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Italiano Pages 135 [134] Year 2015
MIMESIS
PAOLO ERCOLANI - SIMONE OGGIONNI
MANIFESTO PER LA SINISTRA E L’UMANESIMO SOCIALE
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Isbn: 9788857532639 © 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 Cover design: ©Mario Guerriero
INDICE
INTRODUZIONE
7 PARTE I LABORATORIO TEORICO
1. L’UMANESIMO SOCIALE
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2. UN NUOVO PARADIGMA: IL POTERE INVISIBILE SULL’HOMO RELIGIOSUS
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3. TEOLOGIA ECONOMICA ED ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA
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4. LA GALASSIA POST-DEMOCRATICA
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5. DUE MOMENTI FONDAMENTALI
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6. TECNO-FINANZA: LA FUSIONE DI STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA
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7. SINISTRA/DESTRA: ATTUALITÀ DI UNA DISTINZIONE
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8. IL RITORNO DELL’UOMO: TEORIA E PRASSI DELL’UMANESIMO SOCIALE
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI
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PARTE II OFFICINA POLITICA 1. SCRIVERE UNA NUOVA STORIA
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2. IL PUNTO DI PARTENZA: LA RIVOLUZIONE NEO-LIBERALE
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3. IL POTERE E LA GUERRA. LA CRISI, LA FINANZA, IL MURO
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4. CON QUALI STRUMENTI INDAGHIAMO IL MONDO. E IL MONDO, COM’È?
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5. UOMO, MERCATO E STATO: DIALOGARE OLTRE LA NOSTRA FINITUDINE
6. CAPITALE, LAVORO E MERCIFICAZIONE: UN NUOVO PARADIGMA
85 91
7. IDENTITÀ E CULTURA POLITICA, DENTRO E OLTRE LA TRADIZIONE
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8. UN’AMBIZIONE MAGGIORITARIA: PERCHÉ CI INTERESSA TRASFORMARE IL MONDO
9. CENNI ESSENZIALI SUL PROGRAMMA DI GOVERNO 10. LA FORZA CHE SAREMO RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI
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SINISTRA-UMANESIMO SOCIALE: DIECI OBIETTIVI IMMEDIATI
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INTRODUZIONE
Almeno a partire dal 1989, anche se in realtà bisognerebbe tornare indietro fino alla seconda metà degli anni Settanta, la Sinistra ha smarrito la propria cassetta degli attrezzi, il proprio punto di vista autonomo sul mondo. Conseguentemente, ha perso ogni possibilità di incidere sul reale. Incapace di anticipare il crollo del socialismo reale, essa si è divisa tra chi si è arroccato nella difesa di riferimenti anacronistici e sterili e chi ha rinnegato tutto il proprio passato, aderendo in maniera acritica a un liberalismo che, nel frattempo, vedeva prevalere le sue pulsioni più spinte e reazionarie. Priva di una chiave di lettura del tempo presente, disancorata dal suo popolo, la Sinistra si è trovata inevitabilmente e colpevolmente disinnescata anche nella effettiva capacità di determinare cambiamenti concreti e orientare in termini di democrazia e giustizia sociale le politiche dei governi. In assenza di una base teorica aggiornata e coerente (perché la prassi è cieca senza una teoria che ne illumini il percorso, almeno quanto la teoria è sterile senza una prassi realizzatrice), la Sinistra si è sostanzialmente frantumata in due, tra adeguamento acritico ai dogmi dell’avversario e testimonianza minoritaria di un’alternativa senza sbocchi. Questo disastro si è accompagnato a errori clamorosi di natura soggettiva da parte di una classe dirigente troppo spesso non all’altezza, inadeguata, vittima della propria boria e autoreferenzialità. Muovendo da queste consapevolezze abbiamo deciso di dare il nostro contributo nella ricostruzione di analisi, idee e programmi. L’«Umanesimo sociale» è il filo rosso in grado di legare pensieri e azioni, un paradigma che caliamo fin dentro la concretezza del decalogo di proposte programmatiche che troverete in chiusura del testo.
La prima parte, di matrice teoretica e filosofica, è stata scritta da Paolo Ercolani. La seconda, strutturata intorno a un asse politico e ideologico, è di Simone Oggionni. Entrambe sono però il frutto di un dialogo e di un confronto tra noi costanti, che hanno segnato un semestre intenso e prolifico. È il nostro contributo – il primo – al compito di scrivere pagine di una nuova storia. In cui l’essere umano, in quanto creatura pensante, lavorante e desiderante, torni a essere il fine e non lo strumento della dinamica economica. La Sinistra può essere la forma collettiva di questo processo e di questa trasformazione. Con idee nuove e valori antichi. E un’organizzazione, perché le idee e i valori hanno bisogno di gambe. Di un partito grande, forte, radicato e unito. Interrompendo la frammentazione che ha segnato la storia recente. Ne va dei destini di milioni di persone, donne e uomini in carne e ossa che chiedono rappresentanza, e vogliono tornare ad avere forza e voce in questo scontro immane con il capitale, le diseguaglianze, le ingiustizie quotidiane. Ne va in fin dei conti dei destini dell’uomo e della sua possibilità di abitare una società e un mondo di cui torni a essere il protagonista, il cuore pulsante. Paolo Ercolani e Simone Oggionni Roma, 27 settembre 2015
PARTE I LABORATORIO TEORICO
«Uno solo deve essere il proposito che tutti perseguono: che il vantaggio del singolo si identifichi con quello comune, poiché se uno lo estorce egoisticamente per sé, ogni umano consorzio ne risulta dissolto» Cicerone, De Officiis: III,6
«La politica non deve sottomettersi all’economia, e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana» Francesco I Papa, Lettera enciclica Laudato si’: V, IV § 189
«Il capitalismo è oggi il protagonista di una grande rivoluzione interna: esso sta evolvendosi, rivoluzionariamente, in neocapitalismo […] Davanti a questo neocapitalismo rivoluzionario, progressista e unificatore si prova un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo. Perché tutto questo? Perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l’applicazione tecnologica della scienza. Tutto ciò è un prodotto della storia umana: di tutti gli uomini, non di questo o quel popolo» P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società: p. 861 «Ma mentre consideriamo la storia alla stregua di un tale banco da macellaio – immolate su di esso la felicità dei popoli, la saggezza degli Stati e la virtù degli individui – ecco di necessità il pensiero anche domandarsi a chi, o in vista di qual fine, siano state offerte vittime in quantità così enorme» G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia: p. 35
«L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo […] Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente “politico”, poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua “umanità”, la sua “natura umana” […] Cercare la realtà fuori dell’uomo appare quindi un paradosso, così come per la religione è un paradosso (peccato) cercarla fuori di Dio» A. Gramsci, Quaderni del carcere: pp. 1338 e 467
1. L’UMANESIMO SOCIALE
Uno spettro si aggira per le strade desolate della nostra epoca. Lo spettro di un’entità che una volta era fondamentale. È lo spettro dell’uomo, ormai ridotto a fantasma di se stesso e di una gloria che rimanda a tempi oltremodo lontani. La nostra è l’epoca in cui è giunto a compimento il percorso funesto che ha visto affermarsi economia e tecnica quali entità centrali della vicenda umana. Perfettamente in grado di spodestare l’uomo dal ruolo attivo (e fattivo) della propria vicenda, per ridurlo a strumento di meccanismi asettici, numerici, impersonali. La teologia economica, pensiero unico e ideologia dominante che si è affermata grazie al grande bluff della sbandierata «fine delle ideologie», declinandosi attraverso quella dinamica peculiare che è il fondamentalismo del mercato, con sempre maggiore capacità invasiva e incisiva sta riconfigurando un mondo in cui l’essere umano è ridotto a mezzo di produzione e strumento di scopi e valori che non sono quelli umani. Alla più grande maggioranza di uomini e donne viene richiesto (e per certi versi imposto) di farsi adoratori di divinità che non solo non hanno creato l’uomo (semmai dall’attività di questo hanno tratto origine e fondamento), ma che non si fanno scrupoli a sfruttarlo e persino distruggerlo pur di conseguire i propri obiettivi. Le due divinità incontrastate del nostro tempo, economia e tecnica, stanno affermando a tutti i livelli una logica quantitativa che privilegia i numeri rispetto alle idee, il saldo dei bilanci rispetto alla qualità della vita, la concorrenza sfrenata di individui atomizzati rispetto alla cooperazione sociale di persone reciprocamente riconoscentesi come tali. L’agire economico e produttivo esclusivamente di profitto individuale, sull’agire politico e generatore di benessere sociale.
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Manifesto per la Sinistra e l’Umanesimo sociale
Una logica che afferma nella maniera più assurda e anti-umana il progresso e il profitto infiniti, riducendo l’uomo stesso (entità finita) a strumento e ingranaggio di questo scopo molto più grande di lui, sovrano e definitivo (se non altro perché mai conseguibile del tutto). L’alleanza stretta fra queste due entità potentissime, e soprattutto fra gli individui e le agenzie che ne detengono il controllo e la proprietà, ha reso possibile la piena realizzazione di quell’obiettivo che sempre ha rappresentato l’orizzonte ideale del sistema capitalistico: il controllo e il dominio sull’uomo, tanto nella sua sfera privata e individuale quanto in quella sociale e collettiva. L’esempio più fulgido ed inquietante di quanto andiamo dicendo è dato dalla Rete: tecnologia perfettamente in grado di uniformare e massificare proprio nello stesso momento in cui isola e atomizza gli individui, confinandoli di fatto nel cosmo rinchiuso del rapporto con gli schermi dei propri apparecchi. L’influenza e il controllo sulle menti e sui corpi delle persone non sono mai stati così forti, determinanti e pervasivi come oggi, epoca in cui ci viene raccontato che il progresso tecnologico conseguito lavora per la piena emancipazione dell’essere umano. Ma di quale emancipazione stiamo parlando?! Ovunque assistiamo a una spoliazione dei diritti sociali e lavorativi, alla mortificazione del merito e della conoscenza, alla sempre crescente irrilevanza del pronunciamento popolare rispetto alle politiche dei governi, all’inaccettabile e pianificato accrescersi della forbice sociale, per cui un numero sempre minore di individui finisce col possedere la ricchezza più grande. Stiamo assistendo inermi al ritorno effettivo di una situazione in cui le classi sociali subordinate, ovvero la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, si vede impedita anche solo la possibilità di migliorare la propria condizione e quindi condurre una vita dignitosa e libera. Dimenticando, fra le altre cose, che gli stati moderni di stampo occidentale sono nati in seguito a un «patto» fra tutti i cittadini, disposti a delegare sovranità e potere alle istituzioni politiche (il governo su tutte) affinché queste operino in vista dell’accrescimento del bene comune e del benessere collettivo.
L’Umanesimo sociale
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L’essere umano ha rinunciato a una parte importante della propria libertà perché le istituzioni politiche deputate a rappresentarlo si facessero custodi della dimensione sociale e collettiva. Perché la «Politica» assumesse sulle proprie spalle il compito gravoso di garantire il benessere della società nel suo complesso, presupposto irrinunciabile affinché si possa perseguire realisticamente anche una libertà e un’emancipazione degli individui, evitando privilegi o posizioni di rendita. Dove mai rintracciare anche soltanto un barlume di emancipazione umana, in un sistema che ha volontariamente delegato il potere di governare alla tecno-finanza che considera l’uomo soltanto nella misura in cui consente il raggiungimento dei propri obiettivi?! In questo contesto storico e sociale desolante, ma solo in seguito a una radicale comprensione delle dinamiche e dei meccanismi che lo riguardano, si innalza sovrano il compito fondamentale di una Sinistra che, emancipatasi da anacronismi e velleitarismi di sorta, sia in grado di farsi rappresentante e paladina dell’umanità offesa. Riportare l’essere umano, con i suoi bisogni e le sue specificità (oltre che con i suoi diritti), al centro della speculazione come dell’azione politica, individuando e percorrendo i nuovi terreni di battaglia dell’emancipazione individuale e sociale, è il vero discrimine di una Sinistra che possa dirsi davvero tale, in un mondo che è terribilmente mutato. A trovarsi sotto i colpi di un attacco mai come oggi tanto potente ed efficace, colpito e sottomesso da forze assai influenti e pervasive, è l’essere umano nella sua globalità. Tanto la sua sfera privata e individuale (pensiero autonomo e critico, conoscenza), quanto la sua dimensione pubblica e sociale (democrazia, giustizia sociale), si trovano sotto lo scacco di un sistema, quello tecno-finanziario, che è riuscito ad affermare scopi e valori in nome dei quali l’essere umano mantiene una funzione solo in quanto strumento e mezzo per il raggiungimento e l’affermazione degli stessi. In ambito individuale è ridotto al rango di produttore, consumatore e utente passivo, a cui viene richiesto di immolarsi in
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Manifesto per la Sinistra e l’Umanesimo sociale
vista dei valori e degli scopi imposti dalla teologia economica, attraverso quel veicolo straordinariamente influente e «divertente» che è rappresentato dalle moderne tecnologie mediatiche. Tanto più è inondato dalla mole di informazioni veicolate dalla tecnologia mediatica del suo tempo, quanto meno conosce ciò che è essenziale alla propria emancipazione di essere pensante, agente e desiderante. Il numero sterminato di alberi che colpisce i suoi occhi gli impedisce la visione d’insieme della foresta: una nuova società e un nuovo tempo in cui viene proclamata l’irrilevanza delle sue facoltà specifiche (conoscenza, pensiero critico e autonomo, libertà di vivere e perseguire i propri desideri di realizzazione e piacere personale). In ambito sociale, l’uomo contemporaneo risulta gradualmente ma inesorabilmente deprivato di quei diritti politici e sociali che hanno contribuito in maniera decisiva al benessere del cittadino occidentale e alla relativa giustizia sociale degli stati liberaldemocratici. La Destra, per quanto concerne il contesto economico e culturale, si sta di fatto adoperando e battendo in favore di un sistema che riduce l’essere umano al ruolo di strumento e ingranaggio dei poteri sovrastanti (banche, èlites plutocratiche, poteri tecnofinanziari, istituzioni sovra-nazionali non elette dai popoli). Una Sinistra che intenda seriamente e realisticamente contrapporsi a questo disegno, deve partire da un presupposto fondamentale e riconfigurare i propri obiettivi in vista di un progetto sostanziale. Il presupposto fondamentale, irrinunciabile ai fini di una comprensione del contesto reale, è il seguente: la celebre distinzione marxiana tra struttura (economica) e sovrastruttura (ideologica), a fronte dell’alleanza fra tecnica ed economia, ha visto una sostanziale fusione. Tale fusione rende quantomai agevole e completo l’attacco all’essere umano, sia in quanto essere pensante, conoscente e desiderante, sia in quanto produttore, consumatore nonché attore della dimensione pubblica e sociale. In seguito a ciò, il progetto sostanziale si rivela quello di riuscire a riposizionare l’uomo al centro della società: un uomo
L’Umanesimo sociale
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che pensi, conosca e desideri in vista di valori e scopi personali e non impersonali (umani e non tecno-finanziari); ma anche che produca, consumi e agisca all’interno di un contesto democratico e regolato da leggi ispirate alla giustizia sociale. Una Sinistra che lavori in vista della quanto più possibile realizzazione di una uguale libertà (a livello individuale) e di una libertà uguale (a livello sociale). Se il pensiero unico dominante, ossia la teologia economica, ha spodestato l’essere umano dal centro della società e dell’agire collettivo, alla Sinistra spetta il compito di restituirgli la centralità perduta. In particolar modo riuscendo a farsi paladina della migliore tradizione occidentale, promuovendo e difendendo quella libertà e quella democrazia che non sempre essa ha riconosciuto fra i propri capisaldi fondamentali Si tratta, come forse mai prima d’ora, di pensare, unirsi e organizzarsi in vista della lotta finale contro tutto ciò che lavora in vista del post-umano. Contro tutto ciò che vuole affermare la concorrenza, il profitto, il progresso e in generale la logica quantitativa quali leggi generali di un’esistenza di cui individui e cittadini hanno perso la titolarità. Si tratta di affermare l’Umanesimo sociale!
