paolo Galeati, Imola 1931 F. Charles-Roux, Rome, asile des Bonaparte, Hachette, Paris 1952, pp. 90 e 151 sgg. D. Spadoni, Napoleonidi e corsi nel moto italiano del 1830-31, in «Archivio storico di Corsica», VI, 4 (ottobre-dicembre 1930), pp. 423-469 D. Spadoni, Sètte, cospirazioni e cospiratori nello Stato Pontificio all’indomani della Restaurazione. L’occupazione napoletana, la Restaurazione, e le sètte, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, Roma-Torino 1904 E. Del Cerro, Cospirazioni romane (1817-1868). Rivelazioni storiche, Enrico Voghera, Roma 1899, pp. 144-163 P. Zama, La marcia su Roma del 1831. Il generale Sercognani, Fratelli Lega, Faenza 1976, pp. 159-169 Mémoires de la Reine Hortense, publiées par le prince Napoléon, Plon, Paris 1927, t. III, pp. 183 sgg. Mémoires de Valérie Masuyer, dame d’honneur de la reine Hortense, Plon, Paris 1937, pp. 117-153 D. Silvagni, La Corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Arturo Berisio, Napoli 1967, vol. III, pp. 245-280 ASR, Miscellanea Carte politiche e riservate, b. 83, n. 2672, 2677, 2686; b. 85, cartella 2804 (vecchia numerazione 2681) Dizionario del Risorgimento nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, Vallardi, Milano 1930, II, Le persone, t. I, p. 136; t. II, p. 494; t. III, p. 483 L.C. Farini, Lo Stato Romano dall’anno 1815 al 1850, 4 voll., a cura di A. Patuelli, Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma [1990] [riproduzione della ed. Le Monnier, Firenze 1850-1853] G. Della Chiesa Barberini, I rapporti tra i Bonaparte e il Governo Pontificio dal 1814 al 1846, tesi discussa all’Università di Roma nell’a.a. 1955-56, relatore prof. A.M. Ghisalberti I Martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, Memorie raccolte da A. Vannucci, L. Bortolotti e C., Milano 1878, VI ed., vol. II, pp. 278-291 D. Angeli, I Bonaparte a Roma, Mondadori, Milano 1938, pp. 211-220 Libro dei compromessi politici nella Rivoluzione del 1831-32, a cura di A. Sorbelli, Vittoriano, Roma 1933

La marchesa Anna Azzolino Mémoires de Valérie Masuyer, dame d’honneur de la reine Hortense, Plon, Paris 1937, pp. 94 sgg., 112, 297

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Napoleona

B. Melchior-Bonnet, Jérôme Bonaparte ou L’envers de l’épopée, Perrin, Paris 1979, pp. 343, 357 Mémoires et correspondance du Roi Jérôme et de la Reine Catherine, Dentu, Paris 1866, t. VII, pp. 427 sgg. M. Castillon du Perron, La princesse Mathilde, Perrin, Paris 1963, p. 21 J. Bertaut, Le roi Jérôme, Flammarion, Paris 1954, p. 209 L’Archivio Azzolino conservato dal Comune di Jesi. Inventario, a cura di E. Conversazioni, Arti Grafiche Jesine, Jesi 1988

4. Una viaggiatrice inquieta I moti del 1831 e la morte di Napoleone Luigi G. Sforza, Un fratello di Napoleone III morto per la libertà d’Italia, in «Rivista storica del Risorgimento», III, 5 (1898), pp. 429-457 R. Del Piano, Roma e la Rivoluzione del 1831 (con documenti inediti), Tip. Paolo Galeati, Imola 1931, pp. 47-152 A. Dansette, Louis-Napoléon à la conquête du pouvoir, Hachette, Paris 1961, pp. 55-60 Mémoires de Valérie Masuyer, dame d’honneur de la reine Hortense, Plon, Paris 1937, pp. 144 sgg. P. Milza, Napoléon III, Perrin, Paris 2004, pp. 55-58 La reine Hortense en Italie, en France, et en Angleterre pendant l’année 1831. Fragments extracts de ses Mémoires inédits écrits par elle-même, Alphonse Levasseur, Paris 1834, pp. 438 sgg. E. Pascallet, Notice historique sur S.A.I. e R. monseigneur le prince Napoléon Louis Bonaparte grand-duc de Berg, in «Revue générale biographique, nécrologique, scientifique et littéraire», I (1854), II parte, pp. 171-186

Rapimento di Napoleone Camerata Lettere di Napoleona e Filippo Camerata a Felice Baciocchi dal 14 maggio al 9 giugno 1831, di Napoleona a Filippo del 17 maggio 1831, e di Felice Baciocchi a Napoleona del 21 maggio 1831, ANP, 400 AP 22 e 23 V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, rispett. 1826, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIV, 701 (1927-1928), II parte, pp. 139-158, pp. 146 sgg.

Acquisto di Canale J.-É. Picaut, Madame Napoléon, I, Les tribulations de l’Aiglonne, Liv’Éditions, Le Faouêt 2007, pp. 346-348

Morte di Federico Baciocchi F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 94-95

Bibliografia analitica

203

Baron Hippolyte Larrey, Madame mère (Napoleonis mater), essai historique, E. Dentu, Paris 1892, vol. II, pp. 440

Firenze A. Corsini, I Bonaparte a Firenze, L.S. Olschki, Firenze 1961 Commandant Weil, Les Bonaparte (Jêrome et Caroline) à Florence, in «Revue des études napoléoniennes», t. XVI (luglio-dicembre 1919), pp. 133-156

Studi di Napoleone Camerata J.-É. Picaut, Madame Napoléon, I, Les tribulations de l’Aiglonne, Liv’Éditions, Le Faouêt 2007, pp. 361 sgg.

