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Francesco Saverio Nisio Manoel de Oliveira Cinema, parola, politica
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© 2010 Le Mani - Microart’s Edizioni, via dei Fieschi 1 16036 Recco - Genova Tel. 0185 730153 - fax 0185 720940 www.lemanieditore.com e-mail [email protected] Finito di stampare nel mese di giugno 2010 presso la Microart’s S.p.A. - Recco (Ge) Grafica di Marco Vimercati ISBN 978-88-8012-544-0
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Indice
Al lettore
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Filmografia completa sintetica Nota biografica Porto da Minha Infância
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Parte Prima - Politica, palco d’un popolo
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Introduzione - Uni(ci)tà Oliveira Espelho Mágico
Enigma-popolo Cinema e capitale Benilde ou a Virgem-Mãe La massa della ribeira Douro Faina Fluvial La censura più forte Aniki-Bóbó Progetti non realizzati Una mano manca, il popolo è cieco A Caça; A Caixa Sartre e la verità delle cose politiche Navigar fra le genti Um Filme Falado Un uomo di sinistra Il dono ad un popolo «universale» NON ou a Vã Glória de Mandar; Cristóvão Colombo
Passaggio
Parte Seconda - Parola e utopia Una vita differente Muto cinema di parola O Passado e o Presente Tempo-movimento Amor de perdição; Le soulier de satin Cinema e luogo La parola sul mare Palavra e Utopia; O Quinto Império Fantasma e storia Viagem ao Princípio do Mundo; Je rentre à la maison
Estetica del fantasma, o «teatro vitale» Mon cas Il fantasma della verità Belle toujours; Inquietude Passaggio
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Parte Terza - Principio d’incertezza Pag. Traghettar fra mondi » Etica dell’incertezza Francisca; O Princípio da Incerteza; » A Divina Comédia » La fede, il dubbio Os Canibais; O Dia do Desespero » Un’opera romanica O Acto da Primavera » Uomo e donna nuovi O Convento » L’acqua e il fuoco Party » Androgino Vale Abrãao; La lettre
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Filmografia completa analitica Bibliografia
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Letteratura d’autore Letteratura secondaria Riviste & siti internet Letteratura ulteriore Premi, riconoscimenti & retrospettive Videografia
Dialogo a Bari Ringraziamenti Indice dei nomi e dei film
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a Milvia che mi ha portato a vedere Francisca in memoria di Vittorio che amò A Perfect World ricordando Luciano Emmer (1919-2009) ed Eric Rohmer (1920-2010)
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Al lettore
Nelle note dell’intero volume si farà utilizzo delle seguenti sigle: T1, T2, ecc., più il numero della pagina, per i testi miscellanei elencati all’inizio della Bibliografia (p. 273-275); TA, più il titolo in forma abbreviata e l’anno, per i testi d’autore, quelli cioè scritti di pugno dal cineasta (p. 278 ss.); I, più nome della rivista e anno (in qualche caso nome dell’intervistatore, ovvero titolo del volume contenente l’intervista), per le interviste concesse da Oliveira (p. 284 ss.). I titoli dei film sono sempre indicati secondo l’originale, e vengono accompagnati da titolo italiano ed anno nel luogo in cui sono analizzati. Le traduzioni sono di chi scrive, salvo esplicito rinvio segnalato fra parentesi a quelle esistenti ed indicate in Bibliografia, modificate se necessario. Gran parte dei testi di Oliveira, Parain, Agel, Daney sono tradotti per la prima volta. I titoli dei testi stranieri dei quali esiste traduzione vengono citati solamente la prima volta nella doppia versione, dopodiché unicamente in traduzione. Nel testo e nelle note, tutte le citazioni fra virgolette sono di Oliveira, se non diversamente segnalato. Le parole in epigrafe alla Nota biografica si ascoltano, più d’una volta, dalla viva voce del cineasta in alcune interviste filmate. Le epigrafi dei tre capitoli sono invece tratte da: S. Daney – R. Bellour, Le ciel est historique, in Revue Chimères, 14, 1991, p. 155-156, per il primo e il secondo capitolo; da I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 44, per il terzo. Per non appesantire la lettura, in caso di citazioni molteplici tratte da testi brevi, ovvero da sezioni facilmente identificabili all’interno d’un volume, una sola nota in corrispondenza della prima citazione conterrà l’indicazione della fonte di tutte le citazioni seguenti virgolettate, mentre la nota successiva segnerà il passaggio ad altra fonte.
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Introduzione Uni(ci)tà Oliveira Espelho Mágico
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Abbiamo bisogno di un’etica o di una fede, e questo fa ridere gli idioti; non è un bisogno di credere a qualcosa d’altro, ma un bisogno di credere a questo mondo qui, di cui gli idioti fanno parte. Deleuze, L’image-temps
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1. Questo libro non è un’introduzione ai singoli film di Oliveira, bensì propone un’interpretazione di alcune linee portanti dell’opera, interpretazione che, questa sì, può e dev’esser estesa dal lettore a tutti i film, qui presi in analisi davvero parzialmente, quasi fossero «film fantasma» e come tali evocati nel testo. La speranza di chi scrive è quella di poter suggerire al lettore un metodo col quale approcciare autonomamente l’intero corpus oliveirano. Col tempo – se non fin d’ora, per chi è in grado di seguire in versione sottotitolata francese o inglese la ventina di lungometraggi realizzati a partire dalla metà degli anni Ottanta –, è auspicabile che l’intera produzione filmica del cineasta lusitano venga resa disponibile in copie sottotitolate, nonché in dvd con sottotitolatura italiana. Per lo spettatore italiano, al momento, al di là d’una decina di film dagli anni Novanta in poi disponibili in dvd, la maggior parte delle opere prodotte fra il 1931 e il 1985 sono accessibili solo attraverso rare e meritorie emissioni televisive. Ciò renderà infine possibile la visione di quelle singole opere accompagnate dal frutto dello sforzo qui intrapreso1. 1. Nella letteratura secondaria in lingua italiana si segnala l’unico testo esistente: M. Diana, Manoel de Oliveira, Milano, Il Castoro Cinema, 2001, della quale si auspica l’aggiornamento. Il volume in lingua inglese di R. Johnson, Manoel de Oliveira, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2007, è a tutt’oggi la più dettagliata introduzione ai film di Oliveira letti in chiave cronologica (fino a O Quinto Império). In lingua francese due sono i volumi utili, anche se maggiormente di taglio saggistico: R. Prédal, Manoel de Oliveira. Le texte et l’image, in L’Avant-Scène Cinéma, 1999, e M. Lavin, La parole et le lieu. Le cinéma selon Manoel de Oliveira, Rennes, Presses Universi-
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Va detto che questa è forse la prima volta che viene tentata un’interpretazione globale dell’estetica di Oliveira, la quale tenga conto nei dettagli sia dei film, sia dei testi d’autore, sia ancora delle interviste concesse, oltreché ovviamente dell’apparato critico esistente. Tale «prima volta» è stata di certo favorita dall’accesso alla molteplicità linguistica di testi che compongono questo corpus intellettuale, essenzialmente portoghesi e francesi per quanto concerne i testi d’autore, con l’aggiunta di italiani ed inglesi per le interviste e la bibliografia secondaria2. Si può dire ancora che la Bibliografia – che è essenzialmente uno strumento di lavoro, e tale è stata innanzitutto per chi l’ha allestita – ha una piccola pretesa di originalità ed esaustività, quest’ultima di certo temporanea data l’instancabile produttività di Oliveira e gli stimoli che essa genera nella critica e nella ricerca concernente la sua complessa opera. Peraltro, quando si parla di esaustività in riferimento alla produzione di Oliveira, bisogna tener conto di quanto afferma padre José Francisco Marques, suo amico e consulente per le questioni storiche: Al di là delle sceneggiature, che fino a qualche anno fa il cineasta dattilografava fin nei dettagli ed oggi lancia direttamente nel computer portatile che sempre lo accompagna, è davvero vasta la fonte della sua scrittura: testi di conferenze, risposte e commenti sui film indirizzati ai suoi collaboratori, tetaires de Rennes, 2008. Si attende un testo di riferimento monografico in lingua portoghese, al di là dell’opus magnum di João Bénard da Costa concernente i singoli film (cfr. T2 e T24). 2. Peraltro va specificato che, per chi scrive, due lungometraggi rimangono a tutt’oggi ancora non visti, insieme ai tre corti del 2005, 2006 e 2010: si tratta di Singularidades duma Rapariga Loura, presentato a Berlino nel febbraio 2009 e ancora assente dalla rete distributiva italiana, televisione inclusa; e di O Estranho Caso de Angélica, presente a Cannes 2010. Né va dimenticato che Oliveira ha girato nel 1982 un mediometraggio, Visita ou Memórias e Confissões, che potrà esser visto solamente dopo la sua morte. Si segnala inoltre l’esistenza, nella Bibliografia di Oliveira (cfr. infra, p. 277), di un secondo libro a sua firma, più volte annunciato e concernente la teoria del cinema. Su tutti i corti e i documentari dei quali non si parla nel corpo di questo volume, è possibile leggere alcuni brevi dati informativi nella Filmografia completa analitica (infra, p. 245 ss.).
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stimonianze, articoli di tematica varia, saggi, prefazioni […]. Tutto questo, se un giorno verrà riunito, costituirà una miniera ricchissima per lo studio di quel che Oliveira pensava sul cinema, l’arte, la letteratura, la politica, su eventi di cronaca e mediatici. Senza dimenticare l’infinita quantità di interviste pubblicate in Portogallo e all’estero3.
Quanto al campo d’irradiamento dell’opera, esso non è solo definibile dalla cultura portoghese – cinematografica e non – e dalla sua lingua, le quali pur rimangono il riferimento costante in tutte le ramificazioni del suo lavoro artistico4. Se tale molteplicità culturale vale anche per l’opera di molti altri grandi cineasti (si pensi a Fritz Lang ed Ernst Lubitsch, alle loro radici tedesche e ai film americani; o ad Ophüls, dove si mescolano lingue e culture dell’Europa intera; e ancora a Buñuel, Godard, Bertolucci); ebbene, in Oliveira tale plurilinguismo, e il conseguente métissage culturale, acquisisce uno statuto particolare, come si vedrà più avanti. Egli lo ha assunto esteticamente e politicamente, andando forse un poco più in là di quanto fatto da Godard, che fra i grandi cineasti del Novecento è colui che maggiormente può essere avvicinato ad Oliveira sotto questo profilo. 2. Venendo ai criteri utilizzati nel lavoro, va detto che qui non si riconosce alcun tipo di classificazione o periodizzazione dell’opera di Oliveira («documentari vs. fiction», «tetralogia degli amori frustrati», ecc.), né se ne propongono altre. Adesso che l’opera è dispiegata nella sua ampiezza – e facendo al cineasta auguri di lunga vita e di altri mille film, dopo la tappa dei primi cento anni –, diventano chiari in essa alcuni temi, non solamente nel loro tornare in opere successive a quelle che servirono da referente in una certa epoca per l’opera d’interpretazione del suo cinema, in un periodo nel quale la creatività dell’artista era impedita 3. T4, p. 83-84. Va segnalato che, dopo il portoghese ed il francese, è l’italiano la terza lingua quanto a numero di testi presenti nella bibliografia secondaria, anche se in non pochi casi si tratta di testi tradotti in italiano da quelle due lingue. 4. «Sono molto influenzato dal cinema russo, americano, francese, italiano, e cerco di proteggermi un po’ con la letteratura portoghese», T7, p. 73.
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da svariate ragioni, interne ed esterne alla sfera artistica. Diventano chiari, quei temi apparentemente posteriori, anche nel loro esser già presenti nelle opere della lunga fase di «cattività cinematografica» attraversata sotto il regime di Salazar. Ontem como hoje, «ieri come oggi», è un criterio ermeneutico che vale anche per la sua opera, con piena evidenza. Quanto invece alla rete di riferimenti culturali mobilitati nell’interpretazione, va segnalato che, al di là di Deleuze, Oliveira cita raramente opere (libri, articoli) di teoria del cinema, come anche di filosofia (rari i richiami ad Aristotele, Spinoza, Deleuze) o di teoria letteraria (Girard). È questo il motivo per il quale si deve scriver poco, scriver breve, su di lui, non solo in rapporto a questioni di teoria, ma anche in rapporto ai suoi film. I film parlano infatti anche attraverso le emozioni, dunque attraverso il corpo, e di certo non è facile restituire le emozioni attraverso la pagina scritta: bisogna vedere e rivedere i film. Emozioni le quali, peraltro, non possono esser insegnate: come per il sentimento religioso, ci sono o non ci sono. Dice Oliveira: I miei film sono per persone sensibili, intelligenti, ma soprattutto sensibili. Sensibili alle cose, curiose, prive di preconcetti.
Prendere o lasciare. Oliveira, in qualche modo, si sceglie i propri spettatori. E per dirla in maniera un po’ meno formale con João César Monteiro: Come tutti i [cineasti] grandi e rivoluzionari, anche [Oliveira] ha il potere di smascherare [con i suoi film] gli imbecilli e di proporre una lezione di modernità cinematografica a coloro che vogliono e possono comprenderla5.
Un giorno, alla domanda di Bénard da Costa6 riguardo al «genere» cui ascrivere i suoi film, domanda che partiva dall’affermazione di un cineasta molto amato dal cineasta 5. T30, p. 342. 6. João Bénard da Costa (1935-2009) fu grande amico del cineasta e, per una decina di volte, attore nei suoi film con lo pseudonimo di Duarte de Almeida (due volte interpretò un Papa). Definito «O melhor crítico
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lusitano, John Ford: «Mi chiamo John Ford e faccio film western», Oliveira rispose: L’uomo che si chiama Manoel de Oliveira ha il vizio di parlare delle cose d’arte. John Ford non ne ha mai parlato. Le ha fatte, ed enormi. Solo che, per una questione di umiltà o modestia, semplificava le cose7.
Diventa dunque chiaro il motivo per il quale questo libro deve assumere una forma specifica nel provare a ricostruire l’unità dell’opera di Oliveira, affrontandone le componenti visive e scritte (testi d’autore, le mille interviste), le une mai senza le altre. Peraltro, non è peregrino ritenere che Oliveira abbia interpretato a proprio modo uno dei caposaldi, il genere «intervista», di quella che fu la politique des auteurs dei Cahiers du cinéma a partire dalla metà degli anni Cinquanta: capovolgendola cioè, e facendo dell’intervista non il luogo nel quale la critica «si fa scrittura nell’intimità del cinema» (anche se le interviste alle quali si è offerto sono state certamente pure questo, avendo Oliveira avuto sempre rispetto dei «critici come spettatori»), bensì il luogo nel quale è il cineasta a fare «politica d’autore»8. de cinema da história do cinema em Portugal», ha diretto la Cinemateca portuguesa di Lisbona a partire dal 1991 ed è stato co-fondatore della rivista letteraria O Tempo e o Modo, oltreché autore di innumerevoli libri e saggi su cinema, pittura, musica, letteratura. Di formazione cattolica, si oppose ai compromessi della Chiesa con Salazar e fu una figura di riferimento nella vita politica della nascente democrazia post-rivoluzionaria. Sulla sua complessa figura si veda A. Lucas Coelho, Esta vida não acabou aqui in Público 22.5.2009; G. d’Oliveira Martins, É necessário reler João Bénard da Costa, in A Vida dos Livros, 25.5.2009. 7. T31, p. 176-178. Oliveira si esprime lungamente su Ford, «uma figura de muita grandeza», in due interviste: I, Cahiers du cinéma, 1990, e I, Jornal de Letras, 1995, p. 14. 8. «Ci si può domandare: “Ma cosa c’entra [tutto ciò di cui stiamo parlando] col cinema?” Rispondo: “È come se stessi scrivendo il soggetto per un film”. Perché il cinema ha molto a che vedere con la vita, e direi tutto. Ciò che si riproduce nel cinema sono frammenti di vita. […] Non è il cinema che fa la vita, è la vita che fa il cinema», T22, p. 41. Sul significato dello strumento intervista all’interno della politique des auteurs della nouvelle vague, cfr. il capitolo Écrire dans l’intimité du cinema in A. de Baecque, Les Cahiers du cinéma. Histoire d’une revue, t. I, Paris, Cahiers du cinéma, 1991, p. 127 ss.
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Il libro consta di tre parti: la prima è dedicata alla dimensione «politica» dell’opera9; la seconda affronta alcune posizioni estetiche e filosofiche; la terza ne scandaglia la dimensione etica. È peraltro convinzione di chi scrive che la problematica politica e la ricerca filosofica – non solo in campo estetico – siano inseparabili dalla dimensione etica, in un intreccio fra pensiero e vita che fu il grande dono all’umanità fatto da colui che Deleuze ha definito «principe dei filosofi» e «Cristo della filosofia», Baruch Spinoza. Sia detto di passaggio: una tale esigenza critica porta a dover riconsiderare la legittimità d’una partizione della teoria del cinema fra, da un lato, discorsi […] capaci di esprimere una proposta dotata di una sua coerenza, di una sua evidenza, di una sua necessità, soprattutto condivisibile e condivisa da un gruppo di studiosi, [… cioè una proposta quale …] patrimonio comune [che incarna] punti di vista collettivi;
e, dall’altro lato, poetiche singole, quelle in cui un autore teorizza la propria opera [… senza proporre …] un’immagine di cinema che si estende al di là della sua occasione di partenza e in cui altri possano riconoscersi, o su cui altri possano impostare un programma di ricerca10.
Ebbene, la proposta teorica di Oliveira – come, per altri riguardi, quella di Godard11 – è di tenore tale da render legittimo configurare l’autonomia della teoria del cinema dei cineasti, a fronte della teoria del cinema dei filmologi e de9. La Parte prima è stata prima anche nella gestazione del volume, sicché era già bell’e pronta quand’è arrivata la notizia, appresa via internet su YouTube, dell’appoggio offerto da Oliveira a Elisa Ferreira, parlamentare europea e candidata del Partido Socialista alla presidenza della Câmara Municipal do Porto nelle elezioni comunali dell’ottobre 2009. 10. F. Casetti, Teorie del cinema, Milano, Bompiani, 20047, p. 3. 11. Entrambi non menzionati, nella breve nota 2 di p. 341 del citato volume di Casetti, fra i «parecchi casi controversi» ai quali, «a fine lavoro, si sarebbe voluto rimediare». Se pure in quella nota si leggono i nomi di Bresson e Tarkovskij, nel resto del volume Godard compare en passant cinque o sei volte, Oliveira invece è del tutto assente. Ed entrambi, anche Oliveira si badi bene, sono teorici di cinema in un’epo-
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gli analisti del film12. Il presente volume vorrebbe dunque fornire anche qualche elemento per una riconsiderazione della teoria del cinema proprio in questa direzione. 3. Ma è possibile offrire una sintesi credibile della teoria del cinema del cineasta lusitano? La domanda è legittima, dinanzi ad un pensatore di cinema il quale ha dichiarato: Quando comincio un film devo inventare una teoria particolare, ad uso personale. Ho bisogno di avere una teoria e, curiosamente, per ciascun film trovo una teoria differente, che si adatta al mio proposito13.
Tale «idiotismo» di Oliveira nella teoria e pratica del cinema, dunque questo rendersi idios, «proprio, particolare», questo singolarizzarsi al punto da farsi nuovamente bambino e dunque «balbettante», «infante»14, non ha nondimeno ca che è «post-classica» per rapporto alla stagione dei Canudo, Epstein, Ejzenštejn, Balázs. Casetti è il curatore di T10. 12. Ciò ricorda da vicino il fenomeno di storia del pensiero che ha riguardato il diritto in relazione alla filosofia, e dunque l’affermarsi d’una filosofia del diritto dei giuristi a fronte della filosofia del diritto dei filosofi. Si vedano le riflessioni dei primi anni Sessanta di N. Bobbio, Filosofia del diritto dei filosofi e filosofia del diritto dei giuristi, edite dapprima in Francia sulle Archives de Philosophie du Droit all’epoca dirette da Michel Villey, poi raccolte in N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, Comunità, 1977, p. 43 ss.; nonché M. Barberis, Breve storia della filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2006. Non sembri un fuor d’opera tale richiamo al sapere giuridico in un volume di cinema: al di là d’ogni considerazione circa l’affermarsi di prospettive d’analisi metodologiche di Law & Literature, le quali fanno sempre più spazio ad una concezione allargata della Literature in essa comprendendo, in modo altrettanto centrale, il cinema; è soprattutto il diretto richiamo che Oliveira stesso fa all’esperienza giuridica, nei suoi scritti di teoria, a mostrar quanto questa sfera s’intrecci al tema dell’immagine e al suo rapporto con la storicità. Tale dimensione analitica è stralciata dal presente volume e sarà oggetto d’un autonomo studio in un libro dedicato al filosofo ed antropologo Lucien Lévy-Bruhl, in corso di pubblicazione. 13. I, Chimères, 1991, p. 138. 14. «Eu fui novo e diferente toda a vida, e assim serei», ha dichiarato qualche anno fa Oliveira: «Sono stato giovane e differente per tutta la vita, e così resterò», in Público, 10.9.2004. Je rentre à la maison è, tra i film del lusitano, quello che mostra con maggior articolazione il movimento oscillatorio, decostruttivo, tra «infanzia» e «storia».
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impedito al cineasta d’abbozzare un’ipotesi interpretativa più generale, certo provvisoria, non definitiva, non sistematica. Dice Oliveira, parlando de Os Canibais: Lo specchio [in quel film] è la realtà: quel che si vede, quel che si pensa essere il mostruoso e il morboso della notte, e che persiste nel giorno senza che lo si veda, senza conoscerlo. È il fantastico. È l’ombra della realtà… Il riflesso è quel che si vede, perché è un riflesso delle ombre. Di giorno non ci sono più specchi [ne Os Canibais]. Ma il giorno è lo specchio15.
Non è un caso che, in questo testo di Oliveira, una certa generalità affermativa passi attraverso il confronto con l’esperienza dello specchio, esperienza peraltro costante in tutti i suoi film e non solo in quello che esibisce lo specchio nel titolo, Espelho Mágico (Specchio magico, 2005). Parlando del cinema, Oliveira aggiunge: Io penso che, quando si vede una cosa che è vera, non è la cosa in sé ad esser vera ma ciò che ne è mostrato. Lo spettatore può, così, prendere una certa distanza ed avere uno sguardo molto più intelligente sul film, perché diventa compartecipe o complice nel gioco tra regista, interpreti e la storia stessa, o ancora tra regista, autore del libro e spettatore. È lui a dover formulare, da solo, i propri giudizi, avere i propri criteri su ciò che vede e a cui partecipa. Per far questo, deve situarsi all’esterno16.
Dunque, nei due testi letti la verità sta nel rapporto tra la cosa e i sensi, tra la realtà e il corpo che la percepisce: «Quando si vede una cosa che è vera, non è la cosa in sé ad esser vera ma ciò che ne è mostrato» e «a cui [si] partecipa»17. La verità partecipa dunque dell’«ombra», del riflesso nello «specchio»; partecipa della cosa così come l’ombra 15. I, Turco, 1988, p. 79. Cfr. l’inserto fotografico. 16. T27, p. 166. 17. Sulla «partecipazione» come «presenza affettiva» in rapporto alla «visione magica» del cinema, con espliciti richiami a Lévy-Bruhl (18571939), si veda l’intero volume di E. Morin, Le cinéma ou l’homme imaginaire. Essai d’anthropologie [1956], Paris, Minuit, 2007; trad. Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1982. Non si dimenti-
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partecipa del corpo che la genera, e come la visione partecipa dell’occhio che la produce con le sue opacità e trasparenze. Non c’è una verità astratta, «in sé», bensì ogni verità passa per l’emozione, il «movimento» che le cose esercitano sui sensi, il rapporto che stabiliscono col corpo. Non è peraltro un caso che i film di Oliveira siano ricolmi d’incompiutezze, imperfezioni o dissonanze attinenti alla sfera fisica, corporea: la verginità (Benilde ou a VirgemMãe, Francisca), il claudicare (Le soulier de satin, Vale Abrãao, O Princípio da Incerteza), arti meccanici (Os Canibais), corpi di bambini (Aniki-Bóbó, Je rentre à la maison), amore per il cadavere e per il morto in genere (O Acto da Primavera, O Passado e o Presente), separazione fisica nello spazio (Amor de Perdição, Le soulier de satin), follia (A Divina Comédia), perdita della memoria (Je rentre à la maison), cecità (O Dia do Desespero, A Caixa), ubiquità (O Convento), molteplicità di lingue (Um Filme Falado). In tutti i film di Oliveira è impossibile che i personaggi possano far pieno affidamento sul corpo e sulle sue normali funzioni, dunque sentirsi semplici, lineari ed unitari. Sempre il corpo mostra un’incompiutezza, o una tara, che è segno dell’impossibile unità anche nel personaggio. Sempre l’identità trascorre nell’oscillazione «interiore», e tale oscillare si fa visibile nel corpo e nelle sue imperfezioni o dissonanze. In O Convento addirittura le statue sono mutilate… chi la recezione di Lévy-Bruhl all’interno della teoria del cinema effettuata da Ejzenštejn già negli anni Trenta, cfr. La forma cinematografica: problemi nuovi (1935), in S. M. Ejzenštejn, La forma cinematografica, Torino, Einaudi, 1964. Si veda anche M. de Benedictis, Ejzenštejn. Fino all’ultima estasi. Le teorie di un grande regista, Roma, Lithos, 2001. Sulla teoria del cinema di Morin, cfr. Casetti, Teorie del film, cit., p. 51 ss. Nel 1961, insieme a Jean Rouch, Morin firma Chronique d’un été, film-inchiesta nel quale i parigini vengono intervistati sul tema della vita e della felicità. Oliveira è stato grande amico dell’etnologo e regista Jean Rouch (1917-2004), teorico dell’«antropologia visuale» e del «cinéma-vérité»: i due hanno anche firmato nel 1996 una co-regia, En une poignée de mains amies. Su Oliveira «antropologo», si veda A. Campelo, Acto da Primavera. Um Filme Antropológico?, in I. Vaz Ponce de Leão, [a cura di], Actas do Congresso Internacional Literatura, Cinema e Outras Artes. Homenagem a Ernest Hemingway e Manoel de Oliveira, Porto, Universidade Fernando Pessoa, 2001, p. 153 ss.
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Non c’è «realismo» possibile, dunque, neanche a riguardo della più semplice delle «intuizioni», il leibniziano «fenomeno ben fondato», l’unità del nostro corpo: al massimo un «su[per]realismo», come dice Oliveira commentando l’opera di Buñuel18. Vale a dire un realismo «superiore», cioè un’unità superiore che solo può essere «immaginata», vale a dire mostrata attraverso l’opera d’arte. Ogni realtà è dunque «ombra», immagine, possibilità o virtualità, e tale rapporto si determina ogni volta di nuovo, «storicamente». Bisogna aggiungere che, essendo dell’ordine del senso, del sentimento e dell’emozione, tale rapporto si esprime come «fede» o «credenza» in senso etimologico. Si tratta infatti, in tutti questi casi, di termini che significano adesione, affidamento, volontà di eleggere qualcosa rispetto ad altro: insomma uno sforzo, una tensione, un desiderio in direzione d’una parte all’interno d’una molteplicità di parti. «Partecipazione», appunto. Questo rapporto con lo «specchio», con l’«ombra», diventa problematico quando l’immagine che esso mostra fa sì che si capovolga il legame con l’esperienza, con la fiducia in quel che si vive e si sente, e dunque con l’evento che accade in rapporto al nostro corpo e che costituisce il reale. Se l’immagine diventa autonoma da quel che sente chi sta vedendo l’immagine, allora nascono il fantastico, l’onirico, il soggettivo come dotati di vita propria – e con essi la scissione, il diabolico. Lo spettatore si separa allora dagli altri coi quali è in relazione nell’esperienza (si separa nell’immaginazione, beninteso), ma soprattutto si separa da se medesimo in quanto corpo, si separa dalla fede – vale a dire, dall’aderire spontaneo ad una realtà ch’è nonsenso metter in dubbio, la realtà della relazione – nell’esser sguardo di e in un corpo, iniziando invece a creder possibile ch’esista uno sguardo «puro» (fiammeggiante, gr. pyr, «fuoco») e dunque definito, netto, ideale, indipendente per esempio dall’opacità della vista e dello specchio. Qui è tutto il mistero del rapporto con l’immagine. Quando l’immagine si separa dall’esperienza, cioè da quel 18. TA, Considérations sur Luis Buñuel, 2007. Cfr. infra, p. 183, n. 125.
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che si sente, dall’emozione, dall’opacità della percezione, allora si realizza un salto, un capovolgimento: si passa dentro un’altra forma (l’unica immagine come definitiva, il nome come essenza), lasciando (ma solo nell’immaginazione, beninteso) la forma di cui si ha esperienza (la forma del sentire, cioè il «tenere insieme» quel che si vede in rapporto al proprio corpo, alle emozioni che si provano, alle sensazioni che si vivono), e aderendo alla forma «ideale», alla forma dell’«idea» o visione quale forma «pura», indipendente, non in relazione sensibile con la cosa veduta. Qui lo specchio diventa letale, perché adesso ciò che conta è solamente l’immagine in quanto «ideale»: tutto vien vissuto a partire dall’immagine, senza più legame con ciò che accompagna sempre le immagini e cioè l’emozione, il sentire, l’esistere. Nella vita infatti, e cioè quando non si sta con lo sguardo fisso su un’immagine, quando cioè non si «idealizza» (sogni, fantasie, specchio «puro») e non si è nella rappresentazione, nel ri-presentarsi di qualcosa sulla cui identità con ciò ch’era presente decide lo spettatore assumendolo per vero e fornendogli natura d’«essenza»; ebbene, nella vita, quando si è dinanzi ad un’immagine dell’altro – quando si vede un altro –, sempre contestualmente si sente che l’altro è presente, sempre si è in relazione con l’altro, vale a dire si vive col corpo quella presenza (timore, amore, indifferenza). Tutti gli aspetti dell’immagine dell’altro, nella vita, sono esistenziali, stanno cioè nell’ombra, sono opachi, eppure non meno presenti: l’altro ad esempio è sguardo carico di significati, i quali certo non sono visibili, ma sì percepibili; ancora, l’altro è un corpo, dunque qualcosa di non neutrale dal punto di vista degli affetti e dei colori che lo circondano e lo rivestono, trasmettendo essi qualcosa del suo animo, per esempio il suo stato interiore. E via dicendo. Nella vita, dunque, non è possibile rappresentarsi l’altro, perché l’altro non è conosciuto solo tramite il nome, cioè un’immagine, un aspetto, una faccia, e dunque attraverso l’unica cosa che si potrebbe trasporre nella rappresentazione (l’unica cosa che si può, ad libitum, far ripresentare, e con essa la cosa nominata). No, nella vita l’altro è sentito, 23
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dell’altro si ha esperienza, l’altro viene incontrato attraverso la molteplicità dei sensi (udito, tatto, visione e cioè colori e forma, odorato, olfatto), ed il suo nome è solo una sorta d’etichetta o abbreviazione per indicare un singolo a differenza d’un altro singolo. Dell’altro si può, si deve, aver esperienza. Invece laddove si assume l’immagine, il nome, come decisivo nel rapporto all’altro, separando l’immagine dal sentire, s’iniziano ad usare le componenti dell’immagine (sguardo, corpo, colori) come strumenti di potere (il mio sguardo, il mio corpo, i miei colori, ecc.), cioè strumenti d’influsso sull’altro. Si cominciano così ad evidenziare parti dell’immagine separandole dal loro contesto, e cioè dalla loro naturale, quotidiana relazione col resto dell’esperienza. Tutto ciò è mistero, perché il capovolgimento, la metamorfosi, il passaggio dall’esperienza all’immagine «pura» – ma anche, fortunatamente, il possibile contro-capovolgimento – avviene spontaneamente, si dà in natura, ed esso può solo esser o impedito o assecondato. E l’energia che struttura quell’esperienza di capovolgimento e di contro-capovolgimento rimane naturale, dunque misteriosa. 4. Si faccia adesso un passo innanzi, sempre in direzione dell’avvicinamento alla poetica di Oliveira: si consideri il significato della presenza dello specchio dentro l’immagine. Molto spesso, nel cinema di Oliveira, i personaggi cercano uno specchio in cui riflettersi, ovvero son veduti riflessi in uno specchio a loro insaputa. Come interpretare queste visioni? Ebbene, qui si è in presenza di un’apertura dell’immagine in direzione dello sguardo dello spettatore. Oliveira, con quella scelta visiva, dice allo spettatore che il suo (dello spettatore) non è l’unico punto di vista: altri stanno guardando con lui. Anche la presenza delle statue, nei suoi film, va in questo senso: uno sguardo è presente oltre a quello dello spettatore, qualcun altro sta guardando, anche se si tratta solo d’uno sguardo rappresentato (statua, quadro). È come se Oliveira stesse dicendo allo spettatore che, nello sguardo, si è tutti uniti, nello sguardo si esiste come comunità, lo 24
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sguardo è comunità dello sguardo. Altre prospettive, mille sguardi. Ciò non vuol dire solamente (Bazin) che lo spettatore dev’essere reso attivo: il senso di questa moltiplicazione degli sguardi sta invece anche nella proliferazione delle interpretazioni possibili. Oliveira ritorna spesso su tale molteplicità interpretativa. Lo spettatore non solo deve attivarsi e non essere passivo, dunque elaborare in proprio l’interpretazione dell’opera, supposta unica nell’intenzione artistica del suo creatore. Egli deve anche esser in grado di assumere tale molteplicità dello sguardo, e dunque la possibile molteplicità delle interpretazioni possibili. A tal fine, anche l’immagine deve ospitare al proprio interno una simile molteplicità, e non solo visivamente (specchi): i rapporti tra le componenti dell’immagine devono essere molteplici, intrecciati, cangianti. Sarà questo, come si vedrà (infra, p. 102 ss.), il senso della riflessione di Oliveira sulle quattro componenti dell’immagine e sui loro rapporti reciproci. Ciò significa che è legittimo interpretare il film da uno qualsiasi dei punti prospettici forniti dall’opera: che sia privilegiato il sonoro (nella tripla componente dei suoni, della parola come suono, del testo), ovvero il visivo, o ancora il musicale, ciò non rileva ai fini della maggiore o minore legittimità dell’interpretazione proposta. Si consideri ad esempio il rapporto tra testo ed immagine: afferma Oliveira che Un découpage, un copione cinematografico, è per sua natura un testo letterario. Allorché diventa un film, perde la propria identità letteraria e scompare del tutto nel film, dove non si fa altro che guardar immagini ed ascoltare suoni, come se si stesse dinanzi ad un’orchestra nel mentre si ascolta la musica e si guardano direttore e musicisti coi loro strumenti. Un film onesto non sarà mai «colonia» d’un libro, così come un libro non sarà mai «colonia» d’un film. Se un film s’ispira ad un libro e vuol essergli fedele, il lavoro del regista consisterà nel creare attraverso l’analisi e l’interpretazione. Ciò equivale a penetrare lo spirito del libro in questione ed a scoprirne, con un’attenta lettura ed un’analisi accurata, ciò che va nel più profondo di quel che l’autore nasconde. Il regista si serve di un’altra forma, che non è quella del libro, ma che è ispirata dal libro, 25
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dato che non esiste corrispondenza cinematografica per una frase in buon stile letterario. La forma e lo stile devono essere cinematografiche, cosa che non impedisce di trasporre, con onestà e legittimamente, un testo o dei dialoghi estratti dal libro e che convengono al film. In effetti, la banda sonora è altrettanto cinematografica della banda visiva. Non bisogna dimenticare che il cinema, essendo [dal punto di vista cronologico] l’ultima delle arti, può essere, come di fatto è, la sintesi di tutte le arti19.
Il film, in tal senso, è opera aperta, cioè non possiede una sola interpretazione possibile, peraltro auspicabilmente coincidente con una sola temporalità, quella del presente dello spettatore, ovvero quella del presente in cui fu concepita e realizzata dall’autore. No, l’opera entra in dialogo col presente dello spettatore, allo stesso modo in cui entrò in dialogo col presente del regista, e continua tale dialogo nelle loro vite (nella vita dello spettatore e del regista)20. In tal senso non vi è separazione possibile tra arte e vita, ma stavolta ciò vale soprattutto dal lato dello spettatore, non solo dal lato dell’artista creatore. Ancora: questa molteplicità delle interpretazioni, e la sua vitalità esistenziale, mostra la natura «atomistica» (non nel senso individualistico, moderno, del termine) dell’esperienza: ogni singolarità esistente, ogni «monade» (il regista, l’attore, il personaggio, lo spettatore) possiede la propria prospettiva sul mondo comune, e soprattutto la mantiene, ma è prospettiva d’una parte fra altre parti, d’un ruolo fra più ruoli nel teatro (dal gr. thèa, il guardare, la vista) del mondo. E se il mondo, cioè la vita, è molteplice, cioè costituita da parti, allora il reale è solo l’intero che, appunto, rimane «misterioso», dunque semplicemente «nascosto» alla parte, non dominabile con lo sguardo ma nondimeno esistente, sentito come esistente. Come si sa, la gamma dei colori è enorme e quella visibile è molto limitata: per la nostra vista quello che si trova al di qua 19. M. de Oliveira, Angelica, Paris, Dis Voir, s. d. [1998], p. 8. 20. O dell’attore: Pedro Abrunhosa che dichiara, nel dvd Lusomundo de La lettre, il proprio disorientamento quando veniva chiamato col nome di battesimo anche nel film, dunque dentro e fuori il film, film che continua nella vita e vita che non s’interrompe nel film.
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dei raggi rossi è invisibile, come pure ciò che si trova oltre i raggi violetti. Se noi avessimo una visione a spettro totale, forse potremmo vedere l’anima…21. Non possiamo in nessun modo abbracciare il mondo intero. Né fare un film, o trovare un libro, che parlino di tutto il processo della vita in sé, o della storia in sé. Sono cose talmente vaste che ci obbligano a ripartire e a fare un poco, un minimo, un atomo – che è pur sempre un universo. Spiegar più di così vorrebbe dire entrare nella sapienza degli dei, cosa che noi non siamo22.
E comunque, alla «visione a spettro totale» si può tendere. La ricerca dell’oggettività è un buon movimento. È salutare, molto salutare. Tanto buono e salutare quanto inutile! È impossibile trovar l’oggettività. Così com’è impossibile sopprimere la soggettività. La soggettività è la nostra oggettività. Non è possibile farla sparire. La soggettività sarà forse l’unica definizione giusta e comune a tutti gli atti. Ma è pericoloso esplorare la soggettività in se stessa. È un grande rischio, credo che ci si orienti su cattive piste. Invece il buon cammino è quel che porta all’oggettività. È la nostra salvezza: un mezzo per controllare la nostra soggettività. L’oggettività traccia per noi il cammino verso ciò che è giusto, anche se l’oggettività è impossibile. Ho sperimentato che l’oggettività è un prisma con un numero illimitato di sfaccettature. Quando prendiamo più d’una sfaccettatura, andiamo dal di fuori verso di noi; quando, al contrario, prendiamo solo una sfaccettatura, guadagnamo la nostra oggettività, siamo più vicini ad una certa oggettività, molto limitata ma nondimeno vicina ad una verità, perché siamo su una sola delle infinite sfaccettature possibili. È ciò che ho sperimentato con Le soulier de satin: prendere una sola faccia per vedere tutte le cose23.
Ecco a cosa serve passare «attraverso lo specchio» della soggettività, ecco la riflessione come «resurrezione», della quale parlerà Brice Parain (infra, p. 113 e ss.). Lo specchio, se è vissuto per ciò che è e dunque ombra, riflesso d’una 21. T12, p. 44 (=T14, p. 44). 22. T22, p. 66. 23. T20, p. 91.
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realtà o oggettività «nascosta», libera il singolo dalla fascinazione per l’immagine, libera il singolo dal rapporto con l’immagine «pura», dunque creduta trasparente, soggettiva, non parziale. 5. Qui Oliveira fa intervenire il concetto di «storicità», che è legato a doppia mandata con quello di «memoria». In tal senso, tutto è memoria: la pellicola dov’è impresso il film, il ricordo del film da parte dello spettatore dopo la proiezione, il testo da cui eventualmente è tratto il film, gli eventi storici che sono rappresentati nel film, il dibattito della critica attorno all’opera. Una volta credevo di dover fornire certi simbolismi, fare cose un poco intenzionali, dare un poco della mia personalità ai miei film! Oggi faccio il contrario: cancello, dimentico, fuggo, nascondo il più possibile la mia personalità e cerco di essere obiettivo. Vado a cercar storie che siano scritte, storie che siano di altri, perché così mi trovo di fronte a una realtà a cui devo dare oggettività e tale oggettività è ciò che io cerco. In fondo, sono tutti documentari. Se vediamo la pellicola di Dreyer su Giovanna d’Arco, è un documentario sulla rappresentazione di una realtà. È un documentario inventato ma, in fondo, è un documentario. Per fare un altro esempio: anche Un condamné à mort s’est échappé di Bresson si basa su un avvenimento reale, autentico. Questo basarsi su una realtà storica o di finzione è per me molto importante. A un certo punto cominciai a prender coscienza di quello che era il cinema. Il cinema è un mezzo. Quello che io facevo era dare una rappresentazione (personale, perché non la posso dare se non attraverso i miei occhi e l’intelletto) della realtà, di qui o di là, di oggi o di ieri, più o meno familiare. È questa realtà che mi è più vicina (lettura di un libro, conoscenza di un fatto che mi ha impressionato) che io tento di riproporre, o meglio, di rappresentare. Insomma, il cinema è un mezzo per fissare la memoria. Per questo condanno ciò che simula la realtà e che induce lo spettatore ad assistere ad uno spettacolo che lo coinvolge come se fosse realtà, quando non lo è! Filmare è costituire una realtà cinematografica che a sua volta rappresenta un’altra realtà! La suggestione di ciò che è accaduto, d’altra parte, non è mai la cosa stessa che accadde, perché ciò che accadde non esiste. Quel che accadde è quel che ricordiamo di ciò che abbiamo visto, e ognuno di noi lo vide sotto punti 28
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di vista differenti. L’oggettivo totale, che sarebbe il realismo assoluto, sfugge al possibile. Se un regista raggiungesse l’oggettivo assoluto, sarebbe soddisfatto dopo aver fatto un solo lavoro24.
Nella memoria dunque – la quale, come si è letto, è sempre memoria collettiva: «vado a cercar storie che siano scritte, storie che siano di altri», come afferma Oliveira (più avanti si vedrà quanto stretto sia il legame tra memoria individuale e osservazione storica, infra, p. 157 ss. e spec. 165-172) –, nella memoria continua a sopravvivere la pluralità delle interpretazioni possibili, vale a dire la molteplicità delle prospettive in gioco, delle quali nessuna ha maggior legittimità di altre: quella dominante verrà fuori storicamente, ovvero dal dialogo incessantemente rinnovato fra i punti di vista, in un accordo possibile di natura «politica», accordo nondimeno temporaneo, relativo, anch’esso sempre aperto a possibili metamorfosi. Utopia del reale, anche qui: non v’è un «reale» dell’interpretazione definibile una volta per tutte, ma il reale si definisce dentro una «luce», cioè dentro un orizzonte sempre mutevole, avvicinato e che sempre, di nuovo, si allontana. Un orizzonte ch’è illuminato dall’evento, dal futuro, da quel che deve accadere. Ciò fa legittimamente parlare Oliveira in termini di «mistero», cioè di «nascondimento» della realtà, mancandone una conoscenza possibile: la realtà è piega, continuo ripiegamento e spiegamento, processo infinito di significazione. È peraltro ciò che amo in generale al cinema: una saturazione di segni magnifici che bagnano nella luce della loro assenza di spiegazione. Ecco perché credo al cinema25.
6. Alla luce di quanto detto, diventa adesso possibile volgersi ad alcuni aspetti specifici dell’opera del cineasta lusitano. Si procederà dando spesso la parola al cineasta, sia attraverso i testi presenti nei dialoghi dei film, sia attin24. T12, p. 33-34 (=T14, p. 30). 25. In Godard et de Oliveira sortent ensemble, in Libération, 4-5.9.1993; ried. in J-L. Godard, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, t. II, Paris, Cahiers du cinéma, 1998, p. 270.
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gendo alla massa di testi d’autore ed interviste poco o affatto conosciuti e la cui lettura, come detto, deve accompagnare la visione dei film. Alla luce di quel che si è letto. dovrebbe essere inutile sottolineare, inoltre, che anche l’interprete del cinema di Oliveira dovrebbe provare a cancellarsi, dimenticarsi, fuggirsi, nascondendo nella misura del possibile la propria personalità e andando alla ricerca d’una certa obiettività. Due premesse, ancora: la prima è che qui si recepisce quel che ha scritto, ma a proposito di un solo film, Bénard da Costa: Ao longo do texto, só falei de personagens que não existem, calando os nomes dos actores, máscaras delas26. Nel testo, ho solamente parlato dei personaggi, che non esistono, tacendo i nomi degli attori, maschere dei personaggi.
Così sarà nel libro, con rare eccezioni. Seconda premessa: resta inteso che, se qui e là compariranno nomi di altri registi e titoli dei loro film, ciò avverrà unicamente al fine di evidenziare consonanze e dissonanze in un dialogo tra pari, nel concerto di sguardi e voci che costituisce l’universo del Cinema, nel quale Oliveira ha fin d’ora il posto che gli compete.
26. T24, p. 216.
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Si indica, accanto all’anno dell’uscita commerciale e al titolo originale (portoghese o francese), il titolo italiano dei film distribuiti in sala e tv. Il trattino dopo il titolo originale indica coincidenza col titolo italiano. Dopo i titoli dei film vengono indicati autori ed opere letterarie utilizzate da Oliveira, se presenti; la mancanza di titolo dell’opera letteraria accanto al nome dell’autore indica coincidenza col titolo del film. Si segnalano altresì le collaborazioni del cineasta a film o documentari, nonché le più significative trasmissioni televisive alle quali ha partecipato. Per le inevitabili, minime incertezze concernenti titoli, date di realizzazione e minutaggio, due sono le filmografie di riferimento: quella stabilita in T13 (che si ferma a O Quinto Império) e quella contenuta in T24 (che arriva fino a Cristóvão Colombo. O Enigma). Tutte le opere di Oliveira sono in 35mm e a colori, le eccezioni vengono segnalate. 1928 [attore] Rino Lupo Fàtima Milagrosa [progetto] 9 de Abril 1931 DOURO FAINA FLUVIAL/DOURO LAVORO FLUVIALE 23’/18’ seconda versione 1994 (parzialmente rimontata) doc., b/n, muto [progetto] Bruma [progetto] Uma Feira na Maia [progetto] Ritmos da Água ispirato ad una poesia di A. Patrício 1932 ULHA BRANCA. EMPRESA HIDRO-ELÉCTRICA DO RIO AVE 8’, doc., b/n [doc. disconociuto] Estátuas de Lisboa 8’, b/n [progetto] Roda [progetto] Miseria 1933 [attore] Telmo Cottinelli A Canção de Lisboa [progetto] A Luz 1934 [progetto] Gigantes do Douro 31
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1935 1937 1938
1940 1942 1944 1948 1953 1954 1956
1957 1958 1959
1960? 1961 1963
[progetto] A Mulher que Passa [progetto] Desemprego [progetto] Prostituição OS ÚLTIMOS TEMPORAIS. CHEIAS DO TEJO 4’, doc., b/n PORTUGAL JÁ FAZ AUTOMÓVEIS 9’, doc., b/n [doc. perduto] Miramar, Praia das Rosas 9’, b/n [attore] Automobilismo: a II Rampa do Gradil, Ganha por Manoel de Oliveira num Carro Edford tv FAMALICÃO 24’, doc., b/n [progetto] Hino de Paz ANIKI-BÓBÓ/– 70’, b/n, da R. de Freitas, Meninos milionários [progetto] Saltimbancos [progetto] Clair de lune, da una novella di G. de Maupassant [progetto] La mer [progetto] Angélica [progetto] Pedro e Inês O PINTOR E A CIDADE/IL PITTORE E LA CITTÀ 26’, doc., quadri di A. Cruz [progetto] Vilarinho das Furnas [progetto] A Velha Casa, da J. Régio, As Monstruosidades Vulgares [operatore camera] A. Lopes Ribeiro A Visita a Portugal da Rainha Isabel II de Grã-Bretanha [doc. incompiuto] O Coração [progetto] O Bairro de Shangai [progetto] Do Ano Dois Mil … Não Passarás O PÃO/IL PANE 59’ prima versione lunga/24’ seconda versione 1963 doc. [doc. incompiuto] Filme sobre José Régio [doc. incompiuto] O Palco dum Povo [parti realizzate del progetto: As Pinturas do Meu Irmão Júlio - Acto da Primavera - A Vida e a Morte. Romance de Vila do Conde - O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta] [progetto] Miudos da Bica [progetto] Ribeira de Saudades [progetto] Parque de Ilusões [doc. incompiuto] Hidro-eléctrica do Douro O ACTO DA PRIMAVERA. REPRESENTAÇÃO POPULAR DO AUTO DA PAIXÃO/ATTO DI PRIMAVERA. RAPPRESENTAZIONE POPOLARE DEL MISTERO DELLA PASSIONE 90’, da p. F. Vaz de Guimarães, Auto da muita dolorosa Paixão de Nosso Senhor Jesus Christo, conforme a escrevem os quatros evangelistas (XVI° sec.) A CAÇA/LA CACCIA 21’ 32
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[progetto] Saudosa Rosa 1964 VILAVERDINHO. UMA ALDEIA TRANSMONTANA 20’, doc., 16mm [progetto] A Mulher do Ladrão [progetto] O Comboio do Toneca 1965 AS PINTURAS DO MEU IRMÃO JÚLIO/I QUADRI DI MIO FRATELLO JÚLIO 15’, 16mm, poema e voce di. J. Régio 1965/2008 A VIDA E A MORTE. ROMANCE DE VILA DO CONDE 9’ 1965/2008 O POETA DOIDO, O VITRAL E A SANTA MORTA 7’ 1970 [supervisione e montaggio] A. Moura, A. Baganha, A. Lopes Fernandes Porto 1100 Anos. A Propósito da Inauguração duma Estátua 1971 [supervisione produzione] P. Rocha Sever de Vouga… Uma Experiencia 29’, doc. 1972 O PASSADO E O PRESENTE/IL PASSATO E IL PRESENTE 117’, pièce di V. Sanches [progetto] O Caminho, da pagine scelte di J. Régio 1974 [progetto] Processo da Instauração da República em Portugal 1975 BENILDE OU A VIRGEM-MÃE/BENILDE O LA VERGINE MADRE 106’, piéce di J. Régio 1976 [attore] Retrato de um Cineasta Quando Jovem tv 1977 [progetto] As Tentações de São Antão 1978 AMOR DE PERDIÇÃO. MEMORIAS DE UMA FAMÍLIA/AMORE DI PERDIZIONE. MEMORIE DI UNA FAMIGLIA 261’/287’ versione tv, 16mm (copia 35mm 1997), da C. Castelo Branco [attore] J. Campos, Amor de Perdição Episódio Zero tv 1979 [progetto] O Preto e o Negro, da una pièce «cinematografca» scritta da V. Sanches 1981 FRANCISCA / – 167’, da A. Bessa-Luís, Fanny Owen [attore] J. Botelho Conversa acabada [progetto per il cinema] De Profundis [attore] J. Nascimento e A. M. Seabra, Manoel de Oliveira. Écran 1982 A VISITA OU MEMÓRIAS E CONFISSÕES 68’, dialoghi di A. BessaLuís, film autobiografico e da vedersi postumo 1983 LISBOA CULTURAL/LISBONA, CAPITALE CULTURALE 58’, doc., 16mm, tv Capitali europee della cultura NICE, À PROPOS DE JEAN VIGO 58’, doc., 16mm, serie tv Un regard étranger sur la France 1984 REFLEXÃO DE MANUEL CASIMIRO. A PROPÓSITO DA BANDEIRA NACIONAL 7’, 16mm 1985 LE SOULIER DE SATIN/LA SCARPINA DI RASO 415’, 16 e 35mm, da P. Claudel SIMPÓSIO INTERNACIONAL DE ESCULPTURA EM PEDRA. PORTO 1985 60’, doc., 16mm, con M. Casimiro 33
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1986 MON CAS/IL MIO CASO 91’, da J. Régio, O meu Caso, S. Beckett, Pour en finir et autres foirades, libro di Giobbe [progetto] A Carta ou Teatro de Mulheres 1987 [regia teatro] De Profundis, da novella di A. Bessa-Luís, poesie di J. Régio, A. Nobre, F. Pessoa [progetto] A Estátua 1988 OS CANIBAIS/I CANNIBALI 99’, da A. do Carvalhal 1990 NON OU A VÃ GLÓRIA DE MANDAR/NO, O LA FOLLE GLORIA DEL COMANDO 111’ 1991 A DIVINA COMÉDIA/LA DIVINA COMMEDIA 141’, da Bibbia, F. Dostoevskij, F. Nietzsche e J. Régio, A Salvação do Mundo 1992 O DIA DO DESESPERO/IL GIORNO DELLA DISPERAZIONE 75’, testi da C. Castelo Branco 1993 VALE ABRAÃO/LA VALLE DEL PECCATO 187’/207’ versione integrale, da A. Bessa-Luís [attore] P. Rocha Oliveira architecte 78’, doc., 16mm 1994 A CAIXA/LA CASSETTA 93’, da H. Prista Monteiro [attore] M. Oliveira e Costa, De Griffith à…tv 1995 O CONVENTO/I MISTERI DEL CONVENTO 91’, da un’idea di A. Bessa-Luís contenuta in As Terras do Risco [attore] W. Wenders Lisbon story [attore] M. Lopes da Costa Manoel de Oliveira. Um Homem do Norte tv 1996 PARTY/– 93’, collaborazione ai dialoghi di A. Bessa-Luís [co-regia] J. Rouch En une poignée de mains amies 25’, doc., 16mm 1997 VIAGEM AO PRINCÍPIO DO MUNDO/VIAGGIO ALL’INIZIO DEL MONDO 91’ 1998 INQUIETUDE/INQUIETUDINE 110’, da H. Prista Monteiro, Os Imortais, A. Patrício, Suzy, A. Bessa-Luís, Mâe de um Rio [intervista tv] Bouillon de culture Francia 1999 LA LETTRE/LA LETTERA 107’, da Mme de Lafayette, La Princesse de Clèves 2000 PALAVRA E UTOPIA/PAROLA E UTOPIA 132’, sermoni e lettere di padre A. Vieira 2001 JE RENTRE À LA MAISON/RITORNO A CASA 90’ PORTO DA MINHA INFÂNCIA/PORTO DELLA MIA INFANZIA 62’, poema Europa di A. Casais Monteiro 2002 O PRINCÍPIO DA INCERTEZA/IL PRINCIPIO DELL’INCERTEZZA 132’, da A. Bessa-Luís, Jóia da Família MOMENTO. UMA CANÇÃO DE PEDRO ABRUNHOSA 5’, videoclip [attore] Memórias do cinema português serie tv Crónica do século [intervista tv] Por Outro Lado RTP 34
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2003 UM FILME FALADO/UN FILM PARLATO 96’ [pubblicità] Swatch [regia teatro] Mário ou Eu Próprio o Outro, da J. Régio [intervista tv] 24 horas em… Lisboa [intervista tv] Discurso directo SIC Notícias 2004 [attore] J. R. Mattos Agostinho da Silva. Um pensamento vivo 79’, doc. [attore] M. de Medeiros Je t’aime... moi non plus: Artistes et critiques 92’, doc. 2005 O QUINTO IMPÉRIO. ONTEM COMO HOJE/IL QUINTO IMPERO. IERI COME OGGI 127’, piéce di J. Régio, El Rei Sebastião ESPELHO MÁGICO/SPECCHIO MAGICO 137’, da A. Bessa-Luís, A alma dos ricos DO VISÍVEL AO INVISÍVEL 6’ [attore] D. Segre Conversazione a Porto 80’, doc., con A. Bessa-Luís [attore] Os Invisíveis serie tv Tres retratos do Brasil [attore] A. J. de Almeida Agustina Bessa-Luís. Nasci adulta e morrerei criança 55’, doc. 2006 BELLE TOUJOURS/BELLA SEMPRE 68’ O IMPROVÁVEL NÃO É IMPOSSÍVEL 19’ [progetto] Documentário sobre Régio [attore] R. Azevedo Gomes A 15ª Pedra. Manoel de Oliveira e João Bénard da Costa em conversa filmada 74’, doc. 2007 CRISTÓVÃO COLOMBO. O ENIGMA/CRISTOFORO COLOMBO. L’ENIGMA 75’, ispirato a M. da Silva, Cristovão Colon era Português RENCONTRE UNIQUE 3’, in Aa.VV., Chacun son cinéma [intervista tv] Programa Bastidores RTP 2008 [attore] S.C. Andrade Manoel de Oliveira. O Caso Dele doc., tv 2009 SINGULARIDADES DUMA RAPARIGA LOURA 64’, da E. de Queiroz 2010 OS PAINÉIS DE SÃO VICENTE DE FORA corto O ESTRANHO CASO DE ANGÉLICA 95’
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NOTA BIOGRAFICA Porto da Minha Infância
Io sono uno scherzo della natura
Manoel Cândido Pinto d’Oliveira nasce a Porto, nel nord del Portogallo, l’11 dicembre 1908: la dichiarazione di nascita viene fatta il giorno dopo, sicché la data ufficiale è quella del 12 dicembre. Manoel d’Oliveira è l’ortografia corretta del suo nome, essendo egli nato sotto il regime monarchico e dunque prima della riforma ortografica voluta a partire dal 1911 dal neonato governo repubblicano, il quale modificò in Manuel il nome e aggiunse una e al «d’». Il cineasta si è sempre firmato Manoel, e da Amor de Perdição in poi ha messo quel nome nei titoli di testa dei suoi film, mantenendo il «de». Va notato che a Porto, nel settembre 1896, una decina d’anni prima della sua nascita, era stato dato il primo colpo di manovella della storia del cinema portoghese da parte di Aurélio Paz dos Reis, il quale aveva filmato l’uscita delle sarte dalla camiceria Confiança nella Rua Santa Catarina. Oliveira renderà omaggio in Porto da Minha Infância (Porto della mia infanzia, 2001) al suo predecessore, e in Cristovão Colombo farà vedere il Grand Hotel do Porto, ubicato sulla stessa Rua. Il padre Francisco José de Oliveira è un industriale, la madre si chiama Cândida Ferreira Pinto. Il padre aveva una relazione precedente al matrimonio con la donna con cui conviveva, la quale si suicidò alla notizia delle nozze. Da lei aveva avuto due figli, che vennero affidati ad una governante e del cui futuro egli continuò ad occuparsi da vicino: saranno i fratelli naturali degli altri suoi tre figli legittimi. Francisco José de Oliveira aveva aperto, nel 1904, una fabbrica di passamaneria (nastri e cordoncini da usare per 37
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guarnire abiti, tendaggi, tappezzerie), la Fábrica 9 de Julho, ubicata accanto all’abitazione in cui viveva con la famiglia. Un giardino separava i due stabili, e la fabbrica prendeva il nome dalla strada cittadina su cui affacciava. Manoel è il terzo di tre figli: Francisco è più grande di lui di nove anni, Casimiro di diciotto mesi. La madre aveva grandemente desiderato che Manoel nascesse femmina e a lungo lo vestirà da bambina, pettinandolo coi boccoli. Dal balcone di casa, sovrastante la rampa d’accesso alla fabbrica, i bambini vedevano spesso uscire gli operai, peraltro in maggioranza donne, ed erano in costante contatto con loro. Entrambe le costruzioni – la fabbrica, la casa – non esistono più, e da qualche muro diroccato, sopravvissuto ed inquadrato fuori fuoco, prende avvio Porto da Minha Infância. Manoel frequenta il Colègio Universal a Porto, poi nel 1919 viene mandato con Casimiro in Galizia (Spagna), a La Guardia, sulla riva del fiume Minho, a frequentare per circa quattro anni come interno il collegio dei Gesuiti, espulsi dal Portogallo dopo l’instaurazione della Repubblica nel 1913. Insofferenti alle messe quotidiane e alla disciplina, i fratelli vengono ritirati e proseguono gli studi privatamente nella casa di Porto. Questi eventi sono narrati – e i luoghi mostrati – in Viagem ao Princípio do Mundo (infra, p. 161 ss.). Terminati gli studi, Manoel assiste il padre nell’attività di fabbrica insieme ai fratelli, curandone gli aspetti amministrativi; trascorre il tempo libero facendo sport, in particolare ginnastica e salto con l’asta, specialità nella quale diventa vice-campione nazionale. Col fratello Casimiro inventa anche un numero speciale al trapezio volante. Si dà poi alle corse d’auto (solo il matrimonio, nel 1940, lo spingerà ad abbandonare questa passione) e vince numerosi premi, anche all’estero (Spagna, Brasile)1. Sono anche gli anni nei quali uno scultore, Henrique Moreira, lo utilizza come modello per una statua, O Atleta2. 1. Esiste un album fotografico su «esta outra vida de Manoel de Oliveira»: J. Barros Rodrigues, Manoel de Oliveira. Piloto de Automóveis, Casal de Cambra, Caleidoscópio, 2009. Si veda anche il corto del 1938. 2. Una foto della statua, accostata ad una foto del giovane Manoel, si vede in J. Buisel, Manoel de Oliveira. Fotobiografia, Lisboa, Figueirinhas, 2002.
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Manoel frequenta inoltre, sempre con Casimiro, la scuola per la formazione d’attore del regista italiano Rino Lupo, aperta da poco a Porto. Nel 1928 avrà, insieme al fratello, un piccolo ruolo in Fátima Milagrosa, film diretto da Lupo; e nel 1933 un ruolo più importante nel primo film sonoro portoghese, A Canção de Lisboa di Telmo Cottinelli, altro regista italiano attivo in Portogallo. Nel 1930 la rivista Imagem gli aveva dedicato una pagina, presentandolo come «uno dei cinefili portoghesi più fotogenici». La formazione cinematografica avviene «sul campo», cioè vedendo film: da lì derivano le prime nozioni circa il montaggio e la costruzione ritmica. E i primi titoli sono The Birth of a Nation di Griffith, La passion de Jeanne d’Arc di Dreyer, La linea generale di Ejzenštejn, La madre di Pudovkin. Oliveira vedrà più volte Sunrise di Murnau, per ricostruirne il découpage. A quelle visioni vanno aggiunti Charlot, Max Linder e Turíbio, un comico della Pathé, al secolo André Deed; nonché le grandi ricostruzioni d’epoca italiane: Gli ultimi giorni di Pompei, Cabiria, Maciste. Le sere vengono trascorse spesso nei teatri di Porto (in Porto da Minha Infância si vede il giovane Manoel a teatro), insieme ai genitori o con i fratelli – e con le cocottes, amiche del più grande dei tre, Francisco, le quali spesso invitano Manoel nel loro palco, come si vede in Inquietude. La vita della bohème portuense affascina molto Manoel, ma anche il cinema lo prende, e con l’aiuto del padre – che gli fa dono d’una cinepresa e di alcuni obiettivi –, nonché con la collaborazione d’un fotografo amatore e impiegato di banca, António Mendes, il cineasta in erba comincia a raccogliere materiale per il suo primo film. Ha vent’anni. Il garage di casa funziona da laboratorio per lo sviluppo della pellicola, il biliardo è il tavolo di montaggio. Si giunge così al 1931, anno in cui il cortometraggio Douro Faina Fluvial viene presentato al V Congresso Internazionale della Critica a Lisbona. Fra gli spettatori vi sono Luigi Pirandello, molto stupito della pessima accoglienza che il film riceve da parte dell’uditorio; ed Émile Vuillermoz, critico francese di Temps, che del film sarà entusiasta. Anche lo scrittore e critico letterario José Régio ne parlerà, 39
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definendo il film «la prima opera d’arte del cinema portoghese»3. In quegli anni Oliveira entra a far parte – con la sua cultura «fondamentalmente cinematografica»4 - anche degli ambienti intellettuali di Porto, in particolare delle tertúlias, gli incontri letterari animati da Régio durante l’inverno al Café Majestic, d’estate al Diana Bar. Lì è anche presente Agustina Bessa-Luís5. Nel 1940, il 4 dicembre, Manoel sposa Maria Isabel Brandão de Meneses de Almeida Carvalhais (1918 -), con la quale metterà al mondo quattro figli: Manuel Casimiro, José Manuel, Isabel Maria e Adelaide Maria. Solamente nel 1942 Oliveira potrà girare il suo primo lungometraggio, AnikiBóbó. Nel 1914 il padre, molto dinamico ed aperto all’innovazione in campo industriale, aveva inaugurato anche un’im3. Esteta, umanista e uomo religioso, José Régio (1901-1969, al secolo José Maria dos Reis Pereira) fu scrittore poliedrico, professore nelle scuole e animatore del movimento letterario del «secondo modernismo» portoghese, che trovò voce nella rivista presença tra il 1927 e il 1940. Régio contribuì in modo decisivo a salvare dall’oblìo Pessoa e il movimento di Orpheu. Socialista ed oppositore del regime, lo scrittore e drammaturgo, sensibile alla vocazione mistica, fu tormentato dalla ricerca d'un «segnale» divino. Oltreché essersi ispirato alle sue opere per i film, Oliveira ha scritto molte volte su di lui: O Sinal (1984), «O Meu Caso» no caso de Régio (1987), Pecar por não pecar (1992), O Amante da Verdade (1994), Introduction a Colin Maillard (1999). Régio compare in due suoi cortometraggi: As Pinturas do meu Irmão Júlio e O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta. La città natale di Régio, Vila do Conde, ha allestito nel tempo due iniziative per celebrarne la complicità artistica col cineasta: Régio, Oliveira e o Cinema nel 1994; Oliveira/Régio. Releituras e fantasmas nel 2009. Su Régio e il «secondo modernismo», si veda G. Le Gentil, La littérature portugaise [1935], opera completata da R. Bréchon, Paris, Chandeigne, 1995; trad. Storia della letteratura portoghese, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 127 ss. Cfr. anche infra, p. 205, n. 35. 4. I, Jornal de Letras, 1995, p. 14. 5. A. Bessa-Luís, Utopie et bon sens, 44, 2002, p. 138. La scrittrice Agustina Bessa-Luís (1922-) è una delle più autorevoli voci della letteratura contemporanea portoghese, amica di Oliveira e sua collaboratrice, nonché fonte d’ispirazione per i film. Vicina di casa della futura moglie del cineasta nella regione del Douro, la scrittrice compare in Porto da Minha Infância, mentre legge un proprio testo seduta al tavolo d’un ristorante (cfr. inserto fotografico).
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presa idroelettrica sul fiume Ave, grazie alla quale diventerà in seguito il primo fabbricante di lampade elettriche in Portogallo. Alla sua scomparsa, all’inizio degli anni Trenta, le due fabbriche passeranno in eredità ai figli legittimi, insieme ai relativi debiti. Manoel assiste il fratello Casimiro nella direzione della fabbrica di passamanerie fino al momento della sua morte, poi ne prende il posto. In seguito, il cineasta dovrà anche ipotecare la propria casa nel quartiere di Foz do Douro (costruita in collaborazione con un famoso architetto dell’epoca e nella quale è ambientato Visita ou Memórias e Confissões, film da vedersi postumo), al fine di garantire la sopravvivenza della fabbrica e i posti di lavoro6. Negli anni della «cattività cinematografica», periodo dopo il 1942 nel quale gli venne politicamente impedito di girare film, Oliveira, oltreché gestire la fabbrica paterna, si dedica anche all’agricoltura nella proprietà ereditata dalla moglie, in particolare alla cura dei famosi vigneti della valle del fiume Douro, ripetutamente immortalata nei suoi film, specialmente in Vale Abrãao. E se nel 1946 annuncia di voler rinunciare al cinema, con la tentazione di bruciare negativi e progetti di film, nondimeno nel 1955 si reca a Leverkusen (Germania), per partecipare ad uno stage di apprendimento all’uso della pellicola a colori. E nel 1957 ospita a casa sua, per venti giorni, André Bazin, in vacanza ma già malato (scomparirà l’anno seguente). Fra il 1956 e il 1963 Oliveira riesce a girare O Pintor e a Cidade (suo primo film a colori), O Pão, A Caça e il secondo lungometraggio, O Acto da Primavera. Con questo film arriveranno non solo i primi riconoscimenti in campo artistico su scala nazionale, bensì anche dieci giorni di prigione nelle mani della PIDE, a motivo d’aver affermato l’esistenza della censura in Portogallo7. All’inizio degli anni Sessanta, sulla scia dell’affermarsi della nouvelle vague francese, è nel frattempo nato in Portogallo il movimento del cinema novo e i giovani registi ve6. T22, p. 75. Sull’impresa idroelettrica si veda il corto del 1932. 7. J. Parsi, Manoel de Oliveira, Paris, Centre Culturel Calouste Gulbenkian, 2002, p. 100-101. L’episodio è ricostruito in A Visita ou Memórias e Confissões.
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dono in Oliveira il loro padre spirituale: uomo d’arte, resistente, non compromesso col regime8. E prima della fine del decennio si sarà affermato anche il loro progetto mirante alla creazione del Centro Português de Cinema (CPC) il quale, in collaborazione con un finanziatore privato, la fondazione Calouste Gulbenkian, avvierà la produzione di quattro lungometraggi, fra i quali O Passado e o Presente. La risposta governativa consisterà nella creazione dell’Instituto Português do Cinema (IPC), il quale offrirà ad Oliveira i finanziamenti per Benilde ou a Virgem-Mãe. Ma il 1974 è alle porte. Sopraggiunge l’epoca della Revolução dos Cravos: mentre Oliveira deve ancora far fronte agli impegni finanziari assunti per far sopravvivere l’attività imprenditoriale, si procede con l’occupazione generale delle fabbriche, compresa la sua, situazione che determina il disastro finanziario. La casa viene definitivamente venduta, e sarà lasciata nel 1982; i figli emigrano in Francia, la moglie comincia a lavorare. Nondimeno il cineasta, che aveva comunque portato a termine Benilde ou a Virgem-Mãe senza modificare d’una virgola il progetto finanziato prima della rivoluzione9, dispone adesso d’un sussidio fornito dalla televisione per girare Amor de Perdição. Una carriera cinematografica «regolare» può finalmente avere inizio: Oliveira ha sessanta anni, e i successivi quaranta li vivrà, fino ad oggi e sempre, da «hawksian man of action»10, anche grazie all’incontro, nel 1980, col produttore 8. Sul movimento del cinema novo si veda E. Prado Coelho, Vinte anos de cinema português. 1962/1982, Lisboa, ICALP, 1983; Aa.Vv., O Cinema Novo Português 1960/1974, Lisboa, Cinemateca portuguesa, 1984; A. M. Seabra [a cura di], Portogallo: «Cinema Novo» e oltre…, Venezia, Marsilio, 1988 (nel volume c’è un ottima Cronologia, p.19 ss.). 9. Il film esce nelle sale in Portogallo nella settimana del 25 novembre 1975, in un periodo nel quale il già turbolento processo rivoluzionario deve fare i conti con tentativi golpistici, cfr. J.H. Saraiva, História concisa de Portugal, Mem Martins, Publicações Europa-America, 2001; trad. Storia del Portogallo, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 326-329. 10. J. Gillett, Manoel de Oliveira, in Sight and Sound, estate 1981. Si rinvia infra, p. 328 ss., all’impressionante teoria di partecipazioni a festival maggiori, retrospettive, riconoscimenti, lauree honoris causa e premi, che prende avvio con regolarità dagli anni Ottanta. Fra i pre-
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portoghese Paulo Branco (sodalizio che durerà venticinque anni, da Francisca a O Quinto Império), il quale organizzerà quell’anno stesso un’importante retrospettiva parigina e garantirà costanti possibilità finanziarie, mai venute meno anche nell’alternarsi di differenti produttori dopo il 2005. *** Un critico americano ha scritto, a proposito di Oliveira: His mastery belongs partially in an eccentric category of his own invention, comparable to that of Thelonious Monk as an idiosyncratic jazz pianist11.
Il più «misterioso» pianista della storia della musica tocca, per vie ineffabili, il più «segreto ed inesplicabile» cineasta della storia del cinema. E al lusitano, alla sua intensa esistenza, può applicarsi senza dubbio alcuno il concetto che la Bessa-Luís esprime in Vale Abrãao a proposito del personaggio principale: Nada disto é importante. Mas ninguém imita melhor do que eu uma bela vida12.
mi, vanno almeno segnalati il Leone d’oro speciale della giuria a Venezia nel 1985, il Leopardo d’oro d’onore a Locarno nel 1992, il Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 2004, la Palma d’oro alla carriera a Cannes 2008. 11. «La sua maestria scaturisce in parte da un’eccentrica categoria di sua propria invenzione, comparabile a quella di Thelonious Monk quale peculiare pianista jazz», J. Rosenbaum, The Classical Modernist, in Film Comment, luglio-agosto 2008, p. 47. 12. «Niente di questo è importante, ma nessuno imita meglio di me una bella vita», A. Bessa-Luís, Vale Abrãao, Lisboa, Guimarães, 1991, p. 305.
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Ad una domanda circa le sue impressioni sul cinema, Kafka rispose: «È rapido. Pa! Pa! Pa! Pa! Pa!». Per lui, non c’era tempo per pensare a quel che accadeva. […] Per questo sono arrivato a fare un altro tipo di cinema, un po’ più ragionato, interiore, profondo…
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In una lettera scritta a Gilles Deleuze qualche anno prima della scomparsa del filosofo francese, Oliveira, rileggendone il testo Qu’est-ce que l’acte de création?1, centra sulla questione «cos’è il “popolo” e chi è il “popolo”» il senso dell’«idea di cinema» che Deleuze cerca di mostrare ai propri lettori. Un senso a suo parere «velato, qualcosa d’indefinito da cui deriva una sorta di “enigma” estremamente sconcertante»2. Ne L’image-temps, concludendo uno dei capitoli centrali del volume, Deleuze aveva già portato l’attenzione sulla questione del cinema politico nell’epoca moderna, l’epoca di Resnais e degli Straub, «forse i più grandi cineasti politici dell’occidente»3. La prudenza del «forse» era peraltro d’obbligo per un pensatore attento come il filosofo francese, ma anche e soprattutto per un «filosofo come spettatore»4 il quale, con tutta probabilità, aveva avuto scarse occasioni d’incrociare lo sguardo con i film di Oliveira, almeno se si giudica dall’u1. G. Deleuze, Qu’est-ce que l’acte de création?, in Trafic, 27, 1998; trad. Che cos’è l’atto di creazione?, in G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio, 2003, conferenza tenuta a Parigi presso la FEMIS nel marzo 1987. 2. TA, Une idée de cinéma, 2002, p. 45 (= trad. p. 506). Si tratta di estratti da una lunga lettera inviata dal cineasta a Deleuze l’1.5.1991, e rimasta a tutt’oggi senza pubblica risposta. 3. G. Deleuze, L’image-temps, Paris, Minuit, 1985, p. 281 ss.; trad. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 210 ss., 239. 4. È il titolo di un’intervista contenuta in Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, cit.
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nica citazione offerta per il cinema del cineasta lusitano all’interno dei due volumi sull’immagine cinematografica, laddove, nel primo, egli discute dell’immagine-affezione e del primo piano a proposito di un’inquadratura di Francisca, nella quale José Augusto e Camilo sono in dialogo nella casa di quest’ultimo: Primo piano di Oliveira, i due volti d’uomo, mentre in profondità il cavallo che si è inerpicato su per le scale prefigura gli affetti del rapimento d’amore e della cavalcata musicale5.
Una situazione dettata, invero, dalla scarsità di circolazione nella distribuzione commerciale dei film del lusitano6, anche in una città così ricca di offerte quale Parigi, in un’epoca peraltro, quella dei primi anni Ottanta (anni della gestazione dei volumi sul cinema di Deleuze), nella quale i supporti analogici o digitali erano ancora poco diffusi. Si riassumono qui molto in breve le tesi esposte da Deleuze nell’ottavo capitolo di L’image-temps, data l’importanza della questione in discussione7. Per il filosofo francese, nel cinema moderno – grosso modo, il cinema nato in Europa col secondo dopoguerra, poi di lì diffusosi nel mondo intero –, la filosofia, il pensiero, si fa corpo «[gettandosi] nelle categorie della vita, che sono gli atteggiamenti del corpo, le sue posture». È questa per Deleuze, ad esempio, la grandezza di Cassavetes. Con il corpo, e non più tramite il corpo [come all’epoca della subordinazione dell’immagine-tempo all’immagine movimento], il cinema sposa lo spirito, il pensiero,
5. G. Deleuze, L’image-mouvement, Paris, Minuit, 1983, p. 148; trad. L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 127. Oliveira viene citato una seconda volta da Deleuze in Optimisme, pessimisme et voyage. Lettre à Serge Daney, prefazione a S. Daney, Ciné-Journal, Paris, Cahiers du cinéma, 1986, p. 7. 6. È del 1980 la prima retrospettiva dedicata ad Oliveira a Parigi, allestita da Paulo Branco il quale, all’epoca, era alla sua prima esperienza di collaborazione con Oliveira come produttore esecutivo per Francisca. 7. Fino alla nota successiva, tutte le citazioni sono tratte dalle pp. 210247 di Deleuze, L’Immagine tempo, cit.
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e ciò avviene sia attraverso il montaggio della cinepresa su un corpo quotidiano (Antonioni, Il grido), sia col far passare il corpo attraverso una cerimonia, «introducendolo in una gabbia di vetro o di cristallo» (Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi). Il cinema diventa procedimento di costituzione dei corpi: costituzione non della loro presenza, bensì della credenza capace di restituirci il mondo e il corpo a partire da quel che la loro assenza significa.
Ma il cinema moderno, inoltre, inventa al contempo anche la figura del «cinema intellettuale», cinema altro rispetto a quello «fisico» dell’immagine-movimento: «Datemi un cervello». Questo «cinema del cervello» (nuovamente Antonioni e ancora Kubrick, Resnais, Techiné, Jacquot) è cinema che taglia o mette in fuga tutte le associazioni interiori, chiama un fuori aldilà di ogni mondo esterno.
È cinema d’ispirazione neo-psicanalitica, «fondato su una struttura topologica del fuori e del dentro», nel quale «è un carattere fortuito a ogni stadio dei concatenamenti o mediazioni a definire la nuova immagine cerebrale». In questo cinema «il mondo attende i propri abitanti, ancora persi nella nevrosi» (Antonioni, una volta di più). Abitanti, dunque popolo. Tutto questo, allora, non può non avere una ricaduta «politica»: se già si è letto di Resnais e Straub quali grandi cineasti politici, ebbene, della loro grandezza va sottolineata la «stranezza». Essi esprimono la propria politicità non per la presenza del popolo, al contrario perché sanno mostrare come il popolo sia ciò che manca, ciò che non c’è.
Un popolo-enigma, popolo fantasma. «È la prima grande differenza tra cinema classico e moderno. Perché nel cinema classico il popolo c’è, anche oppresso, ingannato, assoggettato, anche cieco o inconsapevole»: Ejzenštejn e tutti i sovietici, King Vidor, Capra e Ford per gli Usa, dice De51
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leuze, a cui è ben lecito qui aggiungere Oliveira e Douro Faina Fluvial per l’Europa occidentale. Si tratta del «cinema come arte delle masse […], per eccellenza […] arte rivoluzionaria, o democratica, che fa delle masse un vero e proprio soggetto». Anche qui gli eventi (Hitler, lo stalinismo, il disgregarsi nel popolo americano della convinzione d’esser crogiuolo dei popoli passati) mostreranno come il cinema politico moderno, «se esistesse», si potrebbe solamente fondare sulla base del fatto che «il popolo non esiste più, o non ancora… il popolo manca». Il compito dell’arte diventa dunque quello di partecipare, di contribuire all’invenzione d’un nuovo popolo, dato che «il popolo che manca è un divenire». E tale avvento passa per la messa in discussione della separazione fra pubblico – vale a dire, politico – e privato, in particolare attraverso ciò che Deleuze chiama «parola in atto, l’atto di parola», dunque la produzione, da parte dell’autore di «una piccola nazione» (è nuovamente lecito il riferimento al Portogallo di Oliveira), di «enunciati collettivi in grado di elevare la miseria a una strana positività, l’invenzione di un popolo». Non si seguirà ulteriormente il percorso deleuziano, ricco e ben più articolato di quanto è qui possibile sintetizzare8. Ma è su questo sfondo che va letta la lettera di Oliveira a commento del testo di Deleuze «filosofo come spettatore»9. 8. Si veda per esempio V. Brito, L’île déserte et le peuple qui manque, in F. Dosse - J-M. Frodon [a cura di], Gilles Deleuze et les images, Paris, Cahiers du cinéma/INA, 2008; G. Siniscalchi, Straub-Huillet: il canto del materialismo, in P. Spila [a cura di], Il cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Roma, Bulzoni, 2001. Si veda anche il dossier Deleuze Politique, in Cités, 40, 2009. 9. Lemière parla di «conversa indirecta com Deleuze, através de Serge Daney e Raymond Bellour», in T4, p. 126. Sul rapporto tra Oliveira e Deleuze, si legga la dichiarazione di Oliveira medesimo in I, El Mundo, 2003, p. 43: «Deleuze ha scritto due libri sul cinema. Il primo l’ha intitolato L’image-mouvement, il secondo lo corresse titolandolo L’image-temps. Credo si sia reso conto che il tempo è già movimento, ma al contempo, e proprio per questo, non ha cambiato “immagine”, poiché la parola, il suono e la musica si riducono, tutte, all’idea di immagine. […] Non sapevo, prima di leggere Deleuze, che tutto sommato io la pensavo come lui, né lui sapeva che io la pensassi come lui.
