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Italian Pages 228 Year 2023
Ludovica Broglia è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa di memoria e narrazione autobiografica in età infantile e di visual storytelling.
LUDOVICA BROGLIA MEMORIA, NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA E INFANZIA
I recenti studi condotti nell’ambito della psicologia narrativa hanno dimostrato che sin dai primi mesi di vita i bambini iniziano a sviluppare la sofisticata capacità di ricordare e raccontare le esperienze vissute in prima persona. A ben vedere, le caratteristiche strutturali e contenutistiche dei resoconti autobiografici evolvono in modo graduale e vengono modellate direttamente dalle strutture sociali che forniscono format narrativi utili per riuscire a parlare di sé. Se da un lato la comunità scientifica ha riconosciuto il ruolo dello storytelling inteso come strumento indissolubilmente correlato a competenze quali la progettazione, il pensiero controfattuale e il mind reading, dall’altro lato negli ultimi anni ha dimostrato anche che la mappatura della realtà nella prima infanzia è di tipo visivo. È questo il motivo per il quale le narrazioni visive sequenziali autobiografiche devono essere riconosciute come strumenti cognitivo-emotivi privilegiati che devono obbligatoriamente entrare a far parte delle progettazioni educative rivolte a bambini dai tre ai dodici anni.
LUDOVICA BROGLIA MEMORIA, NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA E INFANZIA COME I BAMBINI RACCONTANO GLI EVENTI PERSONALI
ISBN 978-88-5759-682-2
MIMESIS
Mimesis Edizioni Scienze della narrazione www.mimesisedizioni.it
22,00 euro
9 788857 596822
MIMESIS / SCIENZE DELLA NARRAZIONE
MIMESIS / SCIENZE DELLA NARRAZIONE N. 20 Collana diretta da Duccio Demetrio Direzione scientifica Laura Formenti (Milano-Bicocca) Vanna Iori (Piacenza-Università Cattolica) Paolo Jedlowski (Cosenza) Cosimo Laneve (Bari) Anna Maria Piussi (Verona) Andrea Smorti (Firenze) Comitato scientifico internazionale Peter Alheit (Goettingen) Gian Luca Barbieri (Parma) Mario Barenghi (Milano-Bicocca) Jens Brockmeier (Manitoba, Canada) Jean-Michel Baudouin (Ginevra) Giorgio Bert (Torino) Marco Dallari (Rovereto) Freema Elbaz-Luwisch (Haifa) Stefano Ferrari (Bologna) Gianni Gasparini (Milano-Università Cattolica) Ilaria Grazzani (Milano-Bicocca) Paolo Inghilleri (Milano Statale) Francesca Rigotti (Lugano) Maura Striano (Napoli) Comitato di redazione Elisabetta Biffi Micaela Castiglioni Emanuela Mancino (Milano-Bicocca) Chiara Gemma (Bari)
Ludovica Broglia
MEMORIA, NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA E INFANZIA Come i bambini raccontano gli eventi personali
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Scienze della narrazione, n. 20 Isbn: 9788857596822 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE
Premessa7 I. Ricordare e raccontare11 1. Che cos’è la memoria autobiografica 11 2. Una traiettoria evolutiva 21 3. Fictional narratives matter: letteratura per l’infanzia e sintassi mnemonica 30 4. I bambini si raccontano: le fasi dello sviluppo narrativo39 5. Self autobiografico e competenza narrativa 52 II. Format narrativi e dintorni61 1. The making of autobiographical memory: cultura, narrazione e Self61 2. Reminiscing e stili narrativi 69 3. Histoires préformatées: alcune riflessioni neurocognitive82 4. Racconti maschili, racconti femminili 97 5. Tra regie culturali, finzionalità e visual storytelling105 III. Ricordi positivi, ricordi negativi125 1. L’emotività al potere 125 2. Reminiscing e format emotivi 134 3. Come classificare gli eventi 146 4. “C’era una volta il Covid”: raccontare l’ignoto 156
IV. Visual narratives autobiografiche173 1. Il disegno sequenziale come utensile cognitivo 173 2. Segmentare e disegnare nella prima infanzia: what else?183 3. Paneling matters: narrazioni visive e scuola primaria 196 Bibliografia215
PREMESSA
Come ricordano e raccontano gli eventi personali i bambini? Una domanda complessa e di quasi esclusiva pertinenza della narratologia. Le conversazioni relative alle esperienze autobiografiche occupano – e pervadono – la maggior parte della nostra quotidianità. Basti pensare al fatto che nei momenti di condivisione serale, bambini e genitori strutturano riferimenti ai past events almeno dalle cinque alle sette volte in una sola ora (Fivush, Haden, Reese 1996, p. 341). Ma non basta. Si pensi anche ai setting educativi per la prima infanzia nei quali i bambini sono portati a strutturare e a realizzare – senza nessuna tregua – resoconti relativi alle proprie azioni, alle proprie emozioni e alle proprie percezioni. Il punto è proprio questo. Memoria e narrazione autobiografica devono essere considerate due questioni essenziali – e irrinunciabili – per l’agenda educativa contemporanea. A maggior ragione, in un periodo di pandemia globale nel corso del quale i bambini sono stati – più e più volte – chiamati a raccontare le proprie esperienze, i propri timori e tutto ciò che ne consegue. Cosa ho pensato, come ho trascorso le mie giornate, come il virus ha modificato la mia quotidianità e così via. Non possiamo dunque non conoscere e analizzare le modalità attraverso le quali le competenze mnemoniche e narrative si sviluppano nel corso del periodo infantile: quali strategie narratologiche contraddi-
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Memoria, narrazione autobiografica e infanzia
stinguono i ricordi e i resoconti di bambini di scuola dell’infanzia e di giovani adolescenti che hanno da poco concluso la scuola primaria? Come raccontano la loro mattinata di scuola oppure la giornata più bella della loro vita? E ancora, come rielaborano un’esperienza particolarmente stressante come la giornata di pandemia e di lockdown? Abbiamo a che fare con quesiti contraddistinti da un’estrema complessità che meritano approfondimenti peculiari. Per prima cosa, è importante ricordare che memoria e narrazione autobiografica non hanno nulla a che vedere con la codifica e il resoconto della realtà oggettiva, quanto piuttosto di una realtà percepita che integra sensazioni e obiettivi personali (Fivush 2011, pp. 561-562). O meglio, con materiali linkati indissolubilmente al nostro Self, inteso come vera e propria base cognitiva che ci consente di organizzare la realtà e di comprenderla. Ricordiamo le esperienze in base al significato che abbiamo attribuito? Nessun dubbio. Sono gli studi di psicologia narrativa condotti in ambito internazionale – da autori come Robyn Fivush – a mettere in luce i principali espedienti mnemonici e narratologici adottati nel periodo infantile per raccontare le esperienze vissute in prima persona. E a ricordarci, ad esempio, che la principale strategia di emplotment nei primi anni di vita ha a che vedere con la temporalità – ovvero con ciò che accade prima e dopo – e al tempo stesso, con le actions e con le micro-sceneggiature svolte dai personaggi, i quali acquisiranno una complessità interiore in modo graduale solamente dai cinque anni in avanti. Prima la coerenza temporale, successivamente la coerenza causale; prima le azioni e successivamente le emozioni dei protagonisti. E via dicendo.
Premessa
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Ma ciò che ci interessa particolarmente approfondire nel corso del testo – a partire da un approccio socioculturale – è anche la modalità attraverso la quale le due competenze cognitive si sviluppano. La risposta è in realtà semplice e al tempo stesso decisamente complicata e ha a che vedere con il contesto di ricordo condiviso strutturato con gli adulti di riferimento. O meglio con il prezioso contesto di Reminiscing nel quale i bambini hanno la possibilità di condividere eventi passati e contemporaneamente di mettere a punto i loro stili cognitivi. È dunque così che inizia a svilupparsi – e a modellarsi – il Self autobiografico, ovvero attraverso le conversazioni e le interazioni con i genitori, gli insegnanti e tutti gli individui che appartengono al contesto di appartenenza. Una vera e propria responsabilità condivisa che non può in nessun modo non essere riconosciuta. Effectivement, le interazioni sociali appaiono chiaramente come elementi discriminanti che deliberano la permanenza dei ricordi autobiografici nel tempo (Fivush 2014, p. 568). Ma non è tutto. È sempre nel corso delle quotidiane interazioni verbali co-costruite con gli adulti di riferimento che i bambini apprendono e riconoscono format narrativi – culturalmente stabiliti e definiti – utili per riuscire a codificare le informazioni e di conseguenza, a raccontarsi. Ebbene, quando costruiamo resoconti relativi alle nostre esperienze utilizziamo lo stesso identico kit narrativo? La risposta non può che essere negativa. La redazione dei ricordi personali sembra essere co-gestita dal narratore e dal contesto sociale in cui è inserito, il quale fornisce contemporaneamente unità contenutistiche e unità strutturali, necessarie per riuscire a parlare di sé e per attribuire significato agli eventi autobiografici nel corso del
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tempo (Calabrese 2018, p. 52). Sembra esistere dunque un’indistruttibile liaison tra ricordi, narrazioni e Self che viene incentivata e costruita proprio all’interno dei contesti di ricordo condiviso. Tuttavia, dopo aver ragionato sulle caratteristiche mnemoniche e narrative, è davvero necessario fare un passo in avanti che ha a che vedere con la proficua – e irrinunciabile – alleanza tra codice iconico, narrazione autobiografica e competenze cognitive nella prima infanzia. Sarebbe a dire? Innanzitutto, a oggi – in ambito narratologico e psicologico – è stata riconosciuta l’importanza dello storytelling a livello di sviluppo socio-cognitivo ed emotivo inteso come strumento indissolubilmente correlato a competenze indispensabili nei primi anni di vita quali la progettazione, la memoria, il mind reading, e l’immaginazione controfattuale. Insomma, per comprendere, è necessario raccontare. Ma non basta. Recenti studi neuroscientifici hanno dimostrato che la mappatura della realtà in età infantile è di tipo visivo e che è solamente a partire da questa modalità d’azione inappresa che grammaticalizziamo più avanti nel tempo il linguaggio verbale (Calabrese 2013, p. 27). Un vero e proprio bias cognitivo a favore del linguaggio iconico? Se è vero che per comprendere devo raccontare, è anche vero che devo raccontare attraverso le immagini. Proprio loro, le care e vecchie immagini. A ben vedere, sono queste le due considerazioni che ci portano a identificare le narrazioni visive sequenziali come strumenti cognitivo-emotivi privilegiati che devono obbligatoriamente entrare – con tutti i diritti del caso – a far parte delle progettazioni educative rivolte a bambini dai tre ai dodici anni. E oltre.
CAPITOLO PRIMO RICORDARE E RACCONTARE
1. Che cos’è la memoria autobiografica Memoria autobiografica e identità, ecco la consapevolezza preliminare da cui partire. Senza ricordi autobiografici, non saremmo in grado di definirci e tantomeno di attribuire significato alla nostra persona. Ebbene, la memoria svolge un ruolo fondamentale nella vita degli individui in quanto consente di legare passato e presente e di comprendere e considerare significativi gli eventi che accadono loro (Bluck, Liao 2013, pp. 6-7). Pertanto, secondo la psicologia cognitiva e la psicologia sociale, la memoria autobiografica è da considerarsi una forma mnemonica umana che non riguarda solamente il dove, il quando e il come un’esperienza si è verificata, ma al contrario fa riferimento al significato che quest’ultima ha per il soggetto che sta ricordando (Fivush et al. 2011, p. 322). Il punto è proprio questo. La memoria non può essere ritenuta un archivio e un sistema statico che consente di codificare la realtà oggettiva e di recuperarla in futuro, quanto piuttosto una struttura dinamica che risponde alle esigenze dei soggetti e che consente loro di interpretare la realtà collegandola alla propria identità. A ben vedere, abbiamo a che fare con materiali ricchi di sensazioni, pensieri, emozioni e valutazioni che forniscono ai soggetti explanatory frames utili per codificare non tanto la realtà per quella che è, quanto la realtà percepita.
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Fin qui tutto chiaro. Ma quali tipologie mnemoniche esistono? A opinione di Endel Tulving (2002), è bene differenziare innanzitutto tra una memoria semantica e una memoria episodica. La prima tipologia – definita anche noetic consciousness – coincide con una serie di ricordi timeless e di fatti decontestualized: in altri termini, riguarda tutte quelle conoscenze generali relative alla nostra esperienza nel mondo (ad esempio, il nome della maestra della scuola primaria, l’indirizzo di casa, la data di nascita). Diversamente, la memoria episodica – conosciuta come autonoetic consciousness – coincide con gli eventi collocati in puntuali coordinate spaziali e temporali e offre la sensazione di rivivere il passato. Basti pensare al nostro ultimo compleanno, ad un viaggio a Parigi e così via. È del tutto evidente che se la memoria semantica fa riferimento ai lobi centrali dell’emisfero destro, la memoria episodica coinvolge sortout alcuni processi neurali aggiuntivi che hanno a che vedere con l’emisfero sinistro. Non a caso, sembra essere proprio la tipologia semantica a svilupparsi precocemente nel periodo infantile prima dei dodici mesi, mentre la tipologia episodica accresce il proprio potenziale dopo il primo anno di vita in quanto necessita obbligatoriamente della maturazione di specifiche strutture cerebrali quali l’ippocampo e altre regioni mediali (Nelson, Fivush 2004, p. 487). C’è però molto altro. Non tutti i ricordi personali sono autobiografici. È Robyn Fivush – psicologa presso la Emery University e punto di riferimento indiscusso nelle ricerche relative all’evoluzione mnemonica – a perimetrare maggiormente l’ambito di studi e a introdurre la cruciale distinzione tra memoria episodica e memoria autobiografica. Secondo l’autrice, la memoria autobiografica è da considerarsi
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una forma di memoria che caratterizza esclusivamente la specie umana, che basa il suo operato sull’integrazione delle esperienze oggettive vissute con la loro valutazione e interpretazione e che ha, dunque, come obiettivo principale la costruzione della personal history. Sarebbe proprio questa la motivazione per la quale le due tipologie mnemoniche non possono in nessun modo coincidere: se la memoria episodica sostiene semplicemente il recall di eventi specifici accaduti nel passato, quella autobiografica riguarda i ricordi linkati al Self inteso come principale experiencer of the event. E ancora. Se la memoria episodica coincide con il recupero di una serie di dettagli spazio-temporali relativi ad esperienze vissute in precedenza, la memoria autobiografica coincide con la trasformazione di questi eventi in materiali significativi per la propria persona (Fivush 2011, pp. 561-562). Detto in una sola parola? I ricordi autobiografici implicano – obbligatoriamente – la cosiddetta conscious awareness che consente ai soggetti di percepirsi gli stessi nel tempo e di attribuire coerenza al proprio Self. Adesso che sappiamo che cos’è la memoria autobiografica, possiamo chiederci quali funzioni svolge nella vita degli individui. A opinione di Susan Bluck – psicologa presso l’Università della Florida – ad una funzione identitaria si accostano una funzione sociale ed una direttiva (Bluck 2003, pp. 5-9). In riferimento alla prima funzione, è bene sottolineare che i ricordi personali ci consentono di trovare una risposta all’interrogativo esistenziale “Chi sono io?”. In altri termini, ci aiutano ad attribuire un senso di continuità alle nostre esperienze e a costruire coerenza. C’est à dire, la memoria autobiografica non è altro che una collezione di fatti ed eventi che sono stati percepiti, inter-
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pretati e integrati nella storia di vita personale, ovvero di fatti rilevanti che contribuiscono alla nostra definizione identitaria. Passiamo ora alla seconda funzione, di tipo sociale (“Come mi relaziono agli altri?”). Il ricordare sembra avere un ruolo adattivo in quanto consente ai soggetti di comprendere le altre persone, di interpretare i loro pensieri e di entrare in relazione con loro. Non c’è dubbio, dunque, che a beneficiare dell’evoluzione mnemonica sia anche la nota Theory of Mind. Già. Perché? La capacità di ricordare eventi autobiografici consente di comprendere e ipotizzare gli stati mentali altrui alla base dei loro comportamenti, ovvero di sviluppare la famosa empatia intesa come capacità di proiettarsi in un altro punto di vista a livello emotivo e cognitivo (Calabrese 2020, p. 65). E non è tutto. Secondo il noto Conceptual Model of Social Function, i soggetti ricorderebbero diversamente le stesse esperienze a partire dagli obiettivi di tipo sociale che si presentano nei differenti periodi di vita (Bluck et al. 2005, p.33). Nel periodo adolescenziale, ad esempio, i ragazzi costruiscono ricordi autobiografici a partire dalla ricerca della cosiddetta intimacy in nome dell’ambita connessione sociale. Au contraire, nella prima età adulta i soggetti recuperano e raccontano eventi personali con l’obiettivo di fornire consigli e di informare gli altri. Sarebbe a dire, se nel corso dell’adolescenza i soggetti considerano gli elementi della realtà che consentono loro di sentirsi socially connected, durante l’età adulta evidenziano caratteristiche peculiari delle proprie esperienze che permettono di informare i più giovani circa il funzionamento del mondo. La terza e ultima funzione è di tipo direttivo (“Come posso utilizzare il passato?”). La memoria autobiografica consente, infatti, agli individui di recuperare informazioni passate utili per
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risolvere difficoltà che contraddistinguono la dimensione presente e la dimensione futura. Ebbene sì. La memoria si presenta come uno strumento di problem solving che indirizza le nostre azioni quotidiane e ci aiuta a predire gli avvenimenti venturi. D’accordo con queste premesse, il modello teorico che ci consente di analizzare al meglio l’organizzazione mnemonica è conosciuto come Self Memory System ed è stato elaborato da Martin A. Conway e Christopher W. Pleydell-Pearce – psicologi presso il Dipartimento di Psicologia Sperimentale dell’Università di Bristol. Gli autori propongono l’esistenza di un Self inteso come sistema organizzativo che dirige il processo di codifica della realtà e il successivo recupero del materiale (Conway, Pleadell-Pearce 2000). Il punto di forza del modello? L’integrazione consapevole delle conoscenze autobiografiche con gli obiettivi e le caratteristiche personali. Sarebbe a dire, ricordiamo ciò che è in linea con il nostro Self, ovvero con una complessa gerarchia di temi e scopi che agisce come ricostruttore attivo delle esperienze. È proprio per questo motivo che gli eventi considerati rilevanti diventano maggiormente accessibili e recuperabili nel corso del tempo: abbiamo a che fare con le cosiddette esperienze self-defining che ci consentono di dare forma alla nostra lifestory. D’altronde, ricordiamolo ancora una volta: l’obiettivo principale che guida il processo mnemonico è la costruzione del Self. Tutto qui. Sembra esistere, dunque, un legame peculiare tra Self e memoria autobiografica. Secondo Hazel Markus, infatti, il Self può essere considerato come un set di generalizzazioni cognitive – riguardanti la persona – che guida il processo di codifica delle informazioni rilevanti (Markus 1977, pp. 64 ss.). Una vera
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e propria struttura schematica che influenza il processo mnemonico attraverso percezioni e interpretazioni e che si presenta come base cognitiva che consente di organizzare l’esperienza. Un esempio? Se un bambino si percepisce come aggressivo tenderà a ricordare aspetti di un evento differenti rispetto ad un coetaneo che si percepisce come particolarmente timido e riservato. A ben vedere, il self-schema è da considerarsi lo strumento tramite il quale i soggetti processano le informazioni in modo rapido ed efficace: se le informazioni coerenti con il proprio schema vengono assimilate facilmente, gli elementi in conflitto vengono recepiti con difficoltà in seguito a numerosi tentativi di rifiuto. Beninteso, la relazione tra memoria autobiografica e Self è di tipo dinamico e co-costruttivo in quanto entrambi gli elementi si organizzano, si costruiscono e si modellano a vicenda nel corso del tempo. Nondimeno, gli studi di stampo cognitivista ci ricordano che ogni esperienza viene compresa sulla base di un confronto con un modello stereotipico, derivato da esperienze simili registrate in memoria. Sarebbe a dire, la memoria autobiografica vive di frames che ci consentono di comprendere l’evento che stiamo vivendo e di scripts che ci consentono invece di articolarlo in una sequenza ordinata di azioni (Calabrese 2020, p. 34). Se lo schema è un’etichetta che apponiamo a porzioni di esistenza e si riferisce ad oggetti statici oppure a relazioni, gli scripts – o micro-sceneggiature – si riferiscono a processi dinamici. Ebbene sì, lo schema offre un paradigma semantico e lo script ne costituisce l’articolazione sintattica attraverso la memoria episodica. Questo sistema di attese – che guida completamente la comprensione della realtà e la costruzione di ricordi autobiografici
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– si sviluppa attorno ai tre anni: è attraverso una lenta comparazione tra ciò che accade e la memoria di ciò che è già accaduto loro che i bambini impareranno a leggere correttamente le situazioni e di conseguenza, a ricordarle e a raccontarle (Calabrese 2019, pp. 4-5). Il ricordare consente loro di prevedere, e di conseguenza il prevedere consente loro di ricordare. Ancora più interessante per la narratologia la scoperta di una significativa correlazione tra memoria autobiografica e memoria immaginativa, ovvero tra capacità di ricordare e capacità di immaginare ciò che non esiste. Ricordare sarebbe sinonimo di simulare? Sorpresa. Interventi sperimentali che ricorrono alla fMRI – ovvero alla risonanza magnetica funzionale – testimoniano la medesima attivazione cerebrale in compiti di recupero episodico e in compiti di simulazione di eventi futuri. Particolarmente emblematico lo studio condotto da Addis e colleghi (2007) che esamina le aree neurali coinvolte in entrambi i casi: la regione ippocampale sembra essere la zona discriminante alla base dei processi di memoria relazionale e di simulazione futura. D’altronde, tutto torna. Sia gli eventi passati – ricordati – che gli eventi futuri – immaginati – fanno riferimento alla memoria episodica, la quale supporta la costruzione di scenari ipotetici a partire dalla ricombinazione di specifiche informazioni passate. Per questa ragione, situazioni di gioco simbolico – che contraddistinguono la maggior parte delle quotidianità educative – sostengono la continua integrazione dei due processi cognitivi: una bambina impegnata nel tradizionale gioco simbolico “mamma-figlia” sta immaginando una realtà che non esiste nella quale lei è il genitore di una bambola e sta contemporaneamente utilizzando gli schemi mnemonici relativi al rapporto instaurato con la propria madre,
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utili per recuperare informazioni preziose che regolamentano le azioni simulate (Fioretti, Smorti, Pascuzzi 2019, p. 205). A tal proposito, emblematica anche la sovrapposizione dei ricordi vissuti in prima persona con i ricordi ricevuti – e raccontati – da altri soggetti. A opinione di David Pillemer – docente di psicologia dello sviluppo presso la New Hampshire University – i soggetti hanno due modalità attraverso le quali riescono a costruire conoscenza: la loro esperienza personale e i reports altrui, assimilati all’interno delle interazioni sociali. Un soggetto può avere un ricordo significativo – e persistente – relativo ad un incidente in macchina vissuto in prima persona e al tempo stesso, un ricordo relativo ad un grave incidente vissuto dalla figlia e raccontato a posteriori. Le cosiddette vicarious memories coincidono con i ricordi che i soggetti hanno di eventi raccontati e vissuti da altri, ad esempio da un amico, un familiare oppure un’insegnante: anche se l’esperienza in oggetto non è stata vissuta direttamente, sembra essere connotata dalle stesse caratteristiche dei noti first-hand events quali l’intensità emotiva, la reazione fisica correlata e la vividness (Pillemer 2015, pp. 25-26). Il punto è dunque sempre lo stesso. L’attivazione della memoria episodica è strettamente correlata sì con l’abilità di immaginare una scena futura ma al tempo stesso anche con la capacità di adottare la prospettiva di un’altra persona, simulando controfattualmente la realtà dal suo punto di vista. Un incessante e inarrestabile lavoro delle stesse aree cerebrali tra le quali l’ippocampo, coinvolto nella ricostruzione delle scene mentali. Reali o fittizie che siano. Ma facciamo per un attimo marcia indietro. Gli psicologi ci dicono che la memoria ha una natura prettamente ricostruttiva che porta i soggetti a codificare
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una realtà non tanto oggettiva e neutra, quanto una realtà ricca di interpretazioni. In altri termini, l’operato mnemonico si basa sul cosiddetto extended encoding in quanto i ricordi sono indissolubilmente correlati agli obiettivi della dimensione presente e si possono modificare – totalement – nel corso del tempo. Proprio così: in seguito alla codifica iniziale, una varietà di fattori – esogeni oppure endogeni – può alterare la rappresentazione delle esperienze. Vediamone alcuni. L’auto-suggestione, ad esempio, porta i soggetti ad aggiungere dettagli al materiale mnemonico, derivati in realtà da conoscenze generali: nel ricordare una lista di parole nella quale sono presenti i termini “letto” e “sogno” i bambini potrebbero dichiarare di aver ritrovato anche la parola “sonno”. Una vera e propria psicosi semantica che facilita la codifica efficace e rapida della realtà. Emblematico anche il caso del fenomeno mnemonico della re-integrazione che consente ai soggetti di rivalutare alcuni dettagli dell’evento originario al momento del recupero. Quando i bambini scoprono che la figura di Babbo Natale non è mai esistita, potrebbero modificare lo schema mnemonico collegato alla sera della vigilia attribuendo significati differenti ad alcune azioni ripetute quali, ad esempio, il ritrovamento dei sacchi con i regali all’interno degli armadi dei genitori (Quas, Fivush 2009 pp. 30 ss.). Anche le caratteristiche personali di chi ricorda costituirebbero un aspetto di primaria importanza nel processo di codifica della realtà. Si pensi, ad esempio, all’età degli individui. Nel corso del tempo – e nello specifico nella terza età – l’abilità di rivivere gli eventi passati includendo dettagli spazio-temporali ed interpretativi si ridurrebbe notevolmente aprendo la strada al noto semantization effect. Sarebbe a dire, in età senile il ricordare sembrerebbe fare riferimento
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alla dimensione del knowing, ovvero a ciò che potrebbe accadere nel corso di una determinata esperienza e non a ciò che effettivamente è accaduto (Habermas, Diel, Welzer 2013, pp. 1061-1062). Rappresentativa, inoltre, anche la relazione tra motivazione personale e ricordi autobiografici. Ad esempio, in seguito ad una partita di calcio sembrano essere i bambini appartenenti alla squadra vincitrice a ricordare e a mantenere nel tempo dettagli vividi relativi all’evento. Perché accade questo? È evidente che se ho vinto, significa che ho mantenuto elevata l’attenzione fino al termine del match – diversamente dai miei avversari che si sono scoraggiati prima – e al tempo stesso, ho probabilmente condiviso maggiormente l’esperienza a livello sociale per evidenziare gli esiti positivi ottenuti (Baker-Ward et al. 2005, pp. 522-524). Tutto torna. Vinco e ricordo, perdo e cerco di dimenticare. Tuttavia, per concludere questa rapida rassegna degli elementi che influenzano il lavoro mnemonico quotidiano, dobbiamo obbligatoriamente considerare il ruolo della coerenza, intesa come fattore discriminante – par excellence – che sostiene oppure inibisce il futuro recupero dei materiali mnemonici. Gwynn Morris e colleghi (2010) sono stati tra i primi ad intuire l’importanza della coerenza intesa come principio organizzativo del sistema mnemonico che consente ai soggetti di collegare aspetti emotivi e significati personali, i quali si traducono in una rappresentazione decisamente organizzata degli eventi autobiografici. Ricordiamo meglio gli eventi che vengono codificati in modo significativo e completo? Certo che sì. Pertanto, ciò che condiziona il futuro richiamo non è in nessun modo la quantità di informazioni considerata, quanto piuttosto l’organizzazione degli elementi costituenti. Sarebbe a dire, sono i bambini che
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costruiscono ricordi elaborati nelle prime sessioni sperimentali ad avere rappresentazioni mnemoniche dettagliate anche nei mesi successivi. Racconti particolarmente coerenti includono elaborazioni (“Ho preso la medicina, ma ho dovuto bere tanta acqua per riuscirci”), collegamenti causali (“Correvo così veloce che il papà non è riuscito a fermarmi”) e interpretazioni (“Quel gelato che ho mangiato è stato il migliore di sempre!”). Ecco il punto: per sostenere l’evoluzione mnemonica infantile, dobbiamo incentivare la coerenza. A tempo indeterminato.
2. Una traiettoria evolutiva Ora sappiamo da quali meccanismi è guidato l’operato mnemonico autobiografico. Ma in che modo la memoria – intesa come abilità cognitiva che ci consente non solo di comprendere la realtà, ma anche di percepire la già citata self-continuity – si sviluppa nel corso del periodo infantile? Secondo Elaine Reese – psicologa presso l’Università di Ontago – la memoria autobiografica evolve in modo graduale dai ricordi non verbali dei neonati fino ad arrivare alla cosiddetta lifestory che compare per la prima volta nel periodo adolescenziale (Reese 2009, pp. 145-146). Già nelle prime settimane di vita sembrano comparire evidenze riguardanti l’esistenza di una forma mnemonica autobiografica di tipo episodico: i neonati di sei mesi riescono a ripetere e a simulare un’azione compiuta nelle 24 ore precedenti, mentre bambini di nove mesi sono in grado di mantenere un ricordo relativo ad una nuova esperienza vissuta per almeno quattro settimane. Beninteso, nei primi mesi di vita abbiamo a che fare con una modalità mnemonica par associa-
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tion che non prevede in nessun modo l’intervento delle abilità linguistiche. Già a quest’età i bambini sono in grado di richiamare specifiche azioni attraverso la nota deferred imitation: se hanno giocato con alcuni oggetti, dopo alcune settimane sono in grado di ripetere le medesime azioni. Certo è che se fino ai due anni le azioni autobiografiche per essere recuperate devono avvenire nello stesso setting – il quale funge da strategia di recupero per eccellenza – da questo momento in avanti i bambini sembrano essere in grado di ricordare un’esperienza anche in coordinate spazio-temporali differenti da quelle originali. Ancora però, nessuna traccia di self consciousness. A ben vedere, sono le abilità linguistiche – che consentono di verbalizzare il materiale mnemonico – a sostenere la consapevolezza autobiografica e di conseguenza il futuro recupero. Riferirsi ad un’esperienza attraverso il linguaggio verbale significa simularla a livello mentale e rielaborarla attivamente. Già a diciotto mesi, i bambini iniziano a produrre e integrare più parole attraverso le quali si riferiscono ad esperienze vissute poco prima. Ad esempio, pronunciando i termini “porta” e “mano” – e indicando la porta della propria cameretta – intendono sottolineare l’incidente di percorso che li ha portati a sentire dolore alla mano a causa della porta che si è chiusa in modo errato. Questo modus operandi testimonia alla perfezione sia lo sviluppo ininterrotto delle abilità mnemoniche dal primo anno di vita in avanti sia il naturale interesse che i bambini dimostrano di avere per la condivisione sociale delle proprie esperienze. In questa fase evolutiva iniziale, decisivo sembra essere l’intervento degli adulti in quanto forniscono strutture narrative ed esplicative in grado di sostenere – e modulare – il latente sviluppo mnemonico. Facciamo un esempio.
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Se una bambina sta giocando nell’angolo della cucina della scuola e pronuncia la parola “fragole”, l’insegnante tendenzialmente interviene espandendo il breve intervento attraverso puntualizzazioni spaziotemporali quali “Sì, stamattina a merenda abbiamo mangiato le fragole” e riflessioni valutative (“Erano davvero buonissime”). È del tutto evidente che questo intervento linguistico di reframe si ripercuote positivamente sulla capacità dei bambini di recuperare ricordi autobiografici e di costruire significato attorno ad essi (Fivush et al. 2011, p. 325). Abbiamo a che fare, dunque, con un nodo tematico cruciale. Ricordi e abilità linguistiche. Sin dai tempi di Lev Vigotskij, sappiamo che il linguaggio può essere considerato il mezzo che consente ai bambini di organizzare l’esperienza in modo significativo e, dunque, di costruire interpretazioni riguardo gli eventi vissuti in prima persona. Minda Tessler e Katherine Nelson (1994, pp. 309 ss.) approfondiscono il collegamento tra linguaggio e organizzazione mnemonica partendo dal presupposto che il processo di social recounting influenzi contemporaneamente sia il modo in cui i ricordi sono modellati sia il loro periodo di permanenza in memoria. Vediamo cosa accade. Le autrici chiedono a due gruppi di bambini di tre anni di visitare un museo con i propri genitori: se nel primo gruppo gli adulti sono stati istruiti ad esplorare i materiali pittorici rispondendo solamente alle eventuali domande dei figli, nel secondo hanno dovuto utilizzare una strategia narrativa interattiva utile per co-costruire conoscenza con i bambini. Da un lato lo stile paradigmatico – basato su numerose categorizzazioni e specificazioni che richiamano solamente le proprietà degli oggetti coinvolti – e dall’altro, lo stile narrativo che chiede ai partecipanti di contestualizza-
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re le azioni, di ipotizzarne altre future e di aggiungere interpretazioni dinamiche. E dunque? I bambini che ricordano maggiori dettagli dell’esperienza sono proprio coloro che appartengono alla seconda categoria in quanto hanno avuto la possibilità – nel corso della codifica del materiale – di costruire significato in forma verbale e di conseguenza, di attivare il meccanismo di interpretazione. In effetti il gioco è semplice e al tempo stesso terribilmente complesso: i ricordi tradotti in forma narrativa – ovvero corredati da una story structure – hanno più probabilità di sopravvivere rispetto ai ricordi non mantenuti in questo formato (Reese 2009, p. 155; Fivush 1998, pp. 703-704). Ancora una volta la nostra cara, vecchia coerenza. Attorno ai tre anni e mezzo, i bambini iniziano a verbalizzare maggiormente e in autonomia sia eventi ripetuti e familiari – quali una cena al McDonald’s oppure la mattinata di scuola – sia eventi singoli e unici, come un viaggio a Disneyland con la famiglia (Fivush 1998, pp. 701-702). I resoconti mnemonici fabbricati da bambini di quest’età prevedono un’organizzazione generale – ovvero riprendono azioni che hanno un’elevata possibilità di verificarsi in un determinato schema – e sono strutturati a partire da un ordine temporale sommario e dall’utilizzo del cosiddetto timeless present. A questo proposito, un bambino di quattro anni potrebbe condividere il ricordo della giornata di scuola appena conclusa riferendosi ad una quotidianità prototipica che caratterizza questo contesto (“Quando vado a scuola, faccio l’assemblea alla mattina con la maestra, poi gioco con i miei amici e poi vado a dormire”). Di un evento, i bambini in età prescolare ricordano e condividono soprattutto il “quando” e il “dove” le azioni si sono verificate, mentre hanno difficoltà a livello interpre-
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tativo. E ancora, se a tre anni si focalizzano su aspetti superficiali e banali di un’esperienza (ad esempio, di una vacanza in campeggio ricordano la routine serale e la colazione), a quattro iniziano a focalizzarsi sugli aspetti che la rendono unica (ad esempio, ricordano il bagno nel lago e la lunga passeggiata a piedi). Certo, è nel corso della middle childhood – ovvero nel corso della scuola primaria – che, grazie alla maggior confidenza con i processi di condivisione narrativa e grazie alla maggior operatività dell’ippocampo, riescono ad aggiungere informazioni al ricordo relative alla contestualizzazione spazio-temporale e numerosi dettagli di altro tipo grazie al mental replay dell’evento (Reese 2009, pp. 156-158). D’accordo con la psicologia sociale, le competenze cognitive – come la memoria – si sviluppano a partire dall’integrazione di più fattori quali il linguaggio, il Self, le competenze socio-emotive e il modo in cui gli adulti costruiscono tracce narrative che consentono di recuperare un ricordo (Reese 2009, p. 146). Et voilà: tutto si complica notevolmente. Non a caso, le teorie che si sono occupate di analizzare le competenze necessarie – o meglio i prerequisiti – per lo sviluppo della memoria autobiografica sono numerose e devono essere obbligatoriamente integrate tra loro per ricostruire un background rilevante. Da un lato, la self-recognition theory, denominata anche cognitive self perspective. La teoria postula che il senso di embodiment sia fondamentale per consentire ai bambini di percepirsi come attori delle singole esperienze, ovvero di sviluppare la dimensione del “me”, prerequisito inderogabile per l’attività mnemonica autobiografica. Secondo Howe e colleghi, infatti, l’abilità di ricordare eventi personali non può costituirsi prima dell’avvento del noto sense of self – misurato attraver-
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so test quali quello dello specchio – solitamente ben affrontato a partire dal secondo anno di vita (Howe, Courage, Edison 2003, pp.472-474). L’abilità di riconoscersi sembrerebbe presentarsi come uno step fondamentale che consente ai bambini di codificare e immagazzinare i ricordi come personali, ovvero come qualcosa che è accaduto al “me”. Insomma, si tratterebbe di una questione di competenza neurocognitiva: le abilità di self-recognition influenzerebbero senza dubbio la capacità di taggare i ricordi come personali. Al tempo stesso, se è vero che il sapersi riconoscere è la base imprescindibile della memoria autobiografica, è altrettanto vero che ancora più importante è la consapevolezza relativa alla permanenza del Self nella dimensione passata e presente, la quale si sviluppa non prima dei quattro anni. Sarebbe a dire, se nei primi mesi di vita i neonati si riconoscono in quanto la dimensione del “me” sembra essere già sviluppata, la dimensione dell’I – inteso come attore self-conscious– si perfeziona dai primi anni di scuola dell’infanzia in avanti. D’altronde, questo processo è ben segnalato dall’utilizzo di self-referential words e dall’espressione di stati emotivi che richiedono l’auto-percezione quali l’orgoglio, la gelosia e l’imbarazzo. Non a caso, è solamente da questo momento in avanti che i bambini sono portati – spontaneamente – a considerare e a valutare le esperienze vissute in prima persona (McAdams 2013, p. 275). Dall’altro lato, le integrated theories. Secondo un approccio socioculturale nel quale si inseriscono studiose come Robyn Fivush e Katherine Nelson, la memoria sarebbe modellata dalla complessa interazione tra fattori biologici, cognitivi, linguistici e al tempo stesso, sociali (Nelson, Fivush 2004, pp. 489 ss.) (figura 1). Nel dettaglio, se il primo step evolutivo riguarderebbe –
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similmente alla teoria precedente – lo sviluppo del cognitive self, ovvero della capacità di riconoscere il proprio ruolo nelle esperienze vissute dal secondo anno di vita in avanti, il secondo step dipenderebbe strettamente dalle abilità di mind reading. Se nei bambini più piccoli, infatti, la event memory sembra fare riferimento alla dimensione del “knowing” (ovvero alla capacità di riconoscere che qualcosa è accaduto), dai quattro anni comparirebbe la dimensione del “remembering” che consente loro di riconoscersi come agenti intenzionali dell’esperienza, ovvero di valutare il significativo collegamento tra azioni, stati d’animo e motivazioni. Il successivo passaggio evolutivo riguarderebbe, invece, la già citata capacità di contestualizzare le esperienze vissute in prima persona grazie al supporto imprescindibile del linguaggio, inteso come strategia utile per la codifica efficace del materiale (Nelson, Fivush 2020, pp. 80-83). Infine, le interazioni sociali. Dai tre anni in avanti, gli adulti iniziano a coinvolgere i bambini in conversazioni relative a ciò che è accaduto in passato, le quali forniscono un modello utile per rendere l’esperienza significativa e per organizzarla in modo coerente a partire dall’aggiunta di motivazioni, obiettivi ed emozioni provate. È proprio questa riflessione che guiderà la costruzione del prossimo capitolo: la memoria si sviluppa sin dai primi anni di vita nelle interazioni con gli adulti di riferimento che ricevono alcune keywords prodotte dai bambini – riferite ad un evento già concluso – e costruiscono frameworks narrativi di riferimento. Come si vedrà, esiste una forte correlazione tra stile elaborativo adottato dagli adulti e struttura mnemonica e narrativa dei bambini: i caregivers che scelgono un approccio di tipo high elaborative – caratterizzato da domande open-ended – hanno bambini che in
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un futuro prossimo svilupperanno ricordi dettagliati e longer-lasting (Reese, Newcomb 2007, pp. 11531154). Cosa dedurne? Una notevole responsabilità per gli adulti di riferimento – professionisti educativi compresi – chiamati a intervenire quotidianamente a pieno titolo nel processo evolutivo mnemonico.
