Marco Ferreri 8880333097, 9788880333098


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Marco Ferreri
 8880333097, 9788880333098

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MARCO FERRERI

Alberto Scandola (1973) è docente di Storia del cinema presso le Università di Verona (Scienze della comunicazione) e Padova (Cultura e tecnologia della moda), dopo aver insegnato per due anni all’Università di Nizza. Nel dottorato di ricerca si è occupato di Marco Ferreri, sotto la direzione di Michel Chion (Parigi III). Tra le sue pubblicazioni, oltre a saggi su riviste («La valle dell’Eden», «Contrebande») e in volumi collettivi, si ricordano i contributi nelle monografie, da lui curate, Il cinema di Lars von Trier (1997) e Il cinema di Atom Egoyan (1999). È autore di Il fantasma e la fanciulla. Tre film di Roman Polanski (2001). Nella collana Il Castoro Cinema ha pubblicato Roman Polanski (2003).

Alberto Scandola

luglio - agosto - settembre 2003

Marco Ferreri

Il Castoro Cinema Direttore responsabile: Renata Gorgani Redazione: viale Abruzzi 72, 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 373 del 30/6/97 Abbonamento annuale (4 numeri) e 36,50 da versare sul c/c postale n. 36028207 intestato a Editrice Il Castoro srl, Milano

Progetto grafico: Studio Tapiro, Venezia In copertina:

© 2004 Editrice Il Castoro srl ISBN 88-8033-309-7

il castoro cinema

America

L’America è vecchia, ma è un passato più recente. Il futuro comincia qui, in Europa. Purtroppo non si possono fare immagini del futuro qui. Tutte le immagini, qui, sono vecchie, piccole. E poi ci sono tutti i nemici possibili, gli architetti, i fotografi giapponesi… Il cambiamento è qui, ma qui non abbiamo immagini. L’America è l’ultimo Paese, il più stabile di questa società. Ma – è il mistero dell’obiettivo, che è stranamente umano – in America le immagini diventano grandi. (1982) Angoscia

Ferreri secondo Ferreri

Non direi che esiste una nuova speranza. Al contrario, si trova una nuova angoscia. Credo che adesso l’uomo, in questo momento di disordine creativo, veda e cominci a capire l’origine di questa vita. E l’origine di questa angoscia è solo la sua falsa costruzione per un mondo che non esiste più, cioè si sente orfano della società che lo ha partorito. Nello stesso tempo comincia a capire che il suo modello non è un modello carismatico, ma un modello che si può cambiare. Prima di parlare di società o mondo migliore, bisogna che l’uomo abbia voglia di fare un discorso sull’uomo. (1979) Attori

Parto sempre dalla scelta degli attori, per la storia che ho in testa. Scrivo pensando le reazioni che questi attori potrebbero avere e poi, quando giro, catturo, nel gesto degli attori, i momenti necessari per costruire questi personaggi. Io non dirigo i miei attori, li lascio fare. Improvvisano. Il tempo di un’inquadratura, dieci secondi. Perché non sanno mai quello che viene dopo. Sono i personaggi che si devono adattare agli attori, e non viceversa: io confeziono abiti su misura (1974). Preferisco il doppiaggio ai sottotitoli. Perché voler preservare la personalità dell’attore? Non serve a nulla, non più di quella del regista. Ciò che conta, alla fine, è il film. (1976) Borghesia

La borghesia finisce con La grande abbuffata. Dopo c’è la post-borghesia. Ogni giorno di più esisteranno solo i padroni e gli operai. Ci sono gli operai, i 5

padroni e gli emarginati. I padroni e gli operai dureranno vent’anni. Poi ci saranno solo gli emarginati. (1979) Buffone

Io ho inventato il cinema buffone. Mi hanno sempre impressionato, nei miei viaggi, i quadri con i buffoni impiccati fuori dal castello. Anch’io potrei essere impiccato, con la lingua e con gli occhi fuori dalla testa. Io faccio il cinema come i buffoni raccontavano le loro storie: per i soldi. (1974) Buñuel

Quando ho fatto il mio primo film neanche mi ricordo se avevo visto un film di Buñuel. Io sono arrivato al cinema ignorante di cinema. Le immagini forti che mi restano nella mente sono quelle di Sjöström e Antonioni. Con Buñuel possono esserci affinità tematiche, d’altra parte i primi film li ho girati in Spagna e in quei film non poteva non entrare il clima culturale spagnolo. Per il resto credo che la ricerca culturale di Buñuel sia molto diversa dalla mia. (1995) Buñuel vuole raccontare le sue storie, io non voglio raccontare le mie storie: voglio cercare di fare una storia al minimo e poi distruggerla. Una cosa è scrivere “il mare” e una cosa è vedere il mare e poi scrivere “il mare”. (1979)

Questa gente si trova fuori dal suo mondo, più o meno in prigione. Bisogna cercare di eliminare la parola tenerezza, perché è una parola razzista. Come se si parlasse di un animale e non di un essere umano. Io amo questa anziana e anche le ragazze che le rubano la dentiera. E con questa dentiera entriamo nella carne della donna. L’essere umano è sempre pieno di falle che minacciano di farlo affondare ed è sempre il corpo che, al cinema, rende questa debolezza più sensibile. (1992) Chiedo asilo

Il personaggio di Benigni deve cercare di risolvere i suoi problemi attraverso la relazione con i bambini. Non so se è una madre o no, non posso sapere quello che vuole. Una cosa è ciò che penso prima di fare il film, un’altra cosa è ciò che ne esce attraverso le immagini. E le immagini che vediamo durante il film sono un’altra cosa rispetto a quelle che poi ci restano in mente. (1980) Qualcosa avevo scritto, poi però i bambini hanno polverizzato quasi tutto. Ed è giusto, del resto. Che valore poteva avere una mia storia rispetto al mondo vero di un uomo di due anni? I miei testi li ho verificati con i bambini, registrando trentacinque, quaranta ore di dialoghi con loro. Molte cose le hanno discusse, rivestendole di significati nuovi, di dimensioni più precise. (1979) Ciao maschio

Carne, La

Francesca è una proiezione dello stato d’animo della donna di oggi. Un’eroina dei fumetti che vive delle avventure gotiche e medievali. Potrebbe essere la moglie del Signore degli anelli. L’uomo è alla ricerca di una donna che gli dica: «Inventeremo un nuovo rapporto, non lavorare troppo, non essere responsabile di tutto, so che si può stare insieme senza che la tua macchina sia la più prestante». È per questo che Paolo si mette con un travestito, che è l’immagine assoluta della donna, con un gran seno, dei grandi capezzoli, un gran culo, e che non gli chiede nulla. (1991) Casa del sorriso, La

Ho pensato alle migliaia di uomini e donne che abitano in queste case di cura dove i figli arrivano e dicono: «Dai papà, andiamo a fare una passeggiata!». 6

L’immagine di King Kong in Ciao maschio era di per sé evocativa, al punto che, per i traghetti che costeggiavano l’isola di Manhattan, il nostro set era diventato una tappa fissa. Fino a Ciao maschio il mio cinema era troppo letterario, la mia costruzione delle sequenze era troppo letteraria, così come la mia lettura dell’immagine. Tutto questo toglieva emozione al film, per questo nel secondo montaggio ho tolto i pezzi sull’impero romano e su Flaxman, personaggio troppo costruito. Il mio nuovo cinema parte proprio da King Kong sulla spiaggia e dal peregrinare degli anziani. Da lì inizia la mia ricerca per superare il residuo di racconto che c’era ancora nei miei film. (1995) Cinema e teatro

A teatro gli attori costruiscono il personaggio. Il teatro è un luogo chiuso, non c’è né caldo, né freddo, né luce, né niente. Al cinema c’è caldo, c’è luce, tutto 7

cambia. C’è una situazione che gli attori devono conoscere. Se vieni a vedere un esterno, in un posto dove fa un po’ freddo, le donne sono sparite, sono sotto le coperte, poi escono, dicono la battuta e si rimettono sotto le coperte. Dicono la battuta come è nella loro testa. Non stanno vedendo che c’è vicino un tempio greco, che stanno a Selinunte. Ma la battuta va detta non solo in funzione di come la pensi tu, ma in funzione del posto. Mentre dici «Amore mio» devi avere anche un po’ di allegria per il luogo. Devi avere l’immagine di Selinunte nella battuta. (1995) Come sono buoni i bianchi!

La cosa che mi fa arrabbiare è l’errato utilizzo delle parole, dei sentimenti e delle cause. All’epoca si andava in Africa con i cammelli per fare la guerra. Adesso non è cambiato nulla. Quelle umanitarie sono sempre operazioni di polizia. In Italia, in Francia, è la moda, si cerca di motivare la gente, perché la motivazione è l’ordine. L’esotismo caritatevole, più il viaggio. La nostra cultura si appoggia su un sistema economico che ha bisogno di schiavi, di morti di fame per funzionare. (1988) Coppia

Durante il rapporto di coppia, l’atto sessuale ha un’importanza molto forte ma non essenziale. La coppia non è un’invenzione naturale, è una costruzione. Forse se ci fosse l’uomo naturale, l’atto sessuale sarebbe definitivo. Nella coppia c’è un rapporto diverso dell’uomo e della donna rispetto all’amore. (1976)

cosa regola lo sviluppo della scena. Per esempio, come dare l’impressione, in Diario di un vizio, che Benito è malato? Ho avuto l’idea della pistola ad acqua, che utilizzano i bambini per innaffiarlo, mentre lui non reagisce. Un modo per evitare lo stereotipo. Si capisce che lui non reagisce più. La scena è costruita in questo modo, a partire da un elemento concreto e da una relazione tra i personaggi. (1997) Cultura

Mi sembra che la cultura sia un po’ piccola. Tutti mi dicono: leggi! Una noia terribile. La cultura è una cosa che è esplosa. Io penso di non vivere più nella società della cultura. Sento che il mondo è esploso, che stiamo vivendo un’esplosione cosmica. La cultura è già passata, già finita. Forse non è nemmeno male che sia finita. (1995) Diario di un vizio

Benito non è più l’operaio di L’angelo del male. Ha questa voglia di ricerca poetica, questo sguardo doloroso su se stesso quando scrive, ha bisogno d’amicizia e d’amore. Amo questo film perché penso di essere arrivato a qualcosa. Dopo tanti film, tutte le idee che ti vengono ti sembrano stupide. Là no, compreso ciò che riguarda la forma. La forma è importante, come il modo di filmare il territorio urbano. Ecco perché amo il film: perché non c’è costruzione drammaturgica, si resta sempre all’inizio delle cose. (1997) Digitale

Corpo

Facciamo un po’ vedere alle persone il loro lato materiale, fisico, senza tanti sentimenti adatti solo a nascondere la vera realtà, quella del corpo. Bergman è un signore dei sentimenti, anche i miei vecchi film erano pieni di questi maledetti sentimenti: ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non al corpo come realtà edonistica, ma come unica tragica realtà di questa vita. (1974) Costruzione

Io non costruisco una scena, anche se non la giro partendo dal niente. Ma una 8

A me il digitale non piace, io voglio il casino. Il digitale è fatto per questi registi che girano sempre con un affare di ferro intorno alla testa, sennò gli scoppia. Quando mixano vogliono avere il silenzio assoluto, e allora si inventano il digitale, per avere immagini e suoni puliti. Io invece voglio mettere una motocicletta in sala. La grande conquista di adesso non è l’alta definizione, ma lo schermo di 180 gradi, perché è come ritornare alla visione che ha un bambino. (1995) Donna

Per le donne c’è il problema di ricostruire la loro vecchia identità, prima ancora 9

di inventarsene un’altra nuova. Ma penso che la posizione della donna sia molto più vitale di quella dell’uomo, perché più cosciente e combattuta. Mentre l’uomo si sgretola, la donna diventa più potente, cresce. Io sono convinto che siamo arrivati alla fine di una civiltà, che quello che ci sta intorno è un mondo di morte, ma questo non vuol dire che l’umanità non abbia un futuro. (1978) Donna scimmia, La

Io credo che sempre la società sia colpevole di tutto quanto. Anche in La donna scimmia. Ma è per certi pudori che non voglio mai arrivare a dire: «Questa è la società». D’altra parte la società è colpevole e no. Siamo colpevoli tutti quanti. In La donna scimmia è colpevole la società e il marito. Mi sembra abbastanza chiara questa mia posizione quando nel finale Tognazzi dice: «Signori, ricomincia lo spettacolo». (1965) Fotografia

Io sono sempre stato un fotografo, ossia mi riconosco nelle mie immagini essenziali. Voglio documentare delle immagini che non sono sconosciute agli altri, che sono in tutti, solo documentarle. Io faccio il fotografo per conto degli altri. Una volta c’erano i fotografi che riprendevano i matrimoni, le cresime. Adesso i registi, in fondo, devono fare la stessa cosa. (1979) Gemmazione

Gemmazione vuol dire che da una cosa ne nasce un’altra che ha le stesse caratteristiche della precedente, non è caos, non è “casino” narrativo, è discorso logico. Non è narrazione ed è narrazione, una nuova forma di narrazione. Ed è così che ottieni una nuova struttura […], ed è questa nuova struttura che consente nuove possibilità espressive: se vuoi fare un film dove i significati profondi siano prodotti da una pluralità, devi lavorare per gemmazione. Le immagini che nascono per gemmazione hanno una loro continuità, una loro coerenza, ma è una coerenza da ricercare all’interno dell’immagine. (1995) Grande abbuffata, La

E non c’era solo quello, c’era la merda, c’erano i rutti, è stata una grande abbuffata di tutto quello che poteva riguardare il cibo. Oggi la grande abbuffata è finita. […] I quattro del film sono come un solo personaggio, si completano a vicenda, sono la società che conosciamo, ma non è che decidano in partenza che vanno a suicidarsi, loro vanno a mangiare. Cambiano vita, semplicemente, e poi c’è questo processo di accelerazione della morte, una decisione che viene fuori inconsciamente, l’autodistruzione non è una cosa cosciente. Il personaggio della donna, Andréa Ferréol, è borghese anche quello […] ma non è un angelo della morte come è stato detto. E alla fine sì, c’era l’idea dell’inutilità dei beni di consumo, tutta quell’accumulazione negativa, era un’immagine molto chiara. (1981) Harem, L’

L’harem è un film che ho montato contro come l’ho girato; e che ho girato contro come l’ho scritto. Il mio montaggio potrà forse essere disarmonico in L’harem, ma penso che alla fine proprio da questa disarmonia salti fuori quello che a me interessa, la risposta a ciò che io volevo sapere o sentire, le reazioni che io volevo avere dal film. Ho montato L’harem in modo da creare spazi pieni e spazi vuoti; a una scena in cui avviene qualcosa che porta avanti i rapporti con i personaggi ne segue un’altra in cui non avviene nulla. Inoltre molte scene iniziano e cominciano con il campo vuoto; è qualcosa che farò sempre di più per sospendere certe reazioni, per frammentare le azioni introducendo un tempo morto, per attenuare i nessi logici tra le sequenze. (1967) Ideologie

Benito, il personaggio di Diario di un vizio, è legato alla fine delle ideologie. Dopo le ideologie resta l’uomo solo, senza nulla. Abbastanza disperato per non cercare nulla, per non trovare nulla. Le vecchie strutture sono distrutte, ci ritroviamo come piccoli guerrieri urbani, senza meta. In ogni modo, non abbiamo più le parole del linguaggio storico, né di quello ideologico. Sono sempre stato al di fuori di questo linguaggio, ma si poteva ancora rientrare nelle ideologie. Adesso c’è il nulla, perché non esiste una sostituzione. (1997)

In questo film, quanto a cibo, è successo di tutto, le galline ubriache, di tutto. 10

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Immagine

Le mie immagini non sono traducibili per iscritto, non sono descrizioni di sceneggiature, io ho sempre un’idea visiva e non letteraria dell’immagine; sono comunque immagini che corrispondono e sintetizzano un’idea. Nei film che vanno oggi per la maggiore trovo che troppe immagini siano scolastiche, non lavorate, non c’è travaglio all’interno dell’inquadratura. Prima c’erano Rossellini, Fellini e soprattutto Antonioni e Godard, e con loro l’immagine era un processo di ricerca infinita, perpetua, un’ossessione; in Godard certi primi piani hanno una forza dirompente che tutt’ora mi attrae moltissimo… Anche Wenders faceva un buon lavoro sull’immagine, soprattutto quando usava Robby Müller, la sua immagine “sospesa” era interessantissima. (1995) L’immagine è una, due cineprese sono anche troppe. C’è un punto solo, un punto magico dell’immagine. Ce n’è uno, lo vedi là e poi non ritorna più. (1995)

te per lui, era lacerato, allora faceva un cinema diverso. Passeggiava dove gli altri non passeggiavano, viaggiava nella notte alla ricerca di qualcosa. (1992) Luoghi

La discoteca di Reggio Emilia sta proprio alla periferia della città, all’inizio della campagna. Ed è l’affluenza di questi nuovi cittadini del mondo che vengono. La discoteca non è solo la danza: in discoteca ballano in dieci e camminano in cento. C’è una fantasia di costruire come c’era una volta. Abbiamo una cultura che è la cultura dominante americana, abbiamo un’architettura che è quella dei grandi magazzini trasformati in case per abitazione. Il centro urbano è un cimitero, un museo: ci si accorge che è in posti abbandonati della città. Quelle che noi chiamiamo città dormitorio sono le città e il centro è un centro che ruota, che comincia ad essere riabilitato con moduli che vengono dalla cultura americana. (1984)

Infanzia Mare

Il bambino mi fa pensare a cosa potrebbe essere l’uomo. Non si sa. Non si sa quale lavoro di distorsione viene fatto perché il bambino, a tredici mesi, cominci a parlare. In quel momento è fregato, comincia a essere lo schiavo delle parole soffiate dal padre o dalla madre. Perché la madre non utilizza col bambino un linguaggio femminile? Lei utilizza il linguaggio maschile, nel suo rapporto col bambino è la portavoce di una società maschile. La prima volta che dice «mamma» o «papà» il bambino compie l’operazione che fa la società, che è una società maschile. (1976) Isolamento

Faccio dei film al di fuori delle norme tradizionali. Sono isolato non solo rispetto al cinema italiano, ma anche nel contesto del cinema in generale. Di fronte a un pubblico e a una critica che non riescono a parlare dei miei film e non fanno molti sforzi per non vederli in modo superficiale. Non ho eredi perché non lavoro come gli altri, che restano attaccati a una maniera più classica di lavorare. Gli intellettuali parigini conoscono il centro della città, ma non Mantes-la-Jolie. Io, invece, amo andare a vedere dall’altra parte, mi piace camminare dove gli altri non vanno, e il mio rapporto col cinema è legato a questo. Pasolini era vicino a me in questo: la questione del sesso era importan12

Il mare è nostra madre. Ci siamo allontanati da lei, ma la nostra esistenza ne trae linfa in modo primordiale. Il mare dà una respirazione ai miei film, come un movimento essenziale alla vita. Né ottimisti né pessimisti, i miei finali sono aperti e lo spettatore ne fa quello che vuole. I miei film sono dei viaggi, dei viaggi alla ricerca di noi stessi. (1983) Mastroianni

Ha rappresentato qualcosa di universale. Più di Tognazzi, più di Gassman, che per tutta la vita ha cercato di copiare Mastroianni. Era l’incarnazione esatta dell’uomo mediterraneo. Il suo sforzo era quello di non costruire il proprio stile. Negli ultimi anni, aveva una carica spirituale assoluta. Ma la nascondeva. È morto con un volto molto spirituale. Si vedeva che aveva un discorso interiore, di fronte al nulla. Tutta la mimica era là, questa spiritualità nascosta tutta la vita per pudore. (1997) Morte

Credo che sia abbastanza necessario ricordarci ogni tanto che dobbiamo mori13

re. Se lo ricordano anche i cattolici, ma in funzione oppressiva. Io vorrei invece ricordarmelo in funzione liberatoria. Nessuno oggi vuol parlare della morte, sembra che sia quasi proibito. Soprattutto perché se ricordiamo che dobbiamo morire non si possono comprare due macchine, non si può fare una famiglia. Se non pensiamo che il nostro periodo è un periodo abbastanza transitorio, forse ci dobbiamo preoccupare troppo del problema del successo, del problema di riuscire a fare qualche cosa, che credo sia lo stimolo, il mezzo con il quale oggi si tiene la gente. (1974)

Scenografia

Ora comincio ad apprezzare Visconti, è l’unico per cui le immagini, la scenografia, sono necessarie alla storia che racconta. La scenografia è uno dei nemici più potenti che si possano avere. Bisogna fare un lavoro di distruzione. Quando dicono che sono distruttore, è perché rompo l’armonia: allora nessuno si ritrova nell’ordine, nemmeno nell’armonia di Marco Ferreri. Per L’ultima donna, la preoccupazione era come filmare per sfuggire all’immagine della casa, per restare sul personaggio. (1976)

Parola Sessantotto

La parola e la scrittura sono più solitarie di altri modi di comunicare, del cinema per esempio, che svolge una funzione anche aggregante. Si dice: nei film di Ferreri, in questo ultimo I love you in particolare, l’uomo e la donna non si parlano più. Ma perché? Quando mai si sono parlati nella storia? La parola la usi per comandare, non per comunicare. Il fatto che le donne siano così importanti è proprio perché non sono mai state padrone della parola, bensì dei sentimenti, della fantasia. (1986) Piano sequenza

Non cerco di spiegarmi il perché uso in prevalenza piani sequenza. Il piano lungo è quello che mi rende di più per quello che voglio dire. Nel piano lungo si accumulano i particolari, e anch’io ricevo sensazioni che non potrei ricevere altrimenti. Per me l’unico modo di girare è questo; non esistono tagli, mi sembra che falsino la realtà della sequenza. Il cinema fatto con quattro ordini di obiettivi non lo accetto, non mi diverte. (s.d.) Rabelais

Ho letto tre volte Rabelais. Vi ho trovato l’uomo, la donna, la guerra, il desiderio di conoscere, l’opposizione alla Chiesa. Poi ho cercato aspetti meno retorici, un materiale meno scontato. Per esempio, l’idea che il banchetto rabelaisiano non costituisce quell’allegra bisboccia che si crede. In Rabelais mangiare rappresenta un vero problema, il cibo ha una valenza ossessiva. Non c’è l’idea della gioia in Rabelais. L’autore parla con grande abilità delle persone che hanno paura, dello stupro, delle disgrazie: Panurge è l’uomo dalle duecentomila paure. (1994) 14

I film non vogliono dire niente. L’opera di un signore può essere coerente, ma essere coerente non vuol dire essere rivoluzionari. È sempre una protesta borghese; può darsi che possiamo fare solo questo, ma io non sono contento […] con le opere non intacchiamo. Al massimo possiamo arrivare a fare gli sciacalli di un mondo che va distruggendosi, e basta. Film positivi però, come sono adesso le cose, non se ne possono fare. (s.d.) Spagna

Penso che gli anni della mia vita in Spagna siano stati i migliori. La mia personalità si è determinata allora. Prima di allora ero un tale con i capelli ricci che voleva mangiare, che si divertiva a portare camicie colorate: sono arrivato in Spagna e ho cominciato a interessarmi di più a certi problemi che sentivo più vicini. Poi mi è venuto un esaurimento nervoso. Prima non leggevo molto. L’unico periodo di lettura è stato il periodo spagnolo: praticamente conosco più i classici spagnoli che autori italiani o francesi perché c’erano libri che costavano poco, perché avevo maggior tempo a disposizione, per vivere, per leggere, per tutto quanto. (1965) Spazio

Quando si arriva su un set esiste un rapporto di distanza, di proporzioni, di dimensioni fisiche che deve essere controllato rispetto all’attore. Bisogna dirigere nello spazio e nel luogo dove esiste l’inquadratura. Bisogna riuscire, senza dirigerli, a farli vivere in questa inquadratura. (1974) 15

Si parla sempre in modo tradizionale di attrici. Attrici che lavorano in questo o in quel modo. Invece le attrici sono un corpo nello spazio e lo spazio è un attore come Muti o Schygulla. (1984) Stile

Il mio linguaggio è molto evoluto rispetto ai mezzi tecnici di cui disponiamo oggi. Contrariamente alla moda, io non abuso di carrelli e zoom. Non sono io al servizio della macchina da presa, è lei che è a servizio del mio film. (1976)

Televisione

Non è vero che la televisione involgarisce, perché è già filtrata. Non è la televisione che cambia le persone. C’è una cultura che ci sfugge, che ha già spaccato i televisori, anche se la gente resta dieci ore davanti allo schermo. (1976) La televisione non è ancora inventata, non esiste un ABC della televisione. E quando la televisione diventa importante, allora è la morte dell’uomo collettivo. L’uomo è sempre stato collettivo, dall’epoca della tribù. La televisione, e tutti i nuovi mezzi di comunicazione, significa la fine di tutto questo. E il trionfo dell’individuo. (1997)

Storia di Piera Udienza, L’

Ho fatto il dipinto di una famiglia perduta alla ricerca dell’amore assoluto senza mai pensare a una storia di incesto. D’altronde, l’incesto non c’è. Ancora una volta, parlo dei rapporti tra uomini, donne e figli, dunque d’amore. Sono contro le sceneggiature troppo ben scritte, sento il bisogno di dimenticare la civiltà della scrittura. In Storia di Piera ogni immagine è un racconto con una vita propria, molte scene sembrano incompiute. Volevo un’immagine europea giovane e attuale, ho trovato questa città mai terminata, costruita cinquant’anni fa. Uno spazio che sprigiona una sensazione di sogno e di realtà. Io cerco di raggiungere lo spettatore nella sua visione magica delle cose. Hanno spesso intellettualizzato i miei film, mentre il mio cinema resta visivo. (1983) Storie di ordinaria follia

È un film di riposo, per me e per il pubblico. Per questo ho voluto fare un film classico con un’immagine classica. In quest’epoca dell’immagine bisogna saper scegliere l’immagine giusta. Quella che io ho scelto è antica, data di quindici-vent’anni. Esiste una maniera francese, una italiana, di captare le immagini. Queste maniere sono superate. In America c’è ancora l’immagine di oggi e quella del transitorio, del futuro. Bukowski è americano e racconta una storia di luoghi americani. Io sono europeo, e per me l’America è la periferia di Créteil, o la periferia delle nuove città italiane. Il libro contiene tre storie, io ne ho utilizzato solo una parte. Era un serbatoio che tenevo a disposizione per verificare cosa ogni giorno mettevo nel film. (1982) 16

Abbiamo subito pensato a una grossa parabola sulla Chiesa servendoci delle opere di Kafka, ma facendo in modo che alle astrazioni di Kafka si sostituissero persone reali, Papa Giovanni o Papa Paolo, etc. Kafka trasforma la sua geografia chiara e precisa in una metafisica. Qui, al contrario, partendo dallo schema narrativo di una costruzione kafkiana, si tende a rifare il cammino all’indietro, verso la realtà e la concretezza. (1972) Ultima donna, L’

Non ho mai pensato di utilizzare l’ambiente cittadino come semplice elemento scenografico. Mi si offrivano, di fatto, due possibilità: o distruggere dall’interno l’immagine idealizzata della città, mettendo in evidenza i conflitti che vi agiscono sotterraneamente; oppure operare una sorta di contrappunto tra le immagini apparentemente neutre di Créteil e un decorso esistenziale, concentrato sperimentalmente su un ridotto nucleo familiare: uomo, donna, bambino… [...] Ho scelto la seconda possibilità. Apparentemente ho relegato in secondo piano l’ambiente esterno, di lavoro, l’asilo nido, ma in realtà li ho considerati come i poli scatenanti della nevrosi familiare che porta poi Gérard alla castrazione della scena finale. Ho operato, insomma, una discesa dal sociale all’individuale, ma senza, mi auguro, cadere nello psicologismo o nel sociologismo di bassa lega. (1976)

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Le dichiarazioni sono tratte da: «Primi piani», n. 7, dicembre 1965; «Filmcritica», n. 162, novembre 1965; «Cinema e Film», n. 4, autunno 1967; «Cinema e Film», n. 7/8, inverno-primavera 1969; «Ombre Rosse», n. 2, 1972; «Cineforum», n. 132, maggio 1974; Maurizio Grande, Marco Ferreri, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1974; «Positif», n. 156, febbraio 1974; L’ape regista, Intervista di Corrado Augias, Rai Tre, 1974; «Cahiers du cinéma», n. 268-269, luglio-agosto 1976; Marco Ferreri, L’ultima donna, Einaudi, Torino, 1978; «Il Tempo», 28 ottobre 1979; «Cinemasessanta», n. 130, dicembre 1979; Franca Faldini, Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrinelli, Milano, 1981; Press-book del film Ciao Maschio, 1978; «Cahiers du cinéma», n. 308, febbraio 1980; «Positif», n. 251, febbraio 1982; «La Revue du cinéma», n. 385, luglio-agosto 1983; «Filmcritica», n. 348-349, ottobre-novembre 1984; «la Repubblica», 19 settembre 1986; «Cahiers du cinéma», n. 403, gennaio 1988; Press-book del film La carne, 1991; «Cahiers du cinéma», n. 451, gennaio 1992; Press-book del film Faictz ce que vouldras, 1994; Angelo Migliarini, “L’ossessione dell’immagine”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia, 1995; Intervista con Vieri Razzini, Rai Tre, 1995; «Cahiers du cinéma», n. 510, febbraio 1997.