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Scrive Oliveira, nell’atto inaugurale della propria «conversa indirecta» con Deleuze: In modo intuitivo, che per disgrazia potrebbe rivelarsi errato, di fronte a questa sorta di sciarada [contenuta nella riflessione deleuziana sul cinema come «urgenza», di cui il filosofo vedeva traccia per esempio nell’opera di Kurosawa in rapporto a Dostoevskij, nonché nell’arte di Klee, data la mancanza, lui vivente, di pubblico per le sue tele, «urgenza» dunque che, come anche in Straub, è «atto di resistenza» alla morte, resistenza capace di ristabilire la comunione tra il profano e il religioso, alla quale accenna Oliveira] ho iniziato a coordinare le mie idee intorno a questo tipo di cosa: la chiave di tutto sarebbe il «Popolo». Sarebbe allora il «popolo» la «urgenza» che si sovrappone alle peripezie del personaggio di Dostoevskij, sarebbe il «popolo» ciò che manifestamente mancherebbe all’arte di Klee, sul «popolo» ricadrebbe l’impossibilità di separarla dal divino, ancora, sarebbe in nome del «popolo» che sorgerebbe la resistenza contro la «parola d’ordine». E dopo tutte queste inquietudini, laceranti perché inglobano i nostri complicati e complessi conflitti individuali all’interno dei non meno complicati e complessi conflitti di ordine sociale, in questa condizione fatale della specie umana alla quale ognuno di noi appartiene dando corpo al concetto di «popolo», si propone di nuovo l’inquietante domanda al di là di tutti Non ho avuto tempo per sapere se su questo punto la pensavamo nella stessa forma. Però non sono sicuro (incertezza) se l’interpretazione che faccio del suo pensiero corrisponda a ciò che lui pensava davvero, oppure se trascino il suo pensiero verso il mio (principio d’incertezza)». Altri tre luoghi di quel «dialogo unilaterale»: l’integralità dell’intervista pubblicata su una rivista codiretta all’epoca da Deleuze insieme a Guattari (cfr. I, Chimères, 1991), discussione a tre voci, con Daney e Bellour, che prende avvio dall’affermazione di uno degli intervistatori, «Se ho ben compreso, Manoel voleva parlare con Gilles Deleuze a proposito del tempo al cinema…»; e due testi a sua firma, Parole et cinéma, 2001, e Repenser le cinéma, 2004 (si tornerà su tutti e tre i testi). Si vedano anche cinque importanti citazioni che Oliveira fa a proposito di Deleuze: la prima in T7, p. 34; altre tre in altrettante interviste ai Cahiers du cinema (1993, p. 44; 2002, p. 57) e Positif (1999, p. 27, dove evoca il suicidio del filosofo); la quarta in J.M. Grilo, O Cinema da Não-Ilusão. Historias para o Cinema Português, Lisboa, Livros Horizonte, 2006, p. 136.
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questi vaneggiamenti del mio spirito confuso: che cos’è il «popolo» e chi è il «popolo». In epoche lontane la classificazione di «popolo» era chiara e lo si distingueva dalla Nobiltà e dal Clero. Oggi che le monarchie sono disfatte o si sono trasformate in democrazie – parlo in particolare del mondo occidentale –, e poi con la diffusione della democrazia, con il crollo universale, o quasi, delle dittature socialiste, con la moltiplicazione dei sindacati, con l’espansione sempre più generalizzata dell’insegnamento, con il cammino verso una generale eguaglianza di possibilità, e malgrado una divisione fra i più ricchi e i più poveri, quale significato reale può avere oggi, restando per lo meno nella parte civilizzata del mondo occidentale, la parola «popolo»? Data la mia memoria corta e la mia scarsa conoscenza della storia antica e di quella attuale, mi appare, a tutta prima, un’idea chiara che s’impone su tutte le altre, un’idea generale e assoluta, quella di un «Popolo di Dio». «Popolo» sacro, che come popolo non può appartenere a nessun umano perché è «Popolo di Dio». È popolo di Dio il popolo schiavo degli egiziani; sono popolo di Dio i popoli sottomessi da altri più forti e dominatori. Continuano ad essere «Popolo di Dio» tutte quelle moltitudini perseguitate dalla fame a causa della siccità, della guerra, delle rivoluzioni e, infine, da questo triste caos che dappertutto si vede in questo mondo moderno e che richiedono in un solo grido la «suprema urgenza». Ma queste parole, che sgorgavano dalla terra e che puntavano verso i cieli mentre la terra si infossava, queste stesse parole ritornavano sino al fondo della terra, incontrando i «cadaveri» che le avevano proferite, nel tentativo di liberarsi da una maledizione. E noi ritorniamo al «popolo» come «urgenza suprema», come eco inaudibile che pesa su di noi, noi che, con buona o cattiva coscienza, ci alleggeriamo del peso delle responsabilità collettive. Noi ci accomodiamo nell’egoismo delle nostre comodità e dei nostri interessi personali. In un egoismo che si propaga dall’individuo alla coppia, dalla coppia alla famiglia, agli amici, ai gruppi settari, alle ideologie, ai partiti politici, alle nazioni, alle religioni, in cerchi successivi che si abbattono alla periferia di un orizzonte perduto, ma mai dimenticato10. 10. TA, Une idée de cinéma, cit., p. 45 (=trad., p. 506-507).
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Straordinario testo, nel quale il cineasta concorda col filosofo nel sottolineare la dimensione «politica» intrinseca alla pratica artistica, il suo essere pratica di «resistenza» alla morte11 (anche alla morte del cinema, in questo caso), «resistenza» alla «parola d’ordine», che nel testo di Deleuze viene identificata col sistema della società di sorveglianza e di controllo basato su una forma di comunicazione quale trasmissione e propagazione di informazioni al fine di giungere ad una «formazione professionale dell’occhio», insomma il sociale-tecnico allo stato puro, senza «supplemento» né scarti in rapporto a spettatori ancora virtuali, popolo in divenire12. Resistenza, dunque, dell’atto di parola come atto sociale e politico, «parola sgorgante dalla terra e che punta verso i cieli mentre la terra s’infossa», parola politica perché espressione del tentativo, sempre da rinnovare, di liberarsi da una maledizione. Di quale tipo di liberazione si tratti, Oliveira lo aveva già espresso chiaramente sia con lo scritto sia, soprattutto, attraverso alcune opere cinematografiche.
11. «Tutti i miei film mostrano che gli uomini entrano in agonia [nel senso greco della parola agon, lotta] al momento in cui giungono al mondo. Io sono un grande lottatore contro la morte»: si legge in I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 44. 12. Si veda Deleuze, Optimisme, pessimisme et voyage, cit., per l’articolazione dettagliata del dialogo con Daney sul «manierismo» quale terza età dell’immagine, dopo l’epoca del «tutto organico» («Le Cabinet du Dr. Eisenstein») e quella della «composizione ed associazione» (Welles, Antonioni).
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Da più fonti può desumersi come Oliveira non debba aver atteso gli anni Novanta e la «conversa indirecta» con Deleuze per esprimere la propria posizione «politica» in rapporto all’arte cinematografica. Già nella seconda metà degli anni Settanta, un paio d’anni dopo la Revolução dos Cravos portoghese, la «rivoluzione dei garofani» del 25 aprile 1974, Oliveira scriveva ad un amico, mostrando piena consapevolezza della complessità della questione: Sulla formulazione cinematografica, più che su ogni altro tipo di processo [artistico] (forse a causa della sua origine cinematografica e documentaria) pare ricadere una diffusa esigenza di partecipazione attiva nel campo politico e sociale, cosa che trasforma la sua vocazione di interprete dei sentimenti e delle sfumature della vita, dei suoi contrasti ed enigmi13.
Ma per porre con adeguatezza la questione del rapporto tra politica e cinema in Oliveira bisogna fare un salto ancor più indietro nel tempo, stavolta in un periodo che segue di poco l’inizio nel 1926 dell’era fascista portoghese, dunque un’epoca nella quale si dava ancora la possibilità di pubblicare testi del tenore di quello scritto da un Oliveira ventiquattrenne, sfuggendo alle maglie d’un sistema censorio in via di consolidamento. O cinema e o capital14, «Il cinema e il capitale», è il primo testo da lui pubblicato, uscito in Portogallo sulla rivista O Movimento nel 1933, due anni dopo la prima di Douro Faina Fluvial. Un articolo in forma di «manifesto» sul quale 13. TA, Lettre à Rui Nogueira, 1977 14. TA, O cinema e o capital, 1933, da qui si citerà nel prosieguo.
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aveva già attirato l’attenzione Jacques Parsi nel 200215 e che, come ha sottolineato Jacques Lemière nel 2009 al momento della riedizione da parte dei Cahiers du cinéma, «ha fissato la linea direttrice d’una vita intera». Esordisce il cineasta: Il cinema è, fra tutte le arti, quella maggiormente soggetta al capitalismo, dato il costo favoloso del suo materiale e dei mezzi tecnici, come anche per la dipendenza schiacciante da un pubblico male orientato da una forte propaganda, la quale si preoccupa esageratamente di stelle ed astri e per nulla di idee e procedimenti artistici.
Oliveira analizza alla luce di questo assunto l’industria cinematografica americana e «il completo soggiogamento cui sottopone l’uomo – o meglio l’artista», trasformato dal denaro e dalla macchina in «perfeito autómato», «automa integrale». «Visto un film americano, visti tutti», diceva nel 1933 il cineasta, e lo ripete oggi dalle pagine della più nota rivista mondiale di cinema: altrettanto motivatamente ontem como hoje, ieri come oggi, data l’attuale situazione del cinema americano. Sempre il medesimo sfondo morale nei film, pochi ritocchi narrativi ad una struttura sempre uguale a se stessa, attori che sembrano gemelli fra loro nella statura e nei caratteri del volto, il medesimo modo di recitare, centralità della bellezza fisica e del sex appeal: è il trionfo della serialità quanto a soggetto, regia, artista, ontem como hoje16. 15. Parsi, Manoel de Oliveira, cit., p. 68-69. 16. Si veda la critica che Oliveira fa expressis verbis al cinema americano nel 1991, ricevendo consensi da Daney e Bellour, sul tema del rapporto con la storicità, tema rispetto al quale il suo proprio cinema (si discute di NON ou a Vã Glória de Mandar) è «in opposizione, o in contro-posizione», possedendo caratteristiche differenti nella ricerca dell’«oggettività», I, Chimères, 1991, p. 139, cfr. anche p. 154. Critica ribadita nel 2001 in TA, Parole et cinéma, p. 44, a proposito di Palavra e Utopia e della «maniera americana delle superproduzioni con ricostruzione di décors, per fictions che si allontanano dalla realtà storica a beneficio del grande spettacolo». Che quella espressa non sia una posizione astratta, ideologica, si evince da I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 58, dove il cineasta racconta di aver assistito ad una retrospettiva sul cinema americano nella quale, «ad ogni proiezione, riscoprivo che in ogni film avevo preso a prestito qualcosa». Si veda infra, p. 102 ss., il rapporto con Kubrick.
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A questo cinema che specula con spirito commerciale, diffondendo immagini d’una vita falsificata che si sostanzia di «erotismo preverso» e di «falso optimismo», una vita perciò «funesta per lo spirito e la cultura di un popolo» (il popolo cerca distrazioni, «inconsciamente influenzato dallo spettacolo falso e vuoto che gli dà di volta al cervello, sicché alcuni cominciano a farsi crescere dei ridicoli baffetti à la Clark Gable, mentre altri finiscono col praticare atti criminali nella vana ambizione di essere come al cinema»), Oliveira contrappone, ed ecco il «manifesto» personale, un’arte capace di non tradire le finalità umane, sociali ed educative proprie ad ogni forma artistica. Richiamando il Clair di A nous la liberté (A me la libertà, 1931) e d’un articolo pubblicato su Temps, nel quale il cineasta francese criticava «la schiavitù del mondo capitalista […] e l’oppressione del capitale sul cinema»; e citando il Pabst dei film «sani e pacifisti», almeno prima di Die Herrin von Atlantis (Atlantide, 1932) e Don Quixote (1933); Oliveira afferma la necessità per l’arte cinematografica di non sottostare alle «grinfie nefaste del capitalismo», alle dipendenze d’una «burguesia» in cerca solo di «négocios rendosos», affari redditizi giustificati dal ritornello che «il pubblico vuole, il pubblico chiede». Essendo il cinema, fra tutte le arti, quella che più di tutte e più direttamente influenza la mentalità popolare, si parte dalla falsa e criminale opinione che lo spettatore non necessiti né desideri altro che assaporare, ad un costo minimo e confortevolmente installato sulla sedia, uno spettacolo allegro e divertente, che gli faccia dimenticare la stanchezza e i dissapori d’una vita estenuante. Il pubblico dimentica così che la sua vita è tormentata a motivo d’una pessima organizzazione sociale ed economica, ed accetta, per comoda e volgare vigliaccheria, l’avvilente compensazione offerta.
Ecco la preoccupazione educativa e sociale verso gli spettatori, verso il popolo, che sempre accompagnerà Oliveira nel prosieguo della carriera, alla ricerca d’un «popolo in divenire», popolo che manca, «suprema urgenza»: Il cinema precisamente, come nessun’altra arte, potrebbe additare questi mali e le sue conseguenze, se non altro prenden58
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do quali temi dominanti i molteplici problemi che l’uomo affronta nella sua vita sessuale, nella vita familiare, nella vita professionale, nella vita economica e nella vita sociale. […] È necessario che il cinema sia proprio questo: un organo di creazione artistica, e di azione educativa e sociale.
Benilde ou a Virgem-Mãe A queste idee, a questa finalità dell’opera d’arte – che da Deleuze è stata chiamata cinquant’anni dopo «pédagogie de la perception» e dunque «pedagogie-Rossellini, straubienne, godardienne»17 –, Oliveira non ha mai rinunciato. Con Benilde ou a Virgem-Mãe (Benilde o la Vergine Madre, 1975), Oliveira raggiungerà, alla metà degli anni Settanta, la piena consapevolezza circa la propria forma artistica, quella «pédagogie de la perception» che il suo cinema avrebbe dovuto assumere alla luce delle riflessioni condotte negli anni della cattività censoria. È bene anticipare qui alcuni elementi di quell’approccio estetico, elementi che così grande rilevanza assumeranno nell’opera a venire, al momento in cui la fine del salazarismo permetterà al regista sessantaseienne di cominciare, finalmente, una «regolare» carriera di cineasta. Benilde è un’opera cui io do oggi una grande importanza per la mia evoluzione, la mia riflessione. […] Mi trovavo a confrontarmi con un’unità di tempo, di azione, e mi accorsi che la dovevo conservare, fissare, affinché non andasse perduta. Solo il cinema poteva fissare. Se ci fosse stato un altro punto di vista, l’unità sarebbe andata perduta. Inoltre, per quanto il film fosse brillante tecnicamente, non poteva aggiungere nulla a ciò che è materia del teatro, ciò che sta nella pièce. Il cinema poteva sovrapporsi al testo, alla pièce, ma non poteva andare al di là di esso. Il cinema non può andare al di là del tea-
17. Deleuze, Optimisme, pessimisme et voyage, cit., p. 6-7. Si veda come anche ad Oliveira spetti un posto nella «bella e strana congiunzione» che si determina tra Godard, Deleuze e Daney, in A. Bergala, Stratégie critique, tactique pédagogique, in Dosse-Frodon, Gilles Deleuze et les images, cit., p. 40-41. Va specificato, però, che Oliveira non si è affatto auto-invitato «inconsapevolmente» in quel dialogo a tre voci…
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tro, può solo andare sopra al teatro. Potevo moltiplicare i piani, i punti di vista, ma se lo avessi fatto avrei solamente creato distrazione. Niente di più. Distrarre lo spettatore dall’essenziale. Il mio problema fu: come può il cinema entrare nel teatro?18
Dal punto di vista dei temi, se egli aveva da subito affermato, come letto, che il cinema ha come impegno quello di trattare «i molteplici problemi che l’uomo affronta nella vita», ebbene, con i film che può infine cominciare a girare negli anni Settanta, nel periodo del passaggio dalla dittatura alla situazione post-rivoluzionaria – a Benilde vanno aggiunti O Passado e o Presente del 1971 e Amor de Perdição del 1978 –, Oliveira mette al centro precisamente i temi della sessualità e della vita affettiva e matrimoniale nei loro intrecci con la dimensione sociale e politica, in opere innovative da tutti i punti di vista e non secondariamente dal punto di vista estetico. Benilde ou a Virgem-Mãe è una pièce di Régio («Benilde è la mia anima!», affermava il poeta19), nella quale viene messa in scena la vicenda d’una giovane Benilde men che ventenne (Maria Amélia Aranda), fidanzata col cugino ma rimasta incinta non si sa come, anzi per intervento divino com’ella afferma. Ambientata in un’interno borghese della provincia portoghese negli anni Venti, la vicenda procede nel primo atto della pièce con dialoghi serrati fra la governante di casa (la madre di Benilde è morta), il medico di famiglia e il prete, per allargarsi alla madre del fidanzato, allo stesso fidanzato e al padre di Benilde nei due atti successivi, con passaggi fra gli atti segnalati da cartoni. La struttura drammatica ricorda Teorema (1968) di Pasolini, con un intero assetto sociale che entra simbolicamente in crisi al sopraggiungere d’un evento scatenante, l’Ospite in Pasolini, qui la maternità incipiente. I conflitti avvengono su più piani, quello familiare e quello religioso, quello scientifico e quello politico. Sì, in particolare quest’ultimo merita d’esser sottolineato, col ripetuto comparire in scena di fiori nonché, nel travelling d’apertura, di un’immagine incorniciata sulla parete degli spazi aperti dell’Alentejo nei quali la casa è probabilmente 18. T24, p. 97 (=T31, p. 168). 19. T7, p. 160.
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immersa e che mai verranno mostrati altrimenti. È infatti lì che, complice il suo sonnambulismo, potrebbe essersi verificato l’incontro fra Benilde e un vagabondo del quale, a tratti, s’odono urla fuori campo, incontro possibile quasi in nome d’una libertà trovata sotto il segno della natura e dei fiori – fiori che, a ghirlanda, cingono a un certo punto anche la testa di Benilde. Benilde «figlia dei fiori», nel Portogallo degli anni Settanta… Il film era cominciato sotto il segno dell’esibizione della messa in scena, con un lungo travelling fra le quinte del teatro per giungere alle scenografie del dramma, un movimento di macchina simile a quello che porterà in fine fuori scena. Come nella vita, pare dire Oliveira, anche nel film lo spettatore dovrà confrontarsi con misteri ed incertezze. Si vede tutto il macchinario perché sia evidente che tutto è décor, scenografia. Tutto esiste e niente esiste. Tutto è mistero. Poi ho messo sull’immagine «Primo atto», «Fine primo atto», «Secondo atto» ecc., per dire che il teatro è anche cinema20.
Il film si chiuderà con Benilde sospettata di demenza, la quale invece «defeats them all by simply dying»21, «sconfigge tutti semplicemente morendo», adagiandosi in un letto e al contempo dando appuntamento al fidanzato, «ci rivedremo, sì, ci rivedremo». Nella vita non ci sono spiegazioni per niente. Le cose sono così. Anche nelle opere d’arte non ce ne deve essere… Non devono dare nessuna spiegazione. Sono così. Di fatto sono così. Le illazioni le dobbiamo trarre noi. Le illazioni sono multiple. Le interpretazioni sono varie e la ricchezza aumenta con le interpretazioni, con questo numero di interpretazioni e visioni. Nel momento in cui tutto si chiarisce, tutto s’impoverisce. Si chiarisce un segreto. Il segreto perde il suo valore. […] Le cose vivono così, cioè sono costruite sul loro enigma. E l’enigma è... è quello di Dio. È l’enigma della creazione dell’uomo, dell’esistenza di Dio22.
20. Ivi, p. 47. 21. Gillett, Manoel de Oliveira, cit., p. 196. 22. T24, p. 99-100 (=T31, p. 168). Sull’enigma in Benilde si veda anche infra, p. 218.
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Riandando alle cristalline proposizioni artistiche e politiche circa «i temi che dominano i molteplici problemi che l’uomo affronta nella vita», diventa comprensibile come Oliveira sia tornato più volte, anche con la macchina da presa e non solo con la scrittura, a rendere oggetto delle proprie opere direttamente il tema della vita collettiva del popolo, le sue fatiche, le sue tensioni, le sue sconfitte. Non solo, dunque – come si vedrà nel prosieguo – attraverso drammi e commedie che affrontano quella prospettiva con l’ottica del singolo e dei suoi conflitti all’interno di ambienti definiti: famiglia, gruppo d’amici d’infanzia, mondo religioso (Aniki-Bóbó, O Acto da Primavera, O Passado e o Presente, Amor de Perdição e, come si è letto, Benilde). Ciò offre anche una traccia per comprendere come invero l’intera opera del cineasta lusitano obbedisca ad un impulso etico che fa della dimensione collettiva la posta in gioco di ogni consapevole vita artistica. «Etica ed estetica sono uno», come si legge nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Sono quattro, in particolare, le opere filmiche di Oliveira nelle quali è offerta esplicita centralità al tema del «popolo»: Douro Faina Fluvial del 1931, A Caça del 1963, A Caixa del 1994 e Um Filme Falado del 2003. Nessuna delle quattro, peraltro, avrebbe dovuto far parte del progetto di documentario intitolato O Palco dum Povo (Palcoscenico di un popolo), progetto elaborato alla fine degli anni Cinquanta e nel quale il lemma «popolo» sarebbe entrato direttamente nel titolo, trattandosi d’un affresco sul Portogallo e sulle sue attività economiche e culturali23. 23. Va dunque ampliato il numero delle opere che, nella filmografia oli-
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Va detto che esistono anche altre opere di Oliveira che riflettono la medesima preoccupazione: più avanti si dirà qualcosa circa i progetti non realizzati, ma qui è possibile citare O Pintor e a Cidade del 1956, dove si allude al popolo richiamandone nel titolo la «casa», appunto la città, e soprattutto mostrandone la vita con immagini forti, a volte scomode al regime salazarista24. E ancora due altri documentari: Vilaverdinho. Uma Aldeia Transmontana del 1964, sulle trasformazioni fisiche e sociali del villaggio omonimo; e Nice, à propos de Jean Vigo del 1983, ispirato alla vena ironica del cineasta francese nel dipingere una città crepuscolare animata da fantasmi decadenti. Cionondimeno, nel prosieguo si concentrerà l’attenzione sulle quattro opere maggiori. Douro Faina Fluvial Non è dunque un caso che per il suo esordio come regista il cineasta scelga di mostrare, in Douro Faina Fluvial (Douro lavoro fluviale, 1931) – film finanziato in famiglia, girato in piena autonomia artistica ed organizzativa, con la collaborazione per le riprese di un collega impiegato di banca, montato con forbici e colla finanche sul biliardo di casa –, la vita e il lavoro che si svolge per l’intera giornata a Porto, alla foce del fiume Douro, sulla ribeira dove la città si riversa per affacciarsi sull’Oceano Atlantico. Dominata dallo splendido Ponte D. Luis I, «poesia moderna del ferro e dell’acciaio»25, imponente costruzione disegnata da Gustave Eiffel e realizzata dalla sua scuola nel 1876 per collegare le due sponde del fiume, e la città al comune di Vi-
veirana, riflettono sul tema «popolo», al di là delle due che, secondo Parsi (T26, p. 52), trattano «esclusivamente del piccolo popolo d’una città», Aniki-Bóbó e A Caixa. 24. J. Parsi, in T26, p. 73 (=T17). 25. Come si esprime nel 1934 Régio, T17, p. 143. Rocha, molti anni dopo, potrà affermare che si tratta di «uno dei debutti più belli della storia del cinema, fare questo a vent’anni significa Orson Welles senza l’America», cfr. P. Rocha, Entretien, in Cahiers du cinema, 183, 1966.
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la Nova de Gaia (sede delle famosissime caves del vinho do Porto), tutta la zona è oggi trasformata in spazio essenzialmente turistico, il quale non stonerebbe nella ricognizione di luoghi mediterranei carichi di storia, ed oggi offerti ai visitatori, condotta da Oliveira in Um Filme Falado26. Oliveira segnala, in effetti, anche la dimensione collettiva e storica legata a quel ponte attraverso un bassorilievo presente sulla sua struttura, nel quale si vede rappresentata la vicenda delle Alminhas da Ponte, vale a dire la tragica fine di centinaia di persone in fuga dall’assalto delle truppe del maresciallo napoleonico Soult nel marzo del 1809, esito dettato dall’arrembaggio al quale venne sottoposto il ponte di fortuna esistente all’epoca, il Ponte das Barcas, costituito da barcaças, chiatte accostate le une alle altre fra le rive, in seguito sostituito da un Ponte Pênsil prima dell’elevazione del Ponte D. Luis I. Già obbediente alla visione molto personale del rapporto tra passato e presente che articolerà la propria intera meditazione artistica futura in chiave storico-politica – una visione che, come si noterà, fa perno sulla memoria collettiva e va alla ricerca degli strumenti cinematografici che ne esibiscano la produttività operativa –, Oliveira invita lo spettatore anche visivamente (lo sfuocato che va e viene sul bassorilievo) a «metter a fuoco» la visione, articolando nello sguardo lo spessore del rapporto tra presenza della visione e passato della memoria, al fine invero di renderne pienamente attuale il rapporto anche nella sua dimensione collettiva, col suo carico di sofferenze di popoli in lotta coi poteri via via succedutisi nelle dominazioni storiche. E va anche sottolineato come tale compresenza di passato e presente si evidenzi, nel film, nel contrasto tra la razionalità architettonica dell’acciaio levigato del ponte, potente simbolo di modernizzazione, e il brulicare terragno della vita sulla ribeira, con l’altro suo ponte provvisorio fatto di barche (come appunto doveva essere quello che per secoli 26. In un’intervista filmata del 2003 (Discurso directo, SIC Notícias, in dvd Lusomundo di Um Filme Falado), Oliveira si lascia andare ad una battuta su quel che oggi è diventata quella zona: «Dovrei cambiar titolo e dire Douro Faina Turística…».
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permise il passaggio fra le rive), nell’intreccio di percorsi ed attività di un popolo al lavoro sotto il sole. È infatti il popolo ed il suo lavoro fluviale il soggetto su cui Oliveira centra l’attenzione nel film: Invece di fare un’imitazione del film di Ruttmann, Berlino, sinfonia di una capitale […], del tipo 24 ore nella città di Porto, […] pensai che sarebbe stato meglio fare un film sul Douro, sul lavoro nel Douro, più diretto, più umano27.
Il popolo – e in esso le donne in particolar modo28 – opera nelle molteplici attività legate alla pesca, al commercio del pesce, allo smaltimento dei carichi di carbone provenienti via fiume dall’intera regione. Un’attività faticosa ed ingrata, di natura semi-schiavistica, in un’acqua fluviale attraversata da barcos rabelos (imbarcazioni tipiche, stive a vela che trasportano prodotti ed uomini) e da barche a motore grandi e piccole, spesso veloci e sfreccianti. E se il cielo è solcato da aerei, la ribeira formicola d’autocarri, macchine, carri trainati da buoi, tutti pure a far da tramite coi treni della rete ferroviaria. L’intera attività, all’alba e al tramonto illuminata anche da un faro non lontano, fascio di luce che apre e chiude il film, è segnata, sì, da una geografia ben modulata dell’acciaio e dell’acqua, ma non meno certamente da una «politica» e da una «cultura» determinati. E la politica è quella della dittatura militare affermatasi nel 1926, a spese della Prima repubblica nata nel 1910 da una rivoluzione che aveva messo fine all’ottocentesca monarchia costituzionale. Dittatura poi trasformatasi in Estado Novo con la salita al potere nel 1932 di António de Oliveira Salazar, e l’entrata in vigore della nuova Costituzione nel 193329. Nel 1931 siamo dunque ancora nella prima fase d’una lunga vicenda politica, che avrà fine il 25 aprile 1974 con la Revolução dos Cravos, 27. T24, p. 40 (=T17, p. 98). 28. La Bessa-Luís sottolinea «l’arduo lavoro delle donne al bordo del fiume nello scaricare il carbone […], il modo in cui si incrociano passando su assi che sono come cammini di tempo costituiti dalla velocità e non dai significati», in Bessa-Luís, Utopie et bon sens, cit., p. 137. 29. Notizie in merito alle vicende storico-politiche in Saraiva, Storia del Portogallo cit., p. 315 ss.
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i garofani rossi – e anche bianchi30 – messi nella punta del fucile dei militari in rivolta per le strade di Lisbona. Ebbene nel film, impettito e dall’alto d’un parapetto, è l’esponente delle forze di polizia a tener d’occhio la situazione della ribeira. Oliveira più volte, negli anni, ha voluto indicare come quel simbolo del potere avesse il senso d’indicare il contesto storico e politico all’opera intera: un simbolo che compare una prima volta all’improvviso, in campo lungo, inquadrato lateralmente dal basso, quasi ingiustificato nella narrazione del film, e che poi ritorna più volte in piano frontale quando accade un incidente sulla ribeira, una delle non poche sequenze di finzione all’interno di un film «documentario». Afferma infatti il cineasta, rispondendo a una domanda di Bénard da Costa circa la propria consapevolezza nell’effettuare alcune scelte, fra le quali appunto quel «poliziotto, simbolo d’una città recintata, [e] la barra [che lo separa dalla ribeira]»: Sì, ero certo di quel che cercavo, e sapevo di aver fatto realmente quel che volevo. […] Era già tutto nel découpage. Era tutto scritto. Improvvisai molto poco. […] Nulla fu realizzato al montaggio. Douro fu una provocazione premeditata31.
Il cineasta rincara altrove: Douro è contro la disciplina militare, è una critica della polizia, del potere, della violenza nel Portogallo dell’epoca32. In Douro ho cercato angolazioni [di ripresa] che conferissero autorità, ovvero esprimessero sottomissione33. 30. «I garofani portavano con sé una certa ambivalenza nella misura in cui alcuni erano rossi e gli altri bianchi; ciononostante, solo i rossi sono rimasti a rappresentare [la Rivoluzione] e non i bianchi, simboli di pace e d’armonia in una rivoluzione nella quale non era stato versato sangue», T7, p. 30. Si veda una foto (in bianco e nero) d’una soldatessa col fucile e due garofani di colore differente tra le mani in TA, Lisbonne culturel, Paris, Dis Voir, 1995, p. 89. 31. T24, p. 42 (=T17, p. 99-100). 32. T7, p. 87. 33. I, A Grande Ilusão, 1992, p. 1.
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In Douro Faina Fluvial tutto accade sotto l’occhio vigile del potere politico, anche nei momenti di finzione all’interno del film «documentario», espressione di precise scelte da parte del cineasta nel rappresentare la complessità di quella vita al lavoro sul fiume: si contano soldi, al momento dell’acquisto del pesce; ci si ama, una coppia di popolani, la donna che ride per lo sguardo e la mano d’uomo che sente sulle gambe, mentre un palo d’ormeggio simbolizza desiderio sessuale à la Buñuel34 e si «ascolta» il suono di un musicista col suo bandoneon. E ancora si rischia di morire, con l’incidente del carro di buoi che investe un giovane: il timore che prende tutti per la sua morte e invece lui che passa incolume sotto ruote e zoccoli – una «prima» nella «lotta con la morte», così presente in seguito nel cinema di Oliveira. Si lavora e si sopravvive, insomma, ma in una condizione di cattività che si avvicina a moderne forme di schiavitù. O penoso trabalho / Que às gentes ribeirinhas fora dado / E que só ao de esecravos / Poderá ser comparado Il penoso lavoro/che alle genti della ribeira venne dato/e che solo a quello degli schiavi/potrà esser comparato35.
«Allegria e miseria dell’uomo associato all’animale nella lotta per il pane quotidiano», come scrisse Régio recensendo il film36: l’ora della pausa, il cibo mangiato dai bambini sul selciato accanto a buoi che ruminano paglia; adulti sfiancati e appisolati sotto il sole cocente sui gradini della ribeira; polvere e sudore dappertutto; corpi d’uomini e d’animali segnati dalla fatica e dal ritmo costante del lavoro. Ancora, in34. «Quando ho filmato Douro non conoscevo ancora nessuno dei film che lui aveva fatto. Avevo solo letto un testo in cui si parlava di Joris Ivens, per un film sulla pioggia che aveva appena terminato, e di Un chien andalou. In Douro, credo, ci sono solo due piani che è possibile qualificare un po’ buñueliani. Il primo mostra la bitta d’ormeggio sul molo del fiume; il seguente, il ragazzo che guarda il polpaccio della giovane venuta a portargli la colazione», T7, p. 146. 35. Questo verso si legge in T25, p. 46, nel poema Rio que, por baixo das pontes, abre porta para o mar, scritto dal cineasta e dedicato al fiume e ai ponti di Porto. 36. T28, p. 19.
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tere famiglie alloggiate su barconi, madri e figli vittime d’un destino di povertà, precarietà, fatica senza fine. Un popolo, allora, anche metafora di tutte le moltitudini che oggi, come letto, sono «perseguitate dalla fame a causa della siccità, della guerra, delle rivoluzioni e, infine, da questo triste caos che dappertutto si vede in questo mondo moderno». Metafora anche nostra, per contrasto, noi «popolo» opulento, satollo, maggiormente garantito di altri. Come continua a ripetere Oliveira, ottant’anni dopo Douro Faina Fluvial: Todos vivemos, afinal, neste inferno, e o cinema è uma das duas fornalhas, mas è do calor que se solta das chama da labareda que nos rodeia, que nasce o gosto de amar Tutti viviamo, infine, in quest’inferno, e il cinema è una delle sue due fornaci, ma è dal calore liberato dalle fiamme che ci circondano che nasce il gusto d’amare37.
E la seconda delle due fornaci dev’esser la vita, meglio: il teatro «vitale», condizione d’esistenza del «popolo sulla scena» quale noi siamo, noi, la massa sulla ribeira portuense e quella «cieca, informe e difforme» di oggi38, manipolata con effetti speciali e pessime storie narrate, «pubblico credulo ed ingenuo […] che funge da trastullo per il dio-denaro onnipotente»39 divenuto valore supremo anche nel mondo dell’arte, e dell’arte cinematografica in modo più smaccato. Ancora, la massa che siamo nel mentre animiamo i luoghi turistici che costellano le rive del nostro Mare di Mezzo. Non paia forzato l’impiego del lemma «massa» a proposito dell’opera di Oliveira, è l’autore stesso ad autorizzarcene il richiamo: L’uomo e la donna, l’artista, anche lo scienziato, vivono molto di quel che viene dal subcosciente, direi dal preistorico – come si esprime Agustina Bessa-Luís. C’è del preistorico in noi, 37. TA, Acto de filmar, 2008, p. 29. 38. TA, Petit dialogue, 1997, p. 25. 39. Ivi, p. 26. Si tratta pressoché dei medesimi concetti tematizzati da Oliveira nel 1933 in O cinema e o capital, a conferma della felice resistenza d’idee e pratica artistica operata nell’arco di oltre sessant’anni.
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la massa viene prima dell’esistenza dell’uomo, sta dentro di noi e viene fuori e noi non ne siamo coscienti40.
E Oliveira prende se medesimo ad esempio di tale «inabitazione» della massa nell’artista, dunque dell’indiscernibilità che può determinarsi fra influenze esterne e singolarità creatrice: L’idea si sviluppa durante ogni momento dell’elaborazione di un film, nella permanente alternanza e nell’inconsapevole interferenza di tutto ciò che ha impregnato, nel molto che si è visto, la memoria e l’evoluzione della nostra identità personale, che è in un continuo mutamento – conscio od inconscio –, accanto ad un intero universo di influenze mediatiche, dirette o indirette o provenienti dall’esterno, come quelle degli attori, dei luoghi e delle ricostruzioni, le quali possono contribuire a formare, completare o alterare l’idea originale quando si impongono o sorgono al momento delle riprese. Voglio dire, in fondo, che non ci può essere niente di nuovo se non resta impresso il segno di una personalità. Carl Dreyer diceva di essere molto influenzabile. E Dreyer è il regista che più ammiro, che più stimo. E considero Gertrud il film più straordinario e coraggioso, vero precursore del cinema moderno più evoluto. Dreyer ha dichiarato di essere molto influenzabile. Mi sembra di esserlo allo stesso modo, se non di più. Arrivo al punto di essere così profondamente colpito e sedotto da certe scene o inquadrature che, come per incanto, provo l’ingannevole sensazione che mi siano state rubate41.
Ma questa posizione estetica di dialogo con «la massa che sta dentro di noi» ha radici che, come sempre in Oliveira, affondano in una visione filosofica più ampia: Noi abbiamo tutto dentro di noi: la nostra esperienza, la nostra educazione e mi domando se non c’è dell’altro ancora: una trasmissione attraverso il sangue e lo sperma. Io credo che siamo residui del caos, che comprende tutto42. 40. Intervista tv del 19.6.2002 (RTP, Por Outro Lado), diciottesimo minuto circa, in dvd Lusomundo di Porto da Minha Infância. 41. T17, p. 43. 42. T7, p. 43. In una riflessione sulle crenças, le «credenze», contenuta in T25, p. 9 ss., Oliveira esordisce richiamandosi ad «atomi, cellule o qualsiasi altra cosa sia legata all’origine della creazione del mondo, dell’universo e della fonte attiva generatrice delle energie e degli istin-
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Si tornerà più avanti sulla grande attualità d’una riflessione sulla «massa nell’individuo» in rapporto all’esperienza cinematografica, l’«esser tutti insieme nella vita» per rapporto alla rappresentazione43, quando si prenderà in esame la posizione di un altro filosofo francese col quale Oliveira è entrato in dialogo, stavolta incontrandolo, Jacques Derrida.
ti di tutti gli esseri viventi del nostro pianeta. Vale a dire, ciò che attiva l’universo, anima gli esseri viventi e dà istinti al regno vegetale, animale e umano». Quella del caos originario è un’idea che ha abitato menti quali Esiodo, Platone e Kant, prima di giungere al Nietzsche di Die Fröhliche Wissenschaft e alle odierne teorie della complessità, due fra le possibili fonti di Oliveira. «Diventare signori del caos che si è», questa la frase di Nietzsche in epigrafe a Viagem ao Principio do Mundo. 43. T20, p. 87.
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La censura più forte
Oliveira, nel trattare questi temi, dovette ben fare i conti con la persecuzione – una forma di censura «morbida» – organizzata dallo SNI (Secretariado Nacional da Informação, Cultura Popular e Turismo), organismo creato negli anni Trenta e sopravvissuto fino alla fine degli anni Sessanta, diretto per sedici anni da António Ferro in stretta dipendenza dal dittatore Salazar. Lo SNI coordinava la censura alla stampa, la propaganda dell’Estado Novo, l’organizzazione delle mostre in Portogallo e all’estero, come pure l’attribuzione di premi e finanziamenti ad opere e artisti in vari campi44. Afferma Oliveira: Il mio rapporto col regime è stato cattivo, certo. I regimi fascisti possono esser visti come il risultato dell’opposizione alla dittatura comunista. […] Fra i fascismi, tuttavia, quello portoghese è stato il più dolce. È nella natura portoghese. Noi li chiamiamo brandos costumes, la mitezza dei costumi45.
E a conferma della «mitezza» dei costumi della dittatura, certo non meno efficace quanto ad intervento repressivo sulla libertà artistica, egli aggiunge: La censura più forte è stata impedirmi di fare film46.
44. Cfr. A. Caldeira, A censura a que temos direito, in Media & Jornalismo, 12, 2008. 45. T7, p. 141. 46. Ivi, p. 137.
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Mandavo allo SNI tutti i miei progetti; dato che loro non mi davano alcuna sovvenzione, io gli mandavo tutto – una sorta di compensazione…47.
Infatti, nel periodo fra il 1931 e i primi anni Settanta Oliveira poté girare solamente alcuni corti documentari autoprodotti, poi due film lunghi, tollerati dal regime a motivo del soggetto artistico messo in scena: una storia di bambini e la Passione di Gesù Cristo. Si tornerà su O Acto da Primavera, opera segnata da incomprensioni e critiche sia sul versante etico, sia su quello politico. Ecco invece la «storia di bambini». Aniki-Bóbó Teresinha adora una bambola che fa bella mostra di sé nella vetrina della Loja das Tentações, il «negozio delle tentazioni»: la contempla da fuori e, così facendo, si mette nella medesima posizione nella quale si trova lo spettatore nel guardare il film e, nel film, Teresinha. Lo specchio è doppio: Teresinha si specchia nella bambola, lo spettatore si specchia nel film vedendo qualcuno che guarda. Se non ancora per Teresinha, l’incantesimo è però da subito rotto per lo spettatore, né la formula magica del gioco di bambini potrà catturarlo più. Anikibébé. Anikibóbó. Passarinho. Tótó. Berimbau. Cavaquinho. Salomão. Sacristão. Tu és polícia. Tu és ladrão. Anikibébé. Anikibóbó. Uccellino. Cagnolino. Scacciapensieri. Chitarrino. Salomone. Sagrestano. Tu sei poliziotto. Tu sei ladro.
La modernità cinematografica è già presente in AnikiBóbó (1942), film degli anni Quaranta girato in regime di censura e dunque obbligato a nascondere in forme «infantili» ciò che ha da dire sulla natura dell’umano, la relazione 47. T17, p. 97. In TA, Angélica, 1998, Oliveira racconta queste vicende in relazione ad un film specifico, Angélica. Quando questo volume va in stampa il film in questione è infine presentato a Cannes, cinquantasei anni dopo essere stato progettato.
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dei sessi, il maschile-femminile che tanto rilievo assume nel cinema di Oliveira. Una relazione che deve far i conti, come afferma Johnson, con le costrizioni derivanti dalle istituzioni sociali, gettando una «sinister light» sull’autorità (la scuola, il poliziotto) in rapporto alla libertà e allo spirito civico: finanche il gioco della formula magica fa riferimento all’ordine di polizia...48 Il film narra le vicende d’un gruppo d’amici, tutti nella stessa classe a scuola, tutti a bighellonare per le vie di Porto e a fare tuffi nelle acque della ribeira al pomeriggio. Fra di loro ci sono anche lotte d’amore: Carlitos è innamorato di Teresinha, ma deve far i conti con le avances di Eduardito, suo rivale. Carlitos ruba dunque la bambola dal negozio e la regala a Teresinha, poi con Eduardito ha uno scontro fisico che rischia di trasformarsi in tragedia al passaggio d’un treno. Ma anche qui, come già in Douro, la morte può attendere e Carlitos, non senza patemi d’animo, essere scagionato dall’accusa d’aver tentato di far fuori il rivale. Carlitos è sognatore: nella notte portuense non solo gioca a guardie e ladri con amici e con le loro ombre di fantasmi, ma ha pure incubi legati al furto della bambola. E sfida la caduta dai tetti, pur d’arrivar con la bambola a Teresinha. Non mancano riflessioni sul diavolo e la vita delle stelle, in quelle notti così amene… Infine usciti dalle dinamiche mortifere del desiderio grazie allo spezzarsi dell’incantesimo sul frutto proibito (la bambola in vetrina, restituita, viene adesso alla fanciulla regalata dal padrone del negozio), Teresinha e Carlitos potranno avviarsi verso il domani tenendosi per mano. Fra loro la bambola, non più immagine fantasmatica del desiderio ma finalmente semplice oggetto di gioco, e magari domani loro figlia in carne ed ossa.
48. Johnson, Manoel de Oliveira, cit., p. 9-10.
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Progetti non realizzati
La vicenda censoria e i temi di Aniki-Bóbó mostrano che, come il cineasta afferma, Tutti i miei film sono film di resistenza. Non sono film appartenenti a un’ideologia contraria, e neppure sono film aggressivi: sono film di resistenza. Il regime non me lo perdonava. Mi accusavano di esser comunista, perché mi volevano affibbiare un’etichetta. Ero visto ancor meno bene dei comunisti perché loro, almeno, era naturale che si opponessero. Invece io, che comunista non ero… Non sapevano come schedarmi. Salazar non voleva passare per dittatore, ha anche organizzato una o due elezioni per dar l’immagine di essere democratico, ma tutto era manipolato49.
Quanto ai progetti rimasti nel cassetto – e ricordando che il primo tentativo in assoluto da parte di Oliveira di scrivere una storia aveva riguardato Charlot impegnato a dare un ricevimento per gli artisti di Hollywood50 –, basta gettare un colpo d’occhio sulla sterminata quantità di opere rimaste sulla carta, «i film che non si vedranno mai» come li ha chiamati Parsi51, per comprendere quale dev’esser stato l’estro inventivo dell’artista ma, al contempo, anche la forza d’animo necessaria per resistere alla frustrazione di natura politica cui quella creatività doveva far fronte: dal 1928, e 49. T7, p. 141. 50. Ivi, p. 93: si sarebbe trattato di un cartoon. Sul rapporto di Oliveira con lo humour, cfr. R. Marx, Le rire de Oliveira, in T13. 51. Parsi in T26 (=T17). Sui progetti di Oliveira si veda anche in T11, p. 57-61; T20; T23, p. 118-19.
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almeno fino al 1979 (dunque ben oltre l’epoca a cavallo del 25 aprile, nella quale Oliveira ebbe modo di rimetter mano alla cinepresa e girare lungometraggi), si possono contare quasi una quarantina di progetti mai passati alla fase della realizzazione. Già in alcuni titoli è chiara l’intenzione artistica e politica che li ispirava: Miseria (1932), una visione astratta della miseria; Gigantes do Douro (1934), documentario sui contadini al lavoro per la costruzione delle quintas, le masserie circondate da vigneti a terrazze per la produzione del vinho do Porto nella regione del Douro; Desemprego (Disoccupazione, 1934), documentario sulla mancanza di lavoro lungo il fiume Douro; Prostituição (Prostituzione, 1935), le case di tolleranza nella Porto degli anni Trenta; Hino de Paz (Inno di pace, 1940), campi, fabbriche, il Portogallo nel suo complesso all’epoca della seconda guerra mondiale; O Bairro de Shangai (Il quartiere di Shangai, 1958), i problemi della casa e del lavoro di una coppia che vive in una bidonville a Porto; A Mulher do Ladrão (La moglie del ladro, 1964), una donna che lavora nei vigneti del Douro, le sue vicissitudini familiari sullo sfondo delle trasformazioni sociali della zona; Processo da Instauração da República em Portugal (Processo d’instaurazione della Repubblica in Portogallo, 1974), una delle forme che ha assunto nel tempo quello che diventerà il film NON ou a Vã Glória de Mandar. Ma a sfondo sociale e politico sono anche 9 de Abril (1928), sulla partecipazione del Portogallo alla prima guerra mondiale; Bruma (1931), corto fantastico tra sogno e realtà, la povertà d’una giovane in cerca d’elemosina, le sue fantasie che si perdono nella nebbia; Vilarinho das Furnas (1956), documentario di taglio etnologico sulla vita comunitaria in un villaggio; Do Ano Dois Mil… Não Passarás (Non oltre il Duemila, 1958), il futuro del mondo dopo la guerra atomica, con tensioni e miserie non troppo diverse da quelle di sempre. Insomma, l’opera del «resistente» Oliveira è andata avanti anche soltanto con la forza dell’immaginazione, per far fronte alla situazione di cattività politica e culturale nella quale ha versato il suo paese per il cinquantennio salazarista.
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Una mano manca, il popolo è cieco
A Caça Nel 1963, ad Oliveira era riuscito infine di girare un cortometraggio dal titolo A Caça (La caccia), nel quale metteva in scena, in maniera quasi letterale, il processo di (possibile) scomparsa d’un popolo, o meglio, la condizione d’un popolo ripiombato nello stato di natura della guerra di tutti contro tutti. Va notato subito che l’universo di quel film è maschile: solo una statua di donna compare all’inizio, quasi a significare in cifra l’assenza che marcherà la dinamica del film, il mancato rapporto con l’altro – ad esempio l’altro del maschile, il femminile –, e più in generale la capacità di creare relazione all’interno della comunità umana. E quella statua è anche uno sguardo di donna lanciato sul mondo sottostante… Film eminentemente filosofico-politico, dunque, fin dal suo accostare subito il regno umano a quello animale: ad una sequenza iniziale che mostra l’aggressione e il divoramento d’una gallina per bocca d’una volpe dentro uno spazio ben recintato – certamente una gabbia, eppur metafora ben più avvolgente dentro una società concentrazionaria quale quella di quegli anni in Portogallo –, Oliveira fa seguire l’incontro fra due giovanissimi amici pronti a partire per una battuta di caccia: quella del titolo, certo, che però non dovrà esser vista solo come una battuta di caccia «realistica» bensì anche «simbolica», come recita un cartone prima dei titoli di testa. Incontro che si conclude, ecco il parallelo, con l’aggressione «simbolica» di uno dei due gio76
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vani nei confronti dell’altro e con la loro lotta a terra. «Allegria e miseria dell’uomo associato all’animale nella lotta», si è già letto in Régio. I due proseguono verso la meta, non senza doversi difendere ancora dall’aggressione del traffico stradale, invadente e pericoloso ad ogni pie’ sospinto, poi dalla visione di buoi macellati e sventrati presso il mattatoio dove lavora il padre di uno dei due, il quale si rifiuta di lasciargli in uso il proprio fucile a motivo della mancanza di licenza per la giovane età. I due avanzano e giungono ai bordi della campagna, passando per la periferia del borgo dove si fanno beffe del calzolaio e danno fastidio al suo cane, che latra anch’esso per la disperazione che avverte attorno a sé, il degrado affettivo e comunicativo in quelle poche, ingiuriose battute fra il padrone e i giovani. Giunti in campagna, e superata una staffetta dell’autorità preposta al controllo della caccia, i due parlottano fra loro e si dicono che mai l’uomo dovrebbe attentare alla vita degli animali, cionondimeno uno dei due tira fuori una fionda… Ma un battibecco li spinge a separarsi, ed è nel momento in cui la loro solidarietà s’incrina che accade l’irreparabile: finito in una palude, il giovane che scherzando aveva aggredito l’amico sprofonda sempre più nella sabbia mobile. «Socorro! Socorro!», la richiesta d’aiuto è immediata da parte dell’amico, disperato e traumatizzato al contempo per l’orrore che gli si è parato innanzi in un istante, nonché incapace di tirar fuori da solo quel corpo in decadenza. In una landa metafisicamente desolata, eppur bella e dai colori intensi, solcata da suoni secchi ed ovattati, cupi e ritmati, che sorvolano sinuose anse di fiume solcate da barche magari uscite da Douro Faina Fluvial, il giovane corre verso il borgo in cerca di mani pietose, disposte a credere alla sua storia e a seguirlo in cerca d’una salvezza agognata per l’amico. Sarà il calzolaio stesso, dimentico dello scambio ingiurioso, a metter i pochi compaesani presenti nella disposizione d’animo di darsi da fare e correre al soccorso. Giunti tutti alla palude, una mano felice individua il pozzo giusto dal quale scaturiscono bollicine in superficie: il giovane viene afferrato in extremis per i capelli, si forma 77
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allora una catena umana che offre resistenza alle forze dell’abisso nel tentativo di tirare fuori il giovane dalla pozza letale. Ma la fatica contro le forze del profondo a nulla sembra servire: più volte la catena umana fallisce e il fango trascina via, con la sua sporcizia e la scivolosità, anche le forze e le speranze. E c’è pure un uomo maldestro che, nel momento dell’inanità e dello sconforto, tenta di sottrarre un fucile ad uno dei cacciatori accorsi. Qui inizia l’epilogo del film, dove diventa chiaro il suo intento filosofico-politico: ognuno dei componenti la catena umana inizia a litigare col vicino, la tensione si scioglie in un caos collettivo, tutti perdono di vista lo scopo per il quale erano lì convenuti. Quel popolo, per un istante costituitosi in un’impresa comune, comincia a venir meno, a mancare. Solo rimane il grido d’un ultimo uomo, con nella mano sinistra una testa in annegamento, mentre la destra rimane alzata – non la mano, bensì un moncherino – nell’urlo: «A mão! A mão! A mão!», datemi una mano, una mano!, anch’io annego trascinato nell’abisso… Il cane latra senza requie. Quello descritto era l’ultimo piano del film, l’ultima disperante inquadratura (cfr. l’inserto fotografico). Così Oliveira l’aveva voluta offrire allo spettatore, angosciosa certo, ma non risolta in una direzione: il film non mostrava una salvezza definitivamente mancata. L’«incertezza» come condizione esistenziale, se non come principio, in Oliveira, era dunque già all’opera in questo film degli anni Sessanta. Volevo dire che la comprensione tra gli uomini è uno sforzo grande e doloroso. Il film terminava al momento in cui il monco sprofondava con il giovane ragazzo impantanato. L’ultima immagine doveva essere quella del moncherino teso verso il pubblico. Spettava al pubblico prendere posizione, non a me52.
Cionondimeno, la censura intervenne, il finale «positivo» era necessario. A Caça è un caso particolare, la sovvenzione è stata data alla casa di produzione Tóbis Portuguesa e la direzione della Tó52. I, Cinéma 80, 1980, p. 26.
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bis avrebbe voluto fare il film imponendomi condizioni economiche che non potevo accettare. Ho dunque proposto di poter prendere i soldi, beneficiare delle facilitazioni da parte dei laboratori ed assicurare io la responsabilità della produzione. Hanno accettato, imponendomi come sola condizione quella di far figurare nei titoli di testa il nome Tóbis Portuguesa come produttore, per questioni di prestigio. Così sono diventato il vero produttore del film ed ho ricevuto direttamente i soldi dal S.N.I. Fu in quel momento che quelli del S.N.I. mi imposero di cambiare la fine del film, salvando l’uomo con la mano amputata e il giovane che sprofonda nella palude: come se pensassero di salvare in questo modo un regime che stava affondando. Ciò li rese irriducibili. Dato che il film era già concluso ed io avevo dei debiti, minacciarono di non versarmi la sovvenzione promessa se non avessi apportato le modifiche imposte. Sono dunque stato obbligato ad accettare. A lungo ho lasciato il film con quel finale, in modo da poterne spiegare la censura ogni volta che lo presentavo al pubblico. Ma adesso ho tolto quel finale [separandolo con un cartone dall’inquadratura che lo precede, con la quale secondo l’autore il film doveva finire]. Il cartone recita: «Ecco il finale imposto». Non si tratta d’una vendetta da parte mia. È una questione storica, è importante per dare un’illustrazione della censura all’epoca53.
Oggi il film si vede dunque con i due finali in successione, separati dal cartone che segnala la vicenda. Ciò conferma quanto stia a cuore ad Oliveira non solo la questione della «storicità» nel cinema (si tornerà su questo tema), bensì anche, e forse soprattutto, la questione «politica» nel suo cinema, meglio ancora: nella complessiva esperienza cinematografica che lui ha attraversato. Il suo è un cinema «politico» non solo per motivi esterni (produttivi, economici, storici), bensì anche estetici: il film non potrà mai essere visto, d’ora in avanti, senza che la sua «politicità» sia ben evidente agli occhi degli spettatori. Questa vicenda – soprattutto la «fine» della vicenda, la scelta di mostrare alle future generazioni il doppio finale al film – è cifra complessiva dell’intera esperienza estetico-politica del cineasta lusitano. Senza dimenticare, beninteso, che c’è chi ha letto 53. T7, p. 137-38.
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il film come metafora della situazione personale di Oliveira cineasta in quegli anni, il quale «sprofondava» nella palude della censura gridando aiuto, e nessuno giungeva a tirarlo fuori54. A Caixa La terza volta che Oliveira torna direttamente a confrontarsi con la questione del «popolo» è alla metà degli anni Novanta, col film A Caixa (La cassetta, 1994), tratto dall’omonima pièce teatrale di Hélder Prista Monteiro. Ambientato in un quartiere popolare di Lisbona, il bairro di São Cristóvão, in unità di luogo attorno ad una tipica scalinata dei vicoli della città, il film pare magnificare la sequenza di A Caça nella quale la fragile catena umana si spezza e si trasforma nel riesplodere, nel rinnovato conflagrare di egoismi e diffidenze. Introdotto dal popolare Canto dei battellieri del Volga, che «ci orienta verso la massa sofferente, emblematica del passaggio del secolo scorso»55, il film è orchestrato attorno alla cassetta per l’elemosina che un cieco (Luís Miguel Cintra) mette in bella mostra sulla soglia della casa nella quale convive con la figlia (Beatriz Batarda) e il genero (Filipe Cochofel), nonché attorno alle invidie dei vicini che vedono in essa una – per quanto infima – fonte «legittima» di reddito (il cieco ha un’autorizzazione in tal senso). 54. Ivi, p. 142. Nel 2008 è stato pubblicato un notevole studio sul rapporto tra cinema e politica in Italia dopo la stagione del neorealismo: A. G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Torino, Kaplan, 2008. Se differenti sono in Oliveira i presupposti estetici (nonostante l’iniziale equivoco concernente i suoi rapporti con l’estetica neorealista, coltivati anche da Sadoul e Bazin, cfr. Cahiers du cinéma, 75, 1957) ed epistemologici (il metodo indiziario), nondimeno il «modello strutturale di una verità allargata e propositiva» (Mancino, Il processo della verità, cit., p. 12) concernente «la realtà di tutti» non è in nulla lontano dalla preoccupazione fondamentale della sua etica di cineasta: è lo spettatore, cioè «tutti», a dover prendere posizione, poiché «è dai film che esce la verità delle cose» (T7, p. 30). 55. J. Parsi in T26, p. 52.
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Nel film, dunque, è messa in scena la vita d’un microcosmo malfamato, un «terzo mondo senza nomi»56, attraversato da prostitute, ladri e falsi ciechi (c’è infatti anche un secondo cieco, stavolta posticcio, che compare sul finale). Il furto della cassetta, non si sa da chi perpetrato, scatenerà passioni omicide e pulsioni suicide, le quali andranno inesorabilmente a buon fine distruggendo l’esistenza d’una famiglia e dissolvendo l’esile principio di convivenza in quel vicolo infelice. Con un linguaggio pieno d’allusioni sessuali ed espressioni colorite, con mani che volano nell’accarezzare belle forme femminile e coltelli che penetrano lo stomaco in duelli mortali, la narrazione procede nel mettere in mostra la dolente sopravvivenza d’un popolo prostrato. Un popolo costituito principalmente da donne indomite, madri deluse da figli scaltri e perdigiorno, puerpere in attesa, venditrici di minutaglie agli angoli delle strade, pittrici in cerca del pittoresco da rifilare a turiste americane, senza dimenticare la prostituta e una giovane dama «buona» vestita di nero che chiede l’elemosina all’uscita dei cinema. Gli uomini, nel migliore dei casi, cercano l’anonimato dopo una vita da dimenticare e trascorrono la giornata bevendo nella taverna e suonando alla chitarra l’Ave Maria di Schubert. Ma tutti gli altri – salvo ancora l’oste (Rui de Carvalho), ospitale in quel mondo di diseredati e falliti – si barcamenano tra furti, imposture, soggiorni in carcere, truffe. Solo una doppia apparizione apre il film ad un’utopica speranza di trasfigurazione, che come sempre in Oliveira si accompagna ad irridenti sospetti d’impostura: la prima è quella di un etereo balletto surreale di silfidi in tutù giallo al suono della Danza delle sciabole di Katchaturian sui gradini della scalinata del bairro, in una formazione che ricorda la bandiera dell’Unione Europea, quasi a significare il nuovo rapporto politico del popolo portoghese dentro l’Europa dei popoli. La seconda è quella della figlia del cieco, dopo la morte del padre trasfigurata in bionda figura vestita di nero dall’incarnato diafano, sorta di simbolo religioso in cerca d’u56. Ibid. Parsi sottolinea l’’assenza di nomi propri dei personaggi.
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na trascendenza dalla miseria circostante, definita «buona» dall’oste e dalla venditrice di caldarroste a motivo del far regali a tutti nel vicolo, grazie ai proventi dell’elemosina raccolta agli angoli dei cinema della città-bene, e da tutti blandita con parole di cortesia e malcelata invidia, come già accadeva al padre. È dunque il popolo e la sua misera esistenza, di certo, il soggetto di quest’opera del cineasta lusitano, e mai come in questo film la massa compare in scena per quel che è: un’esistenza sottomessa al principio del denaro e dell’appropriazione, obbligata alla sopravvivenza che è lotta dell’individuo con il proprio simile, soggetta a passioni tristi e mortifere. E questo non vale solo per una massa «popolana», poiché non va dimenticata la massa borghese presa dal frenetico movimento della vita cittadina, che fa la sua comparsa in una sequenza del film mentre percorre in entrambi i versi il vicolo all’orario d’apertura dei negozi. Una folla colorita e vociante, altrettanto sottomessa ai riti alienanti della sopravvivenza quotidiana e che fa da pendant, anche se solo per un attimo, all’unica altra apparizione di «folla», di «popolo», nel cinema di Oliveira, la gente al lavoro sotto il sole cocente in Douro Faina Fluvial. Si è letto in Oliveira: «Questa condizione fatale della specie umana alla quale ognuno di noi appartiene dando corpo al concetto di “popolo”». Vi è dunque una necessità, un fatum all’opera, e quella necessità si esprime in un phatòs, un dire, un concetto, il fari che destina. La poesia che ne sgorga, il popolo in scena o la messa in scena della sua assenza, è canto, «eco inaudibile», «parole che sgorgano dalla terra e che puntano verso i cieli, mentre la terra s’infossa». Si può aggiungere, «mentre il mare s’inabissa». Sarà questo il tema di Um Filme Falado, del quale si parlerà a breve.
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Sartre e la verità delle cose politiche
Ad un’affermazione di Edoardo Bruno su Um Filme Falado, «Film poetico e politico insieme», così risponde il cineasta: Mi piace. La parola poetico fa riferimento a una forza, qualcosa sul nostro modo di essere e di comprendere, che va oltre la storia stessa del nostro corpo. Il politico invece è qualcosa che tocca più direttamente il corpo e i nostri interessi. In questo senso, in qualche modo si oppone alla poesia. La poesia ci fa superare i nostri limiti umani, la politica richiama i nostri interessi materiali ed anche spirituali57.
Il cinema di Oliveira è un cinema profondamente intriso dai conflitti epocali attraversati dal suo paese. Già si è fatto riferimento alla censura subita durante gli anni del salazarismo. Si deve aggiungere che il cineasta ha dovuto attraversare l’esperienza del carcere: alcuni giorni trascorsi nelle patrie galere lisboete a motivo dell’aver affermato, in occasione di un dibattito a Porto su Acto da Primavera58, che per l’appunto la censura esisteva, eccome, nel Portogallo dell’epoca. Un giorno [all’inizio di dicembre] del 1963, mentre ero a letto per un attacco di febbre, arrivarono gli sbirri della polizia politica, la PIDE, e mi portarono a Porto. Venni trasferito a Lisbona, sede del comando della PIDE, e lì mi accusarono di essere contro il regime di Salazar, anche se non avevano pro57. I, Filmcritica, 2003, p. 499. 58. T7, p. 142, e I, Cinéma 80, 1980, p. 26.
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ve concrete in tal senso. Per tre giorni rimasi in prigione, si trattò di un’intimidazione al fine di mettermi paura59.
Oliveira ha sempre mantenuto un rapporto distaccato dalla politica come «appartenenza di partito». E ciò non soltanto sulla base di una precisa visione estetica, secondo la quale Il cinema non può insegnare all’uomo quel che deve fare. La funzione dell’arte non è insegnare, né dire come ci si deve dar da fare nel futuro. Questo è un sentimento politico. L’arte ripete quello che è già accaduto e che fu fatto nella vita: non il futuro, ma il passato. Nei film d’attualità si registrano gli eventi presenti, che subito si trasformano nel fantasma d’un passato prossimo. L’arte parla di quel che è accaduto, non di ciò che accadrà. Questa previsione compete alla scienza e alla politica. Infine, l’arte funziona grazie ad osservazioni storiche. Vale a dire sulla memoria. Questa è la base fondamentale per la composizione storica e di finzione60.
C’è, al di là della motivazione estetica – e si noti fin d’ora il richiamo «agli eventi presenti che subito si trasformano nel fantasma d’un passato prossimo» –, un problema di rapporto tra «politica» e «verità», sicché la questione diventa ben più complessa. Ad una domanda sull’assenza di legame con le ideologie nei suoi film, egli risponde: Politici nel senso più ampio della parola, i miei film lo sono senza dubbio alcuno, nella misura in cui ne esce la verità degli eventi, la verità delle cose, [… laddove …] le ideologie applicate hanno come nemico peggiore la verità poiché, nella pratica, esse vanno molto al di là [rispetto ad essa]61.
59. TA, [Le date più importanti della mia vita], 2002. Si veda anche in TA, Premessa, 1988, in T30, p. XI. Due resoconti dettagliati di quella vicenda in T7, p. 142-143, e in T22, p. 73-74. Dalla documentazione riprodotta in T9 si deduce che furono complessivamente undici i giorni di cattività nelle mani della PIDE, dal 3 all’11 dicembre 1963. Nella documentazione ci sono anche le copie delle due petizioni (una di oppositori, l’altra di simpatizzanti del regime) inviate al Presidente del Consiglio l’8 dicembre di quell’anno, con le quali si chiedeva la scarcerazione del cineasta. 60. T22, p. 42. 61. T7, p. 30 e 33.
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Alcuni pensano che dopo il 25 aprile io debba fare film politici – io penso, al contrario, che i film politici dovevano esser fatti prima del 25 aprile! […] Comunque, contrariamente a ciò che pensa la gente, io credo che i miei film siano politici. Mostrano situazioni politiche e sociali, i costumi, la morale, tutto ciò che determina i personaggi in una condizione data. Ho sempre una grande propensione, accanto allo sviluppo sentimentale, ad indicare in parallelo le condizioni sociali, ecco perché pongo grande attenzione ai décors, ai dettagli, al modo di muoversi o di fare i complimenti. Tutto ciò restituisce un’epoca, una maniera d’essere62.
E Oliveira aggiunge, citando Shakespeare e la BessaLuís, «la franchezza è figlia amata della crudeltà […], la verità è di piombo, orribile»63… Incalzato sul significato da dare all’espressione «verità delle cose», egli fa l’esempio della rivoluzione del 25 aprile e della propria partecipazione all’assemblea che Jean Paul Sartre tenne presso la facoltà di lettere dell’Università di Porto («Ho assistito a tutta la discussione fin dall’inizio, in piedi») poco tempo dopo gli eventi, a motivo dell’interesse del filosofo francese per l’«originalità» di quella rivoluzione. Dinanzi ad una sala gremita soprattutto di studenti, che erano lì per lui e che pur restavano ammutoliti, l’intellettuale francese – che affermava «di non esser venuto per parlare, ma piuttosto per ascoltare dalla bocca delle persone ciò che era stato fatto di originale nel periodo della rivoluzione» – pose delle domande concernenti quel che Oliveira, giocando maliziosamente col linguaggio, chiama «non propriamente il Decalogo, bensì un décalque, un calco del programma comunista»: occupazione delle fabbriche, delle proprietà agrarie, delle case… Insomma, l’«applicazione di dogmi politici per correggere la vita sociale», che invece richiede di «esser compresa tramite un approccio complesso». «Tali domande crearono turbamento nella misura in cui contraddicevano la tanto vantata originalità della nostra rivoluzione, lasciando l’assemblea perplessa», aggiunge Oliveira. La verità di quell’evento, dunque, ne veniva stravolta. 62. I, Cinématographe, 1981, p. 56. 63. T7, p. 33. Nel prosieguo le citazioni sono tratte dalle p. 30 a 34.
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Ad una domanda concernente le possibili, molteplici alternative politiche secondo le quali costruire il futuro, Sartre rispose: «Non ci sono alternative, si è comunisti oppure fascisti». Ecco lo «straripare» dell’ideologia applicata. Incalza il cineasta: È chiaro che le idee che motivavano le domande poste da Sartre corrispondevano ad un programma marxista. Di certo ciò provocò un fremito nella maggior parte dei presenti, veramente di sinistra e ancora convinti dell’originalità, più o meno vantata, della Revolução dos Cravos. Si assistette ad una sorta d’osmosi tra tutti i giovani studenti, nella sala regnava una psicosi senz’appello favorevole al comunismo come soluzione ideale, irreversibile e che, di fatto, sembrava già aver vinto.
La Rivoluzione dei Garofani era stata «buona, giusta, non-violenta e positiva», anzi All’inizio si era tutti d’accordo, il più bel giorno era stato il primo maggio, circa una settimana dopo il 25 aprile, c’era gioia nell’aria, entusiasmo, euforia, una cosa che mi aveva toccato enormemente, poi però sfortunatamente i partiti si erano organizzati e cominciavano ad affrontarsi, lottando senza scampo per il potere.
In questo contesto, ancora una volta Oliveira cita Deleuze, pensatore che lo aiuta nel cercare di comprendere in cosa fosse consistita l’originalità di quella rivoluzione: Deleuze distingue tra lotta e guerra. Non ci avevo pensato prima. La guerra, com’è evidente, è sempre fatta dagli uomini. La guerra non si accompagna col sentimento profondo delle donne, delle madri, le quali sono fatte per creare, per alimentare e proteggere la vita. Adesso percepisco che una rivoluzione, quando opera uno sconvolgimento radicale come quello ma senza combattimenti, assume uno spirito femminile.
Ecco perché le domande di Sartre all’assemblea, in una certa misura, avevano ferito l’«originalità» di quella rivoluzione, [dato che essa] non aveva versato sangue, aveva messo fine alla dittatura, liberato le colonie; una Rivoluzione che 86
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aveva avuto ripercussioni negli eventi che si erano succeduti in Europa quasi a catena, a volte contraddittori, [ …dunque… ] riflesso locale d’un movimento universale […] dalle conseguenze contraddittorie, le quali oggi ci sorprendono data la complessità di avvenimenti assolutamente inattesi e che nondimeno sono perciò divenuti profondamente significativi, rivelatori di cose latenti, fino a quel momento nascoste».
E ovviamente non è un caso che il cineasta abbia visto ripercussioni di quell’evento anche nell’Europa del cinema, in due film che derivano dal crollo comunista, dalla «Alcácer-Quibir del comunismo», e [che] sono conseguenza della rinascita del mito del sebastianismo, rivisto adesso secondo altri parametri. Si tratta di Allemagne neuf zéro (1991) di Jean-Luc Godard e Le pas suspendu de la cicogne (1991) di Thodoros Anghelopulos. Il primo, di un regista svizzero, è stato girato nella Germania dell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino; il secondo, di un regista greco, è stato girato in Grecia, sulla frontiera presa d’assalto dalle perseguitate popolazioni confinanti64.
Si tornerà sul tema del mito sebastianista e della battaglia di Alcácer-Quibir. Per intanto, va sottolineato come Oliveira leghi a doppia mandata «politica» e «verità» nel rispetto che si mostra verso la complessità degli eventi. Un popolo, la massa: si tratta di fenomeni complessi, molto complessi. E lo stesso vale per il loro agire.
64. TA, Tentative pour expliquer l’inexplicable, 1993, in T1 (=T17, p. 36).
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Navigar fra le genti
Um Filme Falado Um Filme Falado (Un film parlato, 2003) è un altro film sul «popolo», e meglio: sui popoli al tempo di Internet e della navigazione elettronica, nonché sulla trasmissione della memoria storica in un mondo «liquido» e non più solo terraneo. Il film è ambientato nel Mediterraneo delle molteplici civiltà che l’hanno formato, in primis la cristiana – nella duplice articolazione cattolica ed ortodossa, delle quali Oliveira mostra ad esempio il diverso atteggiarsi della mano nel gesto di segnarsi; poi la musulmana, mostrata nella magnificenza dei simboli di Santa Sofia ad Istanbul; poi ancora quella israelitica, con un importante richiamo attraverso la promessa che la madre fa alla bambina di raccontarle la «lunga storia» della cattività egizia delle dodici tribù poi liberate da Mosè, profeta dei Giudei65. Costruito nella forma di un viaggio che una professoressa di storia all’Università lisboeta (Leonor Silveira) e sua figlia (Filipa de Almeida) percorrono in nave per raggiungere il marito e padre, pilota in trasferta a Bombay, il film trascorre da Lisbona a Marsiglia, da Napoli e Pompei all’acropoli ateniese, fino a Istanbul, il Cairo e Suez, in una sorta di metaforica «navigazione nella storia» e nella condizione dell’uomo e della donna contemporanei, non a caso rappre65. Sul punto appare non poco forzata l’impietosa lettura critica di T. Sotinel, Une géographie sélective de la mer Méditerranée, in Le Monde, 15.10.2003. Si noti che il personaggio principale del progettato film Angélica (1954), infine ralizzato nel 2010 con lievi modifiche, si chiama Isaac ed è un ebreo in fuga dai nazisti (cfr. I, Preto, 2010).
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sentati da una madre che cerca di trasmettere alla figlia le nozioni basilari dell’accadere storico attraverso la ricognizione di luoghi classici, «magici» come dice la protagonista, profondamente simbolici sul piano della memoria delle civiltà in questione: l’omaggio in pietra ai Descobrimentos sulla costa portoghese, Castel dell’Ovo a Napoli, gli scavi pompeiani, il Partenone, Santa Sofia, la Sfinge, il canale di Suez… Insomma, il tentativo del film è quello di trovare una forma di trasmissione della memoria all’epoca della navigazione globale immobile via world wide web, forma che non faccia perdere contatto con la tradizione storica e la memoria dei popoli. Sì, dei popoli perché, alla domanda della figlia circa l’assenza sull’Acropoli della statua della dea Atena protettrice della città, la madre risponde: «Sono i Greci a proteggere la Grecia», non le statue – in tal modo dando chiara la percezione che quella che avviene lungo tutto il film sia navigazione fra le genti, navigazione fra popoli mediterranei, nel mare di Mezzo «culla di tutte le civiltà», come si sente dire nel film. Così recita la strofa d’un poema scritto dal cineasta: Amar o mar è amar a alma de todos esses e muitos outros rios que desaguam nos oceanos as alegrias e mágoas dos povos que banham. É amar os povos que esses mesmos rios atravessam e alimentam corpo e espírito, e dão sinal de força viva que se renova a cada instante. Águas a correr pelo tempo, por córregos, por leitos e pelos espaços históricos desses povos de diferentes raças, hábitos e costumes, não obstante unidos pela mesmíssima raiz humana que os liga, que nos liga e nos iguala a todos nós. Amare il mare è amare l’anima di tutti [i fiumi] che riversano negli oceani le allegrie e le pene dei popoli che essi bagnano. È amare i popoli che essi solcano e alimentano nel corpo e nello spirito, segno di forza vitale che ad ogni istante si rinnova. Acque che scorrono nel tempo, per greti e per alvei e per spazi storici di popoli di differenti razze, abiti e costumi, uniti tuttavia dalla stessa radice umana che li lega, che ci lega e rende uguali tutti noi66. 66. TA, Rios da terra, 1999, in T8, p. 88 (=T6, p. 21-22).
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Dietro ogni monumento, statua o simbolo c’è sempre un uomo, una donna: questo il centro «politico» del film. Condizione magnificamente espressa dall’inquadratura allo specchio nell’albergo di Suez, nel quale si vedono la madre, la bambina e l’occasionale accompagnatore riflessi in uno specchio mentre contemplano una statua, un busto d’azzurro vestito, «colore della verità per gli Egizi, come il colore del cielo»67. L’intero percorso si snoda, in effetti, nella costante compresenza di persone, folle, genti: non solamente la nave accoglie molti viaggiatori, ben visibili agli imbarcaderi nei vari porti, giù sulla banchina e sulla tolda; né soltanto le folle costituiscono il «mare» nel quale «naviga» la coppia madrefiglia nei luoghi classici della ricognizione (la massa cittadina sul vieux port di Marsiglia, la folla di turisti a Pompei e all’Acropoli, le comitive in fila all’ingresso di Santa Sofia, l’albergo di Suez col vociare costante di ospiti in transito); ma la molteplicità costitutiva dell’umano è lo sfondo delle sequenze decisive del film, le due lunghe cene alla tavola del comandante (John Malkovich), in una sala apparecchiata con cento tavoli tutti occupati. Questa folla di commensali farà da sfondo anche al canto finale dell’attrice greca (Irene Papas) ma, soprattutto e purtroppo, si trasformerà in bersaglio di terroristi omicidi nella chiusa del film. Insomma il «popolo», la moltitudine dell’umano è il costante fuoricampo del film, l’acqua reale che bagna il cuore della narrazione e dalla quale si distaccano di volta in volta gocce d’individui che provano ad esprimere vivo il senso della storia e della memoria. Nel film si può ascoltare dalla bocca della madre questa definizione del termine «civiltà»: Si chiama civiltà quel che gli uomini creano e sviluppano nel tempo attraverso la loro intelligenza.
Definizione umanistica ed antropologica, né puramente estetica, né solamente legata alle dinamiche del potere. La centralità delle lingue, peraltro, è segno ulteriore della natura «umanistica» delle civiltà e delle epoche attraversa67. Si veda un’analisi della sequenza in J. Lopes, Manoel de Oliveira 100 Anos, Lisboa, Zon Lusomundo, 2008, p. 64-65 (cfr. l’inserto fotografico).
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te nel film: le celebrate sequenze delle cene in cui ognuna delle commensali – tutte donne (oltre alla Silveira, sua figlia e la Papas, ci sono Catherine Deneuve e Stefania Sandrelli), eccetto il comandante – si esprime nella propria lingua (greco, portoghese, inglese, francese, italiano), mostra come una via d’uscita possa trovarsi alla biblica Babele delle lingue, alla bizzarra complessità del molteplice comunicare umano che pure attende ancora («anche da parte delle istituzioni europee», dice una delle commensali, «dove non si è ancora capaci di parlare nella molteplicità delle lingue») di essere assunta nella sua radicalità – utopica, sì, e nondimeno possibile. Da parte sua, questo film «mosso da una parola» (le onde del mare, le parole d’una lingua), mostra comunque che, come recita il titolo d’una delle ultime opere del cineasta portoghese, «o improvável não é impossível»… I temi centrali della discussione a cena sono dapprima l’amore poi la politica, intesi entrambi nella loro dimensione etica, costitutiva dell’umana convivenza. E se il tema dell’amore riprende topoi ben noti della filosofia di Oliveira come esplorata in molteplici opere a partire dagli anni Settanta (e sulle quali si tornerà), è certamente qui centrale la questione del rapporto tra i popoli, rectius: dei legami e delle distanze che, anche attraverso le proprie lingue, i popoli sperimentano. Ecco quel che dice la donna greca alla tavola a riguardo del rapporto con l’Islam: HELENA: Ciò che offusca il mondo arabo è la disinvoltura dell’Occidente con la tecnologia, con le diverse tecniche, col progresso scientifico; questo li immerge in preconcetti religiosi; quel che principalmente ci divide, ciò che manca tra Occidente e Oriente, sono valori di convergenza68.
E data la definizione offerta del concetto di «civilizzazione», allora è da ritenere che non vi sia altra opera di Olivei68. Non avendo personalmente accesso alla lingua greca, si è fatto riferimento al testo in sottotitoli portoghesi, che coincide con le versioni italiana ed inglese. Ci sono alcune differenze invece nella versione francese: per esempio, al posto di «Ciò li immerge in preconcetti religiosi», si legge: «La sola risorsa del mondo arabo, la sua unica fonte di forza e di speranza, resta la religione».
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ra – e si potrebbe arrivare ad affermare: dell’intera storia del cinema – nella quale la questione della molteplicità delle lingue e del suo rapporto con la storia e la memoria sia stata posta con altrettanta forza e centralità. Non è un caso che il titolo specifichi trattarsi di un film «parlato»! Le parole hanno una loro musicalità. Ma qui non c’è musica, c’è un rumore, lingue che rappresentano le personalità dei diversi paesi. Non potevo far parlare tutti in portoghese, avrei impoverito il film. Lo so che ho osato molto, facendole parlare tutte nella propria lingua. È un film indoppiabile. Ho fatto una scelta utopica, ma necessaria. E questa necessità è anche una virtù, una forma di tolleranza verso le altre lingue. Traduzioni e sottotitoli non bastano69.
69. I, Filmcritica, 2003, p. 504.
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Un uomo di sinistra
«Il mio cinema è politico», dichiara dunque a ragione il cineasta, senza mezzi termini. Ad un’affermazione di un intervistatore all’inizio degli anni Ottanta, «il suo cinema appare, alla luce dei suoi ultimi film [si discute in particolare di Francisca], veramente metafisico», Oliveira risponde: Politico. Perché non dice politico? È una parola più semplice. Il concetto di metafisica è un po’ complicato…70.
E il cineasta compie in poche battute una ficcante analisi di Francisca nei termini del conflitto storico determinatosi tra i figli di João VI per la lotta di successione al potere, dunque vedendo in José Augusto (e in Camilo Castelo Branco medesimo) un «miguelista», posizionato sul campo a sostegno della legittimità dell’infante Miguel e dell’assolutismo nel Portogallo del periodo della guerra civile portoghese (1831-34); e nella famiglia Owen (se non in Francisca medesima), una posizione «liberale» e costituzionalista, dunque amica di D. Pedro IV71. Nella maniera nella quale si svolge il film, Fanny [è il diminutivo di Francisca] non può restare estranea a tutto questo. Detto altrimenti, c’è qualcosa che separa lei e José Augusto. […] Non so far passare tutto questo dentro un film, ma ci ho pensato molto, l’ho sentito in profondità. Queste due tendenze [politiche] sono esistite, ed è molto difficile dimenticarle.
70. T27, p. 170-171. Su Francisca si tornerà infra, p. 196 ss. 71. Cfr. Saraiva, Storia del Portogallo, cit., p. 249-256.
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Ora, quando parla di «libertà» in rapporto a «politica», Oliveira ne dà questa definizione: Il significato politico di libertà […] propone, innanzi tutto, obblighi, obblighi da cui derivano i doveri. Ma è una condizione costrittiva, non libera. Però è la condizione essenziale per la libertà intesa in senso politico [e non in senso filosofico]. Se non conosco i doveri, tiro le pietre alle finestre del vicino e gli rompo tutti i vetri. Ma se ne ho la nozione, so che questo non si deve fare e non gli tiro le pietre, così guadagno a mia volta il diritto che lui non tiri pietre sui vetri della mia finestra. È così che si ottiene l’equilibrio. Questa è la libertà sociale, politica, o come preferite chiamarla72.
«L’uomo è prigioniero, non è libero»73, può aggiungere il cineasta. Tale libertà politica, allora, è [figlia di] un’etica, [perché gli uomini] hanno bisogno di un ordine, di limiti. C’è un filosofo portoghese, Spinoza, che amo molto citare e [la cui famiglia] si rifugiò in Olanda ai tempi dell’Inquisizione, il quale afferma, «Noi uomini pensiamo di essere liberi perché non conosciamo le forze che governano i nostri impulsi»74.
Chi esprime queste idee si definisce «homem de esquerda»75, «uomo di sinistra», il quale però non dà molta importanza alla politica di partito, né mai ha avuto tessere. Mi sento un democratico, ho sognato la libertà per tutta la vita e dopo il 25 aprile sono un uomo felice, [nonostante il] troppo veloce radicalizzarsi di quel movimento politico76.
Un uomo che ancora nel 2001, superati i novant’anni, non si risparmiava dal prender posizione riguardo allo 72. T31, p. 176. 73. I, Filmcritica, 2003, p. 504. 74. Ibid. Il riferimento è all’Ethica, parte III, prop. 2, scolio. Oliveira cita spesso Spinoza: TA, Petit dialogue, 1997, p. 23; I, Visão, 2002; I, Bruno, 2004, p. 496. 75. Manoel de Oliveira define-se como homem de esquerda, in Comércio do Porto, 15.10.1981 76. TA, [Le date più importanti della mia vita], cit.
