Metafore geografiche nella Bibbia 8866662518, 9788866662518

In questo volume l'autore esamina alcuni episodi della Bibbia, in particolare della Genesi e dell'Esodo, la cu

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CARMELO FORMICA

METAFORE GEOGRAFICHE NELLA BIBBIA

Copyright © 2015 Guida Editori www.guidaeditori.it [email protected] Proprietà letteraria riservata Guida Editori srl Via Bisignano, 11 80121 Napoli Finito di stampare nel maggio 2015 da Print Sprint srl per conto della Guida Editori srl 978-88-6666-251-8

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% del presente volume dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da clearedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Nota introduttiva

La Bibbia, parola che in greco significa «Libri», è il testo sacro della religione cristiana e, in parte, di quella ebraica. Essa è anche denominata «Sacra Scrittura» e si divide in due sezioni ben distinte sotto l’aspetto temporale e contenutistico: l’Antico e il Nuovo Testamento1. L’Antico Testamento si compone di 46 libri che narrano le origini e le vicende del popolo ebraico, dei suoi padri, dei suoi re e dei suoi profeti precedenti alla nascita di Cristo. In base agli esiti delle analisi al radiocarbonio effettuati sui più antichi manoscritti, esso risulta composto tra 3.500 e 3.000 anni fa. Il Nuovo Testamento, invece, contiene i quattro Vangeli, gli Atti e le Lettere degli Apostoli, i quali sono stati redatti tra il 50 e il 100 dopo Cristo e poi sono stati raccolti insieme all’inizio del II secolo dopo Cristo. L’Antico Testamento, quindi, ha avuto una nascita assai lenta e ha preso forma attraverso ambienti, civiltà e culture assai diversi tra loro. È come se fosse stato scritto da un intero popolo, poiché è andato formandosi con il progredire della storia e della cultura di Israele stesso. Nei suoi racconti, pertanto, ricorrono numerose immagini che gli autori biblici hanno preso dai miti e dalle tradizioni orali dei popoli che vivevano nelle zone vicine alla Palestina, ma rielaborandole nell’orizzonte della fede in un Dio unico: novità importante rispetto alle culture e alle fedi religiose dell’epoca. Inoltre, poiché fino al X secolo avanti Cristo le vicende storiche e le tradizioni di un popolo si tramandavano per via orale, era inevitabile che anche gli stessi episodi biblici talvolta fossero narrati in maniera leggermente diversa e che, quando poi essi sono stati affidati allo scritto, abbiano conservato tali differenze, dando così l’impressione di contraddizioni o ambiguità. Occorre chiarire, però, che alcune ambiguità derivano anche dalla diversità di lingue in cui la Bibbia è stata originariamente scritta, cioè l’ebraico, l’aramaico e il greco, per cui i traduttori spesso attribuiscono significato leggermente differente, e talora contrastante, alla stessa frase: soprattutto là dove non si limitano all’interpretazione delle singole parole, ma operano anche qualche trasposizione nella punteggiatura2. 1   Il termine «Testamento», derivante dal greco «Diate¯ke¯» che significa «accordo o alleanza», è utilizzato dai cristiani per indicare il patto stabilito da Dio con gli uomini per mezzo di Gesù e del suo messaggio. 2   Cfr., per esempio, Manacorda M.A., Lettura laica della Bibbia, Roma, Editori Riuniti, 1989.

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Metafore geografiche nella Bibbia

Mosè riceve da Dio le Tavole della Legge in un dipinto di José de Ribera (1591-1652) custodito nel Museo San Martino di Napoli. Mosè è considerato la figura principale dell’Antico Testamento.

Al di là di questi aspetti, comunque, gli storici e gli esegeti, soprattutto per i primi cinque libri della Bibbia che costituiscono il Pentateuco3, hanno individuato quattro fondamentali tradizioni narrative, stilisticamente differenti, che sono state denominate: Jahwista, Elohista, Deuteronomica e Sacerdotale. La Tradizione Jahwista, dal nome Jahweh con cui Dio è nominato, risale ai tempi di Davide e Salomone (sec. X a.C.) ed è, quindi, la più antica. Essa utilizza uno stile vivace e ricco di immagini, attribuendo a Dio espressioni antropomorfe. La Tradizione Elohista (sec. VIII a.C.), dal nome Helohîm con cui Dio era chiamato in lingua semitica, evita le immagini an3   Letteralmente Pentateuco, dal greco «penta = cinque e théke = astuccio, scrigno o ripostiglio» significa «cinque astucci», facendo riferimento ai contenitori in cui i testi erano custoditi nelle sinagoghe.

Nota introduttiva

Il profeta Ezechiele: dipinto di Michelangelo nella Cappella Sistina del Vaticano. Ezechiele (620 a.C. circa-VI sec. a.C.). Appartenente a una famiglia di sacerdoti, fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. e fu uno dei maggiori profeti del suo tempo. In conformità con la Tradizione Sacerdotale della Bibblia, egli ebbe come centro del suo messaggio la trascendenza di Dio e la sottomissione ai suoi precetti. In esilio, sebbene lontano quasi 2.000 km da Gerusalemme, era in grado di vedere tutto ciò che avveniva nella sua patria.

tropomorfe e recupera la trascendenza di Dio, il quale comunica con l’uomo mediante gli angeli, i sogni e i fenomeni naturali, come il fuoco o le nubi. La Tradizione Deuteronomica (sec. VII a. C.) riceve il nome dal libro del Deuteronomio, che in greco significa «secondo la legge». Essa, infatti, raccoglie i nuovi precetti che Mosè, dopo quelli ricevuti da Dio sul Monte Sinai, consegnò al popolo ebreo prima di morire ed ha finalità soprattutto didattiche: mira, cioè, a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d’Israele, dopo secoli di vita nomade, avrebbe iniziato all’arrivo nella Terra Promessa. In altri termini, più che all’osservanza formale della Legge, invita a tradurre nella vita sociale e familiare l’amore per Dio. La Tradizione Sacerdotale, infine, è la più recente (secc. VI-V a.C.). Essa risale a un gruppo di sacerdoti ritornati dall’esilio di Babilonia4 e mostra, in uno stile solenne, un’attenzione particolare alle leggi, al culto e alle prescrizioni. 4   I Giudei di Gerusalemme e del Regno di Giuda furono deportati a Babilonia, in Mesopotamia, al tempo di Nabucodonosor II (circa 634-562) e vi restarono fino a quando l’imperatore persiano Ciro il Grande (590 a.C.-529 a.C.), dopo avere conquistato Babilonia, non consentì loro di ritornare nel proprio Paese e di ricostruirvi il Tempio di Gerusalemme (515 a.C.).

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In sintesi: la compilazione della Bibbia nella sua globalità, così come noi la conosciamo oggi, è stata realizzata in un arco temporale di circa 1.000 anni. Essa, quindi, è stata scritta da personaggi, per lo più anonimi, che non avevano le conoscenze scientifiche di cui disponiamo oggi e, soprattutto, non pretendevano di fornire una descrizione oggettiva della realtà né di annunciare verità scientifiche, ma miravano ad una finalità semplicemente pedagogica: intendevano dare, cioè, suggerimenti e insegnamenti morali. Il genere poetico5 era, dunque, il mezzo più efficace per questo scopo e in questo ambito si colloca generalmente il linguaggio biblico, tenendo anche conto che esso era rivolto a popoli di pastori, quali erano le tribù ebraiche. Eppure, nonostante lo stile immaginifico, la narrazione biblica spesso contiene nozioni non solo scientificamente accurate, ma anche diametralmente opposte alle opinioni che in quei tempi erano ritenute valide in vari campi del sapere, dall’astronomia alle scienze naturali e alla scienza medica. Si tratta spesso di concetti, espressi in «nuce», cui la scienza è approdata solo in tempi moderni e in taluni casi in maniera ancora parziale o ipotetica. Su molti argomenti, pertanto, scienza e fede sembrano trovare chiavi interpretative condivisibili, al di là di persistenti posizioni estremamente laicistiche e ateistiche o di atteggiamenti ciecamente dogmatici e acritici ancorati al significato letterario della narrazione. Premettendo che non ho alcuna preparazione scientifica, né tantomeno teologica, per affrontare una discussione su tematiche così complesse, sulle quali esiste una vastissima e dottissima produzione di scritti che vanno dalla filosofia neoscolastica alle rivoluzionarie teorie operate dalla recente fisica quantistica sulla struttura della materia e dell’Universo, in questo breve saggio di assoluta valenza divulgativa mi limiterò a riportare, in maniera sintetica e semplificata, le considerazioni di studiosi di varia estrazione culturale e fideistica su alcuni avvenimenti biblici esaminati alla luce delle più recenti scoperte di tipo scientifico e/o archeologico, restando possibilmente imparziale e lasciando al lettore le sue conclusioni. Al lettore, in altri termini, più che risposte si propongono problemi e domande. Per i credenti, comunque, vale la convinzione che «nella Sacra Scrittura Dio parla all’uomo alla maniera umana. Per una retta interpretazione della Scrittura bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole» (Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum).

5   Finkelstein I.-Silberman N.A., Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, Roma, Carocci, 2002; Mazzinghi L., L’estetica della parola: l’arte narrativa e poetica nell’Antico Testamento, in “Parole, Spirito e Vita”, 44 (2001), pp. 79-92.

i L’origine dell’Universo e della Terra

1.  L’origine dell’Universo nelle culture antiche L’Universo è costituito da un insieme di pianeti, di stelle, di galassie,di nebulose e di altra materia cosmica contenuta negli spazi intergalattici, sia essa visibile ad occhio nudo o con sofisticati strumenti ottici, sia essa percepibile solo attraverso le onde elettromagnetiche, o radioonde, sulle quali viaggiano con velocità istantanea le immagini, i suoni e le informazioni trasmesse dalla radio, dalla televisione, dai telefoni e dai radar. Si tratta di uno spazio immenso e misterioso, ancora tutto da scoprire e decifrare, che gli uomini primitivi, affascinati forse più dell’uomo moderno dallo spettacolo del cielo stellato, dal succedersi della notte e del giorno o dall’alternarsi delle stagioni, cercarono di interpretare in senso mitico. Partendo dall’osservazione degli oggetti celesti più vicini e proiettandosi con l’immaginazione oltre il visibile, essi elaborarono cosmogonie1 piuttosto complesse e basate su divinità antropomorfe, le quali personificavano forze e fenomeni della natura. Nella maggioranza dei casi le cosmogonie si differenziano notevolmente l’una dall’altra per quanto riguarda il numero e il ruolo dei protagonisti. In alcune antiche società, infatti, la nascita del mondo è attribuita alle lotte intestine tra le divinità, mentre in altre è assegnata a un’unica divinità, che la crea dal nulla. Esse, tuttavia, hanno tutte in comune un punto di partenza e di arrivo che, esplicitamente o implicitamente, si configura nelle seguenti domande: qual è la funzione dell’uomo nel mondo e qual è il senso della sua esistenza? Inoltre, qualunque sia stato il popolo che le ha ideate, presentano la struttura di veri e propri poemi epici, poiché narrano gli avvenimenti e le gesta eroiche delle divinità con metafore fantasiose e con espressioni di icastica efficacia, tramandandoci così un patrimonio mitologico che è fonte inesauribile di studi per l’antropologia culturale. Un’esposizione delle molteplici rappresentazioni cosmogoniche, sia pure sommaria, richiederebbe uno spazio che qui non è consentito e che, peraltro, sarebbe fuori luogo dedicarle. Mi limiterò soltanto a enunciare i 1   Il termine «cosmogonia» (dal greco cosmos = mondo e gonè = generazione) indica il complesso di miti e di teorie che gli antichi popoli hanno elaborato sulle origini dell’Universo e dell’uomo. Tra i numerosi testi di storia delle antiche religioni cfr. Sabbatucci D., Sommario di storia delle religioni, Roma, Il Bagatto, 1988; Filoramo G. et alii (a cura di), Manuale di storia delle religioni, Bari, Laterza, 1998; Pironti G.-Bonanno D. (a cura di), Religioni antiche. Un’introduzione comparata, Roma, Carocci, 2011.

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principi basilari di alcune antiche costruzioni mitologiche che rappresentano il fondamento di religioni attuali o che semanticamente, e spesso anche tematicamente, mostrano affinità con la rappresentazione biblica della creazione. Nella cosmogonia degli antichi popoli induisti l’Universo, o Essere, è eterno. Il mondo, quindi, non è stato creato e non sparirà mai, ma è periodicamente sottoposto a fasi cicliche di espansione e contrazione che durano milioni di anni, durante i quali esso si fa (= si organizza) e si disfa (= entra nel caos). La sua vita, in breve, si svolge in una perenne dialettica tra l’essere e il non essere2. Nella cosmogonia dell’antica Cina l’Universo, in principio, era caos. Poi il caos si coagulò in un «uovo cosmico» in cui presero corpo due principi universali opposti: lo «yin», corrispondente al giorno, e lo «yang», corrispondente alla notte. Con il passar del tempo questi due principi si bilanciarono perfettamente e dal loro equilibrio emerse il primo essere vivente, Pangu, il quale aveva un corpo gigantesco, villoso e dotato di grandi corna. Un giorno Pangu, con un’ascia, distrusse l’uovo cosmico, creando così da un lato la Terra, personificazione dello «yin», e dall’altro il cielo, personificazione dello «yang». Quindi, per tenerli separati, s’interpose tra loro spingendo il cielo sempre più in alto e la terra sempre più in basso, mentre anch’egli cresceva in proporzione. Infine, per completare la creazione, tramutò in fenomeni naturali e in forme di vita le varie parti del suo corpo. Dal suo respiro nacquero il vento e le nuvole, dalla sua voce il tuono e i lampi, dal suo occhio sinistro il sole e da quello destro la luna, dalla sua carne la terra e le montagne, dal suo sangue i fiumi, dalle sue vene le strade, dai suoi capelli le stelle, dal suo sudore la rugiada e dai parassiti del suo corpo gli esseri umani. Nella cosmogonia dei popoli mesopotamici, fondata su un politeismo naturalistico che è molto simile a quello egiziano, la divinità creatrice è Nammu, identificata con un mare primordiale probabilmente mai creato e, quindi, eterno. Poi essa generò la Terra e altri dèi, tra i quali si distinguevano due triadi: la «triade cosmica» composta da Anu, dio del cielo, Enlil, dio dell’aria, Enki o Ea, dio della terra e delle acque, e la «triade astrale» formata da Shamash o Utu, dio del sole e della giustizia, Sin, dio della luna e della saggezza, e Ishtar, identificata con il pianeta Venere e considerata dea della bellezza, dell’amore, della fertilità e della guerra. A servizio degli dèi c’erano coorti di «dèmoni», cioè spiriti buoni o cattivi, i quali avevano il compito di premiare o punire gli uomini in base al loro comportamento. Il regno «dell’aldilà» si trovava sotto l’oceano. Tra i popoli mesopotamici, inoltre, i sumeri introdussero anche il concetto di alcune energie impersonali o azioni create, dette «me», che avevano origine divina. Esse si mantenevano in esistenza e in moto continuo 2   Dallapiccola A.L., Induismo. Dizionario di storia, cultura, religione, Milano, Bruno Mondadori, 2005.

L’origine dell’Universo e della Terra

Cosmogonia mesopotamica: un bassorilievo che rappresenta il re Ur-Nammu, primo re della III dinastia della città di Ur (circa 2112-2095 a.C.), con il dio Sin, divinità della Luna e della saggezza.

grazie a una forza propria, indipendente e a sé stante, e concorrevano a garantire l’ordine dell’Universo, descrivendo anche le regole e le leggi divine che stavano a fondamento dell’uomo, del suo divenire e della sua civiltà3. Presso altri contesti culturali l’atto della creazione coincide con «l’azione di dare un nome alle cose» chiamandole all’esistenza. La cosmogonia degli antichi popoli dell’Australia, per esempio, si basa sul Dreamtime, cioè sul Tempo del Sogno. È il tempo in cui il mondo esisteva già, ma in modo indifferenziato, ed era abitato da esseri metafisici. Tutte le forme di vita (gli Antenati) giacevano nel sonno in buche di fango situate sotto la superficie terrestre. A un certo punto il Sole uscì dalla sua buca e, riscaldando la Terra, svegliò gli Antenati che, venuti fuori dalle loro buche, si misero a camminare cantando e richiamando alla vita, con le loro canzoni, tutte le cose. Pertanto la visione aborigena della creazione, ancora diffusa tra le tribù sopravvissute, assegna una sacralità a ogni luogo della Terra e stabilisce una rete di relazioni originarie fra ogni essere vivente e ogni luogo4. La cosmogonia dell’antico mondo greco, infine, ricalca in qualche modo quella cinese. Essa racconta che in principio c’era il Caos, dal quale 3   Cagni L.G., La religione della Mesopotamia, in «Storia delle religioni. Le religioni antiche», Roma-Bari, Laterza, 1997. 4   Chatwin B.Ch., Le Vie dei Canti, traduzione di Silvia Gariglio, Adelphi, 1995.

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Mitologia greca: «L’età dell’Oro» in un dipinto di Lucas Cranach il Vecchio (14721553) custodito nella Galleria Nazionale di Oslo. Nella mitologia greca narrataci da Esiodo la storia dell’umanità è divisa in cinque età: l’Età dell’Oro, ai tempi di Cronos, quando gli uomini vivevano senza preoccupazioni, perennemente giovani, erano nutriti dalla terra stessa senza fare nessun lavoro e morivano come colti dal sonno; l’Età dell’Argento, ai tempi di Zeus, in cui gli uomini, sempre in lite tra loro e irriverenti verso gli dèi, furono estinti da Zeus e divennero demoni inferiori; l’Età del Bronzo, caratterizzata da uomini possenti e violenti che, occupati a uccidersi a vicenda, si estinsero per la loro stessa scelleratezza; l’Età degli Eroi, cioè di uomini-dei o semidei, che combatterono a Troia e a Tebe e, mentre molti di loro perirono in queste guerre, furono portati da Zeus stesso nelle Isole dei Beati, dove vissero pacificamente in terre fertili e ricche di greggi; l’Età del Ferro, caratterizzata da una umanità travagliata dalla sofferenza, dall’ingiustizia e dalla necessità di dover lavorare per sopravvivere. La prima e l’ultima di queste età sembrano adombrare la situazione biblica del Paradiso Terrestre e della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre.

poi nacque il mondo governato da un ricco pantheon5. Il Caos, infatti, generò Gea o Gaia (= Terra), Tartaro (= Inferi), Eros (= Amore), Nux (= Oscurità della notte) ed Erebo (= Tenebre degli Inferi). Gea, a sua volta, generò Urano (= Cielo stellato), Ponto (= Mare) e un’altra schiera di divinità minori che entrarono in conflitto tra loro e con i 5   Il termine Pantheon deriva dal greco «pantheon», che significa «tempio di tutti gli dèi» e indica sia un edificio di culto dedicato a tutti gli dèi, come per esempio l’antico Pantheon di Roma, sia l’insieme delle divinità di una specifica religione.

L’origine dell’Universo e della Terra

genitori fino a quando Zeus e i suoi fratelli, dopo aver rovesciato Cronos (= Tempo), non si divisero il dominio dell’intero mondo. Zeus, così, governò i cieli, Poseidone il mare e Ade il regno del sottosuolo6. Secondo il filosofo greco Platone, però, l’Universo non è stato creato direttamente dalla divinità, ma da un suo servo denominato il Demiurgo: una sorta di artefice divino che ha plasmato e ordinato la materia, già esistente sotto forma di puro caos, a immagine e somiglianza di «idee innate», cioè di nozioni e concetti anch’essi preesistenti7. Da un punto di vista filosofico e teologico le varie costruzioni cosmologiche, comprese quelle successive al mondo antico, possono sintetizzarsi nelle seguenti correnti di pensiero: il panteismo, secondo il quale tutto il mondo è Dio e il divenire del mondo è il divenire di Dio; il dualismo o manicheismo, il quale sostiene l’esistenza di due princìpi eterni, il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre, in continuo conflitto tra loro; lo gnosticismo, secondo il quale il mondo (almeno quello materiale) sarebbe cattivo, prodotto di un decadimento, e quindi da respingere o oltrepassare; il deismo, il quale riconosce che il mondo è stato creato da Dio, ma che Dio, una volta creatolo, lo ha abbandonato a se stesso; infine il materialismo, il quale considera che il mondo è nato, senza alcun disegno trascendente, dal puro gioco di una materia sempre esistita. 2.  L’origine dell’Universo nel racconto biblico Dai brevi cenni innanzi esposti si deduce che, nella maggioranza dei casi, alla base delle antiche costruzioni cosmogoniche c’è l’idea di un «caos» iniziale: termine che nel significato originario non indicava uno stato di «disordine», com’è inteso oggi, ma «spazio aperto o voragine» e, simbolicamente, «abisso, tenebrosità, oscurità»8. Anche il racconto biblico della creazione, nella cosiddetta tradizione sacerdotale, nel rappresentare la creazione del mondo lascia presupporre uno stato iniziale informe, in cui predominavano le tenebre e l’acqua. Con un linguaggio suggestivamente metaforico esso narra come Dio, in sei giorni, creò tutte le cose dal nulla, facendole passare dal caos all’armonia e dal disordine alla bellezza e collocando l’uomo al vertice del creato per dominarlo: dominio che si deve intendere non come 6   Fondamentale per la conoscenza della cosmogonia dell’antica Grecia sono «Le Opere e i Giorni» e la «Teogonia», due poemi di Esiodo (VIII-VII sec. a.C.). 7   Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, Rizzoli, Milano, 2003. 8   Esiodo così afferma nella Teogonia: «Primo di tutti fu il Caos…». Il caos esiodeo, però, «non esiste da sempre: si manifesta d’improvviso e perdura, anche dopo che si sono sviluppati gli esseri divini, come uno spazio di fondo, un buco nero dell’universo». Cfr. Guidorizzi G., Il mito greco, vol. 1 Gli dèi, Milano, Mondadori, 2009, p. 1168. L’espressione esiodea è riecheggiata, ma con contenuti differenti, nel primo versetto del Vangelo di Giovanni che dice: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».

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possesso per fruire in maniera egoistica dei suoi beni, ma come capacità di comprenderne e spiegarne il funzionamento in maniera tale da gestirne la vita e le ricchezze. Nel libro della Genesi (1: 1-24) così si legge: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: Sia la luce!. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno. Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: terzo giorno. Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e

Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra» (Genesi 1:14).

L’origine dell’Universo e della Terra

servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno. Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra». E fu sera e fu mattina: quinto giorno. Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra»…Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati…».

Il racconto, con un linguaggio semplice ma poeticamente icastico, disegna un grande affresco in cui l’azione creatrice di Dio «procede quasi per cerchi concentrici, partendo dagli spazi siderali con i loro astri per avvicinarsi via via all’orizzonte terrestre che viene popolato da creature viventi e reso lussureggiante di vegetazione. Ma al centro, e quindi al vertice del creato, c’è l’uomo. Lo scopo dell’autore biblico è di dare una risposta al senso nascosto delle cose e dell’uomo, ai perché dell’essere e della vita, ed egli lo fa considerandoli come frutto di un grandioso progetto divino…»9. Nel corso della creazione Dio opera tre separazioni (la notte dal giorno, il cielo dalla terra, la terra dal mare) e tre fattori o soggetti di abbellimento (gli astri, gli animali, l’uomo), stabilendo precise correlazioni tra le due serie del suo operato. Ad ogni separazione operata nella prima serie, infatti, corrisponde un dominio assegnato ai corpi celesti e agli esseri nella seconda serie: gli astri dominano la luce e le tenebre, gli uccelli si muovono nell’aria 9   La Bibbia, Edizione condensata di Selezione dal Reader’s Digest, a cura di Ravasi G., Milano, 1985, pp. 18-19.

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sotto il firmamento e i pesci nell’acqua; gli animali e gli uomini popolano la Terra. Interessante è notare come l’autore del testo biblico, menzionando la creazione di «una luce maggiore per illuminare il giorno» e di «una luce minore per illuminare la Terra», non utilizza il nome Sole e Luna, volendo sottolineare che questi due astri erano elementi del creato e non divinità, come invece erano considerati dalle contemporanee religioni politeiste. 3.  La creazione dell’Universo secondo la scienza moderna: il Big Bang L’Universo è anche chiamato «cosmo»: termine che in greco significa «ordine» e che, quindi, esprime il concetto di un sistema ordinato e armonico, opposto a quello di «caos» che invece indica uno stato di disordine. Tutti gli scienziati moderni, infatti, concordano sul fatto che l’Universo sin dalla sua origine sia governato dalle stesse leggi e costanti fisiche, sebbene divergano sulle modalità e sui tempi della sua nascita. Essi partono dalla constatazione che la natura della materia cosmica le si presenta sotto forme diverse di energia (gravitazionale, cinetica, nucleare, termica, luminosa) e si espande incessantemente, come dimostrano sia la formazione di nuove stelle e sia il progressivo, ma costante, allontanamento delle galassie l’una dall’altra. Dal punto di vista scientifico, quindi, l’origine dell’Universo può avere una spiegazione plausibile? La risposta immediata sarebbe negativa poiché la scienza studia solo i fenomeni osservabili, mentre l’origine dell’Universo è, per definizione, un evento irripetibile: quindi non osservabile direttamente e non riproducibile in laboratorio. Attraverso sofisticati strumenti di tipo ottico e acustico, tuttavia, astronomi e astrofisici sono riusciti a captare e ricostruire i segnali di avvenimenti che, avvenuti nello spazio miliardi di anni fa, hanno consentito di formulare due teorie fondamentali sull’origine dell’Universo: quella dello «stato stazionario» e quella «evolutiva» o «del Big Bang» (= Grande Scoppio). La teoria dello «stato stazionario», formulata intorno al 1950, sostiene che l’Universo, nonostante la sua continua espansione, sia sempre esistito nelle sue attuali componenti e così più o meno resterà per sempre, poiché le galassie, a mano a mano che si allontanano, lasciano spazi vuoti in cui si riproducono atomi di idrogeno che danno luogo alla creazione di nuovi corpi celesti. I cambiamenti che continuamente si verificano, pertanto, non sono altro che processi di compensazione. Nel tempo e nello spazio, in breve, il cosmo resta immutato10. La teoria del «Big Bang» fu intuita intorno al 1920, ma formulata solo intorno al 1965 grazie ad una serie di scoperte relative all’esistenza della 10   La teoria dello stato stazionario è stata sviluppata, in collaborazione, dai matematici, fisici e astronomi Fred Hoyle (1915-2001), Hermann Bondi (1919-2005) e Thomas Gold (1920-2004).

L’origine dell’Universo e della Terra

BASSA RISOLUZIONE!!!!

La figura sintetizza la progressiva espansione dello spazio cosmico secondo il modello dell’Universo inflazionario. Nell’istante zero, che si fa risalire a circa 15 miliardi di anni fa, tutto il materiale cosmico era concentrato in un volume piccolo come un atomo, avente una densità infinita e una temperatura pari a diversi miliardi di gradi. Poi, appena esploso, in una frazione infinitesimale di secondo il volume dell’energia crebbe miliardi e miliardi di volte, mentre la temperatura scese a pochi gradi. Quindi la materia cosmica prese ad espandersi più lentamente, innescando però nuovi processi di trasformazione: l’energia, cioè, si condensò in elettroni, in protoni e neutroni. Così, nel giro di 3 minuti dal grande scoppio, si formarono i primi nuclei atomici (idrogeno, elio). Dopo altri 4 minuti l’Universo divenne troppo freddo per innescare nuove reazioni di fusione nucleare e, pertanto, restò a lungo in uno stato di impenetrabile nebbia luminosa di radiazioni e di gas (elettroni, protoni, nuclei di elio). Poi, circa 300.000 anni dopo l’inizio, elettroni e nuclei si unirono, formando un gas di idrogeno e, in parte minore, di elio. Quindi ebbe inizio una nuova evoluzione con la formazione delle stelle e poi dei pianeti.

cosiddetta radiazione cosmica di fondo11. Essa sostiene che inizialmente la materia cosmica fosse tutta concentrata in un unico nucleo piccolo quanto un atomo, o addirittura più piccolo, avente una densità così alta da non poterla calcolare e una temperatura pari a miliardi e miliardi di gradi. A un certo punto, per l’altissima temperatura e densità, circa 15 miliardi di anni fa il nucleo esplose con immane violenza, proiettando i suoi materiali in ogni direzione e fornendo gli elementi necessari (idrogeno ed elio) alla formazione delle galassie. Nel giro di circa un miliardesimo di secondo il volume del nucleo originario dell’Universo aumentò miliardi e miliardi di volte. Alcuni studiosi si sono posti la domanda se questa grande esplosione di energia iniziale non sia prefigurabile nella luce del primo giorno della creazione biblica, là dove Dio dice: «Sia la luce! E la luce fu». Essi, infatti, ci dicono che prima del Big Bang non esistevano né lo spazio né il tempo. Dopo questa prima fase, che sarebbe durata tre minuti, la «sfera di fuoco» cominciò a raffreddarsi, rallentando la sua espansione e dando 11   La teoria evolutiva, che poi prenderà il nome di Big Bang, mosse i primi passi con Georges Lemaître (1894-1966) e si basava sulle equazioni della relatività generale di Albert Einstein (1879-1955). Essa, però, fu supportata e sviluppata da George Gamow (1904-1968).

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origine a un tipo di gas formato da idrogeno e in piccola parte da elio, il quale diede vita alle nebulose, alle galassie, alle stelle e agli altri corpi celesti. La sua espansione, tuttavia, continua ancora con ritmi meno accelerati di quelli iniziali, ma comunque impressionanti. Le galassie, infatti, si allontanano continuamente alla sorprendente velocità di 550 milioni di km l’ora, ma mantengono costante il rapporto tra le loro posizioni. Fino a qualche anno fa l’inflazione cosmica era solo un’ipotesi necessaria per giustificare la geometria e la struttura dell’Universo, così come lo si osserva allo stato attuale, dove tutta la materia si organizza nello spazio sterminato obbedendo alle stesse leggi. Si riteneva, infatti, che solo una dilatazione esponenziale dello spazio-tempo, a partire dal piccolo nucleo originario che conteneva tutto (energia, materia elementare, spazio e tempo) avrebbe potuto spiegare la sorprendente omogeneità del cosmo. Ora, invece, questa ipotesi è stata corroborata dalla scoperta dell’esistenza, nello spazio cosmico, delle cosiddette «radiazioni di fondo o radiazioni fossili», cioè di radiazioni uguali che si propagano in tutte le direzioni e che rappresenterebbero l’«eco» o il residuo, ormai raffreddato, dell’elevata energia liberata dal grande scoppio iniziale12. Esse risalirebbero a a circa 370 mila anni dopo il Big Bang, quando la luce si separò dalla materia elementare e cominciò a propagarsi nello spazio.

Rappresentazione del processo con cui, secondo la teoria del Big Bang, ha avuto origine l’Universo e con cui continua ad espandersi. Ogni frammento proiettato nello spazio, infatti, a sua volta produce nuove esplosioni creando nuova materia. 12   Weinberg S., I primi tre minuti, Milano, Mondadori, 1977; Hack M.-Battaglia P.-Ferrari W., Origine e fine dell’Universo, Torino, Utet, 2002; Bonfiglio M., La creazione nella Bibbia e nella Scienza, Firenze, Pagnini e Martinelli, 2002; Martelet G., Evoluzione e creazione. Dall’origine del cosmo all’origine dell’uomo, Milano, Jaca Book, 2003; Sing S., Big Bang, Milano, Rizzoli, 2004; Bogdanov I. e G., Prima del Big Bang. L’origine dell’Universo, Milano, Longanesi, 2008.

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L’espansione dell’Universo troverebbe riscontro anche in parecchi versetti della Bibbia. Ne citiamo alcuni: «Egli (Dio) distende il settentrione sul vuoto (Giobbe 26:7); Egli distende i cieli come una tenda (Isaia 40:2); Egli… con la sua intelligenza ha disteso i cieli (Geremia 51:15); Con le mie mani ho disteso i cieli e do ordini a tutte le loro schiere (Isaia 45:12); il Signore che ha disteso i cieli (Zaccaria 12:1); C’è Uno che dimora sul circolo della Terra, i cui abitanti sono come cavallette, Colui che distende i cieli proprio come un fine velo, che li spiega come una tenda in cui dimorare» (Isaia 40:22); Da solo dispiega i cieli (Giobbe 9:8)».

In tutte queste espressioni molti esegeti e fisici scorgono l’immagine di uno spazio celeste che si dilata e si distende. Secondo la teoria del Big Bang, infatti, «l’Universo potrebbe andare incontro a due tipi di evoluzione. Da un lato l’espansione continuerebbe all’infinito, fino a rendere sempre più rarefatta la materia cosmica e sempre più debole il calore delle stelle, che, esaurite le riserve di combustibile nucleare, diventerebbero masse inerti e senza luce. Dall’altro lato la velocità di espansione potrebbe gradualmente rallentare ed essere sopraffatta dalla forza di gravità esercitata dal centro del cosmo, così che le galassie sarebbero costrette ad invertire il loro moto e a ravvicinarsi fino a ricomporre il nucleo originario. Si avrebbe, così, il Big Grunch (= Grande Schiacciamento), che è l’opposto del Big Bang. Quindi si innescherebbe una nuova esplosione, con successiva dilatazione e conseguente contrazione, in un processo all’infinito»13. Tutta la materia dell’Universo, cioè delle galassie e delle stelle, è dunque costituita da energia e la sua evoluzione è regolata, appunto, da flussi di energia. Anche in questo caso la sua natura sembra adombrata in alcuni versetti della Bibbia, là dove si legge: «Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri? Egli fa uscire in numero preciso il loro esercito e li chiama tutti per nome; per la sua onnipotenza e il vigore della sua forza non ne manca alcuno» (Isaia 40:26).

Isaia dice che Dio, oltre ad aver creato le galassie e le stelle, le conosce tutte per nome e le controlla con la sua potenza. Ma c’è chi traduce così il versetto finale: «A motivo dell’abbondanza di energia, essendo Egli anche vigoroso in potenza, non ne manca nessuna».

  Formica C., Progetto Globo, Napoli, Ferraro, 1996, p. 21.

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Un’immagine della Nebulosa Omega e della nascita di nuove stelle, che si formano per reazione nucleare. La Nebulosa Omega si trova a una distanza di circa 6.000 anni luce da noi e, quindi, l’immagine che noi vediamo si riferisce a stelle ormai non più giovani.

Da ciò si evincerebbe la consapevolezza, da parte di Isaia, che i corpi celesti trasformano la materia in energia come fornaci nucleari. Eppure la relazione fra l’energia e la materia, espressa dalla formula «E = mc2», è stata scoperta solo nel 1905 da Albert Einstein. L’equazione indica che l’energia racchiusa nella materia (E) equivale alla massa di un sistema fisico (m) moltiplicata per la velocità della luce elevata al quadrato (c²). Massa ed energia, in sostanza, sono due realtà equivalenti, come se fossero le due facce della stessa medaglia, in quanto la materia che apparentemente scompare nel corso di una reazione nucleare si trasforma in energia. La materia, quindi, non è altro che una delle innumerevoli forme che l’energia assume: ossia energia materializzata. Poteva essere noto tutto ciò a Isaia circa 2750 anni fa?

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4.  Il Big Bang e i problemi insoluti La teoria del Big Bang propone un modello cosmologico che ormai è accettato dagli ambienti scientifici di tutto il mondo. Per molti scienziati, quindi, la nuova fisica è in grado di spiegare l’origine delle strutture complesse dell’Universo senza bisogno di ricorrere all’opera organizzatrice di una divinità. Essa, però, non è risolutiva e lascia aperti molti problemi. Infatti, se fornisce una valida spiegazione sui processi evolutivi dell’Universo, non dà una risposta sull’origine del nucleo dal quale la materia cosmica si è espansa, creando tutti i corpi celesti. A tal proposito l’astrofisico Peebles, che ha molto contribuito alla formulazione della teoria del Big Bang, ha scritto: «La teoria del Big Bang descrive come il nostro universo evolve, non come esso iniziò»14. E il fisico Barrow aggiunge: «Quando diciamo di voler spiegare la struttura dell’Universo, intendiamo dire che vogliamo spiegare la forma dell’Universo visibile. Un giorno forse saremo in grado di dire qualcosa sulle regioni cosmiche a noi più vicine; ma non potremo mai conoscere le origini dell’Universo»15. Noi, in sostanza, conosciamo solo una parte dell’Universo. Restano insoddisfatte, quindi, domande come queste: Chi ha formato o come si è formato il nucleo originario? L’ordine dell’Universo, che da miliardi di anni si espande obbedendo sempre alle stesse leggi fisiche, è frutto della casualità o risponde a un progetto preciso? E, nella seconda ipotesi, chi sarebbe l’autore di questo progetto? Per alcuni scienziati l’esistenza di un progetto si manifesta nelle stesse leggi della fisica: cioè nel fatto che materia ed energia non sprofondino nel caos, ma diano vita a strutture simmetriche di eleganza e coerenza entusiasmanti, davanti alle quali spesso si prova un senso di commossa meraviglia16. Sta di fatto che le forze liberate dal Big Bang erano e sono – eccezionalmente o miracolosamente – in equilibrio. Se il Big Bang fosse stato leggermente meno violento, l’Universo avrebbe avuto un’espansione più lenta e ben presto, nel giro di pochi minuti o di qualche milione di anni, sarebbe di nuovo collassato su se stesso. Se invece l’esplosione fosse stata leggermente più violenta, esso avrebbe potuto disperdersi in una nube troppo rarefatta non in grado di aggregarsi e dare luogo a stelle. I fisici calcolano 14   Peebles P.J.E., Making Sense of Modern Cosmology, in “Scientific American”, January, 2001. 15   Barrow J.D., Origini dell’Universo, Firenze, Sansoni, 1995, p. 176. 16   Una dimostrazione matematica dell’esistenza di Dio, basata su una serie di assiomi, è stata fornita da Kurt Gödel (1906-1978), scienziato di origine ceca ma vissuto negli Stati Uniti, il quale, insieme con Aristotele Frege (1848-1925), è ritenuto uno dei più grandi logici della storia umana (Gödel K., La prova matematica dell’esistenza di Dio, Torino, Bollati Boringhieri, 2006). Le sue tesi, però, sono confutate, non senza una punta di ironia, da Paulos J.A., La prova matematica dell’inesistenza di Dio, Milano, Rizzoli, 2008.

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che, se il rapporto stabilitosi al momento del Big Bang tra la materia e l’energia e il volume spaziale si fosse discostato di un valore infinitesimale (pari a un miliardesimo di milionesimo dell’1%) rispetto a quello che è successo, ne sarebbe derivato un Universo caotico e caratterizzato da ghiacci eterni. 5.  Anche molti non credenti accettano l’idea di una mente ordinatrice Paul Charles William Davies, scienziato vivente che ha condotto studi fondamentali nel campo della fisica quantistica e dell’astrobiologia, ammette che non è facile rinunciare all’ipotesi, sia pure suggestiva e non dimostrabile, che nella struttura dell’Universo, e dei fenomeni che vi si svolgono, appaia una forma di intenzionalità e razionalità riconducibile a un Dio come «coscienza universale»: un Dio, cioè, identificabile con una mente ordinatrice che, pur situandosi all’interno della natura, ne determina il corso attraverso un processo di autoconsapevolezza di cui le leggi fisiche sono un’espressione. Così, infatti, egli scrive: «Si tratterebbe dunque non di un Dio che ha creato dal nulla ogni cosa, ma di una mente universale che pervade il cosmo dirigendolo e controllandolo attraverso le leggi di natura per conseguire un suo fine. Potremmo definire in altri termini questa concezione dicendo che la natura è un prodotto della sua propria tecnologia e che l’Universo è una mente; un sistema, vale a dire, che si osserva e si autoorganizza». Lo studioso, tendenzialmente ateo, si sente quindi obbligato a introdurre il concetto di “Dio naturale” e aggiunge: «Bisogna dunque concludere che la filosofia secondo cui si ricerca un’unica soluzione fisica alla fondamentale equazione logico/matematica dell’Universo comporta la negazione dell’esistenza di Dio? No di certo. Tale filosofia rende superflua l’idea di un Dio creatore, ma non esclude affatto l’esistenza di una mente universale che partecipa dell’Universo fisico: sarà semmai un Dio naturale e non sovrannaturale»17. Davies, inoltre, mostra tutte le sue perplessità nel trarne conclusioni scientifiche definitive, poiché è cosciente che le informazioni ricavabili dalla materia cosmica sono ancora limitate e incomplete. Il 90% della materia 17   Davies P.Ch.W., Dio e la nuova fisica, Milano, Mondadori, 2002, p. 306. Questo volume, che non intende trattare argomenti di fede e si occupa piuttosto di valutare l’impatto esercitato dalla nuova fisica su questioni che un tempo erano esclusivamente di pertinenza religiosa, rappresenta un’importante fonte di riferimento per gran parte degli autori che riflettono sui rapporti fra scienza e religione. Esso esamina in modo organico, esauriente e mai polemico tutti i settori delle scienze naturali in cui viene chiamato in causa, direttamente o indirettamente, il tema di Dio. Dello stesso autore cfr. La mente di Dio, Milano, Mondadori, 1996; Gli ultimi tre minuti, Firenze, Sansoni, 1995; Un solo universo o infiniti universi?, Roma, Di Renzo Editore, 2012; Da dove viene la vita, Milano, Mondadori, 2000; Sull’orlo dell’infinito, Milano, Mondadori 1994.

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presente nel cosmo, infatti, è composto da «materia oscura»: cioè da materia che non è osservabile direttamente, in quanto non emette radiazioni elettromagnetiche, ma che si manifesta attraverso le leggi della gravitazione18. Lo scienziato, in sostanza, conclude che la conoscenza scientifica del cosmo è ancora all’inizio e che, comunque, teorie considerate inoppugnabili possono essere smentite da successive scoperte, per cui credere ciecamente nella scienza è un atto di fede non diverso da quello di credere ciecamente nella Bibbia. Anzi, inizialmente critico verso le riflessioni della filosofia e della teologia sui grandi temi del cosmo e dell’esistenza, giunge alla conclusione che, con il progredire della ricerca, la visione scientifica del mondo si mescola inevitabilmente con interrogativi di ordine filosofico e religioso. Così, infatti, scrive: «Può sembrar strano, ma ho l’impressione che la scienza ci indichi la strada verso Dio con maggiore sicurezza di quanto non faccia la religione…A torto o a ragione, ciò che è certo è che la scienza ha raggiunto oggi un punto in cui può affrontare seriamente questioni ritenute un tempo esclusivamente religiose: e questo fatto stesso è indicativo delle implicazioni della nuova fisica». L’autore, in sostanza, è «convinto che c’è di più, nel mondo, di quanto non sembri a prima vista»19. La teoria del Big Bang, in breve, lascia irrisolti molti interrogativi da sempre sollevati dalle varie filosofie e religioni. Essa, in effetti, non riesce a rispondere a domande di questo tipo: Come e da chi fu creato l’universo? Avrà una fine e, in tal caso, quale sarà? Che cos’è la materia e quali sono le sue origini? Che cos’è la mente e può essa sopravvivere alla morte? Che cosa sono il tempo e lo spazio e in qual modo queste due categorie concettuali si conciliano con l’idea di Dio? Si può concludere, quindi, che quanto più la Fisica approfondisce la conoscenza cosmologica tanto più sconfina in un campo che sta oltre la Fisica e i suoi metodi: entra, cioè, nell’ambito della Metafisica. La visione scientifica del mondo, insomma, si mescola inevitabilmente con interrogativi di ordine filosofico e religioso. Sembra giunto, pertanto, il momento in cui 18   Ciò è deducibile dal fatto che nel cosmo le galassie, nella maggioranza dei casi, non sono distribuite in modo isolato, ma risultano disposte in strutture più grandi, cioè in ammassi di galassie. Tra un ammasso e l’altro esistono immensi vuoti cosmici che occupano in realtà l’80% dello spazio conosciuto. La materia visibile, pertanto, si presenta «a nido d’api» e le galassie separano regioni sostanzialmente prive di materia luminosa. A causa della forza di attrazione gravitazionale, all’interno di uno stesso ammasso le galassie si muovono con una velocità i cui valori, secondo gli studiosi, sono di gran lunga più alti (da 10 a 100 volte) rispetto a quelli che si otterrebbero se l’attrazione fosse esercitata solo dall’ammasso galattico visibile. Ne consegue che deve esistere una quantità di materia oscura, non visibile ma gravitazionalmente «attiva», che giustifica quei valori di velocità e che è detta anche «massa mancante». In sostanza non è la massa che manca, ma la luce. Bruce H. Margon, astronomo all’Università di Washington, afferma: «È una situazione alquanto imbarazzante dover ammettere che non riusciamo a trovare il 90% [della materia] dell’Universo» (New York Times, 2001). 19   Davies P.Ch.W., Dio e la nuova fisica, op. cit., p. 11.

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Un’immagine composta che mostra la distribuzione di materia oscura, di galassie e di gas caldo al centro di un ammasso di galassie in collisione, chiamato Abell 520, il quale dista 2.4 miliardi di anni luce da noi. L’immagine visibile è stata ottenuta, attraverso tecniche particolari usate dagli astronomi, dal telescopio spaziale Hubble, situato negli strati esterni dell’atmosfera terrestre a circa 560 km di altezza, e dal Canada-France-Hawaii Telescope.

scienza e religione non possono più ignorarsi poiché, sia pure con linguaggi e prospettive differenti, entrambe parlano di Dio. Antonino Zichichi, uno dei maggiori scienziati della fisica moderna, a tal proposito aggiunge che «le conquiste della scienza non oscurano le leggi divine, ma le rafforzano, contribuendo a risvegliare lo stupore e l’ammirazione per il meraviglioso spettacolo del cosmo, che va dal cuore di un protone ai confini dell’universo. Nessuna scoperta scientifica ha nesso in dubbio l’esistenza di Dio. La scienza è fonte di valori che sono in comunione, non in antitesi con l’insegnamento delle Sacre Scritture, con i valori quindi della Verità Rivelata. Né la Scienza né la Logica permettono di concludere che Dio non esiste. Nessun ateo può quindi illudersi di essere più logico e scientifico di colui che crede. Chi sceglie l’Ateismo fa quindi un atto di Fede: nel nulla, Credere in Dio è più logico e più scientifico che credere nel nulla. Si potrebbe obiettare: dal momento in cui risulta impossibile arrivare a Dio tramite una scoperta di Logica Matematica o per via di una scoperta scientifica né logica né scienza possono essere più invocate per arrivare all’atto di Fede. Tutto ciò è esatto. Infatti la fede è un dono di Dio. Corroborata però nell’atto di Ragione nel Trascendente. Si rifletta comunque un po’. La Logica Matematica e la Scienza sono attività intellettuali che operano nell’Immanente.

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Se fosse possibile dimostrare l’esistenza di Dio per via di un rigoroso procedimento di Logica Matematica, Dio sarebbe l’equivalente di un teorema matematico…»20. 6.  La nascita dell’Universo è avvenuta per caso? Secondo alcuni studiosi fedeli alla teoria dello «stato stazionario», come già si è detto, l’Universo non ha avuto alcuna origine, perché è sempre esistito e sempre esisterà nella medesima struttura delle sue attuali componenti; secondo altri, invece, esisteva sotto forma di caos ed ha assunto l’attuale struttura per effetto di un’evoluzione dovuta a cause accidentali. Ora, poiché uno dei principi fondamentali della scienza è quello di causalità che definisce il vincolo concettuale tra fenomeni che seguono l’uno all’altro, in quanto l’uno è evidente causa dell’altro, appare profondamente antiscientifico teorizzare un Universo eterno, cioè senza inizio e senza fine, oppure una sua origine dovuta ad eventi accidentali21. Ciò che avviene per caso non può ripetersi, mentre le leggi che regolano l’Universo si ripetono sempre con le stesse modalità e con gli stessi ritmi. La stessa teoria del Big Bang esclude la casualità. Lo scienziato statunitense Francis Collins, il quale ha guidato il team di ricercatori che ha decifrato il genoma umano (DNA), scrive che il Big Bang «domanda a gran voce una spiegazione divina e, infatti, si accorda perfettamente con l’idea di un Dio Creatore trascendente. Non riesco a capire come la natura avrebbe potuto crearsi da sé. Solo una forza al di fuori del tempo e dello spazio avrebbe potuto fare una cosa simile»22.   Zichichi A., Perché credo in Colui che ha fatto il mondo, Milano, il Saggiatore, 1999.   Davies, in merito al principio di causalità e alla fisica quantistica che non attribuisce necessariamente una causa ad ogni evento, scrive «L’argomento cosmologico si fonda sul presupposto che ogni cosa deve avere una causa e arriva alla conclusione che almeno una cosa (Dio) non è causata da alcunché: l’argomento è dunque intrinsecamente contraddittorio. Inoltre, se si ammette che qualcosa – e cioè Dio – possa esistere senza causa, viene meno la necessità del concetto di Dio. Infatti, anche l’universo stesso potrebbe esistere senza una causa esterna a sé. Supporre che l’universo sia causa di se stesso richiede una sospensione dell’incredulità non maggiore che dichiarare che Dio è causa di se stesso… Anche se possiamo attribuire una causa a ogni evento (e ciò è improbabile, a quanto ci dice la fisica quantistica) rimarrebbe sempre misterioso perché l’universo è fatto come è fatto, o perché c’è un universo mentre potrebbe non esserci…Dio quindi non è tanto causa dell’universo quanto spiegazione dell’universo stesso…L’universo è così com’è perché Dio ha deciso che fosse così. La scienza, che per definizione si occupa solo dell’universo fisico, potrà riuscire a spiegare ogni cosa ricorrendo ad altre cose, ma la totalità delle cose fisiche richiede una spiegazione dall’esterno» (Davies P. Ch.W., Dio e la nuova fisica, op. cit., p. 61-73). 22   Collins F., Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia tra scienza e fede, Milano, Sperling & Kupfer, 2007, p. 63. 20 21

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Una rappresentazione schematica del sistema solare, che è solo un frammento dell’Universo. Esso è costituito da una varietà di corpi celesti (pianeti, satelliti naturali, pianeti nani e miliardi di corpi minori come asteroidi, comete, meteoriti ecc.) che sono tenuti in equilibrio dalla forza di gravità e compiono orbite secondo precise leggi della fisica, in cui molti scienziati scorgono una mente ordinatrice.

