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dello stesso autore per elèuthera
Mente locale per un’antropologia dell’abitare Saperci fare corpi e autenticità Non è cosa vita affettiva degli oggetti con Luca Vitone L’Ape, antropologia su tre ruote con Melo Minnella
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Franco La Cecla
Modi bruschi Antropologia del maschio
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© 2010 Elèuthera
Traduzione della Prefazione di Franco La Cecla
progetto grafico di Riccardo Falcinelli
il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]
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Indice
Prefazione di Fred Gardaphé
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introduzione Ancora bruschi I baffi gialli di nicotina Cappello
13 19 21
capitolo primo Antropologia del maschio
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capitolo secondo Disgraziati
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capitolo terzo Dovuta a Ivan Illich
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capitolo quarto Dominio
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capitolo quinto Maschi mediterranei
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capitolo sesto Imbranati
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capitolo settimo Apprendistato
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capitolo ottavo Legami maschili
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capitolo nono Paternità illegittime
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Coda
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Riferimenti bibliografici
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Prefazione di Fred Gardaphé*
Prima che Franco La Cecla si occupasse di mascolinità, si proclamava, sulla scorta di Simone de Beauvoir, l’incapacità maschile di comprendere la propria condizione in un mondo in cui gli uomini dominano le donne; oppure, sulla scorta di Robert Bly, si cercavano nel passato linee guida per rinnovare e indirizzare l’identità maschile. Ovviamente la maggioranza della gente ignorava queste alternative e continuava a vivere come sempre. Per me le cose sono cambiate quando mi sono imbattuto nel 2000 in Modi bruschi. All’epoca ero vicino a concludere la mia ricerca su come era cambiata in America l’immagine del gangster in seguito alla trasformazione dell’idea di mascolinità, quello che poi è diventato il mio testo From Wise Guys to Wise Men: Masculinities and the Italian American Gangster [2006]. Ciò che mi sembrava di aver scoperto aveva a che fare con il modo tradizionale di pensare la mascolinità, secondo il vecchio detto italiano «le parole sono femmine e i fatti sono maschi». Questa filosofia * Fred Gardaphé è Distinguished Professor al Queens College della City University of New York, Dipartimento di Inglese.
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riaffiora di continuo nei media, e recentemente attraverso il personaggio di Tony Soprano, che chiede al suo psichiatra: «Che fine hanno fatto i tipi come Gary Cooper, quelli forti, di poche parole?». Questa nozione ha dominato lo stereotipo popolare del maschio per lungo tempo, per cui la mascolinità viene messa in dubbio se un uomo dice quello che sente. Contro questo silenzio è arrivato La Cecla, complicando le conclusioni a cui ero pervenuto. La sua ricerca sulla mascolinità, in più espressa da un «nativo» italiano, mi spingeva a ripensare il mio lavoro e mi dava la possibilità di capire meglio il posto dell’identità maschile nei Cultural Studies. Nella mia ricerca c’erano descrizioni della mascolinità italiana che risalivano al mondo romano antico. Gli scritti di Cicerone e Tacito affermavano che agli uomini era affidato il compito di proteggere l’onore della famiglia e di preservarne la dignità sorvegliando la purezza delle loro spose e figlie. Ogni comportamento disonorevole, o injuria, implicava da parte del maschio una risposta attiva, spesso violenta, contro la donna (figlia, moglie, sorella) e contro l’uomo che le aveva causato disonore. Questa azione non era semplicemente quello che ci si aspettava come reazione, ma essa era persino contemplata, fino a qualche decennio fa, nella legislazione italiana. Dopo la caduta dell’Impero romano, la mascolinità in Italia divenne il distillato in continua evoluzione di tutte le culture che invasero e occuparono la penisola. I codici della mascolinità, così come si erano evoluti fino al sedicesimo secolo, furono descritti da Baldassare Castiglione nel Libro del Cortigiano e da Nicolò Machiavelli nel Principe, due trattati concepiti originariamente per la nobiltà, ma che ebbero ampia influenza su ogni strato sociale. Secondo questi testi, un uomo doveva gestire i propri problemi con freddezza e distacco e dunque controllare il proprio comportamento in pubblico. Questa idea significava non solo mostrarsi «correttamente» in pubblico, ma anche tenere all’oscuro gli estranei su cosa si avesse davvero in mente. La concezione di «figura», il «fare bella figura», poggiava sull’idea di doversi proteggere dai propri nemici. Il self-control doveva essere acquisito in modo da apparire naturale, una padronanza di sé chiamata «sprezzatura». 8
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Un altro imperativo della mascolinità italiana era l’«omertà» (o silenzio), un termine che sembra derivare da ombredad, il termine spagnolo per «mascolinità». Gli uomini italiani dovevano esprimere la loro mascolinità con azioni e non con parole. E l’azione maschile andava espressa in pubblico. Poiché l’Italia era costantemente invasa e governata da potenze straniere, gli italiani trovarono un sostrato stabile comune nell’ordine della famiglia, in cui il padre era il patriarca e il resto della famiglia dipendeva dalla sua autorità. La madre, che gestiva la casa, stabiliva una relazione con i suoi figli maschi che era diversa da quella presente in altre culture. Responsabili della loro socializzazione, le madri italiane li usavano come barriera cuscinetto tra la casa e il mondo esterno. Un’attenzione costante ai figli maschi, che si estendeva fino all’età adulta, esigeva come controparte una lealtà incondizionata e senza tentennamenti, identificabile nella percezione filiale (del figlio maschio) di avere un debito impagabile nei confronti della propria famiglia e in particolare delle necessità materne. Il modello di questa relazione è quello del rapporto tra Gesù e Maria, ovvero colei che lo prepara alla vita pubblica. La centralità di questa interazione madre/figlio è evidente nelle rappresentazioni religiose, ma anche in quelle schiettamente laiche. La fuga dall’influenza materna del figlio maschio è una delle molte osservazioni che La Cecla fa in Modi bruschi: «Si diventa maschi strappandosi a fatica dall’influenza materna. Ai maschi adolescenti si prospetta un passaggio estremamente difficile e doloroso. Essi devono cancellare dal proprio corpo l’influenza ‘effeminante’ della madre e delle donne del gruppo e acquisire invece ‘modi bruschi’». L’atteggiamento brusco dell’adolescenza deve poi dare luogo alla durezza della mascolinità adulta. La Cecla sostiene che, poiché la grazia è percepita come qualcosa di femminile, il giovane maschio deve trovare un modo per «di-sgraziarsi», e questo essere disgraziati va acquisito insieme e di fronte ad altri uomini. La mascolinità è una pubblica performance, e fin quando il giovane non ne è capace, è considerato un adolescente. Scrive La Cecla: «In assenza di facili evidenze, si ricorre dunque ai ‘modi bruschi’. I maschi devono dimostrare di essere veri uomini con il fracasso e la messa in 9
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scena: il rombo della Harley Davidson, le impennate del vespino, il tono della voce. Altrimenti il loro ‘sesso’ rimane invisibile, pericolosamente neutro. Il machismo, da questo punto di vista, è la necessaria costruzione ‘in negativo’ della visibilità del maschio. Come puntualizza un proverbio messicano, o sei macho o non sei niente: ‘El macho vive, mientras el cobarde quiere’ (il macho vive, mentre il codardo prova solo a farlo). Per significare che non c’è un grado zero della mascolinità. Questa è sempre eccessiva, ipertrofica, enfatica: il machismo come unica possibilità per l’uomo di farsi vedere». Lo spettacolo pubblico del machismo diventa così una gara di abilità, che può avere un’escalation dal fracasso al mettersi in mostra, dal mettersi in mostra alla competizione, per sfociare a volte nella violenza. Tutte queste affermazioni sono ben radicate in quel vasto campo di ricerca sulla mascolinità alimentato da studiosi, ricercatori ed esperti. Ma quello che rende originale il presente testo è il modo in cui l’autore combina la propria esperienza e capacità di osservazione con le sue competenze scientifiche. Molte delle sue intuizioni derivano dall’essere nato e cresciuto in Sicilia. Per esempio a proposito della sua adolescenza: «Gli uomini prima erano una strana compagine di spavalderia e chiusura […]. Si diventa maschi ‘a scatti’. Gli ‘scatti’ da acquisire hanno a che fare con una reazione/continuazione con l’imbarazzo fisico dell’adolescenza. Il maschio vero è un po’ maldestro, brusco, duro con il suo corpo. Se rimane aggraziato (Peter Pan che sa volare, rotondo nei movimenti), resta nella dolce infanzia e nei sogni sul ventre della madre. Il maschio deve perdere la ‘grazia’, diventare ‘sgraziato’, ‘disgraziato’». Modi bruschi si colloca quindi in una posizione di punta nei Gender Studies, in cui sia uomini che donne cominciano a occuparsi di mascolinità. Nel suo lavoro, La Cecla mette insieme la profondità del ricercatore con la chiarezza e l’efficacia di un professionista della scrittura, di uno storyteller. Conosce la storia, la teoria, ma lungi dall’esserne appesantito ne è piuttosto arricchito in vivacità. Il suo lavoro sulla letteratura esistente, combinato con le acute osservazioni sulle forme passate e attuali di mascolinità, fanno sì che il suo libro sia de10
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stinato a parlare a generazioni di futuri lettori, in particolare a quelli intenzionati ad addentrarsi in profondità nella comprensione di cosa significhi maschile e femminile in un mondo che sembra essersi rifugiato negli stereotipi mediatici del gender. Pur nella sua specificità, l’approccio del presente saggio trascende le culture nazionali per diventare un testo fondamentale dei Gender Studies, alla pari di testi del passato come quello di David Gilmore, Manhood in the Making: Cultural Concepts of Masculinity, del 1991. La Cecla è un uomo che ha imparato molto scrivendo questo libro, e tutti noi impareremo molto leggendolo.
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Introduzione Ancora bruschi
È strano doversi rammaricare della giovinezza di un libro. Eppure che peccato che in questi sette-otto anni dalla sua prima uscita nulla di nuovo sotto il sole sia comparso ad arricchirne gli spunti. Sarebbe bello se il dibattito sulla mascolinità riuscisse a superare, da una parte, la soglia misera degli stereotipi post-femministi e, dall’altra, la soglia ancora più misera del masculine pride, dell’orgoglio maschile o del suo contrario, l’umiliazione maschile. Quello che mancava allora e che manca ancora – e che in questo libro era un inizio – è un’esplorazione della dialettica dei sessi, della dialettica dei generi, un’esplorazione delle morfologie, della maniera di disporsi della mascolinità per far fronte alla forza sostanziale delle maniere femminili. Come se la politicizzazione delle identità sessuali avesse spento una capacità di cavare, di costruire un’archeologia delle identità sessuali. E ovviamente non basta rivestire le identità da bandiere di scuse, come fanno alcuni movimenti maschili nostrani, che chiedono scusa alle donne della propria inappropriatezza. C’è una tristezza cattolica in queste scuse, come una specie di pentimento tardivo che non risponde al perché dei gesti di dominazione e non 13
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dichiara nulla di nuovo, perché quei gesti maschili di dominazione non erano solo dovuti alla «cattiveria» dei maschi, ma a una complessità più profonda di fondamenti della società tutta. L’ingiustizia tra i sessi non ne esaurisce la complessità. Quel che è successo è che si è semplificata la dialettica pensando che bastasse un buon colpo di neutralità queer per superare tutto, hop, d’un balzo. In un testo di Jacques Derrida, incluso nel volume Psyché. Invenzioni dell’altro1, ci si imbatte in un articolo sull’assenza in Martin Heidegger di qualsivoglia discorso sulla sessualità, di qualsivoglia discorso sulla costituzione maschile e femminile dell’essere. Derrida spiega che Heidegger fa un discorso su ciò che l’essere è prima ancora di definirsi, di darsi nel mondo come maschio e femmina. La «gettatezza» dell’essere è precedente all’antropologia che questa gettatezza si dà. Emmanuel Lévinas riprenderà il tema a partire dalla fenomenologia in un senso che rinnova la gettatezza spostandola «più» nel mondo: è l’essere come compare antropologicamente che gli interessa, con gli a priori di cui l’individuo non risponde perché vi nasce «gettato dentro». In questo senso maschio e femmina non sono due attributi idraulici, due diverse maniere di eccitarsi o di interferire con gli altri esseri, no, anzitutto sono due diverse antropologie. Per questo ritengo che l’antropologia abbia un ruolo fondamentale da giocare ancora nei Gender Studies. Appunto perché l’antropologia ha ancora l’umiltà di partire dall’osservazione, dalla fenomenologia, dalla ricognizione del mondo, dal riconoscimento nel mondo delle differenze dei fenomeni umani. Il compito dell’antropologia nei confronti del sesso è di «fare andare avanti» i fenomeni, come Michel Foucault faceva andare avanti gli scavi della sua archeologia delle identità. E c’era e c’è moltissimo da scoprire, da cercare, e siamo ancora appena all’inizio. Peccato, perché forse il momento forte è tramontato, siamo tornati in mezzo a un brodino di ovvietà. La nostra società, che del sesso sembra parlare continuamente, ovviamente del sesso sa ben poco e delle relazioni uomo/donna ancora meno. Oscilla tra la condanna delle «generalizzazioni» – non si può parlare 14
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di uomini, non si può parlare di donne – e la ricaduta nelle bandiere e banderuole della politica del sesso. Le eccezioni si contano sulla punta delle dita: un bellissimo libro recente di Anne Marie Sohn, Sois un homme! La Construction de la masculinité au XIX siècle2, racconta il cambiamento che avviene nella società francese dopo l’Ancien Régime, quando agli uomini viene richiesta una «contenzione» della propria esuberanza – risse, litigi, sfide, duelli – per passare a un modello in cui l’uomo non è quello che si butta nella lotta, ma quello che le resiste. Ovvero l’arrivo di un modello borghese dove i valori maschili sono tutti nella cortina che gli uomini devono costruire tra le proprie passioni e la loro espressione. Il libro della Sohn è un ottimo esempio di come si possa fare una storia delle identità sessuali proprio perché queste fluttuano e si trasformano: il che significa che ogni essenzialismo in questo campo è da rigettare, ma allo stesso tempo è da rigettare l’idea che la trasformazione di queste identità sia legata alla capacità politica individuale di plasmare la propria identità. Come nel libro che avete tra le mani si dirà più volte: si è maschi insieme, come si è femmine insieme, e come si è maschi e femmine allo specchio/frontiera gli uni delle altre. E come si è gay o lesbiche o queer insieme. Le identità sessuali non sono «creazioni artistiche», sono una faticosa negoziazione in un rumore collettivo di urla, sospiri, angosce e gioie. La sessualità, l’identità di genere, ci racconta che non siamo mai soli, nemmeno quando ci masturbiamo. È interessante che questo libro, nella sua traduzione in spagnolo, sia utilizzato da operatori della salute mentale che lavorano con gli adolescenti, perché è questa la condizione in cui l’individuo si trova stretto tra la «conformità» a un genere e le spinte a non essere conforme, spinte che possono essere verso una marginalità dolorosa o verso un’originalità altrettanto dolorosa. L’identità maschile richiede, al pari delle altre, la comprensione e l’assimilazione di una conformità che plasma il corpo e i gesti, le posture e le sensazioni. C’è un inner touch3, una sensibilità interna dell’essere maschi che andrebbe tutta studiata non nelle manifestazioni «folcloristiche» 15
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(maschio motociclista, bullo, tangueiro), ma in quelle più sottili del «sentirsi uomo». Le stesse che vengono avocate dai Queer Studies come segnale di un’appropriazione della sensibilità femminile da uomini che cambiano sesso. Il campo più fertile è la letteratura, con le profonde, geniali, insuperabili intuizioni di Jerome D. Salinger nella differenza sessuale tra bambini e bambine del racconto Giorno perfetto per i pesci banana4, per passare alla più specifica rassegna delle sensazioni maschili in Saul Bellow, Philip Roth e John Maxwell Coetzee. Quest’ultimo ci offre nel Maestro di Pietroburgo5 un ritratto maschile di Fëdor Dostoevskij che rende la ricchezza nevrotica, delirante, sensuale del mondo interno dello scrittore russo, le sue pulsioni e le sue commozioni, i suoi desideri violenti e teneri, la sua paternità e il suo senso di disperazione. C’è da essere grati che esista ancora una letteratura di alta qualità che supera di gran lunga la letteratura di «gender» dell’accademia, incapace di guardarsi intorno e di vedere veri uomini e vere donne impegnati a comprendere se stessi. La ripubblicazione di un piccolo capolavoro della letteratura americana come Sylvia di Leonard Michaels6 vale molto più di qualunque studio sulla guerra tra i sessi e sulle sue componenti tragiche, ironiche, passionali, teneri, folli, disperate. La voce del protagonista è una collezione preziosa di imbranataggine, di generosità, di intelligenza, di sensibilità maschile. Recentemente, Elena dell’Agnese ed Elisabetta Ruspini hanno curato un reader di testi sulla mascolinità italiana7. Ed è interessante che il tema della mascolinità all’italiana stia emergendo da più parti non più come uno stereotipo di cui vergognarsi o da prendere in giro, ma come una costruzione culturale con dignità di attenzione. Oltreoceano uno studioso italo-americano, Fred Gardaphé, ha fatto una ricognizione simile nell’ambito della mascolinità più spettacolarizzata, quella del maschio gangster e mafioso, leggendone la trasformazione mediatica negli ultimi anni (dal Padrino ai Sopranos) e la corrispondenza con i dati e le evidenze della propria esperienza di quel mondo8. Sarebbe interessante ampliare questo approccio chiedendosi su che tipo di modelli maschili si appog16
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giano intere culture e aree «religiose». L’antropologia delle religioni ha, per esempio, ben poco lavorato su quanto il modello di un trentenne ribelle, circondato da uomini suoi discepoli, con un rapporto privilegiato con la madre, morto in croce per le sue idee, abbia influenzato l’identità maschile occidentale fino a oggi. Il maschio eroico, coraggioso, martire – da Garibaldi a Che Guevara – è la reincarnazione di un modello di mascolinità «celibe» votata alla grandezza, alla rivoluzione e al sacrificio, e molto meno alla famiglia e alla stabilità. Che modello maschile ha l’islam, con il suo profeta, le sue barbe, la sua oscillazione tra una mascolinità tranquilla e commerciante e la rivendicazione guerriera su un mondo di infedeli? Che modello maschile ha l’India, con una società in cui le divinità femminili hanno un peso straordinario, da Kali a Parvathi, alle dee madri e devastatrici9? Infine un capitolo a parte è rappresentato dalla questione del desiderio. Siamo sicuri che il desiderio non abbia sesso? Siamo sicuri che il desiderio maschile e quello femminile siano i travestimenti di un unico desiderio? O non c’è in tutte le descrizioni che gli uomini fanno del desiderio femminile e le donne di quello maschile un momento in cui si sente che non si afferrano, che si simulano, che si confondono senza carpire davvero l’unicità dell’altrui desiderio? Ovviamente questo è un campo minato, perché si tratta di sostenere l’idea che la libido, gli istinti, le pulsioni, i desideri possano essere irriconducibili a un’unica lettura. Ho l’impressione che una certa onda post-lacaniana cominci a leggere le cose in questo senso, tenuto conto del fatto che la psicoanalisi ha ancora molto poco lavorato sulla relativizzazione delle proprie categorie, sulla rivisitazione di esse in chiave storica e antropologica. Il desiderio ha una storia e una fenomenologia, ed esse ci insegnano a essere prudenti nel generalizzare, nell’attribuire ai nostri antenati i nostri desideri, come a proiettarli su altre culture, o a proiettarli sull’altro genere. Modi bruschi rimane un avvertimento. Nella durezza della costituzione maschile, così come essa si manifesta in alcune culture, c’è una strategia strana, ambigua, da comprendere. Si diventa maschi 17
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con una buona dose di eliminazione di rotondità, di sfumature anche. Si diventa maschi rinunciando a molte cose, e questo fa sì che l’identità maschile sia di una parzialità disarmante e pericolosa. Ma le cose non stanno in modo molto differente per le altre identità. Si diventa qualcuno abolendosi dentro una buona parte di opzioni positive e possibili. L’identità è una forma di ascesi e «trancia» via fin troppe cose. La sua parzialità viene ricompensata con un segreto di sé che si impara a conoscere e a non dire. La stessa parzialità è una delle radici del desiderio dell’altra o dell’altro. Si rimpiange, sì, si rimpiange con brama, nel femminile, tutto quello che il maschile non è. Oppure si vorrebbe dare al femminile tutto ciò che il maschile pensa di essere. Il maschile si vorrebbe mangiare il femminile o vorrebbe esserne mangiato. È questa dialettica dell’incompletezza che ci rende disperatamente interessanti o inaspettatamente aperti.
Note all’Introduzione 1. Jacques Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, Jaca Book, Milano 2009. 2. Anne Marie Sohn, Sois un homme! La Construction de la masculinité au XIX siècle, Seuil, Paris 2009. 3. Daniel Heller Roazen, The Inner Touch, Archeology of a Sensation, Zone Books, New York 2007. 4. Jerome D. Salinger, Un giorno perfetto per i pesci banana, in Nove Storie, Einaudi, Torino 2004. 5. John Maxwell Coetzee, Il maestro di Pietroburgo, Donzelli, Roma 1994. 6. Leonard Michaels, Sylvia, a novel, FSG Classics, New York 2007. 7. Elena dell’Agnese, Elisabetta Ruspini, Mascolinità all’italiana, costruzioni, narrazioni mutamenti, UTET, Torino 2007. 8. Fred Gardaphé, From Wise Guys to Wise Men, Masculinities and the Italian American Gangster, Routledge, New York-London 2006; Fred Gardaphé, Importato dall’Italia, e altre storie, Idea Publications, New York 2009. 9. Sudhir Kakar, Sesso e amore in India, Pratiche, Parma 1995.
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I baffi gialli di nicotina
Sono tornato a Palermo per gli uomini con i baffi gialli. C’è qualcosa tra il naso e il labbro che mi sembra venga solo agli uomini di qui. Dipende, dicono, dal fumare, dalla cicca accanita che imbiondisce anche il bianco del pelo. Sono gli uomini che ho conosciuto nella mia infanzia, gli zii e i padri, quelli che fumavano anzitutto come pratica maschile e solo dopo come vizio. Sono uomini stempiati, dagli occhi un po’ lucidi, immersi in se stessi, quanto basta per pensare di disturbarli se solo gli si rivolge la parola. E, se ve lo consentono, le loro parole saranno poche e nervose. Come se – nascosto a voi – ci fosse uno sguardo che va oltre e che è preso, preoccupato, senza darlo a vedere, da una cosa grande, difficile. Questi uomini li avevo dimenticati per due buoni decenni. Erano passati, come il passato. Eppure posso dire di essere tornato per loro. Mi sono accorto che esistono ancora. Mi hanno fatto invidia. Dove si erano cacciati nel frattempo? Dove mi ero cacciato io? Il giornale annuncia la cattura di un gran numero di malviventi di questa città; è una cosa preparata in segreto e con un lavoro, preoccupato, di poche parole e molte sigarette; lungo, molto lungo. 19
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Ed ecco la città si sveglia, e io con lei, con un giornale che finalmente dice nomi e cognomi, che dichiara quello che tutti sospettavano e sapevano, ma nessuno aveva detto mai con tale chiarezza. Questi uomini dai baffi gialli sono i miei coetanei, solo che io non fumo, non ho i baffi gialli, mi manca quell’essere antico pur essendo vivo oggi; anzi è questo che avevo rifuggito, no? Uno di questi uomini vive di fronte a casa mia. Lo vedo uscire ogni mattina, preoccupato. Prima di entrare nell’Alfa blindata si guarda un attimo intorno con quello sguardo che sa di difficile (e di difficile senza soluzione, di lì a sera, di lì a settimane, ad anni). Circondato dagli uomini armati della scorta che non hanno i baffi gialli come lui, ma che lo guardano come guarderei io uno dai baffi gialli. L’effetto dei baffi gialli è quello del trascorrere lucido senza guardarsi indietro, ma contenendosi rispetto al futuro. Il futuro è un sentimento. Dei sentimenti occorre essere gelosi. Gli uomini dai baffi gialli hanno una discrezione estrema. Il futuro è da guardare senza fargli capire che vorremmo cambiarlo. Una sigaretta sotto i baffi gli può far credere che non ci teniamo poi così tanto, e può farci continuare il nostro silenzioso lavoro.
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Cappello
Essere umani significava essere divisi, mutilati. L’uomo è incompleto, Zeus è un tiranno. Il monte Olimpo è una tirannia. Il compito dell’umanità, nella sua condizione divisa, consiste nella ricerca della metà mancante. E dopo tante generazioni, la tua vera controparte risulta semplicemente introvabile. L’eros è un risarcimento concesso da Zeus, forse per ragioni politiche sue. E la ricerca della metà perduta è senza speranza. L’incontro sessuale produce una sorta di momentanea amnesia, ma la dolorosa consapevolezza della mutilazione è permanente. Saul Bellow, Ravelstein
Ogni uomo intelligente e sensibile sa che la condizione maschile oggi può essere molto dolorosa. Ma non per questo deve per forza essere ridicola. È l’impressione che molta letteratura dedicata all’argomento, purtroppo anche scientifica, dà. È difficile salvarsi oggi dalla volgarità con cui il tema della mascolinità viene trattato, dove per trivializzazione intendo anche il nuovo orizzonte morale che vorrebbe impossessarsi della mascolinità. 21
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È molto triste che la parte più acuta del movimento femminista non si sia accorta che alla donna del passato, garante della morale familiare, si sia sostituita oggi una donna garante della correttezza politica della mascolinità. Come se non ci si potesse davvero salvare da un approccio esente dalla tentazione istituzionale, di istituire cioè norme, comportamenti validi e «valori» di cui qualcuno sarebbe garante. Non c’è dubbio che mai come in questi ultimi anni a essere in crisi non è la mascolinità, ma la relazione maschio/femmina, o meglio quella uomo/donna. Qualunque sorrisino di compiacenza di fronte al maschio in crisi, sorrisino femminile, maschile, gay, transgender o queer non importa, dimentica che la crisi del maschio è una crisi delle relazioni con la mascolinità, crisi che non solo coinvolge l’identità femminile nelle sue capacità relazionali, ma anche l’identità di chi vorrebbe sfuggire, con nuove definizioni, alle identità sessuali «tradizionali». Perché, se ci si può illudere di costruire «da soli» la propria identità sessuale, non ci si può illudere di essere monadi senza connessioni con le altre identità. Possiamo essere transessuali queer con organi meccanici, ma restiamo figli di un padre e di una madre, fratelli o sorelle di altri individui, vicini di casa e concittadini di altri individui sessuati. Solo una magnifica follia da New Economy può pensare alla «donna liberata» o all’«omosessuale liberato» o al «maschio liberato» come a un individuo isolato nello splendore del migliore «liberalismo». Le straordinarie conquiste delle donne e del movimento delle donne negli ultimi decenni sono vanificate proprio dalla «crisi della mascolinità», perché ovviamente non esiste una mascolinità senza la relazione con la «differenza femminile». Forse dovremmo smetterla di ragionare nei termini di un «muoia Sansone con tutti i Filistei». I rapporti tra i sessi e tra le diverse identità sessuali sono già abbastanza dialettici e tesi – nei casi migliori – per pensare che solo l’eliminazione del «nemico» li possa aggiustare. Soprattutto, credo sia giunto il momento di dire che dietro il di22
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battito sulla sessualità, dietro le gay parade e dietro le dichiarazioni estreme del transessualismo, come del machismo o dei movimenti per l’eliminazione del maschio («l’imene ti mena» si chiamava uno di questi movimenti in Italia), c’è la vita reale della gente. La vita di uomini e donne che cercano di farcela nonostante «le crisi» e «la guerra tra i sessi», che cercano di incontrarsi, volersi bene, magari anche stare insieme, costruire convivenze, fare figli ecc. Mi sembra paradossale, ma anche benefico, che all’interno della compagine gay-queer alla fine rispunti la richiesta di essere accettati come normali possibili costruttori di un nucleo di vita associata, quello che una volta si chiamava famiglia. Non c’è dubbio che nella vita reale la gente – uomini e donne – soffra molto per come stanno andando le cose tra maschi e femmine. Abbiamo perduto una cultura della relazione, che era un’arte smagata dell’«impossibilità» di ricomporre le mancanze di cui parla Bellow citando il Simposio di Platone. Nella sana consapevolezza di questa impossibilità, uomini e donne riuscivano a incontrarsi usando un’arte del malinteso che a volte diventava davvero amore, e che in ogni caso era un’ottima base per l’eros. Ci siamo smarriti. Si sono smarriti i maschi – intelligenti – che hanno perduto la sicurezza di essere al loro posto, e si sono smarrite le donne che hanno pensato che una buona vendetta le avrebbe ripagate di millenni di umiliazioni. Potremmo restare così, divisi, isolati ognuno nei suoi organi biologici o meccanici, condannati a un onanismo barocco e intellettuale. La relazione è troppo scomoda o troppo pericolosa per poterci consentire un’uscita da noi stessi. Come se la sessualità, che per secoli si è basata su una voglia inappagata di «uscire fuori di sé», non potesse essere più praticata perché «fuori non è sicuro». Schiere di donne e schiere di uomini sono deluse dalla difficoltà della relazione. Si affidano a strizzacervelli, a farmaci miracolosi, a movimenti di riscatto e a pratiche di autocoscienza, e poi semplicemente si rassegnano o abbandonano il campo. Non è un secolo facile per gli incontri. Qualcuno – uno dei due – è sempre in ritardo o non ha capito bene l’ora e il posto 23
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dell’appuntamento. Uomini e donne si inseguono, mancandosi puntualmente, nella letteratura, nel cinema, nei serial e perfino nelle camere sorvegliate dal Grande Fratello. Il romanticismo ottocentesco si è risolto nel XX secolo con un «ritorno alla realtà» che non è stato dei migliori. Perfino i giapponesi, che ci avevano creduto nel dopoguerra e che, occidentalizzandosi, si erano ribellati ai matrimoni di interesse decisi dai genitori, per partecipare al romance di una vera storia d’amore, sono stati vittime di una grande delusione [Jolivet, 2000]. Il romance non ha funzionato e loro sono tornati ad affidarsi alle associazioni dei genitori (genitori dei divorziati) per avere una garanzia esterna che li salvi dalla difficoltà dell’incontro tra i sessi. La situazione non è certamente rosea. Non per questo possiamo accettare che qualcuno si permetta di parlarne con la sicurezza di chi «tanto ne è fuori». Sarebbe carino che qualcuno si ricordasse ogni tanto che esiste un livello di socialità di cui le società non possono fare a meno. A questo livello, il gioco delle differenze, di qualunque natura, soprattutto il gioco delle differenze di natura sessuale, è essenziale. Lo è dal sorriso del giornalaio alla signora che esce di mattina con le sue bambine, alla seduzione del profumo di una donna che incontriamo per strada, alla complicità di sguardi tra amici al passaggio di una minigonna, ai commenti tra donne sul modo in cui altre donne sono vestite o sullo sguardo intrigante di un uomo che passa. La socialità è scolpita in queste differenze e ogni «travestitismo», ogni grado diverso della sessualità trasversale, gioca con le stesse differenze (e a partire da esse). Solo una teoria astratta delle identità può credere che un mondo senza differenze sia un mondo di libertà. Il dramma è che queste differenze non sono «volontarie», non sono inventabili «individualmente». Sono invece avversate da tutte le forme di omogeneizzazione e globalizzazione imperanti. Rischiamo di perderle e di perdere con esse la capacità stessa di articolare la nostra identità. Siamo fatti, fisicamente e spiritualmente (psichicamente, nel senso greco però), di membra e volti artico24
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lati. L’eros stesso è un movimento delle membra e dei volti. Se diventiamo rigidi, senza differenze, rischiamo solo di bloccarci nella smorfia del corpo intero – tremenda – di cui parla Wittgenstein, nella smorfia di chi non ha volto: Un’espressione del volto assolutamente fissa non potrebbe essere un’espressione amichevole. Dell’espressione amichevole fa parte la mutevolezza, l’assenza di regolarità. L’irregolarità fa parte della fisionomia [Wittgenstein, 1947, trad. it. 1990, p. 615].