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La vertigine della realtà

«Non voglio fabbricare le sensazioni, voglio trovare quelle che già esistono e utilizzarle. Voglio entrare in un’immagine che mi stimoli.» Marco Ferreri A sette anni dalla morte, su Marco Ferreri è calato il silenzio. Dopo l’omaggio di Pesaro ’95, seguito da una retrospettiva Rai in seconda serata, qualche corso universitario, qualche seminario e nulla più. Una sorta d’oblio ha inghiottito il suo cinema nello stesso modo, leggero e indolore, con cui il mare ne aveva accolto i fragili antieroi, da Lafayette (Ciao maschio, 1978) a Benito (Diario di un vizio, 1993). D’altronde, eccetto forse Matteo Garrone, affascinato dal paradosso del deforme ma senza nessuna morale da graffiare, Ferreri non ha lasciato né figli né eredi alla famiglia del cinema italiano, perdendo così la possibilità di diventare un comodo aggettivo. Dopo aver anestetizzato Salò, quella che un tempo era chiamata “società dei consumi” ha oggi reso masticabile anche La grande abbuffata (1973), appendendolo sulle pareti delle edicole. Da digerire in visioni rigorosamente private, ora che, come rimpiangeva spesso l’autore, il rito collettivo del cinema è morto e la sala non è che un cimitero di pupazzi addormentati (Nitrato d’argento, 1996). Gli sputi, gli insulti, gli scandali degli anni Settanta sono allora congelati in poche righe nelle pagine delle storie del cinema, dove Ferreri, inserito nella nuova generazione d’autori sbocciati agli inizi degli anni Sessanta, appare fin da subito come «una delle personalità più solitarie e inafferrabili del cinema italiano post-neorealista» (Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni Sessanta e oltre, Marsilio, Venezia, 1995). Quel neorealismo di cui, secondo Gian Piero Brunetta, Ferreri non esita a «disperdere le ceneri», cancellando fin da subito eventuali padri e traendo dal suo apolidismo culturale l’ispirazione per un universo espressivo coerente e autonomo (Storia del cinema italiano, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1982). Curioso notare come il concetto di “post”, di venire dopo qualcosa, riecheggi, come leitmotiv scenografico, nella seconda fase dell’opera del regista, attratto dagli spazi urbani in via di distruzione (Non toccare la donna bianca, 1974), da quelli mai finiti e quindi impregnati di passato (la Sabaudia di Storia di Piera, 1983), dalle terre di nessuno superstiti all’Apocalisse (Ciao Maschio). In silenzio è accolto, quasi cinquant’anni fa, l’esordio dietro la macchina da presa di questo produttore mancato, ex rappresentante di obiettivi fotografici affascinato dall’orrore delle convenzioni sociali, dalle pulsazioni della strada, 20

dalla follia nascosta dietro la maschera del quotidiano. Non è facile classificarlo, ma si intuisce subito che «i suoi film vogliono dire molto di più di quello che può apparire a prima vista» (Mario Verdone, «Rivista del Cinematografo», settembre-ottobre 1960). Più che dire, Ferreri, autodidatta fiero della sua “non cultura assoluta”, ha sempre preferito mostrare, sospendere il giudizio e lasciare lo spettatore da solo in un percorso lineare ma al contempo pieno di buchi, di anelli che non tengono, dove il reale è così verosimile da apparire falso. Si pensi ai frammenti di cibo che scivolano dalla bocca (La grande abbuffata), al sangue sul sesso ferito di Giovanni (L’ultima donna, 1976) o ai silenzi che intervallano la voce della radio a quella della televisione nell’alveo di un personaggio senza nome (Dillinger è morto, 1969): immagini che ci invitano a un rapporto tattile, a uno sguardo che non basta a se stesso, come insegna l’uomo “a una dimensione” di Dillinger è morto, teso verso la moglie sullo schermo come in un ultimo abbraccio. Al pari di King Kong sulla spiaggia di Manhattan (Ciao maschio), Ferreri irrompe nel panorama del cinema italiano imponendo l’evidenza del suo corpo estraneo e “sciatto”, senza paura di perdere, nell’apparente aderenza a modelli narrativi di genere (la commedia di costume, ad esempio), la purezza della propria visione. Si consideri la frequenza degli articoli determinativi nei suoi titoli: La cagna (1972), La grande abbuffata, L’ultima donna, L’ape regina (1963), e così via. Prima che la storia cominci, tutto è già evidente, già detto, già contenuto in quell’immagine essenziale che feconda la struttura dell’apologo, alimentando nessi analogici interni alle singole inquadrature. Il concetto di “immagine sintetica”, ossessione dell’ultimo decennio, parte da qui, da questi titoli al contempo densi e semplici come le inquadrature che analizzeremo. Dal particolare all’universale: prigionieri di una società che ne castra gli istinti primordiali, i personaggi di Ferreri fungono da exempla, assumendo, nella loro ordinaria mediocritas, i tratti dell’uomo storico, inventato e proprio per questo destinato a morire. Non a caso Giorgio Cremonini è stato tra i primi a parlare di «favole della morte», smascherando l’equivoco della critica meno attenta (agli inizi degli anni Sessanta «Cinema Nuovo» aveva definito Ferreri neorealista) mediante un’analisi dei meccanismi narrativi, atti a filtrare la realtà attraverso la lente del paradosso (Marco Ferreri e le favole della morte, Circolo del Cinema, Imola, 1976). Tra i miti neorealisti distrutti da Ferreri, la trasparenza dell’attore non professionista (qui conta solo l’aderenza fisica al personaggio) e lo splendore 21

del vero, che nella trilogia spagnola ha invece i colori opachi e spenti del cinismo, arma contro una miseria che abbruttisce l’anima e il corpo. Al corpo maschile, così quotidiano e lontano da canoni di bellezza convenzionali (da Ugo Tognazzi a Jerry Calà), si oppone quello dei personaggi femminili: talora ordinari, quasi invisibili nella loro integrazione all’interno della coppia (Catherine Spaak, Dominique Laffin, Gail Lawrence), talora mostruosi (Andréa Ferréol), ma più spesso favolosi, trasfigurati da una luce sacrale (Marina Vlady, Claudia Cardinale, Ornella Muti, Hanna Schygulla) che a volte, come ha evidenziato Stefania Parigi (cfr. “Il corpo pneumatico”, in Marco Ferreri. Il cinema e i film, a cura di, Marsilio, Venezia, 1995), sfiora la caricatura (Francesca Dellera). Mentre il corpo dell’uomo si autodistrugge, regredendo allo stadio di infante (Break-up, 1968) e di madre (Chiedo asilo [1979] e L’ultima donna), quello della donna assurge, col passare dei film, allo statuto di icona animale, idolatrata da maschi di cui, oltre a prosciugare la linfa vitale (L’ape regina), divora l’identità: «Io esisto solo se mi vedi» confida Gordon all’amata all’inizio di Il futuro è donna (1984). La carica eversiva del discorso non risiede tanto nell’iconografia, così innocua se confrontata, ad esempio, con quella pasoliniana, quanto nell’insostenibile leggerezza con cui l’istanza narrante osserva la deriva tragica dei corpi, ossessionati da un desiderio che, quando non è latente, si fissa su oggetti diversi e inafferrabili: i quattro amanti di L’harem (1967), i palloncini di Break-up, il portachiavi di I love you (1986). Tutti feticci di un’identità sessuale ormai esplosa, fino a sublimarsi nella fuga. Fuga dal corpo (i suicidi di Ciao Maschio, di Break-up, di Chiedo asilo), o fuga dalla società, verso isole che in realtà non fanno che amplificare le vibrazioni della noia: la grotta di La cagna o l’appartamento di L’ultima donna. Quello di Ferreri è un sistema chiuso, dotato di regole precise e replicato per quarant’anni in una serie di variazioni sul tema, in grado di offrire un interessante spaccato sociologico dei mutamenti del nostro costume, e non solo del nostro. La ricetta è semplice: un uomo (a), una donna (b), un modello istituzionale da seguire (c), un corpo che si ribella (d). Il tutto osservato dietro il vetrino di un’apparente indifferenza (Ferreri abbandonò la facoltà di veterinaria) e collocato in un presente fragile, visto come dialettica tra ciò che sarà e ciò che non è più. Di qui la sensazione di instabilità che traspare dal continuo errare dei personaggi verso la soddisfazione della pulsione, attraverso percorsi già scritti che combaciano con la linearità della struttura narrativa: c e d, interagendo in una sorta di cortocircuito, ostacolano la relazione tra a e b. Tra le istituzioni più mor22

tifere troviamo la famiglia, vista come teatro dell’ipocrisia (“L’infedeltà coniugale - Gli adulteri”, 1961) e mortificazione dei sensi (L’ultima donna); quindi la Chiesa, dipinta in L’udienza (1971) come un potere carnivoro in disfacimento. L’individuo è allora condannato a scivolare in un vuoto silenzioso, riempito dal cibo (La grande abbuffata), dalla parola (L’ultima donna), dalla scrittura (Storie di ordinaria follia, 1981), dal sesso (La carne, 1991). Un vuoto che, a partire da L’harem, si incrosta nella carne del film come significante plastico (i campi vuoti alla fine delle sequenze) e temporale (il discorso avanza senza che la storia evolva), indice di una ricerca linguistica che farà meritare a Ferreri l’appellativo di “casino narrativo”. Nella lotta contro il vuoto, la catalogazione, rivolta alla sfera del privato (Diario di un vizio) o del sociale (Il seme dell’uomo, 1969), non è che l’ultima illusione di poter fermare il tempo. Ma, come ripete Flaxman in Ciao maschio, l’impero del maschio è finito, «i barbari sono alle porte». Inutile viaggiare, inutile spostarsi da un luogo all’altro nella stessa città: gli spazi preesistono ai corpi, che anziché abitarli ne sembrano “abitati”. Il tempo che consuma questi corpi non può essere, ha notato Giorgio Tinazzi, che il tempo del non ritorno, dove il passato è tutto fuorché un eden primigenio per cui provare nostalgia (cfr. “Il tempo del non ritorno”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit.). Assieme ai resti dell’uomo storico, il mare su cui terminano le ultime opere porta a riva anche i detriti delle ideologie e dei mezzi destinati a veicolarle, come il cinema. Ecco allora la balena bianca di Il seme dell’uomo, la naufraga platinata di La cagna, la carcassa di King Kong a Manhattan, le Halles invase dalla cavalleria nordista (Non toccare la donna bianca). Tutti feticci che rinviano a generi ben codificati quali il film d’avventura, la commedia sofisticata, la fantascienza e il western, fabbriche di sogni imbalsamate da uno sguardo diviso tra la parodia e la nostalgia. Interessante è il lavoro sull’attore. La psicologia del personaggio è scoperta fin dall’inizio, come per le maschere della commedia dell’arte: tutto è leggibile nel tracciato fisiognomico dell’attore, «sostegno somatico delle significazioni filmiche, luogo dove si coagulano le pressioni del linguaggio» (Maurizio Grande, “Caricare il reale. Il volto dell’attore nel cinema di Ferreri”, in Sandro Bernardi, a cura di, Si fa per ridere… ma è una cosa seria, La Casa Usher, Firenze, 1985). Non è l’attore che si deve adeguare al personaggio, ma viceversa. In La grande abbuffata Ugo è Ugo Tognazzi e il suo accento, nonché la sua arte culinaria, sono quelli di Ugo Tognazzi. Perfetto interprete del suo tempo, 23

Ferreri ci offre i significanti in quanto significanti, senza mascherarli dietro un dispositivo spesso bucato. Nella stessa maniera «i media non ci rinviano al mondo, ma ci danno da consumare i segni in quanto segni, attestati però dalla cauzione del reale» (Jean Baudrillard, La società dei consumi [1968], Il Mulino, Bologna, 1976). Si pensi alle cartoline dal mondo scrutate dai cavalieri dell’Apocalisse in Il seme dell’uomo, simili a quelle che i soldati di Godard (I carabinieri [Les carabiniers, 1963]) portano a casa come trofeo bellico: l’immagine basta a se stessa nell’evocare una data realtà, e il piacere di chi guarda è tutto nella coscienza di non esserci, in quella realtà. Se i media della “società dello spettacolo” trasformano l’informazione in spettacolo, drammatizzandola, il cinema di Ferreri appiattisce le punte drammatiche di racconti che, pur nell’odore di vero emanato dagli ambienti, rinviano sempre a un universo fittizio, a un mondo dove la realtà si confonde con il suo riflesso spettacolare. Come i suoi personaggi, drogati di immagini fisse (L’ultima donna) o in movimento (Dillinger è morto), anche noi guardiamo simulacri di un mondo colorato da un «testimone della falsità del mondo reale» (Sandro Bernardi, “I luoghi del cinema”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit.). Reali sono le ruspe che abbattono i mercati delle Halles in Non toccare la donna bianca, falsi quei cadaveri impagliati dalle crocerossine coraggiose in stile John Ford. Reale è la voce di Papa Giovanni incisa in un disco in L’udienza, falsa quella Roma blu elettrico musicata da due organi dissonanti. Pur aprendo le porte del set al caso e all’improvvisazione, Ferreri, come volevano Brecht e Godard, non ci offre cose vere, ma ci mostra come sono veramente le cose. Citando sempre Godard, possiamo dire che ogni film di Ferreri è al contempo un conte de faits (un racconto di fatti) e un conte de fées, un racconto fiabesco, dove il recupero del fantastico appare un’ossessione degli stessi personaggi: buttarsi dalla grotta di Byron o dipingere un aereo di rosa è un modo per diventare a tutti gli effetti personaggi di un mito. Prima della rivoluzione, l’originalità della protesta di Ferreri sta proprio nel riconoscersi sconfitto in partenza, in quanto parte integrante del sistema. Il cinema non serve a nulla; anzi, è uno tra i tanti prodotti della comunicazione di massa. E ciò che offre la comunicazione di massa non è la realtà, ma la «vertigine della realtà» (Baudrillard). La realtà colta nel suo fluire, in una durata vicina e quindi lontanissima dal tempo reale (Dillinger è morto). Se il piano sequenza è preferito al découpage classico, è proprio per mostrare le falle, le crepe del tempo riprodotto: un tempo che non parla che di se stesso. 24

Gli eventi si susseguono senza scosse o brusche anticipazioni, per nulla rinforzati dalle ellissi che li ritmano. Al contrario, Ferreri lascia che le (in)azioni durino proprio per documentare lo svuotamento del senso, mediante movimenti di macchina che non servono altro che a rinforzare la fissità dell’immagine e quindi anche l’ineluttabilità del destino. «Vanitas vanitatum», ripete Michel in La grande abbuffata. Non resta allora che leccare un gelato (Diario di un vizio), giocare con un bambino (Chiedo asilo) o farsi cullare da un portachiavi (I love you). Tutti gesti che rendono la disperazione più dolce. Pur sapendo che: «Quel vuoto nel cosmo ci sarà sempre / ed il mio corpo è attratto dal pieno dove già ciò che regna è la morte.» (Pier Paolo Pasolini, Rifacimento). Depurare la materia: tra moderno e postmoderno

«Esprimere un’esplosione di odio o una volontà di liberazione scatenata, in film in cui l’immagine è sfocata, il suono pessimo, il soggetto incoerente e inconsistente.» Andy Warhol Il cinema moderno, ha osservato Sandro Bernardi (Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2002), sembra inaugurare uno sguardo nuovo nei confronti del reale, aperto a quella dimensione dove il senso nasce dall’esperienza stessa del guardare, che corrisponde spesso a un’interrogazione metalinguistica. Nel momento in cui denuncia la propria natura di artificio, la macchina da presa recupera anche la curiosità nei confronti di «istanti di verità» (Metz) quali il riflesso del sole nel mare (il finale di Il disprezzo [Le mépris, 1963] di Jean-Luc Godard) o, per restare sempre a Godard, il traffico in una via di Parigi (il secondo quadro di Questa è la mia vita [Vivre sa vie, 1962]). Alcuni cineasti, come Antonioni o Pasolini, amano subire l’attrazione del paesaggio fino a “dimenticarsi” del racconto: si pensi al rumore del mare in L’avventura (1960), con i personaggi emarginati ai lati del quadro, o al deserto della Turchia esplorato nella prima parte di Medea (1969), quando l’occhio di Pasolini recupera, nell’incertezza della macchina a mano, il brivido del sopralluogo. Le esitazioni con cui lo sguardo scorre sui volti dei mercenari in Il vangelo secondo Matteo (1964) tradiscono poi una sorta di casting in 25

diretta, contrapposto al rigido equilibrio che regge la galleria dei volti dei soldati di Erode. La barbarie accanto al logos. Ferreri invece raramente scivola nell’appunto: lo schizzo, il non-finito non si sostituisce al finito, e nemmeno gli sta accanto, ma pulsa sotto la pelle dell’allegoria. Il registro della metafora impedisce ogni distrazione: il set è solamente socchiuso al flusso del reale. Tra le digressioni spicca quella soggettiva irreale che osserva, nell’estate degradata di Los Angeles, il litigio tra due disperati per una bottiglia di birra (Storie di ordinaria follia). L’occhio si risveglia dal flou, mette a fuoco la scena marginale per poi ritornare sul volto di Serking, la cui voce off guida il racconto (fot. 1). Topoi quali l’emergere del vuoto attorno ai corpi (Bergman) o la perdita del centro (Antonioni) sembrano insufficienti per classificare la modernità di Marco Ferreri, che pure lascia trasparire quella «materialità del set» eletta dalla critica a cifra stilistica del moderno (cfr. Giorgio De Vincenti, “Moderno e Postmoderno”, in Giuseppe Petronio e Massimiliano Spanu, a cura di, FTG.015842 Postmoderno?, Gamberetti Editrice, Roma, 2004). All’inquadratura lunga, sintomo di una volontà di mimesis, non si accompagna sempre la presa diretta del suono e delle voci, ridipinte in fase di missaggio con la stessa “indifferenza” con cui Michel Piccoli colora la sua pistola in Dillinger è morto. L’attore non è un materiale informe, atto a essere distrutto, plasmato e falsificato a vantaggio della verità del personaggio; a questi egli impone la sua FTG.015842 corporeità. Non serve agire, per lui è sufficiente essere. Ma al di fuori del ventre, obeso o incinto, alla cinepresa non interessa nulla. Non c’è sempre bisogno di una voce, di una seconda coscienza: l’attore non deve sempre conoscere la conclusione dell’intrigo né preoccuparsi del destino del suo corpo riprodotto. Lo sguardo della cinepresa è diretto verso i confini di questo corpo, nell’accezione proposta da Franco Rella, ovvero come FOT. 1 «spazio così pieno che, nella sua indicibilità, non 26

possiamo che percepirlo come vuoto» (Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2003). Quella di Ferreri è allora una materialità depurata, dove il qui è sempre e comunque un altrove: i grattacieli che incombono impassibili sui campi lunghi di Lafayette (fot. 2) e di Malvina (fot. 3), senza perdere il loro effetto di realtà, investono la dimensione onirica dello sguardo, proprio perché mostrati come teli, manifesti, immagini bidimensionali. Miraggi impalpabili all’orizzonte. Ma anche la qualifica di onirico va presa con la dovuta cautela. La sospensione del senso generata da queste immagini ha fatto parlare addirittura di matrice surrealista, rintracciabile nell’accostamento di frammenti incongrui del reale (cfr. Angelo Migliarini, Marco Ferreri. La distruzione dell’uomo storico, ETS, Pisa, 1984). Pur affermando la “limitatezza” di tale definizione, Migliarini non porta esempi precisi: è sufficiente filmare un cow-boy sullo sfondo del traffico parigino o l’avanzata di Goldrake nella periferia urbana per ascendere alla surrealtà? King Kong a Manhattan è davvero uno shock percettivo, o semplicemente un’allegoria della morte del Mito? Per nulla incerto tra la veglia e il sonno, lo sguardo di questa cinepresa non ribolle di nessuna tensione, di fronte a paesaggi e corpi di cui non interessa il contenuto latente, quanto la miseria opaca della superficie. Senza eros, inoltre, non esiste surrealismo: e il sesso in Ferreri è tutto fuorché erotico, come se il FOT. 2 mistero del concepimento, spesso involontario, prescindesse dall’attrazione sessuale. Gli orizzonti del desiderio, peraltro presto soddisfatto, si scontrano contro l’accidente della procreazione. Nella ricerca di immagini capaci di liberare sensazioni nello spettatore, catapultato nel racconto senza più la guida del personaggio perché anche questi è smarrito in un mondo di immagini, Ferreri sembra piuttosto immergersi nel mare del postmoderno. Dove la narrazione è debole, sospesa, e spesso alla ricerca di punti di vista impossibili (si pensi ai virtuosismi plastici dei fratelli Cohen, additati da Ferreri come esempio di mancanza di souplesse). Dove, secondo Laurent Jullier, alla vero- FOT. 3 27

simiglianza è preferito il «bagno di sensazioni», allo sguardo l’immersione, al fuori campo uno spazio senza limiti (L’écran post-moderne. Un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice, L’Harmattan, Paris, 1997). Il tutto però in base a modalità stilistiche opposte a quelle riassunte da Jullier, ma soprattutto senza paura di guardare in faccia alcune realtà rimosse con cinismo dalla cultura postmoderna: la solitudine, il dolore, la sessualità. Nessun continuum musicale, nessun carrello vorticoso, nessuna steadicam ardita. Ma uno sguardo stanco sul male di vivere. Leggero. Senza corpo. Quella di Ferreri è una scrittura ambigua, dove l’identificazione dello spettatore, coinvolto in un vortice di citazioni e mise en abîme, non è né attiva né passiva, ma attratta tanto dai corpi quanto dagli oggetti, vere appendici dei personaggi. Postmoderni sono parsi alla critica i non-luoghi esplorati negli anni Ottanta, come le città-dormitorio di L’ultima donna o I love you; «Basta uscire dal centro e andare in periferia. – Ha ribattuto Ferreri – Questi luoghi si trovano. Ma nessuno prende l’autobus ed esce dal centro di Parigi, che è un museo» (intervista con Vieri Razzini, Rai Tre). Il rifiuto della sofisticazione nel lavoro sull’immagine, trovata e non inventata, avvicina per assurdo il postmoderno di Ferreri all’estetica dell’impersonalità di Andy Warhol, anch’egli attratto dalla collisione tra l’immagine standardizzata della società dei consumi e quella, sporca e grezza, del corpo urbano osservato nella sua disperazione quotidiana (Sleep, Eat, Kiss, 1963). Senza giungere all’oggettività parossisitica di Warhol, Ferreri si limita a ricostruire il ritmo e il peso del quotidiano inserendolo non solo in una cornice, ma anche in una sequenzialità narrativa, seppur sfilacciata e scardinata. I suoi corpi perdono sicuramente, rispetto a quelli di Warhol, un po’ di trasparenza, ma solo in quanto vivono nella pelle dei personaggi e in osmosi con un paesaggio che è anch’esso opaco, contenitore di oggetti trovati (King Kong, una pistola, un aereo, un fischietto) che punteggiano il cammino della deriva. Le case di Créteil, ha detto Ferreri, sembrano costruite apposta per essere viste, fotografate. Occupano sui cartelloni pubblicitari uno spazio di poco inferiore a quello destinato dalla società dei consumi alle lattine di Coca Cola: entrambe sono found images, immagini trovate e asservite al potere. Se Warhol riprende queste icone destrutturandole in un contesto uguale e diverso quale l’arte intesa come produzione seriale, Ferreri le fa esplodere in un conflitto parodico con corpi incapaci di sfuggire al loro fascino (si pensi solo al rapporto feticistico che Giovanni intrattiene con il volto di Marilyn in L’ultima donna). Come vedremo, al pari delle immagini serigrafate di Warhol, cliché turistici quali i tramonti sul mare si staccano dalle pagine delle riviste e diventano nell’icono28

grafia ferreriana un simulacro, una copia ormai priva di originale. I tropici non esistono: il vero mare azzurro è quello dello schermo. Da Milano a Roma