A sua volta Gerald Schroeder, fisico e teologo israeliano, aggiunge che l’Universo, la vita e gli esseri umani non sono un prodotto del caso per un motivo estremamente semplice: perché non ce ne sarebbe stato il tempo. In risposta al fisico inglese Stephen Hawking, il quale sostiene che per caso può accadere di tutto – anche che una scimmia, pestando a casaccio con le dita su una macchina da scrivere, una volta ogni tanto riesca a sfornare un sonetto di Shakespeare – Schroeder risponde che, in base ai suoi calcoli, le probabilità di un evento simile sono 1 su 10 seguito da 689 zeri: un numero incomprensibile per la mente umana. Più precisamente, egli ha simulato tutte le combinazioni possibili relative alla composizione della metà del primo verso di un sonetto di Shakespeare che è composto di sole 16 lettere (Shall I compare thee to a summer’s day? = Ti paragonerò a un giorno d’estate?) e ha calcolato che, per esaurire tutte le combinazioni possibili, la scimmia impiegherebbe due milioni di miliardi di anni23. Pertanto, anche se tutte le scimmie e tutti gli altri animali della Terra si mettessero a battere sui tasti di macchine per scrivere per un tempo enormemente superiore a quello trascorso dal Big Bang a oggi, le probabilità di comporre un sonetto di Shakespeare sarebbero incredibilmente esigue. Un tempo infinitamente maggiore, quindi, ci sarebbe voluto per realizza23

  Heinze T., Creazione o Evoluzione, Napoli, Edizioni Centro Biblico, 1973,

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La Scuola di Atene, dipinto di Raffaello Sanzio nella Cappella Sistina. Al centro del dipinto sono i due principali filosofi dell’antichità: a sinistra Platone, esponente di una filosofia basata sulle idee trascendentali che risiedono nella sfera celeste, e a destra Aristotele, propugnatore di una filosofia fondata sull’attenzione all’uomo e alla sua interiorità. Nelle loro figure è stato visto un parallelismo tra gli apostoli Pietro e Paolo. Esse sembrano bene esprimere il pensiero di Papa Giovanni Paolo II che così apre l’enciclica Fede e Ragione: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere lui, perché, conoscendolo ed amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso».

re, attraverso innumerevoli tentativi accidentali, lo straordinario spettacolo dell’Universo e della vita: risultato di un processo senz’altro ben più complesso della composizione di un sonetto di Shakespeare, perché richiede un numero di variabili infinitamente più grande24. Analogo parere esprime Trinh Xuan Thuan, astrofico vietnamita naturalizzato americano, al quale la nascita casuale dell’Universo appare improbabile quanto la possibilità che un arciere colpisca un bersaglio di un centimetro quadrato da una distanza pari a quindici miliardi di anni luce25. Egli afferma che l’Universo dà vita a un equilibrio dinamico che sorpassa 24   Schroeder G.L., Genesi e Big Bang. Uno straordinario parallelo fra cosmologia moderna e Bibbia, Milano, Interno Giallo, 1991; Idem, L’Universo sapiente. Dall’atomo a Dio, Milano, Il Saggiatore, 2002; Idem, The Hidden Face of God: Science Reveals the Ultimate Truth, Free Press, 2002. 25   Un anno luce equivale alla distanza percorsa nel vuoto, in un anno, da un raggio di luce, la quale procede alla velocità di circa 300.000 km al secondo (cioè circa 158 miliardi di km l’anno).

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ogni macchina, e qualsivoglia meccanismo, con un grado di autoregolazione di livello assolutamente inimmaginabile a priori, onde la scienza, sebbene possa misu­rarlo e valutarne la perfezione, non sapreb­be creare nulla di simile. Egli, in particolare, parte dalla considerazione che l’Universo avrebbe potuto avere una, due, tre, quattro o un’infinità di dimensioni, ma dimostra però che solo l’Universo a tre dimensioni, quale esso è, poteva essere duraturo e perfettibile. Con adeguate argomentazioni, inoltre, spiega che la concentrazione dell’Universo è regolata in modo ottimale. Secondo i suoi calcoli, infatti, un Universo più con­centrato, ove pianeti più piccoli avrebbero potuto essere più vi­cini a un Sole più piccolo, non avrebbe consentito la nascita e lo sviluppo della vita, così come un Universo meno concentrato, con maggiore distanza fra pianeti più grandi, sarebbe risultato sterile e freddo. Per onestà intellettuale, comunque, l’astrofisico ammette che il suo ragionamento matematico non è una prova assoluta dell’esistenza di un «architetto» cui si de­ve l’armonia del cosmo; ma, nello stesso tempo, avverte che, rinunciando a tale ipotesi, si cade in una situazione complicata, senza via d’uscita e irrazionale26. Tuttavia, essendo di cultura asiatica e buddhista, egli non giunge a distinguere Dio dall’Universo e, sebbene i suoi ragionamenti conducano all’i­potesi di un’intelligenza indipendente e personale, resta impan­tanato in una prospettiva monistica ove tutto sarebbe Dio27. 7.  La durata della creazione: sei giorni o 15 miliardi di anni? La teologia tradizionale sostiene che, se Dio avesse voluto formare l’Universo in un unico atto, avrebbe potuto farlo. Secondo la narrazione biblica, invece, il metodo da Lui prescelto è stato quello di un graduale dispiegamento per motivi che, probabilmente, avevano una finalità didascalica. L’adozione della settimana come schema dell’operare di Dio, in sostanza, mette in luce la necessità che avverte ogni essere umano di riservare, dopo aver provveduto alle proprie necessità materiali con un periodo di lavoro, uno spazio alla glorificazione del Creatore e alla sfera spirituale per rientrare in se stesso, riscoprire il senso della sua vita e coltivare il rapporto con gli altri28. 26   Thuan T.X., Big Bang: origine e destino dell’Universo, Torino, Electa Gallimard, 1993; Idem, Il caos e l’armonia. Bellezza e asimmetrie del mondo fisico, Bari, Dedalo, 2000. Sull’argomento cfr. anche Schroeder G.L., L’universo sapiente. Dall’atomo a Dio, Milano, Il Saggiatore, 2002; Morris H.M., The Bible and Moderne Science, Chicago, Moody Press, 1951; Idem, Biblical Cosmology and Moderne Science, Nutley, Craig Press, 1970; Whitcomb J.C.-Morris H.M., Genesis Record. A Scientific and Devotional Commentary on the Book of Beginnings, Grand Rapids, Baker Book, 1995. 27   Ricard M.-Thuan T.X., Dal Big Bang all’illuminazione: meditazione e fisica quantistica, Torino, Edizioni Amrita, 2009. 28   Sacchi A.-Rocchi S., La Bibbia. Un percorso di liberazione, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2007, p. 15.

L’origine dell’Universo e della Terra

La scansione temporale della creazione in sei giorni, che è ovviamente un espediente letterario del narratore per rendere comprensibile agli uomini del tempo un avvenimento così complesso qual è l’origine dell’Universo, ha comunque suscitato una serie di interpretazioni e di polemiche sul significato e sulla durata da attribuire ai giorni biblici, alcuni dei quali nel racconto biblico hanno luogo prima della stessa creazione del Sole e della Terra. La parola ebraica utilizzata come giorno o come anno nel libro della Genesi, in effetti, indica un intervallo di tempo generico, che assume significato di volta in volta diverso a seconda del contesto in cui si trova, dato che per Dio il tempo non esiste e la percezione che ne ha l’uomo è limitata alle esperienze della sua breve vita. Nel Libro dei Salmi, per esempio, Davide dice: «Perché mille anni, agli occhi tuoi, sono come il giorno d’ieri quand’è passato, e come una veglia nella notte. Tu li porti via come in una piena; son come un sogno. Son come l’erba che verdeggia la mattina; la mattina essa fiorisce e verdeggia, la sera è segata e si secca» (Salmo 90: 4-6).

In questo caso, come in altri analoghi della Bibbia, mille anni rappresentano un numero non ben definito per significare una grande quantità di anni. Anche nella Genesi (2:4) si legge: «Nel giorno che Dio fece la terra e i cieli», espressione che equivale in maniera più generica «quando Dio creò il mondo». I sei giorni della creazione, quindi, già dagli autori antichi (Clemente Alessandrino, 150-215; Origene, 182-251; Sant’Agostino 354-430 ecc.) sono stati interpretati in senso allegorico. Eppure il fisico e teologo Gerald Schroeder sostiene che il racconto biblico, alla luce delle recenti scoperte della fisica, mostra una perfetta corrispondenza, sia nelle fasi che nella durata, con la cosmologia del Big Bang. Egli giunge a questa conclusione basandosi sul concetto della relatività generale introdotto da Albert Einstein (1879-1954), il quale ha dimostrato che le dimensioni dello spazio e il passaggio del tempo non sono due categorie concettuali assolute e separate, ma relative, perché la loro percezione varia in base alla velocità con cui ci moviamo. E poiché la luce si muove ad una velocità costante di circa 300.000 km al minuto, ne deriva che l’idea del flusso di tempo percepito per un dato evento, in un Universo in espansione, varia con la prospettiva dell’osservatore di tale evento. Perciò, quando un singolo evento viene osservato da due diversi punti di riferimento e a differente velocità, mille anni o anche un miliardo di anni dell’uno possono equivalere a un giorno o a pochi giorni dell’altro. Ipotizziamo, infatti, che un astronauta viaggi alla velocità della luce, cosa per il momento impossibile perché può raggiungere solo poche migliaia di chilometri l’ora. In tal caso si verificherebbe una forte dilazione del tempo: cioè il tempo dapprima subirebbe un graduale rallentamento, con il progressivo avvicinarsi alla velocità della luce, e poi si fermerebbe del tut-

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Rappresentazione dello spaziotempo della relatività secondo Einstein. La teoria della relatività demolisce il concetto di spazio e di tempo assoluti e separati l’uno dall’altro, mentre nel concetto di spaziotempo non c’è un sistema di riferimento privilegiato e per ogni evento le coordinate spaziali e temporali sono legate tra di loro in funzione dello spostamento relativo dell’osservatore.

to. Perciò al suo ritorno sulla Terra, mentre per lui sarebbero passati pochi secondi, sulla Terra sarebbero trascorsi centinaia o forse migliaia di anni. Ora, se nell’Universo ci sono numerosi corpi celesti che viaggiano a velocità differente, per ciascuno di essi il tempo scorre in modo diverso. Il tempo, quindi, è un valore relativo. Ne è una prova la diversa datazione che gli studiosi attribuiscono ai frammenti di meteoriti che cadono sulla Terra. Alcuni, per esempio, sono stati datati 4 miliardi di anni ed altri dieci. Ciò dipende non dal fatto che sono stati effettivamente creati in tempi diversi, perché secondo la teoria del Big Bang tutto l’Universo è stato creato simultaneamente, ma solo dal fatto che hanno viaggiato a velocità differenti. Schroeder, in sostanza, afferma che si può mettere d’accordo la Bibbia e la scienza. Egli, infatti, dimostra che la stessa e unica sequenza di avvenimenti, la quale va dal principio fino alla comparsa del genere umano, ha richiesto simultaneamente sei giorni e 15 miliardi di anni. In che modo è possibile ciò? La risposta è che ciò è possibile se si comprime il tempo mettendosi dalla prospettiva della Bibbia, la quale guarda il tempo partendo dal principio: cioè da quando esso non esisteva ancora. La Bibbia, in altri termini, vede i giorni della Creazione da una prospettiva che include l’intero Universo e guarda al futuro dal passato. Secondo i calcoli di Schroeder, com-

L’origine dell’Universo e della Terra

Una delle cosiddette Tavolette di Ebla che, insieme a tanti altri ritrovamenti archeologici, Schroeder chiama in causa per confermare l’esattezza di notizie, di luoghi, di persone e di episodi menzionati nella Bibbia. Ebla è un’antica città situata in Siria, la cui scoperta è avvenuta intorno al 1980. Qui gli scavi hanno portato alla luce importanti documenti, scritti in caratteri cuneiformi su tavole di creta e risalenti al III millennio a.C., i quali riportano diversi riferimenti ai patriarchi, a persone e a luoghi che sono presenti nella Genesi e che gli storici ritenevano immaginari. Conferme dello stesso tipo, peraltro, provengono anche da tavolette trovate negli scavi di altre città mesopotamiche, come per esempio le città di Mari (IV millennio a. C.) e Nuzi (III millennio a.C.).

primendo fortemente il tempo in questo modo, i sei giorni della Genesi corrispondono esattamente ai 15 miliardi di anni che sono passati dal momento del Big Bang. Il calendario cosmologico moderno, quindi, viene a coincidere con quello biblico. Lo scienziato così scrive: «Le due versioni sono esatte entrambe. La stessa sequenza degli avvenimenti dal principio alla comparsa dell’umanità ha richiesto sei giorni e 15 miliardi di anni, simultaneamente, a partire dallo stesso istante per finire nello stesso istante»29. 29   Schroeder (Genesi e Big Bang, op. cit., cap. 2) osserva: «Ora, se prima di Adamo trascorsero solo sei giorni, come possiamo comprimere nel tempo concesso tutti i cicli di for-

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Schroeder, per corroborare la sua tesi, esamina anche diversi episodi della Genesi, da Abramo in poi, e li mette in relazione con ritrovamenti archeologici, riscontrando una totale corrispondenza, pur entro i margini di errore consentiti dai diversi metodi di datazione, tra i periodi storici riferiti dalla Bibbia e quelli attribuiti dagli studiosi ai relativi reperti archeologici. Egli, quindi, si domanda: se per tutta la narrazione della Bibbia, da Adamo in poi, c’è corrispondenza assoluta di date, perché dovrebbe esserci discordanza di tempi tra la creazione biblica e quella scientifica? Nello stesso tempo, però, precisa che il teologo non è tenuto a dimostrare la scientificità della Bibbia, ma a indagare sul suo significato simbolico per fini spirituali. Egli, infatti, individua due categorie di ricercatori che, pur mirando allo stesso obiettivo, studiano i misteri del cosmo usando fonti di informazioni talmente diverse da essere spinte su posizioni antagoniste: l’una cerca la verità attraverso la fisica e l’altra attraverso la Bibbia. Lo scienziato conclude che le due posizioni sono solo apparentemente antagoniste ed, anzi, sembrano il frutto «di una sorta di provincialismo professionale, di una cultura miope. La comprensione tanto della fisica quanto della tradizione biblica mostra che i capitoli di apertura della Genesi e le scoperte della moderna cosmologia si sostengono l’un l’altra anziché smentirsi a vicenda»30. Bibbia e Scienza, insomma, riflettono la stessa realtà, descrivendola però con differenti terminologie: l’una usa un linguaggio semplice e metaforico, adatto alla comprensione dell’uomo vissuto prima della rivoluzione scientifica, l’altra analizza la struttura e gli aspetti della natura e della vita con sistemi razionali e con ragionamenti così sottili che solo pochi specialisti possono comprendere anche in piena età scientifica31.

mazione e distruzione di mondi? I commentatori biblici ai quali facciamo riferimento hanno dichiarato esplicitamente che i primi sei giorni della Genesi furono sei giorni di ventiquattr’ore. Ciò significa che chiunque fosse il responsabile registrò il passaggio di ventiquattr’ore al giorno. Ma chi c’era, a misurare il passaggio del tempo finché non comparve Adamo, il sesto giorno. Dio solo controllava l’orologio. E questa è la chiave. Durante lo sviluppo del nostro Universo e prima dell’apparizione dell’umanità, Dio non aveva ancora stabilito un’associazione con la Terra. Nel primo o nei primi due, dei sei giorni della Genesi, la Terra non esisteva nemmeno! Sebbene Genesi 1,1 dica: “In principio Dio creò i cieli e la terra”, il versetto immediatamente successivo dice che la Terra era vuota e senza forma. Il primo versetto della Genesi è un’affermazione generale del fatto che, in principio, fu creata una sostanza primordiale e da quella sostanza sarebbero stati formati i cieli e la Terra durante i sei giorni successivi. Questo è dichiarato in modo esplicito in Esodo 31,17: “In sei giorni Dio fece i cieli e la terra”. Da che cosa furono “fatti” i cieli e la terra durante quei sei giorni? Dalla sostanza creata “al principio” di quei sei giorni. Perché al principio dell’universo non esisteva la Terra e non vi era la possibilità di un legame intimo o di una fusione dei sistemi di riferimento, non esisteva un calendario comune fra Dio e la Terra». 30   Schoeder G.L., Genesi e Big Bang, op. cit., p. 41. 31   Tanzella-Nitti G., The Two Books prior to the Scientific Revolution, in «Annales Theologici», 2004, n. 18, pp. 51-83.

ii La nascita e la struttura della Terra

1.  La nascita della Terra nella Bibbia e nella scienza moderna Nella narrazione biblica, come si è visto, la creazione della Terra è narrata con queste lapidarie espressioni: «In principio Dio creò il cielo e la Terra. La Terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno».

Quanto è scritto in queste poche righe sembra avere ricevuto una valida conferma scientifica dalle spettacolari immagini che, captate e trasmesseci dai potenti telescopi spaziali Hubble e Spitzer, provengono dagli estremi confini dell’Universo, dove i pianeti continuano a nascere da dischi oscuri di polvere che sono chiamati «dischi protoplanetari» e circondano le stelle appena nate. Esse offrono una chiara idea dei processi attraverso i quali si è formato il nostro pianeta, dal suo stato di materia polverosa e caotica al suo consolidato aspetto attuale. Dalla loro osservazione, infatti, si evince come la prima fase della formazione di un pianeta sia caratterizzata da anelli di rocce e detriti che, roteando, entrano in collisione tra loro e si aggregano formando il nucleo del pianeta e come poi questo, girando nella totale oscurità attorno alla sua stella centrale, simile a un «aspirapolvere cosmico», attragga e inglobi tutto il gas e le polveri situate lungo il suo tragitto, crescendo di dimensioni fino ad assumere la forma di vero pianeta. Quando la polvere cosmica circostante è stata tutta aspirata, il pianeta riceve la luce dalla stella attorno alla quale gira ed emerge dall’oscurità: il giorno e la notte, così, diventano distinguibili. Questa fase della formazione dei pianeti sembra coincidere con il primo giorno del racconto biblico, quando Dio disse: «Sia la luce! E la luce fu». L’attenzione di alcuni studiosi è attirata sul fatto che anche le altre fasi della creazione dell’Universo sono descritte con un preciso ordine cronologico: dopo la luce, la divisione delle acque di sopra (l’atmosfera) da quelle di sotto (il mare), poi gli animali acquatici e alla fine l’uomo. È una successione cronologica risultata conforme alle teorie cosmogoniche della scienza moderna. Come poteva sapere ciò l’autore della Genesi, attribuita a Mosè? La casualità sembra escludersi. Secondo alcuni calcoli, infatti, le pro-

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La figura mostra la formazione di alcuni pianeti attraverso l’aggregazione di polvere cosmica.

babilità, che egli aveva, di descrivere gli eventi in un ordine scientificamente esatto erano di 1 su 25 sestilioni: valore infinitamente alto. Un sestilione, infatti, equivale a 1021: cioè a 1.000.000.000.000.000.000.000.000! 2.  Terra rotonda e sospesa nel vuoto: la Bibbia anticipa la scienza Nella cultura mesopotamica e di altri popoli antichi, fino alla Grecia arcaica, la Terra era descritta come un disco galleggiante nell’oceano. Così, infatti, essa appare nelle prime mappe disegnate da Anassimandro di Mileto (610-564 a.C.) e da Ecateo di Mileto (550-476 a.C.). Eppure nella Bibbia s’affaccia l’idea di una Terra sferica. Isaia (40:22), infatti, dice che Dio «sta seduto sul globo della Terra» e nel Libro dei Proverbi (8:22-31) la Sapienza così parla: «Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso… giocavo sul globo terrestre». Il termine «cerchio» rimanda evidentemente a un orizzonte curvo e il termine «globo» al concetto di sfericità. Dal punto di vista scientifico, invece, la sfericità della Terra fu ipotizzata solo alcuni secoli più tardi: intuitivamente da Pitagora (570-495 a.C.), il quale si basò su ragionamenti di tipo estetico e su analogie con la forma degli altri corpi celesti, ed empiricamente

La nascita e la struttura della Terra

da Aristotele (384-322 a.C.), il quale nel De Coelo notò che durante l’eclisse di Luna l’ombra proiettata dalla Terra sul nostro satellite ha un contorno circolare. La certezza assoluta della sfericità, tuttavia, fu acquisita nel secolo XVI con la prima spedizione di circumnavigazione effettuata da Ferdinando Magellano e da Juan Sebastián Elcano (1519-1521). La Bibbia, oltre ad anticipare di alcuni secoli l’idea della sfericità della Terra, afferma anche un altro principio assolutamente sorprendente per quei tempi: il principio, cioè, che essa è sospesa nel vuoto cosmico. Nel libro di Giobbe scritto circa 3.500 anni fa, quando in pratica l’uomo era ancora nell’età del bronzo, si legge (26: 7) che Dio «stende il settentrione sopra il vuoto, tiene sospesa la terra sopra il nulla». Questa era un’affermazione in forte contrasto con le conoscenze dei vari popoli antichi, i quali pensavano che la Terra si reggesse su diverse fondamenta poste l’una sull’altra. Gli Indù, per esempio, credevano che fosse poggiata su quattro elefanti, i quali stavano in piedi su una gigantesca testuggine; che la testuggine, a sua volta, fosse sostenuta da un enorme serpente e che il serpente, avvolto nelle sue spire, galleggiasse nelle acque universali. Anche gli antichi filosofi greci, cui si deve la nascita del pensiero razionale, pensavano che la Terra fosse ferma e poggiasse su qualcosa. Ari-

«Egli stende il settentrione sopra il vuoto, tiene sospesa la terra sopra il nulla» (Giobbe 26:7).

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stotele, per esempio, credeva che essa fosse immobile e che fosse avvolta da una serie di sfere concentriche, disposte come gli strati di una cipolla, che le giravano intorno in maniera armonica e contenevano i vari elementi della natura secondo una progressiva scala di perfezione. Nelle sfere interne, cioè, risiedevano l’atmosfera, l’aria, l’acqua, il fuoco e l’etere, una sostanza incorruttibile e immutabile, mentre in quelle esterne si disponevano i pianeti, le stelle e un’entità divina che conferiva armonia e movimento all’intero sistema. Secondo Aristotele, quindi, la Terra doveva essere necessariamente ferma, perché un suo eventuale movimento avrebbe creato attrito a causa dello sfregamento e, pertanto, senza l’intervento di una forza costante, sarebbe cessato. Con ciò egli negava anche l’esistenza del vuoto attorno alla Terra. La concezione «geocentrica» dell’Universo, la quale poneva la Terra al centro del sistema solare, è sopravvissuta sostanzialmente invariata per quasi 2.000 anni. Solo nel secolo XVI, infatti, essa è stata sostituita dalla teoria «eliocentrica» formulata da Niccolò Copernico (1473-1543) e poi perfezionata sia da Galileo Galilei (1564-1642), che fu condannato dalla Chiesa per le sue

Schema della struttura dell’Universo, a sfere concentriche, secondo la concezione aristotelica in una rappresentazione di Pietro Apiano (da Pietro Apiano, Cosmographia, Anversa, 1539).

La nascita e la struttura della Terra

teorie rivoluzionarie1, sia da Isaac Newton (1642-1727), cui si devono le leggi di «gravitazione universale» che regolano i movimenti dei pianeti attorno al Sole. In seguito a queste scoperte Newton affermò: «Questo estremamente meraviglioso sistema del Sole, dei pianeti e delle comete potette solo originarsi dal progetto e dalla potenza di un Essere intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di altri analoghi sistemi, tutti questi, dato che sono stati formati dall’identico progetto, debbono essere soggetti al dominio dell’Uno; soprattutto dal momento che la luce delle stelle fisse è della medesima natura della luce del Sole e che la luce passa da ogni sistema a tutti gli altri sistemi: e perché i sistemi delle stelle fisse non cadano a motivo della loro gravità, gli uni sugli altri, egli pose questi sistemi a distanza immensa tra di loro»2. L’immagine visiva della Terra sferica e sospesa sul nulla, comunque, è stata fornita appena mezzo secolo fa mediante le fotografie trasmesse dalle navicelle spaziali e dai satelliti geostazionari. Il primo lancio è stato quello della navicella sovietica Vostok1, a bordo della quale era il cosmonauta Jurij Alekseevicˇ Gagarin (12 aprile 1961). A questo punto è lecito domandarsi se Isaia fosse veramente cosciente della sfericità della Terra e se Giobbe sapesse realmente che essa fluttua nello spazio vuoto. Poiché è presumibile che ignorassero tutto ciò, le loro affermazioni sono considerate frutto di ispirazione profetica. 3.  Anche la rotazione del Sole sembra annunciata nella Bibbia A proposito del Sole nel libro dei Salmi (19: 5-6) si legge quest’immagine poetica: «Ed esso è simile a uno sposo che esce dalla sua camera nuziale; gioisce come un prode lieto di percorrere la sua via. La sua uscita è da una estremità dei cieli, e il suo giro arriva fino all’altra estremità; e niente è nascosto al suo calore». 1   Per queste sue teorie, in verità, Galileo Galilei fu avversato e condannato dalla Chiesa Cattolica, che solo nel 1992, riconoscendo il proprio errore, lo ha riabilitato. La Chiesa restava ancorata al sistema geocentrico sulla base di alcuni versetti del Libro di Giosuè (10:12-14), in cui si legge: «Quel giorno, quando il Signore diede a Israele la vittoria sugli Amorrei, Giosuè pregò il Signore e gridò alla presenza di tutti gli Israeliti: Sole, fermati su Gabaon! e tu, luna, sulla valle di Aialon! Il sole si fermò, la luna restò immobile…». Sembrerebbe, quindi, che fosse il Sole a girare intorno alla Terra e non viceversa. In realtà studiosi moderni, specialisti dell’antico ebraico, traducono così: «Copriti, o Sole…», con riferimento non all’arresto del suo corso, ma piuttosto della sua luminosità per oscuramento atmosferico o per via di un’eclisse. (Cfr. Marino Ceccherelli I., Fermati, o Sole!, Bornato in Franciacorta, Fausto Sardini Editore, 1992). Al di là di questa precisazione, però, ancora oggi si usa parlare di moto apparente del Sole, per rendere più comprensibile il meccanismo che causa l’alternarsi del giorno e della notte, cosi come si usano le espressioni «il sole sorge, il sole tramonta», perché così l’uomo vede le cose dalla Terra. Allo stesso modo Giosuè non parlava di astronomia, ma riportava le cose come le vide. Solo nel 1992 la Chiesa Cattolica, riconoscendo ufficialmente il proprio errore, ha riabilitato Galileo Galilei. 2   Newton I., Principi matematici della filosofia naturale, Torino, Utet, 1965.

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In questi versetti si può scorgere l’idea della rotazione che il Sole, come tutti gli altri astri e pianeti del sistema solare, compie intorno al proprio asse, detto moto apparente diurno, girando con una velocità media di circa 250 km/sec e svolgendo un giro completo intorno alla Terra ogni 25 giorni. Se così fosse, ciò sarebbe un fatto sorprendente, perché questo tipo di rotazione è stato scoperto solo nel secolo XX dall’astronomo Bertil Lindblad (1895-1965). Negli stessi versetti (La sua uscita è da una estremità dei cieli, e il suo giro arriva fino all’altra estremità) è possibile scorgere, forse, anche il movimento di rivoluzione che il Sole, come tutte le stelle, compie al centro della Galassia con una velocità di circa 230 km/sec, effettuando il giro completo, detto anno cosmico, in 200-250 milioni di anni. Un’altra considerazione riguarda le dimensioni del Sole e della Luna. La Bibbia, infatti, indica chiaramente come maggiore il Sole e minore la Luna là dove dice: «Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre» (Genesi 1: 16-18).

Oggi ci sembra scontato che il Sole sia più grande della Luna, perché conosciamo la loro distanza dalla Terra, ma migliaia di anni fa le cose non erano così ovvie, poiché la Luna ad occhio nudo appare più grande del Sole. Lo stesso Aristotele e gli antichi astronomi, che come l’autore della

«Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte» (Genesi 1: 16).

La nascita e la struttura della Terra

Genesi non avevano strumenti per studiare il cielo, pensavano che la Luna fosse più grande del Sole e che la sua minore luminosità dipendesse da una distanza dalla Terra maggiore rispetto a quella del Sole. È da notare, inoltre, che lo scopo dei due “luminari” era quello di fare una divisione fra la luce e le tenebre. Anche questo non era un concetto completamente chiaro tra tutti i popoli, poiché, secondo quanto scrive Paul Couderc, fino al IV sec. a.C. era molto diffusa l’idea che «la luce era un vapore luminoso, mentre le tenebre erano un vapore nero, che la sera saliva dal suolo»3. 4.  La Pangea e la deriva dei continenti prefigurati nella Genesi Nella Genesi molti sono i riferimenti che alludono alla struttura geomorfologica della Terra e alla sua evoluzione. Due di essi, in particolare, sembrano enunciare la teoria della «deriva dei continenti» enunciata dal tedesco Alfredo Wegener (1880-1930) agli inizi del secolo scorso. Essi sono contenuti nei seguenti versetti: «Dio disse: Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare» (Genesi 1: 9-10). E ancora: «Ad Eber4 nacquero due figli; il nome dell’uno fu Peleg, perché ai suoi giorni la terra fu divisa, e il nome di suo fratello fu Joktan» (Genesi 10:25).

Da Peleg è poi derivato il termine greco «pelagos», di origine indoeuropea risalente al XIII sec. a.C., che significa vasta distesa di acqua. In questi versetti, in sostanza, si afferma che il nostro pianeta, nelle più antiche età geologiche, era caratterizzato da due ambienti naturali ben distinti: cioè da un unico blocco di terre asciutte, o terre emerse, e da un’unica distesa marina. Fino al secolo XVIII, invece, si credeva che i continenti avessero avuto la forma e la posizione che occupano attualmente. Poi gli studiosi osservarono una serie di «omologie geografiche», cioè di corrispondenze nell’andamento perimetrale dei continenti che sono separati dallo stesso oceano, e cominciarono ad avanzare l’ipotesi che i continenti derivassero dallo smembramento di un’unica massa, dalla quale si sono andati allontanando per effetto della rotazione terrestre. Le omologie consistono soprattutto nel fatto che i contorni di due continenti contrapposti sono complementari: alle sporgenze di uno, infatti, fanno riscontro rientranze nell’altro. Per quanto concerne l’Oceano Atlantico, per esempio, alla sporgenza delle terre canadesi corrisponde una rientranza nell’arcipelago britannico in Europa, alla rientranza del Golfo del   Couderc P., Le tappe dell’astronomia, Milano, Garzanti, 1954.   Eber era un personaggio biblico antidiluviano vissuto, secondo la tradizione, dal 2185 al 1721 dopo la creazione. Da lui prese nome il popolo «ebreo». 3 4

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Messico la grande sporgenza dell’Africa nordoccidentale e alla sporgenza del Brasile la rientranza del Golfo della Guinea nell’Africa centrale. Ne deriva che, come avviene nei giochi di «puzzle», le sponde delle Americhe combacerebbero con quelle dell’Africa e dell’Europa occidentale se si spingessero le une contro le altre. Agli inizi del secolo scorso Alfredo Wegener, geologo ed esploratore, trovò anche molte corrispondenze, per quanto riguarda sia la tipologia che la datazione, tra i fossili di animali e vegetali trovati nelle opposte regioni continentali ed enunciò la «deriva dei continenti». Egli dimostrò, in altri termini, che circa 200 milioni di anni fa le terre emerse formavano un unico supercontinente detto Pangea (in greco = tutta terra), il quale era circondato da un unico oceano detto Panthalassa (= tutto mare). Poi l’enorme blocco continentale, in corrispondenza dell’Equatore, si spezzò in due parti denominate Laurasia (America settentrionale, Europa, Asia) e Gondwana (America meridionale, Africa, India, Australia). Le due parti, a loro volta, successivamente si frantumarono in altri blocchi minori che, galleggiando come zattere sul sottostante materiale fluido, lentamente si allontanarono assumendo le posizioni attuali. Questa divisione, secondo molti esegeti biblici, è prefigurata nel versetto in cui si dice che il primo figlio di Eber si chiamò Peleg e il secondo

La figura mostra i processi della formazione dei continenti. L’originaria Pangea, a causa delle profonde fratture della crosta terrestre (faglie) dovute al magma sottostante e alla forza di rotazione della Terra, nel corso delle ere geologiche si è andata fratturando e ha originato i continenti che, galleggiando sul sottostante strato di magma, si sono lentamente allontanati tra loro fino ad assumere la posizione attuale. Il loro allontanamento, conseguentemente, ha anche dato luogo alla formazione degli oceani.

La nascita e la struttura della Terra

Joktan. Etimologicamente, infatti, in ebraico Peleg significa «divisione» o «separazione» segnata da un corso d’acqua o da un tratto di mare, mentre Joktan vuol dire «piccolo», ma configura anche un’idea di «debolezza o giovinezza». I due blocchi, quindi, sarebbero più piccoli e più giovani del supercontinente iniziale, la Pangea, e si sarebbero separati per la debolezza della crosta terrestre. Occorre osservare, però, che c’è un’altra interpretazione di carattere storico, secondo la quale l’espressione «ai suoi giorni la terra fu divisa» si riferirebbe alla spartizione delle varie tribù del popolo ebreo tra Peleg e Joktan. 4.  Struttura interna della Terra e tettonica a zolle Wegener non riuscì a fornire una dimostrazione diretta dei meccanismi che fanno muovere i continenti né della velocità con cui essi si muovono, poiché non conosceva la struttura interna della Terra. La spiegazione, invece, è stata fornita dalla teoria della «tettonica a zolle», la quale consente di interpretare in maniera globale la dinamica della crosta terrestre. Anch’essa, secondo gli esegeti biblici, è individuabile nei seguenti versetti: «Dalla terra esce il pane, ma, nelle sue viscere, è sconvolta come dal fuoco (Giobbe 28: 5). «Così parla la Sapienza di Dio… Quando non esistevano gli abissi, io fui generata… Prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo» (Proverbi 8:22-31).

Solo nei primi decenni del secolo scorso, infatti, si è scoperto che sotto la crosta terrestre c’è uno strato di magma incandescente, detto «mantello», cui si deve la continua dinamica della morfologia terrestre attraverso la nascita di vulcani, di catene montuose e di isole e attraverso la rottura della litosfera con conseguenti terremoti. Il magma del mantello, infatti, ribolle costantemente e crea correnti convettive di forma circolare che, come nastri trasportatori, trascinano con loro la litosfera sovrastante e la sottopongono a tensione, cioè a stiramento. In tal modo hanno provocato e continuano lentamente a provocare profonde fratture della crosta terrestre, dette faglie, e anche profonde valli, dette fosse tettoniche o rift valley, che spesso si spingono fin sotto il livello del mare e rappresentano il processo che a lungo andare porta un continente a spezzarsi in due o più parti. Intorno al 1960, inoltre, è stato constatato che la crosta terrestre, sia nei fondali marini che nei continenti, non è costituita da un involucro continuo, ma è frazionata in una dozzina di grandi zolle o placche tettoniche e in un numero ancora imprecisato di zolle minori, alcune delle quali si allontanano tra loro ed altre, invece, si avvicinano fino a collidere. La loro velocità di spostamento varia da 5 a 10 cm l’anno: movimento che, in sé irrilevante, diventa notevole nell’arco di alcuni secoli.

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Rappresentazione schematica della struttura interna della Terra.

Schema di una fossa tettonica, dovuta allo sprofondamento di una massa rocciosa compresa tra due profonde faglie parallele.

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Dai loro movimenti nascono anche le catene montuose e gli abissi marini. Infatti, quando due zolle continentali collidono, ossia vengono a contatto, i loro margini si accavallano l’una sull’altra e, sottoposti a continua pressione, s’inarcano originando alte montagne. Quando, invece, si scontrano due zolle oceaniche, i margini di una sottoscorrono, cioè s’infilano sotto quelli dell’altra, e la trascinano verso il basso, formando così le profonde fosse oceaniche che sono state individuate per la prima volta nel 1837 e si spingono fin oltre i 10.000 m sotto il livello del mare. Sono, forse, gli abissi menzionati nel versetto biblico? Le fratture che solcano in gran numero la crosta terrestre, inoltre, in taluni casi danno luogo alla fuoriuscita di magma e originano i vulcani; in altri casi, invece, provocano lo slittamento delle masse rocciose all’interno della crosta terrestre, scatenando i terremoti. Se ne conclude che i principali fenomeni che regolano la dinamica interna della crosta terrestre e la sottopongono a trasformazioni lente ma continue, come è appunto la formazione dei rilievi e dei vulcani, rappresentano conseguenze indotte del fuoco menzionato nei versetti di Giobbe e della Sapienza. 6.  Inclinazione dell’asse terrestre e magnetismo La Genesi narra che Dio, quando creò Adamo ed Eva, li pose nel giardino dell’Eden, dove sarebbero potuti vivere senza lavorare cibandosi con i frutti spontanei degli alberi, esclusi quelli dell’albero della vita; ma Adamo, indotto da Eva su istigazione del serpente maligno, disubbidì e Dio li cacciò apostrofando Adamo con queste parole: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato il frutto che ti avevo proibito di mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre» (Esodo 3: 17-18).

L’ultima frase lascia supporre un cambiamento più o meno brusco delle condizioni climatiche e, quindi, delle condizioni di vita sulla Terra. E, infatti, Ferdinand Crombette, grande esperto della lingua ebraica e di quella copta, mettendo a confronto il testo ebraico originario con quello in lingua copta, ne dà la seguente traduzione: «La barra obliqua che mette in movimento i poli del globo sarà spostata; la massa regolatrice sarà messa in una moltitudine di disposizioni funeste: si brucerà nelle dimore poste nelle regioni vicine al cerchio universale; il settentrione, variabile, imbiancherà di freddo molte regioni»5. 5   Crombette F., Saggio di geografia divina, Tomo III, pp. 7-17, Lilla, Ceshe (Cercle d’Etudes Scientiphique et Historique, 1995).

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Il brusco cambiamento delle condizioni climatiche, in altri termini, sarebbe derivato da un’improvvisa inclinazione subita dall’asse terrestre che congiunge i due poli, attorno al quale ruota la Terra, rispetto al piano dell’eclittica, cioè al percorso apparente che il Sole compie in un anno sullo sfondo della sfera celeste. La sua inclinazione, combinata con la rivoluzione della Terra intorno al Sole, determina infatti l’alternarsi delle stagioni e varia ciclicamente, oscillando tra circa 22°5' e circa 24°5' nell’arco di 41.000 anni. Attualmente è di 23°27', ma risulta in diminuzione. A causa della diversa forza di attrazione del Sole e della Luna, inoltre, l’asse terrestre è sottoposto ad alcuni lenti spostamenti che tendono a raddrizzarlo e descrive un movimento che disegna due coni simmetrici ed opposti, situati uno nell’emisfero settentrionale e l’altro nell’emisfero meridionale, e si svolge in senso contrario al movimento di rivoluzione della Terra attorno al Sole, compiendo un giro completo in circa 26.000 anni e causando ogni anno un anticipo della primavera (precessione degli equinozi) corrispondente a un giorno ogni 72 anni: anticipo che, sebbene sia poco significativo nella vita di un uomo, nel corso dei millenni provoca una variazione delle stagioni e delle condizioni termiche sulla Terra. Altre periodiche oscillazioni dell’asse terrestre sono di breve durata e di minore entità. Occorre rilevare, infine, che il graduale cambiamento di direzione dell’asse terrestre comporta anche il progressivo spostamento dei poli, rispetto alle costellazioni della volta celeste6, e del magnetismo terrestre dovuto alle masse fluide dei minerali contenuti nel nucleo interno della Terra. Le variazioni del magnetismo terrestre, in genere, sono graduali e regolari e in periodi molto lunghi (400.000-500.000 anni) portano all’inversione dei poli che si scambiano di posto: quello negativo passa a nord e quello positivo migra a sud. Cambiamenti del magnetismo possono verificarsi anche in tempi più o meno brevi per fenomeni eccezionali dovuti sia a movimenti delle masse fluide presenti sotto la litosfera e sia a bruschi movimenti dell’asse terrestre (forti terremoti, cadute di meteoriti, gigantesche eruzioni vulcaniche ecc.). Il campo magnetico terrestre si estende anche alla parte più elevata dell’atmosfera e forma una sorta di scherma contro l’eccessivo irraggiamento solare. Esso, però, non è costante, ma presenta un’intensità mutevole da un luogo all’altro, decrescendo in genere dall’Equatore verso i poli, e può anche variare nello stesso luogo da un periodo all’altro per effetto del cosiddetto «vento solare»: cioè dei flussi di energia che provengono dalla corona solare e provocano violente perturbazioni (tempeste magnetiche) disturbando o interrompendo le comunicazioni radio in tutto il mondo. 6   Cambia, così, anche il punto di orientamento che indica il Nord. Circa 3.000 anni fa, infatti, esso era indicato dalla Stella Alfa della costellazione del Dragone, mentre attualmente coincide grosso modo con la Stella Polare e tra 12.000-13.000 anni coinciderà con la Stella Vega appartenente alla Costellazione della Lira.

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La figura mostra come il polo geomagnetico e il polo geografico non coincidano. La differenza tra essi, inoltre, si allarga gradualmente fino a provocare l’inversione della polarità sud e nord.

L’inversione dei poli magnetici, quindi, può comportare effetti notevoli sulla vita degli uomini e del mondo animale, poiché può determinare su tutta la Terra, o in alcune sue parti, una minore schermatura contro il vento solare. Ne potrebbe derivare, così, un assottigliamento dello strato di ozono (ozonosfera) che si trova ad una quota di 15-35 km e che svolge il compito di intercettare i raggi ultravioletti emessi dal Sole, che sono dannosi alla salute perché provocano malattie tumorali. L’inversione dei poli magnetici, in breve, è accompagnato da radicali cambiamenti nell’andamento dei climi sulla Terra e influisce in maniera diretta sul mondo vegetale e animale, quindi sulla vita dell’uomo, producendo anche effetti indiretti sulle specie animali che impiegano il campo magnetico per orientarsi nei loro spostamenti (balene, tartarughe, uccelli migratori). Secondo alcuni studiosi, inoltre, l’’inversione dei poli magnetici può anche innescare un incremento dell’attività sismica e vulcanica, con effetti che potrebbero essere notevoli e sconvolgenti. 7.  Mosè conosceva il fenomeno del magnetismo e delle sue conseguenze? Sebbene il magnetismo terrestre sia uno dei fenomeni più noti dell’antichità, l’ipotesi che il campo magnetico terrestre abbia invertito la propria polarità più volte nel corso della sua storia ha trovato conferma solo intorno al 1960, grazie agli studi di paleomagnetismo condotti su campioni di roccia provenienti da fondi oceanici. Ancora oggi, peraltro, sono poco noti i meccanismi che avvengono nel nucleo terrestre originando tali inversioni.

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Sembra accertato, tuttavia, che, prima del periodo in cui la Bibbia colloca il peccato originale e la cacciata dell’uomo dall’Eden, i poli geografici cadevano al di fuori delle terre emerse, le quali occupavano solo sei settimi di un emisfero e, quindi, non opponevano alcun ostacolo alle correnti marine, per cui le acque calde dell’Equatore potevano risalire facilmente verso le regioni polari e riscaldarle. È anche certo che prima del Pleistocene, periodo geologico conclusosi intorno a 12.000 anni fa, la Terra non conosceva stagioni e che la fauna e la flora, presenti ovunque in quel periodo per la sostanziale uniformità del clima su tutta la Terra, furono improvvisamente distrutte. Il loro carattere di scomparsa subitanea è dimostrato sia dalla contemporanea distruzione di foreste e fiori, che la fossilizzazione ha conservato, sia dalla distribuzione spaziale di scheletri appartenenti a ad alcune specie animali che, trovati a latitudini diverse, dimostrano un loro tentativo di migrare dalle alte latitudini versol’Equatore per sfuggire al freddo e alla fame, ma che, sorpresi dal brusco arrivo del freddo intenso, morirono in massa e furono congelati facendo giungere talvolta intatti fino ai tempi moderni le loro sagome intrappolate nel ghiaccio. Le foreste distrutte nel pieno vigore, che si ritrovano ovunque sulle pianure polari, non lasciano nessun dubbio sulla subitaneità e sulla violenza del fenomeno meteorologico che ha trasformato in terre ghiacciate quelle regioni coperte da magnifiche foreste in fiore. Tutta la Terra, insomma, doveva probabilmente presentare una temperatura più o meno mite e uniforme, tanto da poter essere interamente abitata.

Stormo di uccelli migratori, i quali, grazie a uno specifico movimento della testa, riescono a percepire la direzione del campo magnetico terrestre per orientarsi durante il volo.

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Se ciò che la scienza ci dice risponde al vero e se la traduzione dei versetti 3: 17-18 dell’Esodo fatta da Ferdinand Crombette (La barra obliqua che mette in movimento i poli del globo sarà spostata; la massa regolatrice sarà messa in una moltitudine di disposizioni funeste: si brucerà nelle dimore poste nelle regioni vicine al cerchio universale; il settentrione, variabile, imbiancherà di freddo molte regioni) è esatta, se ne deduce che Mosè avrebbe veramente anticipato di qualche millennio un’importante scoperta scientifica avvenuta in tempi moderni. Infatti, sebbene alcuni fenomeni magnetici si conoscessero già intorno a 2.500 anni a.C. in Cina e in India, è solo a partire dal secolo XVII che sono stati effettuati studi sulle correlazioni tra forze magnetiche e forze elettriche (elettromagnetismo), sulle linee di forza del campo magnetico terrestre, sui suoi cambiamenti e sulle conseguenze connesse. Crombette, pertanto, conclude che Mosè non scriveva secondo le concezioni scientifiche infantili del suo tempo e che, «istruito da Dio, conosceva le ragioni profonde delle cose. Egli sapeva che l’asse di rotazione della Terra è obliquo in rapporto al suo asse di figura e che, spostandolo, si spostano i poli e che così il polo del freddo, variabile, avrebbe imbiancato successivamente numerose regioni; egli sapeva che la Terra ha una massa regolatrice interna che fa equilibrio alla sua cupola piriforme7 e che il suo spostamento, correlativo allo spostamento dei poli, provocava dei sollevamenti e degli sprofondamenti catastrofici della scorza; sapeva bene che al Quaternario la Terra conosceva delle regioni bruciate dal sole nelle zone equatoriali e grandi calotte glaciali ai poli. Lui lo sapeva, mentre quelli che molto superficialmente chiamiamo sapienti non hanno ancora coordinato le glaciazioni quaternarie, ne ignorano il meccanismo e il numero, non hanno saputo collegarle ai fenomeni vulcanici contemporanei, cercano ancora quale sia la forma del globo, e devono confessare di non conoscerne la fisica interna…»8. Sulle catastrofiche conseguenze di un eventuale spostamento dell’asse terrestre, così brusco e consistente come quello dei surricordati versetti della Bibbia nella traduzione di Ferdinand Crombette, uno dei 7   L’aggettivo «piriforme» si riferisce al fatto che la Terra, in effetti, non è perfettamente sferica, come può sembrare vedendola dallo spazio, perché, in seguito a misurazioni effettuate con i più accurati strumenti geodetici situati anche su satelliti artificiali, si è constatato che il diametro passante per i poli è più corto di quello passante per l’Equatore (rispettivamente 6.356,912 e 6.378,388 chilometri) e che il raggio dell’emisfero settentrionale è minore di quello dell’emisfero meridionale. Per questi motivi in corrispondenza del polo sud si crea una leggera protuberanza che conferisce alla Terra una figura leggermente piriforme, cioè simile a quella di una pera. Le grandi catene montuose e le profonde fosse oceaniche, inoltre, sebbene siano ben poca cosa rispetto agli oltre 6.000 km del suo raggio, alterano leggermente il suo profilo rispetto a quello di una superficie sferica, per cui alla forma che la Terra assumerebbe se il livello medio del mare si estendesse in continuità anche laddove si trovano le terre emerse, colmando le eventuali depressioni e spazzando via tutti i rilievi, è stato dato il nome di «geoide», che significa simile alla Terra. 8   Crombette F., Saggio di geografia divina, Tomo III, p, 8.

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Un tratto della superficie spettrale di Marte, crivellata da vulcani con profondi crateri. Immanuel Velikowski, nel suo libro «Mondi in collisione», sostiene che le grandi catastrofi tramandateci dall’antica letteratura, compresa la Bibbia, sono realmente accadute e che sono state causate dalle interferenze tra la Terra e i corpi celesti ad essa vicini, soprattutto Venere e Marte, le cui orbite un tempo erano alquanto più ellittiche rispetto a quelle di oggi.

maggiori divulgatori scientifici dell’epoca moderna, Immanuel Velikovsky, prospetta il seguente scenario apocalittico: «Un terremoto farebbe tremare il globo intero. Aria e acqua si muoverebbero di continuo per inerzia, la Terra sarebbe spazzata da uragani e i mari investirebbero i continenti… La temperatura diverrebbe torrida e le rocce verrebbero liquefatte, i vulcani erutterebbero, la lava scorrerebbe dalle fratture nel terreno squarciato, ricoprendo vaste zone. Dalle pianure spunterebbero come funghi le montagne, che continuerebbero a salire sovrapponendosi alle pendici di altre montagne e causando faglie e spaccature immani. I laghi sarebbero inclinati e svuotati, i fiumi cambierebbero il loro corso, grandi estensioni di terreno verrebbero sommerse dal mare con tutti i loro abitanti. Le foreste sarebbero divorate dalle fiamme e gli uragani e i venti impetuosi le strapperebbero dal terreno… Il mare, abbandonato dalle acque, si tramuterebbe in un deserto. E se lo spostamento dell’asse fosse accompagnato da un cambiamento nella velocità di rotazione, le acque degli oceani equatoriali si ritirerebbero verso i poli e alte maree e uragani spazzerebbero la Terra da un polo all’altro…»9. È uno scenario non molto diverso da quello che è rappresentato, secondo la traduzione di Crombette, nei versetti della Bibbia.   Velikowski I,. Mondi in collisione, Roma, Mondo Ignoto, 2003.

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iii Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: creazione o evoluzione?