L’irregolarità delle fisionomie, posto che le identità sessuali sono fisiologie trasformate in fisionomie, è l’effetto e allo stesso tempo la garanzia della relazione. La relazione scomoda e impossibile per antonomasia è quella uomo/donna. Accettarne il carico di disturbo significa accettare il disordine e l’irregolarità che ne può derivare alla nostra identità sessuale, messa a repentaglio dal confronto. Vogliamo ancora buttarci in questo gioco che può fare male?
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capitolo primo
Antropologia del maschio
Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere un maschio. Simone de Beauvoir, Il secondo sesso
L’infermiera lo fa accomodare. In sala d’aspetto ci sono altri uomini, vestiti in modo impeccabile, che attendono silenziosamente il loro turno. Quando tocca a lui, prova un certo stupore nell’accorgersi che lo specialista è una donna, più o meno della sua età. Lo invita a sedersi, ascolta cosa ha da dire, quindi gli chiede di togliersi pantaloni e slip. Una volta nudo, deve sistemarsi intorno al pene due anelli elastici collegati a una macchina. La leggera scarica elettrica lo coglie di sorpresa e non ha il tempo di accorgersi di essere in piena erezione. La specialista lo invita a togliersi gli anelli e comincia a scrivere su una cartella clinica. Chiede all’uomo di rivestirsi. Nel consegnargli la cartella lo congeda dicendogli: «Come vede non posso farci nulla». L’uomo se ne va visibilmente contrariato: la causa della sua impotenza non avendo nulla a che fare con un problema fisico. 27
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Rimettere le cose al loro posto L’uomo che va a consultare uno specialista vuole sapere cosa c’è che non funziona. Lo specialista gli risponde che è lui che non funziona, non qualcosa attaccato a lui. Il paziente è profondamente frustrato perché tutto viene rimesso nelle sue mani. Deve cavarsela con un altro giudizio clinico su se stesso. L’impotenza è in lui, non attaccata ai genitali, l’impotenza è lui. Niente come questa situazione racconta il limite di assurdità a cui è giunta la condizione maschile. L’uomo tratta il suo pene come una macchina che non fa più il suo dovere, e deve invece rendersi conto che questa macchina non esiste: ciò che esiste è la cesura compiuta tra sé e quello che Carl Jung chiamava con umorismo «un tipo particolare di simbolo sessuale», il pene. La mascolinità è oggi sottoposta a un regime di cesura che consente solo un ipotetico sforzo di «riaccorpamento» (come se uno dovesse «riattaccarselo»). Alla base di questa separazione c’è una condanna che la mascolinità ha fatto propria fin nelle viscere. Quello che per il pensiero della Scolastica e per Tommaso d’Aquino era un mistero dovuto alla caduta di Adamo dal paradiso, ovvero il fatto che alcune parti del corpo, tra cui il pene in erezione, non obbedissero alla volontà ma a un principio «autonomo» e concupiscente [Illich, 1982], diviene oggi il paradigma della crisi del maschio. A questi sarebbe consentito avere ancora erezioni a patto di rinunciare a tutta la negatività del proprio essere maschio, la mascolinità essendo una categoria dubbia, quasi immorale, che ha perduto qualunque giustificazione interna ed esterna. L’uomo diventa un essere con un’appendice idraulica che dovrebbe il più possibile diventare «oggetto», farsi macchina, senza essere intralciata da una mascolinità ingombrante di sogni, sguardi, giudizi sul mondo e sugli esseri a cui tradizionalmente votava i suoi desideri: le donne. Pierre Bourdieu [1998] è arrivato ad affermare che la differenza tra i sessi è un’invenzione della dominazione maschile. A suo avviso, i maschi hanno inventato «in ogni cultura» una differenza tra 28
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uomini e donne che serve solamente a consentire la dominazione dei primi sulle seconde. A rigor di logica, è difficile seguire questo ragionamento. Quando hanno inventato la differenza, i maschi erano già o non erano ancora maschi? Se si risponde che lo erano già, allora non si capisce cosa hanno inventato; se si risponde che non lo erano, allora non si capisce da quale posizione maschile hanno inventato una differenza ingiusta.
Le pendenze politiche del sesso Come vedremo, le questioni riguardanti il sesso, l’identità sessuale e la condizione maschile, femminile, gay o transgender hanno avuto ben poco a che fare con un lavoro di costruzione scientifica e di ricerca applicata. Questo è stato ed è ancora il campo della politica e della morale politica, il campo del «politicismo», come lo definiva Michel Foucault, con tutte le appendici che questi due termini possono produrre: discipline psichiatriche, discipline amministrative dei corpi, ideologie del diritto, ideologie del politically correct, retoriche del vittimismo e dell’etnicismo. Quando dico politica e morale, intendo che è giunto il momento di sgombrare il campo da un discorso sul sesso e sull’identità sessuale che è stato creato in base a uno stato di guerra. Qualcuno doveva essere accusato, qualcuno doveva cambiare; giustizia andava fatta! Ancora oggi chi organizza le gay parade in Italia e altrove è convinto che la questione è avere «qualcuno contro cui protestare», la questione è lamentare il proprio stato di emarginazione e soprattutto pretendere «una legge». È singolare che un movimento che dovrebbe finalmente liberarci dall’obbligo di «dover essere sessualmente in un dato modo» si batta per avere una legge, leggi che «consentano», che «legalizzino» identità differenti e «devianti». Tutto ciò ha solo a che fare con un servaggio delle politiche dell’identità sessuale al politichese vetusto delle vecchie sinistre europee e italiana. Le identità sessuali sono ancora «utilizzate» dal 29
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vecchio gioco politico post-hegeliano e soggette a giudizi morali che sono solo di parte, di partito, di compagine parlamentare. Da tutto questo dovremmo davvero liberarci, se vogliamo ridare dignità a quello straordinario mondo delle identità sessuali di cui nonostante tutto – nonostante il femminismo, i Women’s Studies, i Gender Studies, i Queer Studies (ovvero gli studi riguardanti le donne, il genere, le nuove identità sessuali) – sappiamo ancora ben poco; ben poco che ci possa servire a vivere con felicità la nostra storia sessuale.
Il sesso come condizione antropologica Questo è un testo di antropologia nel senso più ampio del termine, nel senso sognato dalla fenomenologia «salvata» da Emmanuel Lévinas. L’antropologia si occupa di quegli a priori che ci costituiscono quando siamo messi al mondo: corpo e società. Ciò che dovrebbe interessare gli antropologi e i filosofi, secondo Lévinas, è ciò che ci precede e definisce, anche se non ci definisce del tutto. Quello, cioè, che l’antropologia culturale grossolanamente indica come «cultura» e che va accettato solo se nel termine inglobiamo anche il nostro corpo fisico. Dice Lévinas: La società è un destino, come il corpo, non l’ho scelta più di quanto non abbia scelto il mio corpo [Lévinas, 1962, trad. it. 1998, p. 209].
Mi posso ribellare a entrambi, pensando che non sono in grado di tollerare alcun a priori alla definizione di me stesso, alla definizione che voglio darmi «come se fossi un individuo senza storia e senza geografia». Posso pensare di cambiare il mio sesso, di farmi installare degli organi meccanici, di avere un io multiplo o nessun io, di non stare da nessuna parte e in tutti i luoghi allo stesso tempo, di non parlare la lingua che apprendo dall’infanzia, ma un idioma artificiale e solo mio. Posso pensarlo, certamente, ma per30
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ché «dovrei» pensarlo? Chi mi obbliga a pensare che ogni a priori sia una forma di repressione dell’individualità (tanto più se non deve esistere)? Chi mi obbliga a cancellare una «condizione» umana che fa sì che io sia innestato in un luogo e in un tempo, che io sia figlio o figlia, nipote, fratello, sorella, padre, madre, discendente, antenato, che io appartenga a un’identità geografica, linguistica, a un orizzonte di clima, di luci, di sguardi? Chi mi vuole convincere che, per il fatto stesso che questo è un a priori, una condizione, non posso averci a che fare se non da vittima passiva? Chi, infine, vuole allontanare da me la ricchezza e la varietà che deriva dalla negoziazione di ogni storia personale all’interno degli a priori dentro cui si sviluppa? Come se le differenze di identità, la ricchezza di sfumature nei corpi e nelle culture, non derivassero proprio da una continua negoziazione tra il dato e il nuovo, tra le condizioni e le possibilità. Come dice Mikel Dufrenne, a cui Lévinas si ispira, nell’idea di a priori: Io sono la negazione di ciò che sono, ma ciò che sono è il proprio corpo […]. Da un lato non mi riduco al mio corpo perché sono secondo le modalità di non essere il mio corpo; potrei esprimere ciò dicendo che esso è ciò che io sono e che, tuttavia, non mi determina, sebbene in questo senso sia anteriore a me [Dufrenne, 1959, p. 215].
A questo Lévinas aggiunge: Io sono la cultura e in tale misura essa mi forma e mi limita: essa è me e in tale misura la formo e la limito; io vivo in essa ed essa vive in me. Queste due proposizioni giustificano i procedimenti dell’antropologia culturale e della psicologia sociale, ma a condizione di rispettarne la reciprocità [Lévinas, 1962, trad. it. 1998, p. 209].
Ecco dunque la base di partenza di questo lavoro: antropologico, ma nel senso dell’omaggio che la fenomenologia fa alla condizione umana. 31
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In questo senso, l’attenzione alla mascolinità parte solo da una pretesa di omaggio. Perché non dovremmo poter osservare la «condizione maschile» come essa si è posta e si pone nella storia e nella geografia delle società umane? Ovvero come qualcosa che va compresa, di cui va rintracciata la complessità interna, l’interazione indispensabile con le altre identità sessuali, i ruoli, le evitazioni, le maniere, i trucchi, il «saperci fare» e l’arte di vivere e di sentire il mondo? Perché la mascolinità non può avere la stessa dignità di studio o di attenzione del sanscrito, della lingua aymara, dell’identità del popolo basco, della ricchezza della letteratura orale berbera, la dignità di una costruzione culturale? Solo perché la mascolinità è una costruzione artificiale? E allora? Oggi siamo molto oltre lo stupido dibattito natura/cultura. Come si fa a dire che bisogna distruggere le identità sessuali maschili e femminili perché sono «solo costruzioni culturali»? Allora distruggiamo le lingue, spazziamo via il Rinascimento italiano, demoliamo tutti i templi buddisti e obblighiamo tutti gli esseri umani a non gesticolare. Tutto ciò è, infatti, estremamente innaturale. Come si fa a continuare a trattare una cosa così seria e profondamente stratificata come un’identità sessuale con un discorso politico da ex sezione PD o da campus americano votato al politically correct?
L’accusa di sessismo si aggira per il mondo In un articolo sull’opera di Bruce Chatwin sugli aborigeni australiani, Le vie dei canti, Howard Morphy [1996], uno studioso di letteratura e antropologia, cerca di spiegare il perché dell’avversione della comunità accademica australiana nei confronti dell’opera di Chatwin. E dice che probabilmente essa risiede nel «sessismo» di Chatwin, che nota la bellezza delle donne australiane (non aborigene) che vivono alla frontiera con le terre aborigene e spesso lavorano in collaborazione con i gruppi indigeni. Chatwin parla di «capelli dorati», «seni sodi», di «vestiti che diventano attillati con 32
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il sudore». C’è qui, a detta della comunità scientifica, un implicito sessismo: non solo nota solo le donne bianche, ma si permette perfino di descriverne il fascino in termini fisici. Non c’è qui un altro caso da manuale del tipo di giudizio che una certa correttezza politica vorrebbe dare di tutto ciò che è «connotato sessualmente»? Chatwin è un tipico maschilista perché nel complesso paesaggio della nuova Australia ha uno sguardo che si posa con sensualità, perché non omogeneizza tutto, dà a vedere che ci sono differenze che nota, e soprattutto tradisce la sua cultura estetica e sensuale (si badi che parliamo di un autore che notoriamente non era un dongiovanni).
Uno sguardo non scambiabile La mascolinità, al pari della femminilità, è un «saper vedere», un notare una parte del mondo che all’altra sfugge. Quando gli uomini guardano le donne, così come quando le donne guardano gli uomini, lo fanno con uno sguardo che non è scambiabile. Lo fanno spesso con uno sguardo che è di desiderio e che in quanto desiderio è una forma di conoscenza speciale, non «scambiabile». Lo sguardo femminile sugli uomini fa parte di un segreto che le donne hanno saputo mantenere nei millenni; le donne sanno cose degli uomini che gli uomini ignorano di sé. Allo stesso modo, lo sguardo maschile nei confronti delle donne ne trae qualcosa che alle donne può interessare, perché gli uomini vi vedono qualcosa che per vicinanza a esse sfugge. Ma Osvaldo Soriano [1990] – un altro sessista, ovviamente – dice che «gli uomini passano tutta la vita a guardare le donne e le donne a guardare se stesse». Questo sguardo incrociato, oggetto delle più efferate critiche, è un luogo di competenze, un accumulo di saperi, una soglia sulla quale avvengono mediazioni, attrazioni, ripulse e giochi di specchio. Questo sguardo non scambiabile – sia quello maschile, sia quello femminile – è selettivo, non è democratico come non lo sono la simpatia, 33
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la seduzione e il corteggiamento. Si sceglie «tra tutte le donne» o «tra tutti gli uomini» solo una piccola parte; si dice «non ha occhi che per lei» o «per lui». Non che non si possano avere occhi anche per il resto, ma lo sguardo della curiosità desiderante è una speciale forma di «apprensione» nel senso psicologico ed epistemologico; il desiderio è una sospensione, un credito della conoscenza e una voglia estrema di affrettarla e andare oltre: si diventa apprensivi. Essere attratti è per propria natura e fortuna «limitato ed esclusivo». Che disastro per l’uguaglianza e che felicità per la sensualità! Che tipo di conoscenza è? Un concentrare l’attenzione, un tentare di dedurre da indizi fisici e psichici un’unità che «ci» riguarda, un’unità che siamo noi a cogliere e che la persona osservata non potrà mai sentire come noi, con la stessa vibrazione di desiderio. Ma infine, cos’è il desiderio se non una forma di divinazione a partire dalle foglie sparse delle evidenze esterne di qualcuno che ci sta di fronte? Indovino di lui o di lei un’unità che riguarda me e che forse non mi servirà mai a comprendere davvero quest’altra persona, ma mi spingerà verso lei come anelito. In questi sguardi incrociati si desidera l’altra «in quanto donna» e l’altro «in quanto uomo», cercando di cogliere nascoste in lei o in lui le fattezze della femminilità o della mascolinità. Come se queste fossero sempre nascoste «al di sotto» delle evidenze. Che strano mistero che la mascolinità e la femminilità siano da cercare «tra e al di là delle evidenze». C’è anche un «saper farsi guardare», di cui in molte culture le donne sono abili artiste. Come fanno a sapere che c’è qualcuno che non vedono che le sta guardando? Come fanno a sentire lo sguardo che si posa su di loro [Illich, 1995]? Nel senso più aristotelico, qui lo sguardo è fatto di una proiezione materiale che si stacca dagli occhi e colpisce con un suo peso specifico. Questo saper vedere, saper essere visti, insieme al «saperci fare» [La Cecla, 1999] è parte della condizione maschile o femminile dello stare al mondo. È una forma di cultura ereditata, stratificata nei secoli e differente da luogo a luogo, ed è un’«estetica». Essere uomini o essere donne significa essere competenti in un campo 34
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che è un’etica/estetica, una cosmetica del proprio corpo, ma anche un’ascetica e una cosmetica del proprio sguardo.
Maschio, senza offesa Una certa ottica accademica attuale vorrebbe che di mascolinità si parlasse solo chiedendo scusa o, meglio, premettendo con quali intenzioni politiche se ne vuole parlare. Così un serio studioso francese, Daniel Welzer-Lang [2000], scrive un saggio timido sulla mascolinità a cui appone come sottotitolo Per un approccio profemminista, non omofobo, degli uomini e del maschile. In questo modo si è messo politicamente a posto: dice che si permetterà di parlare di maschi senza dare fastidio a donne e omosessuali. Come se qualcuno scrivesse oggi un saggio sui Pigmei intitolandolo Per un approccio non bianco, non razzista e non capitalista al mondo dei Pigmei. Tutta la comunità scientifica gli riderebbe dietro. La colpa non è però del povero studioso francese, ma del clima intimidatorio che circonda l’uscita dei libri sulla mascolinità – ormai da più di un decennio – in varie parti del mondo. Se ne può parlare, ma a patto di non dire nulla che dia fastidio e di «non parlare dall’interno». Nella raccolta di saggi di Welzer-Lang ce n’è addirittura uno dal titolo Les Récits de vies des hommes sont-ils crédibles? («I racconti di vita degli uomini sono credibili?») [Dulac, 2000]. Vien da dire: ma di chi vogliamo parlare? Di Joyce, Dostoevskij, Kafka e di tutti i poeti su cui piomba improvvisa l’ombra dell’insincerità maschile? Da questo alla generalizzazione «gli uomini sono tutti mascalzoni», il passo è breve. È come se gli studi sull’identità sessuale maschile facessero fatica a diventare adulti e dovessero nascondersi tra le gonne della mamma o dei transessuali per essere accettati. «Scusateci se parliamo di maschi» sembra l’atteggiamento dominante. Come se chi si occupa di tedeschi oggi si sentisse dire nei corridoi delle accademie: «Attento che sono per lo più nazisti». Queste forme di studi con il paracadute non si capisce a chi servano. Cer35
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tamente non alla serietà delle discipline che si occupano dell’identità di genere.
Quando parlano di sé gli uomini non sarebbero credibili È meglio che di loro parlino altri. Ma che senso ha questo ragionamento che risale a Simone de Beauvoir? L’annichilimento dell’alterità non può servire a nessuno. Ci si è per troppo tempo illusi che i Gender Studies dovessero essere lo studio di una differenza di cui ci interessava solo una parte, perché l’altra era da maledire. Se i Women’s Studies, le discipline che si occupano di identità femminile, hanno fertilmente generato i Gender Studies, è perché c’era bisogno di passare da una prospettiva difensiva a una di identità. La condizione femminile non poteva più essere studiata nella prospettiva di una guerra contro chi quella condizione aveva reso marginale, sottoposta, vinta. Si trattava di abbandonare una logica «da vinti» per passare a un’ispezione della forma di resistenza che aveva permesso ai vinti di non rassegnarsi. La differenza femminile è nata dall’evidente constatazione di una «resistenza» nonostante. La differenza, allora, poteva essere da una parte accettata e dall’altra rifiutata, ma lo stesso rifiuto – nella logica del potersi scegliere e inventare un nuovo genere e un nuovo sesso femminile – doveva partire da uno zoccolo duro di differenza. I Women’s Studies, generando i Gender Studies, hanno accettato di diventare da militanza una chiave ermeneutica e un enorme apparato di indagine.
Degenerati Chi parla di tutto questo è un uomo, e che diritto ne ha (di parlarne e di essere uomo)? È il diritto di un condizionamento. Parlare di sesso o di genere presuppone un discorso al condizionale, terribilmente umiliato dalla sua parzialità. Ogni discorso sulla differenza, 36
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però, non può non partire che dall’interno di una differenza vissuta. La differenza è qui una condizione di partenza, ed è una condizione di dis-agio nel senso latino e più antico del termine, perché è una differenza che «non sta bene» evidentemente, se non nell’accettazione di essere già «accanto», spostata, deplacée, rispetto alla collocazione iniziale. Oggi, ovviamente, non si è più maschi come condizione «naturale», si è maschi con lo strabismo dell’esserlo: accorgersi, da una parte, che non è possibile esserlo del tutto e, dall’altra, guardarsi vivere dentro quella condizione. Come in ogni strabismo, l’emicrania è assicurata, insieme alle nausee e al mal di mare. Guardarsi differente è di per sé un’anomalia, una condizione di sperdutezza, di dizziness, di mal-aise, di dis-agio. Non se ne può fare a meno. D’altronde, dall’altra parte (quella delle donne) le cose sono andate così per tanto tempo e così andranno ancora per molto. Oggi il «disagio della civiltà» è il disagio della «degenerazione», della perdita di un tipo di «genere», di una condizione, maschile e femminile, che sembrava naturale. Come ogni cosa naturale non è innata, ma è una condizione e una facoltà acquisita al punto tale da farci sentire (anche se nella disuguaglianza, nella guerra dei sessi, nell’esclusione reciproca) «naturali» e a nostro agio.
Essere maschi come esperienza Esisteva ed esiste ancora in molte culture una maniera femminile di vedere, sentire, esperire il mondo diversa da quella maschile. C’è una scrittura al femminile, c’è una canzone, una musica e una percezione del mondo al femminile. Quello che a me interessa è se esiste una maniera di «sperimentarsi» in quanto maschi o femmine, una maniera di fare esperienza della propria femminilità o mascolinità, come a priori, come corpo e proiezione della società su di esso. Anche coloro che si sono di recente cimentati, egregiamente, nella costruzione di un quadro disciplinare dell’esperienza 37
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e della soggettività [Jedlowski, 1994, 2000; Sparti, 2000], su questo punto, con molto tatto, si sono attestati su un lavoro da fare. Sperimentare del mondo il proprio essere maschi o femmine richiede molta timidezza. Questa cosa che mi concerne, questa maniera di prendere il mondo e di esserne presi, la mascolinità come qualcosa che io so precedermi e che non solo devo accompagnare o assecondare, ma anche in qualche modo preparare continuamente: è soltanto in prima persona che se ne può parlare. Anche se non è un’autobiografia quanto piuttosto una «mitobiografia» nel senso di Ernst Bernhardt [1985], ovvero l’iscrizione personale in una storia e in un destino più ampi «di cui ci sfuggono i contorni». Forse è per questo che non si può scegliere tra l’essere uomo e l’essere donna, perché i contorni di entrambi ci sfuggono. Per definirli ci sono solo categorie imbarazzanti. È così grave se racconto cosa significava per me osservare mio nonno che si faceva la barba? E se dico che questa è stata una delle prime maniere di rendermi conto che c’era in me la stessa storia di mascolinità che c’era nel modo che lui aveva di intingere il pennello nella schiuma e di trasformare la sua faccia in una nuvola? Ed è male se dico che crescere come maschietto significa apprendere in sé, da segni esterni e interni, che c’è lo sviluppo di qualcosa che prende corpo, che prende forma, che sotto gli occhi di altri uomini o di altre donne diventa un corpo maschile, un corpo che viene fatto da me al pari che dagli sguardi, dalle voci, dalle allusioni altrui? Mi «scopro» maschio con tutto l’imbarazzo, l’inadeguatezza, lo sconforto e la spavalderia di esserlo. Mi fanno maschio artificialmente – e da qualche parte dolorosamente, con una circoncisione [Mehta, 1997] – mettendomi i pantaloni corti, il cravattino, il primo vestito «completo», la cravatta, il nodo alle scarpe, la peluria sul volto e sul petto. E interpreto, indovino da questi segni naturalmente artificiali, che in me c’è un dato che prende corpo, un «destino» che io devo rintracciare lungamente, cercandomi, imbaraz38
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zandomi, perdendomi, specchiandomi, chiedendo in giro, facendomi la prima barba.
Come attitudine L’essere uomo o l’essere donna stanno alla pari con le precedenze spazio-temporali, con la precedenza della fisicità con la quale siamo presenti al mondo e con la precedenza dell’articolazione linguistica del nostro esservi. Sono queste universali (cioè attitudini comuni a tutta l’umanità)? Il dibattito è imbarazzante perché si pone fra qualcosa di pericolosamente essenzialista, innatista – ovvero l’idea che si nasca già con delle tendenze – e qualcosa in cui l’essere preceduti indica solamente la costruzione complessa e stratificata delle identità che si costituiscono. Analogamente, non c’è bisogno di essere essenzialisti per accettare che il linguaggio ci precede: è qualcosa «dentro cui nasciamo» (senza bisogno di credere a Noam Chomsky, ai neurolinguisti o a coloro che parlano di innatismo), perché il linguaggio ci precede biograficamente, quanto meno per tutti noi che oggi ne possiamo parlare (con lo stesso linguaggio). Così essere uomini o donne «ci precede», perché non ha niente a che fare con la scelta sessuale del o dei partner, ma ha a che vedere con il ritrovarsi presenti al mondo in quanto esseri culturalmente maschili e femminili. «Culturalmente» qui andrebbe definito, perché lo spessore di questo «culturalmente» è ben più solido di quello che riguarda la passione per il calcio o il fatto di parlare una lingua madre. Si tratta di una sedimentazione culturale che ha una solidificazione quasi pari alla posizione eretta, allo sviluppo dei cinque sensi, alla facoltà umana di dormire. Essere uomini o donne è «una tecnica del corpo» nel senso di Marcel Mauss [1936], ma una tecnica che ci «precede» biograficamente, una tecnica di presenza al mondo. C’è una facoltà innata di questo carattere? Certamente no, se questo non si limita all’orizzonte biologico «bruto». Essere uomini o donne non è un’iscri39
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zione biologica, ma, come già detto, una «condizione». La condizione femminile, la condizione maschile, la condizione umana. C’è qui l’eco dell’«essere gettati nel mondo», del sine qua non e del misto tra necessità e libertà di una condizione. Una condizione è un condizionamento e allo stesso tempo una facoltà, un’attitudine. Una condizione presuppone un’eredità e un esercizio, un «a partire da» e uno sviluppo, un essere preceduti da qualcosa e un essere per questo destinati, senza che queste due linee significhino la preclusione di un’articolazione inedita del presente (così come nascita e morte definiscono la vita, ma non ne esauriscono il presente).
Che «genere» di esperienza? Forse fare esperienza della propria mascolinità o della propria femminilità è come fare esperienza del dolore. Anche questa è una maniera di sentire il corpo in cui c’è un terribile dato biologico, fisiologico, anatomico, e un ampio «lavoro» simbolico che ogni società vi ha fatto intorno. Ma è stato Ludwig Wittgenstein a insegnarci che il dolore non si può dire, che l’esperienza che se ne fa è un’esperienza primaria, al pari dell’esperienza dei colori (che a un cieco non possono essere raccontati). Il dolore, la mascolinità, la femminilità sono un indicibile dell’esperienza, come d’altro canto lo è la gioia: si tratta di qualcosa che ci costituisce e che costituiamo. D’altro canto, l’altro termine abusato – «genere» – è anch’esso tutto da chiarire e da esplorare. «Genere» significa qualcosa che è generato e che genera allo stesso tempo. La genericità del genere fa sì che se ne possa parlare solo come condizione vaga, e ciononostante il genere è un universale, tende a trovare punti fermi di contro alla molteplicità dell’esperienza umana [Coleman, Kay, 1981]. Genere è una definizione grammaticale, e qui le connotazioni maschili e femminili è come se dovessero rendere omaggio a una priorità linguistica dell’esperienza umana (ma non è così, visto che la grammatica è fisicamente determinata da una deitticità, da 40
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una corporeità sessuale, che si tradisce perfino nella terminologia: per esempio, copula).
La parte maledetta Una riflessione sulla maschilità richiede una grande impazienza: altrimenti sarebbe meglio accettare che sia il tempo a rifletterne il carattere. Certamente la nostra epoca «non sa che farsene» di una riflessione sul carattere maschile, non sa che farsene del carattere maschile. È troppo impegnata nell’angoscia e nella rabbia di fronte e contro esso. È l’avversario da abbattere, o l’angoscioso mito di un’identità imprendibile, l’oggetto del j’accuse contro ogni disparità e l’oggetto della messa in ridicolo di chi se ne voglia fare portavoce. Il carattere maschile si dà oggi per contrazione (per ritirata, per rancore, per reazione rabbiosa), o per ironia, uno «scusatemi», un «non se ne dovrebbe parlare». Certamente è un malinteso, sta nello spazio del malinteso, lo costituisce permanentemente [La Cecla, 1997]. Suscita fastidio, sarebbe meglio non parlarne, crea equivoci, continuamente. Sta di fronte allo studio che le donne hanno intrapreso su di sé come un fratello deficiente, come qualcuno che è ritardato nella coscienza. Non ha scuse. Per averne qualcuna deve ricorrere alle scuse altrui: il maschio secondo una prospettiva femminista che dovrebbe salvarlo dal cadere nel narcisismo, nel ridicolo, nel fascismo [Boone, Cadden, 1990]. Ma anche questa prospettiva è assurda. Com’è possibile indagare sul maschio se non si valica quella soglia delle differenze al di qua della quale le differenze non sono udibili? Se il maschio viene detto dalle donne, di lui si sentirà solo la differenza che non fa differenza, la risonanza dall’altra parte, senza che di questa risonanza esista una sorgente.
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La differenza maschile Che cosa mai è la mascolinità? Posto che non è qualcosa di naturale, che tipo di situazione, di definizione, di maniera è l’essere maschi? Intanto, e una volta per tutte: non c’è identità che non sia giocata, formata, modellata e ridefinita ogni quindici minuti dall’interazione con altre identità. La follia e la ricchezza contraddittoria degli studi sull’identità sessuale sono dovute al fatto che la maggior parte di questi sono stati dedicati, dall’origine (la metà degli anni Settanta del Novecento) in poi, solo alla condizione femminile. Al punto da identificare praticamente gli Women’s Studies, con i Gender Studies. Gran parte dei saggi e delle ricerche è stata dedicata alla formazione dell’identità femminile in questo o in quel gruppo, in un’ottica attenta a mettere in risalto la condizione spesso subalterna, sfruttata, censurata delle donne. È chiaro che questi studi presupponevano che dall’altra parte ci fosse un «genere maschile» che dominava, sfruttava e censurava. Il punto è che molto spesso a questi studi mancava una visione interazionista, mancava una metodologia della negoziazione e dell’azione reciproca. Questo non vuol dire che le donne fossero vittime consenzienti, vittime complici, ma piuttosto che lo squilibrio di forze tra condizione maschile e femminile nascondeva il più delle volte campi di potere dove avvenivano altre negoziazioni. È stata per prima l’antropologa Susan Carol Rogers [1975] a far notare che l’ideologia della dominazione maschile universale è un’ideologia maschile e che accettarla significa introdurre il sospetto che le donne siano davvero inferiori. A partire dalla sua critica, i Gender Studies si sono aperti a un’ottica più interazionista. Non c’è un’identità, una differenza femminile, se non c’è dall’altra parte, coniata in una furibonda dialettica, un’identità e una differenza maschile.
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Che cos’è un’identità sessuale? Esiste una persona generica a cui si attaccano due appendici sessuali di tipo diverso? Per quanto una visione transgender [Lorber, 1994; Butler, 1990, 1993; de Lauretis, 1999; Preciado, 2000] voglia spesso farci credere che sia così, le cose sono invece più complicate. Essere uomini o essere donne ha a che fare in minima parte con una serie di caratteristiche fisiologiche e anatomiche. E tanto meno ha a che fare con l’oggetto delle proprie pratiche sessuali (è una lunga storia che riprenderemo più avanti, ma per ora basti dire che nemmeno coloro che parlano di «terzo sesso» accettano che questo sia definito solo dal partner con cui si fa sesso). Come già detto, esso fa parte di un dato a priori che può essere mutato, può essere messo in discussione, ma che in qualche modo ci precede. Il nostro corpo «ci precede» come la società dentro cui nasciamo. Ci precede fisiologicamente, ma non fisionomicamente. Siamo noi, interagendo con i familiari, con i vicini, con gli altri, a definire la fisionomia della nostra fisiologia [Vernier, 1994, 1998]. Crescere significa assumere una fisionomia, e assumere una fisionomia significa imitare, somigliare a qualcuno [La Cecla, 1999]. Diventare maschi o femmine significa fondamentalmente – con buona pace di coloro che vogliono scegliersi un sesso inedito e inorganico – somigliare agli altri uomini o alle altre donne; somigliare fisicamente e fisionomicamente, cioè culturalmente; prendere le fattezze che la propria cultura attribuisce alle donne o agli uomini. O a chi di volta in volta non vuole o non rientra in queste categorie, ma anche in questo caso c’è un gruppo «deviante», un terzo o un quarto gruppo, da imitare [Herdt, 1993].