2. UN NUOVO PARADIGMA: IL POTERE INVISIBILE SULL’HOMO RELIGIOSUS
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, invece, con un apice che si è raggiunto nella data fatidica del 1989 (per poi non tornare più indietro), abbiamo assistito alla lenta e graduale (ma inesorabile!) operazione di dismissione volontaria del potere di governo da parte delle classi dirigenti e politiche dei paesi occidentali. Comprese quelle di Sinistra, che ritrovatesi orfane dell’ideologia comunista, un po’ per opportunismo e un po’ per incapacità a rinnovare i propri fondamenti teorici, hanno visto bene di genuflettersi al pensiero unico della teologia economica. Spesso e volentieri con uno zelo entusiasta tipico dei neofiti. Il potere di governo su nazioni e cittadini è stato quindi consegnato alle agenzie tecno-finanziarie, ormai incaricate di stabilire quelle leggi inesorabili del nostro mondo che i governi pseudopolitici ratificano a mo’ di semplice atto notarile, e che le nazioni e i cittadini stessi devono seguire con spirito devozionale e abnegazione assoluta. In questo senso esclusivo possiamo dire che il potere, il vero potere che stabilisce ciò che altre istituzioni dovranno codificare e ratificare, si è fatto invisibile. O meglio: è retrocesso in una zona oscura ai più e da lì impartisce ordini ispirati a una logica liberista che annichilisce la democrazia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Improntando le politiche degli stati a un rigore di bilancio che è finalizzato a soddisfare soltanto i parametri numerici del mercato, ignorando o persino colpendo volutamente la qualità della vita dei cittadini e lo stato sociale che alla tutela della stessa è deputato. Fino agli ultimi decenni del secolo scorso, il governo di una nazione, che fosse esercitato da un monarca assoluto, da un dit-
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Manifesto per la Sinistra e l’Umanesimo sociale
tatore o da un leader eletto dal popolo (tutto o una parte di esso), ha sempre presentato la caratteristica fondante di essere visibile e quindi definibile. Tale paradigma del «potere visibile», con la comparsa della cosiddetta mondializzazione (o globalizzazione) con tutti i suoi portati, fra cui il forte indebolimento dello Stato-nazione a tutto vantaggio del potenziamento delle agenzie di potere legate all’economia e specificamente alla finanza internazionale, deve essere ripensato in maniera radicale. Volendo sintetizzare al massimo la questione, possiamo dire che il vecchio paradigma si fondava su una dialettica visibile tra l’«homo politicus» (il o i governanti) e l’«homo rationalis» (i governati, che avevano appunto modo di interloquire con il potere attraverso forme razionali di scelta, consenso o anche subordinazione, ma comunque rispetto a degli interlocutori in tutto e per tutto o in buona parte palesi. Soprattutto con un programma di governo esplicito). Il nostro tempo presente è quello che ha visto affermarsi un nuovo paradigma. Questo nuovo paradigma, figlio del processo di globalizzazione e in generale di un ritorno preponderante di teorie e prassi ispirate al liberismo sfrenato, è incentrato sulla declinazione di un potere le cui dinamiche si sono fatte per molti versi invisibili. Al suo interno il processo di interlocuzione dialettica avviene tra l’«homo oeconomicus» (che ha sostituito l’«homo politicus»), ossia quei soggetti governanti che spesso non sono più riconducibili all’interno della dimensione «politica», poiché afferiscono direttamente o indirettamente ai poteri finanziari, e l’«homo religiosus», ossia quei governati a cui viene richiesto di sottomettersi in maniera fideistica alle logiche (e alle leggi) dei poteri mercatistici e finanziari, che non sono quelli democraticamente eletti ma risiedono nascosti in un «iperuranio» invisibile e misterioso per i più. Questo cambio di paradigma epocale è stato oltremodo agevolato dalla straordinaria evoluzione delle tecnologie mediatiche (altro portato fondamentale della globalizzazione), che hanno sostanzialmente conferito a chi detiene il potere effettivo, e quindi
Un nuovo paradigma: il potere invisibile sull’homo religiosus
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de facto la sovranità, di conoscere le intenzioni altrui senza far conoscere le proprie, alla stregua di un dio «che è onnipotente proprio perché è l’onniveggente invisibile». In tal senso Manuel Castells può scrivere chiaramente che la nostra è l’epoca in cui «i network della comunicazione sono essenziali alla costruzione tanto del potere politico quanto del contropotere», e dove «i media politici» rappresentano il «meccanismo fondamentale» attraverso cui accedere al potere politico e alle operazioni di produzione politica. Allo stato dei fatti, occorre prendere atto di quella che appare come una regressione, o comunque una metamorfosi della sovranità da forma di potere più o meno legittima (ma comunque definita e visibile), a una invisibile, misteriosa, che emana da agenzie che non sono quelle democraticamente deputate dai cittadini alla gestione e alla leadership delle società politiche. Insomma, il potere (tecno-finanziario) che veramente decide (non democraticamente eletto) resta di fatto dietro le quinte, lasciando il potere (politico) che certifica quelle decisioni e il finto contropotere prodotto dal sistema spettacolare dei media a contendersi un consenso popolare che sempre meno si trova ad incidere sulle decisioni politiche fondamentali.
3. TEOLOGIA ECONOMICA ED ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA
Il sistema tecno-finanziario, per buona parte nascosto ma onniveggente, onnipotente proprio perché capace di vedere ogni cosa (e intercettare ogni comunicazione) pur restando esso invisibile agli occhi (e alle menti) dei più, si configura a guisa di un dio che richiede abnegazione totale e fedeltà cieca nella sua forza provvidenziale. Una forza provvidenziale che, però, promette frutti avvelenati per l’uomo. Progresso infinito, profitto, concorrenza sempre più esasperata, individualismo a-sociale, dominio dell’economico sul politico, si rivelano in realtà degli obiettivi che in nulla o quasi vanno a qualche beneficio dell’essere umano in quanto tale, bensì ne richiedono la riduzione a strumento quando non a vittima sacrificale. La quantità dei saldi contabili e degli indici di mercato mal si accompagna alla qualità della vita dei cittadini, finendo anzi, il più delle volte, col richiederne il sacrificio insieme a tutte quelle politiche sociali che proprio perché si concentrano sugli esseri umani, tutelandone la sicurezza e ampliandone il campo delle possibilità esistenziali, per ciò stesso non vengono considerate generatrici di profitto dalla logica anti-umana del sistema tecnofinanziario. Siamo a tutti gli effetti di fronte a una mutazione che si fonda sulla ritrovata capacità delle leggi economiche e finanziarie di esercitare un dominio sulle procedure della politica. Detto in altri termini abbiamo assistito, e in parte stiamo ancora assistendo a un mondo che è cambiato in maniera sostanziale: poiché al suo interno non si opera più tenendo presente la centralità dell’essere umano e dei suoi bisogni (e interessi); ma si dà
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Manifesto per la Sinistra e l’Umanesimo sociale
per scontato che questi saranno armoniosamente realizzati e soddisfatti soltanto a patto di sottomettere gli uomini stessi a logiche impersonali e valori numerici e meccanici che sono quelli dettati dalle leggi dell’economia e della finanza. In questo senso, si dimostra ormai tutta l’obsolescenza della definizione che Popper forniva di «democrazia» (e che Bobbio fece sua), come quel sistema in cui i governanti possono essere liberamente messi in discussione e quindi sostituiti attraverso libere e generali elezioni: «Vi sono soltanto due tipi di istituzioni governative, quelle che prevedono un cambiamento di governo senza spargimento di sangue e quelle che non lo fanno […] Non abbiamo bisogno di litigare sulle parole e su pseudo problemi quali quelli intorno al vero o essenziale significato della parola “democrazia” […] Personalmente preferisco chiamare il tipo di governo che può essere rimosso senza violenza “democrazia” e l’altro “tirannia”». Nel nostro tempo, infatti, ci troviamo piuttosto di fronte a un terzo sistema di governo, in cui a fronte dello sciogliersi delle vecchie narrazioni ideologiche all’interno di un regno del virtuale e dell’indistinto, il cambiamento dei governi o dei partiti che si alternano alla guida dei governi stessi non muta una realtà sostanziale e immodificabile: quella per cui tali governi e partiti devono comunque realizzare un programma e delle misure economiche e sociali che sono sempre le stesse, ispirate a logiche e dinamiche imposte dalle istituzioni della finanza internazionale e da potenti lobby legate al mondo delle banche. In questo senso, stando alla definizione di Popper, ci troviamo di fronte a una forma di governo tirannico da parte della tecnofinanza: essa, infatti, è perfettamente in grado di imporre la realizzazione dei suoi dogmi a tutti i governi, compresi quelli che vengono eletti sulla base di un programma che a quei dogmi si oppone con forza. Di fatto, per usare le parole di Ulrich Beck, ci troviamo di fronte a un «meta-potere economico che il Capitale esercita nei confronti degli Stati», ovvero a una forma di «potere di nessuno», esercitato in maniera tale per cui a beneficiarne non sia la maggioranza di coloro che dovrebbero essere i destinatari naturali delle misure di governo: i cittadini.
Teologia economica ed eclissi della democrazia
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Possiamo descrivere la nuova dinamica dialettica attraverso una ulteriore coppia concettuale, che non si concentri tanto sugli attori della scena politica e sociale quanto piuttosto sulle mutate modalità attraverso cui la suddetta dinamica dialettica si declina nel nostro tempo. In questo modo, possiamo allora configurare e comprendere il passaggio epocale che stiamo tentando di descrivere attraverso una ulteriore metamorfosi. Quella per cui il mondo occidentale moderno era caratterizzato dall’interlocuzione dialettica (più o meno conflittuale) fra la «mano invisibile» (invisible hand) o «ordine spontaneo» (spontaneous order), tipici della dimensione economica, che si rapportavano con il potere visibile (visible power) rappresentato dalla dimensione genericamente ascrivibile all’ambito del Politico. Le due sfere, economica e politica, erano comunque distinte e con un potere differente di influenza sulla realtà sociale, che si declinava attraverso delle modalità il più delle volte conflittuali ma rispetto alle quali, soprattutto a partire dagli albori del XX secolo, la politica finiva col ritagliarsi l’ultima parola, o comunque quella decisiva. Oggigiorno, invece, la nuova dinamica dialettica vede come attori principali un «potere invisibile», vagamente ma chiaramente ascrivibile alle agenzie e istituzioni economico-finanziarie, e una «mano visibile» che è sì quella dei governi, che però sono perlopiù costretti a realizzare in maniera appunto visibile quei diktat che gli vengono imposti dai poteri invisibili. Da questo punto di vista, come da altri tipici di questa epoca, si può parlare eufemisticamente di un «arretramento della democrazia».
4. LA GALASSIA POST-DEMOCRATICA
In realtà, crediamo che possano sussistere ben pochi dubbi sul fatto che è perfettamente legittimo parlare di una nuova galassia «post-democratica», poiché a realizzare determinate misure politiche e sociali non sono dei parlamenti e dei governi che cercano per quanto possibile di attenersi al mandato popolare. Bensì dei governi che, quando anche eletti su mandato popolare (perché la cosa non è più così scontata), e con i parlamenti chiamati soltanto a ratificare dei decreti legge, sono vincolati ad attenersi al mandato e alle imposizioni delle grandi istituzioni sovranazionali di stampo finanziario. Occorre prendere atto, insomma, che di fatto la governance è di matrice economica (e quindi non è un governo politico), che per esempio in Europa è fondata su un marasma di trattati tecnicamente assai complicati (ruotanti attorno al fiscal compact) e praticamente non soltanto sottratti a ogni minima forma di consenso democratico e popolare, ma anche solo di interazione con l’opinione pubblica. Mandati e imposizioni che i centri e le agenzie economiche fanno calare a mo’ di manna sulle teste dei governi nazionali, ma che ovviamente non rispondono all’imperativo dell’interesse e del benessere sociale dei cittadini, bensì alla soddisfazioni di criteri, parametri e obiettivi che sono quelli rigorosamente ed esclusivamente dei mercati finanziari, nonché di logiche che, la cosa è sotto gli occhi di tutti, finiscono col produrre una disuguaglianza sempre più vergognosa e intollerabile nonché un malessere sociale ogni giorno più diffuso. Né può sorprendere più di tanto il fatto che questa epoca «postdemocratica» risulti essere il prodotto del ritorno prepotente dell’ideologia (e della prassi) liberista, i cui massimi esponenti,
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Manifesto per la Sinistra e l’Umanesimo sociale
pensiamo per esempio al premio Nobel per l’economia Friedrich A. von Hayek, si sono decisamente scagliati contro le moderne democrazie occidentali. Democrazie che, fondate sul principio del suffragio universale e quindi del massimo potere possibile da parte del popolo di scegliersi i propri governanti, hanno avuto soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale la «giustizia sociale» e la riduzione delle disuguaglianze sociali come stelle comete della propria azione politica. Obiettivi che il dogma liberista à la Hayek riteneva prodotti funesti di un «abuso della ragione», ovvero di un «costruttivismo» che non vuole tener conto del fatto che tanto la «legge» quanto la «società libera» sono il prodotto di un’evoluzione spontanea o di un ordine spontaneo che l’uomo non conosce e non può illudersi di governare. Ma di cui può soltanto facilitare i meccanismi di funzionamento, eliminando al massimo l’intrusione dei governi e della ragione politica in faccende che non li riguardano e di cui non devono occuparsi, se non al prezzo di una caduta nella democrazia totalitaria e nella schiavitù. Questo ritorno prepotente dell’ideologia liberista, e di governi che ad essa si sono ispirati smantellando lo stato sociale di stampo keynesiano e riportando le logiche e le leggi dell’economia al centro del proprio agire, è iniziato a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso (Hayek fu insignito del Premio Nobel nel 1974, Milton Friedman nel 1976).