Figura 1. Elementi coinvolti nella costruzione della memoria autobiografica dal primo anno di vita ai sei anni in un’ottica socioculturale (Nelson, Fivush 2004, p. 490).
Se la memoria evolve gradualmente sin dai primi giorni di vita nel corso degli anni prescolari – e scolari – per ragioni cognitive, emotive e sociali, per quale motivo sia in età adolescenziale che nella tarda età infantile incontriamo notevoli difficoltà nel ricordare ciò che ci è accaduto prima dei tre anni? Eccola qui, la nota childhood amnesia che ci porta nel tempo a rimuovere completamente le esperienze vissute ad esempio nel corso dei primi mesi di scuola dell’infanzia. Patricia Bauer e colleghi (2007) chiedono ad un gruppo di partecipanti tra i sette e i dieci anni di recuperare ricordi che appartengono agli anni passa-
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ti a partire da cue words, ovvero da parole stimolo (ad esempio, matita oppure banco). La maggior parte delle situazioni autobiografiche recuperate appartiene ad un passato recente, ovvero ai mesi precedenti l’intervento sperimentale. Similmente, Van Abbema e Bauer (2005) realizzano uno studio mnemonico prospettico e chiedono ad un gruppo di bambini della stessa età di raccontare un evento accaduto all’incirca attorno ai tre anni: se i partecipanti di sette riescono a recuperare il 60% delle esperienze avvenute a quell’età, i bambini di nove riescono a richiamare in memoria solamente il 34%. Ben la metà. Per quale motivo? Da un lato l’ippocampo – fondamentale per la memorizzazione del materiale – deve attraversare un periodo di maturazione prima di agire al meglio e dall’altro, a tre e quattro anni i bambini non riescono ancora completamente a costruire coerenza attorno al ricordo a causa del mancato supporto verbale (Akers et al. 2014, p. 600; Morris et al. 2010, p. 539). Tutto ciò ostacola una codifica proficua, ma soprattutto una codifica duratura. A voler essere precisi, i bambini trascorrono la maggior parte del tempo non solo a ricordare ciò che hanno fatto e a condividerlo con gli adulti di riferimento, ma anche ad immaginarsi in coordinate spazio-temporali future. Se il ricordare eventi passati e l’ipotizzare eventi futuri decollano a partire da meccanismi neurocognitivi che attivano le medesime aree cerebrali, quale percorso evolutivo segue negli anni prescolari la capacità di immaginare ciò che non esiste, ovvero la capacità di proiettarsi in coordinate spazio-temporali venture? A fornirci una risposta esaustiva è Cristina M. Atance – docente di psicologia presso l’Università di Ottawa – partendo dal presupposto che per immaginare eventi personali inesisten-
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ti è necessario ricombinare dettagli che derivano dai ricordi passati. Se a tre anni i bambini costruiscono ipotesi autobiografiche future a partire dal cosiddetto semantic future thinking – ovvero dalla conoscenza generale rispetto a schemi d’azione prossimi – a quattro e a cinque iniziano a fare affidamento sul noto episodic future thinking che li porta a proiettare il Self in una dimensione “altra” rispetto al presente (Atance, Metlzoff 2005, pp. 342-343). Se ad un gruppo di bambini dai 3 ai 5 anni viene chiesto di immaginarsi all’interno di differenti setting in un futuro recente – quali la montagna, il mare – e di nominare alcuni oggetti che potrebbero essere particolarmente utili per le loro azioni, sono proprio i più grandi che riescono a collegare stati agentivi futuri al Self, ovvero alle loro intenzioni e motivazioni. Una riprova? Un bambino di cinque anni potrebbe selezionare come oggetto una borraccia ipotizzandosi in un ambiente marittimo in quanto potrebbe tornargli utile a causa della sete e del caldo. Recupero passato e proiezione nel futuro sembrerebbero, dunque, evolversi in modo graduale – e parallelo – attraverso una sorta di gemellaggio fondato a partire dal perfezionamento ininterrotto delle strutture cognitive coinvolte.
3. Fictional narratives matter: letteratura per l’infanzia e sintassi mnemonica Prima di documentare il passaggio dalla capacità di ricordare alla capacità di raccontare gli eventi autobiografici, una rapida ma irrinunciabile digressione. Torniamo per un attimo alle teorie cognitiviste e all’esistenza di una sintassi mnemonica caratterizzata da schemi – intesi come paradigmi semantici – e scripts
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– intesi come sequenze ordinate e dinamiche di azioni – che consentono ai soggetti di riconoscere le esperienze quotidiane e di attribuirvi significato. Ora, sappiamo per certo che questa peculiare grammatica mnemonica si sviluppa nella prima infanzia e si perfeziona solamente dai tre anni in avanti. Non è un caso, infatti, se fino ai cinque, i bambini incontrano alcune difficoltà di comprensione e produzione narrativa, scatenate dalla cosiddetta ipermnesia – intesa come eccesso di memoria nell’ordine della sintassi – e dalla nota amnesia – intesa come mancanza di memoria nell’ordine della semantica (Calabrese 2020, pp. 33 ss.). Secondo queste ricerche di natura gestaltica, appartiene alla narratività il compito di negoziare, arricchire e impreziosire la memoria autobiografica. Ecco perché da questo punto di vista le narrazioni – letterarie, filmiche o quotidiane – costituiscono palestre utili per addestrarci a interpretare il mondo secondo schemi convenuti oppure per consentirci di adeguare queste attese ai cambiamenti che incontriamo nella quotidianità. È senza dubbio la letteratura per l’infanzia ad assumersi questo onere – grazie alla sua struttura scriptica – in quanto permette ai bambini di leggere gli eventi autobiografici colmando le lacune informative attraverso l’integrazione di pensiero controfattuale, memoria semantica e memoria episodica (Calabrese 2018, pp. 46-47). Ad esempio, il complesso mondo delle narrazioni visive. Basti pensare ai cosiddetti picture books informativi che riassumono e propongono schemi d’azione appartenenti alla realtà che i bambini riconoscono, valorizzano e trasferiscono direttamente nella propria sintassi mnemonica. Si tratta solitamente di testi dedicati alla primissima infanzia che contengono un solo action pattern in ciascuna
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pagina. Stiamo parlando dei famosi testi scriptici che hanno nella maggior parte dei casi titoli esemplificativi quali “Tea va a scuola”, “Luca è arrabbiato”, “Chiara ha un fratellino” e così via? Certo che sì, ovvero dei materiali narrativi che presentano e contestualizzano le azioni quotidiane e che facilitano contemporaneamente l’evoluzione dei processi di framing e scripting, il processo di codifica e il futuro recupero. Tuttavia, si pensi ad un livello di complessità maggiore, ovvero allo sconfinato panorama delle visual narratives finzionali che propone ai giovani lettori articolate trame contenenti numerosi scripts che devono essere decifrati a partire dalla proficua interazione semioticamente redditizia di codice verbale e codice iconico. Ecco, dunque, da dove nasce la fortuna di autori e illustratori per l’infanzia contemporanei che – attraverso relazioni parole-immagini quasi sempre complementari e mai simmetriche – ricostruiscono semplici sequences of actions che raccontano la quotidianità di personaggi spesso della medesima età dei lettori. Nel picture book Sulla collina, ad esempio, ci viene presentata la storia idilliaca di due amici inseparabili – Uto e Leo – che giocano tutti i pomeriggi insieme con due semplici scatole di cartone sulla collina vicino a casa (Sarah, Davies 2015). Ad un certo punto del racconto – attraverso immagini contrassegnate da tonalità scure opposte alle precedenti – viene presentato il problema, il quale coincide con l’arrivo di un terzo bambino che rompe completamente gli equilibri esistenti. Samu – così si chiama il nuovo arrivato – diventa amico di Leo e di conseguenza, scatena la gelosia di Uto, sentimento negativo che lo porta a decidere di non voler mai più salire sulla collina. Le giornate proseguono monotone e infelici
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fino al momento in cui Leo e il nuovo amico costruiscono un imponente “razzo volante” con le tre scatole di cartone, azione risolutiva che convincerà Uto del fatto che un’amicizia a tre può riservare sorprese positive. E inaspettate. Ma quali meccanismi si attivano a livello cognitivo e mnemonico durante la lettura di un testo di questo tipo? L’albo illustrato chiede ai lettori di riconoscere innanzitutto l’esistenza di più scripts familiari tra i quali “intrattenere un legame di amicizia con un coetaneo” oppure “essere gelosi e sentirsi di conseguenza arrabbiati”. Per comprendere al meglio la narrazione, tuttavia, i bambini devono necessariamente integrare tra loro queste micro-sceneggiature attraverso opportuni link spazio-temporali e causali e al tempo stesso, devono attingere alla vasta bancadati che caratterizza la loro memoria autobiografica per riuscire ad attribuire significato alle azioni che si alternano nel plot. Un esempio? Devono riconoscere, attraverso una comparazione tra ciò che hanno letto e ciò hanno vissuto, che l’azione relativa alla scelta di isolarsi di uno dei protagonisti è scatenata dalla paura di perdere il legame di amicizia con l’amico di sempre. E come se non bastasse, per ricostruire un modello narrativo coerente, devono considerare gli indizi forniti dal visual code che specifica – e puntualizza – gli avvenimenti. È, in effetti, il colore scuro che compare in modo inatteso a specificare la drammaticità della scena. Sarebbe a dire, io lettore sono portato a riconoscere le azioni dei protagonisti, a comprenderle a partire dal confronto inarrestabile con le conoscenze già sedimentate nella mia memoria e a integrarle tra loro attraverso raffinati link crono-causali che sostengono il quotidiano operato cerebrale (Reed et al. 2016, p. 382). Insomma, una
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imprescindibile complessità cognitiva che porterebbe continuamente i lettori a ricombinare elementi autobiografici e finzionali per formulare ipotesi predittive, per integrare i percorsi neuronali e per creare modelli di comprensione dell’agire quotidiano. Ma c’è dell’altro. Narrazioni finzionali di questo tipo – a partire dal noto meccanismo di identificazione – sostengono l’evoluzione delle già citate abilità di mind reading, anch’esse necessarie per il perfezionamento graduale della sintassi mnemonica. Basti pensare all’albo illustrato pubblicato dallo stesso autore, La balena della tempesta (Davies 2015). Il protagonista della storia questa volta è Nico, un bambino che vive con il suo papà e sei gatti in una casa sperduta in riva al mare. Una mattina – dopo una lunga tempesta notturna – esce sulla spiaggia e trova una piccola balena portata fin lì dall’acqua. Il protagonista cercherà di aiutarla trasportandola – con un carrettino identificato come oggetto causale – nella sua vasca da bagno e stringendo con lei un rapporto di amicizia. C’è però un tuttavia. Al rientro da lavoro, il papà spiega a Nico che devono – obbligatoriamente – riportare l’animaletto nel suo habitat naturale. L’autore dell’albo sembra essere consapevole della proficua interazione che lega indissolubilmente le conoscenze autobiografiche alla capacità di comprendere gli stati emotivi altrui, ovvero di leggere le loro emozioni. Infatti, proseguendo gradualmente nella lettura del testo, i bambini sono portati a ipotizzare i link causali che collegano un’azione alla successiva e un’azione a una specifica intenzione dei personaggi: nelle due double pages qui riportate, ad esempio, devono riconoscere che l’azione relativa alla “scelta di trasportare la balena con un piccolo carretto” è collegata alla preoccupazione del
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protagonista – testimoniata dalle sue parole “Devo fare presto!” – la quale deriva a sua volta dalla consapevolezza semantica che un animale marino non può rimanere per molto tempo fuori dal mare. Anzi, non può rimanerci affatto (figure 2 e 3). Chiaramente, le abilità collegate alla Teoria della Mente sono sostenute in modo peculiare dal linguaggio iconico che garantisce un’esperienza immersiva a livello fisiologico a partire dalla simulazione incarnata delle azioni (Calabrese, Conti, Broglia 2021, p. 110). Pertanto, io lettore devo identificarmi nei protagonisti a partire dalle loro espressioni facciali – e dagli indizi visivi quali le scelte cromatiche – devo comprendere le intenzioni e motivazioni che muovono le loro azioni inferendole dalle mie conoscenze e successivamente devo costruire un modello neuronale corrispondente. È del tutto evidente che per fare ciò, le conoscenze semantiche autobiografiche si integrano ancora una volta completamente al pensiero controfattuale, alla base della capacità di simulare la realtà da un altro punto di vista. Un altro esempio? Nella prima doppia pagina citata (figura 2), Nico manca completamente di un’espressione facciale specifica, eppure il lettore dai quattro anni in avanti è portato – senza nessuna difficoltà – a comprendere la sua preoccupazione grazie all’integrazione di più indizi, ovvero dell’espressione triste dell’animaletto e delle conoscenze autobiografiche già sedimentate nella propria memoria semantica (che gli ricordano che la vita di una balena è decisamente a rischio fuori dall’acqua). Decodificare, riconoscere i collegamenti tra azioni, stati d’animo e intenzioni a partire dal visual code e trasportarli nella propria sintassi mnemonica autobiografica? Nulla di più complesso per un bambino in età prescolare e scolare.
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Figure 2, 3. Doppie pagine tratte dall’albo illustrato La balena della tempesta (Davies 2015).
Ora, i meccanismi cognitivi e mnemonici in oggetto vengono coinvolti e chiamati in causa anche nel momento in cui abbiamo a che fare con brevi narrazioni filmiche, quali i cartoni animati. Si pensi a Peppa Pig – cartoon prodotto dalla Astley Baker Davis Production – che ha come protagonista una maialina di quattro anni antropomorfa che racconta
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la sua quotidianità attraverso brevi action episodes co-realizzati grazie alla partecipazione di altri animali appartenenti alla cerchia familiare oppure amicale (come il fratellino George e la migliore amica Suzy Pecora) (Mangiapane 2018, pp. 3-4). Perché bambini in età prescolare sembrano essere così attratti da materiali narrativi di questo tipo? Encore une fois, la risposta ha a che vedere con la possibilità di riconoscere schemi e scripts autobiografici familiari a partire dai materiali finzionali e con la possibilità di comprendere – e pianificare – i propri eventi quotidiani attraverso il processo di simulazione. Un meccanismo tanto semplice, quanto sofisticato per i bambini dai tre ai sei anni. L’episodio Peppa’s Christmas, ad esempio. In occasione del Natale, la protagonista compie una serie di azioni che sono semanticamente coerenti con lo script mnemonico “il giorno della vigilia”. All’inizio della vicenda, imbuca la letterina dei regali insieme ai suoi amici, si reca a comprare l’albero con i suoi genitori e lo decora con palline e luci colorate ed infine, si mette a letto la sera in attesa dalla mattina successiva. Il tutto corredato, ovviamente, da una sensazione di inquietudine positiva dovuta all’attesa di Babbo Natale e dei suoi regali. A livello narratologico, dunque, incontriamo vari scripts accostati tra loro attraverso semplici collegamenti spazio-temporali: sarebbe a dire ciascuna azione è ben separata dalla successiva sia a partire dal setting differente sia dal momento della giornata di riferimento (se la letterina viene imbucata di mattina vicino all’ufficio postale, l’albero viene comprato al pomeriggio quando il buio è già calato). Certo che sì, per sostenere il processo di comprensione, la distinzione tra le varie micro-sceneggiature – e la scomposizione del flusso
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esperienziale in più parti – è sostenuta dalle scelte collegate al visual: le azioni che si svolgono con il cielo azzurro avvengono di giorno, mentre le azioni che si avviano con uno sfondo scuro accadono la notte. Al tempo stesso, se è vero che i principali collegamenti proposti riguardano lo spazio e il tempo, è anche vero che sembrano emergere i primi link di tipo causale tra le varie azioni dello script considerato: dopo aver intravisto Babbo Natale passare fuori dalla finestra, Peppa è particolarmente agitata e non riesce più a prendere sonno. Non da ultimo, per semplificare maggiormente la rielaborazione del materiale, gli autori sembrano affidarsi al meccanismo narratologico agent-patient, secondo il quale di una scena riportata in una narrazione visiva sequenziale memorizziamo immediatamente colui che svolge l’azione (Cohn, Pazcynski 2013, pp. 75-76). Difatti, in tutti gli scripts del cartone, i protagonisti compiono azioni e raramente le subiscono. Il pubblico infantile sembra essere particolarmente attratto anche dall’originale serie animata Bing, realizzata dagli studi britannici di Acamar Films, che racconta di un coniglietto in età prescolare che nel corso di ogni episodio affronta sfide che sembrano alla sua portata, ma che in realtà spesso si rivelano complesse. Analizziamo brevemente alcune caratteristiche narratologiche a partire da un episodio che calza a pennello con la situazione di pandemia da Covid-19 nella quale ci troviamo. Una mattina, Bing si alza per recarsi a fare il vaccino nell’ambulatorio della città e compie alcune azioni in una sequenza temporale ordinata che contraddistinguono l’esperienza: prende con sé il suo pupazzo per farsi coraggio prima di uscire di casa, chiude gli occhi quando la dottoressa si avvicina al braccio ed infi-
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ne, esce sorridente dicendo agli amici di non temere nulla attraverso interazioni verbali quali “Mi ha fatto meno male di quanto pensassi!”. Abbiamo a che fare con una serie di azioni generiche – connesse tra loro da link primitivi – che sostengono la comprensione dello schema mnemonico autobiografico di riferimento. Se è vero che i meccanismi mnemonici autobiografici coinvolti sono i medesimi dei quali si è già parlato, è anche vero che in questo caso viene presentato un evento considerato stressante e traumatico dalla platea infantile, ovvero una procedura medica. Pertanto, in questo caso, sempre a partire dal noto meccanismo di identification, i bambini sono chiamati ad immedesimarsi nei personaggi, a riconoscere certamente le azioni che caratterizzano gli scripts, a trasportarle nella propria realtà e al tempo stesso, a sperimentare in modo vicario – in un ambiente sicuro – le difficoltà emotive di riferimento (Mar, Oatley 2008, pp. 174-178). Ebbene sì, in questo caso si tratta di simulare per acquisire strategie di coping che saranno – sans aucun doute – recuperate al momento del bisogno.
4. I bambini si raccontano: le fasi dello sviluppo narrativo Torniamo ora al percorso evolutivo di memoria e narrazione autobiografica. È del tutto evidente che esiste un’imprescindibile correlazione tra le due abilità. Effettivamente, la narrazione sembra essere il format attraverso il quale la memoria può esprimersi e lo strumento che consente ai soggetti di spiegare perché un evento è considerato significativo per la propria persona. Il ricordare prende forma nel
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narrare e viceversa. O meglio, la narrazione aiuta la memoria a conquistare i suoi obiettivi, ovvero a codificare materiali significativi per il Self (Fivush 2008, p.50). Ebbene, sin dai tempi di Jerome Bruner, sappiamo che le due competenze cognitive sono linkate da un legame di interdipendenza: quando raccontiamo un ricordo aggiungiamo interpretazioni, attribuiamo significato e creiamo connessioni con la nostra immagine (Smorti 2018, p. 84; Habermas, De Silveira 2008, p. 3). Il punto è questo. Le tracce mnestiche sono inseparabili dagli interessi, dall’immaginazione, dalle motivazioni. Non a caso, il raccontare le esperienze personali passate è un’attività che pervade – completamente – la nostra interazione sociale quotidiana: nel corso delle consuete conversazioni serali nel momento della cena tra genitori e bambini, ad esempio, i riferimenti ai past events ricorrono dalle cinque alle sette volte in una sola ora (Fivush, Haden, Reese 1996, p. 341). Arrivati a questo punto della riflessione, è dunque lecito chiedersi come la narrazione autobiografica si sviluppa nel corso del periodo infantile. Come narrativizzano le esperienze personali bambini di cinque e oppure di dieci anni? Quali requisiti strutturali e contenutistici caratterizzano i resoconti realizzati nei contesti educativi per la prima infanzia? Procediamo con cautela. La capacità di narrare gli eventi personali emerge nel corso degli anni prescolari durante i quali – grazie ai numerosi stimoli forniti sia in ambito domestico che in ambito educativo – i bambini hanno la possibilità di condividere i ricordi costruendo i già citati frameworks esplicativi. Come accennato precedentemente, il ruolo dell’adulto sembra essere fondamentale in questo periodo in quanto – attraverso le strategie del modeling e dello
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scaffolding – consente ai bambini di acquisire tracce narrative necessarie per iniziare ad attribuire significato alla realtà (Fivush 2001, pp. 566-567). Sarebbe a dire, l’arte dello storytelling sembra trasmettersi dai genitori – e più in generale dai caregivers – ai bambini, i quali sono sollecitati in più contesti a raccontare eventi vissuti in prima persona. D’altronde, sappiamo bene che le pratiche narrative autobiografiche caratterizzano tutte le quotidianità educative: si pensi al momento dell’assemblea mattutina nella scuola dell’infanzia nel corso della quale gli insegnanti chiedono ai partecipanti di condividere verbalmente un ricordo relativo ad un evento accaduto nei giorni precedenti. Per intervenire in modo efficace e sostenere lo sviluppo mnemonico e narrativo, è dunque necessario riconoscere le principali tappe evolutive che contraddistinguono i racconti personali. Ebbene, le sofisticate abilità di emplotment – o messa in intreccio – sembrano sopraggiungere all’età di tre e quattro anni, quando i bambini per raccontare gli eventi personali non nominano più solamente gli agenti presenti nel corso dell’evento riportato – ad esempio, loro stessi – ma operano le prime riscritture temporali e causali cercando di “pinzare” la narrazione tra un inizio e una fine ben definiti. Proprio così, la prima strategia che guida la costruzione narrativa autobiografica coincide con la scelta degli agenti principali e con l’aggiunta di alcuni schemi d’azione in un ordine temporale che può essere riassunto tra un momento iniziale e un momento finale (Calabrese 2019, p. 18). Ecco il segreto dello storytelling nei primi anni di vita. Prima gli agenti e poi le azioni che avvengono puntualmente in uno specifico ordine temporale – anche se
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confusionario – che funge da leitmotiv. Beninteso, in questi resoconti ci sono cose che accadono in un intervallo temporale prossimo, mentre mancano completamente le intenzioni e le complessità emozionali. Insomma, abbiamo a che fare con veri e propri action movies autobiografici che rispondono alla domanda “Cosa ho fatto?”, nei quali – come nei testi fiabeschi – tutto è esteroflesso e si realizza solamente nel momento in cui accade. Al tempo stesso, se adottiamo un criterio strutturale – delineato da autori come Labov e Waletksy – possiamo facilmente notare come nel corso dell’intero periodo infantile i bambini si avvalgono del supporto di un approccio di tipo valutativo. Sarebbe a dire, dopo aver selezionato un evento, tendono a ripercorrerne lo svolgimento partendo da un problema ed approdando alla relativa soluzione. Vediamo un esempio concreto. Un bambino di otto anni per raccontare una visita all’ospedale effettuata nei giorni precedenti si potrebbe focalizzare in un primo momento sull’azione principale che ha scatenato l’evento – ad esempio, una caduta – e successivamente sulle azioni che hanno condotto allo scioglimento (“Stavo andando in bicicletta, sono caduto, mi sono fatto molto male: poi sono arrivati i miei genitori, mi hanno aiutato ad alzarmi e mi hanno portato all’ospedale”). E ancora. Le prime narrazioni autobiografiche – che caratterizzano l’intero periodo prescolare e scolare – sono strutturate a partire da una coerenza di tipo locale: ciascun evento sembrerebbe essere narrato in modo separato rispetto agli altri. E non solo. Di un’esperienza, i bambini tenderebbero a mettere in evidenza un singolo script, ovvero un’unica micro-sceneggiatura in quanto la capacità di integrazione spazio-temporale è ancora in via di
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sviluppo. Per questa ragione, nei primi anni di vita per un bambino potrebbe essere complesso raccontare l’origine della sua famiglia, ovvero riassumere il come i genitori si sono conosciuti e il come hanno deciso di unirsi in matrimonio prima della sua nascita. Poniamo il caso che i genitori si siano incontrati nel corso degli studi universitari e abbiano successivamente deciso di fidanzarsi e sposarsi. Evento autobiografico decisamente difficoltoso da riferire per un bambino di sette anni in quanto la rielaborazione narrativa chiede di integrare due scripts differenti che riguardano rispettivamente il “periodo universitario” e la “realizzazione della famiglia”. La difficoltà di costruire connessioni tra eventi autobiografici – e dunque tra differenti schemi mnemonici – è ben evidente nel resoconto qui riportato di un bambino di otto anni, il quale alla richiesta “racconta la tua vita” risponde costruendo un elenco di azioni che fanno riferimento ad attività significative vissute in prima persona nel corso del tempo. Sarebbe a dire, attraverso un ordine tendenzialmente arbitrario, il bambino riporta alcuni single events senza collegarli in nessun modo né tra loro né alla sua persona (figura 4): dice di ricordare quando ha imparato a scrivere e a contare, il primo giorno di scuola e addirittura il primo ricovero ospedaliero, senza contestualizzarli in nessun modo in specifiche coordinate spazio-temporali (Fivush et al. 2011, p. 330). Insomma, un vero e proprio trionfo della coerenza locale che cederà il posto alla coerenza globale – la quale riflette la capacità di creare connessioni significative tra i vari eventi della vita – solamente nel periodo adolescenziale. Abbiamo evidentemente a che fare con un software neurocognitivo con portata limitata che consente
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ai bambini di considerare – e raccontare – un solo evento alla volta.
Figura 4. La coerenza locale e la mancata integrazione di più scripts nella narrazione autobiografica di un bambino di otto anni (Fivush et al. 2011, p. 330).
Emblematica a tal proposito l’analisi di Tilmann Habermas e del suo gruppo di ricerca dell’Università di Francoforte, che si pone come obiettivo quello di approfondire lo sviluppo narrativo autobiografico infantile – che culmina nella realizzazione della nota lifestory – attraverso quattro tipologie di coerenza, le quali sarebbero collegate a puntuali scelte narratologiche (Habermas, Bluck 2000; Habermas, De Silveira 2008) (tabella 1). Innanzitutto, la coerenza temporale. Nel corso della scuola dell’infanzia e del-
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la scuola primaria, i bambini costruiscono resoconti autobiografici a partire da accurati collegamenti tra le azioni che avvengono “prima” e le azioni che avvengono “dopo”. Già a tre anni sono in grado di ordinare eventi riferiti alla propria quotidianità (ad esempio, ciò che fanno durante la mattina a scuola) e dai sei anni in avanti riescono a selezionare singoli eventi relativi a periodi recenti (ad esempio, ieri oppure l’estate scorsa). E ancora, verso gli otto iniziano a costruire resoconti relativi a momenti di vita significativi e peculiari, quali ad esempio il Natale. È solamente, però, dall’inizio della scuola secondaria di primo grado – ovvero dai dodici anni in avanti – che si sviluppa la capacità di connettere all’interno della stessa narrazione più momenti di vita grazie all’irrinunciabile supporto dei connettori temporali. Ebbene sì, fino al termine della scuola primaria, i bambini selezionano un evento – ad esempio il loro ultimo compleanno – e lo raccontano a partire dalle azioni principali che si sono svolte in un particolare assetto temporale (che non sempre coincide con quello reale, quanto piuttosto con quello percepito). Se prima hanno aspettato gli amici a casa, successivamente hanno giocato con loro, spento le candeline sulla torta e infine aperto i numerosi regali ricevuti. Detto in una sola parola? Agenti, azioni e riscritture temporali tendenzialmente vicine al momento presente governano senza rivali la produzione narrativa. Successivamente, la coerenza culturale. Attorno ai nove anni, i bambini iniziano a valutare – spesso in modo implicito e inconsapevole – gli schemi e gli scripts autobiografici proposti dalla cultura di riferimento e diventano consapevoli del fatto che gli eventi di transizione salienti devono avvenire in un determinato momento storico (se il primo amore può pre-
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sentarsi nei primi anni dell’adolescenza e non prima, il matrimonio caratterizza la vita dei soggetti nella prima età adulta). Non a caso, il resoconto autobiografico di un bambino di undici anni può essere paragonato ad un curriculum vitae con tanto di riferimenti alle azioni vissute e alle età considerate. Sarebbe, dunque, il cultural life script a guidare la narrazione autobiografica da quest’età in avanti: abbiamo a che fare con un template di origine semantica che consente ai bambini non solo di organizzare i ricordi passati, ma anche le prime aspettative relative al futuro (Bohn 2010, p. 23). Si è visto, infatti, che quando interrogati circa gli eventi importanti della vita, i bambini di dieci anni tendono a nominare esperienze in accordo con lo script culturale di appartenenza. In un intervento sperimentale, Annette Bohn e Dorthe Berntsen – docenti di psicologia presso l’Università di Aarhus – intervistano centoventi partecipanti in età scolare per comprendere l’evoluzione della coerenza culturale (Bohn, Berntsen 2008, pp. 1138 ss.). Come possiamo aspettarci, quest’ultima dipende strettamente dal suo predecessore, ovvero dalla coerenza temporale: più la macrostruttura della narrazione è ben organizzata a livello temporale, più vengono inseriti riferimenti ai cultural scripts. Al termine della scuola primaria, ad esempio, i bambini tendono a raccontare la propria vita iniziando dalla nascita – ovvero dalla prima azione che caratterizza la loro esistenza – e terminando nella dimensione presente oppure con i primi riferimenti alle intenzioni future. Una riprova? Una bambina di nove anni, quando interrogata circa la sua esperienza di vita, racconta di voler diventare presto una teenager e di voler studiare per acquisire il titolo di parrucchiera. Prosegue poi mettendo in evidenza la volontà di sposarsi, di avere dei bambini e infine, di
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andare in pensione (figura 5). Nel caso degli eventi autobiografici immaginati – che riguardano ovvero la proiezione verso il futuro – i bambini fanno maggiormente riferimento alla semantic knowledge in quanto riescono a ipotizzare solamente caratteristiche generali delle esperienze di vita in linea con gli scripts culturali (Bohn, Berntsen 2013, p.8). Il template narratologico è dunque ancora lo stesso, con l’aggiunta dei riferimenti culturali che contestualizzano – in modo indiretto – le azioni citate. Et voilà: agenti, azioni e riscritture temporali culturalmente definite. I will get older and become a teenager. And I want to study to be a hairdresser. I want to get married and have some sweet children and when I get older, grandchidren. And when I am 65 I will retire. And at some point I will die. That is what I think will happen in my future life. Figura 5. La narrazione autobiografica di una bambina di nove anni che testimonia l’evoluzione della coerenza culturale e la comparsa delle intenzioni future (Bohn, Berntsen 2013, p. 3).
Al contrario, la coerenza causale e la coerenza tematica – che consentono ai narratori di iniziare a costruire collegamenti tra i vari eventi di vita – sembrano svilupparsi solamente nel periodo adolescenziale. Cosa dedurne? Per una risposta più puntuale, seguiamo la teoria dello sviluppo psicosociale messa a punto da Erikson nel secolo scorso (1968): in questa prospettiva, l’adolescenza è da intendersi come la quinta tappa del percorso di vita nel corso della quale emerge – pour la première fois – la questione della definizione identitaria che ha a che vedere con l’acquisizione di nuovi ruoli e compiti all’interno del contesto di appartenenza. Da un lato, dunque, le motivazioni
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socioculturali portano i ragazzi a integrare le numerose caratteristiche personali in una configurazione strutturata che sia in grado di fornire uno scopo unitario all’esistenza. Beninteso, richieste sociali di questo tipo portano gli adolescenti a sviluppare il proprio Self sia in una direzione sincronica, ovvero a percepirsi diversamente nei contesti di vita (“Quando sono con mio padre sono spesso triste, mentre quando sono con i miei amici sono ottimista”) sia in una direzione diacronica, ovvero a differenziare le caratteristiche personali in base al periodo (“Quando ero piccolo ero cristiano, ma adesso sono diventato ateo”). Ecco la comparsa dell’indispensabile connubio tra narrazione e identità, o meglio della narrative identity, ovvero di un’identità integrata, coerente e flessibile che consente ai soggetti di percepire un senso di self-sameness nel tempo grazie ai resoconti narrativi. Dall’altro lato, è proprio in questo periodo che si sviluppa il pensiero operativo formale, considerato la competenza cognitiva principale che sostiene l’evoluzione delle abilità ipotetico-deduttive, la creazione di scenari ipotetici e la comparsa delle abilità di astrazione (McAdams 2001, p. 106). Ma vediamo cosa accade a livello narratologico. In questa fascia d’età compaiono per la prima volta i ragionamenti interiori dei narratori che sono alla base delle rispettive actions: per questo motivo, dai quattordici anni circa in avanti, gli avvenimenti personali vengono narrati seguendo un ordine temporale che viene interrotto a più riprese per prestare attenzione a considerazioni di tipo psicologico (ad esempio, un ragazzo di quest’età potrebbe raccontare di se stesso inserendo un flashback relativo ad un evento negativo che gli consente di spiegare la sua personalità presente). Si tratterebbe di un meccanismo crucia-
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le: per la prima volta la dimensione esteriore viene mescolata con le disposizioni interiori per dare vita a complessi intrecci che collegano il passato al presente e a intrecci predittivi che consentono ai soggetti di simulare situazioni di vita future. Beninteso, questo sofisticato congegno narrativo sembra avere profonde implicazioni a livello mnemonico. Studi effettuati con soggetti in età adulta testimoniano l’esistenza del processo conosciuto come reminiscence bump: sarebbe a dire, quando interrogati circa i principali ricordi autobiografici della propria vita, gli individui selezionano eventi che appartengono al periodo adolescenziale. Tutto torna: i ricordi in oggetto sono considerati particolarmente significativi a livello identitario e per questo motivo sostengono la creazione di una traccia mnemonica stabile e al tempo stesso, l’indispensabile capacità di costruire coerenza sostiene l’integrazione del materiale in frameworks narrativi significativi che garantiscono il futuro recupero (Habermas, De Silveira 2008, pp. 2-3). Nel periodo adolescenziale, dunque, gli agenti narrativi non compiono più solamente azioni, ma acquisiscono intenzioni e motivazioni, ovvero diventano personaggi round, con una complessità interiore. E non è tutto: azioni e intenzioni vengono per la prima volta collegate attraverso sofisticati ragionamenti causali che si aggiungono alle riscritture temporali che hanno guidato la narrazione fino a questo momento. D’ora in poi, ad una causa seguirà sempre un effetto coerente e quando questo non accadrà (perché le componenti contestuali lo impediranno) i narratori saranno portati ad effettuare digressioni attraverso peculiari espedienti narrativi – come i flashbacks e i flashforwards – che consentiranno di attribuire significato alle difficoltà incontrate. Non a caso, è proprio
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in questo periodo della vita che nelle narratives autobiografiche compare l’atteggiamento meta-riflessivo che porta i soggetti a riflettere sulle proprie esperienze attraverso avanzate strategie linguistiche come l’utilizzo dei verbi di opinione e attraverso il modo della possibilità (“credo, penso, è probabile che”). Enfin, dai sedici anni circa si sviluppa anche la capacità di stabilire connessioni tematiche tra diversi eventi personali, la quale deriva da competenze cognitive quali il saper interpretare le esperienze e il compiere ipotesi relative al proprio operato nel mondo. Riassumere il passato per motivare il presente e per prevedere il futuro. Ecco la ragion d’essere della coerenza tematica. Ebbene, i soggetti – dopo aver sviluppato nel periodo infantile le diverse tipologie di coerenza – iniziano alle soglie dell’adolescenza a dare una forma ai propri ricordi e a renderli significativi collegandoli alla propria figura e alla propria identità. La lifestory coinciderebbe, dunque, con l’organizzazione coerente di narrazioni singole che sono per la prima volta integrate tra loro per simboleggiare e testimoniare l’evoluzione identitaria del narratore. Insomma, una rappresentazione soggettiva del course of life contemporaneamente remembered, reflected e narrated che aggiungerebbe una dimensione diacronica alla personalità consentendo ai narratori di contestualizzare gli eventi passati nella dimensione presente e di integrarli con il proprio Self (McAdams 2001). A livello narratologico, abbiamo a che fare dunque con l’integrazione di differenti coordinate spazio-temporali e con continue connessioni tra attori, accadimenti esterni e predisposizioni interiori.
Ricordare e raccontare Infanzia (0- 11 anni) Che evento ho vissuto?
51 Trasmissione dell’arte dello storytelling. Attraverso strategie – quali il modeling e lo scaffolding – i bambini attribuiscono significato ai propri ricordi personali a partire dalle tracce narrative fornite dai caregivers. Coerenza locale. Capacità di narrare un singolo episodio alla volta tramite la struttura narrativa “problema-risoluzione”, ovvero tramite una prospettiva valutativa che non consente di integrare più scripts. Le abilità di emplotment: gli agenti e le azioni. I primi elementi che compaiono a livello narratologico sono gli agenti e le relative azioni (resoconti action-based). Riscritture temporali (“prima” e “dopo”). I primi collegamenti tra le azioni che emergono nel periodo infantile sono di tipo temporale e mettono in evidenza quali azioni accadono “prima” e quali “dopo”. Scripts culturali. Dai nove anni, le azioni iniziano ad essere inserite all’interno di copioni culturali che forniscono informazioni circa le coordinate spazio-temporali di riferimento.
Creazione della lifestory e collegamenti identitari. Dai dodici In che modo il passato ha influen- anni in avanti, gli adolescenti rezato il presente? In che modo le alizzano connessioni tra più evenesperienze che ho vissuto hanno ti che appartengono a differenti dimensioni temporali e al tempo influenzato il mio Self? stesso, tra gli eventi e le proprie caratteristiche identitarie. Adolescenza (dai 12 anni)
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Dalla local coherence alla global coherence. Raccontare gli eventi autobiografici nel periodo adolescenziale significa connettere più situazioni di vita, ovvero più schemi e scripts. Azioni esteriori e disposizioni interiori. In questa fascia d’età, emerge la capacità di spiegare le proprie azioni a partire dalle intenzioni e dalle motivazioni (gli agenti acquisiscono una complessità interiore). Sviluppo della coerenza causale. Dai dodici anni si sviluppa la capacità di creare connessioni tra cause e conseguenze (eventuale utilizzo di strategie narratologiche compensatorie come i flashbacks e i flashforwards). Sviluppo della coerenza tematica. I narratori sono in grado di selezionare tematiche significative a livello identitario e di interpretarle, riassumerle in base agli obiettivi della dimensione presente. Tabella 1. Lo sviluppo narrativo nel corso del periodo infantile e dell’adolescenza.