Marco Ferreri nasce l’11 maggio del 1928 in una casa del centro di Milano, ora distrutta. Nulla si sa della sua infanzia, poco dell’adolescenza. I genitori lo indirizzano agli studi classici nella fucina dell’intellighenzia milanese, il liceo Parini. Di questi anni nessun accenno, se non un’allusione alla visione di un classico del cinema di regime, La cena delle beffe di Alessandro Blasetti (1941). Melodramma dalle tinte indubbiamente forti per il tredicenne Marco, che forse all’epoca non era in grado di cogliere, tra le righe, la riflessione sulla castrazione del maschio, incapace di conquistare la donna amata e votato all’autodistruzione. Ovvero, ante litteram, uno dei topoi del mondo ferreriano. Il cinema non è ancora una passione, e nemmeno gli studi di veterinaria, abbandonati dopo due anni («Ho scoperto che non avevo nessun amore per gli animali») per tentare la via del cortometraggio pubblicitario. Il maraschino Luxardo è protagonista della prima regia, cui ne seguiranno altre, firmate a quattro mani con Sergio Spina. Vent’anni dopo, sulla spiaggia di Il seme dell’uomo, il linguaggio della pubblicità ritornerà intatto tra le macerie della civiltà, reperto tra i reperti nella bocca dei superstiti. Nel 1950 Ferreri si lancia nella produzione, convincendo un industriale milanese, Franco Villani, a finanziare Cronaca di un amore, l’esordio nel lungometraggio di Michelangelo Antonioni. Uno dei pochi cineasti che Ferreri non ha mai nascosto di ammirare, fino a imitarne alcune inquadrature, quando si tratta di catturare lo sfasamento tra corpo e paesaggio, di filmare il personaggio come se fosse uno sfondo. Quel muro viola che, in L’ultima donna, emargina sul bordo destro del quadro Valeria e il bambino (fot. 4) ricorda da vicino la rete rossa disegnata, sopra gli occhi di Giuliana, dalle reti metalliche sotto l’effetto del flou in Deserto Rosso, 1964 (fot. 5). Comune è la volontà di far parlare gli oggetti, le cose, la materia con cui i corpi entrano in contatto. Diverso è lo sguardo gettato su questi corpi: se Antonioni li contempla in posture nervose ma plasti- FOT. 4 29

che, uniformandoli agli elementi d’ambiente in nome di un’armonia di forme (la schiena di Monica Vitti filmata come un sipario in L’eclisse, 1962), Ferreri li lascia deambulare senza ingabbiarli nelle linee di forza, in modo da esaltare la loro estraneità rispetto all’ambiente: è il caso di Piera, inseguita dalla cinepresa nelle corse in bicicletta che contrastano con il rigore geometrico dell’architettura urbana FOT. 5 (Storia di Piera). Si pensi alla tipologia di messa in scena dell’eros: ai frammenti è preferito l’intero, alla nuca il volto. L’enigma del corpo non sta nella sua opacità, nel suo negarsi come il luogo dell’identità, ma nella sua evidenza fisiologica, nella sua pesantezza. A parte la passione per Antonioni, l’incontro determinante di questi anni è quello con Riccardo Ghione, giovane cinefilo con un trascorso di assistente alla regia di Camillo Mastrocinque. Con lui Marco condivide idee e interessi, e lo segue a Roma in qualità di addetto alla produzione di una rivista filmata tanto ambiziosa quanto sfortunata: Documento mensile. Documentando, inventare

«Non bisogna scrivere la storia, perché si è scritti da essa. Il cinema è la sola traccia, l’unico testimone…» Jean-Luc Godard «Le cose sono lì, perché inventarle?». Di questa lezione rosselliniana, citata anche nell’ultimo Godard da un alter ego alla ricerca di una storia (Éloge de l’amour, 2001), Marco Ferreri è un interprete ambiguo e sfuggente. Le cose sono lì: è giusto filmarle per quello che sono, aprire gli occhi su fatti di cronaca sconvenienti e inquietanti, come quello ricostruito da Visconti in “Appunti su un fatto di cronaca” (1951), forse l’articolo più famoso del primo numero della neonata rivista. Indagare sullo stupro di una ragazzina nella periferia romana significa portare alla luce quel volto crudo dell’emarginazione che certo neorealismo, in particolare quello di De Sica e Zavattini, lasciava ai margini di un mondo addolcito dal guaito di un cagnolino bianco (Umberto D, 1952), da due mani che si stringono nella folla (Ladri di biciclette, 1948), da un tramonto offerto a pagamento ai barboni (Miracolo a Milano, 1951). 30

Naturalmente, nella stagnazione del clima andreottiano, gli Appunti non ottennero il visto di censura; si dovette andare in Francia per vederli. E con essi restarono invisibili anche gli altri articoli, affidati ad artisti quali Moravia (“Colpa del sole”), Carlo Levi (“Il prurito”) e Guttuso (“Soluzioni del nudo”): una sorta di pagina culturale della rivista. Ferreri e Ghione non partecipano direttamente al dibattito culturale che agitava la sinistra di quegli anni, confusa tra l’adozione del modello sovietico di Zdanov e l’attrazione per il verbo gramsciano: andare verso il popolo e trascurare la cultura del mondo industriale. Mentre Zavattini invita le forze politiche e produttive a salvare la “koinè” morale e culturale generata dal neorealismo, Visconti suggerisce di allargare tanto le basi quanto gli orizzonti del movimento: un genere letterario nuovo, come quello dell’inchiesta, poteva essere utile in questo senso. A detta di Ghione, Cesare Zavattini entra solo marginalmente nella seconda avventura giornalistica di Ferreri, Amore in città (1953), primo numero di una rivista intitolata «Lo spettatore». Dal mondo della prostituzione (Lizzani) a quello della danza (Risi), i costumi degli Italiani sono investigati mediante l’applicazione rigorosa del metodo del pedinamento. I limiti del cinema-verità escono allo scoperto: la ricostruzione di un evento è affidata ai protagonisti stessi, che guidano l’occhio della macchina da presa in ambienti al contempo veri e falsi, in quanto inevitabilmente messi in scena. Si vorrebbe indagare su ciò che è successo, ad esempio sulle ragioni di un gesto come il suicidio (“Tentato suicidio”, di Michelangelo Antonioni). Ma la verità di ieri è inquinata dallo sguardo di oggi, inverosimile proprio in quanto asettico e distaccato. L’esito commerciale del progetto fu semplicemente disastroso. Di questa stagione realista resterà, nelle corde del Ferreri cineasta, assieme alla nausea per il filtro lettarario caro a Zavattini, l’attrazione per il sopralluogo, il piacere di immergersi negli odori e nei rumori di quei luoghi deputati a ospitare la finzione. Sul set di Non toccare la donna bianca lo ricordano vagare di notte nei vicoli del quartiere delle Halles, ventre western aperto alle voci del presente. Perché «l’immagine non la puoi scrivere, la devi trovare» («Cinemasessanta» n. 130, 1979). E trovarla significa investire non solo lo sguardo nella ricerca, ma anche il corpo. «Oggi – ha dichiarato Ferreri – si trova il luogo delle riprese tre settimane prima di cominciare a girare. Si passa il tempo a fare delle prove in un ufficio o in uno studio improvvisato, non c’è alcuna traccia di vita, si finge tutto» («Cahiers du Cinéma» n. 451, gennaio 1992). Nessun altro regista prima di lui è stato accreditato del ruolo di 31

ambientatore, come leggiamo nei titoli di testa di Storia di Piera, Il futuro è donna, La casa del sorriso (1991), Come sono buoni i bianchi! (Y’a bon les blancs, 1988) e Diario di un vizio. Ferreri non inventa i luoghi. Inventa gli spazi. Se il luogo non è che un frammento attuale dello spazio, che è virtuale, gli ambienti ferreriani appaiono un mélange di attuale e virtuale, di luoghi concreti (un’isola, una casa, una piazza) e spazi mentali (la cucina-ventre, il mare-madre). Componente essenziale per la costruzione dello spazio sono inquadrature che Maurizio Grande ha definito «celibi», ovvero «non aspirate nelle operazioni di montaggio, bensì congiunte su una linea di contiguità che non è solo successione, ma deriva metonimica di circostanti» (in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit.). Del resto, diceva Aristotele, il luogo è «la parte dello spazio i cui limiti coincidono con quelli del corpo», mentre lo spazio è «la somma totale dei luoghi compresi dal corpo» (La poetica). Inventare significa allora sintetizzare lo spazio all’interno di quadri sciolti, disgiunti, erranti come le fotografie in un catalogo turistico. I luoghi vivono all’interno di bordi che chiudono l’inquadratura senza mai invitare a guardare fuori, come se il fuoricampo non esistesse, se non nella memoria dello spettatore: il concetto di immagine essenziale nasce forse in questa visione del campo come successione di strati, lembi di pelle da sfogliare o semplicemente lasciare intatti, nel loro abîme. Tutto è dietro l’immagine, dentro lo spazio creato dalla propagazione del suono negli interni, in quella soglia tra la superficie dei corpi e il riflesso delle immagini proiettate su di loro. La ricerca di Ferreri parte dai luoghi (gli appartamenti “reali” di Dillinger è morto, di Break-up) per poi concentrarsi, come vedremo, sugli spazi, quali la città-diario (Diario di un vizio), la città-mito (Storia di Piera), la città-cinema (Nitrato d’argento). Un viaggio a ritroso. Un viaggio che comincia lontano dall’Italia. L’orrore del vero

«El pisito, El cochecito sono importanti giorno per giorno, ma non c’è un rapporto con la scrittura, non c’è un rapporto con la letteratura. C’è un rapporto con l’immagine.» Marco Ferreri L’insuccesso di Amore in città induce Ferreri a cambiare ancora una volta strada, collaborando alla sceneggiatura di Donne e soldati (1955), commedia in costume 32

pacifista e grottesca firmata da Antonio Marchi e Luigi Malerba: una specie di antenato di La grande guerra (Monicelli, 1959). Ma anche qui la censura fa valere la sua legge, e il film, di cui Ferreri era anche interprete oltre che produttore, non ottiene le attenzioni sperate. Non resta allora che fuggire da questo “maccartismo” e cercare fortuna all’estero. Giunto in Spagna nel 1956 al seguito di Toro bravo, un progetto di Vittorio Cottafavi, Ferreri cerca di sbarcare il lunario vendendo, per conto di Alfredo Sansone, obiettivi anamorfici Totalscope. Ma ad attrarlo sono sempre le sirene del cinema e soprattutto quelle della strada. Tra le vie popolari di Madrid osserva i volti e i luoghi che meglio avrebbero incarnato i personaggi di Los muertos no se tocan, romanzo satirico di un certo Rafael Azcona, vignettista presso la rivista «La Cordoniz». L’incontro con Azcona segna l’inizio di una collaborazione lunga quarant’anni e quindici film, dove il talento visivo del primo si fonde con lo humour grottesco del secondo, anch’egli autodidatta in fatto di sceneggiatura. La storia bizzarra di una veglia funebre nella casa di un morto non piace al regime franchista, che boccia il soggetto nonostante questo non contenesse nessuna oscenità e nessun attacco esplicito contro la cultura ufficiale. Abbandonato il progetto di un documentario sulle isole Canarie, Ferreri decide allora di produrre l’adattamento di un romanzo breve dell’amico, El pisito (1958), ispirato a un fatto di cronaca accaduto a Barcellona in quegli anni. In mancanza di un regista, si trova quasi costretto a passare dietro la macchina da presa. Un posto che non lascerà più. Rodolfo, giovane impiegato in una ditta di alimentari, vorrebbe sposare Pedrita, con cui è fidanzato da alcuni anni. Ma il costo degli immobili a Madrid è troppo proibitivo. L’unica soluzione è aspettare la morte di donna Martina, l’ottuagenaria locataria del piccolo appartamento dove egli vive in subaffitto, accanto a bambini in fasce, ragazzini dispettosi e donne intente a giocare a carte. Stanca di aspettare, Pedrita minaccia il suicidio; quindi convince il compagno a sposare l’anziana, che nei confronti di Rodolfo prova un forte istinto materno: dopo la sua morte sarà lui a occuparsi del gatto Teodoro. Solo il matrimonio potrebbe garantire il diritto alla locazione. Tutto è organizzato nei minimi dettagli, con tanto di foto di gruppo e festa dei parenti: la sposa indossa però un abito nero. Durante la lenta agonia della vecchia, i due promessi sposi cercano invano, in un ballo lento e triste, di ritrovare la passione di un tempo. Quindi Pedrita fa un sopralluogo nell’appartamento, disprezzando l’arredamento e la mancanza d’igiene. Cerca il libretto di risparmio, ma lo troverà solo grazie alle indicazioni di donna Martina, che muore nel modo più buffo: il libretto scivola dalla cassaforte e le cade sul viso. La sera, un ricco pranzetto aspetta i due futuri sposi.

Senza nessuna concessione ai buoni sentimenti, Ferreri sgretola in un colpo 33

solo il mito del neorealismo, modello di culto per i cineasti spagnoli del momento, da Luis Berlanga a Juan Antonio Bardem. Il mondo di Azcona, dove la vita convive con la morte in una sorta di “vicinato inatteso”, non è all’apparenza molto diverso da quello di De Sica: un lavoro che non basta, il pericolo di restare senza casa, la lotta quotidiana per sopravvivere. Questi umili però sono poveri, ma non belli. Nessuna grazia, nessuna gravitas nel portamento di Rodolfo e degli altri disperati, lontani dal rigore morale dei nostri ladri di biciclette. I segni del neorealismo, ovvero la strada, gli ambienti popolari, gli abiti dimessi, il bric à brac negli interni, sono svuotati di ogni accento patetico e offerti nella loro evidenza iconica, a formare una sorta di trompe l’œil: «Il neorealismo – ha detto Ferreri – è l’inganno dei miei film. L’aspetto è neorealistico, non la sostanza». Si osservino i titoli di testa. In un’alba ancora scura, un camera car segue un’auto sportiva per le strade di Madrid, anticipandone il percorso fino a fermarsi davanti a una porta, in accordo con la fine dei titoli e la sospensione del commento musicale. La teoria zavattiniana è stravolta: anziché pedinare, si precede il personaggio, verso una direzione già nota all’istanza narrante. Nessuna ballade, nessuna scoperta. Dal buco della serratura vediamo un gesto più tipico di una commedia brillante che di un dramma realista, quale la proposta “indecente” rivolta in inglese a una ragazza che scopriremo essere non proprio virtuosa. Anche la musica, un jazz vivace, si adegua al registro leggero della situazione. In De Sica invece l’ouverture ospita sempre il nucleo drammatico del soggetto, ovvero il conflitto tra l’individuo e la società. Il futuro ladro di biciclette cerca lavoro, ma la macchina da presa lo coglie subito in disparte rispetto agli altri, quasi un presagio della solitudine imminente. Quanto a Umberto D., il racconto si apre sul corteo di pensionati che gridano la richiesta di aumento, mentre gli archi di Cicognini suggeriscono un crescendo del pathos. Fin dall’inizio Ferreri semina le sue future ossessioni, in primis quella del cibo. Il callista della porta accanto chiede a Rodolfo se gradisce l’arrosto di coniglio, mentre la prima scena ambientata sul luogo di lavoro riguarda la pausa pranzo, a cui il direttore obbliga i suoi dipendenti. Strutture oggettuali come la grata rinforzano il senso di claustrofobia dell’ambiente, riempito fino all’inverosimile di carte, fotografie, quadretti e cipolle appese al muro, secondo l’estetica del troppo pieno. La trasparenza nei confronti del reale impone allo sguardo di evitare ogni gerarchia nella disposizione degli elementi nello spazio, i quali, contro ogni filtro lettarario, impongono la loro presenza dal punto di vista sia palstico che sonoro. Si pensi ad esempio alla sequenza dell’autobus, dove il dialogo tra i 34

due fidanzati è disturbato dal chiaccherio degli altri passeggeri; quando, invece, Umberto D. prende l’autobus, verso il finale, questo si trasforma in un luogo della memoria (l’addio alla città attraverso il finestrino), correlativo oggettivo dell’indifferenza e della solitudine. Anche il cortile interno del palazzo partecipa alla costruzione di questa atmosfera (fot. 6): Rodolfo e l’amico sono ingabbiati nella rete della struttura architettonica (i fili del telefono, il palo della luce, le ringhiere dei balconi), mentre l’angolazione dall’alto li schiaccia, FOT. 6 inesorabile, nella loro miseria. Più che un condominio, il palco di un teatro allestito per una satira del quotidiano. Questa è la scrittura per immagini più volte rivendicata dall’autore. La struttura narrativa suggerisce un certo piacere per il racconto. All’esposizione rosselliniana del “fatto”, del gesto colto senza la concatenazione dei legami di causa ed effetto (pensiamo a Paisà [1948]), subentra l’organizzazione degli eventi lungo l’asse dell’intrigo, per nulla indebolito dalle luci del vero. L’inquadratura prolungata nell’ufficio di Rodolfo è solo un’occasione per ritornare sul movente della vicenda, ovvero la ricerca dell’appartamento: la pausa pranzo permette di affrontare il discorso senza perdere tempo. Al contrario di quanto accade nella Roma di Ladri di biciclette, qui poche sono le interruzioni della ricerca: sollecitato da alcuni bambini, Rodolfo si ferma ad accarezzare i cuccioli di un cane randagio, prima di salutare un vecchio con tanto di canarino in spalla e pronunciare la frase fatidica: «Vado a mangiare». Il campo lungo che segue, un bozzetto della Madrid popolare nascosta dal regime, rimanda sempre all’idea dello spazio chiuso: l’esterno è filmato come un interno, senza cielo. Quanto agli animali, essi intervengono sia come elementi d’ambiente che in qualità di vettori della satira. Nonostante le difficoltà economiche l’anziana donna si preoccupa della sorte del gatto Teodoro, mentre Rodolfo, richiamato a casa per un’aggravarsi della salute della moglie, inforca una vettura a forma di gallina, paradossalmente più “vera” di quel pollo sbattuto sul tavolo dell’appartamento in attesa di essere mangiato. Se lo spazio è limitato a una galleria di ambienti ben noti al nomade cineasta, il tempo è compresso in una struttura narrativa organizzata in sketch: i personaggi entrano in campo, esauriscono l’azione (spesso composta semplicemente da un dialogo o da un incontro) e quindi si allontanano verso il fondo dell’inqua35

dratura. Talora, è il caso dell’annuncio del matrimonio a donna Martina, tutto si risolve in un piano sequenza, con tanto di svenimento finale della donna. Prendiamo la sequenza relativa alla prima apparizione di Pedrita. Rodolfo si reca nel negozio della fidanzata e la accompagna al di là della strada, il tempo necessario per cominciare a discutere del problema dell’appartamento, mentre sullo sfondo è ben visibile un camion militare, tra i rari indizi del contesto politico repressivo. Il tutto diluito in sole tre inquadrature, mentre due sono quelle che illustrano la scena successiva, ovvero la conversazione con il proprietario, interpretato da un Ferreri trentenne ma già ossessionato dal deforme: la gamba è piena d’acqua, è necessario un intervento chirurgico in Svizzera. L’attrazione per il bizzarro traspare anche nell’investitura grottesca di altre anomalie che coinvolgono la deambulazione: il cane zoppo che cerca gli avanzi di cibo, lo sciancato saltellante con la stampella, il paralitico assalito dai bambini sulla sedia a rotelle e infine la protesi di legno che Rodolfo prova sulla sua gamba destra. Sono pillole di esperpento (termine con cui gli spagnoli chiamano la farsa grottesca) ma anche metafore di una diversità assunta a modello eversivo contro l’omologazione del regime franchista. Pur addolcite dalle dissolvenze incrociate, le ellissi soffocano sul nascere i tempi morti. Gesti, parole, tagli di inquadratura: tutto è funzionale allo sviluppo della fabula. Per questo i carrelli a precedere la coppia creano una temporalità “piena”, dove il dialogo chiarisce la psicologia del personaggio: in una di queste ballade Pedrita minaccia il suicidio rimpiangendo il tempo inutilmente perduto. Il rientro a casa dopo la giornata di lavoro è mostrato invece con un campo lungo immobile (fot. 7), dove i corpi si perdono pian piano sullo sfondo di caseggiati popolari che anticipano gli alveari degli anni Settanta (Chiedo asilo, L’ultima donna). Anziché seguirli, Ferreri abbandona i suoi personaggi ai loro drammi. Al pedinamento subentra uno sguardo fenomenologico, più incline alla registrazione che all’invasione. La durata è dunque interna ai singoli frammenti, inseguita da una cinepresa che talvolta non esita a sostituirsi ai personaggi. È il caso della scena del primo pranzo a casa, quando, anziché isolare gli interlocutori in campi e controcampi, Ferreri sceglie una ripresa in continuità, dove il dialogo tra Rodolfo e donna Martina si confonde con il monologo della serva sullo sfondo: i movimenti di macchina sono mordidi e leggeri, come FOT. 7 quelli dello sguardo di un commensale. 36

Su questa tavola avvengono, tra le grida dei ragazzi e i lamenti delle donne, gli incontri grotteschi tra le sfere dell’oralità fisiologica: il cibo e la defecazione. Incontri che, a posteriori, la critica ha definito buñueliani (Grande e Prédal in primis); ma è probabile che l’autore, quando diceva che all’epoca non aveva visto nessun film di Buñuel, fosse sincero. Mentre Rodolfo mangia, un bambino evacua in una casseruola senza che nessuno dei commensali provi disgusto. Quindici anni prima di La grande abbuffata, il corpo è già un involucro vuoto, FOT. 8 un luogo di transito. Basta poco per fissarlo sulla tela di una fotografia, rigido e buffo come i volti degli invitati al matrimonio bianco (fot. 8). Un evento, questo, forse troppo falso per essere inserito in una durata e dunque offerto unicamente come simulacro, messa in scena di una messa in scena, ultimo stadio di quella deriva verso la morte in cui scivola la storia. Oltre che microesperienza della morte (Barthes), la fotografia è qui un significante vuoto, supporto per un mito familiare che non esiste. Lo zoom all’indietro e il montaggio di dettagli servono all’istanza narrante per eliminare la traccia del gesto. Il corpo del fotografo è sostituito dall’occhio incorporeo della cinepresa. Finalmente, dopo tanto attendere, la morte arriva, sotto la maschera grottesca del libretto di risparmio che cade sul volto dell’anziana. Ma nulla fa male quanto la morte dell’amore, simboleggiata in quel ballo lento e stanco cui si abbandonano Rodolfo e Pedrita al dancing. Lo humour nero cede il passo alla “simpatia”: incollando l’obiettivo sui loro volti e dilatando così la durata del vuoto, Ferreri patisce insieme ai suoi personaggi il sentimento della perdita. Inutile truccarsi, inutile il vestito da sera. La passione è consumata, putrefatta quanto le gambe di donna Martina, paragonate a corde di chitarra dall’amico callista. Le braccia non stringono più, sono solo appoggiate sulle spalle. Attorno, giovani coppie si scambiano sussurri e silenzi. El pisito è la storia di un amore nato morto. La noia

Il Premio della critica ottenuto a Locarno non aiuta: scarso è il successo di pubblico di questa opera prima, emarginata dalle autorità franchiste ma anche dalle aree più progessiste del cinema spagnolo. In Italia l’accoglienza è fredda; 37

bisognerà aspettare gli anni Settanta per rileggere nelle esperienze madrilene i prodromi di una ricerca estetica personale e moderna. Peggio però andò al secondo lungometraggio, proiettato solo clandestinamente in Spagna nel 1963 e per trent’anni invisibile in Italia (dove lo si è potuto vedere soltanto di recente su Cineclassics, che ne ha trasmesso una copia in versione originale sottotitolata). Scritto e co-sceneggiato da Leonardo Martìn, attento osservatore della società borghese ma privo della verve nera di Azcona, Los chicos (1959) resta una sorta di corpo estraneo nella filmografia di Ferreri, un figlio delegittimato e rifiutato fin dall’inizio: «Un film mancato, che non è nato dal mio lavoro. La sceneggiatura non funziona, è una sceneggiatura morta, priva di vita» (Marco Ferreri citato da Estève Riambau, “Los chicos”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit.). Lo stupore baziniano di Martìn dinanzi al flusso del reale si scontra con il rigido controllo della censura, per nulla attratta da un tema tanto leggero quanto pericoloso: il problema di una gioventù senza problemi. Quattro ragazzi della piccola borghesia, il Negro, il Chispa, Carlos e Andrés, passano il tempo tra i pomeriggi all’edicola, dove lavora il Chispa, e le serate al cinema, nel vano tentativo di vincere la noia. Con le ragazze sono maldestri, tranne il Negro, meccanico, e Andrés, che sogna di diventare torero. Il Chispa è innamorato della sorella di Carlos, il quale soffre la presenza soffocante dei genitori, che sognano per lui un futuro degno del loro status sociale. La timidezza gli impedisce di confessare a un’attrice il suo amore. Il padre del Chispa si fa operare alla gamba e lascia l’edicola in eredità al figlio. Il Negro compensa la difficile situazione familiare (la madre adultera) con l’amore per una ragazza dolce e premurosa. Le giornate scorrono l’una uguale all’altra, senza che nessuno dei quattro riesca a realizzare i propri desideri. Mentre assiste da spettatore a una corrida Carlos, per far colpo su una bella attrice di rivista, impugna la spada di Andrés e scende nell’arena: ma è solo un sogno. La tanto attesa corrida non ha luogo, per colpa di una pioggia incessante su cui il film si conclude.