5. DUE MOMENTI FONDAMENTALI
In questo inizio di XXI secolo, complice anche il tracollo dell’ideologia comunista e socialista (peraltro aggravata dall’opportunismo e dall’incapacità rigenerativa dei suoi organi dirigenti), il monoteismo del mercato è potuto assurgere al rango di Verbo unico e dominante sostanzialmente attraverso due momenti di un medesimo processo. Nel primo momento è avvenuta la conquista di quel vero e proprio bastione sul quale le democrazie occidentali avevano potuto contemplare (anche) delle politiche ispirate in qualche modo ai principi della giustizia sociale e del benessere collettivo. Stiamo parlando dello Stato. Il nemico di tutti i liberisti, l’istituzione ritenuta colpevole di frenare, con le sue leggi considerate alla stregua di dannosi impedimenti, il libero, armonioso e provvidenziale corso del mercato. Lo Stato, inteso quale istituzione governata da persone scelte dai cittadini sulla base del consenso a un programma condiviso, per buona parte della seconda metà del Novecento ha frenato gli eccessi e i deliri dell’ideologia liberista, consentendo l’assorbimento della disuguaglianza economica e la realizzazione di una ragionevole dinamicità sociale (contro i privilegi e le posizioni di rendita). Dopo il 1989, in maniera graduale e costante, lo Stato è divenuto terreno di conquista della teologia economica, fino al compimento e alla realizzazione di quello che oggi è un vero e proprio «statalismo capitalista». Ossia un potere invadente e invasivo dello Stato, ma non più finalizzato a contenere gli eccessi e i danni di un mercato lasciato alle sue leggi esclusive, bensì a smantellare i diritti politici e sociali dei cittadini, nonché quegli istituti che garantivano il
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controllo e l’intervento della dimensione politica su quella economica, rendendo possibile una ragionevole giustizia sociale. Sempre di più, nella nostra epoca infausta, lo Stato viene ridotto ad agente esecutivo dei dogmi tecno-finanziari, non facendosi scrupolo alcuno nel prendere misure che incidono sulla sfera personale dei cittadini e mortificano quella dei diritti politici e sociali degli stessi. In questo senso si è affermata quella «ragione governamentale» di cui parlava Foucault, consistente in una serie di procedimenti volti a dirigere la condotta degli uomini mediante l’amministrazione statuale. Si tratta ovviamente di una modalità di governo non in quanto istituzione, bensì come dinamica che mira a guidare (e controllare) la condotta degli uomini entro un quadro e mediante degli strumenti formalmente statali. Contemporaneamente a questo primo momento di graduale ma costante conquista del bastione statale, in perfetta coincidenza con i fondamenti anti-democratici messi in luce dalla teoria liberista (Hayek, Friedman, etc.), il sistema tecno-finanziario ha operato una lenta ma incisiva azione di depotenziamento e annullamento della democrazia come l’abbiamo conosciuta fino all’ultimo decennio del secolo scorso. Si tratta di un aspetto ben visibile agli occhi di chi ha l’intenzione e la possibilità di scorgere oltre la superficie del senso comune. Sempre di più, infatti, emerge uno scenario pressoché mondiale in cui sono le grandi istituzioni sovranazionali ed extra-politiche (FMI, Banca Mondiale, agenzie di rating, multinazionali, banche) a condizionare fortemente, quando non determinare indirettamente, leggi e misure messe in atto dai governi nazionali. Istituzioni capitanate da soggetti non eletti democraticamente, con i quali gli stati si trovano a stipulare accordi assai gravosi e impegnativi per i rispettivi cittadini, che spesso sono tenuti all’oscuro di quegli stessi accordi che pur andranno a incidere fortemente sulla qualità delle loro vite e sulla solidità dei loro diritti sociali. Il risultato finale è solo apparentemente paradossale, ma non per questo meno devastante.
Due momenti fondamentali
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Lo statalismo capitalista messo in atto dal sistema tecno-finanziario si rivela a tutti gli effetti quello in cui gli Stati utilizzano i soldi pubblici (frutto per buona parte delle tasse pagate dai cittadini) per salvare le banche dal tracollo, per alimentare il mercato e, tutt’al più, supportare e salvaguardare le grandi industrie nazionali (che poi delocalizzano la produzione, distruggendo la forza-lavoro). Esseri umani, cittadini, lavoratori, individui, ossia coloro che, stando alla più autorevole tradizione liberale, risultano come i veri ed effettivi titolari del patto sociale, non solo continuano ad essere utilizzati, strumentalizzati e spesso sfruttati (con sempre meno tutele e diritti) da un potere economico regolato da pochi vincoli, ma oggigiorno anche con la complicità fattiva di quello Stato che ormai solo formalmente è identificabile come un’emanazione dei cittadini stessi. Il tutto mentre il mainstream mediatico opera per diffondere l’ideologia dominante (ormai assurta al rango di pensiero unico) secondo cui tutto ciò è necessario.
6. TECNO-FINANZA: LA FUSIONE DI STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA
Questa «ibernazione» della democrazia è stata agevolata dall’operazione di fusione del momento strutturale (economia, produzione) con quello sovrastrutturale (ideologia, politica) operata di fatto dal sistema tecno-finanziario grazie all’ausilio imprescindibile delle nuove tecnologie mediatiche. Una fusione che, a ben guardare, si presenta a tutti gli effetti come una colonizzazione della dimensione ideologico-politica da parte dell’ideologia economica e del potere tecno-finanziario. In seguito al venir meno dell’ideologia comunista e socialista, in buona sostanza, il sistema tecno-finanziario (supportato da un pensiero dominante diffuso dai mass media del mainstream) si è lanciato in un’irrealistica ma convincente proclamazione della «fine delle ideologie», che ha ottenuto come risultato più sostanziale quello di lasciare campo aperto all’ideologia unica (e fagocitante) della teologia economica. Ciò ha prodotto sostanzialmente due effetti. Da una parte, il campo liberale ha visto un ritorno prepotente dell’ideologia liberista, perfettamente in grado di scalzare quella parte del liberalismo che, nel compromesso con le istanze socialiste e democratiche, aveva trovato un punto di incontro per il governo fruttuoso delle nazioni occidentali. Dall’altro, nel campo della sinistra ex o post comunista e socialista, ha prodotto una devastante incapacità di salvaguardare e difendere la parte migliore della propria tradizione (democrazia, uguaglianza, giustizia sociale, diritti universali del cittadino e della persona), a cui si è aggiunta una desolante incapacità di riconfigurare programmi e obiettivi proprio sulla base di quei risultati storici che la Sinistra ha rinnegato in blocco.
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Il risultato, da una parte, è stato quello di una Sinistra largamente maggioritaria che si è appiattita e genuflessa sulle posizioni di un nuovo liberalismo con sempre più forti connotazioni liberiste, mentre dall’altra alcune forze residuali del post comunismo e socialismo si sono formalmente (e sterilmente) aggrappate a princìpi, valori e (non) programmi ormai anacronistici, irrealistici a fronte del contesto storico profondamente mutato. Complessivamente, il dato più evidente è stato quello di una Sinistra che non ha saputo minimamente ricostruirsi, elaborando una analisi socio economica e politica, nonché un manifesto programmatico (e persino un nuovo orizzonte di senso, un nuovo sogno) che fossero adatti a comprendere e orientare tempi e contesti radicalmente mutati. Conquista dello Stato e ibernazione della democrazia, sostituiti dal governo diretto della teologia economica, sono due fenomeni che, ancora una volta, vengono efficacemente rappresentati (e agevolati) dall’invenzione tecnologica più importante del nostro tempo. La Rete. Essa rappresenta quel mondo perfetto agognato dai liberisti di ogni tempo. La società in Rete, in questo senso, si rivela a tutti gli effetti come società dello spettacolo a uno stadio perfettamente compiuto. In Rete non v’è traccia alcuna dello Stato ma neppure delle leggi. E ridotte al minimo sono persino le norme di condotta generale, peraltro facilmente eludibili. Dall’altra parte essa, la Rete, è impregnata di meccanismi e dinamiche tipicamente concorrenziali, commerciali, anarco-capitalistiche. Quella che viene prosaicamente (e furbescamente) descritta come il regno della libertà, a ben guardare si rivela come la dimensione per antonomasia dell’anarchia. Quell’anarchia agognata dai liberisti, dove a fronte dell’assenza pressoché totale di un potere politico e di leggi certe, i flussi finanziari, la concorrenza esasperata e l’individualismo più egoistico sono totalmente liberi di permeare ogni singolo bit, producendo come effetto di ritorno la diffusione di una mentalità ge-
Tecno-finanza: la fusione di struttura e sovrastruttura
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neralizzata sempre più incline a prediligere (e riprodurre) anche nella società reale le dinamiche e i meccanismi della dimensione virtuale. Il fatto è che l’anarchia, a differenza della libertà (che non può esistere né essere veramente tale, se non all’interno di un sistema di leggi e norme stabilite da istituzioni che sono state deputate a ciò dal consenso popolare), è quel regno in cui a trionfare non sono i migliori, bensì i più forti. Gli Stati moderni sono nati sulla base del motto «bisogna uscire dalla natura», ossia da quello stato naturale in cui avviene la guerra di tutti contro tutti a totale discapito di una qualsivoglia parvenza di bene comune. Da questo punto di vista, il sistema capitalistico giunto nella sua fase tecno-finanziaria rappresenta una regressione evidente a tutti i livelli: regressione politica, regressione dei diritti, ma anche regressione culturale, considerando i notevoli effetti di degradazione e impoverimento cognitivo, culturale ed etico prodotti dalle nuove e pervasive tecnologie mediatiche. Non è un caso, o comunque si rivela funzionale al disegno di insieme che stiamo tentando di tracciare, il fatto (unico?) per cui ci troviamo di fronte a una delle più importanti invenzioni partorite dalla mente umana, ma per la quale non è stato previsto alcun momento formativo e soprattutto educativo. Le nuove e nuovissime generazioni (net-generation) si trovano di fatto ad utilizzare, esperire, vivere la dimensione virtuale proprio nell’età più delicata per la crescita e la formazione individuale. La logica, l’etica, le modalità di relazione interpersonale e in generale i meccanismi di funzionamento della «vita» all’interno della Rete, vengono introiettate e assorbite nella pressoché totale assenza di filtri qualitativi, di una pedagogia tecnologica, di una formazione atta a mantenere il pensiero autonomo e critico degli individui. Quel pensiero autonomo e critico che non soltanto serve a non identificare automaticamente i contenuti mediatici con la verità, ma che soprattutto si rivela fondamentale per distinguere la realtà virtuale (e filtrata) da quella dell’esperienza reale, sapendo
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che è rispetto a quest’ultima che possiamo e dobbiamo ritagliarci un ruolo attivo e trasformativo (possibilmente non distratti dalle sirene fascinose ma sterilizzanti della prima). Secondo i canoni, i bisogni e le modalità umane, che sono assai diversi da quelli con cui funzionano le macchine. Eppure, a causa del fatto che sempre più utilizziamo il filtro o il veicolo delle macchine stesse (per conoscere, per giocare, per incontrare persone, per informarci, per fare esperienza del mondo circostante), il rischio di de-umanizzarci e appiattirci sul modo di funzionare di quelle macchine si rivela altissimo, specie in assenza di una corretta formazione ed educazione al loro utilizzo. Quelle macchine, sapientemente programmate, parlano il linguaggio dell’economia, esemplificando un mondo dove non v’è lo Stato, non la «politica» nel senso alto del termine, non l’etica né il pensiero individuale autonomo e critico. La Rete, ad oggi, questa tecnologia in tal modo concepita, si rivela lo strumento più potente di diffusione e affermazione della logica quantitativa e numerica, dell’ignoranza informata (siamo informati su tutto senza sapere nulla, o poco in effetti), di individui omologati e atomizzati facilmente trasformabili in lavoratori, produttori e utenti passivi (purché non «uomini», nel senso umanistico e illuministico del termine). All’atto pratico, il più efficace e influente alleato della teologia economica, quello che gli ha consentito di trasfigurare (e dominare) politica e cultura, riconfigurandole nei termini di quella logica della quantità e della commercialità per cui non sono più in grado (per mancanza di strumenti critici, oltre che economici) neppure di pensare un sistema alternativo.
7. SINISTRA/DESTRA: ATTUALITÀ DI UNA DISTINZIONE
Con il superamento della distinzione fra struttura e sovrastruttura, il sistema tecno-finanziario è riuscito nell’impresa finale di colonizzare e subordinare l’intero campo dell’umano. Prendere atto di questi due dati fondamentali, da parte di una Sinistra moderna e seriamente intenzionata a governare, significa comprendere la necessità di elaborare due questioni conseguenti e sostanziali. La prima è che essa deve impegnarsi, in sede teorica e pratica, a un posizionamento dell’essere umano stesso al centro del proprio pensare e agire la politica e la società odierna. Ma non un essere umano genericamente inteso, poiché ciò sarebbe idealistico e sterile, bensì quel soggetto fondamentale della Storia che, se vuole tornare a essere protagonista del mondo che abita, necessita di un terreno in cui il pensiero critico e autonomo, la cultura, il lavoro come diritto da tutelare, la giustizia sociale e la logica quantitativa tornino ad essere delle questioni su cui impegnare direttamente la macchina governativa. Insomma, l’uomo produttore, utente e consumatore deve tornare ad essere un mezzo per la piena realizzazione dell’uomo pensante, lavoratore e desiderante, allo stesso modo in cui la produzione, il profitto, lo Stato e il diritto devono tornare a essere concepiti (e utilizzati) come strumenti in vista del benessere individuale e collettivo degli uomini e dei cittadini. Contemporaneamente, una Sinistra capace di aggiornarsi rispetto ai tempi e contesti mutati (con relativi rapporti di forza), deve spogliarsi di quel determinismo economico (o meccanicismo) in base al quale ritenere che le contraddizioni in seno al sistema capitalistico porteranno quest’ultimo a un tracollo inevitabile, seppure in tempi lontani.
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Non soltanto la Storia ci ha insegnato che il capitalismo non crolla sotto il peso delle proprie contraddizioni, essendo capace di rinnovarsi continuamente assorbendo quelle stesse contraddizioni e disinnescando le armi dei suoi veri o presunti oppositori. Ma al giorno d’oggi vediamo che esso ha saputo estendere la propria regione di influenza ben oltre la dimensione ristretta dell’economia, colonizzando e destituendo di fatto tanto la dimensione della politica quanto quella della cultura. Imponendosi, con l’ausilio della tecnologia e di un sistema mediatico mainstream mai così potente, a guisa non solo di ideologia dominante, ma di pensiero unico e necessario. Quindi indiscutibile e impossibile da sostituire con una valida alternativa. Ecco perché non si tratta, con l’Umanesimo sociale, di abbattere il capitalismo o l’economia di mercato, operazione storicamente fallimentare e velleitaria (alla luce dell’assenza di proposte alternative concrete), bensì di guidarne quanto più possibile scopi e dinamiche in vista di un ritorno alla centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, nonché all’affermazione della giustizia sociale. Il capolavoro ideologico che ha segnato non tanto la sconfitta della Sinistra, quanto la sua incapacità e impossibilità a rinnovarsi sulla base di alcuni fondamenti da non rinnegare, è avvenuto quando al proclama sulla «fine delle ideologie» (che in realtà ha ottenuto il risultato di lasciare campo esclusivo all’ideologia unica e fagocitante della teologia economica), si è aggiunto quello del «superamento della dicotomia Destra/Sinistra» (che ha mortificato e annichilito sul nascere anche la più piccola intenzione di elaborare una mappa concettuale politica alternativa al fondamentalismo economico). Questa tesi, bizzarra e sterile, del superamento della distinzione fra Destra e Sinistra, in realtà ha potuto ammantarsi di una qualche credibilità, e quindi di godere di un certo riscontro, soltanto in seguito a un’incomprensione di fondo. Tale incomprensione di fondo concerne il presunto «fallimento» della sinistra comunista e socialista. A tirare in ballo la categoria di fallimento, fino ad imporla al livello di senso comune diffuso presso l’opinione pubblica, è stata l’ideologia dominante liberale, uscita chiaramente vincitrice dal secolare confronto.