Il genere come intensità La mascolinità, al pari della femminilità, è una qualità che si può assumere con maggiore o minore intensità. Non è piena, né 43
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quasi mai completa. Da bambini non si è «ancora» veramente maschi, durante la vita lo si è più o meno e in vecchiaia spesso si assumono altre identità (in molte culture si cambia proprio genere: si diventa donne). La mascolinità, essendo un’intensità, è legata a una pratica, fa parte di quel «campo dell’azione» per cui l’identità non è «io sono» ma piuttosto «io voglio, io muovo, io faccio», secondo la definizione di Maine de Biran ripresa da Paul Ricoeur [1990]. Bourdieu direbbe che fa parte di una pratica, che diventa un habitus. Io preferisco riprendere l’idea di Foucault delle «tecniche del sé» [Foucault, 1994]. Già Mauss [1936] aveva parlato per alcune facoltà umane – che sembrano «naturali» e che invece sono apprese (come dormire, camminare o parlare) – di «tecniche del corpo», qualcosa a metà tra una condizione e una facoltà. Maniere di muoversi, articolare, gesticolare che sono apprese e introiettate a un tale livello da sembrare automatiche e «naturali». Per l’identità sessuale si può fare un discorso analogo: maschile e femminile sono una condizione che diventa una facoltà, un «saperci fare», una maniera di essere a tal punto a proprio agio dentro al proprio corpo, sentito come maschile o come femminile, da fare dimenticare tutto il processo di acquisizione e di apprendimento (forzato o volontario) che vi sta dietro. Forse è proprio questo «saperci fare» a essere il gradiente della mascolinità o della femminilità. Perché in regime di rottura di questo «saperci fare», viene fuori un disagio, uno scollamento tra sé e il proprio corpo che ha come ultima conseguenza la storia in testa a questo capitolo: l’evirazione ideale.
Una ballata per organi caldi In definitiva, questo libro è un testo sulla «soglia» della mascolinità. Ovvero, mi interessa ben poco rifare al maschile il lavoro svolto dai Gender Studies sull’identità femminile. Proprio perché voglio evitare di far credere che esista un «genere maschile» sot44
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tratto e indipendente dalla relazione con il «genere femminile». Questo libro vuole invece esplorare, o almeno cominciare a farlo, quello spazio in cui le identità si attestano e si guardano reciprocamente, lo stesso spazio in cui negoziano, in cui si perdono, fondendosi l’una nell’altra, per poter poi tornare indietro, o per mai più tornare. È questo spazio di soglia tra identità sessuali che, a mio parere, è il blind spot degli studi sul genere e sul sesso. Nella relazione tra le identità c’è la verità delle due identità, la verità «alla Foucault» del discorso che esse fanno su di sé e sulle altre. In questa soglia che diventa confine, terrain vague, specchio, camera di decompressione dell’identità, spazio del capitombolo e della capriola, luogo di guerra e luogo di corteggiamento, in questo spazio sovrano sta, purtroppo e per fortuna, il malinteso. Le identità possono confrontarsi, guardarsi, ostinarsi o evitarsi, ma avendo sempre ben presente che alla radice delle loro differenze un incontro è possibile solo in termini di malinteso. Le donne non sapranno mai che cosa è davvero la mascolinità e gli uomini saranno delusi quando crederanno di averla trovata. Le identità sessuali devono sfuggire tra le mani come anguille. Chi volesse levar loro il liquido vitale del malinteso si troverebbe tra le mani solo organi freddi, una ballata per organi freddi, quanto cioè ci ha fornito fino a ora il campo dei Gender Studies.
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capitolo secondo
Disgraziati
Dunque il matador si tiene eretto, i piedi impeccabilmente uniti, saldati dalla paura di svilirsi di fronte al pubblico e anche dalle bende che gli serrano le caviglie, celate dalle calze rosa vomito, dal luccichio delle scarpette. Rigidezza d’uomo solo, rigidezza della spada. La muleta dispiegata lentamente copre con la sua palpebra l’asta troppo chiaramente visibile, getto sgorgato chimerico da una pupilla d’acciaio. Michel Leiris, Specchio della Tauromachia
Mascolinità per eccesso… Alla fine della guerra in Kosovo, i giornali hanno pubblicato la foto del colonnello inglese delle forze NATO Michael Jackson, definendolo un vero macho, un uomo visibilmente duro e determinato. La guerra, come sempre accade, ha portato alla ribalta, insieme agli orrori e alle ingiustizie, una tipologia d’uomo in divisa a cui si attribuiscono i caratteri dell’eccesso di mascolinità. Al machismo, in genere, non viene attribuita una connotazione positiva, e il termine 47
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– che ci giunge dal mondo messicano [Gutmann, 1996; Romanucci-Ross, 1973; Mirandé, 1997; Archetti, 1998, 1999] – ha finito per significare negli ultimi anni tutto il carico di prepotenza e supponenza che accompagna il potere maschile nel mondo. A volte, però, come nel caso del colonnello Jackson, sembra che l’opinione pubblica possa tollerare questa attitudine. Salvo, poi, rintracciare nel campo nemico le stesse disposizioni come mostruose. «C’è bisogno di uomini forti», e il machismo militare può essere concepito come la continuazione di altre «qualità maschili» che sono accettate in modo contraddittorio. Lo stesso sembra accadere per il carattere cool di certi archetipi del grande schermo, da Humphrey Bogart a James Bond, come necessaria dose di sangue freddo e menefreghismo. Da Un tram che si chiama desiderio, attraverso la canottiera di un Marlon Brando insensibile e violento, all’uomo duro e all’antica dei film con John Wayne, agli occhi di ghiaccio di Clint Eastwood, o al cinismo puro di Harvey Keitel in Il cattivo tenente, è tutta una collezione di «modi bruschi» che contribuiscono ad affermare l’immagine di una mascolinità negativa, ma quasi necessaria. Storici e studiosi del XIX e XX secolo ci spiegano che questa «mascolinità» ha radici nell’immaginario che dall’Ottocento in poi ha circondato gli «anormali», le canaglie, i mascalzoni, i libertini, gli sciupafemmine, gli onanisti e i rubacuori. Foucault [1999] e Angus Mc Laren [1997] hanno ricostruito questa costellazione della furfanteria come appare nei processi e nelle indagini medico-legali ottocentesche, imperniata su un’idea di puerilità e debolezza maschili da cui sgorgano orgoglio, testardaggine e cattiveria. Questa umanità, che il discorso medico e giuridico classifica come deviante, si forma come categoria contrapposta a quella dei «gentiluomini». Tale devianza, al cui interno la sessualità «anormale» gioca un ruolo di primo piano, forma la base di una mascolinità dai «modi bruschi» che, lasciato il XIX secolo dei tribunali e dei manicomi, rimane pur sempre una categoria dell’eccesso. Già i romanzi ottocenteschi avevano trattato questo tipo di ma48
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scolinità con più sottigliezza di quanto avesse fatto il discorso normativo. E anche gli antieroi di Stendhal ci ricordano un tipo di uomo, non privilegiato dalla nascita, che per farsi avanti deve ricorrere a ogni tipo di espediente e spesso è per questo condannato al fallimento; una storia che in versione cinematografica viene ripresa da Barry Lyndon, il film di Stanley Kubrick che è un condensato della letteratura sette-ottocentesca sull’argomento. I maschi sono spinti, se vogliono cavarsela in un mondo in cui ai deboli non è consentito sopravvivere, ad assumere una buona dose di furfanteria.
… o per difetto Contro questi «modi bruschi», il mondo vittoriano inventa la figura di Peter Pan [Cataluccio, 1992], un bambino che si rifiuta di diventare uomo e che rifugge qualunque tipo di esplicitazione della sessualità maschile. La sua eterna adolescenza lo salva dal dover trasformare la propria «monelleria» in modi da canaglia. Capitan Uncino gli è contrapposto come modello in cui l’essere trucido si confonde con l’essere adulto. Sembra che al maschio emergente dall’immaginario ottocentesco non rimanga che l’adolescenza o l’eccesso. E sembra che questa ambiguità si espanda a macchia d’olio in tutta la mitologia del secolo del cinema e della televisione. Tra il James Dean di Gioventù bruciata e i «cattivi» dei western non rimane molto spazio in mezzo. Appunto perché l’eccesso dei «veri uomini» o il difetto dei «Peter Pan» sta a significare l’invisibilità di una mascolinità «di mezzo», «normale».
Un po’ di storia Gli storici del costume e della sessualità hanno fatto notare come la nozione di mascolinità (al pari di quella di femminilità) sia una nozione relativamente recente. Si formerebbe solo nel XVIII secolo, 49
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dopo secoli di credenza in una grossolana somiglianza tra bisogni sessuali e sentimenti di maschi e femmine. A partire dal XVII secolo i medici prendono a tracciare distinzioni radicali tra quelli che si possono chiamare «i sessi opposti». In realtà il termine «sesso» compare all’inizio con riferimento esclusivo alle donne (così è, per esempio, nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert). La sessualità della donna – il fatto che avesse un utero – viene esaltata nella sua importanza da scienziati e filosofi e presa come segno del ruolo pubblico e di quello privato ai quali la «natura» intendeva destinarla. Il legame della mascolinità con la sessualità viene al contrario fortemente indebolito. Come viene detto nell’Emile di Rousseau: «Il maschio è maschio in determinati istanti, la donna è donna per tutta la sua vita; o perlomeno per tutta la sua giovinezza» [Mc Laren, 1997, trad. it. 1999, p. 148].
Ovviamente la gente comune – come la poesia e la letteratura pre-illuministe – sapeva bene che c’era una «differenza», ma questa non era concepita sul piano fisico, biologico, sessuale «inteso come differenza di apparati genitali»: si trattava di una differenza più ampia rispetto a una messa a confronto di fisiologie. Gli studiosi chiamano oggi questa differenza «genere», nel senso che si trattava piuttosto di due costellazioni diverse – come linguaggio, pratiche, movimenti, sogni, destini – non riconducibili a una semplice opposizione maschile/femminile. L’idea presente nella divisione del lavoro, nelle pratiche quotidiane e nei riti, nella musica e nelle danze, nell’epica e nella letteratura, era che questi due mondi potessero toccarsi, ma difficilmente sovrapporsi. Gli equivoci – tragici come tra Desdemona e Otello o comici come tra Arlecchino e Colombina – stavano lì a dimostrare che non c’erano facili assimilazioni, che pratiche maschili e pratiche femminili erano sostanzialmente diverse. La mascolinità che emerge dalla rivoluzione industriale in poi è più solitaria, più indifesa e meno costituita. Cerca di modellarsi intorno a una concezione medico-biologico-normativa che ha fin 50
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lì visto la donna come unico «sesso». L’uomo, fino ad allora, ha un «sesso invisibile», perché il fatto di essere uomo non risiede necessariamente nella sua fisiologia, ma piuttosto nei suoi comportamenti, in quello che fa, nelle sue pratiche. La nozione, così potente dopo il Settecento, che dev’esserci qualcosa fuori, dentro e dappertutto nel corpo che definisce il maschio in quanto opposto della femmina – una nozione che fonda la possibilità di attrazione tra gli opposti – è interamente assente dalla medicina classica e rinascimentale. Al confronto con le tradizioni della medicina occidentale, i genitali hanno assunto il ruolo di contrassegni sessuali soltanto la settimana scorsa [Laqueur, 1990, trad. it. 1992, pp. 30-31].
Il sesso invisibile degli uomini La trasformazione degli uomini in individui biologicamente maschili è un’operazione che costringe la mascolinità dentro a un orizzonte quasi caricaturale, la spinge agli eccessi dei «modi bruschi». Gli uomini, per dimostrare di essere maschi, devono sottolineare la propria differenza dalle donne. Anche se apparentemente il fatto di avere un pene e il fatto di non avere le mestruazioni, di non allattare, di non avere un utero dove si formano i bambini, dovrebbe dire tutto quello che c’è da dire, in realtà queste stesse evidenze biologiche non sono conclusive. Un uomo rimane un uomo anche senza un pene e i tentativi di determinare il sesso in maniera assolutamente certa, come nei test del Comitato Olimpico volti ad accertare la configurazione cromosomica delle cellule della cavità orale, conducono a risultati assurdi [Laqueur, 1990, trad. it. 1992, p. VIII].
In assenza di facili evidenze, si ricorre dunque ai «modi bruschi». I maschi devono dimostrare di essere veri uomini con il fra51
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casso e la messa in scena: il rombo della Harley Davidson, le impennate del vespino, il tono della voce. Altrimenti il loro «sesso» rimane invisibile, pericolosamente neutro. Il machismo, da questo punto di vista, è la necessaria costruzione «in negativo» della visibilità del maschio. Come dice un proverbio messicano, o si è macho o non si è niente: «El macho vive, mientras el cobarde quiere» [Romanucci-Ross, 1973]. Per significare che non c’è un grado zero della mascolinità. Questa è sempre eccessiva, ipertrofica, enfatica: il machismo come unica possibilità per l’uomo di farsi vedere.
Tra noi come tra i selvaggi Questa però non sarebbe solo una tendenza presente all’interno di una società come la nostra, incerta tra l’importanza estrema da attribuire ai genitali e il verbo dell’uguaglianza sessuale assoluta. Storici e antropologi ci raccontano che in altri tempi e in società diverse dalla nostra (in mondi indigeni e tradizionali), dove a prevalere era o è la divisione del mondo in due sfere di genere distinte, il «genere maschile» doveva in qualche modo enfatizzarsi per essere riconosciuto. In questi mondi, insomma, i maschi dovevano dimostrare di essere tali con molteplici prove e faticosi rituali di iniziazione. Come dice un antropologo che per anni ha lavorato sulla mascolinità tra le popolazioni aborigene di Papua Nuova Guinea: In ultima analisi, l’idea che gli uomini hanno di sé si basa su quello che essi fanno piuttosto che su ciò che essi hanno dalla nascita. Riconoscono che in quanto a doti fisiche gli uomini sono inferiori alle donne e per questo hanno sempre fatto ricorso all’elaborazione di modi artificiali per porre rimedio alla contraddizione e dimostrare l’opposto [Read, 1954].
Sembra che molte società tradizionali condividano questa opinione. Si diventa maschi strappandosi a fatica dall’influenza materna. Ai maschi adolescenti si prospetta un passaggio estrema52
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mente difficile e doloroso. Essi devono cancellare dal proprio corpo l’influenza «effeminante» della madre e delle donne del gruppo e acquisire invece «modi bruschi». Per questo, sottratti alle madri dopo lo svezzamento o alle soglie dell’adolescenza, vengono rinchiusi nelle «case degli uomini», vere e proprie camere di decompressione dell’identità. Qui gli uomini adulti li sottoporranno a violenti e umilianti rituali. Tra i Sambia della Nuova Guinea, oggetto di uno studio rigoroso da parte di antropologi e psichiatri, i ragazzi devono spurgarsi dagli umori femminili. Gli adulti tendono loro una specie di imboscata in cui li immobilizzano per farli sanguinare dal naso con delle canne appuntite. Il sangue, ma anche buona parte del cibo che non deriva dalla caccia, viene considerato una sostanza femminile e quindi inquinante la mascolinità. Da quel momento, e fino a quando non prenderanno moglie, i giovani vivranno solo tra maschi in un mondo esclusivo e segreto, dove apprenderanno ad avere perdite di sangue mensili (per spurgarsi, ma anche acquisire lo stesso potere mestruale), a vomitare e a caricarsi di sperma – con pratiche omosessuali orali con gli uomini adulti – per poter controbilanciare il pericolo che le donne, con cui da adulti avranno relazioni, ne assorbano la gran parte. Le sudate, il digiuno e le prove fisiche da subire nella casa degli uomini vanno avanti per molti giorni. Sono accompagnate dall’interruzione del sonno e da ripetuti insulti indirizzati all’imbranataggine e all’inadeguatezza complessiva dei ragazzi [Herdt, 1998, p. 250].
La paura del mondo delle donne È una costellazione in cui la brutalità si sostituisce a ogni altra relazione. Non ci ricorda il trattamento riservato alle reclute e i rituali di iniziazione tra le bande di periferia? Quella che si deve acquisire è una durezza senza ricadute. La stessa imbranataggine rimproverata 53
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ai giovani è un modo di svuotarli di ogni vaghezza, indolenza, sentimentalità, e di far capire loro che la mascolinità è una qualità sempre in pericolo, per cui si è costantemente inadeguati. Tra i Sambia questa educazione a essere «veri uomini» tra uomini non ha quasi mai esiti omosessuali. Serve invece a temprare i giovani per il vero incontro difficile che li può svuotare di tutte le energie e della stessa mascolinità: quello con le donne. Una volta diventati adulti, è considerato effeminato chi ha frequenti rapporti sessuali con la propria moglie, poiché ciò comporta il rischio di perdere la propria virilità. Il modo in cui gli uomini usano i loro miti, le loro pratiche omosessuali ed eterosessuali, per creare e mantenere la mascolinità tradisce l’ideologia pubblica nel rituale maschile: al suo interno il mito parla dei dubbi maschili più profondi sull’essere pienamente uomini. La propria virilità e mascolinità potrebbe svanire senza una spietata difesa rituale per preservarla [Herdt, Stoller, 1990, p. 365].
Non potremmo utilizzare questa stessa descrizione per spiegare altre costellazioni maschili? Per rendere conto delle ideologie pubbliche e dei rituali di allontanamento delle donne dai luoghi di esclusività maschile (dalla piazza, dall’osteria, dalla partita, dalla politica, dagli affari)? Questi spazi devono essere sottratti alla presenza inquinante delle donne. Un provvedimento atto a salvaguardare un’identità che si ritiene continuamente in pericolo rispetto a un’altra più certa. Come se la dominazione maschile fosse l’altra faccia della potenza femminile.
Differenza biologica? In tempi recenti una grande allieva di Claude Lévi-Strauss, Françoise Héritier [1996], e un’antropologa americana, Sherry B. Ortner [1996], hanno avanzato l’idea che la differenza (sessuale o di genere) sia una costante su cui si fondano tutte le società. L’idea 54
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è che la differenza tra due mondi, uno chiamato maschile e l’altro femminile, abbia poco a che fare con differenze fisiologiche. Al di là del riconoscimento alla nascita – It is a boy, it is a girl, «è un maschietto, è una femminuccia» – c’è una costruzione successiva che non consegue in modo scontato dalle premesse. A partire dalla stessa ossessione occidentale per l’azzurro e il rosa, che dimostra che non basta nascere maschietti o femminucce per abbandonare lo stato di «bebé», ma occorre essere fasciati e vestiti con due colori diversi per essere «distinti». L’idea che si diventi donne e uomini attraverso molte fasi di prova e di conferma permea l’universo di culture differenti. In molte lingue – compreso il tedesco – i bambini piccoli non hanno un genere, e il caso di una popolazione della costa del Mozambico, i Vezo, ci conferma che si viene riconosciuti come boys o girls solo dopo aver aderito a pratiche, lavori, compiti maschili o femminili [Astuti, 1998]. Come ricorda Thomas Laqueur, di formazione dell’identità maschile e delle pratiche della mascolinità ci si è fino a ora occupati davvero poco, accettando e dando per scontate le «ovvietà» a cui una mascolinità, necessariamente per eccesso, si offriva. Non è probabilmente possibile scrivere una storia del corpo dell’uomo e dei suoi piaceri, perché la documentazione storica è stata creata all’interno di una tradizione culturale in cui una storia del genere non era necessaria [Laqueur, 1990, trad. it. 1992, p. 30].
Occorre ricordare che a lato del machismo – i «modi bruschi» – esiste l’angoscia maschile di fronte alla necessità di dimostrare di essere maschi. L’idea costante e continua dell’inadeguatezza dell’esserlo solo biologicamente. Lo sforzo performativo, il doverlo far vedere. La mascolinità – e non solo tra i Sambia – è in questo senso una pratica dell’inadeguatezza: non si è mai maschi abbastanza, e se non lo si è, allora si è pericolosamente non maschi.
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Mettersi da parte Anche nei nostri ricordi di provincia c’è un mondo maschile che doveva ricorrere alla separazione per potersi confermare «da solo». Lo sappiamo; lo sappiamo per frequentazione dei nostri paesi e delle nostre infanzie. Gli uomini prima erano una strana compagine di spavalderia e chiusura, una compagnia di ragazzi, adulti, marinai, contadini, civili, vitelloni, anziani. L’ostentazione della mascolinità, la mascolinità come «prova», si pongono dal lato di un primitivo imbarazzo da superare. Come se la mascolinità fosse la risposta a un’identità non abbastanza connotata, che rischia continuamente di ricadere non solo nella vaghezza, ma addirittura nel grande mondo delle madri. Per questo gli uomini devono isolarsi, stare tra uomini. Nel Sud Italia soprattutto, passare i lunghi anni dell’adolescenza per strada, al muretto, al mare, in compagnia maschile, serviva a questo. E d’altro canto significava anche accettare continuamente di mettere a repentaglio la propria identità sessuale. Aggressività, messa in ridicolo, fisicità al limite dell’omosessualità, un toccare provocatorio come per indurre gli altri a dissipare i dubbi sulla propria virilità, spingendoli all’estremo limite in cui devono dimostrare di togliersi dall’imbarazzo: tutto ciò serviva/serve a «rozzare» i maschi, a far loro acquisire modi che li denotino nettamente come non femmine. Si diventa maschi «a scatti». Gli «scatti» da acquisire hanno a che fare con una reazione/continuazione con l’imbarazzo fisico dell’adolescenza. Il maschio vero è un po’ maldestro, brusco, duro con il suo corpo. Se rimane aggraziato (Peter Pan che sa volare, rotondo nei movimenti), resta nella dolce infanzia e nei sogni sul ventre della madre. Il maschio deve perdere la «grazia», diventare «sgraziato», «disgraziato». È un lungo training dove il frequentarsi tra uomini è una sfida su cui attestare e ridefinire la propria fisicità. È un gioco pesante, ovviamente, ed è un gioco dal quale si esce «provati». Ma è un gioco dove viene costruita, sottolineata, una differenza che prima 56
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era appena accennata. In questo travaglio il corpo singolo, il singolo corpo maschile, non esiste.
Per mostrarsi insieme Essere uomini e mostrarsi uomini sono la stessa cosa, un fare fronte, una capacità acquisita – ma mostrata come «naturale» – di apparire. Il corpo maschile esiste solo come corpo collettivo, come corpo che ne imita altri accanto, intorno. Se è solo, rischia di implodere, di finire nel ridicolo di un corpo che da solo non si giustifica, perché è solo un sesso, o meglio un quasi sesso. In uno scritto del 1958, La significazione del fallo, Jacques Lacan sostiene che ogni mostrarsi virile diventa di per se stesso femminile. Non è forse per questo che ogni foto di moda maschile che ritragga l’uomo ci pare leggermente imbarazzante? E non è per questo che anche la nudità maschile nelle foto di moda non può che avere dietro uno sguardo omosessuale? Come se, appunto, il corpo singolo del maschio non fosse fatto per essere «mostrato»; né d’altronde esiste una storia sufficiente dello sguardo femminile sul corpo del maschio. Il corpo maschile mostrato è immediatamente un corpo che passa dall’invisibilità al marchio femminile del sesso [Malossi, 2000; Polhemus, 1977, 1978].
Gomiti ruvidi C’è una vergogna fisica dell’essere maschio che nelle culture del Sud Italia si manifesta nel contatto casuale tra corpi maschili, contatto cercato nel gruppo ed evitato nelle sue possibili conseguenze affettive. È una vergogna dovuta a un’ignoranza acquisita: il maschio vero non deve «sapere» del proprio corpo, non deve avere con esso un contatto pieno, ma spigoloso, ruvido, sgraziato appunto. 57
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Il vestito maschile serve a «coprire» non a «scoprire» il maschio, serve a farlo passare nell’uniformità della divisa che lo accomuna ad altri maschi o nel silenzio dell’abito. Se il vestito cerca di «mostrare» il maschio, questo singolo maschio qui, allora c’è sempre il rischio di cui alla citazione all’inizio di questo capitolo. Il torero, abbigliato con calze color vomito e scarpine luccicanti, se non uccide il toro, se non gli infila la spada, se non glielo infila tra i seni, come dice Michel Leiris [1999], è solo un po’ ridicolo; un Peter Pan che giustifica la sua eccessiva femminilità con la presenza di una spada.
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capitolo terzo
Dovuta a Ivan Illich
Nel novembre 1982 Illich tenne a Berkeley un corso su Gender and Sex. Con lui c’erano studiosi provenienti da tutto il mondo: un elegante persiano che si occupava di letteratura orale, una storica italiana, alcune donne, una storica berlinese che aveva lavorato per anni sul nesso tra nuove povertà e condizione femminile. C’ero anch’io, invitato come giovane e indisciplinato allievo italiano, e mi occupavo dell’aspetto spaziale della differenza tra uomini e donne. Il seminario di Illich fu uno scandalo. Via via che enunciava le sue tesi, insorgevano proteste da tutte le parti: le femministe del campus si sentivano offese dalle sue ipotesi, i colleghi accademici cercavano di evitare il confronto diretto per buona pace generale e gli studenti reagivano in maniera contraddittoria. Alla fine di quel lungo inverno accademico, in cui Illich era invitato come visiting professor, fu anche indetto un «pubblico processo» organizzato dalle accademiche femministe di Berkeley per mettere una volta per tutte Illich con le spalle al muro. Dopo qualche mese uscì Gender, il libro che Illich aveva scritto durante il corso. L’editore fu talmente spaventato dalle possibili reazioni che il libro non superò mai l’edizione hard 59
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cover. In Italia, Arnoldo Mondadori Editore ne fece una traduzione, piena di errori, che finì subito nel dimenticatoio. Il libro ebbe una modesta fortuna in Francia e una migliore accoglienza in Germania. Nell’insieme, per Illich fu un’esperienza tremenda di ostracismo e censura. Cosa diceva di tanto scandaloso il suo libro? Nulla che oggi, a distanza di quasi trent’anni, il dibattito sul genere e sul sesso non abbia fatto proprio. Ma di che si trattava allora? Molto semplicemente, Illich affermava, da antropologo e da storico esperto in storia delle mentalità e delle istituzioni e in storia economica, che uomini e donne nel corso del tempo avevano rappresentato domini distinti, due veri e propri mondi separati. Non c’era strumento di lavoro, fase di raccolta, tecnica di caccia o di coltivazione in cui i compiti e gli strumenti atti a compierli non fossero distinti. C’erano sicuramente società in cui i compiti affidati ai maschi erano, in altre società, affidati alle femmine, ma erano rari i casi in cui una data attività fosse indistintamente praticata da uomini e donne. Illich sosteneva che era esistito un regime di vita in cui la complementarità di questi due mondi distinti contribuiva alla sussistenza, un mondo in cui l’identità di genere era rappresentata da una tale ricchezza e complessità che «l’altro genere» non arrivava mai a carpirne l’autonomia. Questa differenza radicale era stata, secondo Illich, prima minata dalla Chiesa cattolica e dalla sua insistenza su una «neutralità sessuale» di fronte al peccato e alla salvezza, e poi rotta dalla rivoluzione industriale con l’invenzione di un lavoro neutro a cui assoggettare operai il cui sesso e la cui identità di genere importava ben poco. Si potrebbe dire che il capitalismo, preparato dall’istituzionalizzazione di tutte le sfere della vita a opera della Chiesa, si era dato come obiettivo primo la riduzione della complessità della relazione uomo/donna e del suo sostanziale legame con le risorse, la natura, le stagioni, alla semplice determinazione sessuale. Uomini e donne, una volta prìncipi di due domini complessi e significativi, erano poi stati trasformati in persone con un’appendice sessuale diversa. Il genere, come identità sessuale che definiva un intero mondo, era 60
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stato ridotto a sesso, cioè puramente genitalizzato. Ne era nata la coppia produttiva, dove il maschio era salariato e la femmina doveva occuparsi di riproduzione. Illich sosteneva che questo processo di dimensioni enormi era avvenuto in maniera diversa a seconda delle geografie e delle latitudini; a volte si era ancora dinanzi a resti di gender che, pur rotti, testimoniavano una concezione in cui la differenza di genere era ancora preziosa. Nell’insieme il suo ragionamento era recepito come un attentato al discorso sull’«uguaglianza dei sessi», considerata come una conquista imprescindibile delle lotte per i diritti delle donne. Illich si permetteva di dubitare che un’uguaglianza intesa come equiparazione dello statuto femminile a quello maschile determinato dalla rivoluzione industriale potesse considerarsi un progresso. Vedeva piuttosto in ciò solo lo scatenarsi di un antagonismo all’interno di un campo determinato dalle grandi istituzioni di norma e controllo. Il suo discorso era completamente fuorviato da una polemica che lo stigmatizzava da una parte come «maschilista» e dall’altra come auctor temporis acti, un nostalgico reazionario. Non per nulla tra coloro che lo attaccavano vi erano i difensori dell’idea di sviluppo e di progresso di stampo roosveltiano e kennediano, secondo la quale ogni paese del mondo andava uniformato agli standard americani di vita. Questa polemica oggi sarebbe quasi impossibile. Nessuno se la sentirebbe di accusare di sciovinismo una visione attenta alle differenze dell’identità di genere. Anzi, sarebbe vero il contrario. Illich aveva solo aperto il campo a uno studio in cui era fondamentale indagare sulle identità sessuali in quanto «culture». E lo aveva fatto con una competenza che nessuno a quel tempo e dopo di lui avrebbe dimostrato, poiché egli conosceva bene (e dall’interno) sia la storia della Chiesa sia la storia economica, e poiché il suo approccio all’antropologia e alla storia era più completo rispetto a quello di coloro che si arroccavano sulle singole discipline. Oggi Gender è un libro dimenticato, anche se è stato il primo a cogliere che l’identità di genere non corrisponde a quella sessuale. 61
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Foucault si trovava a Berkeley in quegli stessi anni. Credo che per una lieve differenza di date i due non si incontrarono. Eppure stavano lavorando a temi analoghi ed erano entrambi a una svolta epistemologica legata a una rinnovata percezione del dolore e della fisicità. Entrambi volevano «de-sessualizzare» la storia dell’identità sessuale per scoprirvi qualcosa che agli occhi dei contemporanei sembrava velata. C’era, per entrambi, nel termine «sesso» una censura terribile della ricchezza di connotazioni che l’essere individui con un corpo comportava. Foucault stava lavorando sull’amicizia maschile e sulle tecniche del sé, Illich applicava le analisi di Karl Polanyi alla storia della sessualità, legando la distruzione di un mondo capace di produrre la propria sussistenza alla dissoluzione di una dialettica fondamentale tra identità opposte che si incontrano. L’analisi di Illich è talmente complessa e vivace che non è facile darne conto in un breve capitolo. Ma tutto questo testo ne è invaso e permeato in maniera inestricabile. Quello che posso fare è raccontare come, a partire dal suo invito di allora, io mi sia ricavato una nicchia che mi ha portato a distanza di tempo a scrivere proprio questo libro. Illich era all’epoca concentrato sullo sforzo di raccontare la differenza, e lo faceva in un modo appassionante e documentatissimo. Io – a cui lui aveva richiesto di occuparsi di spazio maschile e spazio femminile – ero affascinato, come ogni bastian contrario indisciplinato, dalla soglia che separava i due spazi. Volevo capire dove si incontravano le due identità. Volevo occuparmi soprattutto di questo. Da lì, dal non aver capito cosa Illich mi stesse chiedendo, è nata l’idea di «perdersi» [La Cecla, 1988]. La mia impressione era che sulla soglia le due identità erano costrette a confrontarsi e spesso a definirsi, sulla soglia si catalizzavano davvero le differenze, per un rispecchiamento reciproco. Ed entrambi, uomini e donne, sapevano bene che oltre la soglia ci si poteva perdere nell’identità dell’altro. Ciò spesso avveniva, la gente cambiava ruoli, cambiava genere e pratiche sessuali, ma proprio perché esisteva una soglia oltre la quale perdersi. Il confronto tra uomini e donne era destinato a produrre «scol62
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lamenti» di genere e ritirate improvvise. Come se il disorientamento dell’identità sessuale che oggi noi viviamo fosse previsto nelle società indigene e tradizionali (si veda tutta la casistica melanesiana [Knauft, 1989], dove i generi e i sessi scivolano l’uno nell’altro, si ribaltano, prevedono cambiamenti e scambi, «terzi sessi» e sessi neutri, orge rituali e castità assolute). Come se le scollature servissero a rendere possibili le pratiche di indossare il proprio genere e di incorporarselo. Le scollature avevano a che fare con una gradualità che si attestava sulla soglia e che poteva superarla. Oggi queste scollature sono faglie, fratture béantes, servono ad aprire senza chiudere, senza essere utilizzate come mezzi di passaggio, di induzione e di seduzione dell’altra e della propria identità. Ieri il perdersi nell’identità sessuale, il perdere la propria per assumerne un’altra, faceva parte dello stesso processo del perdersi per cui «agli uomini risultavano non immaginabili le donne e viceversa». Il campo maschile e il campo femminile erano luoghi propri del disorientamento (del disgusto e della fascinazione, dell’esotismo e del rifiuto), ma era appunto dal disorientamento che nasceva una conoscenza, una visitazione dell’altro e dell’alterità, e soprattutto una conoscenza dei limiti della propria identità sessuale.