5. Self autobiografico e competenza narrativa Un fatto è certo. Senza narrazioni autobiografiche non saremmo in grado di attribuire significato alle nostre esperienze. Ma come si sviluppa il Sé in grado di auto-raccontarsi? Come si percepiscono – e come si descrivono – i narratori nelle diverse fasce d’età? A
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fornirci una risposta puntuale è questa volta lo psicologo sociale Dan P. McAdams che riconosce nello storytelling una caratteristica essenziale della natura umana che consente ai soggetti di rispondere alla fatidica domanda da un milione di dollari: “Chi sono io?” (McAdams 2001). Secondo lo studioso, il Self autobiografico – perlomeno nel mondo europeo e nordamericano – si sviluppa in tre differenti fasi evolutive e può, dunque, assumere tre ruoli alla base di altrettante modalità di comprensione della realtà (McAdams 2013, pp. 274 ss.) (tabella 2). Iniziamo con il primo step, la fase dell’attore. Nel periodo infantile – dai due e dai tre anni in avanti – i bambini tendono a concepirsi in termini di prestazioni e ruoli sociali in un determinato contesto di appartenenza e soprattutto all’interno della dimensione presente. In altri termini, si considerano attori che agiscono nel perimetro temporale del “qui e ora”. In effetti, le narrazioni autobiografiche costruite in questo periodo della vita contengono riferimenti ai tratti caratteriali e alle azioni considerate maggiormente significative – e idonee – a partire dal confronto con gli altri soggetti. Una vera e propria observation of social performance che guida l’auto-percezione e le scelte comportamentali. Una narrazione che esemplifichi questo primo step autobiografico? Se chiediamo ad una bambina di quattro anni di descriversi, ci dirà che abita in una casa bianca, che ha i capelli marroni e gli occhi verdi, che le piacciono le lasagne e che è molto timida e gentile. Similmente, una bambina di otto anni racconterà di essere particolarmente spontanea, una brava ascoltatrice, terribile in matematica e felice quando gioca con le sue amiche. Se i bambini più piccoli si descrivono attraverso azioni
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specifiche e concrete, i più grandi – nel corso della scuola primaria – iniziano ad inserire tendenze disposizionali che riassumono general trends comportamentali. E ancora. Dai sette e dai nove anni e fino ai quattordici, i bambini iniziano a comprendere che le loro azioni possono essere mosse – e motivate – da intenzioni e obiettivi: si avvia così lo stadio narrativo dell’agente che consente ai soggetti di percepirsi come self-determined. Essere agenti autobiografici significa essere in grado di collegare i tratti sociali e caratteriali – emersi nella fase precedente – a opportune motivazioni, speranze e paure considerando come campo d’azione anche ciò che sarà, ovvero la dimensione futura. Dalla selfregulation alla self-esteem: un ragazzo di dodici anni potrebbe raccontare di essere particolarmente bravo a giocare a basket e di sperare di diventare in futuro uno sportivo famoso. Eccoli qui, i famosi life projects che rispondono a domande quali “Cosa vorrei diventare in futuro?”. Sarebbe a dire, in questo periodo della vita emergono le prime intenzioni che portano i bambini a simulare schemi futuri e a proiettarsi in una dimensione “altra” rispetto alla quotidianità attraverso il coinvolgimento del cosiddetto episodic future thinking. Se i tratti comportamentali e temperamentali che caratterizzano la fase dell’attore rimangono stabili nel tempo, i piani e gli obiettivi – emersi nella fase dell’agente – si modificano quotidianamente a partire dalle esigenze contestuali e dagli interessi personali. Infine, dai quindici anni in avanti, gli adolescenti si descrivono adottando il format narratologico dell’autore autobiografico che li porta a considerare contemporaneamente più dimensioni temporali. In questo periodo della vita i soggetti ricostruiscono il
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passato riferendosi contemporaneamente anche al presente e al futuro con l’obiettivo di stabilire self-continuity. “Come posso essere lo stesso di ieri anche oggi e domani?”: in questa terza fase entra in gioco il noto autobiographical reasoning il quale coincide con un set di operazioni interpretative che consente agli individui di compiere inferenze riguardo al significato della vita e di identificare turning points che contraddistinguono la propria identità. I soggetti diventano in grado di selezionare gli eventi considerati maggiormente esemplificativi, di ricostruire gli episodi di vita attraverso sequenze causali e di illustrare al mondo la crescita personale nel tempo. Un adolescente di vent’anni, ad esempio, potrebbe raccontare di essere un ingegnere dicendo che ha scelto di intraprendere questa professione quando era piccolo nel momento in cui ad un campo estivo ha avuto la possibilità di esplorare ed aggiustare un computer. Proprio così: i miei eventi passati spiegano sia ciò che sono adesso sia ciò che vorrei diventare in futuro. Ora, è però bene ricordare che i tre stadi non si interrompono – e non si intercambiano – in modo automatico e irreversibile: al contrario, permangono nel corso della vita consentendo ai soggetti di auto-descriversi in modo sempre più sofisticato integrando ruoli sociali, progetti futuri e lezioni tratte dal passato. A tal proposito, è inevitabile un’ulteriore rapida digressione. Come si vedrà nel prossimo capitolo, le tre fasi autobiografiche sono strettamente influenzate dalla cultura di appartenenza. Sarebbe a dire, esistono diversi modi di concepire il singolo individuo e di correlare il Self al contesto in cui assume consistenza l’identità. Se per noi occidentali un soggetto può essere definito a partire da alcuni attri-
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buti distintivi che lo differenziano dagli altri e che gli consentono di raggiungere determinati obiettivi, gli asiatici orientali sono poco interessati all’autoaffermazione e rivolgono l’attenzione a traguardi collettivi che consentono loro di mantenere relazioni sociali armoniose ed equilibrate (Calabrese 2018, pp. 14-15; Calabrese 2020, pp. 42-43). Questo cosa significa? Ritornando alla prima fase del Self come attore, ad esempio, la cultura occidentale porta i bambini a descriversi mettendo in evidenza i tratti personali, mentre la cultura orientale chiede loro di percepirsi come parte di un gruppo di riferimento e, dunque, di considerare soprattutto le caratteristiche identitarie con risvolti sociali. Se i primi tendono a definirsi come allegri oppure tristi, i secondi preferiscono presentarsi come fratelli oppure come studenti. Ugualmente, dal punto di vista dell’agente, le narrazioni occidentali contengono soprattutto obiettivi relativi al successo individuale e all’autonomia, mentre quelle orientali integrano una serie di scopi relazionali. Infine, nella fase dell’autore autobiografico i soggetti adottano scripts narrativi e costrutti metaforici che costituiscono le relative life stories: la master narrative – intesa come modalità culturale di attribuzione del significato – maggiormente diffusa in Occidente coincide con un format narrativo di redenzione che porta gli individui a raccontare eventi nei quali i protagonisti – ovvero loro stessi – sopportano numerose sofferenze e incontrano varie problematiche con lo scopo di conquistare miglioramenti futuri. Ebbene sì, stiamo parlando del noto script metaforico del cosiddetto “eccezionalismo americano” (Nelson, Fivush 2020, pp. 7677; Calabrese 2019, pp. 36-37; McAdams 2013, pp. 286-288).
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Il Self autobiografico come:
Attore
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Agente
Autore
Età di riferimento
Prima infanzia Media-tarda in- Adolescenza e (dai due anni). fanzia (dai set- prima età adulte/nove anni). ta (dai quindici anni).
I contenuti del Self
Ruoli sociali, abilità, tratti psicologici, immagine sociale.
Obiettivi e pro- Life narrative e getti personali, turning points. valori e speranze.
Enfasi temporale
Dimensione presente.
Dimensione presente e dimensione futura.
Questioni psicosociali
Self-regulation. Self-esteem.
Influenze culturali
Norme e vincoli Scripts relativi Metafore, imcomportamen- agli obiettivi, magini e vincoli tali. vincoli motiva- narrativi. zionali.
Esempi narrativi
“Ho sei anni, mi piace cantare e sono molto simpatica. Abito a Roma in una grande casa.”
“Mi è sempre piaciuto cantare. Voglio studiare molto così un giorno potrò partecipare ad un reality show in televisione.”
Dimensione presente, passata e futura. Self-continuity.
“Ho scelto di fare la cantante quando ero piccola. Un giorno a scuola, dopo la recita, la maestra di canto mi ha chiesto di fare alcune lezioni. Da lì, la mia vita è cambiata.”
Tabella 2. Le caratteristiche principali del Self autobiografico (tabella modificata a partire dal contributo di McAdams 2013, p. 273).
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Come concludere questa lunga escursione nei tortuosi territori autobiografici infantili? È Stefano Calabrese – docente di Comunicazione Narrativa presso l’Università di Modena e Reggio Emilia – a riassumere in modo significativo il graduale – e inesorabile – passaggio dai ricordi autobiografici alle cosiddette life narratives e, dunque, l’evoluzione della competenza narrativa nel corso del periodo infantile (Calabrese 2019, pp. 30-32). L’identità narrativa – che si presenta non tanto come una verità oggettiva quanto come uno strumento che consente di attribuire coerenza alla propria persona e di interpretare le esperienze di vita – si sviluppa a partire dall’evoluzione di alcune componenti fondamentali. Ebbene, quali sono le competenze necessarie per riuscire a raccontare di sé? Ripercorriamole brevemente. Innanzitutto, la memoria autobiografica. Dai due anni in avanti, i bambini iniziano a ricordare eventi personali come ciò che è accaduto loro e tali ricordi episodici vengono abbinati al Self, grazie al supporto genitoriale che aiuta i giovani narratori a condividere le proprie esperienze e a stoccarle nella memoria. La seconda componente alla base della competenza narrativa è la già citata Teoria della Mente, abilità innata che si sviluppa intorno ai quattro anni e che rappresenta la capacità dei soggetti di mettere in atto responsi empatici nel relazionarsi alla realtà circostante: da quest’età in avanti, i bambini comprendono che le persone sono agenti motivati, ovvero che le loro azioni sono puntualmente mosse da desideri, credenze e obiettivi. E ancora, l’imprescindibile story grammar. All’età di cinque e sei anni – ovvero alla fine della scuola dell’infanzia – i bambini riconoscono il modo in cui una narrazione deve essere strutturata per essere comprensibile: un agente deve compiere delle azioni che
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gli consentono di superare alcuni ostacoli, di raggiungere un obiettivo e di approdare ad una soluzione. Dai nove e dieci anni, inoltre, i bambini iniziano a raccontarsi attraverso specifici scripts culturali tramessi dal contesto di appartenenza: a partire da questo momento, infatti, riconoscono che una narrazione per essere significativa deve contenere sequenze autobiografiche normo-tipiche con riferimenti alla nascita, alla scuola, alla ricerca di un lavoro e così via. Infine, l’ultima componente che caratterizza la lifestory – e le consente di perfezionarsi definitivamente – coincide con il ragionamento autobiografico, il quale si sviluppa dai dodici anni e per tutto il periodo adolescenziale. Grazie alla nota coerenza causale, infatti, i narratori diventano in grado di collegare più eventi di vita per esplicitare le principali caratteristiche identitarie e al tempo stesso, di estrapolare tematiche che consentono di organizzare la loro esperienza in modo significativo. E originale.
CAPITOLO SECONDO FORMAT NARRATIVI E DINTORNI
1. The making of autobiographical memory: cultura, narrazione e Self È ormai chiaro che la memoria autobiografica non è altro che l’insieme di ricordi linkati al Self e non ha niente a che vedere con il semplice richiamo di ciò che è accaduto nel corso di una determinata esperienza. C’est à dire, riguarda il motivo per il quale un evento è considerato significativo per la nostra persona. Ma quali elementi influenzano la sua evoluzione precedentemente analizzata? Stili cognitivi e fattori bioculturali: è questa la seconda consapevolezza preliminare dalla quale partire. L’idea che il processo di rielaborazione mnemonica e narrativa – noto come narrative meaning-making – sia costruito all’interno delle interazioni sociali deriva ancora una volta dalle riflessioni di Lev Vygotskji secondo le quali lo sviluppo degli individui deve essere compreso e analizzato a partire dai contesti culturali di appartenenza. È da queste convinzioni che si è affermata nel tempo la teoria socioculturale – delineata accuratamente da Robyn Fivush e Katherine Nelson e adottata come punto di partenza da numerosi studiosi di psicologia narrativa e psicologia sociale – che intende indagare la peculiare relazione esistente tra stili cognitivi e cultural context. Ebbene, la cultura sembra definire il set of skills necessario per
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comprendere la realtà e gli eventi autobiografici e per acquisire un’immagine identitaria coerente con le richieste del gruppo sociale di appartenenza (Fivush, Bohanek, Zaman 2011, pp. 46-47). Organizzazione sociale, struttura mnemonica e narrativa e composizione del Self procederebbero di pari passo influenzandosi senza nessuna tregua. Beninteso, secondo questa prospettiva di studio sono tre gli elementi che influiscono sullo sviluppo graduale delle abilità di reminiscenza (Nelson, Fivush 2004; Fivush 2019). Ripetiamole ancora una volta. Da un lato, il linguaggio. Sono le competenze verbali ad offrirci la possibilità di organizzare i materiali in un resoconto significativo per la nostra persona e di attribuire interpretazioni aggiuntive in seguito alla condivisione con altri soggetti. E ancora, il Self. Ricordiamo ciò che è in accordo con il nostro self-schema, inteso come sistema organizzativo della memoria e come filtro – determinato e modellato direttamente dalla cultura – che fornisce modelli utili per interpretare la realtà a partire dalle nostre caratteristiche identitarie. E infine, i contesti di ricordo condiviso o Reminiscing. È nel corso delle interazioni sociali che apprendiamo quali caratteristiche della realtà considerare, quali elementi dell’esperienza sono significativi per la nostra persona e quale struttura narrativa è la più adatta ai nostri resoconti di vita. Insomma, un fatto è certo: è il modo in cui gli adulti e i bambini recuperano e condividono materiale mnemonico ad influenzare chiaramente la capacità di attribuire significato alla realtà e di comprendere il proprio ruolo nel mondo (Fivush, Haden, Reese 1996, p. 342). Tutto ciò che ne deriva sembra essere di competenza della narratologia. O meglio, ancora una vol-
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ta, spetta alla narratività il compito di rinegoziare la memoria, intesa come competenza che ha origine nelle pratiche sociali. Sin da bambini, siamo infatti destinati ad acquisire peculiari format narrativi autobiografici che ci vengono trasmessi nel fruttuoso e insostituibile processo di ricordo condiviso all’interno del quale, a partire dal supporto adulto, mettiamo a punto i nostri stili cognitivi. È dunque così che inizia a svilupparsi – e a modellarsi – il Sé narrativo, ovvero attraverso le conversazioni e le interazioni con i genitori, i coetanei, gli insegnanti e tutti gli individui che appartengono al contesto sociale di appartenenza. In effetti, è evidente che il raccontare si presenta come una costante che caratterizza la maggior parte della quotidianità e soprattutto la maggior parte dei contesti di vita: i bambini sono portati a condividere con la famiglia ciò che hanno fatto durante il giorno e al tempo stesso, con gli amici ciò che è accaduto nella settimana di scuola appena terminata. E così via. Ecco che le interazioni sociali ci appaiono chiaramente come elementi discriminanti che deliberano la permanenza dei ricordi autobiografici nel tempo (Fivush 2014, p. 568). Sono gli psicologi a confermarci che l’arte dello storytelling non può essere considerata in nessun modo un’abilità innata in quanto viene trasmessa attraverso le generazioni a partire dalle continue interazioni verbali che consentono di raccontare, re-interpretare e rivalutare le esperienze (Fivush, Bohanek, Zaman 2010, p. 46). Ad approfondire le competenze cognitivo-emotive coinvolte nel processo di ricordo condiviso sono Nelson e Fivush (2006; 2019). Quali abilità sono chiamate in causa nella ricostruzione di materiali mnemonici con gli adulti di riferimento? Pro-
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cediamo con cautela e rispondiamo alla domanda a partire da qualche elemento probatorio, ovvero da un’attività di family reminiscing (figura 1). Una bambina di otto anni e la madre – alla richiesta “condividete un evento del vostro passato” – scelgono di recuperare un’esperienza dai connotati positivi che riguarda una gita familiare in montagna durante la quale hanno vissuto un entusiasmante sight-seeing in bicicletta. Bene. Ma quali caratteristiche contraddistinguono l’interazione e il recupero mnemonico co-costruito? Ad aprire la conversazione è la madre che fornisce per prima cosa alcuni dettagli spazio-temporali utili per avviare il recupero del materiale (“Eravamo tutti in bicicletta”) e riprende le principali azioni che hanno caratterizzato la scena (“Tu non volevi più andarci però”, “Volevi sederti sulla mia bicicletta così pedalavo io. Ti ricordi?”). A livello narratologico, le cose sembrano complicarsi in modo graduale. Dopo aver recuperato setting e azioni principali, la madre aggiunge alcuni collegamenti causali che consentono alla bambina di attribuire significato all’accaduto (“Perché ti facevano male le gambe?”) e lascia emergere alcuni riferimenti ai possibili collegamenti tra azioni, intenzioni e stati d’animo (“Se tu andavi piano in bicicletta io potevo rilassarmi”, “Ti sei divertita a salire con me in bicicletta oppure eri spaventata?”). Insomma, la parola d’ordine sembra essere cognitive complexity. Innanzitutto, entrambe le partecipanti sono consapevoli del fatto che il recuperare un ricordo e l’attribuirvi significato richiede la capacità di attivare la joint attention a partire da un oggetto inesistente, ovvero dalla rappresentazione mentale dell’evento, la quale viene modellata attra-
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verso il meccanismo di negoziazione (Fivush 2019, p. 2). È proprio questo il motivo per il quale le conversazioni autobiografiche condivise iniziano ad essere proficue dai tre anni in avanti, momento nel quale i bambini acquisiscono consapevolezza del fatto che i ricordi – topics della conversazione – sono rappresentazioni mentali selettive – e per questo quasi mai puntuali – del passato. Ecco che emerge finalmente la famosa representational theory of memory. Facciamo attenzione: è bene ricordare che l’evoluzione del processo di ricordo condiviso sembra essere graduale e progressiva e che, dunque, già dai 16-18 mesi i bambini vengono coinvolti in interazioni verbali relative ai past events in modo proficuo. In effetti, se gli adulti forniscono la struttura portante della narrazione, i bambini iniziano a partecipare confermando oppure ripetendo ciò che genitori e professionisti educativi hanno nominato in precedenza e iniziano così a discriminare elementi narratologici quali gli agenti, le azioni e i setting. Dai tre anni in avanti, infine, riescono ad introdurre in modo autonomo elementi narratologici innovativi e a considerare più elementi appartenenti alla stessa rappresentazione mentale (Fivush 2011, p. 52; Fivush, Nelson 2006, p. 237). Sarebbe a dire, da quest’età i bambini comprendono che il Self è di tipo extendend in time ed è proprio nel corso di queste interazioni che riconoscono la possibilità di rimanere gli stessi nelle esperienze che appartengono a differenti dimensioni temporali. In altri termini, riconoscono l’esistenza del cosiddetto continuing me. Se ero arrabbiato ieri con mio fratello quando abbiamo litigato al parco, possono non sentirmi più nello stesso modo in questo momento perché abbiamo risolto il diverbio.
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Figura 1. Un esempio di Family Reminiscing tra una madre e una bambina di otto anni (Fivush 2019, p.1).
D’accordo. Ma perché il processo di ricostruzione narrativa deve essere considerato un passaggio davvero prezioso per l’evoluzione mnemonica? O meglio, un passaggio che deve essere progettato in modo intenzionale da tutti coloro che sono chiamati a intervenire a livello educativo nella prima infanzia? Sempre secondo le studiose, gli adulti – genitori o professionisti educativi che siano – devono essere consapevoli del fatto che quando si condividono eventi accaduti in passato, si stanno includendo sì informazioni circa il
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quando e il dove le esperienze si sono verificate, ma soprattutto informazioni relative a ciò che si è pensato e provato (Fivush, Nelson 2006, pp. 240-242). Da un lato le orienting information. Dall’altro le evaluative information. Consentire ai bambini di inserire gli eventi passati all’interno di frames narrativi ed esplicativi, vuol dire aiutarli a costruire significato e aiutarli a comprendere il motivo per il quale l’esperienza è degna di essere ricordata e stoccata nella memoria. Riprendiamo per un attimo l’interazione analizzata precedentemente e approfondiamo ciò che accade a livello narratologico (tabella 1). Innanzitutto, le coordinate contestuali. Come si è visto, i primi elementi mnemonici che la madre recupera sono di tipo spaziotemporale: in questo modo, la bambina ha la possibilità di inquadrare l’evento all’interno di uno specifico arco temporale e in un particolare spazio (ovvero in montagna in un pomeriggio di vacanza). Seguono immediatamente le actions svolte dai personaggi che consentono alla storia di iniziare a fluire: chiaramente, la bambina è portata a recuperare uno script mnemonico (in questo caso, “gita in montagna”) e ad inserire al suo interno le azioni che effettivamente ha svolto. Ancora più interessanti le correlazioni cause-conseguenze che le consentono di attribuire significato agli avvenimenti citati e le correlazioni azioni esterne-disposizioni interiori che sostengono lo sviluppo della nota Teoria della Mente. In effetti, la bambina è portata a riconoscere il collegamento tra le sue azioni, le sue intenzioni e le sue esigenze e al tempo stesso, ad ipotizzare quelle della madre (si sentiva molto stanca e per questo ha chiesto di poter smettere di pedalare e di trovare una soluzione alternativa). Se a tre anni i bambini difficilmente inseriscono riferimenti ai propri stati emotivi, verso i quattro integrano alcuni evaluative devices che indicano la comparsa della subjective
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perspective e, dunque, delle prime interpretazioni (ben evidenziate da interazioni verbali quali “Mi sono annoiato”, “Mi è piaciuto molto”). Tuttavia, è solamente dai sei anni che riescono a considerare in modo autentico le prime correlazioni tra azioni e obiettivi interiori (Fivush, Nelson 2006, p. 242). In sintesi? Possiamo considerare il Reminiscing – inteso come contesto nel quale adulti e bambini discutono di eventi passati – un’esperienza connotata da complessità cognitiva ed emotiva nella quale, grazie alle strategie narrative del modeling e dello scaffolding, vengono valorizzate determinate informazioni a scapito di altre. De toute évidence, come si vedrà a breve, culturalmente stabilite e definite. Caratteristiche narratologiche del processo di Reminiscing Sviluppo del noto extended Self che porta i soggetti a percepirsi nel corso del tempo e a considerare più dimensioni temporali contemporaneamente. Contestualizzazione spaziotemporale dell’evento (orienting information) e costruzione di explanatory frameworks che consentono di attribuire coerenza all’esperienza. Recupero delle principali actions e successivi collegamenti con le intenzioni/con gli stati emotivi (subjective experiences).
Competenze cognitivo-emotive coinvolte La joint attention e la teoria rappresentativa della memoria evidenziano la capacità di negoziare ciò che è accaduto a partire da oggetti di tipo mentale. Recupero di frames e scripts idonei. Ogni evento recuperato e condiviso deve essere confrontato con la sintassi mnemonica consente di prevedere ciò che può accadere al suo interno. Mind Reading. Recuperando il materiale mnemonico, i bambini sono portati a collegare le proprie azioni alle relative intenzioni e ad ipotizzare le motivazioni degli altri soggetti coinvolti. Interpretazione dei materiali (eva- Costruzione di collegamenti tra luative information) e attribuzio- azioni e Self. Nel processo di Reminiscing, è necessario linkare le ne di significato. esperienze al proprio Self per sostenere la costruzione di frameworks coerenti con l’immagine identitaria. Tabella 1. Le principali caratteristiche narratologiche del processo di Reminiscing e le principali competenze cognitivo-emotive coinvolte.
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2. Reminiscing e stili narrativi Ripensando all’evoluzione di memoria e narrazione autobiografica analizzata nel capitolo precedente, è del tutto evidente che la costruzione di contesti di ricordo condiviso si presenta come un’attività indispensabile soprattutto in due critical periods, ovvero negli anni prescolari – nel corso dei quali la memoria emerge e si modella – e nei primi anni adolescenziali, momento in cui i bambini devono apprendere a taggare i ricordi come self-defining per inserirli coerentemente nella propria lifestory. In effetti, il punto è sempre lo stesso: nelle attività di ricordo condiviso non sono trasmesse in nessun modo sequenze esperienziali ordinate, quanto piuttosto format narrativi che comunicano informazioni circa l’interpretazione che deve essere attribuita ai ricordi. E circa le modalità attraverso le quali questi ultimi devono essere stoccati e archiviati. Innanzitutto, il Reminiscing negli anni prescolari. In questo periodo di vita, sembra esistere uno stretto collegamento tra lo stile narrativo adottato dagli adulti e le caratteristiche mnemoniche future dei bambini. Sarebbe a dire, il modo tramite il quale gli adulti interpretano e condividono gli eventi passati influenza direttamente le abilità mnemoniche infantili? Proprio così. Reminiscing style as a causative and predictive factor (Fivush 2014, p. 573). Possiamo identificare due modalità attraverso le quali gli adulti discutono con i bambini di eventi autobiografici passati. Da un lato, lo stile narrativo high elaborative. Adulti che adottano questo stile – denominato anche semplicemente narrative style (Tessler, Nelson 1994) – costruiscono frames esplicativi attorno all’evento, ovvero integrano
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le informazioni fornite dal bambino attraverso la costruzione di una emerging narrative. Sarebbe a dire, aggiungono informazioni significative riguardanti sia le coordinate spazio-temporali sia le azioni che si sono svolte nel corso dell’esperienza a partire dalle note open-ended questions (dove eravamo, quando è successo, chi c’era e così via) che incoraggiano e sostengono la co-costruzione. E non solo: lo stile high elaborative è caratterizzato dall’inserimento di elementi emotivi e interpretativi che portano il bambino a chiedersi quale stato d’animo ha accompagnato l’esperienza e a valutare l’accaduto (come mi sono sentito, come valuto questo evento e come lo collego alla mia persona). È chiaro che gli adulti che si avvalgono del supporto di questo stile forniscono frames coerenti che consentono ai bambini di attribuire significato – ma soprattutto coerenza – alla realtà. Vediamo un esempio. Nella prima conversazione riportata nella figura sottostante (figura 2), un bambino di tre anni sta ricordando una visita all’acquario con la madre, la quale sostiene l’avvio del recupero mnemonico a partire da elaborative prompts quali “Ricordi quando siamo andati all’acquario e abbiamo visto alcuni uccelli nell’acqua?”. Grazie alle risposte costituite da una sola keyword del bambino, la madre contestualizza l’evento recuperando in un primo momento informazioni relative ai personaggi (“Ti ricordi che abbiamo visto i pinguini che avevano un piccolo costume?”) e successivamente relative alle loro azioni, ovvero agli scripts che compongono l’esperienza (“Ricordi che saltavano dalle rocce e si lanciavano nell’acqua?”). A livello narratologico, inoltre, troviamo la volontà di costruire una cosiddetta small story, ovvero un
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resoconto suddiviso in una parte iniziale, in uno svolgimento e in una conclusione che consente di mettere in rilievo i motivi per il quale l’evento può essere considerato degno di nota. Non ci si deve, dunque, sorprendere se bambini che hanno avuto maggiormente la possibilità di recuperare ricordi autobiografici in contesti high elaborative riescono a costruire in futuro resoconti narrativi – relativi alle proprie esperienze – coerenti, ricchi di informazioni e ben organizzati (Fivush 2014, p. 574). Nondimeno, non è un caso che i bambini che hanno recuperato eventi passati in elaborated and emotional ways esibiscono svariate competenze nei compiti collegati alla Teoria della Mente. Proprio così, se ho avuto la possibilità di ipotizzare collegamenti tra le azioni e le intenzioni dei soggetti nel corso dei contesti di ricordo condiviso, le mie abilità al riguardo migliorano notevolmente (Fivush, Nelson 2006, p. 242). E ancora, gli adulti che si focalizzano maggiormente sulla rielaborazione emotiva e sulla costruzione di collegamenti causali sostengono la costruzione e l’adozione di corrette strategie di coping in caso di eventi stressanti. Emblematico l’intervento sperimentale condotto con madri e bambini affetti da asma (e obbligati per questa ragione a ricoveri frequenti e traumatici): lo stile narrativo e conversazionale high elaborative adottato nella condivisione di esperienze croniche – quali le difficoltà dovute alla convivenza con la patologia nella quotidianità – consentono ai bambini di percepire un maggior emotional well-being (misurato attraverso la nota Child Behavior Checklist) (Sales, Fivush 2005). Costruire coerenza narrativa per ricordare e comprendere: ecco il leitmotiv che non può in nessun modo essere ignorato dai professio-
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nisti educativi i quali sono chiamati ad intervenire – attivamente e continuamente – nel processo di ricostruzione mnemonica. Dall’altro lato, lo stile narrativo low elaborative (o paradigmatic style). In questo secondo caso, gli adulti si focalizzano sulla ripetizione di alcuni elementi narratologici citati dal bambino, quali il nome dei personaggi coinvolti oppure degli oggetti che appartengono al setting spazio-temporale di riferimento. Sarebbe a dire le domande che caratterizzano questo stile narrativo sono chiuse – del tipo yes/no – e non hanno come obiettivo l’espansione dei concetti, quanto piuttosto la loro ripetizione. Un esempio? Nella seconda conversazione riportata nella figura, un bambino – della stessa età – condivide con la madre una visita effettuata alcuni giorni prima allo zoo (figura 2). Le differenze con l’approccio precedente sono evidenti. La madre formula più e più volte alcune domande a risposta chiusa che chiedono al bambino di nominare gli animali incontrati (“Quali animali hai visto?”) e tenta di modificare la sua replica in caso di errore senza utilizzarla come punto di partenza per ulteriori espansioni. È evidente che in questo caso prende il sopravvento una sorta di categorizzazione che mette in discussione la costruzione di informazioni aggiuntive relative alle coordinate contestuali, alle correlazioni causali e interpretativo-emotive.
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Figura 2. Esempi relativi allo stile narrativo high elaborative e allo stile narrativo low elaborative (Fivush 2014, p. 571).
Facciamo un passo in avanti. Dato lo stretto collegamento esistente tra memoria e narrazione all’interno del contesto di ricordo condiviso, è fondamentale che gli adulti di riferimento riconoscano le fasi di sviluppo autobiografico per intervenire assecondando il percorso evolutivo. Effettivamente, sembra esistere uno stretto collegamento tra il Reminiscing e l’evoluzione dei resoconti narrativi (e soprattutto delle tipologie di coerenza che li caratterizzano). Come si è visto, fino ai dieci anni è la coerenza di tipo temporale – e culturale – a guidare la ricostruzione delle esperienze personali, mentre dai dodici anni in avanti si presenta per la prima volta la coerenza causale che chiede ai narratori di costruire rudimentali link tra cause e conseguenze e tra azioni esterne e disposizioni interiori. È proprio questa la ragione per la
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quale, con i bambini di otto anni gli adulti sembrano sostenere la costruzione di frameworks esplicativi governati dalla temporalità, mentre con gli adolescenti – dai dodici anni in avanti – iniziano a edificare correlazioni tra gli eventi e l’identità (Habermas, Negele, Brenneisen Mayer 2010, pp. 348-349). Vediamo alcuni esempi chiarificatori. Nella prima conversazione sotto riportata, un bambino di otto anni sta ripercorrendo la sua esistenza fino al momento presente insieme alla madre, la quale incentiva la costruzione di connessioni temporali tra i vari elementi che compongono il resoconto (figura 3). O meglio, tra ciò che accade prima e ciò che accade dopo. Se il bambino – d’accordo con gli scripts culturali – inizia la condivisione mnemonica a partire dalla sua nascita (“Sono nato nell’ospedale di Holy Cross”), la madre propone una serie di keywords che lo aiutano a nominare gli eventi successivi in un ordine cronologico comprensibile e plausibile (“Tu sei nato e per tre mesi abbiamo vissuto dal nonno perché l’appartamento non era ancora pronto”, “Poi io, tu e il papà ci siamo trasferiti nel nostro appartamento per un po’ di tempo”). Come ben sappiamo, infatti, a otto anni la ricostruzione narrativa della realtà autobiografica sembra essere avviata grazie alla temporal sequence of actions. Beninteso, in accordo con l’evoluzione delle abilità narrative, ancora pochi riferimenti agli stati interiori che muovono le principali micro-sceneggiature. Uno scenario narrativo opposto caratterizza l’interazione tra una madre e un adolescente di sedici anni (figura 4). L’obiettivo principale diventa, infatti, sostenere la costruzione della life story e, dunque, costruire link tra ciò che è accaduto in passato e il Self. La domanda che guida le azioni di scaffolding della madre può essere solamente la seguente: come gli eventi che hai vissuto in passato ti hanno portato ad essere quello
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che sei adesso? Domanda esistenziale che necessita di un supporto adulto coerente con l’obiettivo. Nella conversazione co-costruita emerge ad un tratto la passione per la musica del protagonista che sembra definire – meglio di qualsiasi altra – la sua persona. È questo il motivo che porta la madre a darsi da fare per connettere questa caratteristica identitaria – che appartiene alla dimensione presente – con un’esperienza accaduta nella prima infanzia che testimonia la sua comparsa. Ecco, dunque, che emerge un diretto riferimento ad un’esperienza esplicativa accaduta nei primi anni di vita nel corso della quale il protagonista ha deciso di costruire in autonomia un piccolo tamburo per riuscire a produrre musica (“Ricordi che quando eri piccolo e avevi due oppure tre anni hai costruito da solo un tamburo con scatole di cartone e pentole”?).
Figure 3, 4. Esempi di Reminiscing tra due madri e rispettivamente un bambino di otto anni e un adolescente di sedici anni (Fivush et al. 2011, pp. 336-338).
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Non c’è da stupirsi in nessun modo se il contesto di Reminiscing gioca un ruolo fondamentale nella comprensione della realtà e nella messa a punto di stili cognitivo-emotivi anche nella prima adolescenza (Merrill, Fivush 2016, pp. 1-2; Fivush, Zaman 2011, pp. 52-54). Perché accade questo? Sono numerose le abilità cognitivo-sociali che si sviluppano in questo periodo e che consentono ai narratori di adottare strategie narratologiche privilegiate. Innanzitutto, una sofisticata abilità di perspective-taking che li porta a integrare la propria prospettiva nel tempo con quella altrui (ad esempio, con quella genitoriale oppure con quella dei professionisti educativi e dei coetanei). In secondo luogo, la capacità di analizzare e integrare gli stati emotivi in frames cognitivi utili per la successiva regolazione. Infine, lo sviluppo del self-concept e, dunque, della capacità di linkare le esperienze alla propria identità (Habermas, De Silveira 2008, p. 3). Facciamo attenzione: in questa sconfinata pangea narrativa, la matrice familiare sembrerebbe mantenere il suo ruolo di guida primaria nella percezione della realtà in quanto fornirebbe una traccia indelebile che consentirebbe agli adolescenti di attribuire significato alle proprie esperienze. In sintesi? Le narrazioni co-costruite con gli adulti sembrerebbero essere imprescindibili per almeno tre motivi: forniscono un template utile per la comprensione del mondo, sostengono il mantenimento della connessione con la famiglia e aiutano i ragazzi a esplorare le similitudini tra il self adulto e quello personale promuovendo sia la connectedness che la individuation (Fivush et al. 2011, p. 337). Happy end. Ciò spiega perché le intergenerational narratives godono di ottima salute. Si tratta di resoconti strettamente collegati al livello di benessere percepito dagli
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adolescenti in quanto procurano loro frameworks utili per comprendere sia il mondo che loro stessi. Sarebbe a dire, le storie d’infanzia di genitori e nonni relative ai cosiddetti souvenirs de jeunesse dominano i momenti di condivisione familiare e vengono tramandate da una generazione all’altra con l’obiettivo di creare una sorta di narrative continuity all’interno della quale gli adolescenti possono inserirsi. E grazie alla quale possono iniziare a costruire la lifestory personale attraverso gli scripts lasciati in eredità dalla generazione senior. Proprio così: gli adolescenti che integrano la cosiddetta parent’s voice nelle loro narrazioni – soprattutto relativa a esperienze che forniscono valori e morali – sperimentano livelli di equilibrio emotivo decisamente superiori. Ancora più interessante l’idea che – in linea con l’evoluzione del noto autobiographical reasoning che porta gli adolescenti a creare link tra dimensione d’azione presente, passata e futura – i narratori tentano di mantenersi connessi con il nucleo familiare attraverso peculiari espedienti narratologici (Fivush, Bohanek, Zaman 2011, pp. 52-53). Da un lato troviamo i link temporali che riguardano la costruzione di somiglianze generazionali ben espresse a partire da espressioni quali “Mio padre giocava a calcio quando era giovane e io ho la stessa passione”. Dall’altro lato troviamo link causali e interpretativi che mettono in luce le life lessons ricevute (“Mia madre mi ha raccontato quello che le accadeva quando fumava tanto, così io ho scelto di non prendere lo stesso vizio”) e le reti affettive che caratterizzano la dimensione presente (“Tutti i weekend io e mio padre andiamo insieme a giocare a basket”). Soffermiamoci per un attimo sulle modalità di interazione dei partecipanti, strettamente collegate a loro volta agli stili narrativi. Nel corso di uno studio
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condotto da Jennifer Bohanek e colleghe (2006, pp. 11 ss.), è stato chiesto ad un gruppo di preadolescenti – dai nove ai dodici anni – e alle loro famiglie di condividere esperienze autobiografiche nel corso delle quotidiane interazioni serali. Il primo dato rilevante dal quale partire? I risultati mostrano come le famiglie che condividono maggiormente le esperienze autobiografiche passate hanno figli che esprimono ed esibiscono ridotte problematiche emotive (internalizing) e comportamentali (externalizing) grazie ai numerosi frames esplicativi acquisiti. Ma c’è dell’altro. A quest’età, un elemento discriminante sembra essere la possibilità di combinare – in modo coerente – gli interventi di ciascun partecipante per riuscire a realizzare una narrazione condivisa e complessa che evidenzi il valore self-defining dell’accaduto. In effetti, secondo le autrici, il tipo di interazione sembra essere correlato direttamente con le abilità di self-understanding e al tempo stesso con l’evoluzione dell’autostima. Particolarmente efficace sembra essere lo stile coordinato caratterizzato dall’integrazione di più prospettive, utili per ricostruire coerentemente la realtà percepita. Si tratta, dunque, di uno stile che consente ai partecipanti di integrare il proprio Self con quello degli adulti e con i relativi obiettivi. Nella prima interazione sottostante, una madre sta discutendo con la figlia maggiore del momento in cui la sorella più piccola – durante la colazione dei giorni precedenti – si è scottata una mano (figura 5). Ciò che più ci interessa del processo di co-costruzione riguarda la capacità delle due partecipanti di fornire informazioni complementari che consentono loro di costruire un resoconto dell’accaduto coerente a livello di azioni (la madre dice che la sorellina era seduta sul tavolo), di
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correlazioni causa-effetto (la bambina sottolinea che i cornflakes erano molto caldi e la sorella li ha urtati per errore) e di interpretazioni e valutazioni (la bambina constata il fatto che i cornflakes erano davvero bollenti). Insomma, ciascun partecipante interviene in modo coordinato nell’ottica di una rappresentazione mentale condivisa che fornisce senza dubbio alla bambina una cosiddetta life lesson utile per il futuro. Au contraire, nelle conversazioni caratterizzate da uno stile interattivo di tipo individuale ciascun membro sembrerebbe mettere in luce il proprio punto di vista senza sentire in nessun modo la necessità di integrarlo con le informazioni altrui. In questo secondo caso sembrerebbe attivarsi un vero e proprio individual turn-taking che non sostiene in nessun modo la comprensione dell’evento e l’interazione tra le microsceneggiature che caratterizzano l’esperienza. Nel secondo esempio riportato, infatti, il padre dialoga con un bambino e con il fratello più piccolo rivolgendosi contemporaneamente a entrambi e condividendo una vacanza familiare (figura 6). Il genitore pone domande fattuali (“Cosa ricordate?”) e al tempo stesso per far fluire il resoconto ripropone le brevi risposte fornite dai figli attraverso un meccanismo di repetition (“È vero, hai mangiato le patatine fritte”). Sia detto ancora una volta. I più accaniti e tenaci sostenitori dello sviluppo mnemonico e narrativo e dell’interazione proficua tra materiali mnemonici e Self sono – sans aucun doute – lo stile narrativo high elaborative e al tempo stesso, lo stile interattivo coordinato.
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Figure 5, 6. Intergenerational narratives caratterizzate rispettivamente da una prospettiva coordinata e da una prospettiva individuale (Bohanek et al. 2006, pp. 34-35).
A ben vedere, il contesto di ricordo condiviso sembra essere organizzato – a livello contenutistico e strutturale – a partire dagli obiettivi che i partecipanti
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si pongono, i quali si modificano del tutto nel corso dei periodi di vita. Pertanto, riepiloghiamo questa lunga promenade relativa alle attività di Reminiscing analizzando le finalità narrative che caratterizzano il recupero autobiografico nelle differenti fasce d’età (Pratt, Fiese 2004, pp. 402 ss.) (figura 7). Nella prima infanzia i bambini condividono ricordi personali con gli adulti di riferimento per trovare una risposta efficace ad un interrogativo collegato alla performance comportamentale (“Come mi devo comportare?”). L’attenzione sembrerebbe essere posta sulle azioni che si sono svolte nel passato soprattutto dal punto di vista della competenza narrativa e della competenza sociale: in effetti, i bambini apprendono – attraverso la condivisione – a ricostruire frames narrativi esplicativi e al tempo stesso ad agire nel contesto di appartenenza. E ancora, nel periodo adolescenziale – nel corso del quale si sviluppa la già analizzata lifestory – i partecipanti si confrontano per sintetizzare le esperienze di vita attraverso collegamenti tematici alla base della coerenza identitaria. Tutto questo a partire dal quesito apparentemente egocentrico “Chi sono io?”. Nella prima età adulta, invece, i soggetti condividono ricordi per attribuire una sorta di coerenza agli eventi – che consente loro di inserire le proprie azioni all’interno di scripts condivisi – attraverso uno stile narrativo che possiamo definire prosaico (e che risponde alla questione metaforica “Cosa gli altri hanno significato per me?”). Enfin, in età senile le condivisioni sembrano avere come obiettivo il preservare il ricco archivio familiare che contiene le esperienze vissute dai vari membri, ovvero i materiali che consentono di costruire continuità temporale nel corso delle differenti family generations. Un fatto è certo. Le life narratives che vengono co-costruite
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e scambiate nel contesto familiare ed educativo – di qualsiasi tipo esse siano – costituiscono una traccia narrativa ineliminabile, alla quale il Self autobiografico si atterrà – senza nessun “se” e nessun “ma” – in futuro (Calabrese 2018, p. 52).