Sinistra/destra: attualità di una distinzione
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Utilizzare questa categoria, ha avuto come effetto immediato quello identificare la tradizione filosofico-politica che in qualche modo ha contrastato il sistema liberale con l’incarnazione del male. Nulla di buono sarebbe stato da essa partorito, nessun risultato in favore della democrazia e della libertà, nessun contributo all’emancipazione di uomini e donne nonché alla costruzione delle democrazie occidentali come le abbiamo conosciute fino alla fine del secolo scorso. Un fallimento, appunto. Totale e inappellabile. Sennonché, da uno studio più obiettivo e meno ideologico della Storia, emerge chiaramente come si debba parlare piuttosto di una «sconfitta» da parte della tradizione socialista e comunista. Sconfitta indubitabile e meritata, anche in seguito a errori enormi e carichi di sangue. Ma pur sempre sconfitta. Essere sconfitti non significa incarnare il male, semmai risultare più deboli e incapaci. Ma soprattutto, uscire sconfitti non implica che le proprie istanze, i propri valori come anche i programmi, non abbiano trovato alcuna affermazione concreta nel corso dello scontro secolare. Le democrazie occidentali del trentennio d’oro (1945-1975), caratterizzate dal suffragio universale, dalla proclamazione dei diritti universali dell’uomo, dallo statuto dei lavoratori, dallo stato sociale e, in generale, da un intervento importante della politica sulla sfera economica, sarebbero incomprensibili senza tenere presente che tutte le caratteristiche suddette hanno rappresentato un portato (e una conquista) resi possibili anche e specialmente dalla lotta socialista e comunista. Quello tra sistema liberale e capitalistico da una parte e sistema socialista e comunista dall’altra, è stato a tutti gli effetti uno scontro dialettico, in cui le istanze e i valori dell’uno si sono incrociati con quelli dell’altro per dare vita a un sistema misto. Certo, sarebbe scorretto e anche sciocco negare che la parte preponderante, nella definizione delle democrazie occidentali, è stata giocata dalla tradizione liberale, uscita obiettivamente vincente nel confronto con la parte avversa.
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Però si è trattato di un liberalismo, e quindi di governi che a tale teoria si richiamavano, in cui ha prevalso la parte democratica e interventista su quella conservatrice e liberista. Anche grazie al confronto dialettico con le istanze socialiste e democratiche, insomma, ha potuto prevalere un liberalismo (Keynes, Rawls, Popper) che ha saputo conciliare quelle stesse istanze con i capisaldi principali e più riformisti della propria tradizione. Il punto, semmai, è che nel nostro tempo è tornato a prevalere quell’altro liberalismo che, ispirandosi ad autori come Mises, Hayek, Friedman e Rothbard, sta riaffermando il prevalere delle leggi economiche su quelle politiche, smantellando lo stato sociale di ispirazione keynesiana e rimettendo in discussione quei diritti politici e sociali conquistati a fatica nel Novecento. Ma torniamo al discorso principale. L’ideologia dominante della teologia economica, riuscendo ad affermare l’idea comune per cui la tradizione social-comunista ha rappresentato tutto il male della Storia, andando inevitabilmente incontro al meritato e sonoro fallimento, ha in questo modo potuto decretare la fine della storia stessa. Da una parte, questa la tesi di fondo ripetuta come un mantra, il comunismo ha fallito, e con esso sono fallite tutte le idee e le conquiste elaborate e conseguite nel corso della sua vicenda. Dall’altra il liberalismo ha trionfato affermando esclusivamente i propri valori che, soli, hanno modellato le democrazie occidentali, felicemente (e fortunatamente) scampate al fallimento del comunismo. Ora che il comunismo è fallito e il liberalismo ha trionfato, la Storia è come se fosse finita, rendendo obsoleta la distinzione fra Destra e Sinistra in un mondo ormai dominato dal pensiero unico della teologia economica. Se ci si riflette bene, questa del superamento della dicotomia Destra/Sinistra appare una teoria oltremodo funzionale a chi, decretando la fine delle ideologie, di fatto è riuscito ad affermare l’esistenza e la dignità di un’ideologia sola, peraltro poco propensa a contemplare la compresenza di altre. Il problema più serio è consistito nel fatto che questa operazione, al tempo stesso ideologica e di revisionismo storico, ha
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ottenuto un notevole successo tra le stesse forze della Sinistra, portandole per reazione o a rinnegare tutto il proprio passato, per di più rinunciando a priori anche solo a elaborare un nuovo manifesto programmatico alternativo al neo-liberismo, o ad aggrapparsi a ideali, valori e scopi ormai anacronistici e del tutto velleitari per un contesto storico-sociale profondamente mutato. Se si pensa che la Storia è finita, perché un modello è risultato vincente al punto da rivelarsi come il modello politico-sociale perfetto, senza riconoscere alla parte avversa l’aver contribuito in alcun modo alla costruzione delle democrazie occidentali, è ragionevole dedurne l’opportunità di chiudere baracca e burattini. Preso atto del sistema perfetto o comunque largamente migliore (il liberalismo), può risultare soltanto dannoso anche solo immaginare una teoria e prassi politica alternativa, o che comunque si fondi su una forte critica dell’impianto liberale. Tale lettura si basa su un’interpretazione riduttiva e manichea del liberalismo, come se esso fosse un’ideologia politica monolitica e coerente. Ma liberali, tanto per stare alla seconda metà del Novecento, lo erano Popper e Rawls (che si pronunciavano in favore del suffragio universale, del controllo della politica sull’economia, dell’uguaglianza di opportunità e della giustizia sociale), ma anche Hayek e Friedman (che si pronunciavano per una forte limitazione del diritto di voto, per il non intervento della politica sulle questioni economiche e, in generale, contro tutte quelle misure ispirate a criteri di giustizia sociale e uguaglianza). A partire dagli anni Settanta del Novecento, è stato il secondo liberalismo a prevalere e orientare fortemente le politiche sociali dei governi occidentali, per cui arrendersi o rassegnarsi al modello perfetto (e ormai unico e indiscutibile) uscito vincente dalla Storia, ha comportato arrendersi e rassegnarsi al secondo tipo di liberalismo. Fine della storia, fine delle ideologie, superamento o anacronismo della dicotomia Destra/Sinistra, da questo punto di vista si rivelano come delle interpretazioni, o teorie del tempo presente, perfettamente funzionali all’affermazione del sistema tecno-
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finanziario quale ragione unica e prassi esclusiva della nostra epoca. Il guaio è stato che la Sinistra, almeno nella sua larga maggioranza, si è convinta essa per prima della veridicità e pertinenza di tali teorie, rinunciando a priori (per opportunismo e incompetenza delle sue classi dirigenti e intellettuali) alla fatica del concetto (per elaborare una nuova teoria in grado di decifrare e analizzare le nuove contraddizioni del tempo presente) nonché al coraggio della prassi (per rappresentare e difendere le istanze delle categorie sociali più deboli, per contestare il regime disumano imposto dalla teologia economica e lavorare in vista di una piena democrazia ed emancipazione dell’essere umano in quanto tale).
8. IL RITORNO DELL’UOMO: TEORIA E PRASSI DELL’UMANESIMO SOCIALE
Il sistema da combattere è quello che abbiamo chiamato «tecno-finanziario», prodotto di una fervida alleanza tra economia e tecnica che ha consentito al sistema stesso di colonizzare e dominare tutto il campo dell’umano esistere. Riducendolo a strumento dei propri scopi e valori. L’ideologia di fondo del sistema tecno-finanziario è quella che abbiamo individuato come «teologia economica». Essa consiste in buona sostanza nell’affermazione del Mercato quale entità divina e provvidenziale, i cui dogmi devono essere promossi (e rispettati) a guisa di leggi naturali e religiose. La prassi fondamentale del sistema consiste in quello che è stato chiamato «fondamentalismo del mercato», che all’atto pratico si è tradotto in un dominio a tutti i livelli dell’economia sulla politica. Logica quantitativa, saldi di bilancio, numeri e leggi meccaniche, automatiche e impersonali sono stati eletti ed affermati a cifre portanti dell’umano esistere nella sua interezza, tanto in ambito individuale quanto in ambito sociale. Tanto in quello personale quanto in quello professionale. La politica, intesa quale dimensione in cui l’essere umano ricerca ed afferma i propri valori, le proprie idee e la propria conoscenza, traducendole in un’etica e una prassi validi anche in ambito sociale, quella politica che trova il proprio momento più alto ed esecutivo nello Stato («res publica»), è stata trasformata in una mera agenzia di esecuzione di quegli stessi dogmi (e diktat) elaborati dagli istituti economici sovranazionali non democraticamente eletti da alcuno. Vittima fondamentale del sistema tecno-finanziario, senza troppi giri di parole o sottigliezze interpretative, è l’essere umano in quanto tale.
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Politica, cultura, sessualità, religione, istruzione, informazione, in pratica ogni ambito che differenzia l’uomo dalle macchine e dai numeri, dall’automazione e dalla meccanizzazione, ogni sua caratteristica precipua che lo identifica quale essere pensante, lavorante e desiderante, sono state tutte colonizzate ed egemonizzate dalla teologia economica, che in questo senso non ha più bisogno di una sovrastruttura ideologica che supporti e giustifichi la struttura economica. Ogni campo dell’umano è diventato economia ed è chiamato a sottomettersi ai suoi dogmi e ai suoi modi di funzionare. In vista di scopi che sono solo ed esclusivamente quelli economici, a beneficio di una porzione sempre più ridotta di umanità. Un’umanità i cui membri hanno smarrito la propria personalità e individualità, per trasformarsi lentamente, prendendo a prestito le parole di Dostoevskij, in «tasti di pianoforte o di una puntina d’organetto». Mentre è il sistema tecno-finanziario a suonare la musica per questa «umanità decomposta in monadi» (Engels), a cui non resta altra possibilità che eseguire la sua danza macabra. Per contrastare questa deriva anti-umana, occorre una Sinistra che rielabori il proprio bagaglio programmatico, declinandolo secondo il principio sostanziale dell’Umanesimo sociale. Riportare l’uomo al centro della scena politica nonché degli scopi e valori di ogni agire sociale. Definire un programma in cui tornino ad essere imprescindibili la formazione e la cultura, il pensiero critico e autonomo, i diritti sociali e le pari opportunità per uomini e donne di ogni grado e posizione di realizzare al meglio la propria persona e il proprio talento, all’interno di una società che sappia riconoscere e valorizzare ingegni e meriti senza abbandonare coloro che per le ragioni più varie restano indietro. La realizzazione a livello sociale di un tale programma, dovrà passare per una rivoluzione culturale e valoriale che sia in grado di ridefinire i valori e gli scopi per i quali funziona una società umana. La crescita e il benessere individuali, certo, il profitto e in generale la ricerca del benessere esistenziale, ma il tutto all’in-
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terno di un sistema che, per quanto possibile, riconosca le pari opportunità di partenza per tutti, uno stato sociale che tuteli e protegga coloro che non ce la fanno o restano indietro, una tassazione progressiva che agevoli la ragionevole redistribuzione delle ricchezze. Si tratta, in buona sostanza, di sostituire il paradigma del capitale umano (l’uomo strumento per fini economici) con quello dello sviluppo umano (l’essere umano fine di ogni agire sociale). E soprattutto, l’Umanesimo sociale dovrà lavorare per ricostituire in forma aggiornata la piena democrazia politica. Le leggi, e in genere le politiche sociali, dovranno tornare ad essere stabilite da governi rigorosamente e regolarmente eletti dal popolo. Rappresentanti e artefici dei suoi bisogni e dei suoi interessi, delle sue preferenze e deliberazioni elettorali. Economia e finanza, fermo restando che ad oggi non siamo stati in grado di concepire un sistema alternativo a quello del libero mercato, dovranno comunque funzionare liberamente ma sotto la guida e il controllo della sfera politica, a cui spetterà il compito di farsi carico direttamente di tutte quegli ambiti sociali che, per sua natura, il mercato abbandona a se stessi non ritenendoli generatori di profitto. Sarà necessario evitare idealismi, illusioni di generare la società perfetta e priva di contraddizioni e contrasti, escatologismi e velleitarismi. Nulla avverrà necessariamente e automaticamente. Nessun sistema crollerà da solo sotto il peso delle proprie contraddizioni. Occorrerà un duro lavoro teorico e un costante impegno politico per tentare, quanto più possibile, di riconfigurare le società umane secondo i principi della democrazia e della centralità dell’essere umano. In una parola, secondo i principi dell’Umanesimo sociale. La realizzabilità di un tale programma non potrà né dovrà contemplare alcuna forma di violenza o sacrificio umano preventivamente stabiliti. Certo, occorre essere realistici e sapere che l’ideologia dominante non si lascerà togliere il potere senza mettere in atto delle forme di resistenza probabilmente anche strenui.