1.  La nascita della vita e dell’uomo secondo la Bibbia Il racconto della creazione fatto dalla Genesi nella tradizione sacerdotale, come si è visto nel capitolo precedente, usa lo schema letterario dei sette giorni ponendo la nascita degli organismi viventi a partire dal terzo giorno: prima il regno vegetale, poi gli esseri marini e gli uccelli, quindi gli animali terrestri, infine l’essere umano. Il racconto della tradizione jahvista, invece, si discosta alquanto dal precedente ed usa un linguaggio di tipo antropomorfo, più immediatamente comprensibile, ponendo la creazione dell’uomo prima degli altri organismi viventi, appunto perché essi sono stati creati in funzione dell’uomo. La Bibbia così dice: «Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo; allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti». Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo

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impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:«Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Genesi 2: 4-24).

Gli studiosi agnostici considerano le discrepanze tra le due versioni della Genesi, quella sacerdotale e quella jahvista, come contraddizioni che gettano ombra sulla veridicità e affidabilità del testo biblico. Gli esegeti, invece, rilevano che i due racconti non sono in disaccordo sull’ordine della creazione né si contraddicono, ma narrano lo stesso evento creativo focalizzando l’attenzione su aspetti diversi. Nel primo racconto. Infatti, l’autore presenta la nascita dell’uomo nel settimo giorno come culmine della creazione; nel secondo racconto, invece, l’autore fornisce ulteriori dettagli sulla creazione dell’uomo con un’operazione che oggi potremmo definire «zoomata» o «ipertesto».

Michelangelo Buonarroti: la creazione di Adamo (Musei Vaticani, particolare della Cappella Sistina).

Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: creazione o evoluzione?

2.  Il senso delle apparenti contraddizioni tra la versione sacerdotale e quella jahvista Una delle contraddizioni riguarda la nascita della vegetazione. Nel primo capitolo della Genesi, infatti, si narra che nel terzo giorno della creazione Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie» (Genesi 1: 14-15), mentre nel secondo capitolo si afferma che prima della creazione dell’uomo «nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo» (Genesi 2:4-6).

La contraddizione è sostanziale o apparente? Gli esegeti esperti di lingua ebraica, a tal proposito, assicurano che nei due brani originari della Genesi sono usati due termini differenti per indicare la vegetazione e, sebbene siano stati tradotti nello stesso modo, in realtà essi esprimono due concetti diversi. Il primo termine, cioè, si riferisce alla creazione della vegetazione in senso generale, comprendente sia quella selvatica che quella potenzialmente utile all’uomo; il secondo, invece, indica in maniera più specifica la nascita della vegetazione coltivata, la quale ovviamente non poteva avere origine se non dopo la creazione dell’uomo che facesse l’agricoltore e il giardiniere.

Un mosaico bizantino che rappresenta Adamo in atto di dare un nome agli animali (Monastero di Dochiariou, Monte Athos, in Grecia).

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Una seconda contraddizione riguarda la vita animale. Nel primo capitolo della Genesi si legge che il sesto giorno, ossia prima che fosse creato l’uomo, Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie» (Genesi 1:24-25).

Nel secondo capitolo della Genesi, invece, si dice che Dio ha creato gli animali dopo l’uomo. Anche in questo caso gli esperti assicurano che si tratta di una traduzione imprecisa, perché nel testo originale il verbo «creare» è coniugato al passato remoto o trapassato remoto. Essi, quindi, traducono in questo modo: «Il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui» (Genesi 2: 19-20).

Così tradotto, quindi, il testo non dice che Dio ha creato prima l’uomo e poi gli animali, ma che, dopo aver creato gli animali, li condusse all’uomo perché egli potesse dar loro un nome. Dare loro un nome, nella terminologia biblica, significava riconoscere la natura specifica degli animali ed esercitare su essi un’autorità e un dominio. Con quest’operazione Dio, assegnando all’uomo una podestà e una responsabilità delegata sugli altri esseri viventi, lo proclama signore di tutto il creato1. Una terza contraddizione riguarda l’ordine di creazione del cielo e della Terra. In «Genesi 1», infatti, si dice: «In principio Dio creò il cielo e la Terra». In «Genesi 2» l’ordine, invece, è invertito: «Quando il Signore Dio fece la Terra e il cielo». Ciò si può spiegare con il fatto che nel primo raccon1   A molti è sembrato strano che Adamo, il primo uomo, abbia potuto riunire tutti gli animali, anche quelli che vivono normalmente nella profondità dei mari, per dare loro un nome. Ferdinand Crombette così risponde: «Che Dio abbia potuto riunire gli animali, non è possibile metterlo in dubbio: il fatto ebbe luogo ancora una volta al Diluvio universale; del resto, gli uccelli migratori mostrano una potenza di volo e di orientamento rimarchevoli. Infine, su una scala più modesta, sono molti i santi, come Francesco d’Assisi, che riunivano gli uccelli per lodare il Creatore e che attiravano i pesci ai bordi dell’acqua, ed è ciò che ha potuto fare anche Adamo portandosi in riva al mare. Ma (ed è una seconda obiezione) come ha potuto Adamo dare un nome ai pesci degli abissi marini, fatti per resistere a enormi pressioni dell’acqua e che muoiono se portati in superficie? Ebbene! Dio ha potuto fare, con una scossa marina o altro, che questi pesci risalissero anche morti in superficie per essere visti da Adamo. Dio poteva anche far vedere ad Adamo, attraverso lo spessore delle acque, i loro abitanti inferiori così come gli indù, con mezzi psichici, sanno vedere a distanza anche attraverso dei muri» (Crombette F., La Rivelazione della Rivelazione, Ceshe France, 2010, Tomo I, p. 218).

Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: creazione o evoluzione?

to il cielo è posto in primo piano per conferire un’immagine di grandiosità e universalità alla nascita di tutto il cosmo, mentre nel secondo racconto, il quale si occupa solo dell’uomo, la Terra è posta in primo piano perché rappresenta, appunto, la dimora dell’uomo. L’ottica differente delle due narrazioni appare chiara anche dal cambiamento di stile nell’evocare le azioni di Dio. Nel primo racconto, infatti, il linguaggio è essenziale e lapidario: «Dio disse, Dio creò». Nel secondo, invece, Dio è presentato in maniera antropomorfa e il suo operato è connotato da una serie di verbi che indicano azioni concrete e comuni all’uomo: «Dio fece, plasmò, soffiò, piantò, prese, pose, condusse, addormentò, tolse una costola, richiuse la carne, plasmò, condusse, fece dei vestiti»2. Considerando prima individualmente e poi contestualmente le due versioni della creazione, insomma, si ha l’impressione che Dio in «Genesi1» descrive la sequenza creativa e in «Genesi 2», poi, chiarisce alcuni dettagli importanti del sesto giorno, utilizzando un approccio letterario che descrive un evento prima in modo generale e poi in maniera più particolareggiata. È lo stile che compare, peraltro, anche nei vangeli sinottici3, dove gli stessi episodi da alcuni evangelisti sono descritti nei loro particolari e da altri, invece, sono narrati solo per accenni o non sono affatto menzionati. Il secondo racconto della Genesi, insomma, non intende fare un resoconto della creazione diverso dal primo, ma vuole sottolineare che non c’era alcuna parentela fra l’uomo e gli animali e che nessun animale avrebbe potuto fornirgli l’amicizia o la compagnia di cui egli aveva bisogno: tanto è vero che, a tale scopo, Dio creò la donna, cioè Eva. Il senso del racconto, in breve, consiste nell’affermare che l’uomo non si era evoluto da un animale, come invece afferma la teoria evoluzionista, ma che era un essere vivente creato da Dio a propria immagine e somiglianza. 3.  La nascita dell’uomo secondo la teoria evoluzionista La teoria dell’evoluzione è stata formulata dal naturalista e geologo britannico Charles Robert Darwin (1809-1882). Appena ventenne, egli accompagnò il navigatore Robert Fitzroy, capitano della nave Beagle, in una spedizione cartografica che durò cinque anni, toccando le coste dei vari continenti e numerose isole oceaniche, e nel lungo viaggio tra mari e terre raccolse molti dati di tipo sia geologico che biologico su un gran numero di organismi viventi e di fossili. Poi, esaminando le caratteristiche biologiche   Doglio C., Introduzione alla Bibbia, Brescia, La Scuola, 2010.   Si definiscono «sinottici» i vangeli scritti da Marco, da Matteo e da Luca. Essi sono così chiamati (dal greco sy`nopsis = veduta d’insieme) perché i loro brani, pur non essendo uguali, se si mettono a confronto su tre colonne parallele presentano somiglianze nella narrazione, nella disposizione degli episodi evangelici e talvolta anche nelle frasi e nei singoli brani. 2 3

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Rappresentazione schematica dell’evoluzione dalla scimmia all’uomo attuale secondo la teoria di Darwin.

degli organismi viventi e dei fossili, osservò varie affinità morfologiche e biochimiche tra i fossini animali e vegetali di varie specie e ne trasse la conclusione che tutti gli organismi derivano da progenitori ancestrali comuni e che essi si sono differenziati attraverso un processo di divergenza innescato da fenomeni casuali e attraverso la lotta per la sopravvivenza tra gli individui più forti e quelli più deboli viventi nello stesso ambiente. Darwin espose la sua teoria in un’opera del 1859 intitolata «L’origine delle specie o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita», in cui sosteneva due princìpi fondamentali: l’abiogenesi, cioè l’origine spontanea della vita dalla materia inorganica, e la macroevoluzione, cioè la trasformazione di tutte le specie a partire da un unico o da pochi organismi iniziali, sviluppandosi l’una dall’altra per mezzo di piccole mutazioni casuali e della selezione naturale. L’evoluzione, quindi, avviene con l’accumulazione ininterrotta di piccole modificazioni successive che, in un arco di tempo molto ampio, producono negli organismi vegetali e animali una serie di cambiamenti di tipo morfologico, strutturale e funzionale che alla fine sfociano nella nascita di nuove specie. Darwin, infatti, così afferma: «Qualsiasi vivente che sia variato sia pure di poco, ma in un senso a lui favorevole nell’ambito delle condizioni di vita […], avrà maggiori probabilità di sopravvivere e, quindi, sarà selezionato naturalmente. In virtù del possente principio dell’ereditarietà, ciascuna varietà, selezionata in via naturale, tenderà a perpetuare la sua nuova forma modificata»4. Nella lotta, insomma, sopravvivono gli individui più adatti, cioè quelli che meglio sfruttano le risorse dell’ambiente e generano una prole più numerosa. Secondo tale teoria, quindi, anche gli uomini discendono, per selezione naturale, da una specie di mammiferi simili alle scimmie che conducevano vita arboricola. 4   Darwin Ch.R., L’origine delle specie o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita, Newton Compton, Milano 2006, p. 43.

Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: creazione o evoluzione?

Sulla base dei ritrovamenti fossili venuti finora alla luce, gli studiosi di paleontologia (dal greco palaiòs = antico e onton= esistente) ritengono che i primi ominidi abbiano avuto origine tra le savane dell’Africa e da qui poi si siano diffusi in altre parti del mondo. In rapporto all’antichità dei fossili, inoltre, essi li distinguono in tre tipi che, con termini greci, sono detti: protoàntropi (= uomini primitivi), paleoàntropi (= uomini antichi) e faneràntropi (= uomini evidenti, cioè simili a quelli attuali). I primi due tipi di ominidi si sarebbero estinti senza lasciare tracce nei caratteri dell’umanità attuale, mentre i faneràntropi sarebbero i nostri veri antenati5 4.  Il determinismo geografico e la vita sulla Terra Negare che la vita sulla Terra abbia subito una lunga evoluzione e che l’ambiente fisico abbia condizionato la distribuzione e le forme di vita vegetale e animale, continuandola a condizionare6 più o meno fortemente 5   I protoàntropi, aventi caratteri chiaramente scimmieschi, sarebbero documentati dai pochi resti del Kenyapiteco (in greco pithécos = scimmia), ritrovati appunto in Kenya, e dell’Australopiteco, rinvenuti nell’Africa meridionale. Essi, però, si sarebbero estinti senza lasciare tracce. Il passaggio dalla stazione curva a quattro zampe verso la stazione eretta su due gambe sarebbe iniziato con i paleoàntropi, i cui caratteri sono stati ricostruiti sulla base dell’Homo neanderthalensis, così denominato dai resti ritrovati per primi nella valle del fiume Neander presso Düsseldorf (Germania). L’Homo neanderthalensis, la cui presenza è stata riscontrata in quasi tutta l’Europa, in Arabia e nell’Asia orientale, era un individuo tarchiato, alto circa un metro e mezzo, con un cranio piuttosto lungo e stretto, con una capacità cranica superiore alla media dell’uomo attuale (oltre 1.500 cm³), con la fronte sfuggente, le arcate sopraorbitarie molto prominenti e il foro occipitale non perfettamente parallelo al terreno. I paleoàntropi sarebbero vissuti tra 130.000 e 35.000 anni fa e avrebbero sviluppato un grado d’intelligenza tale da conoscere l’uso del fuoco e seppellire i morti, dimostrando di possedere rispetto per i defunti. Anch’essi, però, come i protoàntropi si sarebbero estinti. Estintosi l’uomo di Neanderthal, comparvero i Faneràntropi: cioè i veri uomini, quelli che comprendono tutte le forme risalenti al ceppo dell’Homo sapiens e che sarebbero i nostri progenitori. Essi mostrano che, oltre ad avere sviluppato un notevole grado d’intelligenza, hanno completamente acquisito la stazione e la deambulazione eretta. La loro presenza, che è attestata in Europa, in Brasile, in Australia, in Africa, a Giava e in Cina, denuncia caratteri somatici ben differenziati in tre gruppi fondamentali che prendono nome dal luogo del reperimento dei loro primi reperti: l’Uomo di Grimaldi che, così denominato dal nome di una località della Liguria presso Ventimiglia, presenta caratteri negroidi; l’Uomo di Cro-Magnon che, così detto da una località francese della Dordogna, mostra elementi strutturali simili a quelli dei popoli europei; l’Uomo di Chancelade, che prende nome da un’altra località francese della Dordogna e possiede caratteristiche simili alle stirpi mongoliche (Formica C., Progetto Globo, op. cit., pp. 256-265). 6   Per quanto concerne il mondo vegetale, per esempio, le piante mostrano una struttura morfologica e funzionale che cerca di sfruttare al meglio le risorse locali per sopravvivere. Per esempio: nella fascia equatoriale, dove piove molto, esse presentano chiome enormi e foglie molto larghe, fino a mezzo metro, in modo da accrescere la superficie evaporante e smaltire l’eccesso di acqua assorbita attraverso le radici; negli ambienti tropicali asciutti, invece, si verifica il

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anche la vita dell’uomo, sarebbe cieca ostinazione antiscientifica. La teoria del condizionamento dell’ambiente, chiamata «determinismo geografico» o «ambientalismo», era già «presente tra gli studiosi e scienziati del mondo classico come Ippocrate di Coo e Aristotele, secondo i quali è soprattutto il clima che influenza i caratteri somatici e psicologici, le attività e la diversa organizzazione politica dell’uomo. Aristotele sostiene che gli abitanti delle regioni fredde sono pieni di coraggio e fatti per la libertà, mentre gli asiatici mancano di energia: pertanto sono fatti per il dispotismo e la schiavitù7. Lo stesso Montesquieu (1689-1755) dedica un’accurata indagine sul clima come agente fondamentale della storia dei popoli e del loro sviluppo produttivo, mettendo in risalto l’incidenza dei climi caldi nel sottosviluppo dei Paesi tropicali e il benefico influsso dei climi temperati sui popoli, ritenuti più civili, dell’Europa. Il determinismo, tuttavia, trova un’organica sistemazione scientifica per opera di due studiosi tedeschi contemporanei di Darwin, Carlo Ritter (1779-1859) e Federico Ratzel (1844-1904), i quali analizzano lo sviluppo storico dei popoli, come pure la formazione e l’evoluzione degli Stati, in base alle influenze dell’ambiente. Il Ratzel afferma che tutti i fenomeni della natura, passando attraverso l’intelletto, esercitano un’influenza, a volte manifestamente visibile, a volta sottile e nascosta, sull’essere e sugli atti dell’uomo. Nella teoria deterministica, insomma, l’uomo viene considerato come un elemento passivo, impotente, nei confronti della natura»8. Questa concezione fortemente determinista, tuttavia, fu subito ridimensionata dalla «teoria del possibilismo», che nacque in Francia per opera di Vidal de la Blache (1845-1918), geografo di formazione storica, il quale pose l’accento sulle capacità di reazione che i gruppi umani hanno nei confronti delle leggi naturali in rapporto al loro grado di preparazione scientifica, tecnologica e culturale, alla loro struttura sociale, alla loro tenacia e forza di volontà: cioè, in breve, in rapporto alla loro diversa capacità organizzativa. Essa si può riassumere nella seguente espressione: «la natura propone e l’uomo dispone». Una serie di analisi regionali, infatti, dimostrava come in condizioni naturali uguali o simili si siano elaborate forme di paesaggi, ossia contrario, perché hanno assunto un tronco tenero e spugnoso per assorbire e conservare quanto più a lungo possibile le scarse quantità di acqua assorbite durante le rare piogge e hanno trasformato le foglie in spine per ridurre la superficie evaporante, come mostrano chiaramente i baobab (alberi bottiglia) e le piante grasse; nelle regioni con un inverno molto freddo e prolungato, al sopraggiungere dell’autunno perdono le foglie (piante a foglie caduche) e interrompono il ciclo vegetativo per non essere paralizzate dalle temperature molto basse. La stessa cosa si può dire per l’adattamento degli animali al variare delle regioni climatiche (caduta in letargo durante la cattiva stagione, folto mantello e forte strato di grasso nelle regioni subpolari ecc.) e anche per le comunità umane, le quali adottano forme di insediamento, organizzazione sociale, stili di vita e talvolta anche comportamenti psicologici senz’altro condizionati dall’ambiente. 7   Aristotele, Politica, libro VII. 8   Formica C., Lo spazio geoeconomico. Struttura e problemi, Torino, Utet, 1999, pp. 9-10.

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di insediamenti e di attività economiche, molto differenti in funzione dei diversi generi di vita9. Il determinismo geografico, in breve, non coincide con la teoria darwinista. L’adattamento degli organi funzionali all’ambiente non modifica, infatti, la natura della specie vivente: l’albero muta aspetto ma non diventa erba, o viceversa, così come il cavallo o la pecora adattano le loro dimensioni e la loro fisionomia alle varie condizioni climatiche, ma non diventano leoni o lupi e viceversa. 5.  Le cause dell’evoluzione dell’uomo secondo la teoria darwinista I nostri veri antenati, secondo la ricostruzione fatta dagli evoluzionisti, avrebbero abitato l’Africa almeno 3,5 milioni di anni fa e dalla vita arboricola sarebbero passati alla vita terrestre, vivendo nelle distese erbose della savana, per un mutamento di clima che avrebbe ristretto il dominio delle foreste e che sarebbe attribuibile a vari cambiamenti della crosta terrestre verificatisi tra 6 e 4 milioni di anni fa. La causa iniziale, in maniera molto sintetica, sarebbe stata la deriva dei continenti: cioè la frantumazione della Pangea in vari blocchi (zolle crostali), i quali migrarono in varie direzioni e quando i loro margini si scontravano tra loro, accavallandosi, provocavano la formazione di catene montuose con fenomeni sismici e vulcanici, mentre quando si allontanavano, sottoponendo la crosta terrestre a una forza di distensione, originavano profonde fratture sia negli oceani che sui continenti. A un certo punto la zolla africana e quella europea si avvicinarono tanto da chiudere il grande oceano primordiale della Tetide, che le separava, lasciando delle piccole cicatrici rappresentate dal Mediterraneo, dal Mar Nero e dal Mar Caspio. Successivamente il Mediterraneo, forse per una temporanea chiusura dello Stretto di Gibilterra, si prosciugò perché venne a mancargli il rifornimento delle acque atlantiche e perché fu sottoposto ad intensa evaporazione. Esso, pertanto, si trasformò in un grande deserto, interrotto qua e là da laghi salati, e il clima delle regioni circostanti, dall’Europa all’Africa settentrionale, subì radicali cambiamenti diventando più freddo e soprattutto molto più asciutto. Fu così che la foresta equatoriale, la quale si estendeva su un vastissimo territorio, cominciò ad arretrare lasciando lo spazio alla formazione di immense savane, le quali sono distese di erbe alte fino a tre metri e punteggiate, qua e là, da formazioni arbustive e da grandi alberi come il baobab, detto anche «albero del pane» per il suo frutto commestibile10. 9   Un’analisi molto articolata e minuziosa, sotto questo punto di vista, si trova in Gourou P., Per una geografia umana, Milano, Mursia, 1978. 10   Formica C., Società ed economia in Africa, Napoli, Loffredo, 1979, pp. 20-21.

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Africa: un tratto della savana in Tanzania. In quest’ambiente gli studiosi di paleontologia ritengono che i primati da quadrupedi siano diventati bipedi e abbiano acquistato la stazione eretta, perché essa era più adatta a difendersi dagli animali guardando al di sopra delle distese erbose, allo stesso modo delle giraffe che, cibandosi delle foglie degli alberi, hanno avuto la necessità di sviluppare la lunghezza del collo.

Nella savana l’uomo primitivo, secondo l’interpretazione darwinista, avrebbe assunto la stazione eretta e abbandonato l’andatura a quattro zampe, senz’altro più comoda rispetto a quella bipede, per due fondamentali motivi connessi con le necessità di sopravvivenza: in primo luogo per elevarsi al di sopra delle distese erbose, in modo da guardare lontano e controllare l’ambiente circostante, e in secondo luogo per potere usare gli arti superiori in modo da trasportare ai propri figli il cibo raccolto nelle vicinanze. Dal punto di vista evolutivo, quindi, la conquista della stazione e della deambulazione eretta sarebbe stata molto più importante, anche perché più difficile, dello stesso sviluppo del cervello. Per procurarsi il cibo l’homo erectus della savana doveva anche cacciare e, quindi, combattere contro le prede, per cui imparò a scheggiare la pietra in lame lunghe e sottili, ottenendone asce, coltelli, punte di lance e di frecce; a lavorare l’osso per farne arpioni; a reagire alle condizioni naturali vestendosi, costruendo abitazioni e utensili; a servirsi in maniera sistematica del fuoco,che gli consentì di spingersi anche alla conquista di luoghi freddi. Lo sviluppo delle capacità intellettive segnò, così, il passaggio dall’homo erectus all’homo sapiens, circa 200.000 anni fa, e poi all’homo sapiens sapiens, tra 200.000 e 140.000 anni orsono.

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6.  Le glaciazioni sono alla base della formazione delle razze? L’Africa, quindi, sarebbe stata la culla dell’uomo attuale. Secondo la maggioranza degli studiosi, il genere Homo sarebbe nato dall’Homo Abilis nell’Africa orientale, precisamente nella regione della Great Rift Valley situata in Kenya e in Etiopia, donde poi si sarebbe diffuso nelle altre parti della Terra differenziandosi in diverse razze. Studi più recenti, invece, dimostrerebbero che l’Homo Sapiens non sia nato in Africa orientale, ma in quella centro-occidentale, dove era presente già 200.000 anni fa11. Sembra accertato, comunque, che dall’Africa orientale, attraverso la Penisola del Sinai, ci siano state almeno tre grandi migrazioni del genere Homo verso l’Eurasia: la prima circa 1,8 milioni di anni fa, la seconda circa 600 mila anni fa e l’ultima intorno a 100 mila anni fa. Tutti gli esseri umani, secondo gli studi genetici sul DNA, deriverebbero dall’ultima di queste tre grandi migrazioni, i cui individui avrebbero rimpiazzato gli esseri precedenti. La differenziazione in razze, partendo dall’uomo africano, secondo la teoria del determinismo darwinista sarebbe avvenuta a causa delle quattro glaciazioni, cioè fasi di intenso e prolungato freddo, che si sono verificate negli ultimi millenni dell’Era Quaternaria e che, dai luoghi in cui se ne sono osservate le tracce per la prima volta, vengono così denominate: Günz, Mindel, Riss e Würm. Esse sono state separate da periodi interglaciali, cioè da periodi progressivamente più caldi, nel corso dei quali i ghiacciai si scioglievano e si riducevano. Nelle fasi glaciali enormi ghiacciai si espandevano dai poli fin verso i tropici, coprendo gran parte della Terra, mentre nelle fasi interglaciali i ghiacciai si scioglievano e i fiumi trasportavano a mare grandi quantità di detriti e d’acqua. Questa alternanza provocava anche consistenti cambiamenti sull’assetto delle terre emerse e dei mari poiché nelle fasi d’intenso freddo l’espansione dei ghiacciai assorbiva gran parte dell’acqua terrestre, sottraendola ai bacini marini, per cui il livello degli oceani si abbassava (regressione marina) e i fondali marini più superficiali, come quelli che separano l’Eurasia dall’America settentrionale, restavano scoperti costituendo dei ponti che univano tra loro i due continenti e consentivano il passaggio di uomini e animali. Nelle fasi più calde, invece, l’acqua proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai faceva salire il livello del mare e molte zone costiere o isole venivano nuovamente sommerse (trasgressione marina). Le variazioni delle linee di costa, tuttavia, erano in parte controbilanciate dal principio dell’isostasia12.

11   Scozzari R.-Massaia A.-Trombetta B. et alii, An unbiased resource of novel SNP markers provides a new chronology for the human Y chromosome and reveals a deep phylogenetic structure in Africa, in “Genome Research”, febbraio, 2014. 12   L’isostasia (dal greco isos = uguale e stasis = posizione) è la tendenza di masse uguali ad appoggiarsi su superfici uguali. Perciò la crosta terrestre, la quale poggia su uno strato sottostante di materiale magmatico fluido che è denominato mantello, quando è appesantita da una

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Schema dei tempi protostorici e preistorici in rapporto alla sequenza delle grandi glaciazioni.

Le glaciazioni, quindi, con le stese masse di ghiaccio spintesi a latitudini molto basse costituivano enormi barriere che interrompevano per lunghi periodi i contatti tra le singole parti della superficie terrestre. Perciò i vari gruppi umani, in situazioni di isolamento genetico e culturale e fortemente influenzati dal tipo di alimentazione connesso alle condizioni climatiche, avrebbero acquisito caratteristiche fisiche e psico-comportamentali ben differenziate: sarebbero nate, così, le razze connotate da un proprio pool genetico.

spessa coltre di ghiacci tende progressivamente ad abbassarsi (subsidenza) e quando è alleggerita dallo scioglimento dei ghiacciai tende ad innalzarsi. Allo stesso modo i fondali marini si abbassano quando sono appesantiti da grandi quantità di sedimenti e masse d’acqua portate dai fiumi.

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L’ampiezza e la periodicità dei ghiacciai terrestri e marini con il conseguente abbassamento o innalzamento del livello marino, accompagnati da regressioni e ingressioni del mare sulla terraferma.

Così scrive Darwin: «Non v’ha dubbio che le varie razze, quando siano accuratamente comparate e misurate, differiscono molto fra loro – nella tessitura dei loro capelli, nelle relative proporzioni di tutte le parti del corpo, nella capacità dei polmoni, nella forma e nella capacità del cranio, ed anche nelle circonvoluzioni del cervello. Ma sarebbe un compito sterminato quello di specificare i numerosi punti di differenza nella struttura. Le razze differiscono pure nella costituzione, nella facoltà di acclimarsi e nella facilità a contrarre certe malattie. Anche i caratteri speciali della mente sono molto distinti; principalmente, come sembrerebbe, nelle loro facoltà di emozione, ma in parte nelle loro facoltà intellettuali. Chiunque abbia avuto l’opportunità di far comparazioni, deve essere rimasto colpito dal contrasto che passa fra l’indigeno del sud America, taciturno e anche stizzoso, col negro giocondo e ciarliero. Lo stesso contrasto s’incontra fra i Malesi e i Papuani, che vivono nelle stesse condizioni fisiche, e non sono separati gli uni dagli altri se non da uno stretto tratto di mare»13. Durante le glaciazioni l’umanità si sarebbe distinta in tre grandi famiglie fondamentali, la razza negra, la razza bianca e la razza mongolica, le quali a loro volta, in seguito alla scomparsa delle barriere glaciali e ai massicci spostamenti di popolazione da una zona all’altra della Terra, attraverso gli 13   Darwin Ch.R., L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto al sesso, Sesto San Giovanni, Barion Editore, 1926, p. 221.

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incroci e l’adattamento a particolari ambienti naturali avrebbero dato luogo alla nascita di una grande varietà di tipi umani14. 7.  Il neodarwinismo e le sue implicazioni morali La teoria darwinista, che considera la nascita dell’uomo come un evento naturale attribuibile al caso, suscitò un’immediata e forte opposizione da parte della dottrina cattolica, la quale considera l’uomo una creazione di Dio fatta a sua immagine e somiglianza e dotata di un’anima che sopravvive alla morte del corpo: un essere, quindi, trascendente molto diverso dal resto del mondo animale dal quale Darwin lo faceva discendere. Essa, tuttavia, fece molta breccia negli ambienti scientifici e anche in alcuni ambienti politico-economici d’orientamento ateo che cercarono di sfruttarla per motivi di potere, come la massoneria. Aldo Mola, infatti, scrive: «La vulgata dell’evoluzionismo divenne presto uno dei punti d’incontro di certi massoni che, anche senz’avere una precisa cognizione dei contenuti scientifici del darwinismo e delle sue possibili implicanze socio-politiche, dalla strenua lotta sostenuta dalla Chiesa di Roma contro la sua diffusione e per la sua stessa provenienza dalla terra di Desaguliers ed Anderson deducevano ch’esso fosse comunque un buon compagno di strada, se non verso la Vera Luce almeno per dissipare le tenebre più fitte»15. Giuseppe Sermonti, inoltre, aggiunge che alcuni personaggi appartenenti ad un fantomatico Club X, costituitosi nel 1884 a Londra, avrebbero ingaggiato Darwin per elaborare una teoria materialista sull’origine della vita assicurandogli un sicuro successo editoriale. Tale Club era solito riunirsi prima delle sedute della Royal Society per discutere gli indirizzi politico-culturali e mediatici che avrebbe dovuto imboccare la società inglese16. Fatto sta che, per il suo sfruttamento marxista, antitradizionale e pseudomistico, mai prima d’allora «una tesi di così dubbia scientificità era stata scelta come base indiscussa di importanti decisioni spirituali, e c’è da chiedersi se la scimmia non sia stata promossa ad antenato dell’uomo affinché l’uomo potesse essere sostituito a Dio»17.La concezione darwinista, insomma, in campo socio-politico venne ad identificarsi con una filosofia basata sul concetto di «struggle for life and death», ossia sulla lotta per la vita e la morte che giustificava anche colonialismo, il razzismo e guerre di potere e che si tentò di imporre come la regola delle comunità umane.   Biasutti R., Le razze e i popoli della Terra, Torino, Utet, 1953, Volumi 1-4.   Mola A., Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani,1992. Cfr. anche Artigas M., Le frontiere dell’evoluzionismo, Milano, Ares, 1993. 16   Sermonti G., Il crepuscolo dello scientismo, Genova, Nova Scripta, 2010. 17   Burckhardt T., Scienza moderna e saggezza tradizionale, Torino, Borla Editore, 1968, p. 86. 14

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Londra: particolare della facciata dell’edificio della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, dove è sintetizzato il comune motto massonico. Esso è racchiuso in tre imperativi latini: «audi, vide, tace», cioè ascolta, guarda e stai zitto. Sono tre comandi che obbligano gli affiliati alla segretezza.

E, infatti, il filosofo britannico Herbert Spencer (1820-1903), interessato ad elaborare una teoria generale sia del progresso umano che dell’evoluzione cosmica e biologica, scrisse: «Può sembrare inclemente che un lavoratore reso inabile dalla malattia alla competizione con i suoi simili debba sopportare il peso delle privazioni. Può sembrare inclemente che una vedova o un orfano debbano essere lasciati alla lotta per la sopravvivenza [struggle for life and death]. Ciò nonostante, quando siano viste non separatamente, ma in connessione con gli interessi dell’umanità universale, queste fatalità sono piene della più alta beneficenza – la stessa beneficenza che porta precocemente alla tomba i bambini di genitori malati, che sceglie i poveri di spirito, gli intemperanti e i debilitati come vittime di un’epidemia»18. Julian Huxley (1887-1975) aggiungeva: «Poiché vi è una lotta per l’esistenza tra gli individui, e dato che questi individui non sono tutti simili, alcune delle varianti che esistono tra essi saranno vantaggiose per la lotta della sopravvivenza, altre sfavorevoli. Di conseguenza, una proporzione più elevata di individui con variazioni favorevoli sopravvivrà nella media, mentre una proporzione più alta di quelli con variazioni sfavorevoli morirà o non riuscirà a riprodursi. E poiché una gran quantità di variazioni è trasmessa per mezzo dell’eredità, questi effetti di sopravvivenza differenziale si accu18   Visone R., Prima dell’evoluzione: le radici politiche della filosofia di Spencer e la Social Statics del 1850, Firenze, Le Cariti, 2010.

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muleranno, in gran misura, di generazione in generazione. Così la selezione naturale agirà costantemente per migliorare e conservare l’aggiustamento degli animali e delle piante a ciò che sta loro intorno e alla loro maniera di vivere»19. A tal proposito, però, Stefano Serafini osserva: «Vorremmo aggiungere che esiste un parallelo morale di non infimo peso a questa elementare critica logica. Evoluzionisti militanti hanno ribattuto a chi accusa il darwinismo di aver precorso gli orrori del Novecento, dal colonialismo ai lager e all’eugenetica, che gli avvenuti lager e stermini e cantici della razza dimostrerebbero invece proprio la potenza previsionale del darwinismo, e dunque la sua verità. Non si rendono conto di offrire in tal modo un’imperdonabile quanto assurda giustificazione scientifica (post hoc, naturalmente) a quel che di peggio l’umanità moderna abbia prodotto e patito»20. È la concezione filosofica, insomma, dell’homo homini lupus (ogni uomo è lupo per l’altro uomo) e della crudeltà sociale più spietata che era stata già teorizzata da Thomas Hobbes (1588-1679). I darwinisti negavano che la loro teoria mini i valori morali della tradizionale cultura cristiana; ma di fatto, dando dell’evoluzione una lettura materialista e vedendo nell’uomo un prodotto casuale del processo evolutivo, affermavano che il pensiero e il senso morale erano prodotti della materia. Edward Osborne Wilson scriveva: «Il cervello è un prodotto dell’evoluzione. Il comportamento umano corrisponde alla tecnica indiretta mediante la quale il materiale genetico umano è (e sarà) conservato intatto. Nessun’altra funzione ultima della morale può essere presa in considerazione»21. E Richard Dawkins, a sua volta, considerava gli organismi viventi come il mezzo inventato dai geni per riprodursi, per cui affermava il «carattere egoista» di questi ultimi22. Le implicazioni etico-morali della dottrina darwinista, quindi, sono così lampanti che, con grande onestà, ha dovuto riconoscerle anche uno dei principali darwinisti contemporanei, lo statunitense James Rachels (19412003). Egli, docente di filosofia morale e sostenitore di un’etica priva delle pretese antropocentristiche o religiose che considerano l’uomo l’unico essere beneficiario di diritti morali e civili, afferma: «La teoria di Darwin, se è corretta, riguarda questioni di fatto […] Esiste una relazione tra la teoria di Darwin e queste più ampie questioni, anche se si tratta di qualcosa di più complesso di una semplice implicazione logica. Io argomenterò che la teoria di Darwin mina, in effetti, i valori tradizionali. […] Così, pur essendo un   Huxley J., Evoluzione: la sintesi moderna, Roma, Ubaldini Astrolabio, 1966, p. 56.   Serafini S., Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione, in «Atrium», numero speciale sull’evoluzionismo, 2007, n. 1, p. 9. 21   Wilson E.O.,Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, 1979. 22   Dawkins R., Il gene egoista, Milano, Mondadori, 1989 19

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La teoria darwinista è stata utilizzata a scopi politici e sociale per giustificare anche guerre di potere, colonialismo e schiavismo come la tratta dei negri, cioè la deportazione dei neri africani operata da alcune potenze europee per fornire manodopera gratuita alle loro colonie tra i secoli XVI e XIX. Questa stampa d’epoca mostra un gruppo di negri che, catturati nelle zone interne dell’Africa, sono trasferiti verso i porti di vendita, incatenati tra loro per non fuggire. La cattura e il trasferimento erano effettuati dai capi tribù locali.

darwinista, difenderò una tesi cui gli amici di Darwin si sono in genere opposti. Ma non assumerò, con i nemici di Darwin, che tali implicazioni siano moralmente perniciose […] La moralità tradizionale dipende dall’idea che gli esseri umani si situino in una categoria etica particolare: dal punto di vista morale, la vita umana ha un valore speciale e unico, mentre la vita non-umana ha relativamente poca importanza […]. Ci si riferisce comunemente a ciò come alla dottrina della dignità umana. Ma tale dottrina non esiste in un vacuum logico. Tradizionalmente, essa è stata suffragata in due modi: innanzitutto tramite l’idea che l’uomo sia fatto a immagine di Dio e, in secondo luogo, tramite l’idea che l’uomo sia l’unico essere razionale […] Il darwinismo mina tanto l’idea che l’uomo sia fatto a immagine di Dio quanto l’idea che l’uomo sia l’unico essere razionale […]. Se il darwinismo è corretto, è improbabile che si trovi un qualsiasi ulteriore sostegno per la dottrina della dignità umana. Tale dottrina risulta, pertanto, essere l’emanazione morale di una metafisica screditata»23. 23   Rachels J., Creati dagli animali - Implicazioni morali del darwinismo. Milano, Edizioni di Comunità, 1996, p. 5; Respinti M., Processo a Darwin. Un’inchiesta a tutto campo

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In campo etico, in breve, la teoria darwinista sfocia nella sociobiologia, scienza che si propone di dare un’interpretazione unificante di tutti i comportamenti sociali delle varie specie viventi, dagli animali fino all’uomo, trasferendo l’istintività dei comportamenti animali nello sviluppo delle comunità umane e intrecciando tra loro gli interessi di studi naturalistici, etologici, antropologici, etnologici, sociologici, psicologici, politici e filosofici24. Essa, pertanto, tiene in scarsa o in nessuna considerazione gli aspetti etici del singolo individuo e dei popoli e influenza in maniera più o meno evidente le politiche internazionali, lasciando che nell’ambito di un’economia liberal-capitalistica il soggetto forte abbia la meglio sul soggetto debole per garantire un miglioramento delle condizioni della collettività: questione che, ovviamente, rientra nella sfera della morale e dell’etica. D’altra parte, trasferendo l’istintività dei comportamenti animali nello sviluppo delle comunità umane, non assegna alcuna funzione alla religione nella formazione dell’idealità morale25. Il Darwinismo sociale, pertanto, pretende di spiegare ogni aspetto dei comportamenti umani su basi genetiche, ricercandone le cause nella composizione chimica della materia vivente. In tal modo, però, cade in un determinismo genetico che rende l’uomo una sorta di automa, deresponsabilizzandolo, e legittima le disparità sociali tra gli uomini, la ricchezza e la povertà, come effetto della predestinazione: posizione che, ovviamente, viene respinta dalle scienze morali, le quali assegnano alla cultura e alle idealità politico-religiose un ruolo fondamentale nelle vicende dell’umanità, ma anche da tutte le altre scienze biologiche26. Tra i neodarwinisti, in verità, questa posizione deterministica appare più sfumata e alquanto più responsabile nei riguardi dell’etica. È il caso, soprattutto, del biologo e filosofo francese Jacques Monod (1910-1976), premio Nobel per la medicina. Egli, pur essendo fortemente convinto che soltanto il caso è all’origine del prodigioso edificio dell’evoluzione, cioè di ogni novità e di ogni creazione nella biosfera, nega che ciò tolga all’uomo la libertà e la responsabilità dei suoi comportamenti. In un volume di grande successo sulla filosofia della scienza riguardante i concetti contrastanti di caso e di necessità, ossia di una concezione casuale della realtà opposta ad sul darwinismo per smascherare incongruenze, falsità e luoghi comuni, Milano, Piemme, 2007. 24   Chiara G. (a cura), Il darwinismo nel pensiero scientifico contemporaneo, Napoli, Guida, 1984; Mancarella A., Evoluzionismo, darwinismo e marxismo, Trento, Tangram Edizioni Scientifiche, 2010; Franceschelli O., Darwin e l’anima. L’evoluzione dell’uomo e i suoi nemici, Roma, Donzelli, 2009; Idem, Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Roma, Donzelli, 2005; Idem, La natura dopo Darwin. Evoluzione umana e saggezza, Roma, Donzelli, 2007. 25   Morandini S., Darwin e Dio. Fede, evoluzione ed etica, Brescia, Marcelliana, 2009. 26   Prochiantz A., A cosa pensano i calamari? Anatomie del pensiero, Torino, Einaudi, 1999.

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una deterministica, lo studioso, al di là di ogni impostazione metafisica e sulla base di oggettive osservazioni empiriche, effettua una sintesi tra il caso che origina le mutazioni e il rigido determinismo che opera nel meccanismo della selezione naturale nel momento in cui l’essere vivente mutato si deve mettere alla prova con l’ambiente e con la società, affermando che il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. Così, infatti, lo studioso conclude il volume: «L’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre»27. 8.  Le critiche al darwinismo: anelli mancanti, entropia, scoperta del DNA Le critiche che maggiormente si rivolgono alla teoria darwinista, soprattutto per quanto riguarda l’origine dell’uomo, sono di due tipi: di ordine metodologico, riguardante gli anelli mancanti nella ricostruzione della filiera evolutiva, e di tipo sostanziale, concernenti i problemi genetici. Riguardo al metodo, molti studiosi rilevano che gli scheletri fossili o i loro brandelli, sui quali si è basata la ricostruzione evolutiva dell’uomo, sono talmente pochi da tormentare lo stesso Darwin e, soprattutto, mancano alcuni «anelli intermedi»: cioè fossili attendibili di quelle specie che segnano il passaggio tra i vari tipi degli uomini primitivi. È stato notato, infatti, che a parità di latitudini e in regioni caratterizzate da uguali condizioni climatiche e ambientali sono stati trovati fossili di homo sapiens sapiens accanto a babbuini e scimpanzé, ma nessun fossile di australopiteco. Per colmare tale lacuna è stata ipotizzata l’estinzione degli esemplari della fase intermedia, ma senza fornirne prove, inducendo così il fisico Antonino Zichichi a dire che una teoria con anelli mancanti, con sviluppi miracolosi, con inspiegabili

27   Monod J., Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Milano, Mondadori, 1972, p. 172. Lo studioso, Premio Nobel per la Medicina nel 1965, afferma che le alterazioni nel DNA sono del tutto accidentali, escludendo quindi dalla natura ogni finalismo da parte di un Dio creatore, ma che tuttavia, una volta avvenuta la mutazione, «l’avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto, cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall’ambito del puro caso, esso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni. La selezione opera in effetti in scala macroscopica, cioè a livello dell’organismo». L’autore, però, sostiene che, di fronte all’uomo biologicamente necessitato, lo sviluppo delle conoscenze si trasformi,in un certo senso, in conoscenza dell’etica, delle pulsioni, delle passioni, delle esigenze e dei limiti dell’essere biologico: in altri termini, in accettazione e consapevolezza che la necessità del caso, di un caso prolungato sia a livello biologico che a livello comportamentistico, può riscattare l’uomo dalla falsità dei modelli animisti e materialisti. Dello stesso autore, cfr. anche: Per un’etica della conoscenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.

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estinzioni e improvvise scomparse non è scienza intesa in senso galileiano28. La documentazione paleontologica a nostra disposizione, in effetti, è ben lontana dal presentare il passaggio graduale dalle forme semianimalesche all’umanità attuale che l’idea evolutiva esigerebbe di trovare29. Anche alcuni darwinisti, pertanto, ormai ammettono che le testimonianze fossili non sono così abbondanti né così significative da supportare in modo probatorio il cambiamento graduale e considerano l’evoluzione come mera ipotesi di lavoro.30 In particolare Giuseppe Sermonti, professore di genetica che ha molto contribuito alla scoperta della penicillina, afferma: «L’idea di uno sviluppo evolutivo graduale della nostra specie da creature come l’australopiteco, attraverso il pitecantropo, il sinantropo e il neanderthaliano, deve essere considerata totalmente priva di fondamento e va respinta con decisione. L’uomo non è l’anello più recente di una lunga catena evolutiva, ma, al contrario, rappresenta un taxon31 che esiste sostanzialmente immutato almeno fin dagli albori dell’Era Quaternaria […] Sul piano morfologico e anatomo-comparativo, il più “primitivo” – o meno evoluto – fra tutti gli 28   Secondo la teoria darwinista la famiglia ominoidea inizia, circa 70 milioni di anni fa, con la scimmia primitiva Dryopithecus, sdoppiandosi poi in due rami. Un ramo (Pongidoe) porta agli scimpanzé, ai gorilla, agli orangutanghi, l’altro ramo (Hominidae) dovrebbe portare all’uomo attuale attraverso la sequenza Homo Habilis (età della pietra), Homo Erectus (età del fuoco), Homo Sapiens Neanderthalensis e Homo Sapiens Sapiens. L’Homo Sapiens Neanderthsalensis, dotato di un cervello con un volume superiore al n ostro, compare circa 100.000 anni fa e circa 40.000 anni fa si estingue in modo inspiegabile per poi ricomparire, in modo altrettanto inspiegabile, circa 20.000 anni fa sotto forma di Homo Sapiens Sapiens, cioè dell’uomo attuale. La scienza, però, non ha reperito prove evolutive di questo passaggio. Se ne deduce che una teoria con anelli mancanti, sviluppi miracolosi, inspiegabili estinzioni e improvvise scomparse non è configurabile come scienza galileiana. Le mancano, infatti, due pilastri fondamentali: cioè la riproducibilità e il rigore. Cfr. Zichichi A., Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, Milano, Il Saggiatore, 1999, pp. 81-85. Una accurata esposizione di prove paleontologiche e geologiche contro la teoria dell’evoluzione è fatta anche da Zillmer H.J., L’errore di Darwin, Casale Monferrato, Piemme, 2000. 29   Per ricostruire gli anelli mancanti furono approntati anche «clamorosi falsi, dei quali la dottrina fece abbondante uso propagandistico fino allo smascheramento, presto abilmente sottaciuto come un fatto sconveniente accaduto in famiglia. Il caso più noto è quello del cranio di Piltdown, una calotta cranica umana di epoca medievale alla quale vennero limati i denti e giustapposta una mandibola scimmiesca. Presentato da fior di scienziati come “la prova” dell’evoluzionismo e della derivazione dell’uomo dai primati, fece convertire molti fra gli studiosi più dubbiosi, e venne esposta per cinquant’anni nel più importante museo di storia naturale del mondo» (Serafini S., Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione, in «Atrium», cit., p. 19). 30   Critiche molto articolate alla teoria evoluzionista vengono rivolte anche autori atei, materialisti e non sospetti di derive creazioniste come Piattelli M.-Fodor J., Gli errori di Darwin, Milano, Feltrinelli, 2010. 31   In biologia il taxon o unità tassonomica (dal greco taxis = ordinamento) indica un raggruppamento di organismi reali, distinguibili morfologicamente e geneticamente da altri e riconoscibili come unità sistematica, posizionata all’interno della struttura gerarchica della classificazione scientifica.