«Estamos aburridos, como siempre». Il Chispa e l’amico confessano la noia che li attanaglia a una ragazza che incontrano al cinema. Nessun appartamento da cercare, nessun lavoro da inseguire, nessuna miseria da fuggire: Los chicos è la cronaca del vuoto quotidiano in cui affogano i sogni degli adolescenti contemporanei, indifferenti ai valori dei padri e per nulla inquieti del futuro che li aspetta. Andrés, Carlos, il Negro e il Chispa non sono figli né di Marx né della Coca Cola, ma di quattro realtà familiari diverse e delicate, specchio di una borghe38

sia colta (la famiglia di Carlos) e di un proletariato in difficoltà (il padre del Chispa). Madrid non è Parigi: mentre Godard ironizza sui passatempi amorosi degli studenti (Tous les garçons s’appellent Patrick e Charlotte et son Jules, 1958) e Rohmer ne indaga i moti dell’animo (La carrière de Suzanne, 1959), Martìn si accontenta di osservare i suoi “chicos” nei gesti banali di tutti i giorni: la passeggiata alle giostre, il rientro a casa, le soste interminabili all’edicola, la paura per gli esami. Tutto scorre indolore. Della Nouvelle Vague è assente sia la leggerez- FOT. 9 za nelle carrellate che lo spirito burlesque nei dialoghi: il deambulare di questi giovani è appesantito da inquadrature fin troppo geometriche e pulite, organizzate attorno al leitmotiv dell’edicola come lanterna magica dove si riflette un’umanità varia e grottesca (fot. 9). Il passante che mangia l’anguria col cucchiaio senza dire una parola, la coppia di anziani che sfoglia il giornale senza comprarlo, lo squilibrato ambulante che fa concorrenza al Chispa, il vecchietto desideroso di vendere vecchi quotidiani: sono tutti innocui freak, inseriti nel tessuto del racconto con ritmo regolare e costante, a ricordare che sotto lo sguardo documentarista di Martìn pulsa l’anima “esperpento” di Ferreri. Un’anima qui un po’ castrata, soffocata dal taglio moralistico della sceneggiatura, dove tutto, inclusa la mancanza di valori guida per i giovani, è preso terribilmente sul serio. «Non sono io che creo la realtà – ha detto Martìn –, è lei che accade davanti ai miei occhi». Occhi che però non si accontentano di restare sotto il sole e sull’asfalto, ma entrano nell’intimità delle famiglie a spiarne i malesseri e i dolori, mettendo in bocca ai genitori didascaliche confessioni di impotenza, come: «Abbiamo tanti progetti per te» o «Ho soltanto te, sei mio figlio. Non voglio che ci siano riserve tra noi». La parola interviene laddove l’immagine mostra i suoi limiti, incapace di sintetizzare in un gesto o in un taglio di inquadratura i riflessi dell’apatia. Le inquadrature, soprattutto gli interni, non sono più sovraccariche di corpi e di cose, ma pulite e ordinate come i capelli dei fratellini di Carlos (fot. 10). Il punto di vista è quello tipico del cinema neorealista, ovvero ad altezza d’uomo, senza alcuna organizzazione simbolica dello spazio. La critica spagnola non ha mancato di evidenziare, tra i FOT. 10 39

limiti dell’opera, una curiosa «mancanza di ingegno nei raccordi di montaggio» (José Maria Perez Lozano, in «Temas de cine» n. 4, 1960). Ci sembra in realtà che il découpage, invisibile nella sua piattezza espositiva, traduca perfettamente il clima soporifero e stantìo di un racconto senza vicende, senza punte drammatiche, senza curve narrative. In questo senso perfetto è il rifiuto del primo piano, a favore di uno sguardo volto al ritratto d’ambiente piuttosto che all’introspezione psicologica. Rispetto all’opera precedente, sul singolo prevale il coro, e il montaggio non fa che segmentarne le diverse voci, riservando a ognuna uguale tempo e spazio, per poi riunirle tutte insieme nel dolly finale. Un po’ schematica, forse, è l’alternanza tra il vissuto dei genitori, rinchiusi nei loro interni borghesi, e quello dei figli, solo di rado osservati nelle dinamiche della cellula familiare: a un interno segue spesso una sequenza in esterno, quasi a voler eleggere la strada come via di fuga dal vuoto affettivo. Non a caso i duetti amorosi sono le uniche concessioni ai codici della finzione, come attestano i violini che sublimano il climax del giovane amore tra il Negro e la sua amichetta. Alquanto acerba è invece la visualizzazione del sogno di Carlos, intervallo onirico chiuso in se stesso e interrotto dall’innocuo sopraggiungere dei genitori. Lontanissimi sono gli incubi e l’orrore allucinato degli olvidados di Buñuel, chicos forse più sfortunati ma sicuramente meno morti (I figli della violenza [Los olvidados, 1950]). Nulla di tutto questo rientra nelle corde di Ferreri, più attratto da quei piccoli segni del deforme che invade, in modo silenzioso, anche la tiepida normalità di questo quartiere. Le pareti di casa di Carlos, dietro l’apparente pulizia, sono marce, nota un imbianchino cui è stato asportato quasi tutto lo stomaco: cosa che però non gli impedisce di «stare benissimo». Il padre del Chispa non fa che lamentarsi, fin dalla prima sequenza, per un dolore a una gamba ferita in guerra. Non sapremo nulla dell’esito dell’operazione cui si sottopone. Chissà, forse sarebbe stato un personaggio perfetto per la prossima storia. Madrid anno zero

Le frustrazioni patite sul set di Los chicos si sfogano tutte in El cochecito (1960), apologo aggressivo sull’ambiguità della nozione di normalità. Alla città è in parte preferito il terrain vague, la terra non asfaltata, non segnata dalla Regola. Dove finisce la mostruosità del corpo e comincia quella dell’anima. 40

Il punto di partenza è di nuovo un racconto di Azcona, paralìtico, ispirato dall’incontro con alcuni invalidi che, all’uscita dallo stadio, inveirono contro la mollezza dei calciatori madrileni, più lenti e impacciati delle loro carrozzelle. Azcona è in fondo l’unico superstite della troupe di El pisito, assieme a José Luis Lopez Vàzquez (Rodolfo), che qui interpreta Alvarito, l’assistente del figlio del protagonista. La produzione è affidata all’illuminato catalano Pedro Portabella con l’aiuto di una cospicua sovvenzione statale: un milione di pesetas in cambio del diritto al final cut, attuato modificando, come vedremo, la sequenza finale. L’ottantenne don Anselmo passa il suo tempo con gli amici invalidi, mal sopportando il clima asfittico della famiglia. La suocera non fa altro che chiedere i gioielli della moglie defunta, da destinare alla giovane nipote. Tra gli amici disabili ci sono don Luca e una coppia di innamorati che soffrono le gioie e i dolori di tutti i giovani. Un giro di prova durante una gara di moto per invalidi convince don Anselmo: vuole avere una carrozzella a tutti i costi, anche se non è invalido. Il pensionato si finge malato, ma la messa in scena non inganna né il medico né i familiari. Don Anselmo chiede allora soldi agli amici, vende i capelli della moglie, incoraggiato da un commerciante senza scrupoli che gli preannuncia una sicura cancrena. Di fronte all’ennesimo rifiuto del figlio, non gli resta che un’unica soluzione: avvelenare tutta la famiglia e rubare i soldi. Dopo aver favorito la riconciliazione tra Giulia e Faustino, don Anselmo compie il gesto criminale, ma viene raggiunto dalla polizia: la sua fiammante carrozzella non lo ha portato tanto lontano.

La carrozzella, questa la traduzione letterale del titolo, odora di morte fin dall’inizio. Appassiti sono i fiori che don Anselmo porta all’amico paralitico, frettoloso nel salutare i parenti prima di inaugurare le “nuove gambe”: destinazione cimitero. E al cimitero fa caldo, il silenzio è rotto solo dal lento cigolare della carrozzina nera, che rischia di rimanere incastrata in una buca. La morte aspetta don Luca, ma non gli altri: «Qui costruiscono sempre», dice don Anselmo, giustificandosi della consueta perdita di orientamento. Non c’è tempo per scivolare nel sentimentalismo, perché voci infantili intervengono a disturbare i due vecchietti, fino a far confondere il protagonista, alla ricerca del loculo della moglie: «Si assomigliano tutte queste tombe». Don Anselmo non teme la morte, quanto l’esclusione, la solitudine, l’isolamento. Condizioni in futuro agognate dagli antieroi di Ferreri, ma ora più spaventose di qualsiasi deformità fisica. E di deformi El cochecito è una galleria lunga: il bambino in cerca di protesi per la prima comunione, il figlio della marchesa, ritardato mentale distratto con un’aragosta, ma soprattutto la coppia di fidan41

zati, Giulia e Faustino, impegnati in litigi “normali” ma in grado di abbracciarsi solo con le parole. La forza del paradosso, che prevede l’esclusione dal mondo della normalità fisica come condizione di benessere, è tutta nella dialettica tra il detto e il mostrato. Aggettivi come «anormale» o «storpio» echeggiano in tono dispregiativo nella bocca dei familiari del pensionato, che invece Ferreri accomuna ai disabili in inquadrature ambigue, dove la menomazione resta fuori campo pronta a essere svelata da un lento carrello all’indietro (fot. 11). Quando il giovane tetraplegico riceve, indifeso, lo scherno di alcune ragazzine, un movimento di macchina impietoso allarga lo spazio vuoto attorno a lui, ingigantendone la solitudine. «Guardalo, sembra un fungo!», dice una bambina, ricordandoci il gioco preferito dei ragazzi di El pisito: lanciare il paralitico giù per le scale. Siamo lontani sia dalla crudeltà degli olvidados che dalla dolcezza dei bambini neorealisti, spesso FOT. 11 vettori di un messaggio di speranza e di fiducia nei confronti del futuro (Roma città aperta, Sciuscià). Modello iconografico per questi corpi sembrano i Caprichos di Goya, interprete di quell’«amore per le fisionomie umane deviate dalle circostanze» esaltato da Baudelaire all’interno di un’arte che fa del connubio tra reale e fantastico il suo punto di forza (Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1981). Se i deformi di Goya oscuravano la luce dell’illuminismo offrendo una sorta di anarchia dell’umano, quelli di Ferreri non incutono né pietà né terrore: sono semplicemente travolti da un forte istinto di regressione infantile, che la cinepresa osserva divertita, senza condannare. La padronanza dello spazio filmico è affinata, sotto il segno già visto del “sovraccarico”. Profondità di campo e piano sequenza, qui impiegato in modo sistematico, creano una sorta di collante tra normalità e diversità, tra gli eventi in primo piano, riguardanti i tormenti di don Anselmo, e quelli che scorrono dietro di lui, sullo sfondo delle camere da letto, al di là della porta della boutique. Prendiamo la sequenza relativa alla partenza delle carrozzelle per la campagna: dietro la macchia nera dei disabili, spuntano i vestitini bianchi delle scolarette dirette al pullman della gita, da cui però sono esclusi alcuni passeggeri, colpevoli di trasportare un carico troppo ingombrante. Il fantasma dell’e42

marginazione si incarna dunque dall’altra “parte”, ma solo per qualche minuto: annoiati dal canto e desiderosi di vino, gli amici abbandonano don Luca in mezzo al prato. Sulle carrozzelle non c’è più posto. Rispetto a El Pisito, all’interno dei singoli sketch il timing tra i dialoghi e i movimenti degli attori è perfetto, quasi Ferreri avesse voluto riempire anche gli ultimi spazi vuoti. Ad esempio i familiari dell’avvocato non fanno in tempo a uscire dalla porta che subito il loro posto è colmato da estranei: due preti, una cliente, l’inviato di don Ilario, il medico che disegna la carrozzella per invalidi. Quando i corpi non si muovono, come nel caso della scena della vendita dei gioielli, sono gli oggetti e i rumori a dare il senso di claustrofobia: osservare la distesa di crocifissi sulla parete della boutique, ascoltare il caos di voci nella camera di don Anselmo o le grida miste a rombi di motore durante la gara di moto per invalidi. Secondo Riambau questo mélange sonoro avvicinerebbe Ferreri alla pratica neorealistica (in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri, Il cinema e i film, cit.); ci sembra invece che la voce della città, in De Sica o in Rossellini, non si sovrapponga mai a quella dei protagonisti. Pensiamo al finale di Ladri di biciclette, con la coppia padre-figlio attorniata dalla folla: i personaggi parlano uno alla volta, modulati dagli archi di Cicognini, che stemperano volti e voci nello stesso colore. Il brusio della folla è un controcanto tenue: ai primi piani di chi parla corrispondono i controcampi di chi ascolta, ai particolari fanno eco dettagli sonori. In El Cochecito pieni sono anche i corpi, come attesta la miniabbuffata alla mensa, in presenza del povero menomato costretto a ingurgitare solo caffelatte: la fame si rovescia nello spreco, anticipando le ossessioni degli anni Sessanta. Non a caso il medico di famiglia consiglia una purga per il sanissimo don Anselmo. Il marcio morale traspare in piccoli dettagli, quasi inosservati, come i vermi mostrati da Alvaro a don Anselmo per invitarlo ad andare a pesca o il sudore della nipote, annusato dalla madre durante il bucato all’inizio del film: come già in El Pisito (pensiamo alla scenata di Pedrita sulla mancanza di igiene in casa), il reale non splende, anzi emana un cattivo odore. Anche il contesto politico emerge tra le righe, mediante l’escamotage del corso di francese. Alla domanda del disco, «Que pensez vous de la situation politique?», la ragazza deve solo ripetere una frase già scritta: «Mon Dieu! Pas grande chose de bon». Ma nulla naturalmente giustifica l’atto criminale del vecchio, che per sterminare la famiglia utilizza il veleno, ovvero lo stesso metodo impiegato dal piccolo Helmut di Germania anno zero (Rossellini, 1948) per lenire le sofferenze del padre malato e invalido. Tutto è capovolto: 43

l’invalidità è una conquista da ottenere a qualsiasi prezzo per sfuggire a una solitudine che non è più cosmica, ma piccola, quotidiana, egoistica. Singolare è la modalità di rappresentazione del gesto omicida. Anziché isolare nel découpage i frammenti dello spazio al fine di creare la tensione della suspense (ad esempio: dettaglio della bottiglia di veleno, primo piano dell’uomo, etc…), Ferreri sceglie una ripresa in continuità, con la macchina a mano che trema seguenFOT. 12 do Anselmo nella cucina, il veleno nascosto sotto la giacca (fot. 12). Viene in mente il pedinamento della servetta nella cucina di Umberto D. (fot. 13), esaltato da Deleuze come exemplum di «situazione ottica e sonora» (L’immagine tempo, Ubulibri, Milano, 1985): se De Sica distende il tempo nella durata, Ferreri lo comprime nell’azione. La trasparenza del neorealismo si intreccia con i codici del noir in un ibrido deforme e per questo affascinante, dove forma e materia parlano un linguaggio diverso. Curioso, infine, notare come Umberto D. e El cochecito terminano sullo stesso paesaggio, dal simbolismo facile: un passaggio a livello da attraversare. Don Anselmo valica senza esitare, in campo medio, il confine verso al libertà, mentre di Umberto D., grazie alla focalizzazione interna, respiriamo la paura e il desiderio di morte. FOT. 13 Entrambi poi ritornano sui loro passi, ma la strada concessa da Ferreri è vuota e arida. Nessun uccellino sugli alberi, nessun raggio di sole, nessun vociare di bambini: solo il refrain di una fanfara buffa. I mostri del matrimonio

«Il carattere di trasgressione del matrimonio sfugge spesso, perché la parola matrimonio designa sia un passaggio che uno stato.» Georges Bataille Al rientro in Italia, nel 1960, le ceneri del film-inchiesta non si sono ancora dissipate, ma colorate di rosa: oggetto dell’indagine sono ora i costumi sessuali delle donne italiane, ormai lanciate verso un’emancipazione sessuale testimoniata dalle numerosissime rubriche sull’argomento ospitate dalle riviste fem44

minili. Qualche anno prima dei Comizi d’amore (1964) di Pasolini, Cesare Zavattini supervisiona il progetto di un’opera collettiva (Le italiane e l’amore, 1962) ispirata al saggio di Gabriella Parca Le italiane si confessano, una raccolta di testimonianze tra il serio e il faceto di donne alle prese con l’educazione dei figli, l’imbarazzo della prima volta, la paura del tradimento e altre questioni più o meno spinose del rapporto di coppia. Tra le undici voci del puzzle, documento d’epoca curioso ma irrisolto a causa dell’eterogeneità dei contributi (da Maselli a Vancini, da Nelo Risi a Baldi), quella di Ferreri, “L’infedeltà coniugale – Gli adulteri”, è forse la più incompresa: se Mario Verdone parla di un Ferreri «impacciato e imborghesito, svogliato e approssimativo» («Bianco e Nero», febbraio, 1962), Maurizio Grande non esita a definire lo sketch «una delle prove più scialbe di questo autore, frenato nella sua fantasia ogni qual volta si confronta con il film-inchiesta» (Marco Ferreri, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1974). È vero, il progetto di Ferreri riguardava in orgine l’aborto e chissà cosa ne sarebbe uscito se Zavattini non avesse bocciato l’idea sul nascere, contestando una presunta posizione reazionaria del regista sull’argomento. L’imposizione del tema dell’infedeltà sposta però l’attenzione dell’autore sull’equilibrio labile della coppia, che diventerà presto un terreno di analisi fecondo, una parola-chiave del suo universo poetico. Una giornata tipo in una famiglia della media borghesia. Al mattino, il marito si prepara per andare al lavoro, mentre la moglie ha il suo bel da fare con il figlio più piccolo, febbricitante. In ufficio, l’uomo consuma un amplesso con la segretaria, mentre la moglie approfitta dell’uscita dei bambini per invitare l’amante, costretto a imboccare il piccolo malato. Alla sera, davanti a un piatto di pasta, la famiglia “felice” si ritrova unita: la tramissione Campanile sera sta per cominciare.

Sette minuti sono sufficienti per tratteggiare il comportamento di una coppia elevata a icona dell’ipocrisia cattolico-borghese, prigioniera di un decoro distrutto di giorno e ricomposto la sera. “L’infedeltà coniugale - Gli adulteri” è freddo e asettico come una pagina dei Rapporti Kinsey inquadrati sul tavolino della camera (L’educazione sessuale delle donne), probabile passatempo di una moglie senza nome ma carica di tre figli e consolata da un amante invadente. I personaggi vivono unicamente nei gesti che compiono, osservati questa volta da vicino, mediante un découpage attento sia al dettaglio che al ritmo del racconto. Non si tratta più di osservare il reale che scorre, ma di sintetizzarlo in una serie di situazioni-modello in cui chiunque si possa riconoscere. Ed ecco allora, in medias res, la fretta nel vestirsi per accompagnare i bambini a scuola, 45

FOT. 14

seguita però da una pennellata grottesca: dopo il bébé, tocca alla madre scoprire le natiche e farsi fare la puntura dalla badante davanti al dipinto di un’Annunciazione, che, sovrastando il letto matrimoniale, suggerisce l’oppressione dell’educazione cattolica (fot. 14): un esempio ancora acerbo di “immagine essenziale”. Il tutto mentre il marito si informa sul contenuto del pranzo, apostrofando la moglie «mamma»: la regressione è

già cominciata. Il montaggio parallelo separa i due adulteri, specchio di altrettanti volti dell’erotismo che ritorneranno intatti in futuro: la donna-madre, simboleggiata dalla moglie inquieta ma disponibile, e la donna-animale, incarnata in una segretaria dalla gestualità provocante fino alla caricatura. Il medaglione esotico al collo, i silenzi, il gesto stesso con cui entra in scena (morsicando una mela) ne fanno una creatura libera da ogni repressione, pronta a sollevare la camicetta per difendersi dal caldo e annusare l’odore dei propri ormoni. Ferreri non carica più di quanto non facciano le sue creature, attori di una recita fondata sul potere illusorio della parola: basta una telefonata per alzare il sipario della morale, mentre il dito scorre sul volto della moglie incorniciato nella foto di famiglia e dunque asessuato, castrato, ritualizzato. Si inaugura qui lo sguardo tattile con cui molti maschi sublimeranno il vuoto dell’incomunicabilità, sfiorando con la pelle manifesti (L’ultima donna), maschere (I love you) o immagini in movimento (Dillinger è morto). Alla fisicità di un eros più alluso che mostrato (i segni sul collo, le pieghe sui vestiti) fanno da contraltare ironico gli elementi d’ambiente, tra cui spicca la gag della coppia di suore nel corridoio dell’ufficio, alla ricerca di una raccomandazione per una certa marchesa. A unire gli spazi delle rispettive finzioni interviene durante la telefonata, per dieci secondi, una linea melodica sottile, unico commento extradiegetico di una vicenda che termina sulla voce fuori campo di un messaggio pubblicitario non casuale: «Due gocce di collirio Stilla, ideale contro gli occhi stanchi». Stanchi di osservare l’immagine di un’armonia posticcia, un’immagine indistinguibile da quella del Carosello televisivo: unico, disperato, luogo dell’identità perduta. «Non sono una cosa, sono una donna». Congedandosi, la moglie di “L’infedeltà coniugale - Gli adulteri” sembra voler lasciare il testimone della rivolta 46

alle spose che verranno, protagoniste dei primi due lungometraggi italiani, L’ape regina e La donna scimmia. I titoli non ingannano: la donna è fin da subito un animale aggressivo e selvaggio, capace di mimetizzare la propria natura barbarica nella gabbia delle convenzioni sociali. Scritto assieme al solito Azcona e ispirato a La moglie a cavallo, atto unico di Goffredo Parise, L’ape regina incontra subito l’ostilità di una censura timorosa di ogni attentato alla morale cattolica. Costretto a cambiare il titolo con la rassicurante precisazione Una storia moderna, Ferreri non perde occasione di denunciare alla stampa la «violenza fatta all’autore e alle sue idee», per un’opera che, oltre a restare bloccata per sei mesi, è amputata di alcune sequenze nella prima parte: in totale quattro minuti, tra cui l’incontro di Alfonso e Regina presso le suore e un lungo dialogo con Padre Mariano, utili a chiarificare il ruolo opprimente del dogma sulla pulsione. Queste sequenze, che comprendono anche l’immagine di un foro nella sottoveste di Regina all’altezza del sesso, sono visibili oggi solo nella copia trasmessa dalla televisione tedesca. Quindici anni dopo Ferreri abbasserà i toni della polemica, definendo L’ape regina un film «revisionista». Il cartello che precede i titoli di testa appare un’excusatio non petita, imposta al regista affinché il formalismo bigotto che traspare dalla vicenda non fosse «frutto di un’interpretazione del tutto superficiale ed esteriore dei solidi e immutabili principi della morale e della religione». Quarantenne di successo, titolare di una concessionaria nel centro di Roma, Alfonso decide di sposare la vergine Regina, rampolla di una famiglia dalle forti tradizioni cattoliche e devota a Santa Lia, donna barbuta per un voto di castità. L’appartamento di lei, frequentato da Padre Mariano, amico di Alfonso, è ingombro di ninnoli, foto e cimeli di parenti defunti. Dapprima algida e indifferente, capace solo di infiammare il desiderio del promesso sposo, la donna si trasforma dopo il matrimonio, costringendo il marito al dovere coniugale fino all’esaurimento delle forze. L’uomo cerca una via d’uscita nel lavoro (ma Regina invade anche il divano dell’ufficio) e negli esercizi spirituali, fuggendo per qualche giorno dalla città. Padre Mariano induce Alfonso ad assumere ricostituenti pur di cedere alle voglie della moglie. Finalmente, con il concepimento, la sposa amante diventa sposa sorella, ma per Alfonso è troppo tardi. A nulla serve un soggiorno all’aria aperta. Debilitato e isolato in una stanza in compagnia di un cane, sostituito da Regina nei suoi impegni di lavoro, Alfonso muore come un fuco, mentre in chiesa si celebra il battesimo dell’erede.

Alfonso non ha dubbi. Regina non è la fine, ma «l’inizio di un mondo», la svolta di una vita di seduttore alla ricerca di una stabilità affettiva. Eppure, fin 47

dall’inizio, il corpo scultoreo di Marina Vlady rimanda all’idea del lutto, di una fisicità irrigidita nelle maglie di un rito funebre. Nero è il vestito della prima apparizione, in una casa cupa e polverosa che la stessa proprietaria definisce il santuario della famiglia. Nero è il costume da bagno sulla spiaggia delle tentazioni, uno dei rarissimi esterni di un film claustrofobico come la cripta sotterranea che Alfonso, nel finale, è costretto a visitare, senza sapere che di lì a breve vi sarebbe ritornato per sempre: Regina non manca di indicargli il loculo pronto per i loro cadaveri. Lasciare la città non aiuta il marito ad allontanare i fantasmi di morte, ricomposti nel monito di un buffo sacerdote durante gli esercizi spirituali: «Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai». Ferreri, come sempre, non rinuncia a un certo schematismo nella caratterizzazione dei personaggi, collocati in due ambienti fortemente connotativi: se da Regina il controluce trasforma in ombre i corpi ammuffiti dei parenti, confondendoli con quelli riprodotti sui quadri alle pareti, l’autosalone di Alfonso è frequentato da ragazze che sembrano uscite da un party di La dolce vita (1960), ma basta aprire la porta per ritrovarsi in via della Conciliazione, con la cinepresa piazzata nella direzione giusta. Ovvero verso San Pietro, retta via e ventre della religione cattolica ben visibile anche dalla terrazza di Regina. Dalla porta-finestra della casa di Alfonso il panorama è invece detto, ma non mostrato, grazie all’utilizzo della luce diegetica come muro di vetro, una sorta di veduta sul nulla. Fatta eccezione per piazza del Pantheon, teatro di un appuntamento mancato durante i titoli di testa, Roma non esiste. Assenti i piani di ambientamento, i corpi preesistono agli interni come emanazioni funeree. Non è un caso che gli unici momenti di intimità che vedono Alfonso come soggetto del desiderio si svolgano al mare (la tentazione) e in campagna (la ripresa dell’attività sessuale dopo la pausa “spirituale”). Nascosta sotto le volte e le facciate delle chiese, la città reprime ogni pulsione e schiaccia i corpi contro buie pareti di marmo: si pensi allo scheletro che osserva l’amplesso nel sottoscala di una chiesa in restauro. Unico esterno urbano, la cupola di San Pietro rinvia, nella sua perfetta rotondità, all’immagine di un corpo prima negato e poi imposto. Perfetta è allora la scelta di Marina Vlady, ovale geometrico che i parenti, alla notizia della gravidanza, invitano a contemplare come una Madonna: «Guardala, sembra un’Annun FOT. 15 ciazione!» (fot. 15). Si tratta della prima di quelle 48

citazioni “al secondo grado” tanto amate da Ferreri, testimonianza della volontà di denudare tutti gli strati della pelle del dispositivo e offrire allo spettatore immagini “cannibaliche”, ovvero immagini nutrite di altre immagini, ben codificate nell’immaginario dei personaggi. La durata dell’inquadratura ci permette di verificare l’affermazione dei parenti: le sopracciglia esili, le labbra socchiuse e quello sguardo verso il basso assimilano la donna a una Madonna del Quattrocento, grazie anche all’effetto di pastosità eterea garantito dall’illuminazione frontale. Il controluce sul mare permette invece al sole di disegnare un’aureola attorno all’immacolata silhouette. Il carrello in avanti sulla futura mamma, immobile come su di un trono, simula lo scacco della possessione da parte di un corpo, quello di Alfonso, che invece è mostrato nella sua stanchezza, nel suo deambulare notturno, nel suo deperire giorno dopo giorno. Di Tognazzi Ferreri coglie quelle esitazioni nel passaggio da un registro all’altro e quelle brevi sospensioni nella mimica che ne faranno l’icona dell’uomo medio (dedito alle pulsioni elementari), prima di affrontare, con Piccoli e Mastroianni, le nevrosi dell’intellettuale reificato. Tra i rari tempi morti, l’attesa durante il cambio di costume prelude allo svelamento di una schiena (fot. 16) che tanto ci fa pensare alla Macha Méril di Una donna sposata (Une femme mariée, 1964, di Godard) e in generale alle donne del primo Godard, restio nel mostrare i seni e limitato a due stati del corpo: nudo o vestito. L’atto di FOT. 16 spogliarsi come gesto erotico è raro anche in Ferreri (se non sotto forma di gioco infantile, come in Break-up), ma diverse sono le mortificazioni dell’eros: se Godard, con i nudi in vetrina di Il maschio e la femmina (Masculin-Fèminin, 1965), denuncia la mercificazione della società dei consumi, Ferreri condanna per ora l’influenza repressiva dell’educazione cattolica. Come si legge sulla sottoveste di Regina, «Non lo fo per piacer mio, ma per far piacere a Dio». Nello sguardo di Ferreri ci sembra comunque di ritrovare una «compassione» simile a quella riscontrata da Alain Bergala in Godard, inventore di «corpi ordinari, nel loro splendore e nella loro miseria, appartenenti alla specie umana e non tanto all’universo immaginario di una fiction o di un autore» (Nul mieux que Godard, Cahiers du Cinéma, Paris, 1989). A queste rotondità si oppone la linearità del racconto, costruito seguendo la traiettoria verticale del desiderio: alla soddisfazione del maschio corrisponde la 49

frustrazione della femmina, che solo nella riproduzione realizza la propria natura animale. Un istinto cannibalesco evidente non tanto nei dialoghi, che hanno spinto la critica italiana a confronti con la commedia di costume, quanto nell’organizzazione dello spazio, come evidenzia il preludio all’ultimo accoppiamento prima della morte: in piedi, nella nuova sottoveste nera, Regina seduce un Alfonso ormai già divorato, nascosto dagli elementi del FOT. 17 profilmico, presente solo come voce (fot. 17). La «mancanza di scosse» denotata da Maurizio Grande all’interno della struttura narrativa (Marco Ferreri, cit.) traduce alla perfezione la dimensione piatta e claustrofobica degli ambienti, riconducibili all’idea di prigione: la grata della finestra di casa cede il passo alle mura del cortile della chiesa nel finale, dove nemmeno l’acqua può ristorare il povero fuco. La vera castrazione però è quella che si realizza nel rito, luogo dell’imbalsamazione di un corpo che vediamo morire lentamente, in primo piano, prima che un montaggio analogico ce lo consegni fissato per sempre sulla cornice di una lapide. La morte in Ferreri è spesso un intervallo, un vuoto scandito dal montaggio, un’ellissi sospesa tra il movimento e l’immobilità. Se il matrimonio, esattamente come in El pisito, è filmato nel suo volto più falso, ovvero come messa in scena di una messa in scena (non assistiamo alla cerimonia, ma al momento delle foto ricordo), il battesimo dell’erede è uno spettacolo riservato ai parenti nerovestiti, stretti in silenzio attorno alla benedizione dell’amico prete. Quando la parola FINE compare sullo schermo, due candelabri brillano dietro il volto Regina, frontale e immortale come una Madonna nera. Corpo e spettacolo

«Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Non dice niente di più di questo: “Ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”.» Guy Debord Su di un rito simile al battesimo, una sorta di “visitazione” laica di un corpo prodigioso, termina il secondo capitolo di questo primo trittico sul paradosso del matrimonio, La donna scimmia, girato tra Napoli e Parigi nell’estate del 1963. 50

All’interno di una struttura narrativa consolidata, che evita le peripezie preferendo osservare dall’interno i meccanismi di erosione della coppia, i rapporti di forza si invertono: l’animalità esteriore della donna nasconde un’umanità solo apparente nel maschio, portavoce di una società marcia e nauseante come lo squallido garage adibito dall’uomo ad abitazione. Quando Ferreri ripete che «la società è colpevole, di tutto quanto», si riferisce alla società dello spettacolo, di cui forse nessuno meglio di Guy Debord ha teorizzato l’inquietudine ipnotica: «Nel momento in cui la necessità si trova socialmente sognata, il sogno diventa necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna: non esprime altro che il suo desiderio di dormire» (La société du spectacle, 1969). La donna scimmia è una satira amara sul sonno di questa società. Antonio Focaccia, imprenditore senza scrupoli, conosce in un ospizio Maria, una ragazza ricoperta interamente di peli, allevata dalle suore e rinchiusa in convento a lavare i piatti. Deciso a sfruttare la mostruosità della donna, Antonio la sottrae alle monache per utilizzarla come fenomeno da baraccone in uno spettacolo esotico. Vestita di stracci, Maria interpreta una creatura selvaggia dell’Africa domata da un fantomatico esploratore bianco. Il matrimonio, festeggiato da tutto il quartiere, permette l’integrazione del fenomeno nel mondo della normalità e consente a Maria di esigere affetto e dovere coniugale. La notizia di una gravidanza non sconvolge i piani d’affari dell’uomo, che tenta il successo nel mondo dello spettacolo parigino. Ma Maria vuole a tutti i costi il bambino, pur sapendo di avere poche possibilità di sopravvivere. La morte della moglie e del figlio scatenano nel marito un brevissimo pianto. Non c’è tempo da perdere: il pubblico aspetta impaziente di vedere i cadaveri dei due sfortunati mostri.