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Ma il terreno di azione dell’Umanesimo sociale è quello della democrazia e del consenso popolare, per cui le nostre armi dovranno essere le idee, la coesione, l’efficacia comunicativa e la preparazione nonché l’onestà di coloro che sottoporremo al giudizio degli elettori. La strada per la realizzazione del nostro programma deve passare invariabilmente per la vittoria di libere e generali elezioni, attraverso il consenso che i nostri propositi, chiaramente esposti, sapranno conquistare presso gli elettori. I fautori dell’Umanesimo sociale, proprio in quanto oppositori strenui e convinti della teologia economica, non dovranno cadere nell’errore storico di teologizzare a propria volta le loro idee e i loro obiettivi. Non siamo portatori di alcuna Verità che, in quanto tale, dovrà necessariamente affermarsi a livello storico e politico. Nessun Dio ci guarda dall’alto e nessun testo sacro certifica dei dogmi ai quali attenersi con disciplina ferrea e acritica. Soprattutto, nessun essere umano può essere sacrificabile in vista del raggiungimento dei nostri obiettivi. Chi non condivide le nostre idee e i nostri propositi non è un infedele o un nemico da eliminare, ma soltanto un avversario da sconfiggere sul terreno dell’elaborazione ideologica e della prassi politica. I nostri fari principali sono l’essere umano e una politica che sia in grado di costruire un ambiente in cui il numero più grande possibile di esseri umani riesca a crescere, emanciparsi e realizzarsi in un contesto di libertà e uguaglianza. L’Umanesimo sociale ha un’idea della politica come terreno di impegno e azione in favore dell’emancipazione umana, non come agone in cui affermare la propria forza e il proprio dominio. Da questo punto di vista non possiamo escludere a priori che vi siano o vi saranno altre idee politiche in grado di realizzare meglio di noi (o in maniera diversa dalla nostra) gli obiettivi che stanno a fondamento del nostro impegno. In questo senso, sarà fondamentale ricercare sempre e comunque un dialogo proficuo con tutte quelle forze politiche che si oppongono al predominio della teologia economica e che portano avanti un’idea di società come luogo in cui l’uo-
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mo è il fine e non un mezzo per la realizzazione di scopi estranei ai suoi bisogni. Un dialogo con tutte quelle forze che si fanno rappresentanti delle istanze e dei bisogni del popolo, evitando atteggiamenti complici (o peggio sottomessi) rispetto ai poteri forti e alle aristocrazie o caste di qualunque genere. L’Umanesimo sociale si considera come un paradigma che può e deve essere fatto proprio dalla Sinistra, poiché ritiene che la distinzione con la Destra sia attuale e dirimente, così come che i propri fondamenti ideologici sono inseriti in quel contesto teorico e valoriale. È questa l’epoca in cui a esser venuta meno non è la distinzione fra destra e sinistra, di cui vanno sciaguratamente parlando i sacerdoti (consapevoli e non) del nuovo ordine post-democratico. Quanto piuttosto l’attualità e la capacità incisiva di una Sinistra che è ferma al XX secolo, ossia a dinamiche e programmi, forme di rappresentanza e di gestione del conflitto sociale che non corrispondono più alla nuova galassia odierna. Ovvero a tempi, spazi e costellazioni profondamente mutati La Destra, oggigiorno, o si fa promotrice della teologia economica e di una visione per cui libero mercato (con conseguente riduzione ai minimi termini dell’intervento statale), profitto, concorrenza e individualismo egoistico rappresentano le stelle comete della vicenda umana (destra economica e tecnocratica); oppure tende a portare avanti una visione gerarchica (non senza venature populistiche) dell’umanità, per cui l’immigrato, l’omosessuale, chi non si conforma ai valori e ai costumi del senso comune, il diverso in genere, sono tutte figure rispetto alle quali limitare il normale riconoscimento dei diritti riconosciuti e riservati agli altri (destra populistica). Compito della Sinistra, allora, è quello di ricostruire una cultura generale (e una società) in cui la ragione politica (umana) freni e governi gli eccessi della ragione economica, ma anche quello di affermare quanto più possibile (senza idealismi, estremismi o velleitarismi di sorta), tanto a livello di opinione pubblica quanto di azione politica concreta, una concezione universale dell’uomo, in base alla quale l’essere umano viene tutelato e supportato
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a prescindere dal colore della sua pelle, dal censo, dalle convinzioni religiose, dal genere sessuale, dall’etnia etc.. L’Umanesimo sociale non cade nell’errore grossolano e funzionale al sistema tecno-finanziario di ritenere superata la distinzione Destra/Sinistra, ben sapendo che tale distinzione è nei fatti, e compito di una forza politica seria (nonché realisticamente e realmente impegnata a modificare i rapporti di forza in essere) è proprio quello di lavorare su questa distinzione, riempiendola di contenuti ovviamente mutati e rinnovati rispetto al contesto storico. Il vecchio mondo industriale ha lasciato il posto a quello nuovo della società in Rete, senza che le classi dirigenti della sinistra culturale e politica siano riuscite ad elaborare un nuovo manifesto programmatico, con una nuova bussola e una nuova rotta adatti ai tempi mutati. Lasciandosi alle spalle gli errori, le storture e gli anacronismi di una Sinistra non più attuale, ma conservando e rinnovando quelle letture e istanze che hanno permesso alla Sinistra storica di incidere sul reale e plasmare le democrazie occidentali. L’epoca in cui siamo informati su tutto ma non conosciamo nulla, l’epoca del post-pensiero, della presunta fine del lavoro, dello smantellamento dei diritti sociali, della mortificazione della cultura e della maledizione dell’idea stessa di una giustizia sociale. Questo è il nuovo mare in cui la sinistra si trova a navigare, e per il quale occorrono nuovi strumenti e nuove destinazioni. Certo, la distinzione in classi sociali, e quindi la lotta di classe, è un tema che conserva la sua attualità, ma che non può essere considerato il terreno esclusivo della rinnovata azione politica. La difesa dei più deboli, come anche l’affermazione di un modello di società più equa e proiettata sui bisogni e le istanze degli esseri umani, passa oggigiorno per l’individuazione di contraddizioni e l’elaborazione di programmi sociali in grado di rivalutare l’istruzione, il lavoro e i diritti dell’uomo in quanto tale. Uomo inteso come fine dell’agire sociale e non come mezzo per il funzionamento dei meccanismi meccanici, impersonali e quantitativi propri del sistema tecno-finanziario. In tal senso, il dialogo e perfino l’alleanza programmatica e politica dovranno e potranno essere fecondi con tutte quelle forze
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politiche e istituzioni che riservano all’essere umano e alla giustizia sociale un posto centrale e imprescindibile all’interno del proprio orizzonte. Apparentemente manichea o generica, la distinzione fra ciò che opera contro l’essere umano o a favore della sua emancipazione, si rivela in realtà fondamentale e complessa, poiché la nostra è l’epoca in cui l’alleanza fra tecnica ed economia (guidata dai pochi che ne detengono la proprietà, il potere o il controllo) ha sferrato l’attacco finale e totale (e per ora vincente) contro un obiettivo unico ed essenziale: l’essere umano. Operare a favore di esso, tanto in termini di emancipazione individuale quanto di giustizia sociale, perché l’assenza di un ambiente sociale che garantisca la seconda rende sterile anche il primo obiettivo, significa assumersi un compito culturale e politico oltremodo complesso e articolato. Non soltanto perché il fine è quanto di più importante vi possa essere per cui battersi (l’essere umano), ma perché tutto ciò che nella nostra epoca opera per ridurlo a mezzo passivo (e sfruttabile) si rivela un avversario straordinariamente vincente (e influente) a più livelli. Tanto nella struttura economica, dove la produzione e il progresso non sono più per l’uomo ma per mezzo di esso, quanto nella sovrastruttura ideologica e culturale, dove l’enorme e pervasiva cassa di risonanza del mainstream mediatico sta affermando un sapere e un pensiero di cui l’uomo non è titolare bensì semplice utente. Preso atto di ciò, una Sinistra che sappia farsi carico dell’«Umanesimo sociale», dovrà essere ben consapevole di alcuni punti imprescindibili. Innanzitutto bisogna lavorare a tutti i livelli su un programma (quello dell’Umanesimo sociale) che unisca le tante anime della Sinistra stessa. Queste ultime, divise e arroccate su principi sterili, quando non su personalismi e minime posizioni di rendita, così facendo risultano fastidiosamente inefficaci e persino funzionali al sistema tecno-finanziario (che in questo modo può dire di contemplare una o persino più opposizioni al proprio interno, quando in
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realtà non si scorge all’orizzonte la minima proposta alternativa di una qualche credibilità). Tale divisione, storica e atavica, è sostanzialmente prodotta da un arroccamento ormai anacronistico su distinzioni ideologiche buone per i secoli scorsi. Le grandi famiglie ideologiche e politiche che, a vario titolo, si richiamano alla Sinistra (teorie e concetti su cui ci si divide e ci si combatte sono storicamente molteplici), con relative icone dei filosofi e ideologi di riferimento, hanno rappresentato dei riferimenti positivi e fecondi per le democrazie occidentali (malgrado errori ed eccessi in alcuni casi anche drammatici). Ma oggi, oltre a non rispondere più alle contraddizioni e alle istanze del mutato e complesso tempo presente, risultano buone soltanto a provocare conflitti, divisioni e disaffezione nell’ambito di una Sinistra che, invece, anche a fronte del compito immane di cui abbiamo detto sopra, è chiamata a riscoprire unità di intenti e coesione organizzativa. Inutile girarci intorno: al contrario di quanto annunciato in pompa magna dalle sirene del post-modernismo (movimento culturale al tempo stesso figlio del e funzionale al sistema tecnofinanziario), è necessario che la Sinistra riscopra l’importanza di organizzarsi intorno a un partito politico. Che non sia «personale» (e quindi che non muoia coi suoi leader), e che possa impegnarsi radicalmente sull’unico terreno realmente praticabile per spezzare le catene del fondamentalismo mercatistico: quello del consenso politico ed elettorale. Infine, ma non meno importante, è necessario sapere che senza una comune riconfigurazione teorica e riorganizzazione pratica delle analisi e degli obiettivi da raggiungere, l’obiettivo finale non potrà mai neppure essere avvicinato. Non si tratta soltanto di fare proprio l’insegnamento gramsciano, per cui teoria e prassi devono procedere di pari passo (la prima è sterile senza la seconda, almeno quanto la seconda è cieca senza la prima, e quindi esposta ai pruriti o agli interessi del leader carismatico di turno), ma di comprendere che il sistema tecno-finanziario con i suoi dogmi, opera e predomina all’interno di entrambe le dimensioni.
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In conseguenza di ciò, un movimento o partito politico che non sappia farsi portatore di una contro-cultura, e che quindi non abbia saputo rintracciare nuovi fondamenti teorici sul terreno faticoso del concetto, non avrà speranza alcuna di raccogliere quel consenso politico e sociale necessario anche solo per contrastare realisticamente il sistema attualmente dominante. Sotto tutti questi punti di vista, l’«Umanesimo sociale» può rappresentare un collante insostituibile su cui costruire una controcultura e organizzare una contro-politica realisticamente impegnata a controllare e governare l’economia e, così facendo, rimettere l’essere umano e la giustizia sociale al centro della Storia. «Essere umano» è il paradigma in cui si ritrovano tutti i grandi concetti politici dell’epoca moderna e contemporanea. Capitalismo, individualismo, classi sociali, libertà, rivoluzione, profitto, progresso, conflitto, sono tutti concetti declinabili in maniera difforme e contrastante. Ma soprattutto, in questo tempo in cui a prevalere è la teologia economica portata avanti dal sistema tecno-finanziario, risultano essere concetti anacronistici e sterili, non in grado di permettere una comprensione del contesto storico-sociale né una reale azione sui rapporti di forza vigenti. Il vero punto di discrimine, in grado di fornire senso e futuro a una realistica teoria e prassi politica finalizzate all’emancipazione umana, è dato dallo stabilire se l’essere umano ne è il soggetto o l’oggetto, il fine o il mezzo, l’unità di misura o un’entità misurabile. Consapevole di ciò, l’Umanesimo sociale si fonda sulla centralità di un essere umano il cui pensiero sia autonomo e critico, e quindi la sua adesione a tale progetto politico sia consapevole e finalizzata all’estensione della sua libertà e del suo benessere. L’Umanesimo sociale non intende affermarsi a guisa di una nuova religione, fondandosi su dogmi terreni a cui un «uomo religioso» deve votarsi in maniera cieca e fideistica, spogliandosi della propria libertà e autonomia in cambio di promesse escatologiche di alcun tipo. Il suo fondamento è razionale, e quindi promuove e richiede individui che intendano e sappiano far uso della propria ragione
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per costruire una società al cui centro vi sia l’essere umano, con le sue passioni e i suoi bisogni. Di qui l’interesse e l’impegno dell’Umanesimo sociale per una sostanziale rivalutazione, a livello sociale, del sapere e dell’istruzione, della corretta informazione e della formazione di individui quanto più possibile preparati a leggere e decifrare il proprio tempo, nonché ad agire sulle contraddizioni che esso di volta in volta si trova a manifestare. Un essere umano che sia soggetto e progetto di ogni agire sociale, non oggetto e strumento della teologia economica. Essa è una specie di fondamentalismo mondano, che richiede servi e strumenti per la realizzazione di scopi anti-umani, dietro la promessa di chimere irrealizzabili e funeste, come il progresso infinito e l’arricchimento individuale consentito a tutti. Chimere in nome della quali sacrificare, qui ed ora, l’essere umano e le sue specificità. L’Umanesimo sociale vi si oppone frontalmente, con lo scopo di costruire una società in cui sia protagonista la ragione politica dell’uomo e non la tecnica finanziaria delle agenzie impersonali. Una società in cui costruire giorno per giorno, con passione durevole e ragione critica, un ambiente umano fondato sulla giustizia sociale e sulla libertà individuale e collettiva. Libertà impossibile da realizzare se non supportata dall’ideale dell’uguaglianza, perché l’Umanesimo sociale è consapevole che non è possibile realizzare alcuna politica emancipativa se non in un contesto democratico e sociale, in cui la libertà individuale contempli e implichi la libertà universale e quest’ultima sia in grado di declinarsi sul piano concreto della prima. Questa epoca, la nostra epoca, ci pone di fronte a ciò e non ad altro. La scelta è netta, irrinunciabile e non rimandabile: o si sta dalla parte dell’essere umano, con la sua ragione politica e sociale, oppure ci si sottomette al sistema tecno-finanziario con i suoi dogmi naturalistici, numerici ed impersonali. Ignorare, o anche solo mancare l’appuntamento storico con l’Umanesimo sociale, equivale a condannarsi a un mondo popolato dalle ombre e dai fantasmi di quel soggetto che vogliamo e dobbiamo ostinarci a chiamare uomo.
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PARTE II OFFICINA POLITICA
«Solo un uomo politico si vale della storia ed è in grado di scrivere storia; non perché in possesso di documenti segreti, ma perché l’esperienza vissuta lo rende ideoneo a comprendere le leve profonde degli avvenimenti e delle azioni» Polibio «Se io non sono per me, chi è per me? E se io fossi solo per me stesso... cosa sono? E se non ora, quando?» Rabbi Hillel, Pirkei Avot I: 14 «C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera» Walter Benjamin
«Il destino dell’uomo in una società capitalistica sviluppata, in cui l’uniformità delle tecniche crea una superficiale uniformità della vita degli uomini, li avvilisce, li rende estranei a se stessi, limita e sopprime la loro iniziativa, la loro effettiva possibilità di scelta e di sviluppo. Porta la solitudine dell’uomo moderno, che anche quando può disporre di tutti i beni della terra pur non riesce più a comunicare con gli altri uomini, si sente chiuso in un carcere dal quale non può uscire. [A ciò si lega] la necessità di una società socialista che per la prima volta assume un volto nuovo più ricco. L’uomo non è più solo e l’umanità diventa davvero una vivente comunità, solo attraverso il molteplice sviluppo della persona, di tutti gli uomini e la loro organica partecipazione a un’opera comune» Palmiro Togliatti «Siate liberi, in mezzo al caos, rifuggite la falsa protezione dei confini e delle certezze, non abbiate paura di perdervi nell’ignoto e di confondervi nel gorgo dell’umano» Pietro Ingrao
A Lucio Magri e Pietro Ingrao
1. SCRIVERE UNA NUOVA STORIA
Serve una scossa, qui e ora. Uscire dal torpore della sconfitta e della rassegnazione. Organizzare un’alternativa che abbia un senso compiuto, una forza egemonica, una grande ambizione, che non tradisca le radici e che al contempo vinca e convinca nel presente e per il futuro. È il tempo di cominciare una nuova storia, di fondare un nuovo inizio. Con il coraggio e la pietas di Enea, che quando tutto è perduto prende in spalla il padre Anchise e per mano il figlio Ascanio. E così, solo così, con le radici e le ali, scrive la prima pagina di una nuova epica: senza rompere una tradizione, ma con balzo profetico verso un altrove ancora ignoto. E per volere degli dei, dentro e oltre la sua Storia. Mai come ora si è di fronte a responsabilità grandi e disarmanti: bisogna armare il pensiero di nuove idee e di nuove convinzioni, che trainino ciò che siamo stati nel nuovo secolo e nel nuovo millennio. È un’impresa che travalica i confini del nostro Continente. In questo sfiora l’epica, il mito, si confronta con la Storia e induce la vertigine. È certo, anche, un’impresa delle sinistre europee, che ancora devono trovare un linguaggio comune e vincente, una strategia, una visione. È anche un’impresa nostra, di un Paese che diede i natali al più forte partito comunista d’Occidente e a tante e diverse intelligenze, eretiche e insubordinate, ma che è costretto oggi a leccarsi le ferite, in un deserto di cultura, proposta politica, organizzazione. A quest’altezza vogliamo dare un contributo di idee e di prospettive, sapendo che siamo – come tutti – insufficienti, ma che l’inadeguatezza soggettiva non può più essere l’alibi per rimanere immobili. Mettiamoci in cammino, allora, provando a definire un perimetro di idee, a delineare un orizzonte, a dare al progetto politico un significato duraturo e organico, che non anneghi nella
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rincorsa dell’eterno presente. Noi non rincorriamo l’eterno presente perché diciamo che la Storia può rimettersi in marcia, con un’analisi puntuale del mondo in cui siamo, lo sguardo profondo, la curiosità, la pratica del dubbio. E l’impegno a tradurre tutto questo in azione politica e in organizzazione.