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ominidi risulta essere proprio l’Uomo di tipo moderno! […] Sono senz’altro meno lontani dalla verità coloro che […] sostengono l’ipotesi opposta, e cioè che Australopiteci, Arcantropi e Paleoantropi siano tutte forme derivate dall’Uomo di tipo moderno!»32. Altri argomenti contro l’evoluzione darwinista sono offerti dalle leggi della termodinamica, branca della fisica che studia la trasformazione delle varie forme di energia in energia meccanica e viceversa. Come già si è detto, la teoria darwinista si fonda su due principi: l’abiogenesi, ossia l’origine spontanea della vita dalla materia inorganica, e la macroevoluzione, cioè la trasformazione di tutte le specie, a partire da un unico antenato comune, per mezzo delle mutazioni casuali e della selezione naturale. La prima legge della termodinamica, detta «principio della conservazione dell’energia», stabilisce che in un sistema chiuso, qual è appunto l’ecosistema complesso della Terra, l’energia rimane costante attraverso tutte le trasformazioni che essa può subire, mentre la seconda legge afferma che, in un sistema chiuso, l’entropia33, cioè il disordine, aumenta o tutt’al più resta costante. L’entropia, in altri termini, esprime la tendenza dei sistemi naturali all’uniformità attraverso processi di scomposizione, degradazione, decadenza, perdita di forma e complessità di ogni sistema isolato: cioè la tendenza alla morte. Gli studiosi, trasferendo in campo biologico tali concetti, affermano l’opposto dell’evoluzionismo darwinista che, secondo i sunnominati principi dell’abiogenesi e della macroevoluzione, sostiene che dal disordine sia nato l’ordine e dalle forme semplici siano derivate quelle complesse: in particolare l’ordine al suo massimo grado rappresentato dalla colossale organizzazione della vita. L’evoluzione per selezione, peraltro, è una contraddizione «in terminis», poiché la selezione rappresenta un processo riduttivo che tende ad eliminare le novità e la biodiversità. Tutta l’evoluzione, insomma, così come la immaginò Darwin e come è stata sviluppata dai neodarwinisti, prefigurerebbe un processo degenerativo che potrebbe dar conto della decadenza della vita e delle forme, dell’irreversibilità delle trasformazioni, della loro scomparsa, ma giammai della creazione, dell’insorgenza o della formazione di alcunché34. Si trasforma, cioè, in 32   Scarpa F. (a cura di), Un arcobaleno di domande: 99 domande per conoscere la scienza, Bari, Dedalo, 2004, p, 215. 33   Entropia deriva dal greco «en» (= dentro) e «tropé» (= trasformazione), per cui letteralmente significa «trasformazione interna». Essa è assuma come una grandezza per misurare il disordine presente in un sistema fisico, qualsiasi esso sia, incluso come caso limite anche l’universo. 34   È stato rilevato che la teoria dell’evoluzione darwinista è una sorte di revisione della Genesi. Infatti, mentre nella Bibbia le grandi classi di creature appaiono successivamente ed autonomamente; nella teoria dell’evoluzione ognuna deriva gradualmente dalla trasformazione della precedente: dai pesci si sviluppano gli anfibi; dagli anfibi i rettili, dai rettili i mammiferi e quindi m’uomo. Il processo della trasformazione delle classi per Darwin è una

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Gregor Johann Mendel, scopritore della trasmissibilità dei caratteri ereditari negli organismi vegetali, mentre effettua gli esperimenti sui piselli del suo giardino.

una teoria dell’involuzione, della regressione verso l’elementare e l’informe, ossia in una teoria della decadenza. Da alcuni, infatti, si obietta che, tutt’al più, sarebbe stata la scimmia a derivare dall’uomo e non il contrario35. Un ulteriore colpo demolitore alla teoria dell’evoluzione selettiva è venuto dalle più recenti scoperte della genetica. Nel secolo XIX, infatti, il frate francescano Gregor Johann Mendel (1822-1884) scoprì la trasmissibilità dei caratteri ereditari negli organismi vegetali36 e Johan Friedrich Mienecessità logica per evitare il ricorso a ripetuti interventi del Creatore. Darwin, pertanto, non avrebbe avuto un’intenzionalità atea, tanto che conclude il suo «The Origin of Species» con un inno alla Vita e ai suoi numerosi poteri, essendo originariamente animata dal Creatore in una sola o in poche forme. L’ateismo che ha poi connotato l’evoluzionismo, quindi, sarebbe uno sviluppo posteriore e non un’inevitabile conseguenza della sua teoria. 35   Brillouin L., Science and Information Theory, Dover, Academic Press, 1962. Gould S.J., L’evoluzione della vita sulla Terra, Le Scienze n. 316; Cramer F., Caos e ordine. La complessa struttura del vivente, Torino, Boringhieri, 1994;. Monod W., Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1996: Thompson D’Arcy W., Crescita e forma, la Geometria della natura, Torino, Boringhieri, 2006; Fondi R. - Sermonti G., Dopo Darwin. Critica all’evoluzionismo, Milano, Rusconi, 1980; Sermonti G., Evoluzione senza selezione. Autoevoluzione di forma e funzione, Genova, Nova Scripta, 2003. Idem, Evoluzionismo e antievoluzionismo: l’evoluzione prima della vita. Entropia ed evoluzione, in «Abstracta», n° 38, 1989, pp. 90-95; Timossi I., Oltre il Big Bang e il DNA, Torino, Elledici, 2007, pp. 47-48; Casini P., Darwin e la disputa sulla creazione, Bologna, il Mulino, 2009. 36   Mendel, in effetti, smentiva la teoria di Darwin e non la rafforzava, come invece fu fatto credere. Egli, infatti, dimostrò che nell’eredità dei caratteri non c’è casualità e selezione

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scher (1844-1895), biologo svizzero, isolò per la prima volta gli acidi nucleici, aprendo la strada all’identificazione del DNA. Sulla scia dei loro studi e di altri contributi successivi (Phoebus Levene, William Edwin Astbury, Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger, Oswald Theodore Avery ecc.) nel 1953 gli scienziati James Watson e Francis Crick sulla rivista “Nature” presentarono il primo modello accurato della struttura del DNA, ovvero il modello a doppia elica, dimostrando come esso fosse responsabile della conservazione e della trasmissione dei caratteri ereditari. Il DNA (= acido desossiribonucleico) è un acido nucleico che si trova quasi esclusivamente nel nucleo delle cellule ed è responsabile della trasmissibilità dei caratteri. Esso è formato da 22 elementi che si ripetono all’infinito, intrecciati come in una catena, e contiene tutte le informazioni genetiche necessarie per risalire dai progenitori di una specie vegetale o animale: quindi anche dell’uomo. La trasmissibilità dei caratteri attraverso il DNA confuta chiaramente lo sviluppo selettivo e getta luce, invece, sui versetti della Genesi là dove si dice: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie».

Ogni specie vegetale, quindi, sorge provvista del suo principio di riproduzione. La scienza, insomma, ha scoperto che il corpo umano è formato da 60 mila miliardi di cellule viventi, ciascuna delle quali è fa­volosamente complessa. È una sorta di Galassia vivente e «riesce a costruirsi da sé, partendo da una cellula sola, in base alla programmazione di tutto quanto deve venir eseguito, registrata sui nastri DNA, riu­niti nel suo centro direzionale. Quel centro prov­vede a fornire tutti i “piani costruttivi”, a pianifi­care la costruzione dei vari organi, a coordinare la loro attività ed a rendere efficiente tutto quell’immenso sistema biologico»37. naturale, ma tutto avviene secondo una sequenza matematica. Infatti, studioso appassionato di botanica, nel suo orto egli coltivò un numero enorme di piselli e li osservò accuratamente uno a uno. Poi ne selezionò ventidue varietà differenti e concentrò la sua attenzione soprattutto su sette paia che mostravano caratteristiche opposte facilmente distinguibili a occhio nudo. Incrociando le diverse specie, osservò che la prima generazione nata dopo gli incroci era composta da individui uniformi, mentre quelle successive presentavano mutazioni rispondenti a precise proporzioni matematiche, quindi oggettive e calcolabili, e che ciascuno dei caratteri presentati dai nuovi individui di piselli era trasmesso in modo indipendente, perché determinato da un fattore che gli era proprio. Formulò, così, la famosa legge dell’ereditarietà dei caratteri, la quale, in breve, dice che negli esseri viventi esistono unità indipendenti ed ereditabili e che l’ereditarietà segue un andamento determinato dalle diverse combinazioni di codeste unità indipendenti, seguendo un corso e ricorso regolare descrivibile con moduli matematici. Erano escluse, perciò, casualità e selezione naturale. Cfr. Respinti M., Mendel contro Darwin, in “il Timone”, n. 73, 2008, pp. 52-53. 37   Ravalico D.E., La creazione non è una favola, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1986.

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Un esempio della struttura del DNA. Dal punto di vista chimico esso è costituito da un acido desossiribonucleico che contiene tutte le informazioni genetiche di ogni specie vivente, sia animale che vegetale.

Il corpo umano, in breve, è programmato e registrato in codice su un nastro e ciascuna persona si è autocostruita nel grembo materno in base alla programmazione registrata su quel nastro. Ciò significa che, senza un progetto iniziale concepito prima della comparsa dell’uomo sulla Terra e senza la sua programmazione e registrazione su un apposito nastro, sarebbe impossibile vivere. C’è un solo nastro di DNA per tutti i viventi e la registrazione è effettuata nello stesso modo per tutti – si tratti di un lichene o di una quercia, di un vermiciattolo o di una balena azzurra – su nastri di lunghezza tale da poter circoscrivere tutto il sistema solare38. 9.  L’evoluzione presuppone la creazione: il «salto ontologico» Dalla scienza sappiamo che l’Universo è nato circa 14 miliardi di anni fa e che non è sempre stato come noi lo vediamo ora, ma anzi è in continua evoluzione. Sappiamo anche che intorno a 5 miliardi di anni fa 38   Landolina G., La Genesi biblica tra scienza e fede, Tavagnacco (UD), Edizioni Sogno, Volumi 3, 2005-2006.

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la Terra comincia a delinearsi come struttura autonoma e che sulla Terra i primi viventi unicellulari compaiono intorno a 3-4 miliardi di anni fa: prima quelli sprovvisti di nucleo, i procarioti, poi quelli provvisti di nucleo, gli eucarioti. Poi l’evoluzione procede con un ritmo abbastanza rallentato e le prime forme viventi pluricellulari compaiono molto dopo, attorno a un miliardo di anni fa, mentre l’evoluzione che interessa le classi dei vertebrati che noi conosciamo incomincia intorno a 540-520 milioni di anni fa; ma eventi catastrofici, che alcuni studiosi attribuiscono ad una serie incredibilmente violenta di eruzioni vulcaniche avvenute nel Deccan in India circa 65 milioni di anni fa, con i loro gas e altre sostanze venefiche hanno causato l’estinzione di almeno il 76% delle specie allora viventi, tra cui i dinosauri, gli ittiosauri, i pliosauri e molti altri rettili marini. Poi, all’epoca in cui si stavano estinguendo gli ultimi dinosauri, comparvero i primi primati, l’ordine cui anche l’uomo viene riferito, e nell’ambito dei primati si delineò il processo dell’ominizzazione, che viene fatta incominciare intorno ai sei milioni di anni fa. Si verificò, cioè, una separazione fra una linea che ha portato agli ominidi e poi all’uomo e un’altra linea che ha portato invece alle scimmie antropomorfe e che, come si è già detto, sarebbe avvenuta in Africa orientale. Questi ominidi, che avevano già una stazione eretta o camminavano abbastanza eretti, sono ritenuti la fase preparatoria della comparsa dell’uomo. Sembra accertato, peraltro, che c’è una continuità biologica tra la forma umana e quelle che l’hanno preceduta, rappresentata non solo dal bipedismo, ma anche da un graduale sviluppo dell’encefalo del cervello. Si tratta di una continuità biologica che, però, è stata anche caratterizzata da una discontinuità culturale riconoscibile nei prodotti dell’attività dell’ominide diventato uomo: cioè negli strumenti della tecnologia inventati per procacciarsi i mezzi di sussistenza e per organizzare il territorio. Giustamente Fiorenzo Faccini39 osserva che, quando una tecnologia si rivela di tipo progettuale, intenzionale, allora emergono i segni dell’uomo, perché la cultura è un’attività specifica dell’uomo e si esprime appunto nei prodotti della tecnologia finalizzata all’organizzazione del territorio. Questi comportamenti non sono più di tipo biologico, non sono regolati da leggi o da proprietà biologiche. La cultura, quindi, rientra in una sfera extrabiologica e in essa si può riconoscere un’impronta di natura spirituale40. La comparsa dell’uomo, quindi, 39   Faccini F., Le origini dell’uomo e l’evoluzione culturale, Milano, Jaca Book, 2006; Idem, Le sfide dell’evoluzione. In armonia tra scienza e fede, Milano, Jaca Book, 2008; Idem, E l’uomo venne sulla terra, Cinisello Balsamo, Ed. S. Paolo, 2005; Idem, Origini dell’uomo ed evoluzione culturale. Profili scientifici, filosofici, religiosi, Milano, Jaca Book, 2002. 40   Persino un materialista convinto come Jacques Monod, pur non credendo nell’anima spirituale, attribuisce al linguaggio e, quindi alla cultura, la funzione di trampolino per il salto che separa l’uomo dagli altri animali. Ciò avviene, secondo lui, quando si verifica l’emergenza, cioè il passaggio, dalla biosfera verso la noosfera, intesa come mondo immateriale della

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Sant’Agostino in un dipinto di Botticelli nella chiesa Ognissanti a Firenze. Sant’Agostino fu tra i primi a formulare il concetto del salto ontologico,affermando uno sviluppo della creazione in maniera progressiva, Egli, infatti, nel libro terzo delle Confessioni afferma: «Al principio furono creati solo i germi, o le cause, delle forme di vita, che in seguito si sarebbero sviluppate gradualmente.

presuppone un salto di qualità nel processo evolutivo che Giovanni Paolo II, nel messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze del 22 ottobre del 1996 preparato insieme all’allora Cardinale Ratzinger, ha chiamato «salto ontologico»41. L’affermazione del pontefice sembra confermata da Antonio Lima de Faria, considerato il padre della genetica molecolare contemporanea, il quale propone una radicale revisione della teoria darwinista formulando un approccio del tutto nuovo per spiegare l’evoluzione biologica e la nascita mente e del pensiero (in greco noo= mente) sotto forma di intelligenza collettiva che esercita una profonda influenza sulle cose materiali (Monod J., Il caso e la necessità, op. cit.). 41  Cfr. Commissione Teologica Internazionale, «Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio», in “Civiltà Cattolica” del 6-XI-2004, pp. 254-286.

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della vita. Egli fonda il suo paradigma sulla forma, sulla funzione e sulla periodicità, anziché sui geni, sul caso e sulla selezione naturale e, spingendosi oltre le comuni acquisizioni in materia, arriva a considerare l’evoluzione dei viventi come la continuazione canalizzata di quella del mondo fisico42. 10.  La natura del «salto ontologico» Nell’intervento del Pontefice così si legge: «Questo salto ontologico ha richiesto un particolare intervento di Dio Creatore, che ha infuso in una o più forme preumane un principio spirituale, cioè di ordine non materiale e quindi non contenuto nelle potenzialità della materia anche più evoluta. Tale principio spirituale, non potendo provenire attraverso una trasformazione creatrice della materia, la quale non pensa, non ha coscienza di sé, non ha libertà, non può avere altra causa immediata possibile che un atto propriamente «creatore» di colui che è, per essenza, lo Spirito sussistente e infinito, Dio. Nel processo evolutivo dei viventi, quindi, Dio ha dato alla materia la capacità di autotrascendersi e di dare così origine a forme di vita sempre più complesse fino a giungere agli ominidi, dotati di caratteri di una straordinaria complessità, come la vertebralizzazione, l’omeotermia, la bipedia. Invece, nella formazione dell’uomo, in quanto essere pensante, autocosciente e libero, capace di compiere atti non materiali, superiori alle capacità trasformatrici della materia, Dio ha dovuto creare nel corpo di un ominide un’anima spirituale. Evidentemente, l’infusione di un principio spirituale (l’anima) in un principio materiale (il corpo) non è potuta avvenire se non quando il corpo, attraverso successive trasformazioni evolutive, fosse preparato e disposto a ricevere l’intervento creatore di Dio. In realtà, l’«ominizzazione», per cui dall’ominide si è passati all’uomo, è stata preceduta da forme pre-umane che per certe forme di psichismo e per certi mutamenti fisici, come l’aumento della capacità cranica, preparavano e disponevano il corpo all’infusione dell’anima spirituale. Questa, informando il corpo animale-materiale, lo ha assunto in un ordine nuovo, che è quello dello spirito, e quindi lo ha adattato a svolgere le funzioni «umane», che sono sempre, insieme, funzioni spirituali-materiali. Così, secondo la teologia cattolica, l’uomo costituisce il culmine e il fine del processo evolutivo dei viventi. Ne rappresenta il culmine perché con l’uomo l’evoluzione raggiunge il punto più alto, in quanto il corpo umano è l’essere più complesso che l’evoluzione abbia prodotto e nel quale si riassume e si concentra tutto il cammino 42   Lima de Faria A., Evoluzione senza selezione. Autoevoluzione di forma e funzione, Genova, Nova Scripta, 2003. Nell’introduzione al volume Sergio Carrà, sintetizzando le argomentazioni dell’autore, conclude che «non è necessario essere cattolici integralisti per chiedersi come un organismo così complesso, quale un essere umano, possa essere solamente il risultato di una successione di eventi casuali».

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San Tommaso che discute con Averroè in un dipinto di Giovanni di Paolo di Grazia (1398-1482). A proposito della creazione San Tommaso d’Aquino scrive: «La creazione non è una mutazione, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al principio che lo fa esistere. Quindi è nella categoria di relazione» (Summa contra gentiles, II, 18). E aggiunge: «La creazione, nella creatura, non è altro se non una certa relazione al Creatore, causa del suo essere» (Summa Theol., I, q. 45, a. 3, c).

evolutivo (microcosmo); ne rappresenta anche il fine perché soltanto l’uomo, in quanto essere pensante e intelligente, cosciente di sé e della realtà che lo circonda, libero e responsabile, conferisce un senso al processo evolutivo, è capace di coglierne il significato, di comprenderlo, di ammirarlo e di dargli voce. Senza l’uomo, il mondo, per quanto avesse raggiunto per evoluzione il punto più alto, sarebbe un mondo muto, oppresso da un eterno silenzio, perché non ci sarebbe nessuno capace di dargli voce. «Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta», affermava Pascal43. Soltanto l’uomo, facendo 43   Pascal B., Pensieri e altri scritti di e su Pascal, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1986, p. 345. L’autore, inoltre, dice: «La fede dice quel che i sensi non dicono, ma non il contrario di quello che i sensi vedono. È al di sopra e non contro».

Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: creazione o evoluzione?

parlare l’Universo con la cultura, con l’arte e con la scienza, rompe questo angoscioso silenzio. Infatti, poiché lo spirito non può derivare dalla materia, si deve ritenere che quando un corpo poteva essere preparato per accogliere lo spirito o l’anima, Dio l’ha voluto come uomo, come persona, realizzando una discontinuità di tipo ontologico. Perciò anche il processo evolutivo si svolge in assoluta dipendenza da Dio ed è sotto la sua paterna e amorosa provvidenza». Con la nascita dell’uomo, così, acquista un senso tutta l’evoluzione. Livio Fanzaga scrive: «Da dove viene dunque il corpo dell’uomo, fermo restando che nella visione cristiana Dio ha infuso l’anima nella prima coppia umana, così come la infonde in ogni embrione nel momento in cui è concepito? Scartata l’ipotesi che l’uomo sarebbe un animale evoluto, l’ipotesi che si fa largo anche nel mondo scientifico è quella del “principio antropico”, cioè di quella concezione che vede l’universo intero ordinato all’uomo. In altri termini la distesa sterminata della materia realizza un disegno in essa impresso che si concretizza con la formazione della terra, quindi della vita, a sua volta ordinata al corpo dell’uomo, che il Creatore rende “umano” infondendo in esso l’anima spirituale e immortale»44. Proporre la discontinuità ontologica, tuttavia, non significa opporsi a quella continuità fisica che sembra essere il filo conduttore delle ricerche sull’evoluzione dal piano della fisica e della chimica, poiché si tratta di due diversi ordini del sapere: quello scientifico e quello filosofico-teologico. Il momento del passaggio all’ambito spirituale non è oggetto dell’osservazione scientifica, anche se questa può scoprire, a livello sperimentale, «una serie di segni molto preziosi della specificità dell’essere umano», come la capacità di progettare il futuro, la sua autocoscienza, la sua capacità di simbolizzazione e quindi di parlare usando il linguaggio simbolico, di esprimersi mediante raffigurazioni pittoriche di uomini e di animali. In effetti «l’esperienza del sapere metafisico, della coscienza di sé e della propria riflessività, della coscienza morale, della libertà e anche l’esperienza estetica e religiosa sono di competenza dell’analisi e della riflessione filosofica, mentre la teologia ne coglie il senso ultimo secondo il disegno del Creatore»45. 11.  Creazione ed evoluzione: capacità della materia di autotrascendersi Il concetto di creazione, secondo la dottrina cattolica, implica che tutto quello che noi siamo e che vediamo, dipende da Dio creatore. È una   Fanzaga L., L’uomo e il suo destino eterno, Milano, Sugarco, 2008, p. 34.   Giovanni Paolo II, Lettera ai Membri della Pomtificia Accademia delle Scienze, in «L’Osservatore Romano», 23 ottobre 1996. 44 45

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Il Papa Giovanni Paolo II, sostenitore della discontinuità ontologica. Egli afferma che, nel processo evolutivo, tra l’uomo e gli altri animali si è verificato un salto non soltanto psicologico o comportamentale, ma anche un salto che ha fatto passare l’uomo dall’ambito materiale a quello spirituale e che, proprio per questo motivo, non è verificabile a livello sperimentale, ma rientra nell’ambito della riflessione filosofica. La sua «Lettera ai Membri della Pontificia Accademia delle Scienze» costituisce un importante documento per il dialogo tra la scienza e la fede e intende attirare l’attenzione della comunità scientifica sui rischi di una chiusura materialistica e immanentistica nei confronti dell’uomo e su una visione riduttiva che amputa l’uomo del suo valore unico, riducendolo a specie tra le specie, animale tra gli animali, chiuso a ogni richiamo, prospettiva e legge trascendente.

dipendenza, però, che non si esaurisce con gli inizi del Big Bang – cioè quando si sono formati i primi elementi dell’Universo e, in seguito, i corpi celesti e la Terra e infine i primi esseri viventi – ma che si estende nel tempo e, quindi, al presente. Il tempo per Dio non esiste: dinanzi a Lui tutto è presente. La verità della creazione, in altri termini, secondo Fiorenzo Faccini «non implica che la realtà, così come noi la vediamo, provenga direttamente da Dio, da un cenno della sua volontà, dalla sua parola, come dice la Bibbia, quasi che non abbia avuto un passato, una storia, e neppure implica che la realtà creata debba essere vista, secondo un’idea cara alla teologia naturale del teologo Paley46 e fortemente osteggiata da Darwin, come un orologio 46   William Paley (1743-1805) è stato un filosofo e teologo inglese fautore di una teologia naturale che si basa sulla ragione e sull’ordinaria esperienza, distinguendosi dalla teologia rivelata che si fonda invece sulla Sacra Scrittura (cfr. Natural Theology or Evidences of the Existence and Attributes of the Deity del 1802).

Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: creazione o evoluzione?

William Paley, fautore del creazionismo, a sostegno della sua tesi ha usato l’analogia dell’orologiaio, consistente nella comparazione di un fenomeno naturale ad un orologio. Egli, infatti, scrive che, se nell’attraversare una brughiera si trova un orologio, è più ragionevole pensare che esso non sia un prodotto della natura, ma che «deve essere esistito, in qualche tempo, ed in questo o quel posto, un artefice o più, a mettere assieme i pezzi dell’orologio comunque, a fabbricarlo, per lo scopo al quale effettivamente vogliamo risponda». Egli, in breve, afferma che, come i complessi meccanismi interni di un orologio necessitano di un “progettista” intelligente, così anche la complessa struttura sia dell’universo che degli organismi viventi, con il loro armonico funzionamento, presuppone la necessità di un «progettista», il quale non può essere se non Dio.

perfettamente predefinito, funzionante e sempre uguale a se stesso»47. Si tratterebbe, quindi, di un mondo in divenire come autocompimento di un pensiero creatore. Ciò significa che «l’azione di Dio non si sostituisce all’attività delle cause creaturali, ma fa sì che queste possano agire secondo la loro natura e, ciononostante, conseguire le finalità da Lui volute. Nell’aver voluto liberamente creare e conservare l’universo, Dio vuole attivare e sostenere tutte quelle cause seconde la cui attività contribuisce al dispiegamento dell’ordine naturale che Egli intende produrre. Attraverso l’attività delle cause naturali, Dio provoca il verificarsi di quelle condizioni necessarie alla comparsa degli organismi viventi e, inoltre, alla loro riproduzione e differenziazione. Creazione ed evoluzione, pertanto, sono due teorie compatibili. L’evoluzione, infatti, presuppone la creazione e la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo, come una creazione continua che tende alla realizzazione di un mondo perfetto48.   Faccini F., Creazione: Dio non è contro Darwin, in “L’Avvenire”, 24 sett. 2012.   Ratzinger J., Fede nella creazione e teoria dell’evoluzione, in «Wer ist das eigentlich-Gott?», Monaco 1969. Traduzione italiana pubblicata su “Il Foglio”, Il creatore dell’evoluzione - Il dissidio e l’armonia tra fede e scienza secondo il professor Ratzinger, venerdì 23 dicembre 2005, anno X, numero 303, p. 1. 47 48

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Il Catechismo della Chiesa Cattolica, d’altronde, pur non usando il termine di evoluzione, osserva che «la creazione non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta» (n. 302) e che Dio ha creato un mondo non perfetto, ma «in stato di via verso la sua perfezione ultima. Questo divenire nel disegno di Dio comporta con la comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura, anche le distruzioni» (n. 310). Dio creatore, insomma, continua ad agire attraverso le «cause seconde», che sono le sue creature, mediante le proprietà e le leggi da lui volute. Egli, infatti, «è causa non solo dell’esistenza, ma è anche causa delle cause». Non fa Lui stesso le cose, ma fa in modo che si facciano, poiché «è la Causa prima che opera nelle e per mezzo delle cause seconde»49. L’atto creativo di Dio, dunque, ha riguardato l’attività delle cause naturali, le quali hanno agito come Dio ha voluto che agissero. Giuseppe De Rosa scrive che, data la piena libertà di Dio, si può pensare che «Egli abbia voluto un mondo in evoluzione, in cui, sotto l’azione delle cause naturali, ci fosse il passaggio dal «meno» al «più», dalla materia non vivente alla vita, dapprima unicellulare e poi a forme di vita sempre più complesse e diversificate, fino a giungere all’uomo. Evidentemente, le cause naturali hanno agito secondo la propria natura, imperfetta e contingente, per cui nel processo evolutivo hanno trovato posto, in maniera più o meno ampia, la casualità e l’aleatorietà, e quindi possono esserci stati strutture evolutive senza significato, mutazioni genetiche dannose e processi evolutivi catastrofici, che hanno condotto all’estinzione lenta e talvolta rapida di specie animali e vegetali…Questo significa che non c’è opposizione tra creazione ed evoluzione e che quindi non si è costretti a scegliere tra creazione ed evoluzione: non dunque creazione o evoluzione, ma creazione ed evoluzione; così come non si è costretti a scegliere tra caso e finalità, poiché nel processo evolutivo hanno posto tanto il caso quanto la finalità»50. Per un credente, insomma, l’evoluzione dovrebbe essere vista come un prolungamento della creazione secondo un disegno finalistico. Il finalismo come disegno generale sull’Universo, però, non appartiene alla scienza, ma rientra nella sfera della filosofia o della religione. Non è un fenomeno rilevabile con i metodi delle scienze empiriche, onde lo scienziato non può né affermarle né negarle, ma è ragionevole pensarlo come una causalità divina, considerando l’armonia delle leggi della natura e la complessità anche degli organismi più elementari. In quest’ottica, pertanto, sono da escludere sia il «creazionismo» fissista, secondo il quale Dio ha creato tutte le specie come sono oggi, e sia l’evoluzionismo ateo, secondo il quale tutto il mondo vivente si è evoluto casualmente, senza nessun fine da raggiungere. 49 

n. 308.

Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1992,

50  G. De Rosa, Evoluzione dei viventi e fede cristiana, in «La Civiltà Cattolica», 21 ott. 2006, pp. 127-137.

iv La genetica moderna: Adamo ed Eva unici nostri progenitori

1.  Adamo ed Eva sarebbero vissuti tra 180.000 e 200.000 anni fa La teoria evoluzionista, come si è detto, ritiene che la nascita delle specie abbia seguito un percorso lineare passando da organismi semplici a organismi complessi. La genetica moderna, invece, dimostra che tutte le specie viventi conosciute hanno avuto un’origine pressoché contemporanea nel periodo dell’era paleozoica denominato «cambriano»1 e, precisamente, in un arco temporale che è stato denominato «esplosione cambriana» e che si è verificata tra 540 e 520 milioni di anni fa. L’«esplosione cambriana», quindi, è durata circa 20 milioni di anni: periodo che nella scala temporale della storia geologica rappresenta un breve «scoppio» e che gli studiosi ritengono incoerente con il ritmo graduale dei cambiamenti evolutivi. L’analisi dei fossili, inoltre, dimostra che i loro organismi avevano una struttura non semplice, ma complessa e similare a quella attuale. Essi, cioè, non mostrano significativi segni di evoluzione. Genetisti e paleontologi, in sostanza, ormai ritengono che la complessità degli organismi viventi sia restata sostanzialmente immutata dalla preistoria ad oggi e che non si è mai registrato un passaggio da una specie ad un’altra2. Così, mentre si fanno ancora attendere le prove dell’anello man1   Il Cambriano è uno dei sei periodi (cambriano, ordoviciano, siluriano, devoniano, carbonifero, permiano) in cui si divide l’era geologica paleozoica, la quale va da 570 a 230 milioni di anni fa. Il Cambriano prende il nome dal dal Galles, regione della Gran Bretagna che gli antichi Romani chiamavano Cambria. 2   «La molecola di DNA è presente in tutte le cellule degli organismi viventi, in quelle di un gambo o di una gamba, di una foglia o di un becco, di una radice o di un’unghia, ecc. Ogni individuo di ogni specie ha la sua molecola di DNA che lo caratterizza, replicata identicamente centinaia di migliaia di miliardi di volte nel suo organismo. Ma il DNA non è solo la carta d’identità dei viventi, è molto di più: è il programma che prima della nascita guida l’embrione a selezionare e ad assemblare dall’ambiente, particella dopo particella, la materia e l’energia necessarie allo sviluppo dell’organismo e poi in vita guida nelle cellule la produzione continua di proteine necessarie al suo metabolismo. Una cellula non è “uno schifo, una roba molle, fatta di cose spesso che non servono, messe lì, che uno si porta dietro dall’evoluzione”, come il Cicap indottrina gl’ingenui alla superstizione, ma è un’organizzazione olistica avente il DNA come super-programma delle routine proteinogenetiche eseguibili dagli organelli, infinitamente superiore al più avanzato sistema robotico industriale per complessità cibernetica e al www per complessità di grafo» (La genetica moderna ha smentito il darwinismo classico, in

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Un esempio di mitocondrio. I mitocondri sono organuli di forma generalmente allungata, racchiusi da due membrane: una esterna di forma liscia e una interna caratterizzata da pieghe dette “creste mitocondriali”. Essi svolgono molteplici funzioni, ma quella principale consiste nella produzione di energia, per cui sono definiti “centrali energetiche” della cellula.

cante tra la scimmia e l’uomo, l’analisi del DNA mitocondriale, cioè degli organelli interni alla cellula che si ritengono evoluti separatamente, ha dimostrato che tutti gli esseri umani discendono da un solo padre e da una sola madre, nostri unici antenati comuni, cui gli scienziati hanno dato il nome di «Adamo cromosomiale Y» e di «Eva mitocondriale»3. Basandosi sulla tecnica dell’«orologio molecolare»4, utilizzata per stimare il tempo che è trascorso dalla separazione tra due specie a partire “Unione Cristiani Cattolici Razionali”, 12 luglio 2012). 3   I genetisti hanno denominato questi progenitori dell’uomo e della donna «Adamo cromosomiale Y» ed «Eva mitocondriale» dal nome del Dna, che si eredita solo per via materna e che si trova non nel nucleo della cellula, ma nelle centraline energetiche delle cellule, che sono chiamate «mitocondri». Il cromosoma «Y» maschile e il Dna mitocondriale femminile sono, dunque, due parametri chiave per la storia evolutiva dell’Homo sapiens. Infatti, poiché il primo si trasmette solo dai padri ai figli maschi e il secondo è ereditato esclusivamente dalla madre, entrambi non subiscono alcuna ricombinazione con il materiale genetico ereditato dall’altro genitore e funzionano come una “scatola nera” dell’evoluzione umana, registrando tutta la nostra linea di discendenza e arrivando fino alla preistoria. 4   La tecnica dell’orologio molecolare si basa sull’ipotesi che mutazioni casuali, con le quali i geni si evolvono, avvengono con frequenze pressoché costanti nel tempo. Essa consente di stimare il tempo trascorso dal momento in cui si è verificata la divergenza tra due specie discendenti da un comune antenato valutando il numero delle differenze presenti in sequenze di DNA o nelle corrispettive proteine.

La genetica moderna: Adamo ed Eva unici nostri progenitori

dallo studio delle differenze esistenti nelle sequenze amminoacidiche di alcune proteine, i genetisti ritengono che Eva sia vissuta circa 200.000 anni fa e che, sebbene le sia stato attribuito il nome dell’Eva biblica, non fosse l’unica femmina umana del suo tempo. Essi calcolano che ce ne fossero circa 20.000, ma che solo Eva ha prodotto una linea ininterrotta di figlie ancora esistente5. Inoltre, contrariamente ai genetisti del passato che ritenevano l’Adamo «cromosomiale Y» non contemporaneo ad Eva, gli studiosi moderni, approfondendo le ricerche sul cromosoma «Y», gli hanno assegnato una nascita compresa fra 180.000 e 200.000 anni fa. Anche per la scienza, quindi, Adamo ed Eva sarebbero contemporanei. La figura mostra l’Africa come il centro d’origine dell’umanità. In genetica il macroalogruppo L indica il DNA che è all’origine dell’albero filogenetico del DNA mitocondriale (mtDNA) e, come tale, rappresenta il lignaggio mitocondriale più ancestrale degli umani moderni: cioè quello di Eva nitocondriale. Circa 200.000 anni fa il macroalogruppo L dall’Africa sudorientale iniziò ad espandersi in tutto l’Africa subsahariana differenziandosi in vari cladi e subcladi (L0, L1, L2, L3, L4, L5 e L6), ossia in vari rami e sottorami (in graco kládos = ramo) discendenti da un unico antenato, e poi passò in Asia, suddividendosi ulteriormente in altri macroaplogruppi (M, N).

L’Eva mitocondriale è anche indicata come «Eva africana», poiché gli alberi genealogici dei popoli ricostruiti dalla filogenia6 sulla base del confronto del DNA mitocondriale mostrano che gli esseri umani viventi, le cui linee di discendenza mitocondriale si sono ramificate per prime, sono quelle degli indigeni africani e che da esse si sono poi ramificate le linee di discendenza delle popolazioni indigene degli altri continenti. La maggiore diversità delle sequenze di DNA mitocondriale esistente tra gli africani, rispetto agli altri popoli, dimostra che essa non si sarebbe accumulata se gli esseri 5   Bryan Sykes, sulla base dello studio del DNA, propone per la popolazione europea una discendenza da sole sette donne (Ursula, Xenia, Tara, Helena, Katrine, Velda e Jasmine) che sarebbero vissute tra 10.000 e 45.000 anni fa. Esse avrebbero dato origine a sette clan che hanno popolato l’Europa e l’America e dai quali discende la popolazione indigena di quei luoghi (Sykes B., Le sette figlie di Eva. Le comuni origini genetiche dell’umanità, Milano, Mondadori, 2003). 6   La filogenia (dal greco phulé = classe o specie) e ghenesis (= nascita, creazione, origine) è il processo di ramificazione delle linee di discendenza nell’evoluzione della vita. Essa, quindi, studia l’origine e l’evoluzione di un insieme di organismi vegetali e animali dalla loro comparsa sulla Terra fino ad oggi.

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Veduta aerea del Lago di Toba, lungo 100 km e largo 30 km, formatosi nella caldera lasciata dall’esplosione del sottostante vulcano. Al centro del lago si formò una nuova montagna, alta 1.600 m, che forma l’isola di Samosir. Dal cratere furono espulsi oltre 1.000 km3 di ceneri e rocce, una quantità tale da ricoprire con diversi metri un intero continente. Ceneri e gas arrivarono nella stratosfera, causando oscurità per diversi mesi e la morte di molte specie vegetali e animali.

umani non avessero vissuto in Africa per più tempo che in qualsiasi altra parte della Terra. Recenti studi sul mitocondrio umano, inoltre, ipotizzano che circa 75.000 anni orsono la specie umana si sia ridotta a poche migliaia di individui a causa di una violentissima eruzione di un supervulcano asiatico situato sotto il Lago di Toba, le cui ceneri avrebbero reso ancora più rigido il clima del pianeta che già stava attraversando un’era glaciale, Questo «collo di bottiglia» determinatosi nella storia umana, pertanto, spiegherebbe in parte la scarsa variabilità genetica nella nostra specie7. 7   Ambrose Stanley H., Late Pleistocene human population bottlenecks, volcanic winter, and differentiation of modern humans, in “Journal of Human Evolution”, 34 (6), 1998, pp. 623-651; Idem,Volcanic Winter, and Differentiation of Modern Humans, in “Bradshaw Foundation”, 2005.

La genetica moderna: Adamo ed Eva unici nostri progenitori

Uno studio pubblicato sulla rivista Genome Research nel febbraio del 2014 da un gruppo di genetisti dell’Università «La Sapienza» di Roma8 fornisce nuova luce sull’origine dell’uomo. Infatti, ricostruendo la storia dell’Homo Sapiens attraverso la distribuzione geografica del cromosoma maschile Y, i ricercatori da un lato individuano la culla dell’umanità nell’Africa centro-orientale, anziché nell’Africa orientale, e dall’altro sostengono che fino a circa 115.000 anni fa la nostra specie umana avrebbe avuto appena una decina di «padri fondatori» e che uno solo di essi avrebbe dato origine a tutte le linee di discendenza maschile che si trovano oggi fuori dall’Africa. Dai loro dati emerge anche che per l’Homo Sapiens la penisola arabica non sarebbe stata affatto un luogo di transizione, ma un’area in cui esso avrebbe sostato per 100.000 anni, anziché per 60.000 come si riteneva. Qui, pertanto, sarebbe avvenuto «l’evento che ha dato origine, in tempi successivi, a tutta la diversità genetica del cromosoma Y osservata oggi al di fuori del continente africano». 2.  Davvero Adamo nacque dalla polvere? La Genesi, come già si è visto, dice che «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Genesi, 2:7). L’uomo, quindi, compare nel grembo della natura, nella «materia che si fa pensante», è pienamente immerso nella natura circostante, ma ne è diverso: rappresenta, in breve, una novità assoluta che segna appunto, secondo l’evoluzionismo cattolico, il momento del salto ontologico. La parola ebraica adam, infatti, presenta la stessa radice della parola ebraica adamà, che significa «terra». Emmanuelle Marie così scrive: «Adamo, dunque, è il terrestre, della stessa natura della polvere d’argilla. Sua madre è la terra. È materia, molecole, come gli animali, con un cervello più sviluppato, capace di maggiore evoluzione» e divenne uomo quando ricevette un soffio di vita9. A tal proposito Rashi di Troyes (1040-1405), grande biblista medievale, spiega che nella Bibbia il verbo “plasmò” (wayyitsèr) è scritto con due «iod»10, perché ci sono due verbi “plasmare” con due significati differenti: 8   Scozzari R.-Massaia A.-Trombetta B. et alii, An unbiased resource of novel SNP markers provides a new chronology for the human Y chromosome and reveals a deep phylogenetic structure in Africa, in “Genome Research”, febbraio 2014. 9   Emmanuelle Marie (al secolo Odile Van Deth), Creati due volte. La creazione dell’uomo nel racconto biblico, in «OreUndici», novembre 2010. 10   Il termine «iod»,diventato poi nella lingua greca ijw'ta «iota», è un adattamento dell’ebraico «yod» ¯ e indica la decima lettera degli alfabeti sia fenicio che ebraico. In vari dizionari è esso traslitterato con «y» e, in pratica, corrisponde a una semiconsonante. Nell’alfabeto greco denominava la lettera minuscola della «iv».

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quello dell’uomo in questo mondo e quello dell’uomo nel mondo futuro, mentre per gli animali lo stesso verbo è scritto con un solo «iod». Dio soffia nelle narici dell’uomo il suo Spirito. Anche gli animali sono plasmati dal suolo (v. 19), anch’essi diventano esseri viventi, ma senza il soffio divino e, quindi, non partecipano alla vita di Dio. L’imposizione di nomi a tutto il bestiame dimostra la superiorità di Adamo, la sua partecipazione alla dominazione del Signore sul creato. L’essere umano è l’anello di trasmissione tra il creato e il Creatore11. La creazione dell’uomo con la terra è stata considerata una favola o una metafora, la quale immagina Dio come un vasaio che modella con l’argilla i suoi prodotti. I termini polvere, fango e argilla, tuttavia, possono assumere un significato allegorico o più estensivo per indicare le sostanze minerali di cui la materia, in particolare quella vegetale ed animale, è composta. Intese in questo modo, pertanto, le molecole di queste sostanze avrebbero ricevuto un misterioso comando e si sarebbero aggregate come i tasselli di un mosaico per formare organi e corpi secondo la forma ideale che Dio aveva immaginato per ogni singola creatura: cioè secondo la propria specie. Una conferma a questa interpretazione viene dal professore statunitense Slosson, analista chimico di chiara fama. Egli assicura che il versetto della Bibbia racchiude un significato scientifico molto profondo perché, analizzando la polvere della terra, si è scoperto che essa contiene esattamente 14 dei 92 elementi chimici conosciuti dalla scienza e che il corpo umano è composto precisamente dagli stessi 14 elementi, né uno in più né uno in meno. Gli esperti di lingua ebraica, inoltre, ci dicono che Adamo nella lingua originaria ha la stessa radice della parola «adamà» che significa terra. La nascita dell’uomo dalla polvere risponderebbe, insomma, alla teoria che concepisce l’evoluzione dei viventi come la continuazione canalizzata di quella del mondo fisico, assegnando alla materia la capacità di «autotrascendersi». È molto significativo, inoltre, che altri elementi del corpo umano siano riconosciuti nella Bibbia nelle loro fondamentali funzioni biologiche. Mosè, per esempio, dice che «la vita della carne è nel sangue» (Levitico 17:11). Certamente fin dalle origini l’uomo aveva riconosciuto a questo fluido vitale un intrigato legame che univa sia la sfera fisica che quella emozionale e tutti gli eventi che caratterizzavano il ciclo della vita dalla nascita alla morte, attribuendogli anche un significato religioso attraverso il sacrificio cruento delle vittime nelle cerimonie sacre, ma non aveva cognizione dell’effettivo valore della circolazione sanguigna. Fino ai primi secoli dopo Cristo, infatti, non se ne conosceva la funzione fisiologica e fu per primo il medico romano Galeno (129-216 d.C.) a studiarla. Galeno scoprì che le arterie contenevano sangue e non aria, come si credeva in precedenza, e ne ipotizzò le funzioni secondo una logica che è 11   Rashi Di Troyes, Commento alla Genesi, traduzione di L. Cattani, Milano, Mariette, 1999.

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Galeno, a sinistra, e Ippocrate, a destra, in un dipinto del XII secolo nella Cattedrale di Anagni.

stata accettata dalla medicina fino al XVI secolo12. Solo in tempi abbastanza moderni, quindi, si è compreso l’effettivo valore della circolazione sanguigna. A proposito di Adamo, inoltre, alcuni esegeti sostengono che il suo nome, derivante dalla radice fenicio-ebraica composta dalle lettere «Alef+Daled+Mem», non è un nome proprio e non indica la creazione di un unico uomo, ma esprime un significato molto più ampio: indica, cioè, la nascita 12   Galeno distingue la circolazione in venosa e arteriosa. Il sangue venoso ha funzione di nutrimento, mentre quello arterioso trasporta gli spiriti vitali. Galeno sostiene che il cibo entra nel corpo sotto forma di chilo e, per mezzo della vena-porta, giunge al fegato, dove è trasformato in sangue venoso e impregnato dello «spirito naturale». Poi lo spirito naturale è portato all’interno di tutto l’organismo per mezzo della circolazione venosa e attraverso la vena cava giunge alla parte destra del cuore, si riscalda e si assottiglia per poi seguire due diverse direzioni: una piccola porzione circola attraverso i polmoni, mentre la parte più consistente filtra nel ventricolo sinistro insinuandosi nei pori intraventricolari fino al cuore. Prima di giungere al cuore, però, il sangue venoso passa dai polmoni, dov’è purificato, e giunge alla parte destra del cuore, dove si riscalda e si assottiglia per poi seguire due diverse direzioni: una piccola parte circola attraverso i polmoni e la parte più consistente invece, attraverso fori invisibili, ritorna alla parte sinistra del cuore, dove incontra lo pneuma esterno e forma lo «spirito vitale». Lo spirito vitale è distribuito a tutto l’organismo mediante la circolazione arteriosa. Una parte del sangue uscito dal cuore sinistro giunge al cervello, dove subisce un ulteriore arricchimento grazie allo «spirito animale», cioè lo spirito più alto, che consente la realizzazione delle operazioni mentali indispensabili per la vita dell’individuo (Galeno, De natura hominis).

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del genere umano nella sua doppia componente di maschi e femmine. Ciò sarebbe anche adombrato dal fatto che dalla stessa radice del nome Adam in molte lingue moderne derivano le parole Don, cioè Signore, e Dama, ossia Signora, che è il femminile di Signore. 3.  Davvero Eva fu creata da una costola di Adamo? La Genesi, con stile icastico, così descrive la creazione di Eva dalla costola di Adamo: «Il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta» (Genesi, 2:21-22).

Anche in questo caso la parola «costola» è considerata dai biblisti esperti di lingua ebraica una traduzione riduttiva o errata. Essi, infatti, osservano che il termine originario «tzelà» raramente significa costola e più comunemente indica «fianco, fiancata, lato o metà». Dati i diversi significati di «tzelàh», sono state proposte varie traduzioni e interpretazioni. Gli studiosi che scartano l’ipotesi della costola, infatti, sostengono che Adamo ed Eva erano un unico corpo formato da due parti, una maschile e l’altra femminile, situate schiena contro schiena o poste una di lato all’altra13 e poi separate da Dio come si separa chirurgicamente una coppia di gemelli siamesi: ipotesi senz’altro singolare. Viene da domandarsi, infatti, come mai Dio, che aveva creato l’uomo dalla polvere, avesse bisogno di effettuare una operazione chirurgica per creare la donna e non avesse potuto creare anch’essa dalla polvere. Altri esegeti avanzano un’altra ipotesi basata sui versetti della Genesi che dicono: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò».

Per il fatto che l’uomo e la donna siano stati creati insieme a immagini di Dio, essi lasciano sottintendere che Dio sia un’entità maschile/femminile. Sostengono, cioè, che l’uomo primordiale avesse una natura bisessuale e che esso successivamente sarebbe stato diviso in due entità separate, una maschile e l’altra femminile. 13   Bacchiega M., La nascita di Eva, in «Abstracta. Il filo di Arianna», 1988, n. 26, pp. 1-25; Idem, Lineamenti di storia delle religioni, Foggia, Bastogi, 1999.

La genetica moderna: Adamo ed Eva unici nostri progenitori

Duomo di Orvieto: bassorilievo che rappresenta la creazione di Eva dalla costola di Adamo (opera di Lorenzo Maitani e bottega).

Danilo Valla, genetista e linguista, osserva che il termine ebraico «tzelàh», ricorrente molte volte nella Bibbia, è stato sempre tradotto come «metà» e solo nel caso della creazione come «costola». Egli ritiene che gli antichi traduttori in questo caso si siano discostati dal significato reale del termine perché sembrava impossibile tagliare a metà l’uomo per farne la donna. Il senso reale del termine, inteso come «metà», è invece stato chiarito dopo che (nel 1953) è stato scoperto il DNA presente in ogni cellula degli esseri viventi. Il DNA è formato da una coppia di 22 cromosomi più altre due cellule indicate con le lettere «XY», che però sono presenti solo nell’uomo, mentre la donna ha solo cellule «XX». In base a queste scoperte, lo studioso sostiene che Adamo, essendo maschio, avesse cromosomi «XY» e, quindi, possedesse anche una metà del cromosoma femminile. Perciò Dio, facendo cadere nel torpore Adamo, gli avrebbe estratto i cromosomi femminili, cioè la metà di tutte le cellule, e li avrebbe infusi nella donna, raddoppiandoli con un procedimento biologico normale, e poi avrebbe «richiuso la carne di Adamo al suo posto», ossia gli avrebbe restituito i cromosomi prelevati. In questo modo avrebbe creato la donna che, essendo dotata di cromosomi «XX», sarebbe stata tratta dall’uomo geneticamente «XY». Il risultato dell’operazione divina, secondo lo studioso, sarebbe stato poetizzato con la frase «carne della mia carne, ossa delle mie ossa». Uomo e donna, in breve, sarebbero stati fatti della stessa sostanza e materia e degli stessi elementi, differenziandosi secondo la legge della dualità e degli opposti che è strumentale all’UNO.

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La Chiesa cattolica, al di là delle considerazioni sopra esposte che potrebbero essere tutte opinabili, rileva che sotto il profilo etico-religioso il racconto biblico che fa derivare la donna dall’uomo contiene un grande insegnamento: Dio creò la donna separata e distinta dall’uomo, non plasmandola con la polvere della terra come aveva fatto con Adamo, ma estraendola dall’uomo per porla sullo stesso piano di dignità. Pasquale Stanzione, a tal proposito, così scrive: «Con un linguaggio poetico ma concettualmente chiaro, il Libro della Genesi introduce nella storia del pensiero culturale e religioso il delicato quanto complesso tema dell’identità dell’Uomo, rectius della creatura. Di una creatura, per l’esattezza, che ripete il sembiante del Creatore e ne attua il disegno. Di una creatura, ancora, la cui identità sessuale rinviene nella diversità il suo tratto essenziale e nella realizzazione della dimensione spirituale della vita la sua ragione prima. Il corpo, “la carne”, che nelle pagine del Vecchio e del Nuovo Testamento indicano la persona nella sua totalità, non sono, infatti, “per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo”, come scriverà

Padova: le nozze di Cana, opera di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni. Con il matrimonio maschio e femmina diventano una sola carne.

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Paolo nella lettera ai Corinzi (6,13). Ed è significativo che un medesimo verbo, il verbo “conoscere”, venga indistintamente impiegato per indicare sia la più alta espressione della comunione col Signore (1 Corinzi 2:11-13), sia il concretarsi del rapporto sessuale»14. Il catechismo della religione cattolica, inoltre, insegna che l’uomo e la donna sono fatti «l’uno per l’altro» non già perché Dio li ha creati «a metà» e «incompleti», ma perché formino una comunione di persone nella quale ognuno può essere «aiuto» per l’altro, perché sono ad un tempo uguali in quanto persone (osso dalle mie ossa) e complementari in quanto maschio e femmina. Nel matrimonio Dio li unisce in modo che, formando «una sola carne», possano trasmettere la vita umana: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra». Trasmettendo ai loro figli la vita umana, l’uomo e la donna, come sposi e genitori, cooperano in un modo unico all’opera del Creatore. 4.  Il giardino dell’Eden era nell’attuale «Mezzaluna Fertile»? Sappiamo che Dio, dopo aver creato Adamo, lo pose nel giardino dell’Eden o Paradiso terrestre, termini che significano rispettivamente «giardino in pianura» e «giardino delle delizie», perché vi cresceva spontaneamente ogni genere di piante. Così si legge nella Bibbia: «Il Signore Dio vi fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Genesi 2: 9-17).

È davvero esistito il giardino dell’Eden, cioè una regione in cui le caratteristiche naturali erano tali da assicurare la vita ai suoi abitanti senza fatica? Sull’argomento è stato scritto un gran numero di volumi, talvolta basati su idee fantasiose piuttosto che su ragionamenti logici, tanto che da 14   Stanzione P., Sesso e genere nell’identità della persona, in «Convegno nazionale di studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani su Identità sessuale e identità della persona, Palermo, 9-11 dicembre 2010».

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alcuni esso è stato situato anche al di fuori della sfera terrestre15. Qui saranno riportate in sintesi solo le tesi degli studiosi più recenti, basate su serie analisi storiche e linguistico-filologiche, su indagini geomorfologiche, su elementi derivanti da scavi archeologici, sulla raccolta e il confronto di carte antiche in cui compaiono i toponimi e gli idronimi menzionati nel testo biblico.