Morte ed eredità di Madame Mère Atto di morte del 6 febbraio 1836, in Lettere di Letizia Buonaparte, a cura di P. Misciattelli, Ulrico Hoepli, Milano 1936, p. 272 J.-É. Picaut, Madame Napoléon, I, Les tribulations de l’Aiglonne, Liv’Éditions, Le Faouêt 2007, passim (soprattutto per quanto riguarda le dispute con la zia Carolina)

Carlotta Bonaparte G. Gorgone, Charlotte Bonaparte “dama di molto spirito”, in Leopardi a Roma, a cura di N. Bellucci e L. Trenti, Electa, Milano 1998, pp. 300-306 G. Sforza, Un fratello di Napoleone III morto per la libertà d’Italia, in «Rivista storica del Risorgimento», III, 5 (1898), pp. 429-457, in particolare pp. 454-457 E. Passamonti, Felice Baciocchi cospiratore in Italia (1833), in «Archivio storico di Corsica», III, 4 (luglio-dicembre 1927), pp. 187-225 G. Gorgone, Morte di una principessa, in Napoleone e il suo tempo, Società Editrice Buonaparte, Sarzana 2001, pp. 94-103 D. Angeli, La principessa romantica, in Id., I Bonaparte a Roma, Mondadori, Milano 1938, pp. 285-301

Testamento di Felice Baiocchi F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 101 sgg. Copia del testamento presso la BMP Lettera di Napoleona a Napoleone Gerolamo Bonaparte sul maggiorasco, 28 maggio 1841, ANP, 400 AP 108; l’atto venne stilato il 16 ottobre 1841

Tomba di Felice Baciocchi in San Petronio C. Colitta, Elisa Bonaparte e Felice Baciocchi a Bologna, in «Strenna storica bolognese», XXIII (1973), pp. 81-100, p. 94

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Napoleona

Anatolij Demidov Lettere di Anatolij Demidov a Felice e Napoleona Baciocchi, ANP, 400 AP 24 A. Demidoff, Voyage dans la Russie Meridionale et la Crimée, Ernest Bourdin et Cie, Paris 1840 I Demidoff a Firenze e in Toscana, a cura di L. Tonini, L.S. Olschki, Firenze 1996 M. Foresi, Di un principe russo e di una principessa napoleonica, in «Nuova Antologia», 177 (giugno 1915), pp. 587-606 G. Chelazzi, Il principato fiorentino dei Demidoff, Pagnini, Firenze 1998 Commandant Weil, Les Bonaparte (Jérôme et Caroline) à Florence. La mort de Madame Mère (1836). La mort et la succession de Caroline (mai 1839-octobre 1842), in «Revue des études napoléoniennes», t. XVI (luglio-dicembre 1919), pp. 133-156 M. Castillon du Perron, La princesse Mathilde, Perrin, Paris 1963, pp. 50-110

Casino Pecori Archivio di Stato di Firenze, Documenti dell’Archivio preunitario, 248, 46, aff. 84 or., c. 705 m., 716 m., in data 19 giugno-16 luglio 1847, Domanda di traslocazione dello scalo destinato per i renaioli di Napoleona Elisa Baciocchi; 224, 47, n. reg. 1847, 483, in data 16 luglio 1847, relazione al magistrato in merito al reclamo della contessa Camerata contro l’attività estrattiva della rena dall’Arno, che attualmente si svolge di fronte al suo palazzo presso il ponte alla Carraia in Oltrarno; 207, 6420, p. 422 or., 24 luglio 1847, Baciocchi principessa Napoleona. Rifiutata domanda di traslocazione dello scalo dei renaioli, rigetto della domanda della principessa Baciocchi Napoleona, volta ad ottenere che l’attività estrattiva della rena dall’Arno, che attualmente si svolge di fronte al suo palazzo presso il ponte alla Carraia in Oltrarno, sia spostata in un altro punto del greto del fiume; 224, 47, n. reg. 1847, 360, 29 aprile-20 agosto 1847, comunicazione all’ingegnere di circondario del permesso rilasciato alla principessa Baciocchi di rimuovere il piolo esistente alla porta d’ingresso del suo palazzo sul Lungarno; 247, 25, n. reg. 1850, 303, 26 febbraio-10 marzo 1850, relazione dell’ingegnere di circondario in merito alla domanda di Danti Torello, volta ad ottenere il permesso di depositare sul Lungarno presso il ponte alla Carraia la rena estratta dall’Arno (http://www.comune.fi.it/archiviostorico)

Napoleone Camerata Lettere di Napoleone Camerata a Napoleona, ANP, 400 AP 22 Lettere di Napoleone Camerata a Carlo Luciano Bonaparte da Strasburgo del 27 marzo e del 18 settembre 1844, AGR F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 104 sgg. V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, rispett. 1826, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIV, 701 (1927-1928), II parte, pp. 139-158