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scontro geopolitico in corso con «la nuova razza che si diffonde sul globo», quella dei terroristi comandati da «un capo, un “alto signore”, […] “onnipotente” […], che si misura in taglia e forza con Allah, giudicandosi senza dubbio più grande di lui»77. Certamente si tratta d’una sinistra non marxista, più vicina al pensiero anarchico: Un amico mi ha dato dell’anarchico, mi ha detto: «Questo è Proudhon!». Non lo sapevo, ma va bene così78.
Più volte, infatti, il cineasta si è espresso su temi di cultura politica attinenti per esempio al rapporto fra industria e artigianato, difendendo la tesi concernente il rapporto tra macchina e schiavitù – e qui criticando Marx e il movimento comunista, Mao Zedong incluso –, e contrapponendo la libertà creativa derivante da un assetto sociale più consono alla «grande sabedoria», alla vera sapienza che viene da Oriente. Discorso che, con tutta evidenza, concerne le ricadute sull’attualità per rapporto all’«implacabilità» delle leggi della natura dinanzi alle applicazioni della scienza che si rivelano pregiudizievoli per il genere umano: bomba atomica, artificialismo in agricoltura, clonazione, inquinamento atmosferico, avvelenamento dell’acqua, dipendenza dall’«oro nero»79. Afferma il cineasta, con toni puramente spinoziani: La natura è saggia e noi siamo un prodotto della natura, la quale fa tutto il necessario per il suo buon funzionamento, del tutto estranea a qualsiasi sentimento di cui gli umani siano prigionieri. Il suo esercizio si basa nella regolazione con leggi implacabili della materia di cui si compone: per essa è tutto quel che conta. Non dovremmo mai dimenticare che noi siamo anche parte della natura, come le piante e gli animali, e che nella natura il fattore dominante è la sopravvivenza. Perciò l’uomo, vivendo in società, si sottomette ad un altro tipo di leggi, locali e temporanee, le quali rendono possibile la
77. TA, Celui qui se veut plus grand qu’Allah, 2001. 78. I, Filmcritica, 2003, p. 504. 79. Questi temi sono toccati in ivi, p. 504, e soprattutto in T22, p. 35-43.
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convivenza. Vengono così creati princìpi morali, ispirati fin dalla più remota antichità ad ataviche credenze religiose. […] Il cinema ci mostra i diversi luoghi ed aspetti della vita – le lingue, le razze, i costumi, il pensiero –, nonché tutto quel che incide sulla cecità umana di fronte alla natura, la cui forza indomabile fa sì che sia essa a dominare l’uomo e mai l’uomo a dominare la natura e le sue leggi. L’uomo può essere importante per Dio, ma per la natura l’essere umano è indifferente, poiché nella sua evoluzione la natura si trasformerà in un’altra delle sue maniere, continuerà sotto qualche altra forma e sostanza, con o senza esseri viventi, con o senza la Terra, nell’acqua, nell’aria, nel fuoco o negli acidi, obbedendo solamente alle leggi fisico-chimiche e assolutamente indifferente a tutto il resto. La stessa cosa non accade con l’uomo. Per l’uomo, è necessario che il mondo sia abitabile80.
Si può dunque comprender bene perché Oliveira abbia sempre insistito, nel suo cinema, sul tema etico delle lotte di potere fra gli uomini: Il cinema non può insegnare ciò che l’uomo deve fare. La funzione dell’arte non è quella di insegnare, di dire cosa si deve fare nel futuro. Questo è un sentimento politico. […] Tali previsioni competono alla scienza e alla politica81.
La politica infatti, ispirata dai princìpi etici finora esposti, deve far di conto con l’ambizione e il potere, perché Il gioco del potere cambia la mentalità degli uomini, e se un uomo è realmente buono non arriverà mai al potere. Pensate a Ghandi, o a Martin Luther King, non ci sono mai arrivati, forse perché erano troppo poco politici. E questo è un paradosso82.
80. Ivi, p. 39-40. 81. Ivi, p. 42. 82. I, Filmcritica, 2003, p. 501.
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Il dono ad un popolo «universale»
NON ou a Vã Glória de Mandar Il tema del «gioco del potere» ha condotto il cineasta a dedicare un film intero alla questione del rapporto tra etica e potere, NON ou a Vã Glória de Mandar (No, o la folle gloria del comando, 1993), dove la questione del potere politico è affrontata attraverso una profonda riflessione su alcune pagine decisive della storia del proprio paese83. Tema che troverà il proprio completamento l’anno seguente, quando Oliveira girerà A Divina Comédia, l’altro film legato ai temi del potere, questa volta indagato nella sua dimensione religiosa e dunque essenzialmente ideologico-culturale. NON apre la narrazione «storica» con l’avanzare d’una colonna di camion dell’esercito portoghese in Guinea Portoghese, territorio coloniale d’Africa, alla vigilia del 25 aprile 1974. Un gruppo di soldati dialoga su temi politici, cercando di riflettere sul senso delle vicende nazionali e mondiali che li vedono coinvolti in qualità di semplici soldati. E come pietra di paragone essi prendono la storia del loro paese e, in quella storia, in particolare le vicende del potere e la mitologia da esse scaturita. 83. Si vedano i due testi che Oliveira ha scritto nel 1993 a proposito di NON ou a Vã Glória de Mandar: si tratta di Brève réflexion e Tentative pour expliquer l’inexplicable, entrambi in T1 (=T17). Tutto T1 è dedicato ad analisi e riflessioni sul film. Si veda ancora A. de Campos Bruneti, Anticolonialismo e antisebastianismo em Non ou a Vã Glória de Mandar de Manoel de Oliveira, in M-H. Nery Garcez - R. Leal Rodrigues [a cura di], O Mestre, São Paulo, Green Forest do Brasil Editora, 1997.
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La discussione s’intreccia dunque più volte con accadimenti della storia passata depositati nella memoria collettiva, intrecci storico-mitologici nei quali vengono messe in scena alcune date salienti della vicenda storico-politica portoghese, del suo destino nazionale. Nella visione di Oliveira si tratta di un destino di sconfitte, di NO, di negazioni pronunciate dalla storia attraverso altrettante disfatte militari, le quali indicano un’altra strada, un altro cammino, una logica del dono come vera ricompensa per la scelta di seguire una via differente da quella del potere e della vana gloria di comandare. Si passa così dalla resistenza e morte del condottiero e «precursore»84 della formazione della nazione portoghese, Viriato, dinanzi alle legioni romane nel secondo secolo avanti Cristo (si tratta del periodo dell’occupazione del territorio iberico successiva alla seconda guerra punica); al coinvolgimento nelle questioni di potenza interne alla penisola iberica (il conflitto fra Castiglia ed Aragona) da parte di Alfonso V nella seconda metà del XV secolo, con la sua sconfitta presso la città di Toro. Segue la vicenda del nipote di Alfonso V, l’infante Alfonso, erede al trono di Giovanni II e morto accidentalmente nel 1491 per una caduta da cavallo. Grandiose le sequenze girate durante i funerali nel Mosterio da Batalha. Subentra, a questo punto, un intermezzo poetico, nel quale vengono messe in scena alcune strofe del nono e decimo canto de Os Lusíadas, opera pubblicata da Camões nel 1572 che narra, oltre al viaggio e alla scoperta della via marittima per l’India, anche della ricompensa degli dei a Vasco de Gama e ai suoi marinai nell’Isola degli Amori, in tal modo rendendo l’evento mitologico (ninfe, amorini con archi e frecce, cibo e frutta che scendono dall’alto) altrettanto «storico», dato il legame che da quel momento in poi si annoda fra quei versi e la memoria collettiva portoghese. L’ultimo intreccio della memoria si dispiega attorno a significativi miti portoghesi, dei quali i soldati discutono durante una sosta per mangiare. Ad esempio il mito del Quinto Impero (cfr. infra, p. 154 ss.) propugnato da padre Viei84. TA, Tentative, cit. (=T17, p. 31).
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ra nel XVII secolo, personaggio al quale Oliveira dedicherà un intero film (infra, p. 149 ss.)85 . Il Quinto Impero dominava [nell’immaginario di Vieira] tutto il mondo con un solo Re e un solo Papa. Vieira si riferiva al Quinto Impero come all’instaurazione del Regno Consumato di Cristo in terra. Regno di mille anni, che doveva durare fino all’avvento dell’Anticristo. Regno universale che avrebbe abbracciato tutti i continenti, le razze e le culture. Vieira era cattolico, e cattolico significa universale. Un regno cristiano e cattolico per convertire tutti gli eretici, i musulmani, i pagani e gli ebrei, un regno di pace e concordia fra tutti gli abitanti del mondo. Un’utopia, che in certo modo si oppone al desiderio di dominio del mondo con la forza, col potere. Desiderio evidente nell’ambizione delle grandi potenze, come la Russia o l’America oggi, una specie di Quinto Impero a forza, che speriamo sia più lontano possibile86.
E si riflette anche su un altro mito, nato dalla famosa battaglia in terra nordafricana di Alcácer-Quibir dell’agosto 1578, ricostruita nel film, «la battaglia dei tre re» nella quale, insieme ad altri due re, scomparve anche Sebastiano, mai essendosene rinvenuto il cadavere: momento storico nel quale prende piede, per l’appunto, il mito «sebastianista»87. Disastro che si trasformò in mito, mito che si trasformò in verità. La verità! Qualcosa di segreto e inesplicabile. Invece di avere un senso logico, questa verità inaccessibile possiede un senso ultimo che tutto spiega, come qualcuno disse. Un mito reale, fuori dalla realtà.
85. Vengono nel seguito del paragrafo riportati alcuni testi senza rinvio in nota, tratti direttamente dai dialoghi di NON, tutti pronunciati dal sottotenente Cabrita, il quale in alcuni casi fa proprie delle affermazioni interlocutorie dei compagni. A motivo di speditezza nella lettura, il testo è unificato in un’unica voce. 86. Sul tema si veda J.F. Marques, L’utopia del ‘Quinto Impero’ in Vieira e nei predicatori della Restaurazione, in T6. 87. Ulteriori dettagli in F.S. Nisio, Saudade e muto cinema di parola in Manoel de Oliveira, in Cinecritica, 44, 2006. Sul «sebastianismo» si veda Saraiva, Storia del Portogallo, cit., p. 140-150.
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E la fine del film proverà a mostrare la realtà di quel mito. La giornata dei militari, ripreso il viaggio in camion, si conclude con la sosta in vista del calar del sole nel campo di rifornimento, prima di trovarsi ad affrontare l’ultimo atto di questa traversata nel tempo e nella storia, che consisterà nel mortale conflitto a fuoco a seguito dell’imboscata in cui la pattuglia cadrà l’indomani durante una ricognizione nella foresta. Conflitto a fuoco dal quale uscirà ferito a morte il sottotenente Cabrita, poi trasportato in elicottero nell’ospedale militare di Bissau e lì invano affidato a disperate cure mediche. Il delirio degli ultimi istanti vedrà Cabrita – circondato da una martoriata umanità di commilitoni feriti e deturpati nel corpo, con in particolare uno di loro col capo fasciato e libero di guardare solamente con un occhio, solitario e spalancato – messo a confronto con la «visione profetica del fantasma di re Sebastiano»88 di ritorno a Lisbona attraverso il Cais das Colunas in una mattina di nebbia, come vuole la leggenda, «per liberare il paese». La morte sopraggiunge adesso, e una voce off – Oliveira in persona – dichiara che il giorno del decesso è il 25 aprile 1974, data in cui prende avvio la Revolução dos Cravos. Ma in cosa consiste la «liberazione del paese» apportata da re Sebastiano? Con una giunzione fra la riflessione di Vieira sul senso della parola latina NON, «no» («Terribile parola è un NON! Non ha diritto né rovescio, da qualsiasi parte la prendiamo suona e dice sempre lo stesso. Leggetela dall’inizio alla fine, o dalla fine all’inizio, è sempre NON!») e la ripresa d’un verso di Camões («Oh, gloria de mandar! Oh, vã cobiça!», «Oh, gloria di comandare! Oh, vana cupidigia!»), diventa allora chiaro che l’intero film è una riflessione sul no che la storia ha opposto più volte alla vana gloria di potere imperiale della nazione portoghese, al contempo offrendo una speranza attraverso la rilettura del mito sebastianista alla luce degli eventi del 25 aprile 1974, giorno della «liberazione» della nazione portoghese non solo da una dittatura semisecolare ma, soprattutto, da quell’aspirazione di conquista e di dominio che gli eventi rivoluzionari contraddicevano in radice (come s’è veduto a proposito 88. TA, Tentative, cit. (=T17, p. 35).
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dell’assemblea con Sartre), in direzione invece d’una dimensione di dono ed offerta che fanno il vero tesoro per l’umanità intera, vale a dire per le sue future generazioni89. Ecco il disastro che si trasforma in mito, e il mito che si trasforma in verità: «un mito reale, fuori dalla realtà». Sul tema del dono, questo il lungo ed importante discorso di Cabrita (Luìs Miguel Cintra): Qual è il destino del Portogallo? Non ne sappiamo niente. Diceva qualcuno che «la verità è qualcosa di segreto e inesplicabile». Invece d’avere senso logico, questa verità inaccessibile possiede un senso ultimo che tutto spiega. O spiegherà, dico io. […] L’importante sarebbe che non ci fossero né vincitori né vinti, ma una semplice intesa comune, in modo che a tutti sia data la possibilità di mantenere alta la testa, senza la minima umiliazione. Questo, sì, sarebbe giusto. […] Per me le conquiste territoriali, alla fine dei conti, valgon poca cosa. Conquiste, dominio sui territori, sottomissione dei popoli alla forza del potere: non è quel che realmente conta, perché avrà valore per un periodo fugace e solo a beneficio di chi detiene il potere. Non è qualcosa che resta in favore dell’Umanità. Ciò che resta per l’umanità è quel che si dà, non quel che si prende […] Cos’è rimasto dell’impero greco o di quello romano? Rovine, sì, è vero. L’impero si è diluito, è svaporato nel tempo, sono rimaste solo rovine. In un certo senso, sono rimaste solo ombre. Però si è accesa un’altra luce, quella dello sviluppo culturale, che ha lasciato il suo substrato: ecco il dono che resterà per sempre nella conoscenza universale, forse come un contributo per la civilizzazione, anche se questo è un passo... enigmatico, perché a mio parere non va in direzione dell’eternità. […] Le scoperte portoghesi sono come un dono. Quel 89. Su NON in rapporto all’Europa e al tema delle «grandi ricerche identitarie dei popoli», si veda S. Daney, L’arbre, in dossier de presse dell’Instituto Português do Cinema, Cannes 1990 (sono qui sintetizzate anche alcune idee consegnate ai diari, cfr. S. Daney, Il cinema, e oltre, Milano, Il Castoro, 1997, p. 239-241). In E. Lourenço, Portugal como Destino, seguido de Mitologia da Saudade, Lisboa, Gradiva, 1999; trad. Il labirinto della saudade. Portogallo come destino, Reggio Emilia, Diabasis, 2006, p. 118 ss., ci sono alcuni riferimenti al film all’interno d’una lettura del «destino» portoghese anche alla luce della «lenta e continua morte del sebastianismo» in una nuova Europa «senza sogni né miti». Di Lourenço si veda anche Camões et l’Europe, in Critique, 495496, 1988, numero speciale sul tema de L’épopée lusitanienne.
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che rimarrà non è ciò che si conquista o su cui si esercita il dominio, perché tutto ciò sfumerà col tempo, come succederà o successe ad altri imperi, per grandi che fossero o che siano. Ciò che è dono è quel che i Portoghesi hanno apportato con le Scoperte, dando al mondo altri mondi, popoli, mari, cieli: è questo ciò che resterà. Come Vasco de Gama per l’India, Cristoforo Colombo e Pedro Alvares Cabral per l’America, e Fernando Magalhães [Magellano] con la circumnavigazione del globo. O ancora Gago Coutinho, che riprende nel XX secolo l’astrolabio, strumento che aveva guidato i navigatori del secolo XV, e inventa il sestante, col quale potrà fare il primo viaggio aereo transatlantico. Questo è ciò che rimarrà. Le Scoperte del secolo XV sono il nostro più grande dono al mondo. E non è un caso che Camões abbia premiato i nostri navigatori: Gli dei fa scendere al vil terreno/ E gli umani ascendere al cielo sereno […] / Rendendo quel premio e dolce gloria / del lavoro che fa chiara la memoria. […] Le Scoperte sono il grande dono dei Portoghesi al mondo: non sono qualcosa di separato dalla storia del Portogallo, sono frutto d’uno sforzo che merita solo chi è in grado di comprenderlo, divenendo capace di trasmetterlo alle generazioni future. Il dono stimola il lavoro e la ricerca. Si tratta di qualcosa di superiore, di trascendente e ricco, ricco nel senso della sapienza, ricco culturalmente. Ciò che si è ottenuto con le Scoperte ha rappresentato un grande passo per l’umanità. Possiamo dire lo stesso del viaggio sulla Luna, o dei risultati dell’esplorazione della stratosfera con navi spaziali. Tutti eventi con un futuro promettente, per la scienza e per lo sviluppo tecnico, e perfino per lo sviluppo d’una filosofia del cosmo. Forse addirittura per accedere all’enigma di Dio? Non credo, non sono cose della stessa natura. Dio è al di sopra di tutto ciò. È una follia, lo so, ma a volte penso che l’universo e l’umanità non siano altro che una fuga dell’immaginazione di Dio.
Questo senso del dono è depositato nell’immagine potente dell’albero della savana d’Africa (sorta di monolito naturale, carico di altrettanto mistero rispetto a quello che tornava più volte nel film di Kubrick), inquadrato all’inizio del film con un travelling circolare prim’ancora che prenda avvio il dialogo fra i soldati sul camion, accompagnato da ipnotici suoni metallici e di tamburi: sono le radici ben salde nelle generazioni che precedono – cioè nel popolo che ci ha messi al mondo e, attraverso esso, nell’umanità intera 102
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– a custodire in modo misterioso, e a trasmettere, il significato dell’essere al mondo, il suo senso. Come afferma Oliveira: L’albero maestoso […] è l’albero genealogico, la rappresentazione dell’umanità intera, dalla Genesi ai giorni nostri. Le guerre fratricide che si scatenano dappertutto ci fanno capire che, più alta e fitta diventa la chioma, più estese e robuste saranno le radici etnologiche, le quali affondano in tradizioni e credenze profonde, indipendenti dalle ideologie. Ogni ramo ha una propria radice, quando viene tagliato rinasce con antico vigore: ma se capita che la sua radice si secchi, a motivo della rovina di tutte le tradizioni e credenze che la alimentavano, allora morirà anche il ramo90.
Invero, è possibile leggere l’intero film come «contro-posizione» rispetto all’immaginario dell’altro scopritore di mondi cinematografici che fu l’autore di 2001. A Space Odissey. Non solo, come si è letto, il «viaggio sulla Luna e i risultati dell’esplorazione della stratosfera con navi spaziali» sono espressamente citati nel film, peraltro all’interno di una narrazione filmica strutturata a propria volta come viaggio nello spazio e nel tempo a bordo di macchine che avanzano in direzione d’una nuova nascita, che qui è quella della nazione portoghese il 25 di aprile. Ma ad una suggestione kubrickiana rimanda anche l’occhio condannato a guardare la violenza d’una morte desolata nella sequenza finale del film già citata91. Senza tralasciare che Daney, ne L’arbre, aggiunge un riferimento esplicito all’autore di Full Metal Jacket a proposito del «passar sulle tracce dei film di guerra americani» da parte del cineasta lusitano. Le radici di cui parla Oliveira – si noti che Oliveira significa «ulivo» in portoghese – sono depositate, per l’umanità, non soltanto nella levigata razionalità che pare accompagnarne la storia in modo misterioso (il monolite kubrickiano), bensì anche nel «sangue» che si trasmette fra le genera90. TA, Tentative, cit. (=T17, p. 36). 91. Anche Daney fa cenno a questa sequenza menzionando Kubrick, e si tratterebbe del finale di A Clockwork Orange, cfr. Daney, Il cinema, e oltre, cit., p. 239. Oliveira cita due volte Kubrick in T7, p. 176-177. Si veda anche I, Positif, 1999, p. 26.
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zioni, «sangue» che non è in nulla un simbolo leggibile in termini puramente biologici, bensì nel segno della solidarietà fra passato e futuro del genere umano, dunque nel segno d’una trasmissione e di uno scorrere «fluviale», quale la goccia di sangue che si vedrà scendere lungo la spada capovolta di re Sebastiano alla fine del film. In tal modo è tenuto insieme il doppio aspetto del legame con la tradizione, legame sia con la natura (albero), sia con l’umanità che ci ha preceduto (sangue, radici). Legame che nel film tiene insieme anche sul piano visivo la vicenda umana, dato il ripresentarsi di volti e situazioni (il discutere a più voci, la partecipazione a rituali collettivi) nelle differenti epoche in cui il film è ambientato, segno d’una memoria collettiva che sempre trascorre e si rinnova nello scambio delle generazioni. Si comprende allora molto bene perché Oliveira affermi che «NON è un film d’amore»92, né nichilista né antinazionale: si tratta di un dono fatto al popolo «universale» nel quale è nato, il popolo che gli ha dato una lingua, una storia, una geografia93. Popolo «universale» in quanto capace di apertura, dono, dialogo fra le culture. Cristóvão Colombo. O Enigma E con Cristóvão Colombo. O Enigma (Cristoforo Colombo. L’enigma, 2007) Oliveira ritorna sul mare, e vi fa ritorno di persona, per raccontare il passaggio di mondi che fu compiuto da molti navigatori portoghesi, e fra questi anche il più famoso di tutti, Cristoforo Colon e non Colombo (come si vede scritto di pugno del navigatore stesso in un do92. I, A Grande Ilusão, 1992, p. 3. 93. «Daney mi domandò una volta, a proposito del Portogallo, “Manoel, se lei fosse spagnolo penserebbe allo stesso modo?” […] Se io fossi spagnolo, non sarei io. Semplice. L’ipotesi non esiste. Nacqui dai miei genitori e nacqui in Portogallo, sono portoghese. È un fatto, un’identità. Tutti vogliono sapere chi erano i propri antenati. Questo è fondamentale. È altrettanto importante come sentire la terra sotto i piedi. Mancando ciò, manca la terra sotto i piedi e le persone si perdono. Noi siamo della terra. Siamo legati ad una radice, ad un seme», ibid.
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cumento storico), del quale si ricostruisce nel film la possibile origine lusitana, né italiana né spagnola come comunemente ritenuto94. Il film, ancora una volta, è un potente messaggio culturale alla propria nazione, la quale non dà troppa importanza alle Scoperte «che furono un dono per il mondo intero», com’è ripetuto anche in questo film e che, una volta di più, vengono messe in parallelo con le grandi navigazioni spaziali del russo Gagarin e dell’americano John Glenn. Infatti, tutto il film è costruito come un percorso «storico» attraverso i luoghi, i simboli (statue, colonne), i musei che, su una sponda e sull’altra, attestano la presenza d’una memoria collettiva tenace, persistente nel tenere vivo il ricordo di fatti storici di grande importanza per i due popoli più direttamente coinvolti in essi (il portoghese, l’americano), ma anche per l’umanità nel suo complesso. Un angelo-fantasma, bardato dei colori verde e rosso della nazione portoghese, accompagna le peregrinazioni d’una coppia, Manuel Luciano da Silva (Ricardo Trêpa) e Silvia Jorge (Leonor Baldaque), che ripercorre, fra gli anni Quaranta e l’oggi – gli attori ad un certo punto vengono sostituiti da Oliveira e Maria Isabel, sua moglie nella vita –, luoghi quali la Lisbona che vide partire le caravelle di Colombo/Colon; la Cuba in Alentejo, possibile luogo di nascita del navigatore; la New York nella Hudson Bay, che da sempre accoglie le migrazioni europee, e portoghesi in particolare; e ancora, con un salto di cinquant’anni, la piazza newyorkese che ospita il Memoriale delle Scoperte; infine l’isola di Porto Santo, che ospitò a lungo Colombo/Colon e che, ancor oggi, come si sente nel film dalla viva voce di Manuel/Manoel, «manca d’un grande museo delle Scoperte, simile a quello che gli americani hanno dedicato all’avventura spaziale». Tutto il film, al contempo, s’intreccia con una memoria storica personale, quella del cineasta e della moglie, trattandosi della messa in scena d’una vita di coppia e d’amore 94. Il film si basa sul libro di M. Luciano da Silva – S. Jorge da Silva, Cristóvão Colon era Português, Lisboa, Quidnovi, 2006. Agli autori del volume il cineasta si ispira per tratteggiare le vicende della coppia al centro del film.
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duratura e fedele, preceduta dalla narrazione delle vicende d’emigrazione di Manuel Luciano col fratello e del suo affermarsi professionale come medico in Nord America; poi esibita al momento del ritorno in Portogallo negli anni Sessanta per il matrimonio e la luna di miele; prima del nuovo balzo in terra d’America per il completamento del periplo dei luoghi storici dell’epopea di Colombo/Colon. Costante è il dialogo fra i personaggi nel film (prima Manuel Luciano col fratello Hermínio, poi Manuel/Manoel con la moglie stessa), parola che si fa onda nel portar innanzi la narrazione e condurre la ricerca anche intima d’una vita di coppia possibile. Invero, tutto il film è un’«amorosa» lezione di storia per i Portoghesi: certo, la precisione delle date e il dettaglio degli eventi non sono di dominio universale, nondimeno il film procede proprio in direzione del recupero d’una memoria collettiva allargata, non foss’altro che agli americani stessi, altrettanto dimentichi di fatti ed epoche cui essi devono la propria origine nella vicenda dei popoli, delle nazioni e della storia mondiale. Il film si chiude con i versi dei poeti Pessoa e Pascoaes, che s’intrecciano al canto di Silvia/Maria Isabel dinanzi alla finestra aperta sull’oceano, finestra d’una casa che non potrà trattenere più a lungo i visitatori poiché il viaggio deve ricominciare, non s’interrompe, continuamente chiama ad andare.
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Passaggio
La struttura di NON ou a Vã Glória de Mandar mostra quanto centrale sia il dialogo e la riflessione in comune nell’approfondimento e nella trasmissione della memoria. La centralità della parola è il dato ineludibile del cinema di Oliveira, la sua dimensione propriamente etica, ed egli ha offerto argomenti per radicare tale prospettiva in una dimensione di pensiero.
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Parte Seconda Parola e utopia
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E adesso vi ringrazio, scusandomi della debolezza delle mie risposte. Preferisco fare film. Basta non cercare niente dietro i fenomeni; essi stessi sono la teoria. Goethe, Maximen und reflexionen
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Una vita differente
L’importanza della parola nel cinema di Oliveira è sottolineata da tutti coloro che ne hanno interpretato le opere. Peraltro, uno dei testi teorici più articolati che il cineasta ha scritto è Parole et Cinéma1, e il richiamo alla parola sta nel titolo di due suoi film, quello su padre António Vieira, Palavra e Utopia e Um Filme Falado, appunto «un film parlato». Senza dimenticare che Aniki-Bóbó è titolo che recepisce una parola magica che, in forma di filastrocca, i bambini impiegano per darsi un ordine nelle relazioni giocose. E che NON è un avverbio, una parte del discorso. Oliveira affermava, a cavallo tra gli anni Settanta e i primi Ottanta: Ho scoperto che il linguaggio è sovrano, anche al cinema. Tutto dev’essere sottomesso al linguaggio2.
Si trattava dell’epoca nella quale le sue intuizioni estetico-filosofiche (rapporto fra teatro e cinema, messa a nudo della rappresentazione, centralità della parola, unità del punto di vista), già esplicitate nell’opera-cerniera nella sua carriera, Benilde ou a Virgem-Mãe, erano state maggiormente esibite ed approfondite in film quali Amor de Perdição e Francisca. Aggiungeva altrove, sempre in quegli anni: Il cinema è movimento: la parola è movimento, il suono è movimento. Facciamo cinema sia riprendendo qualcuno che 1. TA, Parole et cinéma, 2001. 2. T27, p. 173.
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sta parlando, sia riprendendo una fisionomia o un’attitudine corporale. Per questo non m’importa che si dica che il film è molto parlato. Il cinema non dev’essere poco parlato. Come ho letto da qualche parte: Il linguaggio parlato è un linguaggio totale3.
Oliveira afferma l’esistenza di un’«immagine del suono» già operante all’epoca del cinema muto, immagine come «parola visuale» che restituisce «il suono, il senso, l’intendimento»4. Quanto più, allora, diventa immagine il suono stesso, e con esso la parola, nell’epoca della maturità del cinema, l’epoca del sonoro! Si può dunque affermare che tutti i film citati, e il complesso dell’opera del cineasta lusitano, siano ispirati da una «piccola metafisica della parola», per riprendere il titolo d’un celebre libro di Parain5. Non sembri un fuor d’opera il riferimento al dimenticato pensatore francese, peraltro mai citato da Oliveira a differenza di Deleuze. Parain infatti non è estraneo allo spazio di pensiero che l’immagine in movimento ha inaugurato. Da ciò che si è, alle parole che si pronunciano, c’è un passaggio non trascurabile per il filosofo, perché ciò che si è non è conoscibile all’altro, se non attraverso una comunicazione oscura, che è un mélange di parole, gesti, azioni, scritti, dunque di documenti sparsi e disparati, che non è neppur possibile raccogliere e mettere in ordine, ancor meno considerare pacatamente per decifrarli, come un film che potrà esser visto una sola volta6.
La testimonianza maggiore dell’intreccio fra immagine cinematografica e filosofia della parola di Parain è offerta da un mitico film, firmato da Godard negli anni Sessanta, Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), nel quale Parain compare in una lunga sequenza ambientata in un caffè 3. T12, p. 36. 4. I, Filmcritica, 2004, p. 493. 5. B. Parain, Petite métaphysique de la parole (1969), Paris, NRF/Gallimard, 1990. 6. Ivi, p. 15. Il corsivo è mio.
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mentre dialoga con Nanà, «la prostituta che fa della filosofia senza saperlo»7. Il tema del dialogo tra Nanà e il Filosofo concerne «la vita col pensiero»: come fare a «parlar bene», ad esprimere esattamente quel che si vuole dire, «arriva[ndo] a dire quel che si ha da dire». Il compito è etico: si tratta della vita umana e, dato che «non possiamo vivere senza parlare», «si deve riuscire ad esprimersi bene… bisogna farlo», dice il Filosofo. È, in effetti, quello che stanno cercando di fare loro due, lì, seduti in un caffè: «capirsi». Ma come? NANÀ:
È strano, tutto a un tratto, non so più cosa dire. Mi succede molto spesso. So quello che voglio dire, rifletto prima di dirlo … piff! Non sono più capace di dirlo. […] Ma perché bisogna sempre parlare? Io trovo che molto spesso bisognerebbe star zitti, vivere in silenzio. Più si parla, più le parole non vogliono dir niente. IL FILOSOFO (fuori campo): Può darsi ma come possiamo? NANÀ (alzando le spalle): Io proprio non so. IL FILOSOFO: … Sono sempre stato colpito dal fatto che non possiamo vivere senza parlare. NANÀ (fuori campo): Però sarebbe piacevole vivere senza parlare! IL FILOSOFO: Sì, sarebbe bello, eh!.... Sarebbe bello, in fondo… è come se non ci si amasse più… Solamente, non è possibile. Non ci si è mai arrivati. 7. Si veda la sceneggiatura del film in L’Avant-Scène Cinéma, 19, ottobre 1962; trad. in Jean-Luc Godard, Cinque film, Torino, Einaudi, 1972, la sequenza nel caffè è alle pp. 151-55. Di Parain si segnalano altre due opere: le Recherches sur la nature et les fonctions du langage (1942), Paris, Gallimard, 1972, e l’Essais sur le logos platonicien (1942), Paris, NRF/Gallimard, 1977. Si veda anche il numero speciale a lui consacrato da La Nouvelle Revue Française, 223, 1971; e M. Besseyre [a cura di], Brice Parain. Un homme de parole, Paris, Gallimard/BNF, 2005. Parain è presente anche nel cortometraggio Entretien sur Pascal (1965) di Eric Rohmer, dove il filosofo dialoga col padre domenicano Dominique Dubarle. Sul rapporto tra Godard e Parain, «Godard’s philosophical godfather», si veda M. Yla-Kotola, The Philosophical Foundations of the Work of Film Director Jean-Luc Godard, in S. Inkinen [a cura di], Mediapolis: Aspects of Texts, Hypertexts and Multimedial Communication, Berlin, De Gruyter, 1999, p. 149. Deleuze leggeva Parain, cfr. G. Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 21-23.
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NANÀ:
Ma perché? Le parole dovrebbero esprimere esattamente quello che si vuole dire. Ma forse ci tradiscono? IL FILOSOFO: È così… Ma anche noi le tradiamo. Si deve poter arrivare a dire quello che si ha da dire, poiché si riesce bene a scrivere… […] Si deve riuscire a esprimersi bene… e bisogna farlo. NANÀ: E perché bisogna esprimersi? Per capirsi? IL FILOSOFO: Bisogna pensare. Per pensare, bisogna parlare. Non si può pensare diversamente. E per comunicare bisogna parlare, è la vita umana. NANÀ: Sì, ma nello stesso tempo è molto difficile. Io trovo, al contrario, che la vita dovrebbe essere facile. […] IL FILOSOFO: [...] Io credo che si riesca a parlare bene, quando si è rinunciato alla vita per qualche tempo. È quasi la…, il prezzo. NANÀ: Ma allora parlare è mortale? IL FILOSOFO: Sì, ma è una… Parlare è quasi una resurrezione in rapporto alla vita; nel senso che quando si parla è un’altra vita che quando non si parla… capisce? … E allora, per vivere parlando bisogna essere passati attraverso la morte della vita senza parlare. Vede, se questo…, non so se mi esprimo in modo chiaro, ma ehm … C’è una specie di ascesa, insomma, per cui non si riesce a parlar bene se non quando si riesce a guardare la vita con distacco. NANÀ (fuori campo) Tuttavia, la vita di tutti i giorni non si può viverla con… ehm. Non so… con… IL FILOSOFO: Con distacco… Sì, ma allora si sta in bilico, per l’appunto. È per questo che si passa dal silenzio alla parola. Ci si bilancia tra i due, perché è un… è il movimento della vita che è… essere nella vita di tutti i giorni e poi elevarsi verso una vita… chiamiamola, superiore, non è sciocco dirlo, perché è la vita col pensiero, in fondo. Ma questa vita col pensiero presuppone che si abbia ucciso la vita troppo quotidiana, la vita troppo elementare. NANÀ (fuori campo): Sì, ma pensare e parlare è la stessa cosa? IL FILOSOFO: Lo credo! Lo credo!... Era detto in Platone. Noti, è una vecchia idea. (una pausa) Ma io credo che non si possa distinguere nel pensiero ciò che sarebbe il pensiero e le parole per esprimerlo. (fuori campo) Analizzi la coscienza, lei non riuscirà a cogliere un attimo del pensiero, se non con delle parole. NANÀ: Parlare, allora? È un po’ correre il rischio di mentire? IL FILOSOFO (fuori campo): Sì, perché la menzogna è uno dei mezzi della ricerca, credo. (Una pausa) C’è poca differenza tra… l’errore e la menzogna. (Ripresa su di lui) Naturalmente 116
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non s’intende la menzogna cruda, ordinaria, come … come se io le dico «verrò domani alle 5» poi non vengo perché non ho voluto venire domani alle 5, lei capisce, questi sono… sono dei piccoli inganni. Ma la menzogna sottile è spesso poco dissimile dall’errore. Qualcosa si cerca, e poi non si trova la parola giusta. È quello che lei diceva poco fa, è perciò che le succedeva di non sapere più cosa dire. È perché in quel momento aveva paura di non riuscire a trovare la parola giusta. Io credo che sia così… NANÀ: Sì, ma come si fa ad esser sicuri di aver trovato la parola giusta? IL FILOSOFO (fuori campo): Beh, bisogna lavorare. Accade che… accade che a forza di … Dire ciò che bisogna dire, di modo che sia giusto… ehm!… giusto (Nanà sembra fissare lo schermo), cioè che non ferisca, che dica quello che si vuol dire, che faccia ciò che va fatto (ripresa su di lui), senza ferire, senza uccidere. NANÀ (in piedi, fuori campo): Sì, in fondo, bisogna cercare di essere in buona fede. (ripresa su di lei), Una volta qualcuno mi ha detto: «La verità è in tutto, e anche nell’errore». IL FILOSOFO: È vero! È vero, è ciò che non si è visto subito in Francia, credo, nel XVII secolo, quando si è creduto che… si poteva evitare l’errore, non solamente la menzogna, ma l’errore… che si poteva vivere nella verità così, direttamente. Io credo che non sia possibile che… (una pausa) Perché c’è stato Kant, Hegel, la filosofia tedesca… proprio per riportarci nella vita, per saperci far accettare che bisogna passare attraverso l’errore per arrivare alla verità. NANÀ: (sorridendo) E lei cosa pensa dell’amore? (leit-motiv musicale) IL FILOSOFO: È stato necessario… è stato necessario che si introducesse il corpo, basta vedere. Leibniz ha introdotto il contingente… le verità contingenti a fianco delle verità necessarie, cioè la vita quotidiana. E sempre di più, ecco ciò che si è sviluppato nella filosofia tedesca, cioè che nella vita si pensa con le schiavitù della vita, con gli errori della vita. E inoltre, bisogna cavarsela con questo. È vero. NANÀ (fuori campo): L’amore, non dovrebbe essere la sola cosa vera? IL FILOSOFO: Sì, ma… bisognerebbe che l’amore fosse sem…, sempre vero. Orbene, lei conosce per caso qualcuno che sappia subito chi ama? Non è vero. Quando si ha vent’anni, non si sa chi si ama, si conoscono le briciole; lei… lei prenda, ad esempio, la sua esperienza… lei dice «Amo costui». È spesso 117
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confuso. Ma per arrivare a formarsi completamente, semplicemente, con la persona che si ama, ci vuole la maturità. In altre parole, ci vuole la ricerca. È questa la verità della vita. Perciò l’amore… è una soluzione, ma solo a patto che sia vero8.
Piccola summa del pensiero di Parain (il quale, sia detto en passant, indicava Spinoza fra i suoi «precursori venerati»9), questo dialogo va letto come cifra d’una riflessione consegnata in opere fondamentali quali le Recherches sur la nature et les fonctions du langage e gli Essais sur le logos platonicien, poi sintetizzata nella Petite métaphysique de la parole. E il testo appena letto esibisce una serie di elementi che, con tutta facilità, è possibile rintracciare in parallelo anche nella filosofia in immagini che Oliveira ha costruito negli ottant’anni della propria attività cinematografica. Intanto, un dato esistenziale: i due uomini di pensiero e d’arte (Parain scrisse anche testi letterari e teatrali, oltre a saggi filosofici e storico-politici) sono accomunati dal contatto con una rivoluzione in corso: si tratta ovviamente di quella portoghese della metà degli anni Settanta per Oliveira, mentre Parain si confronta col movimento del Maggio francese del 1968. Petite métaphysique de la parole viene edita nel marzo 1969, poco meno d’un anno dopo i fatti parigini. Assisto, come tutti, alla rivoluzione che si sta facendo, ma a mio avviso senza prendervi parte abbastanza, perché... Perché? È giustamente il soggetto di questo libro. Quel che mi separa da molti miei compagni scrittori è che, per gli uni, non c’è niente da fare, ma questo io non voglio crederlo. La ferocità non è la sola a condurre il gioco, irrimediabile, sempre devastante, sempre svilente, c’è anche la generosità. Rispetto agli altri, io non mi affido al comunismo per preparare la soluzione. Mi accanisco a dire che bisogna pensare a quel che la rivoluzione dovrà essere, affinché sia un po’ migliore di quel che abbiamo avuto finora. Pensando, si deve giungere a tracciare un programma e a seguirlo, tanto bene quanto male.
8. Godard, Cinque film, cit., p. 152-155. 9. Parain, Petite métaphysique de la parole, cit., p. 9.
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La ragione non è morta con Dio. O piuttosto, se ce n’è, ne deve sempre rimanere una briciola. Quando la si rimpiange, oscuramente, non serve a nulla figurarsi di trovarsi ancora nel XVIII secolo, in compagnia di anime sensibili del bel mondo e sognando libertà ed eleganza in solitudine. Neppure serve a niente, quando si desidera darsi prova ch’essa non ha risposto alle aspettative, gettarsi nei movimenti della violenza o dell’impazienza, come se fossero l’unica fonte della verità. Si può riflettere, anche se non si sa bene cosa le parole vogliano dire. Qui è la chiave di tutto. Si ammette, quando si scrive, quando si legge, che il linguaggio è trasparente, che attraverso di esso si vede la realtà, cosa che Spinoza voleva dire nelle sue opere, cosa che io dico qui. Non si può dubitare di questo, se ci si contenta di cercare quel che l’altro voleva dire. Ma se si cerca di sapere, invece, quel che lui pensava, ciò che era, ciò che aveva da dire, è già meno certo10.
Ma si vada agli elementi che possono accomunare i due uomini di pensiero e di cinema sotto il profilo del «metodo», per così dire. Elencandoli velocemente, essi sono: la «rinuncia alla vita per qualche tempo», che significa passar «attraverso la morte della vita senza parlare», avendo dunque «ucciso la vita troppo quotidiana, troppo elementare»; poi l’«ascesa», definita come «riuscire a guardar la vita con distacco» (si noti il verbo, «guardare»), condizione chiamata anche «vita col pensiero»; ancora, l’impossibilità a praticar nella vita quotidiana quest’«ascesa», dunque la necessità di «stare in bilico, passando dal silenzio alla parola, […] bilanciandosi fra i due»; infine, l’esser consapevoli che in questo sforzo di distacco e di ascesa rimane sempre stretto il legame fra pensiero e parola, linguaggio e coscienza. Non si esagera nell’affermare che la Petite métaphysique de la parole, sintesi del pensiero di Parain precipitato in libri cristallini, e soprattutto il film di Godard nel quale queste parole sono depositate nell’immagine sonora, costituiscono una fonte possibile della filosofia del cinema di Oliveira. Quantomeno, quei libri e quel film possono esser utilizzati come uno specchio: guardando in essi, Oliveira non troverebbe riflesso un volto sconosciuto. 10. Ivi, p. 11-12.
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Non sarà stato, peraltro, un semplice esercizio retorico l’omaggio reso da Oliveira a Godard nell’ode da lui pubblicata nel 1998: Chien jaune encore jamais vu / parfois irritant / articulation dévertébrée / composée selon la logique / de l’illogique rationnel / dont l’inspiration / soufflée par des vents de génie / et des impulsions d’instinct froid / où l’amour se perd / dans la raison de l’irrationnel / et où la vie se refait en image / choisie et tournée / par fois paisible / par fois bousculée / selon un ordre imprévisible / qui donne un cinéma sans pareil / appelé Godard Cane giallo ancora mai visto / a volte irritante / articolazione devertebrata / composta secondo la logica / dell’illogico razionale / da cui l’ispirazione / soffiata da venti di genio / e da impulsi di freddo istinto / dove l’amore si perde / nella ragione dell’irrazionale / e dove la vita si rifà in immagine / scelta e filmata / a volte calma / a volte messa a soqquadro / secondo un ordine imprevedibile / che dà un cinema senza uguali /chiamato Godard11.
11. Oliveira e Godard si sono incontrati almeno una volta, a Parigi nel 1993: si veda il testo del dialogo, Godard et Oliveira sortent ensemble, in Libération, 4-5.9.1993, ried. in Godard, Jean-Luc Godard par JeanLuc Godard, t. II, cit. Qualche anno dopo, Oliveira ha scritto il testo poetico letto, dal titolo «Chien jaune», l’ode d’Oliveira à Jean-Luc Godard, in L’événement du jeudi, 10-16.12.1998.
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Muto cinema di parola
Si faccia l’esercizio di trasporre quegli elementi (rinuncia, ascesa, bilanciamento, legame tra parola e pensiero) nei termini dell’estetica oliveiriana, e si pensi ad esempio alla Ema di Vale Abrãao, donna «claudicante» in perpetua ricerca d’equilibrio, la quale «uccide» una vita troppo quotidiana per votarsi alla ricerca d’una «ascetica» pienezza d’amore che transita costantemente per la lingua, per il linguaggio d’una coscienza parlante. Ma così è in tutte le donne oliveiriane, in Benilde e in Francisca, nella Madame de Clèves de La lettre e in Camila di O Principio da Incerteza. Donne, peraltro, che esprimono nel proprio corpo tale ricerca, tale oscillazione costante tra pienezza e rinuncia alla vita: segni ne sono la verginità (Benilde, Francisca, Camila), il claudicare (Ema), l’assenza di figli (Madame de Clèves). Senza dimenticare altrettanti personaggi maschili in altre opere oliveirane: la verginità di re Sebastiano e di Padre Vieira, il claudicare di António in O Princípio da Incerteza, e ancora il Viceconte come «macchina celibe» in Os Canibais. Così è stato anche, si può aggiungere, nella vita del cineasta, cioè nella sua esperienza storico-artistica: ultimo cineasta vivente ad aver girato un film all’epoca del muto (è il ritornello che accompagna tutte le sintetiche presentazioni del suo percorso cinematografico), Oliveira ha continuato instancabilmente a confrontare le due estetiche anche nei film sonori, attraverso un «muto cinema di parola»12 che ha incorporato amplissimi spazi di silenzio vocale (se non 12. Nisio, Saudade e muto cinema di parola in Manoel de Oliveira, cit.
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sonoro e musicale nel suo complesso) all’interno di opere fittamente dialogate nelle parti parlate. Egli stesso, nella propria esperienza, ha oscillato tra silenzio e parola, attraversando costantemente «la morte della vita senza parlare». Si è veduto quanto estesi siano stati i tempi «morti» della sua produzione artistica, i periodi nei quali la censura «morbida» gli ha impedito di lavorare: dal 1931 di Douro Faina Fluvial al 1942 di Aniki-Bóbó, epoca nella quale la durata complessiva delle opere realizzate (documentari, cortometraggi) assomma a circa un’ora di montato; dal 1943 al 1963, un’altra ora e mezza (O Pintor e a Cidade, O Pão) fino alla trasposizione filmica di Acto da Primavera e al cortometraggio A Caça; infine fra il 1964 e il 1971, periodo nel quale si supera di poco la mezz’ora, con un documentario e un film d’arte. Cionondimeno afferma Oliveira: Ci fu una cosa che mi aiutò molto in quel periodo: non smisi mai di pensare al cinema, di vedere film, di riflettere… Passarono più di quindici anni [fra gli anni Quaranta e Cinquanta], trascorsi a compiere una profondissima riflessione sul cinema, sulla sua natura, su quello che sarebbe stato o non sarebbe stato… Mi è servito molto quando ho ripreso. […] Ho continuato a pensare sempre, sempre e sempre, a cosa fosse il cinema, quale relazione avesse con la vita, con l’arte. È stata una riflessione molto libera perché non facevo niente, non ero legato a nessun impegno pratico di azione, di regia. Ero fuori dal giro, come uno spettatore. È stata una riflessione continua, in quel lungo periodo. Una riflessione in evoluzione, non caparbia ma dinamica, che evolveva con le circostanze storiche, con le mentalità che cambiavano, con i tempi e con il cinema stesso, il quale presentava nuovi tipi di espressione13.
Ecco descritta una «vita col pensiero» cinematografico, trascorsa nel «distacco» d’uno spettatore che «uccide» con lo sguardo una «vita troppo quotidiana» – la quotidianità di un artista trasformato dal denaro e dalla macchina in perfeito autómato, che Oliveira medesimo avrebbe potuto assumere con estrema facilità se solamente lo avesse voluto –, e 13. T31, p. 175-76.
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cionondimeno cerca di mantenere un equilibrio nelle condizioni date, per quanto poche siano le opere portate a termine e la manciata di montato a fronte d’un potente desiderio artistico latente. Solo tale equilibrio permette di mantenere la condizione per un’«ascesa» verso il «parlar bene», come appunto è stato – e non senza fortuna – per la «resurrezione» artistica di Oliveira a partire dagli anni Settanta. Un «parlar bene» che contribuisca al meglio all’opera «politica» di costruzione «utopica» d’una filosofia, d’una comunicazione14 cioè, «che non ferisca», filosofia «vera» la quale, come si ascolta in Vivre sa vie, sia «giusta» e «rappresenti quello che deve rappresentare senza ferire, senza uccidere»15. Si tratta, a tutto tondo, d’«un pensiero contro la guerra»16, pensiero in cerca d’una filosofia «unica» la cui costruzione, però, non può essere che frutto di imprese storiche nelle quali i motori sono le collettività, dove il ritmo è dato dal tempo della storia. La filosofia si ferma lì. Può agire direttamente sull’individuo, ma la sua azione sui movimenti dei popoli non è conoscibile17.
I popoli sono in divenire, sempre, come si è letto in Deleuze. Le loro lingue anche. Qui c’è linfa per lo sguardo d’un poeta in cerca della parola «giusta», la parola «che non ferisce», e che darà alla luce film politici a tutto tondo quali NON e O Quinto Império. Film nei quali la ricerca del «parlar bene» si coniuga alla critica della parola che uccide, la vanagloriosa parola del potere18. 14. Parain definisce «trascendenza» ciò che fa compiere lo sforzo di comunicazione, un «ordine» al quale si obbedisce nell’«accordare le cose le une con le altre al di fuori della [propria] volontà», attraverso parole che «non sono immagine di nient’altro al di fuori di se stesse», cioè al di fuori dell’«insieme di rapporti in movimento costituito dalla [propria madrelingua], parte anch’essa di un altro insieme composto da tutte le lingue della terra passate, presenti e a venire, che si chiama linguaggio, e che è in perpetua trasformazione», Petite métaphysique de la parole, cit., p. 62-65. 15. È sempre Parain a parlare, cfr. Godard, Cinque film, cit., p. 154. 16. Parain, Petite métaphysique de la parole, cit., p. 128. 17. Ivi, p. 129. 18. Cfr. il capitolo Guardare negli occhi senza timore il comando in F.S. Nisio, Comunità dello sguardo. Halbwachs, Cordero, Sgalambro, Torino, Giappichelli, 2001.
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O Passado e o Presente Il nuovo cammino che Oliveira può infine riprendere a percorrere, all’inizio degli anni Settanta, si apre con un film, O Passado e o Presente (Il passato e il presente, 1971), nel quale la voglia di sperimentare è grande, sia sul piano formale, sia su quello dei temi. Con O Passado e o Presente ho preso coscienza del teatro. È il contrario di un film statico, ci sono grandi movimenti di macchina; era come se fosse necessario allungar le braccia e le gambe, insomma distendermi…19.
Monteiro definirà quest’opera un «necrofilme», ed in effetti questa «festa dello sguardo»20, come anche la chiama, è un continuo passaggio di mondi al suono della musica di Mendelssohn: per esempio tra cinema e teatro, trattandosi d’una pièce di Vicente Sanches. Ma poi tra vivi e morti, dato che c’è un marito defunto, un secondo marito che si suicida, e un gemello del primo marito che si rivela essere il marito morto. E ancora, passaggio tra specchi, porte e finestre; tra uomini e donne; tra classi sociali, borghesi e servi. «Palco da burguesia», come sotto quest’ultimo profilo definirà il film Bénard da Costa21. Una cinepresa mai stata così agile nei film di Oliveira («The camera is the drama»22), e che per scelta non lo sarà mai più altrettanto in seguito, percorre mobilissima l’intero spazio – sociale, etico, religioso – che si stende fra Vanda (Maria de Saisset), una moglie risposata ma tutta rapita nel ricordo del primo marito, col quale peraltro aveva tutt’altro che un rapporto idilliaco; e il consesso d’amici (due coppie più un single, e ancora il fratello gemello del primo marito) che s’intrattengono in giochi amorosi, in una sontuosa casa abitata soprattutto da specchi e nella quale, invitati per la 19 T20, p. 84. 20. T30, p. 340. Si veda nello stesso volume anche la discussione a più voci su O Passado e o Presente. 21. J. Bénard da Costa, Oliveira, Manoel (Cândido Pinto) de (12 de Dez. de 1908), in www.mandragoafilmes.com. 22. Gillett, Manoel de Oliveira, cit., p. 197.
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traslazione del primo marito nella tomba di famiglia, tutti loro diventano anche testimoni delle umiliazioni inflitte da Vanda al secondo marito Firmino (Pedro Pinheiro), nonché della sua scelta disperata di suicidarsi. Con un gioco di tempi e di humour nero fra bare che entrano in casa col morto ancora in vita, e il fratello gemello Ricardo (Alberto Inácio) che rivela alla moglie, ormai quasi due volte vedova, di esser invero il marito mai morto, all’epoca sostituitosi al gemello con un gioco d’identità, ora è verso il «risorto» primo marito che può indirizzarsi la trafila di disprezzo e cattiveria che Vanda spendeva per il secondo marito diventato, adesso, l’amato perduto. Testimoni di questo gioco di specchi e follie sono serve e giardinieri, e il film si chiude sulla fuga per raggiungere una chiesa in cui si celebra un nuovo rito matrimoniale: il girovagare fra i banchi di Vanda e Ricardo, senza meta, è il segno d’una impossibile e vuota ricerca di ciò che soltanto, per Oliveira, può dar senso al matrimonio, quel consentire, il consenso, che è unità di sentimenti, che è armonia di pace – esattamente ciò ch’è stato assente in quella casa, in quelle vite, dall’inizio del film23.
23. Si veda la lettura che Bénard da Costa fa del film di Renoir, The River (T2, p. 57-59), mettendo «em contexto» l’opera di Oliveira nel suo complesso con quella del grande regista francese, giustamente sul tema del «consentimento», sul quale Oliveira tornerà più esplicitamente ne La lettre (infra, p. 240). Di «buñueliano», invece, nel film c’è ben poco, soprattutto pensando ai film francesi del cineasta iberico ed in particolar modo alla trilogia conclusiva, che prenderà avvio solo l’anno seguente con Le charme discret de la bourgeoisie. Sul rapporto tra Oliveira e Buñuel si veda infra, p. 182 ss., spec. n. 125.
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O Passado e o Presente è di solito considerato come il primo film d’una «tetralogia degli amori frustrati», la quale comprenderebbe Benilde ou a Virgem-Mãe, Amor de Perdição e Francisca, potendosi all’occasione estendere fino a Le soulier de satin (e, perché no?, a La lettre…). Interessa poco qui. Ciò che maggiormente importa è sottolineare come con quel «primo» film il cineasta abbia inaugurato una stagione di riflessione «applicata», la quale, questa sì, potrà ritrovarsi in opere che inanellano, una dietro l’altra, continue metamorfosi dello sguardo e dell’ascolto, in un dialogo con le arti – e di certo, in primis col teatro – rispetto alle quali il cinema avrà l’onore e l’onere di essere l’ultima arrivata. Ma si vada ora alla «teoria» elaborata da Oliveira nel saggio Parole et cinéma del 2001, sintetica summa d’una vita di riflessione sull’arte cinematografica che da quelle opere ha preso avvio. In effetti è necessario passare per i suoi testi scritti, senza limitarsi solamente ai film, opere peraltro sempre dense come un saggio e da leggere più che da guardare. La scrittura è stata un’attività che ha accompagnato tutt’intera la vita del cineasta, sicché i suoi film necessitano d’una enucleazione della teoria che li ha generati, anche tenendo conto dell’affermazione di Oliveira di aver elaborato una teoria differente per ciascun film. In Parole et cinéma, il cineasta parte dalla «preistoria del cinema», la famiglia Lumière e gli atelier nei quali essi stampavano e riproducevano fotografie e dove, nel tempo, nacque l’idea d’imprimere movimento a ciò che era immobile. Con la nascita del cinématographe, nel 1895, viene creata una realtà unica, muta e di natura onirica, che gli americani 126
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chiameranno movies appunto a motivo dell’illusione di movimento conferito alla fotografia. Creazione che i Lumière stessi ritenevano effimera, mai sospettando che potesse da quella base generarsi il «tout compliqué et sophistiqué» nel quale evolverà il cinema. È con l’avvento del sonoro che prende avvio, invece, la maturazione o età adulta del cinema, nella quale le diverse componenti (immagine e colore, suono e musica, oltreché ovviamente parola) acquistano la propria autonomia e cominciano a dipendere dalla vita, dalla letteratura e dalle belle arti. Si afferma il «complexe audiovisuel», nel quale tutte le componenti acquisiscono pari autonomia in rapporto all’immagine. L’equilibrio nella composizione della struttura, e la maniera in cui a seguire essa viene realizzata e completata col montaggio e col lavoro di mixage degli elementi in gioco, è senza dubbio per il cinema più importante, oggi, delle immagini e dei colori presi di per sé, dei movimenti, dei suoni, delle parole, o ancora della musica per se stessa, poiché ciascuno di essi, ai miei occhi, pesa di un peso eguale come elemento che costituisce (nella misura in cui è ad esso necessario) un contesto cinematografico. Poco importa che sia l’immagine a predominare, o la parola, cosa che dà sommo fastidio ad alcuni. Poco importa che il movimento sia più lento o più rapido, più statico o più vivo, ad immagine dei tempi che ritmano la musica: largo, lento, adagio, andante, allegro, presto, ecc. Quel che è davvero importante è, come detto, l’organizzazione degli elementi necessari alla costruzione di un film, cosa che sotto molti aspetti assomiglia alla composizione d’una partitura musicale24.
Tale impostazione della questione cinema impone dunque un «ripensare-cinema»25 che si liberi della soggezione alla preistoria sopra descritta, giungendo invece a comprendere ad esempio come lo stesso movimento sia ciò che più necessita al suono e non all’immagine. 24. TA, Parole et cinéma, cit., p. 42-43. 25. È il titolo del secondo saggio di rilievo dedicato dal cineasta alla teoria del film, Repenser le cinéma del 2002, che verrà preso in esame nel prosieguo.
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Senza movimento il suono non esiste, laddove invece l’immagine non ne dipende, nella misura in cui il movimento ne è un complemento ma non l’essenza. Benché molto importante, il movimento non toglie nulla della loro forza al colore, al suono e alla parola. […] Ciò che veramente caratterizza il cinema è la successione di piani e di suoni (chi dice «suoni» dice «parole»). E l’organizzazione di quella successione dipende dalla concezione e dall’ispirazione di ciascun regista26.
Oliveira prosegue citando autori ed opere quali Monteiro e Branca de Neve (Biancaneve, 2000)27, la Duras, Godard, Rouch, Straub e Huillet, Syberberg con i suoi Hitler, ein Film aus Deutschland (Hitler, un film dalla Germania, 1977) e Die Nacht (La notte, 1985): esempi flagranti di un kino nel quale «il ritmo è dato dalla parola», «film di pura fiction che rompono con antichi pregiudizi». Di fatto, la «parola» riunisce già in sé immagine, movimento e azione,
conclude il cineasta, specificando che non si tratta in alcun modo di sopprimere uno degli elementi a vantaggio degli altri (per esempio l’immagine a vantaggio della parola), dato che il concetto giusto [altra eco à la Parain] abbraccia un’estensione di forme differenti, cosa che permette al cinema di utilizzarle tutte con eguale autonomia, a seconda del contesto e dell’ispirazione di chi fabbrica il film28.
Oliveira approfondisce nel secondo importante saggio teorico citato, Repenser le cinéma del 2002, il discorso concernente il rapporto tra movimento e suono, offrendo argomenti che permettano di superare il pregiudizio che lega il movimento principalmente all’immagine.
26. TA, Parole et cinéma, cit., p. 42-43. 27. Si veda il testo che Oliveira ha dedicato a Monteiro, TA, César Monteiro, cineasta deontologicamente exemplar, 2005. 28. TA, Parole et cinéma, cit., p. 42-43.
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Il cinema è nato sotto il segno di un’ossessione, quella del movimento. Di conseguenza l’idea del movimento è diventata come una psicosi, la quale doveva condurre all’idea che il cinema fosse movimento, [convinzione da cui derivò anche il nome] kinétografo, «cinematografo», «ciò che traccia movimenti»29.
Oliveira prosegue descrivendo sinteticamente il passaggio dall’«Arte del silenzio» (il cinema muto e di montaggio dei «magnifici anni Venti»30) al sonoro degli anni Trenta, con i conflitti che questo passaggio determinò tra i puristi, fra i quali all’epoca c’era anche lui stesso. Non solo era apparso il suono e con esso la parola: arrivò anche il colore. Non si tardò a riconoscere che, perdendo il lato onirico, il cinema guadagnava in cambio un nuovo potenziale d’illusione – quello dell’apparenza del reale concreto. […] C’era dunque bisogno di un nuovo concetto per il cinema, e che il precedente divenisse obsoleto. Così il cinema è diventato, più che mai, sintesi di tutte le arti, inglobando i quattro elementi: immagini (in movimento o meno, a colori o no), suoni, parole, musica31.
Richiamando Lyotard, Oliveira specifica a tale proposito la differenza che si determina tra cinema e teatro, anche quest’ultimo costituito dal gioco dei quattro elementi: è il rapporto tra «materiale», cioè presenza fisica della scena e degli attori; ed «immateriale», ovvero il mancare, all’immagine proiettata, di quella materialità che pur posseggono
29. TA, Repenser le cinéma, cit., p. 38. Cfr. la Bibliografia per i dettagli concernenti le diverse versioni del testo, qui si segue la versione francese. 30. Il cineasta indica alcuni nomi nella versione portoghese del testo: Ruttmann, Vertov, Dreyer, Murnau, Ejzenštejn, cfr. T8, p. 93-94. Ancor più ampio il riferimento ad autori ed opere nella versione italiana: Guazzoni, Quo Vadis?; Rodolfi, Gli ultimi giorni di Pompei; Gance, La rosa sulle rotaie; e poi Epstein, Lang, Ivens, Buñuel, cfr. Ripensare-cinema, in E. Bruno, [a cura di], Manoel de Oliveira, Montepulciano, Le Balze, 2004, p. 6. 31. TA, Repenser le cinéma, cit., p. 39.
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proiettore e schermo, questa diventando dunque la sua forma specifica32. Affermata la natura «immateriale» del cinema, Oliveira nel saggio riprende il dialogo con Deleuze e sottolinea come anche nell’idea di un’«immagine-tempo» penetri il movimento, poiché il movimento in senso fisico «consuma tempo, non esiste neppure senza dispendio di tempo». Soprattutto, è la stessa parola parlata o letta ad implicare un consumo di tempo, una durée più o meno estesa a seconda dell’estensione della parola. Insieme a Molière («La parola serve a spiegare il pensiero, ma essa è anche il ritratto delle cose, e ugualmente ritratto del pensiero»33), è ancora un filosofo, Aristotele («Lo spirito non pensa mai senza immagine»34), ad essere convocato per sostenere che pensiero e parola sono anche immagine. Non è dalla parola che viene il ritratto delle cose? Se dico «sedia» formo un’immagine cerebrale equivalente al ritratto del concetto di sedia.
32. In T8, p. 95, è richiamata la mostra Les Immateriaux, tenutasi nel 1985 al Centre Pompidou di Parigi: il catalogo conteneva il contributo di Lyotard. Con finezza interculturale Oliveira fa l’esempio del Video Buddha (1976), opera in esposizione di Nam June Paik del 1976, statuetta del Buddha posta dinanzi alla camera video e riprodotta su schermo, in seguito sottratta all’inquadratura ovvero privata della camera video che la inquadrava: gioco fra materialità (luogo, statua, video) ed immaterialità (immagine del Buddha: una visione virtuale, impalpabile, fantasmatica, la quale compare e scompare dallo schermo). 33. Si veda in Molière, Le mariage forcé: è Pancrace, il medico aristotelico ad affermare che «La parole est donnée à l’homme pour expliquer sa pensée; et tout ainsi que les pensées sont les portraits des choses, de même nos paroles sont-elles les portraits de nos pensées». Cfr. Lavin, La parole et le lieu, cit., p. 103. 34. «Poiché non c’è nessuna cosa, come sembra, che esista separata dalle grandezze sensibili, gli intelligibili si trovano nelle forme sensibili, sia quelli di cui si parla per astrazione sia le proprietà ed affezioni degli oggetti sensibili. Per questo motivo, se non si percepisse nulla non si apprenderebbe né si comprenderebbe nulla, e quando si pensa, necessariamente al tempo stesso si pensa un’immagine», Aristotele, De anima, III, 432a, 4-9.
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Infatti, La parola vale altrettanto bene come espressione di sentimenti – un modo molto preciso e chiaro, che definirei di spiegazione –, rispetto ad una procedura che implica quasi lo stesso tempo che impiegherebbe un volto per esprimere quei sentimenti. Movimento e tempo vanno a braccetto. Quanto a parola e immagine, infine, se essi non si confondono, direi però che si fondono, e questo ci potrebbe portare a dire che il tempo è anche movimento e che la parola è anche immagine. L’immagine fissa, quella della pittura o della fotografia per esempio, nella misura in cui manca del movimento, non ci dà un’impressione di tempo, eppure essa occuperà pur sempre tempo, non foss’altro che quello che s’impiega a guardarla. Al cinema è ciascuna immagine ad avere la propria durata, e il film ha il tempo della sua proiezione35.
Il cinema in quanto immagine è métissage di pensiero e parola, dirà più avanti il cineasta. Ciò permette ad Oliveira di incalzare Deleuze – non si tratta propriamente di una critica36 –, il quale non ha inserito in alcuno dei titoli dei volumi il riferimento al sonoro, laddove invece appare lecito pensare – appunto, ri-pensando cinema – che la parola sia non solo movimento e tempo ma anche immagine, e dunque cinema… Immagine, parola, suono, musica: sono questi dunque gli elementi che caratterizzano il cinema oggi, tutti concentrati nel concetto deleuziano di Immagine-Tempo: Ciascuno di essi può diventare in qualsiasi momento il più forte, l’elemento preponderante, al limite il più arricchente e chiarificatore secondo il ruolo che gli darà il regista37.
E si noti come Oliveira tenga a specificare l’autonomia del cinema dal pensiero:
35. TA, Repenser le cinéma, cit., p. 40-41. 36. Nella versione portoghese di Repenser le cinéma Oliveira afferma esplicitamente: «Accolgo il composto immagine-tempo come idea-cinema, ma non resisto a decomporla o dividerla in quattro elementi distinti», T8, p. 98. 37. TA, Repenser le cinéma, cit., p. 41.
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Tornando a Deleuze, […] aggiungo che dar forma al pensiero è l’espressione più elevata del cinema, senza con ciò ridurlo a pensiero o ad illustrazione del pensiero, poiché il cinema è l’espressione – o almeno una espressione – della vita, mentre il pensiero è la riflessione sulla vita38.
Immagine-Tempo, ma anche Tempo-Movimento, che è dunque percepibile sia nel campo dell’udibile, sia in quello del visibile: In certo modo, l’udibile ha il proprio sostrato nel visibile o, com’è il caso per la musica, comporta una vibrazione sentimentale particolare, specifica39.
È su questa base teorica che Oliveira ha potuto parlare di «parola visuale» già all’epoca del muto, nonché di «parola visuale» in tema di rapporto fra letteratura e cinema, e dunque del cinema come forma nuova che ricrea tutte le arti, dando una nuova prospettiva, un nuovo quadro, un altro sguardo, insomma un rinnovamento nell’invenzione, di trasposizione in trasposizione, di film in film40.
Se allora il piano fisso, l’inquadratura cinematografica immobile, raggiungono una forza equivalente a quella della pittura classica (Gioconda e Annunciazione in Leonardo); se è dunque «da una staticità totale [che] proviene tutta la forza magica dei quadri» e delle inquadrature cinematografiche, si può concludere che tempo, staticità e movimento sono equivalenti, allorché si applicano nelle circostanze appropriate. Conclude Oliveira: Questa attitudine fa sì che l’immagine del movimento si sottragga dinanzi a noi, e lo stesso accade per quella del tempo, 38. T8, p. 99. 39. TA, Repenser le cinéma, cit., p. 41. 40. TA, Le vieux débat, 1999, p. 86. Altrove specifica: «L’immagine aggiunge al dialogo [scritto] un’umanità che i testi non sempre contengono», I, A Grande Ilusão, 1992, p. 2. Sulla questione del rapporto tra l’opera letteraria e il film, si veda TA, Angélica, 1998, p. 7-10.
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poiché [entrambe] fanno riposare l’immagine su un sostrato di equivalenza ad una percezione d’eternità41.
Un esito quasi spinoziano, si direbbe. Spinoziano anche nel radicamento antropologico, cioè collettivo, in una concreta percezione umana dell’atto visivo, dato che Il tempo, in verità, non lo si conosce. Per conoscerlo, bisogna arrivare alla sua fine, alla fine dei tempi42.
E la «fine dei tempi» ha uno stretto legame con la massa dei percipienti, visto che Il tempo è la somma degli spettatori43.
Oliveira fa ricorso, infine, anche ad un’immagine visiva per definire questa sua forma di ri-pensamento del cinema su se medesimo, offrendo una visione «architettonica» del luogo del cinema: Non vorrei concludere senza fare un cenno un po’ figurativo alla visione che ho attualmente del monumento che per me rappresenta il cinema. Non parlo dei miei film, mi riferisco ai film in generale, insomma al cinema. Vedo questo monumento composto da quattro colonne – ciascuna rappresentativa dei quattro elementi, autonomi e indipendenti –, le quali sostengono un portico, alla maniera di un tempio greco. Come già evocato, la prima colonna sarebbe quella dell’immagine, la seconda quella della parola, la terza quella del suono e la quarta quella della musica. Il portico frontale, che riposa su queste quattro colonne, rappresenta l’idea che le genera e che dà loro senso e unità44.
Amor de Perdição Il film Amor de Perdição. Memorias de uma Família (Amore di perdizione. Memorie di una famiglia, 1978) è 41. 42. 43. 44.
TA, Repenser le cinéma, cit., p. 41. I, Chimères, 1991, p. 149. I, Jornal de Letras, 1996, p. 15. TA, Repenser le cinéma, cit., p. 42.
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quello nel quale Oliveira, dopo Benilde, riprende ed approfondisce la teoria del «complexe audiovisuel» in corso di elaborazione, la quale troverà forma teorica nei testi letti. Il romanzo di Castelo Branco, scritto nel 1859, è per Oliveira il più grande romanzo romantico, più forte del Werther e della Chartreuse de Parme. Non vi si trovano fughe nell’onirico, non ci sono peripezie né conseguenze, è tipicamente portoghese: non c’è nulla. Questo non è un segno di povertà o di mancanza d’immaginazione, è invece una caratteristica molto forte. Né lui né lei muoiono d’amore. Uno si suicida, l’altra muore di tubercolosi, tutto è logico e riposa sui fatti. Per me si tratta d’un libro davvero favoloso45.
L’amore impedito, negato, di due giovani nel Portogallo dei primi anni del XIX secolo, è narrato da due voci off molto particolari, una maschile l’altra femminile, che nei titoli di coda vengono definiti «Delatore» e «Provvidenza», i quali riferiscono tutto, e solo, quel che Camilo ha messo nel romanzo. Così facendo, peraltro, Oliveira ha pensato di poter «mettere a nudo i personaggi, esibirne le intenzioni interiori per come sono narrate da Camilo», a volte anche raddoppiando la storia narrata attraverso le immagini46. La storia è realmente accaduta, lui è Simão Botelho (António Sequeira Lopes), diciassette anni, peraltro zio paterno di Camilo47; lei Teresa de Albuquerque (Cristina Hauser), quindicenne. Abitano l’uno in faccia all’altro a Viseu e si 45. I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 58. Unamuno era su posizioni simili quanto all’unicità dell’opera, definita «la più intensa e profonda che sia stata scritta nella penisola iberica», anche se ne parlava in termini di «novella passionale», cfr. A. Maggi, Nota a C. Castelo Branco, Amore di perdizione. Memorie di una famiglia, Palermo, Sellerio, 1991, p. 14. 46. T27, p. 166. Daney: «Pochi film, nella storia del cinema, hanno spinto così lontano l’esame dei rapporti tra quel che è mostrato e ciò che si vede, portando il film più nella direzione della verità romanzesca che della menzogna romantica (per riprendere i termini di Girard)», in Manoel de Oliveira et Amour de perdition, in Cahiers du cinéma, 301, 1979, p. 71. Oliveira cita Girard, per es. in T7, p. 23; I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 59. Sulla voce off cfr. Lavin, La parole et le lieu, cit. p. 57 ss. 47. Camilo sin da bambino aveva sentito raccontare la storia, e quando si
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amano, ma le loro famiglie sono in rotta per questioni legali. Scoperto il legame affettivo, i giovani vengono allontanati l’uno dall’altra. Le lettere che iniziano a scambiarsi rafforzano quel legame, e questo porterà la donna in convento, anche a motivo del rifiuto a sposare un cugino secondo i voleri paterni; l’uomo invece finirà in prigione quando, accorso per vedere Teresa un’ultima volta, ucciderà il cugino promesso sposo. Ma la prigione, per Simão, si apre anche dopo aver trascorso un tempo presso la famiglia d’un maniscalco (António Costa) legato al padre, famiglia d’un’altra classe sociale nella quale la giovane figlia Mariana (Elsa Wellencamp) lo accudisce, se ne innamora e decide di seguirlo fin nella cattività. Condannato a morte, solo l’intervento dei genitori riuscirà a far tramutare la pena capitale in un esilio in India. Al momento della partenza in nave per l’esilio, il 17 marzo 1807, Teresa, ormai tisica, saluta Simão col fazzoletto bianco dalla finestra del convento e muore poco dopo. Per lui, invece, ancora qualche giorno, poi la febbre lo prenderà in viaggio. Gettato il corpo in mare, Mariana lo seguirà, scomparendo tra le acque nell’abbraccio, «un single shot che inquadra la sepoltura dell’eroe e il suicidio dell’amante»48. Le lettere dell’amore impedito riemergono dall’acqua, una mano le afferra: quella dello stesso Oliveira, ora terza voce off, che certifica la storicità degli eventi. «Amò, si perdette e morì amando», così scrive Camilo all’inizio del romanzo49. Simão è una figura dell’onore. I giovani amanti difendono il proprio onore più ostinatamente dei propri genitori […]. Difendono il diritto ad amare e a vivere liberamente, arrivando a perdere la libertà e, attraverso la morte, i reali oggetti del loro proprio amore. Essi resistono senza cedere, ammirevolmente. Ritengo che quest’aspetto della resistenza sia l’aspetto dell’otrovò a sua volta imprigionato nello stesso carcere di Simão per una vicenda di adulterio (si veda infra, p. 207-209), andò in cerca nei registri penitenziari delle tracce documentali di quella detenzione, e scrisse l’opera in quindici giorni, «i giorni più tormentati della [sua] vita», cfr. Castelo Branco, Amore di perdizione, cit., p. 21. 48. Gillett, Manoel de Oliveira, cit., p. 196. 49. Castelo Branco, Amore di perdizione, cit. p. 28.
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pera più universale ed eterno. In tutte le epoche c’è stata battaglia per la dignità umana, l’autonomia, l’indipendenza, la libertà, il diritto ad amare, e perfino il diritto di morire. […] La cosa più importante è che Simão attua un gesto d’onore che ha precedenza su qualsiasi atto d’amore. Egli sa che, da quel momento in poi, arrestato e forse giustiziato, non ci saranno più chances per l’amore. Il testo è risoluto su Simão, nel suo non volersi sottrarre alla prova. Se pure non riuscirà a difendere i propri diritti durante la vita, l’esempio sarà stato dato per il futuro, in modo che situazioni simili non si ripetano facilmente50.
Il film mostra tutta la «politicità» dell’arte di un cineasta che esibisce, quasi con spirito surrealista, la potenza mortifera della società sull’amore che nasce, anche qui – come già in Benilde – mettendo al centro di eventi trascorsi da due secoli sensibilità ed emozioni coeve all’epoca di realizzazione del film: è la potenza delle utopie dell’«amore libero», libero non necessariamente solo nelle sue dinamiche sessuali bensì, e soprattutto, nelle dinamiche interpersonali, imprevedibili, in continua metamorfosi. Ancora Daney: È il tema che sta a cuore ad Oliveira, quello della sospensione delle leggi e delle norme sociali e della loro sostituzione con quelle che gli eroi forgiano da se medesimi, alle quali obbediscono fino alla morte o alla follia51.
Le soulier de satin Il lavoro di ricerca formale da parte di Oliveira concernente il «complexe audiovisuel» raggiunge il suo apice in Le soulier de satin (La scarpina di raso, 1985), «azione spagnola in quattro giornate» trapuntate di musiche arabo-andaluse e Lutoslawski, opus magnum, film-fiume inenarrabile di quasi sette ore, nelle quali Oliveira riesce a contenere una pièce di Paul Claudel che, a rigore, necessiterebbe d’una messa in scena lunga non meno di undici ore. 50. I, Film Comment, 1981, p. 66. 51. Daney, Manoel de Oliveira et Amour de perdition, cit., p. 71.
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Ecco il proverbio portoghese in epigrafe alla pièce: Deus escreve direito por linhas tortas. Dio scrive diritto con linee storte.
Il periodo storico-politico è quello in cui il Portogallo soffre la dominazione spagnola susseguente alla disfatta di re Sebastiano ad Alcácer-Quibir. La scarpina del titolo appartiene alla claudicante Doña Prouhèze (Patricia Barzyk), la quale ne fa dono alla statua della Vergine come pegno del proprio amore per Don Rodrigue (Luís Miguel Cintra), col quale però non può vivere l’amore ricambiato perché sposa di Don Pélage (Frank Oger), cortigiano spagnolo che lei rispetta e che non vuol disonorare, accettando dunque di esser allontanata da Rodrigue. Je me remet à vous! Vierge mère, je vous donne mon soulier! Vierge mère, gardez dans votre main mon malheureux petit pied! […] Mais quand j’essaierai de m’élancer vers le mal, que ce soit avec un pied boiteux! Mi rimetto a voi! Vergine madre, offro a voi la mia scarpina! Vergine madre, proteggete nella vostra mano il mio piedino sventurato! […] Quando tenterò di lanciarmi verso il male, che ciò avvenga con un piede claudicante!52
Prende avvio qui un’intrecciata vicenda di viaggi, di politica, di amori che languono lontani nei corpi; vicenda che, con alterne vicissitudini, porterà Prouhèze e Rodrigue, dopo essersi inseguiti per mari e per lettere, ad incontrarsi nel nome di Sept-Épées, la figlia che Prouheze ha avuto da un secondo matrimonio succeduto alla morte del marito, la quale viene affidata a Rodrigue perché la protegga dall’incombente sopraggiungere dei Mori. Rodrigue, compiuta la missione, trascorrerà gli ultimi anni di vita in disgrazia politica ed economica, venduto come schiavo e felice solo nella consapevolezza della sopravvivenza di Sept-Épées, segno vivente dell’amore di una cop52. P. Claudel, Le soulier de satin [1930], Paris, Folio/Gallimard, 1996, p. 49.
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pia mai sbocciata, ma non meno unita per sempre da un legame più forte della morte. Questo è un film nel quale non solo il destino di due esseri umani, ma anche e forse soprattutto il rapporto tra teatro e cinema viene esplorato in tutti gli aspetti possibili, secondo l’assunto che Claudel esibisce nella premessa al testo insieme ad alcune direttive per la messa in scena: L’ordre est le plaisir de la raison: mais le désordre est le délice de l’imagination L’ordine è il piacere della ragione, ma il disordine è la delizia dell’immaginazione
L’esplorazione procede innanzitutto dal punto di vista della denuncia dell’irrealtà della rappresentazione, dato che spesso si assiste live al cambio di scenografia fra una scena e l’altra; né il «primitivismo» della messa in scena è mai abbellito a fini spettacolari, ad esempio mostrando il «mare» di plastica che circonda le barche. Senza dimenticare la magistrale sequenza d’inizio, col pubblico che preme alle porte d’ingresso del teatro per poi infine entrare e prender posto in una sala nella quale, sul palco reale, sono posizionati i personaggi del dramma, che «entreranno» nella rappresentazione teatrale solo attraverso il cinema, nel momento in cui il gioco delle inquadrature avrà spostato sul palco del teatro, attraverso un fascio luminoso di proiettore, l’accadimento che infine prende inizio. Ma il rapporto tra teatro e cinema è esplorato, ancora, dal punto di vista del gioco di visione ed ascolto, sguardo e parola, musica e immagine. Il grandioso fascino acustico del testo di Claudel, reso in un francese perfetto anche dagli attori portoghesi, diviene il vero e proprio personaggio principale di quest’opera atipica (opera in senso melodrammatico), la quale include all’interno dell’azione scenica lirismo, tragedia, comicità. Oliveira attenderà ancora qualche anno prima di realizzare un’opera vera e propria con un film interamente cantato, Os Canibais, ma l’accento sull’ascolto musicale è già tutto esibito fin d’ora, anche attraverso la parola finale ripetuta più volte dal coro, «Écoutez!», «Ascoltate!» 138
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Infine, i tableaux vivants disseminati lungo tutto il film, con sguardi in macchina e lunghi piani sequenza, aggiungono splendore e ieraticità ad un’azione fondata su sentimenti interdetti e passioni immortali, una messa in parola musicale della resistenza umana alle forze della separazione e del disamore che ha per teatro il mondo intero, con ambientazioni – tutte in studio – che trascorrono fra Lisbona, Cadice, la Sicilia, Mogador, le Americhe, con finanche una sequenza collocata su una nave in pieno Oceano.
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Cinema e luogo
I due film adesso evocati (Amor de Perdição, Le soulier de satin) devono esser letti anche come esempi di un’arte consapevole del rapporto molto particolare che si determina nell’estetica cinematografica sotto il profilo del gioco tra «spirito» e «luogo». Se si è veduto come il cineasta abbia affrontato di petto la questione filosofica del cinema, da un lato spiegando come debba essere inteso il rapporto tra parola e immagine (Parole et cinéma), dall’altro incalzando Deleuze medesimo sull’articolazione generale fra tempo e movimento all’interno dell’esperienza cinematografica (Repenser le cinéma). Ebbene, ora si vedrà come vengono definiti altri due aspetti dell’esperienza cinematografica, tematizzando il «luogo» in rapporto allo «spirito» che quel luogo abita. Sono due i testi di Oliveira, peraltro cronologicamente precedenti a quelli finora considerati, nei quali emerge un abbozzo di filosofia del cinema fondata nel rapporto tra «sguardo» e «luogo», il primo come «substrato»53 del secondo. Oliveira, nel primo dei due testi, Le lieu du cinéma del 1996, concernente «l’importanza del “luogo” nel cinema e nella vita», definisce quale sia il «legittimo luogo del cine53. Si tratta d’un termine tecnico in filosofia, trascrizione latina del greco upokeimenon, «ciò che sta sotto». Nel Vocabulaire technique et critique de la philosophie del Lalande si legge, alla voce Substrat: «Ciò che serve di supporto ad un’altra esistenza considerata come un modo o un accidente». Retro, p. 132, si è già incontrato il riferimento all’«udibile che ha il proprio sostrato nel visibile o, com’è il caso per la musica, comporta una vibrazione sentimentale particolare, specifica». E retro, p. 101, si è letto dello sviluppo culturale che diventa «substrato» nel donarsi alla conoscenza universale.