Adamo ed Eva, tentati dal serpente attorcigliato al tronco dell’albero della conoscenza, commettono il peccato originale e sono cacciati dal Paradiso Terrestre (Affresco di Michelangelo Buonarroti nella volta della Cappella Sistina a Roma). 15   Uno degli studiosi che nel passato si erano maggiormente occupati della questione, il vescovo di Avranches Pier Daniel Huet (1630-1721), così scriveva: «Niente può far vedere come la situazione del Paradiso terrestre è poco conosciuta come le diversità delle opinioni di quelli che l’hanno ricercata. Lo si è posto nel terzo cielo, nel quarto, nel cielo della Luna, nella Luna stessa, su una montagna vicina al cielo della Luna, nella media regione dell’aria, fuori dalla terra, sulla terra, sotto la terra, in un luogo nascosto e lontano dalla conoscenza dell’uomo. Lo si è messo sotto il Polo Artico, nella Tartarica, al posto che occupa attualmente il Mar Caspio. Altri l’hanno messo all’estremità del Mezzogiorno, nella Terra del Fuoco. Molti l’hanno posto a Levante, o sulle rive del Gange, o nell’Isola di Ceylon, facendo anche derivare il nome delle Indie dalla parola Eden, nome della Provincia dove il Paradiso era situato. Lo si è messo nella Cina, e anche oltre il Levante, in un luogo inabitato; altri nell’America, altri in Africa, sotto l’Equatore, altri nell’Oriente equinoziale, altri sulle montagne della Luna, da cui si è creduto che uscisse il Nilo; la maggior parte nell’Asia, gli uni nell’Armenia maggiore, gli altri nella Mesopotamia, o in Siria, o in Persia, o in Babilonia, o nell’Arabia, o nella Siria, o nella Palestina. Si è trovato anche chi ha voluto far onore alla nostra Europa, e qui si superano tutti i limiti dell’impertinenza, stabilendolo a Hédin, città di Artois, fondandosi sulla conformità di questo nome con quello di Eden. Io non dispero che qualche avventuriero, per avvicinarlo di più a noi, non pensi un giorno di situarlo a Houdan, piccolo comune della Francia centrale» (HUET P.D., De la situation du paradis terrestre, Parigi, Anisson, 1691, pp. 4-5).

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Secondo le indicazioni della Bibbia esso sarebbe stato collocato nella zona meridionale dell’attuale pianura mesopotamica, che è attraversata dal fiume Shatt al-Arab, e sarebbe rimasto sepolto sotto decine di metri di sedimenti che il fiume, con le sue disastrose e periodiche esondazioni, ha accumulato nel corso dei millenni. Nello Shatt al-‘Arab, infatti, oggi confluiscono due dei fiumi citati nella Genesi, il Tigri e l’Eufrate, mentre manca traccia degli altri due fiumi, Pison e Ghicon. Foto inviate dai satelliti Landsat, però, mostrano tracce di altri due fiumi scomparsi, che potrebbero essere quelli menzionati nella Bibbia. Storici, archeologi e glottologi sin dall’antichità ne hanno cercato l’identificazione con numerosi corsi d’acqua che sorgono nella regione, tenendo anche conto del fatto che con le numerose emigrazioni di popoli venuti dall’Asia orientale in Mesopotamia si sia potuta verificare una ridenominazione dei nuovi luoghi. Si tratta di un fenomeno tipico nella storia di molti popoli emigrati. Dal I sec. a.C. fino all’età rinascimentale gli uomini di cultura hanno ritenuto che il Pison corrispondesse all’Indo o al Gange e il Ghicon al Nilo. Studiosi moderni, invece, hanno identificato il Ghicon con il fiume Arasse, che scorre nell’Anatolia e che ancora nel secolo XIX i Persiani chiamavano con il doppio nome Jicon-Arasse, e il Pison con il fiume Uizhun, che sorge nella zona del vulcano estinto Kuh-i-Sahend, a sud di Tabriz, dove attorno alla città di Avìla esistevano ricche miniere d’oro, di onice e di un materiale resinoso profumato. Nella lingua originaria della Bibbia, in effetti, si dice che il Pison «scorre tutt’intorno al paese di Cus», regione che potrebbe corrispondere alla catena montuosa Kusheh Dag (= montagna di Kush) nell’attuale Azerbaigian o all’antico territorio dei Cassiti, popolo stanziato a oriente del Tigri che conobbe un periodo di grande splendore (tra 1.600 e 1.200 a.C.). Il Ghicon, in tal caso, sarebbe un affluente di destra del Tigri. La sua identificazione con il Nilo, in effetti, deriva da un errore di traduzione dovuto all’influenza dello storico romano Giuseppe Flavio (37-100 d.C.), il quale nella sua opera «Antichità Giudaiche» credette che il Cush della Genesi corrispondesse all’antico regno africano di Kush, di cui sin dal XX sec. a.C. si trovano tracce nell’Egitto meridionale. Se queste identificazioni sono esatte, quindi, la regione dell’Eden, dove sorgono i quattro fiumi biblici, corrisponderebbe ad una parte dell’antica Armenia16. Emilio Spedicato, invece, offre una localizzazione del tutto diversa fatta con una minuziosa analisi di tipo filologico e un accurato confronto di atlanti antichi. Egli identifica il Ghicon corrisponde con l’Amu Darya, 16   Durazzo P., Il paradiso terrestre nelle carte medievali, Mantova, Forni, 1980 (ristampa anastatica dell’edizione 1886); Rohl J., A Test of Time. The Bible from Myth to History, London, Century, 1995; Scafi A., Il paradiso in Terra. Mappe del giardino dell’Eden, Milano, Mondadori, 2007.

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il cui nome in molte mappe antiche compare come Gihon o con varianti simili a seconda delle regioni attraversate, il Tigri con il fiume Minteke-Yarkhand-Tarim, il Pison con il fiume Yarkun-Mastui-Konar-Kabul e l’Eufrate con il fiume Hunza. Questi quattro fiumi erano alimentati da un unico vasto ghiacciaio e «scendevano da una grande montagna che separa la valle di Hunza, in Pakistan, dalla valle di Wakhan, in Afghanistan. Quattro grandi fiumi, uno che finisce oltre 2.000 km ad est, nel deserto di Lop Nor, un altro che termina oltre 2.000 km ad ovest nel Mar d’Aral, due che fluiscono prevalentemente a sud, unendosi alla fine delle montagne e confluendo come Indo nell’Oceano Indiano oltre 2.000 km a sud. Tre di questi fiumi hanno le sorgenti a pochi km l’una dalle altre, quella del quarto un po’ più lontana; tutti e quattro i fiumi raccolgono l’acqua dalle nevi e dai ghiacci di uno stesso massiccio, la loro sorgente»17. Kamal Salibi, invece, osserva che nei primi cinque libri della Genesi (Pentateuco) vi sono circa 2.000 toponimi che si riferiscono in massima parte alla Palestina o a zone vicine. Essi, però, nella maggioranza dei casi non sono localizzabili nei luoghi menzionati dalla Bibbia e, anche quando sono individuabili, spesso non presentano le caratteristiche geografiche con cui sono descritti. Ciò ha indotto lo studioso a individuare l’Eden sull’altopiano dell’Asir, nell’Arabia sudoccidentale, dove compare la maggioranza di tali toponimi, presentando anche le connotazioni geografiche presenti nel testo biblico18. Sebbene tra loro discordanti, la maggioranza delle localizzazioni dell’Eden rientrano in quella grande area dell’Asia occidentale denominata «Mezzaluna Fertile». Con tal espressione si suole indicare una striscia di terra a forma arcuata che comprende da un lato la fascia costiera situata ai piedi della catena montuosa del Libano, dove i venti umidi provenienti dal Mediterraneo si sciolgono in piogge, e dall’altro lato la Mesopotamia, resa irrigua dalle acque del Tigri e dell’Eufrate. Essa è anche indicata come la culla della civiltà, data la straordinaria importanza che ha svolto nella storia umana sin dall’età della pietra (12.000-10.000 anni a.C.). 17   Spedicato E., L’Eden riscoperto: geografia e altre storie, in “Osservatorio Letterario Ferrara e L’Altrove”, anno XIII, nn. 67-68, 2009. L’autore chiude il suo saggio con una nota sul nome dell’Afghanistan, che egli considera porta d’ingresso dell’Eden, con queste frasi: «Afghanistan, terra degli Afgani certamente. Ma cosa significa Afgani? Riteniamo AF una variazione di AB, acqua, fiume, in persiano e sanscrito (A in sumerico). In ebraico gan appare con il significato di Giardino dell’Eden e parole di origine ebraica sono comuni nella lingua pashtun parlata dalla maggioranza della popolazione afgana. Pertanto Afghanistan appare con il significato di terra dei fiumi (dalle montagne) del Giardino dell’Eden, in perfetto accordo con la nostra identificazione del Ghicon con il Pandji, del Pison con il Yarkhun-Mastuj-Konar-Kabul, e di Kush e Avilah con la regione tra i due fiumi». 18   Salibi K., The Bible came from Arabia, London, Jonathan Cape,1985.

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L’area del Vicino Oriente denominata «Mezzaluna Fertile» dentro la quale, secondo gli studiosi, sarebbe da collocare il Paradiso Terrestre.

Antonio Saltini, storico dell’agricoltura, in proposito scrive che «la paleobotanica e l’archeologia hanno dimostrato che nessuno, tra i centri di origine della coltivazione disposti sui continenti, fosse dotato di una combinazione di specie vegetali e animali altrettanto favorevole all’economia umana della regione in cui la Scrittura colloca il Paradiso, la regione tra il Taunus, il Caucaso e gli Zagros solcata dal Tigri e dall’Eufrate che gli archeologi hanno denominato Mezzaluna Fertile. In quell’area si sviluppa, al termine dell’ultima glaciazione, una combinazione di specie vegetali e animali che offre alle popolazioni di raccoglitori del Mesolitico19 una sicurezza alimentare affatto particolare, che favorisce, in Età neolitica, la nascita di un contesto di coltivazione e allevamento di organicità ineguagliata sugli altri continenti. Nelle oasi mesopotamiche crescono naturalmente fichi, melograni, pistacchi, mandorli, viti e olivi, nella steppa circostante branchi di pecore, capre e bovini selvatici pascolano tra i cereali selvatici: sono condizioni che è verosimile abbiano assicurato alle genti primitive, dodici millenni prima 19   Il Mesolitico, termine che in greco letteralmente significa «età della pietra di mezzo», caratterizza la fase di cacciatori e raccoglitori (tra 15.000 e 10.000 anni a.C.), mentre il Neolitico, che significa «età della pietra recente» e segna il passaggio verso l’agricoltura e l’allevamento (tra 7.500 e 6.000 anni a.C.).

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Frammento di sigillo cilindrico che raffigura una scena di trebbiatura che risale a IV millennio avanti Cristo. Proviene dagli scavi di Arslantepe, località dell’Anatolia orientale situata a circa 15 chilometri dalla riva destra dell’Eufrate e a 6 chilometri dalla città moderna di Malatya.

dell’Era cristiana, una facilità di reperimento del cibo che l’uomo non avrebbe più conosciuto nel lungo cammino della storia, la condizione felice che il testo sacro attribuisce ai progenitori dopo la creazione. Vegetali e animali del contesto mesopotamico sono, peraltro, agevolmente assoggettabili alla signoria umana: è questa la premessa del prendere forma, nella Mezzaluna, di un’agricoltura evoluta in significativo anticipo su quella dell’Asia orientale e dell’America centromeridionale, quell’agricoltura che alimenta, già nel quarto millennio avanti Cristo, autentiche popolose società urbane»20. 5.  Una localizzazione più circoscritta: la valle del Giordano Contrariamente alle localizzazioni sopra indicate, vi sono studiosi che collocano l’Eden in Palestina e, precisamente, nell’antica valle del Giordano. Essi partono dalla considerazione che il Libro della Genesi possa essere stato scritto non da Mosè, cui è attribuito dalla tradizione, ma da un autore successivo vissuto quando il popolo ebreo si era già costituito in Regno e Gerusalemme era diventata la capitale spirituale dell’ebraismo. Premesso ciò, ne deducono che l’autore del testo biblico, allorché dice che l’Eden era ad oriente ma senza darne altra specificazione, implicitamente indicherebbe una località posta ad oriente di Gerusalemme. Questa località, pertanto, corrisponderebbe ad una grande vallata irrigua circondata dal deserto, secondo 20   Saltini A., Conoscenze agronomiche nei libri della Bibbia, in «Rivista Storia dell’Agricoltura», XXXIX, n. 1, 1999.

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quanto si evincerebbe dai versetti precedenti a quelli della descrizione del giardino: «Nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo» (Genesi, 2,5-6).

Il fiume che irrigava il giardino e, una volta uscitone, si divideva in quattro corsi sarebbe stato il Giordano, il quale scorre a circa 50 km da Gerusalemme. Due dei suoi quattro rami sarebbero il Tigri e l’Eufrate, che però nascono sull’altopiano anatolico e non passano per la Palestina. Perciò è stato ipotizzato che potrebbe trattarsi di due loro rami secondari del Tigri e dell’Eufrate, erroneamente indicati con le aste principali dei due corsi d’acqua, mentre per gli altri due fiumi è stata fornita un’interpretazione ancora più ardita. Infatti, tenuto conto che tutta l’area compresa tra l’Africa orientale e la zona siro-palestinese è stata interessata da grandi fratture della crosta terrestre e da sprofondamenti di intere valli (rift valley) in cui si è verificata l’ingressione marina, il Pison è stato identificato con il vecchio estuario del Giordano, ossia con il ramo del Mar Rosso a destra della penisola del Sinai, e il Ghicon con l’altro ramo del Mar Rosso che lambisce la terra d’Etiopia e si protende poi alla sinistra della stessa penisola del Sinai. L’ipotesi sarebbe suffragata da due versetti della Genesi. In uno (Genesi 15: 18) si legge che Dio, parlando ad Abramo, gli promise: «Alla

Una veduta dell’attuale valle del Giordano, che rispetto alle zone circostanti è molto fertile.

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tua discendenza io darò questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate». Nell’altro (Genesi 25:2) si dice che Ismaele, uno dei figli di Abramo, «abitò da Avila fino a Sur che è lungo il confine dell’Egitto in direzione di Assur» (Genesi 25:18). La terra di Avìla era, appunto, nella parte occidentale delle penisole dell’Arabia e del Sinai, le quali fronteggiano l’Egitto e confinano ad est con la terra di Assur, città situata sul Tigri. La terra dell’Eden, in sintesi, corrisponderebbe alla profonda vallata che ora è occupata dal Mar Morto, nel quale versa le sue acque il fiume Giordano. Osservando l’orografia, la geologia e l’idrografia della zona si può intuire, infatti, che un tempo il Giordano, prima che si formasse il Mar Morto per lo sprofondamento tettonico della valle, continuasse il suo percorso fino a sfociare nel Golfo di Aqaba. Lo storico Giuseppe Flavio nel I secolo a.C., d’altronde, scriveva che a sud del Mar Morto si osservavano ancora i resti delle cosiddette città della valle: Siddim, Sodoma, Gomorra, Adma, Zebin e Bela, praticamente inghiottite dallo sprofondamento. Le sue affermazioni

L’autunno: i grappoli della Terra Promessa in un dipinto di Nicolas Poussin custodito nel Museo del Louvre a Parigi. Interpretato in chiave cristiana, il grosso grappolo diventa il simbolo di Cristo appeso alla croce e l’uva, che sarà vino, quello del suo sangue, mentre i due alberi, uno spoglio e l’altro ricco, sono visti come immagini, rispettivamente, della sinagoga e della Chiesa: la donna sull’albero come la Chiesa che raccoglie i frutti dell’albero della vita e la donna col cesto come la sinagoga che cammina con un velo davanti agli occhi, per cui non può vedere né il percorso né l’albero della vita.

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sarebbero confermate da scavi piuttosto recenti che hanno portato alla luce alcuni ruderi di due delle predette città, la cui distruzione sarebbe avvenuta attorno al 2350 a.C., mentre analisi stratigrafiche di suoli appartenenti al III millennio a.C. hanno dimostrato che i terreni erano dotati di fertilità e l’acqua era quantitativamente e qualitativamente tale da potere dar vita all’agricoltura. Vi fruttificavano, tra le varie piante, la palma da datteri, l’ulivo, la vite, i cedri, i fichi, l’albicocco, il melograno, il noce, la tamerice, l’acacia, la quercia, l’alloro, il mandorlo e il cipresso. Rispetto ai territori limitrofi, dunque, la valle del Giordano era una vera e propria oasi verde, piena di acque e di delizie: un ambiente ideale per i popoli nomadi. Ciò sarebbe confermato dal racconto dei capi delle tribù israelite inviate da Mosè, come gli era stato detto da Dio, ad esplorare la terra promessa. Essi, al ritorno, riferirono: «Noi siamo arrivati nel paese dove tu ci avevi mandati ed è davvero un paese dove scorre latte e miele; ecco i suoi frutti» (Numeri 13:27).

Tra i frutti ci sono quelli descritti, sempre nel Libro dei Numeri, al versetto13,23: «Giunsero alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga e presero anche melagrane e fichi. Quel luogo fu chiamato valle di Escol a causa del grappolo d’uva che gli israeliti vi tagliarono».

La regione è ancora meglio descritta da quanto dice un versetto della Genesi a proposito della separazione delle tribù di Lot e di suo cugino Abramo: «Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte, prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra, come il giardino del Signore, come il paese d’Egitto, fino ai pressi di Zoar» (Genesi 13,10).

Zoar era una città situata nella pianura di Ghor all’estremità meridionale del Mar Morto e formava una pentapoli con le città di Sodoma, Gomorra, Zeboim e Adama21. Considerando le curve di livello relative alla valle del Giordano, in definitiva, il giardino dell’Eden poteva estendersi dal Mare di Galilea fino a valle del Mar Morto per circa 250 km di lunghezza e 60 km di larghezza. La sua lo21   Questo versetto confermerebbe che la valle del Giordano, prima della distruzione, aveva tutte le caratteristiche del giardino dell’Eden, che Lot certamente non poteva conoscere, non essendovi vissuto, ma che evidentemente riconosceva rispondenti alla descrizione tramandata dalla tradizione orale dei padri.

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calizzazione in quest’area della Palestina, anche se sembra azzardata, risponde comunque ad una finalità di tipo fideistico: cioè quella terra che aveva accolto il paradiso terrestre e dalla quale l’uomo era stato cacciato, dopo il suo peccato di superbia, avrebbe anche visto la nascita di Cristo riparatore e le acque del Giordano, che avevano irrigato le piante del giardino, attraverso il battesimo avrebbero irrigato con linfa vitale le anime di un’umanità nuova.

6.  Nella «Mezzaluna Fertile» nascono l’agricoltura e l’allevamento Nell’Eden l’uomo poteva condurre una vita di delizie cibandosi dei frutti degli alberi che gli erano stati messi a disposizione, esclusi i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male che si trovava al centro del giardino. Tuttavia, cedendo alla tentazione del serpente maligno, Adamo ed Eva mangiarono i frutti proibiti che, secondo quanto detto dal serpente, li avrebbe resi sapienti e immortali come Dio. Allora Dio disse: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre! Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto» (Genesi, 3: 22-23).

Cacciato dal Paradiso Terrestre, dove viveva senza sacrifici, l’uomo dovette procurarsi con il proprio lavoro i mezzi di sussistenza. Così, infatti, si legge: «Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Genesi 3: 18-19).

Questa circostanza biblica sembra confermata dalla storia, che ha individuato proprio nella «Mezzaluna Fertile» la nascita dell’agricoltura e la sedentarizzazione dell’uomo. L’agricoltura (dal latino ager = campo e cultura = coltivazione) consiste nel complesso di operazioni che trasformano l’ambiente naturale per renderlo quanto più possibilmente adatto alla crescita dei vegetali e all’allevamento degli animali da cui si ricavano prodotti indispensabili al soddisfacimento dei bisogni umani. La sua nascita, pertanto, ha segnato il passaggio dalla preistoria alla storia: cioè dal sistema di vita nomade dell’uomo primitivo, che si limitava a raccogliere i frutti spontanei della terra spostandosi continuamente da una regione all’altra, verso la produzione razionale dei mezzi di sussistenza e la vita sedentaria. Il passaggio dalla semplice economia di raccolta alla coltivazione

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della terra, secondo la maggioranza degli storici, è avvenuto tra 8.000 e 7.000 anni a.C. in un’ampia area del Vicino Oriente compresa tra il Danubio e l’Indo e tra l’Amudarja ed il Nilo, dove l’uomo incominciò a selezionare e piantare un certo numero di specie vegetali utili all’alimentazione: dapprima cereali e piante da tubero, poi alberi da frutta (fichi, ciliegi, palme da datteri, ulivi, viti ecc.). Successivamente, sempre nell’Asia occidentale, gli agricoltori scoprirono che alcuni animali (pecore, capre, buoi ecc.) potevano servire per aiutarli nella coltivazione dei campi o per il trasporto, contribuendo così ad alleviare il lavoro e ad accrescerne la produttività. Perciò iniziarono ad addomesticarli e ad allevarli22. Molte delle specie vegetali coltivate e delle tecniche agricole usate nel Vicino Oriente si diffusero poi gradualmente nelle altre parti del mondo allora conosciuto. Così, mentre prima l’uomo partecipava agli ecosistemi planetari come componente non determinante, dall’ora in poi cominciò a trasformare in maniera attiva il paesaggio vegetale sostituendo le complesse associazioni vegetali con poche piante coltivate, incrementando le piante più utili a scapito di quelle di scarso interesse economico, distruggendo le specie animali ritenute nocive a vantaggio di quelle addomesticabili come fornitori di cibo o come strumenti di lavoro23. L’introduzione di pratiche agricole fu consentita dalla ricchezza delle risorse ambientali presenti nel territorio: soprattutto delle valli fertili dei grandi fiumi della regione, Giordano, Tigri ed Eufrate che fornivano l’acqua per l’irrigazione. Lo sviluppo della tecnica irrigua, infatti, favorì la sedentarizzazione della popolazione agricolo-pastorale, che prima viveva in maniera nomade, e fece sviluppare le cosiddette civiltà potamiche (in greco potamós = fiume) e le prime grandi nazioni dell’antichità, le quali erano governate da potenti dinastie monarchiche. La necessità di realizzare complesse opere idrauliche per controllare e distribuire le acque, infatti, costringeva le popolazioni a lavorare sotto la guida unificatrice di abili sovrani. Ciò si verificò   Formica C., Geografia dell’agricoltura, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996.   Secondo alcuni storici, i focolai autonomi di scoperta o invenzione dell’agricoltura sarebbero stati molteplici. Gli studiosi Spencer e Thomas hanno individuato sei regioni di domesticazione principali (Asia del Sud-Est continentale superiore, Asia del Sud-Est insulare e Malaysia, India orientale e Birmania Occidentale, Asia Sudoccidentale dal Nordest dell’India al Caucaso, Altipiani dell’Etiopia e dell’Africa Orientale, Regione centroamericana) e cinque secondarie (parte superiore della Cina centrale, Bacino del mediterraneo e frangia classica del Vicino Oriente, territori collinari della fascia sudanese occidentale e loro margini, altipiani andini e loro margini, versante orientale dell’America meridionale, centrato soprattutto sul Brasile). Il Bairoch, invece, le raggruppa sotto quattro grandi aree, sviluppatesi in periodi diversi: Vicino Oriente (8.000-7.000 a.C.), Asia monsonica (5.000-4.000 a.C.), Europa e Mediterraneo occidentale (5.500-45.00 a.C.) e America (4.000-3.500 a.C.). Cfr. BAIROCH P., Agricoltura, in «Enciclopedia Einaudi», Torino, 1977; Spencer J.e.-Thomas W.L., Introducing Cultural Geography, New York, Wiley, 1978; Sauer C.O., Agricultural Origins and Dispersal, New York, American Geographical Society, 1952. 22 23

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Il grafico indica come l’origine dell’addomesticamento dei primi animali, utilizzati quali produttori di risorse alimentari e strumenti di lavoro, sia avvenuto nell’area della Mezzaluna Fertile. Studi recenti sulla genetica hanno dimostrato che gli aplogruppi abitanti in alcune regioni dell’Europa, cioè l’insieme di gruppi umani, vegetali ed animali derivanti dallo stesso tipo ancestrale (dal greco haploûs= unico o semplice) si originò nella Mezzaluna Fertile e soppiantò l’aplogruppo dei primi popoli di Cro-Magnon, i quali erano giunti in Europa circa 35.000 anni fa. Così, al termine dell’ultima grande glaciazione che ebbe inizio circa 12.000 anni fa, insieme con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento l’Europa conobbe anche una prima importantissima svolta culturale e sociale che originò i primi insediamenti organizzati. Nelle altre parti del mondo l’addomesticamento degli animali è avvenuto in periodi molto successivi.

in particolare, fin dal V millennio a.C., nella Mesopotamia, dove i Sumèri furono i primi rappresentanti della civiltà sedentaria della storia24. 7.  Cherubini e fiamme di spade folgoranti posti a guardia dell’albero della vita La Bibbia dice che Dio, dopo aver cacciato Adamo ed Eva dall’Eden, «pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita» (Genesi, 3:24). 24   Liverani M., Antico Oriente: storia, società, economia, Roma-Bari, Laterza, 2009; Idem, L’origine delle città - Le prime comunità urbane del Vicino Oriente, Roma, Editori Riuniti, 1986.

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Ferdinand Crombette, interpretando il testo ebraico attraverso la mediazione del copto, traduce il termine cherubini, nell’ebraico biblico Kerouobidj, come grandi uccelli predatori. Egli, tuttavia, avverte anche che si tratta di «una parola composta nella quale l’idea principale non è la designazione di un animale, ma la sua funzione, che è di essere il grande (O) guardiano (Ke) dell’entrata (Rô); il nome dell’animale è tutto intero nella radice «Bidj». Si tratterebbe di un animale complesso, in cui è stata vista la figura del leone, del toro e dell’aquila che, in quanto uccello da preda, in copto si può dire Bêdj o Bég. Proseguendo la sua analisi, Crombette mostra che la stessa radice può condurre al nome di questi tre potenti animali. Furono essi i terribili guardiani del Paradiso? In realtà animali giganti chiamati «titanothèri» o «bestie tuonanti», aventi corpo da leone, corna sulla testa e sul dorso prolungamenti ossei della spina dorsale, i quali dovevano essere l’armatura di una membrana a forma di ala, sono vissuti in Asia tra la fine dell’era terziaria e l’inizio di quella quaternaria. L’autore del testo biblico, quindi, avrà potuto attingere da antiche mitologie preistoriche l’immagine di queste strane sentinelle, come erano del resto le sfingi poste a guardia delle piramidi egiziane. Il loro nome di «bestie tuonanti», peraltro, richiama immagini balenanti di fuoco, cioè di fulmini, di cui i tuoni sono una conseguenza. Crombette, però, demistifica l’immagine di cherubini che roteavano attorno all’Eden con spade fiammeggianti e ne fornisce una spiegazione di natura fisica. Egli, infatti, sostiene che i cherubini con le loro spade folgoranti altro non fossero che una serie di vulcani formatisi ai lati della «Great Rift Valley» o «Grande Fossa Tettonica», cioè delle profonde valli che si esten-

Lo scheletro di un titanothèro, tipo di animale che visse nel periodo geologico dell’Eocene (tra 58 e 27 milioni di anni fa) nel Museo di Storia Naturale di Washington.

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dono per circa 6.000 km dalla Siria settentrionale all’Africa orientale fino al Mozambico e che si sono formate per lo sprofondamento di una lunga striscia della crosta terrestre compresa tra due spaccature parallele (faglie) per effetto dell’allontanamento della placca tettonica africana da quella araba. Si è creata, così, una serie di lunghe valli, larghe da 30 a 100 km e profonde anche più di mille metri, ai cui lati sono contemporaneamente nati numerosi vulcani. Le valli originatesi in questo modo nella Penisola Arabica sono quella del fiume Oronte e quella del fiume Giordano, la quale scorre verso sud attraverso il Lago Hula e il Mar di Galilea fino al Mar Morto, continuando poi ancora più a sud con il Golfo di Aqaba e con il Mar Rosso. Nell’Africa orientale, invece, sono quelle ora occupate dalla valle del Nilo e da molti laghi (Tanganica, Vittoria ecc.). Lo sprofondamento di questi enormi blocchi della crosta terrestre, come già si è detto, originò ai lati delle valli una serie di imponenti vulcani che sono tra le montagne più alte della Terra. La formazione della Great Rift Valley, in verità, è molto anteriore ai tempi cui si riferirebbe l’episodio della cacciata di Adamo e di Eva dall’Eden, ma è un processo che, sebbene lentamente, è stato costante attraverso i millenni e dura tuttora. Perciò anche l’attività eruttiva dei vulcani, pur alternando periodi di quiete più o meno prolungata con periodi di intensa attività, non è mai cessata. I sommovimenti tellurici che crearono la Great Rift Valley, inoltre, provocarono il collasso del Monte Ararat che sorge sul confine orientale della Turchia e che, essendo anch’esso di natura vulcanica, diede luogo a imponenti eruzioni.

Schema della Great Rift Valley che si estende per circa 6.000 km dalla Siria settentrionale all’Africa orientale. Ai suoi lati si ergono alte montagne vulcaniche, molte delle quali in Africa sono ancora attive.

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Un’imponente eruzione che fuoriesce da vulcani situati ai marigini di fosse tettoniche come quelle della Rift Valley che, secondo la ricostruzione di molti studiosi, circondavano l’area individuata come l’Eden. Erano forse queste incessanti emissioni che nella Bibbia sono descritte come spade fiammeggianti che, circondando la Valle del Giordano, sbarravno agli uomini la via del ritorno nell’Eden?

Secondo Ferdinand Crombette, pertanto, le spade fiammeggianti che sbarravano la via del ritorno nell’Eden erano rappresentate dalle fiammate di lava lanciate in aria dai vulcani che circondavano da ogni lato la valle del Giordano in un periodo di particolare intensità eruttiva. Tutte queste fratture, egli scrive, «offrono appunto la forma di una spada fiammeggiante, roteante, che emette fiamme, come dice la Bibbia, e questa spada va dalla “montagna caduta”, che è l’Ararat, fino “all’estremità dove è il mare”. Ecco la spada formidabile che Mosè ha nettamente percepito ed esattamente descritto nella sua visione, che gli esegeti cercano nell’aria, nella mano di un angelo, gli archeologi sui monumenti, e che i geografi e i geologi hanno seguito sul suolo senza neanche accorgersi che vi erano sopra…Si immagini il folle terrore di Adamo ed Eva, il cui habitat edenico e tranquillo era a circa 2.000 o 3.000 metri di altitudine, quando la terra si mise a tremare fin dalle fondamenta, a spaccarsi, a sputare lava e fiamme, a sollevarsi a 7.000 metri per poi ricadere a circa 1.000 o 2.000, in un fracasso spaventevole. Dio non ebbe a dir loro due volte di fuggire, tanto più che gli animali selvaggi, che fino ad allora avevano obbedito, anch’essi terrificati, erano divenuti furiosi e li inseguivano minacciosi»25.

  Crombette F., Saggio di geografia divina, Tomo III, op. cit. pp. 9-14.

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8.  Longevità dei patriarchi biblici e accorciamento della vita Una delle caratteristiche dei personaggi biblici è la loro longevità. Il libro della Genesi, parlando della discendenza di Adamo, dice che Adamo visse 930 anni, Set 912, Enos 905, Kenan 840, Malaleel 895. Iared 962, Enoc 365, Matusalemme 969, Lamec 777 e Noè 950, mentre i patriarchi successivi al diluvio universale ebbero una vita media molto più breve ma, comunque, ultracentenaria (Sem 600 anni, Arpacsad 438, Selach 433 ecc.). È difficile dire se questi dati biblici siano attendibili e dare una spiegazione di tale longevità. Alcuni ritengono che il tempo potesse essere stato contato in modo diverso durante la lunga storia dell’umanità: cioè, per esempio, che l’anno solare fosse molto più breve di quello attuale. Ciò sarebbe stato possibile soltanto se la Terra avesse avuto un movimento di rotazione attorno al Sole molto più rapido rispetto a quello d’oggi: cosa che non risulta. È possibile, però, che ai tempi dell’autore della Genesi il calendario fosse molto diverso da quelli ora in uso nella maggior parte del mondo. Alcuni, addirittura, hanno anche avanzato l’ipotesi che, prima del Diluvio, un anno corrispondesse a un mese. Induzioni indirette, però, fanno escludere tale possibilità. Infatti, se gli anni fossero stati effettivamente mesi di 30 giorni, Epos, che ebbe il figlio Kenai a 90 anni, sarebbe diventato padre a 9 anni e,

Abramo, che visse 175 anni, nell’atto di ripudiare Agar e Ismaele in un dipinto di Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino (Milano, Pinacoteca di Brera).

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come lui, anche altri patriarchi (Cenai, Maalalel, Iared ed Enoc ecc.) avrebbero generato figli prima di avere sei anni. La longevità di questi antichi patriarchi dai biblisti è messa in relazione con l’ambiente ideale che allora doveva regnare per la vita dell’uomo. Dopo la cacciata dall’Eden, quando l’uomo dovette procurarsi i mezzi di sussistenza con il proprio lavoro, e soprattutto dopo il diluvio universale, in seguito al quale le condizioni del clima sulla superficie terrestre peggiorarono notevolmente e probabilmente cominciarono a svilupparsi anche le malattie, le aspettative di vita divennero molto più brevi. Fatto sta che Dio, per le nefandezze e le malvagità che anche le generazioni del diluvio continuavano a commettere, decise di accorciarne la vita. Nella Genesi (6:3) così si legge: «Il mio spirito non contenderà per sempre con l’uomo, perché è carne; il suo tempo sarà di centoventi anni».

Pochi patriarchi ebrei delle generazioni successive al diluvio, infatti, superarono questo limite: Abramo visse 175 anni, Isacco 180, Giacobbe 147, Giuseppe 110, Mosè 120, Aronne 123 e Giosuè 110. Già allora, infatti, la vita media si era ridotta drasticamente fino a diventare più o meno simile a quella attuale, tanto che Mosè constatò: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione» (Salmi, 90:10).

Una rappresentazione dei raggi cosmici. Alcuni studiosi ritengono che, dopo il diluvio universale, essi raggiunsero in notevole quantità la Terra perché venne a mancare «la volta d’acqua» che in precedenza ne impediva il passaggio nella bassa atmosfera e attribuiscono alla loro dannosa influenza l’accorciamento della vita degli uomini postdiluviani rispetto a quelli antidiluviani.

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Alcuni studiosi hanno attribuito il peggioramento delle condizioni ambientali e l’accorciamento della vita all’effetto dei «raggi cosmici», consistenti in particelle emesse dalle stelle della nostra Galassia e dotate di un’energia milioni di volte più potente di quella prodotta dai più grandi acceleratori atomici. Essi, detti raggi primari, hanno una velocità vicina a quella della luce e, arrivando fino allo strato più alto dell’atmosfera terrestre, urtano con atomi dell’aria e generano una reazione a catena scomponendo gli atomi dell’aria e producendo una pioggia di particelle atomiche che continuano ad urtare contro altri atomi e particelle. In tal modo producono altri raggi, detti raggi secondari, che sono altrettanto potenti e che, per fortuna, solo in piccola quantità giungono sulla Terra perché vengono in massima parte assorbiti dagli strati inferiori dell’atmosfera. Quelli che giungono a terra, però, possono essere pericolosi perché danneggiano le cellule. I raggi cosmici, quindi, possono essere stati i responsabili del cambiamento delle condizioni ambientali e dell’accorciamento della vita dopo il diluvio universale? La Bibbia, quando parla della creazione, ci dice che sulla Terra c’era sospesa una volta acquea: «Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento» (Genesi 1:7). In altri passi, relativi al diluvio universale, ci dice anche: «Le cateratte del cielo si aprirono. Piovve sulla terra quaranta giorni e quaranta notti … le cateratte del cielo furono chiuse e cessò la pioggia dal cielo» (Genesi 7:11-12; 8:2).

Da ciò si evince che sarebbe stata appunto questa «volta d’acqua» a causare il diluvio e che quindi, essendosi dissolta nell’acqua diluviale, non avrebbe più costituito un efficace schermo contro il bombardamento dei raggi cosmici, la cui azione pertanto avrebbe causato il peggioramento delle condizioni ambientali e il drastico accorciamento della vita degli uomini postdiluviani rispetto a quelli antidiluviani. Ora, però, le aspettative di vita si vanno allungando e sono sempre più numerosi gli individui che superano la soglia dei 100 anni. Pier Giuseppe Pelicci, condirettore scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia, in seguito a ricerche effettuate in campo genetico e illustrate in occasione della conferenza mondiale «The future of Science» organizzata a Venezia dalla Fondazione Umberto Veronesi, ha affermato che, così come è scritto nel nostro DNA, siamo stati programmati per vivere fino a 120 anni. Il problema consiste ora nel trovare farmaci capaci di agire sui geni della longevità per ridurre le malattie legate all’invecchiamento, come quelle neurodegenerative e il cancro, in modo da arrivare in buona salute al traguardo dei 120 anni. La nostra carta d’identità genetica, secondo la scienza moderna, è uguale a quella che è stata scritta nei versetti della Genesi circa 3.500 anni fa: «Il mio spirito non contenderà per sempre con l’uomo, perché è carne; il suo tempo sarà di centoventi anni» (Genesi 6:3).

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Scavi di Göbekli Tepe, dove è stato rinvenuto il più antico esempio di tempio in pietra,la cui costruzione fu iniziata attorno al 9500 a.C. e richiese da tre a cinque secoli, interessando centinaia di uomini.

9.  Göbekli Tepe: il luogo dove si rifugiò l’uomo cacciato dall’Eden? Göbekli Tepe, il cui nome in turco significa «collina tondeggiante», è un sito archeologico situato nella parte più settentrionale della Mezzaluna Fertile: precisamente su una collina che fronteggia la piana dell’Eufrate nell’area compresa tra Palestina, Turchia sudorientale e Iraq. Scoperto nel 1963, è restato trascurato fino a quando, nel 1995, l’archeologo tedesco Klaus Schmidt non diede inizio agli scavi che finora hanno portato alla luce i resti di un vasto insediamento preistorico risalente a circa 12.000 anni fa. Esso costituisce un monumentale centro sacro la cui costruzione, secondo Schmidt, dovette impegnare schiere di uomini dotati di eccezionale forza fisica per un arco di tempo durato da tre a cinque secoli. Si tratta, quindi, della più antica testimonianza architettonica del mondo: più antiche di almeno 5.000 anni rispetto alle ziggurat babilonesi e di 7.000 anni rispetto alle piramidi egiziane26. Intorno all’8.000 a.C., però, il sito fu deliberatamente abbandonato e, per motivi ancora inspiegabili, seppellito con terra di riporto trasportata dall’uomo. Con il georadar sono state individuate 20 strutture circolari e ovali contenenti 200 pilastri a «T», che richiamano molto lo stile di Stonehenge. 26   Schimdt K., Costruirono i primi templi 7.000 anni prima delle piramidi, Sestri Levante (GE), Oltre Edizioni, 2011.

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Per il momento sono stati portati alla luce solo 4 dei 20 recinti circolari individuati e circa 50 dei 200 pilastri, sui quali sono state scolpite figure di animali in basso e altorilievo (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche ecc.). I pilastri che formano i cerchi sono enormi blocchi monolitici, pesanti anche 50 tonnellate, che simboleggiano assemblee di uomini e che pongono il problema di come possano essere stati trasportati e sistemati nella loro posizione: tanto più che non si conosceva ancora l’uso né delle bestie da soma, né degli utensili di metallo, né della ruota. In una placca trovata nel santuario sono scolpiti anche un albero e un serpente, chiaro richiamo al racconto biblico della tentazione di Adamo ed Eva. Sotto le immagini principali dei pilastri, inoltre, si trovano combi-

Scavi di Göbekli Tepe: poderose colonne monolitiche scolpite con figure di animali.

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nazioni di figure animali e simboli come la mezzaluna, il cerchio o una sorta di “h”, il cui aspetto richiamerebbe fortemente quello dei geroglifici egizi e lascerebbe intendere che si tratti di pittogrammi dai quali le persone del luogo potevano trarre informazioni. In tal caso l’origine della scrittura, attribuita alle civiltà mesopotamiche, risulterebbe anticipata di migliaia di anni. Altri elementi che fanno pensare all’Eden sono sia i numerosi corsi d’acqua presenti in questa località, dato che essa si trova tra i fiumi Tigri ed Eufrate menzionati nella Bibbia, sia le numerose tavolette d’argilla che, rinvenute in una località non lontana (Nevali Cori) e risalenti a 8.500 anni a.C., offrono significative analogie con il passo biblico che, a proposito della creazione, dice: «Dio modellò l’uomo con l’argilla e insufflò nelle sue narici il soffio vitale». Negli scavi, però, non è stata trovata alcuna traccia né di piante o di animali domestici né di abitazioni, mentre sono stati rinvenuti strumenti in pietra (raschiatoi e punte per frecce), ossi di animali selvatici (gazzelle e lepri), semi di piante selvatiche e di legno carbonizzato e utensili di ossidiana che, secondo i risultati delle analisi chimiche, provengono da tre zone vulcaniche molto lontane: alcune dalla Turchia centrale (Cappadocia) e dalla Turchia nordorientale, cioè da circa 500 km di distanza, ed altre da un’area vicina al Lago di Van, posta a 250 km dal sito. Tutto ciò ha indotto gli archeologi a ipotizzare che Göbekli Tepe sia una struttura monumentale antecedente allo sviluppo dell’agricoltura, quando l’uomo viveva ancora prevalentemente di caccia e raccolta, e che

Una carta geografica del XVIII secolo, giacente nella Bibliothèque Nationale de France, la quale colloca il Paradiso Terrestre in due diverse località della Mesopotamia: nell’alta Mesopotamia secondo alcuni studiosi, o nella bassa Mesopotama secondo altri.

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fosse un centro di pellegrinaggio per la popolazione di un largo raggio. Sulla base di quanto finora emerso dagli scavi e da altri rinvenimenti nel territorio circostante si evincerebbe che fu l’organizzazione sociale necessaria alla costruzione di questa struttura a favorire lo sfruttamento pianificato delle risorse alimentari, facendo così passare l’uomo dall’economia della caccia e della raccolta verso la pratica dell’agricoltura, attraverso la selezione delle piante e degli animali utili all’alimentazione, e verso l’insediamento sedentario. Per sostenere le migliaia di persone che costruivano il monumento, conclude Schimdt, a un certo punto la caccia non deve essere più bastata. A pochi chilometri da Göbekli Tepe, infatti, sulla montagna vulcanica di Karaca Dagˇ nel 2006 è stata rinvenuta una settantina di tipi contemporanei di cereali che crescono ancora come piante selvatiche. Le sue pendici, in particolare hanno fornito, circa 9.000 anni fa, il sito per la prima domesticazione del farro, che è un tipo particolare di grano. Da quei campi naturali di cereali gli uomini devono aver cominciato a raccogliere i semi, per avere un cibo abbondante e facile da conservare, passando poi dalla raccolta alla coltivazione. Göbekli Tepe, insomma, con la sua ricchezza di acque, pascoli, foreste e prede, potrebbe essere stato il paradiso dei cacciatori-raccoglitori e identificarsi con il luogo dove l’uomo, cacciato dall’Eden, avrebbe messo in pratica il comando di Dio che gli aveva imposto di coltivare «la terra con il sudore della fronte» e anche il luogo dove l’uomo, portando con sé memoria dei suoi rapporti con Dio, avrebbe sentito il bisogno di innalzargli quell’imponente complesso sacro per le riunioni cultuali. La scoperta di Göbekli Tepe, infine, sembra cambiare anche molte delle teorie riguardanti la storia dell’uomo. Mentre gli storici hanno sempre sostenuto che sarebbero nate prima le città e solo dopo i luoghi di culto, i risultati di quest’antichissimo sito, invece, inducono a pensare che la religione sia apparsa prima della vita organizzata in centri urbani e che, anzi, essa sia stata il motore primario per la creazione delle città; ma, secondo Schmidt, nel momento in cui fu inventata l’agricoltura, per quel paradiso arrivò la fine perché gli uomini, fino allora in equilibrio con l’ambiente, cominciarono ad addomesticare o sterminare gli animali che minacciavano i raccolti, a tagliare i boschi, a dissodare i terreni, a bruciare erbe selvatiche e a costruire villaggi vicino ai campi. La loro società, in precedenza egualitaria, si stratificò in contadini, guerrieri, capi e sacerdoti; comparvero conflitti per la terra, schiavitù, epidemie e così, a un certo punto, la nuova società agricola decise di cancellare l’antico santuario sotto metri di terra che l’hanno ricoperto fino a qualche decennio addietro.

v Il Diluvio Universale: ci fu davvero e quando avvenne?

1.  Il diluvio nella mitologia dei popoli antichi tra loro ignoti I miti, secondo gli studiosi di antropologia, offrono una sorta di modello standard per interpretare il mondo perché sono considerati come un’esaltazione della realtà. Essi, in sostanza, nascondono qualcosa di tangibile, di vero e di immanente: qualcosa, cioè, che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria storica e nell’immaginario collettivo di tutti i popoli del mondo. Uno dei miti più antichi e maggiormente presente tra tutti i popoli del passato, anche di terre nell’antichità sconosciute come l’America, l’Australia e l’Oceania, è quello di un diluvio universale che sarebbe stato mandato dalle divinità per distruggere e rigenerare l’umanità malvagia. I racconti del diluvio rilevati dagli studiosi sono più di 550 ed evocano l’evento con modalità notevolmente diverse da un popolo all’altro per quanto riguarda sia i protagonisti coinvolti nella vicenda, la sua durata e le sue conseguenze. Essi, tuttavia, contengono alcuni elementi comuni così sintetizzabili: l’avvertimento del cataclisma che si sarebbe verificato è stato dato con molto anticipo agli uomini destinati a salvarsi; i predestinati alla salvezza hanno costruito un’imbarcazione sulla quale hanno salvato se stessi e gli animali; dopo il diluvio sono stati mandati fuori dall’imbarcazione alcuni uccelli per scoprire se le acque si fossero ritirate; l’imbarcazione andata alla deriva si è fermata su un monte; i superstiti hanno offerto un sacrificio di ringraziamento alla (o alle) divinità, le quali hanno mostrato il loro apprezzamento. Gli studiosi ritengono che la presenza di simili racconti in culture molto distanti tra loro derivi, probabilmente, dal bisogno di ogni popolo di affermare la propria discendenza diretta dai primi abitanti della Terra, dimostrando in tal modo una sorta di eccellenza rispetto agli altri gruppi umani. Quasi tutti i racconti, infatti, lasciano trasparire un concetto basilare: il diluvio ha avuto una funzione punitiva verso uomini malvagi, dei quali solo un uomo e una donna, o pochi uomini benedetti da un dio o dagli dèi, sono riusciti a salvarsi grazie ad un’imbarcazione costruita seguendo le indicazioni divine. Il diluvio, insomma, avrebbe segnato la fine di un’era e ne avrebbe avviato una nuova. Poiché è da escludere un processo di plagio vicendevole, data la distanza allora invalicabile tra i singoli continenti, la somiglianza del racconto

114 Metafore geografiche nella Bibbia

mitico sembra avvalorare l’ipotesi di un’analoga o comune esperienza di vita. Dietro le narrazioni mitologiche, in altri termini, si nasconderebbe il ricordo di uno o di più eventi realmente accaduti. 2.  Il diluvio universale nella mitologia mesopotamica: il mito di Gilgamesh Il racconto più antico del diluvio e più simile a quello presente nella Bibbia è contenuto nell’Epopea di Gilgamesh che, databile al III millennio a.C., è considerato il primo poema epico della storia dell’umanità e ci è giunto in almeno cinque versioni differenti. Esso narra le vicende di un personaggio mitico della cultura mesopotamica, appunto Gilgamesh, il quale era re di Uruk e anche semidio. A un certo punto, rifiutando la morte come epilogo della vita, partì alla ricerca dell’immortalità, peregrinando per terre e per mari, incontrando esseri mostruosi e affrontando prove sovrumane. Tra le complesse e scabrose vicende di quest’epopea si narra che Gilgamesh nel regno dell’aldilà incontrò un suo antenato, Utnapishtim, il quale era stato reso immortale dagli dèi per aver superato la prova di un diluvio universale. Egli rivelò che gli dèi avevano deciso di annientare l’umanità perché erano disturbati dalla sua forte crescita. Tuttavia Ea, il più intelligente degli dèi, pensò che sarebbe stata una cosa stolta privarsi degli uomini, utili servitori, e avvertì Utnapishtim, ingiungendogli di costruire un battello in cui rifugiarsi insieme con la propria famiglia, con tutti i suoi artigiani, con coppie di tutti gli animali e con le sementi di tutte le piante, in modo da sfuggire alla catastrofe che si sarebbe abbattuta sulla Terra. Utnapishtim fece quanto ordinatogli. Dopo sette giorni di intense piogge e altri dodici giorni passati alla deriva sulle acque, l’imbarcazione si arenò sul monte Nisir1. Trascorsi altri sette giorni all’interno della navicella, durante i quali l’acqua si era ritirata tutt’intorno, Utnapishtim scese sulla terra e fece sacrifici agli dèi che, sentendo il profumo delle carni arrostite, vi affluirono in massa; ma il capo degli dèi, Ellil, s’infuriò perché un gruppo di uomini era sopravvissuto ed Ea, invece, lo rimproverò per la sua severità nei riguardi dell’umanità, dichiarando di essersi impegnato alla preservazione della vita. Alla fine le due divinità si accordarono su alcune misure per regolare la popolazione umana. Utnapishtim e sua moglie, così, ricevettero il dono dell’immortalità e andarono ad abitare in un’isola, una sorta di Eden, alla foce del Tigri e dell’Eufrate2. 1   Così si legge nel poema «Venne il tempo in cui i signori dell’oscurità fecero cadere una terribile pioggia. Tutti gli spiriti cattivi infuriarono, tutto il chiarore si tramutò in oscurità. Rumoreggiarono le acque, scorrendo, raggiunsero le montagne e caddero su tutte le genti. Sei giorni e sei notti scrosciò l’acqua dalla cui distesa emergeva solo il monte Nisir ove si incagliò la nave di Utnapishtim». 2   Cagni L., La religione della Mesopotamia, in «Storia delle religioni. Le religioni antiche», Roma-Bari, Laterza, 1997; Bottero J.-Kramer S.N., Uomini e dèi della Mesopota-

Il Diluvio Universale: ci fu davvero e quando avvenne? 115

Mito di Gilgamesh: Utnapishtim costruisce l’arca con le canne di cui era costituita la sua casa, dopo averla distrutta.