Bibliografia analitica

205

5. A fianco del potere I Bonaparte dopo la rivoluzione del febbraio 1848 P. Fleuriot de Langle, Alexandrine Lucien Bonaparte, princesse de Canino (1778-1855), Plon, Paris 1939, pp. 334 sgg. P. Milza, Napoléon III, Perrin, Paris 2004, pp. 139 sgg. A. Dansette, Louis-Napoléon à la conquête du pouvoir, Hachette, Paris 1961, pp. 217 sgg. A. Dansette, Du 2 décembre au 4 septembre. Le Second Empire, Hachette, Paris 1972, pp. 34 sgg. P. Miquel, Le Second Empire, Plon, Paris 1992, p. 112 D. Angeli, I Bonaparte a Roma, Mondadori, Milano 1938, pp. 169-170 F. Giraudeau, Napoléon III intime, Paul Ollendorff, Paris 1893, III ed., pp. 121-127 M. Agulhon, 1848 ou l’apprentissage de la république, 1848-1852, Éditions du Séuil, Paris 1973, pp. 65-66, 133-195 A. Plessis, De la fête impériale au mur des fédérés, 1852-1871, Éditions du Séuil, Paris 1979, pp. 10 sgg., 41, 49 Dictionnaire des parlementaires français, comprenant tous les Membres des Assemblées françaises et tous les Ministres français, depuis le 1er mai 1789 jusqu’au 1er mai 1889…, publié sous la direction de Adolphe Robert et Gaston Cougny, Bourloton, Paris 1889, vol. I, pp. 374-382 A.A. Zucconi, La nostalgia della gloria. Memorie della prima campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte sotto il Secondo Impero, in 1796-1797. Da Montenotte a Campoformio: la rapida marcia di Napoleone Bonaparte, L’Erma di Bretschneider, Roma 1997, pp. 119-124 A. Ferrère, Révélations sur la propagande napoléonienne faite en 1848 et 1849, Turin 1863, pp. 77 sgg. L. Véron, Mémoires d’un bourgeois de Paris: comprenant la fin de l’Empire, la Restauration, la Monarchie de Juillet, la République jusqu’au rétablissement de l’Empire, Librairie nouvelle, Paris 1857, t. 5 J. Lucas-Dubreton, Le culte de Napoléon (1815-1848), Albin Michel, Paris 1960, pp. 421-468 S. Hazareesingh, The Legend of Napoleon, Granta Books, London 2004, pp. 184-208 e 209-233 S. Hazareesingh, The Saint-Napoleon. Celebrations of sovereignty in Nineteenth-Century France, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2004, pp. 22-37 N. Petiteau, Napoléon, de la mythologie à l’histoire, Seuil, Paris 2004, pp. 53-102

Napoleona a Parigi Lettere di Napoleona al conte Henri-Georges Boulay de la Meurthe, Archivio del MN, inv. 10324 (1-37)

Filippo Camerata e la Repubblica romana D. Demarco, Una rivoluzione sociale. La Repubblica Romana del 1849 (16 novembre 1848 - 3 luglio 1849), Mario Fiorentino, Napoli 1944, pp. 61-64

206

Napoleona

C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Rizzoli, Milano 1950, V, p. 1008 L.C. Farini, Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1850, 4 voll., a cura di A. Patuelli, Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma [1990] (riproduzione della ed. Le Monnier, Firenze 1850-1853), p. 474 Dizionario del Risorgimento Nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, direttore M. Rosi, Vallardi, Milano 1930, II, Le persone, t. I, p. 136; t. II, p. 494; t. III, p. 483 Il tempo del papa-re. Diario del principe don Agostino Chigi dall’anno 1830 al 1855, Edizioni del Borghese, Milano 1966, pp. 126-128

Restituzione della dotazione data da Napoleone I (cfr. cap. 2) Lettere di Napoleona al conte Henri-Georges Boulay de la Meurthe del 29 luglio 1850, dell’11 agosto 1850, del 16 dicembre 1850, del 10 gennaio 1851, del 29 gennaio 1851, del 16 febbraio 1851 e del 6 maggio 1851, Archivio del MN, inv. 10324 (1-37) Papiers et correspondance de la famille impériale, Garnier, Paris 1871, p. 45

Vivier-les-Ruines R. du Merzer, La princesse Baciocchi, in «L’Illustration, journal universel», 20 febbraio 1869, p. 117 C. Laurent, Notre-Dame-du-Vivier, in «L’Illustration, journal universel», 20 febbraio 1869, p. 119

La morte di Napoleone Camerata «L’Intermédiaire des chercheurs et curieux», XLIV, 937-954 (1901), pp. 474-475, 641-642 «L’Intermédiaire des chercheurs et curieux», XLIX, 1027-1044 (1904), pp. 513-515 B. Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’Ètat-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184, p. 183 Ultima lettera di Napoleone Camerata e suo testamento in ANP, 400 AP 22; corrispondenza relativa alla sua sepoltura ivi, 400 AP 24 ASL, Carte Cattaneo, n. 1, inserto: Testamento di Napoleone Carlo Camerata, fatto a Parigi il 3 marzo 1853 V. Plitek, I Napoleonidi a Trieste, III, Elisa Bonaparte maritata Baciocchi, Felice Baciocchi, conti di Compignano, 20 giugno 1816-7 agosto 1820, rispett. 1826, in «L’Archeografo Triestino», s. III, XIV, 701 (1927-1928), II parte, pp. 139-158, p. 153 La princesse Julie Bonaparte marquise de Roccagiovine et son temps. Mémoirs inédits (1853-1870), a cura di I. Dardano Basso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975, p. 28 (7 novembre 1853) Mémoires du comte Horace de Viel-Castel sur le règne de Napoléon III (1851-1864), Paris 1883-1884, vol. II, pp. 169-172 J. Montels, La petite Napoléon, Éditions du Cerf Volant, Paris 1969, p. 103