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ma», offrendo dunque un’analisi critica concernente il concetto di «luogo», la sua «percezione legittima»: Un complesso composto da: cabina dei proiettori; uno schermo che ne riceva le immagini nell’oscurità, all’altro estremo; altoparlanti che emettono suoni; e un uditorio allestito nel lungo spazio che separa cabina e schermo54.
È questo «complexe» a fornire il criterio distintivo rispetto a tutti gli altri mezzi audiovisivi «succedanei del cinema» (televisione, video, ecc.), più atti ad un utilizzo solitario, su dimensioni più piccole, diversamente dislocate. Ciò che distingue il cinema, allora, è la sua dimensione d’assemblea, di atto pubblico e sociale, dunque la sua dimensione rituale, di rito inteso come spazio nel quale ci si riflette nella rappresentazione, nell’altro in scena. Non si tratta solo di movimento, dato che movimento di per sé non vuol dire cinema, ed ecco allora che Oliveira offre alcuni strumenti per coglierne la differenza. Nel menzionare l’«uditorio» fra le componenti legittime del luogo del cinema, Oliveira individua la dimensione antropologica come non eludibile nella definizione della natura dell’esperienza cinematografica. Non si tratta di un rapporto individualistico e solitario con le immagini nell’esperienza di cinema: al di là della componente tecnologica, la quale già incorpora in sé una notevole dimensione collettiva, anche la presenza fisica della molteplicità di individui diventa condizione imprescindibile dell’esperienza in questione. Infatti Il cinema è un sortilegio. Nella sala non si vedono davvero gli altri bensì dei fantasmi. È qualcosa di magico. Una sala oscura con uno schermo in mezzo, ecco il colmo dell’illusione. Ci si trova al contempo dentro una folla e soli con lo schermo. Si è qui e là. Qualcosa di magnifico passa tra quel che si vede sullo schermo e gli altri spettatori che non si vedono55. 54. TA, Le lieu du cinéma, 1996: fra i testi maggiori sotto il profilo filosofico, questo è l’unico, a conoscenza di chi scrive, del quale non sia stata edita la versione portoghese, sicché non c’è possibilità di confronto con le scelte operate dal consueto, ottimo traduttore francese di Oliveira, Jacques Parsi. 55. I, L’Humanité, 1993. All’inizio degli anni Ottanta, Fonseca sottolineava
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Se tale definizione si arricchisce tramite la specificazione della natura di quel che si vede sullo schermo – una rappresentazione tramite «fantasma» di realtà colte in altri luoghi, in perenne mutamento, capace di dare la sensazione del movimento e la percezione del tempo –; al contempo, essa offre anche il criterio decisivo per distinguere, en philosophe, tra il luogo del cinema e gli altri luoghi nei quali si vedono immagini in movimento. Il movimento non basta, non è di per sé cinema: perché ci sia cinema ci vuole il «luogo», il «complexe» sopra descritto, il mélange tra spazio architettonico, cronologico ed antropologico; ed è in questo rapporto con il luogo che Oliveira individua la natura di «sostrato» dello sguardo. Perché ci sia cinema è necessario che lo sguardo sia legato a un luogo: lo sguardo non può essere disincarnato, astratto. Il luogo così inteso, prosegue Oliveira, non ha tempo cronologico, anzi in esso si perde la nozione di tempo ed emergono dimensioni quali l’attesa, il riposo, la pausa; è rappresentazione di durée, tempo psicologico; non invecchia; è astratto, in quanto sono le coordinate a definirlo, ma si concretizza con la presenza d’oggetto (il film in visione); infine, i cambiamenti che ospita non ne annullano l’esistenza ma soltanto enunciano passaggi incessanti, molteplicità di momenti, «passaggio da un momento a un altro momento, dal reale all’immaginario, dal fisico al metafisico, dal concreto all’astratto», e dunque il tempo. È qui che il cinema, forse più di qualsiasi altra arte, si presenta come luogo: gioco controverso tra spazio e tempo; gioco fantasmagorico dello spirito [jeu fantasmagorique de l’ésprit] che anima la vita dell’universo tra gli uomini, la natura e le cose; gioco di rappresentazione immateriale che, designando
– suscitando il consenso di Bénard da Costa – «il carattere quasi “vampiresco” di alcune opere di Oliveira, le quali ingoierebbero tutto il materiale su cui si basano: Douro Faina Fluvial ingoia la città; O Pintor e a Cidade e As Pinturas do meu Irmão Júlio ingoiano il pittorico; O Acto da Primavera ingoia il teatro, così come O Passado e o Presente e Benilde. In Amor de Perdição ed in Francisca la realtà letteraria sarebbe “succhiata” da tale forma, quasi “vampirica”, di cinema», in T12, p. 35 [=T14, p. 33].
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un al di là, è condizionato e limitato dagli inesorabili parametri dell’espressione umana»56.
«Fantasma», «spirito»: emergono parole importanti per il prosieguo dell’analisi dell’opera del cineasta lusitano, e vanno segnalate. Parole nelle quali risuonano innanzitutto esperienze antropologiche quali «guardare» (phantasma sta per «figura, visione», in greco, con radice pha- che si ritrova anche in phos, «luce») e «respirare» (spiritus ha radice in spa-, spu- e sta per «soffiare, esalare»). Oliveira mette alla prova questo approccio verificandolo sul tema dell’identità del cinema, e sulla crisi di quell’identità in presenza d’una moltiplicazione di «luoghi». Comincia dicendo che il cinema manca d’una «lingua propria», soprattutto dopo la fine dell’epoca del muto: Nel cinema intervengono le parole e queste appartengono agli idiomi [nazionali, etnici]. […] Da dove viene allora la forza di identificazione, quando l’immagine da un lato, e la parola dall’altro, non sono originarie d’uno stesso luogo?57
Il cineasta risponde: l’identità proviene dallo sguardo, dunque dall’essere del regista, che è un radicarsi in un luogo. «È lo sguardo ad essere portoghese!», questa la risposta – che Oliveira fa propria, nel prosieguo del testo – di un collega cineasta, portoghese, alla domanda concernente la nazionalità di un film ambientato in Portogallo tra portoghesi, sulla base d’una storia portoghese però scritta da un autore italiano e nella quale il personaggio principale, un portoghese, era interpretato da un attore francese nella sua propria lingua, che era anche la lingua dell’intero film. Nondimeno, laddove il «luogo» diverrà predominante rispetto allo «sguardo», e dunque rispetto al luogo d’origine del regista (Fritz Lang che lascia il paese d’origine e si trasferisce negli Stati Uniti, e come lui tanti altri, Murnau, Lubitsch, Renoir), i film assumeranno l’identità del luogo, saranno i film «americani» di registi che nondimeno lasceranno, in quelle opere, segni ben evidenti della propria personalità, nonché della propria appartenenza culturale e nazionale. E 56. TA, Le lieu du cinéma, 1996, p. 13. 57. Ibid.
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nulla vieta che Oliveira possa rispecchiarsi in questo ritratto per ciò che concerne i suoi film «francesi». Questa centralità del tema del «luogo» nel suo rapporto col «gioco fantasmagorico dello spirito che anima la vita dell’universo» emerge anche da un secondo testo, Memória de um crítico de cinema del 2001, nel quale Oliveira si rivolge – «aí ao etéreo [e] com aquela saudade dos bons tempos», «lì nell’etereo [e] con quella saudade dei tempi buoni» – all’ amico critico scomparso Daney (1944–1992), scrivendogli una vera e propria «lettera», com’è evidente dal titolo della versione francese, Cher Serge Daney58. Una missiva indirizzata a qualcuno che è stato, è e resterà con noi, lì da qualche parte, lì dov’è in attesa della fine delle cose separate come lo sono nel nostro mondo, mondo nel quale viviamo un’illusione di tempo che è anch’essa di qui, per poi entrare finalmente nel metafisico del lato di là, che non ha tempo né luogo né spazio.
Dopo aver fatto cenno all’amico scomparso circa la condizione contemporanea della scienza applicata, le tecniche, i loro effetti nefasti, nonché l’incoscienza con la quale il mondo vive questa situazione; e dopo aver sottolineato la contraddizione nella quale Oliveira stesso si dibatte, difensore della scienza pura ma anche realizzatore appassionato di film che sono dei derivati di quella scienza applicata che egli condanna, il cineasta afferma: In effetti, credo profondamente in questa cosa che chiamiamo cinema e che, in quanto immagine proiettata sullo schermo, è immateriale, è come il fantasma della realtà, reale o immaginata che sia; è un’immagine che non appartiene alla realtà concreta della scienza applicata. Quel che di questa permane è lo schermo in sé, le macchine, infine le cose materiali; ma non il sostrato immateriale, che astrae da queste cose e non fa parte di esse. 58. TA, Memória de um crítico de cinema, in T4; versione francese, TA, Cher Serge Daney, 2001; nel prosieguo si citerà dalla versione francese. Oliveira aveva già dedicato un breve testo alla memoria di Daney, Sécret, pubblicato sui Cahiers du cinéma nel luglio 1992, numero speciale dedicato al critico, all’epoca da poco scomparso
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Va sottolineata la ricorrenza del termine «sostrato» anche in questo testo, che va letto in rapporto al tema dello «sguardo» poc’anzi incontrato: anche qui vi è un rapporto tra lo «sguardo», e cioè l’«immateriale» o spirito, e il «luogo», il luogo che è il cinema. «Immateriale» che Daney, a detta di Oliveira, sapeva ben cogliere, quando affermava che «cinema é cinema quando é tudo o mais que para aquém o além dela está», «il cinema è cinema quando è tutto quel di più che sta al di qua o al di là della realtà». Illusioni che illuminano la nostra realtà, [ …la oltrepassano… ] e ci da[nno] ragione e forza per continuare a vivere, proseguendo la nostra marcia nell’oscurità del tunnel del futuro, animati dalla luce lontana che ci fa cenno dal fondo, ed alla quale diamo il nome di speranza.
È dunque il tema della natura «spirituale» del cinema, il suo «aspecto transcendental» ad essere in discussione: cinema che non è la macchina per filmare, né la pellicola, né le macchine per stampare e neppure gli studi di ripresa e gli auditori, men che meno i video o gli attori, i registi, gli autori di sceneggiature e di dialoghi; neppure i compositori e gli esecutori di partiture, o i tecnici.
E ciò perché il processo di creazione, come il nostro corpo, non funziona se manca lo spirito, che dà impulso a tutte le cose. Spirito che anima l’intelligenza e che rotola dal vuoto dei tempi, dato che il Cinema, non avendo tempo, ha tutti i tempi, fuori e dentro il tempo e lo spazio. Il Cinema non è altro che fantasma virtuale, risultato di spiriti creati. […] Esso mai fu o cominciò: il cinema è. È perché già era; ed era già perché ha in sé lo spirito delle cose e, come sempre fu, così sempre sarà.
Nella lettera si leggono ancora proposizioni che inglobano il critico scomparso e la sua attività dentro lo «spirito» che anima il cinema, dentro la memoria collettiva del cinema, come avrebbe potuto dire Maurice Halbwachs: 145
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Come prima, tu continui tra noi, coinvolto in questo spirito che è a noi comune tramite il cinema. Tu, e il cinema, prevarrete [nell’essere] presenti tanto oggi quanto ieri. Quando apparve, il cinema esisteva già da sempre, non come macchina ma come cinema. Perciò diciamo che il Cinema è senza tempo, [poiché] è frutto di tutte le arti e dello spirito che le anima; e anche tu, Serge Daney, già eri spirito critico, sezionatore e analista di film, e attraverso quei film persisti accomunato dalla proiezione del fantasmagorico; come anche il cinema, per il quale realtà e finzione sono altrettanto finzione e realtà, l’una come l’altra.
Memoria collettiva, si è detto en passant: in effetti, la chiusa della lettera rafforza questa percezione di un legame in re, obiettivo, della teoria del cinema di Oliveira con la riflessione che ha condotto in Francia il grande filosofo e sociologo Halbwachs, morto nei campi di sterminio sul finire della seconda guerra mondiale, alle cui tesi si farà riferimento con dettaglio più avanti. Caro Serge Daney, continua ad esser memoria e presenza nel tempo e fuori di esso, continua ad esser parte complementare del cinema. Il cinema è tanto quello che è stato proiettato, quanto ciò che di queste proiezioni è stato discusso e si discute; si scrisse e si continua a scrivere; fu pensato, si pensa e pensa sé.
È il molteplice vivente a dare corpo al cinema e ad offrirgli un «luogo», mantenendo in vita attraverso un dialogo infinito – si può anche dire: attraverso una rappresentazione collettiva, e «rappresentazione» nel senso non solamente filosofico-sociologico ma anche artistico e cinematografico – ciò che un giorno è rimasto depositato nella memoria del gruppo, nel suo discutere di cinema, nel suo scrivere sul cinema, nel suo pensare attraverso il cinema. Il tema della memoria tornerà costante in tutta l’opera di Oliveira, scritta e filmata.
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Se lo sguardo ha un legame stretto con il luogo, la parola invece è u-topica, non ha un necessario legame con un luogo. Quando si vive la dissonanza fra parola e sguardo; quando la parola naviga tra luoghi e spazi; emerge allora il mistero nella nostra esistenza, il mistero d’una parola sovrana. Oliveira è ben consapevole che Tutto ritorna alla questione della voce, della parola. L’uomo è una meccanica fatta per parlare; la parola è la cosa più ricca del meccanismo umano59.
Va sottolineato il richiamo in prima battuta ad una dimensione materiale, immanente, appunto «meccanica», della condizione umana, senza facili scorciatoie trascendenti. Nondimeno, Oliveira vede in quella «meccanica» la vera chance nel destino dell’uomo: La parola è il dono più ricco che l’Uomo abbia mai posseduto. È attraverso la parola che l’Uomo può esprimere, direttamente e in maniera astratta, le proprie idee, tutte le sue idee60.
Certo un «dono», come si legge: ma il vocabolo apre solamente su una dimensione di gratuità, di offerta, di incontro inatteso, nulla affermando circa l’identità del donatore, la quale rimane taciuta e forse, e meglio, ignota. Su di essa 59. I, Cinématographe, 1983, p. 46. 60. T24, p. 27 (=T17, p. 92).
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solo i filosofi, nonché quei filosofi che riflettono su «Dio» definendosi teologi, si azzardano a dire qualcosa, ma non di certo il cineasta Oliveira. Infatti egli altrove aggiunge: Sono le parole ad essere eccezionali: la parola è di una ricchezza straordinaria e veramente può dilettarsi con idee astratte – ma ciò si addice più ai filosofi…61.
E fra i filosofi – già si sono letti precedentemente i nomi di Aristotele, Spinoza, Parain, Deleuze –, Oliveira non tralascia di evocare, in modo delicato ed allusivo, ma ben riconoscibile, i mistici, coloro cioè che hanno riflettuto sulla dimensione di mistero, di non conoscenza, che abita il nostro linguaggio, detto altrimenti: i limiti del nostro dire. Quando leggo un libro ne vengo colpito in una certa maniera, vi sono alcune cose che mi rimangono, che mi colpiscono. L’ineffabile non lo posso spiegare. In fondo, è di quel che mi ha colpito che parlerò. […] Non parlo di ciò che è ineffabile. Non so se l’amore è una perdizione. Non parlo di cose astratte in Amor de Perdição, parlo di cose concrete (quel che accadde a Simão e Teresa, e che accadde proprio così). […] Forse è più affascinante toccare questa barriera, la barriera che separa da ciò che è sconosciuto, o magari soltanto avvicinarvisi, dato che tutta la vita è un enigma... Non mi piace molto uscire dal concreto perché penso di perdermi, comincerei a dir cose senza nesso. Ciò di cui non si può parlare, non vale la pena di parlarne!62
Il passaggio per la tradizione mistica – si sente chiara e forte la presenza del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein nell’ultima proposizione letta63 – è dunque ben 61. T12, p. 43 (=T14, p. 43). 62. Ivi, p. 42-43 (=T14, 42-43). 63. Nella Introdução a T8, p. 16-19, Avella vede realizzarsi un intreccio nelle opere di Oliveira e della Bessa-Luís precisamente sul tema di «un linguaggio “sotterraneo”, “vulcanico”, nel quale mito e storia, mescolati, sono ancora natura, natura pronta a diventare storia all’alba di una civilizzazione». I nomi di Vico e Wittgenstein (quest’ultimo citato esplicitamente dalla Bessa-Luís) accompagnano una riflessione sui temi del «não dito», «non detto», e del «discurso do inacabado», il «discorso dell’incompiuto». Anche Bruno sente «echi di asserti filosofici
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giustificato nel percorso speculativo (visivo, osservativo) di Oliveira, il quale appunto «specula» sul mondo, lo «guarda» attraverso immagini filmiche che durano, immagini aperte sul rapporto col tempo, col pensiero. Palavra e Utopia Un’altra opera filmica maggiore riconduce ad unità i temi finora affrontati: Palavra e Utopia (Parola e utopia, 2000). Film «né storico, né documentario e neppure biografico»64, l’opera mette al centro la voce e l’azione, al contempo religiosa, letteraria e politica, di padre Antonio Vieira (1608-1697, interpretato da tre differenti attori nelle diverse fasi della sua esistenza: Ricardo Trêpa, Luís Miguel Cintra, Lima Duarte), la sua vita di gesuita portoghese e di missionario infaticabile. Imbarcatosi non meno di trentacinque volte tra Atlantico e Mediterraneo, facendo la spola fra Portogallo (Coimbra, Lisbona), Brasile (Salvador de Bahía, S. Luís de Maranhão) e l’Europa (la Roma papalina, la Francia, l’Olanda), Vieira fu grandissimo oratore (si contano almeno duecentoquaranta sermoni o prediche sopravvissute al tempo), «conoscitore di tutte le lingue», diplomatico (cinquecento almeno le lettere conservate), navigatore fra continenti e popoli per tutto il XVII secolo come difensore di Indios brasiliani ed ebrei costretti a vivere da «nuovi cristiani»65. Infine morto cieco nel suo letto a Bahia, lontano dalla Lisbona che sempre portava nel cuore: «Per nascere poca terra, per morire tutta la terra!», grida in una delle prediche. E la terra di quella sua «nascita», del suo «ingresso» nel mondo, è evocadi Wittgenstein in Um Filme Falado», cfr. E. Bruno, De Oliveira, o del «non», in E. Bruno, Ritratti Autoritratti, Roma, Bulzoni, 2006, p. 123. 64. T17, p. 43. 65. Sul tema della colonizzazione nel cinema di Oliveira, cfr. P. Agostinho, Oliveira e os Indios, in T9. Una lettura critica della posizione di Oliveira sulla politica coloniale è quella di C. Overhoff Ferreira, Manoel de Oliveira and the Art of Filming Doubt, in C. Overhoff Ferreira [a cura di], Dekalog 2. On Manoel de Oliveira, London, Wallflower Press, 2008. Cfr. anche retro p. 97, n. 83.
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ta all’inizio del film con un lungo travelling in avanti in una foresta, movimento che accompagna nel tempo, nell’esistenza, lo spirito irrequieto del predicatore portoghese. Ancora: autore di opere quali la História do Futuro e la Clavis Prophetarum, dalle quali emergono le linee di un progetto politico-spirituale millenarista, il Quinto Impero (retro, p. 99), che non poco rilievo avrà nella storia portoghese successiva, sia pur declinato in differenti versioni – non ultima quella assunta in Pessoa (che definiva Vieira «imperatore della lingua portoghese»66) e in Régio. Il personaggio era già stato evocato nel documentario del 1983 Lisboa cultural, sia tramite la parola (alcuni passaggi del Sermone dell’Epifania letti da Cintra), sia come oggetto di riflessione da due professori dell’Università di Lisbona, Maria de Lourdes Belchior («Vieira rappresenta ed incarna valori specifici alla cultura portoghese quali la degradazione e, simultaneamente, la sopravvalutazione di ciò che noi siamo, […] chiamandoci quasi rabbiosamente barbari d’Europa e, amorosamente, destinandoci ad essere i signori del Quinto Impero») e Jacinto Prado Coelho («Visionario attivo, che lottò per cause nobili ma anche per costruzioni utopiche, che oggi ci appaiono un po’ assurde»)67. Il film è straordinaria rappresentazione della sovranità della parola, di quella «meccanica» radicata nel mistero di un’esistenza concreta ed efficace, quella di un singolo perseguitato dai poteri politico-ecclesiastici del tempo (in pri66. Si veda F. Pessoa, Mensagem (1934), Terceira parte, Segundo symbolo: O Quinto Império, e Segundo aviso: António Vieira; trad. in F. Pessoa, Una sola moltitudine, t. II, Milano, Adelphi, 200310, p. 171 e 175-176. 67. Si veda TA, Lisbonne culturel, cit., p. 45-47. Oliveira va anche più in là rispetto all’«assurdo» denunciato da Prado Coelho, e in T25, p. 10, parla dell’odierno «ritorno sebastianico alla famigerata idea del Quinto Impero, ossia all’unione delle nazioni in un’approssimazione di quello che fu l’immaginario di Padre Antonio Vieira». Si veda anche in TA, Parole et cinéma, cit., p. 45, dove Oliveira esprime la propria idea personale sulla latenza di quell’idea nell’Europa contemporanea. Egli commenta le proposizioni di Prado Coelho in T17, p. 47-48. Si vedano anche: J. Parsi, Padre António Vieira, nel press book italiano di Parola e utopia; A. Bessa-Luís, Vieira versus Campanella [2001], in T8; trad. in T6; G. Bedouelle, Antonio Vieira, jésuite et prophète, in Communio, 6, 2001.
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mis, l’Inquisizione spagnola) e alla ricerca di possibili, realistiche protezioni a Lisbona alla corte di D. João IV e nella Roma di papa Clemente X. Un singolo, nondimeno, capace d’immaginare nuovi mondi e nuove fraternità in una prospettiva compiutamente politica, cioè umana ed universale68. Non è peregrino leggere le dinamiche che Vieira stigmatizza nelle sue prediche come adeguate anche ai fenomeni di globalizzazione del XX secolo: migrazioni forzate e schiavistiche dall’Africa all’America – oggi dal sud del mondo all’Europa; difesa della pluralità di lingue e richiesta di uguali diritti per tutte loro, e per i popoli che le parlano; lotta all’intolleranza fondamentalista religiosa. Non è un caso, allora, che il mare sia qui presente più che in ogni altro film di Oliveira, eccezion fatta per Um Filme Falado. Opera nella quale la voce di Vieira predicatore risuona più volte off su inquadrature delle onde del mare, sorta di nave sonora che solca le acque di un filme muito falado, nave di cui potrà vedersi – alla fine del film, morto il gesuita – la scia che lascia dietro sé, scia d’una parola che continua a solcare adesso acque di tutti i tempi e dunque senza più tempo, ormai sciolta dal luogo, dalla foresta dei titoli di testa. Palavra e Utopia, dunque, è il film dal quale maggiormente emerge la dimensione fantasmatica della parola, l’«apparire alla vista» della voce e dei suoni: Oliveira dice di aver voluto […] filmare la parola. Mostrare – non solo ascoltare – le parole, un’utopia cinematografica69.
C’è addirittura una splendida sequenza nella quale Vieira predica dinanzi ai morti – una parola che nasce immediatamente monca d’uditori visibili –, in un’ala della chiesa 68. «Le prediche di Vieira non sono né metafisiche né puramente spirituali. Più che politiche, sono umane e teologiche. Sono ricche nel pensiero e nell’espressione, ma sono dirette al popolo e proprio per questo […] Vieira usava frequentemente la metafora e l’allegoria al posto di divagazioni spirituali astratte e slegate dalla realtà vissuta dal popolo. Cristo, secondo i Vangeli, si esprimeva tramite parabole per essere meglio compreso dalle masse», T17, p. 47. Sull’estetica barocca in Vieira, M. Lucchesi, Filmar barocco, in T6. 69. B. Fornara, Palavra e Utopia, erudizione e ironia, in T17, p. 267.
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del Colégio dos Jesuítas do Maranhao, ricolma, alle pareti, di loculi e sepolcri70. Eppure si tratta di un phainein, un «apparire alla vista» che in nulla rinvia ad una trascendenza nominabile, identificabile, dicibile appunto. No, e su questo bisogna esser chiari: Oliveira stesso ha dedicato la seconda parte del saggio Parole et cinéma alla discussione del rapporto tra parola e trascendenza precisamente in questo film. Eccone in sintesi le principali tesi. Articolando una riflessione in tema di «forma cinematografica» (riferimento alle «quattro colonne» del cinema, in questo caso la forma-parola e la sua centralità in Palavra e Utopia), di «testo» (la vita di Vieira, i suoi sermoni e le lettere), e di «contesto» (la fiction cinematografica, che qui assume l’aspetto d’una narrazione in chiave «storica»), Oliveira afferma che, nel caso del film su Vieira, alcune interpretazioni [… hanno fatto …] una certa confusione fra le tre cose: forma, testo e contesto. Si condanna o si loda l’uno o l’altro di questi punti, ma a pregiudizio dell’unità del lavoro71.
Il cineasta afferma che è scorretto dedurre dal contesto di un film una presa di posizione, un giudizio di valore da parte del suo regista, vale a dire «vedere, in un film, il regista sovrapporsi alla sua realizzazione, cioè al contesto; […] ciò è estremamente grave»72.
70. «Tra quei defunti sicuramente ce n’erano alcuni che avevano sentito predicare Padre Vieira proprio là, chissà, tanto più che sul fondo c’era un pulpito di legno […] per permettere a un prete di predicare. Predicare per chi? Per i morti? Quest’idea mi ha turbato, e mi è subito venuto in mente che in effetti Vieira non aveva predicato che di fronte a dei morti, a gente che non lo ascoltava, sicché non ho potuto fare a meno di realizzare una ripresa simbolica, con Padre Vieira a predicare là, in mezzo a chi non lo poteva sentire. Uno scenario un po’ surrealista. […] In quel luogo esiste qualcosa di vivo, mosso dalle parole di Vieira», T17, p. 48. 71. TA, Parole et cinéma, cit., p. 44 (=T29, p. 159). A motivo delle differenze presenti fra testo francese e versione portoghese, nel prosieguo si indicheranno le citazioni afferenti all’una o all’altra delle due versioni. 72. TA, Palavra e Cinema, 2001, in T29, p. 160.
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È frequente vedere in Palavra e Utopia un Vieira à la Manoel de Oliveira. Ma chiunque conosca bene quelli che furono gli eventi, i sermoni e le lettere di padre António Vieira, potrà vedere, sì, un film di Manoel de Oliveira, ma non un Vieira à la Manoel de Oliveira73.
E aggiunge: La realizzazione di un film è, oppure finirà per essere, o ancora tracimerà da, un impulso del suo realizzatore – cionondimeno, quel che importa ad un vero artista è il risultato del suo lavoro, giammai una dimostrazione della propria abilità personale. Il film sarà dunque tanto migliore quando il contesto verrà messo in valore, e il realizzatore dimenticato o cancellato74.
Chiarito ancora che tale stato di cose fa sì che sia scorretto supporre che gli autori abbiano una certa fede o una credenza, dato che così facendo a volte si sbaglia, [poiché] si confonde questa supposizione con la natura del contesto del film e/o viceversa75;
e specificando inoltre che, se i temi e/o i registi che trattano quei temi sono di carattere religioso o ateo, ciò pare avere influenza sui criteri di giudizio a seconda della formazione dello spettatore, fino a fargli assumere il film come posizione del regista – in verità molte volte opposta a quel che egli mostra76;
Oliveira ribadisce la propria convinzione – questa, sì, una «fede»77, cioè un’adesione istintiva, un impulso, e in 73. 74. 75. 76. 77.
Ivi, p. 159. TA, Parole et cinéma, cit., p. 45. Ivi, p. 44. TA, Palavra e Cinéma, cit., p. 160. Per una lettura non-religiosa del lemma «fede» nella filosofia contemporanea, cfr. J. Derrida, Foi et savoir. Les deux sources de la «religion» aux limites de la simple raison, (1995), Paris, Seuil, 2001; trad. in J. Derrida – G. Vattimo [a cura di], La religione, Roma-Bari, Laterza, 1995. Si veda infra, p. 177 ss., come Derrida abbia applicato il lemma all’esperienza cinematografica. In T22, p. 96, Oliveira spiega come la
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ogni caso una dichiarazione di estetica78 – circa la centralità della dimensione di storicità che ogni opera d’arte deve rispettare. Se ne parlo è a motivo dell’importanza che accordo a quel che è storico, e dell’attrazione che ciò che è storico ha su di me. Rispetto o amore, perché la storia è il ricordo di quel che noi abbiamo amato, di ciò che abbiamo sofferto e di quel che abbiamo perduto. Ecco cosa fa la storia: essa dà identità alle cose e presenza ai fatti79.
Straordinaria affermazione del valore della memoria collettiva, come già sottolineato precedentemente, memoria condivisa tramite parola e simboli: nel caso del film su Vieira tramite sermoni, lettere, pulpiti della predicazione, chiese delle quali il predicatore calcò il pavimento, tutte cose ancora esistenti e dunque storicamente vere, le quali permettono la realizzazione d’un film «sobrio, solido, modesto nei décors, ma storicamente certo»80. O Quinto Império. Ontem como Hoje Il lavoro della memoria è proseguito, nel cinema di Oliveira, anche con O Quinto Império. Ontem como Hoje (Il fede sia un «sentimento», o «impulso», necessario all’agire dell’uomo per far fronte alle difficoltà e sopravvivere: «La fede è una sorta di astuzia, e non si tratta solo di credenza in Dio. È legata alla speranza». Cfr. anche retro, p. 22 e infra, p. 159 e n. 87, 203 ss., 211, 235. 78. Già negli anni Ottanta, Daney parlava di un’ «estetica» in Oliveira, parola «di cui che non si deve aver paura, tanto più che oggigiorno è cosa piuttosto rara», cfr. S. Daney, Que peut un cœur?, in Cahiers du cinéma, 330, 1981, p. 38 (= T17, p. 207). Sui temi dell’estetica in generale, si veda la voce Estetica in G. Carchia-P. D’Angelo [a cura di], Dizionario di estetica, Roma-Bari, Laterza, 20053. 79. TA, Parole et cinéma, cit., p. 44. 80. TA, Palavra e Cinema, cit., in T29, p. 159 (=Parole et cinéma, cit., p. 44, con varianti). «La grande importanza della memoria, del libro, di tutto ciò che ha resistito [al tempo]. Quel che non ha resistito scompare, o resta solo nel ricordo. Io posso parlare del serbatoio di memoria che ho in me. Quel che si esprime è più o meno interessante secondo la qualità di questo serbatoio che ciascuno porta nella propria testa», I, Chimères, 1991, p. 136-137.
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Quinto Impero. Ieri come oggi, 2005), dove viene messa al centro della riflessione una figura «mitologica» della storia portoghese, la quale storicamente darà un contesto anche alla visione di Vieira. Il film mette in scena, con grande fedeltà, ancora una pièce di Régio, El Rei Sebastião (1949), e prova a raccontare come si fece strada nell’animo del re ventiquattrenne (Ricardo Trêpa), salito al trono nel 1568, l’idea d’una nuova crociata che sgominasse l’Islam e arrivasse a Gerusalemme, progetto avviato con una spedizione in Africa per la conquista del Marocco, impresa che invece porterà al disastro della battaglia di Alcácer-Quibir del 1578. A nulla varranno le messe in guardia dei consiglieri circa il maggior realismo da mostrare da parte di re Sebastiano nell’occasione, nonché nella scelta da assumere per metter fine alla propria castità e garantire una discendenza alla nazione portoghese. Neppure andranno a buon fine le sarcastiche facezie di due giullari di corte accoccolati ai piedi del re. Altrettanto fantasmatico e filante come la cometa che appare all’inizio del film, nonché nel simbolo d’una spada che vola, Sebastiano si staglia nel cielo della nazione come l’iniziatore di quello che Oliveira sente essere il significato profondo del mito del Quinto Impero, una dimensione utopica e non appartenente alla «politica di potenza» delle nazioni, una dimensione universale la cui nascita forse lo stesso giovanissimo re contribuirà inconsapevolmente a realizzare, non sul breve periodo (la disfatta in Africa segnerà la fine delle ambizioni imperiali del Portogallo ed aprirà la strada al trasferimento della potenza dal Mediterraneo al mondo anglosassone, anche dopo la sconfitta dell’Invincibile Armada nel 158881), bensì sul tempo lungo appunto dell’utopia, la cui realizzazione sta tutta nella capacità con cui si riesce a sottrarre spazio e tempo al potere e alla sottomissione dei popoli. Il film vede dunque il proprio luogo centrale in un lungo confronto tra il re e Simão, il «calzolaio santo» (Luís Mi81. TA, Tentative pour expliquer l’inexplicable, cit. (=T17, p. 34). Cfr. retro, p. 150, n. 67, per le metamorfosi successive di quell’idea politica. Va segnalato che con queso film Oliveira è entrato nei libri di storia del Portogallo, cfr. Saraiva, Storia del Portogallo, cit., p. 149 n.
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guel Cintra), forse un parto della mente di Sebastiano, apparso da dietro gli arazzi della stanza dove il re sente riecheggiare una voce che lo invita ad abbandonare la folle idea della crociata. Una figura che ricorda quella del «calzolaio di Trancoso» Bandarra (António Gonçalves Annes Bandarra, 1500-1556), profeta popolare e autore di versi messianici ripresi da Vieira e Pessoa a proposito dei temi del Quinto Impero. E sono giusto le riflessioni sulla morte e sull’eterno ad animare la notte stellata e magica, nella quale quel fantasma d’un re ch’era destinato ad esser Sebastiano si confronta con la dimensione dell’utopia e della speranza, in un gioco di contrasti violenti fra spazi claustrofobici e notturni squarci senz’altra luce che le stelle, con corpi che s’addormentano e statue che si animano, messa in scena del delirio che dà origine al mito politico ma, anche, dell’esigenza di posizionamento che s’impone allo spettatore dinanzi a quella tragedia annunciata. L’utopia, se mai si realizzerà, non potrà che farsi dentro l’animo di un vivente oggi, nell’oggi cioè dello spettatore, nell’oggi delle sue decisioni.
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Fantasma e storia
L’insistenza ripetuta sulla storicità come criterio di un’estetica del film è dunque una costante nell’opera e nella riflessione del cineasta lusitano: Le ciel est historique, questo il titolo d’un importante dialogo a tre voci – accanto ad Oliveira ci sono Daney e Bellour – all’inizio degli anni Novanta. Si tratta del testo col quale il cineasta ha cominciato la «conversa indirecta» con Deleuze, proponendo di rendere più complesso il rapporto tra cinema e tempo, aprendo l’immagine sulla sua dimensione «obiettiva», concreta, appunto quella che emerge dalla prossimità spaziale e temporale agli avvenimenti di cui essa narra. Vicinanza che Oliveira comincia a realizzare nei propri film utilizzando le narrazioni dei «chroniqueurs», i cronachisti «che hanno raccontato gli eventi»82. Partendo da elementi che esistono già, che ci sono stati trasmessi come traccia del passato (o anche partendo da una fiction, una fiction che abbia superato la finzione tramite l’effetto patina-del-tempo), ciò che si fa assume valore storico. Vengono a decantarsi il lato psicologico, quello biologico, la visione sociale di un’epoca, o ancora il versante arte dell’umanità: mentre assume rilievo quel che di permanente può esserci nell’umanità. Da questo punto di vista, quel che è accaduto due o tre secoli fa può accadere esattamente allo stesso modo oggi, dopo tutte le rivoluzioni culturali83.
82. I, Chimères, 1991, p. 139. Il dialogo si svolge a ridosso dell’uscita nelle sale di NON nel 1990. 83. Ivi, p. 140-141.
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Va ribadito che qui si tratta, propriamente, del depositarsi d’una memoria condivisa e dunque collettiva, perché solamente la trasmissione fra persone e generazioni permette a qualcosa di durare, farsi storia, permanere. È la grande dimensione della tradizione84. Aggiunge il cineasta: Storico non vuol dire che si tratti di qualcosa del passato: quel qualcosa appartiene altrettanto al presente. Storico significa che siamo presi dentro una sorta di mélange: la cultura è un métissage; non c’è cultura pura. Il Portogallo è complicato… Anche per il tempo esiste una specie di métissage. Oggi siamo i meticci del nostro passato. Ciascuno ha il proprio colore, il proprio métissage. Ciascun gruppo, ed anche ciascun popolo. Sicché, quando riafferro il passato, giocoforza prendo anche il presente85.
E ciò vale anche per l’esistenza artistica stessa del cineasta, ha dunque valore riflessivo: Un giorno ho assistito ad una grande retrospettiva sul cinema americano. Ad ogni proiezione riscoprivo che in ogni film avevo preso a prestito qualcosa … In questo modo ritrovavo tutti i miei film! Non ho mai cercato di nasconderlo. È questa la mia cultura, la mia concezione dell’arte: ogni cosa è mista. È la vita86.
L’atto della trasmissione di qualcosa che è accaduto nel passato si svolge nel presente, e questo lo fa diventare al contempo atto del presente: le due temporalità coesistono 84. «Classico io? A lungo sono stato catalogato tra i moderni, come qualcuno che appunto non dava assai fiducia alle immagini. […] Oggi il mio itinerario si avvicina di più ai classici. […] Prendo “classico” nel senso di Bossuet: quel che resta buono col tempo. Ma di fatto preferisco un altro termine: amo la tradizione. Oggi non è più possibile tagliare il tempo in due, non c’è più un prima e un dopo, ed io incarno il filo che non si può tagliare e che si ricollega lontano, molto lontano, pressoché all’inizio del cinema, poiché si tratta dell’epoca del muto. In questo modo, io porto una tradizione nel cinema», I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 45. 85. I, Chimères, 1991, p. 144. 86. I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 58.
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nell’atto di trasmissione. E ciò rende propriamente fantasmatiche le cose (dal gr. phantazo, «apparisco, faccio vedere»; anche phantasia, «apparizione, immagine», ha la stessa radice), cose che si sostanziano dell’unica dimensione che può partecipare dei tempi molteplici cui esse appartengono: la dimensione, appunto, dell’immagine, dunque della visione o «storia» in senso etimologico (lat. historia, dal gr. –stor per *id-tor, dalla rad. id- per fid-, vid-, «vedere», lat. video). Visione nel ricordo, visione nella memoria, visione nel sogno: noi siamo sempre in movimento, in transito fra ieri ed oggi, fra passato e futuro, ma anche fra sogno e realtà, presenza e memoria. Ecco come l’immagine, la visione, diviene allora il senso cui con maggior spontaneità ci si affida, nel quale cioè si ha «fede»87 e che alla lunga assume dominanza fra i cinque sensi, orientando principalmente il nostro agire nel mondo. Un fattore di orientamento nondimeno fallibile, sempre da sottoporre a verifica, imperfetto: noi non sappiamo mai con certezza se ciò che vediamo è vero, reale, presente. E qui ha radice, infatti, anche il potere delle immagini, la loro «vana gloria», che Oliveira definisce «idolatria» (dal gr. eidolon, «immagine», da èido, «vedo», più làtrès, «schiavo»): Visualizzare significa far credere, no? Le immagini hanno sempre un potere, si tratti d’una statua della Vergine Maria o di Cristo inchiodato sulla croce, o ancora dell’immagine d’un santo qualunque. Nell’istruire su un avvenimento reale e storico, esse sempre suggestionano, facilitando la credenza. È chiaro che questo potrebbe confondersi con l’idolatria, cosa ripudiata dalla Chiesa. L’obiettivo non era l’idolatria, ma la credenza88.
Ma qui ha radice, anche, il senso del mistero, del nascosto, dell’enigmatico, cui Oliveira sempre si richiama. Come si vede, questa posizione non ha alcun fondamento tra-
87. «Osservo che nella vita c’è sempre qualcosa di nascosto, di enigmatico [...] La vita è così. È la fede. È lo “storico”. Non sappiamo mai nulla [...] Tutto esiste e nulla esiste. Tutto è mistero», T7, p. 46. 88. T22, p. 37..
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scendente o metafisico, bensì origina dalla sfera medesima della percezione, appunto la sfera del rapporto con le immagini. Invero, questa «estetica del fantasma» – come si potrebbe anche definire –, è un’estetica che sa distinguere fra immagine e realtà, astrazione e concretezza, passato e presente, precisamente nella misura in cui afferma il mélange di quelle dimensioni contrarie. Ritengo che il cinema sia «nella storia», in tutto quel che avviene nel mondo, in tutto ciò che è esteriore. Il cinema è la camera che ci si mette in spalla come un fucile per andare a caccia. Se ci piace qualcosa, si spara… Più avanti si ricomincia. Si caccia in uno spazio che, per noi, è anche tempo, il tempo della scoperta. Guardando o camminando in questo spazio storico, noi afferriamo cose che sono immediatamente presenti e che, per ciò stesso, sono già del passato89.
Oliveira esemplifica: Il cinema lavora con la vita in una maniera molto concreta, mentre la letteratura tratta le cose nell’astrazione. Quando voglio filmare un bicchiere bisogna che venga messo un bicchiere dinanzi alla camera, mentre in letteratura dico «un bicchiere» ed è tutto. «Un bicchiere sulla tavola», questo basta. Al cinema, invece, non basta. «Un bicchiere sulla tavola» porta con sé enormi problemi di scelta: quale bicchiere, quale tavolo? […] Questa concretezza ci porta al tempo. Si tratta di un bicchiere del secolo tale, oppure di oggi, o ancora si tratta di un bicchiere di ieri posato qui oggi, su un tavolo che è là, ora… Si tratta di un gioco al contempo complicato e concreto. Il bicchiere è forse del XVII secolo, ma se viene usato oggi non è la stessa cosa. Questo chiamo storico al cinema, cosa che non ha nulla a che vedere col realismo90. 89. I, Chimères, 1991, p. 136. 90. Ivi, p. 136-137. Cfr. anche T7, p. 44-47. Sul tema del realismo al cinema in rapporto ai «fantasmi dello sguardo e della voce, che ossessionano e provocano allucinazioni ai bordi dell’immagine» (p. 75), si vedano i saggi sul «realismo non naturalista» di Pascal Bonitzer, editi in rivista nella seconda metà degli anni Settanta e poi raccolti in volume in Le champ auvegle (1982), Paris, Cahiers du cinéma, 19992. Bonitzer ha intervistato Oliveira qualche anno dopo, cfr. I, Cahiers du cinéma, 1986.
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Viagem ao Princípio do Mundo Oliveira ha affrontato in almeno due film il tema del rapporto tra memoria e storia: il primo è Viagem ao Princípio do Mundo (Viaggio all’inizio del mondo, 1997). Dall’interno dell’auto che porta tre attori ed un anziano regista, di nome Manoel (Marcello Mastroianni), a Lugar do Teso, un villaggio del nord del Portogallo, la cinepresa fissa lo scorrere incessante della strada lasciata dal veicolo dietro di sé, la segnaletica impressa sul suo manto, la gente che ne transita il bordo, le auto che vengono dietro. Il viaggio, che è andare, ha così in sé anche quel che si lascia alle spalle, forse il tornare, un «falso movimento» al cinema ben noto. Straordinaria quest’inquadratura iniziale: solo il cinema può far vedere com’è possibile proceder innanzi senza mai afferrare il presente dell’andare, l’istante che lo sostanzia, il punto che offre appoggio alla sua spinta. E cionondimeno andare, senza fermarsi… Cammino, movimento, sono già da sempre parola e, come all’inizio di NON, anche qui le persone nell’immagine – il regista, due suoi attori (Leonor Silveira, Diogo Dória), più un terzo attore in Portogallo di passaggio (Jean-Yves Gautier), di padre portoghese e madre francese – parlano fra loro mentre procedono. Parlano del passato e della storia di uno di loro, l’anziano regista. Più avanti parleranno del passato e della storia d’un altro fra loro, l’attore francese che sta raggiungendo il villaggio d’origine del padre in cerca di parenti sopravvissuti. Alcune soste dell’auto scandiranno la narrazione della vita più lunga delle due, al fine di render presenti allo spirito – da lontano, con gli occhi (il collegio di gioventù sull’altra riva del largo fiume); da vicino anche con le mani (le mura diroccate dell’hotel teatro di giovanili prodezze sentimentali, con l’albero sopravvissuto in giardino) – quelli che furono i luoghi che ospitarono la vita di Manoel nella pienezza dei suoi giorni. C’è un quinto personaggio a bordo dell’auto, l’autista, che diventa infine solo ora riconoscibile: Oliveira in persona, mai nominato come tale, immagine nell’immagine, un Manoel autista a pochi passi dal Manoel anziano regista. 161
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Compresenza di vero e di falso, mise en abyme, gioco di specchi nell’immagine, film nel film come presenza d’un fantasma ben reale. Storia individuale e storia collettiva d’un paese s’intrecciano nel viaggio, e poi nel villaggio infine raggiunto: l’educazione presso i Gesuiti ai tempi della Repubblica, il confronto delle idee politiche, il rapporto fra le generazioni, fra chi è migrato e chi è restato, la distanza fra i popoli, i conflitti etnici, le molteplici lingue, i legami di sangue. Un viaggio di ricordi, di atavismi e di cose prese alla radice, che si vanno occultando e dimenticando nel passare delle generazioni91.
Il film si chiuderà con l’assunzione del morto nel vivente, dell’altro nell’osservatore: dinanzi allo specchio del maquillage di scena, infine riconciliato con la propria atavica origine portoghese grazie ad una non semplice agnizione operata da una zia nel villaggio, andando oltre la differenza della lingua (tema a venire di Um Filme Falado) ed aiutati dal contatto d’un braccio e d’una mano nello scorrere del sangue fra le generazioni (è ancora NON a far ritorno), l’attore si appresta a far ingresso in palcoscenico non senza prima voler recitare una filastrocca appresa in viaggio da una popolana, voce della memoria collettiva. Quei versi accompagnano adesso anche in lui la memoria d’una statua incontrata nel tragitto, tal Pedro Macau che sorregge inginocchiato una trave sulla spalla, trave della fatica del vivere depositata in filastrocca nella memoria collettiva. Eu sou o Pedro Macau / Que as costas tem um pau / Passa por aqui muito patego / Uns de focinho branco / Outros de focinho negro / E ninguém me tira deste degredo. Sono Pedro Macau / Che sulle spalle ha una trave / Passano di qui molti babbei / Alcuni col grugno bianco / Altri col grugno nero / E nessuno mi toglie da questo tormento.
Il «caso» di Pedro Macau è anche il suo, e adesso il viaggio è davvero concluso, il principio del mondo – la lotta 91. I, A Montra das Tentações, 1996, p.148.
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contro la fatica del vivere e le sue metamorfosi – s’è fatto presente, l’attore è pronto per entrare in scena un’ennesima volta… Tu n’es déjà plus toi. Tu es un autre». Tu già non sei più tu. Tu sei un altro92.
Je rentre à la maison Ma il tema della memoria, stavolta veduto nella prospettiva del singolo, è presente anche in Je rentre à la maison (Ritorno a casa, 2001). Uno spoglio manichino in legno nella stanza che dà accesso al palco: questa è la metamorfosi cui va incontro un anziano attore (Michel Piccoli), famoso e ricco d’affetti, il quale, chiusa la rappresentazione di Le roi se meurt di Ionesco, riceve la notizia della morte di moglie, figlia e genero in un funesto incidente d’auto. Film sull’assenza e sul divenir-fantasma, quest’opera è una «non-storia, una sorta di parabola»93 nella quale l’attore vive una laica via crucis, dolorosa e solitaria come tutte, insomma un’uscita di scena, solo a tratti punteggiata dalla compagnia del nipotino unico superstite, col quale abita una bella casa sul bordo esterno d’una Parigi soleggiata ed opulenta, recente teatro di festeggiamenti d’inizio millennio. L’attore perderà non poche cose, a cominciare dalle scarpe appena comprate, sottrattegli assieme a soldi ed orologio da un balordo nella deserta notte cittadina. A nulla serviranno le attenzioni festanti di fan che lo riconoscono in strada, né quelle offerte dai gioviali camerieri del café che frequenta. Meno ancora sortiranno effetto quelle, più o meno interessate, dell’agente (Antoine Chappey) che cerca di offrirgli nuovi stimoli: non andranno a buon fine né profferte sentimentali (il possibile rapporto con un’attrice giovane, Leonor Baldaque), né quelle lavorative in fic92. TA, Préface, 1997 (=T17, p. 40). Si vedano i dialoghi del film in M. de Oliveira, Voyage au début du monde. Dialogues, Paris, Alpha Blue, 1997. Cfr. l’inserto fotografico. 93. T17, p. 49.
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tion tv tutte azione, violenza e sesso; e neppure quella di sostituire in extremis un collega in un film d’arte da recitare in inglese. È proprio nel bel mezzo delle prove di quel film che l’attore perde anche il dono a lui più prezioso, la memoria, e con essa il piacere della recitazione: con la frase «Rientro a casa!» abbandona allora il set, sotto gli occhi impotenti del regista (John Malkovich) e dell’intera troupe. Con il vestito di scena e sempre truccato, deambulando per vie e cafés della città, a tratti ancora recitando a voce alta, l’attore raggiunge infine la casa e sale in camera sua, sotto gli occhi interrogativi del nipotino. Qui passa il testimone fra le generazioni. Film per lunghi tratti non dialogato, fra i suoi segreti mantiene anche quello del rapporto con la parola, che appare infine superflua nell’incontro conclusivo: anche la gloria del parlare si rivela vana! Eppure, per una parola che comincia a tacer per sempre, ce n’è un’altra ch’è agli inizi della corsa… Nello scambio degli sguardi è il segreto della vita.
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Estetica del fantasma, o «teatro vitale»
La posizione filosofica di Oliveira, esemplificata anche nei film da ultimi evocati, ha uno stretto legame con una dimensione fantasmatica, e dunque propriamente visiva, l’immagine portando sempre con sé la massa dei dettagli che la costituiscono («quale bicchiere, quale tavolo?»). Al cinema, l’idea non può far a meno del rapporto con l’immagine, e si è già letto che, per Oliveira, il linguaggio in genere è da sempre in rapporto ad un’immagine. Questo è il senso dell’affermazione di Oliveira, che ciò che di cui abbiamo esperienza è sempre, in qualche modo, già «passato»: non solo nel senso che il presente non può mai essere afferrato, poiché sempre trascorre nel passato (è il problema di Agostino nelle Confessiones94); ma soprattutto nel senso di quello che lui chiama «teatro vitale». Il teatro vitale è estremamente legato alle convenzioni. Se non avessimo in noi delle convenzioni (che rimangono grazie all’educazione), noi non comprenderemmo nulla dei gesti, dei movimenti… Quando passa un auto, dico: è un auto, va a destra o a sinistra… Se l’auto investe qualcuno, riconosco i movimenti, i gesti di terrore, di sofferenza. Non potremmo comprender nulla senza questa alienazione nelle convenzioni. Non distingueremmo nulla, i movimenti non avrebbero senso e sarebbero sempre gli stessi. Insomma, voglio dire che il teatro preesiste nella vita. Per noi, come spettatori, tutto ciò che vediamo si presenta come teatro.95.
94. Agostino, Confessionum liber XI, 14 e 18. 95. T20, p. 85.
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Come si legge, il concetto di «teatro vitale» è legato a doppia mandata a quello di «convenzioni» le quali, specifica Oliveira, «rimangono grazie all’educazione». Le convenzioni sono dunque le «abitudini della vita sociale», come le chiamava Halbwachs, e ancora «le lezioni che ci dà, senza sosta, e da subito, la società»96. È questo il legame del singolo con «l’esperienza collettiva, ben più stabile e meglio organizzata e ben più estesa della sua»97, ovvero i «quadri collettivi della memoria» ai quali il pensiero individuale partecipa nel fare costante esercizio di memoria. Un’esperienza che è esperienza di «pensiero in comune attraverso il linguaggio98, strumento sociale per eccellenza, esterno al singolo (lo si è già visto in Parain), e dunque regola per un uso, al contempo, estremamente individualizzato. Infatti, secondo Halbwachs, qualsiasi forma d’esperienza individuale è legata a doppia mandata ai quadri della memoria collettiva che si esprimono nel linguaggio: Quando s’impara ad eseguire un movimento un po’ complesso non è sufficiente osservare l’attitudine e i gesti, per esempio di uno schermidore o di un ballerino: non si vedono realmente le loro evoluzioni se non si è capaci di descriverle, vale a dire allorché ad ogni movimento semplice si fa corrispondere una parola, e si ricollegano le parole, le si organizza, in modo da riprodurre i rapporti che legano, di fatto, quei gesti elementari. Così, quale che sia la specie di immagine di cui si tratta, verbale, uditiva o visuale (fatta ogni riserva sull’esistenza reale e distinta di queste immagini), lo spirito è sempre costretto, prima di vederle, a comprenderle e, per comprenderle, a sentirsi quantomeno in grado di riprodurle, di descriverle, o di indicarne i caratteri essenziali con l’aiuto delle parole99.
96. M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire [1925], Paris, Albin Michel, 1994, p. 62. 97. Ivi, p. 59. Si veda B. Péquignot, Le travail de la mémoire et l’appréhension de ce qui fait lien social chez J-L. Godard, in G. Delavaud – J-P. Esquenazi – M-F. Grange [a cura di], Godard et le métier d’artiste, Paris, L’Harmattan, 2001. Su Godard e Halbwachs si veda anche Nisio, Comunità dello sguardo, cit., p. 59 ss., 87 ss. 98. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, cit. p. 53. 99. Ivi, p. 63.
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Si legga adesso Oliveira, esattamente in rapporto alle proposizioni di Halbwachs: La vita è già rappresentazione di se medesima. Noi siamo spettatori. Quando andiamo a un ballo, ad una festa, quando assistiamo ad una corsa di automobili… insomma, quando vediamo qualcosa: siamo spettatori. Siamo dentro uno spettacolo, dentro una rappresentazione… vitale. Vitale perché originale. Vitale perché non già rappresentazione di altra cosa, bensì rappresentazione di se stessa. Questo è ciò che chiamo pre-teatro. Ed è perché esiste questo pre-teatro che la rappresentazione teatrale è possibile. Quel che il teatro rappresenta sulla scena non è diverso dalle convenzioni. Quel che si prende dalla vita, lo si mette nuovamente sulla scena. Questo è un punto importante100.
Per Oliveira le convenzioni sociali, le abitudini condivise, tutte sempre articolate dalla memoria collettiva che si esprime attraverso il linguaggio, sono forme di rappresentazione che la vita dispone di se medesima – e «vita», nel caso del vivente uomo/donna, equivale a «società». Ecco cosa significa l’espressione «teatro vitale» o «pre-teatro»: si tratta delle convenzioni sociali, cioè delle rappresentazioni collettive alle quali ogni singolo si subordina – meglio: che ogni singolo interpreta, come fosse un attore alle prese con un testo –, quelle convenzioni che rendono possibile la vita associata. Si legga adesso come Oliveira colleghi tutto ciò al cinema, in una sequenza che tiene insieme vita, teatro, cinema: Cosa fa il cinema? Filma lo spettacolo della vita, oppure quello della scena. Ci sono due cose: la vita da una parte, la scena – vale a dire il teatro – dall’altra. Di conseguenza, io utilizzo la parola «teatro» per opposizione alla parola «vita». La vita è la rappresentazione vitale, mentre il teatro è una falsa rappresentazione, ripetizione della rappresentazione vitale. Tutti gli spettacoli, tutte le rappresentazioni artistiche, pittura musica cinema ecc., sono dal lato del teatro. Esse non sono mai la vita stessa. Anche quando filmo l’attualità, ad esempio l’arrivo del presidente della Repubblica…: è un bel dire che si tratti di 100. T20, p. 85-87.
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realtà, non appena passo alla proiezione non si tratterà più di realtà bensì di un fantasma. Un quadro, una scultura sono rappresentazioni d’una realtà concreta, oppure d’una realtà psicologica, immaginaria…101.
Si noti la comparsa della nozione di «fantasma» nel testo di Oliveira, che è nozione filosofica, equivalente come si è letto a «visione, figura» in greco, e dunque rappresentazione, ri-presentarsi, «esser (nuovamente) innanzi», il prae di presenza. Quel che sempre è presente nella vita, allora, sono «fantasmi». La parola «teatro» per me possiede, allo stesso tempo, una definizione opposta a «vita»; la vita è quel che noi tutti viviamo, e il teatro è quel che ripete la vita. C’è come un bisogno interiore, molto forte nell’uomo a causa della memoria che fugge, di rifare quel che ha visto, quel che è accaduto e che lo ha impressionato. Questo bisogno, per me, è la giustificazione degli artisti. […] Il teatro usa l’autentico campo/controcampo. A teatro non c’è nient’altro che la scena e l’orchestra, coi suoi posti a sedere. Gli attori salgono sulla scena per rappresentare all’indirizzo del pubblico, dell’orchestra. Il pubblico si siede giù, nell’orchestra, per assistere ad una rappresentazione messa dinanzi a lui. Questo tipo di teatro all’italiana è molto chiaro e intelligente. Lì c’è una linea divisoria: voi siete là per veder rappresentare, noi siamo qui per rappresentare a vostro beneficio. Da quel lato ci siete voi che guardate, dall’altro sono rappresentate cose simili alla vita, eppure non siamo la vita. Nella vita siamo tutti insieme102.
La vita, lo si sarà compreso, è un dato d’esperienza, è un sentimento che mai si ri-presenta per il semplice motivo che mai viene meno, mai si assenta dallo spazio del vivente. In più, dice Oliveira, nella vita si esiste dentro una massa indifferenziata, come si è letto: «nella vita siamo tutti insieme». Noi siamo parte di questa massa, del «tutti» che ci circonda da ogni lato. Certo, con tale dimensione collettiva non si può «fare» nulla – men che meno politicamente103 –, 101. Ivi, p. 87. 102. Ivi, p. 85-87. 103. Cfr. retro, p. 49-55, la «conversa indirecta» con Deleuze sul tema del «popolo che manca», in particolare la sottolineatura di Oliveira a proposito del «“Popolo” sacro che come popolo non può appartenere a
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essa sfugge alla presa perché è la vita stessa che scappa, ci precede sempre e, in certo senso, non esiste: è la vita ad essere fantasma. La vita è una serie di momenti che sono sempre passati, i quali già non esistono più al momento in cui hanno luogo. La vita esiste un istante, noi non la conosciamo. Sono il teatro e l’arte che ce la rivelano. Quel che a noi rimane della vita sono solo dei segnali, e la loro comprensione […], che l’uomo ha appreso attraverso certe convenzioni. Ciò che io prendo al cinema sono questi riti, queste convenzioni, i mezzi che noi abbiamo di comunicare qualcosa. […] Quel che registriamo sono i segnali che ci informano sulla vita, che definiscono una società, che distinguono un uomo da una donna. Tutte queste convenzioni, di cui non teniamo troppo conto, sono ciò che era trasportabile dalla vita al teatro, poi al cinema. Anche in un documentario, e nella vita, c’è un lato teatrale: esattamente tutte queste convenzioni di rappresentazione104. Per me è sempre più chiaro che il teatro è la vita. Il teatro è possibile solamente perché la rappresentazione è contenuta nella vita. Ciò che chiamiamo «teatro» non è altro che l’operazione consistente nell’isolare la rappresentazione. C’è una frase di Goethe che amo molto: «L’arte si chiama arte per non essere la vita». È molto bella. […] Il cinema è dal lato dell’immateriale. Nessuno può garantire che La sortie de l’usine Lumière non abbia a che vedere con la messa in scena, e dunque che un’équipe di cinema dirigesse le comparse e qualcuno urlasse in un altoparlante: «Andate! Uscite!» Ciò non può esser deciso in base all’immagine. A partire dal momento in cui si fa una rappresentazione, si tratti di guerra, sogno o diavolo, tutto diventa realtà. La rappresentazione della vita è una verità e, al
nessun umano», dato che – si potrebbe aggiungere – è un popolo che appartiene a tutti, coincide con le molteplici singolarità umane viventi. L’espressione di Oliveira è radicale nel negare legittimità ad appropriazioni «populiste» delle realtà politiche, e cioè particolarizzanti, etnocentriche, tribali, religiose, fra le quali quelle «cristiane» e religioso-totalitarie (si pensi al tema Inquisizione in A Divina Comédia e Palavra e Utopia, oltreché in svariate dichiarazioni scritte e orali). Sul tema «Popolo di Dio» in chiave «populista», cfr. N. Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 85 ss. 104. I, Cahiers du cinéma, 1986, p. 13.
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teatro, questa verità nuova è direttamente presentata sulla scena. Al cinema, invece, rimane solo il fantasma di questa verità105.
Così suona il verso d’un poema scritto da Oliveira: Por isso, / ouso a contradição / de que a vida não existe, / mas existe apenas / o que fica do seu teatro – arte Per questo, / oso la contraddizione / che la vita non esiste, / ma solamente / ciò che resta del suo teatro – arte106.
Qui diventa chiaro come tutta la produzione artistica di Oliveira sia sotto il segno del «fantasma come realtà»: come nella vita c’è rappresentazione (anzi, la vita stessa è per intero rappresentazione, convenzione sociale, abitudine condivisa), e dunque il reale è da noi vissuto attraverso la rappresentazione; così anche la rappresentazione diventa realtà, il fantasma tocca la sfera della verità. Ma adesso si deve comprendere come questo «fantasma» di cui parla Oliveira altro non sia che rito, rituale, dunque rappresentazione della quale noi siamo sempre partecipi. Oliveira ha più volte sottolineato il proprio debito verso il cinema giapponese su questo tema: Noi viviamo attraverso certi rituali. Sono i rituali a fare la vita. Ci sono regioni o paesi che conservano molti di questi rituali. Sono dei forti punti di riferimento. Mi ricordo di un film giapponese in cui tutta una famiglia si riunisce. Si parla in primo luogo di cose trascendenti: la vita, la guerra, si fanno affermazioni filosofiche, poi si parla di quel che accade nel paese. Infine il più anziano dice: «Bene, adesso parliamo delle cose più importanti». E cominciano a parlare della famiglia, della salute; s’inquietano di sapere se si dorme bene, se si mangia bene… Il rituale è molto significativo. Oggi, per esempio, non si fa più uso del cappello. Nel tempo, quando ci s’incontrava per strada, ci si levava il cappello. Come gesto non vale niente, come rito è molto. Si tratta, a mio parere, del principio cinematografico. Questo movimento è la continuità del rituale. 105. I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 55-57. 106. TA, Poema cinematográfico, in T8, p. 110 [=T17, p. 16].
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Se non conosciamo il significato, il movimento è inutile. Bisogna comprenderlo. Ecco cosa fa la grandezza del cinema giapponese, il fatto che è pieno di rituali. […] Io sono stato molto segnato dal cinema giapponese. Penso anche che il cinema giapponese abbia dato un’enorme quantità di cose al cinema europeo. Il cinema è un procedimento audiovisivo di fissazione. C’è dunque bisogno di qualcosa da fissare. […] Il cinema giapponese, come il nô e il kabuki, è nutrito di rituali della vita, come il rito del thé. Diviene allora facile fare un cinema molto espressivo, per noi esotico. Il cinema giapponese ha approfittato di tutte queste tradizioni per comprendere quel che doveva fissare, e questo gli ha fornito una tecnica107. «Questo movimento è la continuità del rituale», dice Oliveira, e ne parla come di un «principio cinematografico». Si tratta, dunque, dell’azione dello spirito, cioè della vita che si vive, quel «tutti insieme» che è sentimento, emozione, e-movere o, appunto, movimento che sempre sostiene le singolari prospettive sull’esistenza. Oliveira ritorna altrove su questa «estetica del fantasma»: L’immagine è una cosa molto concreta, ma serve a mostrare cose immateriali. Si vedono dei fantasmi: personaggi che hanno finito di esistere, che forse sono già morti, ma hanno un’apparenza e un corpo concreto […]. Il cinema è un fantasma della vita e non ci lascia altro che qualcosa di sensibile e concreto: le emozioni. È per questo che non ci si può affatto affidare all’immagine, essa parla solamente di fantasmi e per questo io ho sempre bisogno di aggiungere parole, documenti, musica. […] L’immagine, per esempio, non poteva servir da sola a raccontare la morte di Camilo Castelo Branco [ne O Dia do Desespero], si sarebbe trattato solamente d’una ricostruzione, come un manichino di cera in un museo con indosso costumi di un’altra epoca. A quell’immagine non si dovrebbe 107. T7, p. 36-39. Questi temi sono ripresi anche in T31, p. 179-180 e in T7, p. 80. Su Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, cfr. ivi, 39-40; I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 58-59: «Mizoguchi è formidabile…». Cfr. anche infra, p. 204-205. Sulla rilevanza dei riti per il cinema, anche quando si osservano con necessario sarcasmo quelli religiosi e familiari, cfr. V. Fantuzzi, Marco Bellocchio tra sacralità e dissacrazione, in A. Aprà [a cura di], Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Venezia, Marsilio, 2005. Un ricordo personale: Oliveira che fa l’elogio de I pugni in tasca durante il Bari Film Stage 2006.
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creder troppo. Allo stesso tempo, solo un’immagine può mostrare concretamente una ruota del XIX secolo, una pistola, un sigaro, sicché bisogna affidar ad essa non poche cose. Credo che un film debba rimanere in equilibrio tra un’immagine a cui non è possibile affidarsi, e la stessa immagine cui bisogna affidare molte cose. Come si vede si tratta di qualcosa di complicato, come dice Deleuze108.
E alla domanda su cosa permetta, data la natura dell’immagine, di dar fiducia al cinema nel suo parlare e pensare con le immagini, il cineasta risponde: È quel momento di magia che chiamiamo proiezione, nel quale si è affascinati dall’immagine che trema dinanzi a noi e le si affida il proprio spirito di credenza. Prima, dopo – è possibile recuperare il proprio spirito; ma durante la proiezione bisogna dar fiducia all’immagine, ed è l’unico momento di cui il cineasta beneficia per conquistare la fiducia dello spettatore. Questo momento tende oggi a contrarsi sempre più. La proiezione non ha più tanta rilevanza come una volta. Si vanno a vedere film in modo sempre più frettoloso, con meno attenzione, non proprio animati dalla disponibilità a dar fiducia se ciò non avviene a colpi di effetti visivi ed ambienti sonori spettacolari. La proiezione, di fatto, non basta più. Quand’ero giovane, tutto il pubblico era disponibile per tutto il cinema, per tutti i generi cinematografici. La proiezione riuniva persone molto differenti con molto maggior facilità. I film stranieri, quelli insoliti, quelli letterari, radunavano le persone tramite il solo potere di magia e di tremore offerto dalla proiezione. Non si comprendeva necessariamente tutto, ma si guardavano, si assaporavano, si gustavano – spesso molto affascinati – tutti i film: da John Ford a Mauritz Stiller, da Chaplin ai film italiani, francesi, tedeschi, ai western. Oggi le persone, i diversi pubblici, sembrano specializzati e concentrati su un tipo particolare di film e di universo. Non si dà più fiducia ad immagini giudicate estranee al proprio ristretto ambito. La credenza nel cinema è molto diminuita e ciò è terribile, poiché ciò che c’è di più bello nell’uomo è la sua umanità, la sua capacità di dar fiducia agli altri, di guardare le immagini degli altri. Se si toglie questo, tutto crolla109.
108. I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 44. 109. Ivi, p. 44-45.
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Mon cas Quello da ultimo descritto è, propriamente, il caso del rituale cinematografico. Su di esso Oliveira ha riflettuto in un film, Mon cas (Il mio caso, 1986). Il «caso» di cui parla il film, in effetti, è il caso della rappresentazione rituale: le metamorfosi della scena audiovisiva (teatro, cinema, video). Certamente la problematica al centro del film è essenzialmente «estetica»110, ma appunto nella misura in cui, con Wittgenstein, «etica ed estetica sono uno»: il «mio» caso, sembra dire Oliveira, è quello di tutti coloro (registi, sceneggiatori, attori) che devono confrontarsi con la sofferenza dell’uomo e del mondo attraverso la messa in scena, il rito – collettivo, come tutti i riti – della sua rappresentazione. Tema eminentemente religioso, in effetti, ma d’una religione impura, quella del cinema. Tre sono i testi che ispirano il film nelle sue quattro parti, tutte intese come «ripetizioni» o «prove»111 e tutte precedute da un ciak a sipario abbassato, la prima preceduta anche da un’inquadratura sull’équipe di cinema che si posiziona in platea per iniziar le riprese. Si comincia con la messa in scena frontale della pièce di José Régio che dà titolo al film: sul palcoscenico vuoto di un teatro, ben arredato in stile déco, compare un estraneo (Luís Miguel Cintra) che rivendica il diritto ad esporre il proprio caso, «atroce ed esemplare». Non si saprà di cosa si tratti, né mai la pièce programmata prenderà avvio, perché subito compaiono altri personaggi (il guardiano del teatro, un’attrice, altri attori, l’autore della pièce, anche uno spettatore che monta dalla sala vuota), altrettanto determinati nel raccontare il proprio caso in un terribile, egocentrico disaccordo – non lontano, in senso drammatico, da quello di A 110. M.S. Fonseca, O Meu Caso, in T5: «Nel film si percepisce una fiducia illimitata nella rappresentazione, quasi che si ammetta che non vi è esterno della rappresentazione. Se, a mio parere, la problematica della pièce di Régio era di tipo “etico”, quella del film è tout court “estetica”: cos’è la geometria cinematografica, come si arriva alla “costruzione legittima”?». 111. I, Jornal de Letras, 1987, p. 18: «Il primo titolo del film era O Meu Caso–Repetições, e ciò aiuterà a comprendere perché la pièce, la cui durata supera di poco i venti minuti, viene ripetuta due volte».
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Caça – che ha termine solo quando tutti insieme gridano «Sipario!». Si chiude la prima ripetizione. La seconda ripetizione consiste nella ripresa della prima, ma differente ne è l’inquadratura, subito i colori scompaiono dall’immagine, il sonoro cessa, gli attori (fra i quali una splendida Bulle Ogier) si muovono in accelerato, la rappresentazione si trasforma in muto film d’epoca bianco e nero che scorre a velocità sbagliata, con esilaranti momenti da comica ed un sonoro che rivela tutte le imperfezioni d’un proiettore anni Venti. Accompagnata da musica, una voce off legge un testo di Beckett112. Ciak sulla terza ripetizione della stessa rappresentazione iniziale: cambiano gli angoli di ripresa, c’è colore, un altro ritmo, però stavolta la banda sonora è invertita. A un certo punto, dalla platea sale un giovane che allestisce un banco per proiettare immagini di guerre, fame nel mondo, catastrofi ecologiche, esecuzioni capitali – che sono anche immagini di «cinema nel cinema». Guernica di Picasso chiude la terza parte, e ancora una volta scende il sipario. Si è sull’orlo dell’apocalissi. Quarto ciak: adesso si tratta della rappresentazione della vicenda di Giobbe, e il testo di riferimento è la Bibbia. In scena con la moglie, Giobbe è ricoperto di piaghe ed è circondato da grattacieli, spazzatura e carcasse d’auto, uno scenario postatomico. Lo incalzano quattro personaggi (già attori, come anche Giobbe e la moglie, nelle repliche precedenti). Il tema della contesa è noto. E Dio interviene, parlando attraverso un altoparlante fissato sul muro e con giochi di luce nella sala: il cinema mostra intere le potenze del falso da cui è abitato, capaci al contempo di restituire credenza in ciò ch’è indistruttibile, in ciò che non si vede e di cui manca certezza. Al «nichilismo» degli interlocutori risponde la resistenza sempre ragionevole di Giobbe, la sua speranza, una fede. Questa «pazienza» – che è passività liberamente assunta, e dunque esercizio di potenza – viene infine ripagata nell’inquadratura finale, ambientata nella Città ideale di Pier della Francesca, dove l’uomo pio e sua moglie son circon112. S. Beckett, Pour en finir et autres foirades, Paris, Minuit, 1976, p. 2729: si tratta del secondo dei quattro testi senza titolo scritti negli anni Sessanta, J’ai renoncé avant de naître.
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dati da un corteggio di giovani silfidi danzanti, le quali spargono petali di rosa e recano in omaggio il dipinto più famoso di Leonardo. Un travelling indietro chiude il film, mostrando la sala di teatro nella quale l’équipe è al lavoro – e Oliveira con essa –, nel mentre viene trasmessa su video l’immagine finale del film: il sorriso della Gioconda. Nella successione delle «ripetizioni» – concetto eminentemente deleuziano –, vengono dunque indicate le «epoche» della rappresentazione: teatro, cinema muto, cinema sonoro, «fissazione audiovisiva del teatro». Si comincia con la messa in scena à la Pirandello: è il contenuto della pièce di Régio, la prima ripetizione. Si passa poi alla sua restituzione visiva, muta (seconda ripetizione) poi sonora (terza ripetizione), dove l’attenzione è concentrata sulla voce e la sua «strana» articolazione in rapporto all’immagine. Si ascolti il testo di Beckett, dove si narra del rapporto tra visibile ed invisibile nella rappresentazione, un testo leggibile anche nei termini della natura fantasmatica del gioco fra quel che è materiale, il teatro, e l’immateriale, cioè l’immagine nel rapporto complesso con la parola. «Morto» il teatro come «falsa» rappresentazione, separata ed esterna rispetto all’osservatore; esso continua a vivere nel cinema che lo racconta fissandone l’immagine, «fantasma di verità». Quel cinema, in effetti, che era al suo interno da sempre. Ho rinunciato prima di nascere, non è possibile altrimenti, bisognava tuttavia che nascesse, fu lui, io vi ero dentro, ecco come vedo la cosa, è lui che ha gridato, è lui che ha visto il giorno, è impossibile ch’io abbia una voce, è impossibile ch’io abbia dei pensieri, ed io parlo e penso, faccio l’impossibile, non è possibile altrimenti, è lui che ha vissuto, io non ho vissuto, lui ha vissuto male, a causa mia, racconterò questo, racconterò la sua morte, la fine della sua vita e la sua morte, via via, al presente, la sua morte da sola non sarebbe abbastanza, non mi basterebbe, se rantola è lui che rantolerà, io non rantolerò, è lui che morirà, io non morirò, lo si seppellirà forse, se lo si troverà, io sarò dentro, lui imputridirà, io non imputridirò, non resteranno altro che le sue ossa, io sarò dentro, non sarà altro che polvere, io sarò dentro, non è possibile altrimenti, ecco come vedo la cosa…113 113. Ivi, p. 27.
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La quarta ed ultima ripetizione è quella d’una verità infine consapevolmente audiovisiva, «teatro vitale» compiutamente assunto nella rappresentazione, rituale d’un discorso a più voci in cui l’uomo si riflette consapevolmente, specchio in cui vede scorrere come un fiume la propria vita adesso non più interrotta al limite dell’individualità. Si tratta dell’immagine video finale, inquadratura di inquadrature che vanno all’infinito: partendo dalla scena teatrale dov’è Giobbe, passando al video ch’entra in scena riprendendo la Gioconda, giungendo infine al cinema in travelling all’indietro come immagine d’immagini, «sintesi di tutte le arti», immagine che tiene insieme tutte le altre. Meglio ancora: sguardo infine liberato perché si riconosce in mille sguardi, molteplice, plurale, prospettico.
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Straordinaria la consonanza delle tesi oliveirane con la riflessione di un altro filosofo francese suo contemporaneo, Derrida. Anche in questo caso – come già si è visto per Deleuze –, si può dire che l’opera cinematografica e di pensiero di Oliveira sia proceduta in maniera indipendente dalla riflessione strettamente filosofica (intendo, i libri) di Derrida. Nel 2001, Derrida aveva rilasciato un’intervista ai Cahiers du cinéma intitolata Le cinéma et ses fantômes, nella quale aveva affrontato alcune questioni concernenti lo statuto dell’immagine cinematografica. L’esperienza cinematografica appartiene per intero alla spettralità, che io ricollego a tutto ciò che dello spettro si può dire in psicanalisi – o alla natura stessa della traccia. Lo spettro, né vivo né morto, è al centro di alcuni miei scritti, ed è in ciò che per me sarebbe forse possibile un pensiero del cinema. […] Il cinema può mettere in scena la fantomalità pressoché frontalmente, certo, come una tradizione del cinema fantastico, i film di vampiri o spettri, alcune opere di Hitchcock… Bisogna distinguere ciò dalla struttura per intero spettrale dell’immagine cinematografica. Ogni spettatore, durante una proiezione, si mette in comunicazione con un lavoro dell’inconscio che, per definizione, può essere avvicinato al lavoro dell’ossessione secondo Freud. Lui la chiama esperienza di ciò che è «stranamente familiare» (unheimlich). La psicanalisi, la lettura psicanalitica, è a casa propria al cinema. Innanzitutto, cinema e psicanalisi sono davvero contemporanei; numerosi fenomeni 177
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legati alla proiezione, allo spettacolo, alla percezione dello spettacolo, posseggono equivalenti psicanalitici114.
Dopo aver segnalato come già Benjamin avesse percepito tale vicinanza, Derrida continua sottolineando l’importanza della percezione del dettaglio nei due campi, dettagli (per esempio l’ingrandimento) che «danno accesso a un’altra scena, una scena eterogenea». Egli sottolinea anche la prossimità esperienziale, pratica, fra cinema e psicanalisi: ipnosi, fascinazione, identificazione, tutti procedimenti comuni, segni d’un «pensare insieme» costitutivo dei due campi. La stessa durata d’una proiezione è di poco superiore alla durata di una seduta psicanalitica: Ci si va a far analizzare al cinema, facendo apparire e parlare tutti i propri spettri. È possibile, in modo economico (per rapporto ad una seduta psicanalitica), lasciar gli spettri ritornare sullo schermo.
Ma quel che maggiormente mostra una prossimità con la riflessione oliveirana è la discussione del tema della credenza al cinema (cfr. retro p. 153, n. 77), cosa che dà una dimensione più legata all’antropologia, o anche alla sociologia, al pensiero di Derrida, rendendo maggiormente «sociale» – e dunque lacaniano – l’inconscio del quale egli ha parlato a proposito di Freud. Al cinema vi è una modalità del credere assolutamente singolare: un secolo fa è stata inventata un’esperienza della credenza senza precedenti. Sarebbe appassionante analizzare il regime del credere nelle diverse arti: come si crede ad un romanzo, a certi momenti di una rappresentazione teatrale, a ciò che è inscritto nella pittura, e sicuramente, cosa che è di tutt’altro tipo, a ciò che il cinema ci mostra e ci racconta. Al cinema si crede senza credere, ma questo credere senza credere rimane un credere. Si ha a che fare, sullo schermo, con o senza le voci, con delle apparizioni alle quali, come nella caverna di Platone, lo spettatore crede, apparizioni che a volte idolatra. Dato che la dimensione spettrale non è né quella del 114. J. Derrida, Le cinéma et ses fantômes, in Cahiers du cinéma, 556, 2001, p. 77.
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vivente né quella del morto, né quella dell’allucinazione né quella della percezione, la modalità del credere che vi si rapporta dev’essere analizzata in un modo assolutamente originale. Questa fenomenologia non era possibile prima del cinematografo, poiché quest’esperienza del credere è legata ad una tecnica particolare, quella del cinema, è storica dall’inizio alla fine. Dotata, in più, di quest’aura supplementare, una memoria particolare che ci permette di proiettarci nei film d’una volta. Ecco perché la visione del cinema è così ricca. Essa permette di veder apparire nuovi spettri e al contempo mantenere in memoria (proiettandoli a loro volta sullo schermo) i fantasmi che assillano i film già visti115.
Derrida fa qui riferimento agli «innesti di spettralità» che appaiono nei film (personaggi ossessionati dalla storia delle rivoluzioni, per esempio; ovvero fantasmi che risorgono dalla storia in genere e da altri testi: leggende della conquista del Far West, la nascita del cinema, i libri, i quadri), dunque alle «tracce di fantasmi» inscritte su una trama complessiva, e inscritte peraltro su una pellicola che è essa stessa già fantasma. Magnifico lavoro del lutto, dice il filosofo: l’esser gettati nel lutto attraverso la storia e il cinema grazie a personaggi che sono «corpi innestati di fantasmi, i quali [costituiscono] la materia stessa degli intrighi del cinema» in opere che fanno ritornare spesso la «memoria spettrale di un’epoca». «Il cinema ha il peso dei propri fantasmi»116… Che Oliveira conosca alcuni concetti centrali dell’opera del filosofo è peraltro attestato dall’intervista concessa a Leon Cakoff nell’ottobre 2004, qualche settimana dopo la scomparsa di Derrida, non per caso intitolata Mémoria e Desconstrução117. In essa si legge: Ho avuto occasione di conoscere personalmente Jacques Derrida, il filosofo della decostruzione118. 115. Ivi, p. 78. 116. Ivi, p. 78-79. Derrida ha scritto in tema un’opera famosa, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993; trad. Spettri di Marx, Milano, Raffaello Cortina, 1994, nella quale compaiono fantasmi ben noti della letteratura mondiale, quelli che abitano le opere di Shakespeare. E poi lo «spettro che si aggira per l’Europa», il quale apre un testo altrettanto noto di Marx. 117. Si veda in T22, p. 21 ss. 118. Ivi, p. 70.
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Nell’intervista, Oliveira esordisce ricollegandosi alla sua propria riflessione sul rapporto tra parola e immagine, e dunque sul «fantasma della realtà» – ovvero una «realtà filmica» e non una «realtà reale»119 – offerto al cinema dal «rituale» o «gioco» fra immagini, parole e suoni: un rituale nel quale l’immagine serve da maschera per mostrare quel che non può esser mostrato: l’anima, i sentimenti, lo spirito, i quali non hanno corpo e non possono esser filmati120.
In effetti il cinema, essendo molto concreto, non può filmare i fantasmi, ma solamente quel che si mette dinanzi alla cinepresa. Pur essendo molto concreto, nondimeno esso opera una sorta di miracolo: si mettono le cose, il movimento, si filma il tutto e lo si rivede e, come per miracolo, si assiste a un atto di stregoneria121.