3.  Il «diluvio universale» nel racconto biblico Il racconto biblico del «diluvio universale» è uno dei casi tipici che gli studiosi considerano frutto di più racconti originariamente indipendenti tra loro. La narrazione che ne danno la versione jahvista e quella sacerdotale, infatti, in alcuni particolari risulta leggermente diversa, ma nella sostanza resta uguale. Entrambe le versioni mirano a dimostrare che la morte è conseguenza del peccato e che la malvagità degli uomini attira il «giudizio» di Dio, ma che Dio è nello stesso tempo così paziente e misericordioso da vedere sempre, anche nel male, qualcosa da salvare. La malvagità dell’uomo, insomma, non blocca il piano di salvezza di Dio, che anzi, tramite Mosè, stringe con gli uomini un’alleanza stretta simboleggiata dall’arcobaleno. La narrazione biblica della tradizione sacerdotale dice che Dio, addolorato perché la Terra era corrotta e piena di violenze, si rivolse a Noè, che invece era uomo giusto, e gli disse: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore. Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai mia: alle origini della mitologia, Torino, Einaudi, 1992; Sanders N.K. (a cura di), L’Epopea di Gilgamesh, Milano, Adelphi, 1994.

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Il Diluvio Universale di Michelangelo Buonarroti nella decorazione della volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma. In queste scene vi è rappresentata tutta l’umanità divisa in tre gruppi. In primo piano e sull’isolotto di destra vi sono le persone che cercano rifugio sulla terraferma, portando con loro i propri beni e cercando di salire sugli alberi per non essere sommerse dalle acque; sulla barchetta si trovano i reprobi,i quali litigano l’uno contro l’altro per non fare salire altri che vi cercano rifugio, in modo da scongiurare l’affondamento, mentre un altro gruppo assalta l’arca, dove si trovano i giusti, con una scala per farla a pezzi con un’accetta. L’arca, tuttavia, resta inespugnabile e da una finestra si affaccia Noè per scorgere il segno divino di un raggio di sole, al centro del cielo, come un disco dorato. L’arca, in sostanza, rappresenta la Chiesa. nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita. Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e raccoglilo presso di te: sarà di nutrimento per te e per loro». Noè eseguì tutto; come Dio gli aveva comandato, così egli fece (Genesi 6:13-19). «Dopo sette giorni… eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono… Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che si innalzò sulla terra. Le acque divennero poderose e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo. Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto. Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini…» (Genesi 7: 10-21). «Dio si ricordò di Noè, di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell’arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono. Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono chiuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo; le acque andarono via via ritirandosi dalla terra e calarono

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La costruzione dell’arca di Noè in una miniatura delle Croniche di Norimberga, opera di Hartmann Schedel scritta in latino e pubblicata nel 1493 con il nome di “Liber Chronicarum”. dopo centocinquanta giorni…Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti. Trascorsi quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca e fece uscire un corvo per vedere se le acque si fossero ritirate. Esso uscì andando e tornando finché si prosciugarono le acque sulla terra. Noè poi fece uscire una colomba, per vedere se le acque si fossero ritirate dal suolo; ma la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra. Egli stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé nell’arca. Attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello di ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra. Aspettò altri sette giorni, poi lasciò andare la colomba; essa non tornò più da lui. L’anno seicentouno della vita di Noè, il primo mese, il primo giorno del mese, le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca ed ecco la superficie del suolo era asciutta. Nel secondo mese, il ventisette del mese, tutta la terra fu asciutta…Noè uscì con i figli, la moglie e le mogli dei figli. Tutti i viventi e tutto il bestiame e tutti gli uccelli e tutti i rettili che strisciano sulla terra, secondo la loro specie, uscirono dall’arca. Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò: «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno» (Genesi 8:1-22).

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Il diluvio durò complessivamente un anno solare completo3: ebbe inizio nel seicentesimo anno della vita di Noè, il 17 del secondo mese (Genesi 7,11) e terminò il seicentunesimo anno della vita di Noè, il 27 del secondo mese (Genesi 8,14). Come osserva Luca Mazzinghi, nel racconto «emerge prima di tutto l’uso del 7, il numero che rinvia alla creazione del mondo (Genesi 1) e quindi al ritmo della storia; ma emerge anche il 40, che indica (come per i quarant’anni d’Israele nel deserto) un tempo di trasformazione e di attesa»2. Il racconto si conclude con Dio che, dopo aver benedetto Noè e i suoi figli assegnando loro il compito di ripopolare la Terra e di dominarla, assicura: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra… Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne. Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Genesi. 9: 9-13).

Il tema di fondo di questo passo è l’«alleanza», termine che ricorre più volte in poche righe a conferma della sua importanza. Qui l’alleanza di Dio con il creato è un impegno assolutamente unilaterale e gratuito, che Dio assume senza che all’umanità venga chiesto un segno di pentimento e che sancisce simbolicamente mediante un «arcobaleno che appare sulle nubi del cielo. È questo un segno per Dio, non tanto per l’uomo, quasi come se fosse soltanto Dio ad aver bisogno di ricordarsi degli impegni da lui stesso presi. Qual è il senso di questo segno? Si può pensare a un primo significato, molto ovvio e naturale: l’arcobaleno è ciò che appare nel cielo alla fine di una tempesta. In questo modo il racconto sacerdotale avrebbe visto nell’arcobaleno il segno tangibile della volontà divina di non distruggere mai più il mondo. È possibile, tuttavia, vedere nell’arcobaleno anche un segno da collocare su uno sfondo di carattere mitico; nel mondo antico, infatti, l’arcobaleno è talora concepito come una sorta di ponte tra il cielo e la terra, tra il mondo divino e quello degli uomini. È anche possibile vedere nell’arcobaleno il simbolo dell’arco della divinità: gli dèi della tempesta, quando sono adirati, mandano sulla terra fulmini e saette per punire gli uomini; cessata la tempesta essi depongono il loro arco rovesciandolo sugli estremi del cielo; questo è dunque l’arcobaleno, l’arco da guerra di Dio che viene deposto in segno di pace! Riprendendo queste immagini mitiche, anche il racconto genesiaco immagina Dio come un guerriero che finalmente depone il suo arco, fa cessare il diluvio e manifesta così la sua volontà di pace; l’arcobaleno

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  Mazzinghi L., Il diluvio universale, in “Parole di Vita”, 2007, n. 5, pp. 13-34.

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L’offerta di ringraziamento di Noè, che costruisce un altare al Signore dopo che, cessato il diluvio, è uscito dall’arca. Dio manda l’arcobaleno come segno del suo patto Dipinto di Joseph Anton Koch, realizzato nel 1803 e custodito nel Städelsches Kunstinstitut (Istituto d’Arte Städel e Galleria Cittadina) di Francoforte.

non è più allora un simbolo militare, ma si trasforma in segno della presenza pacifica di Dio nell’universo»4. 4.  Ipotesi su due diluvi regionali: Mesopotamia e Mar Nero Il racconto di un’immane diluvio, come già si è detto, accomuna molte culture tra gli antichi popoli di tutti i continenti. Esso, probabilmente, fa riferimento a un evento catastrofico realmente verificatosi e, magari, poi ingigantito attraverso la trasmissione orale di generazione in generazione. La domanda che ci si pone è se esso abbia interessato singole regioni della superficie terrestre, sia pure molto estese, oppure abbia coinvolto l’intero pianeta. Indizi scientifici che confermerebbero un grande diluvio, come quello presente nell’epopea di Gilgamesh e nella Bibbia, sono stati individuati dagli studiosi nella stratigrafia della Mesopotamia e nell’evoluzione limnologica5 del Mar Nero.   Baldacci M., Il diluvio, Milano, Mondadori, 1999, pp. 80-81.   La limnologia è la scienza che studia i laghi, gli organismi che li popolano e la struttura dei loro sedimenti. 4 5

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La Mesopotamia è una vasta pianura alluvionale dell’Asia occidentale compresa tra la Penisola Arabica e l’Altopiano Iranico ed è stata la culla di antiche civiltà come quelle dei Sumèri, degli Accàdi e dei Babilonesi, di cui praticamente sono eredi gli Ebrei. Nel passato essa è stata soggetta ad alluvioni catastrofiche provocate da due grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate, che l’attraversano interamente da nordovest a sudest. Questi due imponenti corsi d’acqua scendono dai monti della Turchia e, dopo lunghi tratti in cui scorrono paralleli, si uniscono formando un unico fiume, lungo circa 2.750 km, e versandosi nel Golfo Persico con un delta assai ampio e ramificato. Sull’altopiano anatolico essi scorrono in un letto molto incassato, mentre in gran parte della pianura mesopotamica presentano un corso pensile, cioè sopraelevato sulle campagne circostanti, per cui durante le piene irruenti spesso rompono gli argini inondando aree più o meno ampie. Questo fenomeno era più frequente e più imponente nel passato, mentre ora le loro acque sono state sbarrate e invasate in una serie di grandi laghi artificiali situati sull’alto bacino, così che in pianura giungono molto depauperate di materiale in sospensione che hanno già depositato nei bacini artificiali. Tra le più consistenti alluvioni preistoriche finora accertate ve ne sono almeno sette che hanno coinvolto gran parte della Mesopotamia, sommergendo sotto potenti strati di limo gloriose città (Ur, Shuruppak, Kish

Le rovine di Ur, antica capitale dei Sumeri in Mesopotamia, la quale fu sommersa dai sedimenti dovuti a quella che viene denominata «alluvione sumerica» e che ricoprì con uno spesso strato di fango un’estesa area della Bassa Mesopotamia.

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ecc.). Secondo gli scavi effettuati da Charles Leonard Woolley6, alcune di esse risalgono a oltre 10.000 anni a.C. ed altre al periodo biblico (tra 10.000 e 5.000 anni a.C.). Gli strati di sedimenti che hanno depositato in tali circostanze talvolta presentano uno spessore di 8 metri, a dimostrazione della loro imponenza e lunga durata. Queste inondazioni, per quanto estese e catastrofiche, hanno avuto quindi un carattere regionale; ma gli abitanti del luogo, abituati a considerare «mondo» solo il territorio posto intorno al loro villaggio, avranno potuto facilmente credere che tutta la terra fosse stata sommersa dalle acque, per cui un evento spazialmente ben localizzato nei loro racconti ha assunto le dimensioni di diluvio universale. Più eloquente sembra la nascita del Mar Nero. Secondo l’oceanografo Robert Ballard e i geofisici americani William Ryan e Walter Pitman, l’ampia zona attualmente occupata dal Mar Nero era una fertile pianura coltivata da popolazioni agricole provenienti dal Medio Oriente. Nella parte più depressa essa ospitava un piccolo lago situato al di sotto del livello del vicino Mar Mediterraneo, dal quale era separato mediante una sorta di grande diga naturale non molto elevata, costituita dall’Istmo del Bosforo, ma con il quale comunicava attraverso un emissario. La sua trasformazione in un vero e proprio mare sarebbe avvenuta circa 7.600 anni fa, cioè in seguito all’ultima glaciazione, quando per l’aumento della temperatura e il conseguente scioglimento dei ghiacciai il livello del mare salì e invase vaste aree costiere. Le acque del Mediterraneo, allora, cominciarono ad affluire verso il lago attraverso burroni e canaloni che, approfondendosi e allargandosi, divennero fiumi turbolenti, abbatterono la barriera rocciosa che isolava il lago dal Mediterraneo, crearono quella profonda “cicatrice” che è appunto lo stretto del Bosforo, si riversarono nel lago sotto forma di gigantesche cascate e invasero completamente l’intera vallata, trasformandola in un mare interno. In poco tempo, insomma, circa 150 km2 di terra furono sommersi e tutti i popoli rivieraschi furono spazzati via, mentre titaniche onde di marea si infrangevano sulle circostanti montagne del Caucaso allagando la Mesopotamia fino al Golfo Persico7. In seguito a ciò, probabilmente, si verificò anche un repentino mutamento delle condizioni atmosferiche per effetto sia di un aumento dell’evaporazione, data la maggiore massa d’acqua, e sia dell’intensa polverizzazione dell’acqua creata dalle cascate, con la conseguente formazione di piogge torrenziali. La situazione venutasi a creare, 6   Woolley Ch.L., Il mestiere dell’archeologo, Torino, Einaudi, 1960; Idem, Mesopotamia and the Middle East, London, 1961 7   La prova dell’innalzamento del Mar Nero e della sua grande espansione sembra essere fornita dal fatto che nel 2000 l’esploratore del Titanic, Robert Ballard, ha scoperto sul fondo del mare un edificio sommerso 7 mila anni fa e situato a 12 km dalla costa turca e a 90 m di profondità. Esso è costruito con un impasto di fango e canne che si sono conservate grazie al fatto che le acque profonde del Mar Nero sono prive di ossigeno, la cui mancanza ha permesso anche la conservazione di grosse tavole lavorate che probabilmente coprivano l’edificio.

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quindi, evoca quasi l’immagine del diluvio biblico dovuto alla contemporanea apertura delle cateratte celesti e degli abissi sotterranei, come è detto nella Bibbia: «eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono…». Per almeno 100 anni le acque del lago continuarono ad innalzarsi e ad espandersi, sommergendo per sempre i villaggi. Interi popoli dovettero così abbandonare i loro territori alla ricerca di nuove terre. Alcuni presero la via dell’Oriente, altri si diressero verso l’Europa, portando così l’agricoltura sempre più verso ovest. Fu una catastrofe che cambiò l’aspetto di gran parte del mondo allora conosciuto e sconvolse la vita di dei popoli che vi abitavano, i quali tramandarono per millenni il ricordo di questo formidabile evento naturale poi cristallizzatosi, con connotazioni religiose, nel racconto del diluvio universale8.

La figura rappresenta la rottura dell’istmo del Bosforo, attraverso la cui soglia le acque del Mediterraneo si riversano nel lago retrostante dando origine al Mar Nero. 8   Ryan W.Pitman W., Diluvio, Milano, Editrice Piemme, 1999; Morris H.M.Whit­comb J.C., The Genesis Flood: The Biblical Record and Its Scientific Implications. Phillipsburg, NJ: Presbyterian and Reformed Publishing Company, 1961; Saporetti C., Il diluvio, Palermo, Sellerio, 1982; Bonfiglio M., Sulle tracce del diluvio. Un’indagine sulle origini alla luce della Bibbia e della scienza, Milano, Piero Gribaudi Editore, 2004; Idem, La più grande catastrofe della Preistoria, Genova, Coedit, 2004.

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5.  Le ipotesi di un diluvio planetario La Terra, a causa di piccoli spostamenti che essa compie intorno al proprio asse e che nel corso dei millenni fanno cambiare la sua posizione rispetto al Sole, è stata caratterizzata da oscillazioni climatiche molto accentuate, alternando periodi molto freddi, detti periodi glaciali o glaciazioni, con altrettanti periodi caldi o caldissimi, detti periodi interglaciali. Ognuno di questi periodi glaciali e interglaciali ha avuto una durata variabile da 100.000 a 40.000 anni ed è stato accompagnato da regressioni e trasgressioni marine. Durante le glaciazioni, infatti, i ghiacciai avevano un enorme spessore e dai poli si espandevano su gran parte dei continenti, spingendosi fin verso i tropici, mentre le piogge erano assenti perché nell’atmosfera non c’era umidità a causa del freddo che impediva l’evaporazione delle acque marine. Durante i periodi interglaciali, invece, i ghiacciai si scioglievano e si verificavano piogge torrenziali e abbondantissime, poiché l’alta temperatura favoriva l’evaporazione delle acque marine e rendeva l’atmosfera satura di umidità. Per conseguenza, anche il livello del mare cambiava ciclicamente. Durante le glaciazioni, infatti, esso si abbassava per decine di metri, fino a oltre 150 metri, e lasciava emergere molti tratti di terraferma, mentre durante i periodi interglaciali subiva un analogo innalzamento e invadeva pianure e vallate, modificando notevolmente il profilo costiero dei continenti. I periodi interglaciali, quindi, sono stati contrassegnati da piogge così abbondanti e da trasgressioni marine così estese da coinvolgere l’intera superficie terrestre e da far pensare al diluvio universale. Non sono questi, però, gli eventi cui fanno riferimento la mitologia e la Bibbia, perché essi si sono verificati quando l’uomo era ancora assente sulle Terra. Tuttavia, poiché l’ultima era glaciale è terminata circa 12.000 anni fa, non è improbabile che l’inizio del successivo periodo interglaciale sia stato caratterizzato da piogge così torrenziali e da ingressioni marine così estese da restare impresse nella memoria dell’uomo primitivo e rifluire poi nelle varie leggende9. L’ipotesi è resa possibile anche dal fatto che, all’inter9   Ferdinand Crombette, osservando la distribuzione dei detriti morenici nell’emisfero settentrionale a partire da un punto situato al centro del circolo polare artico entro un raggio di 2.000 km, attraverso minuziosi calcoli ed estrapolazione di dati ha calcolato la velocità di espansione e di ritiro dei ghiacciai in un periodo medio di 222,22 anni e sostiene che prima del diluvio universale ci siano stati sette periodi glaciali e interglaciali anziché quattro, come invece ritiene la maggior parte degli scienziati naturalisti. Poi, alla fine della sua dimostrazione, conclude: «Non è senza ragione che noi abbiamo conservato i decimali nel numero periodico 222,22 trovato col calcolo per le glaciazioni, giacché questa cifra è il decuplo dell’onda doppia di 11,11 anni che è quella delle variazioni di attività delle macchie solari e marca non solo la periodicità delle grandi glaciazioni quaternarie, ma anche quella dei diluvi locali di cui la storia ha conservato il ricordo […] del diluvio di Osiris nel 2125,48, del diluvio di Ogygès-Okèanos nel 1903,26, del diluvio di Deucalione nel 1681,04, del diluvio di Dardanus nel 1458,82, di un diluvio che, secondo Plutarco (T. IV), si sarebbe prodotto circa 15 anni prima dell’affonda-

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no di questi lunghi periodi glaciali e interglaciali, possono essersi verificati anche repentini e disastrosi fenomeni meteorologici dovuti a cause naturali come le attività vulcaniche eccezionali, l’intensità delle macchie solari, le variazioni nella composizione dell’atmosfera attraverso i gas-serra, lo spostamento delle placche tettoniche con la variazione delle correnti oceaniche e la caduta di meteoriti. Un evento del genere sembra essersi effettivamente verificato verso la fine dell’ultima era glaciale, cioè in un arco di tempo compreso tra 13.000 e 10.000 anni fa, a causa della caduta sulla Terra di un asteroide e di numerosi meteoriti che scavarono crateri enormi10 in varie parti del continente americano (in America Centromeridionale, in Georgia, Virginia, Carolina e sul fondo dell’Oceano Atlantico al largo di Portorico) provocando uno spostamento dell’asse terrestre di circa 2.000 km e un mutamento climatico di portata planetaria, con lo scioglimento dei ghiacciai del Polo Sud e il dilagamento delle acque oceaniche sui continenti11. Allora si formarono le cascate del Niagara, s’innalzò la catena delle Ande e scomparve anche la coltre ghiacciata che copriva la Scandinavia, la Gran Bretagna, l’Irlanda e l’Europa Continentale. A quel periodo, in realtà, risale l’ultimo spostamento dei poli magnetici accertato dagli scienziati. Le conseguenze catastrofiche che ne seguirono forse riecheggiano in una leggenda cinese che dice: «La terra fu scossa dalle fondamenta. Il cielo si abbassò a Settentrione. Il sole, la luna e le stelle cambiarono i loro corsi. La terra si frantumò e le acque sgorgarono dal suo seno verso l’alto con violenza, inondandola. L’uomo si era ribellato a Dio e il sistema dell’Universo era sconvolto. I pianeti mutarono le loro orbite e la grande armonia dell’Universo e della natura fu turbata»12. E, d’altronde, mento di Atlantide, ossia verso il 1236,60…Noi ignoriamo dove ebbero luogo le inondazioni seguenti che dovevano normalmente presentarsi nel 1003,50 e nel 781,28; forse si produssero nelle Indie e in Persia dove si nota il diluvio persiano del Vendîdâd e il diluvio indù del Salapatha Brâhnan… Una tale regolarità dimostra che Dio fa tutto con numero, peso e misura, e rende quanto mai ammissibile la periodicità di 222,22 anni che noi abbiamo attribuito alle glaciazioni quaternarie. Da notare che ritroviamo in queste glaciazioni il numero sette, caro a Dio» (Crombette F., La Rivelazione della rivelazione, op. cit., pp. 32-33). 10   La loro ampiezza varia generalmente da 400 a 1500 metri, ma nello Yucatan ce n’è uno che misura 300 km. La caduta di queste meteoriti è attestata anche da un’alta concentrazione, in varie parti della superficie terrestre, dell’iridio: elemento chimico di colore bianco argenteo e così duro da essere ritenuto il metallo più resistente alla corrosione. La massiccia deposizione di iridio in alcuni strati geologici, inoltre, è ritenuta la causa dell’estinzione di un gran numero di grossi organismi viventi, tra cui i dinosauri. 11   Sitchin Z., L’altra Genesi, Milano, Piemme. 2008. 12   Sulla mitologia cinese relative al grande diluvio o a diluvi locali cfr. Lewis M.E., The Flood Myths of Early China, State University of New York Press, 2006; Fracasso R., Libro dei monti e dei mari (Shanhai jing): Cosmografia e mitologia nella Cina Antica. Venezia, Marsilio. 1996; Mathieu R., Etude sur la mythologie et l’ethnologie de la Chine Ancienne, Vol. I e II, Paris, College de France, Institut des Hautes Etudes Chinoises, 1983.

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Canada: una veduta del complesso delle cascate situate sul corso del fiume Niagara, il quale unisce il Lago Superiore con il Lago Erie e con il Lago Ontario. Insieme ai Grandi Laghi Americani, esse si sono formate alla fine dell’ultima grande glaciazione, circa 10.000 anni fa, in seguito a un supposto evento catastrofico che mutò profondamente il clima sulla Terra.

più o meno allo stesso periodo gli storici dell’antichità fanno risalire un altro mitico evento, molto catastrofico, che avrebbe sconvolto la Terra e provocato la scomparsa di due continenti in due aree opposte. Uno dei due continenti perduti sarebbe stato Atlantide, di cui parla per la prima volta Platone, che lo situa nell’Oceano Atlantico, oltre lo Stretto di Gibilterra allora noto con il nome di Colonne d’Ercole13; l’altro sarebbe stato Mu o l’Impero del Sole, 13   Platone nel dialogo intitolato Timeo (cap. III) scrive: «Innanzi a quella foce stretta che si chiama Colonne d’Ercole, c’era un’isola. E quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. […] In tempi posteriori […], essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte […] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l’isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve». Nel dialogo successivo che rimase incompiuto, Crizia, ne descrive in maniera più dettagliata la situazione geopolitica. Alcuni studiosi contemporanei hanno individuato tracce di questo ipotetico continente nelle vette di una gigantesca cordigliera sottomarina, la cosiddetta dorsale medio-atlantica, la quale parte dall’Islanda, passa per il Sudamerica, arriva fino al Sudafrica e affiora in superficie con le Isole Azzorre. Essa è caratterizzata da un’alta sismicità e attività vulcanica, tanto che i movimenti tellurici del fondo oceanico ancor oggi sono in grado di provocare l’apparire e lo scomparire di diversi isolotti. Tutto ciò, però, ora si può spiegare con la teoria della tettonica a zolle; ma, comunque, le esplorazioni sottomarine mostrano che tutti i letti dei fiumi con la foce nell’Atlantico proseguono nei fondali scavando veri canyon sottomarini fino alla profondità di un miglio e mezzo, indican-

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Particolare della «pietra degli astronomi» di Ica. Un astronomo osserva le stelle che cadono.

che invece avrebbe occupato una vasta regione dell’Oceano Pacifico e sarebbe stato la fonte di tutte le antiche civiltà del pianeta, poiché i suoi abitanti avrebbero raggiunto tutto il mondo fondando diverse colonie, tra le quali l’impero Mayax in America, l’impero Uighur nell’Asia centrale e nell’Europa orientale e il regno dei Naga nell’Asia meridionale, portandovi scienza, religione e commercio14. do che i loro corsi si sono formati quando quei fondali non erano sommersi. Evidentemente le terre emerse erano più vaste e esisteva una terra o un grande arcipelago in mezzo all’oceano. Altri studiosi, invece, suppongono che questo continente perduto possa essere identificato con l’Antartide, dato che ricerche accurate hanno dimostrato che esso tra l’XI e il X millennio a.C., cioè quando si sarebbero scatenati i cataclismi della fine dell’Era Glaciale, era totalmente libero dai ghiacci. Fatto strano è che, mentre l’Antartide è stato scoperto solo nel 1820, esso compare in alcune antiche carte nautiche, come quella di Piri Re’is del 1513 che lo raffigura anche libero dai ghiacci e lo rappresenta formato da due masse separate, fatto totalmente ignoto ai moderni fino al 1958. Probabilmente queste carte nautiche erano copie di carte molto più antiche, a loro volta copiate da versioni molto precedenti. Tra i numerosi scritti sull’argomento cfr.: sprague de camp L., Il mito di Atlantide e i continenti scomparsi, Roma, Fanucci Editore, 1980; Berlietz CH., Atlantide, l’ottavo continente, Roma, Edizioni Mediterranee, 1987; Moscati S., Civiltà scomparse, Roma, Newton Compton, 1988; Martinis B., Atlantide, Roma, Dedalo, 1989; Pinotti R., I continenti perduti, Milano, Mondadori, 1995. 14   Churchwald J., Mu: The Lost Continent, Sondra, CW Daniel Co Let, 1994. Secondo Churchward il continente, formato da un vasto territorio ondulato, a nord si estendeva fino alle Isole Hawaii e a sud fino alla latitudine dell’isola di Pasqua e delle Isole Figi, misurando 8.000 km da est ad ovest e 5.000 km da nord a sud. Il nome Mu deriverebbe dall’omonima lettera greca che sarebbe stata trovata incisa sulle pareti delle grotte di accesso al continente. Tracce di tale continente, secondo alcuni studiosi moderni, deriverebbero dalle analisi del campo gravitazionale terrestre, realizzate negli ultimi anni dal satellite spaziale GOCE, le quali dimostrano che nell’Oceano Indiano esistono aree in cui la crosta del fondale oceanico è molto più spessa del normale: circa 25-30 km di spessore rispetto ai normali 5-10 km. Essa, quindi, potrebbe essere ciò che resta di un’antica massa terrestre battezzata «Mauritia».

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Questo evento, secondo Robert Charroux, è anche adombrato nell’antica mitologia sudamericana dalle cosiddette «pietre di Ica» che, rinvenute nella città peruviana di Ica, lo scopritore fa risalire ad età preistoriche, mentre alcuni studiosi le ritengono opere di falsificatori confezionate in tempi recenti. Si tratta di rocce andesitiche sulle quali, mediante incisioni, sono rappresentate immagini di dinosauri e di tecnologie avanzate. In una di esse, denominata la «pietra degli astronomi», compaiono due personaggi che con un telescopio osservano un oggetto volante salire verso il cielo, mentre tre comete cadono verso terra; alcune stelle che emanano un’insolita luce e un’immensa nuvola striata simboleggiante la pioggia; la coda di una grossa cometa; i continenti che appaiono semisommersi dall’acqua; una stella che precipita su un continente o sopra una grandissima isola; in primo piano, infine, un’imbarcazione con tre personaggi a bordo15. Un altro indizio molto interessante del diluvio universale è contenuto, inoltre, nella lingua cinese, in cui, come si sa, la scrittura consiste in ideogrammi, cioè in figure e non in lettere. In essa, infatti, la parola diluvio è espressa da alcuni ideogrammi che comprendono una barca e otto persone: cioè quanti erano Noè e i suoi famigliari a bordo dell’arca! 6.  E, allora, a quale evento si riferiscono i racconti del diluvio universale? Cataclismi naturali simili a quello narrato dalla Bibbia e da altre mitologie, come si è detto, sono realmente avvenuti più volte nella storia della Terra, coinvolgendo l’intero pianeta o sue singole parti. I più estesi si sono verificati quando l’uomo non era ancora presente e sono stati ricostruiti in tempi recenti dagli studiosi in termini cronologici molto elastici, per cui non è impossibile ritrovarne traccia nelle leggende e nel racconto biblico. Anche nello stesso racconto biblico, peraltro, i razionalisti e gli scettici tra gli elementi di difficile credibilità indicano soprattutto due aspetti: da un lato l’altezza e la durata delle acque piovane, d’entità tale da ricoprire l’intera superficie terrestre insieme con le montagne più elevate, dall’altro la costruzione e le dimensioni di un’arca capace di accogliere, oltre a Noè e alla sua famiglia, una coppia di tutte le specie animali viventi e le provviste necessarie per un intero anno. Riguardo alla prima questione, appare effettivamente difficile immaginare che un evento meteorologico, sia pure eccezionalmente intenso e prolungato per qualche mese o per un intero anno, abbia potuto sommergere l’intero globo terrestre fino alla cima delle alte montagne, come quella del 15   Charroux R., Civiltà perdute e misteriose. I misteri del cielo, Roma, Edizioni Mediterranee, 1982; Petratu C.-Roidinger B., Le pietre di Ica, Roma, Edizioni Mediterranee,1996.

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Monte Ararat dove si sarebbe fermata l’arca di Noè, tenendole sott’acqua per 150 giorni. È vero che le montagne sono elementi della crosta terrestre che nel corso dei millenni si sono fortemente evoluti e continuano ad evolversi lentamente, in quanto quelle di più antica formazione si abbassano per effetto dell’erosione e quelle giovani, nate dalla collisione di due zolle crostali, s’innalzano sotto la spinta delle pressioni cui sono sottoposte. È, però, anche vero che si tratta di movimenti piuttosto lenti ed è poco probabile che la morfologia complessiva della crosta terrestre all’epoca presunta del diluvio universale, ossia tra 12.000 e 10.000 anni addietro, fosse molto diversa da quella attuale, cioè mediamente molto più bassa di quella attuale. Una loro modificazione più o meno improvvisa può verificarsi solo nel caso delle montagne vulcaniche, le quali possono crescere notevolmente dopo ogni eruzione o possono collassare, riducendosi d’altezza, dopo esplosioni particolarmente violente. Si dovrebbe ipotizzare, quindi, che l’Ararat, montagna d’origine vulcanica nata dallo scontro tra la placca asiatica e quella africana, al tempo del diluvio fosse molto più basso e che in seguito abbia avuto periodi di attività vulcanica così intensa da raggiungere l’attuale quota di 5.137 m. Le sue ultime eruzioni, in effetti, risalgono alla metà del secolo XIX (1840). Il geologo Guy Berthault ritiene che tracce visibili del diluvio universale siano visibili nella stratigrafia delle rocce sedimentarie. Egli ha dimostrato, anche con esperimenti di laboratorio, che su tutta la superficie terrestre e a varie altitudini esistono strati di terreni sedimentari che, sulla base dei fossili contenuti, si sarebbero formati in breve tempo circa 10.000 anni fa. Inoltre, in merito al problema che una pioggia intensa e prolungata per 40 giorni abbia potuto sommergere interamente i monti, egli trova una spiegazione nella differenza di velocità che esiste tra la caduta e lo scorrimento dell’acqua: cosa che si può osservare durante i forti temporali, quando in pochi minuti la pioggia può ricoprire il suolo di parecchi centimetri. Ciò avviene perché, quando raggiunge il suolo, a causa del cambiamento di direzione l’acqua piovana scorre con velocità minore di quella con cui cade. Durante i temporali, infatti, cade in modo verticale e ha una velocità uniformemente accelerata; ma, quando arriva sulle montagne, oltre ad essere frenata dal terreno, rallenta perché scorre in maniera obliqua, seguendo la pendenza. In base a tale principio fisico, secondo Berthault, l’enorme massa d’acqua caduta con continuità e con violenza durante il diluvio universale, rallentando la sua corsa, avrebbe potuto accumularsi in maniera tale da raggiungere la stessa altezza delle montagne. È un’ipotesi, ovviamente, molto azzardata e difficilmente dimostrabile. E, d’altra parte, c’è da domandarsi: Dove è andata a finire l’acqua del diluvio? Una risposta può essere data dalla legge dell’isostasia, secondo la quale la crosta terrestre cerca un continuo equilibrio abbassandosi là dove è sottoposta ad un eccessivo peso ed innalzandosi, invece, là dove è alleggerita da un peso sovrastante o circostante. Le montagne, per esempio, si innalza-

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no quando i ghiacciai si sciolgono e, per contrappeso, le aree situate alla loro base si abbassano. La parte interna della Scandinavia, per esempio, dal Medioevo ad oggi si è sollevata di oltre 100 m per lo scioglimento dei ghiacciai. Perciò è probabile che l’acqua accumulatasi nelle valli, con la sua enorme pressione, abbia creato degli sprofondamenti accrescendo i dislivelli fra i monti e le valli presenti a quel tempo. Si è calcolato, infatti, che una vallata profonda 1.000 m, rispetto alla cima dei monti, se viene sommersa dall’acqua subisce una pressione di 1.000 tonnellate per m2 e di 100.000 tonnellate per ogni 10 m2, per cui è sottoposta a forti movimenti di subsidenza: cioè di sprofondamento più o meno rapido. Anche le fosse marine, quindi, probabilmente si saranno approfondite per accogliere l’enorme massa d’acqua caduta dal cielo. Ciò sembra anche adombrato dal Salmo 104 (5-6 e 8) che dice: «Egli ha fondato la terra sui suoi luoghi stabiliti… La copristi con acque dell’abisso proprio come con una veste. Le acque stavano sopra i medesimi monti. I monti ascendevano, le pianure delle valli scendevano al luogo che hai fondato per loro».

I biblisti, ad ogni modo, osservano che il racconto del diluvio universale, al di là dei particolari riguardanti le sue modalità di svolgimento e i probabili riscontri scientifici, hanno una finalità prettamente dottrinale: tracciare la storia dell’alleanza di Dio con gli uomini. In entrambe le tradizioni, jahvista e sacerdotale, il diluvio è infatti imputato alla malvagità dell’uomo, che «aveva pervertito la sua condotta sulla terra», e in entrambe emerge la necessità di rassicurare l’umanità che non vi sarà più il ritorno al caos primordiale e all’esperienza dolorosa del diluvio. In questa luce, in breve, va interpretata la promessa che Dio fa a Noè sia nella versione jahvista, dove Egli assicura che il regolare ritmo della vita (giorno/notte, estate/inverno, seme/ messe) fissato fin dalla creazione del mondo non sarà mai più interrotto, sia nella versione sacerdotale, dove la valenza della promessa è più profonda in quanto assume i toni di una vera e propria alleanza stipulata da Dio con il creato. 7.  Reperti paleontologici confermerebbero una catastrofe planetaria In tempi recenti gli studiosi di paleontologia hanno rinvenuto nelle regioni ghiacciate dell’Antartide alcuni fossili di vegetali che vivono solo in zone con clima mite e che risalirebbero a un periodo in cui una causa esterna, sopraggiunta all’improvviso, avrebbe determinato un cambiamento climatico radicale, ghiacciando tutta la regione in brevissimo tempo. Analoghi reperti di fossili animali che vivevano in zone temperate sono stati trovati nella regione polare, dove sono venuti alla luce esemplari di mammut per-

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fettamente congelati e con il cibo nello stomaco, come se la loro fine fosse sopraggiunta in maniera improvvisa e per un brusco raffreddamento delle calotte polari. Nelle zanne e nelle ossa di mammut, inoltre, sono state trovate piccole schegge di provenienza spaziale, composte prevalentemente di ferro e nichel, attribuibili a una pioggia di meteoriti che si suppone essersi abbattuta sui territori di Russia e Alaska circa 12.900 anni fa e che, oltre alla loro deflagrazione distruttiva pari alla potenza di migliaia di bombe atomiche, con la polvere sollevata in cielo avrebbe causato anche una fase glaciale durata circa 1.300 anni. Siamo, quindi, verso la fine del periodo geologico detto Pleistocene: periodo in cui, secondo gli studiosi, è appunto avvenuta l’estinzione dei mammut. Se le condizioni di clima nelle zone polari erano abbastanza miti, ossia più o meno analoghe a quelle delle medie e basse latitudini, ciò derivava certamente da una posizione dell’asse terrestre perpendicolare al piano dell’eclittica solare. Le varie parti della Terra, quindi, avevano un periodo di illuminazione diurna sempre uguale e ricevevano una quantità di calore solare più o meno analoga a qualsiasi latitudine. L’immediato passaggio di un clima temperato a un clima glaciale, dunque, sarebbe avvenuto per effet-

Ricostruzione di mammut, animali di grossa taglia che vivevano in Siberia nel Pleistocene, periodo durato da 2,58 milioni di anni fa fino a 11.700 anni fa. Essi si estinsero appunto verso la fine del Pleistocene (Museo di Victoria nella Columbia Britannica negli Stati Uniti).

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to di un brusco spostamento dell’asse terrestre attribuibile all’impatto delle meteoriti. Lo spostamento dell’asse terrestre, che allora avrebbe assunto l’inclinazione attuale di oltre 23 gradi rispetto al piano dell’eclittica solare, avrebbe causato anche un leggero rallentamento nella velocità di rotazione terrestre, portando l’anno da 360 a 365 giorni. Ne sarebbe una dimostrazione il fatto che gli astronomi delle antiche civiltà sviluppatesi nell’America centrale, nell’Egitto e nella Mesopotamia, probabilmente sulla base di consuetudini ereditate da civiltà precedenti, calcolavano la durata del loro anno in 360 giorni. A questa catastrofe globale risalirebbero anche le enormi quantità di animali che, travolti da piogge torrenziali e immani piene, furono trasportati a distanza, ammassati nelle gole delle valli o nei fondivalle e sommersi da una coltre di fango, trasformandosi così in giacimenti di minerali fosfatici. 8.  Struttura e dimensioni dell’arca erano adeguate al compito preposto? Come si è visto all’inizio del capitolo, Dio ordinò a Mosè di costruire un’arca delle seguenti dimensioni: 300 cubiti di lunghezza, 50 cubiti di larghezza e 30 cubiti d’altezza. Gli studiosi si sono domandati se un’imbarcazione del genere fosse in grado di ospitare una coppia di ogni specie animale e di garantire la vita a tutti i suoi passeggeri per tutto il periodo relativo al diluvio e ai 150 giorni che intercorsero tra la fine del diluvio e lo sbarco dell’equipaggio in terraferma. Essi, pertanto, hanno cercato di ricostruire la forma e le dimensioni in base alle unità di misura attuali. Il cubito era l’unità di misura più comune dell’antichità e corrispondeva, idealmente, alla lunghezza dell’avambraccio compresa tra il gomito e la punta del dito medio. Esso variava leggermente da un Paese all’altro; ma, in linea di massima, equivaleva a circa 50 cm. Pertanto, in base alle misure dettate da Dio, l’imbarcazione doveva avere una forma piatta e rettangolare avente circa 150 m di lunghezza, 25 m di larghezza e 15 m d’altezza. Un’imbarcazione di tali dimensioni, per quel tempo, era enorme: solo dopo il 1884 ne è stata costruita una maggiore. Essa, inoltre, era esattamente lunga sei volte rispetto alla larghezza e, sotto il profilo ingegneristico, presentava un rapporto lunghezza-larghezza così perfetto da essere usato ancora oggi dai moderni costruttori navali, perché è quello che assicura maggiore stabilità. Il professore statunitense di ingegneria idraulica Henry Morris, infatti, così ha scritto: «In termini di forze idrodinamiche l’arca doveva essere davvero molto stabile. Infatti, l’equilibrio tra forza di galleggiamento, la forza di gravità e la forza delle onde era tale che, se inclinata a un’angolazione qualsiasi tra zero e novanta gradi, l’arca si sarebbe raddrizzata da sola. Era praticamente impossibile che si capovolgesse». Simulazioni effettuate in un laboratorio di idraulica dell’Università di San Diego in California, inoltre,

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hanno dimostrato che l’arca avrebbe potuto resistere, senza capovolgersi, ad onde alte fino a 600 m. Onde di tale dimensione non esistono neppure negli oceani sconvolti da tempeste eccezionali o, perlomeno, non si sono verificate in tempi storici. Le più alte di cui si ha notizia, infatti, arrivano a 25-30 m. Alcuni studiosi sottolineano anche il fatto che un’imbarcazione dal fondo piatto, destinata solo a galleggiare e non a navigare com’era appunto l’arca biblica, alla stabilità associava anche una capacità di carico almeno di un terzo superiore a quella di un vascello avente la stessa lunghezza, ma i fianchi inclinati. Essa, insomma, avrebbe avuto dimensioni paragonabili a quelle di una nave moderna avente una stazza di oltre 20.000 tonnellate e una capacità di carico pari a quella di 10 treni con 52 vagoni, per cui sarebbe stata in grado di accogliere ampiamente una coppia di animali per ciascuna specie. È stato supposto, infatti, che allora, poiché il clima era piuttosto uniforme su tutta la superficie terrestre, le specie animali d’origine terrestre, esclusi quindi quelli marini che non avevano bisogno di entrare nell’arca per salvarsi, ammontassero a circa 35.000 e, assumendo che la dimensione media degli animali fosse quella di una pecora, è stato calcolato che essi sa-

L’imbarco degli animali nell’arca di Noè in un dipinto del pittore statunitense Edward Hicks (1780-1849).Gli animali si recano spontaneamente, senza alcuna guida, verso la navicella.

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rebbero potuti entrare comodamente in tre soli treni. A tali conclusioni, tuttavia, è stata opposta questa obiezione: in qual modo gli otto uomini presenti sull’arca avrebbero potuto provvedere ai bisogni (acqua, aria fresca, igiene ecc.) degli animali per un intero anno? È una domanda che si era posta già sant’Agostino, chiedendosi che cosa avessero mangiato i tanti animali presenti nell’arca. Egli risolveva il problema immaginando che Dio avesse operato qualche prodigio o che gli animali carnivori si fossero nutriti di vegetali16. Alcuni studiosi, inoltre, rilevano che, come si è innanzi detto, la capacità di carico dell’arca era sfruttata solo per il 40% della sua stazza, per cui c’era molto spazio per le scorte; altri aggiungono che quasi tutti gli animali hanno la capacità di ridurre le loro funzioni vitali e che, presumibilmente, le abbiano intensificate in quella circostanza; altri, infine, suppongono che, per far diminuire le loro necessità alimentari, Dio li abbia messi in stato di letargo, come avviene per molte specie durante l’inverno. Un’altra importante domanda riguarda il modo in cui Noè abbia potuto radunare dalle varie parti della superficie terrestre e introdurre nell’arca una coppia di tutte le specie animali. Qualcuno ha trovato la soluzione nel fatto che gli animali selvaggi sono guidati da un’intelligenza invisibile, come succede nelle migrazioni stagionali o quando vanno alla ricerca di cibo. In questo caso, quindi, essi avrebbero risposto a un istinto venuto da Dio, al quale non fu difficile dirigerne verso l’arca una coppia per specie. 9.  Alla ricerca dell’arca di Noè: testimonianze e tentativi falliti La ricerca dei resti materiali dell’arca di Noè è iniziata sin dai tempi antichi e molti affermano di averne trovato tracce inoppugnabili. Già l’astronomo e astrologo babilonese Beroso, vissuto tra il IV ed il III secolo a.C., scrisse che ai suoi tempi c’era l’abitudine dei pellegrini di scalare l’Ararat per grattare la pece dalle pareti dell’Arca e farne dei talismani contro le malattie

16   Così scrive Sant’Agostino: «Anche il quesito delle forme di alimentazione che potevano avere nell’arca gli animali, i quali, all’apparenza si nutrono soltanto di carne, mette in imbarazzo taluni. Si chiedono se, senza trasgredire l’ordine, vi fossero in sovrappiù animali che la necessità di nutrire gli altri aveva costretto ad introdurre nell’arca ovvero, ed è più attendibile, se fu possibile che oltre la carne vi fossero alimenti convenienti per tutti. Sappiamo, infatti, che molti animali abitualmente carnivori si nutrono di cereali e di frutta, soprattutto fichi e castagne. Non c’era da stupirsi se quell’uomo saggio e giusto, che anche per divino suggerimento sapeva ciò che a ciascuno conveniva, preparò e ammannì l’alimentazione conveniente a ogni specie. D’altronde la fame costringeva a cibarsi di tutto. E Dio poteva rendere gradevole e nutriente qualsiasi cibo perché Egli avrebbe anche potuto con divina compiacenza accordare che vivessero senza alimenti, se il fatto che si nutrissero non conveniva all’adempimento dell’allegoria di un sì grande mistero» (Agostino, Città di Dio, XV, 27, 5).

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La cattedrale di Echmiadzin, città dell’Armenia, dove si conservano frammenti lignei che la tradizione attribuisce all’arca di Noè. La sua costruzione risale al 301-303 d.C., ma la sua struttura attuale è frutto di modifiche e rifacimenti posteriori.

e la grandine che danneggiava i raccolti. Più tardi Nicola di Damasco, Giuseppe Flavio e San Teofilo di Antiochia, scrittori vissuti tra il I sec. a. C e II sec. d.C., confermavano la presenza dell’arca sul monte. Nel 330, secondo la tradizione, il monaco Jacob, patriarca di Nisbis, tentò l’ascensione del monte e, dopo aver fallito, ricevette da un angelo un pezzo dell’arca, alcuni frammenti della quale (o almeno ritenuti tali) sono conservati nella cattedrale di Etchmiadzin, città dell’Armenia. Fausto di Bisanzio, storiografo del V sec., affermava che l’arca era ancora visibile al vertice dell’Ararat e sembra che lo stesso imperatore bizantino Eraclio (575-641) avesse organizzato una scalata per raggiungerla, ma senza successo17. Gli storici riferiscono che anche nell’alto Medioevo parecchi gruppi di pellegrini cercarono di raggiungere l’arca, ma i loro tentativi fallirono per vari motivi: le difficoltà dell’impervio ambiente, le incursioni dei briganti, le guerre e l’ostilità delle autorità ottomane18. 17   Fausto Di Bisanzio, Storia degli armeni con introduzione e cura di Gabriella Uluhogian, traduzione di Marco Bais e Loris Dina Nocetti; note di Marco Bais, Milano, Mimesis, 1997. 18   Su tutti questi aspetti relativi ai tempi antichi cfr. Pelago A., Come ho trovato l’arca di Noè, Roma, Edizioni Mediterranee, 1999.

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Un’immagine del Parco Nazionale dell’Arca di Noè presso la città di Do˘gubeyazit che sorge a 1.625 m d’altitudine nella parte orientale della Turchia, a sud del Monte Ararat e a dominio della fertile pianura di Igdir. In primo piano si osserva una formazione rocciosa, situata a circa 2.000 m d’altezza, che presenta la struttura di una imbarcazione fossilizzata e che molti hanno identificato come i resti dell’Arca di Noè. La Bibbia racconta che, quando il diluvio universale cessò, Noè e la sua famiglia, scendendo dal Monte, giunsero nella valle di Igdir, stabilendosi lungo i fiumi Dicle (Tigre) e Firat (Eufrate) e dando vita alla seconda generazione umana.

Altre testimonianze sulla presunta presenza dell’arca si sono aggiunte in tempi più recenti. Nel 1893 l’arcidiacono Nourri, che esplorava le sorgenti dell’Eufrate, affermò di aver visto l’arca sotto il ghiacciaio dell’Ararat e di averne misurato le dimensioni, trovandole conformi a quelle della Genesi. Nel 1916 un aviatore russo, Wladimir Roskovitsky, raccontò di avere avvistato, insieme con altri aviatori russi, la carcassa dell’arca sulla riva di un lago sull’Ararat e un mese dopo lo zar Nicola II inviò una spedizione che ne fece delle fotografie e gliele inviò; ma ben presto la rivoluzione bolscevica rovesciò lo zar e la prova di ciò andò perduta. Anzi si diffuse la voce che la documentazione era per la maggior parte falsa19. Più tardi Egerton Sykes, mitologo, archeologo dilettante e scrittore britannico, afferma di avere impiegato il suo tempo a raccogliere tutte le te19   La Haye T.-Morris JH., The Ark on Ararat, Nashville, Thomas Nelson Inc. and Creation Life Publishers, 1976, pp. 76-87.

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stimonianze in favore della presenza dell’arca sull’Ararat, trovandone non meno di 600. Nel 1955 l’esploratore francese Ferdinand Navarra, dopo due precedenti ascese sul monte senza successo, riportò due pezzi di legno squadrato di quercia che, secondo lui, appartenevano all’arca20. Nel 2010 un gruppo di 15 archeologi turchi e cinesi ha annunciato di avere scoperto a 4.000 m sul Monte Ararat la carcassa dell’ipotetica arca di Noè e di averne riportato alcuni campioni che, esaminati col metodo del radiocarbonio, risalirebbero a circa 4.800 anni fa. La struttura sarebbe suddivisa in sette compartimenti, alcuni dei quali pieni di fascine di legna e probabilmente destinati al trasporto di animali. Nel 1997, infine, l’agenzia di spionaggio statunitense Cia (Central Intelligence Agency) diffuse la notizia che avrebbe diffuso una serie di immagini scattate nel 1949, durante la guerra fredda tra USA e URSS, dalle quali si osservava quella che era stata definita «l’anomalia del monte Ararat». Si tratterebbe di un’immagine opaca intrappolata nei ghiacciai che adombrerebbe una struttura somigliante a tre grandi assi di legno incurvato. Quest’immagine, però, sarebbe lunga circa due chilometri: molto superiore, quindi, alle dimensioni dell’arca biblica, che sarebbero di circa 136 metri. Potrebbe identificarsi, quindi, con una grande massa rocciosa che, intrappolata nel ghiacciaio, scivoli lentamente sui fianchi della montagna oppure di una massa di strati ghiacciati solidificati in periodi differenti e, pertanto, caratterizzati da diversa colorazione. Gli scettici, inoltre, rilevano che la Bibbia non indica l’Ararat come luogo di approdo dell’arca, contrariamente a quanto si crede, ma parla genericamente di montagne dell’Ararat, espressione con cui si indicava un’intera regione a nord dell’Assiria, mentre i primi riferimenti all’attuale monte risalirebbero, secondo gli storici, solamente al tardo Medioevo21. La toponomastica della regione, comunque, contiene parecchi riferimenti alle vicende dell’arca. Per esempio: l’Ararat, che in lingua locale è detto Arghi-dagh, significa «Monte dell’arca»; Erevan, attuale capitale dell’Armenia, vuol dire «la prima apparizione»; Nakhitchevan, capitale dell’omonima repubblica dell’Azerbaigian, significa «luogo dove scese Noè» o «tomba del grande vegliardo morto».