«Laddove il mondo reale si trasforma in semplice immagine – diceva Debord – le semplici immagini diventano esseri reali». Non è un caso allora che questa favola, ispirata alla storia vera di Julia Pastrana (donna gorilla morta di parto un secolo fa), cominci con la proiezione di un reportage d’avventura, mise en abîme truccata che Antonio prenderà a modello per il suo tableau vivant: per ora qui non si può toccare, ma solo guardare i corpi dei barbari da convertire. I vecchi non se ne accorgono, ma è sufficiente la seconda diapositiva, i cui bordi coincidono con quelli dell’inquadratura, per permettere a Ferreri di bucare il telo della finzione e irridere la presunta scientificità del documento (fot. 18). Maschera nella maschera, il volto dell’autore si incarna sul corpo di un religioso orribilmente decapitato dagli allegri selvaggi, sfuggiti alla colonizzazione religiosa al pari dei cannibali esaltati in Come sono buoni i bianchi!: «È meglio lasciar crepare i neri per conto loro» ha confessato in tempi recenti un 51

Ferreri ancora polemico contro la mistificazione della carità nel terzo mondo, dove la solidarietà appare l’altra faccia dell’aggressione. Chiarito il registro della metafora, c’è spazio per le ossessioni d’autore, in primis quella del cibo: Antonio abbandona il proiettore per assecondare la fame, soddisfatta in una cucina invasa da gatti e poi sostituita da un’altra pulsione, quella dello sguardo. Uno sguardo ai limiti del cannibalico, se FOT. 18 ascoltiamo la battuta con cui l’uomo respinge le colleghe che vogliono allontanarlo dalla misteriosa ragazza che gli volta le spalle: «Calma, mica la mangio!». Maria è l’orrido diversivo di un pranzo consumato in fretta ma senza occhi, distratti come quelli dei quattro amici durante la prima cena di La grande abbuffata: dove i nudi di donna sono divorati assieme alle ostriche. L’abbuffata cui Maria è destinata non concerne solo lo sguardo, ma anche il tatto, come dimostrano quegli spettatori increduli che, dopo essersi disinfettati con alcool, chiedono di toccarne il vello. Prima ancora di parlare, di svelarsi, di vivere una vita propria, il corpo di Maria è già spettacolo. Per questo Antonio sposta la ragazza verso la luce della finestra e la lascia lì, collocandosi, fuori campo, in una posizione simile alla nostra, spettatore del proprio show. Non sapremo mai cosa abbia fatto l’uomo per convincere Maria a seguirlo, in quanto uno stacco di montaggio ci trasporta direttamente nel suo garage. Nessun piano di ambientamento permette di orientarci nel quartiere Duchesca di Napoli, città che resta invisibile come la Roma di L’ape regina e per la prima volta viene esclusa persino nei titoli di testa, che scorrono bianchi su fondo grigio. Già evidente nelle opere del periodo spagnolo, il gusto per l’ellisse si fa ora più accentuato. Indispensabile evitare scene madri come l’addio al convento o il probabile turbamento per l’arrivo in città: ogni climax incrinerebbe la struttura di un racconto che deve restare lineare e freddo come un’allegoria. In questo senso, Ferreri violenta le emozioni dei suoi personaggi come il domatore fa con il suo fenomeno. Neorealistica è invece la messa in scena dell’ambiente popolare, scoperto passo dopo passo pedinando i gesti dei personaggi, le mansioni domestiche di Maria, la curiosità dei vicini chiassosi che riempiono l’inquadratura soffocando i frammenti di cielo e trasformando l’esterno in un interno. Eloquente è la sequenza del matrimonio, con la coppia ancora una volta colta nel suo darsi 52

agli sguardi, stritolata tra due ali di folla che impongono alla donna di cantare mentre gettano mucchi di riso sul suo volto. Oltre a rivelare i diversi stati d’animo dei personaggi (l’estraneità di lui, la sofferenza di lei), i primi piani soddisfano qui la voglia di ogni passante: vedere da vicino l’immagine dell’idillio, toccare con gli occhi e non solo con le mani. Come se non bastasse l’educazione impartita dall’istruttore, incentrata sulla similitudine con la bestia («Tu devi fare come fa la scimmia»), Ferreri condanna la ragazza al suo destino mediante un semplice montaggio analogico, che ci porta dalla gabbia simulata (il palcoscenico) a quella reale, nello zoo dove uno scimpanzé osserva indifferente i visitatori travestiti (fot. 19): il commento sonoro, affidato alla consueta fanfara, unisce i due spazi diegetici colorando di FOT. 19 grottesco l’episodio. Il corpo è solo la più alta delle attrazioni dello spettacolo, composto per il resto di immagini mute, quadri dipinti dal “pittore più celebre della città” sulla base di fasulli racconti d’avventura che incuriosiscono la massa di paganti: quando Antonio invita a guardare il fotoromanzo della sua avventura, la cinepresa lascia i corpi fuoricampo per concentrarsi unicamente sulla superficie bidimensionale dell’epos esotico. Il pubblico ha bisogno di immagini per sognare: ecco perché Antonio convoca un fotografo a fissare per sempre la sua «trovata del secolo». Forte è anche l’ellissi che riporta la ragazza da Antonio dopo la fuga dal professore pervertito, specchio di quel marcio morale cui allude la madre superiora («Ma lo sa quanti adulti vengono da noi per adottare delle ragazzine di quindici anni?»). Maria riappare agghindata nel suo abito nuziale, pronta per quello che in fondo è un altro numero da circo: preparazione nel camerinosacrestia, trucco e uscita sulla scena, a raccogliere gli applausi. Non manca nemmeno il microfono. L’umanità di Maria non è solo nella ricerca di affetto, ma anche nella legittima voglia di conoscere il mondo, nella curiosità per il successo, cosa che la accomuna all’elephant man di David Lynch: di fronte alla proposta di mostrarsi 53

nuda, lascia che sia il marito a decidere. Parigi come Londra è un mondo dorato solo all’apparenza, e Ferreri non ci mostra che qualche luce di Pigalle prima di chiudere la coppia in una modesta stanza d’albergo. Da qui Antonio guarda fuori e parla di un cimitero che noi non vediamo, in quanto l’occhio della cinepresa resta sul profilo del vedente. Siamo agli antipodi del neorealismo. Là la città nasceva ai nostri occhi sotto lo sguardo muto dei personaggi, con la cinepresa attenta alle palpitazioni del reale. Qui non c’è più nulla da scoprire, i corpi sono stanchi e annoiati, concentrati su desideri che chiedono solo una cosa: “sporgersi dentro”. Ecco perché Charles indossa occhiali da sole nella sua stanza (Storie di ordinaria follia) e Giorgio ama farsi guidare, bendato, dal cane lungo i sentieri della sua isola (La cagna), mentre Giovanni non fa che passare da una penombra, la casa, all’altra, la discoteca (L’ultima donna). Non la realtà interessa, ma le immagini. Dopo i cento franchi spesi per il voto a un Sant’Antonio più che mai mercificato, il marito, anziché portarla in giro per i parchi della città, offre a Maria una serie di volti di bambini ritagliati dai settimanali femminili. Occhi azzurri e sorrisi, ovvero i bambini che tutte le mamme sognano, perfetti per pubblicizzare biberon o vestitini. Gli orizzonti della commedia satirica si ampliano qui in una riflessione modernissima sulla dialettica attiva non tanto tra il corpo e la sua riproduzione, quanto tra la carne barbarica della bestia e la superficie levigata del bello: guardare le immagini, secondo Antonio, può influenzare lo sviluppo del feto, ovvero ridurre il mostruoso alle categorie estetiche accettate dalla società. «Tu non devi pensare a niente. Devi solo farti suggestionare dalle foto», insiste Antonio, trasformando le pareti bianche della stanza in una pagina di rivista. Da spettacolo, il corpo-bestia deve farsi ora spettatore: non più partecipe del mistero arcaico della natura, ma coinvolto in una comunità di consumatori di fantasmi, organo percettivo dell’irreale (cfr. Mario Pezzella, Il volto di Marilyn. L’esperienza del mito nella modernità, Manifestolibri, Napoli 1999). In quanto matrici atte a produrre una serie di copie, le immagini dei bambini superano però il potere fantasmatico di un abito alla moda: non modulano solo il desiderio, ma anche i processi biologici del corpo, sancendo così la definitiva riduzione di Maria a icona, immagine dotata di quell’aura di unicità assente nell’universo della merce intesa come iterazione ossessiva. A nulla però serve la foto di un bimbo sano sul letto d’ospedale, accanto a qualche rosa rossa. La madre muore poche ore dopo il suo bambino, che Antonio paragona a quello della «fotografia del biberon che tanto ti piaceva»: 54

come la donna, anche noi possiamo “vedere” la creatura solo sulla base di questa descrizione, non più raddoppiata però dalle immagini di cui sopra. Solo ora, per l’ultimo dialogo, il découpage dilata i tempi sui primi piani, quanto basta per dubitare del dolore senza scivolare nel patetico. Sul volto in lacrime dell’uomo si interrompeva la copia distribuita nelle principali città italiane, mentre in Francia, Paese coproduttore, venne imposto un happy-end assurdo quanto consolatorio: il figlio nasce sano, la donna perde la peluria e il marito mette la testa a posto. Ben più male fa il finale previsto da Ferreri. Amorosamente imbalsamati, i corpi della donna e del figlio si offrono a una folla di curiosi paganti, ma non allo spettatore, costretto a guardare dall’alto il teatro ambulante della (sacra) rappresentazione. Volti del feticcio

«Solo l’inorganico è sexy. Solo l’inorganico è filosofico. Solo l’inorganico è essenzialmente musicale .» Mario Perniola Qualche mese prima di La donna scimmia, nel maggio 1963, Ferreri è a Spoleto per le riprese del secondo atto di Controsesso, farsa a tre voci sulle frustrazioni sessuali di una coppia “Cocaina di domenica” e di due rispettabili insegnanti “Il professore” e “Una donna d’affari”. Scritto assieme ad Azcona e sorretto ancora dalla maschera tragicomica di Ugo Tognazzi, “Il professore” nasce in realtà come prima parte di una trilogia «su temi analoghi» (Ferreri) abortita dopo le disavventure distributive di La donna scimmia: Carlo Ponti semplicemente non volle rischiare ulteriori problemi con la censura. Restano dunque trenta minuti costruiti su un personaggio che, ha detto l’autore, «mi fa paura e mi dà angoscia: non un pervertito, ma un uomo che non è capace di reagire a certe situazioni e che se ne vergogna» (in «Filmcritica», n. 162, novembre 1965). Pulsione di morte in L’ape regina, il sesso ora appare un microcosmo privato dove l’individuo annega con la sua solitudine e i suoi tabù, oppresso da una società di provincia asfittica e castratrice. Forte della sua bacchetta, un professore di italiano non fatica a tenere la disciplina nella classe femminile del suo istituto magistrale. Una volta uscite le alunne, egli passa tra i banchi per 55

raccogliere oggetti smarriti, tra cui un rossetto e una collana. Il tempo libero lo trascorre con la nonna e con l’anziana governante: dopo aver acquistato una comoda, mentre aspetta in un bar, osserva con imbarazzo una donna che allatta al seno, prima di recarsi nuovamente dall’antiquario per comprare un vaso di terracotta. Onde evitare ogni frode, durante il compito in classe impone alle allieve di utilizzare, per i bisogni corporali, la sua comoda, posta all’interno dell’aula, accanto alla cattedra. Il rumore compiuto dall’alunna Zanetti provocherà le risate della classe e un pianto liberatorio del professore, rifugiatosi, dopo un brevissimo faccia a faccia con la ragazza, sotto il getto d’acqua di una fontana.

Come ha osservato Adriano Aprà, “Il professore” anticipa la ricerca di quella rarefazione narrativa che Ferreri perfezionerà nei lungometraggi successivi, a partire da Break-up e Dillinger è morto: il tempo si converte in durata e l’intreccio si risolve nell’osservazione dell’itinerario del desiderio del singolo, vittima di una pulsione che lo condanna a un’inesorabile esclusione (cfr. “Il professore”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit.). Gli occhiali spessi, la giacca abbottonata, il gradino della cattedra, la retina sui capelli sono solo alcune delle barriere che l’uomo ha posto tra sé e il mondo contaminato della donna, definita, durante l’attesa al bar, «uno strano animale, una vita completamente dominata dal sesso». Dominata, però, da una gabbia di norme morali è anche la squallida vita del professore senza nome, annullato nella maschera dell’istituzione dove più facile è reprimere il desiderio morboso per la gioventù che sboccia davanti a lui. Ai corpi in fiore delle alunne, che con mosse innocenti (portarsi un dito sulle labbra) accendono le fantasie dell’uomo, si oppongono le carni avvizzite delle due anziane “mamme”, intente, prima di litigare come bambine, in un massaggio ai piedi che duplica il gesto “autoerotico” su cui si apre il racconto. Assieme all’udito, su cui è costruita la perversione scatologica della toilette, il tatto è l’unico senso che permette una comunicazione con il mondo esterno, limitato alla passeggiata con la nonna o a una chiacchierata al caffè del centro. Quanto alla vista, il seno nudo della giovane madre nel bar scardina la monotonia dei campi medi con una soggettiva che significa anche messa a nudo del desiderio (fot. 20): il professore si leva gli occhiali, prima di sublimare la pulsione edipica nel gelato, succhiato con la stessa voracità con cui il poppante stringe il seno. FOT. 20 Non c’è erotismo senza regressione, così come non esi56

ste ingestione senza espulsione. A riempire il vuoto dell’oralità interviene infatti la parola (il consueto “parlare mangiando”), cui è affidato il racconto della visione di un allattamento ben più scandaloso, quello compiuto da una vergine nei confronti di un bimbo non suo. La sensualità sfiora i territori del sacro, cui rinviano anche i numerosi crocifissi nonché la processione di suore intraviste dalla finestra. Allo stesso modo, vicinati inattesi quali il cibo e la defecazione si incontrano di nuovo, durante lo shopping dall’antiquario, impegnato a colmare la sua solitudine con un abbuffata di pasta: mentre l’uomo cerca il vaso ideale per suoi scopi, la nonna si affretta a comprare una pentola per lo spezzatino. Riempita di oggetti demistificati dall’anziana donna, che definisce robaccia lo stile Impero tanto caro al nipote, la bottega dell’antiquario riassume la paura del vuoto che governa la costruzione dello spazio diegetico. Ai luoghi pieni come il caffè, brulicante di corpi, si alternano però spazi che sono erogeni solo una volta svuotati, come l’aula, involucro di quell’involucro segreto che è lo sgabuzzino (pensiamo alla scatola a righe che contiene le pulsioni dell’androgino di Un chien andalou [Id., 1929, di Buñuel]). Gli oggetti ivi racchiusi, dalle scarpe alle collanine, riassumono la doppiezza freudiana del feticismo, dove il feticcio «è nello stesso tempo la presenza di quel nulla che è il pene materno e il segno della sua assenza; simbolo di qualcosa, esso può mantenersi solo a patto di una lacerazione essenziale» (Giorgio Agamben, Stanze, Einaudi, Torino, 1977). Una frattura dell’Io non molto diversa da quella subita dai corpi proiettati su icone quali King Kong (Ciao maschio) o Greta Garbo (Il futuro è donna), annientati in uno scambio simbolico che sa di morte: sul valore feticistico della merce ritorneremo in seguito. La lettura freudiana del comportamento del professore è avvalorata dal disprezzo dimostrato nei confronti delle alunne, che ricambiano con la risata di scherno del finale. L’emarginazione è una questione di posizione nello spazio: sia nella classe che a casa (fot. 21), il professore resta decentrato ai bordi del quadro, schiacciato da oggetti rettangolari quali la carta geografica, la lavagna, i quadri di fotografie, una serie di linee rette ideali per ordinare il caos; in questo senso si leggono le allusioni alla cultura fascista, evidenti nel saluto romano all’uscita dalla scuola e nelle marcette di Teo Usuelli. Più che mai narrativa, la musica aiuta a decifrare la personalità del per- FOT. 21 57

sonaggio offrendosi come leitmotiv della pulsione erotica, in una sorta di soggettiva sonora irreale. Il brano che accompagna la perlustrazione dei banchi ritorna nel finale a offuscare il tanto atteso feticcio sonoro dell’alunna Zanetti: nel volto sudato e teso dell’uomo, curvo sulla cattedra come su di un seno materno, si legge solo l’immagine di quel rumore proibito, forse immaginato. E ciò basta. Non sono i corpi a incutere timore, ma i loro simulacri, prodotti dalla fantasia malata del voyeur “auditivo”. Abitare gli spazi significa poi confrontarsi con la durata, diluita in una serie di gesti vuoti, iniziati e poi sospesi a proprio piacimento, come a voler impadronirsi di quel tempo che la scuola impone per legge di riempire: il bicchiere di Marsala, versato in sala e sorseggiato nello studio, e la canzonetta alla radio stratificano il tempo della regressione prima del rito della correzione dei compiti, dove il soggetto recupera, con una lentezza esasperata, la centralità nello spazio prima perduta (fot. 22). Anche la prova della comoda ha le sembianze di un rituale, musicato dalla canzonetta fascista e condito dal consueto goccio di liquore assunto senza togliere la calza femminile dal viso: l’ennesima cerimonia in onore di un corpo vivo solo nello zoom finale, quando la cinepresa si incolla al volto della FOT. 22 Zanetti sublimando un bacio proibito. Perfetti invece, per vincere la solitudine, sono i corpi di plastica che galleggiano in “La famiglia felice”, quarto capitolo di quel polittico sulla vita coniugale che è Marcia nuziale, girato tra Roma, New York e Giannutri nell’inverno del 1965. La critica è concorde nel rilevare l’indebolimento del mordente nella satira e la «misura angusta e inerte del paradosso» (Adelio Ferrero, «Mondo nuovo», 6 marzo 1966), senza alcun timore di etichettare l’opera come una «marcia indietro» nell’evoluzione di un percorso (Maurizio Grande, Marco Ferreri, cit.). Di recente Giovanni Spagnoletti ha cercato di indagare le ragioni di questa delusione, rintracciando tra i limiti di un racconto «ermafrodito» la deriva manieristica del “gioco” di Tognazzi, il cui talento mimetico metterebbe a nudo la fragilità delle convenzioni della commedia di costume (cfr. “Marcia Nuziale”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit.). Non ci interessa qui allungare il dibattito, quanto decodificare i meccanismi della presunta schizofrenia stilistica dell’opera, divisa tra le concessioni agli stereotipi del genere e la messa a punto di una poetica d’autore. 58

Nel primo episodio, “Prime nozze”, due coppie si preparano a fare accoppiare i rispettivi cagnolini, Camilla e Lutero, dotati di illustri pedigree. Come si conviene al perbenismo, l’unione deve essere sancita dal matrimonio di fronte al notaio e celebrata nell’ambulatorio del veterinario. “Dovere coniugale” descrive invece la routine serale di una famiglia qualunque: il bambino capriccioso da mettere a letto, il padre che soffre di difficoltà digestive, la madre ossessionata dall’igiene, intenta a lavare la biancheria e pronta a rifiutare le avance del marito finché questo non si sia cambiato la canottiera e lavato i piedi. Stanco di insistere, il marito passeggia per la casa parlando da solo, fino a che, rievocando amori di gioventù, crolla e si addormenta. Frank e Nancy, coppia di “Igiene coniugale” (ambientato a New York), organizzano invece in dettaglio il rito del coito, programmato di sabato pomeriggio, quando i bambini sono lontani. Una bottiglia di vino, un disco adatto all’atmosfera, e poi il calcolo della durata: venti minuti in più della settimana scorsa. Un record da raccontare agli amici in una delle abituali discussioni sul sesso, durante la quale Frank subisce il fascino di un’amica disinibita. Nel futuro di “La famiglia felice”, invece, i problemi di coppia sono risolti sostituendo il partner con una bambola gonfiabile, in grado di rispondere a tutte le esigenze affettive e sessuali. Peccato però che il progresso causi un calo del desiderio nei confronti dei vecchi modelli…

La carne al fuoco è molta, forse troppa in quello che oggi resta un interessante documento d’epoca, perfettamente inserito nel suo tempo: se il secondo episodio riprende forse in chiave ancora più disperata il tema del matrimonio come mortificazione del desiderio, “La famiglia felice” anticipa le riflessioni di Baudrillard sull’ozio come luogo della reificazione del corpo, che nella bambola gonfiabile inventa una sessualità privata di ogni valore di scambio (cfr. La società dei consumi, cit.). Ma andiamo con ordine. I corpi profumati e ordinatissimi delle coppie di “Prime nozze” si muovono con la stessa lentezza, la stessa studiata perfezione dei discreti borghesi di Buñuel: il salotto si offre come palcoscenico del rito a una cinepresa ugualmente frenata nei movimenti, pudica nel non voler mostrarci la congiunzione carnale tra i due bassotti. Un atto purificato da ogni bestialità, in uno scenario così moderno da apparire fantascientifico: ricondurre l’animale nella gabbia dell’istituzione è l’unico modo per recuperare la propria bestialità perduta, in una sorta di vendetta: se l’uomo non può più essere un animale, l’animale deve essere un uomo. Nemmeno il cavallo bianco dietro la porta, a differenza degli struzzi (Il fantasma della libertà [Le fantôme de la liberté, 1974]) o degli orsi (L’angelo sterminatore [El angel exterminador, 1962]), può sconvolgere un ordine logico dove nulla, a differenza di quanto accade in Buñuel, è interrotto: anziché entrare nel salotto, si lascia ammaestrare dall’assistente del veterinario. 59