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capitolo quarto
Dominio
Nessuna classificazione su misura della «relazione» tra i sessi, e quindi nessuna conclusione sommaria sull’uguaglianza, può essere fornita per una data, specifica, società. Bisogna essere cauti nel generalizzare quelle che sono relazioni tra individui e stare molto attenti a termini come complementarità, dominio, separazione, perché nessuno di questi termini è esaustivo per spiegare ciò che accade. Una cosa come una «relazione semplice tra i sessi» non esiste. Marilyn Strathern, In Dealing with Inequality Tra i peccati di hybris al femminile c’è senz’altro la tendenza da parte della donna a trasfigurarsi in silenzioso presentimento del bene, del giusto, in cura dell’ineffabile. Come se uomini e donne non venissimo dalle stesse tradizioni di violenza, come se noi donne non vi appartenessimo o vi appartenessimo soltanto perché in esse cogliamo l’anelito ad andare oltre, a superarle. Nadia Fusini, Uomini e donne
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La danza di Kali Al confine tra India e Pakistan, ogni settimana ha luogo uno strano balletto. Le guardie di confine dell’una e dell’altra parte, vestite in modo quasi analogo, «simulano» una guerra che tutti vorrebbero vedere ma che nessuno si augurerebbe scoppiasse in tutta la sua portata. Le guardie pakistane sfilano con il passo dell’oca, sbuffando e simulando sotto i baffi ricurvi una rabbia incontenibile. Gli indiani, dal canto loro, concitati e furiosi, sembrano dei soldatini di piombo che esagerano ogni gesto e ogni mossa brusca. Da entrambi i lati, una folla di «tifosi» grida slogan e incoraggiamenti. Il clou si raggiunge quando le guardie di confine arrivano al cancello. Qui, lo aprono e lo sbattono poi con violenza, proprio come qualcuno che sta facendo una scenata e deve pur prendersela con qualcosa. Quando tutti si aspetterebbero lo scoppio del conflitto, un reale venire alle mani, il balletto si conclude e le guardie pakistane e quelle indiane si stringono la mano come dopo un incontro di tennis. Ecco la mascolinità furente vista all’opera, o meglio «messa in scena». Situazione classica. Uomini come guerrieri, come Marte alla guerra, uomini che devono in tutti i modi dimostrare una padronanza di sé al limite della perdita di controllo. I «modi bruschi» dei soldati qui sono talmente sottolineati da diventare ridicoli, ed è la loro spigolosità a renderli tali. C’è nel far mostra della propria ferocia un eccesso che può volgere il tragico in farsa: i toreri, attori di un antico dramma di amore impossibile con la furia animale, quando si trovano davanti un toro che non ha nessuna voglia di essere aggressivo, si buttano per terra di fronte a lui, mettono la propria testa tra le sue corna, espongono il petto nudo all’incornata. Il pubblico può anche giudicare male questa esagerazione, ma in essa c’è la radice di un parossismo che può diventare parodia. Questa attitudine guerriera è una caratteristica della mascolinità in molte culture. E ci porta direttamente alla questione del dominio. Il maschio esercita il potere e spesso lo esercita con la violenza. 66
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Non stupisce allora il collegamento con un potere e una violenza esercitati sulle donne. Su questa constatazione si è costruita una corrente di pensiero che mirerebbe alla guarigione dei maschi da tale infamante coazione a ripetere. Secondo tale corrente, i maschi, se lungamente rieducati, femminilizzati e resi coscienti, possono forse perdere questa «naturale» tendenza alla violenza [Schwalbe, 1996; Bowker, 1997; Kindlan, Thompson, 1999].
Esclusività della violenza maschile? In questo ragionamento ci sono alcune faglie. La prima: se è vero che molte culture esercitano la guerra e la violenza come costante del proprio riprodursi, non è detto che siano solo i maschi a prendersene carico. Gli antropologi che si occupano di gruppi amerindiani, o quelli che si occupano dei cacciatori di teste dell’area austronesiana, sanno bene che la guerra per bande è una pratica fomentata e spesso attuata in una stretta collaborazione tra i due sessi. Pensare che un piccolo mondo di un centinaio o al massimo un migliaio di persone possa reggersi senza una negoziazione di quella che è una delle principali attività del gruppo significa leggere la vita dei gruppi tribali con le lenti di un collegio di educande. Quello che spesso accade è che agli uomini è assegnato lo «spettacolo» della violenza, la sua messa in scena, come nel caso dei soldati pakistani, anche se lo spettacolo può degenerare in atrocità pura.
Universalità della dominazione maschile? La seconda faglia ci porta molto più lontano: la dominazione e la violenza interne, quella degli uomini sulle donne, è attestata in moltissimi gruppi umani, ma questo non implica che sia «universalmente vera». Pensare che le donne siano sempre vittime lascia il campo all’ipotesi che esse siano davvero inferiori «biologicamente», 67
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una posizione questa pericolosamente sociobiologista. Le sorprese in questo campo sono senza fine: c’è chi sostiene in modo ragionevole che le donne sono in media «più fragili» fisicamente, chi dice che sono meno attrezzate al calcolo e all’astrazione [Fausto-Sterling, 1992; Stufflebeam, 1997], o ancora chi, freudianamente [Burke, 1998], afferma che è tutta una questione di invidia e di ostacoli dati dalla maternità. Oggi il dibattito, per merito dell’evoluzione dei Gender Studies, è molto più avanti. Già nel 1977 Alice Schlegel aveva curato una raccolta di saggi su casi – dalle Filippine a Israele – in cui, tirando le fila del dibattito su parità e disparità sessuale, si scopriva che una cosa come il «dominio» in astratto non esiste. Nelle società studiate si trovano piuttosto le diverse figure dell’autorità, del prestigio e del potere. Ognuna di esse corrisponde a una costellazione diversa e spesso non equiparabile, e queste tre figure sono distribuite spesso in maniera equilibrata e complementare tra i due sessi. Per la Schlegel, in condizioni di sussistenza, cioè in società in cui c’è un rapporto diretto con le risorse e l’elaborazione di queste viene spartita come carico tra uomini e donne, l’equilibrio è la parola chiave per descrivere l’interdipendenza del dominio maschile e di quello femminile. Un caso esemplare è la cultura degli indiani Hopi (con una complementarità messa in mostra in una danza quasi oscena tra fratelli e sorelle, in cui ogni sesso mette in ridicolo le caratteristiche sessuali dell’altro). Tra gli Hopi, secondo la Schlegel, la parità ha cominciato a essere minacciata dalla crescente similarità dei ruoli maschili e femminili, a casa e sul lavoro, divenuta inevitabile con la loro integrazione nell’economia degli Stati Uniti. Nel caso di un paese delle Alpi francesi studiato da Rayna Reiter [1975] negli anni Settanta, le donne avevano considerato il loro dominio domestico molto più importante della sfera pubblica maschile fino al momento in cui, con l’integrazione nello Stato moderno, il loro ruolo non aveva perduto importanza ed era stato confinato all’interno della nuova famiglia mononucleare. D’altro 68
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canto, in molti casi analoghi di società «tradizionali» o indigene, la sfera domestica, quella che compete alle relazioni costitutive della società (amicali, matrimoniali, di vicinato, di solidarietà e di evitazione), prende quasi tutto lo spazio della società, lasciando alla dimensione pubblica un potere spesso apparente, nominale. Maria Minicuci [1982] ha studiato la rete femminile fitta ed efficace che invade un paese calabrese ogni mattina, rete in cui le donne escono per «addunarsi», cioè letteralmente «rendersi conto», in realtà per dare avvio a un’interpretazione collettiva dei sogni fatti durante la notte. La stessa dimensione di abitato in mano alle donne, quando gli uomini partono per i campi o per i lunghi periodi di pesca, è stata da me osservata in Sicilia [La Cecla, 1993] in un paese di pescatori. Il paese intero è dominio femminile, mentre il territorio maschile è limitato al porto e alle barche.
Subordinazione reale e apparente Alla fine degli anni Sessanta Ernestine Friedl aveva cercato di distinguere tra apparenze e realtà nella posizione subordinata della donna. Le apparenze del prestigio maschile possono oscurare le realtà del potere femminile. Riguardo a un villaggio greco, la Friedl scriveva che una maniera per controllare il potere maschile da parte delle donne è la loro abilità nello scompaginare l’ordine del mondo maschile. Ciò che le donne dicono agli uomini nella sfera domestica è una costante messa in guardia rispetto alla fatica e al lavoro che le donne portano avanti perché gli uomini possano mantenere l’onore della famiglia. L’effetto di queste lamentele è di far sentire gli uomini dipendenti dal mondo femminile [Friedl, 1967]
In situazioni di questo tipo lo stesso potere non è omogeneo, ma asimmetrico, il potere delle donne non è quello degli uomini, 69
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anche se i due sono in equilibrio. La stessa idea di potere contiene una «neutralità» che non corrisponde al modo in cui in molte società si svolge il gioco contrapposto delle due forze. C’è un’asimmetria e un’ambigua complementarità. In molte culture le donne hanno strumenti per garantirsi, in caso di abbandono, il possesso della dote (gioielli o oro, come in molti gruppi nomadi), l’uso dell’orto per la propria sussistenza o il controllo di vari mezzi di produzione. In altri casi le donne eguagliano o superano il «potere maschile» nella «pratica», sia che si tratti di transazioni mercantili [Mintz, 1971] (per esempio le donne che hanno attività proprie al mercato), sia che acquistino prestigio come sciamane al punto da oscurare economicamente il marito [Fiéloux, 2000], sia che gestiscano alcuni rituali fondamentali per la riproduzione del gruppo [Weiner, Schneider, 1992], sia che risultino «più potenti» degli uomini per il simbolismo annesso alla loro capacità riproduttiva, che dà loro diritto a gestire le sfere dell’educazione e le strategie matrimoniali. Inoltre, nell’attuale situazione di fortissima mobilità mondiale, ci sono casi in cui talune subordinazioni tradizionali vengono completamente ribaltate [Cheater, 1999]. Le donne filippine emigrate negli Stati Uniti (ma anche in Italia) comprano «per posta» nell’arcipelago delle Filippine dei mail-bridegroom, ovvero Ilocani maschi in età da moglie. Abbiamo una vasta letteratura di diari maschili che raccontano il vissuto di questa «umiliazione» [Margold, 1995]. Michèle Fiéloux ha studiato il caso delle donne sciamane di una città del sudovest del Madagascar. In un’età tra i 18 e i 25 anni, quando cioè è già maritata, la donna acquista spesso lo stato di «sposa di uno spirito». Lo spirito, sempre identificato e personalizzato, spesso un principe o un personaggio illustre del passato, si comporta come un vero e proprio amante. Il marito si accorgerà che la moglie ha un amante invisibile quando comincerà a sentirla ridere nel sonno. La donna si divide tra lo spirito «principesco» e il marito. Lo spirito le detta consigli per lei e per i vicini, o per chi di volta in volta le si rivolga per suggerimenti e profezie. 70
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Il marito legittimo è costretto a una correttezza che gli viene continuamente richiesta dall’amante invisibile, fino a consultare egli stesso lo spirito tramite la moglie sciamana. Ci sono casi in cui lo sdoppiamento è tale che il marito chiede consigli allo spirito su come gestire il ménage familiare. L’attività di consigliera «ispirata» procura alla donna un’indipendenza economica sempre maggiore e un prestigio che arriva al punto di porre il marito sotto il controllo generale della comunità nel caso di adulterio o di un comportamento non abbastanza rispettoso. In occasione di tensioni coniugali lo spirito può arrivare a minacciare di lasciare la casa, con la conseguenza di un peggioramento del tenore di vita della coppia. Annette Weiner [1992] «ha colpito» nel cuore stesso della tradizione antropologica. Insediatasi tra i Tobriandesi di cui si era occupato cinquant’anni prima Bronislaw Malinowski, la Weiner si trova «per caso» invitata a una festa che a Malinowski era sfuggita. Per l’antropologo polacco, il sistema portante delle transazioni fra i Tobriandesi, basato su un circuito di scambio (kula) di doni reciproci, era essenzialmente maschile. Non si era però accorto che erano le donne a esserne le garanti effettive. La studiosa americana scopre che in occasione del cerimoniale funebre (lisaladabu) sono le donne a produrre le gonne di fibra vegetale tinte di rosso, riccamente ornate, e i fasci di foglie di banano necessari perché i «proprietari» del defunto, cioè i parenti dal lato matrilineare, «liberino» il morto dagli obblighi contratti nei confronti di coloro che «hanno lavorato il lutto», lavando, cullando e piangendo il morto. Malinowski non aveva colto il ruolo centrale delle donne nel consentire al sistema tobriandese di far accedere i morti al mondo degli antenati, liberandoli dagli obblighi contratti in vita. Al pari della Weiner, un’altra antropologa, Ifi Amadiume [1987], una nigeriana della popolazione Igbo, ha denunciato la visione distorta dell’antropologia classica nei confronti del ruolo subalterno delle donne nelle società tradizionali. Nel suo testo tratta dello statuto femminile di «figlie-maschi» e di «donne-marito» presente presso gli Igbo prima della colonizzazione inglese. 71
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Le primogenite senza fratelli di famiglie possidenti, diventando prima figlie-maschio eredi e poi donne-marito, si sposavano con altre donne tramite le quali ottenere eredi al patrimonio familiare. Ciò implicava uno spostamento di genere «giuridico» di queste donne-marito e non un cambiamento di sesso, né tanto meno di pratica sessuale; a loro infatti non interessavano i rapporti omosessuali, come invece, secondo la Amadiume, le femministe hanno teso ad affermare [Busoni, 2000, pp. 152-153].
Nell’introduzione alla sua monografia, l’antropologa africana si scaglia contro la pretesa etnocentrica delle antropologhe occidentali, e soprattutto americane, di voler interpretare tutto secondo la loro cornice esplicativa: il modello della donna oppressa e senza potere. Quest’ottica, secondo la Amadiume, ha costruito un’immagine delle donne «non occidentali» come vittime da liberare da parte della «sorellanza» femminista, mentre ha oscurato la forza e il potere che queste stesse donne hanno esercitato e continuano spesso a esercitare nelle società africane e asiatiche.
Oltre il secondo sesso: resistenza e potere Più recentemente, due antropologhe della Pennsylvania University, Peggy Reeves Sanday e Ruth Gallagher Goodenough [1990], hanno raccolto, nei lavori delle loro colleghe sul campo, le evidenze di casi in cui la dominazione maschile non c’è o rimanda a una continua negoziazione dei poteri tra i due sessi. È interessante che il loro testo si intitoli proprio Oltre il secondo sesso, con un chiaro riferimento a Simone de Beauvoir, e utilizzi la problematica post-foucaultiana del potere. Il potere, secondo Foucault, non è compatto e unilaterale. Il potere è dappertutto, in tutte le relazioni sociali, a tutti i livelli della società, ma ogni potere incontra immediatamente una resistenza, o piuttosto delle resistenze. La forza del potere non esiste e non ha senso che perché trova
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un punto d’appoggio nei punti di resistenza, ma bisogna anche aggiungere, e i due livelli sono indissociabili, che il potere, quando viene esercitato, fa nascere dei luoghi di resistenza. Insomma, i rapporti di potere sono «strettamente» relazionali [Foucault, 1976, p. 135].
Un’applicazione immediata viene dalla Nuova Guinea. Anna Meigs [1990], una delle studiose della Pennsylvania University, si è occupata di una società tribale di Papua Nuova Guinea, quella degli Hua. Questi indigeni hanno un’ideologia del «genere multiplo» che cambia a seconda delle circostanze e dei luoghi. A seconda delle variazioni mutano i rapporti reciproci di potere. C’è una prima ideologia del «predominio maschile»: sono gli uomini a possederla, e in essa le donne sono rappresentate come «disgustose, sporche e pericolose». È un’ideologia «brutalmente sciovinistica», che porta i maschi a compiere dolorosi rituali di iniziazione sui maschi più giovani per staccarli dal mondo femminile e materno. Accanto a essa ce n’è una seconda, sempre maschile, in cui le donne sono invidiate per la loro forza, per la resistenza e la longevità, e in cui c’è una visione del corpo femminile come superiore al maschile. Nel mito di fondazione sono state le donne a creare il popolo Hua (e a produrre e gestire il culto dei flauti). Gli uomini si sentono insicuri di fronte alla più veloce crescita del corpo femminile. Durante cerimoniali segreti, gli uomini imitano le mestruazioni e credono di poter restare «incinti». Mangiano cibo associato alle qualità assimilate al corpo femminile, come tenerezza, polposità e velocità di crescita, per compensare la mancanza di vitalità del corpo maschile. Il risultato di questa seconda ideologia è una concezione egualitaria della vita e dei compiti nel villaggio. L’interdipendenza complementare tra maschi e femmine è essenziale alla sopravvivenza del gruppo. Infine, una terza ideologia vede i corpi maschili come secchi, duri, più lenti nella crescita, meno longevi e durevoli, ma più forti, per determinate azioni, di quelli delle donne. Sono corpi più adatti 73
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all’attività di difesa del gruppo. Non è che sia meglio così, perché «esteticamente» gli uomini preferirebbero avere più fluidi nel proprio corpo. Così come le donne preferirebbero essere meno «bagnate». Gli eccessi dei due tipi di corpo servono però a un comune obiettivo di sussistenza e difesa.
Cambiar genere, fluttuare Quello che emerge è il carattere mobile della relazione tra i sessi. Il potere c’è, ma è articolato, di vari tipi, passa di mano in certe circostanze, in altre viene messo in ridicolo, in altre ancora cambia il sesso di chi lo detiene. Come se il dominio e la disuguaglianza dovessero sempre essere dosati con un’altra categoria fluttuante. Se non è il potere a diventare ambivalente, è la stessa identità di genere a esserlo. È il caso dei nomadi Gabra dell’Africa orientale, che vivono nelle terre aride comprese tra Etiopia e Kenya. Durante la loro vita alcuni individui possono cambiare identità sessuale. I maschi anziani, infatti, possono diventare donne. Per capire cosa ciò voglia dire, John C. Wood [1999], che ha vissuto con loro, descrive il modo in cui la mascolinità è concepita e vissuta tra i Gabra. A un’infanzia e un’adolescenza passate al villaggio, segue una fase in cui i giovani uomini vanno via a pascolare i cammelli in accampamenti lontani dai villaggi, dove è alto il rischio di imbattersi in bestie feroci e nemici. Questi accampamenti, chiamati fora, sono luoghi essenzialmente maschili. Nei fora i giovani vivono in maniera selvaggia, devono essere astuti e molto rudi. In questo stato di inselvatichimento, gli uomini si temprano dormendo per terra, bevendo sangue e latte di cammello, restando svegli fino a tardi, cantando e inseguendo per lunghe distanze i propri cammelli. Il villaggio è lasciato alle donne e agli uomini adulti. La vita che vi si svolge è considerata debilitante, perché gli uomini vengono indeboliti dalla vicinanza delle donne. Durante tutta la fase dei fora prevale l’idea di una mascolinità rude e violenta. Gli stessi uomini, 74
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divenuti adulti, torneranno al villaggio, dove lentamente assumeranno un tipo diverso di mascolinità. Quando l’età adulta si riverserà nella vecchiaia, diventeranno d’abella, vivranno in un villaggio a parte, quasi sacro, e, pur restando sposati con le loro donne, assumeranno uno status femminile; tra i Gabra solo le donne hanno accesso a certi rituali e a certe feste. Dei d’abella si parlerà al femminile e con grande rispetto, perché sono coloro che mantengono la pace tra i Gabra, coloro che danno consigli e sanno ormai dominare le passioni giovanili. La selvatichezza maschile lascerà spazio alla saggezza femminile. Tutta la nuova letteratura che riguarda il genere e il sesso è concorde sulla necessità di una messa in discussione di certi approcci rigidi. Da una parte è la lezione di Foucault a indicare ancora la strada, dall’altra c’è l’applicazione dell’idea di «pratica», che deriva dalla teoria dell’azione di Bourdieu e di Michel de Certeau prima di lui. Il genere è una pratica, cioè qualcosa che alla pratica si modella. La mascolinità, lungi dall’essere una categoria rigida e immobile, è invece un’identità che ha fluttuazioni e variazioni. La differenza rispetto alla nostra cultura è che in molte società «tradizionali» e «indigene» queste variazioni sono previste e significate. Il ragazzo violento che guida i cammelli diventerà a un certo punto un saggio donna che saprà preferire alla violenza la capacità di negoziazione. Ciò non significa che il rapporto tra i sessi sia un rapporto tranquillo o che ci siano società dove la guerra dei sessi abbia lasciato spazio a un paradisiaco compromesso. No. Verificare l’esistenza di società in cui il potere è negoziato e in cui le donne non sono sempre dominate sta proprio a significare che non esiste una relazione tra sessi «in pace». Tra potere e resistenza, forze in contrapposizione e diverse istanze messe in scena, il gioco tra i sessi è quanto mai vivace e spesso violento da entrambi i lati. È ancora Foucault a metterci in guardia: Ai discorsi sul sesso non va chiesto anzitutto da quale teoria implicita derivino, o a che tipo di applicazioni morali possano essere ricondotti, o
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quali ideologie, dominanti o dominate, rappresentino; ma bisogna interrogare questi discorsi ai due livelli della loro produttività tattica (che effetti reciproci di potere e di sapere assicurino) e della loro integrazione strategica (quale congiuntura e quale rapporto di forza rende la loro utilizzazione necessaria in tale e tale episodio di contrapposizioni diverse che si producono) [Foucault, 1976, pp. 134-135].
In altra sede, all’intervistatore di una rivista gay di San Francisco che gli chiedeva il suo parere sulle pratiche sadomaso e sulla loro importanza come messa in scena del rapporto padrone/schiavo, subordinato/dominante, e alla loro possibile inversione, Foucault rispondeva che non vi era nulla di nuovo. Nel modo in cui una ragazza concede un appuntamento al suo spasimante, c’è la stessa dose di sadismo e di subordinazione gerarchica masochista. La stessa attività di dating, con gli appuntamenti dati e mancati, il gioco di potere del lasciar sperare e del deludere, il mancarsi reciproco, è insomma sottoposta a questa costante e impari lotta tra i sessi, dove la disparità è continuamente rovesciata, ricontrattata, negata e riaffermata. Come se Foucault ci volesse mettere in guardia rispetto a facili moralismi. Il sesso è un campo del potere, non nel senso vecchio della politica, ma nel senso della microfisica del potere. Uomini e donne si spartiscono lo spazio di un dominio che è continuamente contrattato su una soglia che anch’essa sfugge, ma su cui questi due avversari-amanti si incontrano. L’evidenza della letteratura antropologica deve solo servirci a questo, a studiare caso per caso come uomini e donne si incontrano su una soglia che li separa e li rispecchia. Su questa soglia così poco studiata accadono ingiustizie, resistenze, ci sono enormi difficoltà e grandi trasporti di seduzione e di passione, ma non bisogna mai farsi illusioni rispetto alla possibilità che questa tensione dia luogo a magnifici arcobaleni.
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Les hommes aux jasmins Eccoli là, sul boulevard Bourghiba, a Tunisi, les hommes aux jasmins qui se promènent. Giovani e vecchi con il fiore all’orecchio sinistro (composto da centinaia di gelsomini dai petali chiusi, tenuti stretti da un filo rosso, che si trasformano in un garofano bianco dall’odore penetrante) passeggiano sullo stesso boulevard «all’italiana» che porta all’ingresso della città vecchia, alla Medina, un tempo off limits per gli stranieri. Da questa parte della città, invece, sono nati l’art nouveau, i caffè, gli alberghi e il passeggio. Sul marciapiede centrale del boulevard Bourghiba, le grandi mercedes dei matrimoni si arrampicano per essere addobbate dalle mani esperte dei fiorai. C’è una grande cultura dei bouquet, delle collane di fiori, dei differenti tipi di zagare e gelsomini. La tradizione vuole che siano gli uomini a passeggiare con il gelsomino all’orecchio per indicare, con una certa leggiadria, che sono alla ricerca di una compagna, perfino di un amore. Più tardi, di notte, libereranno i gelsomini dal filo che li tiene stretti per consentire all’odore di sprigionarsi nelle condizioni migliori. I gelsomini, infatti, si esprimono al meglio solo nelle tenebre. Ancora oggi, a Tunisi, ci sono les hommes aux jasmins. I fiorai preparano i minibouquet, e centinaia di ragazzini visitano i cafés des amis assiepati di uomini per vender loro i gelsomini. Un rituale antico, mi dice Nejma, in uno dei pochi café misti del boulevard. Altri tempi, come quando al suo paese – dans son bled, a Sfax – si facevano le grandi feste per la circoncisione o per i matrimoni. E gli uomini danzavano e cantavano in terrazzo, mentre le donne restavano nelle stanze. Le stesse feste che adesso, in agosto, punteggiano di voci la notte in bianco e nero della Medina di Tunisi. Sul terrazzo, un gruppo di musicanti con tamburi dà il ritmo e scandisce i canti. Feste rigorosamente separate, uomini e donne. Per una circoncisione ho visto gli uomini danzare sul terrazzo e le donne in basso, nel cortile interno, con il fazzoletto annodato intorno ai fianchi per sottolinearne i movimenti. Nejma dice che in 77
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provincia la separazione era più netta, non c’era una visione diretta tra uomini e donne. Però era scalfita da spiate, da ascolti. «Di chi è quella voce?», e gli uomini cercavano di indovinare dalla voce le fattezze del viso e del corpo delle donne. Le donne intonavano i loro canti, e spiavano gli uomini dalle grate e ne intuivano i tratti dal canto e da ciò che rubavano alle finestre. C’erano momenti in cui gli sguardi si incrociavano, anche se erano solo gli occhi a vedersi. A un certo punto della festa, gli uomini scendevano in basso ed entravano in una stanza adiacente a quella delle ragazze. Anche lì cantavano e danzavano. Cantavano entrambi ed era un momento in cui le due musiche si fondevano, diventavano quasi simili. Nejma dice che lei e le cugine si innamoravano così, sceglievano così l’uomo che avrebbero voluto. Per alcuni minuti ragazze e ragazzi si incontravano in momenti tesissimi, intensi, di danza, poi venivano in fretta separati. Nejma, che ha solo ventitré anni, parla di queste cose al passato remoto e dice che tutto ciò aveva una ragione: i desideri avevano il tempo di accrescersi. L’attesa rendeva tutto più forte. Era un modo per preparare i giovani al matrimonio perché non se ne stancassero subito, come accade ora che il paese ha un tasso altissimo di divorzi precoci. Un modo per fissare i sentimenti e per costruire l’immagine dell’altro prima di incontrarlo da soli. Già allora, però, tutto era saltato. Le ragazze incontravano gli stessi ragazzi a Tunisi e avevano subito «una storia» con loro. Ed erano storie che duravano, erano la prima grande storia d’amore. Oggi tutto è squassato da una rapidissima trasformazione a cui gli uomini reagiscono in maniera sconvolta e spesso grossolana. La tradizione non li difende più, le donne sono apparentemente liberissime, hanno preso possesso della strada e vi passeggiano, con la loro eleganza da gazzelle del deserto: lucide e brunite, provocanti, eleganti, profumate. La notte, quando si torna lungo le strade della costa, tra paese e paese, tra Kelibia e Tunisi, si incontrano coppie di donne sole, all’una o alle due del mattino, che passeggiano lungo i bordi della strada nazionale. Gli uomini sono asserragliati nei loro cafés des amis, sempre più chiusi, negativi, a parlare e sparlare di 78
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donne, a chiedersi come mai hanno perso tutto questo potere. La Tunisia è cambiata in fretta, soprattutto grazie a Bourghiba che aveva puntato sull’emancipazione della donna. Non è detto che gli uomini siano cambiati insieme al paese. Nejma dice che ha paura: le donne quest’anno sono «estreme», provocanti come non mai, e mi racconta di un fattaccio accaduto qualche giorno fa sul metrò che va alla spiaggia, alla Marsa. Un uomo guarda con ostilità una ragazza in minigonna e corpetto. Lungamente, tutto il tempo fra tre fermate. A un certo punto la ragazza lo affronta e gli chiede cos’ha da guardare in quel modo. Al che l’uomo sfodera un coltello. Di fronte all’approvazione di una donna con il velo sulla testa e alla totale indifferenza dei vicini, la minaccia. La ragazza è costretta a restare in reggiseno e mutande. E così scende alla fermata successiva, mentre tutto il vagone approva e la donna con il velo in testa dice: «Questo sì che è un uomo». Nejma ha paura che il fondamentalismo soffocato qui da un’enorme presenza di polizia esploda nella parte più oscura delle persone, che si faccia strada nel rigurgito contro l’emancipazione femminile. Sotto la facciata di modernizzazione c’è qualcosa che cova e che si tira appresso l’imbastardimento delle tradizioni, il loro aver perso senso e aver acquistato ideologia. La separazione tra uomini e donne non è finita, si è invece riversata in una guerra di tipo nuovo e più atroce. Gli uomini hanno perso l’equilibrio di regole che li rendevano sicuri e padroni del campo. Non ci credo fin quando, dopo una serata «all’europea» in uno dei luoghi più chic della Tunisia, l’Hammamet di Craxi e del denaro a fiotti, dopo un concerto di musica kabile e la cena in un ristorante alla moda, riaccompagniamo a casa due delle ragazze che sono uscite con la nostra comitiva. Vengono da Djerba, una zona più tradizionale del paese, ma ora vivono con la famiglia in un quartiere ricco dei dintorni di Tunisi. Appena arriviamo, i fratelli, in shorts, con una pancia ingombrante, escono dal cancello, afferrano le ragazze e le picchiano di fronte a noi, poi cominciano a lanciare pietre contro le macchine delle loro amiche. Le ragazze scompaiono, 79
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trascinate oltre il cancello. Una di loro ha già tentato il suicidio una volta, entrambe lavorano tutto il giorno, ricamano, per portare i soldi ai fratelli che non fanno nulla. Come non fanno nulla, qui, migliaia di giovani che ai cafés des amis guardano lungamente i muri e la strada. Si allenano al tedio tra uomini. Tranne mettere in scena la violenza che viene loro richiesta, allo stato puro, nella furia impazzita di chi sa che prima o poi perderà il controllo. Gli stessi, domani, forse passeggeranno con i gelsomini all’orecchio.