Figura 7. Il contesto di Reminiscing familiare nei differenti periodi di vita (Pratt, Fiese 2004, p. 410).
3. Histoires préformatées: alcune riflessioni neurocognitive A chi spetta il compito di decidere quali contenuti inserire nelle condivisioni tra adulti e bambini e nei resoconti autobiografici? Solo ed esclusivamente al narratore stesso? Niente affatto. La redazione dei ricordi personali sembra essere co-gestita dal narratore e dal contesto sociale nel quale è inserito (Calabrese 2018, p. 52). Insomma, sembrerebbe essere il contesto sociale a fornirci contemporaneamente unità contenutistiche e unità strutturali, utili
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per riuscire a “ricordar-ci” e a “raccontar-ci”. Libero arbitrio e narrazioni autobiografiche? Un sogno infranto. Un primo esempio che attesti la stretta correlazione esistente tra materiali mnemonici vissuti in prima persona e materiali sociali? Linda Wilbers e colleghi hanno tentato di analizzare la questione muovendo da alcune consapevolezze di tipo neuronale: se è vero che alcune aree cerebrali – come la corteccia prefrontale mediale – si attivano maggiormente quando ricordiamo eventi vissuti in prima persona (ad esempio, quando vediamo una foto relativa ad un’esperienza autobiografica passata), è anche vero che iniziano a funzionare anche in risposta a compiti relativi alla Theory of Mind nel corso dei quali i partecipanti devono attribuire stati mentali e credenze ad altri soggetti. Sarebbe a dire che il modo di ricordare le esperienze personali è significativamente connesso al modo di recuperare eventi vissuti da terzi. I ricordi autobiografici e la memoria episodica riferita ad avvenimenti vissuti da altri soggetti reali o finzionali che siano – si pensi al primo giorno di scuola a Hogwarts del famoso mago adolescente Harry Potter – attiverebbero aree adiacenti e comunicanti della corteccia cerebrale (Wilbers et al. 2012, pp. 6-7). Ricordare eventi vissuti da altri soggetti chiamerebbe evidentemente in causa i processi neuronali self-referential che sostengono il processo di codifica del materiale autobiografico. Insomma, abbiamo a che fare con una lenta e inesorabile unione tra personale e sociale che non riesce in nessun modo ad essere interrotta e che influenza – totalement – le nostre abilità cognitive. In effetti, non esiste narrazione autobiografica che non sia esposta a raffinate tecniche di hackeraggio: per raccontarci nei primi anni di vita, recuperiamo schemi e scripts – sia
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dalle family narratives che dalle narrazioni finzionali – che “fanno racconto” (Calabrese 2018, p. 52). Personale e sociale, sociale e personale. Eccoci arrivati al punto cruciale della questione. Come apprendono i bambini a raccontarsi e a costruire i propri ricordi? O meglio, come la già citata arte dello storytelling – e dunque i format narrativi culturalmente stabiliti – vengono trasmessi dalla generazione adulta alla generazione junior? Chi ha compiuto studi cross-culturali ha avuto modo di riscontrare come le origini del Self e dei meccanismi autobiografici vadano identificate niente di meno che nelle interazioni con gli adulti. In effetti, è all’interno del contesto di ricordo condiviso che i partecipanti apprendono a recuperare ricordi utili per mantenere la già citata self-continuity, per coltivare relazioni sociali, per risolvere problemi presenti e al tempo stesso per elaborare riflessioni predittive (Bluck 2003, pp. 5-9). È a questo livello che spiccano ed emergono inequivocabili differenze mnemoniche e narrative. Effectivement, raccontarsi significa condividere le esperienze a partire dalle interpretazioni attribuite (Calabrese 2018, p. 45). Innanzitutto – e brevemente – le leggendarie e colossali differenze culturali che riguardano Oriente e Occidente. Secondo la narratologia interculturale, ogni contesto di appartenenza tende a mettere in luce e a valorizzare specifici self-goals che influenzano direttamente la raccolta e lo stoccaggio dei materiali mnemonici. Ecco il punto: il contesto culturale riesce – tout à fait – ad influenzare lo sviluppo neuro-fisiologico dei soggetti a partire dalla selezione di schemi e scripts idonei al consolidamento identitario. Seguiamo a questo proposito la riflessione di Qi Wang – psicologa sociale che si è a lungo occupata dell’interazione tra cultura e com-
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petenze cognitive: lo sviluppo mnemonico è un processo culturally constructive nel corso del quale i bambini imparano a ricordare e condividere le esperienze in culture specific ways (Wang 2021, p. 196). I bambini dei campioni occidentali – ad esempio, euro-americani – sono considerati il punto focale della conversazione e sono portati a richiamare le esperienze soggettive a partire da interpretazioni e desideri personali (“Preferisci andare al parco oppure rimanere a casa?”). Diversamente, i bambini dei campioni orientali (India, Giappone, Asia e così via) costruiscono spesso riferimenti al gruppo di appartenenza e recuperano il loro passato a partire dalla costruzione di scripts coerenti con le norme e con le aspettative sociali. È chiaro che tutto ciò è dovuto all’utilizzo di stili narrativi adulti contrapposti che consentono ai bambini di apprendere ad organizzare le informazioni autobiografiche in modi peculiari: i genitori occidentali utilizzano numerose domande open-ended e costruiscono frameworks elaborativi che consentono ai figli di percepirsi come i protagonisti indiscussi dell’evento. Diversamente, i genitori orientali prendono le decisioni al posto dei bambini, insegnano loro ad ascoltare e prediligono uno stile low elaborative caratterizzato da risposte prestabilite in accordo con il contesto sociale di appartenenza. Da un lato un focus emotivo ed elaborativo. Dall’altro un focus oggettivo e focalizzato sulla moralità e sull’interdipendenza (Fivush 2008, p. 54; Fivush 2019, p.4). Tutto ciò ha a che vedere chiaramente con l’inevitabile e prezioso collegamento tra Self e ricordi autobiografici. Le culture occidentali sostengono l’acquisizione di self-goals individuali che portano i bambini a percepirsi come esseri distinti con una notevole li-
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bertà di azione e decisione. Pertanto, nel corso del recupero mnemonico, i bambini euro-americani tenderanno a mettere in archivio ricordi individuali fatti di informazioni relative al proprio ruolo e alle proprie sensazioni provate nel corso di one-time events (“La volta in cui ho vinto una competizione di nuoto”). Insomma, a evidenziare il collegamento tra pensieri, stati d’animo e desideri futuri. Au contraire, le culture orientali prediligono self-goals relazionali per i quali i bambini devono comprendere le loro esperienze a partire dalle norme fornite dal gruppo sociale. È proprio questo il motivo per il quale selezionano informazioni relative ad eventi passati caratterizzati dalle interazioni con gli altri e dalle cosiddette general routine (“Gioco con il mio amico tutti i sabati”) (Wang 2021, p. 197). Un eterno divario narrativo: in Occidente troviamo un approccio child-centered che porta i partecipanti a valutare le esperienze a partire dalle intenzioni personali e in Oriente un approccio socially-centered che fa perno sulla figura adulta, attenta a mettere in risalto l’agire del singolo in relazione al contesto. E ancora. È evidente che il contesto di Reminiscing influenzi e modelli direttamente tutte le abilità cognitive che intrattengono una liaison con il ricordare (Wang 2021, pp. 198 ss.). Basti pensare al linguaggio: se i bambini occidentali si definiscono a partire da attributi e qualità che li rendono unici (agency, orgoglio), i bambini asiatici privilegiano appellativi interdipendenti che consentono loro di percepirsi parte del gruppo (social compliance, modestia). Al tempo stesso, la cosiddetta emotion knowledge, intesa come struttura mentale che supporta la codifica e il recupero di elementi autobiografici emotivi. I genitori occidentali – d’accordo
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con l’idea che le emozioni siano indici significativi per l’individualità – discutono frequentemente delle peculiarità emotive delle esperienze vissute, mentre i genitori orientali – d’accordo con l’idea che le emozioni possano danneggiare l’armonia sociale – enfatizzano standard comportamentali prestabiliti. E infine, il cosiddetto perceptual style. Laddove i bambini asiatici prediligono un approccio olistico che li porta a percepire gli oggetti come parte di un più ampio contesto, i bambini occidentali li considerano come elementi completamente indipendenti dal setting di appartenenza. Non a caso, sembrano essere proprio questi ultimi a percepire e a ricordare – grazie ad un’attenzione peculiare rivolta alle caratteristiche salienti dei singoli oggetti e dei singoli avvenimenti – un numero maggiore di discrete events rispetto ai coetanei asiatici che tendono a considerare l’esperienza come un complesso di azioni interrelate. Sarebbe a dire, anche il processo noto come event segmentation – approfondito da cognitivisti come Jeffrey Zacks e Khena Swallow – che modula la comprensione della realtà per sostenere l’operato mnemonico, sembra essere correlato alle richieste sociali (Swallow, Wang 2020, p.6). E adesso, le innovative differenze autobiografiche relative al gender. Perché sin dai primissimi anni di vita, le bambine sembrano costruire resoconti autobiografici più coerenti, dettagliati e orientati all’emotività rispetto ai coetanei? Non certo per motivazioni linguistiche, quanto piuttosto per le medesime motivazioni di origine socioculturale. A questo proposito, è bene ricordare che il genere deve essere inteso come categoria sociale che modella scelte, attitudini e comportamenti degli individui e come categoria che mette ancora una volta in dubbio il mito dell’auto-
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governo individuale (Calabrese 2021, p. 117). Come percepiscono le esperienze quotidiane – perlomeno nelle western societes – i due gender? A consentirci di approfondire l’argomento sono di nuovo gli studi condotti nell’ambito della psicologia narrativa da Robyn Fivush, punto di riferimento indiscusso delle gender narratives. Il punto di partenza delle sue indagini riguarda la convinzione che le aspettative sociali relative al gender giochino un ruolo fondamentale in quanto influenzano il processo di Reminiscing che per ciascun individuo valorizza determinate informazioni a scapito di altre. Self e ricordi personali. Partiamo ancora una volta da qui. Il Self – inteso come set di conoscenze che orienta la nostra comprensione e il nostro comportamento – guida l’attivazione mnemonica ed è guidato a sua volta dai frames culturalmente stabiliti che indirizzano la percezione e la comprensione della realtà (Markus 1977). Oltre all’appartenenza culturale, una delle componenti in grado di influenzare il self-schema a livello identitario sembrerebbe essere proprio il gender. Sarebbe a dire, il modo in cui ci percepiamo uomini o donne giocherebbe un ruolo fondamentale nel modo in cui interpretiamo il mondo. O meglio, i gendered ideals of Self porterebbero i due generi a definirsi differentemente a partire dalle caratteristiche considerate idonee alla propria persona. Sono numerosi gli studi che mettono in luce la diversa socializzazione dei due generi sin dai primi anni di vita: se le bambine sono incoraggiate ad essere socially-connected, i bambini sono portati a valutare le proprie esperienze a partire da un focus indipendente ed autonomo. In linea con i due orientamenti sociali, Carole Gilligan testimonia l’esistenza di differenti stili cognitivi che guidano
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– de toute évidence – la percezione della realtà: se lo stile femminile è ben rappresentato da elementi quali la connessione sociale, la volontà di mantenere relazioni sociali positive e l’interdipendenza, lo stile maschile predilige informazioni che consentono di percepirsi come soggetti distinti, separati e orientati ad obiettivi di tipo personale (Buckner, Fivush 1998, pp. 408-409). Va notato che le differenze relative all’adozione dei gender styles – di ordine sociocognitivo – si riflettono senza tregua in altri domini: basti pensare al come i bambini processano le visual information oppure agli stili ludici, agli stili comunicativi e così via. Ebbene, da un lato gli affiliative themes femminili portano le bambine a recuperare eventi autobiografici relativi alle discussioni con i fratelli, alle amicizie con i compagni di classe eccetera. Dall’altro lato gli autonomous themes maschili portano i coetanei a selezionare esperienze relative alla propria performance e al raggiungimento di obiettivi self-determined. Facciamo attenzione: ciò non significa che le bambine non considerano in nessun modo le proprie ambizioni personali e che i bambini non sono per niente interessati ai riferimenti relazionali, quanto piuttosto che entrambi sono motivati a ricordare distinti aspetti delle esperienze. A ben vedere, il contesto di Reminiscing sembrerebbe riflettere – a trecentosessanta gradi – le caratteristiche attribuite al Self maschile e al Self femminile: se con le bambine gli adulti sollecitano l’elaborazione di storie interdipendenti che non descrivono le azioni di per sé quanto piuttosto le interazioni che le hanno contraddistinte, con i bambini prediligono un approccio oggettivo che mette in luce il susseguirsi delle azioni compiute per raggiungere uno specifico obiettivo (Fivush et al. 2011,
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pp. 327-328). Pertanto, se le condivisioni femminili intendono recuperare la dimensione passata a partire da un focus sociale che considera l’indice di affiliazione come parte centrale dei ricordi, le condivisioni maschili recuperano eventi già conclusi con un occhio di riguardo costante nei confronti della dimensione futura per riuscire a realizzare connessioni tra la propria persona e i personal purposes. E ancora, il Reminiscing femminile si presenterebbe come emotionally-based, mentre il Reminiscing maschile come reality-based. Già dai tre anni, i genitori e gli adulti di riferimento considererebbero le emozioni come parte integrante delle micro-sceneggiature autobiografiche femminili. Nel corso delle condivisioni mnemoniche, in effetti, le bambine sono considerate come agenti che compiono azioni mosse da specifici stati emotivi che devono essere recuperati, compresi e valorizzati (“Come ti sei sentita? Perché hai provato questa emozione?”). Al contrario, gli adulti chiederebbero ai bambini di recuperare dettagli relativi alle azioni che si sono svolte, spesso in autonomia: in altri termini, i copioni emotivi non costituiscono in nessun modo una parte centrale della loro esperienza (Fivush et al. 2000, pp. 235 ss.). Bene. D’accordo. La percezione di se stessi nella realtà sembra essere chiaramente gender-typical. E come si esprime, dunque, il Self a livello narratologico? Vediamo cosa accade nell’intervento sperimentale condotto da Robyn Fivush e Janine Buckner (1998) nel corso del quale è stato chiesto ad un gruppo di bambini e di bambine in età scolare di raccontare alcune esperienze autobiografiche relative a dimensioni concettuali prestabilite (ad esempio, achievement, alienation, social closeness e così via). Dimensioni chiaramente schematiche per
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uno dei due generi e al tempo stesso a-schematiche per l’altro. Il genere si presenta come vero e proprio filtro che influenza il self-concept e che modella la codifica e l’organizzazione delle esperienze. Consideriamo la dimensione “alienazione” nella quale viene chiesto ai partecipanti di selezionare un evento in cui si sono sentiti esclusi (figure 8 e 9). Nel primo resoconto qui riportato, la protagonista di sei anni ricostruisce un network relazionale specifico e come prima cosa seleziona e mette in luce i personaggi – attribuendo loro un nome e un’identità – che hanno scatenato la sensazione negativa. In effetti, racconta di essersi sentita isolata nel momento in cui la migliore amica ha trovato una seconda compagna di giochi, la quale viene introdotta attraverso riferimenti accurati (si chiama Camilla, è francese, è arrivata da tre mesi). Sarebbe a dire, gli elementi relazionali sembrano avere un ruolo privilegiato nella ricostruzione narrativa femminile. Facciamo attenzione: la protagonista dopo aver introdotto il problema e riassunto rapidamente lo svolgimento dell’accaduto, inserisce la soluzione di riferimento che ha a che vedere con il confronto sanatorio tra le parti e con la riconquista dell’equilibrio sociale di partenza. Proprio così, il self-goal che modella il recupero mnemonico coincide senza dubbio con il mantenimento della relazione. Differente, invece, l’approccio di un coetaneo il quale seleziona un momento in cui a scuola alcuni amici non lo hanno lasciato giocare perché stavano già partecipando troppe persone. Il narratore non si preoccupa in nessun modo di rievocare i personaggi che hanno preso parte all’evento e che hanno scatenato la sensazione negativa (ricorda solamente che erano in molti) in quanto l’attenzione sembra essere catturata dal man-
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cato raggiungimento del suo obiettivo (giocare). Sarebbe a dire, come self-goal maschile alla base del processo di reminiscenza troviamo il conseguimento di un desiderio personale. Insomma, se è vero che le esperienze vissute possono essere particolarmente simili, è anche vero che i due generi le codificano – e le recuperano – con intenti e interpretazioni differenti. Detto in una sola parola: Self, percezione della realtà, memoria e narrazione autobiografica. Una complessa catena tayloristica che non può in nessun modo essere interrotta (Fivush 2008, p. 52).
Figure 8, 9. Narrazioni autobiografiche realizzate da una bambina e un bambino in età scolare relative alla dimensione concettuale “alienation” (Buckner, Fivush 1998, p. 422).
Quanto allo stile narrativo, gli adulti sembrano adottarne uno high elaborative e interattivo con le bambine e uno pragmatico-ripetitivo con i bambini. Sarebbe a dire, nel recuperare eventi passati, le bambine sembrano essere interpellate più e più volte a partire dalla ricostruzione coerente dell’evento in oggetto (“Perché è successo così?”), dall’aggiunta di dettagli particolareggiati – che stimolano l’a-
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dozione di più punti di vista e contemporaneamente la capacità di realizzare scenari ipotetici (“Cosa potresti fare nella stessa situazione la prossima volta?”) – e, infine, di feedback valutativi (“Brava, corretto!”). Al contrario, l’operazione di Reminiscing narrativo con i bambini si avvarrebbe del supporto di domande chiuse che chiedono loro di recuperare le principali azioni dell’evento (“Cosa è successo?”), di confermare ciò che è già stato affermato in precedenza (“Bene, è successo proprio così”) a partire da espressioni direttive e unidirezionali (“Dovevi fare in questo modo!”). In altri termini, se con le bambine viene adottato un approccio cognitivo che consente loro di focalizzarsi sugli stati d’animo passati e sulle cause che li hanno provocati per regolare l’atteggiamento emotivo futuro, con i bambini viene utilizzato più frequentemente un approccio comportamentale, volto a esaminare – step by step – le azioni che si sono alternate prima della conclusione dell’esperienza condivisa. Da un lato troviamo un plot casually-based e dall’altro un plot action-based (Fivush et al. 2000; Zaman, Fivush 2013, pp. 1-4). Il meccanismo si complica se si considera anche il genere degli adulti coinvolti (Zaman, Fivush 2013, pp. 1-4). Vediamo cosa accade a livello familiare, ad esempio. Il Reminiscing verbale sembra essere un’attività incentivata dalle madri, le quali si presentano come maggiormente elaborative dal punto di vista narrativo. In effetti, sarebbero loro ad inserire numerosi riferimenti agli stati emotivi e a discutere apertamente delle correlazioni cause-effetto che connotano gli eventi quotidiani sia negativi che positivi. Nulla di strano se pensiamo che le madri tendono a prediligere un approccio autobiografico
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verbale, diversamente dai padri che preferiscono impostare la relazione con i propri figli a partire da un approccio comportamentale. E ancora. In linea con le caratteristiche relative al proprio Self, i padri racconterebbero storie di autonomia e successo personale quali i risultati di lavoro, mentre le madri si focalizzerebbero su esperienze di affiliazione quali le routine familiari (Zaman, Fivush 2011, p. 704). Emblematico a questo proposito l’intervento sperimentale condotto da Carole Peterson – psicologa presso la Memorial University of Newfoundland – nel corso del quale un gruppo di genitori racconta autonomamente un avvenimento stressante vissuto dal figlio oppure dalla figlia, quale un ricovero ospedaliero inaspettato (2004, pp. 329 ss.). Parental narratives about their children: il risultato è davvero sorprendente in quanto testimonia una differente rielaborazione genitoriale degli stereotipi di genere, i quali vengono trasmessi a loro volta nelle rielaborazioni condivise. Vediamo quello che accade quando una madre racconta della caduta del figlio che lo ha condotto in ospedale d’urgenza (figura 10). La strategia che guida il resoconto sembra essere action-based e non sembra contenere nessun tipo di riferimento emotivo-interpretativo. Leggendolo nel dettaglio, scopriamo che erano le sette di mattina, che il bambino stava saltando sopra ad un cuscino e che è caduto accidentalmente sbattendo la testa contro allo spigolo del tavolo ed infine, che una volta arrivato in ospedale, il medico è dovuto intervenire con alcuni punti. L’approccio è prettamente oggettivo, le disposizioni interiori non costituiscono in nessun modo una parte centrale del ricordo dell’esperienza così come vengono tralasciati gli eventuali collegamenti tra le poche azioni citate e le relative cause (“Il me-
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dico gli ha messo cinque punti e una volta finita la procedura, gli ha regalato un ghiacciolo”). Una sceneggiatura opposta caratterizza, invece, il resoconto di una madre relativo all’ospedalizzazione della figlia causata da una caduta dal letto (figura 11). Alcune informazioni oggettive – quali le coordinate spazio-temporali – offrono senza dubbio la possibilità di contestualizzare l’accaduto, ma acquisiscono un ruolo secondario rispetto alla complessità psicologica dei characters. Ebbene, gli agenti citati non compiono in nessun modo solamente azioni in un ordine specifico, ma acquisiscono un’interiorità complessa in grado di spiegare le sensazioni negative provate. La madre racconta della figlia che una mattina – dopo aver saltato sul letto con il fratello e un amico – inizia a piangere disperatamente a causa del dolore provato alla testa. In questo secondo caso, a guidare il recupero mnemonico sembrano essere le interpretazioni dell’accaduto (“Lei piangeva scendendo le scale, ma questo accadeva spesso”), le connessioni tra cause ed effetti, i riferimenti alle considerazioni altrui (“Loro hanno detto che stava bene e ho capito che potevo stare tranquilla”) ed infine, i riferimenti percettivi – collegati come si vedrà nel prossimo capitolo alle rielaborazioni traumatiche e stressanti (“Quando veniva vicino a me, ho notato effettivamente che la testa era rotta e aperta”). Particolarmente emblematica la volontà di costruire coerenza: ciascuna azione deve essere – per forza di cose – integrata in un framework esplicativo. Mystère révélé. Se è vero che le esperienze negative condivise sono simili, è anche vero che l’attenzione delle madri è rivolta ad aspetti contrapposti dell’accaduto.
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Figure 10, 11. Esempi di resoconti genitoriali relativi ad un evento stressante vissuto rispettivamente da un bambino e da una bambina (Peterson 2004, pp. 339-340).
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4. Racconti maschili, racconti femminili Le caratteristiche di genere che contraddistinguono il contesto di Reminiscing e i differenti modi di percepire la realtà si tradurrebbero in puntuali scelte narratologiche nelle narratives autobiografiche infantili. Possiamo davvero parlare di resoconti femminili e di resoconti maschili? La risposta è assolutamente affermativa. Come sempre in un’ottica inclusiva che riconosce – e valorizza – l’esistenza di differenti stili percettivi e l’evoluzione dei sistemi di framing e scripting a partire dalle richieste del contesto sociale di appartenenza. Innanzitutto, alcune considerazioni contenutistiche. Come si è visto, il principale elemento che differenzia i gender reports sembra essere la valorizzazione delle emozioni. Della stessa esperienza le bambine sembrano mettere in luce gli stati emotivi coinvolti, mentre i bambini sembrano privilegiare la successione temporale delle azioni a partire da un approccio factuel. Sarebbe a dire, se le prime si chiedono perché un evento è accaduto e quali emozioni ha scatenato, i secondi si chiedono cosa è successo e con quale obiettivo. Il differente focus mnemonico sembra originarsi – come già analizzato – nelle interazioni tra adulti e bambini. Prendiamo come esempio la tristezza, vediamo come viene socializzata e quale rielaborazione narrativa caratterizza i due generi. Per prima cosa, la sensazione di malinconia e tristesse sembra essere un’emozione universale scatenata da eventi quali, ad esempio, la perdita di persone care, la fine di un’amicizia e così via. C’è però un tuttavia. Se è vero che esiste una componente biologica relativa all’attivazione dei meccanismi emotivi, è anche vero che è ancora una volta la cultura a fornire gli scripts che consentono ai soggetti di comprendere le esperienze e di percepirsi di conseguenza tristi. Scripts che sembrano essere differenti in base al
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genere, il quale è da intendersi come niente meno che un modo di interagire nel mondo. Vediamo come queste micro-sceneggiature vengono socializzate nei primi anni di vita a partire da due conversazioni tra genitori e figli in età prescolare (Fivush, Buckner 2000, pp. 242 ss.). Nella prima interazione riportata, una madre sta discutendo con la figlia di tre anni di un’esperienza triste causata – comme chaque fois – da una motivazione sociale, ovvero da un’incomprensione con un’amica (figura 12). La conversazione si apre con una open question che va alla ricerca delle cause dello stato d’animo (“Perché ti sei sentita così?”) e che consente alla bambina di mettere in evidenza le due azioni scatenanti, tra le quali il fatto che la sua amica dopo aver dormito da lei è dovuta tornare a casa sua. La madre continua l’interazione validando la prospettiva della figlia, aggiungendo informazioni in ciascun turno conversazionale (“Stavi piangendo perché”) e negoziando interpretazioni (“Adesso ho capito. Eri triste sia perché lei è andata a casa, sia perché ha dormito nel tuo letto e tu non volevi”). L’emozione non è solamente accolta, ma anche approfondita attraverso la creazione di un framework esplicativo che integra le cause, le risoluzioni e i differenti punti di vista dei soggetti coinvolti. Chiaramente, l’emozione discussa è di tipo interdipendente in quanto si origina a partire dal comportamento di un’altra protagonista. Nella seconda interazione, invece, una madre sta condividendo con il figlio della stessa età il momento in cui è dovuto rientrare dopo aver trascorso il pomeriggio a casa di un’amica (figura 13). In questo caso, la causa dell’emozione sembra essere autonomous in quanto il protagonista si sente triste per non essere riuscito a raggiungere il suo obiettivo principale (“Ero triste perché il film era finito, perché dovevo andare a casa e perché volevo an-
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cora il succo”). Al tempo stesso, l’atteggiamento della madre sembra essere ripetitivo in quanto ripropone le informazioni già fornite dal bambino e costruisce quesiti chiusi che prevedono risposte standardizzate (“Ti sei sentito bene oppure male?”). È del tutto evidente che il modo in cui vengono elaborati gli eventi emotivi con gli adulti è strettamente collegato all’interpretazione delle esperienze e alla condivisione successiva dei materiali. In effetti, sin dai primi anni di scuola primaria sono le bambine a focalizzarsi sulle caratteristiche emotive degli eventi vissuti, a recuperare più facilmente emotional memories e a menzionare – almeno il doppio delle volte rispetto ai coetanei – termini di questo tipo nei propri resoconti. Se per rappresentare la tristezza i bambini ammettono di sentirsi “tristi”, le bambine approfondiscono lo stato d’animo attraverso numerose sfaccettature semantiche e dichiarano di sentirsi in alcuni casi “depresse” mentre in altri solamente “malinconiche” (Fivush, Buckner 2000, p. 247). D’accordo con queste premesse, significative sembrano essere le scelte dei principali topics che caratterizzano le narrazioni autobiografiche. Se le bambine – e le ragazze – prediligono eventi socio-relazionali percepiti come self-central (discussioni con le amiche, problematiche familiari), i bambini si soffermano maggiormente su exterior topics, ovvero raccontano di performance personali, affrontano argomenti collegati alla dinamica problematica-risoluzione e alla dinamica perdita-successo. Ripetiamolo un’ultima volta. Se da un lato troviamo un approccio narrativo collegato alla communion e ricordi connessi e interdipendenti, dall’altro troviamo un approccio legato indissolubilmente all’agency intesa in termini di prestazioni ed autonomia e ricordi separati ed egocentrici (Niedwienska 2003; Fivush et al. 2000, p. 250).
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Figure 12, 13. Conversazioni co-costruite da due madri e rispettivamente da una bambina e un bambino in età prescolare (Fivush, Buckner 2000, p. 246).
Ora, riprendiamo il collegamento tra contesto di Reminiscing e future scelte narratologiche. Si è detto che l’approccio che caratterizza i setting maschili è actionbased, mentre l’approccio che caratterizza i setting femminili è casually-based. Non è un caso che i bambini organizzino l’esperienza a partire da un approccio fattuale che considera soprattutto le caratteristiche contestuali collegate alle proprie azioni e che le bambine si affidino a un approccio interpretativo che consenta loro di realizzare spiegazioni peculiari dell’accaduto. Se i bambini codificano informazioni relative al dove, al quando e al come un evento si è verificato, le bambine si chiedono perché è accaduto e quali ripercussioni
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porta con sé nella dimensione presente. Lasciamo la parola a Matthew Schulkind che ha condotto un intervento sperimentale nel quale un gruppo di adolescenti ha commentato la medesima esperienza, ovvero una partita di hockey disputata poco prima del compito di recupero mnemonico (Schulkind et al. 2012). A ben vedere, se le ragazze tendono a ricostruire l’esperienza a partire da unità narrative interpretative che mettono in luce, ad esempio, il collegamento tra punteggio e situazione emotiva (“In campo eravamo tutte agitate e si respirava un’aria pesante”), i ragazzi recuperano minuziosamente le unità fattuali – ovvero le azioni che si sono alternate – a partire dal loro obiettivo principale, la vittoria (“Il punteggio era 2 a 2”, “Il coach ha cambiato la formazione” e via dicendo). He shoots and score, she evaluates and interprets. Ora, alcune considerazioni strutturali. Si è visto che lo stile narrativo high elaborative caratterizza soprattutto le interazioni con le bambine, le quali sono portate a ricostruire l’evento vissuto a partire dalla costruzione di link tra cause e conseguenze e al tempo stesso, tra azioni e Self. Un maggior numero di parole e al tempo stesso, un evidente ricorso alle connessioni: è questo il motivo per il quale i racconti al femminile sembrano essere più lunghi e coerenti. Tuttavia, ciò che ci interessa dal punto di vista narratologico è anche la tipologia di focalizzazione adottata, intesa come concetto che denota la restrizione delle informazioni narrative relativamente alla percezione e alla conoscenza di qualcuno (Calabrese 2019, p. 95). Se le bambine adottano spesso un punto di vista onnisciente, ovvero raccontano come se stessero osservando dall’esterno la scena della quale loro stesse fanno parte, i bambini raccontano in prima persona riportando l’accaduto attraverso i propri occhi. Da un lato le We-narratives femminili che considera-
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no il punto di vista di più soggetti, e dall’altro lato le I-narratives maschili che codificano la realtà dalla propria prospettiva (Hubnier, Friedrickson 1999). Ma c’è dell’altro. È chiaro che se l’approccio femminile è sociale e interpretativo, non ci stupisce in nessun modo l’utilizzo diffuso di congiunzioni, avverbi, aggettivi qualitativi e quantitativi e al tempo stesso, di parole correlate ai processi psicologici. Una riprova? La maggiore percentuale di proposizioni causali e di parole di orientamento cognitivo ed emotivo (quali i verbi di riflessione come pensare, credere, riflettere e così via). Diversamente, l’approccio fattuale maschile è ben espresso a livello linguistico attraverso l’utilizzo di numerosi articoli e di lessemi lunghi e settoriali (relativi, ad esempio, allo sport e al lavoro). Particolarmente emblematica la scelta femminile di fare affidamento su uno stile che possiamo definire extra-polite orientato alla negoziazione: sono molteplici le domande – conosciute come tag-questions – che consentono di ricevere conferme e di ottenere consensi (“Non è così?”). Contrapposta, invece, la scelta maschile di utilizzare interazioni dirette che non intendono lasciare particolare spazio alla negoziazione (“Andiamo a mangiare!”) (Newman et al. 2008, pp. 223 ss.). Ancora più complesso l’utilizzo del discorso riportato. Dagli ultimi anni prescolari, i bambini sembrano essere in grado di costruire resoconti autobiografici includendo riferimenti alle interazioni verbali passate attraverso la strategia narratologica del cosiddetto reported speech. Non a caso, sono proprio le bambine ad avvalersi di questo espediente narrativo per ricostruire le esperienze personali: infatti, non solo inseriscono nei loro resoconti riferimenti ad altri personaggi e alle loro azioni, ma scelgono anche di riportare fedelmente le loro parole attraverso il discorso indiretto (“La mamma ha
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detto che non potevamo andare nell’acqua dopo aver mangiato”) (Ely, Ryan 2008, pp. 397-398). Sarebbe a dire? Se i personaggi maschili agiscono, i personaggi femminili interagiscono e parlano. Proviamo a riassumere questa lunga escursione relativa ai resoconti di genere a partire da due family narratives, ovvero da due narrazioni nelle quali due bambini di diverso genere selezionano un’esperienza vissuta dalla madre o dal padre e la ricostruiscono (Zaman, Fivush 2011). When my mum was a little girl, when my dad was a little boy: ancora una volta, tutto sembra essere di pertinenza della narratologia. Partiamo dal resoconto di una bambina focalizzato su un’avventura della madre lontana da casa, innescata da un’amicizia sbagliata (figura 14). Un resoconto interdipendente che deve il suo svolgimento alle azioni compiute non solo dalla protagonista, quanto piuttosto dai vari personaggi (“Mia mamma aveva un’amica che era sulla cattiva strada”, “Un giorno mia mamma è scappata con lei e hanno passato la notte con i ragazzi che hanno conosciuto”). A ben vedere la ricostruzione narrativa è affidata completamente agli stati emotivi che a loro volta guidano le azioni (“I suoi genitori erano molto preoccupati”) e alle interpretazioni che la bambina costruisce riguardo alle actions riportate (“Non penso che abbiano fatto niente”, “Mia mamma ha detto che è stata l’esperienza più terribile della sua vita”). Diversamente, un bambino seleziona un’avventura vissuta dal padre nel corso della sua prima adolescenza che lo ha messo in pericolo (figura 15). Nello specifico, il narratore riporta alcune azioni attraverso un effet cumulatif che spiega alla perfezione il problema incontrato: il padre stava andando in bicicletta, ma ad un certo punto due grandi cani hanno iniziato a seguirlo così ha scelto di scendere e di mettersi in salvo in una casa vicina. Nessun tipo di riferimento né emotivo né in-
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terpretativo, quanto piuttosto un resoconto estremamente puntuale – e temporalmente ordinato – delle actions che si sono alternate e che hanno messo in discussione l’operato del genitore.
Figure 14, 15. Family narratives realizzate da una bambina e da un bambino riguardo alle esperienze della madre e del padre (Zaman, Fivush 2011, pp. 715-716).
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5. Tra regie culturali, finzionalità e visual storytelling È del tutto evidente che le attività di storytelling – collegate alla narrazione finzionale – non possono discostarsi particolarmente dagli stili mnemonici autobiografici che influenzano la percezione e la comprensione degli individui nella realtà. La letteratura per l’infanzia, ad esempio. Il mondo dell’editoria finzionale – che come ben sappiamo fornisce schemi e micro-sceneggiature utili per comprendere ciò che ci accade – sembra essere collegato in modo biunivoco ai già citati self-goals, differenti a seconda dei contesti culturali di appartenenza. In altri termini, i testi editi per un pubblico infantile intendono sostenere – à tous les effets – la produzione di scripts idonei, i quali incentivano l’adozione di comportamenti coerenti con le richieste sociali. Se nella letteratura per l’infanzia occidentale, ad esempio, i bambini sono incoraggiati a mettere in luce le caratteristiche personali, i testi editi in estremo oriente spostano l’attenzione sulle relazioni familiari e sulla condotta comportamentale adeguata e socialement acceptable (Calabrese 2020, p. 38). Ma procediamo per gradi e rimaniamo all’interno del panorama delle narrazioni visive già chiamate in causa nel capitolo precedente. Nello specifico, affidiamoci ai noti silent books, intesi come testi senza parole che sostengono la produzione di significato a partire solamente dal complesso e articolato linguaggio iconico. Facciamo attenzione: la lettura dei testi senza parole è affidata alla continua attivazione delle conoscenze autobiografiche dei lettori di secondo grado – ovvero dei bambini – e al tempo stesso, alle loro abilità di predizione e simulazione. Insomma, qui più che mai la comprensione è delegata sì alla trama proposta attraverso le immagi-
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ni, ma al tempo stesso agli scripts autobiografici che guidano il processo di lettura circolare, da una doppia pagina alla successiva. Sarebbe a dire, sono le conoscenze stoccate in memoria che consentono di riconoscere le azioni svolte dai protagonisti e di attribuirvi significato. Vediamo due esempi. Da un lato, il rinomato silent book La piscina realizzato dall’autrice coreana Ji Hyeon Lee e pubblicato dalla casa editrice Orecchio Acerbo nel 2015. Il protagonista del testo – un bambino in età scolare – nelle prime pagine si trova sul bordo di una piscina condiviso con altri villeggianti burberi e scoordinati, contraddistinti solamente dai colori bianco e nero, i quali mettono in luce la loro estraneità alla vicenda che sta per avviarsi. Tutto ha inizio con il tuffo del personaggio principale che si immerge in profondità – dove qualsiasi cosa acquisisce finalmente un colore – e incontra una coetanea con la quale inizia un’avventura indimenticabile. In effetti, i due incrociano – in un mondo che si presenta come completamente controfattuale – numerosi abitanti del mondo marino, tra i quali alcuni cavallucci, alcune conchiglie dai connotati irreali e addirittura un enorme capidoglio che assomiglia a Moby Dick. Ebbene, tutto ciò accade proprio a partire dalla relazione che si instaura tra i due: dal momento dell’incontro, infatti, le actions dell’uno acquisiscono significato attraverso quelle dell’altro (figura 16). I due gioiscono insieme, si aiutano a vicenda, scoprono un mondo completamente differente dalla superficie e infine, si conoscono realmente nell’ultima pagina dopo essersi tolti la cuffia da piscina. Insomma, il silent book dell’artista coreana mette in luce la capacità dei bambini di discostarsi dalla realtà per immergersi nell’immaginazione e al tempo
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stesso, la possibilità di farlo solamente in relazione ad altri soggetti. Si tratta di una scoperta del mondo interdépendant nel corso della quale il pensiero degli altri è prezioso, così come fondamentale è la risonanza emotiva collegata alle personal actions. Non a caso, se uno dei due protagonisti si spaventa, l’altro corre immediatamente in suo soccorso e al tempo stesso, se uno dei due si meraviglia, scatena la medesima reazione nell’altro. Dall’altro lato, il silent book Ma quando arriva? edito da Carthusia nel 2022 e realizzato dalla giovane autrice di origine spagnola Violeta Gomez. La protagonista del testo è una bambina in età prescolare che attende l’autobus alla fermata della città vicino ad alcuni adulti completamente assenti in quanto presi probabilmente dai loro pensieri e dalle loro preoccupazioni. Insomma, ognuno pensa per sé e l’interazione sembra essere un obiettivo decisamente lontano. Se gli adulti si annoiano, la bambina decide di trascorrere il tempo dedicandosi a ciò che le piace di più, ovvero inizia a ipotizzare un mondo controfattuale nel quale tutto può accadere a partire dagli oggetti che vede attorno a lei (figura 17). Così, la sciarpa attorno al collo di un passante diventa un grande dragone rosso, un piccolo animale sul tronco vicino diventa talmente gigantesco da fare quasi paura e i moscerini che volano nei dintorni diventano colorati elicotteri. L’obiettivo dell’autrice è senza dubbio mettere in luce la capacità della protagonista di perseguire un obiettivo auto-determinato e al tempo stesso, evidenziare la sua capacità di simulare una complessa realtà controfattuale a partire dalle sole conoscenze e intenzioni personali. E ancora, è del tutto evidente che le actions che la protagonista esegue nel corso delle pagine sembrano essere completamente scollegate dal contesto di appar-
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tenenza. In effetti, tutto ciò è ben testimoniato dalla sua espressione positiva, perennemente in disaccordo con quella annoiata dei personaggi adulti presenti nel retro della scena. Insomma, una sorta di opposizione esistenziale che mette in luce la percezione differente della stessa micro-sceneggiatura e che ben esemplifica l’agire self-determined occidentale.