I fantasmi sono ormai addomesticati. Non dimentichiamo che questi volti nascono, come per gemmazione, dalla superficie imbalsamata delle fotografie su cui scorrono i titoli di testa, immagini di gente comune ripresa durante la celebrazione di un rito: gruppi di famiglia attorno agli sposi, nonne con i bambini dopo il battesimo, ma anche lunghe processioni dietro un carro funebre funerale e lapidi cosparse di fiori (fot. FOT. 23 23). Accanto, c’è spazio anche per le pulsioni dell’amore (gli innamorati sulla panchina) e del cibo (una bocca affamata su di un piatto di pasta). Il tutto accostato senza un ordine logico, ma quasi per associazioni mentali (il cibo come reazione esorcistica nei confronti della morte, ad esempio). Ante litteram, sono queste un esempio di quel concetto di “immagine essenziale” su cui Ferreri ritornerà ossessivamente nelle sue dichiarazioni, a partire dal 1979, quando si confessa «fotografo per conto degli altri, interessato a un cinema filmato e non scritto» («Cinemasessanta», n. 130, dicembre 1979). Almeno per questa intuizione Marcia nuziale merita di non essere trascurato. Ribadita anche nel titolo, che rinvia al contorno cerimoniale del matrimonio, l’ossessione della ritualità non impedisce di vedere in questi corpi i segni di una temporalità assente in quelli cinetici: la grana sporca, ma soprattutto la scelta del negativo cristallizza queste figure in un hic et nunc che la cinepresa sembra invano voler resuscitare. I lenti carrelli e gli zoom non fanno altro che evidenziare la materia di un dispositivo, la celluloide, che in fondo è il solo luogo dove il fantasma dell’unità famigliare può vivere. Gli accordi d’organo di Teo Usuelli conferiscono una leggera solennità a questi ritratti, cui il taglio di inquadratura, privilegiando i corpi, sottrae ogni contesto geografico mentre il montaggio scivola lento, come a darci la sensazione di sfogliare un album di famiglia; o meglio, l’album della Famiglia. In quanto reliquia, presenza di un’assenza, ogni fotografia rinvia a un mondo che noi siamo invitati a rivestire di una durata, di un prima e di un poi. Le macchie bianche e i buchi di luce che divorano questi volti sembrano però isolarli in un passato sepolto come le macerie dei molti musei ferreriani (la bottega di “Il professore” è solo l’inizio), ed è forse per questo che Valeria (L’ultima donna) vorrà tenere chiuso lo scrigno delle sue foto d’infanzia. Con “Dovere coniugale” Ferreri ritorna a inseguire la durata del quotidiano, 60

pedinando il corpo stanco di un marito nei gesti pesanti della routine famigliare: spegnere la televisione, mettere a letto il figlio, lavarsi, cercare di fare l’amore, alzarsi, prendere in mano il pesce rosso, ritornare a letto. Il dialogo tra i corpi si trasforma lentamente in un monologo, da parte di un maschio rifiutato proprio per la sua animalità (il rutto, i piedi sporchi, i denti impastati, la canottiera da cambiare) e lasciato solo alle sue parole. Parole troppo dirette («Poi ti addormenti sotto») alla quale la donna risponde come la moglie di “L’infedeltà coniugale - Gli adulteri”: «Non sono una cosa, sono una donna». Parlare da solo, in bagno o in cucina, è l’unico modo rimasto all’uomo per riempire il vuoto creato dalla distanza biologica dei sessi; ma le parole restano lì, lontane dalla mente di lei, in uno spazio liminare che sfiora solo quello dei corpi. L’accusa di misoginia non regge: in questi dieci minuti, dove il tempo della storia si fonde con quello del discorso, emerge tutta la disperazione generata dalla coscienza dell’incomunicabilità. Un senso di impotenza che nessun Chiaro di luna, come quello che musica gli ultimi istanti prima del sonno, potrà mai attenuare. Salvare il matrimonio come «stato perfetto dell’uomo e della donna» è invece l’obiettivo degli amici di Frank e Nancy, la coppia cerebrale di “Igiene coniugale” che Ferreri eleva a icona della sessualità come rito: il découpage seziona i singoli gesti relativi alla costruzione dell’atmosfera (il disco, la vestizione, il foulard sulla lampada) per poi eliderci l’atto amoroso, raccontato nella riunione di gruppo. L’evidente programmaticità dell’assunto, giustificato anche dalla stessa struttura dell’intrigo, è riscattata dalla sequenza finale, quando la seduzione dell’amica di Frank è l’occasione per una variazione sul feticismo dell’immagine: solo imitando l’espressione delle proprie foto, dunque annullandosi in un altro da sé fittizio e teatrale, la donna risveglia i sensi dell’uomo, attratto non dalla carne, ma dal suo riflesso. Prima del quarto episodio, la marcia romantica di Usuelli si sfalda in una musica astratta come i disegni animati che sostituiscono le fotografie. Posta in esergo, una frase di Jack Williamson («Ho immaginato in I come tali la fabbricazione di donne e uomini artificiali creati unicamente per il matrimonio») sembra introdurre uno scenario da fantascienza. Ma il dopostoria di “La famiglia felice”, ambientato nel 1999 in una spiaggia isolata e bruciata dal sole, assomiglia tanto al paradiso incantato della mitologia classica: le tuniche dei bagnanti, le acconciature, nonché le colonne semidistrutte di chissà quale tempio si scontrano con i segni del moderno trasportati dalla corrente (il reggiseno, il motoscafo, il gelato, la donna appena uscita dalla fabbrica). La sosti61

tuzione dell’organico con l’inorganico non coinvolge solo la sfera del sesso, ma anche il microcosmo della famiglia, come dimostra il tragicomico ritrovamento di una bambola-bambino abbandonata sugli scogli. Questi corpi non vogliono raggiungere l’estasi senza tempo della sessualità neutra per essere «cose che sentono» (Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1998). L’obiettivo è invece sostituire il vuoto della carne con una carne più perfetta, ma soprattutto muta, sulle cui fibre di gomma le parole possano rimbalzare senza far male. Eros perde il suo valore di scambio e si individualizza in un feticcio che può soddisfare anche altre pulsioni, come l’istinto di morte e il cannibalismo: il gioco erotico (Tognazzi avvinghiato alla sua bambola in mezzo al mare) su cui inizia il racconto si fonda sull’eccitazione generata dal rischio di annegamento. Per inoltrarci nel paradosso di questo futuro felice Ferreri adotta la consueta tecnica del pedinamento, alternando campi lunghissimi che esaltano la barbarie del paesaggio a primissimi piani che accomunano corpi e feticci in un dialogo puramente visivo. Il primo piano di una maschera (fot. 24) è ancora un primo piano? La fissità spenta dello sguardo fa emergere la struttura del significante, svuotato della sua funzione classica di approfondimento psicologico del personaggio. Nessuno specchio dell’anima: la verosimiglianza dei tratti produce quella che Baudrillard chiama una «metafisica del realismo» (La società dei consumi, cit.): nella lucentezza di quei FOT. 24 capelli, nei dettagli di quelle ciglia, nella morbidezza delle labbra il feticcio è talmente perfetto da risultare ancora più falso. Il reale non è che l’inverso del vero. Horror vacui

Torniamo ora indietro di due anni. Nel gennaio del 1964, in un appartamento di Corso Europa a Milano, si effettuano gli ultimi ciak di quello che resta l’opera più maledetta, L’uomo dei palloni. Difficile ricostruire la via crucis di un film nato con una certa durata e con un certo titolo, poi censurato di alcune sequenze “sconvenienti”, quindi amputato dal produttore all’insaputa dell’autore e ridotto a un episodio di venticinque minuti, intitolato “L’uomo dei cinque palloni” e inserito in testa al film collettivo Oggi, domani, dopodomani (1965). Ma la performance di Mastroianni, che fa il suo esordio nella galleria 62

di volti ferreriani, non bastò a rinverdire il successo di Ieri, oggi, domani (1963, di Vittorio De Sica): Eduardo De Filippo (“L’ora di punta”) e Luciano Salce (“La moglie bionda”) completano un trittico concepito in fretta in vista del Natale e fallito sotto tutti i punti di vista. Preziosa è la ricerca filologica di Adriano Aprà, pubblicata nel volume monografico curato da Stefania Parigi, che elenca sequenza per sequenza le differenze tra l’episodio inserito in Oggi, domani, dopodomani, il film girato da Ferreri nel ’64, ormai perduto, e Break-up. Forgiato integrando il materiale abbandonato del progetto originale con tre nuove sequenze, girate a Roma nel 1967, questo lungometraggio si avvale anche di nuove musiche, ciak diversi, una sequenza a colori, viraggio in rosa, diversa successione delle scene, ridoppiaggio, dialoghi aggiunti ma soprattutto di un nuovo formato di stampa, meno panoramico rispetto all’originale: 1x1:66 invece del 1x1:85. Break-up viene distribuito in Francia nel 1968 mentre in Italia viene presentato alle Giornate del cinema italiano a Venezia nel 1973 con il titolo L’uomo dei palloni, ed è oggi consultabile solo in copia 16mm in bianco e nero. Più che un film, dunque, un ultracorpo, dove si depositano gli strati del tempo: se la scena nella sauna demistifica l’aura di Otto e mezzo (a differenza del film di Fellini del 1963, l’oggetto della discussione non è più Dio, ma un palloncino), la sequenza della discoteca, al pari del titolo, è un chiaro omaggio parodico a Blow-up (1966, di Antonioni), dettato dalla necessità di stare al passo con i tempi e con i gusti di un pubblico che dopo quattro anni non era più lo stesso. Favola crudele sulla frattura tra la ragione e il caos, che scardina la routine protettiva di un industriale prigioniero di una regressione infantile, Break-up costituisce, come allude uno dei significati del titolo inglese (dispersione, collasso, esplosione), un punto di rottura all’interno dell’opera ferreriana: da qui in avanti indugiare sui corpi significherà anche coglierne lo smarrimento rispetto all’ambiente e il lento emergere di un vuoto che non è più solo temporale, ma anche, come suggeriscono numerose inquadrature, spaziale. Quasi in sintonia con Pier Paolo Pasolini, che proprio in questi anni dilata gli spazi vuoti attorno ai corpi negli esterni barbarici (il deserto di Teorema [1968] o il vulcano di Porcile [1969]), Ferreri osserva la tragedia di un uomo incapace di riempire, attraverso il feticcio del palloncino, lo spazio che lo avvolge. Uno spazio non più caotico e quindi vivo, come negli interni madrileni, ma asettico, pieno di buchi che tengono uniti gli oggetti (si pensi al vuoto lasciato tra una mela e l’altra nell’ordine del frigorifero) senza scaldarli, lasciandoli soli nella loro sessualità inorganica. 63

Imprenditore del cioccolato, Mario Fuggetta sperimenta una nuova trovata pubblicitaria per l’imminente Natale: allegare ai dolci un pallocino. Una volta a casa, divide il suo tempo tra la fidanzata Giovanna e questi palloncini, che cerca di gonfiare fino al limite. Ogni volta, però, questi scoppiano, lasciando l’uomo nell’angoscia più assoluta: l’incapacità di calcolare la quantità d’aria necessaria a riempire il pallone equivale a un fallimento morale. Mario scende a trovare il Barba, un amico poeta incapace però di aiutarlo. Né la pompa per biciclette, né l’amico ingegnere sollevano l’angoscia dell’uomo, che grida il suo dramma al pubblico di una sauna senza togliersi i vestiti. Quindi si allontana dal centro di Milano ed entra in una discoteca dalla porta circolare, dove è in corso una sorta di orgia a base di palloncini. Mario li distrugge, viene assalito da quattro ragazze e infine cacciato dal locale come un maniaco sessuale. A poco serve mangiare per dimenticare. Al ritorno a casa, la fidanzata esige e ottiene le attenzioni sessuali del caso, ma poco dopo l’incubo si ripete. Colpevole di aver fatto esplodere l’ultimo pallone, Giovanna viene mandata via. Mario resta solo con il suo san Bernardo, che non si scompone più di tanto quando l’uomo, disperato dopo l’ennesimo fallimento, si getta dal quinto piano: le leccornie sulla tavola non possono aspettare.

«È una storia paradossale, ma anche la realtà spesso lo è». Quando Ferreri rilascia questa dichiarazione a «L’Unità», a montaggio ormai ultimato, sicuramente non aveva letto l’esergo che apre il Buñuel di L’angelo sterminatore, psicodramma dell’assurdo costruito anch’esso attorno all’iterazione di un’ossessione (l’incapacità di uscire da uno spazio aperto): «Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico o incongruente, anche la vita lo è». Racchiusa nella durata di un pomeriggio che garantisce l’unità di tempo e di luogo della tragedia, la vita di Mario Fuggetta è in realtà una lotta contro l’enigma, duello impari di cui fa le spese il corpo. La macchia di sangue sull’auto in sosta è tutto ciò che resta di un corpo all’inizio scisso dalla voce, all’interno di una fabbrica che impone al montaggio il ritmo delle macchine (appena rinnovate in vista del Natale) atte a confezionare i pezzi di cioccolato. Privato della cornice onirica, che in “L’uomo dei cinque palloni” ci mostra Mario distendersi sul letto e poi risvegliarsi a causa delle intemperanze del figlio del portinaio, questo prologo assume i tratti di un incubo a occhi aperti, dove la rigidità dei corpi dialoga con la mobilità ossessiva dei macchinari, di cui sono esaltate proprio le qualità antropomorfe: «Guardi che bellezza, ha i movimenti umani». L’utilizzo aggressivo dello zoom, esaltato dai raccordi sgrammaticati, permette a Ferreri di manipolare questi corpi fissandoli in maschere grottesche su cui si condensa la temporalità “disumana” della produzione, calcolata in 348 pezzi al minuto (fot. 25); Mario farà lo stesso con i suoi palloncini, tesi 64

fino al limite, poi sgonfiati, quindi riempiti d’aria fino all’esplosione. Le aggiunte del 1967 rafforzano la struttura tragica dell’impianto narrativo, costruito seguendo la traiettoria verticale della deriva. La discesa nella bottega dell’antiquario anticipa la caduta finale dalla finestra, fuga da un eros che occupa uno spazio alto, inaccessibile. Per palpeggiare la commessa è necessario salire una scala, mentre l’offerta sessuale della ragazza in discoteca avviene in aria, FOT. 25 sulla pelle morbida dei palloncini. Non a caso “morbida” è l’aggettivo con cui l’industriale dolciario apostrofa la timida impiegata della bottega, quasi fosse una delle sue caramelle: eros è rimasto alla fase dell’oralità, come vedremo meglio tra breve. Dietro “morbido” c’è morbus, malattia: non dimentichiamo che la donna più morbida di questo cinema, la maestra di La grande abbuffata, sarà colei che porterà la morte nella villa. Variazione sul tema della museificazione dell’uomo storico inaugurato da “Il professore” (i resti del passato come àncora contro la dispersione del moderno), la sosta dall’antiquario introduce, non senza un certo didascalismo, la metafora del vuoto come spazio vitale, ambiente acquatico ideale per la regressione: Mario rifiuta i busti antichi e chiede tappeti orientali, simili a quello che orna il salotto di casa, raffigurante un paesaggio composto di acqua, nebbia e terra. Costruite sul precario equilibrio tra lo ying e lo yang, le linee di forza di questi paesaggi cinesi si incarnano invece sullo sfondo del Vuoto, principio generatore del soffio vitale che anima l’universo. Il volto di donna amputato, consigliato dall’antiquario, evoca il concetto di perdita ma non soddisfa l’attrazione dell’uomo per tutto ciò che, in quanto sferico o circolare, rinvia alla rotondità primigenia del grembo materno. E il vuoto fa paura. Se un disco basta a riempire il silenzio nell’intimità della coppia, il ventre della donna necessita di ben altro rispetto al palloncino nascosto sotto il maglione; ma il seme dell’uomo, per ora, altro non è che l’aria dei polmoni, utilizzata anche per ornare, con la parola, il rito della fecondazione («Giovanna a tre mesi… Giovanna a otto mesi…»). Più che a colmare il vuoto, la parola serve all’uomo per strutturare i rapporti di forza nella coppia, dove la donna è ancora oggetto di pulsioni scopiche, corpo da mettere in scena: dalla donna scimmia alla donna-caramella, nulla è cambiato. Imposto come dovere coniugale, ma solo in Break-up (nell’episodio Giovanna è definita amante e 65

non moglie), lo strip-tease evidenzia la forza castratrice del pallone, simulacro di un’erezione grottesca, inadeguata all’immaginario femminile. Duplicato dal motivo circolare disegnato sulla finestra, il pallone occupa il lato destro di un’inquadratura il cui centro è vuoto, con il cane addormentato accovacciato tra i due corpi, immagine di un’animalità erotica spenta, moribonda, sgonfia (fot. 26). FOT. 26 L’approccio orale alla sessualità si manifesta in seguito in una sequenza che non ottenne il visto di censura, conservata solo in parte nell’episodio di Oggi, domani, dopodomani. Dopo aver leccato il latte condensato spalmato sul braccio da Giovanna, Mario trasforma il ventre della compagna in una tela, un «bel praticello», paesaggio ideale per l’ennesimo cerchio, come la margherita che Lafayette poserà sul corpo della sua partner, dopo averla colta in un prato di New York (Ciao Maschio): dal segno al referente, dal simbolo alla cosa, un passaggio linguistico che non cambia il destino dell’incomunicabilità. Divorando lo zucchero, correlativo oggettivo di un seme innocuo, non fertile, Mario completa la sua castrazione e sublima quella pulsione cannibalica che solo il suo erede moderno, il Paolo di La carne, riuscirà a sfogare. Al pari di altri maschi ferreriani, l’inquieto industriale si muove molto nell’appartamento, arredato con porte scorrevoli e tappeti che ammortizzano l’attrito dei corpi, suggerendo quella sensazione di fluidità amniotica di cui sopra. Perfetta in questo senso è la scelta del nylon come rivestimento dei tessuti in camera, surrogato di quell’animalità perduta («Senti che morbido, sembra pelo») e quindi luogo ideale per l’accoppiamento (sotto il letto). La struttura a sketch dei primi lavori, con quelle scene dilatate fino allo spegnimento dell’azione, mostra le prime crepe, grazie a un lavoro di depurazione compiuto dal montaggio sulla materia drammatica: l’iterazione della frustrazione dovuta allo scoppio del pallone, impedimento alla soddisfazione del desiderio, si estende anche al ritmo delle sequenze, interrotte spesso quando sono ancora “piene”, di corpi, di parole, di azioni: dopo il gioco nella vasca da bagno, Mario fa scoppiare il pallone nel letto e Ferreri lo imprigiona in un fermo-fotogramma dove la postura del corpo e il lavoro della luce rimandano ossessivamente alla figura del cerchio, composto per metà dal corpo e per l’altra metà dall’ombra stagliata sulla spalliera del letto (fot. 27). L’effetto di messa a morte è forte in quanto l’interruzione della temporalità audiovisiva 66

non ha per oggetto un movimento, ma una stasi, conseguenza dello sbigottimento dell’uomo di fronte all’ennesimo break-up. Pur limitata dall’intento parodico, ammiccante alle nudità mondane di Fellini (Giulietta degli spiriti, 1963) ma soprattutto alla nevrosi erotica di Antonioni (La notte, 1962), la sequenza della visita al poeta inaugura la riflessione sulla reificazione del corpo, ridotto dal taglio di inquadratura a puro ornamento decorativo, massa informe incapace di FOT. 27 risvegliare il desiderio dell’altro sesso (fot. 28): la donna addormentata nel letto in primo piano anticipa la Anita Pallenberg di Dillinger è morto, sostituita dal marito con una più mobile copia di celluloide. Anche la discoteca si offre come luogo della neutralizzazione del corpo: le ragazze, che sembrano appena uscite dallo studio del fotografo di Blow-up, confondono le loro forme con quelle dei palloni di plastica, feticci che Mario deve distruggere per poter ritrovare la sua identità erotica, inevitabilmente compromessa dalla regressione. Nel penetrare l’entrata vaginale del locale, guidato da una ragazzina che pare assolvere un compito ordito dall’alto (una sorta di traghettatrice per gli inferi, in quanto non varca la soglia), l’uomo perde la propria fisicità trasfor- FOT. 28 mandosi, per qualche secondo, in una silhouette (fot. 29), immagine di un corpo ormai svuotato d’aria e di seme. L’organizzazione luministica dello spazio, privilegiando l’astrazione, trasforma questa inquadratura nell’immagine di un occhio, a confermare come la sessualità di questi (ultimi) maschi sia in realtà l’attestazione di un’impotenza sublimata nell’atto del guardare, unica condizione per la salvaguardia di un corpo in distruzione: dallo strip-tease di Giovanna a quello di Aike (L’udienza) il vuoto è innanzitutto un intervallo, quel nulla tra i corpi che separa il vedente dal suo fantasma. Figura di un desiderio represso, lo sguardo non fa che rafforzare la cogniFOT. 29 zione del dolore creato dalla separazione. 67

Anche il cibo, del resto, è uno spettacolo, come attesta la sosta in una drogheria dove il troppo pieno di corpi e alimenti ci riporta per un attimo negli interni asfissianti di Madrid. Il cammeo di Ferreri, che nell’episodio pronuncia addirittura una battuta commentando la cacciagione offerta dal droghiere, pare funzionale all’attenuazione della tensione, destinata a salire nella sequenza finale. Le maglie del racconto sembrano dunque obbedire alla conformazione dei palloncini: tese e rilasciate in un ritmo binario costante anche nell’organizzazione dei rapporti tra il corpo e lo spazio, che alterna primi piani e mezze figure inquadrate dal basso verso l’alto (nella sauna, nella drogheria, per strada, luogo della dispersione del sé) a campi medi e figure intere (nell’appartamento, rassicurante ventre materno). Questo è anche il respiro del montaggio nella messa in scena del suicidio (alternanza primo piano-figura intera), cui il ralenti garantisce una magniloquenza tragica prontamente raffreddata dall’indifferenza del cane, che si affaccia alla finestra incuriosito, e dalla reazione “disumana” del proprietario dell’auto ammaccata dal cadavere, il quale dimostra finalmente di avere un peso. Il buio della notte, accanto al motivo circolare disegnato sulla finestra di fronte, offre il ritorno a una vita uterina più autentica. Non c’è tempo per le lacrime della commessa. Nel negozio d’antiquariato è in corso un’asta, incentrata su quel busto rifiutato da Mario all’inizio del film, ma ora presentato come oggetto del desiderio del suicida. Lo spettacolo continua. Opera aperta

A differenza di Mario, Ferreri ama non solo giocare con la materia delle proprie creazioni, ma anche aprirvi delle fessure, ribaltarne i codici, smontarne i meccanismi e lasciarle così, dissanguate, senza richiuderle. Modello di questo progetto estetico è L’harem, a detta di Ferreri «non un film, ma appunti per un film da fare» in quanto «non mi interessa più chiudere un film. I film sono per me come ritagli di giornale che si mettono da parte» (in «Cinema e Film» n. 4, autunno 1967). Terminato in soli due mesi tra Roma e Dubrovnik, L’harem è una delle opere più commentate dall’autore, forse timoroso che la critica non arrivasse a leggere il lavoro di decostruzione stilistica nascosto dietro il sipario della commedia rosa: «Non seguivo una continuità in crescendo dei personaggi; rientravo nella storia solo ogni tanto, con improvvisi primi piani di Margherita» (ibid.). Non la storia interessa dunque, ma la struttura di un racconto che ruota attorno al personaggio di Margherita, icona della condizione femminile ambigua, 68

divisa tra il riconoscimento socio-professionale (il lavoro di architetto) e la sottomissione a rapporti di forza primitivi all’interno del rapporto di coppia. Perfetta è la scelta di Carroll Baker, ex baby-doll trasformata nella maschera mediterranea della matrona di un harem al rovescio, dove oggetti sessuali non sono tanto quattro corpi ma quattro volti del desiderio, ognuno in grado di incarnare un frammento del maschio ideale: la sensibilità femminile (l’omosessuale René), la pulsione scopica (il fotografo Mike), il freno edipico (Gaetano, uomo di legge) e l’animalità del potere (l’industriale Gianni). Architetto di successo, Margherita è insoddisfatta della sua vita sentimentale. Rifiuta la proposta di matrimonio di Gianni, rozzo imprenditore desideroso di un figlio, per poi concedersi alle voglie di Gaetano, avvocato invischiato in un rapporto ambiguo con la madre. Costui è cosciente però della passione che la donna nutre per Mike, avventuriero con la passione per i ghepardi. L’amico René, omosessuale, si offre di accompagnarla in Iugoslavia, per una vacanza di quindici giorni. Nella villa di Dubrovnik Margherita si finge malata ed è presto raggiunta dai tre spasimanti, cui si concede a turno. Il tempo passa lento. Come diversivo i tre inventano il gioco dell’harem, ponendosi ai servigi della loro padrona. Gaetano insiste per avere un figlio, mentre Margherita chiede una sessualità libera: è in difficoltà quando il piccolo ghepardo mangia le pillole anticoncezionali gettate al vento dall’uomo. Presto l’atmosfera si fa tesa: gli uomini accettano sempre più a fatica le regole del gioco, fino a coalizzarsi contro la sultana e rovesciare i rapporti di forza. Margherita decide di partire, ma le viene impedito. La donna è costretta a uno spogliarello privato e obbligata a partecipare al gioco della torre in compagnia di Mister X, un fantoccio eletto dai tre a principe azzurro. Piangere non servirà: la vita di Margherita finisce con un salto dalla scogliera.