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capitolo quinto
Maschi mediterranei
Se non sei mai andato dal barbiere, come pensi di avere diritto alla parola e alla saggezza? Mohammed El Anka, Chaabi Subhan Allah Jalta
Ecco, per un vecchio kabile degli Ait’idel, che lo aveva ricevuto dal padre, il ritratto di un uomo d’onore. […] «C’era una volta un uomo che si chiamava Belkacem o Aissa e che, nonostante la sua povertà, era rispettato per la saggezza e la virtù. Aveva influenza su più tribù. Ogni volta che c’era un conflitto o un litigio, faceva da mediatore e risolveva le contese. I Ben Ali Cherif, grande famiglia della regione, erano gelosi della sua influenza e del suo prestigio, tanto più che lui si rifiutava di render loro omaggio. Un giorno la gente della tribù degli Ait’idel tentò di riconciliarli. Invitarono il più anziano dei Ben Ali Cherif e Belkacem o Aissa. Appena questi apparve, il vecchio Ben Ali Cherif, che aveva già preso posto, lo apostrofò con ironia: ‘Come sono belle le tue arkasen, le tue scarpe da lavoro’. E Belkacem gli rispose: ‘L’uso vuole che gli uomini si guardino in faccia e non si guardino l’un l’altro i piedi. È il volto – l’onore dell’uomo – che conta’». Pierre Bourdieu, Le sens de l’honneur
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L’onore L’onore qui è dignità, è una dimensione estrema dell’individualità maschile che si pone come garante di valori tradizionali, ma è anche disposta ad affrontare tutto e tutti per dimostrare di non piegarsi. Si basa su una dépense, su uno spreco di sé, sull’idea di continuo lancio al rialzo, di sfida nell’offrire doni più preziosi di quelli offerti dal vicino, di provocare con una grandeur una risposta reciproca quasi d’obbligo. L’uomo d’onore kabile è un anarchico, nel senso che il suo comportamento per eccesso mantiene l’intera società in continua tensione (egli provoca la disuguaglianza offrendo troppo, come se creasse un’economia del dono che indebita gli altri), e nello stesso tempo è il garante della giustizia tradizionale. Le descrizioni di Bourdieu sono accurate e spesso ammirate. Ci sono storie esemplari di coraggio e dedizione, e storie terribili di vendette e sfide. Per trovare descrizioni analoghe bisogna andarsi a rileggere il concetto di baraka, cioè di «grazia», «fortuna» e «valore», spiegato da Clifford Geertz [1968] per «i grandi uomini del Marocco».
Che cosa accomuna i maschi mediterranei? Se le singole monografie su questa concezione maschile della dignità «all’eccesso» ci offrono quadri estremamente interessanti dei meccanismi di costruzione dell’identità e della loro messa in scena, è difficile però accettare che esse possano offrire elementi di generalizzazione. Esiste insomma qualcosa che assomiglia all’onore «e che riguarda tutti i maschi nelle società mediterranee» [Herzfeld, 1980]? I dubbi aumentano se si mette insieme il mondo mediterraneo, quello arabo e quello mediorientale e se si segue la tradizione degli studi relativi all’onore nei paesi mediterranei. La problematica riguardante l’honour and shame, cioè le società con una concezione forte dell’onore e della vergogna, è stata in anni 82
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recenti rimessa in discussione [Goddard, 1987; Loizos, Papataxiarchis, 1991; Lindisfarne, 1994]. Questi concetti, elaborati negli anni Cinquanta da sociologi e antropologi anglosassoni – spesso d’oltreoceano – tradivano una terribile ingenuità e un’ignoranza della cultura europea. La stessa idea di «società mediterranee» era basata sull’estraneità degli studiosi americani al clima europeo. Fare di tutte le erbe un fascio e prendere solenni cantonate era molto facile. Trattare la società materana, kabile, andalusa ed egiziana alla stessa stregua significava essere incapaci di coglierne le enormi differenze, e per giunta attribuire alle società mediterranee caratteri che potevano facilmente essere rintracciabili nelle montagne della Carinzia o tra i fiordi della Norvegia [Boissevain, 1976]. Come ricorda lo studioso della società maschile maltese John P. Mitchell, questo tipo di approccio generalizza in maniera paradossale l’unità del Mediterraneo e quindi ne ignora lo spettro delle differenti ideologie di genere che coesistono all’interno di questo paesaggio, e incoraggia il ritratto di una sola versione ufficiale della sessualità e dell’identità di genere nel Mediterraneo, con al centro il maschio egemonico. Queste critiche hanno due maggiori conseguenze. In primo luogo aprono il campo al riconoscimento e all’analisi delle differenze tra il modello egemonico di identità di genere e le pratiche quotidiane: questa maniera di vedere le cose ha influenzato particolarmente l’etnografia delle donne nel Mediterraneo, nel senso di dimostrarne il sostanziale ruolo pubblico, in contrasto con la loro apparente privatizzazione. In secondo luogo queste stesse critiche suggeriscono che bisogna prendere come oggetto di studio i modelli egemonici di identità di genere e i loro modi di riproduzione; in questo contesto, l’attenzione è rivolta adesso all’importanza della «messa in scena», della performance quotidiana nella produzione delle identità di genere [Mitchell, 1998, pp. 71-72; vedi inoltre Herzfeld, 1985; Cowan, 1991].
È stato soprattutto l’antropologo portoghese João de Piña-Cabral ad aver lanciato, contro l’approccio generalizzante degli studi 83
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sul Mediterraneo, gli strali più spietati, mostrando gli aspetti a volte comici del tentativo di costruire un «sistema mediterraneo», con le sue sindromi di onore e vergogna, le relazioni clientelari, il familismo amorale, il dualismo agrario ecc. I montanari dell’Algarve sono come i marocchini o piuttosto come i minhotos? Gli andalusi sono simili ai tunisini o piuttosto ai gallegos? Gli abitanti di Pisticci sono come i libici o come i piemontesi? I greci sono come gli egiziani o come i popoli dei Balcani? La mia risposta è che la nozione di bacino Mediterraneo come «area culturale» è più utile come strumento per allontanare gli studiosi angloamericani dalle popolazioni che essi studiano che come maniera sensata di parlare di omogeneità culturale che caratterizza una regione [Piña-Cabral, 1989].
I cowboys sono mediterranei? Riguardo alla sindrome honour and shame Piña-Cabral aggiunge, prendendosela con uno dei maggiori responsabili del calderone mediterraneo della mascolinità, David Gilmore [1987]: Ogni tendenza a spiegare fenomeni associati alle culture regionali in base a termini legati allo sviluppo psicologico individuale è, secondo me, destinata a fallire. Come i processi psicologici riguardino tutti gli uomini e le donne in eguale misura e come possano essere attribuiti a una cultura è una questione di scelta arbitraria. […] Gilmore conclude le sue analisi sulla mascolinità mediterranea sostenendo l’esistenza di un fatto sociale come «il complesso della fiammeggiante virilità dei maschi mediterranei», «i culti della mascolinità mediterranea», «i codici della castità femminile mediterranea», «le ideologie sessuali mediterranee». Quali sono precisamente i riferimenti empirici di queste nozioni? E per quel che riguarda l’idea di Gilmore di una specificità mediterranea nella «erotizzazione» e nella «libidinizzazione» della reputazione sociale, io non so davvero che farmene di questo nonsense. La specificità di genere sessuale dei
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valori morali è possibile applicarla a tutta l’Europa premoderna e continua a essere applicabile a molte aree del cosiddetto mondo occidentale. Non si rende conto, Gilmore, che in tutta l’area di lingua inglese «i testicoli» sono una metafora del coraggio? Quale crede che sia il significato del texano cowboy-gear? E cosa c’è di specificamente mediterraneo nell’assenza di riti di iniziazione maschile? La fascinazione per il simbolismo fallico sarebbe davvero una cosa tipicamente mediterranea? [Piña-Cabral, 1989].
Altre generalizzazioni sono presenti in gran parte dei lavori sulle società mediterranee: dall’idea di una mascolinità incompleta dovuta a una forte relazione con la madre (rintracciabile in buona parte del mondo occidentale), all’idea di un’aggressività tra maschi nei luoghi pubblici come le osterie (dice Piña-Cabral che si vede che gli antropologi maschi anglosassoni che hanno fatto queste inchieste non sono mai andati nei pub delle classi operaie inglesi!), fino all’affermazione di una «tipicità» della famiglia mediterranea e di un modo di produzione che l’avrebbe originata (la responsabilità di questo modello è da attribuire a Jane Schneider [1971] e alla sua convinzione di una frammentazione del modello pastorale). Nell’insieme, tutte le concettualizzazioni intorno all’honour and shame e le concezioni della verginità, di una frammentazione e di un familismo amorale sono state rimesse in causa, anche se nel discorso accademico di tutti i giorni tornano a galla ogni minuto. Sono queste dubbie categorie a essere ancora applicate nell’analizzare la «mascolinità mediterranea», o «araba», o «meridionale». Solo un’attenta analisi di ogni contesto e un serio lavoro di ricerca possono difenderci dalla trivialità di queste verità troppo anglosassoni.
Una virilità araba? Una raccolta di saggi, La Virilité en Islam, curata da Fethi Benslama e Nadia Tazi [1998] sembra andare in questo senso. C’è una connessione molto forte, osserva Nadia Tazi, tra concezione della 85
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virilità e concezione dello Stato in molti paesi islamici. Una concezione contraddittoria al suo interno, perché spesso lo Stato espropria i capiclan o i capifamiglia dei loro diritti, dopo averli aizzati verso un concetto di «onore» secondo i canoni tradizionali dell’«eccesso» di individualità. In questa contraddizione sta lo sfruttamento «moderno» di un modello che non ha più le basi economiche su cui sorreggersi. In maniera analoga, l’ideologia dell’onore costella i gesti efferati di una certa criminalità mafiosa e camorristica, senza avere nulla a che fare con il tessuto tradizionale delle obbligazioni reciproche e delle relazioni di alleanza. L’onore mafioso è la modernizzazione ideologica di qualcosa di molto vago e molto più negoziabile. E in parte è il riappropriarsi di uno stereotipo costruito da uno sguardo «esterno», come se la mafia o la camorra, per fare paura, utilizzassero l’immagine di un Sud dell’onore costruito dal Nord o dai media. Il concetto di onore è un concetto pericoloso perché sfugge a una definizione precisa e ha molto di psicologico. Quel che è certo è che nelle società tradizionali di molti paesi che si affacciano sul Mediterraneo, come in molti paesi del Medio Oriente, vi è una concezione del «contegno» e della «dignità» maschili che ha a che fare con un’idea quasi guerriera dell’uomo. Essa si trova presente già nelle poesie preislamiche dei poeti predoni (uno di questi si faceva chiamare T’abbata Scharran, cioè «trascina sotto il braccio») e la si ritrova in molte manifestazioni quotidiane che rientrano in una dimensione che sta fra la «fierezza» e «il senso di appartenenza a un gruppo». Parte di questa costellazione ricade nell’idea di «integrità», «rettitudine» e «probità» di cui parla Illich [1982], che appartiene alle società gendered, in cui la distinzione di genere è ancora alla base dell’economia di sussistenza. Qui i giudizi sulla «probità» passano ancora per un’aderenza degli individui a un ideale di «genere». Si infrange la «probità» quando si invade il mondo femminile essendo uomini o quello maschile essendo donne. E si incorre allora nella 86
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riprovazione o nella «presa in giro», nello charivari da parte del gruppo cui si appartiene. C’è poi un regime di broken gender, di scollamento del genere, in cui questi ideali si irrigidiscono e diventano ideologie al di sopra della contrattazione quotidiana. Geertz [1976], a questo proposito, parla della differenza tra concetti experience near ed experience distant. I primi sono concetti mai teorizzati dalla gente, ma «a portata di mano» per l’uso quotidiano, i secondi sono invece concetti teorizzati, ma mai usati perché troppo astratti.
L’onore secondo gli uomini, l’onore secondo le donne Unni Wikan [1984], un’antropologa norvegese che conosce l’arabo e che ha vissuto per lunghi periodi in Oman e al Cairo, si è servita della distinzione tra experience near ed experience distant. Contrapponendosi all’idea di Julian Pitt Rivers [1971], secondo cui contro la perdita dell’onore nelle società mediterranee non ci sarebbe niente da fare, rintraccia sia in Oman sia al Cairo un’estrema elasticità al riguardo e soprattutto l’assenza dell’idea di «onore». Questo è un «concetto distante» e mai usato nella vita quotidiana per indicare un comportamento che si ritiene sbagliato. Nel caso del Cairo la gente non usa mai la parola onore, ma piuttosto una versione «addolcita» [Abou-Zeid, 1965] della parola vergogna, ‘eb, sempre attribuita agli atti e non alle persone. Moltissime cose sono ‘eb, dall’insultare un ospite al pettegolezzo, al furto, al comportamento poco gentile, fino agli atti considerati terribilmente immorali come l’omosessualità, l’adulterio della donna o la perdita della verginità prima del matrimonio. La gente si lamenta che c’è una tale facilità a pronunciare la parola ‘eb da non essere più liberi di fare niente. Si è sottoposti a «quello che la gente dice», non nel senso di ciò che la gente pensa, ma del modo in cui la gente condanna e distorce. Vergogna «sessuale» (‘ar), che è una parola dell’arabo classico, non viene invece impiegata. Mentre ‘eb ri87
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guarda solo l’atto individuale, ‘ar farebbe ricadere la vergogna su tutta la famiglia, sulla stessa vittima dell’atto e sulla sua stirpe. Neppure la parola opposta, sharaf, che dovrebbe indicare l’onore, viene impiegata; si dice piuttosto che le persone sono buone, kwayys(a), o generose, ‘amir(a), o di buon cuore, tayyb(a). Passando a una società molto più rigida in senso islamico, a Sohar, una località dell’Oman dove le donne sono tenute spesso a indossare il burqa, il velo che ne copre completamente il volto, Unni Wikan racconta una storia di cui è stata testimone. Una sua vicina di casa, Sheikha, viveva in uno stato di flagrante adulterio. Davanti a casa l’attendevano le auto di amanti facoltosi. In Oman l’adulterio è considerato come il massimo della vergogna (almeno dagli uomini), eppure in questo caso l’intera comunità sembrava non farci caso. Le ragioni, a detta delle persone con cui la Wikan ne parlava, erano due. La prima è che attribuire vergogna o disonore a qualcuno infrange una regola fondamentale: parlare male di qualcuno è già di per sé vergognoso. La seconda è che Sheikha, sposata con un uomo molto avaro, da quando aveva degli amanti era divenuta estremamente prodiga in ospitalità e feste a cui invitava i vicini. Alcuni pensavano che avesse preso degli amanti per salvare il suo «onore», vista la tirchieria del consorte. È interessante notare come tra i sohari ci siano due diverse concezioni dell’onore. Nel mondo maschile è importante l’affidabilità sessuale delle donne, perché è questa che ha effetto sulle vite degli uomini. Nel mondo femminile, in cui gli uomini figurano a volte solo marginalmente, è invece l’ospitalità insieme ad altre qualità sociali ad avere maggiore importanza. La sessualità rimane marginale e l’adulterio è considerato con meno severità. A Sohar, gli stessi uomini negano che l’onore di una donna possa essere perso. Se si comporta male sessualmente, il peso ricade infatti sui suoi genitori e sul marito: «Quando una donna non ha imparato la strada giusta, come può seguirla?». Per il marito è una vergogna terribile, ma è anche vero che lo stress a cui sono sottoposti gli uomini deriva dal fatto che nessuno dirà mai al marito cosa 88
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pensa in effetti del comportamento della moglie. Egli dovrà indovinare da accenni minimi cosa pensano gli altri di lui. Chi fosse esplicito sarebbe a sua volta disonorato. Se è dunque vero che qualcuno viene disonorato quando è spinto ad ammettere di esserlo, nessuno, o quasi, si trova in una situazione di disonore tra i Sohari. La cosa interessante nel lavoro della Wikan non è l’aver negato l’esistenza del concetto di onore, ma l’averlo frammentato secondo le circostanze e gli attori. Soprattutto è nuova l’idea che le donne abbiano un loro concetto di onore e di vergogna diverso e contrapposto a quello degli uomini.
Povertà degli studi «maschili» nell’Europa mediterranea Come si vede, la «questione mediterranea» ci ha trascinato inevitabilmente nei paesi arabi. Nello stereotipo della mascolinità negativa (e nel suo esotismo) sono due infatti i poli che fanno da capisaldi: il machismo latino e l’uomo arabo. I maschi spagnoli, siciliani o greci sono assimilati ora all’una ora all’altra costellazione. Tra machismo e guapparia. In realtà, nel caso del Mediterraneo europeo, gli studi sulla condizione maschile, circoscritti, acuti e privi dei difetti di quelli anglosassoni, sono veramente pochi. Gli articoli più pregevoli sono quelli di Mitchell [1998] riguardanti Malta e il culto maschile del «callo» – considerato un segno incancellabile di virilità – che si sviluppa portando sulle spalle la vara di San Pawl; quelli di Euthymios Papataxiarchis [1991] sulla commensalità maschile nell’Egeo moderno; la monografia di Michael Herzfeld [1985] sui pastori delle montagne cretesi; quelli di Miguel Vale de Almeida [1996] su una città portoghese; i lavori di Caterina Pasqualino [1998] sui gitani andalusi, la mascolinità del canto e la femminilità della danza, e sulla socialità maschile intorno alle buleria e ai soleá intonati nelle peñas (il finale del canto tra i gitani si chiama «macho», ed è nel finale che bisogna «fare il maschio»). Un’antropologia della mascolinità a Napoli è stata tentata da Vic89
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toria A. Goddard [1987, 1996], con effetti un po’ riduttivi. Come si fa a trattare in maniera sommaria un universo così complesso? Anche gli studi sulla Sicilia sono pochi e molto datati. La narrativa è sicuramente più profonda e fedele: Vitaliano Brancati vale ancora più di tanti lavori sul campo. Bisogna però difendersi da tutta la mediatizzazione dell’argomento. Il maschio siculo, o meridionale, è affetto da una sindrome alla «ispettore Montalbano» che, se ha ottimi effetti spettacolari, non aiuta certamente a uscire dagli stereotipi. A ciò si aggiunga l’«effetto Dolce e Gabbana» per rendere il tutto molto deprimente. Anche qui c’è un Sud voluto dal Nord per allontanare possibili paragoni e costanti: come se il Sud dovesse contenere tutte le questioni della mascolinità che il Nord ha rimosso. C’è una ricchezza nella formazione dell’identità maschile nel Sud dell’Europa che va sicuramente ripresa, una volta sgomberato il campo dai pregiudizi e dalle facilonerie che hanno impedito ai ricercatori di vedere quello che guardavano. Viene richiesto ovviamente un approccio comparativo, ma smagato. È chiaro che ci sono paralleli tra la camminata degli «sfaccendati» a Trapani e le promenades degli hommes aux jasmins a Tunisi, ed è chiaro che elementi della civilizzazione spagnola, araba e francese si sono mescolati insieme per formare lo sfottò, la botta e risposta veloce, la maniera di alludere e di insultare, i modi della blasfemia e della scommessa. Si tratta però di una nuova fase da aprire, dove i confini del comparativismo devono diventare i confini di ogni buona analisi antropologica e storica (e qui abbiamo il permesso anche di Marcel Detienne [2000]); un’analisi che non abbia paura né di fare un lavoro concentrato su un caso, né di pensare che tra la paura delle donne che si rileva tra gli indigeni della Nuova Guinea e quella che si ritrova ancor oggi nei cafés des amis a Tunisi ci sia qualcosa in comune.
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Offese e solitudini Detto questo, torniamo sul mondo arabo, più fertile ultimamente di analisi riguardanti la condizione dell’uomo e della donna in un momento di trasformazione come l’attuale. E lo facciamo con due casi che raccontano il primo di un tipo di resistenza femminile al dominio maschile che si sta rimodellando in base a cambiamenti generali, e il secondo di una «doppia fregatura» in una situazione in cui uomini e donne sono entrambi vincolati dentro a una reciprocità terribile e frustrante. Il primo caso riguarda un gruppo nomade beduino, gli Awlad’ali del deserto occidentale egiziano. Qui, secondo l’antropologa Lila Abu-Lughod [1990], le donne beduine stanno vivendo un rapido cambiamento di status. Meno soggette che in passato agli anziani, usano però ancora tecniche femminili tradizionali di resistenza. Si va da una grande solidarietà femminile nel gestire segreti, infrazioni e informazioni negate agli uomini, a vere e proprie strategie per contrastare decisioni apparentemente intoccabili. Insieme alle madri vengono smontati matrimoni previsti da fratelli e padri per sigillare alleanze. Un’altra forma di resistenza è il discorso sessualmente irriverente pronunciato dalle donne alle spalle dei maschi. La forma tradizionalmente più forte di resistenza, però, è costituita da canzoni, chiamate ghinnawas, che le giovani donne cantano e in cui esprimono direttamente i loro sentimenti e le loro rabbie. Con la modernizzazione le donne stanno perdendo questo tipo di resistenza (le ghinnawas sono oggi cantate da giovani uomini e registrate su cassette commerciali) per acquistarne una più soggetta ai modi urbani e al sistema statale egiziano. Per un verso più libere, sono però meno capaci che nel passato di negoziare all’interno del gruppo la loro libertà. L’altro esempio riguarda invece la terribile pratica della clitoridectomia tra le donne beduine di una tribù nella zona del Negev. L’escissione del clitoride viene praticata sulle giovani donne dalle stesse madri ed è un modo per tenere sotto controllo la sessualità 91
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delle giovani generazioni. In un sistema rigidamente clanico qualunque identificazione della sessualità con la passione e il desiderio creerebbe pericolose tensioni e fratture tra generazioni. In pratica è un modo con cui il potere viene avocato nelle mani degli anziani. Le madri sono complici di questo potere per motivi che spesso hanno a che fare con una rivincita sulle figlie della propria condizione subordinata. In questo oscuro paesaggio sono i giovani nel loro insieme a essere puniti: i giovani maschi vivono nella doppia situazione di chi da una parte è chiamato a dominare le proprie spose e dall’altra si trova di fronte donne che non possono godere della propria sessualità. L’escissione del clitoride corrisponde a un’educazione per cui le donne non possono che esprimere freddezza e indifferenza al cospetto degli uomini. I rapporti sessuali sono privati di qualunque connotazione affettiva e passionale. L’antropologo Gideon Kressel [1992] racconta un episodio di cui è stato testimone. I giovani maschi beduini si ritrovano per «andare a donne» in una città ai bordi del deserto. Qui abbordano le prostitute. Una di loro, alle provocazioni di un maschio beduino che le dice: «Ce l’ho duro, vengo lì e ti spacco», risponde: «Gnam, gnam». Il giovane beduino rimane visibilmente sconvolto dalla reazione della donna (e viene portato via dai suoi compagni) perché non si aspetta che una donna possa rispondere con desiderio al suo desiderio. Siamo di fronte a una situazione in cui il potere ha effetti a catena. Se esso mutila e reprime le giovani donne beduine, interagisce però con il complesso delle relazioni sessuali. L’effetto desiderato – di reprimere la sessualità dei giovani – è tanto più efficace quanto più crea vittime complici. I giovani maschi sono invischiati in un doppio vincolo alla Bateson. Per dimostrare di essere maschi, devono rinunciare a essere maschi capaci di soddisfare una donna. Questo ricatto, esercitato in nome dell’onore e di una certa concezione della mascolinità, invischia i maschi di molti paesi arabi in una situazione senza uscita. Come se la dimostrazione di mascolinità – di forza e valore individuale – servisse solo a controllare e a 92
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reprimere ulteriormente i suoi attori. Come si vede, e come ricorda lo stesso Kressel [1981] in un agghiacciante articolo sull’omicidio della figlia o della sorella per salvare l’onore della famiglia, la violenza, l’ingiustizia e il potere sulla vita altrui sono sempre presenti, per non farci illudere che le cose stiano tutte dalla parte della negoziazione. Sono innumerevoli i casi di culture in cui vari tipi di violenza vengono ancora perpetrati nei confronti delle donne. E non è detto che con la «modernizzazione» le cose cambino completamente, come si vede nel racconto Les hommes aux jasmins. Ma certamente i paesi arabi non ne hanno l’esclusiva, e infatti i meccanismi della globalizzazione hanno incrementato o inventato in tutto il mondo vecchie e nuove forme di sfruttamento e di violenza nei confronti delle donne, dal mercato mondiale della prostituzione all’immenso fenomeno asiatico dello sfruttamento delle donne immigrate filippine, indiane, pakistane o cinesi «della campagna». In molti casi non c’è nemmeno un’ideologia dell’«onore» a fare da supporto, e se c’è si basa sulla banalità dell’ingiustizia e sulla rigidezza della crudeltà e della violenza.
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capitolo sesto
Imbranati
Gabriel Soares ricorda le rudi procedure utilizzate dai Tupinamba per fare ingrandire il loro membro virile e ne tira come conclusione che questi erano dei gran libidinosi. «Insoddisfatti», racconta questo cronista del XVI secolo, «dell’organo che la natura gli ha donato, i Tupinamba lo circondano di una pelle di animale tanto velenosa che il loro membro si gonfia tosto, con grandi dolori, ed essi la lasciano lì per sei mesi. Ne ottengono un membro così grosso e così deforme che le donne non lo possono sopportare. E bene! Questa pratica, apparentemente così debosciata, indica presso gli indigeni la necessità di compensare a una deficienza fisica o psichica più che una dissoluzione dei costumi o tendenze sadiche e masochiste. Si sa, in effetti, che gli organi genitali dei primitivi sono in generale meno sviluppati di quelli dei civilizzati e che i selvaggi, come abbiamo già detto, sono obbligati a darsi a pratiche saturnali e orgiastiche per compensare con un erotismo indiretto, tramite questo olio afrodisiaco che è il sudore del corpo che danza, la difficoltà di erezione così facile per i civilizzati. Questi ultimi sono sempre pronti al coito, i selvaggi non lo praticano che sotto i morsi della fame sessuale; sembra perfino che i primitivi avessero dei periodi precisi per l’accoppiamento tra femmine e maschi». Gilberto Freyre, Casa Grande & Senzala
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Forse perché sono nero e nel conversare non possiedo i toni soavi che hanno i cortigiani, o perché sto declinando nella valle degli anni – anche se non troppo – se n’è andata, mi ha tradito. William Shakespeare, Otello
Otello o la verginità maschile Otello è un imbranato, cioè un uomo che non ha mai acquisito il «saperci fare» che ci vuole per non diventare vittima delle pene e delle gelosie d’amore. Otello prende terribilmente sul serio cose che coloro che lo circondano, compresa Desdemona, sono spinti a relativizzare. Loro sono «uomini e donne di mondo», del «gran mondo» abituato a giocare con la seduzione, con la galanteria e un leggero flirting. Una giuria del Midwest degli Stati Uniti avrebbe trovato Desdemona colpevole o almeno complice del delitto perpetrato da Otello. La scena in cui la vediamo alle prese con Iago e Cassio dimostra una padronanza estrema dei doppi sensi, una capacità di ribattere senza uscire mai dal gioco del desiderio da cui lei sa di essere avvolta, e che non teme perché sa che il desiderio ha le sue regole, mentre ignora che Otello è «fuori gioco». Otello rimane vittima di una cultura estremamente raffinata dei rapporti uomo/donna. Emilia, la governante di Desdemona, glielo dice a chiare lettere che lui è uno zotico perché prende fischi per fiaschi e perché non sa giocare al pari di coloro che lo amano o che lo odiano. Otello è l’estraneo in una Venezia in cui la coquetterie e la galanteria sono giunte alla perfezione. Gli si dovrebbe chiedere: dove sei stato finora? Svegliati! Quando si sveglia, dopo il delitto, fa bene a togliersi di mezzo, perché con il mondo in cui pensava di essersi installato lui non ha niente a che fare. Qualcuno avrebbe dovuto fargli un corso prematrimoniale, avrebbe dovuto spiegargli all’orecchio le cose della vita, ma lui no, era troppo occupato nell’arte della guerra. Era stato perfino incapace di apprenderle dalle compagnie d’armi, un capitano che nella 96
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sua incapacità di conoscere la vita e i «fatti della vita» ricorda un altro grande imbranato, James Cook, che si chiude in cabina quando le tahitiane assaltano la nave per «farsi» i suoi marinai [Sahlins, 1985]. Otello si fida di Iago e di Cassio come chi non ha mai avuto una sola delusione nella vita. O come qualcuno che ringrazia per tutto ciò che riceve – amicizia, amore – perché se ne crede fondamentalmente indegno. In realtà è un insicuro. Sarà Desdemona a testimoniare in suo favore di fronte ai dogi e a suo padre, a sfatare l’idea di una fattura che lui le avrebbe fatto. No, lei si è invaghita di Otello perché è davvero affascinante, un Ulisse nero (così lei crede), un uomo di imprese e di avventure (così lei crede). Ma Otello, a differenza di Ulisse, è l’esotico che non può farsi domestico. Ulisse è un viaggiatore che trasforma il suo stesso ritorno in un’impresa: sottrae l’essere risucchiato tra quattro pareti domestiche alla banalità del quotidiano. Trova qualcosa di eroico anche in questo. Penelope è un’altra delle sue avventure. Desdemona, invece, Otello non se lo tiene in casa nemmeno per un giorno. Perché è inadeguato, non ci sa fare se non nella dimensione monadica del condottiero solo. È uno scapolo a vita che uccide Desdemona per ribadire la propria verginità. La grandezza di Shakespeare è nel mutamento di prospettiva. Se siamo abituati a vedere l’esotico come oggetto del potente erotismo maschile, qui la prospettiva è capovolta. Otello è l’esotico maschile che diventa oggetto erotico, ma anche condanna della donna. È un «vero uomo», a differenza di Iago e Cassio (così cicisbei ed effeminati), ma un uomo che non sa nulla della contaminazione necessaria, e dunque rimane oggetto, non riesce mai ad agire se non per uccidere. Otello ha perso la padronanza erotica di sé. È tempo di borghesia, si cambia linguaggio: Otello è la borghesia imbranata rispetto al gran mondo cortese, fatto di mascherine, travestitismi e messe in scena di identità. Otello è spontaneo e autentico nella maniera più squallida e pericolosa, non mediata dagli spigoli e dalle necessità delle relazioni, è una verità imbranata, disagiata, senza arte né parte. 97
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Otello preferisce l’onestà – valore mercantile – all’amore e sacrifica l’amore sulla base di una testimonianza mercantile: un fazzoletto che da dono è diventato pegno, un imbroglio che lui (che non capisce niente dell’economia aristocratica del dono) prende per un’obbligazione di natura economica. Ah, maledizione del matrimonio, per cui possiamo chiamare nostre queste creature delicate ma non le loro voglie [Otello, atto III, scena 3].