2. IL PUNTO DI PARTENZA: LA RIVOLUZIONE NEO-LIBERALE
Da una verità non si sfugge: il capitale è una macchina oliata, dotata di un motore formidabile. Il suo motore è l’intelligenza, la capacità di definire nella Storia equilibri e paradigmi sempre nuovi e di mantenere in vita una dinamica fluida, veloce, che fonda la propria visione sulle condizioni concrete perché aderisce plasticamente al reale; e al contempo lo trascende, imponendo strappi, prevedendo, realizzando egemonia. La cifra della sua intelligenza è la capacità di imparare dal lavoro, il suo nemico, di accumulare nel rapporto con esso ingegno e saperi, di indagarne a fondo le domande e le contraddizioni allo scopo di fornire risposte e soluzioni. Risposte e soluzioni sempre nuove, perché la forza del capitale è anche quella di correggere i propri errori e i propri vizi, conformandosi sempre alla modernità e al contempo producendola. In questa dote esso appare sempre allineato ai tempi, anche quando pratica la schiavitù, le ingiustizie più ingiustificabili, le diseguaglianze più smaccate. È dotato di una forza ideologica straordinaria che gli consente di giustificare la propria abiezione – e le proprie crisi – dentro una narrazione vincente. Mai sottovalutare il capitale, il principe di un modo di produzione che domina da secoli e che sino a qui ha perso soltanto battaglie ma mai nella Storia la guerra complessiva. La sua intelligenza, che incute rispetto e persino timore, si appoggia allo stesso tempo su di un apparato ideologico e su di una forza materiale. Entrambi, se vogliamo che siano sconfitti, vanno indagati e conosciuti. Ci riferiamo al capitale in quanto soggetto, personificandone le caratteristiche, le azioni, le funzioni. Non perché ci sfugga la
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sua natura, il suo essere un insieme (impersonale) di relazioni e di processi, sistema sociale a sua volta prodotto cumulativo delle azioni degli individui. Lo rappresentiamo così, e ci riferiamo a questo esito complessivo come a un soggetto, perché ciò che ci interessa, ciò che interessa storicamente, è la sua logica, la sua verità interna. A metà degli anni Settanta del secolo scorso esso avvia una grande operazione di trasformazione, producendo un salto di qualità straordinario e decisivo dal punto di vista del suo contenuto materiale. È il congedo da quel mostro strano che era stato, per i trent’anni gloriosi seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, il keynesismo e cioè l’alleanza virtuosa tra politiche di welfare e intervento pubblico nell’economia. Nasce il neo-liberismo e si qualifica da subito come strappo, come atto, in Occidente e su scala globale, di una vera e propria rivoluzione passiva: innescata e diretta dalle classi dominanti, dall’alto dell’economia verso il basso della società, dall’alto dell’economia verso l’alto della politica. Una rivoluzione in senso pieno, perché intervenuta precisamente nella ridefinizione della struttura, cioè di quell’insieme di caratteri oggettivi e fondativi che – nel vocabolario classico – connota un modo di produzione, le basi di una società, un modello di sviluppo. Questa riconfigurazione delle basi materiali del capitalismo interseca un possente movimento ideologico, che a sua volta corrobora i processi reali. Esso affonda le sue radici nelle riflessioni della Mont Pèlerin Société, nata verso la fine degli anni Quaranta come vero e proprio think tank cui si legherà, oltre ovviamente a Von Hayek, anche Friedman e un numero impressionante di intellettuali neo-liberisti. Lì, all’interno del pensatoio svizzero, si mette a punto la vera e propria Weltanschauung destinata a incardinare la più potente offensiva ideologica al marxismo e al keynesismo. Ma perché quella rivoluzione? Perché il movimento operaio dentro il trentennio glorioso del compromesso socialdemocratico aveva conquistato troppo: troppo spazio, troppo potere, troppi di-
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ritti, troppa forza egemonica, troppa democrazia. Indirettamente spalleggiato a Est da un blocco socialista imperfetto, ma la cui semplice esistenza imponeva per contrappeso a Ovest un equilibrio sociale avanzato tra le forze progressiste e la grande borghesia; e supportato nel cuore stesso dell’Occidente da soggettività sociali in fermento e in transizione, dalla protesta studentesca al movimento delle donne. Quel troppo potere, quell’«eccesso di democrazia» (per usare le parole precise e definitive di Samuel P. Huntington, contenute nel rapporto che egli scrive nel 1975 con Michel Crozier e Joji Watanuki per la Commissione Trilaterale) andava fermato. Questo è il punto di Archimede dell’offensiva neo-liberale, ed è una leva essenziale, anche per individuare la nostra spinta, la ripartenza. Il neo-liberalismo nasce per sfidare il protagonismo delle classi popolari e il potere diffuso e capillare che stava modificando dall’interno i connotati della società capitalistica occidentale. Un potere concreto, che si sostanziava nella partecipazione delle grandi masse alla vita politica e sociale, sia attraverso i partiti, sia attraverso l’iniziativa sindacale e soprattutto le forme di autogoverno molecolari e diffuse in tutti i luoghi di produzione e riproduzione sociale (dagli stabilimenti delle grandi industrie alle Università, dalle scuole ai quartieri). In questa sfida, il capitale innesca una crisi della democrazia, che coincide essenzialmente con la contrazione degli spazi di autonomia e di sovranità, con l’isolamento – anche per via costituzionale – dei centri di decisione economica dall’ambito della rappresentanza. E infine per questa via colloca e rovescia l’Occidente in un’epoca post-democratica, nella quale oggi siamo intrappolati. Oltre la dimensione economica, dove il peso e la funzione degli organismi internazionali nati intorno a Bretton Woods (Fmi, Banca mondiale, Wto) allude a una ridefinizione complessiva del ruolo degli Stati, il ritorno alla dimensione oligarchica del potere è riassunto plasticamente in alcuni indicatori. Dalla crisi della rappresentanza, cioè dal cortocircuito per il quale non esistono forze politiche in grado di rappresentare gli interessi della grande maggioranza delle società occidentali, consegue l’aumento dell’astensionismo, che dagli Stati Uniti ha in-
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fettato anche le civiltà europee, tradizionalmente engagées e con una società civile mediamente densa e articolata. Non solo: l’affermazione tendenziale di modelli politici presidenzialisti e con leggi elettorali maggioritarie, usualmente legate a sistemi di tipo censitario; lo svuotamento del valore legislativo delle assemblee elettive, a tutti i livelli; lo slittamento delle funzioni legislative verso gli organi esecutivi: tutti questi fattori sono circolarmente correlati e mettono in crisi lo stesso equilibrio dei poteri, la stessa natura democratica del patto tra cittadini e governanti, dislocando nei fatti la sovranità nelle mani di oligarchie ristrette e inaccessibili. Si tratta di una mutazione non soltanto giuridica, quindi, ma persino antropologica di un popolo che è chiamato sempre più a svolgere un ruolo passivo e il cui consenso – quando è richiesto – è estorto sulla base di un’interpretazione puramente conservativa della rappresentanza degli interessi. Il fatto che il neo-liberalismo, nella sua narrazione, nella descrizione di sé, non esca dal discorso democratico, non si estrometta dal terreno della democrazia è un’ulteriore conferma di quanto sia insidioso il suo profilo. Il superamento della democrazia avviene per il tramite della riduzione della stessa alla sua mera natura procedurale, all’interno di un tracciato formale di regole che può descriversi come democratico. Contro la democrazia sostanziale, contro la democrazia sociale, contro la democrazia operaia e consiliare, contro il socialismo e pur sempre dentro un recinto che si definisce democratico. Se gli ultimi anni vedono un’ulteriore accelerazione, che talvolta spinge addirittura oltre il piano della democrazia procedurale, non dimentichiamoci invece che il decennio degli anni Ottanta è, nell’autobiografia del capitale, il teatro della sperimentazione dell’alleanza tra libertà economica e democrazia. Non dimentichiamolo, perché le idee dominanti sono dotate di una forza poderosa con cui dobbiamo fare i conti. Anche quando, come in questo caso, leggiamo il dramma di un presente post-democratico, in cui la democrazia è sterilizzata e ridotta ad appannaggio delle élite dominanti. Il battesimo di fuoco del neo-liberismo, il Cile di Pinochet, è ben oltre questo spazio. È infatti nel contesto di una dittatura
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militare che gli economisti dell’Università di Chicago fermano il programma di nazionalizzazioni e la politica di pianificazione economica del governo e vi sostituiscono libero mercato, conservatorismo fiscale, tagli lineari della spesa pubblica e sociale, privatizzazioni. Qual è la duplice cifra di quegli interventi? Si deve comprimere al massimo il valore reale dei salari, il loro potere d’acquisto; e si deve allargare al massimo la platea dei disoccupati. Non è un effetto collaterale ma l’esito verso cui il capitale spinge: estendere l’esercito industriale di riserva, colpire e indebolire la massa dei salariati. Quando il neo-liberismo sbarca in Occidente l’allusione alla democrazia procedurale ritorna. È il tempo di Margaret Thatcher (che esprime parole di elogio non soltanto per la politica economica della giunta militare cilena, invisa a una «sinistra internazionale organizzata che è in cerca di vendetta») e di Ronald Reagan, il quale è l’alfiere di una forte riduzione della progressività nel sistema fiscale e di una massiccia liberalizzazione del commercio. I minatori inglesi e i controllori di volo statunitensi, oggetto delle celebri offensive dei due governi, sono le vittime sacrificali, anche a livello simbolico, del nuovo paradigma: il capitale combatte a viso aperto la propria lotta di classe. La vince. Anche azionando la leva della politica monetaria. Nel 1979 il capo della Federal Reserve Paul Volcker attua quello che viene definito un vero e proprio «colpo di stato» contro la politica monetaria espansiva: l’aumento dei tassi di interesse a livelli senza precedenti fa precipitare gli Stati Uniti in recessione, raddoppiando in tre anni fino al 10% la disoccupazione. Non incidenti di percorso ma obiettivi precisi, scientificamente perseguiti: sarà lo stesso Volcker anni dopo a rivendicare – con grande spregiudicatezza – il legame tra la scelta di una politica deflattiva e l’indebolimento delle organizzazioni dei lavoratori. Nella coscienza collettiva del nostro Paese lo spartiacque a livello simbolico tra un prima e un dopo è la marcia dei quarantamila a Torino dell’ottobre del 1980, non a caso nel più grande stabilimento Fiat, nel cuore dell’industria italiana. I colletti bianchi, i quadri intermedi scesi in piazza a fianco della proprietà
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(di quel Giovanni Agnelli che firma la prefazione all’edizione italiana del rapporto Huntington-Crozier-Watanuki) hanno vinto, le tute blu hanno perso. La transizione alla nuova fase è compiuta, in tutta Europa; ed è persa la sfida al capitale promossa nei decenni precedenti dalle forze del lavoro, forti della posizione strategica occupata all’interno del processo produttivo e dell’inedita (e mai più eguagliata) capacità di realizzare valore politico al di fuori di esso. Qual è, in definitiva, il contenuto materiale della svolta neo-liberista? La parola d’ordine con cui si inaugurano gli anni Ottanta è «frammentazione». Quella che viene volgarmente chiamata globalizzazione altro non è che la frammentazione su scala internazionale della produzione, la parcellizzazione del ciclo produttivo, la dispersione delle attività produttive a livello mondiale lungo catene globali del valore integrate da una finanza resasi invasiva sin dentro la pancia delle politiche economiche pubbliche. Guardiamo al punto di caduta di queste tendenze, nella geografia economica mondiale di questi anni. Il sistema-mondo, per utilizzare la categoria di Wallerstein, è interdipendente ma gerarchicamente diviso. Da un lato esistono Paesi-fabbrica, abitati da eserciti di operai de-professionalizzati strappati alle campagne e ammassati nell’imbuto delle nuove aree industriali, che forniscono al centro del sistema materie prime e forza lavoro a prezzi bassissimi. Talvolta, soprattutto nel continente asiatico, queste realtà sono anche Paesi di assemblaggio delle diverse componenti, dove gli operai generici convivono con altri dai livelli più elevati di specializzazione, che spesso immettono nel mercato i prodotti finiti. Dall’altro lato, invece, sono i Paesi dominanti, che attraverso lo scambio ineguale acquistano materie prime a prezzi irrisori e poi rivendono le stesse allo scopo della produzione a prezzi più alti. Questi Paesi investono in innovazione e tecnologia; e da qui emergono nuovi luoghi e nuove forme di valorizzazione e di riproduzione sociale, a partire dal settore terziario. Questa nuova divisione internazionale del lavoro mantiene inalterati centri e periferie, condizioni di dominio e condizioni di esclusione e marginalità. Il fatto però che essa sia determinata
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direttamente dal capitale e dalle imprese transnazionali, che organizzano le proprie filiere produttive secondo ragioni di puro profitto, fa sì che i confini tra Paese e Paese siano – in alcuni casi – meno definiti. E tuttavia, pure nel disordine di un mondo in perenne competizione interna, vige una ratio rigorosa, resa possibile e implementata permanentemente dall’introduzione di nuove tecnologie (come nel campo dei trasporti e delle reti di comunicazione). La logica del capitale si fonda su alcuni snodi nevralgici. Il primo è la sua essenza: la delocalizzazione delle imprese alla ricerca di manodopera sempre più a buon mercato. Il secondo è la progressiva scomparsa di forme contrattuali stabili, la contrazione del livello delle tutele e dei diritti e la complessiva precarizzazione e svalutazione del lavoro. In questo senso appare paradigmatica la filosofia del just in time, che si afferma proprio a partire dagli anni Ottanta: essa presuppone che le merci vengano prodotte solo quando sono già state vendute e dunque prevede l’eliminazione o la riduzione progressiva dei costi di gestione dei magazzini, dimostrando la potenzialità espansiva enorme di un capitale che si estende dalle merci al lavoro nella misura in cui quest’ultimo, come le prime, può entrare nel processo produttivo solo a condizione che sia necessario. Il terzo è la creazione, in forme croniche, di livelli di disoccupazione e sottoccupazione che facilitano e consentono la presenza in forma endemica dello stesso mercato del lavoro precario, co-determinando l’aumento della povertà e l’allargamento della forbice delle disuguaglianze. Un dato sopra ogni altro fotografa il rovesciamento dei rapporti di forza: negli ultimi trentacinque anni la percentuale della ricchezza destinata al lavoro (salari e stipendi) rispetto a quella destinata a profitti e rendite è diminuita nei Paesi a economia avanzata di circa il 10%. Per rendersi conto della portata del fenomeno, è sufficiente studiare l’andamento delle retribuzioni medie in relazione a quello della produttività del lavoro e confrontare i grafici prima e dopo il passaggio della metà degli anni Settanta. Prima, la crescita di entrambe le medie era coerente e proporzionale. Dopo, le retribuzioni rimangono ferme mentre raddoppia la produttività.