Bibliografia analitica

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P. Ginisty, L’affaire Camerata, in «Je sais tout», IV, XLIII (15 agosto 1908), pp. 334-340 Mlle Marthe, in Dictionnaire des Comédiens Français (ceux d’hier). Biographie, Bibliographie, Iconographie, par H. Lyonnet, Bibliothèque de la Revue Universelle Internationale Illustrée, Genève [s.d.], II, pp. 400-401 E. Barile, Nel testamento del giovane conte Camerata svelato il mistero della sua morte, in «La Bassa», XI [ma XII], 20, 759 (giugno 1990), pp. 53-56 F. Loliée, Les femmes du Second Empire. La Fête impériale, Félix Juven, Paris 1907, pp. 33-35 Papiers et correspondance de la famille impériale, Garnier, Paris 1871, p. 45, nota 1 A. Colocci, Griscelli e le sue memorie, E. Loescher, Roma 1909, pp. 138-140

6. Vassalla Dismissione delle proprietà italiane Corrispondenza tra Napoleona e il Ministero degli Esteri francesi in ANP, 400 AP 22 F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 105 sgg. A. Varni, Il Palazzo dei Baciocchi, in Palazzo Ranuzzi Baciocchi. Sede della Corte d’Appello e della Procura Generale della Repubblica, Nuova Alfa Editoriale-Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna 1994, pp. 139-152, p. 152

Collezione di quadri venduta a Napoleone III C. Granger, La liste civile de Napoléon III: le pouvoir impérial et les arts, Thèse de doctorat en histoire de l’art, in «Revue d’histoire du XIXe siècle», 22, (2001),

Titolo e ruolo di Napoleona Duc de Conegliano, Le Second Empire. La Maison de l’Empereur, Calmann Lévy, Paris 1897 B. Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’État-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184, p. 179

Il marchese e la marchesa de Piré M. Montigny, Guillemette de Rosnyvinen de Piré. Histoire d’une famille bretonne, in «Mémoires de la Société d’Histoire et d’archéologie de Bretagne», t. IV (1923), cap. XV, Le dernier marquis de Piré, pp. 243-248 A. Cahuet, Le voyage de Madame de Piré, Fasquelle, Paris 1950 J.-J. Milhiet, Lettres inédites de la Princesse Baciocchi au Marquis de Piré, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 94 (1967), pp. 3-7

208

Napoleona

Vita parigina di Napoleona La princesse Julie Bonaparte marquise de Roccagiovine et son temps. Mémoirs inédits (1853-1870), a cura di I. Dardano Basso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975, pp. 43, 44, 57, 85, 112 Duc de Conegliano, Le Second Empire. La Maison de l’Empereur, Calmann Lévy, Paris 1897, p. 292

Appannaggio e vitalizio di Napoleona Papiers et correspondance de la famille impériale, Garnier, Paris 1871, vol. I, Subventions annuelles accordées aux membres de la famille impériale, p. 68; vol. II, Notes sur les dépenses de la liste civile de Napoléon III, de 1853 à 1870, pp. 45-46 F. Giorgi, La villa Baciocchi ora Cacciaguerra. Notizie della vita bolognese nella prima metà del sec. XIX, A. Cacciari, Bologna 1910, pp. 105 sgg. Lettera del ministro della Maison de l’Empereur all’imperatore del 13 aprile 1861, ANP, 400 AP 23 Papiers du prince Napoléon (1822-1891), ANP, 400 AP 108, cartella Baciocchi

Napoleona in Bretagna M. Montigny, Guillemette de Rosnyvinen de Piré. Histoire d’une famille bretonne, in «Mémoires de la Société d’Histoire et d’archéologie de Bretagne», t. IV (1923), cap. XV, Le dernier marquis de Piré, pp. 243-248, p. 247 A. Cahuet, Le voyage de Madame de Piré, Fasquelle, Paris 1950, pp. 73 sgg. J.-J. Milhiet, Lettres inédites de la Princesse Baciocchi au Marquis de Piré, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 94 (1967), pp. 3-7 L.-N. Bonaparte, Extinction du paupérisme, Pagnerre, Paris 1844 J. Sagnes, Les racines du socialisme de Louis-Napoléon Bonaparte, Privat, Toulouse 2006 Docteur Dupuis, La Bretagne napoléonienne. La princesse Baciocchi, in «Le souvenir napoléonien», 332 (novembre 1983), pp. 23-27 Général Kœchlin-Schwartz, Elisa-Napoléon Princesse Baciocchi, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 77 (1938), pp. 1-17 F. Gélain, La Princesse Baciocchi et ses successeurs au château de Korn-er-Houët, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 91 (1964), pp. 19-24 L.-T. Federspiel, Les forces politiques en Ille-et-Vilaine de 1848 a 1870, Mémoire présenté et soutenu en octobre 2004, Centre d’Histoire du droit de l’Université Rennes 1 J.M. Poulain-Corbion (historiographe du voyage impérial), Récit du voyage de Leurs Majestés l’Empereur et l’Impératrice en Normandie et en Bretagne, août 1858, Amyot, Paris 1858 Corrispondenza di Napoleona Baciocchi relativa alla proprietà di Korn-er-Houët, ANP, 400 AP 23; inventario delle sue proprietà ivi, 400 AP 22 C. Floquet, Pontivy-Napoléonville. Une cité impériale, Mission du Bicentenaire de Napoléonville, Pontivy 2003, pp. 154-155 Voyage de son Altesse Mme la Princesse Baciocchi a Brest, septembre 1861, J.B. & A. Lefournier, Brest 1861