Per questo uno stupido fazzoletto si sottrae all’ambiguità dei giochi d’amore e degli scambi informali e diventa una prova inoppugnabile del tradimento. Emilia, la governante, dice: O stupido Moro! Quel fazzoletto di cui parli, l’ho trovato io per caso e l’ho dato a mio marito. Spesso, infatti, con serietà solenne, superiore a quella che una tale sciocchezza meritava, mi aveva chiesto di rubarlo [Otello, atto V, scena 2].
L’uomo goffo in flanella grigia Otello è l’esempio di un uomo che ha perso la padronanza degli affari maschili. Che simula una forza di cui è capace solo in un senso (contro i Mori, cioè contro se stesso) e che non ha avuto nessun apprendistato decente. Forse Shakespeare costruisce la prima commedia dell’uomo imbranato, una lunga tematica che arriverà fino al Cary Grant dell’uomo in completo di flanella grigio proposto da Alfred Hitchcock in Intrigo internazionale, un uomo ormai soltanto capace di starsene da solo e che si trova impelagato in situazioni che lo imbarazzano e lo fanno sembrare goffo. È lo stesso uomo riproposto negli anni del dopoguerra in America nelle commedie del «rimatrimonio»; uomini che non hanno più l’eroismo dei guerrieri o dei reduci, ma che sono riduzioni di una mascolinità che non sa più come fare i conti con se stessa. E via 98
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fino a Indiana Jones, un altro eroe incapace di relazioni con le donne, perché le donne sono molto più complicate di qualunque nemico e di qualunque trabocchetto. Susan Faludi [1999] ha ricostruito questo passaggio fondamentale nell’America del dopoguerra descrivendo l’uomo stiffed, ovvero bloccato, irrigidito, che non scorre più come dovrebbe, che si è arrugginito. Così come imbranato è anche colui che ha trasformato i «modi bruschi» nella balbuzie dei «modi bruschi», avendone perduta la padronanza. La sua spigolosità diventa goffaggine, i suoi scarti diventano solo fonte di azioni maldestre ed eccessive: rompe le porcellane e tira il collo di porcellana di Desdemona.
Imbranati Questa imbranataggine è qualcosa di molto diverso dal semplice imbarazzo. Essa è la base delle due matrici maschili della modernità: da un lato l’uomo «disgraziato», il macho-man, l’anormale violento, e dall’altro il Peter Pan, colui che, altrettanto imbranato con il mondo delle donne, finisce per lasciar loro la definizione di una sessualità maschile asessuata (in Italia abbiamo Pinocchio, un maschietto «rigido» che per diventare di carne ha bisogno di ritrovare un’ambigua mamma/fatina, magnifica versione all’italiana di una vitalità maschile che vale solo se ripresa sotto le ali materne). Peter Pan è un trickster [Miceli, 2000], il personaggio impertinente delle mitologie amerindiane, un Briccone Divino. A differenza del trickster si è levato il pene per poter volare e non si ricorda più dove lo ha messo, perché lo ha lasciato alla madre che lo ha abbandonato. È un eroe che «non può far male alle donne» e deve avere come nemici solo i potenziali rapitori delle donne bambine. Giuseppe Scaraffia [1999] ha ricostruito l’altra sponda, quella della «canaglia», dell’uomo di un altro eccesso, il «bel tenebroso» che, avendo come incarnazione specifica Lord Byron, proietta la sua ombra sull’immaginario e sulla letteratura che va dalla rivolu99
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zione francese fino ai primi del Novecento, dal Conte di Montecristo al Dolochov di Guerra e pace, dal Capitano Nemo al Corsaro Nero, fino al bel tenebroso di Julien Gracq e all’uomo in rivolta di Albert Camus. Il bel tenebroso è un aristocratico che è scampato alla ghigliottina, che non porta la cravatta per mostrare un collo sottratto alla lama e che, da sopravvissuto, ha in tedio profondo le convenzioni sociali e gli obblighi «del suo sesso». Le donne lo adorano, ma lui le coglie di sfuggita. Il suo sguardo melanconico si posa altrove, verso gesta in cui si butta a capofitto cercando l’oblio e la morte. I suoi modi sono «bruschi», i suoi movimenti «a scatti» – come ricorda Scaraffia – e passa da stati d’animo tenebrosi a entusiasmi orgiastici. È un imbranato? In un certo senso sì: è qualcuno che ha perso un contesto in cui esplicare la sua mascolinità e che è rimasto come una monade impazzita, un altro vergine alla Otello. La sua gloria sta nel non essere afferrato dal suo tempo e da chi lo circonda. È un uomo in fuga che esalta il suo imbranamento nella solitudine o nella mischia.
O imbarazzati Alla base di queste costellazioni della mascolinità contemporanea c’è la scomparsa dell’imbarazzo maschile, ovvero della difesa e dell’elasticità del maschio nei confronti delle sue défaillances. L’imbarazzo è il diritto alla vergogna, al tirarsi indietro, al titubare, un diritto che non svilisce la dignità, perché in esso, nell’imbarazzo, c’è una verifica dell’elasticità della propria identità sessuale maschile. Se essere maschi significa dover continuamente sottoporsi all’aspetto performativo della mascolinità, al far fronte, all’essere di più, all’essere al di sopra delle proprie possibilità, allora l’imbarazzo è la salvezza nelle sfumature, nel gioco a non doversi sempre prendere sul serio. Il «genere» è oggetto di fluttuazioni ed esse aiutano a distinguere tra la mascolinità individuale e la mascolinità da dimostrare. Quando i montanari di Creta «sbagliano», perché vengono colti in 100
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flagrante mentre fanno un furto o semplicemente perché non sono all’altezza di una sfida, si vestono di dropi, di imbarazzo, di fronte all’avversario arrabbiato [Herzfeld, 1985]. Ci sono modi di sfuggire a un confronto umiliante che i maschi di varie culture hanno elaborato. Così, racconta Bourdieu [1972] per i suoi Kabili, quando qualcuno vuole sottrarsi a una vendetta, c’è la possibilità di «tirarsi fuori» denunciando la propria piccolezza, cambiando a volte lo status sociale o autoumiliandosi, il che non distrugge, però, l’identità della persona. La vergogna è la valvola di sfogo di una mascolinità che altrimenti esploderebbe nei propri «modi bruschi» [Wikan, 1984]. Per questo ci tengo a distinguere tra imbranamento e imbarazzo. Il primo è il segno di una scollatura maschile profonda, della perdita di una competenza maschile, il secondo è la dimostrazione della capacità di gestire l’intensità mascolina. Le donne hanno imparato in secoli di resistenza al potere maschile che la debolezza, il frame dentro al quale l’ideologia maschile le inquadra, può essere usata come forza. Nell’acquisire la propria debolezza hanno costruito un’arte dei rapporti e una tolleranza nei confronti di se stesse che le ha rese più capaci di affrontare i cambiamenti, più flessibili. Gli uomini hanno imparato quest’arte solo per frammenti. La vergogna, l’imbarazzo, la timidezza fanno parte di una cultura che l’ideologia maschile rinnega, anche se se ne serve come escamotage per cavarsi di impaccio. Nella debolezza e nell’acquisizione di spazi di debolezza sta la mobilità dell’identità maschile. Bisognerebbe capire quanto l’uomo non sia stato a sua volta vittima dell’obbligo di essere «sempre pronto allo scontro». Nella ritirata, nel poter cambiare idea e nell’incostanza c’è molto spesso la salvezza.
«Non farcela» nel mondo antico Nelle culture tradizionali c’era una teorizzazione precisa della virilità, ma tra questa e le pratiche c’era un abisso creato da tutte le coniugazioni e dallo sfilacciarsi dell’identità maschile. 101
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La condizione maschile messa continuamente a repentaglio non è cosa nuova. Le società antiche e quelle tradizionali definiscono spesso la mascolinità come qualcosa in pericolo per salvaguardarne l’«inquietante plasticità». Bisogna distinguere questa plasticità da una «crisi dell’identità maschile». Peter Brown, il grande storico dell’antichità protocristiana, ce lo racconta per il mondo romano: La superiorità degli uomini sulle donne non riposava su una fisiologia dell’incommensurabilità, quale doveva essere elaborata nel XIX secolo per dichiarare gli uomini irrevocabilmente differenti dalle donne. Le entità mediche di calore e di spirito vitale erano degli imponderabili nella costituzione dell’uomo. Si potrebbe pensare che gli uomini possedessero sempre questo prezioso calore e in maggiore quantità rispetto alle donne. Ma se questo calore non veniva messo in moto attivamente, poteva raffreddarsi e quindi condurre un uomo a uno stato vicino a quello di una donna. Nel mondo romano l’apparenza fisica e il temperamento attribuito agli eunuchi erano di richiamo costante all’inquietante plasticità del corpo maschile. Come lasciava intendere Galeno nel suo Trattato sul Seme, un deficit di calore nella prima infanzia poteva far ricadere il corpo maschile in uno stato di indifferenziazione primaria [Brown, 1988, p. 31].
Più tardi sarà Erasmo da Rotterdam a riprendere il tema della mascolinità come obiettivo da raggiungere con un disciplinato apprendimento. In una lettera del 1527 esprimeva infatti il desiderio di uno stile di scrittura virile, «più genuino, più conciso, più efficace, meno ornato e più mascolino». Ciò appare sorprendente in un uomo che aveva scritto l’Elogio della follia, adottando volutamente lo stile di una vecchia donna chiacchierona, e che veniva spesso accusato nelle polemiche con gli umanisti di avere una loquacità femminile. Eppure proprio lui, appellandosi al mondo dell’antichità, voleva riscoprire uno stile meno «asiatico» e più vicino alla durezza e concisione degli spartani antichi [Parker, 1996]. Nello stesso periodo, in Inghilterra, Ben Jonson si appellava contro lo stile effemminato «alla Cicerone», per una lingua che avesse «ossa e nervi»: 102
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Diciamo di uno stile che è «carnale» quando ci sono molte perifrasi e giri di parole, e quando esso cresce e diventa grasso più del dovuto; arvina orationis, pieno di strutto e di sego […]. C’è però uno stile, al contrario, che non ha meno sangue o meno carne, né meno corpo. Solo che è più solido di ossa e tendini: ossa habent et nervos [Jonson, Timber or Discoveries, VIII: 626-627].
Questa virilitas la si doveva apprendere, e non era scontato che gli uomini l’avessero «di natura». Lo stile virile era frutto di un esercizio e andava adottato soprattutto in certe circostanze e per certi discorsi [Fenster, 1994; Hadley, 1998; Jerome Cohen, Wheeler, 1997; Murray, 1999.]
Maschilità e mascolinità D’altro canto, l’idea che la mascolinità sia variabile è presente nella definizione stessa che se ne dà nei dizionari, che distinguono tra maschilità e mascolinità. La maschilità, secondo il dizionario Devoto-Oli, è «partecipazione a caratteri fisiologicamente e tradizionalmente propri del maschio». La mascolinità, invece, è una «qualità definita dalla presenza di caratteri accentuatamente maschili». La prima è una definizione di modi, la seconda di intensità. Solo che la seconda sembra sia l’unica modalità con cui la prima possa esprimersi. La maschilità è una virtualità, il suo dispiegarsi è la mascolinità. Si può essere maschi, ma non virili, si può essere uomini, ma poco «ossa e nervi». Ogni epoca e cultura mostra il suo ideale di virilità per mostrare l’inadeguatezza, l’imbarazzo o l’imbranataggine di gran parte degli uomini a questo ideale. Si badi che nella definizione di femminilità c’è la stessa idea di gradiente, mentre è assente il vocabolo «femminità» che dovrebbe definire una condizione «stabile» e quasi archetipica, come se le donne fossero donne già nelle loro fluttuazioni di genere.
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Non farcela in India: l’erezione a cura della comunità In alcuni casi l’intera comunità viene incontro alle «disfunzioni maschili» (non è proprio intorno a esse come «insuccesso» che si gioca la differenza tra imbranamento e imbarazzo?). E dà loro un inquadramento che consente all’identità dei giovani maschi di ridefinirsi e di accettare il proprio «non farcela». Si tratta di nuovo di impotenza. Questa volta non è al singolo maschio che si dà l’incarico di riattaccarselo, ma è tutta la comunità a fare da legante. Come se la debolezza andasse tematizzata, ma poi scaricata sull’insieme dei vicini e dei circostanti. Nel Tamilnadu, in India, c’è una ninfa, Mohini, che è alla base del turbamento e delle turbe maschili a cui vanno soggetti i giovani uomini. L’oggetto dell’azione di Mohini, una ninfa ambigua e malefica, è il sesso. La sua ossessione è di accoppiarsi. Essa si pone tra il giovane e la sua sposa o tra il giovane promesso e i genitori. La Mohini appare come una donna bellissima, vestita di bianco e circondata da un forte profumo di gelsomino. Seduce gli adolescenti e i giovani uomini sposati e si abbandona con essi a un sesso sfrenato fin quando questi non sono del tutto spossati. Ciò accade in uno stato onirico, ma l’effetto è di renderli impotenti con le loro donne. L’impotenza – spesso dovuta a matrimoni precoci e tra sconosciuti, al contesto di imposizione, all’immaginazione erotica concentrata su figure femminili troppo forti come quelle della mitologia indiana e a un sistema fortemente matriarcale – viene così «smaltita». I giovani si lasciano cadere (anche per difendersi da una sessualità non gradita) in uno stato di spossatezza e deliquio, in uno stato di possessione da cui possono uscire solo se aiutati dalle loro famiglie e da un indovino-guaritore (pucart). Uno dei rituali per liberarsi dalla Mohini prevede la nudità. Il giovane si deve spogliare per invertire i ruoli nella seduzione e per far fuggire così la ninfa. Un’altra cura coinvolge le donne della famiglia del giovane, che per quindici giorni devono digiunare e rivolgersi a Sakti, la divinità dalla «castità potente», simbolo della 104
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forza femminile e garante della capacità femminile di gestire le pulsioni sessuali. All’iperattività di Mohini, che potrebbe richiamare a una sessualità squilibrata e vorace, risponde l’intera comunità femminile intorno al giovane per dimostrare che esiste una «gestione» della seduzione e della sessualità di cui esse sono garanti. Pulsioni omosessuali maschili rimaste inespresse, desideri non assopiti di donna da parte di celibi dai sogni umidi, paura paralizzante di fronte alla sposa novella o nei confronti della madre che vive sotto lo stesso tetto della giovane coppia, la Mohini gioca in tutti questi casi un ruolo per la sua natura ambigua. Ninfa malefica, grande seduttrice in bianco, che possiede l’anima e il corpo dell’uomo inibito, è l’amante insoddisfatta di una virilità incontrollata. E il sintomo di una sessualità maschile dolorosa. Al celibe offre il sesso sognato; al giovane maritato, la via di una distrazione, di un adulterio, o il modo di andare oltre l’impotenza; alla tentazione omosessuale essa imprime i caratteri della seduzione femminile. La Mohini non resta mai incinta. Il posseduto è ricondotto dalle sue maniere «nel campo femminile» [Racine, 1999].
Qui l’ansia da performance di cui soffrono i giovani uomini prende corpo nel fantasma potente di una donna invisibile. L’impotenza, figura prima dell’imbranamento e dell’imbarazzo come difesa maschile, trova una sua messa in scena sociale. Non sappiamo quanto efficacemente. Quello che importa è che l’inquietante plasticità del «corpo maschile» venga tematizzata. Siamo dentro a una società che non deve ancora «spiare» il corpo maschile nel suo «ribellarsi» e nel suo non essere conforme alla performance richiesta. Qui la ribellione e la rinuncia alla potenza maschile (l’impotenza come imbarazzo del pene) viene assunta all’interno di un imbarazzo generale non solo del corpo del giovane uomo ma del corpo delle donne e della comunità nell’insieme. Non siamo nel regime di controllo della «potenza maschile» che è in vigore in Occidente – ce lo ricordano sia Foucault sia Illich – da prima ancora che venga inventato il controllo della fer105
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tilità femminile. È Pierre Darmon [1979] che ha studiato come il «Tribunale dell’impotenza e della virilità» diventi attivo in Francia un secolo prima del controllo clinico sugli organi genitali femminili. D’altro canto, l’«invenzione medica» dell’omosessualità come devianza nasce all’interno dell’ossessione per l’osservazione e il controllo del «funzionamento normale del maschio». Nella storia delle discipline dei corpi moderni dal XVIII secolo a oggi, nessuna dea o ninfa salva i corpi dei maschi riluttanti dall’infamante stigma del «non farcela».
Terzi sessi Data l’idealità delle identità sessuali e la realtà delle identità fluttuanti, piene di imbranamenti e di imbarazzi, è chiaro che, in molti casi, alcuni individui possono rifiutarsi di corrispondere alle prime, astratte ed esigenti, e preferiscono manifestare il proprio disagio aderendo alle seconde, inquietanti e plastiche. Il terzo sesso [Herdt, 1993] o, meglio, «i terzi sessi» sono sempre esistiti, declinando nei più vari modi, con comportamenti, esagerazioni, occultamenti, travestimenti e inversioni, tutti i gradienti della mascolinità e della femminilità [Garber, 1992]. Dai berdache, uomini che vivevano come donne tra gli indiani d’America, agli Hjiras dell’India, una quasi casta di «né uomini né donne», ma esperti e ricercati per la loro estrema raffinatezza e competenza nelle arti femminili e domestiche [Nanda, 1990], ai femminielli napoletani, accettati nel paesaggio popolare al punto da consentirne le nozze davanti alla chiesa al tramonto e da accettare come ovvio che adottino bambini [D’Agostino, 2000]. Fino al caso, oggi, dei concorsi di bellezza nell’arcipelago delle Filippine riservati solo a maschi travestiti da donne (e da donne «americane»), sfilate frequentate da un pubblico «normale» di famiglie e di eterosessuali, perché considerate come l’apice della bellezza fisica [Johnson, 1997]. D’altro canto, la moda per prima, dalle sue origini, ha giocato con il 106
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travestimento di «genere» per creare «generi dubbi e ambigui», a cominciare dal Macaroni Dress dei dandy travestiti all’italiana nell’Inghilterra del XVIII secolo [McNeil, 1999]. Il disagio del dover corrispondere a un genere ideale si può manifestare così. È la maniera stessa con cui il genere si presenta, d’altro canto, come norma e non come pratica che consente queste fluitazioni [Murphy, 1994]. Esse si costituiscono proprio perché c’è una polarità da cui allontanarsi e tra cui oscillare, e a volte per mettere in scena la paradossalità dell’ideale. Come dice Nadia Fusini [1995]: «Non c’è donna più femminile di un travestito».
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capitolo settimo
Apprendistato
La preoccupazione che i ragazzi non diventino uomini è molto più comune della preoccupazione che le ragazze non diventino donne. Margaret Mead, Maschio e femmina
L’adolescente randagio Non c’è forse condizione più miserabile nella nostra società di quella del ragazzino adolescente, squassato com’è tra i messaggi della società che lo vorrebbero «consumatore indipendente» e quelli di un sistema familiare iperprotettivo. Le parole di Margaret Mead potrebbero essere applicate anche alla nostra società, se solo ci fosse una tale preoccupazione nei confronti degli adolescenti maschi: fatto sta che invece la censura di tutto ciò che riguarda la «differenza maschile» ha già operato in profondità. A chi obietta che per un adolescente maschio è difficile orientarsi tra i modelli di mascolinità, viene ribattuto che è meglio così e che è inevitabile visto il mondo patriarcale da cui usciamo. L’adolescenza viene af109
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frontata con la stessa serietà di un rimpasto politico, e sembra che non sia politically correct porre la questione. Essa resta aperta, però, e crescere come ragazzini è sempre più difficile. L’adolescenza rimane il mondo oscuro della nostra società, un’età considerata nell’insieme «imperfetta» e, per fortuna, «di transizione». Abbiamo perso il senso prezioso dei riti di passaggio nella costituzione di una compagine generazionale. Il libro di Bruno Bettelheim, Ferite simboliche del 1962, è ancora attualissimo. In assenza di riti puberali di passaggio, gli adolescenti devono «provocarsi da soli le ferite», le rotture che li porteranno a una condizione adulta. Siamo figli di una concezione giovanilistica della vita che ha esaurito nel sessantottismo il problema dei distacchi generazionali, e li ha consumati in politica, lasciando intatte le questioni «normali» del taglio tra padri e figli, madri e figli. Una volta abdicato il sogno della rivoluzione, la rivolta contro i padri viene assorbita e il taglio rimarginato dalle madri. Gli adolescenti sono condannati a desiderare vagamente una rottura che tutti si aspettano da loro, ma per la quale l’ambulanza è sempre pronta. E si aggirano sperduti in una condizione che ha come unico sollievo la durata: da transitoria può diventare lunga, anzi eterna [Bly, 1996]. Come se il Giovanni di Ferro della favola dei fratelli Grimm invece di fuggire dalla reggia paterna con l’uomo peloso e selvatico scegliesse di installarvisi in una roulotte.
Il latte dei maschi Margaret Mead lo aveva detto già alla fine della guerra: la condizione dei maschietti, anche nelle culture «primitive», è una condizione particolare, delicata. Intrisi come siamo di spiegazioni edipiche, non siamo stati capaci di elaborare un discorso decente sull’infanzia maschile. Come se Edipo ci avesse regalato l’idea che la frattura è una tragedia personale (da evitare) e non una questione di cui le società possono farsi carico. 110
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Le società studiate dalla Mead e dal marito Gregory Bateson dimostrano una consapevolezza della difficoltà di «crescere» che poche delle nostre società hanno mantenuto. Le loro analisi, insieme agli studi di Malinowski, avevano già incrinato la fiducia stessa nell’«Edipo» come chiave di tutta la questione. Lo ricorda Ugo Fabietti nell’introduzione alla ristampa di Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi di Malinowski [2000]. Il litigio tra psicoanalisi e scienze umane è cominciato allora e non accenna a ricomporsi. Gli antropologi hanno dalla loro un’esperienza di «altre società» che rende un po’ ridicole le pretese freudiane di gettare l’ombra della società viennese su tutto l’orbe terracqueo. Ci sono società senza «Edipo» e società dove la relazione tra filiazione e paternità non esiste [Pradelles de Latour, 1999], in cui si cresce maschi in relazione a uno o più zii. Questo però non implica che sia meno difficile crescere. Perché l’«Edipo» consiste, se vogliamo davvero tirarlo in ballo, nell’«incerta identità maschile», nell’immagine che l’intera società ha del destino maschile. Il bambino allattato al seno della madre samoana riceve, filtrato dal seno materno, l’assenza di modelli di contatto a cui aderire immediatamente. Riceve l’aspettativa che l’intero gruppo intorno a lui ha nei confronti dei compiti riservati ai maschi. Leggiamo questa bellissima spiegazione della Mead: La prima legge fissa è che maschi e femmine sono ugualmente allattati dalla madre: quindi le femmine hanno un esempio di condotta complementare con un essere del proprio sesso, mentre i maschi hanno relazioni complementari con un essere del sesso opposto. Sia che il bimbo di tre mesi possa comprendere da solo le differenze fra i due sessi, sia che non possa comprenderle, la madre è in grado di farlo perfettamente e il suo sorriso, il suo braccio, tutta la posizione del suo corpo sono consapevoli – pur in maniera diversa a seconda delle società e dei temperamenti – di questo contrasto. La bambina è per la madre una piccola copia di se stessa: «Ella prova ora ciò che io provai un tempo». Questo è il commento introspettivo facilmente comunicato dalla madre alla bimba. Esso aiuta la bambina ad accettare l’identificazione con il proprio sesso semplicemente e na-
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turalmente, come una situazione che esiste e non richiede cambiamenti né complicazioni. Ma per il bambino il commento materno sarà inevitabilmente: «Per lui è diverso». L’atto di ricevere non si addice ugualmente ai maschi e alle femmine. In termini da «adulti», qui i ruoli femminile e maschile sono rovesciati. «Io introduco e lui riceve». Prima di farsi uomo, il bimbo dovrà cambiare questo atteggiamento di accettazione passiva. Così, la prima esperienza della bambina si riduce al contatto con un essere simile a lei. La madre e la bimba seguono lo stesso modello e la supposizione materna che i loro polsi battano all’unisono opera in modo immediato sullo sviluppo della bambina. La bimba impara «io sono». Il bambino impara che deve cominciare a differenziarsi dalla persona più vicina a lui, e che se non si differenzierà egli non esisterà affatto. Il sorriso della madre, la leggera civetteria, forse la stretta aggressiva delle sue braccia, o l’eccessiva passività con la quale gli offre il seno, gli dicono che egli deve scoprire la propria natura, cioè di essere un maschio e di non essere una femmina. Così, proprio all’inizio della vita, il maschio è obbligato a compiere uno sforzo, un tentativo di maggior autodifferenziazione, mentre la femmina è invitata a una tranquilla accettazione di se stessa [Mead, 1949, trad. it. 1962, pp. 132-133].
Come se per crescere nel proprio genere i maschietti dovessero scoprire di «non accettarsi», di non essere se non al futuro. Sarà inutile dire loro – e oggi si usa molto – che il problema è che non si sanno accettare, quando è proprio in questa ansia e in questa insoddisfazione che risiede la loro identità da fare. L’adolescenza diventa lo sforzo di molti anni per differenziarsi, per trovare un modo di avere «successo» che non corrisponda al «successo» materno. Altro che invidia del pene! In questo potrebbe consistere il rapporto tra mascolinità e orgoglio: cioè il bisogno di prestigio che annulli il prestigio concesso a ogni donna. Non sembra necessario che gli uomini superino le donne in qualcosa di particolare, ma piuttosto che essi trovino una ragione di sicurezza nel successo [Mead, 1949, trad. it. 1962, p. 142].
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E ancora, con maggiore incisività: L’eterno problema della civiltà è di stabilire il ruolo del maschio in modo sufficientemente soddisfacente affinché egli possa avere, nel corso della sua vita, l’effettiva sensazione di un successo inconfutabile, di quel successo che ha intravisto durante l’infanzia quando ha capito le soddisfazioni che procura alle donne il parto. Si tratti di fare giardini, allevare bestiame, uccidere selvaggina, abbattere nemici o occuparsi di azioni in Borsa, l’uomo ha bisogno di riuscire [Mead, 1949, trad. it. 1962, p. 143].
Sembra quasi una condanna, ma si tratta invece di una «condizione». Il maschio adolescente ha un suo «destino da scoprire» e sa che può far cilecca, che il fallimento è sempre possibile. È un fallito in potenza, ma con tutta la dignità del Guerin Meschino, di Gilgamesh o di Peter Camenzind. Non c’è nulla di mitico in tutto ciò. Al contrario, c’è il magma di una «non definizione»: il maschio porta in sé la ferita da non rimarginare di un’identità flou che deve trovare i suoi contorni, che deve soprattutto cercarsi. Abbiamo visto prima come i suoi «eccessi» siano dovuti a questa scarsa messa a fuoco primaria. Per questo oggi nella nostra società l’unico rito di passaggio per gli adolescenti maschi è la loro «effettiva solitudine» [Phillips, 1993]. Sono soli come cani randagi, soli perché i padri non li possono aiutare a fare un percorso. Li potrebbero soltanto indirizzare verso la cascata, come fanno gli Achuar della selva ecuadoriana con i loro bambini: mandarli nella foresta a perdersi fin quando, trovata la cascata, vi dormano accanto e aspettino in sogno Aronshon, lo spirito e la visione del loro destino [Descola, 1986]. E può capitare che questa visione non arrivi mai. Allora dovranno fare i conti con l’insuccesso, e magari elaborarlo con quell’imbarazzo e quella vergogna di cui abbiamo già parlato.
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Il training dell’incertezza La nostra società ha pochissimo rispetto per questa fase: ai maschi adolescenti è consentito perdersi solo «sotto controllo». L’incertezza di questo periodo è indisponente: una rivolta che non lo è fino in fondo, un fluttuare che pare voler solo dimostrare la necessità di fluttuare (non si potrebbe pensare che il transgender è un modo di riprendersi il perdersi nella foresta?). Ma è la mascolinità che di per sé è un apprendistato per prova ed errore, un «vediamo se ce la fai». Lì si gioca la fluttuazione del genere maschile. «Chissà se sarai all’altezza». Nelle pratiche di apprendistato, nel training che le culture elaborano per modellare la mascolinità, ci sono delle singolari coincidenze, per esempio quella tra la capacità di seguire le regole e quella di infrangerle. La nostra società non è così «fine». Prende gli adolescenti come un «problema di ordine pubblico» [Caputo, 1995; Schade-Poulsen, 1995] e non come l’ennesimo ripresentarsi del grande problema della vita. In altre culture l’apprendistato maschile passava invece per forme di «eccezione» che erano fedeli alle fluttuazioni dell’identità maschile in formazione. Così troviamo che l’apprendistato maschile tra i montanari di Creta studiati da Herzfeld [1980] e tra i giovani dell’antica Sparta di cui parla Jean-Pierre Vernant avevano molto in comune. I bambini dei pastori cretesi diventano uomini quando apprendono la qualità dell’egoismos, della prodezza individuale, e questo avviene solo quando sono capaci di rubare una pecora senza farsi scoprire. C’è tra questi montanari una differenza tra l’«essere un brav’uomo» e l’«essere bravo nell’essere uomo», una differenza performativa. La mascolinità va «performata» perché si possa dimostrare. È il modo di fare le cose che ne determina la qualità maschile: l’accelerazione o la trasformazione stilistica di un’azione, si tratti di una danza o della perizia nel parlare o nel commettere un furto, che dimostrino «personalità». Si tratta di farlo con la giusta «inclinazione», con flair, con il «giusto fiuto». Così bisogna rubare 114
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una pecora in modo che la vittima capisca subito chi è stato (dalla perizia nel fare il furto) e scelga se essergli nemico o alleato. Le alleanze si stabiliscono proprio a partire da queste sottrazioni operate con destrezza. Dalla danza al furto è la retorica di questi atti che conta più degli atti stessi. Più grande è il rischio che si corre nel furto, maggiore è la simasia di cui si fa esperienza, una qualità associata al coraggio, alla destrezza e all’insubordinazione, ciò che rende i montanari cretesi dei «veri greci». Vernant, nel magnifico saggio Tra onta e gloria. L’identità del giovane spartiata [1989], racconta le prove che i giovani spartiati dovevano superare per diventare uomini. Anch’essi dovevano sviluppare un’abilità nel furto: infatti, se scoperti a rubare i formaggi dall’altare della dea Ortia, venivano frustati perché non erano stati abbastanza accorti e «furtivi». Il training, l’agoge, prevedeva non solo la resistenza al dolore e alla fatica, ma anche ai piaceri e alle seduzioni, passandovi in mezzo senza perdersi. L’educazione dei giovani tendeva a inculcare loro la capacità di essere umiliati – proprio loro, la crema della gioventù spartiata che avrebbe dovuto governare la città – e la capacità di rispettare le regole senza umiliarsi. Imparare a non essere imbranati senza però diventare rigidi. Oltre al furto (klope), altre prove erano quelle del divertimento sfrenato, della violenza (bia) e dell’incantesimo (goeteia). Quest’ultimo consisteva nel predisporre intorno ai giovani uno scenario composto da esseri terrificanti e orribili, presentati come pericoli reali, oppure ricolmo di tutte le seduzioni del piacere e le tentazioni della sensualità. I giovani imparavano, passandovi attraverso e anche abbandonandovisi, a resistere a tutto ciò.