Figure 16, 17. Una doppia pagina tratta dal silent book La piscina (Lee 2015) e una doppia pagina tratta dal testo Ma quando arriva? (Gomez 2022).
A voler essere precisi, anche la produzione narrativa finzionale infantile sembra essere influenzata dai format autobiografici culturalmente definiti. A rendere fruttifero il terreno di ricerca è stata Ageliki Nicolopoulou – docente statunitense presso la Leigh University – la quale ha condotto attività di storytelling con bambini di scuola dell’infanzia partendo dalla consapevolezza che la struttura narrativa sia fortemente correlata ai valori sociali di riferimento che hanno a che vedere nello specifico con il gender (Nicolopoulou 2011). Prima di tutto, una rapida digressione relativa allo sviluppo delle abilità narrative finzionali nel corso del periodo scolare. Così come la narrazione autobiografica, anche la capacità di creare plot controfattuali si
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origina all’interno delle pratiche di ricordo condiviso con gli adulti di riferimento grazie ad azioni di scaffolding. È il gruppo di ricerca dell’Università di Firenze – coordinato da Andrea Smorti – a realizzare un intervento sperimentale con l’obiettivo di mettere in luce le eventuali differenze strutturali tra narrazioni autobiografiche e finzionali (Fioretti, Pascuzzi, Smorti 2019). A tal proposito, è stato chiesto ad un gruppo di bambini di nove e dieci anni di realizzare una narrazione autobiografica e due narrazioni finzionali relative alla tematica del viaggio (se nel primo caso devono raccontare il viaggio più interessante effettuato in passato, nel secondo devono simulare il viaggio dei loro sogni e nel terzo, infine, devono costruire un resoconto finzionale a partire dall’incipit fiabesco “C’era una volta un bambino in viaggio”). Se la narrazione autobiografica sembra essere maggiormente organizzata a livello di coerenza, quella finzionale sembra essere modellata attraverso un’attenzione particolare rivolta alla macrostruttura, in quanto prevede l’inserimento obbligato di un inizio, di uno svolgimento e di una fine. E ancora. La narrazione autobiografica – d’accordo con l’evoluzione già analizzata – è organizzata a livello temporale e prevede l’inserimento di una serie di proposizioni poste diacronicamente senza nessun tipo di complicazione (“Un giorno d’aprile stavamo partendo per andare a Venezia. Quando siamo arrivati alla piazza, abbiamo visto una statua molto alta e grande. Quando è arrivata sera, siamo andati in un ristorante famoso e abbiamo cenato con una pizza in famiglia”). Al tempo stesso, la narrazione finzionale che chiede ai bambini di ipotizzare il viaggio dei loro sogni segue un meccanismo similare: le azioni sono elencate in un ordine predefinito a partire dall’utilizzo del
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tempo condizionale e dall’adozione di una modalità desiderativa (“Un giorno vorrei andare a New York con la mia famiglia. Con loro, vorrei vedere uno dei più alti grattacieli. Lì vorrei mangiare il sushi.”). Al contrario, la struttura narrativa che si discosta maggiormente sembra essere l’ultima: grazie all’incipit fiabesco, i bambini recuperano gli schemi che caratterizzano il genere testuale in oggetto e monitorano il processo di narrativisation a partire dall’inserimento di numerose complicating actions e dall’inserimento di un problema iniziale che deve essere – inévitablement – risolto dal protagonista prima della conclusione (“Successe che uno dei bambini cascò nel tombino, gli altri si fermarono e chiamarono aiuto. Il primo trovò una corda ma era troppo corta, il secondo una scala e il terzo una stradina che portava sottoterra”) (Smorti 2018, pp. 148-152). Dunque, l’antico incipit “C’era una volta” può essere considerato una strategia di emplotment privilegiata a livello di produzione finzionale? Certo che sì, in quanto sembra sostenere il difficoltoso passaggio dal mondo reale alla finzione e l’adozione di tutte le strategie narratologiche che ne derivano. Non a caso, nella realizzazione di narrazioni finzionali di questo tipo, i bambini si avvalgono del supporto del tempo passato prossimo oppure del tempo imperfetto, considerati i tempi narrativi per eccellenza che consentono di enfatizzare l’idea che il mondo narrato coincida con un mondo alternativo (Calabrese 2019, p. 191). Ora, torniamo all’intervento sperimentale condotto dalla Nicolopoulou secondo la quale lo storytelling e lo storyacting non possono che essere intesi come processi embedded che assumono significato solamente all’interno del contesto sociale di appartenenza. Proprio per questa ragione, a suo parere, i
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cosiddetti formalist approaches – elaborati da autori come Propp e Stein – sembrerebbero non essere sufficientemente efficaci per analizzare la costruzione dei resoconti narrativi infantili: da questo punto di vista, infatti, le narrazioni di bambini di tre e quattro anni rischierebbero di essere considerate incomplete in quanto si discostano notevolmente dai modelli adulti. Citando le teorie di Jerome Bruner, l’autrice mette in luce – attraverso il cosiddetto interpretive turn – il ruolo del setting socioculturale, il quale sembra essere in grado di modellare direttamente la produzione narrativa. I risultati sono eccellenti: in quest’ottica, i resoconti infantili diventano elementi privilegiati che rispecchiano l’organizzazione della realtà, della loro identità, del loro Self e dei loro social networks. Si tratta, dunque, di riconoscere l’importanza delle strutture di significato che tutte le storie infantili contengono (Nicolopoulou 2011, pp, 32-33). A ben vedere, nelle narrazioni finzionali – relative a tematiche libere – realizzate da bambini di scuola dell’infanzia, emergono due differenti stili di worldmaking, o meglio due differenti genres: se le narrazioni femminili sono basate sul cosiddetto family genre, quelle maschili appartengono al noto heroic-agonistic genre. Innanzitutto, le girl’s stories. Le narrazioni femminili presentano un set stabile di personaggi collocati in un setting fisico conosciuto e hanno come obiettivo principale quello di mettere in luce relazioni familiari sociali positive e armoniose. Non a caso, la maggior parte dei loro resoconti è ambientata in contesti domestici ed evidenzia una serie di repeated patterns riferiti alla vita quotidiana, quali fare la spesa, avere dei bambini, sposarsi e così via. Nel family romance si impongono in modo significativo anche elementi correlati al mondo controfattua-
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le: vengono, infatti, inseriti spesso personaggi quali principi, principesse e altri ruoli che appartengono allo storyworld fiabesco. E ancora, la maggior parte dei personaggi considerati – ad esempio, gli animali – è docile e gentile e possiede dispositivi idonei per neutralizzare eventuali elementi pericolosi oppure distruttivi. Ma non basta. In queste narrazioni viene messo in luce un mondo ordinato, coerente e ben strutturato. C’est-à-dire, personaggi conosciuti che appartengono alla cerchia familiare agiscono in contesti altrettanto noti con l’obiettivo di mantenere – oppure di recuperare – un ordine prestabilito. Un esempio? La prima narrazione qui riportata è stata realizzata da una bambina di quattro anni che intende valorizzare un equilibrio familiare che manca quasi completamente dell’elemento narratologico del conflitto (figura 18). È vero che un personaggio negativo – ovvero un dinosauro – ad un certo punto della vicenda ruba i protagonisti (ovvero, i bambini), ma è anche vero che poco dopo viene integrato all’interno della coalizione positiva perdendo completamente la sua aurea di pericolosità (“Il dinosauro riportò a casa i bambini e tutti divennero amici”). En opposition, lo stile maschile è basato sul movimento e sulla disruption in quanto è collegato ad una serie di cambiamenti del setting narrativo proposti attraverso catene immaginative e cumulative. Non a caso, i personaggi considerati esibiscono spesso caratteristiche lontane dalla realtà, sono spaventosi e al tempo stesso potenti. Basti pensare ai numerosi mostri, guerrieri e animali distruttivi che hanno la capacità di compiere azioni in grado di destabilizzare completamente gli equilibri esistenti. Sarebbe a dire, manca completamente la volontà di stabilire un ordine sociale in quanto i bambini privilegiano il movi-
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mento indipendente a partire da azioni di conflitto e opposizione. Al tempo stesso, gli avvenimenti vengono avviati all’interno di setting sconosciuti dal valore figurativo, quali la foresta che nasconde al suo interno numerosi pericoli inaspettati. Et voilà: l’obiettivo dei narratori sembra essere il fornire una serie di escalating images alla base di un effetto thrilling che conferisce un ritmo peculiare alla narrazione. Nella boy’s story sotto riportata, realizzata da un bambino coetaneo, un grande orso si trova in una foresta, ma ad un certo punto incontra un gigantesco coniglio pericoloso che – aprendo la sua bocca – si prepara per mangiarlo. Fortunatamente e inaspettatamente, poco dopo compaiono alcuni personaggi mostruosi non facilmente identificabili, i quali tuttavia non hanno in nessun modo un ruolo salvifico, ma al contrario sono introdotti solamente per spostare l’attenzione del lettore e per movimentare la scena narrata (figura 19).
Figure 18, 19. Un esempio di girl’s story e un esempio di boy’s story realizzate da bambini di quattro anni (Nicolopoulou 2011, pp. 34-36).
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Focalizziamoci un istante proprio sui personaggi. Ciò che appare evidente è la confidenza che i bambini e le bambine hanno con i characters controfattuali. Ciò non ci stupisce in nessun modo se pensiamo che i narratori in età infantile tendono a classificare gli elementi come reali oppure come finzionali a partire dalla vicinanza e dalla distanza con la propria esperienza quotidiana. Più una cosa è lontana e sconosciuta, più è considerata finzionale. Au contraire, più è nota e più è categorizzata come reale. Ecco svelato il mistero per il quale in periodo prescolare e scolare personaggi quali Babbo Natale e una principessa sono considerati come reali diversamente da personaggi storici come Dante e Attila (Calabrese 2019, p. 178). Di nuovo, una continua e ininterrotta integrazione tra reale e finzionale che offre una risposta puntuale al perché anche le narrazioni controfattuali infantili siano modellate senza sosta dal contesto sociale di appartenenza (Calabrese 2013, p. 201). Non basta. D’accordo con l’evoluzione delle competenze cognitive coinvolte nel processo narrativo autobiografico – e con il perfezionamento delle abilità di mind reading – i riferimenti agli stati emotivi e mentali dei personaggi nelle attività di storytelling sembrano fare la loro comparsa solamente dopo i cinque anni. Seguendo ancora una volta il ragionamento della Nicolopoulou, a tre anni i personaggi vengono descritti a partire dalle loro azioni e dai tratti fisici e mancano completamente di continuità, a quattro anni compaiono i primi riferimenti alle caratteristiche psicologiche e a cinque emergono desideri, intenzioni e credenze (Nicolopoulou, Richter 2007, p. 418). Riassumendo alcuni testi fiabeschi noti e familiari, i bambini di tre anni tenderebbero
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a raccontare le actions (“C’era una volta una principessa. Poi arrivò un principe”), mentre i bambini di quattro anni inserirebbero i primi riferimenti agli emotional states (“Un giorno arrivò il lupo e mangiò Cappuccetto Rosso: la mamma era molto triste”). Enfin, i bambini di cinque lascerebbero emergere gli stati interni che motivano le azioni esteriori e nel riassumere la nota fiaba della Bella e la Bestia evidenzierebbero l’intenzione principale dell’antagonista Gaston, ovvero la volontà di sconfiggere per sempre la Bestia (“Gaston era arrabbiato e voleva uccidere la bestia, è partito, la ha cercata e la ha colpita”). In altri termini, se in un primo momento i personaggi sono flat, successivamente acquisiscono un’interiorità psicologica accedendo alla tipologia round. Un ulteriore esempio che mette in luce la correlazione esistente tra attività di storytelling – intese come specifiche modalità che consentono di attribuire significato al mondo – e competenze cognitivoemotive. Le une si sviluppano sempre – sempre – in parallelo alle altre. Certo è che gli stili narrativi non fungono solamente da modelli rigidi o statici, ma altresì da vere e proprie matrici generative: le bambine fanno agire personaggi socialmente inseriti e interdipendenti, mentre i bambini lasciano intervenire personaggi bellicosi e individualisti. È evidente che se i bambini prediligono un’intenzionalità che fa dei personaggi agenti autonomi e autodeterminati che devono raggiungere specifici obiettivi, le bambine fanno svolgere ai loro protagonisti azioni collettive, utili per consolidare l’appartenenza al gruppo (Calabrese 2020, pp. 98-100). Nelle boy’s stories, a quattro anni i bambini iniziano a collegare i personaggi per scopi temporanei: questi ultimi vengono uniti in alleanze
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e coalizioni che hanno ragione di esistere solamente per portare a termine azioni collegate al conflitto e al potere. Dai cinque anni in avanti, invece, i loro characters diventano agenti intenzionali che progettano specifiche azioni da inserire nel plot conflittuale e disordinato. All’inverso, nelle girl’s stories realizzate da bambine di cinque anni, i personaggi sono da considerarsi come self-consciously responsible agents che agiscono in linea con il gruppo di riferimento, ovvero per il bene comune. Bene. D’accordo. Ora che sappiamo quali elementi contenutistici e strutturali caratterizzano i gender fictional reports, possiamo chiederci come viene mantenuta la coerenza al loro interno. Seguiamo a questo proposito la definizione di coerenza strutturata da Shapiro e Hudson, intesa come la capacità di organizzare una narrazione a livello spaziale e temporale attraverso una sequenza basata sull’integrazione significativa delle differenti parti della storia (Nicolopoulou 2008, pp. 313-314). A livello narratologico, la coerenza dei resoconti femminili sembra riguardare solo – ed esclusivamente – l’ordine relazionale: in altri termini, le bambine collegano le differenti sequenze narrative attraverso la ricerca della già citata stabilità e attraverso la legge dell’equilibrio idilliaco. E non è tutto. Fanno anche affidamento su una coerenza di tipo temporale in quanto rappresentano patterns regolari e ripetuti relativi ad attività domestiche e conosciute. È del tutto evidente che la coerenza femminile prevede il mantenimento del doppio binario semantico che caratterizza i testi fiabeschi e che consente di imporre un ordine cognitivo alla realtà separando le azioni positive dalle azioni negative (Calabrese 2019, p. 177). Proprio così. Le trame sono modellate a partire da elemen-
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ti che appartengono al mondo interno – ovvero, a quello familiare – e da elementi che ne sono completamente esclusi in quanto considerati pericolosi e dannosi. Diversamente, nei resoconti maschili – nei quali ritroviamo la specifica volontà dei personaggi di stabilire legami di potere e di determinare vincitori e perdenti – la coerenza sembra essere mantenuta non senza poche difficoltà. All’interno di queste narrazioni, infatti, emergono conflitti mai risolti tra personaggi contrapposti, i quali conferiscono al plot un’atmosfera farraginosa a partire dall’inserimento di oggetti che si modificano, di soggetti che ritornano in vita e riemergono nella scena. C’è però un tuttavia. Sembrano essere proprio questi conflitti ad attribuire coerenza al materiale narrativo attraverso la realizzazione di coalizioni e alleanze che vedono unirsi e scontrarsi le differenti categorie di protagonisti alla ricerca del predominio. In sintesi? Gli studi di Nicolopoulou mettono in luce la relazione esistente tra stili cognitivi, stili narrativi finzionali emergenti, Self e volontà di integrarsi all’interno del gruppo sociale di riferimento per costruire un senso di coesione e identità condivisa. Nothing else.
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Dimensione considerata
Caratteristiche narratologiche dei resoconti finzionali infantili
Struttura narrativa.
Organizzazione collegata alla macrostruttura (introduzione, svolgimento e conclusione). Utilizzo dell’incipit “C’era una volta” come strategia di narrativisation e utilizzo degli espedienti narratologici fiabeschi per imporre un ordine cognitivo alla realtà. Utilizzo dei tempi narrativi – quali l’imperfetto e il passato prossimo – come strategia di passaggio dalla dimensione reale alla dimensione finzionale.
Personaggi e azioni.
Dalle caratteristiche fisiche alle caratteristiche psicologiche (fino ai quattro anni vengono introdotti personaggi flat e dai cinque vengono inseriti personaggi round con un’interiorità complessa). Collegamento finzionalità – familiarità (più i personaggi sono familiari e conosciuti e più vengono percepiti come reali anche se controfattuali).
Tipologie di coerenza.
Coerenza temporally-based tipica delle narrazioni femminili (le azioni si alternano temporalmente partendo da un problema ed arrivando alla soluzione). Coerenza character-based tipica delle narrazioni maschili (sono le azioni intraprese dai personaggi in modo repentino a conferire coerenza al racconto).
Competenze coinvolte.
cognitivo-emotive Recupero di schemi e scripts appartenenti alla sintassi mnemonica (i personaggi finzionali compiono azioni collegate alle conoscenze autobiografiche semantiche dei narratori).
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Competenze controfattuali (gli schemi d’azione autobiografici vengono trasferiti sui personaggi che acquisiscono un ruolo di “ancoraggio deittico”). Mind Reading (dai quattro anni emergono le principali intenzioni e motivazioni che guidano le azioni dei personaggi). Tabella 2. Le principali caratteristiche narratologiche che contraddistinguono la produzione finzionale nel periodo infantile.
À la fin, la rappresentazione grafica. Se come si è visto la narrazione autobiografica e la narrazione finzionale sono modellate dai format percettivi ed esplicativi stanziati dal contesto socioculturale, lo stesso destino spetterà al disegno, inteso come modalità di espressione che riproduce la realtà investita di significati soggettivi (Inozu 2018, pp. 1-2). Effettivamente, se è vero che lo sviluppo del linguaggio grafico può essere analizzato attraverso una lente di ingrandimento di tipo cognitivo – che analizza ad esempio l’ordine di comparsa delle principali costanti – e attraverso una lente di tipo neurobiologico, è altrettanto vero che non può essere in nessun modo considerato un’attività separata dal contesto di produzione. Pertanto, come la costante interazione tra frames autobiografici – culturally determined – e rappresentazione grafica emerge in modo preponderante sin dai primi anni di vita? A fornirci una risposta puntuale sono le cosiddette self-representation in quanto riflettono e simboleggiano contemporaneamente sia le self-related emotions sia le self-related cognitions. Innanzitutto, il tadpole man, ovvero la prima bozza della figura umana che sembra comparire attorno ai tre
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anni. È bene ricordare che la capacità di rappresentarsi in un foglio sembra essere particolarmente complicata in quanto necessita del passaggio da uno schema mentale alla rappresentazione bidimensionale di riferimento. Regaliamoci un rapido sight-seeing che testimonia e mostra brevemente l’evoluzione della costante umana. Ad una prima forma circolare che funge da corpo centrale e contiene nella maggior parte dei casi gli elementi che compongono il volto – come gli occhi e la bocca – vengono attaccati alcuni prolungamenti lineari che coincidono solitamente con le braccia e le gambe (Gernhardt, Rubeling, Keller 2015). La modalità rappresentativa primitiva in oggetto non sembra in realtà riflettere un’errata conoscenza dello schema corporeo nei primi anni di vita, quanto piuttosto una difficoltà a livello di organizzazione della disposizione spaziale. Una complessità notevole: le richieste cognitive sono numerose e riguardano, ad esempio, la capacità di mantenere nella memoria procedurale più elementi contemporaneamente e di attribuire loro un ordine specifico attraverso operazioni di planning. C’è però un tuttavia. A opinione di Ariane Gernhardt e del suo gruppo di ricerca (2015), se è vero che i bambini seguono i medesimi principi organizzativi – che li portano a disegnare prima la testa rispetto alle braccia – a qualsiasi latitudine culturale, è anche vero che nei differenti setting sociali sembrano comparire stratagemmi peculiari sia contenutistici che strutturali. De toute évidence, collegati con i format narrativi che gli artisti in erba utilizzano per attribuire significato al mondo. Insomma, abbiamo a che fare con differenze collegate non tanto alla fase di traduzione della rappresentazione mentale, quanto alla fase di riproduzione grafica vera e propria. Da un lato, le differenze strutturali. Se i bambini del gruppo occidentale si rappresentano con dimensioni
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particolarmente imponenti al centro del foglio, i bambini del gruppo rurale africano si disegnano con dimensioni decisamente ridotte in una ridotta parte del piano grafico. Dall’altro lato, le differenze contenutistiche. Se i bambini appartenenti al primo gruppo aggiungono alla loro rappresentazione dettagli espressivi – quali la bocca felice e gli occhi ben visibili – i bambini appartenenti al secondo preferiscono non inserire in nessun modo dettagli di questo tipo. Particolarmente emblematica la self-representation di una bambina turca di quattro anni che appartiene al primo gruppo sperimentale: il tadpole man è realizzato al centro del foglio con medie dimensioni e l’espressività della scena è messa in evidenza dai dettagli quali la bocca aperta rivolta verso l’alto, gli occhi ben visibili e le braccia spalancate (figura 20b). Au contraire, un bambino coetaneo di origini africane – appartenente al secondo gruppo di ricerca – si disegna a partire da dimensioni di molto rimpicciolite e al tempo stesso, non inserisce nessun tipo di indizio relativo alla caratterizzazione psicologica della scena (figura 20c). Cosa significa questo? È del tutto evidente che, dopo aver rappresentato la figura umana di partenza secondo regole comuni, i bambini adottano strategie grafiche peculiari in linea con le caratteristiche del proprio Self. Da un lato ritroviamo un Self indipendente, focalizzato sui propri tratti caratteriali e sui relativi stati mentali e dall’altro, un Self interdipendente che si percepisce come parte di un contesto più ampio in grado di determinare gli stati emotivi di riferimento. Competitività e unicità da una parte e responsabilità e condivisione dell’altra. Tutto qui? Un’ulteriore conferma alle nostre ipotesi deriva dagli studi sperimentali condotti da Hartmut Rubeling, il quale chiede ad un gruppo di bambini tedeschi e del Camerun di auto-rappresentarsi e di disegnarsi
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insieme al nucleo familiare (Rubeling et al. 2011). Se nella condizione self-alone ritroviamo le stesse caratteristiche precedentemente elencate, nella condizione self-in-family emergono ulteriori strategie rappresentative collegate al significato che i bambini intendono trasmettere (figura 21). Ebbene, i partecipanti tedeschi si rappresentano accanto ai componenti della famiglia adottando dimensioni simili per tutti, inseriscono specifiche espressioni visive che connotano la loro condizione psicologica e disegnano i vari membri in una posizione frontale senza evidenziare nessun tipo di interazione tra loro. All’inverso, i partecipanti africani rappresentano i due genitori con dimensioni quasi esagerate e al tempo stesso, si inseriscono tra loro con dimensioni ridotte che testimoniano la gerarchia familiare e al tempo stesso, l’incessante dipendenza dal setting. Ancora una volta, è del tutto evidente che le strategie grafiche rispecchiano – à la perfection – la percezione del Self nel contesto di appartenenza.
Figure 20, 21. Tadpole men realizzati da bambini di tre e quattro anni in campioni culturali differenti (Gernhardt, Rübeling, Keller 2015, p. 6) e self-representation realizzate da bambini del Camerun e da bambini tedeschi di cinque anni (Rubeling et al. 2011, p. 417).
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Gli stili cognitivi culturally-based determinerebbero la scelta degli elementi da inserire all’interno delle rappresentazioni grafiche e le relative strategie strutturali. Claire Brechet – docente di psicologia presso l’Università di Montpellier III ‒ si è, invece, interrogata circa i collegamenti esistenti tra stereotipi culturali relativi al genere e rappresentazioni grafiche. Nel corso di un recente intervento sperimentale (2013), ha valutato la rappresentazione grafica degli indici emotivi, considerati gli elementi percettivi che differenziano maggiormente il Self femminile dal Self maschile. Basti pensare alle già ampiamente citate gendered emotions che dominano l’universo simbolico – perlomeno occidentale: se le bambine hanno la possibilità di provare soprattutto tristezza, i bambini sono autorizzati a riferire principalmente sensazioni di collera (Buckner, Fivush 2000, pp. 401-402). Ai partecipanti – in età scolare – è stato chiesto di rappresentare graficamente il loro viso in condizione di tristezza e in condizione di rabbia. I risultati sono ancora una volta incredibili: se i bambini tendono effettivamente a rappresentare nel dettaglio il sentimento collerico, le bambine rappresentano in modo puntuale solamente la tristezza (figura 22). C’est à dire, nella condizione sperimentale “sadness” i bambini disegnano all’interno del viso una linea curva indirizzata verso il basso per simboleggiare la bocca triste, mentre le bambine aggiungono numerosi dettagli caratteristici quali gli occhi spalancati e le grandi lacrime che scendono dal volto. Differentemente, nella condizione dedicata al sentimento collerico (“anger”), l’espressione femminile sembra essere di difficile comprensione in quanto somiglia al viso in condizione di tristezza, mentre l’espressione maschile è elaborata nei minimi particolari. En effet, le ciglia sono aggrottate, gli occhi sono serrati e la bocca è semi-aperta in quanto consente addirittura
di intravedere i denti. Tutto torna se pensiamo al fatto che alla richiesta di catalogare alcune parole di ordine emotivo, le bambine in età scolare considerano il termine “colére” – ovvero rabbia – come concetto del tutto negativo, mentre i bambini lo valutano in senso opposto, ovvero come concetto positivo e addirittura istruttivo (Syssau, Monnier 2009, p. 218).
Figura 22. La rappresentazione grafica delle emozioni negative di un bambino e di una bambina dai sei agli otto anni (Brechet 2013, p. 7).
CAPITOLO TERZO RICORDI POSITIVI, RICORDI NEGATIVI
1. L’emotività al potere Emozioni e ricordi, ricordi ed emozioni. Un connubio indissolubile. Sin dai primi anni di vita, l’emotività sembrerebbe guidare – per di più senza nessun tipo di rivale – l’operato mnemonico e narrativo autobiografico. Ecco il punto cruciale della questione. Ricordiamo e raccontiamo gli eventi a partire dal significato emotivo che attribuiamo? Sans aucun doute. Ma procediamo con cautela. Per prima cosa, una rapida riflessione relativa alla già citata sintassi mnemonica secondo la quale i soggetti comprendono la realtà a partire da schemi e micro-sceneggiature. Sembrano essere gli schemi autobiografici positivi a regnare incontrastati in tutti i periodi di vita. Sarebbe a dire, ricordiamo meglio – e più a lungo – le esperienze piacevoli che ci sono accadute? Exactement. Seguiamo a questo proposito la riflessione di David Rubin e Dorthe Berntsen (2003). A opinione dei due psicologi, i ricordi autobiografici emotionally charged sarebbero modellati dai noti life scripts intesi come aspettative condivise a livello culturale riguardanti l’ordine in cui gli eventi si devono verificare. Ora, è del tutto evidente che i ricordi che appartengono a questi scripts sono considerati maggiormente significativi dagli individui e al tempo stesso che gli eventi in accordo con que-
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sti riferimenti culturali sono considerati coerenti con l’immagine identitaria (diversamente dagli eventi offtime che procurano elevati livelli di stress). E ancora. È chiaro che un’esperienza considerata in linea con gli scripts viene tendenzialmente ricordata in modo dettagliato in quanto maggiormente ancorata ad un contesto spazio-temporale di riferimento. Basti pensare al fatto che i ricordi positivi vengono recuperati dai soggetti in età adulta – attraverso il meccanismo noto come reminescence bump – soprattutto dagli anni spensierati del periodo adolescenziale, mentre i ricordi negativi seguono un andamento instabile e incerto e appartengono ai più disparati periodi di vita. Insomma, i secondi sembrerebbero subire nel tempo un processo di deterioramento inarrestabile. Già. Perché? Senza alcun dubbio, il mancato recupero di esperienze stressanti riguarda la volontà di preservare il Self. Effectivement, si è visto che i soggetti tendono ad inserire gli eventi connotati negativamente all’interno di transizioni più ampie di valenza emotiva opposta. Un esempio? La depressione post-partum è da considerarsi una condizione psicologica complessa e dolorosa, ma viene ricordata – e raccontata – dalle giovani madri come un evento totalement positif in quanto collegato alla nascita del bambino. Insomma, gli eventi negativi vengono integrati all’interno di sequenze di redenzione che fanno sì che gli scripts negativi non abbiano in nessun modo specifici time slots all’interno delle svariate sequenze culturali. Non a caso, gli stresses più invalidanti sono causati dalle violazioni delle micro-sceneggiature fornite dalla cultura di appartenenza: basti pensare alla perdita di un genitore in età infantile oppure ad una gravidanza inaspettata in età adolescenziale. Detto in una sola parola? Se per tutti gli eventi collegati a
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sensazioni positive vi sono specifici riferimenti temporali (ad esempio, si può essere innamorati in alcuni periodi della vita e non in altri e si può andare a scuola nei primi anni di vita e non in età adulta), per quelli negativi le coordinate sembrano mancare del tutto. O quasi. En conséquence, se le esperienze piacevoli vengono integrate facilmente nella life-story, le esperienze stressanti sono meno diffuse e devono essere inserite a partire da opportuni flashbacks di tipo esplicativo che mettono in luce la deviazione rispetto allo script condiviso. Non a caso, se gli eventi positivi coincidono solitamente con esperienze vissute in prima persona, gli eventi negativi fanno riferimento ad avvenimenti accaduti ad altri soggetti (ad esempio, l’incidente del fratello oppure la morte di un familiare). Ebbene, il meccanismo è già attivo nel corso del periodo infantile. A ben vedere, è l’evoluzione del Self autobiografico a testimoniare la tendenza dei bambini – sin dai dieci anni – a raccontare i propri avvenimenti personali inserendosi all’interno di peculiari scripts culturali, ovvero seguendo l’ordine degli eventi decretato dal contesto di appartenenza (Calabrese 2019, pp. 30-32). È proprio da questo momento in avanti che i meccanismi precedentemente analizzati collegati all’emotività iniziano a gettare le loro fondamenta e portano i bambini a contestualizzare maggiormente – e a stoccare in memoria – gli eventi positivi perché consentono di mantenere un’immagine del Self coerente. Ora, che cosa accade quando ci proiettiamo nel futuro e quando simuliamo le nostre azioni in un tempo che deve ancora venire? Similmente, quando costruiamo scenari controfattuali, possiamo intraprendere da un lato una strada piacevole – basti pensare alla simulazione di un viaggio in un immenso parco giochi – e
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dall’altro una strada decisamente negativa che ci può procurare uno stato d’animo non gradito. Insomma, anche la capacità di simulare il futuro – e di costruire proiezioni mentali autobiografiche – sembrerebbe dipendere strettamente dalla valenza emotiva. Future thinking ed emotività? Quando ricordiamo il futuro tendiamo a costruire scene mentali ancora più idilliache grazie al processo cognitivo noto come positive bias che porta gli individui sin dalla prima infanzia a simulare situazioni taggate positivamente (Rasmussen, Berntsen 2013, pp. 188 ss.). Come spiegare questo dato? Ancora una volta, grazie alle motivazioni collegate alla self-regulation. È questo il motivo per il quale gli eventi futuri connotati positivamente sono percepiti come prossimi alla dimensione presente, mentre gli eventi futuri connotati negativamente appaiono come lontani e remoti. Autrement dit? Agli eventi negativi si fa sempre in tempo a pensare. È ormai del tutto evidente che le esperienze considerate non significative a livello emotivo non attivano in nessun modo il sistema attentivo e vengono, di conseguenza, facilmente dimenticate. Più i ricordi sono intrisi di emotività, più rimangono accurati e stabili nel tempo. È anche vero che i ricordi taggati emotivamente vengono senza dubbio condivisi più e più volte con altri soggetti nel corso delle interazioni quotidiane e, dunque, sostengono il processo di consolidamento neuronale (D’Argembeau et al. 2003, pp. 283-284). Ricordiamo soprattutto ciò che è collegato alla nostra vita emotiva? Certo che sì. Basti pensare al fatto che la maggior parte dei ricordi autobiografici che integriamo nella nostra life story sin dai primi anni dell’adolescenza è collegata a specifiche coordinate emotive che ci consentono di mettere in evidenza i cosiddetti turning points. Positives, if possible.
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A fornirci informazioni degne di nota riguardo i processi di codifica mnemonica relativi alle esperienze emotive sono gli studi internazionali condotti nell’ambito della psicologia. Se è vero che gli schemi e scripts mnemonici privilegiati sono di valenza positiva, è anche vero che non inaspettatamente, sembra esistere un bias mnemonico in favore del materiale stressante. Sarebbe a dire, se di un evento positivo sin dalla prima infanzia recuperiamo circa il 30% dei dettagli, di un evento stressante ne ricordiamo almeno il 75%. E ancora, se di un evento positivo – quale una villeggiatura – ricordiamo pochi dettagli già la settimana successiva, di un evento negativo – quale un’operazione chirurgica – manteniamo dettagli vividi almeno fino all’anno successivo (Quas, Fivush 2009, p. 60). Particolarmente emblematici i numerosi interventi sperimentali relativi a procedure mediche invasive. Gail Goodman e colleghi (1994, pp. 275 ss.) hanno chiesto ad un gruppo di bambini in età prescolare e scolare di raccontare una pratica medica dolorosa e si accorgono che mantengono nel tempo ricordi decisamente significativi e particolareggiati. Facciamo attenzione: gli elementi discriminanti che attivano codifiche accurate sembrano essere l’età (più i bambini sono grandi, più riescono a mantenere contemporaneamente varie caratteristiche esperienziali in memoria grazie al perfezionamento delle aree ippocampali), le conversazioni con gli adulti di riferimento e le informazioni preparatorie fornite. Encore une fois, ecco riemergere l’importanza della sintassi mnemonica. Se devo sottopormi ad una visita medica per la prima volta – ad esempio, dal dentista – avrò più possibilità di ricordare i dettagli dell’esperienza in futuro se mi sono state fornite informazioni preparatorie che mi hanno consentito di integrare i nuovi
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dati all’interno di schemi preesistenti (Quas, Fivush 2009, pp. 37 ss.). Tutto torna: più conoscenze ho a disposizione che mi consentono di inserire le informazioni sconosciute negli schemi mnemonici pregressi, più sono in grado di comprendere ciò che mi sta accadendo. E al tempo stesso, più costruisco frameworks esplicativi attorno all’evento nei processi di Reminiscing, più sono in grado di attivare il meccanismo di attribuzione del significato e di codificare il materiale in modo esaustivo. Ma di questo ne parleremo più avanti. Tutto ciò ha a che vedere con l’accuratezza mnemonica, ovvero con un’analisi di tipo quantitativo. Ma regaliamoci un sight-seeing di tipo qualitativo e chiediamoci quali caratteristiche contraddistinguono i ricordi positivi e quali i ricordi negativi e stressanti. C’est à dire, cosa conservano in memoria i bambini della vacanza più bella della loro vita e cosa, invece, di un incidente in bicicletta che li ha condotti in ospedale? Per prima cosa, è bene ricordare che i materiali mnemonici emotivi fanno sempre riferimento al punto di vista del narratore stesso che è portato a ricordare gli eventi dalla sua prospettiva (D’Argembeau et al. 2003, pp. 283-284). E ancora. Un’esperienza positiva tenderebbe ad attivare un’elaborazione del tipo topdown, ovvero le informazioni verrebbero elaborate a partire da schemi generici. Au contraire, gli eventi negativi farebbero affidamento su un’elaborazione puntuale e dettagliata di tipo bottom-up (Smorti 2018, p. 50) Beninteso, se nel primo caso i materiali vengono rielaborati attraverso un formato gist – ovvero a partire dall’essenza dell’evento – nel secondo caso vengono codificati a partire da un formato verbatim, centrato maggiormente sui dettagli periferici. È del tutto evidente che i dettagli oggettivi sono maggior-
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mente diffusi nei ricordi positivi in quanto i bambini riescono a indirizzare in modo opportuno le risorse cognitive, mentre nel caso di eventi negativi l’approccio diventa interpretativo in quanto irrompe senza preavviso la necessità di attribuire coerenza. Da un lato ricordano soprattutto cosa è successo, dall’altro come e perché è successo. Se di una giornata al parco divertimenti ricordano le azioni che hanno consentito loro di divertirsi, il ruolo degli altri soggetti, le coordinate spaziali specifiche, di un incidente in bicicletta ricordano alcuni dettagli secondari e tentano di comprendere perché e come si è verificato. Ma a quali informazioni rivolgiamo la nostra attenzione nei differenti stati emotivi, positivi o negativi che siano? A opinione di Linda Levine e David Pizarro (2004, pp. 542 ss.), le differenti nuances emotive portano gli individui a considerare peculiari caratteristiche dell’esperienza che vengono di conseguenza stoccate in memoria. Innanzitutto, gli eventi positivi nel corso dei quali tendenzialmente i soggetti raggiungono i propri obiettivi. In questo caso, il processo mnemonico è flessibile e l’attenzione è rivolta alla conoscenza generale relativa all’esperienza che si è verificata. All’inverso, gli eventi negativi sono collegati ad un fallimento e inevitabilmente ad una modifica delle proprie credenze e dei propri future plans che porta i soggetti ad interpretare il materiale a partire da un’analisi analitica, scrupolosa e di stampo interpretativo. Vediamo cosa accade nel dettaglio nelle situazioni contraddistinte da gioia, tristezza, rabbia e paura. In caso di eventi piacevoli i soggetti intendono mantenere lo stato motivazionale corrente, dunque, codificano le coordinate spazio-temporali le quali vengono collegate ininterrottamente alle personal actions. Una soluzione decisamente ergonomica. Di-
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versamente, in caso di paura l’obiettivo del narratore diventa evitare la fonte della sensazione negativa: per questa ragione, l’attenzione al momento della codifica è rivolta alle strategie che permettono di modificare la condizione presente. E ancora. Nel caso della tristezza, gli individui intendono mutare radicalmente i propri obiettivi e di conseguenza, ricostruiscono i link tra cause e conseguenze che consentono loro di predire e simulare ulteriori situazioni spiacevoli. Enfin, in caso di rabbia sono portati a rimuovere gli ostacoli che impediscono di raggiungere gli scopi personali precedentemente pianificati. In sintesi? Emozione che incontriamo, codifica mnemonica che attiviamo. Ma non è finita qui. Anche lo stato d’animo nel quale ci troviamo al momento della codifica e del recupero mnemonico può influenzare radicalmente l’organizzazione dei materiali. Quando lo stato emotivo che connota la fase di codifica e di recupero è congruente, la fluency del ricordo sembra aumentare a dismisura. Fortunatamente c’è un tuttavia. Se così fosse, i soggetti riuscirebbero a recuperare solamente ricordi in linea con lo stato d’animo presente, mentre in realtà sono in grado di selezionare materiali incongruenti per regolare volontariamente il proprio umore (Smorti 2018, p. 50). A tal proposito, cosa accade a livello mnemonico e narrativo quando il cosiddetto affective state dei bambini si modifica? Camilla Gobbo e Daniela Raccanello (2007, pp. 1177 ss.) nel corso di un intervento sperimentale hanno chiesto ad un gruppo di bambini di cinque e sei anni di costruire resoconti autobiografici positivi e negativi dopo aver indotto uno stato d’animo di valenza emotiva opposta (a causa della vincita oppure della perdita ad un gioco). Ora, quali meccanismi si attivano a livello narratologico? La prima considerazione riguarda
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chiaramente la dimensione dell’agency: se quando vivono eventi positivi i bambini si percepiscono come responsabili indiscussi dell’azione – ovvero come agents – quando vivono eventi di valenza emotiva opposta attribuiscono la responsabilità ad una causa esterna. Ebbene, il meccanismo in oggetto sembra attivarsi a maggior ragione in caso di stato d’animo negativo. Più il mio affective state è negativo, più la mia capacità di percepirmi come agente nel corso dell’esperienza si riduce. Una seconda riflessione sembra, invece, riguardare i riferimenti agli stati emotivi e agli stati mentali. In caso di evento stressante – e ancora una volta in caso di stato d’animo altrettanto negativo – i bambini includono nei loro resoconti termini emotivi e percettivi e al tempo stesso verbi cognitivi che simboleggiano la ricerca del significato. Credere, pensare, riflettere e così via. Da ultima, la struttura del resoconto autobiografico. In caso di evento e stato d’animo sfavorevole, la capacità di costruire significato attorno all’accaduto attraverso strategie narratologiche collegate alla coerenza – quali l’inserimento di antecedenti e di un’introduzione ai fatti – sembra essere lievemente compromessa. Non è un caso che bambini affetti da patologie che influenzano l’operato emotivo – quali la depressione – attivano un recupero congruente con i tratti self-related negativi ed esibiscono un attentional bias riservato agli stimoli di questo tipo (Platt et al. 2017, pp. 8-10). En effet, secondo la teoria cognitiva, la depressione originerebbe strutture stabili e durature che porterebbero gli individui a considerare solamente informazioni in accordo con il proprio self-schema. Ma c’è dell’altro. In caso di depressione, sembrerebbe essere l’operato della memoria episodica ad essere compromesso, ovvero la capacità di recuperare eventi
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specifici. Sarebbe a dire, i bambini affetti da questa patologia tendono a recuperare materiali generali a partire dalle cosiddette categorical memories, ossia a richiamare solamente le informazioni comuni a più eventi (Gibbs, Rude 2004, pp. 513-514). Come ci si può aspettare – data la corrispondenza a livello di attivazione cerebrale tra memoria episodica e capacità di immaginare il futuro – in caso di depressione anche la capacità di proiettarsi in coordinate venture sembra venire meno. Proprio così, i ricordi appartengono a periodi generici e i bambini riescono a percepirsi solamente nella dimensione presente. Hic et nunc.