Bibliografia analitica

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N. Blayau, Billault, ministre de Napoléon III, d’après ses papiers personnels, 1805-1863, Librairie C. Klincksieck, Paris 1969, pp. 368 sgg. J.-P. Peroncel-Hugoz, Napoléone de Bretagne, in «Le Monde», 5 giugno 1997 J. Montels, La petite Napoléon, Éditions du Cerf Volant, Paris 1969, pp. 13 sgg. F. Robiou de la Trehonnais, Défrichement des landes de Bretagne. Concours de Corn-erHouet sous le patronage du prince impérial, 27 juillet 1863, Ad. Lainé et J. Havard, Paris 1863 Mrs. Bury Palliser, Brittany & its byways. Some account of its inhabitants and its antiquities: during a residence in that country, John Murray, London 1869, p. 187

Morte di Napoleona Procès verbaux de la mort, de l’embaumement et l’ensevelissement de Son Altesse, ANP, 400 AP 22, corrispondenza relativa ai suoi funerali e inventario delle sue proprietà R. du Merzer, La princesse Baciocchi, in «L’Illustration, journal universel», 20 febbraio 1869, p. 117 À la mémoire religieuse de Son Altesse Madame la Princesse Baciocchi par l’Évêque de Vannes, L. Galles, Imprimeur de Monseigneur l’Évêque, Vannes 1869 B. Rouppert, Pour le centième anniversaire de sa mort. La princesse Napoléon-Elisa Baciocchi. Pièces d’État-civil et documents, in «Bulletin mensuel de la Société Polymathique du Morbihan», 97 (1970), pp. 173-184, p. 180 ASL, Carte Cattaneo, 1, Note des objets dont se compose le Lot n. 1 appartenant à mad. la Comtesse Camerata (elenco di oggetti provenienti dall’eredità dell’imperatore Napoleone, consegnati al cavalier Cattaneo per conto della contessa di Camerata); J. Lemaire, Le Testament de Napoléon. Un étonnant destin, 1821-1857, Plon, Paris 1975, pp. 149-150; la lettera di Eugène Tisserand da Korn-er-Houët del 5 febbraio 1869 ad Alphonse Gautier, secrétaire général du Ministère de la Maison de l’Empereur, ANP, AP 400 22; Note pour le Maréchal di Alphonse Gautier dell’8 febbraio 1869, ivi, 400 AP 22

Indice dei nomi

Aldini, Antonio, 36, 38-39 Aldini, Francesco, 49 Angoulême, Marie-Thérèse-Charlotte de France, duchessa di, 121 Appony, conte Anton, ambasciatore austriaco a Parigi, 101 Armandi, Pier Damiano, 101, 133, 149 Armellini, Carlo, 146 Arrighi de Casanova, Jean-Thomas, duca di Padova, 41 Azzolino (o Azzolini), Anna, nata Bandini, 89-92, 106 Azzolino, Pompeo, 90, 92, 146 Baciocchi, Elisa, nata Bonaparte, granduchessa di Toscana, 9-48, 56, 71, 105, 107, 124, 164, 186 Baciocchi, Federico, 37, 39, 46, 51, 58, 88, 111, 115 Baciocchi, Felice, 9-14, 16-17, 28, 31, 3536, 38-41, 44-55, 57-61, 64-66, 69-72, 77-78, 88, 93-94, 103-121, 123, 126, 149, 161, 186 Baciocchi, Felice Francesco, 81, 81n, 122-123, 150 Baciocchi, Francesco Maria, 124 Baciocchi, Gerolamo Carlo, 16-17 Baciocchi, Jules-Étienne, 181-182 Barbieri, tenente colonnello pontificio, 66-67 Bartolini, Lorenzo, 14, 18, 116 Basoli, Antonio, 46 Baudin, Alphonse, 182

Beauharnais, Hortense, moglie di Luigi Bonaparte, regina d’Olanda poi duchessa di Saint-Leu, 49, 62, 64, 75-77, 90, 101, 103, 116, 119-120, 143, 186-187 Beaumont, Monsieur de, 121 Bécel, Jean-Marie, vescovo di Vannes, 184 Belli, Giuseppe Gioacchino, 118 Benoist, Marie-Guilhelmine, 16 Bentinck, Lord William-Henry, 30, 32 Benvenuti, Pietro, 14 Béranger, Pierre-Jean de, 141 Bernetti, Tommaso, cardinale, 100, 102, 108, 116 Bernhardt, Sarah, 97 Bezzuoli, Giuseppe, 21 Bianchetti, Cesare, 51 Biennais, Martin-Guillaume, 16 Billault, Adolphe, 176 Bismarck, Otto von, 189 Blair, Rose de, 12 Blessington, Marguerite Gardiner, contessa di, 62 Bonaparte, Antonio, 139 Bonaparte, Carlo Luciano, 64, 70, 85, 94, 110, 122-124, 146-148, 162 Bonaparte, Carlotta, 76, 85, 94, 116, 122 Bonaparte, Gerolamo, re di Westfalia, poi principe di Montfort, 37, 39, 41, 44-45, 56-59, 63-64, 68, 70, 76-77, 86, 92, 100, 104-105, 107-108, 113-114, 116120, 124-127, 132-133, 139-140, 143, 153-154-156, 160-161, 163, 174, 186