Amputati, in fase di montaggio, dei loro vissuti privati e professionali (l’ambiente di lavoro di Margherita solo abbozzato, così come i rapporti di Gaetano con la madre), i personaggi appaiono schegge impazzite di un microcosmo narrativo esploso, fluttuanti nelle inquadrature come stelle di Schifano nella galassia su cui scorrono i titoli di testa, dove il colore è già, come lo stesso Ferreri ha ammesso, «clinico, senza sangue». E così quel sipario che ci svela il volto di Margherita, nella prima sequenza, rinvia nel suo rosso acceso ai codici del Technicolor, unico referente reale di un mondo che già Cremonini lesse come «versione visualizzata dell’ideologia dominante, di una falsa coscienza della realtà che si presenta come resto, reperto di una società pretestuosamente atomizzata» (Marco Ferreri e le favole della morte, cit.). Non c’è discorso amoroso senza messa in scena: si pensi al cliché del 69

paesaggio innevato su cui Gaetano costruisce la sua seduzione, come se l’immagine (la poltrona girata vero la finestra, la cenetta romantica) potesse sostituire un dialogo ormai spento, composto di slogan neofemministi del tipo «La donna resta sempre l’essere più debole e più disarmato, noi dobbiamo aiutarla a infrangere barriere di secoli» e così via. Parole, queste, che scivolano sull’immagine senza riflettervisi, slegate da un montaggio che alterna campi vuoti a interni connotati di un simbolismo didascalico, con la donna rifugiata-imprigionata dietro la gabbia della scala a chiocciola (fot. 30). Allo stesso modo il fotografo Mike, che di immagini vive, indossa la maschera dell’avventuriero, con tanto di ghepardo e benda nera sull’occhio, sapendo di incarnare quella data fantasia erotica della donna. Una donna che, prima di possedere, egli vuole riprodurre, fotografare in una serie di scatti che trasformino il suo corpo in icona, come attesta la citazione interna di Orson Welles: «Fatti vedere! La signora di Shanghai...». Da lolita a femme fatale, Margherita sembra incapace di abitare il suo corpo, castrato non tanto dai condizionamenti sociali, quanto dall’ingombrante confronto con l’immaginario erotico dei mass media. Non siamo distanti dalla protesta pasoliniana contro l’omologazione ordita dalla società borghese, creatrice di canoni di bellezza falsi e posticci (non a caso i gerarchi di FOT. 30 Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) rifiutano la ragazzina il cui sorriso, privo di un dente, non corrisponde a tali modelli): se Pasolini insegue nel terzo mondo l’innocenza del diverso (La trilogia della vita), Ferreri non esita a mostrarci corpi stratificati, immagini di altre immagini, simulacri smaterializzati ma proprio per questo tali da accendere un desiderio che vive solo nel suo darsi come vuoto, mancanza, figura dell’assenza: si vedano le gigantografie dei tre uomini sulle pareti della camera da letto. Senza essere mosso da questo desiderio, l’omosessuale René, eletto eunuco dell’harem, si circonda comunque di un mondo immaginario, privilegiando tinte “false” nell’arredamento del suo appartamento: il budino rosa, il succo di pomodoro rosso, ma soprattutto quella vestaglia blu che rimanda, nella scena della cucina, ai tableaux pop di Godard, costruiti sui quattro colori fondamentali, rosso, giallo e blu. «Amo i colori», confessa l’uomo all’amica Margherita. 70

Pur alternando momenti forti (lo svelamento dell’inganno della malattia) ad altri in cui il racconto sembra sospeso (gli intermezzi folkloristici della passeggiata in centro), L’harem privilegia il vuoto spaziale a quello temporale, come attestano le inquadrature decentrate nella prima sequenza, con i corpi emarginati sul lato destro e frammentati da una scenogra- FOT. 31 fia organizzata in una serie di quadri nel quadro (fot. 31). Al contrario, le giunture del montaggio sono scoperte e offerte come tali all’orecchio, che avverte il cut proprio grazie all’assenza di intervallo tra la battuta pronunciata alla fine di una sequenza e quella che inaugura la scena successiva, letteralmente incollata: il vuoto si dà allora come resto, risultante della manipolazione trasparente della materia drammatica. La prima apparizione di Gaetano è costruita proprio sull’amputazione del dialogo con un personaggio che resterà misterioso: «…tre chilometri nella neve, cretino!». Al pari di René con le foto dei tre amanti, Ferreri si diverte a tagliare e incollare segmenti di più film possibili in una sorta di work in progress. In questo caso la forza centrifuga del racconto investe non solo lo spazio, ma anche il tempo: qual è il passato di Gaetano? Che cosa è successo prima dell’arrivo allo chalet? Tra un luogo e l’altro mancano spesso i piani di ambientamento, a conferma dell’attrazione per la scenografia come spazio mentale, visualizzazione delle coordinate dell’inconscio del personaggio. Talvolta il salto è brusco, come il passaggio, senza alcuna contiguità di contenuto, dalla camera da letto di Margherita alla discoteca (fot. 32), dove il cammeo di Ugo Tognazzi, nel ruolo di se stesso, conferma il gusto FOT. 32 71

per l’autoreferenzialità nell’aprire il tessuto della finzione. Più spesso è il volto di Margherita a unire i frammenti delle scene, passando da un ambiente all’altro come un raggio di luce, proiezione fantasmatica di un mito del cinema. Quando i tre la obbligheranno a uno strip-tease sul letto, il suo corpo resterà ingabbiato nella cornice del quadro appeso alla parete: solo l’ombra che si staglia sul lato destro ne attesta la fisicità. Esemplare è il primo piano che suggella, sotto forma di sineddoche, lo slancio di Mike di fronte all’ennesimo rifiuto della donna, il cui sguardo si rivolge alla cinepresa come se fosse una macchina fotografica, pronta a immortalarne la carica erotica. Divertente, in questo senso, è la mise en abîme dannunziana nascosta nella lettura a due (Gaetano e Margherita) del Trionfo della morte, ridotto ad adiuvante dell’eccitazione al lume di una candela annullata dalla luce diffusa nella stanza: «Ella appariva in quel modo, magnifica nella sua aria voluttuosa». Se questi si comportano come due personaggi letterari, il Gastone Moschin (Gianni) assediato dai piccioni nella piazza attinge dal suo immaginario culturale qualcosa di molto più “basso”: «È peggio di Hitchcock qui!». Il tutto è raccontato a Margherita non come un’avventura bizzarra, ma proprio come uno «spettacolo». Uno show un pò diverso da quello proposto da Mike per rompere la noia di una serata a quattro, condita da diapositive cochon che escludono la presenza di Margherita in quanto corpo dotato finalmente di un peso («Levati, non sei mica trasparente!») e quindi incapace di competere con le ombre, anche e soprattutto con le sue (la farfalla ripresa in primo piano sulla schiena nuda, assimilata a un paesaggio desertico). Siamo di fronte a uno dei momenti chiave della riflessione ferreriana sulle dinamiche di scambio tra immagine e corpo, un corpo che completa la sua corruzione facendosi schermo, superficie bidimensionale atta a ospitare l’unico accoppiamento possibile: quello tra il reale e il virtuale. Incapace di possedere la carne di Margherita, da cui vorrebbe un figlio, Gianni sublima il desiderio accogliendo il simulacro dell’eros (una donna nuda in una posa ben codificata) sul proprio ventre, che, agitandosi, sembra dare vita all’immagine riflessa (fot. 33). Un’immagine che da eikon (Platone) FOT. 33 è diventata eidolon, feticcio autono72

mo privo del proprio referente e destinato a una relazione col vedente più complessa, dove allo sguardo si sostituisce il tatto: oltre a guardare il nudo in diapositiva, Gianni lo tocca, avvertendo il calore della luce del proiettore sulla pelle, mentre gli amici completano l’animazione audiovisiva intonando una canzonetta sul tema. Il corpo dell’uomo è liscio e levigato come uno specchio, in quanto su di esso non rimane nessuna traccia della donna, nessuna ferita, nessuna macchia: sotto le carezze si nasconde solo il vuoto. Non stupisce allora che il vuoto sia il destino riservato alla capricciosa sultana, gettata dalla rupe in solitudine, senza la compagnia di Mister X, feticcio di un maschio ideale in quanto ammasso di stracci, svuotato di carne e di sangue. Sentimento del tempo

«Finché sono vivo posso sfuggire a ciò che sono per l’altro facendomi rivelare che non sono nulla e che mi faccio essere ciò che sono.» Jean-Paul Sartre Sfuggire a ciò che si è, questo è il sogno del protagonista di Dillinger è morto, manifesto della stagione nichilista che sta per cominciare. Il vento del Sessantotto non porta Ferreri nelle fabbriche, dove invece si tuffa Godard (Lotte in Italia e Vento dell’est [Vent d’est], 1970), allora faro per l’intellighenzia del cinema italiano: «Io non sono per dare le macchine da presa agli operai. – Ha detto Ferreri – Io sono per la discussione, per cercare un linguaggio» (in Maurizio Grande, Marco Ferreri, cit.). Prigioniero dei meccanismi del mercato, il cinema non serve a nulla perché è un’arte borghese e dunque una protesta borghese. Senza la rabbia di Bellocchio (I pugni in tasca, 1965) e lontano sia dall’intellettualismo barocco di Bertolucci (Partner, 1968) sia dal misticismo di Pasolini (Teorema), Ferreri respira gli umori della contestazione con la leggerezza del buffone, ben sapendo di appartenere a quella élite di “vitelloni della cultura” che non raggiungerà mai il popolo, in quanto priva di un linguaggio comune a coloro che possono fare la rivoluzione. Il linguaggio, dunque. La depurazione drammaturgica iniziata con la rarefazione simbolica del profilmico in Break-up e proseguita con L’harem, traliccio scoperto composto di pieni e di vuoti, raggiunge in Dillinger è morto il punto di non ritorno. Dopo essere stato diluito in un pomeriggio bucato (Break-up), il fantasma della durata si materializza ora nella notte illuminata di un uomo predicato in negativo (senza nome, senza voce), maschera opaca di quell’alienazione che 73

affligge come un male incurabile la società dei consumi. Al racconto subentra l’osservazione, alla compressione la dilatazione, all’azione un’attesa senza oggetto. Icona dell’apatia borghese, Michel Piccoli inaugura il lungo sodalizio con Marco Ferreri, consegnandogli un corpo svuotato, dalla mimica implosa, marionetta pensante presente in ogni inquadratura a tal punto da apparire invisibile. Michel (Piccoli), personaggio senza nome, è un ingegnere che progetta maschere antigas. Dopo aver osservato la sua maschera in funzione nel laboratorio, in compagnia di un collega che si diletta in sociologia citando Marcuse, Michel torna a casa. Lo aspetta una cenetta preparata dalla moglie, la quale è già a letto, imbottita di sonniferi. Per nulla attratto dal menù, Michel decide di cucinarsi una bistecca secondo il modello del ricettario, senza dimenticare di accendere la televisione e la radio. Cercando un ingrediente per la cena, Michel scopre per caso una vecchia pistola, avvolta in un foglio di giornale dove si racconta la cattura e la morte di John Dillinger, gangster riconosciuto e ucciso dalla polizia davanti a un cinema nonostante indossasse una maschera. Finito di cenare, l’uomo alterna le operazioni di pulizia della pistola, poi colorata di rosso con pallini bianchi, alla visione di alcuni super8 che documentano recenti vacanze con la moglie, fatte di gite in barca e di corride. Quindi seduce la giovane cameriera, cospargendole il corpo di miele, quasi fosse un dessert. Poi, indossando solo un asciugamano arancione, sale dalla moglie e le spara, preoccupandosi di attutire il colpo con alcuni cuscini e con il volume della radio. È l’alba: non resta che fare le valigie e fuggire, tuffandosi dalla grotta di Byron. Una nave è pronta per accogliere il naufrago, promosso cuoco nel viaggio verso il sole.

Scritto con Sergio Bazzini in una settimana e girato in un mese all’interno di un appartamento di Piazza in Piscinula (di proprietà di Mario Schifano), Dillinger è morto canta la morte del Mito come via di fuga per quello che Sartre chiamava «essere-per-me», immagine di un io che sente il proprio essere fuori di sé, imprigionato in un’assenza: «Altri mi guarda, e come tale detiene il segreto del mio essere, sa ciò che io sono. Altri è in vantaggio su di me» (L’essere e il nulla [1943] Il Saggiatore, Milano, 1997). Altri, qui, sono gli oggetti, i soprammobili, i beni di consumo che ci guardano ripetendo «sempre lo stesso discorso, quello della nostra potenza medusata, della nostra abbondanza virtuale, della nostra assenza gli uni agli altri» (Jean Baudrillard, La società dei consumi, cit.). E di questi oggetti Ferreri circonda il corpo del sue eroe, invitato dal collega, durante il prologo nel laboratorio della fabbrica, all’unica attività che gli permette di comunicare con il mondo esterno: guardare («Guarda, la tua maschera in funzione!»). Oggetto dello sguardo, mediato da 74

un vetro che rimanda alla cornice della visione cinematografica, è una di quelle maschere antigas che risulteranno indispensabili nell’apocalisse di Il seme dell’uomo: per ora la catastrofe è solo simulata, messa in scena, riprodotta. Cos’è la fabbrica se non un luogo di riproduzione in serie? Il registro della metafora è evocato con un effetto di mise en abîme nel monologo del collega, ricco di rimandi a quell’Uomo a una dimensione (Marcuse) appena arrivato in Italia: «L’isolamento in una camera riempita di un’atmosfera mortale ricorda molto le condizioni di vita dell’uomo contemporaneo. […] Non si può riflettere sulle caratteristiche di questo mitico uomo a una dimensione senza analizzare tutte le caratteristiche della società industriale». A queste parole, risultato di una lettura e quindi anch’esse figura di duplicazione, Michel reagisce abbassando lo sguardo in quella postura “occlusa” che manterrà per tutto il racconto, offrendosi come mimo ideale per rappresentare l’Isolamento, riflesso immobile di un moto invisibile: la voce esce da una bocca semichiusa, mentre i gesti sono ridotti al minimo, al contrario di quanto offrirà la mimica compulsiva di Gérard Depardieu. Non a caso, tra le immagini presenti nello studio del collega, lo sguardo di Michel è attratto da quella più autoriflessiva, dove due occhi sbarrati sotto un elmo reclamizzano uno strumento bellico atto a individuare il nemico a distanza. Ma l’immagine fissa non basta di fronte a un corpo alienato, costretto a trasferire l’esterno all’interno: ecco allora che con la mano Michel anima l’immagine di un mitra sino a simulare quell’esperienza di audiovisione a cui consacrerà una buona parte della notte. Allo stesso modo i volti parlanti delle ragazze intervistate in Tv lo distrarranno dal libro di cucina che occupa l’inquadratura con la “copia originale” del piatto da imitare; il tema del falso riempie anche il dialogo televisivo, incentrato sulla diffusione del rossetto tra le adolescenti. A differenza del cibo e della colt, la televisione si nega come luogo della dilatazione del tempo, imponendosi invece come sommatoria di frammenti casuali, non ordinati verso un fine (come mangiare o uccidere). La notte è visibile solo nel tragitto in auto durante i titoli di testa, dove Roma acquista il volto elettrico di una metropoli qualunque, prima del rientro in un appartamento scelto come primo atto della fuga. Un divano bianco, una lampada viola, alcuni quadri astratti sulle pareti gialle come il crème-caramel servito sul tavolo nero: la sala da pranzo-cinema offre quell’alternanza di toni caldi e freddi che costituisce, secondo Baudrillard, l’unico imperativo del colore funzionale nelle strutture d’ambiente (cfr. Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972). La camicia bianca dell’ingegnere dialoga, come in un gioco di assonanze 75

e rime, con il separé piegato sulla destra, il cui colore è del resto raddoppiato dalla tenda invisibile sulla parete di fondo, anch’essa bianca (fot. 34). Allo stesso modo la decorazione bianca sulla pistola raddoppia il motivo stampato sul grembiule da cucina, trasformando il corpo di Michel in un’appendice degli oggetti, senza che nessuna illuminazione o taglio di inquadratura ristabilisca le gerarchie: i primissimi piani dell’uomo non superano in quantità i particolari degli oggetti (la FOT. 34 pistola, la maschera, il bicchiere di vino, etc…). Pur inseguendo la continuità nel pedinare gli spostamenti del corpo, Ferreri alterna due punti di vista simmetrici all’interno della stanza, in modo tale da spezzare col montaggio la linea d’aria che unisce le due finestre: quella chiusa, accanto allo schermo mobile, e quella aperta, (unico varco per comunicare con l’esterno (la cameriera). La leggera angolazione della cinepresa verso l’alto suggerisce la presenza di uno spazio claustrofobico, carnivoro, come attesta anche il riflesso del corpo sullo specchio nero del tavolo (fot. 35). Si aggiunga l’assenza di rumori, suoni e voci fuori campo, un vuoto sonoro che cristallizza il silenzio come una seconda parete, assimilando questo interno alla camera a gas detta e mostrata nel prologo. Nella stanza da letto invece, dove la posizione del corpo nello FOT. 35 spazio ribadisce la perdita del centro come prima fase della reificazione, la voce di Jimmy Fontana (Cielo Rosso) sostituisce un dialogo fatto di frasi spezzate e impersonali, del tipo «Come stai?» o «Vado a mangiare». Provenienti dalla radio posta sul ventre della donna, in stato pre-catatonico, le parole della canzone creano un muro sonoro tra la coppia e risuonano come un ammonimento del destino (il tramonto quale feticcio turistico della fuga), tanto più ineluttabile quanto disattento è l’orecchio del personaggio che ascolta senza riverbalizzare il testo (cfr. Michel Chion, Un art sonore, le cinéma, Editions Cahiers du Cinéma, Paris, 2003). Ma il suono diegetico è utilizzato anche per la costruzione dello spazio, come indica la modulazione del volume della voce di Lucio Dalla durante la ricerca di un ingrediente nella cucina in stile antico (qui il set è la casa di Ugo Tognazzi a Velletri): al pari delle suppellettili, la voce è restituita come un oggetto chiuso e “pesante”, fissa in un punto, indifferente agli spostamenti del corpo. 76

L’attenzione fenomenologica alla preparazione della cena (rito che necessita, come maschera, del grembiule rosso) sottrae al tema del cibo qualsiasi valenza pulsionale, riducendo gli alimenti da valori d’uso a valori di scambio, immagini di altre immagini: di essi non sono detti né mostrati gli odori o i sapori, ma solo i volumi e le linee, al contrario di quanto avverrà nella cucina di La grande abbuffata. La voracità animalesca di El pisito è perduta a favore del piacere dell’ozio, inteso non come godimento del tempo libero, ma come consumazione del tempo improduttivo. Tempo che la cinepresa condensa su Michel assecondandone il percorso distratto del desiderio, fissato prima sul cibo, quindi sulla televisione, sulla pistola, sul sesso e infine sulle immagini in super8, surrogato visivo di un corpo, quello della moglie, restio a ogni contatto. Non ci sono porte nella sala, nulla che può ostacolare lo sguardo e indurlo alla fantasticheria. Unica via di fuga è il mito. Al pari di Marilyn, Fausto Coppi (oggetto del documentario trasmesso dalla Tv) o Greta Garbo, il gangster Dillinger riprodotto sul giornale è uno di quei “miti d’oggi” che colmano il vuoto, come evidenzia il paesaggio sonoro extradiegetico che riempie la stanza di spari nel momento in cui Michel scarta il revolver e guarda le fotografie animarsi in una sorta di cinegiornale d’epoca. Ferreri ha scelto un mito che si nutre della fascinazione di un gesto muto, slegato dalla parola, come quello di estrarre la pistola e premere il grilletto. «Se un gangster parla – scrive Roland Barthes – lo fa per immagini, il linguaggio per lui non è che poesia, la parola non ha alcuna funzione demiurgica: parlare è il suo modo di essere ozioso e di rimarcarlo» (Miti di oggi, [1970], Einaudi, Torino, 1982). Muta è anche la conversazione telefonica della cameriera Sabina, di cui ascoltiamo solo un ambiguo «Fatalmente», mentre fuori campo echeggia la voce televisiva (e dunque riprodotta, falsa) di Adriano Aprà, impegnato nella presentazione di un cortometraggio “godardiano” incentrato su di un personaggio femminile. L’immagine scelta dal critico per definire la ricerca dell’autore, La jeune fille aux yeux chercheurs et à la bouche molle, sembra intonarsi perfettamente al primo piano su cui si è fermata la cinepresa (fot. 36). Nella definizione di «cineasta overground» è chiaro l’omaggio ironico al cinema di Mario Schifano, maestro dell’underground italiano e autore dei quadri intravisti nella sala. Ferreri apre i bordi del quadro creando una scissione nell’attenzione FOT. 36 77

nello spettatore, teso a uno sforzo acustico (percepire il dialogo telefonico) e attratto dalle parole della Tv verso un’immagine negata, mostrata solo una volta che Sabina è uscita dalla sala (un uomo e una donna impegnati in una sorta di rito tribale). Sintesi di questo esercizio di stile sono i lunghi secondi di campo vuoto creato dallo spostamento di Sabina, che si isola dietro la porta per non disturbare la tranquillità di Michel. All’underground però Michel preferisce il documento, la registrazione di un passato che appare più vivo del presente. La corrida, che rinvia al documentario Rai di cui sotto, è filmata in una sorta di semisoggettiva dello stesso Michel, costretto ora a fare i conti con il proprio doppio sullo schermo (fot. 37). Eletto a schermo dalla camicia bianca, il corpo del vedente reale si incrosta nell’immagine arrivando laddove il vedente virtuale, seduto sui gradini, non poteva arrivare, ovvero a diretto contatto con il toro: la sovrapposizione con il primo piano del torero sembra garantire l’illusione di penetrare nello spazio del rito, celebrazione di una virilità perduta. Incrostarsi nell’immagine però significa anche rinunciare a quella realtà fisiologica che presto Ferreri esplorerà da vicino e che qui è nascosta nei gesti di Michel: non rutta, non mastica, non defeca. Mangia come un corpo di carta. Guardare, comunque, si annuncia come un’attività tattile, tale da investire anche gli altri sensi oltre a quello della vista, in una sorta di sentimento panico del tempo. Ecco allora l’invito rivolto alla moglie virtuale («Sta FOT. 37 calma!») e il tuffo simulato nel mare azzurro, che assieme al luna-park di Barcellona sintetizza il tempo offerto dalla società dei consumi come libero, proprietà privata da consumare a piacere. In quanto alternativa al tempo alienato del lavoro, la vacanza è dunque un oggetto tra gli altri, inserito nel sistema di produzione\consumazione e astratto nel suo valore di scambio. Riprodurre questo tempo sulle pareti di casa significa consolidarne lo statuto di merce, prodotto finito e quindi manipolabile, come dimostrano gli interventi di Michel sull’immagine (l’allargamento dello schermo) e sul suono (la sostituzione della musica sul giradischi, che rimane acceso anche a proiettore spento). Il processo di fascinazione generato dallo spettacolo assimila i gesti del vedente (intento a rimontare i pezzi della pistola in una scena poi imitata da Scorsese in Taxi Driver, Id., 1972) a quelli, non meno astratti, compiuti dalle mani sullo schermo, impegnate nel ricreare la sagoma di un uomo che avanza con i passi circospetti di un pistolero: quanto basta per indurre Michel a puntare la 78

pistola contro il telo bianco, prima di simulare un suicidio audiovisivo (i lamenti sulla silhouette del volto). «Dillinger è morto – ha detto Sergio Bazzini – è il maschile che cerca di fare a meno del femminile» (negli extra dell’edizione italiana Dvd del film). Se Piccoli, con la sua gestualità leggera, è il prototipo del maschio femminile, la pistola immersa nell’olio come un’insalata e appesa ad asciugare come un indumento decostruisce il mito maschile del gangster sostituendo l’aggressività perduta con un senso di intimità domestica. La colorazione iperrealista trasforma quest’arma in un ready made innocuo quanto il serpente di gomma con cui l’uomo stuzzica le parti intime della moglie, feticcio di un fallo attratto da una sessualità regressiva: l’amplesso con Sabina è condito da cocomero e miele. Quello nascosto sotto il cuscino, forato da tre proiettili di cui Maurizio Grande ha rilevato il disegno circolare (circolarità come scacco: cfr. Marco Ferreri, cit.), è un corpo già morto, frammentato da strumenti di duplicazione quali il cinema (i super8) e il registratore portatile, che ne incamera voce e respiro. La carne si incrosta negli oggetti e resta lì, pronta per essere cancellata e rimossa: il respiro copre le parole dopo un breve rewind del nastro. Sublimata nel gioco cromatico tra il rosso dell’arma e il bianco del cuscino, la morte ha una bellezza pop e come tale non fa rumore né lascia tracce: l’utilizzo della musica per coprire gli spari assimila l’uxoricidio (realtà) a un banale passatempo audiovisivo (finzione). La luce azzurra filtrata dalla finestra annuncia la fine della FOT. 38 notte: anche la partenza appare un rito, con quei gesti lenti a sfiorare gli oggetti e il tema “Keirokeres” suonato dal giradischi. Sul veliero verso Thaiti gli abiti borghesi non servono più, solo la collana aiuta, merce di scambio per comprare la libertà. Il sole rosso che brucia l’inquadratura ricorda da vicino la mezzaluna vaporosa in cui si sciolgono le lancette nell’Ora esatta di Mario Schifano (fot. 38): la fuga non è che l’esecuzione del tempo. Il reale come rito

La seconda metà degli anni Sessanta vede un temporaneo ritorno al documentario, con due opere, prodotte dalla televisione di stato, apparentemente lontane tra di loro per contenuti e finalità. Se Corrida! (1966) si propone di 79

offrire un ritratto storico della tauromachia dalle origini ai giorni nostri, Perché pagare per essere felici!!! (1976), resoconto del raduno rock di Powr Ridge, è un instant-movie, uno sguardo a quel presente hippy dove pulsa il sogno della rivoluzione. Passato e presente hanno in comune il loro darsi come rito collettivo, cartina tornasole dell’evoluzione dei costumi di una determinata società (la Spagna) ma anche riflesso di un malessere generale, dove la musica agisce come paradiso artificiale contro la repressione e l’omologazione dei modelli culturali. Suddiviso in due puntate di cinquanta minuti ciascuna, tra materiali d’archivio e riprese in loco, Corrida! colpì la critica italiana dell’epoca per l’asciuttezza del commento scritto da Luigi Malerba, più attento ai nomi e ai numeri che partecipe dell’orrore nascosto sotto l’eleganza del rito. Non il destino dei tori interessa, bensì quello dei toreri, presentati allo spettatore con un excursus sulle loro origini e quindi seguiti nei combattimenti che li hanno resi celebri. Chiara è la volontà di lasciare parlare le immagini di repertorio, incentrate quasi completamente sul duello nell’arena, come attesta la toreada di Gaona nella prima parte del documentario: al vociare della folla si alternano i rumori dei passi del toreador e degli zoccoli del toro, fino a che un ralenti non ferma la scena sull’attacco mortale a uno dei cavalli dei picadores (fot. 39). Lo humour, inteso come messa in distanza del patetico, è tutto nel commento audio: «La belle époque non vale FOT. 39 per i cavalli». Forte è l’accento posto sulla fascinazione divistica del torero, incarnazione dei sogni di gloria dei giovani spagnoli e fantasia proibita delle dame dell’alta aristocrazia: da Joselito a Juan Belmonte a Manolete, i corpi sono descritti come «demoni che giocano con la morte senza curarsi di lei», e Ferreri ce li mostra in quelle pose ridicole, in mezzo alla folla che si accalca davanti ai cancelli, di chi non può fare a meno di vivere del proprio mito. Un mito costruito essenzialmente sulla postura del corpo, tanto più immortale quanto rigido e statuario, immobile di fronte a un animale che vede solo ciò che si muove: come il tango, la corrida è una danza di orrore e bellezza dove il movimento è sincopato, spezzato, bloccato in una sorta di contemplazione della morte. Ai cerchi concentrici disegnati dai duellanti si intona la struttura circolare del documentario, chiuso sull’ouverture grottesca che introduce la corrida contemporanea, un’orgia di corpi calpestati dai tori all’ingresso dell’arena: «Lo spettacolo sta per comincia80

re». Lo stesso annuncio su cui si concludeva La donna scimmia. L’ossessione per la circolarità ci fa pensare agli Studi per Corrida dipinti in questi anni da Francis Bacon, attratto, oltre che dal vortice del gesto, dal rovesciamento del rapporto tra spettatore e spettacolo: cristallizzato in uno schermo bidimensionale, il pubblico è un semplice elemento d’arredo nel décor concettuale. Al pari di quanto accade nel cinema di finzione, la morte è filmata come sospensione del tempo: l’unica occasione in cui la macchina da presa è riuscita a riprodurre “l’istante fatale” è dilatata, allungata da un fermo-immagine che trasforma la morte in spettacolo, evento da sezionare con gli occhi, secondo per secondo. Negli altri casi, da Belmonte a Manolete, la parola commenta il sommario del montaggio, con tutto ciò che resta del torero: una croce disegnata sulla terra, una bara, un titolo di giornale. Se i versi di Lorca risuonano sulle immagini fisse in occasione della morte di Ignacio Sanchez («Cercava l’alba / ma l’alba non era / cercava il suo bel corpo / e trovò il suo sangue aperto»), la guerra di Spagna è riassunta in poche frasi, asciutte e scarne, composte di numeri e di nomi, mentre l’eco dei fucili si stempera sulle immagini delle corride di quegli anni. Corride questa volta anonime, come i corpi dei caduti. L’arena allora è sineddoche di una violenza tanto più barbara quanto più è evocata, allusa, detta. Non si sentono urla né voci nel teatro della crudeltà. Solo quel rumore di zoccoli, di banderillas mosse dal vento, di corpi sbattuti a terra dalla furia dell’animale, implacabile quanto l’avanzata del franchismo: fucilazione di Garcia Lorca, bombardamento di Guernica, occupazione di Barcellona, morte di Antonio Machado. L’accostamento delle immagini di repertorio con i disegni di Picasso testimonia infine il fascino per la plasticità dei gesti di morte, schizzi confusi e sempre uguali che fanno dell’arena un territorio dello spirito, triste e nostalgico come il volto di Manolete o il suicidio di Belmonte: lo spazio della malinconia. Da un’arena all’altra. Gli stadi canadesi di Powr Ridge, Toronto, Montréal e Winnipeg ospitano cerimonie collettive dove il corpo non cerca più la stasi o il silenzio, ma la furia del trip psichedelico, trascinato da un’orgia di batteria e chitarre distorte. Si rovescia il rapporto tra spettatore e divo: lo spettacolo ora è sui gradini colmi di giovani, sui prati dove si sfoga l’amore, si dorme, si raccolgono i fiori. Appena entrato nello stadio, dopo aver documentato l’assalto degli hippy decisi a non pagare il biglietto, Ferreri osserva da dietro le quinte i virtuosismi di un chitarrista lasciando che la massa dei capelli della vocalist sporchi l’inquadratura, già bucata dalla luce del palco (fot. 40). I tremolii della 81

cinepresa rafforzano la sensazione di partecipare a un happening, dove tutto è instabile e improvvisato, fragile e confuso come la mente annebbiata dall’Lsd. Nel 1970 l’ondata hippy aveva ormai esaurito la sua carica rivoluzionaria, di cui in Italia arriva solo un tiepido riflesso, sbiadito come i colori del film, perduti già nel primo passaggio televisivo in Rai (luglio 1976). Quel che resta della controcultura è immortalato con un linguaggio irrispettoso delle regole del documentario tradizionale FOT. 40 (non per nulla il film è inserito nell’ambito dei “programmi sperimentali”): niente commento fuori campo né interviste, con l’eccezione delle battute iniziali sulla volontà di non pagare per raggiungere quell’ebbrezza che Vito Zagarrio ha riscontrato anche nella leggerezza dei movimenti della cinepresa, anarchica e «felice» come i corpi che documenta (cfr. L’anello mancante, Lindau, Torino, 2004). Interessante è la ricerca di un dialogo tra musica e immagini, come attesta quel gabbiano sul fiume che introduce l’esecuzione fuori campo di Freedom (Joe Cocker a Woodstock). Sulle parole si alternano quadri fin troppo simbolici di “libertà”: il girotondo di una ragazza al tramonto, la danza convulsa di due giovani, un bambino fatto ondeggiare nelle braccia di due ragazze, prima che il totale di un campo di girasoli non interrompa la canzone aprendone un’altra. A differenza di quanto accade nel film-concerto convenzionale, sono le immagini a dettare il ritmo e la durata della musica, che Ferreri tiene quasi in disparte, come un’eco, pronto a sovrapporre agli arpeggi di chitarra il rumore delle auto della polizia. Il crescendo dionisiaco dei tamburi nella seconda parte è in un certo senso amplificato da quel silenzio che accompagna la perquisizione di alcune auto compiuta da due gendarmi, mentre una coppia a cavallo si allontana sullo sfondo. Perché pagare per essere felici!!! è quindi un documento su tutto ciò che è attorno alla musica, retto da uno sguardo centrifugo che poi ispirerà anche la direzione degli attori, se ricordiamo il comandamento imposto alle attrici di Storia di Piera: «Bisogna che nella battuta, nel primo piano si veda anche ciò che sta davanti, ciò che è attorno» (Marco Ferreri, intervista con Vieri Razzini, Rai Tre). I ragazzi che amoreggiano sui prati o i giovani che dormono nel camper, la musica, però, forse nemmeno la ascoltano. Sono filmati come parti per un tutto, corpi muti lasciati vivere sullo schermo non più di dieci secondi e soprattutto, a parte alcuni casi, privi di peso nel tessuto sonoro. 82