  Ibidem, pp. 158-160.   Di Giorgio C., Alla ricerca dell’arca di Noè. Dalla Cia foto e dubbi, in «La Repubblica», 22 novembre 1997. 20 21

vi L’esodo dall’Egitto e la traversata del Mar Rosso

1.  La Terra Promessa e la cattività degli Ebrei in Egitto Gli Ebrei erano popoli di pastori nomadi che vivevano nella bassa pianura della Mesopotamia e, al contrario degli altri popoli locali che erano politeisti, credevano in un Dio unico, di nome Javeh, che significa «Egli è». Poi, intorno al 2000 a.C., alcuni gruppi cominciarono a migrare verso il Mediterraneo e s’insediarono nella Cananea. La loro storia, secondo la Bibbia, inizia quando il patriarca Terach si trasferì, insieme con la famiglia, dalla città di Ur, situata nella bassa Mesopotamia, a Carran nell’alta Mesopotamia. Qui un giorno Dio parlò a suo figlio Abramo e gli disse di partire verso la terra che gli avrebbe indicata e che sarebbe stata abitata dalla sua discendenza. Insieme a questa predizione, però, aggiunse anche: «Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni» (Genesi 15:13).

Abramo restò meravigliato perché non aveva avuto figli e, oltretutto, era già vecchio e la moglie Sara era sterile; ma, fiducioso, si mise in viaggio insieme con la moglie, i servi e le greggi e arrivò a Sichem presso le rive del Giordano. Qui Dio gli apparve di nuovo e gli indicò la Terra Promessa, cioè la Palestina, che era situata al di là del fiume e che sarebbe appartenuta alla sua discendenza. Abramo, infatti, ebbe un figlio che chiamò Isacco; da Isacco nacquero Isaù e Giacobbe, detto anche Israele. Giacobbe generò dodici figli, i quali furono i capostipiti delle dodici tribù che formavano il popolo ebreo. Dal secondo nome di Giacobbe, poi, il tutto popolo ebreo prese il nome di Israele. La Bibbia narra che uno dei figli di Giacobbe, Giuseppe, fu venduto dai fratelli, gelosi perché era prediletto dal padre, ad alcuni mercanti egiziani; ma in Egitto egli si fece ben volere e si distinse tanto da diventare viceré del faraone e governatore del Basso Egitto. Perciò poté chiamare con sé i fratelli con i loro figli, che in Palestina erano stati ridotti alla fame da una carestia, e assegnò loro la terra di Goshen, situata nella parte orientale del delta del Nilo lontano dai centri abitati1. Essi divennero così numerosi 1   Secondo gli storici, gli Ebrei, che in Palestina praticavano una vita nomade piuttosto precaria, iniziarono a penetrare nel vicino Egitto, che ai loro occhi appariva come un mon­do di fa­volosa prosperità, dapprima in piccoli gruppi e poi, verso la fine del sec. XVIII a.C. vi si trasferirono in mas­sa.

138 Metafore geografiche nella Bibbia

e potenti che i faraoni, preoccupati, presero a perseguitarli sottoponendoli a vessazioni e lavori forzati d’ogni genere. Per impedirne la proliferazione decretarono, addirittura, l’uccisione di tutti i neonati maschi. Così è scritto nell’Esodo (1: 8-16): «Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe, e disse al suo popolo: Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese. Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli d’Israele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi: e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza. Poi il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere».

Uno dei neonati ebrei riuscì a sfuggire alla persecuzione ordinata dal faraone perché la madre, dopo averlo tenuto nascosto per tre mesi, non

Il viaggio di Abramo verso Canaan o Cananea, regione corrispondente grosso modo all’attuale territorio di Libano, Israele e parti della Siria e della Giordania. Dipinto di Pieter Lastman (1583-1633) custodito nel Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo.

L’esodo degli Ebrei dall’Egitto e la traversata del Mar Rosso 139

potendolo più occultare lo depose in una cesta e lo affidò alle acque del Nilo. La sorella, però, lo osservava da lontano e, quando vide che la figlia del faraone lo aveva raccolto, le si avvicinò e le chiese se avesse bisogno di una nutrice per allevarlo. Ricevutane risposta positiva, la ragazza andò a chiamare la mamma che, in incognita, allevò alla corte del faraone Ramses II (1290-1224 a.C.) il proprio figlio, cui fu dato il nome di Mosè che significa «salvato dalle acque». 2.  Dio comanda a Mosè di portare il popolo ebreo fuori dall’Egitto In Egitto, come si è detto, gli Ebrei vivevano in una situazione di schiavitù ed erano costretti a confezionare mattoni cotti al sole per le numerose costruzioni effettuate da Ramses II. Era un lavoro pesante e stressante, contro il quale essi si ribellarono. La loro protesta trovò l’appoggio di Mosè ormai adulto che, vedendo un egiziano sferzare gli operai ebrei, lo uccise. Perciò dovette fuggire dall’Egitto e si rifugiò nel deserto del Sinai presso il capo di una tribù nomade, Jetro, di cui sposò la figlia. Un giorno, mentre pascolava il gregge, presso il monte Oreb gli apparve Dio sotto forma di fuoco e gli ordinò di andare dal faraone per chiedergli di liberare gli Ebrei dalla servitù. Dopo molte perplessità, Mosè si recò in Egitto con sua moglie Sipporà e i suoi due figli; ma il faraone per molto tempo restò sordo alle sue

Particolare di un dipinto di Sandro Botticelli (1445-1510) in cui Dio si manifesta a Mosè, mentre accudisce al gregge di Jetro nel deserto, e gli comanda di liberare il popolo ebreo dalla schiavitù d’Egitto.

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richieste. Il suo popolo, allora, fu colpito da una serie di calamità, note come le «dieci piaghe d’Egitto», le quali furono considerate punizioni divine2. Un giorno Mosè e suo fratello Aronne, su ordine di Dio, si recarono dal faraone e gli chiesero il permesso di poter condurre gli Ebrei in una località desertica del Sinai, distante tre giorni di cammino ed equivalente a circa 100 km, per celebrare una festa di pellegrinaggio. Così disse: «L’Iddio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrir sacrifizi all’Eterno, ch’è il nostro Dio, onde Egli non abbia a colpirci con la peste o con la spada» (Esodo 3:4).

La richiesta di recarsi in pieno deserto era giustificata dal fatto che all’interno dell’Egitto il culto ebraico era considerato un abominio. Il faraone negò il consenso, sia perché non riconosceva alcun Dio sopra di sé e sia perché ciò avrebbe comportato la sospensione dei lavori per alcuni giorni. Anzi, sprezzante, obbligò gli ebrei a procurarsi anche la materia prima per la costruzione dei mattoni, cioè la paglia che veniva impastata con l’argilla, mantenendo però la stessa quantità di mattoni prodotti quotidianamente. Gli Ebrei, allora, cominciarono a protestare contro Mosè e contro Aronne dicendo: «Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci!».

Mosè, a sua volta, sentendo il fallimento della sua missione come un segno d’indifferenza divina nei confronti d’Israele si rivolse al Signore e disse: 2   Queste calamità comprendono i seguenti avvenimenti: tramutazione dell’acqua del Nilo e dei pozzi in sangue, invasione di rane, invasione di pidocchi, invasione di mosconi, moria del bestiame, ulcere su animali e uomini, caduta di grandine, invasione di cavallette, tenebre persistenti e morte dei primogeniti. Alcuni rilevano che la maggior parte di questi flagelli, sebbene in scala più ridotta, si ripetono annualmente in Egitto. Il Nilo, tra fine giugno e inizio luglio, si gonfia e assume tinta rossastra per il limo che vi giunge dall’altopiano etiopico; dopo la piena estiva, le acque del Nilo si riducono e le rive paludose si riempiono di rane e verso la fine della piena si riempiono di zanzare; poi, sul finire dell’estate, l’Egitto è infestato da mosche e spesso colpito anche da malattie infettive, mentre da gennaio a marzo sono usuali le violente grandinate, senza contare le frequenti piogge di cavallette e i forti venti del deserto (samum) che soffiano soprattutto tra la primavera e l’inizio dell’estate trasportando dal deserto tanta polvere da oscurare il cielo. I flagelli biblici, quindi, sarebbero fenomeni naturali e non punizioni divine. A queste obiezioni altri rispondono che le acque del Nilo, quando diventano rossastre, non producono disastri, ma anzi sono benefiche perché con il limo fertilizzano la terra; che gli altri abituali fenomeni, comunque, non hanno quell’intensità tale da farne un flagello e che non avvengono nello stesso ordine e con la stessa cadenza con cui sono narrati nella Bibbia, dove tutto lascia intendere che si succedono di 7 giorni in 7 giorni: una vicinanza tale da sembrare un vero avvertimento divino.

L’esodo degli Ebrei dall’Egitto e la traversata del Mar Rosso 141

«Mio Signore, perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo! (Esodo 5:21-23). E il Signore ripose: «Ora vedrai quello che sto per fare al faraone con mano potente, li lascerà andare, anzi con mano potente li caccerà dal suo paese!».

Il Signore, infatti, mandò sull’Egitto l’ultima piaga, cioè la morte di tutti i primogeniti sia degli uomini che degli animali. Così dice la Bibbia: «A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito del prigioniero nel carcere sotterraneo, e tutti i primogeniti del bestiame. Si alzò il faraone nella notte e con lui i suoi ministri e tutti gli Egiziani; un grande grido scoppiò in Egitto, perché non c’era casa dove non ci fosse un morto!» (Esodo 12:29-30).

Dopo quest’ultimo flagello il faraone, espletate laboriose trattative, acconsentì che gli Ebrei si ritirassero nel deserto per compiere sacrifici al proprio Dio, ma non certo per andarsene dall’Egitto: cosa che il faraone aveva sospettato, poiché da mesi essi si liberavano dei propri beni immobili barattandoli con oggetti preziosi. Perciò, quando concesse loro il permesso di compiere il pellegrinaggio nel deserto, li fece seguire da un forte contingente di truppe egizie, costituito da 600 carri da guerra, per sorvegliarli.

Schiavi ebrei impiegati nella costruzione di un palazzo al servizio dei faraoni (affresco tombale del secolo XIX a.C.).

142 Metafore geografiche nella Bibbia

Iniziato così il viaggio, un’interminabile colonna di Ebrei, di carri e di animali si muoveva al seguito di Mosè, che li precedeva con un grande braciere pieno di pece ardente, dal quale si sprigionava una colonna di fumo così denso da essere vista a distanza di chilometri. Essa, quindi, serviva da guida durante la marcia diurna, mentre di notte la posizione del braciere era segnalata dal bagliore delle fiamme. Le truppe egizie, guidate anch’esse dal braciere ardente, seguivano a distanza la carovana. Gli Ebrei, tuttavia, sfuggirono all’inseguimento dell’esercito egiziano, grazie a una serie di inspiegabili difficoltà che si presentarono alla sua avanzata, e anziché fermarsi a tre giorni di cammino, come concordato, proseguirono nel deserto, raggiunsero il Mar Rosso e lo attraversarono in maniera prodigiosa. Quando giunsero sulle sue rive, infatti, al comando di Mosè le acque si aprirono e li lasciarono passare, mentre subito dopo si chiusero e sommersero l’esercito faraonico che cercava di raggiungerli. Secondo la tradizione islamica, tra gli egiziani non vi fu alcun superstite e il faraone, prima di essere sommerso dalle acque, disse a Mosè che credeva a Dio; ma le sue parole non erano sincere e, quindi, non si salvò3. 3.  Un problema da chiarire: uno o due esodi? Da sempre la maggioranza degli studiosi ha considerato il passaggio attraverso il Mar Rosso, così com’è descritto dalla Bibbia, un avvenimento di tipo semplicemente simbolico, volendo significare per gli Ebrei la fine della cattività e il loro ritorno nella Terra Promessa. Esso è stato ed è ancora ritenuto irreale sia per l’impossibilità che in natura si verifichino alcuni fenomeni presenti nella narrazione biblica e sia per alcune incongruenze che sembrerebbero emergere dal percorso seguito dai fuggiaschi e dal loro eccessivo numero. Per quanto concerne i fuggiaschi, la Bibbia parla di 600.000 uomini maschi, senza donne e bambini, oltre alle mandrie di pecore che gli Ebrei portavano con loro. È una cifra che da alcuni storici è ritenuta esagerata poiché, aggiungendo le donne e i bambini, essa salirebbe a circa tre milioni. L’incertezza, però, potrebbe derivare da una più corretta traduzione del termine ebraico «elef» che, oltre a significare «migliaia», può anche indicare «capi famiglia». In tal caso si tratterebbe di circa 5.000-6.000 o, al massimo, di 50.000-100.000 persone4. Per quanto riguarda l’itinerario, invece, occorre chiarire che nelle pagine bibliche si rintraccia l’eco di due distinti esodi avvenuti in epoche 3   BOCIAN M., I grandi libri della Religione, Vol. 13: Personaggi della Bibbia, Milano, Mondadori, 2006, p. 346. 4   Finkelstein I.-Siberman N.A., The Bible Unearthed: Archaeology’s New Vision of Ancient Israel and the Origin of Its Sacred Texts, New York, Free Press, 2001.

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Un’incisione sulle pareti del Tempio Rosso di Karnak che rappresenta i faraoni Tutmosi III (a sinistra) e Hatshepsut (a destra), sotto il cui regno sarebbe avvenuto l’esodo-espulsione.

differenti e poi unificati in un unico racconto: un esodo-espulsione e un esodo-fuga. L’esodo-espulsione, secondo alcuni studiosi, si sarebbe verificato nel secolo XVI a.C. Esso sarebbe coinciso con la cacciata degli Hyksos, popoli che alcuni studiosi antichi hanno assimilato a quello ebreo5 e che avevano invaso l’Egitto attorno al 1700 a.C., instaurando la loro capitale ad Avaris e suscitando poi la reazione della popolazione locale; secondo altri, invece, sarebbe avvenuto nel secolo XIV a.C. sotto il regno di Tutmosi III e Hatsepsut, sovrani particolarmente animati da spirito nazionalistico e decisi a purificare la base popolare egiziana etnicamente inquinata dagli Ebrei. 5   L’identificazione degli Hyksos con gli Ebrei fu fatta per la prima volta da Erodoto (V sec. a.C.) e poi fu ripresa nella sua opera denominata Antichità giudaiche da Giuseppe Flavio, storico, politico e militare romano d’origine ebrea vissuto tra il 37 e il 105 d.C., come pure da molti Padri della Chiesa, mentre il principale sostenitore moderno di questa ipotesi è John James Bimson, docente di Antico Testamento ebraico. Cfr. Redating the Exodus, in “Biblical Archaeology Review”, Sep/Oct 1987, pp. 40-48.

144 Metafore geografiche nella Bibbia

L’esodo-fuga, invece, si colloca nel secolo XIII a.C., ma la data in cui sarebbe avvenuta è controversa, poiché la Bibbia non fornisce precisi riferimenti storici. Essa, a proposito delle condizioni in cui versava il popolo ebreo e delle calamità che precedono la sua fuga, parla solo di due faraoni senza farne il nome. Gli studiosi moderni identificano il primo in Ramses II (circa 1279-1212), basandosi sul fatto che sotto il suo regno furono costruite con manodopera schiava le città di Pi-Ramses (= casa di Ramses) e di Pitom (da Pi-Atun=casa di Atun)6. Il secondo, quello che si scontrò con Mosè perché si rifiutò di lasciar partire il popolo ebreo e attirò sull’Egitto le dieci piaghe, è invece identificato con Merenptah (circa 1213-1203 a.C.), figlio di Ramses II. Se è proprio lui che morì tra le acque del Mar Rosso, l’esodo dunque sarebbe avvenuto nel 1203 a.C. e precisamente, secondo Barbiero, tra la fine di maggio e i primi di giugno. È opportuno ricordare, però, che le date relative ai regni dei faraoni non sono univoche, ma cambiano leggermente a seconda dei metodi seguiti dai diversi studiosi e, quindi, in mancanza di altri riferimenti sono da utilizzare con approssimazione.7

Il faraone Ramses II, sotto il cui regno sembra essere avvenuto l’esodo-fuga (da Ippolito Rossellini, I monumenti dell’Egitto e della Nubia, Stamperia Nicolò Capurro, 1833).

6   Pitom, in realtà, era stata costruita molto prima, sotto il regno del faraone Horemheb (circa 1366-1321 a. C.) che fu predecessore di Ramses I (1291-1289 a.C.). Sotto il regno di Ramses II essa ebbe solo qualche ampliamento. 7   Barbiero F., La Bibbia senza segreti, Milano, Rusconi, 1988, p. 402.

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I due tipi di esodo avrebbero utilizzato anche due itinerari diversi. L’esodo-espulsione avrebbe seguito la cosiddetta «strada della terra dei Filistei», ossia la strada militare che correva verso nord parallela alle coste del Mediterraneo e che gli Egiziani percorrevano per recarsi in Siria, coprendone il tragitto in circa tre mesi. In questo caso, quindi, l’esodo sarebbe stato una sorta di epurazione etnica posta sotto il controllo dalle truppe del faraone. L’esodo-fuga, invece, avrebbe seguito la «strada del deserto», molto più lunga e più disagevole. Essa, infatti, si dirigeva verso sud attraverso il deserto della Penisola del Sinai e poi, per risalire verso la Palestina, utilizzava sentieri poco percorribili da carri. Tuttavia, sebbene fosse più lunga, sarebbe stata scelta perché era più funzionale per sottrarsi all’inseguimento dell’esercito egiziano. L’arrivo nella Terra Promessa, infatti, richiese quaranta anni di traversie fisiche e morali. Occorre avvertire, ad ogni modo, che alcuni studiosi ritengono il termine “esodo” una metafora di tipo politico, sostenendo che nell’antichità esso indicasse anche il passaggio del controllo di un territorio (una formazione statale, una regione o una città) da parte di una potenza egemone ad un’altra e non una fuoriuscita di una grande massa di persone. In questo caso, quindi, secondo l’orientalista Mario Liverani8 l’espressione «esodo dall’Egitto» si riferirebbe alla fine della dominazione egiziana sulla Palestina a causa dell’invasione dei cosiddetti «Popoli del Mare» che a partire dal XV secolo a.C. sconvolsero l’assetto del bacino orientale del Mediterraneo e a più riprese tentarono di invadere anche l’Egitto9. 4.  Le ipotesi sull’apertura delle acque Sull’apertura delle acque sono state formulate diverse ipotesi. Una delle cause sarebbe stata individuata da Philips Graham nella gigantesca eruzione vulcanica dell’isola di Thera, ora Santorini, la quale colpì il Mediterraneo nel secolo XIV, cioè all’epoca del faraone Amenhotep III10. Egli ne   Liverani M., Oltre la Bibbia. Storia antica d’Israele, Bari-Roma, Laterza, 2003.  I «Popoli del Mare» sono genti d’origine incerta, probabilmente provenienti dall’Europa meridionale, e soprattutto dall’Egeo, che sul finire dell’età del bronzo scorrazzarono nel Mediterraneo orientale e invasero l’Anatolia, la Siria, Canaan, Cipro e l’Egitto. Essi sono così chiamati in una iscrizione incisa sulle pareti del tempio di Amon a Karnak, dove il faraone egizio Merenptah (1213-1203) dice di avere sconfitto in sei ore gli invasori stranieri venuti dal mare, uccidendone 6.000 e facendone 9.000 prigionieri. 10   Graham Ph., I misteri delle civiltà perdute, Milano, Sperling Paperback, 2000. Secondo Graham, alla stessa eruzione si attribuirebbero le varie calamità che si abbatterono sull’Egitto: cioè l’oscuramento dei cieli, causato dalla cenere vulcanica e durato forse alcuni giorni; le piogge di lapilli infuocati; lo strano colorito rossastro del Nilo che, prodotto dall’ossidazione del ferro delle ceneri vulcaniche a contatto con l’aria, causò la morte dei pesci e la fuga di rane dalle acque; la morìa del bestiame e gli sciami d’insetti, tipici effetti degli sconvol8 9

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Mosè (sulla destra) ordina al Mar Rosso di aprirsi in un dipinto di Nicolas Poussin (1594-1665).

trova una conferma diretta nel fatto che l’esplosione di Santorini, secondo le analisi effettuate al radiocarbonio, sarebbe avvenuta nel 1360 a.C., proprio all’epoca di Amenhotep, e una conferma indiretta nel fatto che il faraone, a dimostrazione della terribile catastrofe con cui fu colpita la terra del Nilo, fece erigere, come voto, centinaia di statue alla dea Sekhmet, divinità distruttrice. Anche il geofisico Silversten11 individua l’apertura del Mare Rosso in un’esplosione vulcanica che sarebbe avvenuta nel 1420 a.C., sempre nell’Egeo, sull’isola di Yala. L’eruzione delle isole di Thera e di Yala, quindi, avrebbero provocato diversi maremoti e tsunami, con ritiri delle acque marine e successive ondate violente. Durante il ritiro delle acque causato da uno di questi tsunami, appunto, gli Ebrei avrebbero attraversato il mare, mentre gli Egizi sarebbero stati travolti dalla gigantesca onda succeduta al suo ritiro. L’attraversamento del mare durante il ritiro delle acque provocato da uno tsunami, tuttavia, appare poco probabile per due motivi fondamentali: in primo luogo perché gimenti climatici provocati dall’eruzione; la morte dei primogeniti egiziani, che probabilmente fu provocata dai prodotti della terra avvelenati dalle polveri acide e che, invece, risparmiò i bambini ebrei perché essi non avevano a disposizione un’alimentazione abbondante. 11   Silversten B., The Parting of the Sea: How Volcanoes, Earthquakes, and Plagues Shaped the Story of Exodus, Princeton University Press, 2011; Spedicato E., Atlantide e l’Esodo. Platone e Mosè avevano ragione, Roma, Aracne, 2010, pp. 176.

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si tratta di un evento che non poteva essere previsto né era atteso da Mosè e in secondo luogo perché, anche se si fosse verificato, non avrebbe potuto consentire in poco tempo la fuga di una così lunga colonna di uomini e animali: operazione complessa che richiedeva una meticolosa organizzazione. Uno tsunami, infatti, non divide la superficie del mare aprendovi un varco tra due muraglie d’acqua restate in piedi per qualche ora, come risulta nella narrazione biblica, ma è caratterizzato da un ritiro piuttosto improvviso delle acque, che dalla riva vengono risucchiate verso l’alto mare, e da un loro ritorno altrettanto veloce di alte onde, che si abbattono con grande violenza sulla costa12. Mosè, evidentemente, si era accampato ai bordi del mare non in attesa di qualche evento imprevedibile, ma per altri ben precisi motivi che egli certamente conosceva: cioè per sfruttare il gioco delle maree che, in particolari periodi del mese e in condizioni meteorologiche eccezionali lasciavano emergere un lungo tratto del fondo marino. L’alterno gioco delle maree deriva dall’attrazione gravitazionale che, secondo la legge di Newton, la Luna e il Sole esercitano sulla Terra in misura direttamente proporzionale alla loro massa e inversamente proporzionale al cubo della loro distanza dal centro della Terra. Il fenomeno, in pratica, è attribuito per due terzi alla Luna, che è più piccola del Sole ma più vicina alla Terra, e per un terzo al Sole, che è più grande della Luna ma è molto più lontano dalla Terra. L’alta marea si verifica quando la Luna, passando sul meridiano di un luogo, ne attrae le acque. Contemporaneamente, però, essa si produce anche sul meridiano opposto, dove prevale la forza centrifuga. In coincidenza con le alte maree, sui meridiani situati a 90° rispetto a quelli considerati, si verificano basse maree perché la superficie del mare si abbassa in compensazione dell’acqua che s’innalza dall’altra parte. E poiché la Luna nel suo moto apparente intorno alla Terra passa una volta su ogni meridiano, ne deriva che in tutti i luoghi che giacciono sullo stesso meridiano nell’arco delle 24 ore si verificano due alte maree e due basse maree con intervalli di circa 6 ore. Le alte maree risultano più accentuate nei giorni di plenilunio e di novilunio, cioè ogni 15 giorni, poiché in tali circostanze il Sole e la Luna sono in sigizie, cioè sono allineati alla Terra e quindi la loro forza di attrazione si somma. Si hanno, così, le maree sigiziali13, dette anche grandi maree o ma12   Per un’analisi agevole, ma scientificamente documentata dal punto di vista sia storico che attuale e prospettico, cfr. De Blasio F.V., Aria, acqua, terra e fuoco. Vol I: terremoti, frane ed eruzioni vulcaniche, Vol. II: Uragani, alluvioni, tsunami, asteroidi, Milano, Springer-Verlag Italia, 2012. 13   Il termine marea sigiziale o anche sizigiale deriva dal greco sýzygos, che significa «aggiogato o accoppiato» e che a sua volta è composto da sýn, che significa «insieme», e da zygón, che significa «giogo». Esso, pertanto, indica che Sole, Luna e Terra giacciono uniti, cioè allineati, su uno stesso asse.

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La figura mostra i meccanismi con cui si formano l’alta e la bassa marea per effetto dell’attrazione esercitata dalla Luna sulla superficie del mare. Nel momento in cui la Luna passa su un determinato mare la superficie del mare, rappresentata con trattini, si rigonfia dal lato della Luna per effetto della sua attrazione (A=A') e sul lato opposto per la forza centrifuga (B=B'), per cui si verifica l’alta marea. Sui punti diametralmente opposti, situati agli estremi di un linea verticale rispetto a quella dell’allineamento Terra-Luna, invece la superficie del mare si schiaccia e si verifica la bassa marea (D=D' e E=E').

ree vive. Al contrario, esse si presentano poco pronunciate in coincidenza del primo e dell’ultimo quarto di Luna, allorché i tre corpi celesti sono in quadratura, cioè formano un angolo retto con la Terra al vertice, per cui l’attrazione della Luna è parzialmente annullata da quella del Sole. Si hanno, così, le maree di quadratura, dette anche piccole maree o maree morte. In determinati tratti di costa, per la conformazione morfologica dei fondali marini, può accadere che durante le maree di quadratura o maree morte le acque, ritirandosi, facciano emergere ai loro lati strisce di terra emersa creando una sorte di ponti tra due opposte sponde di una baia. In alcuni tratti del Mare del Nord, dove la differenza tra l’alta e la bassa marea raggiunge anche 10-12 m di differenza, vi sono molte isole costiere che durante la bassa marea sono unite alla terraferma da una striscia di terra emersa e durante l’alta marea, invece, sono raggiungibili solo per via mare. Era questo, come si vedrà tra poco, un fenomeno che si verificava in un settore del Mar Rosso e che certamente Mosè doveva conoscere quando lo scelse come obiettivo del suo viaggio e strumento di fuga. 5.  Mosè abile stratega o attento esecutore delle indicazioni divine? I credenti considerano la figura di Mosè non solo un salvatore che, fedele esecutore degli ordini di Dio, con i suoi gesti miracolosi ne manife-

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sta la potenza e ne esegue i piani; ma, anche molti studiosi, senza volergli attribuire atti miracolosi, vedono in lui un abile stratega che volge a proprio vantaggio una condizione apparentemente sfavorevole. Ferdinand Crombette, a proposito dell’apertura del Mar Rosso al comando di Mosè, scrive: «Noi non possiamo evidentemente seguire una tale interpretazione del testo, non perché sarebbe impossibile a Dio far restare l’acqua in piedi. Egli ha fatto ben altre cose stupefacenti: ha creato Lui tutta la natura e le leggi che la reggono; tutto sta in equilibrio nello spazio senza alcun altro supporto che la Sua volontà onnipotente, e tutto cadrebbe all’istante se arrestasse il movimento dell’orologio celeste. Ma noi pensiamo che Dio non modifichi senza necessità le leggi che Egli stesso ha posto; e che Gli è possibile, con l’applicazione di quelle stesse leggi, quantunque in modo miracoloso perché straordinario, ottenere il risultato voluto… e anche altri nello stesso tempo. Meno ancora seguiremo quelli che non vogliono credere al miracolo del passaggio del Mar Rosso semplicemente perché è un miracolo ed hanno deciso a priori che il miracolo è impossibile. La negazione non è una ragione, è tutt’al più una confessione di impotenza a comprendere, quando non è addirittura una misconoscenza assoluta dei fatti e un atto di malafede»14. A Mosè, in sostanza, anche senza attribuirgli poteri miracolosi, viene riconosciuta una grande capacità strategica. Egli, infatti, ha sfruttato le sue conoscenze nel campo geografico-territoriale e nel settore della psicologia di massa per controllare e guidare un esercito umano che, sebbene desideroso di riconquistare la libertà e raggiungere la Terra Promessa, era comunque sempre pronto a protestare per i disagi e le sofferenze del viaggio, dimostrandosi così un perfetto condottiero. Una delle prime abili mosse fu quella che egli fece quando il faraone, messosi al suo inseguimento, stava per raggiungerlo presso le rive del Mar Rosso, dove si era accampato in attesa di attraversarlo. Era un luogo in cui gli Ebrei, stretti com’erano dalle truppe egiziane alle spalle e dal mare davanti, non avrebbero avuto scampo e, perciò, furono presi dallo sgomento. Sulle loro labbra, allora, affiora una protesta che Mosè aveva già previsto e che tante volte si ripeterà durante la lunga e faticosa marcia: meglio una triste ma tranquilla schiavitù che lo spettro di una morte sicura nel deserto! Così dice la Bibbia (Esodo 14: 10-14): «Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati presso il mare: tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito si trovarono presso Pi-Achirot, davanti a Baal-Zefon. Quando il faraone fu vicino, gli Israeliti alzarono gli occhi: ecco, gli Egiziani muo-

14   Crombette F., Saggio di geografia divina. I flagelli d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, Quaderni del Ceshe France, Lilla, 2010, pp. 14-15.

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vevano il campo dietro di loro! Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore. Poi dissero a Mosè: «Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto, portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?».

Mosè, allora, interviene non come un generale che galvanizza le sue truppe prima dello scontro, ma come il profeta che parla in nome di Dio, assicurandoli che Dio li salverà e spronandoli a proseguire il viaggio con queste parole: «Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi; perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli».

Anch’egli, però, in cuor suo mostra qualche perplessità e segni di protesta verso il Signore che, di fronte al suo turbamento, gli rivolge un amorevole rimprovero e lo sprona dicendogli: «Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone e tutto il suo esercito, sui suoi carri e sui suoi cavalieri. Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri». (Esodo 14:15-18).

Ripreso il cammino, però, Mosè non si diresse verso la Terra Promessa, perché si sarebbe certamente scontrato con la popolazione che vi viveva, ma prese tempo per organizzarsi meglio e superare il trauma della fuga. Perciò, su suggerimento di Dio, effettuò una deviazione verso le zone del deserto del Sinai che ben conosceva, dove aveva fatto il pastore e dove aveva avuto la rivelazione del nome del Dio nazionale ebraico. Così dice la Bibbia: «L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. Venne così a trovarsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello d’Israele. Ora la nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra». (Esodo 14:19-22).

Il mare, dunque, si aprì e il vento bruciante che normalmente soffia dal deserto arabico, il vento chiamato «Khamsin», ne seccò il fondo. Gli Ebrei e le loro greggi marciarono sulla sabbia e sui sassi con difficoltà e

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Il passaggio del Mar Rosso in un dipinto di Luca Giordano (1634-1705) nella Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo.

con una velocità che, sebbene la paura mettesse loro le ali, certamente non poteva superare 3-4 km l’ora. La loro lunga colonna, quindi, poteva essere facilmente raggiunta dagli Egiziani che, con i loro carri e i loro cavalli, potevano andare molto più veloci degli Ebrei; ma il fondo disseccato del mare era abbastanza largo e consentiva agli Ebrei, che marciavano a piedi, la formazione di numerose colonne, mentre per gli Egiziani i carri, che sulla terraferma erano un elemento di forza, diventavano un fattore di debolezza. Le ruote, infatti, si insabbiavano e si staccavano, ritardando così l’inseguimento di qualche ora rispetto al momento in cui l’ultimo degli Israeliti raggiunse la sponda opposta: ritardo fatale perché «le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno» (Esodo 14: 1-30). La traversata del mare, come si è già detto, è considerata una delle più straordinarie capacità strategiche di condottiero mostrate da Mosè. Egli aveva condotto fin là la carovana israelita non perché avesse effettivamente il potere di dividere le acque, ma perché, intriso di cultura astronomica qual era tutta la gente d’origine mesopotamica, non solo sapeva che la differenza di livello tra l’alta e la bassa marea era massima in occasione del novilunio più prossimo al solstizio d’estate, cioè in occasione delle maree sigiziali che si verificano quando il sole e la luna sono in congiunzione allo zenit, ma era

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anche a conoscenza che in un tratto del Mar Rosso tale fenomeno avveniva sempre di notte e che, combinato anche con la forza del vento che normalmente spira dal deserto per le forti escursioni termiche diurne, lasciava scoperto per alcune ore un tratto del fondo marino, ossia una striscia di terra larga circa 1 km e lunga 15 km da un capo all’altro. Data l’irrilevanza ai fini pratici di tale fenomeno, forse nessuno prima di Mosè si era curato di stabilirne le cause, la durata e la periodicità, mentre egli lo aveva potuto osservare attentamente quando, fuggito dall’Egitto per sottrarsi alla punizione che gli sarebbe stata inflitta per l’uccisione dell’egiziano che angariava gli schiavi ebrei, si era rifugiato nel deserto del Sinai dedicandosi a pascolare le greggi di Jetro, di cui aveva sposato la figlia. Si tratta di un fenomeno che ora non si verifica più perché, come osserva Flavio Barbiero, allora «il livello dei mari su tutta la Terra, e quindi anche nel Mar Rosso, era dai quattro ai cinque metri più basso a causa di residui di ghiacci pleistocenici persistenti sulla terraferma. E poiché sia il Golfo di Suez che il Golfo di Aqaba in alcuni tratti presentano fondali sbarrati da cordoni rocciosi pressoché continui che giacciono ad una quota di 6-7 m, mentre all’epoca di Mosè dovevano trovarsi solo un paio di metri sotto il livello dell’acqua, appare del tutto verosimile che, in occasione delle massime escursioni di marea, tali cordoni affiorassero consentendo il passaggio

«Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno» (Esodo 14: 1-30).

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da una sponda all’altra anche con mezzi pesanti, essendo la sabbia del Mar Rosso molto compatta»15. Ora, per «mettere a punto il suo piano, Mosè doveva necessariamente conoscere il giorno e l’ora in cui le secche sarebbero affiorate e l’ora in cui sarebbero scomparse. Alcuni elementi “collaterali”, che egli aveva certamente messo in conto, assunsero un ruolo importante. La notte buia senza luna, ad esempio, che consentì agli Ebrei di muoversi senza essere visti. Questo, però, poteva essere un gravissimo ostacolo alla loro marcia lungo le secche; sennonché le calde acque del Mar Rosso pullulavano di microrganismi luminescenti e la forte brezza notturna faceva frangere le onde sulle secche, eccitandoli e segnando così la strada, senza bisogno di illuminazione, altrimenti indispensabile. Il vento, quindi, pur non avendo alcuna influenza sul ritiro delle acque, venne a svolgere un ruolo molto importante»16. L’abilità strategica di Mosè si rivela, inoltre, anche nell’uso del braciere ardente che guidava la marcia del suo popolo e le truppe egiziane che lo seguivano a distanza, controllandolo. Infatti, dopo un viaggio di un paio di settimane, il giorno del novilunio Mosè piantò il campo sulla riva del mare, di fronte alle secche di cui lui solo, oltre a qualche altro beduino, conosceva l’esistenza. In quel momento, probabilmente, le secche dovevano essere nascoste, poiché l’alta marea era al culmine. Le truppe egiziane, invece, si erano attestate su un’altura che consentiva di tenere bene in vista il campo ebraico, ma era abbastanza lontana per permettere di controllare quello che vi accadeva durante la notte. Mosè, d’altronde, aveva messo in atto un espediente per tenere gli Egiziani lontani dalla sua carovana. Dal racconto, infatti, si deduce che in una delle soste precedenti, quando gli Egiziani avevano posto le tende nelle immediate vicinanze del braciere, egli aveva organizzato un’incursione nel loro campo e aveva fatto bloccare le ruote dei carri da guerra riempiendone, probabilmente, i mozzi con la sabbia. Dopo quell’incidente, quindi, gli egiziani di notte si tenevano a distanza di sicurezza e vigilavano con alcune sentinelle i movimenti dell’accampamento degli Ebrei, muovendosi quando si muoveva il braciere. Constatato ciò, Mosè trasse in inganno le truppe egiziane con uno stratagemma che nella Bibbia è metaforicamente enunciato con questi versetti: «L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. Venne così a trovarsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello d’Israele. Ora la nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte» (Esodo 14: 19-20).   Barbiero F., Il passaggio del Mar Rosso, in “Hera”, gennaio 2001.   Barbiero F., Ibidem.

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Cosa significa ciò? Mosè, durante la notte, aveva fatto sistemare il braciere bene in vista alle spalle del campo ebraico, dal lato del deserto, proprio in faccia agli Egiziani, e lo aveva schermato dal lato del campo ebraico, in modo che non si potesse vedere quanto vi succedeva. Il Barbiero così descrive l’impresa: «Appena buio, gli Ebrei tolsero il campo, radunarono le masserizie e le greggi, si disposero in assetto di marcia e rimasero in attesa di ordini. Si levò il vento, la brezza notturna, abbastanza sostenuta in questa stagione, sufficiente ad increspare la superficie del mare. La marea cominciò a scendere. Sulla riva Mosè era in attesa spasmodica. La marea scendeva; finalmente il miracolo si compì: lentamente una sottile lingua di sabbia emerse dalle acque. Le onde sollevate dalla brezza notturna si frangevano sui bordi della lingua di sabbia, da entrambi i lati. Nella schiuma biancastra miriadi di microscopici organismi si eccitavano, producendo una debole luminescenza; sufficiente per tracciare con sicurezza il cammino nel buio pesto. Era certamente proibito accendere fiaccole o fuochi di qualsiasi genere, durante il passaggio, per non mettere in allarme anzitempo gli Egiziani. Doveva essere circa l’una di notte, quando venne dato l’ordine della partenza: gli Ebrei si precipitarono nel Mar Rosso in colonne ordinate

Africa nord-orientale: una tempesta di sabbia sollevata dal forte vento denominato «harmattan», il quale spira soprattutto da dicembre a febbraio e innalza barriere di sabbia alte centinaia di metri trasportandole per migliaia di chilometri (Immagine inviata dal satellite NASA). Era forse uno di questi fenomeni la nube che si interpose tra l’esercito egiziano e la carovana ebrea?

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e silenziose. Impiegarono circa tre ore per passare dall’altra parte. Era un percorso di poco più di 5 chilometri; dovette apparire a loro, che ignoravano la meccanica del fenomeno, un miracolo straordinario. Nel buio della notte intravedevano le acque soltanto grazie alla debole luminescenza ed al biancore dei frangenti; l’effetto ottico di due muraglie d’acqua da entrambi i lati doveva essere perfetto. Chissà con quale stupefatto terrore compirono quel tragitto! Nel campo egizio, intanto, dormivano. Il vento vi faceva arrivare, smorzato dalla lontananza, il belato delle greggi e l’abbaiare dei cani. Ciò doveva apparire insolito e probabilmente le sentinelle si innervosirono; ma la loro consegna doveva essere quella di sorvegliare i movimenti del braciere in fiamme. E poiché il braciere era sempre lì, immobile davanti a loro, non c’era ragione di allarmarsi. Dovevano essere circa le tre di notte quando il braciere si mise in movimento. Allora fu subito dato l’allarme. Gli Egiziani si armarono e aggiogarono i cavalli ai carri. Soltanto poco dopo le tre e mezza dovettero essere in grado di iniziare l’inseguimento del braciere, il quale nel frattempo si muoveva inspiegabilmente in mezzo al mare, verso la sponda opposta. Mosè doveva aver contato molto sul fattore psicologico per attirare gli Egiziani nella trappola mortale. Possiamo immaginare la confusione, lo sbalordimento e l’angoscia del comandante egiziano man mano che, nel buio, si avvicinava al luogo in cui la sera prima erano accampati gli Ebrei. Aveva la consegna di impedirne la fuga; era certo che, imbottigliati com’erano fra il mare e il campo egizio (Esodo 14,3), non avevano alcuna possibilità di muoversi. Ma, arrivato sulla punta El Adabiya, delle migliaia di persone che dovevano esserci, delle loro tende, dei carri e del bestiame non esisteva più la minima traccia. Volatilizzati, come per magia passati attraverso il mare? Ma come poteva essere possibile? Eppure il braciere era proprio là in mezzo al golfo. Quando giunse sulla riva del mare era già l’alba. Uno spettacolo inatteso e incredibile gli apparve al debole chiarore dell’aurora: una lunga striscia di sabbia univa come un ponte le due sponde e al centro di essa il braciere degli Ebrei si affrettava verso la riva opposta. Un urlo di rabbia e, senza pensarci due volte, si precipitò all’inseguimento, seguito dalle sue truppe, lungo quella striscia di sabbia che cominciava allora a restringersi. La marea stava salendo rapidamente. Gli Egiziani spronavano i cavalli; correvano disperatamente. Avevano già oltrepassato il centro della baia, quando gli ultimi lembi di sabbia scomparvero sotto la marea avanzante. Fu il disastro!»17. Gli Ebrei, così, poterono allontanarsi nel deserto, indisturbati, verso il loro nuovo destino.

  Barbiero F, Il passaggio del Mar Rosso, citato.

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Per la genialità e l’audacia della concezione, la complessità delle operazioni, la meticolosa pianificazione e l’esecuzione brillante e decisa, quindi, la traversata del Mar Rosso è da considerarsi un capolavoro di strategia militare: un’impresa che non ha paragoni nella storia. Mosè calcolò i tempi in cui gli Egiziani sarebbero dovuti arrivare in riva al mare in maniera ben precisa, tenendo conto che «essi avrebbero impiegato non più di mezz’ora a percorrere 15 km che separavano le due sponde. Su quella mezz’ora si giocava la riuscita dell’intero piano di Mosè e il destino del popolo ebraico. Se gli Egiziani fossero arrivati in riva al mare troppo presto, avrebbero fatto in tempo a raggiungere l’altra sponda. Se fossero arrivati troppo tardi, avrebbero trovato le secche già allagate; avrebbero fatto il giro della baia e raggiunto gli Ebrei dopo poche ore. In entrambi i casi la rappresaglia sarebbe stata tremenda. Gli Ebrei avrebbero pagato a carissimo prezzo il loro tentativo»18. Mosè, quindi, alla guida di uomini inermi o armati solo dei bastoni con cui conducevano le greggi, aveva saputo utilizzare le forze della natura per sconfiggere le truppe egiziane bene equipaggiate e dotate di veloci carri. Egli, «figlio di genitori ignoti, balbuziente, ricercato per omicidio, armato soltanto della sua genialità e audacia, aveva osato sfidare il sovrano più potente dell’epoca, riuscendo a sottrargli un intero popolo e ad annientare il meglio dell’esercito più potente del mondo. Nessuno riuscirà mai a fare qualcosa di paragonabile. Bastava un piccolo errore di calcolo, una mossa sbagliata, e l’avventura poteva trasformarsi in tragedia»19. 6.  L’esodo sarebbe avvenuto non nella Baia di Suez, ma nel Golfo di Akaba Le condizioni geomorfologiche della Baia di Suez nel tratto antistante la punta di Ras el-Adabiya, combinate a particolari fenomeni naturali come la bassa marea sigiziale e un forte vento, rendevano dunque verosimile l’attraversamento del Mar Rosso. Gli esperti della lingua ebraica, però, osservano che il termine Mar Rosso è un’impropria traduzione dell’espressione «iàm-suf», la quale letteralmente significa «mare dei giunchi» e indicherebbe il tratto della Baia di Suez corrispondente alla zona acquitrinosa dei cosiddetti Laghi Amari. La lingua ebraica, inoltre, non faceva molta distinzione tra lago e mare, tanto che il Lago di Galilea e il Lago Salato sono anche chiamati Mare di Galilea e Mar Morto. Il termine Mar Rosso, invece, è la traduzione dell’espressione greca «erythrà thàlassa» che gli apostoli Luca e Paolo usarono nel descrivere gli avvenimenti dell’Esodo (Atti 7:36; Ebrei 11:20). 18 19

  Barbiero F, Il passaggio del Mar Rosso, citato.   Barbiero F, La Bibbia senza segreti, Milano, Rusconi, 1988, p. 237.

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Appare chiaro, quindi, che l’attraversamento di semplici acquitrini come i Laghi Amari, guadabili in diverse parti, non sarebbe certamente apparso come un miracolo; né in acque così superficiali gli Egiziani sarebbero potuti essere inghiottiti dal ritorno delle onde e precipitare nelle profondità come una pietra (Esodo 15:5). La massa d’acqua, dunque, doveva essere molto più profonda. Nel tratto in cui esso sarebbe avvenuto, d’altronde, finora non sono state trovate tracce archeologiche. In tempi recenti, pertanto, gli studiosi hanno spostato la loro attenzione in altre zone del Mar Rosso e, basandosi su ragionamenti induttivi e su scoperte archeologiche molto significative, hanno individuato il passaggio nel Golfo di Aqaba o di Eilat. I loro ragionamenti induttivi si fondono su quanto si legge nei seguenti versetti: «Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot… Dio non li condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto. Dio guidò il popolo per la strada del deserto verso il Mare Rosso. Gli Israeliti, ben armati uscivano dal paese d’Egitto… Partirono da Succot e si accamparono a Etham, sul limite del deserto. Il Signore disse a Mosè: Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, davanti a Baal-Zefon; di fronte ad esso vi accamperete presso il mare» (Esodo13:17-21 e 14: 1-2).

La prima tappa della carovana israelita, dopo la partenza da Ramses, è dunque Succot, il cui nome in ebraico significa “capanne” e il cui sito, come d’altronde quello delle altre località qui menzionate, è incerto. Alcuni, infatti, lo individuano a circa 15-20 km da Ramses, cioè in prossimità dei Laghi Amari, ed altri molto più a sud, sul bordo occidentale del Golfo di Suez. Non doveva essere, comunque, una città, ma un luogo di accampamento temporaneo per i semiti (asiatici) che entravano nel delta dal Levante. La figura mostra le vie di comunicazione che portavano dall’Egitto nella terra di Canaan. Una era la via costiera, la più breve, che Dio disse espressamente a Mosè di non percorrere perché era controllata dall’esercito filisteo. L’altra era la via carovaniera, la quale andava verso sud ed era percorsa dai mercanti e dagli eserciti del faraone per le loro scorrerie contro la Siria. Mosè scelse questa seconda via e con tutta probabilità attraversò il Golfo di Aqaba nel tratto indicato dal rettangolo.

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Partito da Succot, Mosè si accampò ad Etham, località anch’essa d’incerta ubicazione, che alcuni studiosi collocano nei pressi dell’attuale Ismailia, città situata al confine tra il fertile delta del Nilo e la deserta Penisola del Sinai. La Bibbia, infatti, dice solo che era sui bordi del deserto e, quindi, sul confine orientale dell’Egitto. Qui probabilmente gli Ebrei avrebbero dovuto terminare il viaggio di tre giorni concesso dal faraone per poi, compiuti i loro riti, tornare indietro; ma Mosè continuò la sua marcia nel deserto del Sinai. Fu a questo punto, forse, che le guardie egiziane inviate a sorvegliare gli Ebrei si resero conto che essi continuavano a marciare nel deserto, tentando la fuga, per cui tornarono indietro ad avvertire il faraone. La maggioranza degli studiosi, però, tende a situare Etham all’estremità opposta del deserto del Sinai e, precisamente, in vista del Golfo di Aqaba. Se così fosse, Mosè sarebbe stato praticamente all’ingresso della Terra di Canaan e in poco tempo, quindi, avrebbe potuto entrare nella Terra Promessa! Ciò, tuttavia, non avrebbe impedito all’esercito del faraone di inseguirlo anche al di fuori dei confini dell’Egitto e di raggiungerlo con la sua cavalleria. Forse per questo Dio gli diede l’ordine, ritenuto forse inspiegabile ma comunque eseguito, di proseguire oltre e di puntare più a sud verso il mare, perché solo per mezzo del mare, e non certo attraverso le armi di cui non disponeva, avrebbe potuto liberarsi totalmente e definitivamente delle truppe egiziane. Gli Ebrei, così, giunsero di fronte al mare e si accamparono nel territorio di Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, davanti a Baal-Zefon. La domanda che molti si pongono è questa: come mai gli Egiziani con la loro veloce cavalleria non riuscirono a raggiungere una carovana di uomini e di animali che, muovendosi a piedi, non poteva compiere più di 15-20 km al giorno? La spiegazione può essere trovata nel fatto che le guardie egiziane, quando capirono che gli Ebrei si erano inoltrati nel deserto oltre il luogo dove avrebbero dovuto compiere i loro riti e intendevano fuggire, tornarono indietro per riferire ciò al faraone, impiegando almeno qualche giorno. Il faraone, a sua volta, per approntare le sue truppe da lanciare all’inseguimento (18.000 cavalieri, 80.000 fanti, 600 carri) avrà impiegato, presumibilmente, altri quattro-cinque giorni, così che Mosè aveva accumulato nove-dieci giorni di vantaggio. Inoltre, mentre il faraone inseguiva, gli Ebrei continuavano a camminare, guadagnando altri giorni di vantaggio. Quindi la carovana ebrea, ipotizzando che procedesse con una media di 15 km al giorno, prima di essere raggiunta dall’esercito faraonico aveva marciato per 19-20 giorni, percorrendo un tragitto di 285-300 chilometri. È, all’incirca, la stessa distanza che intercorre tra il delta del Nilo, donde partì la carovana ebrea, e la sponda del Golfo di Aqaba. Si può dedurre, quindi, come il passaggio del Mar Rosso non sia avvenuto attraverso la Baia di Suez, la quale sarebbe stata raggiungibile in breve tempo, ma sulla sponda opposta del deserto del Sinai, cioè attraverso il Golfo di Aqaba. Le numerose ricerche svolte non hanno fornito notizie sicure sull’itinerario seguito dagli Ebrei per recarsi da Etham agli accampamenti situati

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L’angusta valle del Wadi Watir che, secondo lo studioso Avigail Dadon, la carovana ebrea avrebbe percorso nel suo viaggio nel deserto del Sinai per raggiungere il varco attraverso il Mar Rosso. I soldati egiziani, che la seguivano a distanza, erano sicuri che gli Ebrei, una volta giunti al mare, si sarebbero trovati in difficoltà e sarebbero tornati indietro trovandosi intrappolati senza via di scampo. In tal modo li avrebbero sicuramente massacrati.