Anche in merito al «dettaglio», nel cinema, Oliveira si era già espresso qualche anno prima, nell’intervista con Daney e Bellour: Per lungo tempo ho pensato che il cinema fosse anzitutto sguardo: ma invero è uno sguardo che un po’ guarda, un po’ smette di guardare. Si vede una porta, s’intravede una strada… ci si dirige verso la strada… si fanno alcuni passi sul marciapiede, segue un travelling… si guarda verso l’alto, asse verticale, trenta piedi… Si ha l’impressione di un flusso continuo, ma in verità non avviene mai così. In questo percorso, alcune cose m’interessano davvero e altre no: effettuo dunque una specie di sintesi che costruisce il tempo altrimenti. Per esempio, noi guardiamo lo specchio al lato della porta, ma – per non so quale associazione d’idee – passiamo attraverso la porta chiudendo gli occhi, senza vederla. Ecco la sintesi. È il principio stesso del montaggio, del découpage. Noi riuniamo tutto ciò che vogliamo guardare, operando una sorta di concentrazione di tempo. Andiamo direttamente alle cose che vogliamo vedere e lasciamo cadere le altre. Mi domando 119. T12, p. 35. 120. T22, p. 69-70. 121. T20, p. 84.
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spesso se davvero quel che lasciamo cadere non abbia importanza; e perché rigettiamo in secondo piano quel che forse dovremmo mantenere … Alcuni film indiani sono così, molto lunghi. Ne ho visto uno che non m’interessava molto, ma a poco a poco è riuscito ad attirare la mia attenzione grazie a una serie di piccole cose che, a prima vista, non mi dicevano niente. Prendere in conto queste piccole cose significa, in un certo senso, complessificare il tempo all’interno del cinema. Nella vita è quasi lo stesso122.
Ma si torni all’intervista brasiliana: dopo aver offerto l’esempio di un impiego di simboli per «andare al di là e dire un’altra cosa», provare a dire l’indicibile: Una posizione può simularne un’altra, facendo passare da un punto all’altro. Ad esempio, per dire ceu, «cielo», l’inglese dice sky, ma anche heaven. Però lo heaven sta al di sopra dello sky. Io non posso filmare lo heaven, ma sì lo sky. Sicché filmo lo sky per mostrare lo heaven. In portoghese, la parola céu ha il doppio significato123,
Oliveira menziona la distinzione derridiana tra «ente» ed «essere». L’«ente» [in portoghese «ente»], esprimendoci in forma semplicistica, è il fisico, e l’«essere», il ser, è lo psichico; insomma corpo e anima, dove anima vale per spirito. Tuttavia, ente ed essere sono una cosa sola, sono la persona. Nella decostruzione Derrida separa le parti, ma una parte non esiste senza l’altra – non so se mi spiego bene… Non esiste una parte senza l’altra: quando se ne toglie una, scompare l’altra. Se tolgo lo spirito, scompare il corpo; e se tolgo il corpo, scompare lo spirito. Perciò si tratta di decostruzione: perché si è costruito nell’unione delle parti. Ciò è molto interessante poiché, se davvero si vuol vedere in profondità la ricchezza di un film, si deve anche in certo modo decostruirlo. Attraverso quel che si vede si dà quel che non si vede [Através do que se vê há o que não se vê]. Derrida viveva in America del Nord ma era francese, e in francese non esistono due parole distinte per «ente» ed «essere» come in portoghese, ma c’è solo être, che vale tanto per 122. I, Chiméres, 1991, p. 135-136. 123. T22, p. 70.
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«ente» quanto per «essere». Di modo che la decostruzione si fa nella costruzione. Al contrario di sky ed heaven, il portoghese ha solo una parola, céu, «cielo», e non separa le due cose. È curioso come esistano espressioni in una lingua e non nell’altra. A volte è difficile trasportare il pensiero da un lato all’altro… […] Per quanto sia un po’ più difficile da comprendere, al cinema esistono il ser (essere) e l’être (ente). La gente vede l’ente ma le si sta mostrando il ser, l’essere; ovvero si sta mostrando l’essere ma per offrire una visione dell’ente. È difficile spiegare quest’ipotesi concernente quel che vediamo nel mentre esso non si sta mostrando, e trasporla in idee formate con immagini. Diceva il filosofo greco – si tratta d’una frase che lessi in un libretto inglese di pensieri comperato da mia moglie: «You cannot think without a picture», «Non si può pensare senza un’immagine» (Aristotele). Ora, invertiamo le posizioni: quando vediamo una picture, quando guardiamo un quadro, esso ci suggerisce un’idea. Stiamo guardando una cosa e ne pensiamo un’altra: è il caso di être, che significa essere, ma anche ente; ovvero, è il caso di ciò che la gente vede per rapporto a ciò che non vede, ma che pur presuppone in ciò che vede. Non so se sono chiaro…124.
Belle toujours Belle toujours (Bella sempre, 2007) può essere un’esemplificazione di questo discorso oliveirano. Il film contiene infatti un altro film al proprio interno, che lo spettatore non guarda ma che gli è suggerito ad ogni pie’ sospinto, a cominciare dalla dedica in esergo al film, «En hommage à Luis Buñuel et Jean-Claude Carrière», regista e sceneggiatore appunto del «film fantasma», Belle de jour (Bella di giorno, 1967). Film nel quale recitava uno degli attori qui presenti sullo schermo, Michel Piccoli, l’Husson buñueliano, che subito racconta ad un barman (Ricardo Trêpa) «una storia mai accaduta», dunque fantasmatica, fra lui e Séverine, la donna che sta inseguendo, interpretata da Bulle Ogier che «sostituisce» la Deneuve dell’epoca. Una «sostituzione» che ha un 124. Ivi, p. 70-71. Cfr. retro, p. 126-133, spec. p. 130, sul tema dell’impossibilità a pensare senza immagini, e dunque senza parole.
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senso non lontano da quella che ha luogo fra Carole Bouquet e Angela Molina in un altro film buñueliano, Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), nel gioco «oscuro» – nell’oscurità si vede e non si vede – fra sguardo e desiderio, desiderio che si fa strada attraverso uno sguardo che non «vede» le differenze. Dunque, lo spettatore costantemente pensa ad altro vedendo questo film: sempre deve far di conto con idee che s’intrecciano con un’altra storia, ma soprattutto deve far di conto col proprio desiderio fantasmatico di spettatore che sta guardando un film nel mentre ne vede, e ne pensa, un altro … Ecco il surrealismo – o meglio, il «su[per]realismo»125 – di Oliveira, il suo andare a cercare negli istinti un principio di critica della vita sociale. Istinti qui mostrati in figura, attraverso il gallo che fa la sua comparsa nel momento in cui il film ha forse svelato il proprio segreto, il segreto di un gatto, Husson, che gioca col topo, Séverine, tentando d’infliggerle un graffio letale. Sordida vita dei desideri che si esprime attraverso le poche parole d’un film per tre quarti muto, organizzato invece da un mix sonoro, musicale e visivo che, per lunghi tratti, fa a meno dell’articolazione vocale senza nulla perdere in forza espressiva, mantenendosi molto ligio ad un’estetica originaria nella storia del cinema: più volte ritorna infatti il faro nella notte, figura anch’essa di quello che apriva e chiudeva Douro Faina Fluvial126. Insomma, siamo sempre tutti sotto quel ponte, massa cittadina rinchiusa nelle proprie case e nelle proprie auto, schiavi di desideri ed istinti che solo un faro nella notte, a sprazzi, illumina127… 125. TA, Considérations sur Luis Buñuel, 2007, p. 38. «Oui, j’aime beaucoup Buñuel», T7, p. 146. Sul cineasta spagnolo si vedano i due volumi di A. Kyrou, Luis Bunuel, Paris, Seghers, 1962, e Le surréalisme au cinéma (1963), Paris, Ramsay, 1985; J. Bénard da Costa, Luis Buñuel, Lisboa, Cinemateca portuguesa, 1982; A. Bernardi, Luis Buñuel, Recco (Ge), Le Mani, 1999. Si veda ancora F. Alquié, Filosofia del surrealismo (1956), Salerno, Rumma, 1970. 126. Anche stavolta è un simbolo della modernità ad accomunare i due film nel nome di Eiffel: il ponte D. Luis I, la tour più famosa del mondo. 127. Il faro è la Tour Eiffel dotata di fascio luminoso al passaggio di mil-
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Al contempo, usciamo ed entriamo da un mondo di riti che, come un fiume, un rio (l’etimo è comune), sempre scorre implacabile, spingendoci innanzi tra rive immobili: la sala da concerto, sorta di chiesa laica dalla quale tutto prende inizio; la strada deserta della mezzanotte, con semafori che eruttano lampeggianti sembianze umane – immagini nell’immagine, fantasmi notturni – che indicano la strada128; il bar in cui ci si siede, nel posto che già fu di tanti, i quali prima di noi si son accomodati per confidarsi ad un anonimo barista; infine il ristorante esclusivo, uscito dritto dritto da un film di vampiri, camera senza tempo che ci accoglie per la cena funebre e ci trasforma in ombre nere sul pavimento, nel mentre mangiamo come muti fantasmi accompagnati dal sonoro tintinnio di forchette e coltelli129, sotto lo sguardo implacabile d’una servitù impassibile, impeccabile nella maestria del rito del servir a tavola, disincantata forse più d’un gallo biancorosso di passaggio… Inquietude Ancora: Inquietude (Inquietudine, 1998), altro film sul rito, sul «teatro vitale», sullo scorrer della vita come rappresentazione e fantasma. Tre testi letterari alla base della messa in scena filmica, con la pièce d’esordio (Prista Monteiro, Os Imortais) che è dialogo fra due «immortali», un anziano e celebre padre (José Pinto), «morto solo a metà» e dunque morto-vivente, zombie; e l’altrettanto incensato e noto figlio (Luís Miguel Cintra), che il padre – non solo con la parola, «Matate!», ripetuta più volte – cerca di far morire al vertice della gloria intellettuale, in modo da «impressionar le lennio. «L’uomo vive nell’utopia, vive per essa, ma mai giunge ad essa. Quest’incapacità ci appartiene. Ma è bene che l’utopia persista, perché non è una luce a cui afferrarsi. È come la luce di un faro, che di fronte al mare, da lontano, guida le navi. Senza utopia siamo perduti», T22, p. 47. 128. Altra citazione degli esordi, O Pintor e a Cidade: la statua col dito puntato e il vigile che regola la circolazione della folla per strada. 129. Ulteriore, delicata reminiscenza buñueliana nel richiamo sonoro delle due sequenze di Tristana ambientate nel caffè delle tertúlias, le riunioni di letterati cui partecipava Don Lope (Fernando Rey).
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masse e così durare nel tempo, perché le masse vengono impressionate dalla morte!», e infine riuscendovi, anche se «Un immortale non muore, perciò io non ho ammazzato!». Ma sarà anche lui medesimo a finir dabbasso, per un maldestro movimento accanto alla finestra. Poi il film passa a rivelarsi quale scena di teatro – pur essendosi svolta en plein air un’intera sequenza, il déjeuner sur l’herbe a tre di padre, figlio e colei (Isabel Ruth) che fu la miglior allieva di entrambi –, e si seguono due spettatori (Diogo Dória, David Cardoso) mentre lasciano il teatro, amici che vivono la bohème portuense degli anni Trenta con le molteplici relazioni sociali e i rituali che la scandiscono: in primis il legame con una «stoica» prostituta, intertemporale allieva di Marco Aurelio, Suzy (Leonor Silveira, e il nome del personaggio dà il titolo al testo di António Patrício da cui sono tratti i dialoghi), prostituta «che ha conosciuto prìncipi, ma non un solo mistico», e che muore forse sotto i ferri. Poi pranzi nei ristoranti, accompagnati da lunghe conversazioni ed esibizioni di ballo, e qui c’è una straordinaria performance di Oliveira stesso e moglie, danzatori d’un tango di Gardel di tutto punto vestiti, impeccabili nei movimenti. Infine il rito sociale dell’intrattenimento nel gioco, la roulette d’un casinò. La terza parte del film, infine, si apre quando l’amico cerca di consolare l’altro che ha perduto la cocotte, e comincia a narrare della Mâe de um Rio, titolo d’una novella della Bessa-Luís: fiaba della tradizione e di fantasia – una delle rare aperture di Oliveira al fantastico in senso tecnico –, dove si racconta d’una giovane donna (Leonor Baldaque) confinata in un villaggio sperduto fra i monti ed infelicemente innamorata d’un giovane del villaggio vicino, il quale non la può accompagnare nella vita perché il loro è legame irrituale, fuoriesce dall’ancestrale tradizione delle montagne, motivo per cui la donna è condannata a farsi magicamente madre d’un fiume, madre dunque della vita attraverso la sua narrazione, strega dalle dita dorate che si libera nel fantasma d’una vita irreale ed immortale … Da un’immagine (teatrale) all’altra (fiaba tradizionale), con nel mezzo puri scambi d’amor irreale e mercenario, è questa l’inquietudine del titolo, vita fuggevole d’immagini senza durata né consistenza, sogni evanescenti e lievi d’una quiete assente e inafferrabile. 185
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Passaggio
L’estetica del fantasma ha preso corpo nei film di Oliveira attraverso un’etica dell’incertezza, principio d’oscillazione nell’esistenza che è segno di passaggi di mondi, un «traghettare» che di continuo accade nelle nostre vite.
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Parte Terza Principio d’incertezza
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Tutti i miei film mostrano che gli uomini entrano in agonia al momento in cui giungono al mondo. Io sono un grande lottatore contro la morte. È peccato per tutti. Nessuno sarebbe mai dovuto morire. Il peggior delitto non meritava la morte, e senza il riconoscimento della morte non ci sarebbero mai stati i peggiori delitti. Canetti, Die Provinz des Menschen
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Traghettar fra mondi
Qualche mese prima di morire, Daney scriveva queste righe in Persévérance, suo ultimo libro dal titolo intensamente spinoziano: Al liceo Voltaire eravamo un manipolo ad essere entrati furtivamente nel mondo della cinefilia. L’evento si può anche datare: 1959 […]. Potevamo contare su qualche «traghettatore» [passeur] adulto, e Agel fu uno di questi strani traghettatori […]: proiettava oscuri film capaci di turbare seriamente degli adolescenti, Le sang des bêtes di Franju e soprattutto Nuit et brouillard di Resnais. […] Cristiano poco proselita, militante piuttosto elitario, Agel mostrava. Aveva questo talento. Mostrava perché era necessario farlo1.
Henri Agel (1911-2008), professore di cinema nelle università di Montpellier e Friburgo, già docente di lettere al Lycée Voltaire di Parigi all’epoca in cui Daney lo frequentava da studente2, pubblicò nel 1996 un aureo volumetto dal 1. Daney, Persévérance, Paris, Pol, 1994; trad. Lo sguardo ostinato, Milano, Il Castoro, 1995, p. 25-26. Più avanti, alla p. 77, egli accomuna i «Cahiers gialli» e Agel nella genesi della propria consapevolezza circa «l’immagine che ha diritto di prelazione su tutte le altre», quella dei campi di concentramento (importanza per Daney confermata da Goffredo Fofi nella prefazione al volume, p. 11). «Una volta, due volte, tre volte, secondo il capriccio di Agel e delle lezioni di latino sacrificate, guardai i celebri mucchi di cadaveri, i capelli, gli occhiali e i denti», ivi, p. 26. Su Agel, Daney si esprime anche in Daney, Il cinema, e oltre, cit., p. 26. Cfr. retro, p. 144 ss., la lettera a Daney scritta da Oliveira nel 2001. 2. Sul rapporto tra i due all’epoca, si veda H. Agel, Exégèse du film. Soi-
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titolo L’incertitude: une constante, de la littérature au cinéma, nel quale le arti maggiori (letteratura, cinema, pittura, musica) venivano messe al centro d’una ricognizione concisa e profonda circa il loro rapporto col tema della «indecisione fondamentale», anche in dialogo con alcune suggestioni del filosofo e musicologo Vladimir Jankélévitch3. Sei anni dopo, nel 2002, Oliveira pone nel titolo d’un proprio film quel tema, O Princípio da Incerteza. Non v’è un legame esplicito fra le due opere, cionondimeno le consonanze nella posizione estetica dei due uomini di cinema e di pensiero non sono poche, dunque un’opera può esser d’aiuto nel decifrare l’altra, in un dialogo fra pari. Scrive Agel: Sembra che sia proprio intorno al 1950 che il cinema, nell’aspetto che aveva di maggiormente moderno, abbia saputo liberarsi della temporalità rigorosamente articolata che era di William Wyler e di Julien Duvivier, per offrire una mitologia ed una scrittura che offrissero, dell’uomo e della donna, l’immagine di esseri incompiuti, esitanti, che si cercano in un universo che esso stesso non era dato in modo stabile e rassicuxante années en cinéma (1934-1994), Lyon, Aléas, 1994, p. 24 ss. Qualche ulteriore (scarsa) notizia viene dagli unici due interventi (Biette, Bonnard) che menzionano Agel nel numero speciale che i Cahiers du cinéma dedicarono a Daney nel 1992. Va detto che una testimonianza di Agel medesimo, all’epoca ancora vivente, non avrebbe stonato in quel numero. Di Agel non c’è invece traccia alcuna nel numero speciale del 2001 dedicato a Daney nel decennale della scomparsa dalla rivista da lui fondata, Trafic. Deleuze leggeva Agel, cfr. L’immagine-movimento, cit., p. 172 n.; L’immagine-tempo, cit., p. 191 n., 259 n.; e Straub frequentava le proiezioni del Lycée Voltaire insieme a Daney, cfr. Agel, Exégèse du film, cit., p. 24 (splendido il secco ritratto che Agel fa del giovane Straub). 3. H. Agel, L’incertitude: une constante, de la littérature au cinéma, Paris, L’Harmattan, 1996. Di Agel si veda anche: Esthétique du cinéma, Paris, Puf, 1962; trad. Estetica del cinema, Messina-Firenze, D’Anna, 1973; Le cinéma et le sacré, Paris, Cerf, 1961 (con A. Ayfre); Cinéma et nouvelle naissance, Paris, Albin Michel, 1981. Una silloge dei suoi scritti, comprensiva di tutti i periodi della sua carriera, è racchiusa in Agel, Exégèse du film, cit., dove è inoltre contenuta un’essenziale intervista ricca anche sul piano autobiografico. Cfr. pure gli Entretiens avec Henri Agel, a cura di F. de la Brèteque e F. Fourcou, in Archives Institut Jean Vigo Perpignan, 83, 1999. Su Agel, infine, si veda la Postface di Philippe Roger in Exégèse du film.
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rante. Il senso dello spazio e della durata si sono confusi, qui, con l’intuizione di queste decomposizioni e ricomposizioni ininterrotte. Ciò portava con sé una fluidità, o una viscosità, che suggeriva che la vita umana (quella cosmica?) era in sé mutevole ed indecisa, incessantemente variabile come l’acqua e il vento4.
Indicato come «eredità godardiana» questo riferimento al vento e ad un respiro ansimante – à bout de souffle, «mancante di fiato» –, Agel nondimeno richiama anche film «meno cerebrali» quali Le amiche, I vitelloni, The River, Les vacances de Monsieur Hulot: esempi di un cinema dalla «strana spazialità» (Le amiche), articolato da una «sinusoide mentale e plastica» (I vitelloni), mosso da un’etica che rispecchia, in metafora, l’andamento d’«un tappo che ondeggia seguendo la corrente»5 (The River). Insomma, vere e proprie «meravigli[e] dell’incompiuto»6 (Les vacances de Monsieur Hulot). Agel accosta la nozione di «incertitude» a quella di barocco: L’architettura in Italia o in Germania, dal Rinascimento al XVIII secolo, offre modelli vertiginosi di movimenti insidiosi e parossistici i quali, per l’incessante trasformazione delle forme e le loro multiple metamorfosi, implicano un’allergia fondamentale ad ogni stabilità, dunque ad ogni certezza.
E cita Marcel Brion, dal primo numero delle Études cinématographiques: Il gioco di rigonfiamenti e di profili armoniosi modella la facciata, insufflandole una vitalità straordinaria e la facoltà di trasformarsi secondo il gioco delle ombre e delle luci, di essere sempre qualcosa di nuovo e differente, seducente all’occhio e allo spirito, attraverso nuove metamorfosi che prestano alla pietra, alla massa, le qualità dell’aria, della nuvola e del vento7.
4. 5. 6. 7.
Agel, L’incertitude, cit., p. 78-79. Ivi, p. 80. Ivi, p. 108. Ivi, p. 68.
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In tema d’incertezza, ancora, non andrebbe dimenticata una quarta voce, accanto ad Oliveira, Agel, Daney: quella di Deleuze il quale, se già ne L’image-mouvement aveva parlato degli «uomini grigi dell’incertezza» a proposito dell’eroe del dreyerano Vampyr, di Lancelot e soprattutto del pickpocket bressoniano («Il titolo previsto del film era appunto Incertezza»)8; ne L’image-temps fa riferimento in modo esplicito ad un «principio d’incertezza» non solo a proposito del cinema di Zanussi, bensì più in generale di tutti i «cristalli di tempo» che, nel cinema moderno, «esprimono» il rapporto fra immagini attuali ed immagini virtuali, cioè immagini a due facce come ad esempio lo specchio9. E si ricordi che l’unico film di Oliveira che Deleuze cita è Francisca. Si è già visto peraltro (retro, p. 52, n. 9) come lo stesso cineasta lusitano abbia richiamato una possibile consonanza con Deleuze, facendola gravitare sul rapporto tra immagine, tempo e movimento, rapporto che esemplifica il «principio d’incertezza» al cinema. E detto per inciso, i film di Oliveira sono spesso ricolmi di specchi. Tornando ad Agel e Daney, nulla vieta di pensare che il «passeur», o «traghettatore» più giovane (come Daney stesso amava definirsi, impiegando il medesimo termine da lui utilizzato per Agel10), si sia riflesso nel maestro di scuola e di cinema del Lycée Voltaire, aprendo così, anche in dialogo con lui, una strada interpretativa estremamente feconda per il cinema di Oliveira.
8. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 138. 9. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 82 ss. Cfr. anche l’ultima grande opera edita qualche anno dopo i volumi sul cinema: Le pli. Leibinz et le baroque, Paris, Minuit, 1988; trad. La piega. Leibniz e il barocco, Torino, Einaudi, 1990. 10. Agel, Exégèse du film, cit., p. 25-26.
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Etica dell’incertezza
Se, come si è detto, non vi è un legame esplicito tra Agel ed Oliveira – il quale, nel 1977, affermava in una lettera ad un amico di «essere un uomo pieno d’incertezze»11– , nondimeno una traccia può essere seguita nell’accostare anche storicamente i due, e questa traccia passa evidentemente attraverso la riflessione «cinefila» di Daney il quale parlò di «incertitude», di «relation d’incertitude», a proposito del cinema di Oliveira, già nel 1981 analizzando Francisca. Nel desiderio, il problema è che non si sa mai cosa l’altro esattamente voglia. È questo non sapere che fa desiderare ancor di più. Quel che conta, nella passione, è cosa l’altro può, ciò di cui lui/lei è capace. […] Tra José Augusto e Francisca si apre un gioco infinito e soprattutto indeterminato, un gioco «senza qualità», un «altro stato» per parlare come Musil. Al centro della passione vi è infatti un motore vuoto, una fondamentale incertezza. L’incertezza non è l’aleatorio (che è stato la grande riscoperta del «cinema moderno») e neppure l’ignoranza o il misconoscimento (di cui i classici hanno tanto parlato). È qualcosa di ancor più strano. Consideriamo, ad esempio, i momenti in cui certe frasi del dialogo vengono ripetute. Tutto 11. TA, Lettre à Rui Nogueira, 1977. Se non si ha notizia di analisi dedicate ai film di Oliveira da parte di Agel, va detto che il suo nome compare in due volumi nei quali viene analizzato il cinema del cineasta lusitano: Prédal, Manoel de Oliveira. Le texte et l’image, cit. p. 33 («Quale ne sia la forma, il fantastico di Oliveira ha a che fare col sentimento d’incertezza nell’accezione del termine proposta da Henri Agel»); G. Bedouelle, L’invisible au cinema, Marseille, La Thune, 2006, cui (Agel) l’intero volume è dedicato.
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avviene come se il fatto che la frase sia stata pronunciata (dall’attore) e subito udita (dallo spettatore) non le assicuri un’esistenza certa. Come se bisognasse rischiare per i suoni ciò che in passato si è osato fare per le immagini: il falso raccordo. Come se le parole del dialogo fossero cose di cui occorresse marcare il punto di partenza e uno dei punti d’arrivo. Sdoppiamento del dialogo. Nessuno ha mai spinto tanto lontano il rifiuto del naturalismo e la necessità di adottare in tutte le cose (e le parole sono cose) un punto di vista, un’angolazione. Oliveira dice che ciò che lo interessa è solo la rappresentazione. E lo dice con la massima libertà da ogni schema, se si pensa che in cinquant’anni di cinema ha sperimentato di tutto: il documentario, la favola naturalista, la commedia mondana, la ripresa dal vivo, il montaggio. In Francisca il regista, libero da ogni preoccupazione naturalistica, a confronto col materiale assolutamente artificiale (testo, scenografia) che si è scelto, fa passare questa relazione d’incertezza nell’intero film. Essa non è soltanto al centro della passione che consuma i personaggi, ma anche di quanto non bisogna aver paura di chiamare la sua «estetica». E tanto meno se ne deve aver paura se si pensa quanto oggigiorno sia rara12.
Francisca Francisca (1981), film tratto dal romanzo Fanny Owen della Bessa-Luís e sul quale ci si è già soffermati più volte, vede in scena Camilo Castelo Branco as himself (Mário Barroso) quale amico del giovane aristocratico José Augusto (Diogo Dória) nella Porto di metà Ottocento, «miguelisti» in un paese alle prese con le vicende politiche legate all’avvento del liberalismo e alla guerra civile che aveva segnato gli anni precedenti13. I due cadono innamorati entrambi della stessa donna, la giovane, bella e colta Francisca Owen (Teresa Menenses), figlia di una famiglia che appoggia invece D. Pedro IV. In un gioco perverso di sentimenti deviati e mortuari («Per Francisca sarei capace di uccidere!», afferma José Augusto, sotto gli occhi allibiti di Camilo), i due vivono le proprie di12. Daney, Que peut un cœur?, cit., p. 38 (=T17, p. 206-207). 13. Si veda retro, p. 93.
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namiche esistenziali per interposta persona, se pur è vero che, come afferma Camilo, «l’amicizia è l’unica cosa che gli dei invidiano agli uomini». José Augusto, a detta di Camilo «innamorato e in grado di cibarsi della propria anima», va in cerca di un cuore vergine per educarlo, per eccitare un amore immenso e poi andarmene senza toccarlo, […] creando un angelo nella pienezza del martirio.
Egli dunque rapisce e sposa per procura Francisca, inutilmente impedito dalla rivelazione da parte di Camilo dei sentimenti della donna anche verso di lui, testimoniati dalle lettere scambiate con Francisca già fidanzata. Il matrimonio non si consumerà: José Augusto, geloso e al contempo macerato dal senso di colpa per la situazione complessiva, continuerà la vita di bohèmien portuense, mentre Francisca trascorrerà il resto dei propri giorni confinata in provincia nella casa del marito, morendo di polmonite, vergine, schiava della passione che la lega al suo sposo e tuttavia incapace di cambiare l’uomo che ha amato, il quale le sopravviverà per poco tempo torturato dal dubbio sulla sua verginità e vittima anch’egli d’una «morte cerebrale», come affermerà con fine humour nero l’amico Camilo, sopravvissuto ad entrambi. Francisca dichiara nel corso di uno dei momenti rituali che punteggiano il film (balli, cena, messe): L’anima non è una sedia che si possa offrire a chiunque, l’anima è… è… un vizio!
Un vizio quale fu anche la sua passione, evidentemente; vizio che affonda le radici nel «desiderio, che è il parente volgare dell’eternità», svelando il legame incerto fra l’eterno e il tempo nell’animo dell’uomo e della donna, un legame fantasmatico e virtuale straordinariamente ben esemplificato da quel matrimonio funesto che intrappola due anime e due corpi. Afferma Oliveira, indicando anche il tema dell’androginia, sul quale si tornerà a breve: 197
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Trasportato all’eccesso, l’amore di un uomo per una donna diventa atroce egoismo: gli amanti si amano come se fossero un unico essere, la loro volontà più profonda sarebbe quella di mangiarsi l’un l’altro. Ancora in relazione all’Amore, ma adesso con la maiuscola, si racconta l’interessante caso di un santo che, abbandonata la preghiera che stava facendo, con gli occhi levati al cielo, ad un certo momento gridò nel fervore della passione: «O mio Dio, mangiami!». Questo sarebbe il senso più profondo della passione. Dall’altro lato, in campo terreno, una coppia talmente appassionata non desidera un figlio perché sarebbe come una deviazione dalla vita che l’uno dedica all’altra: essi devono diventare un solo essere – come l’androgino platonico. Solo la morte potrà di fatto unirli. E le tragedie delle grandi passioni terminano sempre, o quasi, con la spada e con la morte. Marte e Venere. Dinanzi a tutto questo restiamo noi, vittime dell’androgino. Il cinema non spiega questo tema, né il mio né quello di qualcun altro. Nel migliore dei casi, può mettere qualche chiosa14.
O Princípio da Incerteza È certamente la dimensione etica del tema dell’incertezza a risaltare nell’accezione offerta dal cineasta lusitano. Il film O Princípio da Incerteza (Il principio dell’incertezza, 2002) esprime esattamente questa problematica. Ambientato nelle case della valle del Douro, con qualche fuga in treno nella città di Porto contrappuntata dal violino di Paganini, il film racconta la vicenda di Camila (Leonor Baldaque), una giovane donna del popolo che va sposa al ricco e claudicante António (António Matos Clara), deludendo l’aspettativa – «acabou-se, amor, acabou-se/acabou-se a nossa alegria», si sente cantar nel film, «si concluse, amore, si concluse/si concluse la nostra allegria» – dell’amico d’infanzia José Luciano (Ricardo Trêpa). Figli entrambi della stessa donna (come si verrà a sapere verso la fine del film), António e José Luciano hanno in comune anche un’amica, altrettanto ricca e davvero spregiudicata, Vanessa (Leonor Silveira), tenutaria di bordelli e coinvolta in loschi affari. Vanessa diventa l’amante di António, ma intrattiene anche una strana relazione con Camila. 14. T22, p. 45.
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Dalla narrazione non risulta alcunché quanto a rapporti sessuali fra marito e moglie (si parla spesso della verginità di Camila, che è solita intrattenersi in un’oscura cappella di campagna per dialogare con una statua di Giovanna d’Arco), né fra marito e amante; e neppure si comprende fino in fondo l’esito della vicenda malavitosa (affari andati male, incendio d’una discoteca di proprietà di Vanessa in cui muore l’amante António), esito che si risolverà in una fuga all’estero per Vanessa, nel carcere per José Luciano, nella libertà finalmente raggiunta per Camila, ormai vedova e ricca. Il personaggio centrale di queste «relazioni d’incertezza» è Camila, definita una «mutante» da Vanessa, una «strega» da José Luciano, ed accostata – per aver dichiarato a Vanessa di esser stata visitata, la notte precedente il matrimonio, da qualcuno che le aveva succhiato il sangue, come testimoniano due gocce di sangue sul cuscino – addirittura «alla moglie di Dracula» da Daniel, uno dei fratelli Roper, discendenti di Tommaso Moro e cari amici di António e della sua casata, nonché della domestica Celsa, che presso quella casata è sempre stata a servizio anche a motivo della sostituzione che effettuò dell’altro suo figlio, appunto António, con quello nato morto alla padrona. Camila è persona all’apparenza senza sentimenti, passiva, capace di patire grandi sofferenze ed umiliazioni, come l’esser stata offerta dal padre ad uno sconosciuto per ripagare un debito di gioco. E ancora, quella di convivere con l’amante del marito, quasi assumendo su di sé la sofferenza del poprio sposo e compatirne le difficoltà derivanti da un matrimonio per nulla frutto di sentimenti amorosi ma effetto della volontà della madre di António, da molti sostenuta, familiari e non. Nondimeno, Camila è donna indipendente e forte, che cerca ispirazione e consiglio «in quelle parole dell’immagine di Giovanna d’Arco che non riesce a udire», come afferma durante una visita nella cappella. Una donna, ancora, non ligia alle consuetudini borghesi in tema di relazioni amorose e di convenienze sociali: sbugiarda il marito in faccia ai poliziotti, presentandosi discinta in piena notte nella sala da pranzo dove avviene il colloquio; frequenta a Porto uno dei fratelli Roper, facendone il proprio confidente anche delle peggiori intimità morali 199
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concernenti la relazione col marito; addirittura, sul finale, fa sparire dalla propria casa una delle maschere servite ai malavitosi per introdursi nella discoteca ed appiccare il fuoco, con ciò lasciando intendere un suo diretto coinvolgimento nella vicenda. Vi sono dunque costanti incertezze all’opera nella sfera dei rapporti morali fra i personaggi, e come dichiara a un certo punto Turcato, l’altro fratello Roper, è davvero questa la sfera nella quale opera il principio che dà nome al film. RONCATO: Vanessa VANESSA: Resta da
sarebbe piaciuta a Tommaso Moro! sapere se un uomo come Tommaso Moro sarebbe piaciuto a Vanessa! RONCATO: Questo è il principio dell’incertezza!
Manca il punto di vista universale, dunque il punto di vista che assommerebbe in sé la prospettiva di tutti: i viventi e i morti, la donna e l’uomo. E Oliveira costruisce su quest’«incertezza» costitutiva dell’esistenza umana il suo film, e da essa fa discendere, di volta in volta, il principio organizzativo di ciascuna sequenza, in questo e in altri suoi film. A Divina Comédia Tutto ciò avvicina l’universo oliveirano ad una «casa de alienados», «una casa di malati di mente», ed in effetti è questo il nome che campeggia sulla sontuosa abitazione che ospita i dodici personaggi di A Divina Comédia (La divina commedia, 1991). Dopo un prologo in giardino che vede Adamo (Carlos Gomes) tentato con la mela da Eva (Leonor Silveira), entrambi nudi e accompagnati da un serpente, un gong introduce all’esistenza quotidiana molto dialogata e teatrale di ospiti che si identificano con personaggi noti della letteratura e della filosofia di tutti i tempi: Marta e Maria, Lazzaro, il Fariseo, santa Teresa, Sonia e Raskolnikov, Ivan e Alioscha Karamazov, un Filosofo, un Profeta, Gesù medesimo… 200
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Due volti vagamente demoniaci incisi su ceramica accompagnano quel suono ad eco, un po’ come s’aprivano le varie ripetizioni di Mon cas: anche qui, in effetti, gli abitanti della casa metteranno ciascuno in scena il proprio personaggio, recitando il loro «caso» gli uni sotto gli occhi degli altri, attori e spettatori allo stesso tempo. Si tratta anche qui di un «caso» di alienati, di individui dunque a metà fra lo spazio della ragione e quello della follia, fantasmi che coesistono in un incessante capovolgersi di contrari. Coadiuvato da infermieri maschi e femmine c’è anche un Direttore (Ruy Furtado), il quale soccomberà alle ombre della follia impiccandosi: personaggio interpretato da due attori, il primo dei quali morto anche fuori della rappresentazione, prima della fine delle riprese, sostituito da Oliveira medesimo. A Divina Comédia è opera che, come s’è detto, fa il paio con NON nel rappresentare la forma di follia «politica» dell’umano, qui declinata sul versante del rapporto con la religione e la tradizione culturale occidentale giudeo-cristiana. Tutti i dialoghi principali, i quali hanno luogo di regola a coppie fra i personaggi, sono centrati su temi legati a doppia mandata alla dimensione del «potere spirituale» sulle anime e sui corpi. Che si tratti di omicidio come delitto d’un singolo, d’Inquisizione come massacro «legittimo» da parte di istituzioni15, o di arringhe d’un nietzschiano Anticristo contro il Profeta (Luís Miguel Cintra), il cristianesimo e la chiesa cattolica; e ancora, della resistenza alle seduzioni della carne nell’esistenza d’una santa: ebbene, costantemente il tema al centro di questa comédia è, come nel caso di quella dantesca, quello della «salvezza» dell’anima nella lotta contro una «verità» assoluta ed imposta, politicamente caratterizzata e dotata di grandi mezzi ed opere. Sono le figure femminili del film a dare un segno di speranza. In un caso è speranza «u-topica» in quanto musicale, e si tratta di Marta la musicista (interpretata da una celebre 15. Sull’Inquisizione spagnola si veda A.S. Turberville, The Spanish Inquisition, London, Oxford University Press, 1949; trad. L’Inquisizione spagnola, Milano, Feltrinelli, 1957.
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pianista portoghese, Maria João Pires), personaggio elogiato come figura del «superuomo» dal Filosofo (Mário Veigas) nella sua potenza creaturale d’espressione corporea, le mani più volte inquadrate come fonte d’una musica altrettanto «divina» (Beethoven, Bach). In un altro caso è speranza d’amore, Sonia (Maria de Medeiros), che accoglie il mistero della follia omicida di Raskolnikov (Miguel Guilherme) portandolo quasi al pentimento, all’espiazione ed alla conversione verso un sentimento d’umanità e fraternità. Senza dimenticare le ripetute «resurrezioni» di Lazzaro (Miguel Yeco), muto e un poco allampanato, che porta in giro per la casa la bara e sfida costantemente il mistero più grande quasi facendone una rappresentazione rituale. La libertà dello «spirito» si fa viva infine nel volo festoso d’una bianca colomba che si manifesta alla morte del Direttore, uomo del potere «spirituale» che teneva tutti incatenati alla propria «mancanza di fede in Dio e nell’uomo». E il film si chiude su Marta musicista e sul ciak che appare in scena, portando la rappresentazione dentro la vita dello spettatore: questo è un film, dunque qualcuno lo sta guardando e non è da esso separato, quella follia è specchio di un’altra follia ben reale, forse… Dinanzi all’opera bisogna dunque prendere posizione, il richiamo all’etica – all’ethos, all’esistenza d’ogni giorno – è imperioso e dolce, come sempre nei film oliveirani.
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Assumere questa scissione coscientemente, sapendo di avere una mente non unitaria e identica a se stessa, ma che invece deve volta a volta adattarsi all’esistenza; e dunque riconoscendo la spontanea schizofrenia dell’esistere, non facendosene travolgere nella vana ricerca d’un superamento; ebbene, questa è la condizione naturale dell’uomo, e paradossalmente da quel travolgimento, dal patetico soggiacere ad una simile situazione, l’uomo viene liberato – sì, liberato – dalla religione. La religione, in Oliveira, è in effetti costitutiva per rapporto all’«estetica dell’incertezza». Bisogna comunque intendersi sul significato della parola. Né metafisico né materialista, bensì «spirituale»: così Oliveira considera il proprio cinema. Il cinema è qualcosa di molto concreto. Non si può parlare di spirituale senza parlare di materiale. È nel materiale che ha corpo lo spirituale. Il nostro spirito vola, il nostro corpo manca16.
Se certamente va accolta la lettura di Daney, che accosta Oliveira al materialismo à l’antique nel mettere in scena «atomi», vale a dire «personaggi raramente posseduti dalla medesima velocità», i quali si muovono su un’orbita, come fossero astri ed elettroni, non incontrando[si] che in dati momenti, certamente calcolabili ma 16. I, Filmcritica, 2003, p. 504.
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con qualche margine d’incertezza17, come diceva Heisenberg degli atomi18;
nondimeno, bisogna specificare come si tratti d’una sorta di resurrezione di quella che Werner Jaeger ha chiamato «la teologia dei primi pensatori greci», il cui elemento comune consisteva nell’essere tutta l’esperienza di Dio rivolta e orientata verso la realtà, […] nonché scaturita da una multiforme visione mitica del mondo, i cui aspetti si mutano e, per così dire, si rettificano con sempre nuove intuizioni19.
Non può che essere questa posizione filosofica di tipo esperienziale e sapienziale, in effetti, a condurre Daney ad affermare che, in Francisca, la forza di Oliveira sta nel trattare una delle sceneggiature-tipo [scénario-types] della religione («Produrre un angelo nella pienezza del martirio») con la mancanza di pathos e la distaccata acutezza di un filosofo pagano20.
E qui si può aggiungere che, in Palavra e Utopia, erano proprio Democrito ed Eraclito ad esser messi a confronto per interposti retori (padre Vieira e padre Cattaneo, a Roma, su invito della regina Cristina di Svezia), sul tema di chi dei due fosse più saggio: l’uno, che sempre rideva, o l’altro, che sempre piangeva, sulla condizione del mondo. Sintonia coi Greci la quale, però, non deve far passare in secondo piano il grande fascino che Oliveira confessa di aver subìto anche dalla spiritualità di un’altra tradizione culturale, quella giapponese, attraverso i suoi registi, in particolar modo Kenji Mizoguchi con i suoi due film Sanshô dayû (L’intendente Sansho, 1954) e Yokihi (L’imperatrice Yang Kwei-fei, 1955)21. Film che, specialmente il secon17. «Incertitude», scrive Daney, e la traduzione più corretta non è «indeterminazione», come invece si legge nella traduzione. 18. Daney, Que peut un cœur?, cit., p. 39 (=T17, p. 208). 19. W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 273. 20. Daney, Que peut un cœur?, cit., p. 39 (=T17, p. 208). 21. I, Cahiers du cinéma, 2002, p. 59. Circa il debito verso la cultura orien-
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do, sono attraversati da una tensione spirituale – anche nei rapporti tra storicità e sfera morale – molto simile a quella che si ritrova nei film del cineasta portoghese. Certo, tutto questo deve far di conto con le ripetute affermazioni del cineasta lusitano concernenti la propria fede cattolica: Ho avuto un’educazione cattolica. Non posso liberarmene facilmente. Si tratta di roba di bambini. Se pure ho i miei dubbi, nondimeno da capo a fondo penso come cattolico e, pensando così, trovo che la fede degli uomini debba stare più in Dio che negli uomini22.
Nondimeno si tratta di una fede, in Oliveira, percorsa dal dubbio e dunque, anche qui, è nel fantasma che la verità fa mostra di sé: Ho una posizione, per così dire, di dubbio religioso, di forte dubbio religioso, ma al contempo provo il bisogno di trovare la fonte di tutto ciò, vale a dire provo il desiderio di trovare un regno del quale non possiamo sapere se un giorno lo raggiungeremo23.
E ancora: Sono un uomo religioso e la mia fede si fonda sul dubbio; è il dubbio che dà più forza alla mia fede24.
Os Canibais Una delle più potenti manifestazioni di questa capacità di ospitare dentro sé il dubbio è data da Os Canibais (I cannibali, 1988), film nel quale Oliveira affronta di petto le forze demoniache della follia, della passione, del fuoco. tale, in particolare quella giapponese, si veda retro, p. 170 e n. 107. È nota la fascinazione di Ejzenštejn per il teatro kabuki, cfr. Ejzenštejn, La forma cinematografica, cit., p. 19 ss. 22. T24, p. 115. 23. T7, p. 147. 24. TA, Petit dialogue, 1997, p. 26. Su questi temi religiosi, Oliveira più volte e in più luoghi si richiama a Régio, cfr. infra, p. 210, nota 35.
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Chi sono i cannibali del titolo? Non solo umani, cannibale è la passione che domina dall’inizio alla fine un film musicale e cantato in forma d’opera, ambientato nel sontuoso palazzo reale di Ajuda, ispirato da un racconto omonimo di Alvaro Carvalhal, morto nel 1868 a soli 24 anni. «Cantano, cantano come folli», diceva Daney commentando questo film-opera dell’orrore e citando Tod Browning25, ma folli non sono soltanto i personaggi centrali della tragedia. Folle è la folla all’ingresso del palazzo, che accoglie come star personaggi con vestiti d’epoca del XIX secolo mentre scendono da lussuose auto sportive contemporanee, folla festante ch’è quasi figura di quelle radunate dinanzi agli auto-da-fé medievali e bramose d’un fuoco purificatore. Follia è quella d’invitati al ballo che, in splendidi saloni illuminati da luci riflesso di fiamme infernali, aspettano solo l’incontro tanto atteso, quello tra il tenebroso ed inquietante Visconte d’Aveleda (Luís Miguel Cintra) «che ha in petto un cuore ardente», e la diafana e vergine Margarida (Leonor Silveira), figlia di famiglia in cerca di ricchezza e prestigio. Folle è don Juan (Diogo Dória), che spierà la coppia dall’inizio alla fine del film «lanciando fiamme dagli occhi», invaghito della donna ma da essa rifiutato e infine suicida. Nella seconda parte del film, in sequenze cinematograficamente le più folli dell’intero cinema di Oliveira, sardonicamente folli sono ancora il padre e i fratelli della donna, volata dalla finestra al momento della terribile rivelazione dopo esser stata circondata da un fuoco d’inferno nella lunga notte d’amore e terrore, tutti accecati dal miraggio dell’eredità dopo la macabra morte e l’atto d’antropofagia26 compiuto sul corpo d’un conte rivelatosi «macchina celibe», mezzo uomo mezzo artificio, morto cantando tra le fiamme del camino… «C’è anche della metafisica nel film»27, afferma candido il regista. Ed essa sta tutta nella circolazione costante d’uno 25. S. Daney, Os Canibais, in T5. Il libretto d’opera e la musica sono a firma di João Paes. 26. Greenaway segue non lontano, The Cook, The Thief, His Wife and Her Lover arriverà l’anno dopo … 27. I, Turco 1988, p. 79.
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sguardo molteplice, rimandato senza sosta da specchi e statue, pubblico e personaggi: una forma di delirio cannibale della visione come passione, del rapporto con l’altro come prodotto di sé ed unico riflesso del proprio desiderio. Passione infernale menata da un canto folle, sì, metamorfosi di fiamme d’inferno: un narratore dirige gaio e sarcastico, accompagnato da un diavolo di violinista. Fiamme della fornace nella quale tutti viviamo28, ove cantando arrostisce il Visconte ben prima d’entrar nel camino. Dunque passione di vedere e divorare nell’abbraccio (la folla dell’inizio); passione di spiare (gli astanti al ballo, tutti circondati da specchi); passione d’amore di Margarida, del Visconte, di don Juan, tutti invaghiti di un’immagine dell’altro; infine passione di denaro e potere, immagine fra tutte la più letale, in una famiglia infine trasformata in muta di belve divoratrici funestamente danzanti alla luce del sole, la fiamma fra tutte più alta e potente. O Dia do Desespero Ma forse la follia maggiore è quella che prese lo spirito di Camilo nel suo O Dia do Desespero (Il giorno della disperazione, 1992). Si tratta d’un film sulla passione per la morte – nonché «rapporto»29 sulla scelta finale del suicidio, anche a motivo dell’incipiente cecità – di Camilo Castelo Branco (1825–1890), massimo esponente del Romanticismo portoghese30 e, come afferma Oliveira, equivalente di Don Chisciotte per il Portogallo, per quel desiderio di un «matrimonio» con lo Spirito, per non dire con la Morte, […] sua apparente «perdizione» ma che andrebbe letta, o presa, per «salvazione»31. 28. «Tutti viviamo, infine, in quest’inferno, e il cinema è una delle sue due fornaci, ma è dal calore liberato dalle fiamme che ci circondano che nasce il gusto d’amare», TA, Acto de filmar, 2008, p. 29. 29. I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 43. 30. Per un secco e profondo ritratto del poeta, si veda J. Parsi, Préface a C. Castelo Branco, Amour de perdition, Arles, Actes Sud, 1984. Oliveira ha scritto su Camilo: Dom Quichotte, in press book di O Dia do Desespero, 1992; trad. Don Chisciotte, in T17; Elegia, in casadecamilo.worldpress.com. 31. TA, in T17, p. 37.
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Film che chiude una sequenza possibile nell’opera oliveirana, quella in cui centrale è la figura e l’opera dello scrittore: dal suo romanzo più famoso era tratto l’omonimo film, Amor de Perdição; in Francisca, Camilo è in scena as himself; qui invece si entra nella casa-museo di S. Miguel de Seide, dove egli visse e dove ritorna come fantasma di cinema. La casa, oggi ricostruita dopo un incendio e arredata con mobili d’epoca superstiti, è mostrata con cura negli ambienti principali, nella mobilia, nelle stampe e nelle foto appese alle pareti, quasi il film ne fosse una visita guidata. Il film, che si apre con una immagine del poeta incorniciata sulla parete, è interpretato da due attori che rappresentano Camilo (Mário Barroso) e la sua amante, Ana Augusta Plácido (Teresa Madruga), coppia adulterina pubblicamente stigmatizzata, condizione nondimeno affrontata con coraggio dalla donna, con la quale il poeta convisse a lungo nella casa e dalla quale ebbe uno dei suoi figli. I due attori entrano ed escono costantemente dalla rappresentazione, in un gioco sottile fra documentario (il film fu prodotto all’epoca del centesimo anniversario della morte dello scrittore e a sostegno della Casa Museu de Camilo) e ricostruzione storica costante, gioco che raggiunge un vertice nella sequenza in cui Ana Plácido si toglie la parrucca dinanzi allo specchio e, inquadrata nel riflesso dello specchio, è adesso l’attrice che prende a narrare le vicende ulteriori della vita di coppia fumando con ampie boccate uno dei lunghi sigari prediletti dal compagno, a segno dell’assunzione del maschile dentro il femminile ma forse ancor più del morto dentro il vivente, se solo si accosta questo fumo a quello del sigaro e del suo fumo azzurrino che saranno il simbolo del lento volatilizzarsi dello spirito del marito nella sequenza del film che racconta dell’ultima visita del medico e del suicidio di Camilo, gesto compiuto anche – e non solo – perché condannato alla cecità. L’intera opera, infatti, è sotto il segno del fantasma, e in una sequenza, anzi, il fantasma stesso viene messo in scena: Camilo compare da uno sfondo nero, alle spalle di un amico che ha appena terminato di leggere la lettera inviata208
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gli dal poeta, con la quale egli giustifica la propria richiesta di esser tumulato nella tomba di famiglia dell’amico. Le lettere del poeta lette in voce off sono l’impulso che fa avanzare il film, lettere indirizzate agli amici, ai medici, ai pubblici poteri per domandare prebende e riconoscimenti di nobiltà utili ai figli dopo la sua morte. Il film è scandito, oltreché dalle musiche di Wagner, dal ticchettio e dai rintocchi di un orologio, nonché da ripetute inquadrature fisse sulle assi d’una carrozza e sulla ruota in perpetuo movimento, con la voce del poeta che legge all’inizio del film lettere indirizzate alla figlia d’un altro matrimonio, e con una voce off, alla fine, che legge testi di Camilo mentre la bara ne è trasportata al cimitero. Il film si chiude con l’inquadratura del loculo ove giace il poeta, con tre lumini accesi – forse in omaggio al «müde Tod», la «stanca Morte» di Fritz Lang –, e con la voce del poeta che lamenta il freddo d’oltretomba. Toglietemi pure la luce degli occhi, ma la luce del cielo io la voglio. Voglio vedere il Cielo nel mio ultimo sguardo,
come si legge in Amor de Perdição – e come si vede realizzato nel Vampyr di Dreyer32.
32. Ma è su tutto il film che si distende la presenza di quella che Charles Tesson ha definito una «vera e propria ontologia fantastica del cinema», cfr. C. Tesson, L’abîme de la passion, in Cahiers du cinéma, 466, 1993. Cfr. anche retro, p. 171-172, dove Oliveira si esprime sul rapporto fra immagine e tempo circa la morte di Camilo.
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Avere uno «spirito religioso perseguitato dal dubbio […] è un sentimento difficile da spiegare»33, afferma il cineasta, e i due film da ultimi analizzati lo mostrano. Certamente, la religione è in noi, e non si insegna: ciò che s’insegna, per limitarsi alle correnti più conosciute, sono il buddismo, l’induismo, il giudaismo, il cattolicesimo, l’islam, il protestantesimo, ecc., e s’impara anche l’esser atei. Altro è parlare di chiesa, altro di religione, o meglio di un sentimento religioso. Non s’insegna questo sentimento, così come non s’insegna ad amare. Cionondimeno, tutti noi sopravviviamo sotto un segno di fede, nel senso che da esso emana un impulso (esterno a qualsiasi religione) che stimola la nostra attività nella vita pratica e corrente. In questo senso, direi che tutti noi siamo toccati da una fede. Vivere nelle avversità, senza questo minimo di speranza, rende la vita insopportabile34.
Oliveira si richiama spesso alla Confissão dum Homem Religioso (1971) di Régio, opera incompiuta nella quale l’autore dei Poemas de Deus e do Diabo (1925) narra del proprio rapporto col divino, i «vários graus de Deus», il suo «crer não crendo», la sua natura di «místico muito imperfeito ou intervalar»35. 33. T7, p. 157. 34. TA, Petit dialogue, cit., p. 26. 35. Dei «gradi di Dio», del suo «credere non credendo», nonché del proprio misticismo «intervallare», Régio parla nei due capitoli centrali del volume, p. 107 ss. «L’ipotetica Parola-Spirito di Dio non può esser ascoltata nello stesso modo da tutti. Ognuno di noi ha il Dio che può avere: quello che gli è permesso dalla sua sensibilità, dalla sua immaginazione, dalla sua esperienza, dalla sua cultura. Ancora: ognuno di noi, secondo i differenti momenti, ha visioni o apprensioni diverse di Dio – svariati gradi di Dio», p. 140. Su Régio cfr. retro, p. 40, n. 3.
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Per Oliveira cinema e religione non sono lontani, nella misura in cui il cinema «è come una religione», dunque è un oggetto di «fede»: non si tratta della «fede religiosa, che è qualcosa di molto differente», bensì di quella fede «senza la quale egli non filmerebbe» (è l’impulso che stimola la vita pratica, di cui si è letto sopra), fede che fa sopravvivere l’uomo Oliveira e lo aiuta «a superare la pesante condizione umana [attraverso] i cammini dell’invisibile e dell’impensabile»36. Ritorna anche per il cineasta, allora, la dimensione fantasmatica, «il fondo nascosto, oscuro, indecifrabile» che anima la creazione artistica, e che dota il cineasta di una doppia personalità, un’altra faccia differente della stessa persona, [che fa sì che] egli sia lui stesso e un altro. [… Una …] seconda natura che si chiama «artista», [… e che fa sviluppare…] una necessità imperiosa di espellere tutto ciò che è stato formulato nella propria interiorità. Come quando un desiderio febbrile e pressante di confessare il proprio crimine s’impossessa stranamente del criminale, una volta compiuto il misfatto. La creazione cinematografica conduce in tal modo il regista ad uno stato psicopatico simile. Stato di trance, momento nel corso del quale il realizzatore vive il proprio mestiere e fa del cinema il proprio peccato, come se la realizzazione di ciascun film fosse la maniera di darsi al proprio vizio, o peggio ancora di eseguire il proprio crimine37.
Condizione fantasmatica, al contempo, che permette al cinema di produrre immagini sullo schermo che sono un sortilegio della cinepresa, non essendo mai altro che fantasmi d’una realtà che nasconde altri fantasmi che già ci accompagnano nella vita reale [i quali,] anche se le immagini si mostrano molto realiste, non sono altro che apparenza e, in quanto tali, sono al contempo cinema e soltanto cinema. Che si tratti di immagini prese nella fiction o direttamente nella vi-
36. TA, Petit dialogue, cit., p. 26. In questo contesto, Oliveira cita anche Claude Régy (1923), regista teatrale francese in cerca di «altri spazi di rappresentazione e di vita», lontani dal realismo, dal naturalismo, dallo spettacolo come divertimento. Su quest’altro «traghettatore» si veda il documentario Claude Régy. Le passeur di Elisabeth Coronel e Arnaud de Mézamat, Abacaris Films/La Sept Arte, 1997. 37. Ivi, p. 23-24.
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ta reale, esse sono già immateriali, sono ancora e sempre fantasmi di qualcosa che già non è più, o anche di ciò che non è mai stato38.
Ecco, invero, cosa fa sì che il cinema e tutte le arti non possano essere propriamente delle religioni, bensì solo «come» una religione», dato che ogni creazione artistica si concretizza nell’impurità di un atto mondano [vizio, crimine, peccato], e ciò quand’anche l’arte possa venir concepita secondo una prospettiva più o meno materialista o spiritualista, consustanziale ad un senso più o meno profano o sacro39.
O Acto da Primavera Questa complessa posizione «spirituale» non ha impedito, evidentemente, al cineasta lusitano di girare un film sulla passione di Cristo: si tratta di O Acto da Primavera. Representação Popular do Auto da Paixão (Atto di Primavera. Rappresentazione popolare dell’Atto della Passione, 1963). Opera nella quale convergono, a detta dello stesso cineasta, tre aspetti: la vita del Cristo svoltasi duemila anni fa; il «mistero» scritto nel XVI secolo da Padre Francisco Vaz de Guimarães40; infine la ripresa cinematografica del XX secolo41, «il tutto offerto nello stesso tempo, visibile simultaneamente»42. Opera con la quale, negli anni Sessanta, Oliveira «s’installava di nuovo [dopo l’epoca di Douro Faina Fluvial] all’avanguardia del cinema mondiale»43, grazie al mescolamento effettuato nel film fra approccio documentario ed antropologico uniti alla fiction narrativa ed alla messa a nu38. Ivi, p. 24. 39. Ivi, p. 26. 40. Questo il titolo completo dell’opera di Vaz de Guimarães: Auto da muita dolorosa Paixão de Nosso Senhor Jesus Christo, conforme a escrevem os quatros evangelistas. 41. T7, p. 114. 42. T24, p. 62 (=T17, p. 109). 43. Grilo, O Cinema da Não-Ilusão, cit. p. 20.
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do della rappresentazione cinematografica («il film nel film»). Non da ultimo, offrendo anche una dimensione di vero e proprio rituale, narrazione, memoria del «mistero religioso». Quegli scarti fra le date dissociavano realmente la nozione [di cinema] che avevo prima, che si riferiva all’utilizzo degli artifici del cinema davanti a una realtà autentica. Molto più tardi mi sono reso conto che O Acto da Primavera rappresentava una vera e propria biforcazione nella mia opera44,
trattandosi di un «film che alterava i miei schemi»45 a proposito del rapporto tra realtà e finzione. «Ho fatto un Acto, e questo Atto nasconde[va] il teatro»46, implicando la teoria del «teatro vitale», il preesistere del teatro nella vita. Già definito «primo film politico nella storia del cinema portoghese»47, non è un caso che il film contenga, fin nel titolo, il riferimento al «popolo»: quel popolo che, all’epoca delle riprese, allestiva il «mistero» ogni anno nel corso della Settimana santa, per la precisione il Venerdì santo; e ancora, che aggiungeva dettagli come la «farmacia» di Giuda ad una storia millenaria. Un popolo mostrato sulla scena sul liminare della rappresentazione religiosa, in un’altra delle rare sequenze di massa nel cinema di Oliveira. Il termine Auto da Paixão [che avrebbe dovuto essere anche il titolo del film, ma che venne poi modificato non solo perché gli abitanti identificavano di fatto con quel nome la rappresentazione a motivo del suo aver luogo in primavera, bensì anche e soprattutto per alludere già nel titolo alla resurrezione finale che Oliveira vi inserì] indica un’insieme di rappresentazioni dell’Atto Religioso, le quali si articolavano in atti scenici, in atti di culto e in processioni religiose, rappresentate sia dentro che fuori le chiese ed approvate dalle autorità religiose. Discendente delle antiche romances medievali, dei misteri di fede cristiana, nonché delle leggende e gesta guerriere, l’Acto 44. 45. 46. 47.
T27, p. 172. T12, p. 34. T20, p. 84. E tale fu anche per le conseguenze che ebbe l’averlo girato: la prigione per Oliveira, cfr. retro, p. 41 e n. 7, 83.
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costituisce una composizione teatrale nella quale il processo di imitazione e adattamento di opere erudite s’incrocia con quadri e gesti di invenzione popolare anonima48.
Ed infatti il regista scelse di tagliare di netto una delle due parti di cui l’intera opera si componeva, quella evocativa delle vicende di Mosè e di altri eventi maggiori nell’Antico Testamento, lasciando in scena solo la dimensione dell’azione e dunque la Passione di Cristo49. È dall’interazione fra memoria collettiva, pietà e sfera rituale – religiosa e non religiosa: la rappresentazione teatrale – che l’opera ha tratto origine, in un mescolamento di sacro e profano che esprime adeguatamente la visione «spirituale», e al contempo «artistica», del cineasta lusitano. Fin dall’inizio Oliveira stabilisce, in questa sua «celebrazione rituale»50 filmica, un rapporto tra il mondo naturale di elementi primari quali l’aria, la terra, l’acqua, e un verbo creatore: si tratta delle parole del Vangelo di Giovanni, In principio era il verbo, che si ascoltano in voce off, parole rituali non solo nel loro esser finalizzate di regola ad un’azione religiosa bensì anche nel senso di esser tratte da un libro, da un testo impresso, fisso, ripetutamente letto. Non a caso, nel cartone posto all’inizio, lo spettatore legge che il film va in cerca «dei sentimenti originali, e non vuol esplorare il pittoresco e gli anacronismi che né evidenzia né disprezza». Sentimenti e dunque senso, senso creaturale e materiale, corporeo, carnale. Afferma Oliveira: Più conoscevo la storia [di quella rappresentazione popolare] e il convincimento degli attori (quanto calore mettevano nei loro ruoli!), più ero tentato, anche controvoglia, da una forma di espressione più interiore, che meglio rappresentasse il modo di sentire di quella gente semplice e il contenuto profondo della messa in scena51. 48. Campelo, Acto da Primavera, cit., p. 154. 49. T24, p. 60 (=T17, p. 108). 50. Così definisce il film J.M. Grilo, Funções paradigmáticas de O Acto da Primavera no cinema de Manoel de Oliveira, in T4, p. 80 (=T17, p. 153). 51. T10, p. 30.
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Il film prende avvio da una panoramica sulla campagna attorno a Curalha (dalle parti di Chaves, nel nord del Portogallo), villaggio nei cui pressi si svolge l’Acto: le greggi al pascolo, i pastori, il ruscello che trascorre vorticoso, i contadini che arano la terra e le folle che assistono alla lotta dei tori (qui c’è un’assonanza con A Caça, essendo montata in parallelo la lotta al bastone fra due uomini). È uno spazio originario, sensuale, nel quale risuona la parola creatrice del Vangelo, la quale fa così anche da premessa ad un discorso sul teatro, perché «Oliveira recupera la funzione del teatro popolare, […] dà ad esso il senso originale […] del radicarsi nella natura, origine del senso»52. Natura che si ripete nei ritmi, nei colori, negli accadimenti, offrendo in tal modo un senso, un’emozione allo sguardo che osserva e trasforma in suono quell’emozione. Quello sguardo è sguardo d’uomo e di donna, i quali compaiono subito nelle lunghe carrellate all’interno del villaggio, poi sulla piazza dove qualcuno legge il giornale ad alta voce raccontando della conquista della luna e dove il barbiere risponde, a chi interpreterà il Cristo nell’azione scenica e afferma di avere un ruolo importante da svolgere: «Tutti ce l’abbiamo!». Finché si assiste al vero e proprio passaggio dalla realtà alla fiction (invero, da un fantasma all’altro) nel personaggio della Samaritana, impersonata da una donna che si acconcia in casa dinanzi allo specchio (ulteriori intrecci virtuali) sotto lo sguardo desideroso del compagno (situazione che ricorda, in inversione prospettica, la scena analoga in Douro Faina Fluvial). La donna, quindi, esce di casa con una brocca sulla testa per recarsi al pozzo, dove incontrerà il Cristo che le rivelerà il suo peccato: la samaritana si allontanerà fuggendo spaventata, e al tempo stesso diffonderà per l’intero paese la «buona notizia» della presenza divina. Bambini storpi (qualcuno sembra uscito da Las Hurdes di Buñuel), poveri, infanti – ma anche turisti in Chevrolet, nonché lo stesso regista, il quale grida in macchina «Liga! azione!», svelando in tal modo la natura fantasmatica e virtuale della rappresentazione che segue –, tutti accorrono verso il luogo in cui un banditore53 annuncia l’inizio dell’Auto da Paixão. 52. Campelo, Acto da Primavera, cit., p. 161. 53. Doppiato dallo stesso Oliveira, cfr. T7, p. 114.
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L’Acto può dunque prendere avvio, svolgendosi en plein air54 su palchi mobili allestiti all’occasione, con costumi dai colori vividi e tagliati con l’accetta55, su interpreti tratti dal popolo e pienamente calati nei personaggi; soprattutto, scandito da una dizione d’attori cadenzata e nervosa, «declamatoria»56, in un portoghese d’epoca recitato a tratti come un cantato, melopea cantilenante ed avvolgente, senza tempo, a proposito della quale si è detto che dà al film una «struttura operistica»57. Ambientato di notte come di giorno, scandito da un montaggio secco e mobile, mancante di musica che non sia quella della parola58, l’Acto – «opera romanica»59 – prende avvio dall’ingresso in Gerusalemme e prosegue con la cacciata dei mercanti dal tempio fino alla morte e resurrezione di Gesù, seguendo una ad una tutte le tappe della Via Crucis, comprese la lavanda dei piedi, l’ultima cena, il tradimento di Giuda, la notte del Getsemani, l’arresto e il tradimento di Pietro, il processo di Caifa e di Pilato, la disperazione suicida di Giuda, l’ascesa al Golgotha, la morte e deposizione di Gesù. 54. Circa la «lotta contro il tempo» nella produzione di questo film – tempo «per sentire, pensare, constatare, rispondere, punire e decidere; il tempo-durata e il tempo psicologico, il tempo del lavoro, il tempo storico, estetico e, non meno importante, il tempo in quanto tale: quello che fa maturare la frutta e asciugare la biancheria», dunque il plein air propriamente detto, cfr. A. Reis, Flashback do «Acto da Primavera», in Vértice, 248-249, 1964 (=T10, p. 32). 55. Conferma Reis: «Colori simbolici, casti, “tagliati” senza alcun rilievo o manierismo […] in un film semplice, acerbo […], di una ruvidezza che evoca l’opera del tagliapietre», ivi (=T10, p. 34). Reis fu assistente alla produzione del film, in seguito passando alla regia con opere di celebrata profondità quali Trás-os-Montes (1975) e Ana (1983). Oliveira scrisse un testo nell’anno della sua morte, Sobre António Reis, in A Grande Ilusão, 13-14, 1991-1992. 56. T27, p. 172. 57. Bénard da Costa in T24, p. 62 (=T17, p. 109), testo nel quale si vede come Oliveira concordi: «Sì, l’opera è una forma magica [encantatória]. […] Render le parole cantate. Perché la parola in sé è già musica». 58. Anche Biette sottolinea «la progressione verso il canto delle parole, che contrasta con la chiusura tutta bressoniana dei volti», in Cahiers du cinéma, 175, 1966. 59. Reis, Flashback do «Acto da Primavera», cit. (=T10, p. 34).
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Inserti in bianco e nero tratti da filmati televisivi (esplosioni atomiche, corpi lacerati, guerre, deportazioni)60 s’intrecciano alle fasi conclusive della narrazione della Passione e, dopo un ritorno sulla piazza del paese, con la medesima inquadratura dell’inizio sullo stesso uomo che comincia a leggere quella che sembra la medesima notizia (segno d’un tempo ciclico all’opera, e forse ancor più d’una fuoriuscita dai cardini del tempo, vera e propria mise en abyme intertemporale di tutto quel che è accaduto nel mezzo), l’ultima immagine mostra l’avanzare d’uno sguardo – in movimento inverso, anche qui, rispetto al finale d’un film a venire, il finale estaticamente luttuoso di Vale Abraão – sotto un ramo di mandorlo in fiore contro un cielo blu: la resurrezione, vera Primavera, è infine Acto.
60. È il contributo dato al film da Paulo Rocha, autore nel 1963 di Os Verdes Anos, film capofila del movimento del cinema novo (cfr. retro, p. 41-42 e n. 8). Rocha sarà anche figura-chiave nel rapporto tra politica e cinema negli anni a cavallo del 1974.
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O Acto da Primavera è il tassello centrale, per quanto non immediatamente consapevole nell’intenzione del suo autore, del processo artistico in cui prende corpo l’«estetica dell’incertezza» oliveirana in anni di continua riflessione imposta dall’impossibilità a filmare. Si è già visto come sia attraverso quel film – in un intreccio che comprende O Pintor e a Cidade e Benilde ou a Virgem-Mãe – che il cineasta giunge a porre il mistero, l’incerto, al centro della propria esperienza artistica. Mistero nel doppio senso del termine, non solo quello religioso. Ancora nel primo progetto di Benilde tentavo di far vedere ciò che non si vede. Il suo incontro col vagabondo, ecc… Ma mi accorsi che, se lo facevo vedere, ciò ch’era incerto sarebbe diventato certo. Voglio dire che mi accorsi che avrei distrutto ciò che di più ricco la pièce conteneva, l’enigma che aleggia costantemente in essa. Nella vita non c’è spiegazione per niente. Le cose sono così… Anche nelle opere d’arte non ci devono essere spiegazioni… Non devono dare spiegazione di nulla. Sono così. Di fatto sono così. Siamo noi che dobbiamo trarne delle illazioni. Le illazioni sono multiple. Le interpretazioni sono varie e la ricchezza aumenta con le interpretazioni, con il numero di interpretazioni o visioni. Nella misura in cui tutto si schiarisce, tutto s’impoverisce. Se un segreto si chiarisce, perde il suo valore61.
È adesso possibile affrontare un’altra opera maggiore degli anni Novanta, O Convento, nella quale è centrale il te61. T24, p. 99 (=T31, p. 168).
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ma della conoscenza esoterica, vale a dire «interiore». A fronte di riferimenti anche espliciti a questa possibile dimensione delle sue opere, per esempio in Aniki-Bóbó62, in O Acto da Primavera63, in O Passado e o Presente64, in Benilde65, in Palavra e Utopia66 e – come si vedrà a breve – in O Convento stesso, Oliveira ha affermato di voler essere il meno «ermetico» possibile: Mi è difficile capire le incomprensioni che suscitano i miei film, il mio sforzo è di non essere hermético, non fingere profondità67.
Addirittura, nel caso della Clavis Prophetarum di Vieira, opera mai pubblicata in tre secoli, egli riferisce dell’«ironia» con la quale la considera68. Al contempo, in una importante lettera ad un amico critico cinematografico, Oliveira parla di una comunicazione attraverso un sesto senso, che si diffonderebbe per attrazione o simpatia nella trama estetica del processo narrativo, nelle idee e nei sentimenti che vi circolano, al quale altre persone sarebbero a loro volta più o meno permeabili o recettive.
62. Ivi, p. 48 (=T17, p. 102): «La filastrocca che dà il titolo al film […] maschera un certo mistero […] che si adatta ai personaggi e alla loro ricchezza interiore, a quella scena notturna in cui parlano di fantasmi, di Dio, del Diavolo, delle stelle. Qualcosa di meraviglioso, e di fantastico». 63. Ivi, p. 64-65 (=T17, p. 110): «È nella rappresentazione tradizionale che Giuda possiede [la farmacia che si vede nel film], le droghe, i rimedi magici. La sua figura ha qualcosa a che vedere con la magia, con il lato demoniaco della magia. È una specie di stregone. Pensai che fosse interessante e lo filmai». 64. T27, p. 164: «L’amore è frustrato in O Passado e o Presente per delle ragioni un po’ esoteriche…». 65. Ivi, p. 160: «Leggendo la pièce di Régio, constatai che vi erano alcuni elementi molto forti, il vento, l’acqua, il fuoco. Questi elementi contribuiscono a suggerire, per così dire, una certa fantasmagoria, certe forze magiche esterne e non palpabili, le quali però agiscono sugli individui e soprattutto fanno parte della costruzione della pièce». 66. Si veda il fugace accostamento che Oliveira fa tra Vieira ed «un intrepido cavaliere che cercava o difendeva il Graal», T17, p. 45-46. 67. I, Diário de Notícias, 2005. 68. TA, Parole et cinéma, 2001, p. 45.
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Insomma, «voci» delle opere medesime, «di alcune manifestazioni astratte della pittura o della scultura (per non parlare della musica)» che, in tal modo, «parlerebbero» da sé69. L’autore del presente volume manca di articolate conoscenze in campo alchemico-esoterico70, sicché non è possibile qui discutere criticamente il complesso tema della dimensione «ermetica»71 dell’opera di Oliveira. Nondimeno, alcune suggestioni in tema possono derivare da alcune fonti, come per esempio la riflessione che Reis ha consegnato alle pagine concernenti O Acto da Primavera, film per il quale, volendo dar conto della suggestione ad interpretarlo in termini di «opera romanica», egli si domanda se ciò non dipenda, fra le altre cose, forse anche dal rispetto e dalla valorizzazione dell’arcaico, dell’anacronistico, di una certa alchimia medievale e, persino, della magia? Non si identificherà per caso con l’esaltazione candida e lirica della fantasia? Con la franchezza con cui tutto ci viene mostrato ed enunciato72?
In effetti, ad Oliveira va dato atto che le tematiche tradizionalmente legate alla sfera ermetica, pur come s’è visto presenti nei suoi film (possiamo aggiungere alla lista il rife69. TA, Lettre à Rui Nogueira, 1977. 70. Si rinvia comunque ad un’agile e documentata opera introduttiva: S. Hutin, L’Alchimie, Paris, Puf, 19816. 71. «Corpo hermético que atrai quem o vê a um território abissal», «Corpo ermetico che attira chi lo guarda in territori abissali»: in questi termini si esprime su NON R. de Azevedo Teixeira, Non ou a Vã Glória de Mandar: um filme de vocação ensaística, in M. Monteiro [a cura di], Cinema e história, Centro de História da Universidade de Lisboa, 2004, p. 75. Si veda anche H. Aubron, Oliveira, pile ou face, in Vertigo, 22, 2001, p. 81, per un accenno ad un «sorprendente reticolo sotterraneo che unisce Oliveira e Lynch, [entrambi] ossessionati dalla problematica gnostica del Bene e del Male come rovescio della stessa medaglia»; va però specificato che in Oliveira la «ossessione» non si risolve in subordinazione al principio gnostico. Cfr. anche la «leitura arquetipica» di A Divina Comédia che offre A. C. Vasconcelos Pereira de Macedo e altri, Simbologias em A Divina Comédia de Manoel de Oliveira, in Vaz Ponce de Leão, Actas do Congresso Internacional Literatura, Cinema e Outras Artes, cit. 72. Reis, Flashback do «Acto da primavera», cit. (=T10, p. 34).
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rimento al «costruttore universale», colui che sceglie il «momento» della visibilità delle cose73), mai vengono caricate di centralità strategica o ideologica, né sono essenziali allo scopo di provarsi a fornire un’interpretazione complessiva delle sue opere. In sintonia con un’«estetica dell’incertezza» operante a trecentosessanta gradi, neppure ad un’interpretazione «alchemica» può esser conferito valore decisivo, capace di attrarre a sé per simpatia la molteplicità infinita delle interpretazioni possibili di quelle opere, delle loro «voci», del loro «parlare». Se dunque in più luoghi si legge di un individuo capace di superare se stesso individualmente, [attraverso] la sofferenza o un qualunque atto che lo faccia scoprire, nel proprio fondo, altro, [e dunque] morto e rinato come uomo nuovo74;
ebbene, tale prospettiva «interiore» può pienamente declinarsi nella «nouvelle naissance» attraverso il cinema, dunque attraverso la visione, prospettiva cui Agel – ecco un ulteriore, possibile, punto di contatto fra i due – ha dedicato un profondo libro all’inizio degli anni Ottanta, opera che ripercorre la storia del cinema alla ricerca di tracce di un «pensiero simbolico» quale via di accesso all’«iniziazione trasformatrice» dell’uomo nuovo in una molteplicità di film che spaziano dal western a Fellini, da Kurosawa a Rohmer, da Borzage a Nicholas Ray75.
73. T7, p. 115. «L’idea di “momento” è molto importante», afferma nella stessa pagina il cineasta, il quale nel 2005 ha girato un video-clip dal titolo Momento. Uma Canção de Pedro Abrunhosa, e si tratta del cantante che interpreta se stesso nel film Le lettre. Abrunhosa ha scritto un testo su Silêncio, Música e Cinema, in Vaz Ponce de Leão, Actas do Congresso Internacional Literatura, Cinema e Outras Artes, cit. 74. T24, p. 115; si veda anche T7, p. 154. 75. Agel, Cinéma et nouvelle naissance, cit.: si vedano in particolare il primo e il sesto capitolo. Agel si esprime con linguaggio «alchemico» anche in Exégèse du film, cit., p. 31-32. L’opera Cinéma et nouvelle naissance viene citata pure nel volume di p. Guy Bedouelle, Du spirituel dans le cinéma, Paris, Cerf, 1985, p. 25.
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O Convento Diventa ora possibile approcciare O Convento (Il convento, 1995), un film tratto da un’idea della Bessa-Luís. Quem neste convento entrar / Não ouvir não ver não falar. Chi entra in questo convento / non ascolti non veda non parli.
Ecco il cartone che compare in sovrimpressione nel momento in cui il ricercatore americano Michael Padovic (John Malkovich) e la moglie Hélène (Catherine Deneuve) attraversano in auto il cancello automatico che permette di entrare nel convento dell’Arrabida, nel suo spazio labirintico abitato soprattutto da un popolo di statue. Per sopravvivere, in quel passaggio di mondi e di barriere, si dovrà contare unicamente su ciò che sempre va insieme con la vista, l’ascolto e la parola, adesso però superflui: morti alla vita e alle sue relazioni, ci si dovrà abbandonare allo spirito, al sentire, alla «vita col pensiero». Insomma, si tratterà di affrontare una vita soltanto col «cuore», fronteggiando le sue stimolanti e pericolose incertezze. Sono mutile d’organi e d’arti perfino le statue, quelle che subito la coppia incontra nel far ingresso nello spazio del convento... Questo è l’insegnamento che esprime senza parlare – una sorta di film muto per epoche che non conoscevano il cinema – l’imponente statua di frate Agostinho da Cruz, figura carismatica nella storia del convento, posta a dominio del cortile principale e rappresentata con occhi bendati, naso ed orecchie tappate, bocca serrata da un lucchetto, cuore sotto chiave. L’opera, che Oliveira definisce «il più filosofico» dei suoi film76, e a proposito della quale egli ha l’impressione «di aver toccato con mano la pienezza, cosa cui si può giungere solo con l’età»77, va allora vista in chiave di commedia 76. In I, Jornal de Letras, 1995, p. 11. Per una lettura di O Convento, «uno dei film più ermetici di Oliveira», sulla base di suggestioni esoteriche, si veda X. Carrère, L’imitation de la Parole selon Oliveira (Humanité et Lucifer), in Trafic, 17, 1995. 77. In Bénard da Costa, Oliveira, Manoel (Cândido Pinto), cit. Cfr. anche T24, p. 161-162.
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sentimentale sul matrimonio – più esattamente, sull’unione di vita del maschile e del femminile –, le sue «incertezze» e i suoi rituali di avvicinamento e distacco, le «tentazioni» che circondano da ogni parte l’unità di vita «amorosa». È un gioco tra il maschile e il femminile. È un gioco eterno. Alla donna è dato fuggire, cerca di difendersi. All’uomo è dato inseguire, attaccare, persistere. È una legge. Nasciamo così. Dovremmo domandare al Creatore qual è la ragione di tutto questo78.
Si tratta, come sempre in Oliveira, d’una filosofia «concreta», radicata nella sfera etica delle relazioni umane, in quell’intreccio di spiritualità e materia che fa il fascino di tutti i suoi film. Non accetterò mai alcuna filosofia contro l’uomo. Sì, è una bella frase, ma l’uomo continua ad essere quello che noi vediamo tutti i giorni. Potrà accedere, un giorno, ad un vero stadio superiore, senza passare attraverso mutazioni d’ordine interiore profondamente vissute e sofferte?79
E l’intreccio fra spiritualità e materia, per l’uomo e per la donna, transita necessariamente attraverso il reciproco incontro e confronto. Più avanti si affronterà il tema dell’androginìa nell’universo di pensiero dei film oliveirani, ma la cifra di quella problematica sta tutta qui. Leggere in termini «umani, troppo umani» un’opera che in nulla si avvale di artifici e trucchi della tradizione del «fantastico» cinematografico, e che anzi ambienta la propria narrazione in uno storico convento del XVI secolo, di fondazione francescana, esplorato con un approccio che sfiora a tratti lo sguardo documentario su luoghi e reperti artistici (statue, oggetti di devozione, spazi liturgici)80, di certo non cozza con la molteplicità di riferimenti colti (letterari, artistici, filosofici) disseminati lungo tutto il film. Anzi, è anche possibile ritenere che siano essi il vero e proprio fantasma, il diabolico o fantastico che aleggia sul film, lo specchio nel 78. I, Jornal de Letras, 1995, p. 13. 79. TA, Lettre à Rui Nogueira, 1977. 80. «O Convento è costruito interamente come una visita in interni ed esterni», Carrère, L’imitation de la Parole selon Oliveira, cit., p. 26.
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quale riflettono se stessi, più o meno inconsapevoli, i personaggi d’una quotidiana vita d’ospitalità in un’antica struttura conventuale, oggi restaurata ed aperta al pubblico per turismo o attività culturali e scientifiche. Per esempio le citazioni testuali in tedesco dal Faust di Goethe, principalmente evocato nelle conversazioni di biblioteca fra lo studioso e l’assistente in loco Piedade (Leonor Silveira), testo che pare qui svolgere la funzione strutturale d’una «Bibbia laica» o, perché no?, diabolica... O ancora, il tema della ricerca dell’immortalità attraverso l’opera scientifica, argomento che il luciferino sovrintendente del convento, Baltar (Luís Miguel Cintra), utilizza per mettere alla prova Padovic sulla serra dell’Arrabida, prospettandogli quella fusione «alchemica» dell’individuo nel Tutto che, da altra prospettiva, la moglie rinfaccia al marito all’inizio del film quando gli chiede se, per lui, l’opera sia cosa più importante del loro legame affettivo. Altri topoi letterari possono aggiungersi all’elenco: l’oggetto della ricerca di Padovic concernente l’identità di Shakespeare (falso inglese, vero spagnolo? discendente da ebrei in fuga dall’Inquisizione, transitati per il Portogallo e l’Italia?); la citazione di Nietzsche, sull’alto della serra; infine la fugace comparsa – ad opera d’un casuale gesto della moglie, quasi a conferma dell’ipotesi «romantica» nella lettura del film – d’un foglio in pergamena recante impresso il frontespizio d’un Don Juan, soggiacente la copia del Faust regalata da Piedade a Padovic e che lui conserva sul tavolo di lavoro. Tutto il film, inoltre, è immerso in un bagno sonoro etereo ed avvolgente, sorta di «musica delle sfere» (compreso il passaggio costante d’idiomi francese, portoghese, inglese, tedesco) che accompagna l’intero cammino che porterà la coppia alla rinascita amorosa della scena conclusiva del film. Cammino che deve far di conto con la presenza sempre incombente di figure della notte e dell’arcano che abitano quello spazio conventuale81: Baltar, l’assistente Baltazaar (Duarte de Almeida, alias Bénard da Costa), la gover-
81. «Il convento è una casa d’elezione per il diavolo, è lì che gli piace agire», afferma il regista in I, Jornal de Letras, 1995, p. 11.