2. Reminiscing e format emotivi È chiaro che quando recuperiamo e condividiamo i nostri ricordi autobiografici, abbiamo a che fare con materiali intrisi di emotività. Le emozioni attribuiscono un significato alle nostre esperienze e ci consentono di creare link peculiari tra il nostro passato e il nostro Self. Ora, si potrebbe pensare che almeno quando ricordiamo e raccontiamo gli eventi positivi e negativi che caratterizzano la nostra vita, quei racconti siano completamente di nostra pertinenza. Ancora una volta, absolutely not. Le principali tracce mnemoniche e narrative vengono fornite – come sempre – all’interno del contesto di ricordo condiviso dagli adulti di riferimento che indirizzano nella complessa interpretazione dei matériaux émotionnels. A opinione di Robyn Fivush, è proprio all’interno del contesto di Reminiscing con gli adulti di riferimento che si struttura – e si modella – il noto emotional self concept con le tre relative funzioni (Fivush 2003b, pp. 179-180). Innanzitutto, la funzione self-defining che
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porta i bambini a comprendere che tipo di personalità emotiva possiedono. Sarebbe a dire, se sono abituato a discutere della tristezza e a considerare come significativi elementi esperienziali che mi consentono di percepirmi in questo modo, inizierò a modellare il mio self-concept di conseguenza. In secondo luogo, la funzione self-in relation che consente ai bambini di imparare a esprimere e condividere gli stati emotivi nelle interazioni sociali quotidiane. Effettivamente, se in alcune situazioni posso sentirmi triste, in altre invece devo necessariamente provare paura oppure malinconia. Enfin, la funzione relativa al coping che permette loro di acquisire informazioni utili per reagire alle situazioni stressanti a seconda delle esigenze. Una domanda da mille dollari. A quale percorso di socializzazione sono sottoposti i ricordi positivi e i ricordi negativi? O meglio, quali caratteristiche contraddistinguono il contesto di ricordo condiviso in caso di eventi piacevoli e in caso di eventi altamente stressanti? Per prima cosa, gli psicologi ci dicono che la discussione di eventi negativi sembra svolgere sia nel periodo prescolare che nel periodo scolare una funzione didattico-educativa e direttiva, mentre la discussione di eventi positivi sembra sostenere il recupero di materiali self-defining e social-bonding. Pertanto, i ricordi positivi vengono recuperati per rinforzare il legame tra narratore e narratario e per creare una base condivisa utile per la cosiddetta family identity, mentre i ricordi negativi per identificare corrette strategie di coping (Rasmussen, Berntsen 2013, p. 189; Sales, Fivush 2005, p. 84). Nel secondo caso ricordo per imparare, nel primo caso ricordo per definirmi e per entrare in primo con gli altri. E ancora, lo stile narrativo. Se nel caso di eventi positivi gli adulti – genitori o professionisti educativi che
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siano – privilegiano domande a risposta chiusa (ovvero yes/no questions) che attivano un meccanismo di ripetizione e negoziazione dell’accaduto, in caso di eventi negativi costruiscono soprattutto domande aperte che hanno come obiettivo la creazione di link causali e spazio-temporali, utili per comprendere l’evento e integrarlo – con il minor numero di difficoltà possibili – nella life story personale (Sales, Fivush, Peterson 2003, pp. 188 ss.). Eventi positivi e stile low elaborative da un lato, eventi negativi e stile high elaborative dall’altro. Un fatto è certo: ancora una volta, il contenuto e la struttura delle interazioni co-costruite influenzano senza tregua la regolazione emotiva e al tempo stesso, i procedimenti di self-understanding. A chiedersi quali informazioni vengono condivise nei contesti di ricordo condiviso contraddistinti da opposte sfumature emotive negative è Robyn Fivush (2003b). A tal proposito, ripercorriamo brevemente le scelte narratologiche effettuate da alcuni partecipanti in età prescolare e dalle loro madri. Innanzitutto, la paura. Nella prima interazione sottostante, una madre discute con il figlio della paura del buio e delle ombre notturne che somigliano a spaventosi mostri (figura 1). Ebbene, quali elementi dell’esperienza vengono considerati in questo caso? La risposta ha a che vedere con uno stile high elaborative. In effetti, la madre tenta di costruire come prima cosa un framework spazio-temporale che consenta al bambino di contestualizzare la sensazione (“Di notte nel buio? Dove sono le ombre?”) e successivamente realizza collegamenti tra le cause dell’emozione e le possibili soluzioni a partire dall’inserimento di numerose unità fattuali (“La mamma ti ha mostrato che non ci sono i mostri e ti ha dato una torcia elettrica che puoi accendere quando vuoi”). Au contraire, nella seconda interazione un bambino si confronta con la ma-
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dre circa un’esperienza nel corso della quale ha provato rabbia (figura 3). La situazione viene descritta attraverso il meccanismo della ripetizione, della conferma e delle attributions: il bambino dice di essersi sentito arrabbiato perché voleva restare con la madre e quest’ultima ripete a sua volta la sensazione provata dal figlio (“Dunque, ti sei sentito arrabbiato?”). In questo caso, l’attenzione viene indirizzata solamente all’emozione di per sé, mentre non sono tenuti in nessun modo in considerazione antecedenti ed eventuali tentativi risolutivi. C’est à dire, la rabbia sembra non essere particolarmente considerata a livello self-definitional e di conseguenza, sembra essere contraddistinta in misura minore da complessità narrativa. Infine, nell’ultima interazione viene condivisa un’esperienza collegata alla tristezza che riguarda ancora una volta le difficoltà incontrate nel dormire da soli la sera (figura 2). Innanzitutto, la madre tenta di costruire coerenza a partire dall’utilizzo di domande aperte che validano e riconoscono l’emozione in oggetto (“Ti senti triste quando la mamma e il papà ti dicono che devi andare a letto la sera?”) e dall’inserimento di interazioni di stampo interpretativo (“Sai che non puoi stare sveglio fino a tardi perché hai bisogno di dormire, giusto?”). Ma non basta. La tristezza sembra essere codificata attraverso un’attenzione peculiare agli aspetti interdipendenti, ovvero alla funzione self-in relation. Effettivamente, il bambino e la madre condividono l’esperienza non tralasciando in nessun modo il contributo degli altri soggetti coinvolti (“Sei triste quando tuo fratello Brian parla e stai cercando di dormire?”). Sadness is real when shared. È evidente che per ciascuna situazione passata contraddistinta da connotati emotivi peculiari, i bambini sono portati a considerare differenti aspetti dell’accaduto e a costruire significato attraverso strategie narratologiche contrapposte. Se quando provano paura cercano di
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evidenziare le possibili soluzioni attraverso ipotetici link tra cause e conseguenze, quando provano tristezza avanzano interpretazioni e valutazioni. Ancora una volta, Reminiscing come attività contraddistinta da una notevole complessità cognitivo-emotiva.
Figure 1, 2, 3. Interazioni tra genitori e figli relative ad eventi negativi di diversa natura (Fivush et al. 2003b, pp. 188-189).
Le cose si complicano quando ad essere condivisi sono i ricordi traumatici che mettono in discussione l’operato quotidiano mnemonico a causa di un’emotività
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diffusa e difficilmente gestibile. A tal proposito, Jennifer Ackil e colleghe chiedono ad un gruppo di partecipanti in età prescolare e scolare di ricostruire un evento autobiografico stressante con le loro madri – ovvero il devastante tornado che ha colpito il Minnesota nel 1998 – e valutano le principali strategie narratologiche che sostengono la rielaborazione e la codifica dell’esperienza (Ackil, van Abbema, Bauer 2003, pp. 288 ss.). Per approfondire brevemente la questione, analizziamo la conversazione tra una madre e il figlio di sei anni che ha come obiettivo principale l’imprescindibile ricerca della coerenza (figura 4). Difatti, la madre struttura un framework narrativo complesso a partire dalle azioni che si sono alternate nel corso dell’evento (“Cosa stavamo facendo? Poi cos’è successo?”) che portano il bambino a ricostruire l’esperienza attraverso un ordine temporale comprensibile e lineare (“Stavamo disegnando. Poi le sirene hanno iniziato a suonare e siamo andati al piano terra”) e attraverso primitivi collegamenti di tipo causale (“Era un vero disastro. Forse era stata Madre Natura!”). Senza alcun dubbio, la principale esigenza sembra essere il recupero del piano cognitivo. Ma c’è molto altro. Proseguendo nell’interazione, la madre adotta un approccio emotivo-interpretativo e chiede più volte al figlio come si è sentito e quale percezione ha avuto dell’evento (“Quando siamo andati a piano terra come ci sentivamo?”). In questo modo, il bambino è portato a selezionare alcuni stati emotivi che vengono validati e riconosciuti e ad esprimerli attraverso un linguaggio metaforico particolarmente evocativo (“Tutta la casa si stava muovendo e sembrava di essere su un treno che saltava”). Infine, emerge chiaramente uno stile valutativo. Grazie a key-questions interpretative – quali “Cosa penserai quando sarai grande di questa esperienza?” – il bambino è in grado di ricostruire
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l’accaduto a partire da riflessioni, speranze e credenze (“Speravo che il mio papà stesse bene e che tutta la casa non se ne fosse andata”, “Siamo stati i più fortunati di tutta la città!”). Insomma, si tratta di un intervento cognitivo estremamente complicato che sostiene la comprensione dell’evento overwhelming. Come ben sappiamo, sembrerebbe esisterebbe una correlazione diretta tra la costruzione di un framework esplicativo – che aiuta i bambini a capire come e perché l’esperienza si è verificata –, il materiale stoccato in memoria e il benessere emotivo percepito (Sales, Fivush 2005, p. 84). Il punto è davvero sempre lo stesso. La coerenza si presenta come fattore di protezione per eccellenza.
Figura 4. Co-costruzione narrativa di un bambino e di una madre quattro mesi in seguito al tornado (Ackil et al. 2003, pp. 307-308).
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Altra età, altro esempio. Kelly A. Marin e colleghe si interrogano circa le scelte narratologiche che sostengono l’attribuzione di significato in caso di esperienze spiacevoli nel primo periodo adolescenziale e domandano ad un gruppo di partecipanti – dai nove ai quattordici anni – e alle rispettive famiglie, di co-costruire nel momento di riunione serale family histories relative ad esperienze stressanti (Marin, Bohanek, Fivush 2008, pp. 575 ss.). Positive talking about the negative: ecco la consapevolezza dalla quale partire. Da un lato lo stile high elaborative che porta i soggetti coinvolti a fornire informazioni dettagliate relative agli stati emotivi, alle connessioni causali, alle ipotetiche soluzioni e a integrarle in una costruzione narrativa coerente. Nel primo esempio qui riportato, una bambina di nove anni e la sua famiglia stanno recuperando e condividendo la dolorosa perdita del nonno (figura 5). A livello narratologico, i genitori intendono aiutare la protagonista ad esplorare la causa del proprio stato d’animo negativo e ad attribuirle un nome (“Come ti sei sentita? Perché è stato spaventoso?”). Nel dettaglio, fanno affidamento su una sorta di detective story che fornisce una serie di indizi utili per ricostruire l’esperienza sia a livello cognitivo che a livello emotivo. In effetti, il padre ricostruisce per prima cosa un framework spazio-temporale nel quale vengono integrate tutte le actions compiute (“Erano le vacanze di Natale. La nonna era morta lo scorso anno. Noi siamo dovuti uscire prima da lavoro, tu da scuola e siamo dovuti partire”). L’emozione non solo viene ampiamente contestualizzata, ma viene riconosciuta e approfondita a partire dall’analisi del contributo di ciascun character e dalla costruzione di brevi interpretazioni (“Ho passato poco tempo con il nonno, ma è sempre triste quando qualcuno della famiglia non
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c’è più”). Insomma, un allenamento notevole per le abilità di mind reading che consentono di comprendere l’accaduto in modo autentico e integrato. Dall’altro lato lo stile low elaborative che non intende validare i reciproci stati emozionali, quanto piuttosto imporre un’unica prospettiva. Nella seconda interazione, una bambina di dieci anni sta condividendo con i genitori la morte del suo cagnolino. È la madre ad avviare la riflessione attraverso la definizione del suo stato d’animo (“È stato molto difficile. Mi ricorderò di lei quando stava bene”) (figura 5). Tuttavia, la figlia non solo non riconosce in nessun modo i pensieri della madre, ma adotta anche un approccio ironico che mette in luce alla perfezione la mancata corrispondenza emotiva. È a questo punto che il padre interviene per modificare la percezione dell’evento della figlia secondo i parametri culturali considerati idonei: la bambina dice di non sentirsi in nessun modo triste, mentre il padre le ricorda di esserlo stata al momento della perdita e di esserlo ancora al momento della discussione presente (“Sì, eri triste. Hai pianto!”). In altri termini, attraverso un meccanismo di repetition, gli adulti tentano di modificare lo schema mnemonico della figlia inserendo actions coerenti con l’accaduto e non considerando in nessun modo la possibilità di costruire una shared reflection. A ben vedere, famiglie e professionisti educativi che adottano uno stile high elaborative e collaborative – che consente ai partecipanti di elaborare e attribuire una spiegazione alle emozioni negative provate – hanno bambini che già nei mesi successivi esibiscono elevati livelli di autostima, peculiari strategie di coping e al tempo stesso, competenze sociali sviluppate. Cohérence et rien de plus.
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Figura 5. Family narratives tra bambine di nove/dieci anni e i genitori relative ad eventi particolarmente stressanti (Marin, Bohanek, Fivush 2008, pp. 590-591).
Facciamo attenzione. Il meccanismo si complica ancora una volta se pensiamo ai format narrativi culturali che – come si è visto nello scorso capitolo – influenzano senza tregua i processi di rielaborazione mnemonica e contemporaneamente, le strategie di regolazione emotiva. Sarebbe a dire, i contesti di appartenenza incentiva-
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no diversamente la rielaborazione delle esperienze emotive? Bien sûre. A fornirci una risposta puntuale sono Qi Wang e Robyn Fivush (2005). Se nella cultura occidentale le emozioni sono considerate elementi preziosi in grado di influenzare la self-authenticity e di aiutare i bambini a esprimere le proprie volontà e intenzioni, nella cultura orientale – focalizzata sull’armonia sociale – vengono intese come elementi pericolosi che devono essere obbligatoriamente tenuti sotto controllo in nome di un ordine relazionale prestabilito. Ora, è chiaro che le due self-conceptions opposte portano gli adulti a fornire istruzioni emotive contrastanti nel corso delle pratiche di ricordo condiviso. A tal proposito, vediamo cosa accade in due brevi conversazioni – relative ad eventi spiacevoli – costruite da due madri e dai figli in età prescolare appartenenti relativamente ad un campione culturale occidentale e ad un campione orientale. Nel primo caso, madre e figlio recuperano un ricordo nel corso del quale il bambino ha pianto per molto tempo a causa del mancato raggiungimento di un obiettivo personale (figura 6). Insomma, i cari e vecchi capricci. Per prima cosa, la madre – attraverso elaborative questions – struttura alcuni collegamenti tra cause e conseguenze (“Perché hai pianto? Perché non avevano più palloncini? Poi ti ricordi che hai pianto anche perché non volevi andare a casa?”). Un complesso meccanismo cognitivo che chiede al bambino di ricordare come si è sentito e contemporaneamente di recuperare la causa della sensazione. Tutto ciò è rigorosamente inserito all’interno di un setting spaziale e temporale definito: è la madre che chiede al bambino più volte dove si trovavano, quando e perché. A livello contenutistico, l’approccio sembra essere autonomo e focalizzato sull’agency del protagonista, il quale è chiamato a spiegare tutte le azioni che si sono alternate nel corso dell’esperienza e a fornire le relative motivazioni.
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All’inverso, la conversazione instaurata tra un bambino e la madre di origine cinese sembra focalizzarsi su tematiche relazionali e sulle relative lezioni morali (“Ti ricordi quando il papà ti ha sgridato l’ultima volta? Perché non sei stato obbediente? Lo hai fatto apposta?”) (figura 7). Ora, per quanto riguarda la struttura dell’interazione, la madre si affida maggiormente alla strategia della ripetizione aggiungendo di volta in volta informazioni di tipo sociale a partire dalle key-words pronunciate dal bambino (se quest’ultimo risponde con l’espressione “non obbediente”, la madre la espande attraverso una frase esplicativa “perché non sei stato obbediente?”). Pertanto, quale collegamento tra scelte narratologiche culturalmente stabilite e strategie di regolazione emotiva? Se nei campioni occidentali gli adulti mettono in luce le cause degli eventi e successivamente la relativa risoluzione, nei campioni orientali danno un nome agli stati emotivi – attraverso meccanismi mnemonici di attribution – e al tempo stesso, enfatizzano le norme comportamentali e disciplinari di riferimento e le conseguenti moral lessons. Ancora una volta, da un lato un cognitive approach che chiede al bambino di recuperare la causa dello stato emotivo per riuscire a regolarlo successivamente in base agli obiettivi personali, dall’altro lato un behavioral approach che sostiene l’analisi degli eventi passati per incentivare una condotta sociale futura corretta e accettabile. A tal proposito, una rapida digressione degna di nota: gli adulti di origine cinese sembrano discutere maggiormente di esperienze collegate alla rabbia perché considerata l’emozione più pericolosa a livello sociale che necessita di linee guida comportamentali ben definite. Reminiscing as privileged place of emotional regulation. C’è, però, un tuttavia che avvicina i due stili più di quanto possiamo immaginare. All’interno delle conversazioni libere, i bambini appartenenti a
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entrambi i contesti culturali hanno maggiori possibilità di recuperare eventi positivi rispetto ad eventi di valenza emotiva opposta. Come spiegare questa preferenza? Basti pensare che le esperienze positive sostengono la funzione self-defining, indispensabile nel corso degli anni prescolari per la costruzione identitaria.
Figure 6, 7. Interazioni verbali emotive tra madri e figli di cultura differente (Wang, Fivush 2005, p. 488).
3. Come classificare gli eventi Bene. D’accordo. È nel contesto di ricordo condiviso che i bambini imparano ad interpretare, a gestire l’emo-
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tività e a stoccarla in memoria. Un compito assai arduo e una meta decisamente faticosa che comporta un notevole fatturato cognitivo. Ma è arrivato il momento di analizzare i resoconti autobiografici infantili. Per raccontare eventi positivi e negativi i bambini fanno riferimento a format narrativi contrapposti? Encore une fois – d’accordo con le caratteristiche del contesto di Reminiscing – la risposta è senza dubbio affermativa. A tal proposito, diamo la parola a Lynne Baker-Ward che ci racconta le principali differenze narratologiche emotionally-based chiedendo ad un gruppo di bambini in età scolare di commentare un match calcistico da poco disputato e concluso (Baker-Ward et al. 2005, pp. 511 ss.). È del tutto evidente che se per la squadra vincente l’evento è stato taggato come particolarmente positivo, la squadra perdente lo ha codificato come decisamente spiacevole e demotivante. Sarebbe a dire, i partecipanti hanno stoccato in memoria il medesimo evento attraverso processi percettivi ed emotivi completamente differenti che conducono a loro volta a reports e ricostruzioni del tutto discordanti. I risultati sono davvero straordinari. Per prima cosa, i bambini appartenenti alla squadra vincente si focalizzano sui dettagli centrali dell’esperienza e sulle actions che hanno consentito loro di raggiungere l’obiettivo finale, ovvero la vittoria (“L’allenatore ha cambiato la formazione”, “Il goal è stato fatto con un passaggio particolare” e così via). Le unità fattuali elencate sono davvero numerose e riflettono alla perfezione il mantenimento di un’elevata attenzione fino alla conclusione dell’evento. E ancora. I resoconti sembrano essere particolarmente coerenti grazie all’utilizzo di congiunzioni temporali – quali first, then – e congiunzioni causali – quali because, if – che consentono di inserire le azioni in un ordine lineare e comprensibile. Perché accade questo? La risposta è quasi scontata: i bambini che ap-
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partengono a questo gruppo sperimentale sono portati a condividere l’evento almeno il doppio delle volte rispetto ai bambini che hanno perso la partita. Più racconto e più ricordo. Più ricordo e più racconto. Diversamente, il secondo gruppo sperimentale – il cosiddetto losing team – si avvale del supporto di un approccio interpretativo. Le azioni oggettive sembrano scomparire quasi del tutto e sembrano lasciare il posto alle riflessioni e alle valutazioni personali. Nei loro resoconti sono innumerevoli le valutazioni emotive (“È stata una perdita davvero dura perché abbiamo giocato molto bene”) e le interpretazioni relative al risultato (“L’arbitro ha fatto alcune ammonizioni sbagliate”, “L’altra era davvero una squadra forte”). Évidemment, se le narrazioni positive sembrano contenere maggiori riferimenti oggettivi e sembrano rimanere stabili nel corso del tempo, i resoconti negativi sembrano essere soggetti a svariati cambiamenti collegati a differenti percezioni dello stesso evento. In sintesi? D’accordo con il modus operandi mnemonico, se vivo un evento positivo ricordo ciò che ho fatto e che è successo, se vivo un evento negativo sono portato a rielaborarlo e ad attribuire un’interpretazione che mi consenta di preservare la self-image. Tutto torna ancora una volta. Si tratta di peculiari scelte narratologiche che ben testimoniano la differente rielaborazione e organizzazione del materiale autobiografico in base all’emotività (tabella 1). È Robyn Fivush ad approfondire la questione chiedendo ad un gruppo di bambini in età scolare – che hanno vissuto alcune esperienze familiari altamente stressanti – di raccontare un evento negativo e un evento piacevole (Fivush et al. 2003a, pp. 4 ss.). Vediamo quello che accade in due episodi contraddistinti da stati emotivi contrapposti narrati da un bambino di undici anni. Nel racconto di un evento positivo che riguarda una giornata
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trascorsa al ranch con la famiglia, il narratore si focalizza per prima cosa sulle azioni che si sono alternate nel corso dell’esperienza: ha giocato a basket, ha visitato un laghetto con le anatre e ha giocato in una grande big game room con la sua famiglia (figura 8). Un approccio factually-based che ripropone in modo puntuale – in un ordine specifico che somiglia a una lista della spesa – le attività compiute. Al tempo stesso, le azioni si verificano sempre grazie alla presenza di altri soggetti: il bambino gioca con gli amici, visita il ranch con i genitori e via dicendo. Insomma, un approccio socially-based ben evidenziato a livello linguistico dall’utilizzo ininterrotto della prima persona plurale. Noi abbiamo giocato, noi abbiamo visitato e via dicendo. Chiaramente, sono davvero numerosi anche i dettagli spazio-temporali forniti dal narratore, i quali vengono continuamente chiamati in causa non appena si modificano anche di poco (dal campo sportivo, al lago eccetera). Nel raccontare un evento negativo – ovvero un incidente in bicicletta che lo ha condotto in ospedale d’urgenza – lo stesso bambino si avvale del supporto di espedienti narratologici antitetici (figura 9). Il resoconto delle azioni cede il posto alle interpretazioni e alle valutazioni dell’accaduto: il narratore ci racconta che stava andando in bicicletta, ma che non era ancora del tutto in grado e, dunque, che ad un certo punto è scivolato a causa di un piede appoggiato in modo errato sul pedale. Il resto lo possiamo immaginare: una corsa all’ospedale ben espressa a livello narratologico dalle percezioni provate. Il bambino afferma di aver pensato di essersi rotto un ginocchio, di aver visto il sangue sulla maglietta e così via. Come se non bastasse, per fornire un resoconto il più veritiero possibile, l’attenzione del narratore è rivolta alle emozioni provate e alle riflessioni successive (“Ero spaventato”, “Pensavo di morire per
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davvero”). Insomma, in questo secondo caso i dettagli oggettivi mancano completamente, mentre fanno la loro comparsa innumerevoli dettagli emotivo-interpretativi che consentono al bambino di iniziare a comprendere l’accaduto e a strutturare la messa-in-intreccio del materiale attraverso peculiari link tra cause e conseguenze. Ecco comparire i rinomati riferimenti agli internal states – ben evidenziati da termini emotivi e cognitivi quali pensare, volere – che simboleggiano la ricerca spontanea della coerenza in caso di eventi stressanti. Create coherence out of chaos.
Figure 8, 9. Un resoconto autobiografico positivo e un resoconto negativo realizzati da un bambino di undici anni (Fivush et al. 2003a, pp. 18-19).
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Resoconti autobiografici positivi
Resoconti autobiografici negativi
Approccio action-based.
Approccio causally-based.
Attenzione rivolta alle coordinate Attenzione rivolta agli aspetti esterne (ad esempio, spazio-tem- emotivo-percettivi e agli stati inporali). terni. Approccio fattuale e oggettivo.
Approccio interpretativo e valutativo.
Capacità di considerare più punti Self-centered narratives. di vista. Tabella 1. Caratteristiche narratologiche dei resoconti autobiografici infantili positivi e negativi.
C’è – sfortunatamente – un tuttavia. È vero che gli eventi stressanti sostengono una codifica mnemonica dettagliata a partire dalla costruzione di frameworks esplicativi e interpretativi nelle interazioni con gli adulti di riferimento. Al tempo stesso, è anche vero che alcune esperienze sembrano provocare un livello di stress talmente elevato da compromettere l’operato quotidiano dell’ippocampo – area cerebrale dedicata all’integrazione delle nuove informazioni con gli schemi pregressi – e la classificazione dell’esperienza. A interessarci ora brevemente sono i traumi, intesi come eventi che mettono in discussione sia le abilità mnemoniche che le abilità narrative dei soggetti che li hanno vissuti. Basti pensare a un incidente in età infantile, alla perdita di un genitore, ad una malattia che irrompe senza nessun preavviso con conseguente periodo di ospedalizzazione e così via. Trauma e memoria? Une combinaison décidément malheureuse che in età infantile può compromettere – del tutto – sia la capacità di ricordare che di raccontare. Ora, i traumi sono da intendersi come avvenimenti che riescono ad invalidare
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l’abilità degli individui di codificare in modo significativo gli avvenimenti. Se la memoria e la narrazione sono messe in discussione, è evidente che ad essere irrimediabilmente pregiudicata è anche la comprensione della realtà. Problema non di poco conto che interessa de toute évidence la narratologia. Effettivamente, sintomi quali l’amnesia episodica, la disforia, il dominio assoluto dei flashbacks e dei dettagli emotivo-percettivi sono solamente alcuni degli elementi che i narratologi non possono non considerare (Calabrese 2022, p. 10). A tal proposito, lasciamo la parola a Bessel van der Kolk, punto di riferimento nel campo degli innovativi trauma studies. Innanzitutto – seguendo il noto Diagnostic and Statical Manual statunitense – è bene ricordare che il trauma può condurre contemporaneamente a forme esasperate di ricordo e di oblio. Sarebbe a dire, le esperienze traumatiche possono essere ricordate con estrema vividezza così come possono essere estremamente resistenti all’integrazione mnemonica. Un fatto è comunque certo: il meccanismo mnemonico entra – inaspettatamente – in avarìa. Pertanto, quali caratteristiche hanno questi ricordi? Per prima cosa, gli elementi percettivi ed emotivi tendono a prevalere sulle componenti dichiarative. Difatti, alcuni aspetti dell’esperienza tendono a fissarsi nella mente e a resistere inalterati allo scorrere del tempo e all’intervento modificatore delle esperienze successive. Immutabilità che potrebbe derivare contemporaneamente dall’alterazione dei meccanismi di attenzione e dall’estrema reattività emotiva (Kolk 2013, pp. 281-282). In sintesi? Sarebbe l’amigdala – responsabile dell’elaborazione emotiva – ad essere attivata in modo prolungato e ininterrotto a scapito dell’ippocampo, il quale non riesce in nessun modo a catalogare l’accaduto. Proprio così. Gli stimoli stressanti mancherebbero totalmente di una
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valutazione cognitiva. Per questo motivo, le esperienze sarebbero codificate come dissociate, frammentate e soprattutto non sarebbero disponibili a livello conscio. Ma proseguiamo la rapida promenade negli anfratti della memoria traumatica. La sintassi mnemonica non riuscirebbe in nessun modo ad operare in quanto l’evento traumatico non ha alcun schema di riferimento e non può essere di conseguenza compreso. Nello specifico, ciò che viene messo in discussione è il già citato self-schema in quanto l’esperienza traumatica propone conflicting information che risultano essere difficilmente integrabili con la propria immagine identitaria. Un vero e proprio fallimento della memoria semantica. In effetti, i materiali considerati eccessivamente stressanti sarebbero codificati sottoforma di aggregati somatosensoriali e iconici che non hanno nulla a che vedere con la rielaborazione verbale (Kolk, Fisler 1995, p. 8). Non a caso, sembra essere la corteccia destra ad aumentare – smisuratamente – la propria attività a scapito di quella sinistra che controlla solitamente l’espressione linguistica. Insomma, immagini e percezioni regnano sovrane. A ben vedere, il trauma è da considerarsi preverbale e per questo motivo si ripresenta puntualmente in memoria senza una specifica collocazione spaziotemporale e senza una struttura coerente. In altri termini, la difficoltà principale riguarderebbe il passaggio dalla memoria traumatica alla memoria narrativa. Da un punto di vista narratologico è effettivamente necessario procedere gradualmente recuperando per prima cosa il piano cognitivo, ovvero riordinando l’evento a partire da un ordine logico-sequenziale. In altri termini, è necessario passare dal plot – caratterizzato da dislocazioni temporali e omissioni temporanee – alla fabula, contraddistinta da una linearità crono-causale (Calabrese 2020, pp. 113-114). E contemporaneamen-
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te, aiutare i bambini a riappropriarsi della cosiddetta agency narrativa che consente loro di percepirsi come agenti di ciò che accade e non soltanto come pazienti. Dalle trauma memories alle trauma narratives. Sono Maria Crespo e Violeta Fernandez-Lanzac (2016, pp. 152 ss.) a riassumere in un’esaustiva review le principali caratteristiche dei resoconti autobiografici traumatici. Innanzitutto, la frammentazione. I vari elementi dell’esperienza sono citati in modo disconnesso e la coerenza – ben espressa solitamente a partire da link causali – sembra mancare del tutto. Successivamente, l’organizzazione temporale è contraddistinta soprattutto dall’utilizzo del present tense. In altri termini, il trauma – nonostante la sua appartenenza alla dimensione passata – viene rivissuto continuamente anche nel momento presente attraverso sintomi intrusivi. Non per ultimi, i collegamenti con il Self. I soggetti che hanno vissuto un evento di questo tipo non riuscirebbero in nessun modo a selezionare eventi self-defining differenti dall’avvenimento in oggetto: la costruzione della life story personale sembrerebbe dipendere da questo turning point di valenza emotiva negativa. Beyond the trauma, nothing. Tutto ciò si ripercuoterebbe anche a livello linguistico: a opinione di Kleim e colleghi (2018, p. 5), questi resoconti sarebbero contraddistinti dall’utilizzo della prima persona singolare che testimonia l’avvio incontrollabile dei cosiddetti self-immersed processes, dall’utilizzo di termini emotivi negativi e contemporaneamente dalla mancanza di termini di matrice cognitiva che dovrebbero simboleggiare il processo di rielaborazione. Emblematico a tal proposito anche l’utilizzo del linguaggio retorico-metaforico che può essere considerato un vero e proprio atto cognitivotrasformativo: basti pensare a metafore intrise di emotività quali “Sono un prigioniero del passato” che ben
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testimoniano la difficoltosa – e mai conclusa – ricerca di significato (Meichenbaum 2017). Insomma, l’organizzazione narrativa sembrerebbe essere il meccanismo che predice – più di tutto – le difficoltà emotive incontrate. Più viene a mancare, più i sintomi posttraumatici prendono possesso della quotidianità degli individui. En effet, si è visto che più i bambini – che hanno vissuto un evento familiare traumatico – inseriscono indici narratologici di coerenza nei loro resoconti quali le spiegazioni causali e i riferimenti ai processi cognitivi, più attivano strategie di coping idonee (Miragoli, Camisasca, Di Blasio 2017, pp. 111 ss.). Un esempio di trauma individuale – e al tempo stesso collettivo – che ha cambiato il rapporto con la realtà in età infantile e compromesso irrimediabilmente le abilità mnemoniche e narrative? C’era una volta il Covid. Memoria traumatica
Memoria narrativa
Organizzazione percettiva e so- Organizzazione lineare semantica mato-sensoriale (stabile nel tem- e verbale (che si modifica in base po). alle esigenze che caratterizzano la fase di recupero mnemonico). Mancata organizzazione spaziotemporale e causale e struttura narrativa basata sul plot (coerenza globale assente).
Presenza di collegamenti narratologici sia spaziali che temporali e struttura narrativa basata sulla fabula.
Mancata percezione di se stessi Considerazione della dimensione come agenti e resoconti self-fo- narratologica relativa all’agency e cused. integrazione di più punti di vista. Utilizzo del cosiddetto present Organizzazione strutturale che tense e inserimento di numerosi integra più dimensioni temporali per selezionare significati selfflashbacks. defining. Tabella 2. Le principali differenze tra memoria traumatica e memoria narrativa.
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4. “C’era una volta il Covid”: raccontare l’ignoto Il Covid come entità verofinta che mette in discussione l’elaborato mnemonico autobiografico. Ecco il nodo cruciale della questione. Ma procediamo con cautela e chiediamoci – prima di analizzare la peculiare comprensione dell’evento traumatico che ha sconvolto le nostre vite – cosa sanno i bambini al riguardo. Che cos’è il Covid? Che cosa fa e perché è pericoloso? Perché all’improvviso ci costringe a modificare le nostre abitudini, a non avere più contatti sociali e a ripararci con dispositivi di protezione fino a perdere il piacere dell’interazione vis-à-vis? Alle domande hanno provato a rispondere alcuni ricercatori di origine portoghese (Toniolo et al. 2021, pp. 185-194), i quali hanno somministrato nel primo periodo di lockdown un questionario in modalità telematica a bambini dai tre agli undici anni che conteneva sia domande di tipo ontologico (“Che cos’è il Coronavirus?”), sia domande relative alle sensazioni emotive scatenate (“Sei spaventato dal virus?”) che alla ricerca di collegamenti cause-conseguenze (“Quali sono i principali sintomi?”). I risultati sono davvero sorprendenti: sin dalla primissima infanzia, i bambini inseriscono il Covid in una peculiare categoria semantica (è un virus che causa una malattia), riconoscono la sua capacità di provocare stati emotivi negativi e al tempo stesso, tentano di costruire alcuni collegamenti causali tra le azioni dell’agente patogeno e le conseguenze che contraddistinguono la loro quotidianità. Ancora più straordinarie le scelte linguistiche effettuate per esprimere le principali micro-sceneggiature quotidiane scatenate dal virus. Se i bambini che sperimentano elevati livelli di emotività negativa fanno affidamento su termini collegati a questa sfera semantica e su verbi in forma passiva – quali morire e
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ammalarsi – i bambini che reagiscono maggiormente all’evento adottano, invece, termini di tipo cognitivo che testimoniano la ricerca di significato e forme verbali in forma attiva – quali proteggersi e stare in casa. E ancora. Munise Duran – docente presso il Dipartimento di Educazione di Inonu – nel corso di un recentissimo intervento sperimentale ha chiesto ad un gruppo di bambini in età prescolare di rappresentare graficamente e di definire attraverso un breve resoconto verbale il Covid (Duran 2020). Quale percezione hanno i bambini dai tre ai sei anni dell’evento stressante? Detto in poche parole: d’accordo con le immagini trasmesse dai media, lo immaginano come una figura tondeggiante con alcune punte all’esterno che è in grado di scatenare problematiche di salute negli individui – quali la febbre oppure la tosse – e riconoscono che la principale modalità di trasmissione riguarda l’interazione sociale (figura 10). Ma soffermiamoci per un attimo sulle scelte narratologiche. Per prima cosa, il virus si presenta sempre come agente, ovvero come colui che svolge le azioni. E mai – mai – come colui che le subisce. Se un bambino di tre anni ci dice che infetta le persone grazie a una pistola che ha tra le mani, un bambino di cinque racconta che ci può addirittura uccidere e può far molto male al nostro corpo. C’è però un tuttavia. Per riuscire ad agire in modo efficace il virus deve sempre individuare un paziente. En effet, i bambini riconoscono che le azioni del Covid sono perennemente indirizzate ad altri soggetti che si trovano in una condizione di evidente svantaggio. È proprio questo meccanismo agent-patient che consente loro di raccontare le conseguenze della pandemia: il virus contagia, ci crea danni e al tempo stesso, noi siamo obbligati a restare in casa, a interrompere le nostre amicizie. Chi più ne ha più ne metta. Facciamo però attenzione: man mano
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che i bambini crescono, le caratteristiche dei resoconti si modificano a loro volta. Effettivamente, d’accordo con le linee guida relative allo sviluppo narrativo autobiografico e finzionale in età infantile, il personaggio principale – ovvero il Covid – nei resoconti dei bambini di tre anni agisce solamente, nelle descrizioni dei bambini di quattro inizia ad acquisire una specifica intenzionalità (“Ci infetta fin quando non riesce ad arrivare nella nostra bocca”, “Vuole mangiarci, vuole infettarci”). A cinque anni emergono, infine, le prime connessioni tra actions, cause e conseguenze che testimoniano l’emergere di una reale complessità interiore del personaggio (“Sono piccoli germi che ci infettano. Noi possiamo essere ammalati e non andare a scuola”).
Figura 10. Interazioni verbali che rispondono al quesito “Che cos’è il Coronavirus?” (Duran 2020, p. 95).
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A interessarci ora sono i resoconti autobiografici che riassumono la percezione del periodo di pandemia. A tal proposito, Luca Tateo e Nadia Dario valutano le rielaborazioni narrative di bambini di dieci e undici anni attraverso la realizzazione di personal diaries – intesi come strumenti di auto-riflessione e auto-regolazione – all’interno dei quali i partecipanti appuntano le sensazioni provate durante il periodo di reclusione e i ritmi di vita (Tateo, Dario 2020, pp. 93-95). Come i bambini di quest’età attribuiscono significato alla lockdown experience? E quali strategie narratologiche adottano? In linea con le riflessioni precedenti, il primo dato che emerge in modo preponderante riguarda i riferimenti agli stati emotivi e i numerosi tentativi di attribuzione del significato a partire da un approccio di tipo interpretativo (“La situazione è molto difficile perché non va bene per una bambina di undici anni stare in casa tutto il giorno”; “Dall’inizio della pandemia ho sempre vissuto in ansia sperando che nulla accadesse a me, alla mia famiglia”) (figura 11). E ancora, emblematica l’indefinita percezione delle coordinate spaziali e temporali che testimonia l’incontro – o meglio, lo scontro – con una realtà inattesa e sconosciuta. Nella seconda interazione qui riportata, una bambina mette in luce la gravità della situazione a partire da tentativi di integrazione – falliti – tra la dimensione presente e la dimensione passata: se prima era possibile andare al parco e vedere gli amici, adesso non lo è più (figura 12). Emergono sì i primi link temporali, ma al tempo stesso non sono supportati in nessun modo da link causali. Come se non bastasse, non vi sono riferimenti al futuro e le ipotetiche soluzioni sembrano mancare del tutto. Emblematica anche la sovrapposizione di più micro-sceneggiature quotidiane che testimonia la difficoltà di attribuire un ordine peculiare alle azioni
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nominate: una seconda bambina afferma di aver modificato la sua routine a causa della pandemia e per questo motivo deve spesso deve eseguire i compiti, ma al tempo stesso non può più andare in palestra e neanche a catechismo il sabato (figura 12). D’altronde, tutte le azioni sembrano ripetersi per un periodo prolungato all’interno dello stesso setting e questo meccanismo sembra chiaramente sostenere l’attivazione della memoria semantica a scapito di quella episodica. Ebbene, il periodo di pandemia è caratterizzato da una quotidianità ripetuta all’esasperazione che porta i bambini a descrivere le proprie giornate attraverso schemi d’azione generici e a non recuperare in nessun modo azioni specifiche (Calabrese 2022, p. 77).