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Napoleona

Bonaparte, Gerolamo Napoleone, 76, 8687, 100-101 Bonaparte, Giuseppe, 56, 74, 83, 101, 122 Bonaparte, Giuseppina, vedova Beauharnais, nata Tascher de la Pagerie, 15, 44, 49, 75 Bonaparte, Julie, marchesa di Roccagiovine, 58, 106, 161-162, 164-165, 176 Bonaparte, Julie, nata Clary, 56, 75, 116, 122, 126 Bonaparte, Letizia, nata Ramolino, vedi Madame Mère Bonaparte, Luciano, 15, 74, 83, 122, 140 Bonaparte, Luigi, re d’Olanda poi conte di Saint-Leu, 48, 75, 87, 101, 116, 124 Bonaparte, Luigi Luciano, 139, 153 Bonaparte, Luigi Napoleone, vedi Napoleone III Bonaparte, Matilde, 58, 120, 124-127, 132, 143, 150-152, 156-157, 164, 176, 183, 186 Bonaparte, Napoleone, vedi Napoleone I Bonaparte, Napoleone Gerolamo, detto il principe Napoleone, 124, 139-140, 143, 153, 157, 161, 174, 181, 183, 186, 188 Bonaparte, Napoleone Luigi, 48-49, 7576, 85, 99-103, 116, 122, 149 Bonaparte, Pietro, 139-140, 147, 189 Bonaparte, Zenaide, 85, 122 Borghese, Paolina, vedova Leclerc, nata Bonaparte, 21, 31, 56 Boulay de la Meurthe, Henry, 143, 149 Bourdonnaye, Henri de, 166 Boutet, Nicolas, 187 Brignole, Giacomo Luigi, monsignore, 87 Broglie, Jacques-Victor-Albert duca di, 142 Bury Palliser, Fanny, 177 Busson, Fanny, nata Billault, 176 Camerata Passionei de’ Mazzoleni, Filippo, 49-58, 63, 70-72, 76, 87-94, 103110, 112-117, 119-120, 124, 129-132, 145-146, 156

Camerata Passionei de’ Mazzoleni, Napoleone, 58-59, 64, 72, 88, 90, 93-94, 103-105, 107-109, 112-117, 119-120, 124, 128-135, 148, 150-151, 154-162, 165, 186, 190 Camerata Passionei de’ Mazzoleni, Pacifico, 49-58, 70, 72, 89, 93, 103 Campan, Jeanne-Louise-Henriette, nata Genet, 12, 19 Canali, Francesco, 85 Candolle, Augustin-Pyramus de, 35 Cappelletti Benedetto, monsignore e governatore di Roma, 68 Carducci, Giosué, 189 Carlo V, imperatore, 128 Carlo VI il Folle, re di Francia, 150 Carlo X, re di Francia, 61, 73, 119 Carlo II di Borbone, duca di Parma, 138 Carlo Alberto, re di Sardegna, 134-135, 138, 146 Carolina del Württemberg, moglie di Gerolamo Bonaparte, 37, 39, 41, 45, 56, 64, 86, 119, 125, 154 Castiglione, Virginia Oldoini, contessa di, 165 Cassac, membro del Consiglio generale della Bretagna, 167 Cataldi, Tommaso, 66-67 Cattanei di Momo, Carlo, 45, 109 Cavaignac, Louis-Eugène, generale, 141142, 163 Cavaignac, baronessa di, vedi Waré Cavaignac Cenami, Bartolomeo, 11, 35 Cenami, Giusfredo, 12 Chartier, fattore di Korn-er-Houët, 178 Chateaubriand, François-René de, 31, 62, 180 Chauvet, Monsieur, insegnante di Napoleona, 22, 29 Chelini, Jacopo, abate, 10, 11n, 32 Cherugi, medico di Napoleona, 27 Choiseul-Praslin, Charles-Laure-HuguesThéobald, duca di, 158 Ciceruacchio, Angelo Brunetti detto, 144

Indice dei nomi Cini, Luigi, 46 Clary, Adolphe, 183, 186-187 Clary, Joachim, 156-157, 162, 183 Coppola, Monsieur, 23 Corsini, Tommaso, 145 Counis, Salomon-Guillaume, 23, 48 Courcy, de, generale, 189 Covaric, Giuditta, 182 Covaric, Valentino, 182 Dehaseleer, Giuseppe, 66-67 Delacroix, Eugène, 165 Delavigne, Casimir, 69 Demidov, Anatolij, 124-128, 135, 186 Demidov, Nikolàj, 124-125 Dessalle, Giuseppe, 61 Dietrichstein, Franz Joseph von, 83 Dietrichstein, Möritz von, 79-80, 83 Drouyn de Lhuys, Édouard, 161 Ducler, Monsieur, insegnante di Napoleona, 21-22, 25 Dupin, André, detto l’aîné, 61, 149 Dupré, Louis, 43 Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 27 Enrico IV, re di Francia, 27 Er Roué Stevan, 169 Eugenia, imperatrice di Francia, 154, 158, 164-167, 170, 173-174, 185-186, 189 Fabre, François-Xavier, 20 Falian de Cimier, Madame, 182, 186 Farinelli, Giuseppe, 43 Farini, Luigi Carlo, 145 Féart, Paul, 169 Fedeli, Vito, 85-86 Federico Guglielmo IV, re di Prussia, 138 Ferdinando I, imperatore d’Austria, 138 Ferdinando II di Borbone, re di Napoli, 138, 145-146 Ferdinando III di Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, 20, 32-33, 38 Fesch, Joseph, cardinale, 56, 118, 123 Finguerlin, Henriette de, 19-20, 29, 3336, 111