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nante Berta (Heloisa Miranda), tutti sempre circondati da simboli esoterici e rappresentazioni demoniache, immersi in interni dai colori cupi e rossastri, cultori di tarocchi e di notturni riti demoniaci con filastrocche fanciullesche (il mondo di Aniki-Bóbó non è lontano). È proprio Baltar a «menar la danza», inaugurando il gioco infine per lui letale d’un film veramente «musicale», abitato da una musica fatta di sonorità inusuali, lancinanti ed inquiete (il misticismo numerologico di Sofia Guibaudolina, Stravinskij), ma anche capace d’ampi squarci lirici e commoventi, musica che spesso s’intreccia ai dialoghi e ne diviene componente a tutto tondo82. È lui a lanciare il primo sguardo «tentatore» verso Hélène, al momento dell’arrivo della coppia al convento, ed è sempre lui ad aver la «buona idea» di affiancare Piedade al professore nelle ricerche in biblioteca, provocando immediati moti di gelosia nella moglie che daranno origine ad un’eterea sequenza notturna di caccia amorosa fra porte che sbattono e luci che si accendono e spengono. Tutto il film procede in un alternarsi di dialoghi su temi dettati dal desiderio amoroso, «erotico» nel senso più vero del termine (gr. erào, «amo»), tra notturni sogni sensuali che coinvolgono le due donne e il professore; nonché con piccanti passeggiate del demoniaco Baltar con la bella Hélène, en plein air ed in grotte «dalla forma di vulva» o in foreste giurassiche segnate da lascive ed avvolgenti forme d’albero, passeggiate durante le quali la donna deve continuamente divincolarsi dai ripetuti tentativi dell’agognata seduzione, al contempo cercando di piegare Baltar alla propria strategia diretta a riconquistare un marito sottraendolo alla desiderante deriva verso la diafana, colta, soave bellezza di Piedade. Il film si chiude sulla ricomposizione della coppia attraverso l’unico bacio che i due si scambiano in tutto il film, coppia che poi s’allontana dalla vista in campo lungo sotto lo sguardo dell’unico testimone, un pescatore intento a rassettare la barca sulla riva di quel mare purificante dal quale veniva fuori la donna. Uno scomparire alla vista alla veloci82. «Ci si immagina gli attori di O Convento far le prove insieme all’orchestra», Carrère, L’imitation de la Parole selon Oliveira, cit., p. 27.
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tà del fantasma, evento che si richiude a cerchio su una delle prime inquadrature del film, dove si vedeva un gruppo scultoreo di uomo e donna abbracciati di spalle, la donna con la testa riversa sulla spalla dell’uomo, adesso invece trasformati in vivente materia spirituale. All’happy end di un gesto così spontaneo e lieve, un bacio primitivo e dolce come il librarsi in aria al passo di danza, ordinario nella vita d’una coppia in amore (il pensiero fa ritorno, una volta di più, ad Aniki-Bóbó e al suo finale), Padovic giunge dopo aver attraversato un lungo e spaesante periplo attraverso molteplici incertezze, a cominciare dall’incertezza circa l’oggetto della propria ricerca: un processo infinito, come tutte le vere ricerche, che alla fine del film parrà venir abbandonato a vantaggio di un’immersione nelle scienze occulte (come recita un secondo cartone, in sovrimpressione conclusiva). Ma ancora, incertezza sui sentimenti provati verso Piedade, che a un certo punto del film gli sembrerà assumere le sembianze della moglie, in un gioco metamorfico che racchiude uno dei segreti del film. Incertezza, infine, sulla propria ambizione di gloria ed universale riconoscimento, che si manifesta appieno nella scena girata sull’alto della serra circostante il convento, luogo nel quale Baltar prova a replicare la tentazione evangelica del Cristo. «Io sono un uomo pieno d’incertezze, che costantemente s’interroga»83, dice di sé Oliveira: quale luogo più adatto per questa ricerca «interiore», anche per un regista, se non un convento, «il luogo che, di tutti, è quello maggiormente vicino al diabolico»?84
83. Ibidem. 84. I, Jornal de Letras, 1995, p. 11.
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Party Te lo dico e lo ripeto, / al bordo del mare non bisogna scendere! / Le onde, al bordo del mare scatenate, ti prenderanno e tu ti perderai! / Se mi prendono, fin dove mi porteranno? Nelle profondità del mare? / Farò del mio corpo una barca, e remi delle mie mani…
Questa la canzone cantata in greco sui titoli di testa di un film, Party (1996), ambientato a Ponta Delgada, sull’isola di São Miguel alle Azzorre. Per festeggiare i dieci anni di matrimonio, Rogério (Rogério Samora) e Leonor (Leonor Silveira) organizzano un garden party al quale è invitata una coppia d’amici non sposati e più in là nell’età: Irene (Irène Papas), greca, già attrice famosa ed ora impresaria di successo nello spettacolo, e Michel (Michel Piccoli), francese bon vivant, «generale nella guerra fra i sessi»85. Interrotta la festa da un vento che s’alza improvviso, i quattro si ritrovano cinque anni dopo, con gli ospiti che tornano sull’isola per far visita agli amici. Rinasce la liaison fra la moglie e il francese sbocciata durante il primo incontro, e il film si chiuderà sul prendersi, poi sul lasciarsi dei due – chi seduce? chi abbandona? –, con un finale a sorpresa degno di comiche del muto. Tutto il film è sotto il segno dei quattro elementi – anche di un quinto, «Ci sono luoghi nei quali gli elementi si 85. Si cita dai dialoghi del film contenuti in A. Bessa-Luís, Party. GardenParty dos Açores. Diálogos, Lisboa, Guimarães, 1996.
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alzano contro di noi, e l’amore è un elemento più terribile del vento e del fuoco» –, ma l’acqua importa più di tutti ai quattro personaggi che stanno là, «dinanzi al mare dal quale nacque Afrodite dea dell’amore». Dinanzi, e forse ben dentro, nelle profondità di cui cantava la voce d’apertura… Non è solo la canzone a dire il legame del film – la sua struttura, la sua estetica86 – col «fluido» d’amore. Lo conferma l’ambientazione sull’isola e il cielo plumbeo che minaccia fin dall’inizio quella pioggia che avvolgerà la seconda parte del film. Poi la vera e propria «discesa al mare», poco dopo l’arrivo degli ospiti al party, un incontro fra piscine scavate nella pietra, «simbolo uterino», e nere rocce vulcaniche battute dalle onde del mare, incontro nel quale nasce la passione fra Michel (a suon di «tuoni che arrivano dal mare e mi fanno a pezzi!») e Leonor, giovane sposa che amava cantar adolescente «coperta dal rumore del mare, molto meno che sirena» e magari «balena grigia». Ma è tutto il film a strutturarsi su dialoghi d’acqua, cangianti e leggeri come gocce nel mare, tesi e penetranti come acque d’un fiume. Su invito di Leonor, cinque anni dopo i quattro si ritrovano sull’isola per riprender il dialogo di passione e d’amicizia, di devozione e d’abbandono, seduti alla tavola d’una cena mai consumata, ostacolati nel dialogo da statue d’angeli e da un barracuda gigante, «pesce morto sulla tavola, che nessuno mangerà». E poi ancora riscaldati dal fuoco d’uno splendido camino d’un discepolo di Michelangelo «venuto dal mare». Ma soprattutto immersi nella nebbia delle passioni, «condensato d’acqua […] che permette di veder ogni sorta di cose che non si vede nel giorno chiaro». Con Irene che, lei sì, «ama più la pioggia del bel tempo» e canta «come una sirena per chiamar l’amante», il quale nel frattempo s’è allontanato con Leonor, «andato alla pioggia e bagnatosi» di un’acqua più penetrante e letale di quella che a più riprese ricopre Leonor (il lungo scroscio d’acqua cui si espone, la doccia per il cambio d’abito) nella notte rivelatrice. 86. Che Biette legge sotto il segno e dell’aria e del fuoco («I dialoghi […] come linea d’elettricità che dà luce alle ampolle che sono gli attori»), cfr. J.C. Biette, Deux Mozart et un troisième, in Trafic, 20, 1996, p. 10-11.
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Tutto il film si svolge sotto l’occhio attento di fantasmi: La casa, il fantasma, il fantasma degli antenati, la figura dell’armatura senza occhi che guarda, che bello!87,
dice Oliveira. E fors’anche il colpo di vento, che chiude la prima parte del film, va veduto sotto l’occhio d’uno sguardo sovrano che rivela l’invisibile.
87. I, Positif, 1997, p. 21.
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Un tema che ricorre costantemente nell’opera oliveirana è quello dell’androginia. Più volte il cineasta afferma che parlar di queste cose attiene maggiormente al poeta88, dunque è con animo di poeta che anch’egli lo fa. Va detto che quando affronta questo tema nelle interviste – in particolar modo due volte con Bénard da Costa –, Oliveira si abbandona a qualcosa che si avvicina a vere e proprie affermazioni teologiche, in particolare sulla natura di Dio. Ma insomma, è sempre un poeta che parla, magari facendosi forte delle parole di un altro poeta, e comunque sempre facendo ricorso alle figure del mito e della rappresentazione. Claudel aveva quest’idea, cioè credo avesse l’idea che Dio è androgino… Gli uomini sono separati dal sesso. Ma questa separazione avrà fine. È quella vecchia storia di Platone: prima della creazione, uomini e donne erano uno solo, poi furono separati come le due metà di un’arancia. Ma vogliono tornare ad unirsi. Trovare l’altra metà. Il sesso invoca l’androgino… Invoca l’androgino, ma l’androgino è impossibile. È impossibile da realizzare in questa vita. Può darsi che, se ce n’è un’altra, in quell’altra si realizzi… E per questo il sesso è in rapporto anche con l’insoddisfazione, ossia è per questo per esempio che Wanda [in O Passado e o Presente] vuole solo mariti defunti, perché con loro, almeno, può immaginare tutto… Mentre la presenza reale separa. Separa più della nostalgia. In fondo, tutti vogliono realizzarsi in Dio. È sempre, sempre la stessa storia89. 88. T22, p. 46. 89. T31, p. 167.
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L’uomo non può avere il pensiero della donna. Né mai la donna può avere il pensiero dell’uomo. Checché se ne dica, non siamo nello stesso corpo, non abbiamo lo stesso spirito. A meno di essere un androgino, cosa da non confondere con l’ermafrodito. L’ermafrodito è un collage; l’androgino è un tutto, un insieme rotondo, sferico secondo Platone. Non pensa. È la perfetta unità90.
E ancora: Dio è androgino perché è uno solo. Ha creato tutto senza la necessità di ricorrere a niente. Nella nostra rappresentazione celeste non ci sono donne. Le uniche donne presenti sono figure umane diventate demoni. Ma nel cielo non ci sono donne. C’è Eva, creata da Dio, ma è terrena. C’è Lilith, anche lei creata da Dio. Ma anche lei è della terra. Ma in cielo c’è il Padre, il Dio creatore, che creò senza aiuti – non c’erano fabbriche. Non ha avuto bisogno di donne per fare la creazione, non ha avuto bisogno di aiuto. Quindi è androgino, nel senso di onnipotente ed onnisciente. Ha creato spontaneamente, senza la necessità di negativo e positivo, di femminile e di maschile che c’è negli esseri umani, animali e vegetali. E perfino nelle cose, quella storia del positivo che attira il negativo, anche quello funziona, non so come. Se Einstein fosse vivo, glielo chiederei…91.
Vale Abrãao Un film nel quale il tema dell’androginìa è particolarmente presente è Vale Abrãao (La valle del peccato, 1993). Sotto il segno dell’intreccio fra il maschile e il femminile è già la gestazione artistica dell’opera: desideroso di confrontarsi con la Madame Bovary flaubertiana (è già maschile lo sguardo sul femminile), ma impedito da ragioni produttive a farlo in via diretta, Oliveira chiede alla Bessa-Luís di scriverne un adattamento ambientato in Portogallo in epoca contemporanea. La scrittrice ne fa invece un romanzo vero e proprio, dal quale il regista trae la sceneggiatura. 90. T7, p. 65. 91. T31, p. 180-182. Cfr. anche retro, p. 197-198.
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Nel film si racconta – in un intreccio fantasmatico la cui ragione sarà ormai ben comprensibile – d’una sorta di Bovary portoghese, magnifica e claudicante, Ema (con una sola emme, interpretata dalla musa di Oliveira, Leonor Silveira), e delle sue vicende amorose ed esistenziali ambientate nella valle del fiume Douro, in un’epoca non meglio definibile della seconda metà del XX secolo. Vi si narra della sua infanzia nella casa paterna, orfana di madre, e del suo incontro e poi del matrimonio con un medico più grande di lei, Carlos Paiva (Luís Miguel Cintra) con cui avrà due figlie e dal quale a più riprese si allontanerà affettivamente per inseguire amori romantici e storie più prosaiche nella prosaica borghesia portoghese in cui vive. A proposito del film, Godard ha dichiarato che si tratta di un’opera nella quale «ci sono troppe inquadrature, mancano dei neri», vedendo in ciò una certa «mancanza di spirito critico [da parte di Oliveira], ma non gliene si può volere»92. Era l’anno nel quale Hélas pour moi usciva nelle sale in contemporanea col film di Oliveira. Invero, è possibile muovere una critica a Godard, poiché il piano nero nel film c’è, e in un certo senso è il piano più importante di tutto il film: si tratta del piano dei titoli di coda. Mentre scorrono i nomi degli attori e fino alla data di edizione del film e al copyright, vale a dire per l’intera durata di quella coda, il piano è nero ma è parte organica del film, poiché il sonoro fa ritornare lo spettatore sul treno col quale egli è entrato nella valle all’inizio del film, dopo il prologo in cielo con la voce off che descrive la valle vista dall’alto. Quello non è un piano neutro, e dunque va interpretato, legandolo all’opera che lo precede. Ema è scomparsa dall’immagine nel piano precedente, e il film ci invita a pensare che sia caduta nel fiume a causa d’un passo lanciato nel vuoto sull’asse del pontile sconnesso, che lei ben conosceva e di solito evitava: un suicidio dunque, a conclusione di una lunga vicenda di disillusione amorosa e d’insoddisfazione matrimoniale. Un tonfo nell’acqua, le onde che si richiudono sul corpo, una conso92. J-L. Godard, La loi de la gravitation, in Cahiers du cinéma, 472, 1993; ried. in Godard, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, t. II, cit., p. 279.
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nanza con il Sanshô Dayû di Mizoguchi e la scomparsa di Anju (forse anche con la Mouchette bressoniana), che non lascia dubbi sulla conclusione della vicenda esistenziale. Poi si ascolta una voce off, come all’inizio del film, che racconta ancora qualche dettaglio sulle vicende di altri personaggi e chiude la scena visiva dichiarando: Nada disto é importante. Mas ninguém imita melhor do que eu uma bela vida Niente di questo è importante, ma nessuno imita meglio di me una bella vita93.
Dunque, col piano nero dentro un treno, il sonoro sopravvive. Se non si dà più immagine nella fine del film, e dunque se il nero c’è, quel che non manca è il sonoro. Come lo spettatore è entrato nella valle in un giorno di sole dentro un treno, ugualmente ne esce in treno anche se nel nero, nella mancanza di visione oculare ma non anche uditiva. In modo oscuro la vita continua. Si vive, si ascolta. Dice Oliveira del suo personaggio: Ema torna all’acqua perché viene dall’acqua. La sua morte è come una rinascita. Ecco perché è così gioiosa. Con l’acqua, la vita può continuare. Mi piace il suo rapporto istintivo con la natura, il biologico, l’animalità. Lei trascende costantemente la realtà, invece gli uomini non hanno ali94.
Invero, se nella vita percettiva degli umani l’immagine visiva è legata a doppia mandata alla prospettiva individuale (il punto di vista coincide col corpo di chi vede)95, quella sonora ne è svincolata e dunque è ben possibile credere 93. Come si legge nell’ultima pagina di Bessa-Luís, Vale Abraão, cit. Oliveira: «Si tratta di un film lirico. Come una donna resiste agli uomini, che sono il potere, con la forza della propria visione poetica del mondo, anche se è illusoria», I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 43. 94. I, L’Humanité, 1993 (=p. 137, nella riedizione nei Cahiers du cinéma). 95. Anche in quello che è stato chiamato, proprio in rapporto a questo film, il «piano monadologico», cfr. C. Buci-Glucksmann, Drôle de pensée touchant Leibniz et le cinéma, in Trafic, 8, 1993, p. 76.
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che non perché Ema cada nel fiume, e scompaia alla vista, le venga anche impedito l’ascolto, il continuare ad ascoltare. Ema non c’è più nell’immagine, è in fondo al fiume, nondimeno lo spazio sonoro comune a tutti persiste, dunque anche Ema, in quello spazio, persiste. Meglio ancora: forse anch’essa non è mai stata separata da quello spazio, non vi era un tempo in cui era assente e dunque mai vi è entrata, sempre c’era. E se lo spazio della parola è ininterrotto, se è un continuum, così sarà forse anche del tempo… Lo spazio sonoro non può essere identificato sul piano sonoro, perché l’identità che si presuppone non è mai data: per descrivere uno spazio sonoro, colui che opera deve descrivere anche il proprio medesimo atto di parola, dunque i suoni che egli stesso produce, in un gioco infinito ed inafferrabile tra emittente ed emissione, significante e significato, un gioco equivalente per esempio a quello che Escher ha rappresentato sul piano visivo in opere famose nella storia dell’arte. Se allora la parola nel cinema di Oliveira, come si è letto, è sovrana, quella chiusa sonora di Vale Abraão lo testimonia cinematograficamente. Non c’è immagine visiva, ce n’è però una sonora. Il viaggio, anche quello di Ema, può continuare. Così come parrebbe essere continuato anche quello di tutti e due i ragazzi di A Caça, che forse s’intravedono in Vale Abrãao a un certo punto in uno specchietto retrovisore… Questa posizione filosofica spiega allora la costruzione cinematografica dell’intero film: non solamente la presenza della voce off (Mário Barroso), che viene ad assumere una valenza acusmatica nel senso di Chion96, pur non essendo mai il personaggio che parla «in grado di apparire in campo in qualunque momento». La parola essendo sovrana nel cinema di Oliveira, in nessuna immagine si dà mai assenza di 96. Non è forse un caso che la prima ricorrenza di Oliveira nell’opus magnum di Chion sia proprio attraverso una riflessione sul sonoro (con accluso fotogramma) del film Vale Abrãao, nella sequenza che vede Ema giovane frugare col dito nella corolla di una rosa, cfr. M. Chion, Un art sonore, le cinéma. Histoire, esthétique, poétique, Paris, Cahiers du cinéma, 2003; trad. Un’arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Torino, Kaplan, 2007, p. 102. Il film ritorna anche a p. 118.
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parola, e questo implica che mai si dia assenza di locutore, neppure nell’immagine muta del cinema senza sonoro. Propriamente, nel «teatro vitale» noi siamo parlati dal linguaggio che esprimiamo, noi stiamo sempre recitando un testo nell’infinita molteplicità delle sue metamorfosi. «Eu não sou a Bovarinha» dice Ema. Lei non è la Bovary, certo: ciò che tiene insieme le due figure è un testo, il cui ripetersi in forma esistenziale, cioè differente, attesta della natura fantasmatica, metamorfica, in continuo mutamento, di ogni evento rappresentato e vissuto. Ogni ripetizione è metamorfosi, ogni ripetizione è differenza, differenza di, e in, un’immagine. Tutto ciò è «oscuro» perché detto, cioè mostrato e non visto. Parain ne parlerebbe come di «mistero», o meglio ancora di «postulato»97. Nondimeno di esso c’è immagine nella parola che ci pone in tensione, in un «tendere» che è sperare (la radice ariana della parola è spa-, la quale possiede appunto il significato di «stendere, tendere verso»). In quella parola si crede, ad essa si aderisce, in essa si ha fede in senso etimologico: le si presta fiducia perché è la natura stessa dell’umano, il suo bene, nonostante tutte le ambiguità di cui essa può essere portatrice. Ancora Parain, che ripeteva quanto la menzogna sia costitutiva del parlare, una sua costante possibilità, la quale nondimeno non scalfisce «le pouvoir des mots», «il potere delle parole»98. Tutto questo dice il piano nero conclusivo del film, ambientato dentro il treno. Adesso è dunque possibile comprendere perché Ema cerchi costantemente, in tutto il film, un incontro con l’altro – maschile, femminile – che sia incontro nell’ordine dell’incerto, del fantasmatico, dell’u-topico, vale a dire dell’articolarsi di differenza e ripetizione, ad esempio nel rapporto tra i sessi. Dunque un incontro sotto il segno dell’androgino. EMA: Residui di androginia? Di cosa si tratta? DOSSEM: Sono cose difficili da spiegare. Mi riferivo a residui [resquicios, vesti97. Parain, Petite métaphysique de la parole, cit., p. 123. 98. Parain, Recherches sur la nature et les fonctions du langage, cit., p. 154. Puissance de la parole è il titolo di un corto girato da Godard nel 1988.
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gia] di un essere androgino iniziale e, certamente, unico, il quale in una certa epoca, per esplosione violenta, si divise e si disperse in femminile e maschile. […] Ci sono dei sintomi di tutto ciò. Che senso hanno le mammelle nell’uomo? Sono assolutamente inutili. Ma sono uno stigma dell’androgino99.
Si tratta dunque della ricerca d’una ricomposta unità nella quale venga meno la contrapposizione, e invero un’unità u-topica, dato che quel movimento altro non può essere che compresenza di contrari (maschile e femminile, parola e visione, per citarne solo alcuni) nella loro differenza, dunque in un rapporto sempre mutevole e cangiante. Ema infatti sempre ricade sotto il dominio della legge di gravità, come qualcuno dice in un dialogo del film: LUMIARES: Lei ha la «febbre dell’ascensione», […ma non avendo…] ali né poteri soprannaturali, non si vuole buttar giù dal quinto piano perché crede nella gravità100.
Ema rimane infatti sottomessa alla condizione descritta da un altro personaggio, come si ascolta sempre nei dialoghi del film: MARIA SEMBLANO: La donna ha molto di somigliante e di differente dall’uomo. E come donna è condannata all’usurpazione d’un territorio, d’un pensiero, d’un piacere che non sono suoi. […] Siamo create come donne, ma la coscienza corrisponde al movimento dello spirito dell’uomo. Si tratta di qualcosa di semi-reale, uscito da un significato incompleto, come una schiena che manca d’una costola. La sua differenza rimane immaginaria, come cosa di donna, come un organismo che assorbe
99. Il luogo classico sul tema dell’androgino è Platone, Simposio, XIV. 100. «GODARD: Ho cominciato a veder il suo film e un certo momento l’ho lasciato cadere, poi mi sono messo a pensare a qualcosa. Mi sono detto, ah!, va meno bene, e allo stesso tempo sognavo, pensavo alla gravitazione, a Newton. Poi mi son svegliato, sono ritornato in me e proprio in quel momento qualcuno pronunciava la parola gravitazione. Allora mi sono detto: il film è buono, bisogna che vada a rivederlo ancora. OLIVEIRA: È effettivamente il soggetto del film: la gravitazione e le leggi di gravità», in Godard, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, t. II, cit., p. 264.
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un altro e lo espelle perché estraneo. La maternità simbolizza questo falso portatore, in relazione con l’assente. Il vuoto del mondo, verso cui tende il desiderio.
Dunque una condizione di desiderio e di tensione appropriativa che è l’esatto contrario della tensione della speranza, l’«amor saudoso» del quale parla l’ex-maggiordomo Caires (José Pinto) alla fine del film, un sentimento che cerca di liberare decisamente dalla logica del proprium ma non per spingere in direzione del vuoto e del desiderio senza oggetto (quale che sia l’etimo della parola: de-siderare, «fissare attentamente le stelle», l’alienarsi nell’immagine col de- in funzione intensiva; oppure «toglier lo sguardo dalle stelle», col de- che vale per allontanamento, mancanza), bensì per aprire alla confidenza nel perseverare d’essere che non viene mai meno. La condizione nella quale vive Ema per tutto il film, allora, è quella di un essere oscillante, claudicante, in perenne trapasso fra tensione u-topica e sottomissione alla legge di gravità con conseguente caduta. E di un tale oscillare – una vita au clair de lune anche musicale (Beethoven, Fauré, Debussy, Schumann, Strauss) – è data una straordinaria immagine nel film, la rosa, che più volte ritorna a segnare momenti d’intensità rivelatori della vicenda esistenziale di Ema: la scoperta della sensualità, col dito che penetra eroticamente la corolla; l’abbandono alla legge di gravità nel momento in cui, con un abbraccio altrettanto sensuale, ella fa dono del fiore a Ritinha (Isabel Ruth), una rosa che Ema è andata a cogliere uscendo fuori campo, in tal modo annunciando il «suicidio» che avverrà attraverso una medesima uscita fuori campo. EMA: Perché «rosa»? […] Più tardi seppi che nell’antica lingua dei Bramani, «rosa» voleva dire «oscillante» o «quella che oscilla». Troppo breve immagine del fiore nel suo stelo, toccata dal vento e pronta a lasciar cadere le proprie foglie. Perché rosa, se al contatto col vento smette di esser rosa? Ma nell’oscillare [balouçar] già è rosa, e subito smette d’esserlo. […] Io non sono niente, sono uno stato d’animo che oscilla101. 101. Dai dialoghi del film. Cfr. anche Bessa-Luís, Vale Abraão, cit., p. 210-211.
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È vero quel che afferma Bénard da Costa, «Mai Ema Bovary fu tanto intensamente amata [se non in questo] film di compassione, una sublime compassione»102, per una donna che è «un fantasma fra altri fantasmi»103. Ma appunto, sotto il regime della legge di gravitazione l’unica risposta possibile al nonsenso del nulla e della disperazione è l’assumere su di sé il dolore e la sofferenza della condizione di separazione nella quale si vive e dunque com-patire, soffrire insieme, consentire (il contrario d’un trasporto passionale) nell’assumere il morente nello sguardo del vivente. Tutto il cinema di Oliveira, invero, è articolato da questo movimento di accoglienza del morente nello sguardo del vivente, e ciò spiega il senso del suo essere un grande «lottatore contro la morte»104. E in Vale Abraão la compassione si estende ad un’intera civiltà, non solo attraverso la possibile lettura di Ema come «figura della nazione» specialmente in rapporto alla liberazione dei costumi sessuali, nella contrapposizione ad altre donne del film viste come figure della morale borghese e della religione cattolica, ma anche in rapporto alla figura della tradizione e del lavoro rappresentata da Ritinha105. Vi è infatti un importante dialogo su temi «politici» alla fine del film, a conferma della costante attenzione di Oliveira per la dimensione collettiva della vita associata: neppure in valle Abramo si è lontani da essa… Si tratta d’un dialogo che si trasforma subito in monologo, sotto gli occhi rapiti e contenti delle due figlie di Ema e del padre, in una situazione che richiama Um Filme Falado e la madre professoressa che si fa educatrice d’una bambina molto curiosa. Monologo nel quale, attraverso il personaggio di Dossem 102. T24, p. 149. 103. A. Aprà, Per non morire hollywoodiani, Milano, I libri di Reset, 1999, p. 79. 104. Di «Aufnahme des Toten in der Betrachter», «accoglienza del morto nell’osservatore», parla Elias Canetti in Das Gewissen der Worte, Hanser, München, 1975; trad. La coscienza delle parole, Milano, Adelphi, 1984, p. 43: «l’accoglienza più profonda e degna dell’uomo». 105. A. Fiolet, Val Abraham, in L’art du cinéma, 3, 1993. Di Ritinha, sordomuta dalla nascita e forse rimasta vergine, la quale ha una sorta di relazione «vegetale» con Ema, è detto inoltre nel film che «il sapere le è entrato dagli occhi».
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(João Perry), si rivela appieno la posizione di Oliveira medesimo sulle questioni affrontate. DOSSEM: Ho parlato di politica con sua moglie! PAIVA: Loro dovrebbero governare il mondo! […] DOSSEM: Nelle monarchie la regina spesso governava. E anche oggi, nei governi democratici, accade che si dia il potere alle donne come primo ministro. E loro assolvono al ruolo tanto bene quanto male, come gli uomini. […] Si parlava dello sviamento del mondo, di quello che chiamiamo «progresso». Della fame, della miseria e dell’ingiustizia. […] Si veda l’Europa per esempio. Ha creato una civilizzazione, certo, ma come? Appropriandosi di beni che non le appartenevano. E cos’ha dato in cambio? Ha creato un mercato per meglio succhiare il midollo altrui. […] Il plus-valore che l’Europa civilizzata lascia oggi altro non è che spazzatura, fame e ingiustizia. […] Sì, in un certo senso io sono un ribelle [révolté], ma pacifico. […] Come un dandy, un aristocratico, un bon vivant forse, anche se non ne vedo l’incompatibilità con la giustizia, e molto meno con la coscienza di quel che può essere giusto. Il problema è una questione di etica. Etica con la lettera maiuscola, ecco cos’è mancato. È senza etica che l’Europa ha generato tutto. Per me è questa la grande colpa. […] Si prende castigo per giustizia, potere per onore, orgoglio per nobiltà. Europa: non solo quella dei prìncipi e delle corone reali che si divertono alle feste, un’Europa che non escludo, come neppure le repubbliche che sono venute in seguito e che si sono disseminate in democrazie e dittature in Occidente e all’Est. So bene che i popoli, europei o no, fanno parte dell’umanità, ma è proprio lì che sta il male del mondo. La civilizzazione è degenerata ed ha fatto dell’uomo il virus distruttore della natura. Quest’Europa, e non ce n’è un’altra, che ha elaborato lo statuto stesso di civilizzazione, è vittima di se stessa. Forse se n’è accorta troppo tardi ed oggi si sente obbligata a ricomporre il mondo, cosa che tenta disperatamente sotto il segno della democrazia. […] Gli Usa sono figli dell’Europa, figli ed eredi della civilizzazione occidentale poiché, sotto influenza sassone o anglo-sassone, una radice mediterranea persiste. […] Hanno ricevuto una cultura ed anche una religione, ma né qui né lì esse sono state ancora comprese. Sono state snaturate, violate da un’idolatria e da un pragmatismo estremisti e disumanizzanti. […] «Entusiasmo pessimista», il mio? Non posso esser chiamato un «politico», se mi azzardo a parlare di queste cose è con la sensibilità equivalente a quella di un’artista che ha una visione poetica delle 239
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cose e del mondo, e per questo soffre. Soffre per lo choc della realtà.
E lo choc della realtà arriverà immediatamente ad opera del marito di Ema, il quale afferra il gatto che la donna aveva continuato ad accarezzare con sovrano dispregio delle convenienze per tutto il tempo del monologo (cfr. inserto fotografico), e lo getta lontano, gesto col quale la cinepresa, che ne viene colpita, traballa: segno d’una realtà che, per il cinema, sta tutta e solo nello sguardo dello spettatore, chiamato a posizionarsi rispetto ai temi affrontati, l’amore, la politica, il legame fra il maschile e il femminile. Quella valle è un luogo nel quale tutto è legato, come all’inizio di ogni cosa, la parola e la musica, i gesti e il verbo, molto intimamente, l’uomo e la donna, il maschile e il femminile, un luogo androgino, cioè qualcosa che m’interessa molto. Senza questa liaison, senza questa intimità tra le cose e i personaggi, tra il maschile e il femminile, lo scorrer della vita s’arresterebbe106.
La lettre E la ricerca d’una vita etica sarà anche l’oggetto del film col quale si chiude questo libro, questa breve «lettera» inviata al lettore e nella quale s’è parlato di cinema, di parola, di politica. In La lettre (La lettera, 1999) si afferma: Il matrimonio non si fonda sull’amore o sulla passione ma sul consenso, e il consenso è già una forma sottile d’amore107.
A dirlo è una madre, Madame de Chartres (Françoise Fabian), alla figlia Catherine/Madame de Clèves (Chiara Mastroianni) sul letto di morte, conscia del clinamen o inclination (vocabolo dell’atomismo epicureo) clinazione ch’ella manifesta per un uomo che non è il marito. Le lacrime 106. I, Cahiers du cinéma, 1993, p. 43. 107. Sul tema del «consentimento», cfr. retro, p. 125, n. 23.
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della figlia sono anch’esse segno d’un consenso manifesto, un sentire all’unisono con una madre quasi svanita, fantasma che parla di cose eterne costantemente presenti, con voce sempre più flebile e diafana. Catherine/Madame de Clèves – personaggio del romanzo del XVII secolo La Princesse de Clèves di Madame de La Fayette, «critica dei costumi»108 della corte di Enrico II, al quale Oliveira si è ispirato trasportandone l’azione nella Parigi dei giorni nostri in modo «libérrimo»109 – assume consapevolmente il proprio destino, camminando dritta sulla strada d’un calvario matrimoniale funestato non solo dall’assenza dell’amor-passione verso il marito, peraltro da lei stimato e rispettato («un’altra maniera d’amare», dice Oliveira110), Luis/Monsieur de Clèves (Antoine Chappey), ma anche da molte morti oltre a quella della madre: l’amante giovane respinto, il marito mai tradito, infine la morte alle passioni trasformata in resurrezione d’amor perenne per Pedro Abrunhosa cantante pop, interprete di se medesimo, incontrato poco dopo le nozze e alle cui avances mai volle cedere anche per tutelare il proprio onor di donna, «un’altra maniera d’amare che implica rispetto fino alla morte, ed anche al di là della morte»111. Cosa che vale sia per il marito, sia per l’amante. Se, in effetti, mai i due amanti s’incontreranno nell’abbraccio, nondimeno più forte della morte sarà per loro l’amore: lui voce di speranza (Serà) nella nera notte satanica d’una folla musicale, lei testimone dell’amor di carità di suore fattesi serve di poveri in terra d’Africa. Será que consegues ouvir-me dizer que te amo tanto quanto noutro dia qualquer / Eu sei que tu estarás sempre por mim / Não há noite sem dia, nem dia sem fim / Eu sei que me queres, e me amas também me desejas agora como nunca ninguém / Não partas então, não me deixes sozinho / Vou beijar o teu chão e chorar o caminho / Será, Será, Será! Sarà che riesci ad ascoltarmi dir che t’amo tanto quanto un altro giorno qualsiasi / So che ci sarai sempre per me / Non c’è 108. 109. 110. 111.
TA, Le vieux débat, 1999, p. 87. Così si esprime Bénard da Costa in T24, p. 187. I, Positif, 1999, p. 29. Ibid.
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notte senza giorno, né giorno senza fine / So che mi vuoi, e mi ami, e anche mi desideri, adesso come mai nessuno / Non partire allora, non lasciarmi solo / Bacerò il tuo suolo e piangerò il sentiero / Sarà sarà sarà.
È in una lettera che s’ascolta in chiusura, prima della canzone d’amore, letta dalla voce d’una monaca sua confidente (Leonor Silveira) accanto al ritratto della giansenista madre Angelique Arnauld, badessa di Port-Royal e fondatrice del convento, che Catherine/Madame de Clèves esprime fino in fondo la propria differenza, il proprio destino, «le ragioni che non conosciamo, […] perché non sappiamo cosa succede nel cuore», come qualcuno nel film sussurra ad Abrunhosa. E questo nonostante tutta l’opera sia percorsa da una sinfonia di sguardi che si rincorrono, si controllano, si separano – anche di statue nel convento e di fauni nei parchi parigini… Se la Gertrud di Dreyer volle pur darsi all’amante musicista, qui la scelta è più radicale ancora, altrettanto limpida nell’obbedienza a quelle ragioni del cuore che la ragione non conosce. Un’obbedienza che è gesto etico, atto complesso di critica ai costumi contemporanei, rafforzamento d’una sorta di resistenza [all’attuale modus vivendi, di permissività pressoché totale], con ancor maggiore aggressività tanto sul piano sociale che su quello etico112.
E questo senza facili affidamenti a motivazioni religiose o politiche, anche se Oliveira ne parla in termini di «sacrificio in favore di altri sacrifici, qualcosa d’inesplicabile». Nel film ho cercato di mettere a confronto due posizioni etiche. Oggi noi assistiamo a quel che si chiama libertà, ma esistono altri casi; io ne conosco alcuni che vengono ignorati perché non si vedono, si nascondono… […] Nel film non prendo mai partito per l’uno o l’altro dei punti di vista, mi rimetto ai criteri dello spettatore, e ciò lascia aperti i problemi: è interessante vedere che un comportamento che appariva anormale nel XVII secolo oggi è scioccante per alcuni! Ma per 112. TA, Le vieux débat, 1999, p. 87.
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me non è così: lì c’è uno stato superiore, una tappa verso la santità. […] La costituzione fisica e psicologica dell’uomo è fatta di un incrocio di linee verticali ed orizzontali, che salgono o scendono secondo le circostanze…113.
E intorno a questo salire e scendere, pare, si articola il nuovo film, O Estranho Caso de Angélica.
113. I, Positif, 1999, p. 25.
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Filmografia completa analitica
Due sono le filmografie di riferimento: in portoghese, la Filmografia in T24 [fino a Cristóvâo Colombo]; in francese, la Filmographie de Manoel de Oliveira, écrite et commentée par Jacques Parsi, in T26 [fino a Porto da Minha Infância] e in T13 [fino a O Quinto Império]. Alcune informazioni che accompagnano i film sono tratte da José de Matos-Cruz, Manoel de Oliveira e a Montra das Tentações, Lisboa, D. Quixote, 1996. SIGLE: C.N.C., Centre National de la Cinématographie (Francia); I.C.A.M., Instituto do Cinema Audiovisual e Multimedia (Portogallo); I.N.A., Institut National de l’Audiovisuel (Francia); I.P.A.C.A., Instituto Portugués da Arte Cinematografica e Audiovisual (Portogallo); I.P.C., Instituto Portugués de Cinema (Portogallo); R.T.P., Radio Televisaõ Portuguesa (Portogallo).
REGISTA 1931 Douro Faina Fluvial / Douro lavoro fluviale Regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola (35 mm, b/n) António Mendes; montaggio: Manoel de Oliveira; produzione Manoel de Oliveira; durata: 23 min. Documentario muto. Prima versione sonora 1934; musica: Luís de Freitas Branco; suono: Fernando Bernaldez Y Eder, Luiz Verol Frazão; durata: identica; seconda versione sonora 1994, parzialmente rimontata per 245
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ritrovare il montaggio originale; musica: Emmanuel Nunes (Litanies du feu et de la mer n° 2); durata: 18 min.; presentazione della versione muta: 19 settembre 1931, V Congresso internazionale della critica, Cinema Central, Lisbona; prima in sala della versione sonora: 8 agosto 1934, in anteprima del film Gado Bravo di António Lopes Ribeiro; presentazione del restauro della copia muta da parte della Cinemateca portuguesa in collaborazione con National Film Archive (Londra): 15 ottobre 1993, Cinemateca portuguesa; presentazione della seconda versione sonora: Bologna, “Il cinema ritrovato” (1995) e Cinemateca portuguesa (1996).
1932 Hulha Branca. Empresa Hidro-eléctrica do Rio Ave Regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola (35 mm, b/n) António Mendes; montaggio: Manoel de Oliveira; produzione Manoel de Oliveira; durata: 7 min. Dallo scorrer dell’acqua nei ruscelli fino alla luce che s’accende in città per illuminare le passeggiate d’un gruppo d’amici, passando per il progetto d’una idroelettrica, la diga, le geometrie dei tubi che trasportano l’acqua. Giochi di luce con riflessi e trasparenze dell’acqua. Questo documentario non ha avuto distribuzione.
1937 Os Últimos Temporais. Cheias do Tejo Regia, montaggio e produzione: Manoel de Oliveira; durata: 4 min. Immagini sulle piogge che fanno esondare il fiume Tejo.
1938 Portogallo Já Faz Automóveis Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira, fotografia e formato pellicola (35 mm, b/n): António Mendes; suono: F.A. Quintela; musica: Carlos Calderón; montaggio: Manoel de Oliveira; voce di commento: Fernando Pessa; produttore esecutivo: Manoel de Oliveira; produzione: Lisboa Filme-MAOM (Manoel António Oliveira Mendes); prima in sala: 3 febbraio 1938 (Trindade, Lisbona) in anteprima del film Rosa do Adro di Chianca de Garcia, distribuito da Continental Filmes; durata [copia attuale, senza banda sonora]: 8 min 15”. Documentario sull’automobile e l’industria automobilistica: i modelli antichi e quelli nuovi fra strade ed autostrade; le auto usate; progettazione e costruzione di un auto, il telaio, il motore, fabbri e tornitori al lavoro, la consegna di un modello Edfor, la prova su strada.
1938 Miramar, Praia das Rosas Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; fo246
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tografia e formato pellicola (35 mm, b/n): António Mendes; suono: F. A. Quintela; musica: Carlos Calderón; montaggio: Manoel de Oliveira; voce di commento: Fernando Pessa; produttore esecutivo: Manoel de Oliveira; produzione: Lisboa Filme-MAOM (Manoel António Oliveira Mendes); prima in sala: 22 giugno 1938 (Odeon Palácio, Lisbona) in anteprima del film Os Fidalgos da Casa Mourisca di Artur Duarte; durata: 9 min. Immagini di una delle spiagge di Porto, quella di Miramar, con accanto i giardini delle case e delle ville guarniti di rosai profumati. Documentario perduto
1939 Famalicão Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola (35 mm, b/n): António Mendes; suono: F.A. Quintela; musica: Jaime Silva (figlio); montaggio: Manoel de Oliveira; registrazione sonora: Lisboa Filme; voce di commento Vasco Santana; produzione: MAOM (Manoel António Oliveira Mendes), con sovvenzione del comune di Famalicào; anteprima: Sao João (Porto), maggio 1940, in anteprima del film Feitiço do Império di António Lopes Ribeiro; prima in sala 27 gennaio 1941 (Tivoli, Lisbona) in anteprima del film Porto de Abrigo di Adolfo Coelho. Durata: 24 min. Documentario sulla cittadina di Famalicão nel nord del Portogallo. La vita nelle stradine; il lavoro nei campi, la vendemmia; la manifattura con la filanda, i tessuti, i bottoni. I principali palazzi della città (municipio, ospedale), il monumento a Camilo Castelo Branco e la sua casa a São Miguel de Ceide.
1942 Aniki-Bóbó / – Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira, ispirato a Meninos Milionarios di Rodrigues de Freitas; dialoghi: Manoel de Oliveira, Manuel Matos; parole della canzone Alberto de Serpa; assistente alla regia: Manuel Guimarães; fotografia e formato pellicola (35 mm, Kodak, b/n): António Mendes; suono: Sousa Santos; scenografia: José Porto; musica: Jaime Silva (figlio); montaggio: Vieira de Sousa, Manoel de Oliveira; trucco: António Vilar; interpreti: Nascimento Fernandes (commerciante), Fernanda Matos (Teresinha), Horácio Silva (Carlitos), António Santos (Eduardito), António Palma, António Morais Soares, Feliciano David, Manuel de Sousa, António Pereira, Rafael Mota, Americo Botelho, Armando Pedro, Vital dos Santos, Manuel de Azevedo; produzione: António Lopes Ribeiro (e Manoel de Oliveira, non indicato nei titoli di testa); studi di registrazione: Tóbis 247
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Portuguesa; Laboratori Lisboa Filme; distribuzione: Hors Champ Diffusion; prima in sala 18 dicembre 1942 (Eden, Lisbona); durata: 71 min.
1956 O Pintor e a Cidade / Il pittore e la città Regia: Manoel de Oliveira, assistente alla regia: António Lopes Fernandes; fotografia e formato pellicola (35 mm, Agfacolor, colore): Manoel de Oliveira; suono: Alfredo Pimentel, Joaquim Amaral; musica R. P. Luís Rodrigues, Rebelo Bonito, Orphéon di Porto, dir. Vergilio Pereira; mixage: Héliodoro Pires; montaggio: Manoel de Oliveira; opere del pittore António Cruz; laboratori: Tóbis Portuguesa; produzione: Manoel de Oliveira; prima in sala: 27 novembre 1956 (Sao Luís, Alvalade, Lisbona), in anteprima del film Paris Palace Hôtel di Henri Verneuil, con Charles Boyer e Françoise Arnoul; durata: 27 min. Documentario a colori: le passeggiate dello sguardo d’un pittore attraverso strade, marine e ferrovie della città di Porto. Metamorfosi dal quadro alla realtà e viceversa. Giochi d’acquarello coloristici. Immagini del mondo del lavoro e delle zone popolari.
1958 O Coração Regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola (16 mm, Kodachrome, colore): Manoel de Oliveira; produzione: Manoel de Oliveira. Documentario incompiuto su uno dei primi interventi di chirurgia toracica.
1959 O Pão / Il pane (versione lunga). Regia: Manoel de Oliveira; assistenti: António Lopes Fernandes, Sebastiào de Almeida; fotografia e formato pellicola (35 mm, Eastmancolor, colore): Manoel de Oliveira; suono: António Ribeiro; trascrizione foto-sonoro: Nacional filmes; montaggio: Manoel de Oliveira; produzione: Manoel de Oliveira per la Federazione Nazionale delle Industrie dei Mulini; laboratori: Tóbis Portuguesa; prima: 28 novembre 1959 (commemorazione del 25° anniversario della Federazione Nazionale delle Industrie dei Mulini); durata: 57 min. Documentario che ha un prologo in cielo, poi dinanzi all’ostia delle nozze. Il processo di produzione del pane dalla semina, all’impasto, alla distribuzione cittadina (casa per casa, ristorante, carcere). Le macchine industriali e l’attività artigianale dei mulini. La vita dell’azienda, la fatica del trasporto.
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1963 O Acto da Primavera. Representação Popular do Auto da Paixão / Atto di primavera. Rappresentazione popolare del mistero della Passione Regia: Manoel de Oliveira, da un testo di Francisco Vaz de Guimarães (XVI sec.); assistenti alla regia: António Reis, António Soares, Domingos Carneiro; consulenti: R. P. José Carvalhais, José Régio; informazioni: Abílio Rocha; selezione dai cinegiornali: Paulo Rocha; fotografia e formato pellicola (35 mm, Eastmancolor, colore): Manoel de Oliveira; suono: Manoel de Oliveira; assistente suono: Fernando Jorge, Maria Isabel de Oliveira, João Barbosa; trascrizione sonora: Arthur M. Smith; montaggio: Manoel de Oliviera; costumi: Jayme Valverde; interpreti: Nicolau Nunes da Silva (Gesù Cristo), Ermelinda Pires (Maria), Maria Madalena (Maddalena), Amélia Chaves (Veronica), Luís de Sousa (l’accusatore), Francisco Luís (Pilato), Renato Palhares (Caifa), Germano Carneiro (Giuda), José Fonseca (la spia), Justiniano Alves (Erode), João Miranda (San Pietro), João Luís (San Giovanni), Manuel Criado (diavolo), e gli abitanti del villaggio di Curalha, Trás-os-Montes; produzione: Manoel de Oliveira; distribuzione: Cinefil; prima in sala: 10 aprile 1963 (Parigi, col titolo Le Mystère du printemps), 2 ottobre 1963 (Lisbona); durata: 90 min.
1963 O Pão / Il pane (versione corta) Regia: Manoel de Oliveira; assistenti: António Lopes Fernandes, Sebastiào de Almeida; fotografia e formato pellicola (35 mm, Eastmancolor, colore): Manoel de Oliveira; suono: António Ribeiro; trascrizione foto-sonora: Nacional Flmes. Montaggio: Manoel de Oliveira. Produzione: Manoel de Oliveira per la Federazione Nazionale delle Industrie dei Mulini. Laboratori: Tóbis Portuguesa; Prima della versione «corta»: 27 novembre 1963 (Lisbona). Prima in sala: 11 marzo 1966 (Lisbona). Durata: 24 min.
1964 A Caça / La caccia Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira; assistente Regia: Domingos Carneiro; fotografia e formato pellicola (35 mm, Eastmancolor, colore): Manoel de Oliveira; assistente: António Lopes Fernandes; suono: Manoel de Oliveira, Fernando Jorge, Manuel Fortes; montaggio: Manoel de Oliveira; collaborazione speciale: Paulo Rocha; interpreti: João Rocha de Almeida (Roberto), António Rodrigues dos Santos (José), Albino Freitas (calzolaio), Manuel de Sá; produzione: Tóbis Portuguesa (Manoel de Oliveira); prima in sala 14 febbraio 1964, in anteprima del film di Pierre Kast Vacances portugaises; durata: 20 min. 249
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1964 Vilaverdinho. Uma Aldeia Transmontana Regia: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: Clemente Cardoso Meneres; fotografia e formato pellicola (16 mm, Kodachrome, colore): Manoel de Oliveira; suono: Manoel de Oliveira; musica: Rachmaninov, José Afonso; montaggio: Manoel de Oliveira; voce off: Manoel de Oliveira, Manuel Meneres; produzione: Manoel de Oliveira; durata: 20 min. La vita della piccola cittadina. Bambini che giocano a football, un ciclista che s’inerpica per le strade… Documentario senza distribuzione commerciale.
1965 As Pinturas do meu Irmão Júlio / I quadri di mio fratello Júlio Regia: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: António Lopes Fernandes; fotografia e formato pellicola (16 mm, Kodachrome, colore): Manoel de Oliveira; suono: Abreu e Oliveira; montaggio: Manoel de Oliveira; musica: Carlos Paredes; poesia e voce di commento: José Régio; laboratori: Colour Film Service; produzione: Manoel de Oliveira; prima presentazione: Festival di Bergamo, 1965; presentazione in Portogallo: 13 febbraio 1967 (Arvore, Porto); durata: 16 min. Film d’arte sui quadri del fratello del poeta José Régio. Una camera mobile e ravvicinata entra nelle tele e ne esplora linee, colori, volumi. Lo sguardo si fa immagine, musica e voce.
1965-2008 O Palco dum Povo / Episodio José Régio: A Vida e a Morte. Composto da: 1. Romance de Villa do Conde 2. O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta / Il poeta folle, la vetrata e la santa morta Produzione, sceneggiatura e regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola (16 mm, Kodachrome, colore): Manoel de Oliveira; montaggio: Valérie Loiseleux; suono: Philippe Morel; lettura del poema di José Régio: Luís Miguel Cintra; laboratorio: Tobis Portuguesa; esterni: Vila do Conde, Portalegre, Castelo do Marvão; prima in sala: Fundação de Serralves, 21 settembre 2008 (Portogallo); durata: 9 e 7 min. Documentario incompiuto. «L’idea del ciclo Palco dum Povo era quella di filmare feste e pellegrinaggi popolari in contrappunto a sequenze di poeti con le loro poesie, pittori con i loro quadri e musicisti con la loro musica contemporanea». All’unico lembo di progetto sopravvissuto circa i poeti, quello dedicato a Régio, Oli250
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veira aggiunse nel 2001 la banda-suono (lettura da parte di Cintra delle poesie di Régio che danno il titolo ai due corti) su immagini che mostrano il poeta nella città natale, con liriche sequenze ambientate anche fra i campi, sulla spiaggia, sul mare (Romance de Villa do Conde). In O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta, Régio compare seduto al tavolo di lavoro nella sua casa di Portalegre, e poi nelle sale e sui contrafforti del castello di Marvão.
1972 O Passado e o Presente / Il passato e il presente Regia: Manoel de Oliveira. Sceneggiatura: Manoel de Oliveira, dalla pièce O Passado e o Presente di Vicente Sanches. Dialoghi: Vicente Sanches. Assistente alla regia: Américo Patela. Fotografia e formato pellicola (35 mm, Eastmancolor, colore): Acácio de Almeida. Assistente fotografia: Mario Pereira. Scenografie: Zeni d’Ovar. Musica: Félix Mendelssohn (Sogno di una notte d’estate). Consulente musicale: João Paes. Montaggio: Manoel de Oliveira. Assistente montaggio: Noémia Delgado. Trucco: Conceição Madureira. Segretari di scena: Celeste Ferrari, Maria João Lagrifa; interpreti: Maria de Saisset (Vanda), Manuela de Freitas (Noémia), Pedro Pinheiro (Firminio), Barbara Vieira (Angélica), António Machado (Maurício), Duarte de Almeida (Honório), Alberto Inácio (Ricardo), António Bringel (becchino), Pedro Efe (autista), José Martinho (Fernando), Guilhermina Pereira (serva), Agostinho Alves (giardiniere), Alberto Branco (medico), Carlos de Sousa (prete), Candida Lacerda (donna al cimitero); produzione: Manoel de Oliveira per il Centro Portugués de Cinema, col sostegno della Fundação Calouste Gulbenkian; direttore di produzione: Ernesto de Oliveira; assistente: José Manuel de Oliveira; segretario: Manuel Guanilho; laboratorio: Tóbis Portuguesa; laboratorio suono: Valentim de Carvalho; distribuzione: Hors Champ Diffusion; prima in sala: 26 febbraio 1972; durata: 115 min.
1975 Benilde ou a Virgem-Mãe / Benilde o la Vergine Madre Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira, dalla pièce Benilde ou a Virgem-Mãe di José Régio; assistente alla regia: Amilcar Lyra; fotografia e formato pellicola (35mm, Eastmancolor, colore) Elso Roque; assistente immagine: Pedro Efe.; scenografia: António Casimiro; musica: João Paes, Olivier Messiaen (Sept Haïkaï-Gagaku); montaggio: Manoel de Oliveira; trucco: Conceição Madureira; segretaria di produzione: Clara Diaz-Bérrio; interpreti: Maria Amélia Aranda (Benilde), Jorge Rola (Eduardo), Glória de Matos (Etelvina), Varela Silva (Melo Cantos), Maria Barroso (Genoveva), Augusto Figueiredo (Padre Cristovão), Jacinto Ramos (il dottor Fabrício); produzione: Tóbis 251
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Portuguesa e Centro Portugués de Cinema; direttore di produzione: Henriques Espirito Santo; laboratorio: Tobis Portuguesa; distribuzione: Hors Champ Diffusion; prima in sala: 21 novembre 1975; durata: 110 min.
1978 Amor de Perdição. Memorias de uma Família / Amore di perdizione. Memorie di una famiglia Regia: Manoel de Oliveira; adattamento cinematografico: Manoel de Oliveira, dal romanzo omonimo di Camilo Castelo Branco; assistenti alla regia: Jorge Martinho, Jaime Mourão Ferreira; fotografia e formato pellicola (16 mm [copie 35 mm, 1997], colore): Manuel Costa e Silva; scenografia: António Casimiro; musica: João Paes e sonata op. 5 di Haendel; suono: Carlos Alberto Lopes, João Diogo; montaggio: Solveig Nordlung; costumi: António Casimiro; segretarie di scena: Olívia Varela, Cristina Martins; interpreti: António Sequeira Lopes (Simão), Cristina Hauser (Teresa), Elsa Wellencamp (Mariana), António Costa (João da Cruz), Ricardo Pais (Baltazar), Ruy Furtado (Domingos Botelho), Maria Dulce (Dona Rita), Maria Barroso (Priora), Henrique Viana (Tadeu de Albuquerque) e Adelaide João, Lia Gama, Manuela de Freitas, Ana Colares Pereira, Angela Costa, Duarte de Almeida, Agostinho Alves, Paula Soveral, Wanda França, José Capela, Carlos Garcez, António Martins, Isabel Gonçalves, Maria Salomé; voce off: Pedro Pinheiro (Delatore) e Manuela de Melo (Provvidenza); produzione: I.P.C. e Centro Português de Cinema, Cinequipa, R.T.P., Tóbis Portuguesa, Manoel de Oliveira, con la partecipazione della Fundação Calouste Gulbenkian; direttori di produzione successivi: Marcílio Kruger, António Lagrifa, Henriques Espirito Santo, delegato dell’I.P.C.; assistente di produzione: Jorge Martinho; distribuzione: Hors Champ Diffusion; versione per la tv portoghese RTP1 in sei episodi in b/n con sequenze di collegamento: 19 novembre 1978; prima mondiale (cinema): Firenze (Italia), 9 dicembre 1978; anteprima Francia: l° maggio 1979 (settimana dei Cahiers du cinéma); prima in sala: 13 giugno 1979 (Francia), 24 novembre 1979 (Portogallo); durata: 265/287 min.
1981 Francisca / – Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira dal romanzo Fanny Owen di Agustina Bessa-Luís; assistenti alla regia: Jaime Silva, Carlos Santana; fotografia e formato pellicola (35mm, Eastmancolor, colore): Elso Roque; suono: Jean-Paul Mugel; scenografia: António Casimiro, Anahory; musica: João Paes (estratti di Szymanowski (Le Roi Roger), Verdi (Giovanna d’Arco), Donizetti (Lucia di Lammermoor); mixage: Jean-Paul Loublier; 252
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montaggio: Monique Rutler; trucco: Paula Raimundo; costumi: Rita Azevedo Gomes; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Teresa Meneses (Francisca, detta anche Fanny), Diogo Dória (José Augusto), Mário Barroso (Camilo Castelo Branco), Manuela de Freitas (Raquel), Cecilia Guimarães (Judite), Paulo Rocha (medico), Adélaïde João (Clotilde), Glória de Matos (Rita Owen), António Caldeira Pires (José de Melo), Lia Gama (Dona Josefa), Teresa Madruga (Franzina, una serva), João Guedes (Marques), Duarte de Almeida, Isabel de Castro, Rui Mendes; produzione: V.O. Filmes; produttore esecutivo: Paulo Branco; direttore di produzione: Ricardo Cordeiro; partecipazione finanziaria dell’I.P.C.; distribuzione: Hors Champ Diffusion; prima in sala: 25 novembre 1981 (Francia), 3 dicembre 1981 (Portogallo); durata: 166 min.
1982 A Visita ou Memórias e Confissões Regia: Manoel de Oliveira; dialoghi (per la fiction): Agustina Bessa-Luís; fotografia e formato pellicola (35 mm, colore): Elso Roque. Suono: Joaquim Pinto; musica: Beethoven; montaggio: Manoel de Oliveira; assistente montaggio: Ana Luisa; segretaria di produzione: Júlia Buísel; voce: Diogo Dória e Teresa Madruga; durata: 70 min. Fiction e autobiografia. Il film non è mai stato mostrato al di là di proiezioni strettamente private. Manoel de Oliveira è in scena insieme alla moglie Maria Isabel e allo scrittore Urbano Tavares Rodrigues. Film autobiografico, da vedersi postumo, ambientato nella casa che deve essere abbandonata dopo quarant’anni. I ricordi allegri e quelli tristi (la detenzione nelle mani della PIDE nel 1963, qui ricostruita).
1982 Lisboa Cultural / Lisbona, capitale culturale Regia: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: Júlia Buísel; fotografia e formato pellicola (16 mm, colore): Elso Roque; suono: Joaquim Pinto, Vasco Pimentel; montaggio: Manoel de Oliveira; produzione: Worldfilm; coproduzione italo-portoghese; durata: 58 min. Documentario sull’immagine culturale della città di Lisbona, «così com’è stabilita nello stereotipo» collettivo (Bénard da Costa). Intellettuali e docenti universitari parlano dei diversi periodi storici attraversati dalla città, e delle più importanti figure storico-letterarie (Fernão Lopes, padre Vieira, Almeida Garrett, Eça de Queiroz, Pessoa), sullo sfondo di immagini convenute della vita quotidiana, dei monumenti, delle opere d’arte. Retorica culturale e imma253
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gine mitico-turistica a confronto, in una critica dei luoghi comuni culturali dominanti.
1983 Nice... À propos de Jean Vigo Regia: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: François Ede; fotografia e formato pellicola (16mm, Kodak, colore): Jacques Bouquin; assistente alle riprese: Jacques Gaudin; suono: Jean-Paul Mugel; mixage: Gilles Missir; montaggio: Janine Verneau, Françoise Besnier; produzione FR3-I.N.A; incaricato alla produzione: Yves Valéro; assistente alla produzione: Marie-Hélène Noquet; passaggio su FR3: 7 ottobre 1984; durata: 58 min. Documentario sulla città immortalata da Jean Vigo nel 1929 (estratti dal film), rivista oggi alla luce della sua storia e del suo quotidiano. Mercati, bande, statue, giardini, lusso e decadenza. Il Grand Hotel, la roulette. Incontri con pittori (Manuel Casimiro), docenti universitari (Eduardo Lourenço), etnologi (Pedro Prista), infine la figlia di Vigo che parla del padre.
1985 Le soulier de satin / La scarpina di raso Regia: Manoel de Oliveira, dalla pièce omonima di Paul Claudel; consulente letterario: Jacques Parsi; assistenti alla regia: Jaime Silva, João Canijo; fotografia e formato pellicola (16 e 35 mm, Kodak, colore): Elso Roque; suono: Joaquim Pinto; scenografia: António Casimiro, Eduardo Filipe, Luís Monteiro; musica: João Paes (musiche arabo-andaluse, Mozart, Lutoslawski); direzione musicale: Pedro Caldeira Cabral; mixage: Jean-Paul Loublier; montaggio: Janine Martin, Janine Verneau; direzione di scena: António Gonçalo; trucco: Dominique de Vorges, Paula Raimundo; costumi: Jasmim de Matos; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Luís Miguel Cintra (Don Rodrigo, il padre gesuita), Patricia Barzyk (Doña Prouhèze), Anne Consigny (Maria delle Sette Spade), Anne Gautier (Doña Musique), Bernard Alane (Vicerè di Napoli), Jean-Pierre Bernard (Don Camillo), Marie-Christine Barrault (la Luna), Isabelle Weingarten (angelo custode), Henri Serre (primo re), Jean-Yves Berteloot (secondo re) Catherine Jarrett (prima attrice), Anny Romand (seconda attrice), Bérangère Jean (macellaia), Frank Oger (Don Pelagio), Jean Badin (Don Balthazar), Denise Gence (il cammino di Saint Jacques), Maria Barroso (la Voce dei santi), Odette Barrois (Doña Honoria), Madeleine Marion (religiosa), Roland Monod (Fratel Léon), Rosette (cameriera), Manuela de Freitas (Doña Isabel), Yann Roussel (cinese), Claude Merlin (Diego Rodriguez), Yves Llobregat (l’incontenibile), Jean-Luc Porraz (Don Gil), Pascal Jouan (archeologo), Marthe Moudilci Moreau (negra Jobarbara), Francis Frappat (Mangiaca254
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vallo), Takashi Kawahara (giapponese Daibutsu), Paulo Rocha (primo prete), Jorge Silva Melo (secondo prete), Diogo Dória (Almagro), Jacques Le Carpentier (Don Ramire), Catherine Georges (locandiera), Pierre Decazes (Don Leopoldo Augusto), Patrick Osmond (Don Fernando), Didier Lesour (segretario), Bernard Metraux (capitano), Christophe Allwright (un signore), Frédéric Youx (un signore), Felipe Ferrer (cappellano), Daniel Briquet, Luís Lucas, Fernando Oliveira, Merlim Texeira (sbandieratori), Jasmim de Matos (sarto di Cadice), Alain Ganas, Paul Pavel, Dominique Ratonnat (signori dal sarto), Jean Dolande (sergente napoletano), Bernard Ristroph (annunciatore), Olivier Achard (alfiere), Michel Cassia (inviato del re), Patrick Valverde (capitano di Diego Rodriguez), Michel Roubaix (Don Alcindas), Olivier Rabourdin (pescatore), Stéphane May (Bogotillos), Olivier Dayan (Alcochette), Carlos Wallenstein (professor Hinnulus), Jacques Parsi (professeur Bidince), Jean-Claude Broche (soldato), Rémy d’Arcy (ciambellano), Raymond Meunier, Bernard Montini, JeanClaude Pérot, Christian Kursner, Christian Baltauss, Bernard Tixier, José Capela, José Manuel Mendes, Pedro Queiroz (ministri), Duarte de Almeida, Jean-Pierre Taillade, Alexandre de Sousa (cortigiani), Jean-Luc Buquet (presentatore), Rogério Vieira, António Caldeira Pires, Marques Arede (soldati), Manuel Cintra, José Wallenstein, Nuno Carinhas (sentinelle), Vergílio Castelo, Alexandre de Melo, Rogério Samora (ufficiali); coproduzione: Les Films du Passage (Paris), Metro e Tal (Lisbona), in associazione con I.N.A. (Paris), W.D.R. (Colonia), S.S.R. (Ginevra), I.P.C. e i ministeri della Cultura di Francia e Portogallo; produttore esecutivo: Paulo Branco; produttori associati: António Vaz da Silva, Artur Castro Neves; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 8 gennaio 1986 (Francia); durata: 415 min.
1986 Mon cas / Il mio caso Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira, da O Meu Caso di José Régio, estratti da Pour en finir et autres foirades di Samuel Beckett e Libro di Giobbe; traduzione: Jacques Parsi; assistenti alla regia: Jaime Silva, Alexandre Gouzou, Xavier Beauvois; fotografia e formato pellicola (35mm, Fuji, colore): Mário Barroso; suono: Joaquim Pinto; scenografia: Maria José Branco, Luís Monteiro; musica: João Paes; mixage: Jean-Paul Loublier; montaggio: Rodolfo Wedeles, Manoel de Oliveira; costumi: Jasmim de Matos; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Bulle Ogier (attrice n° 1), Luís Miguel Cintra (lo sconosciuto), Axel Bougousslavsky (impiegato), Fred Personne (l’autore), Héloïse Mignot (attrice n° 2), Wladimir Ivanovsky (spettatore), Gré255
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goire Oestermann (il proiezionista) e la voce di Henri Serre; produttore: Paulo Branco; coproduzione: Les Films du Passage (Paris), La Sept, Filmargem (Lisbona), in associazione con la Maison de la Culture di Havre e con il concorso del C.N.C., dell’I.P.C., della R.T.P. e della Fundação Calouste Gulbenkian; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 8 maggio 1987 (Portogallo), 7 ottobre 1987 (Francia); durata: 91 min.
1988 Os Canibais / I Cannibali Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira, dalla novella omonima di Alvaro do Carvalhal; assistenti alla regia: Jaime Silva, Fernando Vendrell. fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Mário Barroso; suono: Joaquim Pinto; scenografia: Luís Monteiro; Musica e libretto: João Paes; mixage: Jean-Paul Loublier e William Flageollet; montaggio: Manoel de Oliveira e Sabine Franel; trucco: Véronique Vincent; costumi: Jasmim de Matos; segretaria di produzione: Júlia Buísel; direzione musicale degli attori: Aria Neves Ferreira; direzione dei cantanti: Armando Vidal; Orchestra Gulbenkian diretta da Max Rabbinovitj; interpreti: Luís Miguel Cintra (Viceconte, voce di Vaz de Carvalho), Leonor Silveira (Marguerite, voce di Filomena Amaro), Diogo Dória (Don João, voce di Carlos Guilherme), Oliveira Lopes (presentatore), Pedro T. da Silva (Paganini), Joel Costa (padre), Rogério Samora (Peralta, voce di António Silva), Rogério Vieira (magistrato, voce di Carlos Fonseca), António Loja Neves (barone e cappellano, voce di Luís Madureira), partecipazione eccezionale di Glória de Matos. Coro femminile dell’Orchestra Gulbenkian; produzione: Paulo Branco; produttori esecutivi: Paulo Branco, Paulo de Sousa; direttore di produzione: Alexandre Barradas, Danielle Beraha, Grafia de Almeida; coproduzione: Filmargem (Portogallo), La Sept e Gemini Films (Paris), in associazione con ABCinema (Roma), Light Night (Ginevra), Pandora Films (Francoforte), col concorso dell’I.P.C., R.T.P., Fundação Calouste Gulbenkian, Istituto Luce, Italnoleggio Cinematografico; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 11 novembre 1988; durata: 98 min.
1990 NON ou a Vã Glória de Mandar / No, o la folle gloria del comando Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira; assistenti alla regia: Jaime Silva, Jacques Arhex, Manuel João Aguas; fotografia e formato pellicola (35 mm, Kodak, colore): Elso Roque; suono: Gita Cerveira; scenografia: Luís Monteiro, Maria José Branco; musica: Alejandro Mas256
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so (canto Teresa Salgueiro); mixage: Jean-Paul Loublier; montaggio: Manoel de Oliveira, Sabine Franel; testi storici: P. João Marques; consiglieri per i temi storici: P. João Marques, Aurélio de Oliveira; consulente storico: Miguel Faria; maggiore d’armi: Miguel Baena; trucco: Mariano Garcia Rey; costumi: Isabel Branco; segretarie di produzione: Júlia Buísel, Teresa Garcia; interpreti: Luís Miguel Cintra (luogotenente Cabrita, Viriato, re D. João), Diogo Dória (Manuel, guerriero lusitano cugino di D. João), Miguel Guilherme (Salvador), Luís Lucas (Brito, guerriero lusitano, nobile ad Alcacer), Carlos Gomes (terzo caporale), António S. Lopes (Pedro), Leonor Silveira (Venere), Teresa Meneses (Teti), Mateus Lorena (D. Sebastião), Lola Forner (Doña Isabel), Raul Fraire (D. Alfonso), Rui de Carvalho (predicatore, guerriero suicida), Paulo Matos (Vasco de Gama), Francisco Baiao (principe D. João), António Lupi, Duarte de Almeida, Luís Mascarenhas, Andrè Gago, Pepe Ruiz, Angel Gomes, Salvador Matos, Mateus Cardoso, Altino Almeida, Jaime Silva – voce off finale: Manoel de Oliveira; produzione: Paulo Branco; direttori di produzione: Xavier Decraene, Alexandre Barradas, Graça de Almeida; capoproduzione: Camilo João; produttori associati: Jean-Bernard Fetoux, Gerardo Herrero; laboratori: LTC e Tóbis Portuguesa; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Tornasol Filmes (Spagna), Gemini Films (Francia), S.G.G.C. (Francia), in associazione con RTP, Radio Télévision España e l’appoggio dell’IPC, del Segretariato di Stato alla Cultura (Portogallo), Fundação Oriente (Portogallo), Fundação Calouste Gulbenkian (Portogallo), Ministero della Cultura (Spagna), Ministero della Cultura e della Comunicazione, C.N.C. (Francia) e Eurimages, Consiglio d’Europa; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 26 settembre1990 (Francia), 12 ottobre 1990 (Portogallo). Durata: 112 min.
1991 A Divina Comédia / La divina commedia Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira. dialoghi: Manoel de Oliveira (citazioni dalla Bibbia, Dostoïevski, José Régio, Nietzsche); consulente biblico: P. João Marques; assistenti alla regia: Manuel João Aguas, José Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, Kodak, colore): Ivan Kozelka; suono: Gita Cerveira; scenografia: Maria José Branco; musica: Beethoven, Bach (piano Maria João Pires); mixage: Jean-Paul Loublier; montaggio: Manoel de Oliveira, Valérie Loiseleux; trucco: Ilda Campino; costumi: Jasmim de Matos; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Maria de Medeiros (Sonia), Luís Miguel Cintra (Profeta), Miguel Guilherme (Raskolnikov), Mário Veigas (Filosofo), Maria João Pires (Marta), Leonor Silveira (Eva, Santa 257
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Teresa), Júlia Buísel (Maria), Diogo Dória (Ivan Karamazov), José Wallenstein (Aliocha Karamazov), Ruy Furtado (direttore dell’asilo, ruolo ripreso da Manoel de Oliveira in alcune sequenze), Luís Lima Barreto (Fariseo), Paulo Matos (Gesù), Carlos Gomes, Laura Soveral, Cremilde Gil, Nuno Melo, João Romão; produzione: Paulo Branco; direttore di produzione: Camilo João; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), 2001 Audiovisuel (Francia), con la partecipazione della R.T.P., Metropolis Zurich (Svizzera), e l’appoggio del Segretariato di Stato alla Cultura (Portogallo), I.P.C. (Portogallo), Fundação Calouste Gulbenkian (Portogallo), C.N.C. (Francia); distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 11 ottobre 1991 (Portogallo); durata: 141 min.
1992 O Dia do Desespero / Il giorno della disperazione Regia: Manoel de Oliveira, sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira dalle lettere di C. Castelo Branco e un estratto di Amore di perdizione; consulente storico: Alexandre Cabral; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35 mm, Kodak, colore): Mário Barroso; suono: Gita Cerveira; scenografia: Maria José Branco; musica (non menzionata nei titoli di testa): Richard Wagner (preludio di Tristano e Isotta, preludio degli atti I e III di Parsifal), Frank Martin; mixage: François Musy, Hans Künzi; montaggio: Manoel de Oliveira, Valérie Loiseleux; trucco: Michele Bernet; costumi: Jasmim de Matos; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Teresa Madruga (Ana Plácido), Mário Barroso (Camilo Castelo Branco), Luís Miguel Cintra (Freitas Fortuna), Diogo Dória (Dr Edmundo Magalhães), Nuno Melo, José Maria Vaz da Silva, Dina Ireno, David Ferreira Dias, voci di Canto e Castro e di Rui de Carvalho; produzione: Paulo Branco; direttore di produzione: Camilo João; amministratrici di produzione: Luisa Perestrello, Élisabeth Bocquet; capo produzione: João Montalverne; laboratori: Tóbis Portuguesa; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo) e Gemini Films (Francia), col sostegno del Segretariato di Stato alla Cultura (Portogallo), I.P.C. (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), C.N.C. (Francia); distribuzione: Gemini Films; anteprima: 30 maggio 1992 (Expo 92 - Siviglia); prima in sala: 30 ottobre 1992 (Portogallo) durata: 75 min.
1993 Vale Abraão / La valle del peccato Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira. Dialoghi: Manoel de Oliveira, dal romanzo Vale Abraão di Agustina Bessa-Luís; assistenti alla regia: José Maria Vaz da Silva, An258
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tónio S. Lopes; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Mário Barroso; suono: Henri Makoff; assistente suono: Olivier Varenne; scenografia: Maria José Branco; musica: vari Clair de lune (Beethoven, Fauré, Debussy, Schumann, Strauss), Don Byas, Tenderly, Coleman Hawkins (piano Nuno V. de Almeida). Mixage: Hans Künzi; montaggio: Manoel de Oliveira, Valérie Loiseleux; trucco: Michelle Bernet; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Leonor Silveira (Ema), Luís Miguel Cintra (Carlos Paiva), Cecile Sanz de Alba (Ema giovane), Rui de Carvalho (Paulo Cardeano), Glória de Matos (Maria de Loreto), Luís Lima Barreto (Pedro Lumiares), João Perry (Pedro Dossem), Diogo Dória (Fernando Osório), Isabel Ruth (Ritinha), Laura Soveral (zia Augusta), António Reis (Semblano), José Pinto (Caires), Michèle Larpin (Simona), Filipe Cochofel (Fortunato), Sofia Alves (Lolota), Beatriz Batarda (Luisona), Monique Dodd (Chelinha), Júliana Samarine (la donna di Nelson), Miguel Guilherme (postino), Nuno Vieira de Almeida (Nelson), Isabel de Castro (sorella Melo 1), Júlia Buísel (sorella Melo 2), Joaquim Nogueira (Narciso), Dina Treno, Dalila Carmo e Sousa, Paula Seabra; voce off: Mário Barroso; produzione: Paulo Branco; direttori di produzione: Alexandre Barradas (Portogallo), Patricia Plattner (Svizzera); amministratori di produzione: Elisabeth Bocquet, Luisa Perestrello; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), Light Night (Gran Bretagna), in associazione con Canal+ (Francia), Télévision Suisse Romande, col sostegno di: Segretariato di Stato alla Cultura (Portogallo), I.P.C., Fundação Calouste Gulbenkian (Portogallo), C.N.C. (Francia), Office Fédéral de la Culture du Département Fédéral de l’Intérieur (Svizzera), Eurimages-Consiglio d’Europa; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 1 settembre 1993 (Francia), 15 ottobre 1993 (Portogallo); Durata: 187 min. (vers. commerciale), 207 min. (vers. integrale)
1994 A Caixa / La cassetta Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira, dalla pièce A Caixa di Helder Prista Monteiro; assistente alla regia: João Fonseca; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Mário Barroso; suono: Jean-Paul Mugel; scenografia: Isabel Branco; mixage: Jean-François Auger; montaggio: Manoel de Oliveira, Valérie Loiseleux; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Luís Miguel Cintra (cieco), Glicínia Quartin (vecchia), Rui de Carvalho (padrone del bar), Beatriz Batarda (figlia del cieco), Diogo Dória (amico), Isabel Ruth (venditrice), Filipe Cochofel (genero), Sofia 259
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Alves (prostituta), Mestre Duarte Costa (chitarrista), Paula Seabra (donna incinta), Miguel Guilherme, António Fonseca, Rogério Samora (i tre amici), Duarte de Almeida (secondo cieco), Júlia Buísel (pittrice naïf), Tiago Henriques, Gilberto Gonçalves, Rogério Vieira, Sharon Ahrens, Marsha Smith, Joel Ferreira, Suzana Alves, João Gustavo, José Wallenstein, Mário Barroso, Carla Brigida; produzione: Paulo Branco; direzione di produzione: João Canijo, Élisabeth Bocquet, Alexandre Barradas; amministratore di produzione: Luisa Perestrello; capo produzione: João Montalverne; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), La Sept (Francia), con la partecipazione di: I.P.A.C.A. (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), Canal+ (Francia), Ministero della Cultura e della Francofonia; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 18 novembre 1994 (Portogallo); durata: 93 min.
1995 O Convento / I misteri del convento Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira (traduzione: Jacques Parsi, Pierre Hodgson), da un’idea originale di Agustina Bessa-Luís; assistenti alla regia: Jacques Arhex, João Fonseca; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Mário Barroso; assistenti immagine: João Guerra, Miguel Robald; suono: Jean-Paul Mugel; assistente suono: Olivier Varenne; scenografia: Zé Branco, Ana Vaz da Silva; musica: Sofia Gubaidulina (Les Sept dernières paroles [du Christ] - Offertorium), Igor Stravinskij (The Rake’s Progress), Toshiro Mayuzami (Prelude for String Orchestra); mixage: Jean-François Auger; montaggio: Manoel de Oliveira, Valérie Loiseleux; trucco: Cédric Girard, Margarida Miranda; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Catherine Deneuve (Hélène), John Malkovich (Michael Padovic), Luís Miguel Cintra (Baltar), Leonor Silveira (Piedade), Duarte de Almeida (Baltazar), Heloisa Miranda (Berta), Gilberto Gonçalves (pescatore); produzione: Paulo Branco; direttore di produzione: João Canijo; capo produzione: João Montalverne; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), La Sept (Francia), con la partecipazione di: I.P.A.C.A. (Portogallo), Segretariato di Stato alla Cultura (Portogallo), Canal+ (Francia); amministratore di produzione: Luisa Perestrello (Portogallo), Elisabeth Bocquet (Francia); distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 6 settembre1995 (Francia), 22 settembre1995 (Portogallo); durata: 90 min.
1996 Party / – Regia: Manoel de Oliveira; dialoghi: Agustina Bessa-Luís, Manoel de Oliveira; traduzione: Jacques Parsi; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Renato Berta; assistente immagine: Jean-Paul Toraille; suono: 260
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Henri Makoff; assistente suono: Olivier Varenne; scenografia: Maria José Branco; mixage: Jean-François Auger; montaggio: Valérie Loiseleux; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Michel Piccoli (Michel), Irene Papas (Irène), Leonor Silveira (Leonor), Rogério Samora (Rogério), Sofia Alves (giovane in minigonna); produzione: Paulo Branco; direttore di produzione: Stéphane Riga; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), con la partecipazione dell’I.P.A.C.A. (Portogallo), Ministero della Cultura (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), Canal+ (Francia) e C.N.C. (Francia); distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 2 ottobre 1996 (Francia), 29 novembre 1996 (Portogallo); durata: 93 min.
1997 Viagem ao Princípio do Mundo / Viaggio all’inizio del mondo Regia: Manoel de Oliveira, sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira, da una storia raccontata da João Bénard da Costa; traduzione: Jacques Parsi; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Renato Berta (A.F.C.); assistente immagine: Jean-Paul Toraille; suono: Jean-Paul Mugel; assistente suono: Pedro Melo; scenografia: Maria José Branco; musica: Emmanuel Nunes (Machina Mundi (« Guerra »), Litanies du Feu et de la Mer n° 2, Grund); mixage: Jean-François Auger; montaggio: Manoel de Oliveira, Valérie Loiseleux; trucco: Dante Trani, Ana Lorena; costumi: Isabel Favila, Angela Anzimani; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Marcello Mastroianni (Manoel), Jean-Yves Gautier (Afonso), Leonor Silveira (Judite), Diogo Dória (Duarte), Isabel de Castro (Maria Afonso), Manoel de Oliveira (autista), Cécile Sanz de Alba (Christine), José Pinto (José Afonso), Isabel Ruth (Olga), Adelaide Teixeira (donna davanti alla statua di Pedro Macao), José Maria Vaz da Silva (assistente), Fernando Bento, Mário Moutinho, Jorge Mota (uomini al villaggio), Sara Alves, Helder Esteves (i figli di Christine); produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: António Gonçalo; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), con la partecipazione di I.P.A.C.A. (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), Canal+ (Francia); direttore di produzione (Francia): Élisabeth Bocquet; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 16 maggio 1997 (Portogallo); durata: 91 min.
1998 Inquietude / Inquietudine Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; 261
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dialoghi: Manoel de Oliveira, da Os Imortais di Helder Prista Monteiro, Suze di António Patrício, A Mãe de um Rio di Agustina Bessa-Luís; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Renato Berta (A.F.C.); assistente immagine: Jean-Paul Toraille; suono: Philippe Morel; assistente suono: Yvan Dacquay; scenografia: Isabel Branco; musica: Rachmaninov (Concerto pour piano n°2), Aristide Bruant, Les Marcheuses (arrangiamento al piano, José Luís Borges Coelho), tango (arrangiamento al piano, Luís Lopes), musica liturgica greca (arrangiamenti al piano Jean-François Auger); mixage: Jean François Auger; montaggio: Valérie Loiseleux; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Isabel Branco, segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Luís Miguel Cintra (figlio), José Pinto (padre), Isabel Ruth (Marta), Diogo Dória (lui), David Cardoso (amico), Leonor Silveira (Suzy), Rita Branco (Gaby), Leonor Baldaque (Fisalina), Ricardo Trepa (innamorato), Irene Papas (madre in A Mãe de um Rio); produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: António Gonçalo; incaricato alla pre- e postproduzione: Élisabeth Bocquet; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), Wanda Films (Spagna), Light Night (Gran Bretagna) e il sostegno di Eurimages, con la partecipazione di I.P.A.C.A. (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), Comune di Porto, C.N.C. (Francia), Canal+ (Francia); distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 23 settembre1998 (Francia), 30 ottobre 1998 (Portogallo); durata: 110 min.