Le orme dei padri In altre culture la «negatività maschile» viene tematizzata e ne vengono mostrate le opposte conseguenze. A volte i giovani maschi devono apprendere a seguire la «rabbia dei padri» [Lloyd, 1998]. 115
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Fino a qualche decennio fa tra gli Ilongot delle Filippine (isola di Luzón) i maschi crescevano imitando i feroci padri e nonni, che erano pervasi da uno spirito attivo: il liget. Quando agli Ilongot, maschi e femmine, si chiede perché gli uomini sono più «arrabbiati» delle donne, essi rispondono che, mentre la sussistenza del gruppo è dovuta al sudore di entrambi, il liget, questa rabbia incontenibile, è una forza asociale e distruttiva. I maschi, però, parlano anche di prodezza, di forza e di audacia, di abilità e di mancanza di paura, di voglia di celebrare e far festa, di viaggiare, di conoscere, di andar lontano e, poiché il liget è concentrato nello sperma, di vitalità. Esso è una forza oscura che induce gli uomini in uno stato incerto e oscuro che li spinge ad «andar per posti». E andar per posti significa cercare teste da tagliare. Ciò accade in occasione di lutti. Se un familiare o un amico viene ucciso o muore, per malattia o cause naturali, il lutto si trasforma in rabbia e il liget trova la maniera di compiersi nel taglio della testa di un malcapitato nemico [Zimbalist Rosaldo, 1980]. I ragazzi e gli adolescenti si preparano ad assumere il posto dei padri nella gestione del liget e molti canti celebrano la nostalgia dei vecchi per il liget perduto e la voglia dei giovani di possederne.
Educare all’unisex o alla differenza? Siamo di nuovo nell’ambito dei «modi bruschi» e della violenza. Ciò che qui ci interessa è lo «stato incerto e oscuro che spinge gli uomini ad andar per posti», il fatto che una società abbia tematizzato la «randagità» maschile. Torniamo sui nostri passi. Per tutto ciò che è stato già detto in questo libro, è chiaro che la «differenza» maschile non è una costellazione fissa nei modi, ma lo è nel suo «scarto». Per crescere come maschi, non bisogna crescere come donne. Come mi permetto di dire questo in una società come la nostra che «finalmente» ha scoperto la correttezza politica dell’unisex? 116
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Per quale motivo l’unisex dovrebbe essere meglio, sempre e dovunque, di un’attenzione alla differenza? La risposta tautologica è che si tratta di un «progresso», una risposta che «inventa la realtà» a prescindere da essa. È progresso tutto ciò che è tendenza e tutto ciò che è tendenza «lo decido io». All’interno del discorso unisex c’è un’ideologia roosveltiana che è puro passato: se poteva essere alla moda negli anni Sessanta, non lo è certamente più oggi. L’uguaglianza tra uomini e donne non implica l’obbligo di essere identici. Siamo nel campo del diritto, non in quello della politica di costume. In questo l’ideologia unisex è estremamente sciovinista e messianica: bisogna che tutti si adeguino al più presto, e questo gioco si fa confondendo diritti con comportamenti, ambiti di democrazia con obblighi a essere «moderni». Un discorso, questo, che riguarda direttamente anche l’educazione, il rapporto che una società decide di avere con le nuove generazioni. Il diritto di ogni coppia, a qualunque genere appartengano i suoi componenti, ad avere un figlio trova dall’altra parte dei diritti definiti per la prole? La prole «appartiene» a chi se ne definisce «famiglia» o c’è un diritto della prole ad avere accesso attraverso la famiglia a tutte le possibilità del proprio genere e del proprio sesso? Certo, in un regime di «crisi del genere» e di genere rotto, scollato, questo non è un discorso facile. Una coppia di donne può dare forse a un bambino più senso di mascolinità di un padre collerico o in crisi nera. E una coppia gay può allevare una bambina con un senso della femminilità che a una coppia mista può sfuggire. Rimane, però, la questione. E anche se non è «popolare» porla, essa rimane invariata: la nostra società ha ancora voglia e capacità di produrre differenze o deve rifarsi al verso dell’integrazione, dell’omogeneizzazione, dell’annullamento di tutte le differenze di cultura, sesso, religione? Sarebbe il momento non di decidere (su queste cose non si decide), ma di tirare in ballo le questioni, pulendosi le suole delle scarpe con le censure del politically correct. L’antropologia, se non fosse una disciplina timida, potrebbe farsi garante di questo dibattito, strappandolo al chiuso delle cliniche e 117
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ai divani degli analisti. Se c’è qualcosa che gli antropologi potrebbero rimproverare a tanta pratica analitica, è proprio di aver chiuso le questioni in un nuovo confessionale. Margaret Mead, ai suoi tempi, ebbe il merito di ricondurle in piazza e di invitare la società americana a guardarsi allo specchio. Oggi, questioni come quelle dell’identità di genere e dell’adolescenza «di genere» non sono «fatti privati», malattie o deviazioni, anoressie o bulimie, ma la sostanza di cui è fatto il nostro presente. Se vogliamo finalmente diventare una società capace di guardarsi, di creare una cultura dei «fatti della vita», allora è tempo che le scienze umane e l’antropologia, con il suo carico di «fenomenologia», scendano in campo e facciano giocare le proprie capacità umanizzatrici.
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capitolo ottavo
Legami maschili
Ma come fanno i marinai a baciarsi tra di loro, e a rimanere veri uomini però? Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Ma come fanno i marinai
Boys don’t cry Ho appena riagganciato la cornetta. In una lunga conversazione telefonica ho raccontato a un amico, per allusioni e scherzi, cose che non direi ad altri. Anche lui con grande rilassatezza mi ha parlato di sé e di amici comuni. Ci siamo insultati un paio di volte, abbiamo parlato, esagerandoli, dei nostri stati d’animo e ci siamo reciprocamente presi in giro. Nulla di «serio» è stato detto, eppure mi sento estremamente allegro, come se sentissi di non essere il solo a provare certe difficoltà, come se la complicità dell’amico mi liberasse dal grigiume di questo pomeriggio e dal dover prendere tutto sempre sul serio. In italiano si può dire che «abbiamo cazzeggiato», abbiamo cioè giocato con cose serie come se non lo fossero, e «ci 119
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siamo dati il tempo», abbiamo allargato il tempo del nostro vissuto sospendendolo a un gioco, «che è come se conoscessimo», mettendoci all’unisono. Il gioco è stato veloce, rapido, fatto di botta e risposta, di allusioni, un gioco che soprattutto aveva una regola principale: l’immediatezza e l’originalità. Non avremmo sopportato dall’altro nessuna frase di rito, nessun tipo di convenevoli. Ci siamo fatti un discorso maschio, dove l’attenzione reciproca non doveva scadere mai nella reciproca consolazione e dove i guai vanno riguardati insieme come una dannata parte inevitabile della vita. Come se per fare questo discorso maschio occorresse «già essere vissuti» e come se questa conversazione presupponesse allo stesso tempo un pudore e un’estrema spregiudicatezza. Questi sono i miei amici, queste le persone che voglio sentire quando ho bisogno di estrema franchezza da un lato e di senso della contemporaneità dall’altro. L’amicizia è una sospensione del tempo sul piano della diacronia. Il proprio destino viene allargato lungo la linea o la piattaforma o la piazza che ci offrono gli altri. Ho questa esperienza da quando ero ragazzo, sul muretto di fronte al mare, a scuola, a passeggio e in piazza. Essere maschio con i maschi significa saper giocare questo gioco di regole non scritte, in cui, qui al Sud, la concisione è fondamentale così come il rifiuto che lo scambio di esperienza sia il primo fine della relazione. Per essere amici non bisogna dirsi nulla, ma bisogna saper dire, con parole che «non c’entrano» e con gesti, la relazione stessa. L’amicizia maschile è un guardare distrattamente nella stessa direzione presupponendo la presenza dell’altro, ma non volendola esaurire o pretendere. Boys don’t cry, certamente, ma non solo nel senso crudele che ai maschietti non è consentito piangere, ma nel senso più profondo che il pianto viene asciugato nella durezza di un richiamo alla dignità reciproca. Tu mi sei d’appoggio come amico proprio perché non lasci che io mi abbandoni del tutto all’onda del dolore o della felicità. Mi sei amico perché possiamo fermarci insieme a guardare cosa ci avviene senza commenti o con commenti non pietistici. Gli uomini non piangono perché assor120
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bono il pianto sul parapetto del muro a cui si appoggiano insieme per commentare con umore la vita. È quanto si raccontano Ravelstein e Chick nel libro di Bellow [2000]. Un’amicizia maschile che suscita la gelosia di alcune donne intorno. Un’amicizia, soprattutto, da cui si commenta insieme, emergendone di tanto in tanto, la vita che continua o che finisce. Un rapporto privilegiato tra maschi, dove il fatto che uno dei due sia un omosessuale non c’entra nulla con l’amicizia. Che ricorda gli ultimi incontri che Samuel Beckett ebbe con i suoi amici in ospedale, asciutti, pieni di ironia e di «veniamo al dunque», senza mai scadere nella pietà di sé, ma sempre nel campo di una «resistenza», di un «sono ancora qui» da condividere, da «compartire».
Male bonding Prima di ogni autocoscienza, o prima di ogni «parliamone», esisteva questo: il valore della compresenza, che per fortuna non dava consigli, esplicazioni psicologiche o giudizi morali. L’amicizia maschile è una constatazione, cioè una compagnia di status, uno spazio per stare contemporaneamente, per quedarse aquí, per fermarsi, «trovarsi qui»; uno spazio in cui gli uomini atteggiano il proprio corpo in una posa inequivocabilmente «maschile», che vuole comunicare all’esterno la propria eterosessualità senza negare il bisogno di essere corpi accanto, insieme, con l’imbarazzo e la padronanza di esserlo. Come fanno? Come fanno gli uomini maltesi a prepararsi tutto l’anno alla processione di San Pawl [Mitchell, 1998]? Come fanno i ragazzi palestinesi dell’intifada a pensare che il carcere israeliano e a volte la tortura li renda veri uomini solo perché scoprono la solidarietà dei compagni e possono mostrare ai soldati israeliani che loro non lo sono abbastanza [Peteet, 1994]? Come fanno gli uomini dei caffè turchi a giocare tutto il giorno tra loro a domino senza mai vedere una donna? Come fanno gli uomini a passare 121
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tanto tempo dal barbiere a parlare di politica, di donne, e mai di sé? Come fanno i camerieri del ristorante ebraico tunisino «Baby», a Parigi, a danzare tra loro, con le grandi pance, a darsi perfino colpi di pancia e a sudare insieme mentre cantano? Come fanno «a rimanere veri uomini, però»? Difficile spiegarlo, e soprattutto inutile, nel senso che a questa domanda non si può rispondere dicendo che così gli uomini «scaricano tutta l’omosessualità latente». Siamo davvero stanchi di questa facile retorica della bisessualità, come lo era Foucault per il quale era ora di sbarazzarsi di questa ossessione freudiana che l’unica sessualità normale sarebbe la bisessualità (un’altra concezione borghese e moralista di quello che si dovrebbe essere se si fosse normali). Sulla maniera che hanno gli uomini di «stare tra loro» si sono spesi non fiumi di parole (le descrizioni vere, serie, fatte con osservazioni sul campo sono pochissime), ma fiumi di definizioni imbarazzate. Si è parlato di «omofilia», di «spazio degli uomini», di «socialità maschile», di «esclusività maschile» e infine di male bonding, di «legame maschile». Questo pare sia il termine più neutro finora trovato per non giudicare qualunque relazione tra uomini da un lato come omosessuale e dall’altro come omofoba, cioè antiomosessuale. Pare che ai maschi eterosessuali non sia consentita a cuor leggero nessuna vicinanza al corpo di altri maschi.
Giochi di mano È interessante, e anche paradossale, il caso di Gary Gossen, un bravissimo antropologo americano di Kansas City che ha passato molti anni a San Juan de Chamula, in Chiapas, tra gli Tzotzil Chamula (i discendenti delle popolazioni maya). In un saggio poco conosciuto [Gossen, 1993], racconta di un fatto accadutogli perché a un certo punto gli indios hanno cominciato a considerarlo come uno di loro. Alla fine di una grande festa del pueblo, gli uomini più autorevoli lo hanno invitato a entrare nella casa suda122
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toria (pus in tzotzil, o bagno di vapore), che in quei paesi fa parte di ogni abitazione che si rispetti. È una costruzione bassa, dove si entra carponi e si sta insieme a sudare per spurgare il corpo e lo spirito. Il vapore, il fumo, il calore e il colpirsi con rami secchi e odorosi fanno il resto. Se ne esce purificati e tonificati come in ogni hammam o sauna finlandese. Ma all’antropologo capita una cosa strana. Un amico influente del pueblo, per manifestargli in maniera sostanziosa l’accoglienza in mezzo agli uomini del paese (che nella sauna sono completamente nudi), comincia a colpirlo con i rami odorosi e poi mette la sua mano tra le cosce dell’americano e presa la mano di questi se la pone in mezzo alle sue. La cosa dura pochi secondi e a tutti sembra normalissima, ma l’antropologo rimane piuttosto perplesso, e infatti dedica trenta pagine all’episodio (e solo quindici anni dopo che è avvenuto) per spiegarsi come mai questo gesto non sia stato percepito da nessuno come un approccio omosessuale, ma al contrario come un ingresso nel gruppo dei maschi chamula, come un gesto che un padrino fa per esprimere il compadrazgo che lo lega a un’altra persona di sesso maschile. Un gesto di «constatazione» del sesso maschile dell’altro, della sua «valenza sessuale» (in entrambi i sensi di qualità maschile e di uomo rispettabile). Probabilmente qualunque uomo del Sud Italia può raccontare storie di gesti analoghi anche solo accennati. Ma la questione rimane aperta. Come fanno i marinai? Nel senso che nella vicinanza maschile c’è spesso qualcosa di diverso dall’attrazione reciproca. Se il male bonding è qualcosa di consistente al di là di una pura definizione, allora si tratta di una relazione mimetica: è per definire la propria mascolinità che i maschi stanno insieme. C’è un parallelismo dei corpi, una pratica in cui si apprende a essere corpi maschili. I corpi maschili in piazza sono un corpo collettivo che fa dei gesti e prende delle pose comuni. Nel frequentarsi i maschi «si caricano» di mascolinità. Come dice Wittgenstein: Nell’aspetto è presente una fisionomia che in seguito sparisce. E un
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po’ come se ci fosse un volto che dapprima imito e poi accetto senza imitarlo [Wittgenstein, 1947, trad. it. 1990, p. 519].
Acquisire un aspetto, una fisionomia, significa andare oltre la pura fisiologia (come ho accennato nel capitolo «Antropologia del maschio»). La mascolinità è un aspetto che si acquisisce per imitazione, e poi uno si dimentica di averla acquisita. O meglio, uno se ne dimentica perché il processo di apprendimento «continua». È stato Walter Benjamin a comprendere come il mimetismo sia alla base di buona parte dei fenomeni della comunicazione umana, linguaggio compreso [Benjamin, 1995; La Cecla, 1999]. I maschi si riflettono l’aspetto, se lo rimandano; in molta competitività e aggressività c’è questa procedura a riflesso e a rinforzo. Come se i maschi si guardassero dall’esterno in quanto corpi di un corpo.
L’omosessualità: una variazione maschile? Nel «processo di santificazione» di Foucault [Halperin, 1997], alcune battute d’arresto sono state segnate dall’accorgersi che non è poi un santo patrono così comodo. Se i Gender Studies, come oggi i Postfeminist e i Queer Studies, l’hanno assunto come protettore, gli rimproverano tuttavia [Butler, 1990] alcune stranezze nella teoria che cominciò a elaborare nell’introduzione al caso dell’ermafrodita Herculine Barbin [Foucault, 1978]. Una di queste sarebbe il suo ostinarsi a sostenere che gli omosessuali sono uomini; l’altra è l’attenzione che pose, alla fine della sua vita, al tema dell’amicizia maschile. È famoso un dialogo che Foucault intrattenne con un giovane che gli piaceva molto, con cui aveva stabilito un vivace scambio sui cambiamenti della concezione di omosessualità da una generazione all’altra (tra la generazione del filosofo e quella del giovane): In fondo, tu hai potuto praticare l’omosessualità così, quando ne avevi voglia, a momenti, in certe fasi della tua vita, senza mai doverti dire: «Ecco,
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poiché pratico l’omosessualità, sono omosessuale». Questa specie di deduzione, che si fa e che è molto netta, è psicologicamente difficile da accettare, le conseguenze sono pesanti, e queste conseguenze tu non le tiravi e non eri di fatto tenuto a tirarle. La categoria di omosessualità è stata inventata più tardi. Non esisteva, quello che esisteva era la sodomia, cioè un certo numero di pratiche sessuali che, queste sì, erano condannate, ma l’individuo omosessuale non esisteva. Quello che mi ha colpito nel tuo racconto è il fatto che, in effetti, vi si trovavano delle pratiche che potevano essere dominanti ed esclusive senza che ci si ponesse la questione: «Sono omosessuale?» [Voeltzer, 1978, pp. 33-34].
Si sa che Foucault, riguardo a questo argomento, aveva ripreso le tesi di un altro studioso, Guy Hocquenghem, al quale si ispirava quasi fedelmente (anche se poi si dimenticherà di citarlo nella sua opera). Nella pretesa di verità della scienza medica nei confronti dell’omosessuale, egli rintraccerà la matrice della «Volontà di sapere» di una società in cui il potere, invece di reprimere, produce con un lavoro di disvelamento tutto nuovo le «identità nascoste e anormali» delle persone. La società capitalista fabbrica l’omosessuale come produce il proletario, suscitando senza pausa il proprio limite. L’omosessualità è una fabbricazione del mondo normale […]. Ciò che viene fabbricato è una categoria psico-poliziesca: l’omosessualità, una divisione astratta del desiderio che permette di regimentare anche quelli che sfuggono, di mettere all’interno della legge ciò che è fuori legge. La categoria in questione e la parola stessa sono un’invenzione relativamente recente. L’imperialismo crescente di una società che vuole dare uno statuto a tutto ciò che è inclassificabile ha creato questa particolare situazione di squilibrio; fino alla fine del XVIII secolo coloro che rifiutano Dio, coloro che non sanno parlare e coloro che praticano la sodomia sono rinchiusi nella stessa prigione. Ma non appena la comparsa della psichiatria e del manicomio manifestano la capacità della società di inventare mezzi specifici per classificare l’inclassificabile (vedi Foucault, Storia della follia nell’età classica), il pensiero moderno
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crea una nuova malattia: l’omosessualità. Secondo Havelock Ellis (L’inversione sessuale), la parola omosessuale sarebbe stata inventata nel 1869 da un medico tedesco. Dividendo per meglio regnare, il pensiero pseudoscientifico ha trasformato l’intolleranza barbara in intolleranza civilizzata [Hocquenghem, 1972, p. 13].
Foucault riprenderà queste osservazioni parecchie volte, sempre rifacendosi all’idea che nella storia dell’omosessualità è solo di recente, soprattutto grazie alla sua categorizzazione medica e psichiatrica, che essa ha perso il carattere di una pratica sessuale, per assumere quello di un’identità sessuale, un’identità anormale. Foucault nota che i movimenti di liberazione degli anni sessanta hanno assunto questa definizione come buona, accettando in qualche modo il gioco dei poteri che hanno istituzionalizzato la sessualità «normale» e «anormale». L’affermazione che essere omosessuale è essere uomo, e che si ama questa ricerca di un modo di vita, va contro l’ideologia dei movimenti di liberazione degli anni Sessanta […]. L’omosessualità è un’occasione per riaprire potenzialità relazionali e affettive (e non qualità che sono intrinseche all’omosessualità), perché la posizione dell’omosessuale, in qualche modo di sbieco lungo le linee diagonali che può tracciare nel tessuto sociale, permette l’apparire di queste potenzialità [Foucault, 1981, p. 16].
L’amicizia maschile secondo Foucault Foucault ribadirà questo punto dicendo che la forza dell’omosessualità è di essere eversiva, un grimaldello per scoprire il preteso discorso di verità che vuole sistematizzare la sessualità come «un’identità di genere oggettiva e basata sulle pratiche sessuali»; e indicando il pericolo di una ghettizzazione dell’omosessualità, si richiamerà al valore di essa come varietà della mascolinità. Quando, come ricorda Didier Eribon [2000], inizierà a insegnare a Berkeley, 126
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trovandosi di fronte la cultura gay di San Francisco, comincerà una nuova fase del suo pensiero. Comincerà ad apprezzare il tentativo dei gay di San Francisco di costruire una cultura nuova, a parte. Vi vedrà un tentativo interessante di uscire dal ghetto dell’omosessualità intesa come sola pratica sessuale e vi troverà spunti per pensare a una de-sessualizzazione dell’omosessualità, considerata come un ampliamento del senso delle relazioni tra individui, fatto di nuove obbligazioni, generosità, solidarietà e condivisione. Sarà allora che inizierà a occuparsi di amicizia maschile nella storia, a partire dal mondo antico, greco e romano, e dai primi secoli del cristianesimo. In essi ravviserà qualcosa di enorme interesse per la ricerca di una nuova cultura maschile: Nel corso dei secoli, a partire dall’antichità, l’amicizia ha costituito un rapporto sociale molto importante all’interno del quale gli amici disponevano di una certa libertà, di un certo tipo di scelte (limitate, ben inteso), e che permetteva loro di vivere rapporti affettivi molto intensi. L’amicizia aveva anche implicazioni sociali e l’individuo era tenuto ad aiutare i suoi amici […]. Questo tipo di amicizia è scomparso tra il XVI e XVIII secolo, almeno dalle società maschili [Foucault, 1982, p. 744].
E ancora, nel corso di una delle ultime interviste rilasciata a una rivista sadomaso: L’omosessualità (come la intendo io: l’esistenza di rapporti sessuali tra uomini) è divenuta un problema a partire dal XVIII secolo. Noi la vediamo divenire un problema con la polizia e il sistema giuridico. E penso che se essa diventa un problema sociale, allora è perché l’amicizia è sparita. L’amicizia era talmente importante, tanto socialmente accettata, che nessuno si accorgeva che gli uomini avessero tra loro rapporti sessuali. Non si poteva nemmeno dire che non ne avessero, semplicemente non aveva importanza. Non c’era nessuna implicazione sociale, la cosa era culturalmente accettata […]. Una volta sparita l’amicizia come rapporto culturalmente accettato, si è posta la questione: «Cosa combinano insomma degli
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uomini che stanno insieme?». È a questo punto che il problema è apparso […]. La sparizione dell’amicizia come rapporto sociale e il fatto che l’omosessualità sia dichiarata un problema sociale, politico e medico fanno parte dello stesso processo [Foucault, 1982, pp. 744-745].
Che cosa combinano gli uomini quando sono insieme? Ecco apparire il sospetto, la stranezza, non può che esserci del losco dalla vicinanza di corpi biologicamente e culturalmente simili. Sembra di sentire Ma come fanno i marinai. Come se qualcosa che era considerato banale, ovvio, in gran parte delle società diventi oggetto di un’osservazione morbosa e spaventata, curiosa e normativa. Sembra che l’«agio» con cui i corpi maschili si frequentavano, «senza nemmeno pensarci», stando accanto per imitarsi e concorrere tra loro, diventi improvvisamente un’altra «scollatura» maschile. Questa volta non è il pene che si scolla dal suo proprietario, ma sono i corpi dei maschi a scollarsi tra loro. L’omosessualità, secondo Foucault, è il ritrovamento di questa colla, in termini nuovi, che non necessariamente resteranno «sessuali», se si vuole che una nuova cultura dell’affettività tra uomini abbia spazio nel futuro. Ancora sull’amicizia maschile, Foucault dirà di ricordarsi delle descrizioni che Georges Dumezil gli faceva degli anni della guerra e della nostalgia di un periodo di estrema ricchezza affettiva tra uomini: Avete dei soldati, dei giovani ufficiali che hanno passato mesi, anni, insieme. Durante la Grande Guerra, gli uomini vivevano sempre insieme, gli uni sugli altri, e per essi non era una cosa indifferente […]. Al di fuori di qualche discorso generale sul cameratismo, sulla fraternità di spirito, e di qualche testimonianza sparsa, che cosa sappiamo delle tempeste affettive, delle tempeste di cuore che possono essersi verificate? Ci si può domandare cosa fa sì che in queste guerre assurde, grottesche, in questi massacri infernali, la gente malgrado tutto abbia tenuto. Sicuramente a causa di un tessuto affettivo. Non voglio dire che è perché erano innamorati gli uni degli altri che continuavano a battersi. Ma l’onore, il coraggio, il
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non perdere la faccia, il sacrificio, uscire dalla trincea con il compagno accanto, davanti a lui, questo implicava una trama affettiva intensa. Non è per dire: «Ah, ecco l’omosessualità». Detesto questo genere di ragionamento. Ma là vi era senza dubbio una condizione, non la sola, che ha permesso quella vita infernale [Foucault, 1981, p. 167].
Si sa che uno dei progetti di Foucault era di scrivere una storia degli uomini nelle ultime grandi guerre, un testo su uomini e guerra. Anche qui, con l’acume che lo contraddistingueva, non per dimostrare che gli uomini sono necessariamente violenti (basterebbe leggersi Mario Rigoni Stern per capire come ci sia stata un’amicizia da una trincea all’altra, tra nemici, nonostante la guerra!), ma proprio per rintracciare in quell’orrore i principi di un’ascesi. Negli anni di Berkeley, Foucault intratteneva un ricco scambio epistolare con Peter Brown, il massimo studioso della verginità e dell’ascetismo nell’antichità: L’ascetismo come rinuncia al piacere ha una cattiva reputazione. Ma l’ascesi è altra cosa: è il lavoro che uno fa su di sé per trasformarsi o per fare apparire quello che fortunatamente non ci si aspetta. Non è forse il nostro problema attuale. Abbiamo congedato l’ascetismo. A noi sta l’avanzare in un’ascesi omosessuale che ci farà lavorare su noi stessi e inventare, non dico scoprire, una maniera di essere ancora improbabile [Foucault, 1981, p. 169].
Contro il sesso: il corpo queer, «bizzarro», come protesi Oggi c’è chi si appella a Saint Foucault, cancellando proprio quest’ultima parte del suo lavoro e interpretando il suo discorso sulla de-sessualizzazione in chiave queer [Butler, 1990, 1997, 1993; Lorber, 1994]. L’idea è che solo da una sessualità «bizzarra», «strana», «paradossale», «singolare», possa venire la liberazione della sessualità. Da questo punto di vista le pratiche lesbiche e omosex, il feti129
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cismo, il travestitismo, l’impianto e l’uso di organi artificiali, il sadomasochismo e le pratiche che trasformano tutto il corpo in organo sessuale sarebbero liberatorie. Le richieste e i desideri di coloro che oggi pensano che il genere e il sesso, insieme, siano solo divisioni imposte da un apparato repressivo della società, e plaudono a una de-sessualizzazione dell’identità, rimandano per un verso a un discorso estremo dell’individualismo americano e per l’altro alla radice della nostra modernità, di cui parla Giorgio Agamben [2000] per Paolo di Tarso. L’universalismo è l’abolizione di qualunque identità precedente legata all’origine, alla comunità di appartenenza, al censo, al sesso. Non ci saranno più uomini e donne, ma una sola nuova identità. Nella forza dei manifesti post-sessuali, per quanto blasfemi e intimidatori vogliano essere, c’è una buona dose di millenarismo. Come se Judith Butler e i Queer Studies, gli studi «bizzarri», fossero l’avanguardia di ciò che tutti dovremmo essere. E chiedono che la società si ristrutturi in base all’annullamento delle determinazioni di sesso tramite pratiche sessuali de-genitalizzate.
Tecnologie sessuali o sesso diffuso È lo stesso Foucault a mettere in guardia sull’idea che sia facile costruire una nuova cultura. Certo l’identità sessuale è da ridefinire, ma non la si può ridefinire in chiave individuale e soprattutto non è una questione di «tecnologie sessuali». La de-sessualizzazione di cui parla non è una nuova tecnica del kamasutra, ma l’embodiment della sessualità nel corpo sociale, ovvero l’incarnazione di una cultura della sessualità che non si faccia limitare alla genitalità. Non si tratta di trasformare il corpo maschile in un pene, in un enorme vibratore umano, come vorrebbe il manifesto post-sessuale [Preciado, 2000], ma piuttosto di trasformare tutto il corpo, compreso il pene, in volto. La de-sessualizzazione pensata dai Queer Studies è affascinata dalla trasformazione del corpo in macchina sessuale (un 130
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vecchio sogno ottocentesco), mentre la de-genitalizzazione di cui parla Foucault si occupa dei processi con cui una società è in grado di riappropriarsi di corpi inediti e viventi. La libertà conclamata da Judith Butler o dal manifesto controsessuale è una libertà liberale, una libertà in cui si concepisce l’individuo come staccato da una comunità, da un ambito, da un insieme di pratiche comuni. Ora, non è che questo non sia possibile (è ciò verso cui ci porta la frammentazione in monadi prodotta dalla globalizzazione attuale, altro millenarismo di ritorno), ma non è una cosa auspicabile all’interno del progetto di una nuova cultura da costruire. La sessualità non è una pratica solitaria, anzi presuppone una solidarietà sessuale e ovviamente anche una guerra dei sessi. Ma perché ci sia un campo di battaglia, occorre che ci si metta d’accordo sul luogo dello scontro e dell’armistizio. La sessualità queer o è davvero una sessualità in grado di costruire relazioni che diventano una cultura «acquisita», o si riduce a una rabbia che si autosoddisfa e che non si incorpora certo nella società. L’embodiment, l’incarnazione di una nuova cultura sessuale, interessa tutti, perché questa società nel suo insieme ha costretto i soggetti a un impoverimento spaventoso della sessualità, a una sua genitalizzazione e a una sua discriminante miseria di possibilità. Come ricorda Foucault, de-sessualizzare la società significa liberarla dallo sguardo normativo, morboso e indagatore, che parte dalla confessione, finisce sul lettino dell’analista e passa attraverso il controllo genetico e biologico. Ma l’idea che una certa queer society abbia delle tecniche sessuali ricorda più le pratiche di manipolazione genetica e di bioingegneria che l’idea delle tecniche del sé di cui parla Foucault. Le tecniche del sé non sono «protesi» ma proprio il contrario: l’assunzione nel proprio corpo della simbolicità delle relazioni, la trasformazione del proprio corpo dall’interno per una pratica ascetica dei rapporti affettivi e sessuali. Dove, ricorda Foucault, ascesi vuol dire solo controllo di sé, gestione del sé verso un fine. Quello che abbiamo smarrito in questo cammino non è la varietà delle protesi, ma la varietà dei corpi. Non è vero che è possibile es131
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sere solo o uomini o donne, si può anche essere l’uno e l’altra: infatti in gran parte delle culture, come è stato accennato nei capitoli precedenti, il genere non è definito in maniera così netta dalle pratiche sessuali e cambia a seconda delle fasi della vita, dei ruoli, delle posizioni sociali e dello sguardo altrui. C’è nella letteratura antropologica che oggi abbiamo a disposizione una fortissima riproposizione di questa ricchezza. Il genere maschile o femminile non è mai stato una sola cosa. Le identità si scambiavano, viaggiavano tra gradienti diversi, soprattutto avevano un’idea della pienezza sessuale che variava da luogo a luogo, da epoca a epoca, anche se certamente ne avevano una. C’era nell’essere «veri uomini» e «vere donne» un’idea di ascesi, di obiettivo da raggiungere, che costituiva le società e che non era necessariamente una camicia di forza delle identità. Nessuno credeva davvero di essere «vero uomo» o «vera donna»! In questo la «cultura mediterranea», rivista secondo le critiche attuali, interessa tutto il mondo del dibattito sull’identità sessuale, dalla cultura gay a quella post-femminista. Qui c’è un valore dato alla costruzione dell’identità sessuale che è proprio ciò che riguarda la possibile costruzione di un’identità sessuale «de-sessualizzata» e riversata su ogni sguardo, ogni maniera di camminare, di parlare, di prendere il caffè, di costruire le città, di decidere e di vedere il mondo.