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Ma c’è dell’altro, la frammentazione è anche altrove, nei legami di solidarietà e di coscienza tra lavoratori, soggetti, individui. Il capitale sfida l’unità di classe e determina la rottura della classe omogenea, organizzata intorno a presidii produttivi, a forme politiche e sindacali di massa e anche, allo stesso tempo, a luoghi organici di socialità, di cultura, di aggregazione. Il capitale sfibra, disunisce, spezza la resistenza e ovviamente opera attivamente per produrre la più perfida e funzionale delle contrapposizioni: quella all’interno della stessa classe, tra poveri e poveri, tra subalterni e subalterni, tra sottoccupati e disoccupati, tra autoctoni e migranti. Azionando le leve più funzionali al consenso e quindi più perniciose, come quella della meritocrazia, la cui estremizzazione, lungi dal valorizzare come servirebbe il merito e il talento, conduce alla colpevolizzazione (e criminalizzazione) degli ultimi, poveri per colpa loro. Anche questo è un capitolo della straordinaria forza ideologica del capitale, un altro formidabile strumento di stabilizzazione. E qual è la manifestazione più tangibile di questa forza di stabilizzazione conservatrice se non quella mutazione antropologica individualista che irrompe su vasta scala proprio in quei primi anni Ottanta, attraverso la trasformazione dei media e, in particolare, l’avvento della televisione commerciale? La televisione: un vero e proprio potere che agisce contro e oltre le logiche di socializzazione e che, allo stesso tempo, a un livello di massa, riesce a replicare gli schemi di comportamento, i significati e i significanti della spinta individualistica, ponendo l’uomo – monade e non più parte di un soggetto collettivo – in gara con i propri simili. Si compie così, nel cuore della comunicazione, un processo di trasfigurazione: essa non è più strumento di dialogo e di mediazione, ma ciò che Debord definirebbe «monologo elogiativo», passività mascherata da potenza, chiave per l’affermazione di una società di spettatori paganti, consumatori impegnati nella raccolta punti del successo e del profitto a discapito del mondo. L’Unione Europea è il paradigma più cristallino del processo di ridefinizione neo-liberale del concetto di democrazia. Non si coglie la natura dell’Europa dei trattati e del governo delle grandi
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istituzioni tecnocratiche se non si colloca la sua genesi e il suo sviluppo all’interno della triade sfida alla democrazia/crisi della democrazia/post-democrazia. Allo stesso tempo, la vittoria delle oligarchie che si rende evidente nella lunga vicenda greca (dove la Troika torna a imporre al governo di Alexis Tsipras un accordo simile al memorandum proposto e rifiutato dal popolo greco nella consultazione referendaria del 5 luglio 2015) non nasce al livello di scelte contingenti e reversibili o di natura tattica e non ha neppure la propria radice soltanto nella storia politica e istituzionale dell’Europa. Nasce dentro un’Unione, plasmata dalla rivoluzione neo-liberista, che si struttura a partire dal Trattato di Maastricht del 1992 e dall’adozione della moneta unica e poi con il trattato di Lisbona del 2009. Maastricht e Lisbona sono congeniali all’idea di un patto economico capestro tra l’asse franco-tedesco e i Paesi satelliti e periferici. In quest’ottica si comprende l’azzardo di un’Unione Europea priva di una Carta Costituzionale, dopo l’arresto delle ratifiche imposto nel 2009 dal fallimento dei referendum di Francia e Paesi Bassi. Si capisce il senso di un’unione tra Stati non legittimata da un Parlamento con funzioni pienamente legislative e priva di istituzioni politiche fondate su una vera sovranità comune. Si coglie il significato, altrimenti inspiegabile, di una Banca Centrale Europea che stampa moneta per le banche private a tassi convenienti, le quali poi la rivendono a tassi da usurai alle banche centrali nazionali. Si afferra il senso finanche di una governance della moneta, in mano alla Bce e alla Commissione, autonoma rispetto ai trattati dell’Unione Europea. Del resto, la Costituzione materiale di questa Europa è una sola: con la sua bilancia commerciale in attivo per oltre 370 miliardi di euro, essa è una potenza espansiva, destabilizzante dell’economia globale. E lo strumento per rafforzare questo avanzo di esportazioni è, secondo il dogma neo-liberista, la continua svalutazione del lavoro. Perché la sovranità, al termine di una lunga e silenziosa lotta alla democrazia, appartiene a loro: al denaro, cioè alla moneta unica; e al totem della libera circolazione delle merci. Tutto il resto è ancillare, talvolta addirittura un nemico da sradicare con
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violenza. Per questa cornice oggettiva non è più attuale – se mai lo è stato – un atteggiamento fideistico nei confronti di un sogno europeo che i rapporti di forza stanno trasformando inesorabilmente in un incubo: i margini di riformabilità di questa Unione Europea si assottigliano sempre più, costringendo il nostro europeismo a fare i conti con la Storia e con la qualità dell’involuzione democratica.
3. IL POTERE E LA GUERRA. LA CRISI, LA FINANZA, IL MURO
Quando tra il 1989 e il 1991 il socialismo dell’Est crolla, la rivoluzione neo-liberista entra in una nuova fase. La sua volontà di potenza pare non avere più limiti. Per Francis Fukuyama la Storia è finita. Parla dell’Urss ma pensa alla possibilità e alla dicibilità di un’alternativa al capitalismo. Sembrano mature le condizioni per sperimentare su scala planetaria il nuovo spirito dei tempi. L’Occidente può ora inglobare l’Oriente, sotto le insegne del mercato libero e dell’american way of life. Come sempre, però, l’apparato ideologico del capitale nasconde la verità. Si scrive freedom and democracy ma si legge guerra. Questo è il nocciolo duro della fase che si apre con il crollo del Muro di Berlino: la vocazione imperiale del neo-liberalismo trova il suo architrave nel ricorso sistematico e sistemico alla guerra. Prima guerra del Golfo, guerra alla Jugoslavia, guerra in Afghanistan, seconda guerra del Golfo, guerra alla Libia, guerra in Siria: sono soltanto i più devastanti interventi bellici degli Stati Uniti e, a geometrie variabili, dei più importanti Stati europei negli ultimi venticinque anni. Perché la guerra? Innanzitutto per una ragione economica. Il business degli armamenti e della ricostruzione è il fulcro dell’interventismo statale in funzione militare. La spesa militare mondiale è cresciuta negli ultimi anni sino a sfondare nel 2014 il muro dei 1700 miliardi di dollari, ben oltre – in termini reali – il volume di investimenti impegnato nell’ultima fase della guerra fredda. Di questi, 610 miliardi sono statunitensi, il 45% in più del 2001, anno dell’attacco alle Torri Gemelle. Scorrono litri di dollari, però, anche negli oleodotti che trasportano petrolio o nei gasdotti, come nelle miniere di coltan del-
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la Repubblica Democratica del Congo o nelle grandi dighe indiane che deviano l’acqua da un bacino idrico all’altro o nel fiume Colorado tra Messico e Stati Uniti o, ancora, nelle acque del Tigri e dell’Eufrate contese tra Turchia, Siria e Iraq o in quelle del Giordano, crocevia dei conflitti mediorientali. Dollari che fanno gola agli Stati, ovviamente, quanto alle corporation che – grazie alla liberalizzazione sempre più spinta del commercio – usurpano lo spazio ecologico delle comunità locali per trasformare le risorse naturali in profitti. Vi sono poi ragioni politiche: archiviato l’equilibrio del bipolarismo, sin dalla guerra del Golfo del 1991 gli Usa e i suoi alleati hanno difeso militarmente il proprio dominio, attraverso interventi che consentissero il controllo diretto o indiretto di aree di interesse strategico e che limitassero l’emergere di nuovi poli di potenza macro-regionale potenzialmente antagonisti, non esimendosi persino dallo scatenare guerre civili interne alle comunità nazionali. In questo scenario si inserisce la dimensione rilevata da Samuel P. Huntington a metà degli anni Novanta e che oggi acquista un significato ancora più stringente: è il tema che, in termini conservatori e molto pericolosi, egli definisce dello «scontro tra civiltà». Sono termini scivolosi, perché rischiano di accreditare l’idea di una guerra tra religioni e soprattutto di gerarchie rigide tra blocchi culturali impermeabili. E tuttavia colgono un elemento di complessificazione del quadro che non possiamo rimuovere: il fatto che l’uomo, lasciato solo e polverizzato al di fuori della sua dimensione politica, è alla ricerca di nuove forme di socialità e di identità che trovano sponda in organizzazioni religiose, comunitarie-nazionalistiche, talvolta anche di matrice terroristica. La guerra non si esaurisce però qui, non ha soltanto ragioni economiche o ragioni politiche né queste, insieme, si consumano nel circolo vizioso che si innesca tra la crescita dei profitti dell’industria militare e l’estensione progressiva del potere di controllo su vaste aree del mondo. L’essenza della guerra è un’altra e chiama in causa la sempre più pervasiva incidenza del complesso militare-industriale nella formazione degli orientamenti e delle decisioni politiche e il rapporto tra l’industria bellica e la
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privatizzazione della guerra e della stessa sfera politica. Tale processo coinvolge e rafforza l’attuale crisi del carattere pubblico della sovranità e la regressione delle strutture democratiche dei maggiori Paesi occidentali. Il potere, anche attraverso il ricorso sistematico alla guerra, ha subìto e messo in scena in questi ultimi decenni un enorme processo di metamorfosi. Il tratto caratterizzante di questa metamorfosi è l’involuzione alla dimensione del segreto e dell’invisibile. Se gli arcana imperii, prerogativa esclusiva dell’autorità del sovrano, qualificano in radice il potere premoderno; e se contro di essi la costituzionalizzazione secolarizzata della sovranità ha riscritto nel corso dei secoli i codici della politica introducendo le nozioni di cittadinanza, consenso, autonomia, rappresentanza, non è eccessivo affermare che noi assistiamo, precisamente su questo piano, a una regressione sostanziale. Il segreto torna a insediarsi al centro della politica e della sovranità, determinando una superficie sempre più estesa di separatezza e impenetrabilità. Le zone d’ombra si moltiplicano, persino intorno al contenuto di trattati internazionali di importanza capitale, e il privato (sia esso la grande industria d’armamenti, la centrale di intelligence, l’agenzia di truppe mercenarie o il consiglio di amministrazione di una banca d’affari o, ancora, l’istituto tecnocratico sottratto all’occhio e al controllo pubblico) è partecipe e coprotagonista di questa tendenza. Una tendenza non esoterica ma tangibile, perché i centri di potere nascosti, a partire dall’alta finanza e dalle strutture tecnocratiche, rappresentano interessi precisi, sono la forma attraverso cui l’intelligenza capitalistica mette in campo il proprio disegno strategico. Si tratta dell’esito di una scelta razionale e consapevole, la forma contemporanea, ma regressiva, del dominio del capitale. Si è detto del 1989 e del 1991, l’ariete attraverso cui il capitale sfonda il Muro dell’Occidente e dilaga a Est. E noi, anche di questo orfani, tra l’incudine e il martello. Tra l’incudine di dover operare una analisi ponderata ed equilibrata per non farci travolgere dall’onda ideologica della storia dei vincitori; e il martello
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dell’onestà intellettuale, che ci impone di non rimuovere, di fare i conti fino in fondo con gli errori e persino i crimini che hanno costellato quella vicenda. Una vicenda che è alle nostre spalle, che si è conclusa con una sconfitta senza appello. In questo bisogna essere inequivocabili: il socialismo reale è finito, definitivamente consegnato alla storia. Il suo crollo impone uno scarto e ci impone una distanza, una discontinuità senza ombre. Se ancora lo evochiamo, è quindi per bandire – sul piano storiografico – la foga revisionista dei giudizi impietosi, non certo per accarezzare la suggestione della fuga in un altrove anacronistico e in fin dei conti soltanto immaginario. È sul piano della lettura storica di ciò che è stato che valorizziamo i meriti perché, nel passato che non passa e del futuro che non aspetta, essi sono pietre miliari. Come la liberazione dal servaggio di vaste masse di contadini, la vittoria militare sul nazifascismo, lo Stato sociale imposto per concorrenza all’Ovest, il raggiungimento formale e sostanziale, in termini di diritti civili e sociali, di una condizione avanzata per la donna, inimmaginabile per larga parte dell’Europa coeva. Come l’uscita dal feudalesimo zarista e l’edificazione in pochi decenni, da condizioni di economia di sussistenza, di una società industriale capace di competere prima con la Germania e poi con tutto l’Occidente capitalistico. E tuttavia il nostro assillo è guardare con la lente d’ingrandimento i limiti e gli errori, le tare che hanno condotto alla fine – ingloriosa perché non osteggiata dalle grandi masse – di quell’esperienza. Ciò che ci interessa sono i vizi d’origine. Se vogliamo che il nostro studio del passato sia utile per il futuro, dobbiamo indirizzare lo sguardo ben oltre i rilievi più evidenti, oltre l’orrore delle purghe, i massacri, il confino per i dissidenti, l’autoritarismo e l’autocrazia di regimi in uno stato di guerra interna permanente. Lo sguardo, se vuol essere prescrittivo, deve indugiare non sulle scelte contingenti ma sugli errori di fondo, non su ciò che si è guastato nel tempo ma su ciò che era guasto già in premessa. Il più grande di questi difetti concerne precisamente lo snodo vincolante di ogni sistema politico e sociale: la democrazia. E nel socialismo reale, in radice, vi era un errore imperdonabile,
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fratello gemello del concetto leninista di avanguardia, che dispone il partito bolscevico come soggetto che trae la propria autorità da una filosofia della storia che assegna deterministicamente ai gruppi dirigenti del Partito il ruolo di guida, che questi esercitano imponendo la coscienza esterna agli attori sociali. Il partito è intermediario tra il potere e il popolo, ma in una misura che lo trasforma da strumento di affermazione di una volontà reale e concreta a soggetto universale della trasformazione, legittimato da una sorta di diritto di natura. Il secondo problema si colloca sul terreno dell’economia, all’altezza del modello di pianificazione adottato. Un modello mutuato in tutti i Paesi socialisti dall’esperienza sovietica del comunismo di guerra, al cui centro vi era un piano prescrittivo per tutti i settori, fino alla più piccola cellula amministrativa e produttiva; un modello centralizzato e gerarchico, in cui determinante era il ruolo della commissione statale che fissava gli obiettivi senza coinvolgere le realtà di base e fissava i prezzi senza alcun principio di realtà e, di conseguenza, senza alcun principio di razionalità ed efficienza economica. Questo ordine di problemi faceva il paio con la scarsa dinamicità dei settori più innovativi, non stimolati dalla presenza di una pluralità di attori economici. Dalla Storia non si sfugge e la lezione che ci descrive la sconfitta delle esperienze del socialismo reale è in fondo questa: l’alternativa al capitalismo non può che essere democratica e fondata su un modello e una pratica di programmazione economica compatibile con la creatività e l’iniziativa individuale. Per questo dobbiamo tenere a mente il monito di Gustav Mahler a «non adorare le ceneri» ma a «custodire il fuoco»: il fuoco di un progetto di cambiamento e di rottura che passa necessariamente dall’indicare linee nuove per un nuovo modello di società. Guai a noi, però, se in nome di questa critica serrata al socialismo orientale e in nome della necessità di ricominciare dalla democrazia chiudessimo gli occhi sui tragici errori compiuti dalla socialdemocrazia europea negli ultimi trent’anni. La sua vicenda è costellata di fatti che segnalano una progressiva acquiescenza nei confronti dei poteri economici, finanziari e militari internazionali. Anthony Giddens, teorizzando la terza via, lo