1999 La Lettre / La lettera Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira, liberamente adattati da La Princesse de Clèves di Mme de Lafayette; consulente artistico e testo francese: Jacques Parsi; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, Kodak, colore): Emmanuel Machuel; assistente fotografia e formato pellicola: Alice Capronnier; suono: Jean-Paul Mugel; assistente suono: Yves-Marie Omnes; scenografia: Ana Vaz da Silva; musica: Pedro Abrunhosa (canzoni: Captain, É diffícil, Parte de mim, Dá me tudo, Sera, No Luxemburgo), Schubert (Premier Klavierstücke D. 946 (piano Maria João Pires); mixage: Jean-François Auger; montaggio: Valérie Loiseleux; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Judy Shrewsbury; segretaria di produzione: Júlia Buísel; Interpreti: Chiara Mastroianni (Catherine, Mme de Clèves), Antoine Chappey (Louis, M. de Clèves), Pedro Abrunhosa (se medesimo), Françoise Fabian (Mme de Chartres), Leonor Silveira (religiosa), Anny Romand (Mme da Silva), Luís Miguel Cintra (M. da Silva), Stanislas Merhar 262
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(M. de Guise), Ricardo Trepa (intruso), Maria João Pires (se medesima), Claude Lévêque, Alain Guillo, Jean-Loup Wolff, Marianne Bey Zave, Marcel Terroux, Claude Sampère; produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: Philippe Rey; incaricato alla pre- e postproduzione: Élisabeth Bocquet, con l’assistenza di Marielle Duigou; laboratori: LTC; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), Wanda Films (Spagna), partecipazione del C.N.C. (Francia), Canal+ (Francia), I.C.A.M. (Portogallo), R.T.P. (Portogallo) e il sostegno del fondo Eurimages.; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 22 settembre 1999 (Francia), 24 settembre 1999 (Portogallo); durata: 93 min.
2000 Palavra e Utopia / Parola e utopia Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira; Contributo storico e letterario: P. João Marques; Assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35 mm, colore): Renato Berta (A.F.C.); assistente immagine: Jean-Paul Toraille; suono: Henri Makoff; assistente suono: Yves-Marie Omnes; scenografia: Rui Alves; musica: Carlos Paredes, Massimo Scapin; mixage: Jean-François Auger; montaggio: Valérie Loiseleux, Catherine Krassovsky; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Ricardo Trepa (padre Vieira giovane), Luís Miguel Cintra (padre Vieira anziano), Lima Duarte (padre Vieira vecchio), Diogo Dória (inquisitore), Miguel Guilherme (padre José Soares), Leonor Silveira (Cristina di Svezia), Renato Carmine (padre Jeronimo Cattaneo), Duarte de Almeida (papa Clemente X), Paulo Matos, António Reis, Canto e Castro, José Pinto, José Manuel Mendes, Rogério Vieira, Ronaldo Bonacchi, Rogério Samora, Luís Lima Barreto, Rui Luís, Francisco Baião, João Vasques, Miguel Yeco, Francisco d’Orey, Jorge Trepa, Bernard Eckern, Marques d’Àredes, António Abreu Alves, Abílio Santos Silva, Filipe Cochofel, Carlos Gomes, Luís Oscar, P. João Marques, P. José Bouça Pires, Ana Jahny de Sousa, Sergio Farias, Harildo Dêda, Nello Avella, Maximo Bagliani, Andrea Bini: produttore: Paulo Branco; direttori di produzione: Stéphane Riga, Roberto Tibiriçá, Joaquim Carvalho; incaricati alla pre- e postproduzione: Élisabeth Bocquet, Marielle Duigou; direzione finanziaria: Luisa Perestrello; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), Gemini Films (Francia), Plateau Produçôes (Brasile) e Wanda Films (Spagna), con la partecipazione di I.C.A.M. (Portogallo), Institut Camóes (Portogallo), Comissão dos Descobrimentos (Portogallo), Ministero della Cultura (Portogallo), Governo Federal (Brasile), Canal+ (Francia), C.N.C. (Francia), Ibermé263
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dia (Spagna), Eurimages; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 17 novembre 2000 (Portogallo); durata: 130 min.
2001 Je rentre à la maison / Ritorno a casa Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira. dialoghi: Manoel de Oliveira; consulente letterario: Jacques Parsi, estratti da Le Roi se meurt di Eugène Ionesco, The Tempest di Shakespeare, Ulysses di James Joyce; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35 mm, colore): Sabine Lancelin; assistente immagine: Fabrice Moindront; suono: Henri Makoff; assistente suono: Yves-Marie Omnes; scenografia: Yves Fournier; musica: Wagner, Chopin, Léo Ferré; mixage: JeanFrançois Auger; montaggio: Valérie Loiseleux; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Michel Piccoli (Gilbert Valente), Antoine Chappey (Georges, suo agente), Catherine Deneuve (regina Margherita), John Malkovich (Crawford), Jean Koeltgen (Serge) Leonor Baldaque (Silvia), Leonor Silveira (la regina Maria), Jean-Michel Amold (medico), Sylvie Testud (Ariel), Isabel Ruth (lattaia), Adrien de Van, Andrew Wale, Robert Dauney, Ricardo Trepa, Jean Koeltgen, Mauricette Gourdon, Vania, Jacques Parsi, Armel Monod, Joel Chicot, Christian Ameri, Bruno Guillot, Emmanuelle Fèvre, Philippe Mangin; produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: Philippe Rey; incaricati di pre- e postproduzione: Élisabeth Bocquet, Marielle Duigou; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), France 2 Cinéma (Francia), con la partecipazione di C.N.C. (Francia), Canal+ (Francia), I.C.A.M. (Portogallo), R.T.P. (Portogallo); distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 12 settembre 2001 (Francia), 21 settembre 2001 (Portogallo); durata: 90 min.
2001 Porto da Minha Infância / Porto della mia infanzia Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35 mm, Kodak, colore): Emmanuel Machuel; suono: Philippe Morel; musica: Emmanuel Nunes (Nacht musik I), Bizet (Carmen), Regresso ao Lar (poesia di Guerra Junqueiro cantata da Maria Isabel de Oliveira), Fado das Mãos (cantato da Manoel de Oliveira), Grizzly Bear, La Cumparsita; mixage: Jean François Auger; montaggio: Valérie Loiseleux; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Silvia Grabowsky; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Ricardo Trepa (Manoel giovane), Jorge Trepa (Manoel adolescente), Maria de Medeiros (Nina), Leonor Baldaque (prima prostituta), Leonor Sil264
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veira (seconda prostituta), Agustina Bessa-Luís (se medesima), José-Maria Vaz da Silva (Paz dos Reis), Manoel de Oliveira (Amarante e voce off), Duarte de Almeida, José Wallenstein, Rogério Samora, António Fonseca, Peter Rundel, Jorge Loureiro, Nelson Freitas, David Cardoso, Nuno Sousa, António Costa, José Vaz da Silva, Estela Cunha; produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: Pedro Bento; postproduzione: Élisabeth Bocquet; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), Porto 2001 - Capitale culturale d’Europa, R.T.P. (Portogallo), con la partecipazione di l’I.C.A.M. (Portogallo), C.N.C. (Francia), Istituto Camões (Portogallo); prima: 10 settembre 2001 (Rivoli, Porto); distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 23 gennaio 2002 (Francia), 15 marzo 2002 (Portogallo); durata: 62 min.
2002 O Principio da Incerteza / Il principio dell’incertezza Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira; collaborazione: Jacques Parsi, Júlia Buísel, António Costa, dal romanzo Jóia de Familia di Agustina Bessa-Luís; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Renato Berta; suono: Philippe Morel; scenografia: Maria José Branco; musica: Paganini, Capricci; mixage: Jean-François Auger; montaggio: Manoel de Oliveira, Catherine Krassovsky; trucco: Emmanuelle Fèvre; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Leonor Baldaque (Camila), Leonor Silveira (Vanessa), Luís Miguel Cintra (Daniel Roper), José Manuel Mendes (Torquato Roper), Ricardo Trepa (Toro Azzurro), António Cerdeira (António Matos Clara), Isabel Ruth (Celsa), Cecilia Guimarães (Rutinha), Isabel de Castro (Joana), Júlia Buísel (Tofi), Duarte de Almeida (Ferreira); produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: Joaquim Carvalho, Elisabeth Bocquet; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), R.T.P. (Portogallo), con la partecipazione di I.C.A.M. (Portogallo), Canal+ (Francia), C.N.C. (Francia), Eurimages; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 11 settembre 2002 (Francia), 11 novembre 2002 (Portogallo); durata: 132 min.
2002 Momento. Uma Canção de Pedro Abrunhosa / «Momento», una canzone di Pedro Abrunhosa Regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola: Francisco de Oliveira; musica: Pedro Abrunhosa; montaggio: Manoel de Oliveira e Leonor Noivo; durata: 5 min 18’’. Video-clip
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2003 Um Filme Falado / Un film parlato Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira; consulente storico: P. João Marques; assistente alla regia: José Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35 mm, Kodak, colore): Emmanuel Machuel; assistente immagine: Alice Capronnier; secondo assistente immagine e fotografo di scena: Francisco Oliveira; suono: Philippe Morel; scenografia: Maria José Branco; mixage: Jean-François Auger; montaggio: Valérie Loiseleux; trucco: Araceli Fuente Basconcillos; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: John Malkovich (comandante John Walesa), Catherine Deneuve (Delphine), Irene Papas (Helena), Stefania Sandrelli (Francesca), Leonor Silveira (Rosa Maria), Filipa de Almeida (Maria Joana), Luís Miguel Cintra (attore portoghese), Michel Lubrano di Sbaraglione (pescatore), François da Silva (cliente del pescatore), Nikos Hatzopoulos (pope), Antonio Farraiolo (guida a Pompei), Ricardo Trepa, David Cardoso (ufficiali), Júlia Buísel (amica di Delphine); produttore: Paulo Branco; direttore di produzione: Alexandre Cebrian Valente; capoproduzione: Tânia Leal; produzione e postproduzione Gemini: Laetitia Fèvre, Clémentine Mourão-Ferreira, Helena Gonçalves; produzione Madragoa: Sofia de Melo Neves; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), Gemini Films (Francia), Mikado Films (Italia), R.T.P. (Portogallo), France 2 Cinéma (Francia), con la partecipazione di: I.C.A.M. (Portogallo), C.N.C. (Francia), Canal+ (Francia), Ciné Cinéma (Francia), Eurimages; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 25 settembre 2003 (Portogallo); durata: 96 min.
2005 O Quinto Império. Ontem como Hoje / Il Quinto Impero. Ieri come oggi Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: Manoel de Oliveira; dialoghi: Manoel de Oliveira dalla pièce El Rei Sebastião di José Régio; assistente alla regia: José. Maria Vaz da Silva; fotografia e formato pellicola (35mm, Kodak, colore): Sabine Lancelin; assistente operatore: Alexandra Afonso; suono: Philippe Morel; assistente suono: Ricardo Leal; scenografia: Maria José Branco; montaggio: Valérie Loiseleux; direzione di scena: Jaime Felipe, Bruno Martins; trucco: Sano di Pérpessac; costumi: Isabel Branco; segretaria di produzione: Júlia Buísel; interpreti: Ricardo Trêpa (re Sebastião), Luís Miguel Cintra (Simão Gomes), Glória de Matos (regina D. Catarina), Ruy de Carvalho (primo consulente), Luís Lima Barreto (secondo consulente), José Manuel Mendes (terzo consulente), Miguel Guilherme, David Almeida (buffoni), Rogério Samóra (Cristovão de Távora), José Wallenstein (Luís Alcaçova, 266
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Giovanni I) Rui Morrison (Alfonso IV), Nuno M. Cardoso (Jorge de Alencastre), Filipe Cochofel (Duarte da Silva); produttore delegato: Paulo Branco; direttore di produzione Alexandre Cebrian Valente; coproduzione: Madragoa Filmes (Portogallo), R.T.P. (Portogallo), Gemini Films (Francia) con la partecipazione del Ministero della Cultura del Portogallo, I.C.A.M. (Portogallo), C.N.C. (Francia); prima presentazione: Mostra di Venezia, 10 settembre 2004; distribuzione: Gemini Films; prima in sala: 27 gennaio 2005 (Portogallo); durata: 127 min.
2005 Espelho Mágico / Specchio magico Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura, soggetto e dialoghi: Manoel de Oliveira, dal romanzo di Agustina Bessa-Luís A Alma dos Ricos. Fotografia e formato pellicola: (35mm, colore) Renato Berta Suono: Henri Maikoff; scenografia: Mónica Baldaque; montaggio: Valérie Loiseleux Assistente alla regia: Paulo Guilherme; interpreti: Leonor Silveira (Alfreda), Luís Miguel Cintra (Filipe Quinta), Duarte de Almeida (Bahia), Ricardo Trepa (José Luciano o Toro Azzurro), Diogo Dória (Commissario), Glória de Matos (Infermiera Hilda), Leonor Baldaque (Vicenta/Abril), Michel Piccoli (Professor Heschel), Lima Duarte (Padre Clodel), Marisa Paredes (suora), Rogério Vieira (infermiere), David Cardoso (Flórido), José Wallenstein (Américo), Isabel Ruth (Adelaide), Susana Sá (Noémia), Padre João Marques (padre Feliciano), Maestro Atalaya (Professor Oboé), Adelaide Teixeira (Queta); produttore: Miguel Cadilhe; segretaria di produzione: Júlia Buisel; direttore di produzione: Joaquim Carvalho; produzione: Fillbox, Instituto do Cinema, Audiovisual e Multimédia (ICAM); prima in sala: 9 marzo 2006 (Portugal); durata: 137 minuti
2005 Do Visível ao Invisível Regia e sceneggiatura: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola: Francine Tomo; montaggio: Manoel de Oliveira; interpreti: Leon Cakoff (Leon), Ricardo Trépa (Ricardo); produzione: Filbox Produções Durata: 6 min. Inedito in Portogallo. Due amici s’incontrano sull’Avenida Paulista di São Paulo, trafficata e rumorosa: il loro tentativo di instaurare una semplice conversazione si scontra – ma trova anche una soluzione – con la tecnologia cellulare.
2006 Belle Toujours / Bella sempre Regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola: (35mm, colore) Sabine Lancelin; suono: Henri Maikoff; montaggio: Valé267
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rie Loiseleux; scenografia: Milena Canonero, Christian Marti; segretaria di produzione: Júlia Buisel; interpreti: Michel Piccoli (Husson), Bulle Ogier (Séverine), Júlia Buísel, Leonor Baldaque (prostitute), Ricardo Trêpa (barman), Lawrence Foster (Lawrence Foster); produttore: Miguel Cadilhe; coproduttore: Serge Lalou; produzione: Filbox Produções; prima in sala: 5 luglio 2007 (Portogallo); durata: 68 min.
2006 O Improvável não é Impossível Regia: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola: Francisco Oliveira; montaggio: Valérie Loiseleux; assistente alla regia: João Pedro Bénard; suono: Henri Maikoff; musica: Lawrence Foster; segretaria di produzione: Júlia Buísel; produttore: Miguel Cadilhe; produzione: Filbox Produções e Fundação Calouste Gulbenkian; prima presentazione in Portogallo durante la sessione commemorativa del 50° anniversario della Fundação Calouste Gulbenkian, 18 luglio 2006; durata: 19 min.
2007 Rencontre unique Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura e dialoghi: Manoel de Oliveira; montaggio: Valérie Loiseleux; interpreti: Michel Piccoli (Nikita Krusciov), Duarte de Almeida (Papa Giovanni XXIII), Antoine Chappey (segretario di Krusciov); produttori: Laura Briand, Serge Lalou; produzione: Les Film D’Ici; durata: 3 min. Corto presentato per il film collettivo Chacun son Cinema. Ce petit coup au coeur quand la lumière s’éteint et le film commence. Inedito in Portogallo. Messa in scena dell’unico incontro, storicamente documentato, fra papa Giovanni XXIII e Nikita Krusciov. Toni buffi e ilari nello scoprire cosa accomuna i due al di là delle differeze ideologiche.
2008 Cristóvão Colombo. O Enigma / Cristoforo Colombo. L’enigma Regia: Manoel de Oliveira; sceneggiatura: adattamento di Manoel de Oliveira basato sul libro O Mistério Colombo Revelado di Manuel da Silva Rosa; fotografia e formato pellicola: (35mm, colore) Sabine Lancelin; montaggio: Valérie Loiseleux; scenografia: Christian Marti; assistente alla regia: Olivier Bouffard; suono: Henri Maikoff, Jean Pierre Laforce; interpreti: Ricardo Trêpa (Manuel da Silva giovane) Manoel de Oliveira (Manuel da Silva), Leonor Baldaque (Silvia Jorge da Silva giovane), Maria Isabel de Oliveira (Silvia Jorge da Silva), Luís Miguel Cintra (narratore e direttore del museo), Lourença Baldaque (l’Angelo), Norberto Barroca (idiota), Jonathan Charles (marinaio), Leonor Silveira (madre), Sam Masot268
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to (immigrante), Robert Gordon Spencer (immigrante) Jorge Trêpa (Hermínio da Silva); produttore: François D’Artemare; produzione: Filmes do Tejo, Fundação Calouste Gulbenkian, Fundação Luso Americana, Les Films d’Après Midi, Manoel de Oliveira Filmes; prima in sala: 10 gennaio 2008 (Portogallo); durata: 75 min.
2009 Singularidades duma Rapariga Loura / Singolarità di una ragazza bionda Regia: Manoel de Oliveira; seneggiatura: adattamento di Manoel de Oliveira basato sul racconto omonimo di Eça de Queiros; fotografia e formato pellicola: (35mm, colore) Sabine Lancelin; montaggio: Manoel de Oliveira, Catherine Krassovsky; scenografia: Christian Marti, José Pedro Penha; assistente alla regia: Bruno Sequeira; suono: Henri Makoff; segretaria di produzione: Júlia Buísel; musica: Debussy, Arabesque; interpreti: Ricardo Trêpa (Macário) Catarina Wallestein (Luísa Vilaça) Julia Buisel (madre di Luísa) Leonor Silveira (donna in treno) Filipe Vargas (amico) Miguel Seabra (notaio) Rogério Samora, Luís Miguel Cintra, Glória de Matos, Miguel Guilherme, Paulo Matos, Carlos Santos, Rogério Vieira; produttore: Jacques Arhex; produzione: Filmes do Tejo, Les Filmes d’Après-midi, Eddi Saeta SA, con la collaborazione di Lusomundo, Ministero della Cultura portoghese, Radiotelevisão Portuguesa (RTP), Tóbis Portuguesa; prima in sala: 30 aprile 2009 (Portogallo); durata: 64 min.
2010 Os Painéis de São Vicente de Fora [corto inedito]
2010 O Estranho Caso de Angélica Regia e sceneggiatura: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola (35mm, colore): Sabine Lancelin; montaggio: Valérie Loiseleux; scenografia: Christian Marti, José Pedro Penha; primo assistente alla regia: Bruno Sequeira; suono: Henri Maikoff; costumi: Adelaide Trêpa; trucco: Ignasi Ruiz; segretario di produzione: Francisco Botelho; direttore di produzione: João Montalverne; produzione: François d’Artemare, Maria João Mayer, Luís Miñarro, Renata de Almeida & Leon Cakoff, in collaborazione con Filmes do Tejo II, Les Films de l’Après-Midi, Eddie Saeta & Mostra Internacional de Cinema, e con la partecipazione di MC/ICA, RTP, Fundação Calouste Gulbenkian, ICAA, CNC, Programa Ibermedia, Ministério da Cultura/Fundo Nacional do Brasil, Pyramide e Epicentre Films; interpreti: Ricardo Trêpa (Isaac) Pilar López de Ayala (Angélica) Leonor Silveira (madre) Luís Miguel Cintra (ingegnere) Ana Maria Magalhães (Clementina) Isabel Ruth (dome269
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stica) Sara Carinhas (religiosa) Ricardo Aibéo (mendicante) Adelaide Teixeira (Justina); durata: 95 min.
COLLABORAZIONI 1983-1984 Reflexão de Manuel Casimiro. A Propósito da Bandeira Nacional Regia: Manuel Casimiro; fotografia e formato pellicola (16 mm, colore): Manoel de Oliveira, Elso Roque; suono: Joaquim Pinto, Vasco Pimentel; montaggio: Manoel de Oliveira; assistente al montaggio: Ana Luisa; segretaria di produzione: Júlia Buísel; tableaux: Manuel Casimiro; testo: Hélder Prista Monteiro; voce: Manuela de Freitas, Luís Miguel Cintra; direttore di produzione: Manuel Guanilho; laboratori: Tóbis Portuguesa, Nacional Filmes. anteprima: 9 dicembre 1988 (Cinemateca portuguesa); durata: 7 min. Film d’arte sulla bandiera portoghese, i suoi colori, i simboli che la compongono. La «pintura d’intervenção» del figlio del cineasta, Manuel Casimiro.
1985 Simpósio Internacional de Esculptura em Pedra. Porto 1985 Regia: Manuel Casimiro; supervisione: Manoel de Oliveira; fotografia e formato pellicola: João Abel Aboim, Artur Moura; assistenti operatori: Octávio Espírito Santo, Carlos Oliveira; suono: Anselmo Costa; testo: João Assis Gomes, recitato da Diogo Dória; montaggio: Leonor Guterres, Celeste Alves; segretarie di scena: Júlia Buísel, Anabela Carrélo; produttore: António Vaz da Silva; assistente produzione: Carlos Domingos; coproduzione: Metrofilme, R.T.P. (Portogallo); direttore di produzione: Manuel Guanilho; durata: 60 min. Film d’arte sul processo creativo scultoreo, dall’origine (marmi, graniti) fino alla messa in mostra nel Palácio de Cristal a Porto. Sedici scultori impegnati nel simposio del titolo.
TEATRO 1987 De Profundis Pièce di Manoel de Oliveira, da una novella di Agustina BessaLuís, con poesie di José Régio, António Nobre, Fernando Pessoa. Regia: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: Júlia Buísel; suo270
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no: Joaquim Pinto; scenografia: Luís Monteiro; interprete: Ruy Furtado; produzione: Santarcangelo dei Teatri, luglio 1987.
2003 Mário ou Eu Próprio o Outro / Mario o se stesso l’altro Pièce di José Régio con in più sue poesie; regia: Manoel de Oliveira; assistente alla regia: Júlia Buísel; interpreti: Rogério Vieira (Mario), Diogo Dória (l’Altro), Leonor Silveira (la musa); produzione: Festival «Sete Sois, Sete Luas »; prima: 7 luglio 2003, Pontedera (Pisa, Italia). Ripreso a Tricarico (Lecce, Italia) il 10 luglio 2004, con Leonor Baldaque nel ruolo della musa.
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Bibliografia
La presente bibliografia, senza aver pretesa di completezza (per integrazioni ed errori: [email protected]), aggiorna ed amplia quella presente in Simona Fina – Roberto Turigliatto [a cura di], Manoel de Oliveira, Torino, Torino Film Festival 2000, la più dettagliata specialmente riguardo ai testi critici generali in lingua portoghese su Oliveira e sui singoli film (sezioni qui rifluite solo parzialmente). A quella bibliografia si rinvia anche: per gli interventi critici su riviste di cinema italiane ed internazionali non comprese in Riviste & siti internet, nonché per le interviste e le testimonianze di collaboratori del cineasta lusitano, e per le corrispondenze dal set. Si segnala che in alcuni casi non si è riusciti ad aver notizia della fonte in lingua di testi pubblicati in traduzione, sicché compare solo l’indicazione del luogo della traduzione. Di tutti i rinvii effettuati a materiale presente on line è stata verificata l’accessibilità alla data del 15 novembre 2009, ad eccezione del materiale della Madragoa Filmes (www.madragoafilmes.pt.), non più raggiungibile dall’estate 2009: l’auspicio è che il sito venga riattivato, dunque si sono conservati quei rinvii. Vengono contrassegnati con sigla i testi contenenti un’ampia raccolta di materiali di e su de Oliveira: T1 AA.VV., Non ou la vaine gloire de commander, Paris, Fondation Calouste Gulbenkian, 1993 T2 AA.VV., Manoel de Oliveira em Contexto, Cinemateca portuguesa, 1988 [dattiloscritto] T3 AA.VV., Manoel de Oliveira. Textos, Filmoteca de Andalucia, Córdoba, 1990 T4 AA.VV., Manoel de Oliveira, numero monografico di Camões. Revista de Letras e Culturas Lusófonas, 12-13, 2001 T5 AA.VV., Manoel de Oliveira: ver e rever todos os filmes e mais alguns ainda…, Museu Serralves, 2008 [dattiloscritto] T6 Avella, A.A. [a cura di], Parola, Immagine, Utopia. Scritti in 273
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Francesco Saverio Nisio
onore di Manoel de Oliveira, L’Aquila, Japadre, 2002 T7 Baecque, A. de – Parsi, J., Conversations avec Manoel de Oliveira, Paris, Cahiers du cinéma, 1996; trad. portoghese Conversas com Manoel de Oliveira, Porto, Campo das Letras, 1999 T8 Bessa-Luís, A. – Oliveira, M. de, Um concerto em tom de conversa, a cura di A.A. Avella, Belo Horizonte, Editora UFMG, 2007 T9 Buisel, J., Manoel de Oliveira. Fotobiografia, Lisboa, Figueirinhas, 2002 T10 Casetti, F. [a cura di], Personale di Manuel de Oliveira, Venezia, La Biennale di Venezia, 1976 T11 Chirivi M. [a cura di], Manoel de Oliveira, Venezia, Quaderno Circuito Cinema, 1995 T12 Cinemateca portuguesa, Manoel de Oliveira, Lisboa, Cinemateca portuguesa, 1981 T13 Estève, M. – Gili, J.A. [a cura di], Manoel de Oliveira, numero monografico di Etudes cinématographiques, 70, 2006 T14 Fattorossi, R. [a cura di], Manoel de Oliveira, Milano, Clued, 1985 T15 Fernandes, J. [a cura di], Manoel de Oliveira. M.O - Jul-Set 2008, 1/3. Textos de João Fernandes, João Bénard da Costa, Manoel de Oliveira, Porto, Fundação de Serralves & Civilização Editora, luglio 2008 T16 Fernandes, J. [a cura di], Manoel de Oliveira. M.O – Out-Dez 2008, 2/3. Textos de João Fernandes, João Bénard da Costa, Manoel de Oliveira, Porto, Fundação de Serralves & Civilização Editora, dicembre 2008 T17 Fina, S. – Turigliatto, R. [a cura di], Manoel de Oliveira, Torino, Torino Film Festival, 2000 [catalogo 18° Torino FF 2000] T18 Folgar de la Calle, J-M. – González Rodríguez, X. – Pena Pérez, J. [a cura di], Manoel de Oliveira, Universidade de Santiago de Compostela, Imprenta Universitaria, 2004 T19 França, J-A. – Costa, A. – De Pina, L. [a cura di], Introdução à Obra de Manuel de Oliveira, Lisboa, Instituto de Novas Profissões, s.d. [1981] T20 Lardeau, Y. – Tancelin, P. – Parsi, J., Manoel de Oliveira, Paris, Dis Voir, 1988 T21 Lévy, D. [a cura di], Manoel de Oliveira, numero monografico de L’Art du cinéma, 21/22/23, 1998 T22 Machado, A. [a cura di], Manoel de Oliveira, São Paulo, Cosac Naify, 2005 T23 Oliveira, M. de, Alguns Projectos Não Realizados e Outros Textos, Lisboa, Cinemateca portuguesa, 1988 274
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T24 Oliveira, M. de – Bénard da Costa, J., Manoel de Oliveira. Cem Anos, Lisboa, Cinemateca portuguesa – Museu do Cinema, 2008 T25 Oliveira, M. de, 100 Anos/Livros, Porto, Lello Editores, 2008 T26 Parsi, J. [a cura di], Manoel de Oliveira, Paris, Centre Pompidou/Mazzotta, 2001 [catalogo retrospettiva 2002] T27 Passek, J-L. [a cura di], Le cinéma portugais, Paris, Centre Pompidou/L’Equerre, 1982 [catalogo mostra cinema portoghese 1982] T28 Pita, A.P. [a cura di], Régio, Oliveira e o Cinema, Vila da Conde, Cineclube, 1994 T29 Preto, A. [a cura di], Manoel de Oliveira. O cinema inventado à letra, Lisboa, Collecção de arte contemporânea Público Serralves, 2008 T30 Seabra, A.M. [a cura di], Portogallo: «Cinema Novo» e oltre…, Venezia, Marsilio, 1988 [catalogo della XXIV Mostra del cinema di Pesaro 1988] T31 Turigliatto, R. – Fina, S. [a cura di], Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Torino, Lindau, 1999 [catalogo 17° Torino FF 1999]
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Letteratura d’autore
SCENEGGIATURE Aniki-Bóbó. Planificação do filme escrito e realizado, Porto, Cine-clube do Porto, 1963; si veda anche in Aniki-Bóbó. 50 anos, a cura di J. Neves, Porto, Rainho & Neves, 1992 Acto da Primavera, descrizione degli ultimi tre minuti, in A. Campelo, Acto da Primavera. Um Filme Antropológico?, in Vaz Ponce de Leão, I. [a cura di], Actas do Congresso Internacional Literatura, Cinema e Outras Artes. Homenagem a Ernest Hemingway e Manoel de Oliveira, Porto, Universidade Fernando Pessoa, 2001 Francisca, in Libération, 25.11.1981 [estratti dai dialoghi] Lisbonne culturel, in M. de Oliveira, Lisbonne culturel, Paris, Dis Voir, 1995 Les Cannibales, in M. de Oliveira, Les Cannibales Paris, Dis Voir, 1989 Le Val Abraham, in Trafic, 6, 1993 [estratti dalla sceneggiatura] Party, in A. Bessa-Luís, Party. Garden-Party dos Açores. Diálogos, Lisboa, Guimarães, 1996 Voyage au début du monde, in M. de Oliveira, Voyage au début du monde. Dialogues, Paris, Alpha Blue, 1997; anche Viagem ao Princípio do Mundo: transcrición da segunda secuencia, in T18 La lettre, in Cahiers du cinema, 538, 1999 [sequenza 12 e documenti di lavorazione del film]; e in Balthazar, 5, 2002 [analisi di una sequenza] NOTA: si vedano ancora alcuni découpages di singole sequenze dai film Aniki-Bóbó, Francisca, NON, Vale Abrãao, A Caixa, O Convento, in R. Prédal, Manoel de Oliveira. Le texte et l’image, in L’Avant-Scène Cinéma, 478-79, 1999 276
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PROGETTI
DI FILM
Oliveira, M. de, Angelica, Paris, Dis Voir, s. d. [1998]; anche in Cahiers du cinéma, 528, 1998 [estratti]; trad. parziale in T17; vers. portoghese in T23] Oliveira, M. de, Alguns Projèctos Não Realizados e Outros Textos, Lisboa, Cinemateca portuguesa, 1988 [=T23]. Testi e informazioni sui seguenti progetti: Bruma [già edito in presença, luglio-ottobre 1931; trad. in T17]; Angélica; A Velha Casa [estratti già editi in In memoriam de José Régio, Vila do Conde/Porto, 1970; ried. in T28]; O Caminho; A Carta ou Teatro de Mulheres [trad. in T17]; A Estátua [trad. in T17]; De Profundis [vers. cinema e teatro] Progetti non realizzati, in T11. Informazioni su ulteriori progetti, al di là di quelli elencati in T23: 9 de Abril, Ritmos de Água, Miséria, Roda, Luz, Os Gigantes do Douro, A Mulher que Passa, Desemprego, Prostituição, Hino de Paz, Saltimbancos, Clair de lune, La mer, Pedro e Inês, Vilarinho das Furnas, O Bairro de Shangai, De Dois Mil… Não Passaras, Palco dum Povo, O Filme sobre José Régio, A Mulher do Ladrão, A República, O Negro e o Preto Projets, in T20 [elenco non firmato, con tutta probabilità stabilito da J. Parsi in collaborazione con Oliveira]
LIBRO M. de Oliveira, 100 Anos/Livros, Porto, Lello Editores, 2008, p. 61 [=T25] Volume edito per i cento anni dell’autore, tirato in 115 esemplari (1-100+I-XV fuori mercato), numerati e firmati. Il volume contiene: Reflexões Genesíacas (Crenças; A permanente temporalidade da grandiosa figura da pessoa de Jesus Cristo; O poder; A dúvida; Política, Cultura e Arte); Ver Cinema; Fui; Poema d’Amor; Recado; Rio que, por baixo das pontes, abre porta para o mar; Europalia.E91 Portugal; Porque sempre chora o bebé quando nasce; Uma historia triste. Riproduzioni di opere di Botticelli, T. de Bry, Caravaggio, M. Casimiro, A. Cruz, Delacroix, Rembrandt, L. da Vinci. De Oliveira accenna inoltre, in più occasioni, ad un libro sul cinema dal titolo O acto de filmar: «Mi piacerebbe pubblicare un libro che ho finito di scrivere e che s’intitola L’atto di filmare, dove ho cercato di riunire tutto ciò che costituisce la mia visione del cinema a partire dai miei inizii», in J-M. Lalanne – C. Tes277
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son, La vie est une énigme, in Cahiers du cinema, 571, 2002, p. 56; cfr. anche le interviste di J. Gili, «Sommes-nous un divertissement occasionnel pour la nature?», in Positif, 436, 1997; R. Silva, Um homem de fé, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 2.12.1998; J-M. Frodon, Principes et incertitudes de Manoel de Oliveira, in Le Monde, 11.9.2002.
TESTI D’AUTORE [1931] Lettera ad Adolfo Casais Monteiro sulla ‘prima’ di Douro Faina Fluvial del 27.11.1931, in T9; vers. francese parziale in J. Parsi, Manoel de Oliveira, Paris, Centre Culturel Calouste Gulbenkian, 2002, p. 40 [1932] Lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 5.5.1932, in T9 Lettera ad Adolfo Casais Monteiro dell’11.5.1932, in T9 [1933] O cinema e o capital, in Movimento, 7, 1.10.1933; ried. in Vértice, 248-249, 1964; trad. francese in Cahiers du cinéma, 644, 2009 [1954] Aniki-Bóbó [nota del regista], in Aniki-Bóbó. 50 anos, a cura di J. Neves, Porto, Delegação Regional da Cultura do Norte, 1992 [1960] Lettera a Novais Teixeira del 26.6.1960, in T9 Lettera a José Régio del 15.12.1960, in T9 [1961] Lettera a José Régio del 5.5.1961, in T9 [1963] Lettera ad Alves Costa, in Boletim do Cine-clube do Porto, 1963 [1964] Intenções em Aniki-Bóbó, in Programa do Cineclube do Porto, 427; ried. in Vértice, 248-49, 1964 [1965] Lettera a José Régio del 10.3.1965, in T9 Lettera a José Régio del 2.9.1965, in T9 [1966] Lettera a José Régio del 14.10.1966, in T9 [1975] O último segredo, in A capital, 21.11.1975 [1976] Dichiarazioni di Manuel de Oliveira su Acto da Primavera, in T10 [1977] Lettre de Manoel de Oliveira à Rui Nogueira, in La revue du cinéma. Image et son, 314, 1977 [1980] Algumas palavras de Manoel de Oliveira à propósito de Amor de perdição de Camilo Castelo Branco, in Celulóide, 289, 1980 [1984] O Sinal, in A Cidade, numero speciale dedicato a J. Régio, Presença de José Régio em Portalegre, ottobre 1984; ried. in AA.VV., José Régio e o Cinema, Festival Internacional de Portalegre, 1988; trad. Il segno in T17 278
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[1985] [1986]
[1987] [1988]
[1990] [1991]
[1992]
Avant Propos, in M. de Oliveira, Lisbonne Culturelle, Paris, Dis Voir, 1995 Le désordre est le délice de l’imagination, in Libération, 29.10.1984 Le Soulier de satin [nota del regista], in press book francese del film, 1985 Poema cinematográfico, in T20 [con copia del manoscritto] e T23 [testo con varianti]; trad. Poema cinematografico in T17; trad. francese in T20 Commento al film di Vítor Gonçalves, Uma rapariga no verão, press-book del film; trad. in T31 «O meu caso» no caso de Régio, in Expresso, 9.4.1987; ried. in T23: ried. accresciuta in T28 testo breve su De Profundis, in T9 Os realizadores do futuro, in Skrien, 159, 1988; ried. in T23 Testament, in Skrien, 159, 1988 Premessa, in T30 Apresentação de Os Canibais, in T23; trad. Presentazione di Os Canibais in T17; trad. francese in Revue belge de cinema, 26, 1989 Nota di presentazione degli estratti sul progetto di film A Velha Casa, in T23; ried. in T28 Lettera a Júlia Buisel del 19.2.1990, in T9 Lettera a Prista Monteiro del 17.3.1990, in T9 Une idée de cinéma [estratti da una lunga lettera a Gilles Deleuze, 1.5.1991], in Magazine littéraire, 406, 2002; trad. Un’idea di cinema in Filmcritica, 540, 2003 Le cinéma de demain, in Cahiers du cinéma, suppl. al numero 443-444, 1991; trad. parziale Il cinema di domani nel catalogo di Mediterranea-Suoni e visioni tra terre e mari, Bari, 1994 Europalia – E 91 Portugal, in T25 Sobre António Reis, in A Grande Ilusão, 13-14, ott 1991–mar 1992 La Divine Comédie [nota del regista], in press book francese del film, 1991; vers. portoghese in T5, T28 e www.madragoafilmes.pt Sécret, in Cahiers du cinéma, 458, 1992, numero speciale dedicato a S. Daney Nós e a península, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 2.6.1992 Pecar por não pecar, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 28.7.1992: ried. in T28 279
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[1993]
[1994] [1995]
[1996] [1997]
[1998]
«Quando eu era menino…», in A. Roma Torres–R. Guimarães, Manoel de Oliveira. Entrevista, in A Grande Ilusão, 13-14, ott. 1991–mar. 1992 Manifesto por um cinema livre, inédito, mostra di Serralves 2008 Dom Quichotte, in press book di O Dia do Desespero, 1992; ried. in T5 e in www.madragoafilmes.pt; trad. Don Chisciotte, in Panta, 13, 1994 e T17; vers. francese in press book francese del film, 1992 Brève réflexion sur le film Non ou la vaine gloire de commander, in T1; trad. Breve riflessione sul film No, o la folle gloria del comando, in T17 Tentative pour expliquer l’inexplicable, in T1 e in Trafic, 8, 1993 ; trad. Tentativo di spiegare l’inspiegabile in T17 Lettera a Prista Monteiro del 2.11.1993, in T9 José Régio. O amante da verdade, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 31.8.1994; ried. in T28 Lettera ad Agustina Bessa-Luís del 17.10.1994, in T9 Petit dialogue, in Positif, 436, 1997 [riprende, sotto forma di dialogo, un intervento di Oliveira al convegno Le cinéma vers son deuxième siècle, Théatre de l’Odéon, Paris, 2021.3.1995] Elogio di «Os verdes anos» o il caso di Paolo Rocha, in R. Turigliatto [a cura di], Paulo Rocha, Torino, Lindau, 1995; trad. francese in D. Hibon [a cura di], Un été portugais, Paris, Jeu de Paume, 1997 Sulla memoria del cinema, in W. Wenders, Lisbon Story, Milano, Ubulibri, 1995 L’universalità del singolare, estratti da interviste e dichiarazioni, in T11 Le Couvent [nota del regista e sinossi del film a sua firma], in press book francese del film, 1995; vers. portoghese in www.madragoafilmes.pt Le lieu du cinéma, in Trafic, 20, 1996 Party [nota del regista], in T5 e in www.madragoafilmes.pt; trad. italiana e inglese in press book italiano del film Caro Marcello Mastroianni [lettera], in press book di Viaggio all’inizio del mondo, 1997; vers. portoghese in www.madragoafilmes.pt Préface a M. de Oliveira, Voyage au débout du monde. Dialogues, Paris, Alpha Bleu, 1997; trad. Viaggio all’inizio del mondo in T17 Angélica, un film qu’on ne m’a pas laissé faire, in M. de Oliveira, Angélica, Paris, Dis Voir, 1998 280
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Recado, in Trafic, 29, 1999 [con trad. francese a fronte Message] e in Positif, 456, 1999; ried. in T25, e in T8 [Poema]; trad. Messaggio in T17 [poema pronunciato l’11.12.1998 al Teatro Rivoli di Porto, in occasione dei festeggiamenti per il 90° compleanno] «Chien jaune», l’ode d’Oliveira à Jean-Luc Godard, in L’événement du jeudi, 10-16.12.1998 Cronologia subjectiva, in V. W. Ferreira [a cura di], Portugal 45-95 nas Artes, nas Letras e nas Ideias, Lisboa, Centro Nacional de Cultura, 1998 Razão pela qual foi reduzida a versão integral do Vale Abraão, in press-book del film on line [www.madragoafilmes.pt] Inquiétude d’Inquiétude, in press book francese del film, 1998 [www.madragoafilmes.pt] [1999] A velha questão litératura-cinema, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 22.9.1999; trad. francese modificata ed aumentata Le vieux débat littérature-cinéma, in Trafic, 34, 2000 Introduction, in J. Régio, Colin Maillard, Paris, Metaillié, 1999 [Contributo per Mnemosyne], in Filmcritica, 500, 1999 Rios da terra, rios da nossa aldeia, in Sincronie, 6, 1999; ried. in T4 e T8; trad. Fiumi della terra, fiumi del nostro villaggio in T6 Un incontro tra Manoel de Oliveira e Aleksander Sokurov, in S. Francia di Celle – E. Ghezzi – A. Jankowski, Aleksander Sokurov. Eclissi di cinema, Torino, Ass. Cinema Giovani - Torino Film Festival, 2003 Les martyrs du postcolonialisme, in Le Nouvel Observateur, 23-29.12. 1999; tra. I martiri del postcolonialismo in T17 Um povo inteiro contra a barbárie, s.l., s.d. [1999?], in T9 A carta e as suas implicações [nota del regista], in Público, 24.11.1999 e in www.madragoafilmes.pt; trad. francese La Lettre, in press book francese del film, 1999 [2000] Memória de um crítico de cinema, in T4; vers. francese Cher Serge Daney, in Trafic, 37, 2001, numero speciale dedicato a S. Daney Nâo importa a materia, importa a forma, scambio di lettere con J. Bénard da Costa, in J.M. Costa – T. Garcia – M. Dias [a cura di], O Olhar de Ulisses – O Homem e a Câmara, vol. I, catalogo Porto 2001. Capitale europea della cultura, Porto, Sociedade Porto 2001/Cinemateca portuguesa, 2000 Les ours, in T26; trad. La controversa umanità dell’uomo in T17 281
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Uma carta de Manoel de Oliveira, in Diário de Noticias, 6.9.2000 Parola e utopia [nota del regista], in press book italiano del film, 2000; vers. portoghese in www.madragoafilmes.pt [2001] Parole et cinéma, in Cahiers du cinéma, 555, 2001; vers. parziale portoghese, con varianti, Palavra e Cinema, in T29 Eloge de Gertrud, in Cahiers du cinéma, 557, 2001 Antique, Vieux / Nouveau, Moderne, in Positif, 490, 2001 José Régio: o esteta, o humanista e o religioso, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 5-18.9.2001; trad. in Sincronie, 10, 2001 Celui qui se veut plus grand qu’Allah, in Le Monde, 21.9.01 Os Caminhos da Prostituição, in T4; trad. francese in T26 Les cuillères en bois, in T26 Porto da Minha Infância [nota del regista], in www.madragoafilmes.pt [2002] Repenser le cinéma, in Trafic, 50, 2004. Si tratta della traduzione francese del discorso di ringraziamento (parzialmente modificato) pronunziato nel maggio 2002 per il conferimento del titolo di dottore honoris causa nell’Universidade Nova de Lisboa. Esistono due versioni in lingua portoghese, edite successivamente alla versione francese e con varianti rispetto al testo francese: – la prima in ordine di pubblicazione, intitolata Conferência na Universidade de Roma Tor Vergata (lectio magistralis tenuta del cineasta agli studenti nel luglio 2003 presso la facoltà di Lettere e Filosofia), edita in Sincronie, 14, 2003 e ried. in T8 con lo stesso titolo; – la seconda, intitolata Esta minha paixão, datata maggio 2002 (con tutta probabilità è la versione letta all’epoca del conferimento della laurea a Lisbona), edita in T22. Due le versioni italiane, con ulteriori varianti: – La mia concezione del cinema, in Bianco e Nero, 547, 2003 (testo della lectio magistralis tenuta nell’Ateneo di Padova il 18.2.2002, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lettere); – Ripensare-cinema, datata ottobre 2003, in E. Bruno [a cura di], Manoel de Oliveira, Montepulciano, Le Balze, 2004. Poema d’amor, in T25 [Le date più importanti della mia vita], in Libération, 11.9.2002; vers. tedesca Meine Schlüsseldaten, in P. MaierSchoen [a cura di], Manoel de Oliveira, München, Münch282
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[2003]
[2004]
[2005]
[2006]
[2007]
[2008]
ner Filmzentrum, 2004 O princípio da inteligência, in www.madragoafilmes.pt Aleksander Sokurov e il suo film Madre e figlio, in S. Francia di Celle – E. Ghezzi – A. Jankowski, Aleksander Sokurov. Eclissi di cinema, Torino, A Cinema Giovani – Torino Film Festival, 2003 Abbas Kiarostami, in Aa.Vv., Abbas Kiarostami, Lisboa, Cinemateca portuguesa-Museu do Cinema, 2004 Uma história triste, in T25 Um Filme Falado [nota del regista], in www.madragoafilmes.pt Lettera per il “Bastone bianco”, in E. Bruno [a cura di], Manoel de Oliveira, Montepulciano, Le Balze, 2004 [in occasione del Premio Filmcritica] Fui, in T8; ried. Poema in T25 Presentazione, in M. Verdone, Maestri del cinema. Incontri e profili, Teramo, Andromeda, 2004 O Quinto Império [nota del regista], in www.madragoafilmes.pt Conversas no Porto [con A. Bessa-Luís], in T8 [dialoghi del documentario di Daniele Segre, Conversazione a Porto, 2005 Le mythe du roi caché, in Cahiers du cinéma, 601, 2005 César Monteiro, cineasta deontologicamente exemplar, in J. Nicolau, João César Monteiro, Lisboa, Cinemateca portuguesa–Museu do Cinema, 2005 L’enfant [su Michel Piccoli], in Cahiers du cinéma, 607, 2005 Prefácio a J. M. Grilo, O Cinema da Não-Ilusão. Historias para o Cinema Português, Lisboa, Livros Horizonte, 2006 Técnica e Expressão, in T8 Literatura e Cinema, in T8 Considérations sur Luis Buñuel, in Cahiers du cinéma, 622, 2007 O livro, in T8 O caso de Agustina Bessa-Luís, in T8 Agora que, jà vivida…, in T25 [poesia] Acto de filmar e consciência fílmica no meu caso particular, in T15; vers. francese in Trafic, 71, 2009 Non ou a vã gloria de mandar, in T5 Reflexoês genesíacas (contiene: Crenças, A permanente temporalidade da grandiosa figura da pessoa de Jesus Cristo, O poder, A dúvida, Política, Cultura e Arte), in T25 Ver cinema, in T25 283
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Rio que, por baixo das pontes, abre porta para o mar…, in T25 [poema] Porque sempre chora o bébé quando nasce, in T25 [poesia] Elegia [su C. Castelo Branco], in casadecamilo.worldprecom Reflexão de Manuel Casimiro a propósito da bandeira nacional [nota del regista], in T5 Romance de Vila do Conde, O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta, As Pinturas do meu Irmão Júlio [nota del regista], in T5 Discurso de doutoramento honoris causa, Universidade do Algarve (Portogallo), in www.youtube.com/(registrazione da telefono cellulare) [2009] Reflexão sobre a condição humana, conferenza in occasione della consegna della laurea honoris causa presso la Universidade Federal de Minas Gerais (Brasile), inedita Um jogo de uma realidade utópica, discorso letto nella Tertúlia do Martinho da Arcada in Lisbona, inedito [2010] Religião e Arte, discorso pubblico di Oliveira al Papa, a nome del mondo della cultura portoghese, in occasione della visita in Portogallo di papa Benedetto XVI
INTERVISTE [1931] [la prima intervista] in Imagem, 40, 1931; ried. in Filme, 57, 1963 [1959] Manoel de Oliveira responde a um inquérito sobre documentário, in Filme, 3, 1959 [1960] [intervista], in Filme, maggio 1960; ried. in Filme, 57, 1963 [1963] Palavras oportunas, in Plateia, 165, 1963; ried. in Filme, 57, 1963 Sétima Arte entrevistou Manuel de Oliveira sobre Aniki-Bóbó, in Filme, 57, 1963 [1964] Lauro, A., O Actual Cinema Portugués, in Vértice, 248-249, 1964; ried. in JornaI de Letras, Artes e Ideias, 19.2.1964, e in AA.VV., Cinema de Manuel de Oliveira, Coimbra, Separata Vértice, 1964; trad. parziale in T10 [1965] Biette, J-C., Rencontre avec Manuel de Oliveira, in Cahiers du cinéma, 173, 1965; trad. in T10 [1966] Rocha, P. – Lopes, F. – Oliveira, M. de, Entrevista, in O tempo e o modo, 41, 1966 [1972] Rocha, P. Entrevista com Manoel de Oliveira, in Critica, 5, 1972; trad. Passioni assolute, amori irraggiungibili, in T10 284
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e T30 [1975] Entrevista com Manuel de Oliveira, in M-Revista de cinema, ago-sett 1975 Vaz da Silva, H., O cinema pode ser uma arma? Mesa redonda com J-M. Straub, D. Huillet, R. Kramer, M. Haoun, M. de Oliveira, in Expresso, 25.10.1975 Bénard da Costa, J., «Esta foi a forma mais simples a que pude chegar», in Expresso, 20.11.1975; trad. francese À propos de Benilde ou a Virgem-mãe, in La revue du cinema. Image et son, 314, 1977 [1976] Matos-Cruz, J. de, Manoel de Oliveira, in Plateia, 15.7.1976 [1978] Alphandery, A. – Rossi, G. M., Intervista con Manuel de Oliveira, in Alphandery, A. – Rossi, G. M. [a cura di], Il cinema di Manuel de Oliveira, Firenze, Gruppo toscano SNCCI, 1978 [1979] Vasconcelos, A.P., Manoel de Oliveira: «É dificil falar do amor», in Diario de noticias, 30.11.1979 [1980] Marcorelles, L., Une vision três subjective du Portugal, in Le Monde, 24.1.1980 Magny, J., Entretien avec Manoel de Oliveira, in Cinéma 80, marzo 1980 [1981] Costa, A. – Prado Coelho, E. – Assis Pacheco, F., Manoel de Oliveira: «Cada plano é um risco», in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 1981 Bénard da Costa, J. – Fonseca, M. S. – Costa, J. M. – Lopez, J. – Vasconcelos, A. P., Diálogo com Manoel de Oliveira, in T12; trad. in T14 Llináa F. – Zunzunegui, S., Los paisajes pintados, in Contracampo, gennaio 1981. Biette, J.-C. – Tesson, C., Entretien avec Manoel de Oliveira, in Cahiers du cinéma, 328, 1981 Manoel de Oliveira define-se como homem de esquerda, in Comércio do Porto, 15.10.1981 Bonnet, J-C. – Decaux, E., Entretien avec Manoel de Oliveira, in Cinématographe, novembre 1981 Clarens, C., Manoel de Oliveira: Interview, in Film Comment, 3, 1981 Barata Preto, J., «Desprezo cada vez mais a forma», in O Jornal, suppl. n° 354, 11.12.1981 Vieira Marques, J., Entrevista, in catalogo FestFigueira, 1981 [1982] Vieira Marques, J., Entretiens avec Manoel de Oliveira [1977-82], in T27 [1983] Pinhão, L., Manoel de Oliveira: o regresso ao documentá285
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[1989]
[1990]
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Manoel de Oliveira
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[1997]
[1998]
[1999]
[2000]
[2001]
Autores - Publicações Dom Quixote, 1996 Andrade, C., Entrevista com Manoel de Oliveira e Agustina Bessa-Luís, in Público, 1.9.1996 e in www.madragoafilmes.pt [parziale] Silva, R. da, Uma arvore carregada de frutos, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 20.11.1996 Lopes, J., «A alma é o melhor dos vícios», in Expresso (Cartaz), 26.7.1997 Gili, J., «Sommes-nous un divertissement occasionnel pour la nature?», in Positif, 436, 1997 Bonnaud, F., Manoel de Oliveira. Voyage au début du monde, in Les Inrockuptibles, 107, 1997 da Silva, R., Um homem de fé, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 2.12.1998 Leitão Ramos, J. – Cruz, V., «Voltei aquele impulso que tinha no início», in Expresso (Cartaz), 5.12.1998 Bénard da Costa, J., «O cinema não è o caminho para a santidade», in Público, 6.12.1998 (suppl.); trad. Il cinema non è il cammino per la santità, in T31 Mourão Fonseca, C., «Não se fazem filmes como tomates em fibra de vidro», in Diário Económico, 11.12.1998 Grugeau, G. – Loiselle, M-C., Entretien, in 24 Images, 95, inverno 1998-1999 Ciment, M., À propos de La lettre (mai 1999, Cannes), in M. Ciment, Petite planète cinématographique. 50 réalisateurs, 40 ans de cinema, 30 pays, Paris, Stock, 2003 Ciment, M. – Harpe, N., «On ne saura pas ce que dit la lettre», in Positif, 463, 1999 Silva, R. da, Entre o Céu e a Terra, in Jornal de Letras, Artes e Ideias, 22.9.1999 Persia, L., Viaggio al principio del cinema, in Close Up, 7, 1999 videointervista sul film Porto da Minha Infância, in dvd Dolmen Grilo, J. M., Um grito no deserto, in Visão, 401, 2000; ried. in J. M. Grilo, O Cinema da Não-Ilusão. Historias para o Cinema Português, Lisboa, Livros Horizonte, 2006 Parsi, J., Parola e utopia, in T17 Parsi, J., Entrevista à Manoel de Oliveira, in T4 Ciment, M. – Herpe, N., «Ce qui nous reste, c’est la mémoire», in Positif, 487, 2001 Roberti, M., La parola all’origine dell’immagine, in Filmcritica, 511-512, 2001. videointervista sul film Non ou a Vã Glória de Mandar, in dvd Lusomundo 288
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[2002]
[2003]
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[2007] [2008]
[2009] [2010]
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Letteratura secondaria
BIOGRAFIE Volumi Buisel, J., Manoel de Oliveira. Fotobiografia, Lisboa, Figueirinhas, 2002 Parsi, J., Manoel de Oliveira, Paris, Centre Culturel Calouste Gulbenkian, 2002 Rodrigues, J. B., Manoel de Oliveira. Piloto de Automóveis, Casal de Cambra, Caleidoscópio, 2009 Souto de Moura, E., Casa do Cinema Manoel de Oliveira, Casal de Cambra, Caleidoscópio, 2009 [si tratta di una costruzione realizzata nel 2003 da un importante architetto portoghese, la quale dovrebbe accogliere tutta la documentazione personale di Oliveira ed ospitare iniziative legate alla promozione e allo studio della sua opera. Per alcune immagini della Casa, digitare titolo del volume più KSA-Digital Library su un motore di ricerca].
Voci di dizionario & di enciclopedia Bénard da Costa, J., Oliveira, Manoel (Cândido Pinto) de (12 de Dez. de 1908), in www.mandragoafilmes.com Manoel de Oliveira, in G. Novell-Smith [a cura di], The Oxford History of World Cinema, Oxford, Oxford University Press, 1996 Oliveira, Manoel Cândido Pinto de, in G. P. Brunetta [a cura di], Dizionario dei registi del cinema mondiale, Torino, Einaudi, 2005 [si veda anche infra, 2.F] Bio-filmographie, in T20 [non firmata, ma con tutta probabilità stabilito da J. Parsi in collaborazione con Oliveira] 291
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Boussinot, R. [a cura di], L’Encyclopédie du cinéma, Paris, Bordas, 1967, voce Manoel de Oliveira Costa, A., Manoel de Oliveira. Fragmentos de um esboço biográfico, in T12, trad. in T14 Leitão Ramos, J., Manoel de Oliveira, in J. Leitão Ramos, Dicionário do Cinema Português 1962-1988, Lisboa, Caminho, 1989 Matos-Cruz, J.- de Pina, L. de, Setenta anos de cinema, in T12 Oliveira (Manoel de), in T27 R., Ba., Oliveira (Manoel Cândido Pinto d’Oliveira, dit Manoel de), in J-L. Passek [a cura di], Dictionnaire du cinéma, Paris, Larousse, 1991 Roberti, B., Oliveira, M. de, in Enciclopedia del cinema, vol. IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2004 Sadoul, G., Oliveira (Manuel de), in G. Sadoul, Dictionnaire dês cinéastes, Paris, Microcosme/Seuil, 1965 Storia del cinema mondiale, Milano, Feltrinelli, 19837, p. 324, 400, 644 Seabra, A.M., Manoel de Oliveira, in press-book francese de Le Couvent 1995 Wakeman, J., Oliveira, Manoel de, in World Film Directors. Volume One: 1890-1945, New York, The H.W. Wilson Company, 1987
FILMOGRAFIE [portoghese] Filmografia, in T24 [fino a Cristóvão Colombo] Filmografia comentada, in J. Lopes, Manoel de Oliveira 100 Anos [fino a Cristóvão Colombo] Manoel de Oliveira. Realizador, in T4 [fino a O Principio de Incerteza] Filmografía 1931-2005, in www.madragoafilmes.pt [fino a O Quinto Império] [italiano] Filmografia, in M. Diana, Manoel de Oliveira, Milano, Il Castoro Cinema, 2000 [fino a Palavra e Utopia] Filmografia, in T17 [fino a Palavra e Utopia] [francese] Filmographie de Manoel de Oliveira, écrite et commentée par Jacques Parsi, in T26 [fino a Porto] e in T13 [fino a O Quinto Império] [inglese] 292
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Manoel de Oliveira
Filmography, in R. Johnson, Manoel de Oliveira, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2007 [fino a Belle toujours] Ulteriori filmografie in T7, T9, T13, T20, T21, T22 e in R. Prédal, Manoel de Oliveira. Le texte et l’image, in L’Avant–Scène Cinéma, 1999.
CATALOGHI
DI FESTIVAL
&
RETROSPETTIVE
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Manoel de Oliveira
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VOLUMI
COLLETTANEI
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in Contre bande, «Les films testamentaires», 4, 1998 Le jour du désespoir, in Jeune cinéma, 221, 1993 Inquiétude, in Jeune cinéma, 251, 1998 Preto, A., Manoel de Oliveira: la forme-cinéma, in Actes du colloque «Nouvelles perspectives de la recherche française sur la culture portugaise», Paris, MSH, 2007, in www.msh-clermond.fr Viagem ao Principio do Cinema, in T29 Le soulier de satin: A teatralização do texto, in Suplemento litérario de Minas Gerais, 1317, febbraio 2009 Prieur, J., Les mystères de la reproduction, l’œuvre inconnue de Manoel de Oliveira, in J. Prieur, Nuits blanches, Paris, Gallimard, 1980 Ramirez, F., L’Image-parole, in J. Aumont [a cura di], L’Image et la parole, Paris, Cinémathèque française, 1999 Raymond, H., La nuit avant la bataille, in www.fluctuat.net Rebelo de Sousa, M., Prefácio a J. B. Rodrigues, Manoel de Oliveira. Piloto de Automóveis, Casal de Cambra, Caleidoscópio, 2009 Régio, J., Douro, Faina Fluvial, in presença, 33, 1931; ried. in J. Régio, Páginas de Doutrina e Crítica da presença, Porto, Brasília, 1977 e T28; trad. in T10, T17 Douro Faina Fluvial: a primeira obra de um poeta das imagens, in presença, 43, 1934; ried. in J. Régio, Páginas de Doutrina e Crítica da presença, Porto, Brasília, 1977 e in T28 Lettere a M. de Oliveira del 30.9.1957, 11.8.1960, 29.4.1961, 23.5.1967, in T9 Manoel de Oliveira e o cinema português, in Comércio do Porto, 8.10.1963; ried. in T28 Excerto de carta inédita de José Régio para Eugénio Lisboa sobre a peça El Rei Sebastião, in www.madragoafilmes.pt/oquinto imperio Reis, A., Flashback do Acto da Primavera, in Vértice, 248-249, 1964; trad. parziale in T17, completa in T10 Renault, J.B., Ema et son double, in Cinémathèque, 9, 1996 Revault d’Allonnes, F., Le soulier de satin, in Cinéma, 336, 26.6.1986 Oliveira s’amuse gravement, in Cinéma, 360, 26.6.1986 Ribeiro da Silva, T. e R. Salado, Métamorphose d’une oeuvre: compte-rendu de Vale Abraão, film de Manoel de Oliveira, in Intercâmbio, 4, 1993 Roberti, B., Mon cas o l’umana commedia, in T17 Corpo mistico e cinema desiderante, in T31 Rocha, P., Entretien avec Paulo Rocha, a cura di J-A. Fieschi e J. 307
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Narboni, in Cahiers du cinema, 183, 1966 Oliveira, il mio mito personale, in T17 Oliveira, o Arquitecto, 14.10.1993, in T5 O Presente e o Futuro, in T9 Roger, P., La conjugaison des temps. Art, histoire et mémoire dans l’œuvre de Oliveira, in T13 Oliveira et la musique. Esquisse d’une scénographie musicale, in T13 Rosenbaum, J., Doomed Love: The Masterpiece You Missed, in Soho News, 3.6.1981; ried. in J. Rosenbaum, Placing Movies: The Practice Of Film Criticism, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1995, e in T16; trad. in T17; trad. portoghese in T16 The Classical Modernist, in Film Comment, July-August 2008 Twelve Key Oliveira Films, in Film Comment, July-August 2008 Rother, H-J., Eine Welt Grosser Empfindungen, in Film und Fernsehen, 7, 1983 Rouch, J., «… En une poignée de mains amies», 1996, in T7 Ritratto-robot di Manoel de Oliveira, in T17 Rovai, M. L., Riefenstahl e Oliveira: do inferno das imagens às imagens do degredo, in Sociologia. Problemas e Práticas, 51, 2006 Time and Memory: An Oblique Look at Journey to the Beginning of the World and A Talking Picture, in C. Overhoff Ferreira [a cura di], “Dekalog 2. On Manoel de Oliveira, London, Wallflower Press, 2008 Sadoul, G., Lettera a Manoel de Oliveira del 24.11.1956, in T9 Samocki, J-M., Manoel de Oliveira ou l’exigence de civilisation, in T13 Opéra Bouffe. Ironie, esthétique et frivolité dans Les cannibales, in T13 Santiago, S., Né futurologia né utopia. Che fare dunque?, in T6 Santos, L. F., Manoel de Oliveira: um homem de fé, in Nacional, 1.6.2007 Schefer, J-L., Benilde o il teatro delle passioni, in T17; vers. originale francese in D. Hibon [a cura di], Un été portugais, Paris, Jeu de Paume, 1997, e in J-L. Schefer, Images mobiles. Récit, visages, flocons, Paris, Pol, 1999 Schmidt, N., L’ âme, le cœur et l’esprit dans les films de Manoel de Oliveira, in T13 Seguin, L., La résistance de Manoel de Oliveira, in T26, trad. in T17 Seixas Santos, A., O Passado e o Presente: una polemica, in T30 Serceau, D., Le citoyen dans l’histoire. Non ou la vaine gloire de commander, in T13 Silva Melo, J., O Passado e o Presente, in Critica, 5, 1972, trad. in T10 308
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Intérpretes de Oliveira, os actores…, in T12 Silva, P. da, Francisca, in T21 Non ou a Vã Gloria de Mandar, in T21; anche in Vertigo, 16, 1997 Lisboa Cultural, in T21 Reflexão de Manuel Casimiro a Propósito da Bandeira Nacional, in T21 Simão, J., Manoel de Oliveira. Uma história do cinema português, 2006, in www.comunicamos.org Simões, M. G., Cinema dell’eccesso, cinema dell’eccelso, in T11 Sotinel, T., Une géographie sélective de la mer Méditerranée, in Le Monde, 15.10.2003 Spiga, V., De Oliveira e l’esprit du théâtre, in Bianco e Nero, 4, 1985 Stein, E., Manoel de Oliveira and Doomed Love, in Film Comment, 3, 1981 Tancelin, P., Le regard évadé, in T20 Présentation, in S. Daney – R. Bellour, Le ciel est historique, in Revue Chimères, 14, 1991 Tavares Rodrigues, U., A Caça, in República, 28.2.1964, trad. Il difficile comunicare di Manuel de Oliveira, in T10 Terech, B., Benilde ou a Virgem-Mãe, in República, 8.12.1975, trad. in T10 Tesson, C., recensione a T7, in Cinémathèque, 12, 1997 [si veda anche infra, 3.B] Touati, J-P., Peinture et cinéma. Note sur Mon cas, in T13 Toubiana, S., Senhor Cinema, in T16 Vasconcelos, A.P., Meio século de cinema, in T12 Vasconcelos Pereira de Macedo, A. C. e al., Simbologias em A Divina Comédia de Manoel de Oliveira, in Vaz Ponce de Leão, I. [a cura di], Actas do Congresso Internacional Literatura, Cinema e Outras Artes. Homenagem a Ernest Hemingway e Manoel de Oliveira, Porto, Universidade Fernando Pessoa, 2001 Vaz Ponce de Leão, I., Os Poderes da Sugestão (Amor de Perdição: entre dois códigos), in Vaz Ponce de Leão, I. [a cura di], Actas do Congresso Internacional Literatura, Cinema e Outras Artes. Homenagem a Ernest Hemingway e Manoel de Oliveira, Porto, Universidade Fernando Pessoa, 2001 Verdone, M., Unire folklore e cinema. Acto da Primavera, in Bianco e Nero, 4, 1966 Manoel de Oliveira, il poeta dell’inconscio, in Set, ottobre 1996 La Divina Commedia di Manoel de Oliveira, in M. Verdone, Maestri del cinema. Incontri e profili, Teramo, Andromeda, 2004 309
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Viota, P., Oliveira ¿caníbal do classicismo?, in T18 Vuillermoz, E., Douro Faina Fluvial, in Le Temps, 3.10.1931, ried. in Vértice, 248-49, 1964 Welsch, H., Manoel de Oliveira: du regard au style, in Jeune Cinéma, 126, 1990 Wright, B., O Pintor e a Cidade, in Vértice, 248-49, 1964 Zribi, J, Au Couvent infini des images sans compte, in Balthazar, 5, 2002 Zunzunegui, S., Non reconciliado. Manoel de Oliveira no labirinto cinematográfico, in T18
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Riviste & siti internet
Oltre ai numeri di rivista monografici & ai dossiers, vengono elencati tutti gli articoli delle riviste italiane e francesi che maggiormente si sono interessate al cinema di Oliveira, nonché gli articoli della più nota rivista di cultura letteraria portoghese e, ancora, le analisi di film della Cinemateca portuguesa delle quali si ha notizia. Al titolo dell’articolo ed ai riferimenti bibliografici si fa seguire l’indicazione del titolo originale del film in analisi. In T17 è possibile consultare una bibliografia dettagliata, estesa a tutto il 2000 ed articolata per film e lingue (portoghese e straniere): ad essa si rinvia per l’elenco completo dei testi contenuti in altre pubblicazioni portoghesi, nonché delle interviste e testimonianze di collaboratori del regista lusitano.