«davanti a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, davanti a Baal-Zefon» in attesa di attraversare il mare. Lo studioso Avigail Dadon20, tuttavia, da un’attenta analisi delle descrizioni bibliche è giunto alla conclusione che per raggiungere la costa del mare gli Ebrei avrebbero dovuto necessariamente seguire il corso di un «wadi»: cioè di uno dei tanti fiumi secchi che incidono con pareti molto ripide l’aspra morfologia del Sinai e che costituivano le più comode vie di comunicazioni. Esso avrebbe dovuto avere le seguenti caratteristiche: • essere circondato da alte montagne in modo tale che gli Ebrei non avessero possibilità di fuga o ritirata, affinché fossero intrappolati, com’era nel piano degli Egiziani che li inseguivano; • avere una larghezza tale da accogliere una carovana di persone e di animali così notevole com’era quella ebrea; • sfociare in una pianura così ampia da poter contenere tutto l’intero convoglio israelita nell’attesa di attraversare il mare. Ora, osservando una carta geomorfologica del Sinai, si nota che l’unico wadi rispondente a questi requisiti è quello denominato Wadi Watir, il quale sfocia nella spiaggia di Nuweiba: cioè su una pianura alluvionale ampia   Dadon A.H., L’esodo, Palermo, Edizione La Zisa, 2010.

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Veduta satellitare della pianura alluvionale che si estende alla foce del Wadi Watir, dove la carovana ebrea si sarebbe accampata in attesa di attraversare il Mar Rosso.

circa 40 km2 e chiusa da tutti i lati, come dice la Bibbia, tra aspre montagne che avrebbero impedito agli Ebrei ogni possibilità di fuga. Questa località corrisponde anche a un passo dello storico romano Giuseppe Flavio, il quale scrive:«Anch’essi (cioè gli Egiziani) compirono il tragitto da cui passarono gli Ebrei con l’intenzione di chiuderli tra i precipizi inaccessibili e il mare. C’erano da entrambi i lati le montagne che terminavano a mare, invalicabili, e sbarravano loro la via di fuga»21. L’unica via di scampo per gli Ebrei, pertanto, era la via del mare. Ebbene, seguendo le indicazioni della Bibbia, nel 1978 un’équipe di studiosi guidati da Ron Wyatt giunse sulla spianata di Nuweiba e, dopo aver consultato diverse carte geomorfologiche, scoprì che proprio nel tratto di mare antistante la spiaggia vi è una soglia rocciosa, una sorte di ponte, che si distende dall’una all’altra sponda e giace ad appena una decina di metri. Ai tempi dell’esodo, però, essa era ancora meno profonda, perché il livello del mare allora era almeno 4-5 metri più basso rispetto a quello attuale22, per cui durante le grandi maree sigiziali poteva facilmente affiorare in superficie e unire la Penisola del Sinai all’Arabia Saudita, mentre ai suoi lati il fondo marino sprofondava per centinaia di metri. Su questi fondali, appunto, l’équipe di Ron Wyatt trovò un gran numero di ruote di carro ricoperte da concrezioni coralline e simili a

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  Flavio G., Antichità Giudaiche, Libro II cap. XV, 3-15.   Emery K.O., La piattaforma continentale, in “Le Scienze”, n. 16, 1969, pp. 48-61.

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La figura mostra come nel Mar Rosso, tra la spiaggia di Nuweiba situata sulla sponda sinistra e l’opposta sponda situata nell’Arabia Saudita esista una soglia rocciosa molto superficiale, che le eccezionali basse maree possono lasciare scoperta, mentre ai suoi lati il mare sprofonda oltre i 1000 metri.

quelle degli antichi carri egiziani (a 4 o a 6 o a 8 raggi come quelli che figurano nelle pitture parietali dell’antichità). Sottoposte al metodo del radiocarbonio, esse hanno evidenziato un’ètà che risale a circa 3.000 anni fa: cioè all’età della XVIII dinastia dei faraoni, che è quella in cui appunto sarebbe vissuto Mosè. Insieme ai carri furono rinvenuti anche alcuni zoccoli di cavallo e ossa di uomini, in parte sparpagliati qua e là e in parte raggruppati, fossilizzati e incastonati nelle rocce coralline. Analoghi reperti sono stati individuati fino a notevoli profondità e portati alla luce da spedizioni successive di ricercatori di varia nazionalità (il norvegese Mark Krassberg, l’australiano Ron Peterson, la svedese Vioka Fonten, i britannici Michael Redman e Aron San, il norvegese Thor Larsen, Abdel Muhammad Badia della Facoltà di Archeologia dell’Università del Cairo ecc.). Il numero di ferite e di fratture trovate sui corpi, inoltre, sembra dimostrare una morte avvenuta in modo drammatico e brutale per il ritorno delle acque. Molto interessante è la circostanza che sulla sponda egiziana del golfo, cioè sul fondo marino più vicino alla spiaggia di Nuweiba donde iniziò l’attraversamento del mare, siano stati trovati anche residui di carri d’oro, i quali appartenevano alle caste più alte dell’antica burocrazia faraonica23. 23   Insieme con ruote dorate di carri egiziani sono state trovate anche alcune ruote dorate di carri siriani, le quali potrebbero confondere le idee. Dalla storia, però, si sa che gli Egiziani possedevano carri siriani decorati in oro, conquistati come bottino di guerra. In

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Essi erano più vicini alla costa, rispetto ai carri degli altri soldati, perché nelle battaglie i nobili e i principi occupavano la posizione di retroguardia rispetto ai soldati, per cui furono gli ultimi ad entrare nel mare e ad essere travolti dalle onde. Tutto ciò, insomma, lascia facilmente supporre che la storica traversata del Mar Rosso sia partita dalla spiaggia di Nuweiba e sia terminata sull’opposta sponda del Golfo di Aqaba, nell’attuale Arabia Saudita, che in quell’epoca corrispondeva alla terra di Madian. D’altronde il termine Nuweiba, che sta per Nuwayba al Muzayyinah, in arabo significa «Mosè in acque libere» oppure «Mosè che apre le acque». L’evento, peraltro, risulterebbe confermato da un altro particolare: il ritrovamento di due colonne di granito uguali, una sott’acqua e l’altra emersa, poste sulle opposte sponde del golfo. Quella emersa, fatta erigere presso il porto di Eilat da Salomone 400 anni dopo il passaggio del Mar Rosso, riporta poche parole che sottintendono una grande impresa: cioè termini come Egitto, morirono, Salomone, Idumea, Mosè, acqua, Yaweh. Salomone, dunque, avrebbe conosciuto bene il punto in cui gli Ebrei avevano attraversato il mare24. Che la traversata del Mar Rosso sia avvenuta nel Golfo di Aqaba si desume, indirettamente, anche da un’altra circostanza. Sappiamo, cioè, che gli Ebrei, dopo avere attraversato il mare, vagarono per molto tempo nel deserto e qui, sul Monte Sinai chiamato anche Monte Oreb, Mosè ricevette le Tavole della Legge. Ora anche per il monte Sinai-Oreb, come per molte delle località descritte nell’Esodo, si è persa la memoria toponomastica: tanto più che, mentre le fonti yahvista e sacerdotale usano il nome Sinai, quelle elohista e deuteronomista adoperano il nome Oreb. Da varie fonti, comunque, risulterebbe che esso dovrebbe essere collocato in Arabia e non nella Penisola del Sinai. Una testimonianza ci verrebbe da San Paolo che, in una simbologia delle due alleanze rappresentate da due donne, Agar e Sara, dice che Agar rappresenta il Monte Sinai e «il Sinai è un monte dell’Arabia (Galati 4:25). Un biblista del sec. XVIII, Alfonso Niccolai, riportando anche un passo di San Girolamo, scrive: «Mosè un dì guidò la greggia di Jetro, suo suocero, presso il Monte Oreb nell’Arabia Petrea, che dal testo è chiamato Monte di un’iscrizione risalente al faraone Tutmosi III, il quale compì molte spedizioni contro i beduini della Penisola del Sinai che rendevano insicure le piste carovaniere, si legge: «Partì, nessuno come lui, uccidendo i barbari, colpendo Retenu (che era il nome della Siria in quel tempo) e facendo prigionieri i loro principi, i loro carri lavorati con l’oro, destinati ai loro cavalli». 24   Sembra probabile che a questa colonna si riferiscano i versetti di Isaia (19-20) che dicono: «In quel giorno ci sarà un altare dedicato al Signore in mezzo al paese d’Egitto e una stele in onore del Signore presso la sua frontiera: sarà un segno e una testimonianza per il Signore degli eserciti nel paese d’Egitto. Quando, di fronte agli avversari, invocheranno il Signore, allora egli manderà loro un salvatore che li difenderà e li libererà».

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Una formazione di coralli cresciti su una ruota di carro egiziano simile a quelle che di tante altre che gli archeologi hanno portato alla luce, insieme con spade e altri armi, nel tratto di mare antistante la spiaggia di Nuweiba. I coralli hanno una crescita molto lenta e, quindi, la ruota che essi hanno inglobata necessariamente risale ad alcune migliaia di anni.

Dio. Non lontano dall’Oreb è il Monte Sinai, o più veramente l’Oreb all’occidente e il Sinai all’oriente sono due cime d’un medesimo monte…ed è probabile che Sinai fosse il nome comune di tutta la catena delle montagne, delle quali il Sinai faceva parte»25. Charles Robertson, propendendo per questa ipotesi, ricorda il momento in cui Mosè ricevette da Dio il compito di liberare gli Ebrei d’Egitto dalla schiavitù e aggiunge: «È molto chiaro che la posizione dell’Oreb, o Sinai, è ubicata in terra di Madian… Un esame del racconto conferma questa ipotesi. Fu detto a Mosè: “Servirete Dio su questo monte”. In quel frangente Mosè si trovava in Oreb, la montagna di Dio, in Madian. Ciò significa che l’Esodo sarebbe stato completato solo all’arrivo degli israeliti a Oreb, dove Mosè si trovava quando l’angelo del Signore gli apparve»26. Sembra che l’identificazione del Monte Oreb con il Monte Sinai situato nella parte meridionale dell’omonima penisola sia dovuta a Sant’E25   Niccolai A., Dissertazione e lezioni di Sacra Scrittura. Libri dell’esodo, Tomo Ottavo, Firenze, Appresso Pietro Gaet. Viviani all’Insegna di Giano, 1763, p. 57. Cfr. anche Anati E., La riscoperta del Monte Sinai. Ritrovamenti archeologici alla luce del racconto dell’Esodo, Padova, Edizioni EMP, 2010. 26   Robertson C.C., On the Track of the Exodus, Ohousand Oaks (California), Artisan Publisher, 1990, p. 87; Gherardi G., L’esodo e l’attraversamento del Mar Rosso, in “Ricerche Bibliche”, 2013, n. 5, pp. 10-26.

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Il Monastero di Santa Caterina edificato nel sec. IX sul posto della Basilica della Trasfigurazione, fatto costruire nel 527 d.C. da Giustiniano alle falde del monte che la madre di Costantino, Sant’Elena, aveva identificato come il Monte Sinai nella Penisola del Sinai.

lena, madre dell’imperatore Costantino. Sulle sue pendici, poi, l’imperatore Giustiniano nel 527 d.C. fece edificare la Basilica della Trasfigurazione, che poi nel sec. IX fu sostituita dall’odierno Monastero di Santa Caterina. Allora, se il vero Monte Sinai è quello che si trova in Arabia, quello cioè sul quale Dio si manifestò a Mosè, come mai esso è stato poi confuso con una montagna della Penisola del Sinai? La risposta, probabilmente, può trovarsi nel fatto che lo stesso Mosè o i suoi successori alla guida del popolo ebreo attraverso il deserto abbiano voluto tenerlo deliberatamente nascosto per evitare che diventasse oggetto di adorazione e di culto, secondo quanto Dio aveva ordinato: «Tu fisserai tutt’intorno dei limiti al popolo e dirai: Guardatevi dal salire sul monte o dal toccarne l’estremità. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte… Scendi e avverti solennemente il popolo, perché non si precipiti verso l’Eterno per guardare, e molti non abbiano a perire» (Esodo 19: 12-25).

In ciò, forse, consiste il motivo per cui se ne perse la reale ubicazione. 7.  Come può l’acqua formare due muraglie? Quando Mosè stese la mano sul mare, come si è già visto, «il Signore lo aprì e un vento violento e bruciante che soffiò per tutta la notte lo fece

L’esodo degli Ebrei dall’Egitto e la traversata del Mar Rosso 165

asciugare; le acque furono così separate. I figli di Israele camminarono all’asciutto in mezzo al mare, avendo l’acqua a destra e a sinistra, che serviva loro da muro» (Esodo 14: 21-22). La domanda che parecchi si sono posta è questa: ammesso che il fenomeno delle maree sigiziali abbia scoperto il fondo del mare e creato un ponte per il passaggio del Mar Rosso, si può mai credere che la potenza del vento abbia potuto tenerne drizzate le acque, a destra e a sinistra, come due muri per lunghe ore contrariamente a tutte le leggi dell’idrostatica? Per chi crede ai miracoli, ovviamente, il problema non si pone: tutto è possibile a Dio. È stato dimostrato, però, che anche per chi non crede ai miracoli l’evento potrebbe risultare possibile in determinate circostanze atmosferiche. Una simulazione al computer, basata anche su antichi studi di geografia che hanno permesso di ricostruire la morfologia e la profondità dell’area nella zona del possibile attraversamento, ha accertato che nelle lagune situate sul delta del Nilo, precisamente nel Lago Manzala, un vento proveniente da est, spirando per 12 ore alla velocità di 100 km/h, avrebbe potuto creare un corridoio asciutto largo 5 km e lasciarlo aperto per una durata di circa 4 ore: un tempo sufficiente per consentire il passaggio di Mosè e del suo popolo. Esso, infatti, avrebbe fatto sì che le acque del lago trascinassero con sé detriti e sedimenti, depositandoli poi sul fondo e creando, così, una larga striscia di terra emersa27. Sarebbe stato difficile, tuttavia, che un vento, per quanto violento e prolungato, da solo e senza la concomitanza di una forte bassa marea avrebbe potuto produrre lo stesso effetto idrodinamico sul Mar Rosso. E, comunque, i muri d’acqua alzati su entrambi i lati del corridoio asciutto, e restati così per lunghe ore, contrastano con tutte le leggi dell’idrostatica. Ferdinand Crombette osserva che la separazione delle acque non avvenne sotto l’azione del vento, poiché, come del resto dice il testo biblico, solo «quando l’apertura fu fatta, il Signore fece soffiare un vento violento e bruciante per far seccare rapidamente il fondo del mare dove si incamminarono gli Israeliti, per rendere il percorso praticabile. Questo vento caldo soffiava da oriente. Se fosse stato per la sua azione che le acque si sono ritirate, esse sarebbero piombate innanzitutto sugli Ebrei che si trovavano a ovest del passaggio; la spiegazione dunque è irriflessiva; noi la rigettiamo per questo solo motivo, sebbene se ne possano aggiungere altri. I figli di Israele camminarono dunque sul fondo seccato del mare con l’acqua che faceva loro da muro a destra e sinistra. È da questa espressione che si è pensato ai muri d’acqua verticali, ma essa non contiene affatto questa asserzione. Il testo non dice che le acque erano come un muro, ma che esse “facevano” da muro; non è dunque la natura “solida” e la forma 27   Drews C.-Han W., Dynamics of Wind Setdown at Suez and the Eastern Nile Delta, in “PLoS ONE”, Volume 5, 2010.

166 Metafore geografiche nella Bibbia

Ecco come sono stati immaginati, in maniera fantasiosa, i muri d’acqua che proteggevano il passaggio aperto da Mosè nel Mar Rosso.

verticale del muro che sono viste qui, ma la sua utilità, che è di essere una protezione. Ora, il profeta Nahum (cap. III: 8), parlando di Alessandria, dichiara che le acque sono le sue muraglie, cioè i suoi baluardi, e impiega lo stesso termine di Mosè: murus. In effetti, se gli Ebrei avevano il mare, anche orizzontale a destra e a sinistra, non potevano essere attaccati ai fianchi durante la traversata, dato che la nube li copriva di dietro ed erano, quindi, protetti come se avessero avuto dei veri baluardi con fosse»28. Il termine «muro», in sostanza, esprimerebbe il significato metaforico di «elemento difensivo».

28   Crombette F., Saggio di geografia divina. I flagelli d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, Quaderni del Ceshe France, Lilla, 2010, pp. 14-15. Sull’efficacia simbolica del racconto biblico, relativamente all’attraversamento del Mar Rosso, cfr. Ska J.L., Le passage de la Mer. Étude de la construction, du style e de la symbolique d’Ex 14:1-31, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1997. Sul significato socio-politico ed escatologico, invece, cfr. Walter H., Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 2004.

vii Fenomeni meteorologici nella Bibbia e nella scienza moderna

1.  I fenomeni meteorologici nelle civiltà antiche Nelle civiltà preistoriche e protostoriche l’uomo osservava con molta attenzione i fenomeni meteorologici e, attraverso di essi, cercava di predire l’evoluzione del tempo per esigenze agricole, poiché la vita o la morte degli uomini dipendevano dai buoni o dai cattivi raccolti legati alle irregolarità delle piogge. I popoli primitivi, però, ne davano un’interpretazione mitologica, personificando i singoli fenomeni con particolari divinità. Le più antiche testimonianze di meteorologia empirica, cioè di tentativi fatti per prevedere le condizioni del tempo attraverso l’osservazione degli astri e le caratteristiche delle nubi, risalgono alle civiltà mesopotamiche. Il primo importante trattato di meteorologia, tuttavia, si deve al filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), il quale scrisse un’opera intitolata «Meteorologica» e divisa in 4 libri. Questo trattato e un’altra piccola opera del suo allievo Teofrasto (371-287 a.C.) che s’intitolava «Libro dei segni», incentrata soprattutto sui venti e sulla previsione del tempo, hanno scarso fondamento scientifico, sebbene contengano alcune corrette interpretazioni e cerchino di stabilire un metodo basato sull’osservazione e sulla classificazione dei fenomeni naturali1. Eppure i princìpi esposti in tali opere hanno costituito la base indiscussa delle conoscenze atmosferiche per quasi 2000 anni. Nel Medioevo, periodo in cui imperava incontrastata l’astrologia, si rafforzò la credenza nell’influsso degli astri sul tempo e, alla luce delle classiche regole dell’astrologia, vennero elaborate e pubblicate previsioni del tempo per l’intero anno. Possiamo concludere, quindi, che si trattava di una «meteorologia applicata» all’attività pratica, attenta alle conseguenze soprattutto agricole degli eventi meteorologici più che alla spiegazione scientifica della loro origine: cioè alle cause che le determinavano e alle 1   Teofrasto, secondo quanto riferisce Diogene Laerzio (III sec. d.C.), scrisse oltre 500 opere sugli argomenti più vari (3 sulla Meteorologia, 1 sui Venti, 1 sui Segni del tempo, 3 sulle Acque, 1 sul Mare, 1 sulle Cose nel cielo e 6 sulle Ricerche astronomiche), di cui però ci sono pervenuti solo alcuni frammenti. Per quanto concerne le osservazioni meteorologiche, egli catalogò 80 tipologie di previsione di pioggia, 50 di temporale e 24 di tempo sereno (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi a cura di M. Gigante, Bari, Laterza, 2010)

168 Metafore geografiche nella Bibbia

Dio si manifesta a Mosè sotto forma di roveto ardente quando nel deserto gli ordina di liberare gli Ebrei dalla schiavitù in Egitto.

modalità con cui si verificavano. Solo nel Rinascimento alcuni studiosi (Galileo, Torricelli ecc.) iniziarono a studiare i fenomeni atmosferici con un corretto atteggiamento scientifico. Nei racconti della Bibbia Dio si manifesta spesso attraverso fenomeni meteorologici come venti impetuosi, nuvole, fulmini e tuoni. Per gli autori della Bibbia e per il popolo ebraico, però, questi elementi naturali non personificavano divinità, come invece credevano gli altri popoli contemporanei e come ancora credono religioni animiste in varie parti del mondo, ma avevano un significato teologico. Dio non era in essi, ma attraverso di essi manifestava la sua potenza con lo scopo di incidere, così, sugli avvenimenti riguardanti la sfera spirituale degli esseri umani2. Al di là della loro funzione teologica, tuttavia, talvolta i versetti biblici che usano l’immagine di questi fenomeni sembrano adombrarne anche una spiegazione scientifica non dissimile da quella cui la scienza è pervenuta in tempi piuttosto recenti o contemporanei. È il caso, per esempio, dei versetti che riguardano la circolazione dei venti, il ciclo dell’acqua o la formazione dei fulmini.

2   Schmidt W.H.-Delkurt H.-Graupner A., I dieci comandamenti e l’etica veterotestamentaria, Paideia, Flero, 1996.

Fenomeni meteorologici nella Bibbia e nella scienza moderna 169

2.  La circolazione dei venti Nel libro dell’Ecclesiaste (1: 6-7) è scritto: «Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri». Questi versi prefigurano il meccanismo che, in base all’alternanza delle alte e basse pressioni atmosferiche, regola la circolazione generale dell’aria: meccanismo che è stato chiarito solo in tempi abbastanza recenti. I venti, com’è noto, sono masse d’aria che si spostano dalle zone di alta pressione verso le zone di bassa pressione e possono essere diversi sia per direzione che per frequenza, dato che la pressione atmosferica è molto variabile sulla superficie terrestre in funzione della temperatura e dell’umidità. Dove la temperatura sale, infatti, la pressione diminuisce, poiché l’aria calda è più rarefatta e quindi più leggera di quella secca; dove essa scende, invece, la pressione aumenta, poiché l’aria fredda è più densa e più pesante di quella calda. Allo stesso modo, dove l’umidità aumenta, l’aria diventa più leggera e la pressione diminuisce e dove, invece, l’umidità diminuisce l’aria diventa più secca e la pressione cresce. I venti, pertanto, possono classificarsi in diversi modi per direzione, intensità e zone interessate. In maniera molto schematica, tuttavia, si definiscono venti costanti o permanenti se spirano sempre con direzione e provenienza pressoché invariabili; periodici, se spirano con direzione alterna in determinati periodi di tempo; irregolari, se spirano senza alcuna frequenza e direzione in una determinata aerea; regionali o locali, se nel corso dell’anno si verificano con una certa regolarità su alcune regioni per effetto di particolari configurazioni topografiche; planetari, se partecipano alla circolazione generale dell’atmosfera, coinvolgendo quindi l’intera superficie terrestre, e spirano sempre nella stessa direzione formando dei circuiti chiusi che vanno dalla zona equatoriale verso le zone subtropicali e dalle zone subtropicali verso le zone polari… Il meccanismo dei venti planetari, cui si riferiscono appunto i versetti della Bibbia, parte dall’Equatore e, in maniera molto semplice, funziona in questo modo. All’Equatore l’aria è fortemente riscaldata dal Sole, per cui diventa leggera e sale verso l’alto; giunta ad una certa quota, però, si raffredda, diventa più pesante e ritorna verso il basso dividendosi in due correnti che si dirigono sia a nord che a sud dell’Equatore e scendendo nelle zone situate tra 25° e 35° di latitudine Nord e Sud attorno al Tropico del Cancro e al Tropico del Capricorno. Queste due zone sono formate da vastissimi deserti per cui, non essendoci evaporazione d’acqua, l’aria è molto secca e diventa pesante. Esse, quindi, sono caratterizzate da alta pressione. Da qui, pertanto, l’aria pesante si dirige nuovamente da un lato verso l’Equatore, originando gli alisei che, per effetto della rotazione terrestre subiscono leggere deviazioni e spirano da nord-est verso sud-ovest

170 Metafore geografiche nella Bibbia

Schema semplificato della circolazione dei venti planetari, i quali spirano sempre nella stessa direzione chiudendo sempre il loro ciclo in cerchio, e delle tre “celle” in cui l’aria si muove in modi diversi per riequilibrare la quantità di energia tra l’Equatore e ciascuno dei poli. La cella di Hadley si estende dall’Equatore fino ai tropici; la cella di Ferrel domina le medie latitudini e circola nel senso opposto a quella della cella di Hadley; la cella polare circola tra le medie latitudini e i poli. Il sistema delle celle, nel complesso, è una conseguenza di due fattori: il riscaldamento differente tra il Polo e l’Equatore e il movimento di rotazione della Terra.

nell’emisfero boreale e da sud-est verso nord-ovest nell’emisfero australe; dall’altro lato, invece, converge verso le zone temperate caratterizzate da una pressione atmosferica più bassa e situate tra 35° e 60° di latitudine Nord e Sud, originando i venti occidentali o controalisei, i quali soffiano da sud-ovest nell’emisfero boreale e da nord-ovest nell’emisfero australe. Insieme a questi, inoltre, altri venti a circuito chiuso si generano dalle zone polari, che sono fredde e quindi sottoposte ad alte pressioni, verso le zone situate attorno ai circoli polari, meno fredde e quindi con aria meno pesante, alimentando i cosiddetti venti orientali che spirano da nord-est nell’emisfero boreale e da sud-est in quello australe3. Al di sopra di questi venti che circolano nella troposfera, cioè nella zona più bassa dell’atmosfera, spirano altri venti molto intensi che sono 3   Sulla tipologia dei venti locali e regionali, sulla loro formazione e sulla loro denominazione cfr. C. Formica, Progetto Globo, Napoli, Ferraro, 1996, pp. 269-341.

Fenomeni meteorologici nella Bibbia e nella scienza moderna 171

detti correnti a getto o jet streams perché costituiscono veri fiumi d’aria che spirano ad una quota di circa 10-14 km e presentano una larghezza di 150500 km, uno spessore di oltre 3 km e una velocità anche superiore a 250 km l’ora. Anche queste correnti formano circuiti chiusi, spirando da ovest verso est nell’emisfero settentrionale e da est verso ovest in quello meridionale, e interferiscono con la circolazione dei venti sottostanti regolandone i flussi. Esse, però, non hanno né velocità né direzione costante, ma presentano un andamento ondulato. Molto importanti sono soprattutto la corrente a getto polare e la corrente a getto subtropicale, le quali circolano intorno a 30° e a 60° di latitudine, tanto nord quanto a sud, esercitando una grande influenza sullo stato del tempo su buona parte della superficie terrestre.

L’andamento ondulato della corrente a getto polare e della corrente a getto subtropicale nell’emisfero settentrionale. Ciò dipende dal fatto che d’inverno esse si spostano verso l’Equatore e raggiungono la massima velocità, mentre d’estate si spostano verso i poli e rallentano. La loro velocità, inoltre, aumenta nelle zone di passaggio tra i continenti e gli oceani a causa dei contrasti termici.

172 Metafore geografiche nella Bibbia

Le zone di bassa pressione sono dette aree cicloniche e le zone di alta pressione aree anticicloniche perché esse generano venti che vanno «girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri», secondo quanto dice la Bibbia. Il termine ciclone, infatti, viene dal greco «kyklos» che significa «cerchio, giro». Come poteva sapere ciò Salomone (X sec. a.C.), cui si attribuisce il libro dell’Ecclesiaste4, dato che solo a partire dalla fine del secolo XVIII gli studiosi di meteorologia hanno potuto dimostrare che la circolazione dei venti planetari segue i circuiti chiusi prefigurati dai suddetti versetti? Le cause di tale meccanismo sono state individuate in tre grosse macrocelle di circolazione atmosferica che sono: la cella di Hadley, che va dalla fascia equatoriale fino a quella tropicale, la cella di Ferrel, che copre le medie latitudini, e la cella polare, che staziona sulle calotte polari. Ognuna di queste celle comunica con la confinante scambiandosi masse d’aria a temperatura e umidità diverse, ripristinando in tal modo l’equilibrio termico planetario che vige nelle varie zone latitudinali e portando tempo secco o pioggia: cioè generando il ciclo dell’acqua. 3.  Il ciclo dell’acqua o ciclo idrologico Le acque presenti sul nostro pianeta sono soggette a un movimento ciclico chiamato, appunto, ciclo dell’acqua o ciclo idrologico, il quale consiste in uno scambio continuo che avviene tra il mare e le terre emerse per effetto dell’irraggiamento solare. Esso, in breve, è caratterizzato da tre fasi: l’evaporazione, la condensazione e le precipitazioni. Il Sole, infatti, riscalda le acque del mare e ne provoca l’evaporazione; il vapor d’acqua forma le nubi e, quando la temperatura si abbassa, il vapore d’acqua contenuto nelle nubi si condensa generando precipitazioni di vario tipo (pioggia, neve, grandine, rugiada ecc.); le precipitazioni in parte vengono assorbite dal suolo, in parte formano i laghi e i fiumi, in parte formano i ghiacciai e i nevai che, sciogliendosi, alimentano i fiumi. Attraverso i fiumi, pertanto, l’acqua evaporata dal mare ritorna nel mare e il ciclo si chiude. Anche il ciclo dell’acqua è descritto con parole semplici, ma con grande precisione, in alcuni versetti della Bibbia. La prima fase sembra annunziata da quanto si legge negli Atti degli Apostoli, dove è scritto che «il Padre vostro celeste… fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti». 4   In verità sembra che la redazione dell’Ecclesiaste sia avvenuta nel sec. IV o III a.C. ad opera di un autore ignoto che scrive per bocca del Re Salomone, perché in quel periodo c’era la consuetudine di attribuire opere importanti a personaggi storici considerati sapienti. Cfr. La Bibbia, Edizioni San Paolo, 2009, p. 1374.

Fenomeni meteorologici nella Bibbia e nella scienza moderna 173

Qui viene richiamata l’attenzione su un elemento indispensabile, il sole, senza il quale non ci sarebbe evaporazione e, conseguentemente, neppure la pioggia. È il calore del sole, infatti, che ogni anno fa evaporare circa 400.000 chilometri cubi di acqua di mare, i trasformandola in nuvole. La seconda fase, invece, è prefigurata in alcuni versetti di Giobbe, di Elia e di Amos. Nel libro di Giobbe, infatti, si legge: «Egli attrae in alto le gocce dell’acqua e scioglie in pioggia i suoi vapori, che le nubi riversano e grondano sull’uomo in grande quantità. In tal modo sostenta i popoli e offre alimento in abbondanza» (Giobbe 36: 27-29).

Elia, a sua volta, mostrò di sapere da dove provenisse la pioggia quando, durante un periodo di siccità che durava da tre anni provocando gravi carestie, implorò la pioggia e, mentre pregava, chiese al suo servitore di guardare “in direzione del mare”. Il servitore lo informò che una nube, piccola come la palma della mano di un uomo, saliva dal mare ed egli allora, capendo che la sua preghiera era stata esaudita e che la pioggia sarebbe arrivata subito, gli ordinò di dire ad Acab: «Attacca [il carro]! E scendi affinché il rovescio di pioggia non ti trattenga! E avvenne nel frattempo che i cieli stessi si oscurarono per le nubi e il vento e cominciò un gran rovescio di pioggia» (1 Re 18:43-45).

Elia, in sostanza, sapeva che le nubi si formavano sul mare e che, spinte dai venti sulle terre emerse, erano foriere di pioggia: concetto poi ribadito in Amos là dove dice che Dio «chiama le acque del mare e le spande sulla faccia della terra…» (Amos 9: 6). La terza fase, infine, compare in altri versetti dell’Ecclesiaste in cui si legge: «Tutti i fiumi si gettano in mare, e il mare non trabocca. I fiumi ritornano al luogo dove son nati, per riprendere di nuovo il loro corso» (Ecclesiaste 1: 4-7).

Gli antichi cercavano di interpretare il ciclo idrologico, soprattutto per quanto concerne le sorgenti e la provenienza delle acque fluviali, a scopi pratici: cercavano, cioè, di prevedere le piene dei fiumi e di regolarle in funzione delle loro attività agricole. Essi, però, non riuscirono a individuarne la natura e le cause. I cinesi, per esempio, sapevano che la fonte di acqua dei loro fiumi era la pioggia e avevano anche un sistema di allarme per le inondazioni, utilizzando messaggeri a cavallo che viaggiavano con velocità maggiore di quanto non crescesse il livello delle acque; ma ne attribuivano le cause a fenomeni fantasiosi, per esempio all’azione di un drago. Anche gli Egiziani pensavano che le piene del Nilo non derivassero dalle piogge che cadevano sul suo alto bacino e le attribuivano a una sorta di riflusso dal Mar Mediterraneo, senza chiedersi però per quale motivo le sue acque non fossero salate.

174 Metafore geografiche nella Bibbia

Schema del ciclo idrologico. L’umidità presente nell’atmosfera è creata per l’86% dall’evaporazione del mare e per il 14% dall’evaporazione delle acque continentali (fiumi, laghi, ghiacciai, evapotraspirazione delle piante ecc). Le correnti d’aria ascensionali portano il vapore in alto nell’atmosfera, dove la bassa temperatura ne provoca la condensazione in goccioline microscopiche formando le nuvole. I venti trasportano le nubi in varie direzioni e le particelle delle nubi collidono, si accrescono e cadono dal cielo come precipitazioni liquide e solide (pioggia, grandine, neve, rugiada, brina ecc.). La maggior parte delle precipitazioni (78%) ricade in mare e il resto (22%) sulle terre emerse, dove una parte penetra nel sottosuolo, formando le falde freatiche, e un’altra parte defluisce al mare attraverso i fiumi.

Molti filosofi greci, tra i quali Platone (427-347 a.C.), ritenevano che i fiumi non fossero alimentati dalle piogge, ma derivassero dall’acqua del mare che, in qualche modo, s’infiltrava nel sottosuolo fino ad arrivare in cima alle montagne, dove poi riemergeva attraverso le sorgenti5. Alcuni di essi, tuttavia, cercarono di spiegare in maniera più razionale alcuni meccanismi del ciclo idrologico, sia pure in maniera incompleta e non sempre scientificamente esatta. Anassimandro di Mileto (610-546 a. C), per esempio, riteneva che la pioggia era dovuta all’umidità innalzata dalla Terra ad opera del Sole. Egli, così, accennava all’evaporazione, fenomeno che però per gli antichi significava trasformazione di acqua in aria e non cambiamento dallo stato liquido a quello gassoso, senza aggiungere nient’altro che potesse alludere alla 5   Tale credenza, peraltro, sarebbe durata fino ai tempi moderni se è vero quanto si legge in un’enciclopedia britannica: «L’idea che la Terra abbia una sorta di apparato circolatorio attraverso cui l’acqua del mare viene convogliata in cima alle montagne e da lì liberata, sopravvisse fino all’inizio del XVIII secolo». (Encyclopædia Britannica Online).

Fenomeni meteorologici nella Bibbia e nella scienza moderna 175

comprensione del ciclo idrologico nel suo complesso. Solo in Senofane di Colofone (570-475 a.C.) e in Anassagora di Clazomene (499-428 circa a.C.), secondo alcuni frammenti pervenutici attraverso la raccolta fatta dal filosofo Aezio, s’intravede un primo modello di ciclo idrologico che, pur nella sua estrema schematicità, adombra alcuni elementi di quello oggi conosciuto6. I filosofi greci, comunque, non credevano che le piogge potessero alimentare le sorgenti e i fiumi, sia per la loro insufficienza, sia per l’impermeabilità del terreno. Essi, infatti, non riuscivano ad immaginare le immense quantità di acqua che mediamente entrano nel sottosuolo continentale, il cui flusso verso gli oceani è oggi stimato in oltre 10 miliardi di metri cubi l’anno: valore senz’altro inferiore, ma comunque ragguardevole, in rapporto ai 30 miliardi di metri cubi che costituiscono la portata media dei fiumi. Anche agli studiosi del mondo romano e del Medioevo il meccanismo regolatore del ciclo idrologico restò ignoto7. Solo a partire dalla metà del secolo XVII, in seguito alle misure di tipo quantitativo che furono avviate da Pierre Perrault (1608-1680) e da Edme Mariotte (1620-1684) sulle precipitazioni e sui flussi in alcune aree della Francia di ampiezza ben definita e che poi furono proseguiti da Edmund Halley (1656-1742), il quale dimostrò che la quantità d’acqua evaporata dal Mediterraneo era più o meno uguale a quella che vi trasportavano i fiumi suoi tributari, è stata messa a punto la successione dei fenomeni costitutivi del ciclo idrologico: evaporazione, raffreddamento del vapore, condensazione, precipitazioni, infiltrazione nel terreno, percolazione nella falda sotterranea e suo sbocco in sorgenti. La Bibbia, insomma, con termini più semplici, anticipa d’oltre mille anni lo schema costitutivo del ciclo idrologico come parte dell’ecosistema che rende possibile la vita sulla Terra. Alcuni studiosi, tuttavia, obiettano che molti dei documenti di cui si compongono le antiche opere letterarie, come per esempio l’Iliade, anche quelli relativi alla Bibbia siano aggiustamenti o integrazioni fatte ai testi originari, risentendo dell’evoluzione del pensiero 6   Aezio, filosofo greco di cui non si conosce l’età esatta, è autore di un’opera, intitolata Raccolta di dottrine (Placita Philosophorum) e tradotta in arabo nel X secolo, in cui scrive: «Anassimene dice che le nuvole si formano quando l’aria subisce una maggiore condensazione: se la condensazione aumenta ne scaturisce la pioggia: si forma la grandine quando l’acqua che cade gela, e la neve quando un po’ d’aria è racchiusa nell’umidità». In un altro frammento si legge: «Senofane (dice) che i fenomeni che avvengono nelle regioni celesti derivano, come da causa prima, dal calore del sole. Infatti, alzatasi l’umidità del mare per opera sua, l’acqua dolce, dissoltasi per la sottigliezza delle sue parti, ridotta a nebbia forma le nuvole e mediante condensazione distilla la pioggia ed esala i venti» Cfr. Traduttori vari, I Presocratici. Testimonianze e Frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1999 (traduzione italiana del testo originale di H. Diels e W. Kranz). 7   Lago L., Le conoscenze sul ciclo dell’acqua nell’antichità classica e nell’evo medio: per un problema di storia delle scienze geografiche, Trieste, Lint. 1983; Ravelli F., Il ciclo idrologico naturale nel pensiero dei classici fino agli albori della moderna idrologia, in “Rivista di Storia dell’Agricoltura”, vol. 40, n° 1, 2000, pp. 2-23.

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religioso avvenuta nel corso dei secoli successivi. Nel caso specifico, infatti, Meinzer ipotizza che i versetti dell’Ecclesiaste attribuiti a Salomone (Tutti i fiumi si gettano in mare, e il mare non trabocca. I fiumi ritornano al luogo dove son nati, per riprendere di nuovo il loro corso) siano un’aggiunta al testo originario fatta da San Girolamo (383-405 d.C.) nella sua traduzione in latino e hanno un significato puramente allegorico: vanno letti, cioè, come un’esortazione a considerare la vanità delle cose umane8. Anche se così fosse, ma lo studioso non ne ha le prove, essi introducevano, comunque, un concetto nuovo rispetto alle conoscenze scientifiche dell’alto Medioevo. 4.  La connessione tra piogge temporalesche, fulmini e tuoni scritto:

A proposito delle piogge violente nel libro di Giobbe (37: 9-15) è «Dai recessi del sud viene l’uragano, dagli aquiloni il freddo… Egli carica pure le nubi d’umidità, disperde lontano le nuvole che portano i suoi lampi…Sai tu come Iddio le diriga e faccia guizzare il lampo dalle sue nubi?». E, ancora, nel libro dei Salmi (135:7) si legge: «Egli fa salire le nubi dall’estremità della terra, produce le folgori per la pioggia».

Questi versetti sono particolarmente interessanti perché mostrano la connessione tra lo scontro di masse d’aria, fulmini e piogge violente. In essi si intravede la teoria della formazione dei «cicloni extratropicali», cioè delle perturbazioni temporalesche che si formano alle medie latitudini nell’emisfero settentrionale: teoria formulata in tempi molto recenti dal fisico e meteorologo norvegese Vilhelm Friman Koren Bjerknes (1862-1951), pioniere della moderna meteorologia per quanto concerne le previsioni del tempo. Egli, infatti, ha dimostrato che nelle regioni comprese tra 30° e 60° di latitudine nord le forti perturbazioni atmosferiche si formano per lo scontro di masse d’aria calda provenienti dalle zone equatoriali, ossia dai «recessi del sud» come dice la Bibbia9, e di masse d’aria fredda portate dagli «aquiloni», cioè dai venti freddi polari. Infatti l’aria calda, riscaldando quella fredda, produce evaporazione e crea le nuvole che viaggiano velocemente nel cielo (Egli carica pure le nubi d’umidità), mentre contemporaneamente

 E.O. Meinzer, Hydrology, New York, Dover Publ.,1942.   La zona in cui vivevano gli autori della Bibbia, cioè la regione siro-palestinese, si estende appunto tra 30° e 40° di latitudine nord, cioè proprio nell’area in cui lo scontro di masse d’aria calde e fredde genera perturbazioni extratropicali particolarmente violente, di cui senz’altro gli autori biblici erano stati spettatori. I venti provenienti dalla latitudine dell’Equatore, quindi, potevano considerarsi come provenienti dai «recessi del sud» rispetto alla regione siro-palestinese. 8 9

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Una famiglia di fulmini che solcano il cielo e scaricano la loro energia a terra durante un violento temporale.

l’aria fredda, che è più pesante e più densa, s’incunea sotto quella calda e la sospinge verso l’alto. In tal modo si formano correnti ascendenti che, per la rotazione terrestre, assumono un moto vorticoso e producono violenti temporali con forti venti e fulmini. I fulmini, in effetti, sono scariche elettriche improvvise e violente che si verificano a causa del diverso potenziale esistente tra le nubi, le quali sono cariche di particelle positive, e il suolo, dove invece sono presenti particelle negative. L’innesco della scarica elettrica genera un’espansione dell’aria che subito si richiude e genera un’onda d’urto fragorosa, cioè il tuono. E, mentre il lampo è visto quasi istantaneamente, il tuono è percepito dall’osservatore dopo qualche secondo, come dice appunto il versetto di Giobbe: «Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s’ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano» (Giobbe 37:4).

Il ritardo della sua percezione dipende dal fatto che la velocità di propagazione della luce (300.000 km/s) è molto superiore rispetto a quella media del suono (340 m/s). Tale ritardo corrisponde a circa tre secondi per ogni chilometro di distanza dal fulmine. Quando Giobbe e l’autore dei Salmi scrivevano questi versetti, lampi e tuoni erano fenomeni spiegati con la mitologia o con tentativi scientifici ba-

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sati su meccanismi generatori erronei. Nel mondo greco-romano, ad esempio, i fulmini erano considerati come le frecce scagliate da Giove contro i mortali ed erano anche denominati «saette», termine derivante dal latino «sagitta» che significa freccia. Il filosofo Empedocle (490-430 a. C.) li riteneva come parti della luce del Sole che, catturate dalle nubi più dense, si liberavano con fragore dalla loro trappola. Anassagora (500-426 a.C.) li considerava, invece, come parti dell’etere10, cioè di una sostanza estremamente tenue che riempiva i cieli dove si trovavano i pianeti, le quali erano attirate verso il basso e fatte cadere nel mondo materiale. Aristotele, invece, sosteneva che fossero il risultato di un’esalazione secca che si liberava dalle nubi in seguito alla condensazione dell’aria in acqua. Secondo lui, inoltre, questa esalazione era “espulsa dalla parte più densa della nube verso il basso cosi come i semi che schizzano dalle dita [quando cerchiamo di schiacciarli], e l’urto dell’esalazione secca contro le nubi circostanti era anche la causa del tuono. Solo il poeta latino Lucrezio (94-50 a.C.) sembra avere intuizioni piuttosto vicine a quelle della Bibbia. Egli, infatti, attribuiva i fulmini al movimento di particelle molto piccole e leggere che, proprio per la loro leggerezza, riuscivano ad attraversare anche gli oggetti materiali, penetrando così anche all’interno delle case. Sempre secondo la sua teoria, tuoni e fulmini avevano una causa comune, ma erano due fenomeni indipendenti: l’urto tra le nubi, cioè, causava sia il rimbombo (tuono) che la liberazione degli atomi leggeri che andavano a formare il fulmine11. Sulla base di quali conoscenze Giobbe e gli autori dei Salmi potevano mettere in relazione i fulmini con lo scontro tra nuvole e nuvole o tra le nuvole e il suolo, come effetto del loro diverso potenziale, dal momento che l’attuale spiegazione scientifica è stata fornita solo nel secolo XVIII da Beniamino Franklin (1706-1790)? Anche la velocità di propagazione della luce e del suono è un’acquisizione moderna, dato che le sue prime misurazioni si devono a Newton (1642-1727)e all’astronomo danese Ole Rømer (1644-1710). 10   Secondo la filosofia greca l’etere, che in latino era chiamata «quinta essenza», era una sostanza tenue che riempiva i cieli ove si trovavano i pianeti. Esso, quindi, costituiva l’essenza del mondo celeste ed era diverso dagli altri quattro elementi di cui si riteneva composto il mondo terrestre: terra, aria, fuoco e acqua. Aristotele credeva che esso fosse senza peso, trasparente, eterno e immutabile, per cui anche il cosmo era un luogo immutabile in contrapposizione alla Terra, luogo di cambiamento. 11   Tito Lucrezio Caro è stato un poeta e filosofo romano che ha scritto un poema didascalico intitolato De rerum natura (= Sulla natura delle cose) in cui illustra fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie, passando dagli atomi ad alcuni aspetti del mondo umano e del mondo naturale. Egli, in sostanza, considera i vari fenomeni meteorologici non come manifestazione dell’ira degli dèi, ma come aspetti della natura facilmente spiegabili. A proposito del fulmine, infatti, dice che «i ceruli spazi del cielo sono scossi dal tuono perché aeree nuvole, volando in alto, si scontrano, quando i venti combattono l’un contro l’altro» e aggiunge che «la natura ha forgiato questo fuoco…più sottile che ogni altro fuoco sottile con corpi minuti e veloci, tale che nulla mai gli può resistere» (De rerum natura, libro VI, vv. 219-227).

Indice

Nota introduttiva

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Capitolo 1  •  L’origine dell’Universo e della Terra 1. L’origine dell’Universo nelle culture antiche 2. L’origine dell’Universo nel racconto biblico 3. La creazione dell’Universo secondo la scienza moderna: il Big Bang 4. Il Big Bang e i problemi insoluti 5. Anche molti non credenti accettano l’idea di una mente ordinatrice 6. La nascita dell’Universo è avvenuta per caso? 7. La durata della creazione: sei giorni o 15 miliardi di anni?

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Capitolo 2  •  La nascita e la struttura della Terra 1. La nascita della Terra nella Bibbia e nella scienza moderna 2. Terra rotonda e sospesa nel vuoto: la Bibbia anticipa la scienza 3. Anche la rotazione del Sole sembra annunciata nella Bibbia 4. La Pangea e la deriva dei continenti prefigurati nella Genesi 5. Struttura interna della Terra e tettonica a zolle 6. Inclinazione dell’asse terrestre e magnetismo 7. Mosè conosceva il fenomeno del magnetismo e delle sue conseguenze?

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Capitolo 3  • Nascita e sviluppo della vita sulla Terra: Creazione o Evoluzione? 1. La nascita della vita e dell’uomo secondo la Bibbia 2. Il senso delle apparenti contraddizioni tra la versione sacerdotale e quella jahvista 3. La nascita dell’uomo secondo la teoria evoluzionista 4. Il determinismo geografico e la vita sulla Terra 5. Le cause dell’evoluzione dell’uomo secondo la teoria darwinista 6. Le glaciazioni sono alla base della formazione delle razze? 7. Il neodarwinismo e le sue implicazioni morali 8. Le critiche al darwinismo: anelli mancanti, entropia, scoperta del DNA 9. L’evoluzione presuppone la creazione: il «salto ontologico» 10. La natura del «salto ontologico» 11. Creazione ed evoluzione: capacità della materia di autotrascendersi

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180 Indice

Capitolo 4  • La genetica moderna: Adamo ed Eva unici nostri progenitori 1. Adamo ed Eva sono vissuti tra 180.000 e 200.000 anni fa 2. Davvero Adamo nacque dalla polvere? 3. Davvero Eva fu creata da una costola di Adamo? 4. Il giardino dell’Eden era nell’attuale «Mezzaluna Fertile»? 5. Una localizzazione più circoscritta: la valle del Giordano 6. Nella «Mezzaluna Fertile» nasce l’agricoltura e l’allevamento 7. Cherubini e fiamme di spade folgoranti posti a guardia dell’albero della vita 8. Longevità dei patriarchi biblici e accorciamento della vita 9. Göbekli Tepe: il luogo dove si rifugiò l’uomo cacciato dall’Eden?

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Capitolo 5  • Il diluvio universale: ci fu davvero e quando avvenne? 1. Il diluvio nella mitologia dei popoli antichi 2. Il diluvio universale nella mitologia mesopotamica: il mito di Gilgamesh 3. Il «diluvio universale» nel racconto biblico 4. Ipotesi su due diluvi regionali: la Mesopotamia e il Mar Nero 5. Le ipotesi di un diluvio planetario 6. E, allora, a quale evento si riferiscono i racconti del diluvio universale? 7. Reperti paleontologici confermerebbero una catastrofe planetaria 8. Struttura e dimensioni dell’arca erano adeguate al compito preposto? 9. Alla ricerca dell’arca di Noè: testimonianze e tentativi falliti

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Capitolo 6  • L’esodo degli Ebrei dall’Egitto e la traversata del Mar Rosso 1. La Terra Promessa e la cattività degli Ebrei in Egitto 2. Dio comanda a Mosè di portare il popolo ebreo fuori dall’Egitto 3. Un problema da chiarire: uno o due esodi? 4. Le ipotesi sull’apertura delle acque 5. Mosè grande stratega o attento esecutore delle indicazioni divine 6. L’esodo sarebbe avvenuto non nella Baia di Suez, ma nel Golfo di Akaba 7. Come può l’acqua formare due muraglie?

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Capitolo 7  • Fenomeni meteorologici nella Bibbia e nella scienza moderna 1. I fenomeni meteorologici nelle civiltà antiche 2. La circolazione dei venti 3. Il ciclo dell’acqua o ciclo idrologico 4. La connessione tra piogge temporalesche, fulmini e tuoni

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