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Flahaut, de, generale, 143 Flambeau, sergente, 95-97 Fleury, Émile-Félix, generale, 141 Fontanes, Louis de, 11 Fouché, Joseph, 27, 31, 36, 41-42 Francesco I, imperatore d’Austria, 15-16, 38, 40, 74, 79, 96, 98, 101, 109, 138 Francesco IV, duca di Modena, 99-100, 115-116 Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, 138 Gadelia, Laura, 45, 47 Gadelia, Mademoiselle, 45 Galitzina, principessa di, 121 Galletti, Giuseppe, 145 Gambetta, Léon, 183 Garibaldi, Antonio, monsignore, 102 Garibaldi, Giuseppe, 147 Gautier, Alphonse, 187 Genlis, Stéphanie-Félicité Ducrest de StAlbin, contessa di,19, 186 Gentz, Friedrich von, 81 Gérard, François, 16 Giani, Felice, 46 Giordani, Pietro, 122 Gozzano, Ernesto, 89 Grabinski, Enrico, 161 Gregorio XVI, papa, 93, 100-101, 103, 133-134 Griscelli de Vezzani, Jacques-François, 158-159 Guglielmo I, re di Prussia, 189 Guilbauld de la Mégerie, Zoé, 12, 15 Guizot, François, 127, 139-140 Hallé, Jean-Noël, 11 Howard, Harriet, 150-151 Hugo, Victor, 142, 153 Jacob, fratelli, ebanisti, 16 Jacobet, medico, 181 Janin, Jules, 125 Joigneaux, Pierre, 141 Jouffroy d’Abbans, Achille, 45

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Napoleona

Kunz, Charles, 120 La Fayette, Gilbert du Motier, marchese di, 74 Lamartine, Alphonse de, 139-141, 143 Lamennais, Félicité-Robert de, 142 Lante della Rovere, Filippo, 76 La Roncière Le Noury, Camille Adalbert Marie, contrammiraglio, 180 Le Bon, Eugène, 36, 44, 51, 61, 111 Le Bas, Philippe, 71, 75 Leone XII, papa, 68 Leopardi, Giacomo, 122 Leopoldo II di Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, 33, 116, 135, 138 Lesseps, Ferdinand de, 147 Letessier, Elisa, detta Mademoiselle Marthe, 155-159 Levi, banchiere, 132 Lucchesini, Francesco, 35, 37, 41 Lucchesini, Girolamo, 13, 19, 32, 35 Luigi il Bonario, re di Francia, 28 Luigi XVI, re di Francia, 73 Luigi XVIII, re di Francia, 35, 45 Luigi Eugenio Bonaparte, vedi Principe imperiale Luigi Filippo, duca d’Orléans, poi re di Francia, 19, 73-74, 99, 101-103, 111, 132, 139, 144, 149, 158 Luschin, Francesco Saverio, arcivescovo di Gorizia, 159-160 Lützow, Rudolf von, conte, 78, 86-87 Madame Mère, Letizia Bonaparte nata Ramolino, detta, 16, 20, 45, 54, 56, 58, 61, 70, 74, 85, 103, 117-118, 187 Mancinelli, Barbara, 182 Maret, Hugues-Bernard, duca di Bassano, 41 Marguerite, gioielliere, 16 Maria Anna Carolina di Sassonia, 33 Maria Luisa d’Asburgo, imperatrice dei francesi, poi duchessa di Parma, 15-16, 56, 73-74, 77, 79, 97, 100, 135 Maria Luisa di Borbone, regina di Etruria, 13, 33

Maupas, Charlemagne-Émile de, 153 Mazzini, Giuseppe, 134, 146 Menotti, Ciro, 99-100 Menou, Jacques, generale, 13 Mérimée, Prosper, 68 Méry, Joseph, 117 Merzer, Réné du, 187 Metternich, Klemens Wenzel von, 30, 37, 40, 46, 74, 77-81, 83, 87, 96-98, 101103, 108, 116, 138 Misley, Enrico, 99 Mocquard, Jean-François-Constant, 141 Monferrand, Labitre de, 171, 177 Montanari, Leonida, 93 Montecchi, Mattia, 146 Montels, Jean, 169 Montijo, Eugenia di, vedi Eugenia, imperatrice Morny, Charles-Auguste de, 143, 151, 153 Moschettini, Gerolamo de, 42 Mounier, Édouard, 45 Murat, Carolina, nata Bonaparte, 27, 31, 40, 64, 72, 77, 84, 94, 116, 118 Murat, Gioacchino, re di Napoli, 31, 36, 39, 63 Murat, Joachim, 183, 185 Murat, Letizia, 26, 94 Murat, Luciano, 139, 147, 153, 183 Napoleone I, 9-17, 19, 24, 27, 30-31, 35, 37-39, 42-46, 48, 56, 59-60, 62, 64, 73, 73n, 76, 80-82, 84-85, 117, 124, 128, 137, 139, 141-142, 149, 154, 161, 174, 182, 186-188 Napoleone II, vedi Reichstadt, duca di Napoleone III, 71, 75-76, 84-87, 89-94, 99-103, 119, 125, 133, 139-143, 146159, 161, 163-164, 166-180, 182-183, 185-189 Necker, uomo d’affari a Trieste, 72 Nembrini Pironi Gonzaga, Cesare, cardinale, 68-69 Nicola I, zar di Russia, 86, 125, 127 Nieuwerkerke, Émilien de, 127