Figure 11, 12. Alcuni estratti dei diari autobiografici realizzati durante il periodo di lockdown da bambini di dieci e undici anni (Tateo, Dario 2020, pp. 94-95).
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Chi si è chiesto come stessero vivendo questa esperienza indesiderata gli adolescenti è stato il gruppo di ricerca coordinato da Chiara Fioretti (2020). Quali riflessioni esistenziali caratterizzano i loro resoconti? E come le scelte contenutistiche si riflettono – alla perfezione – negli stratagemmi linguistici? È bene ricordare che in età adolescenziale – considerata il periodo di vita nel corso del quale si struttura l’identità – un evento stressante di questo tipo può essere percepito come una vera e propria biographical disruption. Di cosa parlano le esperienze narrate dai partecipanti? La prima tematica che emerge chiaramente nelle riflessioni autobiografiche riguarda l’angoscia e il senso di perdita percepiti, ben espressi attraverso interazioni basate su riferimenti emotivi (“Sono andato da mia nonna perché vive vicino casa mia. Volevo abbracciarla, ma lei mi ha respinto come se fossi un estraneo”, “L’esperienza peggiore riguarda la morte di mio nonno. Non tanto perché la gente piangeva al funerale e io dovevo sembrare forte, non tanto perché non lo trovavo più a casa sua, quanto perché ho dovuto comprendere questo processo solamente nella mia mente”). Contemporaneamente, è del tutto evidente che gli adolescenti intendono attribuire significato all’evento per riuscire ad inserirlo nella propria immagine identitaria. Per questa ragione, sembrano ricorrere – più e più volte – ad un approccio di tipo interpretativo e ad alcuni termini di stampo cognitivo, utili per avviare la rielaborazione dell’accaduto (“Quando ho sentito che i miei genitori dovevano tornare al lavoro ero spaventato. Pensavo al fatto che molti amici erano stati contagiati e avevano perso la vita”). Una seconda tematica emersa riguarda la reclusione sociale, la quale viene spesso espressa attraverso il ricorso al metaphorical language: stare a casa
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per tanti giorni può essere paragonato ad una vera e propria esperienza di prigionia. In effetti, l’impossibilità di svolgere le proprie azioni quotidiane si traduce nei resoconti a partire da scarsi riferimenti alla dimensione dell’agency e da un utilizzo elevato di verbi in forma passiva e in forma negativa (“Sono stato contagiato, non posso uscire di casa”). È del tutto evidente che gli adolescenti vivono una quotidianità sgradita con la quale devono fare necessariamente i conti. Emblematiche, infine, alcune scelte narratologiche. I ragazzi narrano in prima persona la propria routine, la interrompono per lasciare spazio alle digressioni emotive e al tempo stesso, inseriscono azioni specifiche che li hanno particolarmente traumatizzati (“L’esperienza più negativa è stata quando sono andata per la prima volta a fare shopping con la mascherina e i guanti. A un certo punto, ho incontrato una persona che mi ha salutato, ma non sono riuscita a capire che era la mia migliore amica!”). Insomma, selezionano stratagemmi causally-emotionally based che riflettono alla perfezione la drammaticità del periodo. Arrivati a questo punto del discorso, una digressione neurocognitiva è necessaria. Come si è visto nelle narratives precedentemente citate, a livello mnemonico sembrano mancare del tutto gli schemi di riferimento e, dunque, la sintassi autobiografica sembra essere compromessa irrimediabilmente. Sarebbe a dire, l’evento inaspettato non riesce ad essere riconosciuto dal nostro sistema neurale in nessun modo. Le conseguenze sono chiaramente drammatiche: se non riconosciamo un evento, non riusciamo a comprenderlo e di conseguenza, a ricordarlo e raccontarlo. Black out. A tal proposito, la ricerca ininterrotta di schemi mnemonici – utili per attribuire significato alla quotidianità – è ben
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evidenziata dai comportamenti ludici emersi nel periodo di lockdown. A opinione di Chris Pascal e Tony Bertram (2021, pp. 21-34), non è un caso se in seguito al periodo di pandemia le situazioni di gioco libero sono state sottoposte ad un processo di radicale trasformazione. In effetti, se da un lato i bambini sembrano fare affidamento su situazioni ludiche completamente scollegate dalla quotidianità che consentono loro di evadere dalla realtà, dall’altro strutturano setting simbolici nei quali hanno la possibilità di adottare ruoli collegati alla imprescindibile rielaborazione dell’evento. Un esempio? Se un bambino finge di essere ammalato e di prendere una forte tosse, il compagno di gioco diventa automaticamente un professionista sanitario che lo cura attraverso interventi opportuni. Proprio così. Fingere di avere una febbre alta e di essere stati contagiati porta i bambini a riconoscere – e a rendere operativa – una serie di schemi mnemonici, i quali contengono al loro interno peculiari micro-sceneggiature collegate ad azioni che avvengono nel periodo di pandemia (i bambini che fingono di recarsi dal medico devono sedersi appena arrivati nell’ambulatorio, devono lasciarsi provare la febbre, devono fingere di provare paura e così via). Insomma, il setting ludico diventerebbe un elemento imprescindibile per la rielaborazione dell’evento in quanto consentirebbe di collegare alcuni schemi del tutto sconosciuti con altri maggiormente noti attraverso link spaziotemporali e causali. Una riprova? Se fingo di essere obbligato a stare a letto alcuni giorni con la tosse significa che prima devo fingere di essere positivo e di essere stato contagiato dal virus. Una complessa simulazione che mette in luce cause e conseguenze difficilmente comprensibili in altro modo.
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Sintassi mnemonica pregiudicata? Facciamo per un attimo marcia indietro e prestiamo attenzione alla peculiare comprensione del Covid, inteso come evento che porta inevitabilmente realtà e controfattualità a blendizzarsi. Come i bambini comprendono un evento stressante – e soprattutto inaspettato – di questo tipo? Un evento che non ha in nessun modo schemi mnemonici che consentono di percepirlo come reale e di archiviarlo? C’est un gros problème. A consentirci di trovare una risposta ai due interrogativi esistenziali sono alcune rappresentazioni grafiche metaforiche realizzate da bambini di scuola primaria di nove e dieci anni ai quali è stato chiesto di immaginare il virus e di rappresentarlo come un oggetto, un animale oppure un essere umano. Per prima cosa, è bene dire che l’agente patogeno viene configurato a partire dalle morfologie fiabesche più note, soprattutto quelle a marchio Pixar: in effetti, la maggior parte dei bambini disegna esseri dai connotati mostruosi di colore verde – il quale deve essere inteso come il colore della diversità per eccellenza – e di colore rosso – considerato una scelta cromatica ambigua, spesso alleata contro il nero e il bianco. Una sorta di facsimile di Shrek, il famoso orco che viene ripudiato da tutti perché di brutte sembianze fisiche e perché sempre sporco. E non è tutto. Questi personaggi hanno spesso sguardi monoculari, dentature particolarmente affilate ed espressioni facciali minacciose che consentono loro di svolgere azioni ritenute drammatiche dalla comunità (Calabrese 2022, p. 9). Vediamo alcuni esempi. Una bambina di nove anni immagina il Covid come un essere mostruoso di colore verde che ha tre gambe, due braccia con tre dita ciascuna, un solo occhio e un grande distin-
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tivo che certifica il suo essere “il virus più cattivo del mondo” (figura 13). E non solo. Il personaggio indossa nella sua cintura un coltello, una pistola e un energy drink. È del tutto evidente che la bambina aggiunge alcuni oggetti per consentire al personaggio di portare a termine le sue azioni, ovvero colpire le persone che incontra – iniettando un materiale particolare – e distruggerle. Le stesse considerazioni sono valide per il mostriciattolo di colore rosso disegnato da un coetaneo, il quale viene paragonato a un vampiro che assorbe ininterrottamente il sangue degli individui che incrocia casualmente sulla sua strada (figura 14). Insomma, una continua integrazione tra schemi autobiografici ed elementi finzionali che non può in nessun modo essere fermata. Una vera e propria comprensione entre le réel et le fictif. Effettivamente, i personaggi sono esseri finzionali che costellano i noti ambienti fiabeschi, ma al tempo stesso svolgono azioni che accadono nella realtà – quali contagiare e uccidere – a partire da oggetti causali peculiari. Effettivamente, già nei primi anni di vita si sviluppa la tendenza alla personificazione che consente ai bambini di percepire il non-umano come umano e di fisicalizzare l’astratto per attribuire un senso. È proprio la metafora – intesa come strumento cognitivo che evolve gradualmente nel periodo infantile – a consentire ai bambini di categorizzare le nuove esperienze e di strutturare i concetti (Calabrese 2012, p. 3). Il punto è questo. Tutto sembra essere all’insegna del verofinto. D’altronde, non possiamo dimenticare che la derealizzazione si presenta come una delle conseguenze principali registrate nei soggetti che hanno vissuto un evento traumatico. E al tempo stesso, che sono proprio le opere finzionali a consentirci di attivare una sorta di
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regolazione emotiva implicita risultante da un cambiamento cognitivo dovuto alla conoscenza immaginaria dello stimolo (Calabrese 2022, p. 10).
Figure 13, 14. Rappresentazioni metaforiche del Covid realizzate da bambini di nove anni (e raccolte nel corso dell’intervento sperimentale analizzato nel prossimo capitolo).
Non per ultima, la rappresentazione grafica, la quale come già accennato precedentemente deve essere intesa come strumento privilegiato che ci informa circa la realtà percepita. Una vera e propria fenêtre sur le monde intérieur. Facciamo attenzione ancora una volta: come si vedrà nel prossimo capitolo, le esigenze narratologiche sembrano guidare completamente le scelte grafiche, sia a livello strutturale che a livello contenutistico. Sarebbe a dire, in base al significato che intendo trasmettere, modifico di conseguenza le caratteristiche grafiche del mio elaborato. Un esem-
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pio? L’agente patogeno – inteso come protagonista indiscusso delle scene rappresentate – potrebbe avere dimensioni maggiori rispetto ai restanti oggetti che subiscono ininterrottamente le sue azioni. Pertanto, quali scelte contraddistinguono le rappresentazioni grafiche del Covid? Lasciamo la parola ancora una volta a Munise Duran che analizza la percezione dell’evento stressante in bambini dai tre ai cinque anni a partire dalle strategie iconiche adottate (Duran 2020). First of all, la silhouette attribuita al virus. In tutte le rappresentazioni grafiche analizzate, i bambini utilizzano una forma tondeggiante – precisamente una sfera – con una serie di punte esterne. Perché? Come si è visto, senza dubbio la prima spiegazione ha a che vedere con l’immagine trasmessa dai media e dai social networks. Ma c’è dell’altro. Nella prima infanzia, i bambini percepiscono come esistenti le figure le cui silhouette siano convesse, cioè contenitive e avvolgenti: sarebbe a dire, le mappe neuronali processano come “oggetto” ciò che appare compatto, solido e a cromia dominante (Calabrese 2013, pp. 3233). C’est à dire, le forme convesse veicolano l’idea stessa di esistenza. A maggior ragione nel caso in cui ciò che viene rappresentato è percepito come inesistente o comunque come decisamente irreale. Successivamente, una riflessione relativa alle coordinate spazio-temporali e alle actions compiute dal virus. L’agente patogeno sembra fluttuare ininterrottamente senza direzione né scopo nell’aria attorno ad alcuni setting familiari – quali la casa, l’ospedale e la strada. En effet, un evento stressante di questo tipo sembra acquisire significato solamente se accostato a coordinate conosciute e note (figura 15). E ancora, gli espedienti grafici che consentono di evidenziare la pericolosità del virus e la complessità della situazione.
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I bambini sembrano fare affidamento sulla strategia della serializzazione iterativa e sull’iperbole: nella seconda immagine sottostante realizzata da una bambina di quattro anni, infatti, i virus sono numerosi e circondano completamente la casa all’esterno (figura 16), mentre nella prima immagine acquisiscono dimensioni talmente elevate quasi da sembrare più grandi dell’abitazione del bambino coinvolto (figura 15). Autrement dit, la forma del virus non si modifica in nessun modo, diversamente dalle posologie che si trasformano senza tregua per veicolare significati peculiari. Al tempo stesso, sembra essere la strategia del contrasto emotivo a guidare completamente la realizzazione grafica. Per esprimere la gravità del momento, i bambini si rappresentano attraverso un’espressione facciale opposta rispetto a quella del virus: nella terza immagine qui riportata, una bambina di cinque anni si disegna sullo sfondo del foglio – trasmettendo un’idea di inferiorità rispetto al Covid che si trova in primo piano – attraverso un’espressione decisamente impaurita che si scontra con quella infuriata dell’agente patogeno (figura 17).
Figure 15, 16, 17. La percezione del Covid in alcune rappresentazioni grafiche realizzate da bambini di quattro e cinque anni (Duran 2020, pp. 90-92).
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Altra età, altro esempio. Deldar Abdulah e colleghi chiedono ad un gruppo di bambini di scuola primaria e di scuola secondaria di primo grado di rappresentare graficamente alcune sceneggiature quotidiane collegate alla diffusione del virus (Abdulah et al. 2021). Quali sono i nuclei tematici maggiormente ricorrenti? Rivolgiamo ancora una volta l’attenzione alle coordinate spazio-temporali, le quali simboleggiano una diffusa sensazione di insicurezza e timore. En effet, nella maggior parte degli elaborati grafici i bambini separano la dimensione interna domestica dalla dimensione esterna considerata pericolosa: è questo il motivo che li porta ad adottare vere e proprie strategie topologiche divisorie all’interno di ciascun frame (figura 18). E ancora. La seconda tematica che emerge riguarda le difficoltà relative alle interazioni sociali mancate che vengono trasmesse, ad esempio, attraverso l’adozione di focalizzazioni esterne. Nella figura sottostante, un bambino di dodici anni si ritrae dall’esterno mentre osserva i virus che occupano completamente il campo da calcio, elemento di socializzazione par excellence. Un’attenzione particolare meritano anche le scelte cromatiche (figura 19). I colori utilizzati per rappresentare il virus sono sempre contrapposti ai colori scelti per rappresentare gli oggetti quotidiani e positivi. Se la casa è di un colore azzurro, i virus all’esterno sono di un colore verde scuro e via dicendo. Una vera e propria opposizione binaria che ripropone l’imposizione di un ordine cognitivo alla realtà a partire dai visual clues. Un’ulteriore strategia cromatica riguarda il passaggio dalla policromia alla monocromia. In un’immagine realizzata da un bambino di tredici anni, i protagonisti nella prima parte del frame stanno osservando dall’interno della loro casa il giardino che contiene numerosi virus volitanti (figura 20).
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Nella seconda parte, i personaggi si lasciano andare alla tentazione di giocare insieme nel cortile e i virus che prima erano lontani questa volta li circondano completamente senza lasciare loro scampo. Per testimoniare il physical contagion, il bambino si avvale di un meccanismo speculare a livello grafico, ovvero del contagio cromatico: i protagonisti – ormai infettati – sono diventati del medesimo colore dell’agente patogeno. Game over.
Figure 18, 19, 20. La percezione del Covid in alcune rappresentazioni grafiche realizzate da bambini rispettivamente di sei, dodici e tredici anni (Abdulah et al. 2021, pp. 764-766).
Ma facciamo un ultimo – e definitivo – passo in avanti. Una bambina di nove anni sceglie di rappresentare la propria quotidianità compromessa a partire dalla segmentazione della realtà che le consente
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di mettere in evidenza l’opposizione cognitiva tra il “prima” e il “dopo”, ovvero tra il periodo di lockdown presente e il futuro prossimo (figura 21) (Abdulah et al. 2021, p. 765). Se nella dimensione “then” potrà incontrare nuovamente le sue amiche, nella dimensione “now” è obbligata a trascorrere il tempo davanti alla televisione. In effetti, le immagini relative al periodo post-pandemia contengono numerosi riferimenti ad altri soggetti, mentre i frames che rappresentano il periodo Covid prevedono l’inserimento della sola protagonista. Ciò che ci interessa più di tutto riguarda, però, la ricerca spontanea della sequenzialità: per attribuire significato all’evento, la bambina realizza peculiari – e sofisticati – collegamenti spazio-temporali. Tra un prima e un dopo, tra lo stesso setting talora minaccioso, talora idilliaco. Similmente, una ragazza di tredici anni ricostruisce la situazione drammatica di pandemia stabilendo relazioni tra una serie di frames di carattere distopico (Tishelman et al. 2022, pp. 5-6). Se nel primo pannello mette in luce il modus operandi del virus in differenti parti del mondo, nei pannelli successivi racconta la sua quotidianità attraverso azioni svolte da più personaggi a lei noti (figura 22). Se nel secondo frame troviamo alcuni individui disposti frontalmente con la mascherina che simboleggiano la mancata interazione sociale quotidiana, nel successivo la bambina si rappresenta alla finestra di casa con un’espressione malinconica – e disperata – e nell’ultimo disegna un operatore sanitario che controlla il suo lavaggio delle mani. Questa volta abbiamo a che fare con sofisticati collegamenti tematici che ben esprimono l’evoluzione narrativa autobiografica che caratterizza la prima fase adolescenziale. Beninteso, a prescin-
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dere dall’età dei bambini che disegnano, la questione cruciale è sempre lo stessa. La necessaria – e precoce – recherche de séquentialité per attribuire significato alla realtà. Ecco la riflessione che guida le riflessioni del prossimo capitolo. Segmentare per capire e capire per segmentare: what else?
Figure 21, 22. La ricerca della sequenzialità in due rappresentazioni grafiche realizzate rispettivamente da una bambina di nove anni e da un’adolescente di tredici anni (Abdulah et al. 2021, p. 766; Tishelman et al. 2022, p. 6).
CAPITOLO QUARTO VISUAL NARRATIVES AUTOBIOGRAFICHE
1. Il disegno sequenziale come utensile cognitivo Linguaggio iconico, competenze cognitivo-emotive e prima infanzia. Un connubio indissolubile che merita innumerevoli riflessioni in un mondo contemporaneo che ha riconosciuto – grazie a recenti studi neuroscientifici – il predominio del linguaggio visivo nella comprensione della realtà. De toute évidence, inteso come dotazione cognitiva connaturata all’uomo che consente di trasmettere i significati in maniera semplificata e al tempo stesso, emozionalmente attraente (Calabrese, Conti, Broglia 2021, p. 110). Ora, dopo aver analizzato nei capitoli precedenti le caratteristiche principali dei resoconti autobiografici – e finzionali – in età infantile, è giunto il momento di fare un significativo passo in avanti e di dedicare la meritata attenzione ad uno strumento narrativo prezioso che consente di progettare i materiali attraverso il supporto imprescindibile del codice iconico. Stiamo parlando dell’innovativo disegno sequenziale? Certo che sì. Sarebbe a dire, di uno strumento che chiede ai bambini di selezionare un evento, di progettarlo simulandolo mentalmente e di segmentarlo in più pannelli o frames attraverso il codice iconico. Raccontare attraverso le immagini in sequenza? Un compito davvero complesso al quale non si può in nessun modo rinunciare.
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Due sono le considerazioni preliminari che ci consentono di avviare la riflessione. Per prima cosa, come si è visto nei capitoli precedenti, a oggi – in ambito narratologico e psicologico – è stata riconosciuta l’importanza dello storytelling a livello di sviluppo identitario, socio-cognitivo ed emotivo in quanto strumento strettamente correlato a competenze indispensabili nei primi anni di vita quali la progettazione, la memoria, il mind reading, il problem solving e l’immaginazione controfattuale. La prima scoperta da un milione di dollari? Per comprendere, devo raccontare. Al tempo stesso, c’è un’altra questione. Recenti studi neuroscientifici hanno dimostrato che la mappatura della realtà nella prima infanzia è di tipo visivo e che è solamente a partire da questa modalità d’azione che grammaticalizziamo più avanti nel tempo il linguaggio verbale. Sarebbe a dire, nei primi anni di vita, i bambini comprendono la loro quotidianità e attribuiscono significati agli eventi – solo e solamente – attraverso il linguaggio iconico. Una riprova? Anche le emozioni stesse sembrerebbero originarsi dalle espressioni visive. Se in un primo momento comprendo l’espressione tipica della paura, solo in un secondo momento sono in grado di linkare l’etichetta verbale di riferimento (Calabrese 2013, p. 27). Il punto è questo. Abbiamo a che fare con un vero e proprio bias cognitivo a favore del linguaggio iconico che non può in nessun modo non essere riconosciuto dai professionisti che a vario titolo si occupano di educazione per la prima infanzia. Dunque, la seconda scoperta? Per comprendere, devo sì raccontare, ma attraverso le immagini. Fin qui tutto chiaro. Le narrazioni visive sequenziali devono essere riconosciute come strumenti cognitivo-emotivi privilegiati. Ma approfondiamo la
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questione e vediamo per quale motivo devono entrare – con tutti i diritti del caso – a far parte delle progettazioni educative rivolte a bambini dai tre ai dodici anni. Sembrano essere numerose le riflessioni teoriche che hanno qualcosa da dirci al riguardo. Partiamo ancora una volta dalla grammatica neurocognitiva e, dunque, dalla sintassi mnemonica. Ebbene, la ricostruzione di un evento tramite il disegno sequenziale – autobiografico o finzionale che sia – chiede ai bambini di segmentare il flusso esperienziale in una serie di schemi e scripts (Calabrese 2020, pp. 34-36). A tal proposito, non c’è dubbio che a beneficiare del processo sequenziale siano anche le abilità di progettazione spazio-temporale e causale: segmentando il materiale, siamo portati a costruire collegamenti significativi tra i vari scripts – ovvero tra un prima e un dopo e tra una causa e una conseguenza – i quali allenano a loro volta anche il pensiero classificatorio e inferenziale. Insomma, per realizzare un disegno in sequenza devo selezionare un evento, progettarlo a livello mentale segmentandolo in più parti e collegare queste ultime tra loro in modo comprensibile. E non è tutto. È evidente che per recuperare un evento passato e progettarlo in più pannelli, devo simulare mentalmente le ipotetiche liaisons e avvalermi di conseguenza del supporto del pensiero controfattuale. Il risultato? Un’operazione cognitiva tutt’altro che scontata. Prendiamo come esempio la costruzione di collegamenti causali. A opinione di Helen Reed e colleghi (2015, pp. 369 ss.), lo strumento che ci consente di iniziare a selezionare le cause degli eventi – e le relative conseguenze – è proprio lo storytelling, inteso come sequenza che chiede ai soggetti di costruire relazioni tra personaggi, azioni e motivazioni sulla
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base di indizi contestuali e contemporaneamente di conoscenze autobiografiche sedimentate in precedenza. Chiedendo ad un gruppo di bambini di scuola dell’infanzia di cinque e sei anni di leggere ad alta voce alcuni picture books, l’autrice si è accorta del precoce sviluppo di primitivi link causali sia di natura fisica che di natura psicologica. Ovvero, della prematura recherche de causalité che si sviluppa in modo lento e inesorabile nel corso dell’intero periodo infantile. Sarebbe a dire, sin dai primi anni di vita – durante la lettura di materiali visivi sequenziali – i bambini sembrerebbero essere in grado di costruire autonomamente sia relazioni tra un’azione precedente e una successiva (ho lanciato la palla e ho rotto il vetro di casa) sia relazioni tra un’azione e il relativo stato mentale (mi sento triste perché mio fratello si è fatto male). Insomma, riflessioni sofisticate che il disegno sequenziale chiede non solo di individuare, ma anche di “mostrare”: se in un frame mi disegno mentre segno un importante goal durante una partita di calcio, nel successivo posso rappresentarmi con un’espressione visiva decisamente soddisfatta. From action to reaction. Tutto torna. Ecco svelato il motivo per il quale quando sentiamo la necessità di comprendere un evento altamente stressante – come la già citata pandemia – tentiamo di costruire sequenze di scripts mnemonici attraverso le immagini e di esplorare gli ipotetici collegamenti tra loro. A tal proposito, una rapida digressione che ha a che vedere con le riflessioni di Ian Williams, punto di riferimento indiscusso a livello internazionale per quanto riguarda l’innovativa graphic medicine, campo di studi che ben testimonia il ruolo delle narrazioni visive a livello terapeutico (Williams 2011, pp. 356 ss.). Perché i soggetti affetti da patolo-
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gie – di qualsiasi tipo esse siano – traggono beneficio dalla costruzione di patografie, ovvero di narrazioni realizzate attraverso sequenze di immagini? A ben vedere, le modalità di recupero del materiale traumatico sembrano essere perfettamente in linea con le prassi progettuali delle narrazioni visive sequenziali. Per prima cosa, il linguaggio iconico sembra essere l’unico codice che condivide la visual nature dei ricordi stressanti, i quali si presentano come aggregati percettivi e come immagini difficilmente traducibili in materiale verbale. O meglio, come immagini indelebili che hanno a che fare con una semiotica diretta che non ha bisogno di alcuna traduzione. E ancora. I ricordi stressanti mancano completamente di collegamenti crono-causali che la narrazione sequenziale obbliga, invece, a identificare e a strutturare. In altri termini? Sembra essere proprio la costruzione di scripts in sequenza che consente ai soggetti coinvolti di attribuire per la prima volta un significato agli intollerabili gap mnemonici. Proprio così. A opinione di Stefano Calabrese, realizzare una narrazione grafica relativa ad un evento negativo vissuto in prima persona è un vero e proprio atto di autodefinizione costruttiva a tutte le età, di modellazione delle emozioni pregresse, di rivisitazione “analogica” degli eventi tale da comportare un mutamento nel modo in cui i soggetti si percepiscono e attribuiscono un senso all’esperienza (Calabrese 2019, pp. 122-123). Bene. Ma riprendiamo la nostra promenade relativa alle competenze cognitive coinvolte nelle attività di disegno sequenziale valutando ancora per un attimo il modus operandi della memoria. Diamo la parola a Jeffrey Zacks e colleghi che si sono occupati – come accennato in uno dei precedenti capitoli – di segmentazione e comprensione della
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realtà. D’accordo con la loro Event Segmentation Theory (EST), la costruzione di una narrazione sequenziale sembra rispecchiare le operazioni che il nostro cervello esegue per classificare ciò che accade. Sarebbe a dire, i soggetti sembrano essere naturalmente predisposti a segmentare gli eventi individuando confini utili – e necessari – per memorizzare le informazioni del flusso esperienziale (Swallow, Zacks, Abrams 2009, pp. 236 ss.). Se devo ricordare ciò che faccio a scuola durante la mattina, devo obbligatoriamente suddividere le varie azioni a partire dal loro valore semantico: prima arrivo con lo zaino, successivamente mi siedo e ascolto la maestra prima della ricreazione e via dicendo. Facciamo attenzione: se non attivassimo questo meccanismo percettivo-mnemonico, la realtà ci sembrerebbe incomprensibile a causa del numero eccessivo di input sensoriali in arrivo. Pertanto, secondo la EST, sia quando analizziamo la realtà sia quando leggiamo o costruiamo una narrazione, tendiamo a edificare event’s models che ci consentono di organizzare gli input ricevuti e al tempo stesso di generare previsioni riguardanti eventuali input percettivi futuri. È del tutto evidente che nel corso di questo processo vengono attivati meccanismi di gating: quando l’evento cambia, la precisione delle previsioni generate diminuisce in quanto si avvia un procedimento di ripristino mentale. O meglio, un vero e proprio intervento di restauro mnemonico. Da questa prospettiva, i confini degli eventi – detti anche boundary events – corrisponderebbero ai momenti nei quali i modelli di azione vengono aggiornati e rivisti. È proprio questo il motivo per il quale i confini sembrano avere uno status privilegiato a livello di memoria a lungo termine.
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Al tempo stesso, la richiesta di rappresentare graficamente un evento in più frames implica anche il coinvolgimento delle abilità di mind reading. Sarebbe a dire, progettando un’esperienza in sequenza i bambini sono portati a chiedersi quale relazione lega le proprie azioni alle relative emozioni e al tempo stesso, a ipotizzare e a simulare gli stati emotivi e le intenzioni degli altri soggetti coinvolti. Una vera e propria palestra per l’empatia, intesa come capacità di smettere di essere se stessi per proiettarsi controfattualmente in un altro punto di vista a livello emotivo e cognitivo (Calabrese 2020, pp. 65-66). Un esempio? Se mi viene chiesto di raccontare la mia giornata più brutta, posso costruire un frame nel quale mi ritraggo in primo piano particolarmente triste e un frame successivo che contiene il responso del mio medico nel quale si fa riferimento all’obbligo inderogabile di indossare gli occhiali dal giorno dopo. Cause e conseguenze, motivazioni e azioni. Chi più ne ha, più ne metta. A tal proposito, facciamo attenzione. Nei compiti di disegno sequenziale, i meccanismi narratologici relativi all’empatia sembrano essere strettamente collegati alle abilità di rappresentazione grafica. O meglio, alla capacità di rappresentare i volti e le posture dei personaggi che si presentano come elementi indispensabili per far sì che un ipotetico lettore possa comprendere le motivazioni che muovono le azioni. A ben vedere, i bambini sembrano essere decisamente consapevoli del valore delle strategie iconiche: già dai cinque anni comunicano significati emotivi a partire dalle sole espressioni visive e al tempo stesso, in caso di emozioni complesse e sociali – come la rabbia e la paura – si aiutano con eventuali indizi contestuali. Sarebbe a dire, per ritrarsi particolarmente spaventa-
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ti, possono inserire vicino alla loro figura un oggetto causale quale un mostro oppure un insetto (Brechet, Baldy, Picard 2009, pp. 599 ss.). Narratologia e strategie grafiche, strategie grafiche e narratologia. Ma di questo ne parleremo più avanti. È del tutto evidente che anche le attività di lettura di narrazioni visive sequenziali sembrano sostenere l’evoluzione delle medesime competenze cognitivoemotive. Basti pensare per un attimo ai già citati picture e silent books. Per attribuire significato al plot, sono obbligato a realizzare link spazio-temporali e causali tra le doppie pagine e di conseguenza, tra gli schemi e gli scripts forniti. Al tempo stesso, sono portato a valutare le intenzioni e gli stati emotivi dei personaggi a partire dal codice iconico che mi procura indizi irrinunciabili. Ebbene, per affermare che un protagonista si sente particolarmente arrabbiato dopo aver svolto una determinata azione, devo integrare le eventuali cause con le relative conseguenze e al tempo stesso, devo riconoscere il legame esistente tra testo verbale, espressione emotiva ed eventuali visual clues quali le scelte cromatiche e le forme delle figure. Niente – niente – di più complesso. Da un lato, dunque, la lettura di iconotesti sequenziali. Dall’altro la produzione di narrazioni sequenziali intese come strumenti di potenziamento cognitivo irrinunciabili sin dai primi giorni di scuola dell’infanzia. Ora, torniamo per un attimo alle riflessioni teoriche relative al disegno sequenziale avanzate fino a questo momento e tentiamo di renderle operative a partire da un esempio. Un bambino di cinque anni racconta in tre pannelli un evento autobiografico nel corso del quale si è sentito particolarmente arrabbiato: se nel primo frame rappresenta la causa del-
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la sensazione – ovvero una lite con il fratello – nel successivo disegna la propria espressione in primo piano per enfatizzare lo stato d’animo. Infine, nel terzo frame sceglie di mettere in evidenza la resolution per niente infausta dell’esperienza: i due protagonisti in un primo momento si prendono per mano e successivamente giocano insieme ai videogiochi nella loro cameretta (figura 1). A quali passaggi costringe, dunque, la realizzazione di un disegno sequenziale? Innanzitutto, il bambino deve progettare mentalmente – ossia, simulare – l’esperienza per definire le principali azioni dello script di riferimento. E ancora. Dopo aver selezionato le componenti della sintassi mnemonica, deve obbligatoriamente integrarle tra loro in modo significativo e per questo motivo, sceglie di avvalersi del supporto di strategie spazio-temporali e di primordiali strategie causali. Chiaramente, sono proprio i confini degli eventi – sostenuti dal passaggio da un frame al successivo – che gli consentono di codificare in memoria l’esperienza in modo significativo. Non per ultimo, il coinvolgimento delle abilità di mind reading. Per strutturare il resoconto autobiografico, il bambino deve riconoscere i collegamenti tra le proprie azioni e i propri stati d’animo. Sono molto arrabbiato perché ho litigato. Ma non è tutto. Contemporaneamente è tenuto a ipotizzare e attribuire un valore anche alle intenzioni altrui, ovvero alle azioni del fratello. Probabilmente è arrabbiato anche lui perché ha litigato con me. A tal proposito, facciamo attenzione alle strategie espressive adottate per fornire informazioni relative all’emotività. L’espressione visiva del protagonista – nel secondo frame – è contraddistinta da dimensioni decisamente elevate, dall’utilizzo del colore rosso e dalla rappresentazione grafica della
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bocca aperta che consente di intravedere addirittura i denti. Certo che sì. Già nel corso della scuola dell’infanzia, i bambini sembrano essere in grado di adottare visual strategies – seppur primitive – che consentono di veicolare determinati significati. Per lo meno, emotivi.
Figura 1. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da un bambino di cinque anni.
È arrivato il momento di approfondire il modo in cui i bambini si approcciano al compito e di esaminare le strategie narratologiche che adoperano per progettare e raccontare eventi attraverso più immagini poste in sequenza A tal proposito, nel corso di due recenti interventi sperimentali – analizzati nel dettaglio nei prossimi paragrafi – è stato chiesto ad un gruppo di bambini di scuola dell’infanzia e di scuola primaria di realizzare alcune narrazioni visive sequenziali sia di tipo autobiografico che di tipo finzionale. “Racconta la tua giornata più bella in dodici pannelli” oppure “Immagina la giornata di Babbo Natale in tre frames” e così via. I risultati sono davvero sorprendenti e meritano innumerevoli approfondimenti.
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2. Segmentare e disegnare nella prima infanzia: what else?1 Lasciamo, dunque, la parola ai disegni. Quali strategie narratologiche adottano i bambini dai tre ai sei anni per raccontare gli eventi personali in più pannelli? Innanzitutto, è bene ricordare che un pannello è da considerarsi come l’unità di significato minima che – attraverso le proprie caratteristiche e attraverso il legame intrattenuto con quelli adiacenti – consente ai bambini di trasmettere un particolare significato, il quale è connesso anche alla conoscenza semantica generale del mondo esterno (Pantaleo 2013, p. 152). Rispondiamo con cautela alla domanda chiedendo ad un bambino di tre anni di raccontare la sua mattinata di scuola in due frames (figura 2). Per prima cosa, le strategie di emplotment. La progettazione sembra essere focalizzata sulla progressione temporale. Se ci pensiamo, tutto torna. Come si è visto nel capitolo introduttivo, i primi resoconti autobiografici fanno riferimento ad un ordine temporale – non sempre puntuale – che consente di mettere in evidenza le azioni che accadono prima e le azioni che accadono dopo. In questo caso, il bambino seleziona due azioni che appartengono allo script stoccato nel serbatoio mnemonico personale: nel primo frame si rappresenta mentre gioca seduto sul pavimento della sezione con i Lego e nel secondo si disegna sulla panca con i suoi amici mentre l’insegnante – rappresentata di fronte a loro – 1
Le narrazioni visive commentate nel paragrafo sono state raccolte nel corso di un progetto di ricerca coordinato dal Professor Stefano Calabrese (Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) e condotto nel corso dell’anno scolastico 2021/2022 nelle due sezioni di scuola dell’infanzia del nido-scuola “Totem” di Reggio Emilia.
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li ascolta nel momento dell’assemblea mattutina. Ora, la prima azione citata accade ovviamente prima della seconda ed è proprio la possibilità di attribuire un ordine temporale alla micro-sceneggiatura a consentire al bambino di avviare la progettazione narrativa. E di lasciarla fluire. La prima strategia narratologica? Senza dubbio, temporally-based. Tuttavia, anche i personaggi e le azioni da loro svolte sembrano giocare un ruolo fondamentale. Se nel primo frame il bambino sta giocando, nel secondo l’azione si modifica completamente in quanto viene rappresentato il momento dell’appello. Abbiamo a che fare evidentemente anche con una progettazione del tipo character-based. Fino ad ora, nessuna traccia di complessità interiore e di collegamenti causali in quanto la narrazione è guidata – totalement – da temporalità e azioni. Ma non è tutto. Il primo personaggio rappresentato coincide – sempre – con il narratore stesso che compie le due azioni che consentono alla narrazione di progredire, mentre gli altri personaggi che ovviamente le subiscono vengono aggiunti in un secondo momento. Sono i cognitivisti – primo tra tutti Neil Cohn – a dirci che sin dai primi anni di vita nelle narrazioni visive l’agente precede – toujours – il paziente a livello di rielaborazione semantica (Cohn, Pazcynski 2013, pp. 75 ss.). C’est à dire, se in un primo momento viene considerato – e rappresentato – colui che compie le azioni e che, dunque, guida lo script, in un secondo momento vengono inseriti anche i personaggi che di conseguenza le subiscono. Detto in una sola parola? Nel corso del periodo infantile, l’agente è da considerarsi come il principale – e quasi esclusivo – event builder. A ben vedere, le necessità narratologiche sembrano guidare – in modo esclusivo e univoco – le scelte gra-
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fiche. Il bambino rappresenta alcuni giochi accanto a sé e al tempo stesso, disegna la panca sulla quale è seduto con i compagni: sarebbe a dire, seleziona gli elementi indispensabili per lo svolgimento della micro-sceneggiatura in oggetto e li riproduce a livello grafico. Insomma, gli indizi figurativi aggiunti dipenderebbero strettamente dalla progettazione narrativa in fase di realizzazione. Disegno ciò che mi serve per svolgere e rendere comprensibile l’azione e per fornire indicazioni circa le coordinate spazio-temporali entro le quali quest’ultima avviene. Tutto qua.
Figura 2. Scribble autobiografico sequenziale realizzato da un bambino di tre anni.