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capitolo nono
Paternità illegittime
Il padre dà forma al viso dei suoi figli perché si addormenta sempre accanto a loro e questi lo accompagnano sempre. Bronislaw Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi
La paternità non è naturale? Parlare di paternità non è molto di moda. Se ne parla spesso come di una mancanza o come di un’eccezione. I padri o sono accusati per la loro assenza, o sono trattati come delle strane figure leggermente effeminate che fanno scelte singolari e controcorrente: quasi che essere padri fosse un nuovo tipo di hobby al pari del tricot o della maglia, un metodo di relax per il troppo stress. Quando si parla di paternità si pensa al patriarcato, alla storia della discendenza legittima, alle questioni di eredità e primogenitura, all’autorità pubblica e al suo mantenimento attraverso le generazioni. La paternità è stata pensata, fino a pochissimo tempo fa, come il retroterra della storia dei poteri dominanti. Per questo 133
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si è ignorata l’esistenza di una paternità affettiva, di un rapporto emozionale e di coinvolgimento dei padri con i loro figli del quale ci sono evidenze in tutti i tempi. Su questo vince ancora l’immagine del padre vittoriano e della separazione tra pubblico (maschile) e privato (femminile) che dobbiamo a quell’epoca. Il dibattito è ancora molto povero e confina con il solito biologismo emergente. La «natura», sempre negata in altri campi, spunta quando bisogna dimostrare che ci sono «fatti reali» a sostenere una tesi. Così come ogni tanto è comodo tirare fuori i cromosomi per sostenere che gli uomini sono donne non sviluppate – per poi negarlo all’ulteriore scoperta riguardante gli X e gli Y [Badinter, 1992; Christen, 1991] – o scoprire un misterioso ormone dell’omosessualità [Le Vay, Hamer, 1994]. Rispetto alla paternità un coro di sdegnati biologisti urla: «Sì, la maternità è un fatto biologico. Quanto alla paternità, se ne può davvero dire ben poco». In campi come questi gli antropologi avrebbero il dovere di dire: «Un attimo, andiamoci cauti», ma l’imbroglio dentro cui l’antropologia si rivolta, quello della confusione tra filiazione e paternità [Collier Fishburne, Junko Yanagisako, 1987; Pradelles de Latour, 1999], li rende molto poco sereni a questo proposito. Sappiamo che entrambi i termini sono diventati oggetto di discussione e soprattutto fanno parte di quei concetti utili agli antropologi, ma che poi si rivelano inesistenti a livello di categorie con cui la gente pensa davvero le proprie relazioni. Come disse un capo indiano algonchino a un gesuita che nel XVII secolo lo interrogava a proposito di quella che gli sembrava una grande promiscuità nei rapporti tra uomini e donne algonchine e sull’incertezza che ne derivava riguardo al padre biologico: «È strana una civiltà che garantisce l’affetto e la protezione solo alla prole che gli appartiene personalmente».
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Uteri in affitto, sperma in prestito Fatto sta che oggi paternità e maternità sono concetti messi in discussione. Ce lo ricorda, in assenza di un buon lavoro degli antropologi, un grande storico della sessualità, Thomas Laqueur [1996]. E lo fa con un finissimo umorismo autobiografico. Abbiamo detto che gli uomini e le donne crescono «per somiglianza e contiguità» e che si diventa l’uno o l’altra a seconda dell’uso di queste frequentazioni. La parentela non è una cosa molto diversa. La parentela è un’appartenenza che si dimostra con la somiglianza, sapendo che la somiglianza è un processo, una pratica attiva e passiva: si finisce per somigliare e si fa somigliare qualcuno a se stessi. Le relazioni padre/figlio e madre/figlia sono di questo tipo, con tutte le eccezioni che l’antropologia conosce bene (tra gli Inuit si può nascere maschi ma essere femmine perché si è la reincarnazione di un’antenata e viceversa). Quello che rimane costante è il processo di produzione della parentela come somiglianza. Laqueur ci riporta alla contemporaneità con il caso di una «madre in affitto» – o, come si dice da noi, di un «utero in affitto» – che alcuni anni fa ha diviso l’Inghilterra: quello di Mary Beth Whitehead e William Stern. Lui le «appalta» un bambino per conto terzi e la donna, dopo averlo dato alla luce, «si pente» e lo vuole tenere. Il dibattito è l’occasione non solo per l’emergere del dibattito sui «corpi sfruttati», ma anche per l’affermazione che essendo la maternità «naturale» il bambino spettava in ultima istanza alla «portatrice» naturale. Laqueur, pur concordando con il diritto della Whitehead di tenersi il bimbo, si stupisce però degli argomenti addotti. Il femminismo, dice, è stata la forza teorica più formidabile nel processo di de-naturalizzazione della realtà, a partire ovviamente dalle presunte differenze biologiche tra uomini e donne. Eppure, durante la polemica sulla questione dell’utero in affitto, la rivista «MS», molto corretta politicamente, afferma che «la maternità è un fatto», mentre la «paternità è un’idea». 135
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Laqueur fa notare che lo stesso argomento è stato usato per secoli, da Isidoro di Siviglia in poi, per dire che il padre ha, nella generazione, un’influenza molto più profonda, perché spirituale, della semplice fattura materiale della madre. Idea che risale per altro alla concezione greca della riproduzione, dove l’uomo presta la «forma» a un luogo femminile, in cui viene portata a maturazione. In modo non dissimile da quanto pensavano gli indigeni delle isole Tobriand incontrati da Malinowski. Alla sua osservazione che qualcuno di essi assomigliava alla madre (o ai fratelli) si ritraevano offesi e inorriditi. La spiegazione è nella frase in testa a questo capitolo. La madre genera, ma la forma vera, l’imprinting sociale – e la somiglianza sociale quindi – è data dal padre. A questo punto Laqueur mette in ballo la sua esperienza personale e dice di essere diventato padre di una bambina prematura di 1.430 gr., Hannah. La bambina, appena nata, per un riflesso assolutamente meccanico stringe il suo dito. Laqueur dice di aver sentito in tutte le sue terminazioni nervose e in tutti i suoi «ormoni» un forte legame con questo essere. E aggiunge che il legame è ancora più forte perché un anno prima la moglie aveva dato alla luce prematuramente un altro bambino che era subito morto. Può sembrare che l’insieme sia troppo biografico, ma deve esserlo, come vedremo, perché mai come oggi paternità e maternità sono biografiche e non biologiche. E qui vengono i casi «bizzarri», nel più puro stile Queer Studies. Il primo riguarda ancora Laqueur. Una collega, ebrea come lui e con una solida relazione lesbica, gli chiede un giorno un appuntamento. Con molta serietà gli dice che lui le piace come persona e che per questo vorrebbe il suo sperma per poter dare alla luce un bambino ebreo con un padre donatore come lui. L’autore ci pensa un po’ ed è molto combattuto. Sua moglie gli dice che una cosa del genere è sconsigliabile perché lo sperma non anonimo non è facilmente «alienabile» (per essere vendibile deve essere anonimo, come il sangue o il plasma). L’altro problema che l’autore si pone è come resistere all’idea che qualcosa di lui, che somiglierà ad Hannah, se 136
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ne vada in giro per il mondo. Con questo essere egli avrebbe comunque sviluppato un legame – anche solo ideale – a cui avrebbe dovuto probabilmente subito rinunciare. L’autore confessa di essersi tirato indietro. Il secondo caso è molto più complesso. Siamo in California, a Berkeley, nel 1978, e una coppia lesbica chiede a un amico gay, Jordan, di prestare il proprio seme perché loro abbiano un bambino. Mary è molto vaga nella proposta. L’amico accetta con entusiasmo, però vorrebbe che il bambino sapesse che lui è il padre biologico e gli piacerebbe viaggiare con lui quando questi sarà cresciuto. Mary risponde che è possibile e si vedrà, ma nulla viene scritto. La donna non vuole usare sperma anonimo, non vuole contattare né una clinica né un medico. Il bambino nasce e per un po’ l’amico gay ha accesso alle visite, ma poi la coppia di donne si ripara dietro la propria privacy. A distanza di un anno, Mary fa domanda per avere l’assistenza sociale in quanto madre, e all’amico donatore, che dichiara di essere il padre biologico, arriva la richiesta di sostentamento da parte del tribunale. L’amico ne è molto contento, ma vuole avere più diritti, proprio come in una coppia di genitori divorziati. Mary ricorre in tribunale sostenendo che Jordan non è un padre vero perché non c’è mai stato un rapporto sessuale tra loro due. Lui, di contro, cita il caso di una coppia che desiderava un bambino prima di sposarsi, ma non voleva avere rapporti prematrimoniali. Lei si era fatta inseminare artificialmente con il seme di lui. Il bambino era nato. I due poi si erano separati e l’uomo aveva chiesto di avere riconosciuta la paternità e aveva vinto.
Qualcosa di sé viene alla luce? Questi due casi hanno qualcosa in comune. Gli uomini «donatori» hanno lasciato di sé qualcosa di più del semplice sperma, per il solo fatto di essere coinvolti direttamente nella «concezione» – per quanto artificiale – del bambino. Qualcosa di loro è passato nel 137
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bambino. Questo qualcosa non ha niente di biologico, ma ha tutta la natura dei legami che si stabiliscono tra madri e figli e tra padri e figli quando c’è molto più che la produzione bruta di un bambino. Il fatto della maternità consiste proprio nel travaglio psichico che viene messo nel creare queste connessioni, nell’integrazione del feto e poi del bambino nell’economia morale ed emozionale della madre. Il fatto della paternità non è di tipo dissimile. Se c’è una teoria del valore basata sul «lavoro» che ci vuole per «avere» un figlio, è una teoria del cuore e non della mano. Il cuore naturalmente lavora attraverso la mano; noi sentiamo attraverso il corpo, ma voglio lasciare questo punto nella sua ingenua nudità [Laqueur, 1996, p. 181].
O piuttosto accompagna? Per questo la donna che ha «prestato l’utero», anche nel caso in cui l’ovulo fecondato non sia suo, ha una forma di priorità che le dà il diritto di tenersi il bambino. Il bambino è suo perché lo «ha portato», lo ha accompagnato, gli è stata contigua, attaccata, come i padri tobriandesi o lo stesso Laqueur alla sua bambina prematura. Qui è in gioco una forma di appartenenza e non di proprietà, un’appartenenza di chi porta o di chi sta accanto che stabilisce un legame. Il legame che si crea emozionalmente e moralmente è l’unica maternità e paternità di cui ha senso parlare. Tutta la questione non è fatta di certezze, perché qui si tratta di un capitale emotivo che non si accumula visibilmente, tangibilmente. Per questo possono esserci casi di paternità femminile come quello di cui parla ancora Laqueur. Si tratta questa volta di una coppia lesbica di Alameda County, in California. Una delle due donne, utilizzando lo sperma del fratello dell’altra, dà alla luce un bambino. L’altra se ne dichiara, anche nei confronti della legge, padre. Quando la coppia si separa, il padre non viene identificato nel fratello ma nella donna che si era dichiarata padre. 138
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La paternità, afferma Laqueur, essendo un’idea, può non essere di pertinenza solo maschile. E aggiunge che se vogliamo avere un aiuto nei casi così ingarbugliati, ma anche in quelli normali in cui concepiamo paternità e maternità, dobbiamo smettere di cercare una soluzione nella «biologia»: La paternità e la maternità hanno a che fare con i diritti e le responsabilità condivise da tutti gli esseri adulti, mentalmente competenti in fatto di controllo e monitoraggio dei propri confini fisici e del mantenimento del corpo di qualcun altro come se fosse il proprio [Laqueur, 1996, p. 188].
Si tratta di un’ottica relazionale e non produttiva, un’ottica in cui i corpi sono concepiti non come produttori o proprietari di altri corpi, ma come produttori di effetti fisici e simbolici su altri corpi e sui propri: gli affetti, i legami embodied, incorporati nelle «somiglianze di famiglia».
Paternità e clonazione Esiste una lunga storia di recuperi nel legame tra un figlio e un padre. C’è un film di Wim Wenders «prima maniera» (quando era ancora bravo) che delinea questo delicato rapporto in maniera sublime: Paris, Texas. Un padre si è perso nel deserto e si è allontanato dagli uomini e dalla società civile. Egli rifiuta la logica del consumo del mondo. Quando il fratello vuole prendere in affitto un’auto, lui pretende che non sia un’auto nuova e di mantenere sempre la stessa. Quest’uomo ha un figlio dal quale si è allontanato. Tra loro c’è una cesura, dovuta in buona parte alla fuga del padre alla ricerca di una dimensione che non lo «duplichi» semplicemente, come se lui fosse una copia del figlio o viceversa. Il padre si sta cercando e la paternità, inevitabilmente, lo tira verso l’eterno somigliare a se stessi. Non c’è qui la parabola della difficoltà di ogni 139
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paternità oggi? Non si può essere padri perché si è smarrito il modo di non prendere le somiglianze per duplicati, clonazioni, xerocopie di sé. Ogni figlio, ma anche ogni fratello che ci somiglia, è la negazione della nostra unicità, della nostra disperata strada individuale, ed è invece il richiamo all’imperfezione dell’identità. L’identità è sia l’originalità, sia l’essere «identico» a qualcun altro. Credo che oggi nulla ci faccia tanto paura quanto il pensiero di essere simili, somiglianti, gemelli, padri o figli, perché esso nega un’autenticità che crediamo debba essere «originale». I figli sono una copia imperfetta dei padri e viceversa. In questa incarnazione dei propri difetti e dei propri tratti fisici c’è il turbamento che suscita ogni cosa che è allo stesso tempo familiare ed estranea; come quando guardiamo due gemelli: ciò che ci turba è proprio l’imperfezione della gemellarità. Nella «trasmissione dei caratteri dai padri ai figli» c’è qualcosa di analogo. Inoltre, nella trasmissione della mascolinità c’è anche, nella nostra società, il germe contradditorio di una «indipendenza» e di una «solitudine» maschili che devono tuttavia somigliare a qualcuno per compiersi. Per diventare grandi bisogna diventare come i grandi, e nelle storie maschili questo significa l’abbandono di una logica consolatoria dei rapporti e l’assunzione della mascolinità come «far faccia» al mondo, come un presentarglisi per affrontarlo. Per questo le storie maschili sono così piene di padri scoperti «dopo», tardivamente, spesso dopo la loro morte.
Riflessi della paternità Uno scopre suo padre «dopo», quando il padre è scomparso, mentre si sta facendo la barba e scopre che lo specchio gli rimanda la faccia di suo padre che si faceva la barba. C’è un momento nella vita in cui questa identificazione «accade» come d’improvviso, un momento in cui radersi significa svelare a se stessi i propri tratti paterni coperti o rimossi. Ci sarebbe da fare uno studio a parte sulla relazione tra mascolinità e specchio e sulla difficile composi140
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zione di questa «vanità». Agli uomini non è stata riservata nessuna cultura dello specchio che non sia il Narciso che finirà per affogare. Come se al volto maschile non fosse concesso lo sdoppiamento sereno, il moltiplicarsi della soggettività nella cosmetica e nell’estetica dell’io. Nessun body building può sostituire questo processo; forse il body building è un modo di travestire il proprio corpo perché non somigli a se stesso e a quello del padre. Ci sono foto straordinarie di Allen Ginsberg nudo davanti allo specchio che si fotografa nel corso degli anni, serenamente, constatando il suo corpo e le sue mutazioni. Lo specchio maschile è una costruzione tutta da fare, tutta da tessere tra i riflessi e i rimandi. Nello specchio di un treno, Freud trova l’agghiacciante rivelazione della propria vecchiaia e «a prima vista» non si riconosce. Il corpo maschile, abituato al mettersi in scena in parallelo con altri corpi maschili, da solo fa fatica a riconoscersi, come se non ci fosse «storicamente» un corpo maschile singolo, ma un corpo della mascolinità. Gli unici corpi singoli sono i corpi di particolari atleti; non quelli anonimi del calcio o dell’atletica leggera, ma quelli dei pugili e dei toreri. I corpi dei toreri sono «leggiadri» fino a una forma di stucchevolezza, laddove quelli dei pugili sono corpi «duri» ma allo stesso tempo corpi di vittime. I primi sono abituati allo specchio, e il toro è in qualche modo uno specchio. Il toro è la mascolinità da assorbire, e forse per questo i toreri devono essere così effeminati e reggere in mano una muleta che è una vera e propria gonna di raso. I pugili, dal canto loro, si guardano allo specchio per imparare a schivare i colpi. Sono uno sdoppiamento dell’aggressività, «quello che le dà» e «quello che le prende». E lo sono in maniera che a volte fa tenerezza: questa messa in scena dell’aggressività rende la stessa talmente addomesticata da scaricarla della ferocia che vorrebbe rappresentare. I pugilatori sono coloro che devono «darsele» di fronte a un pubblico maschile che non ha più alcuna voglia di darsele, anche se ne avrebbe i motivi. I pugili si menano «senza motivi» e proprio questo li svuota di mascolinità, perché è una furia ridicola, senza obiettivo. 141
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Generare Maternità e paternità sono forme di generazione nel senso più forte del termine, quello che è rimasto in alcune lingue come l’inglese (to engender) o il francese (engendrer). Madri e padri collocano l’essere che nasce dentro a un «genere», lo installano nella sua femminilità o nella sua mascolinità. La maniera con cui la madre o il padre parlano al bambino o alla bambina induce il modo con cui essi elaboreranno la loro voce maschile o femminile. Sapendo che, cultura per cultura, il tono, l’intensità, l’acutezza o la gravità delle due voci potranno cambiare, scambiarsi i ruoli, ma a partire sempre da un’impronta data dalle voci materne e paterne sentite. Padri e figli sono uniti da qualcosa a cui entrambi somigliano. Per questo, a differenza dei pugili e dei toreri, veri «single» e «orfani», il loro corpo è un corpo che si trasmette e si eredita. Il proprio corpo maschile è certamente in buona parte il corpo del proprio padre, e lo è nei gesti, nei tic, nell’andatura, nella corporatura, nel tono della voce, nel modo di guardare, a volte nelle abitudini. Le somiglianze sono al tempo stesso rituali e tecniche del corpo. Sono, anzi, tecniche del corpo a tal punto introiettate che ci si accorge solo «a un certo punto» di somigliare al proprio padre. È interessante che in ogni cultura queste somiglianze siano «prescritte» in maniera precisa, nel senso che vengono fatte notare solo quelle funzionali a una trasmissione «fisiognomica» che serva a conservare un’eredità simbolica. In un recente studio Bernard Vernier [1998] ne ha ricostruite alcune. Nell’isola greca di Karpathos, nell’Egeo, un complicato sistema di eredità attribuisce al primogenito maschio campi, mulino e casa, mentre tutti gli altri figli, a parte la prima figlia femmina, vengono diseredati e spesso emigrano o restano celibi. In questo sistema, il primo nato (che prende il nome del nonno paterno) «deve» somigliare, soprattutto nel viso, alla madre, mentre la prima figlia (che prende il nome della nonna) «somiglia» al padre; a seguire, il secondo figlio maschio «somiglia» al padre, ma in maniera minore, e la seconda femmina alla madre, 142
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ma in maniera più vaga. Via via, gli altri figli vanno verso l’indistinzione (e si arriva a definirli «bastardi»). I carpatioti vedono nella rassomiglianza lo zampino di Dio, perché così i genitori possono amare quei figli che non hanno un nome che proviene dal loro lato, paterno o materno. È una teoria che discende in parte dall’idea di anastassi, ovvero la resurrezione attraverso il nome. In Birmania, i Katchin affermano che i bambini somigliano alla madre. In territorio turco, dal Kurdistan a Istanbul, presso i Curdi come presso gli Armeni, la tradizione vuole che i bambini somiglino allo zio materno e le bambine alla zia paterna. A Djerba, in Tunisia, un detto afferma: «Il figlio maschio riceve i due terzi dallo zio materno e il restante terzo è da discutere». Un altro detto sostiene: «Lo zio materno lo ha messo al mondo. Dio ne è testimone». In Cina, un proverbio afferma che i nipoti somigliano fisicamente allo zio materno, e il pensiero popolare aggiunge che le figlie assomigliano al loro padre. In Grecia, le somiglianze della prole sono considerate al contempo come effetto e prova dell’amore che c’è tra i due genitori. Come se il fatto che la madre noti nel figlio maschio delle somiglianze con il marito rafforzi il legame coniugale. Se la madre sottolineasse le somiglianze con la propria famiglia, metterebbe se stessa in luce come qualcuno che vuole indebolire l’alleanza coniugale. Sempre a Djerba è la madre a essere responsabile delle somiglianze, poiché si pensa che l’immaginazione femminile abbia un estremo potere al riguardo (al pari delle «voglie materne»). Il bambino o la bambina somiglierà alla persona che la madre ha guardato più frequentemente durante i primi mesi di gravidanza. C’è anche una tecnica particolare per aumentare questo effetto: la donna deve bere dell’acqua mentre guarda intensamente la persona a cui vuole che il bambino o la bambina somigli. Nelle tradizioni slave – Grande Russia, Polonia e Ucraina – durante le nozze c’era l’uso del «richiamo della sposa». Nel corso della cerimonia, mentre era già sull’altare, questa veniva chiamata dal fondo della chiesa perché si voltasse verso i suoi genitori e parenti: 143
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ciò avrebbe provocato la somiglianza della futura prole a questi ultimi. Proprio per tale motivo, nelle località di Berari e Popovo Polfi e in Montenegro i fratelli del marito cercano di impedire alla sposa di voltarsi, fino a tenerle ferma la testa. Di nuovo a Djerba, si dice che è importante che una figlia somigli alla sorella del padre, perché così il nonno paterno può custodire presso di sé la figlia che ha perduto quando si è maritata, nella persona della figlia di suo figlio. Tutto ciò sta a dimostrare, ancora una volta, che maternità e paternità sono anzitutto «idee», sono l’interpretazione che ogni cultura dà a rapporti di privilegiata contiguità e vicinanza. L’intera faccenda è molto complessa, come lo sono i sistemi di parentela e i legami che questi stabiliscono. Non è un caso che tutta la materia non venga quasi mai presa in considerazione dalla letteratura che si occupa di identità sessuale e di genere. Una delle cose maggiormente rimosse è che l’identità sessuale è coniata all’interno di questi legami «fisici» tra individui. Si acquistano femminilità per i maschi e mascolinità per le femmine prendendone i caratteri da nonne e zie e da nonni e zii. In più, come voleva la tradizione in buona parte delle regioni italiane, i nomi hanno un peso notevole in tutto questo. Essere la Maria o il Mario che avevano preso il nome da nonno Mario o da nonna Maria significava avere con essi un legame di identificazione incrociata a cui era cambiato il genere. Contiguità, assiduità, apprendimento e allontanamenti facevano il resto. Ho altrove affermato [La Cecla, 1999] che la somiglianza «di famiglia» è diventata il nostro vero tabù, sostituendo in pieno quello dell’incesto. Nell’idea che non «ci facciamo da soli», fisicamente e fisionomicamente, c’è qualcosa che non ci va giù. L’essere «nati da una donna» è ancora qualcosa con cui dobbiamo fare i conti. Clonazione, ingegneria genetica e altre tecniche ci promettono una liberazione da questa imbarazzante contiguità di corpi. La somiglianza è infatti memoria, impronta, marchio, il calco di un contatto fisico prolungato. Noi siamo l’orma di qualcuno, il segno 144
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di sé che qualcun altro ha lasciato nel mondo. La paternità è una traccia che viaggia da sola nel mondo e ci lega a esseri che sono spesso lontani o non ci sono più. La paternità è una «sindone», una «veronica» della presenza di qualcuno che ci ha preceduto o ci seguirà nel mondo. Oggi il sogno della clonazione potrebbe fare di noi la xerocopia di qualcun altro, la copia identica di una matrice. Questo sogno tecnologico è molto più rassicurante della realtà della maternità e della paternità, dove umori, liquidi, materia fisica si mescolano e vengono a contatto. Da questo «spaventoso» contagio viene fuori una cosa ancora più mostruosa: una somiglianza tra madri, padri, figlie e figli che non ha nulla di perfetto e di compiuto, è un ambiguo e opaco riflettersi dell’umanità su se stessa, un ritrovare il proprio sé spostato di generazione, cambiato di posto e spesso con opinioni pessime sul nostro conto. Certamente la paternità (al pari della maternità), come la relazione uomo/donna, non sono la più «comoda» delle vie che degli esseri razionali potevano scegliere per riprodursi.
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Coda
Il Briccone prosegui il cammino. Mentre camminava arrivò in un luogo incantevole. Si fermò e cadde subito in un sonno profondo. Dopo un po’ si svegliò e notò che si era coricato sulla schiena e che non aveva coperta. Alzò gli occhi e vide con sorpresa che qualche cosa volteggiava sopra di lui. «Ah, ah, i capi tribù hanno spiegato le bandiere, gli abitanti di questo paese devono aver celebrato una grande festa. E in questi casi che si spiega la bandiera del capo». Mentre pensava a tutto questo si sedette, e soltanto allora vide che la sua coperta era sparita. Era la sua coperta infatti che si vedeva volteggiare su di lui. Il pene si era eretto e teneva la coperta sollevata. «Sempre la solita storia», disse, «fratellino, tu perderai la coperta, faresti meglio a riportarmela». Così parlò al suo pene. Poi lo afferrò e, quando lo palpeggiò, il pene si afflosciò e alla fine la coperta ricadde. Il Briccone arrotolò il pene e lo rinchiuse in una scatola. E solo quando fu arrivato alla fine del pene ritrovò la sua coperta. Da quel momento portò la scatola col pene sulla schiena. Paul Radin, Carl Gustav Jung, Karoly Kerényi, Il Briccone Divino
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Come salvare la mascolinità da chi vorrebbe moralizzarla, finalizzandola a un nuovo tipo di eugenismo sociale? Come salvarla dai movimenti femministi assunti dagli uomini gender-conscious o raceconscious [Bowker, 1997; Stecopoulos, Urbel, 1997], dai movimenti femministi che vogliono «curare» gli uomini, dal post-femminismo e dalla cultura queer e transgender che vorrebbero sanare la mascolinità insegnandole a rinunciare a tutti i suoi attributi, e infine dai movimenti «pro-maschi» come Keep the promise negli Stati Uniti [Clatterbaugh, 1990; Schwalbe, 1996]? Come salvarsi dalla nuova morale politica da un lato e dalla spettacolarizzazione del sesso che viene spacciata come nuova sessualità transgender dall’altro? Come se il fatto stesso di trasformare il sesso in una vetrina che non somiglia a un carnevale, ma molto più a una parata di walt-disneyzzazione del sesso, dovesse di per sé assicurarci un sesso più felice. Se le gay parade vogliono imporre una sessualità chiassosa e da vetrina contro la sessualità grigia, «normale», allora il loro obiettivo è molto limitato. Il chiasso, oggi, è proprio della globalizzazione dei processi di travestimento delle identità. Travestirsi in questo modo – ma ci sono travestimenti che costituiscono identità e culture forti [Garber, 1992; Johnson 1997; Breton 1989] – non è la garanzia di una nuova cultura, ma piuttosto la garanzia di una società dello spettacolo che inglobi e uccida ogni libido, slancio, stranezza. Dove devono finire gli omosessuali timidi, gli omosessuali che non se la sentono di «imitare» la femminilità in una caricatura o la mascolinità in un eccesso? Dove finiranno tutte le identità maschili e femminili riservate, silenziose ma felici? Il maschio deve prendersi il suo pene, metterselo sulle spalle e andare via, lontano da chi pretende di manipolarglielo per guarirlo («Cura la tua maschilità» urlano i manifesti pubblicitari pagati dai produttori di Viagra). Deve metterselo dietro le spalle per dimenticare che è «una cosa a cui far fronte», «una cosa che lui ha il dovere di staccarsi per poi riattaccarsela moralmente». Deve metterselo dietro le spalle come una parte di sé sulla quale smettere di concentrarsi, quasi fosse «il pezzo di carne» da cui tutto dipende. 148
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Deve diventare non «tutto un pene», come vorrebbe il manifesto post-sessuale [Preciado, 2000], ma piuttosto tutta una faccia, come se il suo pene facesse parte della sua fisionomia, dell’espressione di cui è fatta la mascolinità. Occorre riscoprire l’espressività maschile nella sua ricchezza e nelle sue fluttuazioni, impossessarsi di nuovo dell’imbarazzo, della timidezza, del coraggio del corteggiamento, del «saperci fare» tra uomini e con le donne, tutte cose che fanno parte del «costume» maschile non come travestimento, ma come abilità del sé. Sapendo che il pene dietro le spalle ci assicura che dobbiamo andare verso una mascolinità non ancora conosciuta, diversa da quella del passato, anche se di questa cultura abbiamo bisogno per rifare il nostro corpo maschile. Il corpo del maschio futuro, come quello del Buddha del Futuro, non è ancora definito, se non da un sorriso appena accennato, quello del Gatto Stregatto o del Briccone Divino, che si lascia appena intravedere nel suo guizzo per non essere afferrato. È una mascolinità che deve «dirsi», che deve raccontarsi al passato, non per chiacchierare, ma per ascoltarsi. Sembrerebbe una contraddizione. Una mascolinità nuova dovrebbe sbarazzarsi di tutto il carico del passato, tanto più che esso è stato da più parti condannato. Si tratta invece di un’archeologia della nostra identità che ci interessa fortemente se vogliamo capire di quali costruzioni, di quali abiti e di quali ideologie siamo costituiti nella nostra soggettività maschile, oggi. La scatola con il pene dietro le spalle serve al Briccone Divino [Hyde, 1998] per continuare le sue imprese da scavezzacollo senza essere tradito dal fratellino, che è molto meno disciplinato di lui. Non è una dimenticanza, né una repressione, è che il Briccone vuole essere lui il padrone del campo delle avventure e vuole diventare lui «tutto intrigante e tutto pene». Come è possibile che ciò accada? Solo accettando un’identità «furtiva», «guizzante», fatta di svicolamenti e di salti, di sveltezza e di incoerenza, cioè di scatti, ma non di «modi bruschi». Il Briccone Divino, a differenza di Peter Pan e di Pinocchio, è altamente sessuato, ma non vuole che la sua monelleria venga scambiata per 149
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puerilità. È un Puer nel senso di Hillman [1988] e nel senso di Siva [Doniger, 1981]. È il principio della mascolinità inafferrabile, dell’élan vital, della leggerezza maschile di chi «va per luoghi». Principio difficile da rendere in un mondo di mascolinità imborghesita e pantofolara, di moralismo da palestra e di estetica da clonazione. Difficile da mantenere sotto uno sguardo femminile che ammira il maschio adolescente ed efebico e non ha più modelli di maschi adulti perché ricordano troppo i maschi dominanti. Difficile infine da attuare se il proprio sguardo deve fare i conti con una rarefazione dei corpi, traumatizzati da un’ascesa informatica e telefonica. La mascolinità è vittima della mancanza di «tatto» della nostra epoca, della mancanza di generazione per contatto fisico. Siamo tutti figli illegittimi nati in provetta. I nostri corpi maschili non sono stati «generati». I nostri padri e nonni non ci hanno installato nel loro genere maschile. Sono stati tutti un po’ padri illegittimi, non hanno creduto di poterci trasmettere la loro mascolinità, erano dubbiosi o smemorati, rarefatti o depressi. Oggi la mascolinità deve ricostituirsi a partire da un atto di generazione che sarà difficile, lento, e che è tutta una cultura a dover compiere. Non si tratta di «tirar su Caino» [Kindlan, Thompson, 1999], come vorrebbe una certa pedagogia americana, ma di lasciar libero il Briccone Divino di inventarsi una sua identità. C’è una dimensione dell’allegria e della furbizia, dell’arguzia e della leggerezza, che è tutta in quella scatola che ci porteremo dietro le spalle.
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