Indice dei nomi Nitot, François Regnault, 16 Noir, Victor (Yvan Salmon), 188 Obenaus, Joseph von, 79, 83, 95 Ollivier, Émile, 188-189 Oppizzoni, Carlo, cardinale, 49, 51 Orléans, Louis-Philippe, duca d’ (PhilippeÉgalité), 19, 73 Oudinot, Nicolas-Charles-Victor, generale, 147 Pacini, Giovanni, 100 Paganini, Niccolò, 14, 41 Parquin, Charles, commandant, 76 Persigny, Jean-Gilbert Victor Fialin, duca di, 141, 151 Piemme, conte di, 121 Pietro il Grande, zar di Russia, 124 Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, 20 Pinelli, Bartolomeo, 72 Pio VII, papa, 36, 45, 68 Pio VIII, papa, 68-69, 84 Pio IX, papa, 133-134, 138, 144-146, 148, 179 Piré de Rosnyvinen, Alexandre-Élisabeth, marchese di, 163-164, 166, 171, 173, 177-179, 181, 189 Piré de Rosnyvinen, Laurence, nata de Lambilly e vedova de Martel, 163-164, 166, 171, 177-178, 181, 184, 186 Planat de la Faye, Nicolas-Louis, 71 Podesti, Francesco, 61, 64 Polidori, Paolo, monsignore, 86 Polignac, Jules de, 73 Potenziani, Ludovico, 76, 85 Pozzo di Borgo, Maria Teresa, 122 Praz, Mario, 18n Principe imperiale (Luigi Eugenio Bonaparte), 167, 172, 177, 185-186, 189 Prokesch Anton, 80-84, 95-96 Proudhon, Pierre-Joseph, 142 Racine, Jean, 23 Ragon, colonnello, 183 Rangone, Francesco, 39, 46, 48 Raspail, François-Vincent, 142

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Regnault, medico di Napoleona, 181 Reichstadt, duca di, Napoleone Francesco Bonaparte, re di Roma o Napoleone II, 19, 73-74, 76-77, 79-88, 92, 94-98, 101, 109, 116, 119, 144, 149, 152, 154, 165, 186-187 Riccardi, Maria Francesca, 20, 25, 28, 29, 33 Robert, Louis-Léopold, 122 Roberti, conte, 71 Rosmer, Jean, 44 Rossi, Pellegrino, 133, 144 Rossini, Gioacchino, 38 Rostand, Edmond, 95, 97 Rota, Giovanni, 167 Rousseau, Jean-Jacques, 18, 24 Rouher, Eugène, 188 Sabatier, Raymond, 174 Saffi, Aurelio, 146 Saint-Elme, Ida de, 18, 35 Saliceti, Aurelio, 146 Salomon, Antoine-Samuel Adam, 188 Sangiorgi, Giovan Battista, 46 Saurau, Franz Josef von, 33 Savary, Anne-Jean-Marie-René, duca di Rovigo, 41 Sedlnitzky, Josef von, 40, 42, 83, 97, 109 Sercognani, Giuseppe, generale, 101-103 Sinigaglia, banchiere, 132 Spiegelfeld, Anton von, 45 Spinola, Ugo Pietro, nunzio, 87-88 Stroganov, Elisabetta, sposata Demidov, 124 Sue, Eugène, 158 Talleyrand-Périgord, Charles Maurice de, 36, 73n, Targhini, Angelo, 93 Tenerani, Pietro, 72, 84, 116 Thiers, Adolphe, 73, 142, 144, 189 Tisserand, Eugène, 170, 182 Tito, Flavio Vespasiano, imperatore, 28 Tofanelli, Andrea, 14 Trevisani, Cesare, 63

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Napoleona

Troili, Dante Domenico, 76, 86-87, 8992, 149 Troili, Pompeo, 90 Tuckerman, Henry T., 46 Vaccà Berlinghieri, Andrea, 37 Vaillant, Jean-Baptiste-Philibert, maresciallo, 183, 187 Velluti, Giovanni Battista, 23, 43 Véron, Louis Desiré, 152 Viel-Castel, Horace de, 158-159, 163 Villacampo, marchesa di, 91 Villemagne, Marie-Félicité de, 12

Villeneufve, Juliette de, 94, 162 Vittorio Emanuele II, re d’Italia, 146 Walewska, Maria, 161 Walewski, Alexandre, 161 Waré Cavaignac, baronessa di, 19, 21-33 Zaccaria, Pietro, 182, 185 Zambo, agente segreto, 158 Zappi, Girolamo, 51 Zucchi, Carlo, generale, 103 Zucchini, Gaetano, 145