NUMERI
DI RIVISTA MONOGRAFICI
&
DOSSIER
Filme, dicembre 1963 Vértice, 248-49, 1964 Cineastes 3, 1975 Rivista del cinematografo, 11, 1976, Personale di Manoel de Oliveira, a cura di M. Hochlkofer, dossier Biennale-Cinema La revue du cinéma, 314, 1977 L’art du cinema, 21/22/23, 1998, Manoel de Oliveira, a cura di D. Lévy Camões. Revista de Letras e Culturas Lusófonas, 12-13, 2001: Manoel de Oliveira [=T4] [testo integrale in http://cvc.instituto-camoes.pt] Filmcritica, book Manoel de Oliveira, a cura di E. Bruno, Montepulciano, Le Balze, 2004 Libero. Rivista del documentario, 2, 2005 [testo integrale in www.fondazionebizzarri.org] 311
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Etudes cinematographiques, 70, 2006, Manoel de Oliveira, a cura di M. Estève – J.A. Gili [= T13] Ciemme, 141-42, 2006: dossier de Oliveira e il sacro Cineforum, 460, 2006: dossier Il secolo di Manoel
CAHIERS
DU CINEMA
Aubron, H., Oliveira/Buñuel: la Belle et la boîte, 614 Souvenirs de la maison close, 622, 2007 [Belle toujours] Allégories à la dérive, 637, 2008 [Cristóvão Colombo] En ce miroir, 641, 2009 [Espelho Mágico] [si veda anche retro, 2.F] Bachellier, E., Amour de perdition, 303, 1979 Baecque, A. de, Le primitif du cinématographe, 400, 1987 [Mon cas] Comment Manoel de Oliveira filme l’Histoire, 436, 1990, ried. in T1 [NON] La maison mère, 454, 1992 [A Divina Comédia] Bazin, A., Oliveira, 75, 1957 Bégaudeau, F., Le vol de l’épée, 601, 2005 [O Quinto Império] Bergala, A., L’infilmable gai, 409, 1988 [Os Canibais] Biette J.-C., Rencontre avec Manuel de Oliveira, 173, 1965 Notes sur l’œuvre de Manuel de Oliveira, 175, 1966 [si veda anche retro, 2.F] Blouin, P., Fin de partie, 560, 2001 [Je rentre à la maison] Phare, fado et farfadets, 564, 2002 [Porto] Bonitzer, P., Fête des ténèbres, 373, 1985 [Le soulier de satin] Epopée portugaise, 427, 1990 [NON] [si veda anche retro, 2.F] Bouquet, S., Les lieux de l’esprit, 506, 1996 [Party] Les désirs sont désordre, 538, 1999 [La lettre] L’empire des mots, 553, 2001 [Palavra e Utopia] Burdeau, E., Oliveira et le chant du code, 528, 1998 [Inquietude] Chion, M., Le pied marin, 373,1985 [Le soulier de satin] Daney, S., Notes sur les films de Manuel de Oliveira, 276, 1977; ried. in S. Daney, La Maison Cinéma et le Monde. Le Temps des Cahiers 1962-1981, Paris, Pol, 2001 Manoel de Oliveira et Amour de perdition, 301, 1979; ried. in S. Daney, La Maison Cinéma et le Monde. Le Temps des Cahiers 1962-1981, Paris, Pol, 2001 Le pôle portugais, 322, 1981; ried. in S. Daney, La Maison Cinéma et le Monde. Le Temps des Cahiers 1962-1981, Paris, Pol, 2001 Tournages, 322, 1981; ried. in S. Daney, La Maison Cinéma et 312
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le Monde. Le Temps des Cahiers 1962-1981, Paris, Pol, 2001 [Francisca] Que peut un cœur?, 330, 1981; ried. in S. Daney, La Maison Cinéma et le Monde. Le Temps des Cahiers 1962-1981, Paris, Pol, 2001; trad. in T17 [Francisca] [si veda anche retro, 2.F] França, J-A., Lettre de Lisbonne, 18, 1952 [si veda anche retro, 2.F] Frappat, H., Va savoir, 569, 2002 [O Princípio da Incerteza] Détour, 583, 2003 Frodon, J.M., Coup de chapeau à Manoel, 640, 2008 Guérin, M-A., Tout cela, c’est un détail..., 528, 1998 [Inquietude] Heinich, N., Rotterdam, 299, 1979 Hodgon, P., Oliveira, Deneuve, Malkovich et le Diable, 488, 1995 Jousse, T., Le fil de l’épée, 433, 1990 [NON] Luis Lucas et Luis Miguel Cintra, 436, 1990 [NON] La bataille du parlant, 469, 1993 [Vale Abraão] Joyard, O., La prisonnière, 524, 1998 [Francisca] Au seul souci de voyager, 528, 1998 [Inquietude] La mort des mots, 558, 2001 [Je rentre à la maison] Krohn, B., Mon cas, 388, 1986 Lardeau, Y., Le passé et le présent, 309, 1980 [O Passado e o Presente, Benilde] Sur les traces de Vigo. Manoel de Oliveira filme Nice, 350, 1983 [si veda anche retro, 2.F] Lemière, J., nota a M. de Oliveira, Le cinéma et le capital, 644, 2009 [si veda anche retro, 2.F] Malapert, M., Abraham avait deux filles…, 472, 1993 Marty, D., Benilde, 309, 1980 Morice, J., La grande illusion, 471, 1993 [Vale Abraão] Nevers C., Les fantasmes d’Ema, 469, 1993 [Vale Abraão] Au royaume des borgnes, les aveugles sont rois, 488, 1995 [O Convento] Ranger, J-F., La cassette, 481, 1994 [A Caixa] Roth, L., Le diable amoureux, 494, 1995 [O Convento] Sabouraud, F., Un crabe de trop, 491, 1995 [A Caça] Strauss, F., Faire la fête, 416, 1989 [Os Canibais] Taboulay, C., Chaussures, 558, 2001 [Je rentre à la maison] Tesson, C., Une passion, 326, 1981 [Francisca] Présentation, in Entretien avec Manoel de Oliveira, 328, 1981 Une odyssée de la passion, 379, 1986 [Le soulier de satin] L’abîme de la passion, 466, 1993 [O Dia do Desespero] La lettre, 536, 1999 Femmes entre elles, 569, 2002 [O Princípio da Incerteza] Le prix de l’amour , 648, 2009 [Singularidades duma Rapariga 313
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Loura] [si veda anche retro, 2.F] Toubiana, S., Le pari de Oliveira, 376, 1985 [Le soulier de satin] [si veda anche retro, 2.F]
CINEFORUM Barisone, L., Palavra e Utopia, 399, 2000 Bertani, M., Acto da Primavera, 386, 1999 Censi, R., Storie di devozione, 403, 2001 Parola e utopia, 408, 2001 Giovanna d’Arco nel limbo, 418, 2002 [O Principio da Incerteza] Chiesi, R., Un film parlato, 434, 2004 L’attesa dell’abisso, 447, 2005 [O Quinto Império] Epifania della memoria, 457, 2006 [Espelho Mágico] Fantasmi buñueliani nel teatro di Manoel, 458, 2006 [Belle toujours] Statue e rituali, 460, 2006 Comuzio, E., Os Canibais, 275, 1988 A Divina Comedia, 308, 1991 A Caixa, 335, 1994 O Convento, 345, 1995 Party, 357, 1996 La valle degli incroci, 336, 1994 [Vale Abraão] Scavando in de Oliveira, 403, 2000 Um Filme Falado, 429, 2002 [Um Filme Falado] O Quinto Império, 439, 2003 Espelho Mágico, 449, 2004 Do Visível ao Invisível, Romance de Vila do Conde, O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta, 479, 2007 Detassis, P., Francisca, 244, 1985 [si veda anche retro, 2.F] Fornara, B., La realtà portoghese vista attraverso il cinema di M. de Oliveira, e O Passado e o Presente, 159, 1976 Mon Cas, 258, 1983 Vale Abrãao, 325, 1994 [Vale Abraão] Nel groviglio del tempo, 368, 1998 [Viagem ao Princípio do Mundo] Inquietude, 375, 1999 La lettre, 385, 2000 Manoel de Oliveira, 394, 2001 Aria sopra la testa, 460, 2006 [si veda anche retro, 2.F] Grosoli, F., O Dia do Desespero, 318, 1992 Malanga, Fissare l’invisibile, 368, 1997 [Party] Matteuzzi, F., No, la folle gloria del comando, 311, 1992 314
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Mosca, I misteri del convento, 356, 1996 Rauzi, P.G., De Oliveira ex Claudel, 248, 1985 [Le soulier de satin] Rinaldi, G., I cannibali, 316, 1992 R., P., Cristóvão Colombo. O Enigma, 469, 2007 Tassi, F., Oltre la morte, il mito delle origini, 387, 1999 [Inquietude] Elogio del desiderio (e del suo contrario), 397, 2000 [La lettre] Proiezioni della scrittura 401, 2001 [Palavra e Utopia] L’arte di morire, secondo mio nonno, 406, 2001 [Je rentre à la maison] O Principio da Incerteza, 416, 2002 De Oliveira, il maestro ‘silenzioso’, 460, 2006 Vecchi, P., Ma Francisca riscatta ogni debito, 205, 1981
FILMCRITICA [I saggi per i quali non si dà l’indicazione di numero ed anno sono contenuti in E. Bruno [a cura di], Manoel de Oliveira, Montepulciano, Le Balze, 2004] Arecco, S., Emma e il corpo in frammenti, 475, 1995 [Vale Abraão] Bruno, E., La memoria, il teatro, il verosmile, 367, 1986 [Mon cas] Sul filo del tempo, 405-406, 1990 [NON] Lo spazio della follia, 435, 1993 [Vale Abraão] Il gran teatro dell’allegoria [A Caixa] Come riflesso sul volto; ried. accresciuta, De Oliveira, o del «non», in E. Bruno, Ritratti Autoritratti, Roma, Bulzoni, 2006 Cappabianca, Lo specchio, il doppio, la morte, 444, 1994 [Vale Abraão] Parola e disastro [Um Filme Falado] La parte invisibile della scena, 543, 2004 [Benilde] De Oliveira a Fuori Orario, 486, 1998 Chatrian, C., Il tramonto dell’Occidente, 540, 2003 [Um Filme Falado] Dottorini, D., Luogo-corpo-parola Emiliani, S., Viaggi all’inizio del mondo Esposito, L., Doppio fondo Gatti, I., Il teatro interiore [Je rentre à la maison] Nazzaro, G. A., L’utopia aurorale Paganelli, G., Teoria di uno smarrimento Pastor, A., Viaggio nella filosofia e nella storia Pezzotta, A., La finzione crudele, 358, 1985 [Le soulier de satin] Roberti, B., Corsi psichici [si veda anche retro, 2.F] Turco, D., Gesti e parole 315
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Vernaglione, P., Un cinema lungo cinque, 359, 1985 [Le soulier de satin] Dalla narrazione all’astrazione, 367, 1986 [Mon cas]
FOLHAS
DA CINEMATECA PORTUGUESA
Bénard da Costa, J., Benilde ou a Virgem-Mãe, 22.11.1988 Lisboa Cultural, 14.12.1988 Le soulier de satin, 20.12.1986 Rebecca, 25.1.2008; ried. in T5 [si veda anche retro, 2.F. Per i film dal 1990 in poi, cfr. T24, dove Bénard da Costa commenta tutte le opere di Oliveira nel dettaglio, fino a Cristóvão Colombo] Cintra Ferreira, M., As Pinturas do meu Irmão Júlio, 21.12.2007; ried. in T5 A propos de Nice, 30.7.2008; ried. in T5 A propos de Jean Vigo, 7.12.1988; ried. in T5 A Caixa, 29.6.2006; ried. in T5 Oliveira, o Arquitecto, 29.11.1996; ried. in T5 Costa, J. M., Douro Faina Fluvial, 15.6.2005; ried. in T5 Famalição, 19.4.1989 O Pintor e a Cidade e O Pão, 19.11.1988; ried. in T5 O Pão, 20.10.2008 Acto da Primavera, 21.11.1988; ried. in T5 [si veda anche retro, 2.F] Fonseca, M. S., Aniki-Bóbó, 2.4.1990 O Passado e o Presente, 14.3.2008; ried. in T5 Francisca, 2.10.2007; ried. in T5 O Meu Caso, 13.12.2007; ried. in T5 Os Canibais, 8.5.2006; ried. in T5 Lopes, J., Famalicão, 3.10.1981 Benilde ou a Virgem-Mãe, 22.6.1988 Amor de Perdição, 22.11.1983 [si veda anche retro, 2.F] Madeira, M.J., Hulha Branca e Portugal já faz Automóveis, 17.10.2008 A Caça, 16.3.2006; ried. in T5 Amor de Perdição, 22.1.2007; ried. in T5 O Convento, 25.10.2005; ried. in T5 Inquietude, 11.11.1999; ried. in T5 A Vida e a Morte: Romance de Vila do Conde, O Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta, 20.10.2008 Navarro de Andrade, J., Amor de Perdição, 23.5.1994 Lisboa Cultural, 7.12.1988 316
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Manoel de Oliveira
Pina, L. de, A Canção de Lisboa, 14.12.2007; ried. in T5 Aniki-Bóbó, 5.12.2007; ried. in T5
JORNAL
DE LETRAS, ARTES E IDEIAS
Augusto-França, J., Ema no Vale Abraão, 18.5.1993 [Vale Abraão] Borges, P., Entre desafio e consagração, 10.9.1985 Manoel de Oliveira filma Os Canibais, 12.1.1988 Cabrita, A., O grau zero da alma, 15.11.1988 [Os Canibais] Cesariny, M., O Acto de Manoel de Oliveira, 29.1.1964 [O Acto da Primavera] Fernandes, E. Na mão de Deus, na sua mão direita, 13.10.1995 [O Convento] França, J. A., Acto da Primavera, 1.5.1963 [si veda anche retro, 2.F] Freitas Branco, J. de, Uma ‘Francisca’ em dó sustenido, 19.1.1982 Garcia Rosado, P., Oliveira, o desejado, 8.10.1981 Gomes, M. J., Carvalhal, Oliveira e ‘Os Canibais’, 15.11.1988 Graça Dias, B., O último dia de Camilo, 2.6.1992 [O Dia do Desespero] Ismael, G., Francisca no Festival de Figueira, 15.11.1981 Lisboa, E., Oliveira revisita Régio, 19.1.2005 [O Quinto Império] Marques, J., Como Régio ‘revelou’ Carvalhal a Manoel de Oliveira, 15.11.1988; ried. in T28 [si veda anche retro, 2.F] Martins, M. J., Lisboa, crónica cruel, 23.11.1994 Pinto do Amaral, F., Fragmentos de um discurso romântico, 6.7.1982 [Francisca] Silva, R. da, Um estado de alma em balouço, 18.5.1993 [Francisca] A Caixa, 7.12.1993 Na clausura de duas ilhas, 20.11.1996 [Party] Até a vida! Até a morte!, 21.5.1997 [Viagem ao Princípio do Mundo] A austeridade da virtude, 22.9.1999 [La lettre] Oliveira, do melhor, 13.11.2002 [Inquietude] Silva Tavares, V., Liturgia do pão, 23.3.1966 [O Pão] Vasconcelos, A-P., A noite de Camilo, versão de Oliveira, 2.6.1992 [O Dia do Desespero] Oliveira inédito, 16.10.1993 [Visita] [si veda anche retro, 2.F] Vaz Pereira, J., Acto da Primavera, 16.10.1963
POSITIF Amenegual, B., Francisca, 244-45, 1981 Amiel, V., Vous êtes priés d’évacuer la scène!, 249, 1981 [Francisca] 317
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Ciment, M., Os Canibais, 329-30, 1988 [Os Canibais] [si veda anche retro, 2.F] Demeure, J., Aniki-Bóbó, 25-26, 1957; ried. in Vértice, 248-49, 1964 Acte du printemps. Comment être portugais?, 80, 1966 [O Acto da Primavera] Domenach, E., Tu ne connaitras rien si tu n’as tout connu, 554, 2007 [Belle toujours] Eisenteich, P., Irrépressible convoitise, 451, 1998 Gili, J. A., Le soulier de satin, 298, 1985 Les difficiles leçons de l’histoire, 356, 1990 [NON] L’homme qui aimait la mort, 387, 1993 [O Dia do Desespero] Entre la méditation et la séduction, 416, 1995 [O Convento] La Cassette, 418, 1995 [A Caixa] Party. L’amour ou les mots de l’amour ?, 428, 1996 Le temps suspendu de la mémoire, 492, 2002 [Porto] [si veda anche retro, 2.F] Goudet, S., Voyage à la fin d’un monde, 513, 2003 [Um Filme Falado] Kausch, F., Coitus interruptus, 583, 2009 [Singularidades] Kohn, O., Val Abraham. La mélancolie au miroir, 391, 1993 [Vale Abraão] Masson, A., Voyage au début du monde. L’impossible retour, 436, 1997 [Viagem ao Princípio do Mundo] Un exemple de vertu inimitable, 463, 1999 [La lettre] Parole et utopie. «De fazer de Lisboa nova Roma», 480, 2001 Je rentre à la maison. Le nostalgie du banal, 487, 2001 [Je rentre à la maison] Le Cinquième Empire, 531, 2005 [O Quinto Império] Ramasse, F., Le mélodrame en question, 223, 1979 [Amor de Perdição] Manuel de Oliveira: le passé et le présent, 228, 1980 La chair est fade, hélas !, 337, 1989 [Os Canibais] Richard, F., La Divine Comédie. Impuissance de la Parole, 375376, 1992 Rollet, S., Entre présence et absence. L’oeuvre de Manoel de Oliveira, 391, 1993; trad. in T11 Les affinités électives. Manoel de Oliveira et C. Castelo Branco, 451, 1998 Scarpetta, G., Inquiétude. Variations sur l’immortalité, 451, 1998 Le jugement moral suspendu, 500, 2002 [O Princípio da Incerteza] C., L., A Caixa, 401-402, 1994 Ca., M., O Convento 413-414, 1995 318
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Manoel de Oliveira vu par… R. Berta, P. Branco, V. Loiseleux, L. Silveira, 451, 1998
TRAFIC Bellour, R., in J. Rosenbaum e al., Movie Mutations: Correspondance avec et entre quelques enfants des années soixante, 24, 1997 Bessa- Luis, A., Utopie et bon sens, 44, 2002 [si veda anche retro, 2F] Biette, J-C., Main d’oeuvre, 10, 1994 [A Caixa] Deux Mozart et un troisième, 20, 1996 [Party] La première héroïne, 27, 1998 [si veda anche retro, 2.F] Buci-Glucksmann, C., Drôle de pensée touchant Leibniz et le cinéma, 8, 1993 [si veda anche retro, 2.F] Carrère, X., L’imitation de la Parole selon Oliveira (Humanité et Lucifer), 17, 1995 [O Convento] Damasio, A., Cinéma, esprit et émotions: la perspective du cerveau, 67, 2008 Giavarini, L., La compassion et le cliché. Sur La lettre de Manoel de Oliveira, 32, 1999 Grilo, J. M., Petit abécédaire à l’usage du cinéma (un point de vue portugais), 50, 2004 [si veda anche retro, 2.F] Lavin, M., Parole et atopie, 39, 2001 [Palavra e Utopia] Devant la parole, 48, 2003 [Um Filme Falado] Le Cinquième Empire: Oliveira d’hier à aujourd’hui, 55, 2005 Une histoire immortelle, 62, 2007 [Belle toujours] Enigmatique toujours, 71, 2009 [Espelho Mágico] [si veda anche retro, 2.F] Rosenbaum, J. Movie Mutations: Correspondance avec et entre quelques enfants des années soixante, 24, 1997 Problèmes d’accès. Sur les traces de quelques filmes et cinéastes «de festival», in Trafic, 30, 1999 [si veda anche retro, 2.F]
SITI INTERNET www.centrostudilusofoni.unibari.eu/Lusitania/Cultura: Informazioni sul cinema portoghese on-line www.citi.pt/cultura/cinema/manoel_de_oliveira: Biografia, bibliografia e fiches molto dettagliate sui film, in lingua portoghese www.hollywood.com/celebrity/Manoel_De_Oliveira/1116765#full 319
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Bio: Biografia di Oliveira, in lingua inglese www1.uni-hamburg.de/clpic/tematicos/cinema/realizadores/oliveira_manoel.html: Biografia in portoghese di Oliveira, a firma di Alcides Murtinheira http://pt.wikipedia.org/wiki/Manoel_de_Oliveira#Liga.C3.A7.C3.B 5es_externas: Pagina dedicata ad Oliveira su Wikipedia www.imdb.com/name/nm0210701: Pagina dedicata ad Oliveira nell’IMDb – Internet Movie Database Molto altro materiale di origine televisiva od amatoriale è consultabile sul sito di YouTube, digitando nome e cognome del cineasta. http://cvc.instituto-camoes.pt/conhecer/exposicoes-virtuais/jose-regio-e-os-mundos-em-que-viveu.html: Dossier su José Régio. I due siti seguenti sono stati attivi fino all’estate 2009 e al momento potrebbero essere in ristrutturazione. Vengono comunque segnalati a motivo della ricca quantità di materiale in essi contenuti, con l’auspicio che ridiventino raggiungibili: www.madragoafilmes.pt: Sito di quella che fu la casa di produzione di Paulo Branco, il produttore di molti dei film di Oliveira, ora sostituita da Clap Filmes, società dedicata ai film portoghesi e alle coproduzioni internazionali (www.clapfilmes.pt). Il sito conteneva links ai siti ufficiali (spesso plurilingue) di molti film di Oliveira, i quali a loro volta, nella sezione portoghese, contenevano spesso documentate rassegne-stampa. Di alcuni film di Oliveira è comunque possibile reperire in rete il sito ufficiale (per es. www.palavraeutopia.com). www.madragoafilmes.pt/manoeloliveira-dossier: Ricco dossier su de Oliveira a cura di R. Azevedo Gomes, in lingua portoghese. Il dossier potrebbe essere riattivato in seguito anche sul sito dell’Instituto Camões, cfr. www.instituto-camoes.pt
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Letteratura ulteriore
LETTERARIE & DI STORIA E CRITICA DELLA LETTERATURA PORTOGHESE E FRANCESE
OPERE
Avella, A.A., Teixeira de Pascoaes e il Saudosismo, L’Aquila, Japadre, 1996 Beckett, S., «Années 60», in Pour en finir et autres foirades, Paris, Minuit, 1976 Bessa-Luís, A., Fanny Owen, Lisboa, Guimarães, 1979 A Sibila, Lisboa, Guimarães, 1979; trad. La sibilla, Giunti, Firenze, 1989 A Mãe de um Rio, in A Brusca, Lisboa, Guimarães, 1984 Vale Abraão, Lisboa, Guimarães, 1991 As Terras do Risco, Lisboa, Guimarães, 1994 O Principio da Incerteza. vol. I: Jóia de Família, 2001; vol. II: A Alma dos Ricos, 2002, Lisboa, Guimarães Carvalhal, Á. do, Os Canibais, [1866], in Contos, Lisboa, Relógio d’Água, 1990; trad. I Cannibali, Roma, Biblioteca del Vascello, 1993 Castelo Branco, C., Amor de Perdição, Alfragide, LeYa, 2008; trad. Amore di perdizione. Memorie di una famiglia, Palermo, Sellerio, 1991 Claudel, P., Le soulier de satin [1930], Paris, Folio/Gallimard, 1996 Critique, 495-496, 1988, numero speciale su L’épopée lusitanienne Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, Milano, Bompiani, 2005 Freitas, R. de, Os Meninos Milionários. Na Sala de Aula, in presença, 28, 1930; Os Meninos Milionários. O Jôgo dos Policias e dos Ladrões, in presença, 44, 1935 Guaraldo, E., Paul Claudel e le ragioni di Dio, in G. Macchia ed al., La letteratura francese. Il Novecento, Milano, Rizzoli, 19963 321
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Lafayette, Madame de, La Princesse de Clèves [1678], Paris, Gallimard, 1988; trad. La principessa di Clèves, Milano, Se, 1997 Le Gentil, G. La littérature portugaise [1935], opera completata da R. Bréchon, Paris, Chandeigne, 1995; trad. Storia della letteratura portoghese, Roma - Bari, Laterza, 1997 Lourenço, E., Portugal como Destino seguido de Mitologia da Saudade, Lisboa, Gradiva, 1999; trad. Il labirinto della saudade. Portogallo come destino, Reggio Emilia, Diabasis, 2006 Camoes et l’Europe, in Critique, 495-496, 1988, n° speciale L’épopée lusitanienne Marchi, G., L’universo teatrale di Paul Claudel, in G. Macchia ed al., La letteratura francese. Dal romanticismo al simbolismo, Milano, Rizzoli, 19963 Os Imortais, Lisboa, Sociedade Portuguesa de Autores, 1984 Mourão-Ferreira, P., Presença da presença, Porto, Brasília Editora, 1977 Patrício, A., Suze, in Serão inquieto [1910], Lisboa, Assírio e Alvim, 1979 Pessoa, F., Una sola moltitudine, vol. primo, Milano, Adelphi, 19946; vol. secondo 200310 Il libro dell’inquietudine, Milano, Feltrinelli, 199515 Prista Monteiro, H., A Caixa: peça em dois actos, Lisboa, Moraes, 1981 Régio, J., Jogo da Cabra Cega [1934]; trad. francese Colin Maillard, Paris, Metaillié, 1999 Benilde ou a Virgem-Mãe [1947], Porto, Portugália, 1970 El-Rei Sebastião [1949], Porto, Brasília, 1978 A Salvação do Mundo, Lisboa, Inquérito, 1954 O Meu Caso, in Três Peças em um Acto, Lisboa, Portugália, 1957 Páginas de Doutrina e Crítica da presença, Porto, Brasília, 1977 Memorias de um Homem Religioso. Volume Póstumo [1931], Porto, Brasília, 19832 Sanchez, V., Teatro, Castelo Branco, s.e., 1986 Saraiva, A. J., História da Literatura Portuguesa (das origens a 1970), Lisboa, Livraria Bertrand, 1979 Saraiva, J. H., História Concisa de Portugal [2004]; trad. Storia del Portogallo, Milano, Bruno Mondadori, 2005 Vieira, A., Estratti da lettere e sermoni, sito ufficiale del film Palavra e utopia
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OPERE DI TEORIA DEL CINEMA & DI STORIA DEL CINEMA PORTOGHESE AA.VV., O Cinema Novo Português 1960/1974, Lisboa, Cinemateca portuguesa, 1984 Agel, H., Esthétique du cinéma, Paris, Puf, 1962; trad. Estetica del cinema, Messina - Firenze, D’Anna, 1973 Cinéma et nouvelle naissance, Paris, Albin Michel, 1981 Exégèse du film. Soixante années en cinéma (1934-1994), Lyon, Aléas, 1994 L’incertitude: une constante, de la littérature au cinéma, Paris, L’Harmattan, 1996 Entretiens avec Henri Agel, a cura di F. de la Brèteque e F. Fourcou, in Archives Institut Jean Vigo Perpignan, 83, 1999 Agel, H. - Ayfre, A., Le cinéma et le sacré, Paris, Cerf, 1961 Andrade, S.C., O Porto na História do Cinema, Porto, Porto Editora, 2002 Ayfre, A., Conversion aux images? Les images et Dieu, les images et l’homme, Paris, Cerf, 1964 Bedouelle, G.,, Du spirituel dans le cinéma, Paris, Cerf, 1985 L’invisible au cinema, Marseille, La Thune, 2006 Bénard da Costa, J., Luis Buñuel, Lisboa, Cinemateca portuguesa /Museu do Cinema, 1982 Bonitzer, P., Le regard et la voix. Essais sur le cinéma, Paris, Uge, 1976 Le champ aveugle. Essais sur le réalisme au cinéma [1982], Paris, Cahiers du cinéma, 1999 Bruno, E., Ritratti Autoritratti, Roma, Bulzoni, 2006 Casetti, F., L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 20054 Teorie del cinema, Milano, Bompiani, 20047 Chion, M., Un art sonore, le cinéma. Histoire, esthétique, poétique, Paris, Cahiers du cinéma, 2003; trad. Un’arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Torino, Kaplan, 2007 Comolli, J-L., Voir et pouvoir. L’innocence perdue: cinéma, télévision, fiction, documentaire, Paris, Verdier, 2004; trad. Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Roma, Donzelli, 2006 Costa, A., Breve História do Cinema Português 1896-1982, Lisboa, Instituto de Cultura Portuguesa, 1978 [testo integrale in http://cvc.instituto-camoes.pt/conhecer/biblioteca-digital-camoes/cat_view/52-cinema.html] Daney, S., La rampe. Cahier critique 1970-1982 [1983], Paris, Cahiers du cinéma - Gallimard, 1996 323
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Ciné Journal, Paris, Cahiers du cinéma, 1986 L’exercice a été profitable, Monsieur, Paris, Pol, 1993; trad. Il cinema, e oltre, Milano, Il Castoro, 1997 Persévérance, Paris, Pol, 1994; trad. Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, Milano, Il Castoro, 1995 De Benedictis, M., Ejzenštejn. Fino all’ultima estasi. Le teorie di un grande regista, Roma, Lithos, 2001 Dinoi, M., Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008 Ejzenštejn, S. M., La forma cinematografica (1949), Torino, Einaudi, 1964 Godard, J-L., Introduction à une véritable histoire du cinéma - I, Paris, Albatros, 1980; trad. Introduzione alla vera storia del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1982 Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, t.I-II, Paris, Cahiers du cinéma, 1998 Godard, J-L. - Ishaghpour, Y., Archéologie du cinema et mémoire du siécle, I/II, in Trafic, 29 e 30, 1999 Grilo, J.M., O Cinema da Não-Ilusão. Historias para o Cinema Português, Livros Horizonte, Lisboa, 2006 Ishaghpour, Y., Historicité du cinéma, Tours, Farrago, 2004 Journot, M-T., Piccolo dizionario del cinema, Torino, Lindau, 2004 Kyrou, A., Luis Bunuel [1962], Paris, Seghers, 1966 Le surréalisme au cinéma [1963], Paris, Le Terrain Vague, 19852 Leitão Ramos, J., Dicionário do Cinema Português 1962-1988, Caminho, Lisboa, 1989 Dicionário do Cinema Português 1989-2003, Caminho, Lisboa, 2005 Mancino, A. G., Il processo della verità. Le radici del film politicoindiziario italiano, Torino, Kaplan, 2008 Marie, M., Le cinéma muet, Paris, Cahiers du cinéma/SCERENCNDP, 2005; trad. Il cinema muto, Torino, Lindau, 2007 Matos-Cruz, J. de, Anos de Abril: Cinema Português 1974-1982, Lisboa, Edição do Instituto Português do Cinema, 1983 Morin, E., Le cinéma ou l’homme imaginaire. Essai d’anthropologie [1956], Paris, Minuit, 2007; trad. Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1982 Pina, L. de, História do Cinema Português, Lisboa, Publ. EuropaAmérica, 1986 Prado Coelho, E., Vinte Anos de Cinema Português. 1962/1982, Lisboa, ICALP, 1983 [testo integrale in http://cvc.instituto-camoes.pt/conhecer/biblioteca-digital-camoes/cat_view/52-ci324
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DELEUZE & SONS Badiou, A., Deleuze. «La clameur de l’Être», Paris, Hachette, 1997, trad. Deleuze. «Il clamore dell’essere», Torino, Einaudi, 2004 Bellour, R., L’image de la pensée, in Magazine littéraire, 406, 2002, n° dedicato a G. Deleuze Bertetto, P., Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007 Bryden, M. [a cura di], Deleuze and Religion, London, Routledge, 2001 De Gaetano, R. [a cura di], Deleuze, pensare il cinema, Roma, Bulzoni, 1993 Deleuze, G., Marcel Proust et les signes, Paris, Puf, 1964; trad. Marcel Proust e i segni, Torino, Einaudi, 1986 Différence et répétition [1968], Paris, Puf, 19977 Portrait du philosophe en spéctateur, in Le Monde, 6.10.1983; trad. Ritratto del filosofo come spettatore, in G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio, 2003 Francis Bacon. Logique de la sensation, Paris, La Différence, 1981; trad. Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 1995 L’Image-Mouvement, Paris, Minuit, 1983; trad. L’Immaginemovimento, Milano, Ubulibri, 1984 L’Image-Temps, Paris, Minuit, 1985; trad. L’Immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989 Qu’est-ce que l’acte de création ? [1987], in Trafic, 27, 1998; trad. in G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio, 2003 Le cerveau, c’est l’écran, in Cahiers du cinéma, 380. 1986; trad. Il cervello è lo schermo, in G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio, 2003 Deleuze, G. – Guattari, F., Qu’est-ce que la philosophie?, Paris, Minuit, 1991 Dosse, F. – Frodon, J-M. [a cura di], Gilles Deleuze et les images, 325
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Paris, Cahiers du cinéma/INA, 2008 Godani, P., Deleuze, Roma, Carocci, 2009 Godani, P. – Cecchi, D. [a cura di], Falsi raccordi. Cinema e filosofia in Deleuze, Pisa, Ets, 2007 Hême de Lacotte, S., Deleuze: philosophie et cinéma, Paris, L’Harmattan, 2001 Siniscalchi, G., Straub-Huillet: il canto del materialismo, in P. Spila [a cura di], Il cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Roma, Bulzoni, 2001 Zabunyan, D., Gilles Deleuze. Voir, parler, penser au risque du cinéma, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2006 Zarka, Y.C. [a cura di], dossier Deleuze politique, in Cités, 40, 2009
FILOSOFIA Alquié, F., Philosophie du surréalisme, Paris, Flammarion, 1956; trad. Filosofia del surrealismo, Salerno, Rumma, 1970 La conscience affective, Paris, Vrin, 1979 Carchia, G. – D’Angelo, P. [a cura di], Dizionario di estetica, Roma-Bari, Laterza, 20053 Damasio, A., Looking for Spinoza: Joy, Sorrow and the Feeling Brain, London, Harcourt, 2003; trad. francese Spinoza avait raison: Joie et tristesse, la cerveau des emotions, Paris, Odile Jacob, 2003 Derrida, J., Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993; trad. Spettri di Marx, Milano, Raffaello Cortina, 1994 Foi et savoir. Les deux sources de la «religion» aux limites de la simple raison, (1995), Paris, Seuil, 2001, trad. in J. Derrida – G. Vattimo [a cura di], La religione, Roma-Bari, Laterza, 1995. Le cinéma et ses fantômes, in Cahiers du cinéma, 556, 2001, intervista a cura di A. de Baecque e T. Jousse Halbwachs, M., Les cadres sociaux de la mémoire [1925], Paris, Albin Michel, 1994 La mémoire collective [1950], Paris, Albin Michel, 1997; trad. La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 20012 Malabou, C., La foule, in M-L. Mallet [a cura di], La démocratie à venir. Autour de Jacques Derrida, Paris, Galilée, 2004 Nisio, F. S., Comunità dello sguardo. Halbwachs, Cordero, Sgalambro, Torino, Giappichelli, 2001 Parain, B., Recherches sur la nature et les fonctions du langage, Paris, Gallimard, 1942 326
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Petite métaphysique de la parole [1969], Paris, Gallimard NRF, 1990 Péquignot, B., Le travail de la mémoire et l’appréhension de ce qui fait lien social chez J-L. Godard, in G. Delavaud – J-P. Esquenazi – M-F. Grange [a cura di], Godard et le métier d’artiste, Paris, L’Harmattan, 2001 Sartre, J-P., L’imaginaire. Psychologie phénoménologique de l’imagination, Paris, Gallimard, 1940; trad. L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Torino, Einaudi, 2007
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Premi, riconoscimenti & retrospettive
Fonti: Júlia Buísel, Manoel de Oliveira. Fotobiografia, Lisboa, Figueirinhas, 2002, e www.instituto-camoes.pt (con integrazioni). Laddove non è specificata la nazione, si intende Portogallo. La lista non ha pretesa di completezza.
[1956] Invito al primo Rencontre des auteurs de films, Paris, Francia [1957] Arpa d’argento (O Pintor e a Cidade), Cork FF, Irlanda; medaglia di bronzo per la fotografia (O Pintor e a Cidade), SNI–Secretariado Nacional de Informação [1961] Menzione d’onore (Aniki-Bóobó), Cannes FF, Francia 1963] Homenagem nacional organizzato dalla rivista Plateia e da vari cineclub; premio della Casa da Imprensa per la miglior regia (Acto da Primavera) [1964] retrospettiva, Locarno FF e cinemateca di Losanna, Svizzera [1965] Medaglia d’oro (Acto da Primavera), Siena FF, Italia; retrospettiva, Cinématheque française, Paris, Francia [1972] Premio Acacio de Almeida della Casa da Imprensa per la miglior regia e fotografia (O Passado e o Presente); retrospettiva Filmoteca de Espagna, Madrid, Spagna; retrospettiva, Ciné-club de Nice, Francia [1975] Menzione speciale della Giuria e premio miglior cortometraggio (A Caça), Tolone FF, Francia; retrospettiva ai III Rencontres Internationalles d’Art Contemporaine La Rochelle, Francia [1976] Retrospettiva, Firenze, Italia [1979] Premio speciale della giuria per la carriera e per il film (Amor de Perdição), Figueira da Foz FF [1980] Medaglia d’oro alla carriera CIDALC-Comité International pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinéma, e 328
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retrospettiva organizzata da Paulo Branco, Paris, Francia [1981] Membro onorario Academia Nacional de Belas-Artes; Vassoio d’argento, Figueira da Foz FF; retrospettiva Manoel de Oliveira, Cinemateca portuguesa, Lisboa; menzione speciale Interfilm (Acto da Primavera), giuria internazionale delle Chiese protestanti, Berlin, Germania [1982] Gran premio (Francisca), IPC-Instituto Português de Cinema; medaglia d’oro Vittorio de Sica per il miglior film (Francisca), Sorrento FF, Italia; Regista dell’anno, Viennale FF, Wien, Austria; retrospettiva al National Film Theatre of London, Inghilterra; retrospettiva e convegno Manoel de Oliveira em 20 anos de cinema portugûes, Figueira da Foz FF; Commandeur dans l’Ordre des Arts et des Lettres, Francia [1983] Commendatore per l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana [1984] Piastra d’argento alla carriera, Cineclube do Luso [1985] Leone d’oro speciale della giuria per il film (Le soulier de satin) e per la carriera (ex-aequo con F. Fellini e J. Huston) e Navicella d’argento del Centro cattolico cinematografico, Venezia FF, Italia; premio Numero Uno, Rimini FF, Italia; premio Buñuel/L’Age d’or (Le soulier de satin), Cinématheque de Bruxelles, Belgio; Navicella d’oro, Ufficio cattolico italiano/Centro cattolico del cinema, Italia [1986] Coppa Gala do Cinema, Figueira da Foz FF [1988] Presidente onorario di Cultura latina, Unione Latina; retrospettiva Manoel de Oliveira em contexto, Cinemateca portuguesa, Lisboa; premio speciale della critica (Os Canibais), São Paulo FF, Brasile; premio Buñuel/L’Age d’or (Os Canibais), Cinémathèque de Bruxelles, Belgio; premio speciale Mostra Internazionale Nuovo Cinema, Pesaro, Italia [1989] Comenda da Ordem do Infante D. Henrique; laurea honoris causa, Faculdade de Arquitectura, Porto; premio Seiva, Porto [1990] Menzione speciale della giuria (Non ou a Vã Glória de Mandar) e premio FIPRESCI, Cannes FF, Francia; retrospettiva, Cineluso FF, Rouen, Francia [1991] Premio speciale della giuria (A Divina Comedia) e premio FIPRESCI, Venezia FF, Italia; premio Ordem de Pateota, Lisbona; retrospettiva festival Théatre et Cinéma, Bobigny, Francia [1992] Leopardo d’oro d’onore (O Dia do Desespero) e premio speciale della giuria alla carriera, Locarno FF, Svizzera; 329
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Gran Premio Internacional, São Paulo FF, Brasile [1993] Premio per la miglior contribuzione artistica (Vale Abrãao), Tokio FF, Giappone; menzione speciale della Quinzaine des réalisateurs (Vale Abrãao), Cannes FF, Francia; premio della critica (Vale Abrãao), São Paulo FF, Brazil; Jaguar Maya e premio CICAE–Confederazione internazionale cinema d’arte ed essai (Vale Abrãao), Cancùn, Messico; Sete de Ouro, Lisboa [1994] Premio Kurosawa e retrospettiva, San Francisco FF, USA; Premio Luchino Visconti, Italia; retrospettiva, Strasburgo FF, Francia; Masterclass, Hong-Kong FF; retrospettiva Régio, Oliveira e o Cinema, Vila do Conde [1995] Homenagem Nacional; premio Consagração de Carreira, Sociedade Portuguesa de Autores; premio Um Homem do Norte; premio Bordalo Pinheiro (Vale Abrãao), Casa da Imprensa-Cinema, Lisbona [1996] Premio Estudos Fílmicos, Universidade de Coimbra; Medalha de Ouro, Camara Municipal de Porto; dottorato honoris causa in architettura, Universidade de Porto [1997] Premio FIPRESCI e premio della Giuria ecumenica (Viagem ao Princípio do Mundo), Cannes FF, Francia; premio speciale per la carriera, Salonicco FF, Grecia; Globo de Ouro SIC (Party); European FIPRESCI Award / Félix, Berlino, Germania; premio Jaguar Maya (Viagem ao Princípio do Mundo), Cancun FF, Messico; premio speciale (Viagem ao Princípio do Mundo), Tokyo FF, Giappone; Ancora d’oro (Viagem ao Princípio do Mundo), Haifa, Israele; Hugo d’oro, Chicago FF, Usa; retrospettiva e premio Cinématographe Auguste & Louis Lumière, Institut Lumière, Lyon, Francia; Grand Officier de l’Ordre National du Mérite, Francia [1998] Life Achievement Award, Jerusalem FF, Israele; premio Casa de Camilo Castelo Branco, Vila Nova de Famalição; premio Ennio Flaiano alla carriera, Pescara, Italia; Special Grand Prix of the Americas (Inquietude), Montreal FF, Canada; premio speciale della giuria (Inquietude), Mar del Plata FF, Buenos Aires, Argentina; Homenagem Nacional: Manoel de Oliveira 90 Anos; premio Nova Gente; Personalidade do Ano [1999] Premio speciale della giuria (A Carta), Cannes FF, Francia; premio miglior film ibero-americano (Viagem ao Princípio do Mundo), Uruguay FF; Globo de Ouro SIC (Inquietude), Lisbona; Personalidade do Ano/Trofeu Nova Gente, Lisbona; Homenagem a Ernest Hemingway e Manoel de Oliveira, Universidade Fernando Pessoa, Porto 330
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[2000] Saint Anthony’s International Award (Palavra e Utopia), Padova, Italia; laurea honoris causa, Università di Padova, Italia; premio Maestri del Cinema Campidoglio, Comune di Roma e Filmcritica, Roma, Italia; omaggio congiunto delle tre Università romane, Roma, Italia; omaggio dell’Università degli studi G. d’Annunzio, Pescara, Italia; Efebo d’Oro, Agrigento FF, Italia; retrospettiva, Torino FF, Italia; premio Asecan della critica di Andalusia (Palavra e Utopia), Huelva, Spagna; A Tribute to Manoel de Oliveira, Harvard/Yale, USA [2001] Premio Robert Bresson, Rivista del cinematografo e Vaticano, Venezia FF, Italia; Globo de Ouro SIC (Palavra e Utopia); premio Odisseia das Imagens (Porto da Minha Infância), Porto; premio Ancora d’oro (Je rentre à la maison), Haifa FF, Israele; premio della critica (Je rentre à la maison), São Paulo FF, Brasile; Commandeur de la Légion d’Honneur, Grand Médaille de Vermeil-Ville de Paris, retrospettiva Centre Pompidou, Paris, Francia; retrospettiva presso Istituto di cinema, Pechino, Cina [2002] Prometeo d’Argento, Presidenza della Repubblica Italiana; laurea honoris causa in Lettere, Università di Padova, Italia; laurea honoris causa, Universidade Nova de Lisboa; Personalidade do Ano, Associação da Imprensa Estrangeira em Portugal, Lisbona; premio Latinidade, Unione Latina; FIAF Preservation Award, San Sebastian FF, Spagna; premio Mundial de Artes Valldigna, Valencia, Spagna [2003] Carrefour des Littératures, Bordeaux, Francia; premio Extremadura Criação alla Melhor Trajectória Artística de um Autor Ibero-Americano, Spagna; Gran Croce dell’Ordine Ouissam Alaouite, Marocco; lectio magistralis nell’Università di Roma Tor Vergata, Italia; orologio SWATCH ispirato ad Aniki-Bóbó [2004] Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana; presidente onorario al festival Black & White, Porto; premio Negroamaro alla carriera, Salento, Italia; premio Mediterraneo alla carriera, Grado/Trieste, Italia; Leone d’oro alla carriera (O Quinto Império), Venezia FF, Italia; Premio Cineuropa, Galizia, Spagna; Homenagem Humanidade, São Paulo, Brazil; Rana d’oro, CamerImage FF, Lodz, Polonia [2005] Medaglia d’oro del Circulo de Belas Artes de Madrid, Spagna; Commandeur de la Légion d’Honneur, Francia; premio internazionale della Fondazione Libero Bizzarri, San Benedetto del Tronto, Italia; Premio Cidade de Huelva, Spagna; retrospettiva, São Paulo FF, Brasile 331
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[2006] Annualia; premio alla carriera, Fantasporto FF; premio Don Quijote della Federazione Internazionale dei CineClub, Matera, Italia; premio Europa David Mourão-Ferreira / Mito, Università di Bari, Italia; Bari Film Stage, Bari, Italia; medaglia DN - Grandes figuras portuguesas [2007] Premio della cultura Padre Manuel Antunes, Chiesa cattolica, Porto [2008] Laurea honoris causa, Universidade do Algarve, Faro; Palma d’oro alla carriera, Cannes FF, Francia; membro onorario dell’Academia das Ciências de Lisboa; retrospettiva Manoel de Oliveira, Cem anos em dois meses, Cinemateca portuguesa, Lisboa; mostra Manoel de Oliveira e retrospettiva Manoel de Oliveira: ver e rever todos os seus filmes e mais alguns ainda…, Museu Serralves, Porto; Premio Federico Fellini, Rimini, Italia; premio Humanismo, Macedonia; premio internazionale Terenci Moix, Barcellona, Spagna; retrospettiva itinerante The Talking Pictures of Manoel de Oliveira, BAM/Brooklyn Academy of Music, New York e altre cinque città, Usa; Medalha de Ouro das Belas Artes, Corunha, Spagna; omaggio Comboios de Portugal: treno Lisboa-Porto battezzato col nome del regista [2009] Berlinale Kamera, Berlino FF, mostra e retrospettiva Manoel de Oliveira - Das Lebenswerk des Filmregisseurs, Akademie der Künste, Berlino, Germania; Globo de Ouro SIC; mostra Oliveira/Régio. Releituras e fantasmas, Vila do Conde; retrospettiva, Cinemateca di Ontario, Toronto, Canada; laurea honoris causa, Universidade Federal de Minas Gerais, Brasile; Insígnia de Honra, Academia Nacional de Belas Artes; presentazione nel Museu do Douro del vinho do Porto Tawny 100 anos, dal nome 100- Centénario de Manoel de Oliveira, prodotto nella quinta del cineasta e imbottigliato in bottiglie disegnate dall’architetto Alvaro Siza Vieira. [2010] Omaggio alla Cinemathèque, Bruxelles, Belgio
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Videografia
Si segnala la Coleção Manoel de Oliveira: Manoel de Oliveira 100 anos, Lisboa, ZON Lusomundo, 2008, edizione di riferimento in dvd (con sottotitolatura portoghese, francese ed inglese, solo in sei casi anche italiana) di tutti i ventuno lungometraggi prodotti nel periodo che va dal 1986 (Mon cas) al 2007 (Cristóvão Colombo. O Enigma). L’edizione contiene inoltre il cortometraggio Rencontre unique, il videoclip Momento e parecchie interviste al regista e ai suoi collaboratori. Book d’accompagnamento dal titolo Manoel de Oliveira – 100 anos, 125 p., a cura di João Lopes, il quale firma tre brevi studi sui film di Oliveira. Il book contiene anche una Bibliografia comentada, a cura di João Leitão Ramos. A tutt’oggi mancano edizioni in dvd di tutto quel che precede il 1986, mentre sul mercato audiovisivo portoghese, francese ed italiano sono reperibili dvd singoli di alcuni film posteriori a quella data.
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Dialogo a Bari
La conversazione che segue ha avuto luogo alla fine del Bari Film Stage 2006 – Manoel de Oliveira. Miti portoghesi, tenutosi dal 23 al 27 giugno di quell’anno. Organizzato dalla Cooperativa sociale GET e dall’Accademia del Cinema Ragazzi di Bari-Enziteto, il Film Stage ha ospitato anche una mostra personale di Manuel Casimiro, artista portoghese nonché figlio del cineasta. Oltre alla tavola rotonda introduttiva alla presenza del regista, con interventi delle autorità, della professora Fernanda Toriello dell’Università di Bari e del sottoscritto, il momento più impegnativo – sia per il regista, sia per i partecipanti – fu il workshop di tre giorni che ebbe luogo nella Cittadella della Cultura alla presenza di quaranta persone: non solo (in maggioranza) giovani aspiranti cineasti, ma anche cultori del cinema di Oliveira. Dopo aver introdotto i partecipanti all’arte cinematografica del lusitano nei giorni immediatamente precedenti l’inizio dello stage; e dopo aver coordinato i lavori nei giorni del workshop – al quale prese parte anche Angelo Aniello Avella, docente di letteratura portoghese all’Università di Roma Tor Vergata, amico personale del cineasta –, accettai la richiesta dei docenti dell’Accademia del cinema di porre alcune domande al regista dinanzi alla macchina da presa, come contributo per la costituzione di un fondo audiovisivo utile al prosieguo dell’attività didattica. Quello che segue è il testo della conversazione filmata: due delle tre domande vennero indicate dai docenti, peraltro presenti alla conversazione in qualità di operatori. Il dialogo ebbe luogo in lingua francese, con un breve intermezzo in portoghese. Il testo dell’intervista non è stato rivisto da Oliveira.
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NISIO: Signor Oliveira, grazie per aver accettato l’idea di conversare dinanzi alla telecamera. Alla fine dello stage, i giovani docenti dell’Accademia del cinema di Enziteto hanno pensato di porle alcune domande. Io stesso ne sono interessato poiché ho l’idea di scrivere un libro sulla sua attività, non solo di uomo di cinema ma anche come uomo di pensiero. OLIVEIRA: Uomo di?... Pensiero! Ma tutti pensano! Certo, tutti pensano… Credo che cinema e pensiero siano intimamente connessi nel suo caso. La prima cosa che le domando, e si tratta di una personale curiosità: per chi non è portoghese ci sono difficoltà ad aver accesso non solo ai suoi film – in particolare, quelli degli anni Settanta –, ma anche alle fonti che hanno ispirato lei nella cultura portoghese. Penso in particolare alle opere di José Régio, ma al contempo anche ai suoi propri scritti sul cinema in lingua portoghese. La domanda che le pongo è dunque se lei ritiene che Régio sia un elemento importante per entrare all’interno del sistema-Oliveira e del suo pensiero-cinema. E inoltre quale sia la sua produzione in lingua portoghese sul cinema, presente nella letteratura e nelle riviste portoghesi. Bene, si tratta di qualcosa di assai complesso. Credo che non sia possibile avere veramente un pensiero sul cinema, al contrario è il cinema che fa un pensiero sulla vita. Tutto riposa nella vita. Infine si tratta di riprodurre la vita, una piccola parte della vita, perché la vita è troppo complessa, troppo varia, enorme. Si tratta di una ripetizione, di un richiamo reciproco tra passato e presente – evidentemente immaginari -, dunque necessariamente di pensiero. Si parla di film da entertainement, da intrattenimento, ed è possibile, sì, far qualcosa che distragga, che intrattenga, ma io credo che il cinema più serio non possa far a meno di includere il pensiero. Bisogna pensare per fare un film, e pensare sul film che si è fatto. Ciò è maggiormente in sintonia con l’essere umano, che è un essere razionale. La sua condizione è quella di chi riflette sui propri atti, sugli atti degli altri, sull’idea della vita, sul suo mistero. È il lato di interrogazione sull’aldilà, su ciò che non si conosce. Le domando se la sua produzione di piccoli saggi, di interventi sui rapporti tra cinema e vita, è tutta pubblicata in portoghese, 336
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oppure se sono quelli presenti nella rivista Trafic o nelle altre riviste francesi… Si tratta di richieste che mi hanno fatto: a volte per parlare in pubblico, ma altre volte l’idea l’ho avuta io, ho scritto ed inviato il testo, il quale a volte è stato pubblicato e a volte no. Si tratta d’un esercizio naturale della nostra condizione razionale. La riflessione si presenta di tanto in tanto, è un’occasione: a volte provocata, altre volte accade intuitivamente, e non si sa perché. I ragazzi sono stati impressionati, ieri, dalla proiezione di Douro Faina Fluvial, e si interrogano sul suo rapporto col montaggio nelle diverse epoche della sua produzione cinematografica. Dunque le chiedono di dir qualcosa sull’evoluzione del suo rapporto col montaggio cinematografico. Si trattava di un’altra epoca. Era il momento più favorevole e più forte per il pensiero sul montaggio del film, il montaggio assumeva un luogo primario per il cinema. Era il momento in cui Abel Gance faceva La rosa sulle rotaie e usava per la prima volta il primo piano, con un montaggio molto rapido anche se fatto per esercizio, diciamo senza un concetto preciso di quel che stava facendo, molto sperimentale. Dopo c’è stato Dziga Vertov, e poi Walter Ruttmann. E ancora Ejzenštejn, il quale chiese a Vertov di fare un film su una pièce di teatro – Ejzenštejn ha fatto anche del teatro. Vertov non se ne interessò molto, non si sa perché, forse non ne aveva la possibilità. Ciò dette l’occasione ad Ejzenštejn di metter mano al cinema per la prima volta, per far qualcosa che non si sa cosa sia stato, forse un mélange fra immagini e scena della rappresentazione. Questo è l’inizio del cinema di Ejzenštejn. Ritengo che precedentemente i due non fossero del tutto d’accordo sul concetto di montaggio: per Vertov si trattava di qualcosa di un po’ differente da Ejzenštejn. Credo che Ejzenštejn sia stato il primo a dare un senso al montaggio, a dargli il significato che gli spettava. Per esempio la «triade»: Ejzenštejn diceva che il montaggio ha a che vedere con la tesi, l’antitesi e la sintesi. Quest’idea della «triade» era antica, ritengo che Ejzenštejn volesse avvicinarla al sistema politico, cosa che accadde con l’esperienza. Il filosofo idealista… non mi viene il nome… Hegel, forse? Sì, Hegel. Hegel diceva che «l’esperienza è tesi-antitesi-sintesi», cosa che conduce allo splendore finale che tocca il concetto ge337
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nerale della vita e della situazione. Ma questa è una visione molto idealista. Marx utilizzò questo concetto affermando che bisognava «capovolgere» Hegel, il quale stava con le gambe all’aria, e passare dall’idealismo al materialismo. Solo il comunismo, il marxismo – Marx diceva di non essere comunista – arrivavano all’esperienza della «tesi-antitesi-sintesi», la quale conduceva infine all’armonia totale. Curiosamente, ciò corrisponde al Quinto Impero – è sempre la stessa cosa: si parla in maniera differente ma si intende sempre la medesima cosa –, al desiderio dell’armonia fra i popoli: ma nel cammino per arrivare a questo fine si realizza esattamente il contrario, la disarmonia totale, ci sono idee che si oppongono, ecc. Va detto che ciò che si oppone al comunismo non è la religione: Lenin diceva, anche lui, che la religione è oppio dei popoli, ma non si riferiva alla religione bensì all’idealismo: si tratta del lato spirituale contro il lato materiale. Al contrario – e questo è il mio intendimento –, quel che anima la materia è proprio lo spirito, se si toglie lo spirito la materia rimane immobile. Nei tempi antichi si diceva che lo spirito si librava nello spazio sopra il mare… È lo spirito ad animare il corpo. Quando si muore, la materia non si muove più. Quando si parla, ciò che anima il parlare è il pensiero, non la materia: è lo spirito. È dunque complicato accertare questo o quello, non è possibile dimostrare nulla, eppure c’è l’idea che si giunga ad un’armonia universale fra religione, politica, pensatori – si ricade sempre nella stessa cosa… Ma torniamo al montaggio! Ejzenštejn diceva che si possono montare la neve bianca e i capelli bianchi d’una vecchia donna, tirandosene la conclusione che si tratta della purezza. Ma la purezza, ad esempio, è un’idea di montaggio con un senso assai immediato. Ci sono però anche altre idee nel montaggio. Antonio Lopes Ribeiro, produttore del mio film Aniki-Bóbó e divenuto in seguito uomo del movimento dittatoriale di Salazar, era stato un tempo comunista. Era andato in Russia ed aveva parlato con Ejzenštejn, intervistandolo – Lopes parlava tedesco, francese, molte lingue, voleva anche imparare il cinese ma diceva che era troppo faticoso –, e gli aveva domandato: «Lei fa il montaggio di questa scena con quella, ma se poi non si capisce, se il pubblico non comprende, che si fa?» La risposta di Ejzenštejn fu: «Beh… si mettono dei sottotitoli di spiegazione!» Bene, è un’idea… Da questo punto di vista mi piace molto Pudovkin, che ha fatto Tempeste sull’Asia, film formidabile da tutti i punti di vista, ed anche La madre. Sono film nei quali egli utilizza mezzi specificamente cinematografici per sottrarre il cinema alla canga – al giogo, al pe338
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so – della pittura, della letteratura, del teatro. Ci sono lì delle idee che mettono tutto il resto fuori gioco, si tratta di un’altra cosa, una cosa specifica del cinema. Tutti, allora, cominciarono a cercare la specificità cinematografica, la sua autonomia dalle altre arti. Il montaggio rappresentava un punto-chiave per risolvere la situazione: immagini che si oppongono e si contrappongono, dando come risultato la suggestione e il pensiero. Ecco ciò che si vede davvero. Nel frattempo era in arrivo anche il cinema parlante, e quasi subito il colore. Questo cambiava molte cose. Adesso tutti s’interessano all’idea della specificità cinematografica, dell’arte del movimento, della settima arte, ecc. Ma ne restano delusi, perché tutto adesso si complica. I comunisti, in Russia, che avevano l’idea del progresso, dello sviluppo, della macchina che può liberare forze al lavoro dell’uomo sostituendosi a lui, non potevano rifiutare quest’idea di avanzamento meccanico e scientifico. Erano obbligati ad accettare il movimento, e Pudovkin ne fece la difesa in una dichiarazione magnifica, che ricordo bene, dando il seguente esempio. Va prima detto che Pudovkin era un grande regista di teatro, cosa importante per possedere lo spirito della scena, della rappresentazione, appunto del pensiero. Lui diceva: «Vediamo, per esempio, quali possibilità ci sono col suono», visto che il suono, nel cinema muto, era dato dall’immagine. Ecco la scena: c’è qualcuno che parte, una donna o un uomo, e l’altro che resta. Uno dei due è affacciato al finestrino del vagone, l’altro è sul binario dinanzi al finestrino, e gli sta dicendo addio: è un momento di separazione fra due esseri che vogliono restar insieme, ma sono costretti a separarsi dalle condizioni della vita. Pudovkin dice: «La situazione è molto drammatica, perché si tratta del momento della partenza. I due si guardano negli occhi, la locomotiva fischia. Nel cinema muto bisogna mostrare l’apparecchio che fischia e il vapore che ne esce, poiché è questo a fornire il suono, è l’immagine che dà il suono. Bisogna dunque uscire dal momento drammatico e andare a mostrare il suono. Poi il treno parte, le ruote slittano: bisogna mostrare le ruote che slittano, dunque uscire di nuovo dall’immagine, per poi tornare un’altra volta allo stesso posto. Alla fine il treno parte, le ruote prendono forza sul binario, comincia la marcia, si vede la carrozza allontanarsi, mentre la persona rimane sul binario. Infine il convoglio scompare. Col cinema sonoro è possibile restare tutto il tempo sulla scena, al contempo ascoltando il fischio, cosa che dà grande forza drammatica al tutto. Dopodiché si sentono le ruote slittare ma senza uscire dall’inquadratura, e ciò raddoppia la tensione drammatica, il treno si mette in marcia, si ascolta il rumore ta-ta-ta-ta che si allontana, si allontana, si allontana, la persona resta a guardare, il tre339
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no si allontana, si allontana… E tutto questo senza mostrar niente, voi siete sempre là. La drammatizzazione è molto più forte, rispetto invece a quando si salta da una parte all’altra… Dunque la sua trasformazione in rapporto a Douro Faina Fluvial dev’essere imputata a… No, Douro Faina Fluvial è fatto prima… Certo, è fatto prima. È fatto prima del sonoro, e il sonoro è arrivato quando avevo già terminato il film, ho anche presentato il film senza musica, muto, muto, muto. Anch’io avevo pensato alla specificità cinematografica, come tutti coloro che erano da quel lato del movimento. Gli anni Venti del cinema sono gli anni d’oro del muto, tutti i grandi capolavori del mondo vengono dagli anni Venti. Il cambiamento: dopo quanto ho detto di Pudovkin, compresi che dovevo prendere il cinema in altro modo. Avevo ventitre anni e due anni prima, nel 1929, avevo cominciato a filmare con un operatore che era al contempo impiegato in banca, dunque non molto disponibile. Si poteva lavorare solo di domenica, durante la settimana al massimo si poteva fare qualche veloce passaggio sui luoghi dove si sarebbero poi ambientate le riprese. Tutto ciò mi spinse a fare un gran lavoro all’imbrunire. Andavo alla ribeira e prendevo appunti su appunti sul lavoro da fare. Quando poi il mio amico usciva dalla banca, andavamo al fiume ed io sapevo già tutto quel che dovevo fare, così potevo approfittarne. La mia riflessione, dopo tutto questo lavoro, mi ha condotto a cambiare. Ho presentato Douro Faina Fluvial nel 1931, prima della guerra, ma per fare Aniki-Bóbó ho dovuto attendere tredici anni. Dopo Aniki-Bóbó mi sono fermato per altri quattordici anni. Ciò mi ha dato l’occasione di riflettere sul cinema, una riflessione molto profonda che mi ha cambiato completamente le idee. Era un periodo della mia vita molto austero, e l’austerità mi ha impedito di accompagnare quella riflessione sul cinema con una maggior continuità produttiva. Se mi fossi fermato a riflettere in un’epoca di maggior continuità produttiva, sarei giunto ad altro ancora. Credo comunque che questa riflessione abbia rappresentato una grande ricchezza per quando poi sono tornato a fare cinema. Sono infatti tornato a fare cinema in modo completamente differente. Ho proposto un film che era Benilde ou a Virgem-Mãe… No, no, non era Benilde: si trattava di Angélica, una cosa un po’ fantasiosa. L’ho presentato al Segretariato che all’e340
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poca dava i finanziamenti ai film: passarono due o tre anni e non mi dettero nessuna risposta, né sì né no, così compresi che non volevano che facessi nulla, perché avevano paura di me. Allora mi son detto, «Bene! Se è così, parto per la Germania!», era il 1955 e andai a Leverkusen, all’Agfa, era l’unica possibilità per prendere contatto col colore. [Oliveira passa a parlare in portoghese] Poi andai a Monaco, dove c’era una persona importante, un tedesco che parlava portoghese perché aveva vissuto in Portogallo, lui mi aiutò molto, stringemmo legami forti e mi indicò le buone cineprese che possedevano i tedeschi ma non gli stranieri. All’epoca avevo una macchina, una reflex, con la quale tornai a filmare, da solo, O Pintor e a Cidade: facevo tutto, produzione, direttore della produzione, fotografia, suono, immagine, tutto, era l’unica possibilità… Non domandai soldi a nessuno per O Pintor e a Cidade, e ciò alla fine fu terribile, perché avevo altre aspettative. Sono in grado di seguire il suo splendido portoghese, però le pongo la terza ed ultima domanda in francese, il tempo della conversazione volge alla fine. Ma ho parlato in francese, no? Sì, ma l’ultima parte… Ma lei avrebbe dovuto attirare la mia attenzione… Ho provato a far comprendere ai ragazzi, durante lo stage, che il problema delle lingue al cinema è un problema reale, molto stimolante, essi devono lavorare sulle lingue, sulle lingue dei loro amici, che sono tanti! Dunque bisogna imparar le lingue. Lei stesso ha mostrato tutto questo in Um Filme Falado, e non c’è altro da aggiungere in merito. Dunque, la terza domanda che mi hanno esplicitamente chiesto di porle riguarda l’espressione di vitalità che lei ha offerto ai ragazzi, ieri a mezzogiorno: avevamo parlato del tema della morte, e lei a un certo punto ha detto, in portoghese, alzandosi di scatto dalla sedia: Vamos a comer, antes de morrer! (Andiamo a mangiare, prima di morire!) Mi hanno dunque chiesto di interrogarla circa il suo proprio rapporto con la morte. Ho riportato quell’espressione perché una volta ero in Messico, dove ci sono stati gli antichi messicani, i Maya. Ero andato a 341
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visitare il museo dei Maya, dove c’è scritto: Seminare per raccogliere; raccogliere per mangiare; mangiare per vivere. La natura ci ha dato la fame per obbligarci a mangiare, ed ha fatto così perché, se non mangiamo, non sopravviviamo. Di conseguenza, con la fame la natura ci obbliga a vivere. Capisce? Peraltro, la natura ha anche dato agli uomini il desiderio delle donne, e viceversa. E il desiderio dà origine all’atto sessuale. È come la fame: desiderio o fame, è esattamente la stessa cosa. La donna per garantire la sopravvivenza dell’umanità; il desiderio per garantire la continuità della specie. E ciò dà piacere, perché è nel piacere che ci si ripete e si ha la garanzia della continuità della specie. È questo il modo in cui è organizzata la natura: noi non siamo signori di noi stessi, siamo guidati da forze che ci sovrastano. Per il cinema vale la stessa cosa: la natura ci ha dato l’istante della ripetizione di quel che ci piace o ci ripugna, e questa ripetizione aiuta i bambini, i quali ripetono i gesti dei grandi, cosa che conduce all’educazione e alla formazione dell’uomo. Alla stessa maniera l’uomo, e prima il bambino, sono capaci di fare una rappresentazione di ciò che imitano: ecco il teatro. Ciò deriva dalla necessità delle forze psicologiche, le quali ci obbligano a rifare, a ripetere. E poiché non si può mai tornare al passato, noi forgiamo quel che abbiamo visto e che ci ha impressionato, e in tal modo facciamo teatro. Cosa chiamiamo teatro? È la ripetizione di qualcosa che è già accaduto. In un modo o nell’altro arriviamo al cinema, et voilà! Grazie signor Oliveira, credo che i ragazzi saranno contenti di averla ascoltata una volta di più. Vorrei dir loro che il suo cinema è certamente il cinema del passato, ma è altrettanto cinema del presente ed anche cinema del futuro, con loro, con i nuovi cineasti che lavoreranno a partire dalla sua riflessione, dal suo pensiero sul cinema e sulla vita, una riflessione davvero molto ricca. La ringraziamo tutti insieme. Se permette, la mia impressione è ancora diversa: è l’impressione che la propria personalità, la personalità di ciascuno, è davvero l’unica originalità dell’artista. Grazie mille a voi!
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Ringraziamenti
Questo volume ha avuto una lunga, lunghissima gestazione, e nel cammino molte persone hanno collaborato alla sua realizzazione. La cooperativa sociale GET da tre decenni conduce a Bari un lavoro di ricerca e di didattica dell’immagine in molteplici ambiti operativi, fra i quali il Bari Film Stage – Incontri internazionali di cinema, manifestazione cui ho collaborato, oltreché nel 2006 per il workshop dedicato a Manoel de Oliveira. Miti portoghesi, anche in occasione della venuta di Thodoros Anghelopoulos nel 1996 e di Peter Greenaway nel 2008 (senza perder la speranza d’incontrare un giorno a Bari anche Jean-Luc Godard e Marco Bellocchio). Ringrazio dunque il presidente Pino Guario e sua moglie Maria Cascella, nonché i quattro docenti dell’Accademia del Cinema Ragazzi di Bari-Enziteto, artefici delle riprese il giorno in cui ebbe luogo il Dialogo a Bari: Ruggiero Cristallo, Mario Bucci, Marcello Maggi, Dario Di Mella. Il GET ha contribuito anche economicamente al volume, seppur in via indiretta: fu col compenso concordato per la collaborazione allo stage con Greenaway che mi fu possibile affrontare il breve ed intenso soggiorno portoghese in occasione delle manifestazioni del Centenário di Oliveira a Lisbona e Porto nell’ottobre 2008, frequentando la retrospettiva alla Cinemateca portuguesa e la mostra al Museu Serralves di Porto. Nel corso degli anni ho potuto dialogare su Oliveira, sulla letteratura e sul cinema con cinque colleghi universitari: due sono professori di letteratura portoghese, Fernanda Toriello dell’Università di Bari, direttora del Centro di Studi Lusofoni – Câtedra David Mourão-Ferreira, dalla cui biblioteca ho potuto attingere nella ricerca bibliografica e che mi ha invitato a presentare ai suoi studenti il film O Quinto Império; e Angelo Aniello Avella dell’Università di Roma Tor Vergata, conosciuto in occasione dello stage barese e dal quale ho ricevuto in consultazione il libro 343
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edito da Oliveira per il centesimo compleanno. Con Anton Giulio Mancino, che insegna Storia e critica del cinema nell’Università di Macerata, mi sono consultato anche per cercare la giusta collocazione a questo libro; e a Guglielmo Siniscalchi, che insegna Filosofia del diritto nell’Università di Bari, devo la disponibilità di un film di Oliveira. Agli studenti di Francesca Romana Guadalupe Recchia Luciani, popfilosofa, docente di Filosofie ed epistemologie del Novecento nell’Università di Bari, ho presentato La lettre. Sono grato a Jacques Parsi, che ho contattato via web al momento in cui cercavo un introvabile testo di Serge Daney su NON. La ricerca bibliografica è stata completata presso la ricchissima biblioteca della Cinemateca portuguesa di Lisbona, alla quale mi ha indirizzato Luciana Fina, artista visuale, traduttrice dei sottotitoli di alcuni film di Oliveira. Nella biblioteca della Cinemateca portuguesa ricordo la preziosa assistenza offertami da Maria do Sameiro André. Fra gli scaffali del Cineclub Grauco di Roma ho scoperto e consultato il volume della Cinemateca portuguesa edito in occasione della retrospettiva del 1981: grazie di cuore a Roberto Galve, Sebastiano Gernone, Francesco de Bonis. E grazie anche ad Angelo Salvatori della Biblioteca del cinema Umberto Barbaro di Roma, giacimento inesauribile di letteratura cinematografica. Nonché ad Elisa Turitto della biblioteca Corsano di Bari. Sono grato a Chiara Ronchetti che mi ha assistito in Casa Editrice, con competenza e sensibilità, nell’impegnativo lavoro di editing del volume. Ringrazio infine amici e amiche coi quali ci s’incontra per le «visioni nude & crude d’un cinema più o meno classico», che spaziano da Alain Resnais a Totò, da Eric Rohmer a Fritz Lang, da Nanni Moretti a Stanley Kubrick, nelle serate di quest’«inverno» lungo, lungo e faticoso, per il cinema, la cultura, la politica. Giardini Isabella d’Aragona in Bari maggio 2010
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2001. A Space Odissey (2001. Odissea nello spazio, S. Kubrick, 1968), 103 9 de Abril (M. de Oliveira, 1928), 31, 75 A nous la liberté (A me la libertà, R. Clair, 1931), 58 Abrunhosa, Pedro, 26 n., 34, 221 n., 241 s. Acto da Primavera. Representação Popular do Auto da Paixão, O (Atto di Primavera. Rappresentazione popolare dell’Atto della Passione, M. de Oliveira, 1963), 21, 32, 62, 72, 83, 122, 142 n., 212-216, 218-220 Agel, Henri, 8, 191-195, 221 e n. Agostinho da Cruz, 222 Agostino, 165 e n. Alfonso V del Portogallo, 98 Allemagne année 90 neuf zero (Germania anno 90 nove zero, J.L. Godard, 1991), 87 Almeida, Duarte de vedi Bénard da Costa, Joâo Alquié, Ferdinand, 183 n. Alvares Cabral, Pedro, 102 Amiche, Le (M. Antonioni, 1955), 193 Amor de Perdição. Memorias de uma Família (Amore di perdizione. Memorie di una famiglia, M. de Oliveira, 1978), 21,
33, 37, 42, 60, 62, 113, 126, 133, 140, 142 n., 148, 208 s., 252 Ana (A. Reis, 1983), 216 n. Angélica (M. de Oliveira, 1954), 26 n., 32, 72 n., 88, 132 n., 340 Anghelopoulos, Thodoros, 87 Aniki-Bóbó (id., M. de Oliveira, 1942), 21, 32, 40, 62 s., 72, 74, 113, 122, 219, 225 s., 247, 343 Antonioni, Michelangelo, 51, 55 n. Aprà, Adriano, 171 n., 238 n. Aranda, Maria Amélia, 60 Aristotele, 16, 130 e n., 148, 182 Avella, Angelo Aniello, 148 n., 343 Bairro de Shangai, O (Il quartiere di Shanghai, M. de Oliveira, 1958), 32, 75 Balázs, Béla, 19 n. Baldaque, Leonor, 105, 163, 185, 198 Bandarra, António Gonçalves Annes, 156 Barroso, Mário, 196, 208, 234 Barzyk, Patricia, 137 Batarda, Beatriz, 80 Bazin, André, 25, 41, 80 n. Beckett, Samuel, 34, 174 s. Bedouelle, Guy, 150 n., 195 n., 221 n. Beethoven, Ludwig van, 202, 237 Belle de jour (Bella di giorno, L. Buñuel, 1967), 182
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Belle toujours (Bella sempre, M. de Oliveira, 2007), 35, 182, 268 Bellocchio, Marco, 171 n., 343 Bellour, Raymond, 8, 52 n., 57, 157, 180 Bénard da Costa, João, 14 n., 16 e n., 30, 66, 124 s., 142 n., 183 n., 216 n., 222 n., 224, 230, 238, 241 n. Bene, Carmelo, 51 Benilde ou a Virgem-Mãe (Benilde o la Vergine Madre, M. de Oliveira, 1975), 21, 33, 42, 59 s., 113, 126, 218, 251 Benjamin, Walter, 178 Bergala, Alain, 59 n. Berlin, Symphonie einer Großstadt (Berlino, sinfonia di una capitale, W. Ruttmann, 1927), 65 Bertolucci, Bernardo, 15 Bessa-Luís, Agustina, 33-35, 40 e n., 43 e n., 65 n., 68, 85, 148 n., 150 n., 185, 196, 222, 227 n., 231, 233 n., 237 n. Biette, Jean-Claude, 192, 216, 228 n. Birth of a Nation, The (Nascita di una nazione, D.W. Griffith, 1915), 39 Bobbio, Norberto, 19 n. Bonitzer, Pascal, 160 n. Borzage, Frank, 221 Bouquet, Carole, 183 Branca de Neve (Biancaneve, J. C. Monteiro, 2000), 128 Branco, Paulo, 43, 50 n. Bresson, Robert, 18 n., 28, 194, 216 n., 233 Brion, Marcel, 193 Browning, Tod, 206 Bruma (M. de Oliveira, 1931), 31, 75 Bruno, Edoardo, 83, 129 n., 148 n. Buci-Glucksmann, Christine, 233 n. Buisel, Júlia, 38 n. Buñuel, Luis, 15, 22 e n., 67, 129 n., 182 s., 215
Buonarroti, Michelangelo, 228 Cabiria (G. Pastrone, 1914), 39 Caça, A (La caccia, M. de Oliveira, 1963), 32, 41, 62,, 76, 80, 122, 174, 215, 234, 249 Caifa, 216 Caixa, A (La cassetta, M. de Oliveira, 1994), 21, 34 Cakoff, Leon, 179 Camões, Luís Vaz de, 98, 100-102 Canção de Lisboa, A (T. Cottinelli, 1933), 31, 39 Canetti, Elias, 189, 238 n. Canibais, Os (I cannibali, M. de Oliveira, 1988), 20 s., 34, 121, 138, 205 s., 256 Canudo, Ricciotto, 19 n. Capra, Frank, 51 Cardoso, David, 185 Carrère, Xavier, 222 s., 225 n. Carrière, Jean-Claude, 182 Carvalhal, Álvaro do, 34, 206 Carvalho, Rui de, 81 Casais, Monteiro, Adolfo, 34 Casetti, Francesco, 18 n., 19 n., 21 n. Cassavetes, John, 50 Castelo Branco, Camilo, 33 s., 93, 134 s., 171, 196, 207 e n. Cattaneo, Jeronimo, 204 Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, L. Buñuel, 1977), 183 Chaplin, Charles, 39, 74,172 Chappey, Antoine, 163, 241 Charlot vedi Chaplin, Charles Chien andalou, Un (id., L. Buñuel, 1929), 67 n. Chion, Michel, 234 e n. Chronique d’un été (Cronaca di un’estate, J. Rouch - E. Morin, 1961), 21 Cintra, Luís Miguel, 80, 99 n., 137, 149 s., 156, 173, 184, 101, 201, 206, 224, 232 Clair, René, 58
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Claude Régy. Le passeur (E. Coronel-Arnaud de Mézamat, 1997), 211 n. Claudel, Paul, 33, 136-138, 230 Clemente X, papa, 151 Cochofel, Filipe, 80 Colombo, Cristoforo, 102, 104-106 Condamné à mort s’est échappé, Un (Un condannato a morte è fuggito, R. Bresson, 1956), 28 Convento, O (Il convento, M. de Oliveira, 1995), 21, 34, 218 s., 222 s., 225 n., 260 Cook, The Thief, His Wife and Her Lover, The (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, P. Greenaway, 1989), 206 n. Costa, António, 135 Cottinelli, Telmo, 31, 39 Coutinho, Gago, 102 Cristina di Svezia, 204 Cristóvão Colombo. O Enigma (Cristoforo Colombo. L’enigma, M. de Oliveira, 2007), 31, 35, 37, 104, 268 Daney, Serge, 8, 50 n., 52 s., 55 n., 57 n., 59 n., 101 n., 103 s., 134 n., 136 e n., 144-146, 154 n., 157, 180, 191 s., 194-196, 203 s., 206 e n. Debussy, Claude-Achille, 237 Deed, André, 39 Deleuze, Gilles, 11, 16, 18, 49 s., 52 s., 55 s., 59 e n., 86, 114 s., 123, 130-132, 140, 148, 157, 168 n., 172, 177, 192, 194 e n. Democrito, 204 Deneuve, Catherine, 91, 182, 222 Derrida, Jacques, 70, 153 n., 177179, 181 Desemprego (Disoccupazione, M. de Oliveira, 1934), 32, 75 Dia do Desespero, O (Il giorno della disperazione, M. de Oliveira, 1992), 21, 34, 171, 207 e n., 258 Diana, Mariolina, 13 n.
Die Herrin von Atlantis (Atlantide, G.W. Pabst, 1932), 58 Divina Comédia, A (La Divina Commedia, M. de Oliveira, 1991), 21, 34, 169, 200 s., 220 n., 257 Do Ano Dois Mil… Não Passarás (Non oltre il duemila, M. de Oliveira, 1958), 32, 75 Don Quixote (Don Chisciotte, G.W. Pabst, 1933), 58 Dória, Diogo, 161, 185, 196, 206 Dostoevskij, Fëdor Michajlovic, 34, 53 Douro Faina Fluvial (Douro lavoro fluviale, M. de Oliveira, 1931), 31, 39, 52, 56, 62-64, 67 s., 77, 82, 122, 142, 183, 212, 215, 245 Dreyer, Carl Theodor, 28, 39, 69, 129 n., 209, 242 Duarte, Lima, 149 Duras, Marguerite, 128 Duvivier, Julien, 192 Eiffel, Alexandre-Gustave, 63, 183 n. Einstein, Albert, 231 Ejzenštejn, Sergej Michajlovic, 19 n., 21 n., 39, 51, 129 n., 205 n. En une poignée de mains amies (M. de Oliveira-J. Rouch, 1996), 21 n., 34 Enrico II di Francia, 241 Entretien sur Pascal (E. Rohmer, 1965), 115 n. Epstein, Jean, 19 n., 129 n. Eraclito, 204 Escher, Maurits Cornelis, 234 Esiodo, 70 n. Espelho Mágico (Specchio magico, M. de Oliveira, 2005), 9, 20, 35, 267 Estranho Caso de Angélica, O (M. de Oliveira, 2010), 14 n., 35, 243, 269
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Il nome?
Fabian, Françoise, 240 Fantuzzi, Virgilio, 171 n. Fátima Milagrosa (R. Lupo, 1928), 31, 39 Fauré, Gabriel, 237 Fellini, Federico, 221 Ferro, António, 71 Filme Falado, Um (Un film parlato, M. de Oliveira, 2003), 21, 35, 62, 64 e n., 82 s., 88, 113, 149 n., 162, 238, 266 Fofi, Goffredo, 191 n. Fonseca, Manuel S., 141 n., 173 n. Ford, John, 17 e n., 51, 172 Fornara, Bruno, 151 n. Francisca (id., M. de Oliveira, 1981), 21, 33, 43, 50 e n., 93 e n., 113, 126, 142 n., 194-196, 204, 208, 252 Franju, Georges, 101 Freitas???, 32 Freud, Sigmund, 177 s. Frodon, Jean-Michel, 52 n., 59 n. Full Metal Jacket (id., S. Kubrick, 1987), 103 Furtado, Ruy, 201 Gable, Clark, 58 Gagarin, Jurij Alekseevic, 105 Gama, Vasco de, 98, 102 Gance, Abel, 129 n., 337 Gardel, Carlos, 185 Gautier, Jean-Yves, 161 Gertrud (id., C.T. Dreyer, 1964), 69, 242 Gesù di Nazareth, 72, 200, 216 Ghandi, Mohandas Karamchand, 96 Gigantes do Douro (M. de Oliveira, 1934), 31, 75 Gillett, John, 42 n., 61 n., 124 n., 135 n. Giovanna d’Arco, 28, 199 Giovanni, San, 214 Giovanni II del Portogallo, 98 Girard, René, 16, 134 n. Giuda Iscariota, 213, 216, 219 n. Glenn, John, 105
Godard, Jean-Luc, 15, 18 e n., 29 n., 59 n., 87, 114 s., 118-120, 123 n., 128, 166 n., 193, 232 e n., 235 s., 343 Goethe, Johan Wolfgang von, 111, 169, 224 Greenaway, Peter John, 206 n., 343 Grido, Il (M. Antonioni, 1957), 51 Griffith, David Llewelyn Wark, 34, 39 Grilo, João Mário, 53 n., 212 n., 214 n. Guattari, Félix, 53 n. Guazzoni, Enrico, 129 n. Gubaidulina, Sofia, 225 Guilherme, Miguel, 202 Halbwachs, Maurice, 123 n., 145 s., 116 s. Hauser, Cristina, 134 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 117, 337 s. Heisenberg, Werner Karl, 204 Hélas pour moi (Peggio per me, J.L. Godard, 1993), 232 Hino de Paz (Inno di pace, M. de Oliveira, 1940), 32, 75 Hitchcock, Alfred, 177 Hitler, Adolf, 52 Hitler, ein Film aus Deutschland (Hitler, un film dalla Germania, H.J. Syberberg, 1977), 128 Huillet, Danièlle, 52 n., 128 Hurdes, Las (id., Luis Buñuel, 1932), 215 Inácio, Alberto, 125 Inquietude (Inquietudine, M. de Oliveira, 1998), 34, 39, 184, 262 Ionesco, Eugène, 163 Ivens, Joris, 67 n., 129 Jacquot, Benôit, 51 Jaeger, Werner, 204 e n. Jankélévitch, Vladimir, 192
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Je rentre à la maison (Ritorno a casa, M. de Oliveira, 2001), 19 n., 21, 34, 163, 264 João IV del Portogallo, 151 João Pires, Maria, 202 João VI del Portogallo, 93 Johnson, Randal, 13 n., 73 e n. Kafka, Franz, 47 Kant, Immanuel, 70 n., 117 Katchaturian, Aram Il’ic, 81 King, Martin Luther, 96 Klee, Paul, 53 Kubrick, Stanley, 51, 57 n., 102, 103 n., 344 Kurosawa, Akira, 53, 171 n., 221 Kyrou, Ado, 183 n. La Fayette, Marie-Madeleine Pioche de la Vergne de, 241 Lang, Fritz, 15, 129 n., 143, 209, 344 Lavin, Mathias, 13 n., 130 n., 134 n. Le Gentil, Georges, 40 n. Lemière, Jacques, 52 n., 57 Lenin, Vladimir Il’ic, 338 Leonardo da Vinci, 132, 175 Lettre, La (La lettera, M. de Oliveira, 1999), 26 n., 34, 121, 125 s., 240, 262 Lévy-Bruhl, Lucien, 19-21 Linder, Max, 39 Lisboa cultural (Lisbona, capitale culturale, M. de Oliveira, 1982), 33, 150, 253 Lopes Ribeiro, Antonio, 9, 32, 338 Lopes, João, 90 n. Lourdes Belchior, Maria de, 150 Lourenço, Eduardo, 101 n. Lubitsch, Ernst, 15, 143 Lumière, Auguste, 127 Lumière, Louis-Jean, 127 Lupo, Rino, 31, 39 Lutoslawski, Witold, 136 Lynch, David, 220 n.
Lyotard, Jean-François, 129 s. Macau, Pedro, 162 Madruga, Teresa, 208 Magalhães (Magellano), Fernão de, 102 Malkovich, John, 90, 164, 222 Mancino, Anton Giulio, 80 n., 343 Mao Zedong, 95 Marco Aurelio, 185 Marques, José Francisco, 14, 99 n. Marx, Karl, 95, 179 n., 338 Marx, René, 74 n. Mastroianni, Chiara, 240 Mastroianni, Marcello, 161 Mat’ (La Madre, V.I. Pudovkin, 1926), 39, 338 Matos, Clara António, 198 Medeiros, Maria de, 35, 202 Mendelssohn-Bartholdy, Jakob Ludwig Felix, 124 Mendes, António, 39 Menenses, Teresa, 196 Merker, Nicolao, 169 n. Miguel I del Portogallo, 93 Miseria (M. de Oliveira, 1932), 31, 75 Mizoguchi, Kenji, 171 n., 204, 233 Molière, 130 e n. Molina, Angela, 183 Mon cas (Il mio caso, M. de Oliveira, 1986), 34, 173, 201, 255 Monk, Thelonious Sphere, 43 e n. Monteiro, João César, 16, 128 e n. Moreira, Henrique, 38 Morin, Edgar, 20 s. Moro, Tommaso, 199 s. Mouchette (Mouchette. Tutta la vita in una notte, R. Bresson, 1967), 233 Mulher do Ladrão, A (La moglie del ladro, M. de Oliveira, 1964), 33, 75 Murnau, Friedrich Wilhelm, 129 n. Musil, Robert, 195 Nacht, Die (La notte, H.J. Syberberg, 1985), 128
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Nice, à propos de Jean Vigo (M. de Oliveira, 1983), 33, 63, 254 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 34, 70 n., 224 Nisio, Francesco Saverio, 99 n., 121 n., 123 n., 166 n. NON ou a Vã Glória de Mandar (No, o la folle gloria del comando, M. de Oliveira, 1993), 34, 57 n., 75, 97 e n., 107, 220 n., 256 Nostra Signora dei Turchi (C. Bene, 1968), 51 Nuit et brouillard (Notte e nebbia, A. Resnais, 1956), 191 Oger, Frank, 137 Ogier, Bulle, 174, 182 Oliveira, Adelaide Maria de, 40 Oliveira, Manuel Casimiro de, 33, 38 s., 41 Oliveira, Francisco de, 38 s. Oliveira, Francisco José de, 37 Oliveira, Maria Isabel Brandão de Meneses de Almeida Carvalhais, 40 Oliveira, José Manuel de, 40 Ophüls, Max, 15 Ozu, Yasujiro, 171 n. Pabst, Georg Wilhelm, 58 Paes, João, 206 n. Palavra e Utopia (Parola e utopia, M. de Oliveira, 2000), 34, 57 n., 113, 149, 151-154, 169, 204, 219, 263 Palco dum Povo, O (Palco di un popolo, M. de Oliveira, 19652008), 32, 41, 122, 248 s. Pão, O (Il pane, M. de Oliveira, 1959), 32, 41, 122, 248 s. Papas, Irène, 90 s., 227 Parain, Brice, 10, 27, 114 s., 118 s., 123 n., 128, 148, 166, 235 e n. Parsi, Jacques, 41 n., 57 e n., 63 n., 74 e n., 80 s., 141 n., 150 n., 207 n., 245, 344 Party (M. de Oliveira , 1996), 34, 227 e n., 261
Pas suspendu de la cicogne, Le (Il passo sospeso della cicogna, T. Anghelopulos, 1991), 87 Pascoaes, Teixeira de, 106 Pasolini, Pier Paolo, 60 Passado e o Presente, O (Il passato e il presente, M. de Oliveira, 1971), 21, 33, 42, 60, 62, 124 e n., 126, 142 n., 219 e n., 230 n., 251 Passion de Jeanne d’Arc, La (La passione di Giovanna d’Arco, C.T. Dreyer, 1928), 39 Patrício, Antonio, 31, 34, 185 Paz dos Reis, Aurélio da, 37 Pedro IV del Portogallo, 93, 196 Perry, João, 239 Pessoa, Fernando António Nogueira, 40, 106, 150 e n., 156 Picasso, Pablo, 174 Piccoli, Michel, 163, 182, 227 Piero della Francesca, 174 Pietro, San, 216 Pinheiro, Pedro, 125 Pinto, Cândida Ferreira, 37 Pinto, José, 184, 237 Pintor e a Cidade, O (Il pittore e la città, M. de Oliveira, 1956), 32, 41, 63, 122, 142 n., 184 n., 218, 248 Pinturas do meu Irmão Júlio, As (I quadri di mio fratello Júlio, M. de Oliveira, 1965), 33, 40 n., 142 n., 250 Pirandello, Luigi, 39, 175 Platone, 70 n., 116, 178, 230 s., 236 n. Poeta Doido, o Vitral e a Santa Morta, O (Il poeta folle, la vetrata e la santa morta, M. de Oliveira, 1965-2008), 32 s., 40 n., 250 Ponzio Pilato, 355 Porto da Minha Infância (Porto della mia infanzia, M. de Oliveira, 2001), 34, 37-40, 69 n., 264
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Potomok Cinghiz-Chana (Tempeste sull’Asia, V.I. Pudovkin, 1928), 338 Prado Coelho, Jacinto, 150 e n. Prédal, René, 13 n., 195 n. Princípio da Incerteza, O (Il principio dell’incertezza, M. de Oliveira, 2002), 21, 34, 121, 192, 198, 265 Prista Monteiro, Helder, 34, 80, 84 Processo da Instauração da República em Portugal (Processo d’instaurazione della Repubblica in Portogallo, M. de Oliveira, 1974), 33, 75 Prostituição (Prostituzione, M. de Oliveira, 1935), 32, 75 Proudhon, Pierre-Joseph, 95 Pudovkin, Vsevolod Ilarionovic, 39, 338-340 Queiroz, Eça de, 35 Quinto Império. Ontem como Hoje, O (Il quinto impero. Ieri come oggi, M. de Oliveira, 2005), 13 n., 31, 35, 43, 123, 150 n., 154 s., 266, 343 Quo Vadis? (id., E. Guazzoni, 1913), 129 n. Ray, Nicholas, 221 Régio, José (José Maria dos Reis Pereira), 32 s., 39 s., 60, 63 n., 67, 77, 150, 155, 173 e n., 175, 205 n., 210 e n., 219 n., 335 Reis, António, 216 n., 220 e n. Renoir, Jean, 125 n., 143 Resnais, Alain, 49, 51, 191. 344 Rey, Fernando, 184 n. River, The (Il fiume, J. Renoir, 1950), 125 n., 193 Rocha, Paulo, 34, 63 n., 217 n. Rodolfi, Eleuterio, 129 n. Rohmer, Eric, 7, 115 n., 221, 344 Rosenbaum, Jonathan, 43 n. Rossellini, Roberto, 59 Rouch, Jean, 21 n., 128
Roue, La (La rosa sulle rotaie, A. Gance, 1923), 129 n., 337 Ruth, Isabel, 185, 237 Ruttmann, Walter, 64, 129 n., 337 Saisset, Maria de, 124 Salazar, António de Oliveira, 16, 65, 71, 74, 83, 338 Samora, Rogério, 227 Sanches, Vicente, 33, 124 Sandrelli, Stefania, 91 Sang des bêtes, Le (G. Franju, 1949), 191 Sanshô Dayû (L’intendente Sansho, K. Mizoguchi, 1954), 204 Saraiva, José Hermano, 42 n., 65 n., 93 n., 99 n., 155 n. Sartre, Jean-Paul, 83, 85 s., 101 Schubert, Franz Peter, 81 Schumann, Robert Alexander, 237 Seabra, Augusto M., 42 n. Sebastiano del Portogallo, 99 s., 104, 121, 137, 155 s. Segre, Daniele, 35 Sequeira Lopes, António, 134 Shakespeare, William, 85, 179 n., 224 Silva, Manuel da, 35, 105 Silveira, Leonor, 88, 91, 161, 185, 198, 200, 206, 224, 227, 232, 242 Singularidades duma Rapariga Loura (M. De Oliveira, 2009), 14 n., 35, 269 Siniscalchi, Guglielmo, 52 n., 344 Sortie de l’usine Lumière, La (L’uscita dalle officine Lumière, A. e L.J. Lumière, 1895), 169 Sotinel, Thomas, 88 n. Soulier de satin, Le (La scarpina di raso, M. de Oliveira, 1985), 21, 27, 33, 126, 136 s., 140, 254 Soult, Nicolas-Jean de Dieu, 64 Spila, Piero, 52 n. Spinoza, Baruch de, 16, 18, 94 e n., 118 s., 133, 148, 191
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31/05/2010
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Indice dei nomi e dei film
Staroe i Novoe (La linea generale, S.M. Ejzenštejn, 1929), 39 Stiller, Mauritz, 172 Straub, Jean-Marie, 49, 51-53, 59, 128, 192 n. Strauss, Johann, 237 Stravinskij, Igor Fëdorovic, 225 Sunrise. A Song of Two Humans (Aurora, F.W. Murnau, 1927), 39 Syberberg, Hans Jürgen, 128 Tarkovskij, Andrej, 18 n. Techiné, André, 51 Teorema (P.P. Pasolini, 1968), 60 Tesson, Charles, 209 n. Trás-os-Montes (A. Reis, 1975), 216 n. Trêpa, Ricardo, 105, 149, 155, 182, 198 Tristana (id., L. Buñuel, 1970), 184 n. Turíbio vedi Deed, André, 39 Ultimi giorni di Pompei, Gli (E. Rodolfi, 1913), 39, 129 n. Unamuno, Miguel de, 134 n. Vacances de Monsieur Hulot, (Le vacanze di Monsieur Hulot, J. Tati, 1953), 193 Vale Abrãao (La valle del peccato, M. de Oliveira, 1993), 21, 34, 41, 43, 121, 217, 231, 233 s., 237 s., 259 Vampyr ou l’étrange aventure de David Gray (Vampyr, C.T. Dreyer, 1932), 194, 209 Vattimo, Gianni, 153 n. Vaz de Guimarães, Francisco, 212 e n.
Veigas, Mário, 202 Verdes Anos, Os (I verdi anni, P. Rocha, 1963), 217 n. Vertov, Dziga, 129 n., 337 Viagem ao Princípio do Mundo (Viaggio all'inizio del mondo, M. de Oliveira, 1997),34, 38, 70 n., 161, 261 Vico, Giambattista, 148 n. Vidor, King, 51 Vieira, António, 34, 98-100, 113, 121, 149-153, 155 s., 204, 219 e n. Vilarinho das Furnas (M. de Oliveira, 1956), 32, 75 Vilaverdinho. Uma Aldeia Transmontana (M. de Oliveira, 1964), 33, 63, 250 Villey, Michel, 19 n. Viriato, 98 Visita ou Memórias e Confissões, A (M. de Oliveira, 1982), 14 n., 33, 41 e n., 253 Vitelloni, I (F. Fellini, 1953), 193 Vivre sa vie (Questa è la mia vita, J.L. Godard, 1962), 114, 123 Vuillermoz, Émile, 39 Wagner, Wilhelm Richard, 209 Wellencamp, Elsa, 135 Wenders, Wim, 34 Welles, Orson, 55 n., 63 n. Wittgenstein, Ludwig, 62, 148 s., 173 Wyler, William, 192 Yokihi (L’imperatrice Yang Kweifei, K. Mizoguchi, 1955), 204 Zanussi, Krzysztof, 194
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