Altra età, altro esempio. Procediamo con la narrazione autobiografica di un bambino di cinque anni che racconta in tre frames un’esperienza particolarmente positiva. Alla consegna iniziale “Racconta la tua giornata più bella”, il bambino seleziona il suo ultimo compleanno nel corso del quale ha avuto la possibilità di visitare il famoso acquario di Genova (figura 3). Quali strategie a livello di messa-in-intreccio? Se nel primo frame rappresenta i pesci che ha osservato all’entrata – ovvero i delfini – nel secondo si rappresenta accanto ad un’ulteriore vasca nella quale
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stanno nuotando le orche. Infine, nell’ultimo pannello si disegna all’interno di un negozio – che può essere visitato al termine della visita guidata – mentre sta osservando alcuni uccellini che vorrebbe come regalo di compleanno. Dunque, come stanno le cose? Ancora una volta, la progettazione narrativa sembra essere temporally based: in un primo momento il protagonista visita le vasche con i pesci al loro interno e successivamente, osserva altri animaletti per scegliere il suo regalo. Prima e dopo: una strategia di segmentazione narratologica davvero infallibile. Al tempo stesso, il bambino seleziona le azioni considerate più significative e le riporta all’interno dei tre frames: un modus operandi – similmente alla narrazione prima commentata – del tipo action-based. Effettivamente, come si è visto nei capitoli precedenti, a quest’età i resoconti autobiografici sembrano non essere altro che veri e propri action movies che considerano un solo script mnemonico alla volta. Ma c’è dell’altro. Se è vero che l’evento viene segmentato grazie a strategie temporali e a strategie collegate alle azioni, è anche vero che il bambino segmenta il flusso esperienziale a partire dalle modifiche che avvengono a livello di setting. Se in un primo momento le azioni si svolgono nelle vasche, successivamente l’azione conclusiva avviene nel già citato negozio dell’acquario. Cosa dedurne? D’accordo con le riflessioni di Zacks e colleghi, ogni volta che le azioni dei personaggi – e al tempo stesso i setting di riferimento – si modificano, si attiva il cosiddetto boundary event che porta i bambini a ristrutturare il modello mentale dell’avvenimento considerato e di conseguenza, a suddividere i frames mettendo in luce i cambiamenti avvenuti (Swallow, Zacks, Abrams 2009, pp. 236 ss.). Proprio così. A tal proposito, de-
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gni di nota sono gli espedienti figurativi adottati per simboleggiare le modifiche spazio-temporali: se le vasche dei pesci che si trovano in uno spazio chiuso – e sono delimitate da una cornice ornamentale – sono contraddistinte dalla presenza dell’acqua, il negozio si trova all’aperto e questo passaggio è ben segnalato dal narratore attraverso l’inserimento del sole nella parte superiore sinistra del foglio. Encore une fois, le necessità narratologiche guidano del tutto la rappresentazione grafica. Nondimeno, i personaggi. D’accordo con le riflessioni di Ageliki Nicolopoulou, sembrano emergere alcune intenzioni primitive che muovono le azioni dei personaggi all’interno dei singoli pannelli. Un esempio? Nell’ultimo frame, il bambino si rappresenta particolarmente entusiasta accanto alla gabbia degli uccellini perché vorrebbe portarne con sé uno (Nicolopoulou, Richter 2007, pp. 418 ss.). Un fatto è certo: per la prima volta – attorno ai cinque anni – le azioni sembrano essere correlate a specifiche intenzioni in quanto i protagonisti acquisiscono una primordiale complessità interiore che diventerà sempre più evidente nel corso dei primi anni di scuola primaria. Un’ultima considerazione degna di nota. Il principale protagonista del resoconto è il narratore stesso che tuttavia inserisce altri personaggi – quali i pesci e gli uccellini – coinvolti nelle actions raccontate. A ben vedere, la focalizzazione è senza dubbio interna in quanto il bambino disegna solamente ciò che vede e ciò che sa. D’altronde, sappiamo bene che i materiali mnemonici taggati emotivamente sono recuperati e progettati a partire dal punto di vista del narratore stesso (D’argembeau et al. 2003, pp. 283 ss.). C’è però un tuttavia. Nel primo frame il bambino si avvale del supporto di un espediente narratologico
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decisamente sofisticato: sceglie di non rappresentarsi in nessun modo e di lasciare l’intera scena ai delfini – rappresentati di profilo – che osservano fuori dalla vasca in direzione del lettore. Una sorta di focalizzazione zero che porta il narratore a presentarsi inizialmente come onnisciente, ovvero a saperne più dei personaggi che descrive. Sans aucun doute, si tratta di un incipit narrativo che intende mettere in luce l’importanza degli animaletti nello svolgimento delle azioni e nell’evento autobiografico recuperato.
Figura 3. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da un bambino di cinque anni.
Particolarmente emblematica anche la narrazione visiva sequenziale di una bambina coetanea che alla medesima consegna risponde recuperando il suo ultimo viaggio in montagna con la famiglia (figura 4). Se nel primo frame rappresenta il momento in cui è arrivata alla reception dell’albergo, nel secondo si disegna all’interno della piscina con la mamma. E ancora. Peculiare la scelta narratologica adottata nell’ultimo pannello che testimonia la spontanea recherche de séquentialité che consente di attribuire significato agli eventi. Se nella prima sezione del frame la bambina
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si rappresenta sulle piste da sci con la sua insegnante, nella sezione successiva disegna la sua grande macchina – in primo piano e di profilo – all’interno del garage per simboleggiare sfortunatamente la conclusione della vacanza. Ora, ancora una volta le riflessioni costruite per le narrazioni precedenti sembrano essere valide: le connessioni tra i frames sono di tipo spazio-temporale e l’evento inizia a fluire grazie alle azioni che la bambina svolge. Tempo e azioni, azioni e tempo. Niente di più, niente di meno. Arrivati a questo punto della riflessione, sembra essere tuttavia indispensabile una riflessione strutturale. A opinione di Scott McCloud – principale punto di riferimento negli studi internazionali relativi alle visual narratives – quando i soggetti hanno a che fare con le narrazioni visive sequenziali devono obbligatoriamente ricostruire una realtà continua e unificata facendo riferimento all’osservazione dei singoli frammenti e ricorrendo all’archivio semantico autobiografico (McCloud 1996, pp. 78 ss.). Stiamo parlando della famosa closure che può essere perseguita attraverso differenti strategie visive? Certo che sì. Ad esempio. Se il passaggio “action-to-action” coincide con un montaggio nel quale i frames presentano lo stesso personaggio in una progressione di azioni differenti, il passaggio “scene-to-scene” fa sì che ciascun frame contenga personaggi e coordinate contestuali differenti e variabili. Dunque, come i bambini dai tre ai cinque anni giustappongono i pannelli consecutivi per creare una simulazione mentale continua? Come si può notare nel disegno sequenziale in oggetto, la principale strategia utilizzata nella prima infanzia riguarda proprio il primo montaggio “da azione ad azione”: la bambina si rappresenta nei
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differenti pannelli mentre svolge svariate azioni che le consentono di segmentare in modo puntuale l’esperienza. Se per prima cosa consegna i suoi documenti personali all’entrata dell’albergo, successivamente sceglie di fare il bagno in piscina e via dicendo. Tuttavia, nelle narrazioni infantili sembra essere particolarmente diffusa anche la strategia “da scena a scena”. En effet, i bambini sono in grado di segmentare l’evento a partire altresì dai cambiamenti spazio-temporali significativi. Se la prima scena del disegno si svolge nella reception, l’ultima si svolge sulle piste da sci e nel garage di casa. Insomma, le strategie relative alla closure coincidono – à la perfection – con le strategie di emplotment. È questo il motivo per il quale dai tre ai sette anni circa i pannelli che dominano la produzione sequenziale sono del tipo “figura intera” in quanto consentono di fornire informazioni puntuali relative alle actions dei personaggi. Niente di nuovo sul fronte.
Figura 4. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da una bambina di cinque anni.
È del tutto evidente che nel corso della scuola dell’infanzia e dei primi anni di scuola primaria, il numero di frames proposto deve essere – obliga-
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toirement – limitato. Sappiamo bene, infatti, che le abilità mnemoniche e narrative coinvolte si sviluppano nel tempo: schemi e scripts si perfezionano dai tre anni in avanti così come la sofisticata capacità di operare riscritture temporali e causali, mentre l’abilità di comprendere gli stati altrui fa la sua comparsa dopo i quattro (Calabrese 2019, pp. 31-32). A tal proposito, è bene ricordare che le attività di narrazione sequenziale devono essere guidate dall’imprescindibile principio di gradualità didattica. Sarebbe a dire, prima di proporre la ricostruzione di un evento senza nessun tipo di indizio narratologico, è possibile fornire alcuni segmenti della sequenza. Un esempio? Si potrebbe chiedere ai bambini di rappresentarsi in un pannello centrale in un particolare stato emotivo – ad esempio, arrabbiati oppure felici – e successivamente di recuperare l’azione iniziale e l’azione finale, ovvero la causa della sensazione e la relativa conseguenza. È chiaro che in questo modo viene incentivata la realizzazione di primitivi collegamenti a partire da un elemento già istituito, ovvero lo stato emotivo di riferimento. È proprio così che le abilità coinvolte nella costruzione di disegni sequenziali iniziano a decollare. Ma regaliamoci una breve escursione tra i disegni sequenziali finzionali. In linea con il principio di gradualità appena citato, come prima cosa è stato chiesto ad un gruppo di bambini di partecipare alla lettura interattiva del picture book finzionale La balena della tempesta del quale si è già parlato nel primo capitolo – che racconta dell’amicizia tra il protagonista Nico e una balena – e di ricostruire la trama in almeno tre pannelli. Come testimonia la narrazione realizzata da una bambina di cinque anni, i risultati sono ancora una volta straordinari
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(figura 5). Anche nel caso del materiale finzionale, le azioni del protagonista guidano la ricostruzione del plot: nel primo pannello incontra la balena sulla spiaggia, nel secondo sceglie di portarla nella sua vasca da bagno, nel terzo osserva impaurito il papà che rientra dal lavoro e nel quarto – insieme a lui – accompagna l’animaletto nel suo habitat naturale. E ancora. Le varie azioni vengono citate in un ordine temporale puntuale: prima Nico trova la balena sulla spiaggia dopo la tempesta e successivamente decide di portarla con sé per aiutarla. A tal proposito, è bene ricordare che le coordinate spazio-temporali di riferimento si modificano di pannello in pannello e vengono messe in luce attraverso specifici indizi figurativi. Se nel primo frame la bambina inserisce i gabbiani che volano nella parte superiore del foglio per simboleggiare la spiaggia durante il giorno, nel terzo aggiunge alcune stelle accanto alla luna per segnalare l’arrivo della notte. Ma facciamo attenzione. Grazie agli indizi narratologici forniti dal plot, i bambini dai cinque anni in avanti sembrano essere in grado di identificare alcune significative connessioni causali tra i pannelli (Reed et al. 2015, pp. 369 ss.). Effettivamente, nel disegno sequenziale qui analizzato, il terzo frame – nel quale il papà sta tornando a casa e Nico lo osserva preoccupato dalla finestra – sembra essere la diretta conseguenza dell’azione che si è svolta nel frame precedente (che riguarda il salvataggio della balena e il suo trasporto nella vasca da bagno). Un lavoro cognitivo davvero complesso che chiede alla bambina di progettare senza tregua connessioni tra stati emotivi e azioni e al tempo stesso, di simulare le emozioni altrui. A tal proposito, non possiamo non considerare brevemente la già
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citata relazione tra esigenze narratologiche e strategie iconiche. Per mettere in evidenza l’ostacolo incontrato nel plot e la successiva risoluzione temporanea, la bambina si avvale a livello grafico della strategia del contrasto emotivo. Se nel primo frame la balena sembra avere un’espressione particolarmente triste – ben evidenziata da una linea orizzontale disegnata al centro del suo viso – nel secondo acquisisce un’espressione antitetica. È finalmente salva grazie all’aiuto del protagonista. Ecco che elementi narratologici e figurativi sembrano essere ancora una volta indissolubilmente linkati. A ben vedere, la bambina utilizza in modo consapevole anche alcune strategie espressive collegate al linguaggio retorico e nello specifico, metaforico. Nel secondo frame – per trasmettere un’emotività decisamente positiva – non si avvale solamente del supporto dell’espressione visiva, ma aggiunge un grande arcobaleno colorato al di sopra della vasca da bagno. Un arcobaleno che testimonia metaforicamente il recupero della felicità. D’altronde, come ci ricordano gli studi condotti in ambito psicologico relativi al disegno infantile, le strategie espressive – utili per testimoniare una determinata condizione psicologica – iniziano a perfezionarsi proprio in questo periodo (Picard, Brechet, Baldy 2007, pp. 244 ss.). Se è vero che inizialmente i bambini fanno affidamento solamente sulle espressioni letterali (ad esempio, la bocca rivolta verso il basso oppure verso l’alto), è altrettanto vero che gradualmente fanno la loro comparsa le espressioni astratte relative all’utilizzo consapevole delle scelte cromatiche e degli indizi figurativi. Finalmente, l’ambita visual literacy che si sviluppa in modo graduale nel corso della scuola dell’infanzia.
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Figura 5. Narrazione visiva sequenziale finzionale realizzata da una bambina di cinque anni.
“C’era una volta Babbo Natale”. Ecco la seconda consegna finzionale fornita ai bambini che ha chiesto loro di ricostruire e immaginare le azioni svolte da Babbo Natale nel corso delle festività natalizie. Tuttavia, una considerazione preliminare sembra essere necessaria. Prima di procedere con la progettazione della narrazione sequenziale, i bambini hanno avuto la possibilità di guardare – e commentare a grande gruppo – il breve episodio del già citato cartone animato Peppa Pig nel corso del quale la protagonista insieme al fratellino e ai genitori spedisce la letterina per i regali, compra un grande albero e al tempo stesso, attende Babbo Natale e lo incontra nel salone di casa. Perché la visione di questo materiale può essere considerata particolarmente efficace per avviare un’attività grafica sequenziale? La risposta ha a che vedere ancora una
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volta con la sintassi mnemonica. En effet, i bambini hanno la possibilità di recuperare dal cartone animato schemi e scripts, di attribuire loro un ordine peculiare e di trasportarli all’interno delle loro narrazioni. Che cosa fa Babbo Natale nei giorni in cui tutti i bambini del mondo lo attendono con impazienza? Per trovare una risposta, analizziamo brevemente la narrazione visiva in tre frames realizzata da una bambina di cinque anni (figura 6). Se nel primo frame Babbo Natale prepara i regali insieme ai suoi aiutanti, nel secondo arriva la tanto attesa notte della vigilia e – con la sua fidata renna – mette in azione la slitta per iniziare il viaggio più lungo di sempre. E infine, dopo tanta fatica, nell’ultimo frame decide di concedersi un meritato riposo nella sua casa ubicata al Polo Nord insieme ad alcuni elfi. Come sempre, un plot guidato completamente dalla temporalità e dalle azioni che il protagonista svolge. Tuttavia, è necessario mettere in luce un meccanismo narratologico davvero raffinato che testimonia la continua integrazione in età infantile tra dimensione reale e dimensione controfattuale, utile per comprendere la quotidianità. Per ricostruire i pannelli, la bambina integra – senza nessuna tregua – elementi appartenenti alla memoria semantica con elementi controfattuali. C’est à dire, recupera alcune conoscenze semantiche acquisite in precedenza (Babbo Natale vive al Polo Nord e consegna i regali) e le perfeziona attraverso elementi del tutto innovativi (dopo la notte magica ha bisogno di riposarsi con i suoi amici). Rien de nouveau: la continua integrazione tra dimensione autobiografica e immaginaria sembra rispecchiare alla perfezione il modus operandi della nostra mente. Ricordare e simulare, simulare e ricordare. A tal proposito, emblematiche le scelte grafiche che simboleggiano la vocazione al blending della dimensione reale
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e della dimensione immaginata. Per rendere veritiera la partenza della slitta grazie al supporto della famosa polvere magica, la bambina inserisce innumerevoli fiocchi di neve che ancorano la scena al periodo invernale e nello specifico, alla notte di Natale. E ancora. Nell’ultimo frame Babbo Natale si riposa dopo una lunga fatica e per fare ciò utilizza oggetti ordinari e familiari, quali un divano ed un tavolino nel quale poter appoggiare finalmente il suo pesante cappello rosso. In questo modo, anche gli elementi che si allontanano maggiormente dagli schemi mnemonici autobiografici acquisiscono credibilità e veridicità.
Figura 6. Narrazione visiva sequenziale finzionale realizzata da una bambina di cinque anni.
3. Paneling matters: narrazioni visive e scuola primaria2 Più gli anni passano, più chiaramente il meccanismo si complica e diventa sofisticato. È Sylvia Pan2
Le narrazioni visive commentate nel paragrafo sono state raccolte nel corso di una sperimentazione coordinata dal Professor Stefano Calabrese condotta nei mesi di maggio e giugno 2021 in due scuole primarie della provincia di Parma.
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taleo – docente presso il Dipartimento di Educazione della University of Victoria – a fornirci indicazioni preziose relative agli step operativi indispensabili per proporre attività di disegno sequenziale all’interno delle scuole primarie e secondarie di primo grado (Pantaleo 2013; 2015). Un fatto è certo. A opinione della Pantaleo, è necessario progettare un intervento diretto a livello di visual literacy, ovvero aiutare i bambini a valutare come – e perché – la manipolazione di dimensioni, forme, tipologie e punti di vista dei vari frames è in grado di influenzare direttamente la percezione e di conseguenza, il significato veicolato. Dunque. Allora. Per prima cosa è necessario fornire peculiari modelli che consentano loro di comprendere e analizzare le differenti tipologie di frames e i contenuti narrativi richiesti. Ma come intervenire a questo livello? De toute évidence, attraverso un graphic novel. Leggendo materiali di questo tipo, i bambini hanno la possibilità di riconoscere le plurime tipologie di pannelli, le quali contengono puntualmente informazioni narrative coerenti con l’obiettivo. Se un pannello “figura intera” contiene dati relativi alle actions che si svolgono nel corso dell’esperienza, un pannello “primo piano” intende mettere in evidenza gli stati d’animo e i pensieri dei personaggi. E ancora. Un frame “campo lungo” consente, invece, di fornire indicazioni relative alle coordinate spazio-temporali di riferimento (De Giovanni 2016, pp. 66 ss.). Una volta recuperate queste consapevolezze strutturali, è necessario sostenere l’avvio della progettazione degli eventi a partire da griglie prestabilite che forniscono indicazioni circa le tipologie di pannello considerate. C’est à dire, è solamente dopo aver selezionato i contenuti narrativi da inserire in ciascun frame che può essere avviata la fase di rappresentazione grafica
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vera e propria. È così che la storia inizia a fluire e il racconto inizia a prendere forma. Ma non basta. Dopo aver terminato la fase di progettazione verbale e la realizzazione grafica dei pannelli, è necessario intervenire un’ultima volta a livello di alfabetizzazione visiva. Chiaramente, attraverso specifici iconotesti che fungono ancora una volta da esempio e da modello. Sono gli psicologi a ricordarci che i colori evocano nell’immaginario dei bambini sin dai primi giorni di vita sensazioni stabilizzate a livello sociale e culturale e di conseguenza, risposte neurofisiologiche idonee: se l’azzurro e il bianco veicolano una sensazione di sicurezza, il verde richiama l’attenzione sull’ambiente, il nero lascia presagire eventi negativi e il grigio simboleggia un distacco emotivo (Agnello 2013, pp. 22 ss.). Al tempo stesso, ci dicono anche che quando i bambini osservano oppure costruiscono le figure attivano – spesso inconsapevolmente – strategie percettive dipendenti dalle loro forme. Ebbene, nella prima infanzia le nostre aree visuo-motorie apprendono ad interpretare come esistenti le figure le cui silhouette siano convesse, ovvero contenitive e prediligono forme arrotondate. E come se non bastasse, i bambini attribuiscono tag emotivi negativi – quali agitazione, rabbia e difficoltà – alle cosiddette angled lines, mentre linkano tag emotivi positivi – quali calma, gentilezza – alle curved lines (Silvia, Barona 2009, pp. 25 ss.). A tal proposito, è la psicologa statunitense Molly Bang a delineare ulteriori principi percettivi che guidano la comprensione e la produzione dell’arte visiva. Se da un lato le forme verticali e diagonali sembrano trasmettere una sensazione di dinamismo oppure di tensione e le forme orizzontali sembrano comunicare stabilità e sicurezza, dall’altro lato un background
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scuro comunica un’idea di negatività in opposizione all’idea di serenità che trasmette uno sfondo chiaro e luminoso (Bang 2000, pp. 45 ss.). Colori e forme? Veri e propri cognitive trajectors che devono essere utilizzati in modo consapevole e critico già dai primi anni di scuola primaria. A ben vedere, leggendo albi illustrati di carattere finzionale – che trasmettono significato attraverso relazioni parole-immagini di tipo complementare – è possibile recuperare e apprendere numerose strategie relative al visual language. Un esempio? Nel testo Il pinguino che aveva freddo (Giordano 2016), il protagonista – un piccolo pinguino di nome Milo – prova un freddo particolare che si scopre essere nel corso delle pagine un freddo psicologico e identitario. Per comunicare lo stato d’animo negativo, nella prima parte della narrazione l’autore utilizza solamente il bianco e il grigio e inserisce forme composte da linee spezzate. Nella prima pagina sotto riportata, tutti i pinguini hanno le stesse dimensioni e le stesse forme e tutto ciò incentiva nel lettore l’attivazione di un meccanismo di depersonalizzazione. Proprio così. L’unico personaggio che riusciamo a distinguere è il protagonista che ha un piccolo ciuffo arrotondato sulla testa (figura 7). L’andamento del plot si modifica completamente quando Milo incontra finalmente altri animali con caratteristiche originali, i quali sono rappresentati attraverso colori caldi e forme convesse (figura 8). È chiaramente attraverso analisi strutturali di questo tipo che i bambini hanno la possibilità di riconoscere l’importanza degli indizi visivi – i quali sostengono la costruzione di un modello neuronale autentico – e di conseguenza, di trasportare le strategie considerate nelle narrazioni personali.
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Figure 7,8. Alcune pagine del picture book “Il pinguino che aveva freddo” (Giordano 2016).
Insomma, un compito tanto complesso, quanto irrinunciabile. Che cosa accade quando chiediamo a bambini di nove e dieci anni di realizzare disegni sequenziali? Rispondiamo alla domanda avvalendoci del supporto della narrazione di una bambina di dieci anni relativa ad un’esperienza particolarmente positiva, ovvero al giorno in cui ha scelto in un allevamento quello che sarebbe stato il suo futuro coniglietto domestico (figura 9). Per prima cosa, ancora una volta le strategie di emplotment. Anche in questa fascia d’età, la temporalità sembra governare la segmentazione dell’esperienza. Se nel corso dell’evento in un primo momento è stato necessario recarsi all’allevamento, successivamente è stato possibile recuperare il coniglietto e portarlo a casa. Prima e dopo. Ma le cose sono decisamente più complesse. La strategia che consente alla narrazione di iniziare a fluire ha a che vedere con i due pannelli del tipo “campo lungo” che aprono e chiudono il resoconto. Sarebbe a dire, come si è visto nel primo capitolo, i bambini sentono l’esigenza di “pinzare” il resoconto autobiografico tra un inizio e una fine ben definiti. In altri termini? La storia non
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può in nessun modo iniziare in medias res. A ben vedere tuttavia, sono sempre anche le coordinate spaziali a guidare la progettazione dell’evento. O meglio, sono le modifiche che avvengono a questo livello a indirizzare la progettazione del modello mentale e ad attivare il cosiddetto boundary event che sostiene la segmentazione del flusso esperienziale (Swallow, Zacks, Abrams 2009, pp. 236 ss.). Se nei primi frames le azioni si svolgono nel giardino dell’allevamento, nei successivi si spostano all’interno del contesto domestico: è proprio questo cambiamento a decretare la primitiva segmentazione del materiale. Ma non basta. Sono ancora una volta senza alcun dubbio anche le azioni – e di conseguenza gli agenti – a indirizzare il recupero dei contenuti mnemonici e l’integrazione delle principali caratteristiche della micro-sceneggiatura considerata. Ricordiamolo un’ultima volta. I resoconti autobiografici in età infantile sono guidati rispettivamente da agenti, azioni e riscritture temporali tendenzialmente vicine al momento presente. Tuttavia, grazie alla presenza dei pannelli “primo piano” – all’interno della griglia fornita per la progettazione – i bambini sono portati a considerare anche i propri stati d’animo e i propri pensieri e di conseguenza, a costruire link causali – più sofisticati rispetto a quelli realizzati nel periodo di scuola dell’infanzia – tra i vari segmenti che compongono l’evento. Un esempio? La bambina si rappresenta particolarmente felice nel terzo pannello perché nel successivo ha la possibilità di scegliere dalla grande gabbia il suo nuovo coniglio. E ancora. La protagonista mette in evidenza non solo i suoi pensieri, quanto piuttosto quelli del suo nuovo animaletto. Effectivement, nel sesto frame il coniglietto è ritratto
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da vicino e ha accanto un balloon del pensiero che contiene un grande punto esclamativo che simboleggia la sua volontà di costruire significato e di capire dove si trova. Il meccanismo è assai complesso: per realizzare un pannello di questo tipo, la bambina deve abbandonare il suo punto di vista e adottarne un altro simulando la realtà attraverso una focalizzazione differente. Sono sempre loro, le imprescindibili abilità di mind reading. Insomma, la segmentation nel corso della scuola primaria sembra fare affidamento sia sulla strategia temporale che sulla strategia causale, la quale porta i bambini per la prima volta ad attribuire una specifica complessità psicologica ai loro personaggi che compiono azioni mosse puntualmente da specifiche intenzioni e peculiari desideri. Questo non ci stupisce affatto: basti pensare che – secondo McAdams – i bambini di nove e dieci anni si trovano nella fase autobiografica dell’agente che li porta a recuperare eventi vissuti in prima persona tenendo sempre in considerazione anche eventuali obiettivi futuri (McAdams 2013, pp. 276-277). Un esempio? Tornando ancora una volta al terzo frame, possiamo notare la felicità della bambina che scaturisce dalla possibilità di avere finalmente un animaletto tutto suo. Et voilà: è proprio questa sua intenzione a guidare l’azione del pannello successivo, ovvero la scelta accurata del coniglio che nei restanti frames deciderà di chiamare Caffè.
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Figura 9. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da una bambina di dieci anni.
Alla stessa consegna, un bambino di nove anni risponde raccontando l’ultima vacanza al mare effettuata con la mamma nel corso dell’estate precedente (figura 10). Se il resoconto si apre con il lungo – e caotico – viaggio in autostrada, si conclude con l’arrivo dei protagonisti al mare. La fatidica meta. Come nella narrazione precedente, il bambino seleziona per prima cosa le azioni principali dell’esperienza e le collega tra loro attraverso un ordine lineare comprensibile. Tuttavia, adotta una strategia narratologica peculiare e decisamente complessa. Ossia, interrompe la sequenza temporale progressiva per inserire alcuni flashforwards, ovvero per raccontare azioni che non si sono ancora verificate. Nel quinto pannello “campo lungo” rappresenta il mare anche se nei frames successivi notiamo che si trova ancora in macchina
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nel traffico e che la destinazione – sfortunatamente – sembra essere davvero lontana. Ebbene, da questo momento in avanti la capacità di integrare le dimensioni temporali in base ai propri obiettivi sembra essere in continua evoluzione. Sarebbe a dire, ricordi e obiettivi futuri iniziano ad influenzarsi senza tregua. A ben vedere, è sempre più evidente e incisiva la comparsa dei link causali e dei link che collegano indissolubilmente motivazioni e azioni, i quali sostengono direttamente la segmentazione dell’esperienza (Kopatich et al. 2019, p. 2). Il bambino si rappresenta nel terzo e nel quarto pannello con un’espressione visiva quasi euforica, tuttavia la ragione dello stato emotivo la possiamo comprendere solamente nel frame successivo nel quale disegna il mare, ovvero l’oggetto del suo desiderio. Come si può vedere nell’immagine, particolarmente emblematiche sembrano essere le strategie grafiche di riferimento. Il bambino segnala il pannello in oggetto – appartenente ad una dimensione futura prossima – attraverso un bordo esterno differente rispetto ai limitrofi. Un bordo ondulato che chiaramente riprende il balloon del pensiero e, dunque, simboleggia un’ambizione che ancora non si è avverata.
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Figura 10. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da un bambino di nove anni.
Narratologia e visual literacy? Senza nessun dubbio, un’alleanza di valore inestimabile. In una terza narrazione autobiografica, un bambino di dieci anni racconta la giornata in cui è nato il fratellino (figura 11). Tramite il principio temporale e spaziale già più volte citato, il protagonista mette in evidenza il momento in cui ha scoperto la meravigliosa notizia, il momento in cui si è recato all’ospedale a trovare la mamma e infine, il momento in cui è potuto tornare a casa con il nuovo arrivato per giocare insieme a lui. A ben vedere, particolarmente sofisticati anche in questo caso i link di natura causale: se il secondo frame ci presenta un telefono che squilla, nel terzo troviamo il protagonista pensieroso (“Ma chi è?”) e nel quarto decisamente felice dopo aver saputo che il fratellino è finalmente venuto al mondo (“È nato!”). Dalla motivazione alla reazione, e viceversa. Tuttavia, un’attenzione particolare meritano proprio le strategie
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visive e le strategie relative al rhetorical language. Per quanto riguarda le prime, il bambino decide di impiegare stratagemmi espressivi astratti: il bordo del sesto pannello in cui incontra la mamma dopo il parto contiene numerose stelle che simboleggiano la felicità del momento, mentre il bordo dell’undicesimo che propone un ritratto di famiglia è costituito da numerosi cuori di piccole dimensioni e di colore rosso che rappresentano il legame positivo tra i membri considerati. Per quanto riguarda le strategie retoriche, invece, degna di nota sembra essere la presenza della logica metonimica: nel secondo pannello il protagonista si avvale del supporto di una metonimia del tipo “il mezzo per il fine” in quanto raffigura la notizia attraverso un telefono di grandi dimensioni, mentre nell’ottavo pannello di una metonimia del tipo “il contenitore per il contenuto” che lo porta a disegnare una culla al posto del fratello.
Figura 11. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da un bambino di dieci anni.
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Continuiamo questa sintetica scorribanda tra le narrazioni visive sequenziali con una celere riflessione di natura contenutistica relativa agli elementi autobiografici stoccati in memoria, i quali influenzano direttamente la progettazione grafica. Nei pannelli dei tre resoconti considerati precedentemente – relativi ad eventi positivi – i bambini hanno riportato numerosi dettagli contestuali e plurimi riferimenti alle azioni che si sono alternate. Detto in una sola parola? Hanno adottato un approccio di tipo oggettivo e fattuale. D’accordo con gli studi di Robyn Fivush e colleghi (2003b), le cose cambiano quando si ha a che fare con esperienze negative e stressanti. A tal proposito, vediamo cosa accade nel resoconto sequenziale realizzato da una bambina di dieci anni nel corso del quale ha scoperto di dover mettere gli occhiali a causa di problematiche importanti alla vista (figura 12). Per prima cosa, nel frame iniziale “campo lungo” la protagonista inserisce i riferimenti spaziali e temporali necessari per avviare il recupero mnemonico dell’esperienza: si trova in uno studio oculistico in un giorno di primavera (“Era un giorno tiepido quando andai dall’oculista”). Beninteso, la maggior parte dei pannelli non contiene in nessun modo riferimenti alle azioni che si sono alternate, quanto piuttosto alle percezioni che la protagonista ha avuto nel corso dell’evento. En effet, sono numerosi i pannelli nei quali si ritrae da vicino per esprimere le sue preoccupazioni e i suoi pensieri (“Chissà cosa mi dirà l’oculista?”, “Sarò bella o sarò brutta?”). Insomma, abbiamo a che fare con un approccio interpretativo che è espresso alla perfezione attraverso i frames “primo piano” che consentono alla protagonista di mettere in luce i primi tentativi di attribuzione del significato e la volontà di costruire coerenza. Particolare attenzione sembra essere rivolta anche ad alcuni dettagli di natura percettiva: la bambina ritrae – nei pannelli “dettaglio” – con
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grandi dimensioni sia i suoi nuovi occhiali che il fatidico responso del medico. Malauguratamente, miopia. Nulla ci stupisce ancora una volta. La rielaborazione di un evento stressante porta i bambini a codificare la realtà a livello somato-sensoriale e attraverso un approccio selforiented. Nondimeno, le preoccupazioni e le emozioni vengono trasmesse con cura attraverso stratagemmi espressivi letterali (il viso è sempre triste e contiene al suo interno grandi lacrime che scendono verso il basso) e attraverso strategie espressive astratte (il colore dello sfondo dei pannelli “primo piano” è puntualmente di colore blu oppure di colore grigio e i bordi sono contraddistinti da piccole forme arrotondate che simboleggiano il pianto).
Figura 12. Narrazione visiva sequenziale autobiografica realizzata da una bambina di dieci anni.
“C’era – sfortunatamente – una volta la pandemia”. L’inattesa e sconosciuta pandemia da Covid-19. Dopo
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aver proposto alcune attività autobiografiche relative alle esperienze più belle oppure più stressanti vissute in un tempo recente, è stato chiesto ai bambini di raccontare in pochi frames la loro giornata di pandemia per valutare le principali scelte narratologiche adottate. Alcune considerazioni sono davvero degne di nota. Da un lato, le scelte contenutistiche. Come si è visto nel terzo capitolo, del periodo di lockdown i bambini sembrano non essere in grado di recuperare un evento specifico e singolo, mentre sembrano fare affidamento su routine ripetute. Come si può notare nella narrazione sottostante, una bambina recupera alcune azioni che contraddistinguono le giornate noiose e monotone: racconta di svegliarsi la mattina, di fare colazione con la famiglia, di collegarsi con le insegnanti per la didattica a distanza e così via (figura 13). Insomma, il meccanismo mnemonico sembra entrare in avaria. O meglio, la memoria semantica sembra regnare indiscussa a scapito della memoria episodica. E ancora. I principali dettagli recuperati dell’evento sembrano essere di tipo percettivo-emotivo: nell’ultimo frame del resoconto, ad esempio, la bambina si rappresenta con un’espressione particolarmente triste accostata all’espressione decisamente arrabbiata del virus che intende raggiungere il suo obiettivo, ovvero contagiare il mondo. Dall’altro lato, alcune considerazioni strutturali. Per la prima volta, il setting dei resoconti sembra non modificarsi in nessun modo nel corso dell’evento in quanto tutte le azioni si verificano nelle medesime coordinate fornite nel primo pannello. Evidentemente, si tratta di una segmentazione della realtà guidata solamente dalle actions dei protagonisti, le quali a loro volta, tuttavia, non sembrano essere mosse in nessun modo da obiettivi specifici e personali. A tal proposito, prestiamo per un attimo attenzione proprio ai characters. Se è vero che in
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tutti i resoconti sono i narratori stessi ad agire – ovvero a giocare, a fare i compiti, a riflettere – è anche vero che le azioni sembrano essere guidate completamente da una causa esterna e sconosciuta. Sarebbe a dire, la dimensione narratologica dell’agency sembra venire a mancare completamente. Non a caso, nei resoconti verbali realizzati al termine delle attività, i bambini si avvalgono del supporto di costruzioni sintattiche di tipo passivo. “Ho dovuto fare i compiti”, “Dovevo stare in casa”, “Non potevo uscire” e via dicendo. Insomma, i narratori sembrano essere in balìa di un’agentività illusoria o comunque di una passività inconscia che mette in discussione la comprensione dell’evento (Calabrese 2022, p. 84). E ancora. I bambini sembrano sentire la necessità di inserire numerosi pannelli del tipo “primo piano” che consentono loro di mettere in luce desideri e credenze a partire da una discrepanza semantica percepita tra la dimensione presente e i propri obiettivi. Un esempio? Nel quarto frame della seconda narrazione sottostante, un bambino di nove anni si rappresenta con un’espressione visiva decisamente sconsolata e arrabbiata accompagnata dall’interazione verbale “Vorrei andare a giocare” e da un balloon del pensiero che contiene la sua ambizione, ovvero una palla da calcio (figura 14). Similmente, nel frame finale – per comunicare le difficoltà emotive incontrate – inserisce accanto al suo viso due elementi narratologici completamente discordanti. Da un lato, un balloon del pensiero ospita il Covid con un’espressione decisamente divertita. Dall’altro lato, un balloon autobiografico ricorda al protagonista l’ultima volta che ha potuto giocare all’aria aperta. A ben vedere, anche a livello grafico dimensione passata e dimensione futura si alternano senza tregua per testimoniare la complessa – e mai conclusa – ricerca di significato. Da un lato ciò che vorrei fare, dall’altro ciò che mi impedisce di farlo.
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Figure 13, 14. Narrazioni sequenziali autobiografiche di pandemia realizzate da due bambini di nove anni.
Ma è giunta l’ora di concludere questa lunga escursione nel mondo delle visual narratives prodotte nel periodo di scuola primaria con una considerazione relativa ad un plot controfattuale. “C’era una volta il Covid inteso come personaggio dai connotati metaforici”. Un bambino di nove anni ipotizza in un disegno suddiviso in sei frames la giornata tipica del virus che ha sconvolto la sua quotidianità (figura 15). A ben vedere, il personaggio ha le sembianze di un vampiro che attacca gli esseri umani grazie ai suoi denti affilati e, dunque, si presenta come un character dalle sembianze del tutto controfattuali. C’è però un tuttavia. Il protagonista svolge azioni perfettamente in linea con la quotidianità, ovvero influenza la vita delle persone e le contagia causando gravi danni fisici. Et voilà: realtà e controfattualità si blendizzano senza nessuna tregua in quanto – come si è visto nel capitolo precedente – mancano completamente gli schemi mnemonici utili per attivare il processo di comprensione (Calabrese 2022, pp. 9 ss.). D’accordo. Ma come questa integrazione ininterrotta tra le due dimensioni viene ricostruita a livello narratologico nei disegni sequenziali? Nel primo frame, il Covid dorme indisturbato nella sua cameretta e nel secondo si sveglia la mattina pieno di energie.
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Successivamente, prosegue la giornata con alcune azioni negative, ovvero prima identifica un bersaglio promettente e poco dopo lo attacca. Beninteso, anche la resolution del resoconto – del tutto sfavorevole – è decisamente significativa: il personaggio torna a casa la sera e conta il numero di infettati del giorno insieme ai suoi familiari. Insomma, abbiamo a che fare con un vero e proprio antagonista fiabesco che impone un ordine cognitivo alla realtà in modo completamente arbitrario. Infine, se è vero che l’agente patogeno sembra agire in coordinate spaziali conosciute e familiari – in quanto vive all’interno di una casa con tanto di tavoli, sedie e comodini – è anche vero che si muove in coordinate temporali non definite e controfattuali e che le connessioni causali sono completamente assenti. Effettivamente, i pannelli sono collegati tra loro attraverso una relazione “prima-dopo” per niente realistica. Tutto ciò simboleggia – alla perfezione – i numerosi tentativi compiuti dai bambini per avviare la comprensione di un evento del tutto inaspettato e per ammortizzare il più possibile i costi dell’imprevedibile. Mais surtout, i deficit identitari drammatici che ne conseguono.
Figura 15. Narrazione visiva sequenziale finzionale realizzata da un bambino di nove anni.
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Narrazioni visive sequenziali e Strategie di emplotment temporalprima infanzia (dai tre ai sei anni) ly-based e action-based. Comparsa dei primi link causali attorno ai cinque anni. Personaggi come attori. Montaggio del tipo “action to action” e del tipo “scene to scene”. Collegamento tra esigenze narratologiche e strategie figurative. Narrazioni visive sequenziali e Riscritture temporali a partire dalscuola primaria (dai sette ai dieci la selezione di un evento iniziale e anni) di un evento finale. Integrazione di più dimensioni temporali (attraverso espedienti narratologici quali i flashforwards). Complessità interiore dei personaggi – personaggi come agenti. Recupero di elementi narratologici a partire dalle tipologie di pannello (primo piano, figura intera, dettaglio e campo lungo). Utilizzo consapevole dei visual clues a partire dalle scelte cromatiche e dalle forme dei bordi dei pannelli (grazie ad un intervento diretto a livello di visual literacy condotto all’inizio delle attività). Tabella 1. Le caratteristiche delle narrazioni visive sequenziali nel periodo infantile.
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SCIENZE DELLA NARRAZIONE Collana diretta da Duccio Demetrio 1. Duccio Demetrio, Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura 2. Cosimo Laneve, Senza parole. Il silenzio pensoso nella scuola 3. Cosimo Laneve, Chiara Gemma, Raccontare dalla cattedra e dal banco. Un contributo alla formazione e all’analisi dell’insegnamento 4. Micaela Castiglioni (a cura di), Narrazione e cura 5. Jens Brockmeier, Narrazione e cultura 6. Gian Luca Barbieri, Il laboratorio delle identità. Dire io nell’epoca di internet 7. Stefania Portaccio, Pane per i denti. Storie di libri 8. Parola, Denicolai, Scritture mediali 9. Duccio Demetrio, La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico 10. Alvise Campostrini, Alessandro Manzella, Francesca Caracciolo, Teatro Fragile. Guida agli effetti delle pratiche teatrali sui malati di Alzheimer, fotografie di Alessandro Luzio e Paola Meloni 11. Francesca Guercio, Essere e non. Cura e sapere di sé attraverso le pratiche teatrali 12. Gian Luca Barbieri, Autobiografie immaginarie. Fiction e cura di sé 13. Mariateresa Muraca, Educazione e movimenti sociali. Un’etnografia collaborativa con il Movimento di Donne Contadine a Santa Catarina (Brasile) 14. Enrico Ferrari, Parole che fanno esistere. Storie di psicoterapia e oltre, prefazione di Umberto Galimberti 15. Silvio Ciappi, La mente nomade. Metodo narrativo-relazionale e costruzione dell’identità in psicopatologia 16. Jacopo Santambrogio, Intravisti. Storie dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari 17. Raffaele Schiavo, Estetica della performance Il metodo VoxEchology nell’alta formazione artistica musicale e nei percorsi relazionali 18. Stefania Lucamante, La felicità in differita Generazioni e tempo nelle narrazioni di famiglia (2001-2021) 19. Giancarlo Gola, Insegnare adagio. Un contributo alla didattica
Finito di stampare nel mese di marzo 2023 da Puntoweb S.r.l. – Ariccia (RM)