L’attenzione è per i rituali, come il bagno nel fiume sotto il cartello che inneggia alla rivoluzione, purificazione catartica che segue il cospargimento con sangue animale: la mattanza come metafora del Vietnam. In fondo Ferreri plasma la realtà come Michel la sua pistola: la smonta, la pulisce, la macchia per poi rimontarla con frammenti eterogenei attinti da altri sguardi (da Woodstock a Winnipeg), inseguendo l’idea di cinema politico inteso come annullamento dell’io dell’autore. Il tutto per arrivare là, a quell’occhio di agnello informe nell’ultima inquadratura. Essere felici significa andare incontro al massacro. Isole

«Ho visto il sole basso / macchiato di orrori mistici illuminare lunghi coaguli viola.» Arthur Rimbaud Se ogni rivoluzione non è che un colpo di dadi, quelli gettati dai vinti di Ferreri si infrangono sul muro di un passato che, pur distrutto, si ripresenta sotto forma di macerie ai margini del mondo. Dove le piazze non riflettono più l’ordine degli interni, dove il rumore del mare copre le grida dei naufraghi. Michel ha indicato la via, la fuga è cominciata. Dillinger è morto celebrava l’alienazione dell’uomo nel gesto manuale: cucinare, disegnare, assemblare. Il seme dell’uomo invece mette in scena la relazione pericolosa tra l’uomo e l’immensamente grande, come la natura, il mare, il silenzio, colti sotto il sole del dopostoria. Il tempo di una notte si dilata in una durata vaga e indifferente come la luce bianca che bagna le immagini, dove si agitano gli unici superstiti di un’apocalisse annunciata, mostrata in Tv e finalmente vissuta. Lo stato d’animo con cui Ferreri gira sulla spiaggia di Capalbio è a dir poco nichilista: «Questo film è molto più violento del precedente, nasce da una violenza che si respira dappertutto. Voglio che questa violenza esploda, brutalmente» (Marco Ferreri, «Cinema Nuovo» maggio 1969). Nel cinema d’autore di questi anni l’esplosione è un topos, se pensiamo ai finali di Il bandito delle ore undici (Pierrot le fou, 1965, di Godard), con il corpo di Belmondo sciolto nell’aria in un suicidio grottesco, e di Zabriskie Point (Antonioni, 1971), dove il ralenti garantisce alla polverizzazione delle merci la bellezza di un quadro informale. Il gusto per la rarefazione, evidente nella struttura narrativa e nell’impianto scenografico, coinvolge finalmente anche il corpo, che pure all’inizio ci è 83

mostrato in una delle attività più politicamente corrette rispetto ai canoni della società dei consumi, ovvero mangiare, fare acquisti e guardare la Tv, consumando uno dei più alti prodotti del benessere: il tempo libero. Una giovane coppia, Cino e Dora, rientra a casa dopo un viaggio. Durante la sosta a un autogrill, rimbalzano in Tv le notizie di un presunto disastro nucleare, per cui, dice la speaker, «è meglio procurasi una maschera antigas». L’incubo si traduce in realtà all’uscita di un tunnel, quando i due si imbattono in un autobus abbandonato pieno di bambini morti. Protetti contro virus e malattie, Cino e Dora sono inviati dai responsabili della sicurezza a trovarsi una casa e rifarsi all’esperienza degli antichi, favorendo, con il concepimento, la nascita di una nuova società. Mentre Cino raccoglie nel suo museo qualsivoglia oggetto trovato in riva al mare (dal frigorifero Ignis al parmigiano Reggiano), Dora preferisce restare sulla spiaggia, nell’attesa di un improbabile soccorso. Sull’isola arrivano i Cavalieri del Servizio dello Stato, che ricordano alla donna il dovere di procreare. Ma Dora detesta i segni del passato, dalla balena bianca arenata sulla riva alle caramelle portate dalla Donna Sconosciuta, una rivale che ella uccide per poi divorarne le carni. Quando Cino, servendosi di una droga, la stordisce e la feconda, Dora piange, maledicendo la sua gravidanza, prima di saltare in aria assieme al compagno, sulla riva di un mare indifferente.

Non c’è procreazione senza morte. Dopo aver spento il maschio (L’ape regina) e ucciso la femmina (La donna scimmia), il seme dell’uomo annienta ora entrambi i poli di quel microcosmo artificiale che è la coppia, forma di convivenza avariata e arrugginita come i mille detriti portati dal mare sulla spiaggia. Sotto il traliccio dell’apologo fantascientifico, intriso di rimandi al Vecchio Testamento (i Cavalieri neri, la balena, il dovere di procreare), la protesta si colora di una disperazione che avvolge tanto la vita quanto l’arte, come attesta il cammeo del regista morto, con il cadavere di Ferreri immobile sull’uscio davanti alla casa. Un paradosso identico a quello, pur verbale, scelto da Godard per il suo Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (Week-end, 1967), che di Il seme dell’uomo anticipa temi e strutture: il viaggio tra gli incidenti, i personaggi letterari, l’inserzione di manifesti pubblicitari, la metafora del cannibalismo e, in fungo, quell’epitaffio: Fine del cinema. Al pari di Week-end, Il seme dell’uomo è un film «fatto con i rottami», una sorta di work in progress assemblato con pezzi di ricambio asportati da altro cinema: la balena bianca di Otto e mezzo, il concepimento fraudolento di Rosemary’s baby (Id., 1968, di Polanski), la pistola rossa di Dillinger è morto, le scritte pubblicitarie di Partner (Bertolucci). Briciole di un cinema che circola senza essere digerito nello spazio/stomaco della diegesi. 84

Intenti ad ascoltare i consigli della Tv, Cino e Dora forse non vedono le fotografie su cui brillano, come macchie di sangue sulla pelle, i titoli di testa rossi: volti anonimi di uomini, donne e bambini che grana pastosa e la sovraesposizione della luce trasformano in mostri allucinati, privi di occhi o di bocca (fot. 41). Intervalli tra una morte già avvenuta (gli occhi chiusi) e una morte che verrà. L’assenza di un contesto scenografico, al pari della frammentazione del volto, fa di questi ritratti degli oggetti ottusi, illeggibili e quindi tali da provocare nello FOT. 41 spettatore quella «catarsi critica» teorizzata da Roland Barthes, secondo cui «la fotografia letterale, priva di un’intenzionalità di messa in scena, introduce allo scandalo dell’orrore, e non all’orrore in se stesso» (Miti di oggi, cit.). Nulla di inquietante traspare da quel fantoccio nelle braccia dell’annunciatrice: in fondo la peste non è che un pezzo di stoffa gialla. Il lecca lecca azzurro, la collana di monete finte e la stessa auto arancione della coppia, una sorta di incrocio tra un fuoristrada e un’utilitaria, rimandano all’universo del gioco: perduti aura simbolica e valore d’uso, gli oggetti rispondono solo al desiderio regressivo della collezione. L’elicottero militare in sosta rinvia solo a se stesso, pronto per essere classificato ed esposto allo sguardo: «Un Sikowski 61, vecchio modello; adesso non ne fabbricano più». La messa in scena della catastrofe, all’uscita del tunnel, dimostra che il cinema non è ancora morto, ma anzi impiega codici visivi e sonori in senso narrativo. Al salto della voce di Lucio Dalla, ennesimo esempio di profezia musicale («Sparire là nell’immensità» sarà il destino della coppia), corrisponde l’alterazione della sensibilità della pellicola, impressa con quattro stop di sovraesposizione in modo tale da restituire la luce sfigurante dell’apocalisse. Tra interno ed esterno nessuna differenza. Lo sfondo bianco assorbe le linee di forza esaltando la recitazione minimale dei corpi, privi di quella gestualità nervosa che caratterizza altre icone dell’alienazione, come i manichini di Antonioni: si pensi ai dettagli delle mani strette a pugno o delle dita tra le labbra di Monica Vitti. Né Cino né Dora sembrano sconvolti da quanto accade. Della fine del mondo non si parla, piuttosto ci si concentra sul gusto della gomma da masticare, restando poi passivi di fronte alle immagini catastrofiche del televisore, teatro dove anche la distruzione di Roma diventa spettacolo. Il coro di Nabucco occulta il fragore delle esplosioni e il cammeo di Mario Vulpiani garantisce lo straniamento in funzione antidrammatica. Non si tratta, direbbe Godard, di 85

images justes (immagini giuste), ma juste des images: solamente immagini, come i panorami di New York scrutati dai Cavalieri neri dell’Ordine, feticci bidimensionali di un mondo annullato nella propria “riproducibilità tecnica”. Leggiamo Debord: «Il mondo è già filmato. Si tratta ora di trasformarlo» (La société du spectacle, cit.). Se l’isola si offre come waste land, con il vuoto che emerge nei campi lunghi decentrati (fot. 42), la casupola abbandonata sembra riprodurre il tema della camera a gas, involucro asettico avvolto sui corpi come un ventre di plastica: le porte incorniciano la coppia in quadri nel quadro che la donna rompe rifiutando di contribuire al museo dell’uomo e rifugiandosi sulla spiaggia, limen tra il caos e l’ordine. In questa dualità orizzontale aperto/chiuso Maurizio Grande ha rintracciato la figura del «circuito», intesa come «forma perfetta della tautologia, in quanto illusione del cambiamento» (Marco Ferreri, cit.). Forse anche i pupazzi sotterrati dietro la casa, in una sorta di cimitero dell’inorganico, entreranno nel museo di Cino, piccolo Ferreri (identico il taglio della barba) che riempie con il collezionismo una sessualità più storica che biologica, finalizzata alla procreazione. A differenza della forma di Parmigiano o del frigorifero Ignis, posseduto proprio in quanto astratto dalla sua funzione d’uso e dunque readymade, il corpo della donna sfugge, isola nell’isola, irriducibile alla sfera soggettiva del maschio. Con la sua femminilità implosa in una postura rigida, già esaltata FOT. 42 dal Pasolini di Teorema, Anne Wiazemsky incarna l’unico detrito del passato impossibile da catalogare in quanto appartenente al regno dell’istinto ed estraneo al processo di costruzione di quella società ora in putrefazione. Dora mantiene le gambe sempre unite e coperte, come a non voler offrirsi come apertura da riempire. Si parla poco in Il seme dell’uomo. La comunicazione è mediata dall’occasione di partecipare a uno spettacolo, come il volo del dirigibile Pepsi-Cola: l’atto del guardare è un atto solitario (i due non si abbracciano), che offre un piacere estetico («La bottiglia se ne va. Peccato, era bella») dove il valore d’uso della merce è annullato. La bottiglia è bella come il televisore portatile Brionvega, le foto di scena di 2001. Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968, di Kubrick) o l’acqua di colonia “Executive”, già ripuliti e catalogati nel museo: oggetti pop in quanto nuovi, non usati, non consumati, privi di qualsiasi carattere individuale, quasi come l’inflessione delle voci. 86

La parola è sclerotizzata nella ripetizione acritica degli slogan pubblicitari («Brooklin, la gomma del ponte»), svuotati di ogni potere fascinatorio in quanto slegati dal contesto sonnambulistico dello spazio urbano. Isolato, non iterato, il messaggio risulta quanto meno ridicolo. Al contrario di Godard, Ferreri non ritaglia né decostruisce le “scritte trovate” (SS per Esso in Il bandito delle ore undici), ma le lascia lì, insensibili al destino dei naufraghi. Indifferente appare la sintassi, strutturata in una successione paratattica di sequenze brevi e scucite, assemblate come i reperti nel museo di Cino, l’una accanto all’altra. Lasciamo, ad esempio, Cino e Dora che giocano sulla spiaggia con un corno, per vederli qualche secondo più tardi accompagnare una vacca fuori dalla stalla: nessun raccordo, nessuna contiguità narrativa. Quando Cino invita Dora a partecipare alle sue ricerche sulla bomba atomica, non ottiene alcuna risposta: uno stacco ci mostra la ragazza, la mattina dopo, intenta a scrutare l’orizzonte col cannocchiale. Buchi, vuoti, salti. La sensazione, per lo spettatore, è quella di sfogliare l’album fotografico di una “Storia dell’uomo”, dove il tempo, al contrario di quanto accade in Dillinger è morto, scorre senza durare, ritmato da ellissi che talvolta rendono misteriosi gesti ed eventi (come è arrivata la balena? Da dove proviene la Donna Sconosciuta?). La struttura del découpage dimostra quanto la relazione tra corpo e spazio sia cannibalica, come in una sorta di lotta per la sopravvivenza. Il duello barbarico tra le due rivali in amore è organizzato secondo un’alternanza di campi lunghi e primissimi piani, dove emerge tutto il furor dionisiaco di Dora (fot. 43). Divorato dallo spazio, nei campi lunghissimi il corpo sembra perdere la propria fisicità grazie anche a una particolare testura sonora, composta di sottofondo bucolico (canto di cicale più campanello di mucca) che copre le grida attenuando la tensione drammatica. L’assenza di musica di commento ci riporta alle atmosfere primitive del cannibalismo pasoliniano, dove il vento che sferza sui corpi esalta il silenzio preistorico degli sguardi, punteggiato da urla acute come le spade (Porcile). Per nulla casuale è la partecipazione di Ferreri al film di Pasolini, nel ruolo di Hans Guenther, viscido servo del magnate nazista che perde il figlio nelle viscere dei maia- FOT. 43 87

li. Una metafora, quella del cannibalismo, spogliata da Ferreri di ogni aura mistica ma elevata a specchio della contestazione contro il cinismo della società dei consumi: nessun “tremore di gioia”, nessuna santificazione terrena. Solo il piacere, verbalizzato, di gustare un piatto saporito dagli ingredienti misteriosi, mostruoso forse per lo spettatore o il critico. La categoria dell’osceno è scomparsa assieme alla civiltà che l’aveva prodotta. Come è possibile provare orrore per un’assassina agghindata come la FOT. 44 Venere di Botticelli (fot. 44), ennesimo pezzo del museo? Secondo Maurizio Grande invece «la digestione diviene il luogo, il processo e la metafora macabra di un trasferimento che è perdita, spreco, dissoluzione e morte come annullamento degradato» (Marco Ferreri, cit.). Anche i miti come Moby Dick mostrano i segni del tempo. Solo quando avrà smesso di puzzare la balena potrà ospitare l’intimità della coppia, a riparo dal vento sotto una «bella scultura» in compagnia di pupazzi dalla voce metallica, più distorta del magma sonoro che ribolle sotto l’immagine come la lava sotto la crosta terrestre. I corpi invece non faranno in tempo a puzzare e nemmeno a degradarsi. La nuvola bianca che li porta via non lascerà, sulla spiaggia vuota, nessun brandello di carne. Deserta è anche l’isola della Corsica su cui si rifugia il novello Robinson di La cagna, film-intervallo tra la fine delle riprese di L’udienza e la sua uscita nelle sale, rallentata da una crisi dell’Italnoleggio. L’importante per Ferreri è riempire i vuoti. Le occasioni sono due: la volontà della coppia MastroianniDeneuve di lavorare con Marco e la lettura di Melampus, soggetto “rubato” a un Ennio Flaiano deciso per la prima volta a passare dietro alla macchina da presa. Ambientato a New York, culla delle contraddizioni e delle repressioni della borghesia americana, Melampus doveva essere interpretato da Faye Dunaway e Marcello Mastroianni, ma Carlo Ponti non condivise l’ambiguità nella psicologia dei personaggi, rifiutando Flaiano nelle vesti di regista. Affascinata dallo script, Catherine Deneuve si rivolge allora a Roman Polanski prima di arrivare a Ferreri, che stravolge completamente ambientazione, atmosfera e spirito del testo. Il dramma tragicomico di Fabro, sceneggiatore fallito rifugiatosi nella psicanalisi dopo l’abbandono dell’amante, è filtrato dall’astrazione della fiaba 88

mitologica, con l’aggiunta del nucleo familiare parigino in qualità di inutile ostacolo al rapporto “zoofilo” uomo-cane. Dal pieno della metropoli si passa al vuoto di un’isola dalle rocce lunari, mentre la psicologia è azzerata nel linguaggio preistorico dei gesti e degli sguardi, conditi dallo humour surreale di Jean-Claude Carrière, collaboratore all’adattamento del romanzo. «Non mi è mai passato per la mente di ambientare il film in America. – ha detto Ferreri – In quel periodo volevo fare un film sul mito del ritorno alla natura dell’intellettuale» (in Ennio Flaiano, Melampo, Einaudi, Torino 1978). Un intellettuale che non ha nulla di autobiografico, a differenza dello sceneggiatore annoiato forgiato da un Flaiano ricco di rimandi intertestuali dotti, da Casanova a Proust a Pirandello: la delusione per l’adattamento ferreriano sancì per lo scrittore l’abbandono definitivo del cinema. Sull’isola dove si è ritirato in solitudine, Giorgio, disegnatore di fumetti, vede arrivare Liza, un’affascinante bionda dai tratti raffinati, vestita come una diva degli anni Trenta. I rapporti tra i due sono all’inizio freddi e distaccati: la donna si lamenta per il caldo e la mancanza di confort, mentre Giorgio è interessato a dipingerne il corpo. Presto però, attratta dal fascino “selvaggio” dell’uomo, Liza decide di ucciderne il cane, gelosa delle attenzioni di cui era oggetto. Da questo momento in poi ella si sostituisce all’animale, offrendosi come oggetto sessuale e schiava degli ordini del suo padrone. La vita sull’isola prosegue sulla strada di un’apatia totalizzante, che impedisce a Giorgio di provare la minima emozione di fronte alla cattura di un disperato disertore. Il figlio lo va a trovare per invitarlo a tornare a casa. Una breve sosta a Parigi, dove la moglie tenta uno sterile suicidio al fine di attrarre le attenzioni del marito, convince Giorgio dell’ineluttabilità della sua scelta. Quando i viveri finiscono, però, bisogna partire. Verso una meta sconosciuta, a bordo di un aereo rosa come nelle favole.

«La noia – dice un celebre personaggio di Moravia – oltre all’incapacità di uscire da me stesso, è la coscienza teorica che potrei evadere, grazie a non so quale miracolo» (La noia, Bompiani, 1961). Con le sue inquadrature lunghe, le panoramiche a seguire le inazioni dei corpi stancati al sole, La cagna si offre come fenomenologia della noia che affligge l’ennesimo intellettuale al tramonto, attratto forse, come Michel, da un sole rosso sul mare dell’oblio. Giorgio gioca a fare Robinson, ma sa bene che è tutta una messa in scena: per questo l’ironia del figlio lo ferisce. I momenti di wilderness (la camminata a occhi bendati guidato dal cane, la pesca) sono solo piccoli diversivi all’interno di giornate incentrate sul lavoro di pittore, mai abbandonato. Liberarsi dal 89

ritmo della produzione imposto nella società organizzata significa però rinchiudersi in un’altra prigione, quella della creatività artistica, eletta a mito dall’intellighenzia borghese. Il narcisismo è in fondo uno dei modelli di comportamento accettati dall’istituzione, nella misura in cui esso spegne ogni afflato di ribellione. Proiettato su di sé, alla ricerca di un identità che nessun autoritratto potrà soddisfare (Giorgio si ritrae guardandosi allo specchio), l’individuo è assolutamente inoffensivo e la fuga si risolve in una rassegnata autoesclusione dal mondo. Parigi non è lontana, basta un traghetto per dimenticare il silenzio con le ruspe delle Halles e magari fare la spesa negli ipermercati. Sotto i titoli di testa le vedute panoramiche da cartolina presentano l’isola come la meta di un viaggio turistico, mentre la landa desolata di Il seme dell’uomo era filmata senza alcun punto di riferimento geografico o rimando a luogo reale: tutto veniva filtrato dallo sguardo dei superstiti, noi non sapevamo nulla di più. Anche la solitudine, allora, rivela la sua natura di merce. Ben più ambiguo di quello italiano, il titolo francese (Liza) mette l’accento sulla femminilità del personaggio che ruba al cane il ruolo di Venerdì: il tema vaudeville di Philippe Sarde le si incolla addosso come la camicia bianca bagnata dal mare, quando esce dall’acqua in versione Bo Derek. L’imitazione di Jean Harlow (fot. 45), FOT. 45 mise en abîme verbalizzata e dunque scoperta, toglie quel poco di aura animale al corpo abbronzato di una Deneuve che è l’incarnazione perfetta dell’eros cerebrale, capace di indossare la nudità come fosse un vestito, dando sempre l’impressione di trattenere la carica erotica, sotto la pelle. Il rapporto con Giorgio si fonda sullo stesso principio che anima il nichilismo dell’autore, ovvero sulla negazione: negazione dell’umano in favore dell’animale, del sociale in favore del selvaggio, della realtà in favore della favola. La metamorfosi animale altro non è però che un sistema di segni, incomprensibili all’animale (il gioco dell’annegamento) ma indispensabili per la comunicazione all’interno della coppia: oggetti come il collare, ritualizzato nella cerimonia di investitura canina, e il bastone restano accanto al corpo senza fondersi con esso, mostrando tutto il loro peso di significanti vuoti, costumi necessari alla messa in scena. Lo stesso vale per le divise militari indossate nel finale, in vista di una fuga non solo organizzata, 90

ma anche, come si fa per uno spettacolo, annunciata: «Liza ho deciso. Domani si vola». Come di consueto, la parola non serve a fare andare avanti la narrazione, né ad approfondire la psicologia dei personaggi, ma a riempire i buchi della solitudine, richiamando l’attenzione dell’altro/a a tutto ciò che di organico si nasconde dietro la maschera. Spesso i due sono costretti a ripetere le frasi a causa del rumore del vento, collante sonoro di tutte le sequenze e voce ossessiva dell’isola. Battute quali «Ho male al piede!», «Ho sete!» o «Non c’è più nulla da mangiare» confermano che il corpo e i suoi bisogni sono il soggetto principale di discussione, anche se Giorgio i corpi preferisce appiattirli sulla carta, come dimostra la caricatura della donna stilizzata a colpi di pennarello rosso e giallo. L’utopia più dolorosa è allora quella del dialogo tattile tra i due sessi, castrato dalla mediazione dell’arte e ridotto a brevi effusioni, tra cui un bacio messo in scena secondo il modello del cinema classico (sguardo e lento avvicinamento dei due volti ripresi di profilo). Singolare è la disposizione degli oggetti nella casa-palla, una sorta di igloo postmoderno (corredato dagli occhiali da eschimese indossati dalla coppia) non privo di quelle risonanze psicanalitiche già evocate nei cerchi di Break-up: il rapporto con il caos della natura è regolato da una ratio uterina, incapace di separarsi da un ventre forse mai rimosso fino in fondo. All’interno, i corpi sono sovrapposti a elementi d’arredo che resteranno sempre sullo sfondo, in modo tale da esaltare il vuoto che occupa la parete bianca; come a voler ribadire uno stato di costante precarietà, dove il disordine preclude a un ordine che tende all’infinito. I quadri appoggiati per terra e le teste di bambola gettate qua e là testimoniano la volontà di non chiudere il cerchio del tempo, laddove invece quello dello spazio è perfetto, senza buchi. Al tema del cerchio rinvia la stessa struttura narrativa, aperta con l’arrivo di Liza e chiusa con la partenza della coppia, bloccata in uno stop-frame che sospende il destino in una rigidità dal sapore di morte (fot. 46). Tra il mare e l’igloo, tra l’Aperto e il Chiuso c’è una strada sterrata, vuota, ideale pista di partenza: ma l’orizzonte, sullo sfondo, è brumoso, indistinto, vago. Congiungendo i due tragitti si ottiene un percorso circolare, rotto dalla traiettoria incerta dell’aereo. FOT. 46

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OU-TOPOS

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