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rivendicò apertamente: era diventato essenziale gestire la nuova fase, accettando il nuovo Spirito dei tempi e dismettendo ogni velleità trasformativa. Ma non è necessario argomentare oltre, perché questa storia è pienamente interna a quella che stiamo raccontando. Dopo la rivoluzione passiva e lo sfondamento del Muro di Berlino, ecco il terzo evento periodizzante del racconto neo-liberista: la crisi economica cominciata nel 2007. Nulla di nuovo, direbbe Marx: la causa ultima della crisi (delle crisi) è situata nella stessa natura del capitalismo, ossia nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione. Per un verso il capitalismo tende al massimo sviluppo delle forze produttive, per un altro verso i rapporti di produzione e di proprietà che lo qualificano frenano ciclicamente questo sviluppo, creando una doppia sovrapproduzione: di capitale (un’eccedenza di capitale che non trova sufficiente valorizzazione nel mercato) e di merci (un’eccedenza di merci che non riescono a essere vendute a un prezzo che consenta di ripagare il capitale impegnato per produrle). Quando la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione esplode si determina la crisi. Ma essa, a ben guardare, è anche lo strumento attraverso il quale il capitale ristabilisce le condizioni favorevoli all’accumulazione, cioè alla produzione dell’eccedenza. In che modo? Distruggendo capitale e distruggendo forze produttive. È il tema dell’oggi, all’ennesima potenza: dell’espansione dell’esercito industriale di riserva (cioè dell’aumento della disoccupazione), della compressione dei salari e della concentrazione delle imprese in grandi monopoli e oligopoli (in un accentramento progressivo in cui i prezzi, i tassi e le politiche economiche sono decise da schiere ristrettissime di decisori). Sì, perché questa ipotesi marxiana è perfettamente sovrapponibile alla fotografia della crisi che abbiamo conosciuto dal 2007 come crisi dei mutui subprime, e che in realtà ha alle spalle una politica di lungo periodo di abbassamento salariale – dentro l’economia reale nordamericana – che ha prodotto l’esplosione della bolla
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speculativa nel mercato immobiliare. Proprio così: alla base dello stesso scoppio della bolla dei subprime (alla base dell’insolvenza dei debiti privati e dell’invendibilità dei derivati collegati ai mutui dei cittadini americani) c’è un gigantesco problema di compressione salariale e di trasferimento delle ricchezze dai salari alle rendite e ai profitti. La stessa dinamica che è in campo anche in Europa, perfino in Germania, come dimostra il fatto che dal 2003 al 2012 i redditi da lavoro tedeschi sono scesi dell’1% circa ogni anno. Certo, non c’è soltanto questo all’origine della crisi: c’è anche un processo di finanziarizzazione macroscopico, che ha preso corpo attraverso scelte politiche precise. Come la decisione della Commissione per i Titoli e gli Scambi federale, che nel 2004 ha aumentato il rapporto massimo debito/capitale per le grandi banche d’investimento da 12:1 a 30:1, fornendo alla housing bubble del 2007 una delle sue più incisive premesse istituzionali. Come l’abbassamento dei tassi di interesse attraverso l’immissione sul mercato di nuova liquidità da parte del governo Bush che – provando a curare la bolla tecnologica dei primi anni 2000 – ha contribuito a creare il nuovo crack. Ciò che rileva è – in ogni caso – che sempre, anche nei momenti di massima difficoltà, si staglia la potenza egemonica del capitale, la forza che mantiene in vita un apparato ideologico che costruisce consenso intorno a una narrazione altrimenti incredibile. Che l’apparato ideologico del capitale sia forte lo dimostra anche la seconda bugia, trasformata in senso comune, su cui si regge la narrazione dominante. Secondo i corifei del capitale l’origine della seconda fase della crisi sarebbe l’esplosione del debito pubblico. La verità è invece un’altra, e cioè che il debito pubblico altro non è che la trasformazione del debito privato attraverso l’intervento dello Stato volto a coprire i buchi creati nel e dal sistema finanziario e bancario. Tra il 2008 e il 2011 la Commissione europea ha approvato aiuti di Stato a favore delle banche per 4500 miliardi di euro, il 37% del Pil dell’intera Ue. La dinamica del debito pubblico non ha quindi nulla di autonomo, è conseguenza e non causa della crisi.
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Bisogna insistere su questi elementi, perché le politiche di austerità dell’Unione Europea muovono da qui e dalla falsificazione sistematica delle premesse di questo ragionamento. Ricette come la semplice introduzione di correttivi (più o meno blandi) per diminuire l’incidenza della finanza sull’economia reale; oppure addirittura politiche di contrazione della spesa pubblica per diminuire il debito, in un contesto di sistematico e persistente accento sulla necessità di flessibilizzare e precarizzare il mercato del lavoro, non solo non servono a nulla ma ingigantiscono i fattori sistemici di crisi. Ricordate il mood della rivoluzione conservatrice? Anche al principio degli anni Ottanta si fecero ricadere sulle rigidità del mercato del lavoro le responsabilità delle crisi strutturali che avevano attraversato i decenni precedenti, ragione per la quale la cosiddetta flessibilizzazione del mercato del lavoro fu una delle ricette di punta della svolta. Siamo all’eterno ritorno di una dialettica falsificata e le ricette, sempre identiche, producono il contraccolpo e stabilizzano la recessione. Non Marx questa volta ma Keynes ci torna in aiuto, ricordandoci che in una fase di recessione e di contrazione produttiva, come è quella attuale, l’austerità è la più letale delle medicine. Proprio quella che stiamo ingerendo. La finanziarizzazione dell’economia, e cioè l’aumento abnorme dell’incidenza della finanza nel ciclo economico globale, è un dato di realtà. Stiglitz ci ricorda che la sua ipertrofia nasce già con Reagan e la sua scelta di deregolazione del settore finanziario. Con l’abolizione parziale alla fine degli anni Novanta del Glass-Steagall Act del 1933, varato dopo la crisi del ’29 per separare le banche commerciali dalle banche di investimento e impedire a queste ultime, impegnate nelle speculazioni più rischiose, di raccogliere depositi dai risparmiatori, si scrive però negli Stati Uniti una nuova pagina. I risparmiatori cominciano a essere coinvolti nelle speculazioni ad alto rischio, in particolare quelle legate alle cartolarizzazioni. Poi è il tempo dei prodotti derivati, cioè di titoli il cui valore è legato al rischio finanziario di altri titoli. Infine è il tempo delle vendite allo scoperto, cioè dell’im-
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pegno a vendere in una certa data futura un titolo che ancora non si possiede nel momento di stipula del contratto. Nel 2013 questa giungla di valori virtuali ha raggiunto il tetto di 993mila miliardi di dollari, circa tredici volte il prodotto interno lordo mondiale. In questo trilione di dollari, i prodotti derivati valgono 700mila miliardi. E se negli ultimi dieci anni, grazie essenzialmente alla Cina e agli altri Paesi del Brics, il Pil è raddoppiato, il valore della ricchezza di carta è triplicato. Una ricchezza volatile, un gigante dai piedi d’argilla che però insiste e pretende di governare, piegando l’economia di cui è divenuto il cuore. È questo slittamento di senso e di funzioni che qualifica oggi il rapporto tra economia e finanza: la banca non è più la cassaforte dell’impresa ma la sua proprietaria e la borsa non è più un supporto agli investimenti ma il teatro della speculazione. La rendita finanziaria ha surclassato i profitti industriali e quindi la speculazione ha sopravanzato gli investimenti. In questo contesto non esiste equilibrio, non può esservi stabilità e neppure ripresa. Figuriamoci un sistema equo e socialmente giusto.
4. CON QUALI STRUMENTI INDAGHIAMO IL MONDO. E IL MONDO, COM’È?
Avanziamo un’ipotesi: la struttura dialettica del reale, la forma dinamica dell’esistente. Ciò significa che si dà sempre un’alternativa possibile e mai un’unica direzione e che si produce sempre, nell’opposizione tra l’essere e la sua antitesi (entrambi esistenti, conflittuali sul piano empirico), una progressione, un avanzamento. Lo stesso rapporto tra teoria e pratica è dialettico, in una misura non simmetrica. Ciò che governa la teoria è l’analisi concreta della situazione concreta al punto che smette di essere rivoluzionaria e trasformativa quando perde aderenza con la realtà effettuale delle cose. La teoria non è quindi la retorica che recepisce e replica leggi ineluttabili del processo storico che vigono al di sopra della realtà ma è la forma attraverso cui soggettivamente partecipiamo alla Storia. Da Machiavelli a Lenin e oltre Lenin, perché la nostra partecipazione alla Storia è una partecipazione libera e autonoma e non soltanto l’adesione a come la Storia precipita, secondo le leggi che la descrivono. In questo senso dobbiamo produrre uno scarto sul terreno della coscienza. La coscienza leninista è ancora quella di Kautsky, un elemento importato nella lotta di classe dall’esterno e non una scaturigine spontanea della lotta sociale. È un valore estraneo, un’intelligenza d’avanguardia che interpreta lo sviluppo della Storia e indica un cammino per via verticale, dall’alto al basso. È il cervello del partito rivoluzionario, compatto, ideologicamente granitico, militarmente organizzato e disciplinato, ma anche in grado di anticipare il movimento delle masse e di indicare la via. Senza commettere l’errore di disprezzare il contributo che scaturisce dalla volontà energica e illuminante di chi è in gra-
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do di orientare il processo politico, noi dobbiamo essere oltre, temperando il giacobinismo con elementi di autodisciplina e di autogoverno. Solo in questo quadro la coscienza può svilupparsi internamente e orizzontalmente e aggredire alle fondamenta quel principio di separazione e di distinzione tra il partito e i corpi sociali che è l’anticamera della separatezza. Allo stesso tempo, va bandita la retorica spontaneista, l’idea che non serva una struttura di pensiero, una organizzazione, un punto di sintesi tra il reale e le sue contraddizioni. Così, proponiamo una visione della politica come preminenza, come capacità di determinare e produrre sovranità nella misura in cui l’alto incontra e interpreta un grande progetto collettivo, un protagonismo diffuso che è già autogoverno di massa. Il primo ostacolo a questa ambizione alta è l’idea che la ricchezza economica sia l’unico metro di valutazione del mondo, l’unica struttura indeformabile e fondante la società umana. Questa logica, se vogliamo scavare con onestà nella storia del pensiero politico, è il punto di contatto tra l’economia liberale classica e molte tendenze positivistiche del marxismo. Come per Smith la legge dell’offerta e della domanda è l’unico fattore determinante, l’unica variabile in grado di decidere il comportamento di una società; così per un certo socialismo (che Charles Bettelheim critica magistralmente, definendolo del «primato dei mezzi di produzione») la trasformazione dei rapporti sociali scaturisce automaticamente dalla abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma se questa ossessione economicista sopravvive (anzi: resiste in forme parossistiche) nel neo-liberismo, noi dobbiamo sapere distinguere e prendere congedo da ogni evoluzionismo che non consideri il ruolo della soggettività, dell’essere umano, della sua cultura e della sua volontà. Possiamo essere eretici e sostenere Durkheim nella critica alla «società industriale» di Saint-Simon? E cioè ipotizzare di rompere il paradigma economicista in nome di una società fondata anche sul binomio moralità-solidarietà? Si tratta di una moralità laica, radicata nell’Illuminismo, ma anche nel concetto straor-
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dinario di solidarietà (tzedaqà) e giustizia, che è ebraico ed è cristiano. Del resto, in un tempo nel quale – come scrive Polanyi – «non è più l’economia a essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali a essere inseriti nel sistema economico», non possiamo che lavorare per rovesciare lo schema, mettendo in campo – attraverso una nuova pedagogia della liberazione – un progetto di società che controlli l’economia e la subordini alle esigenze dell’uomo.
5. UOMO, MERCATO E STATO: DIALOGARE OLTRE LA NOSTRA FINITUDINE
Qual è la prima dialettica del reale? Quella tra il Mercato e l’uomo: il Mercato domina l’uomo, batte la politica e la costringe a un ruolo ancillare. È la più classica delle eterogenesi dei fini, in cui il Mercato, da strumento di progresso nelle mani dell’uomo, diventa il sovrano e l’uomo il mezzo attraverso cui il Mercato realizza il proprio destino. È un’inversione di senso e di valore che produce alienazione, vita in forma di merce, sfruttamento e infelicità. L’uomo, il mistero straordinario della vita, soccombe a una reificazione sistematica. La logica funzionale dell’economia, l’algebra asfittica dei prezzi, fonda la legge costituzionale del nuovo stato. L’imperfezione, la fragilità, la creatività, la diversità diventano scarti del sistema, relegati e colpevolizzati nella marginalità o assegnati a programmi di assistenzialismo caritatevole. Tutto si vende e tutto si compra, al valore di scambio determinato dalle classi dominanti che governano il Mercato. Del resto, è un valore basso, perché il prototipo reale dell’uomo del nostro tempo, di quest’epoca di «passioni tristi», è esattamente l’opposto di quello delle copertine patinate: è sempre più una monade isolata e inferma, infettata dal morbo della precarietà esistenziale, dalle tante malattie dell’anima, atterrito di fronte al futuro, incapace di declinarlo, di dare concretezza agli affetti, reso insicuro dalla competizione stellare di cui è schiavo, abbandonato dalla politica e dalla società. Qui, nel rifiuto della riduzione a cosa della persona e della bellezza della vita umana (una bellezza che vive precisamente nelle imperfezioni e nelle infinite contraddizioni e titubanze che danno sostanza all’essere), si colloca la necessità di un nuovo Umanesimo sociale. Un nuovo pensiero di liberazione fondato sulla
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persona, che rimetta al centro l’individuo nella sua dimensione pubblica e non privata, nel suo rapporto con i propri simili e nella relazione dialettica con la Storia, di cui esso non può che essere – seppure libero, seppure arbitro – espressione particolare. Una nuova teoria che riconsegni potere alla persona e che si declini a partire dai suoi bisogni, irriducibili alla logica, alla mera tecnica, al profitto. Soltanto una teoria e una pratica della liberazione umanistica può risolvere la dialettica tra individuo e società, articolando la particolarità non in parzialità bensì in unicità, fonte di valore e di libertà incoercibili. Questo Mercato dominante, che schiavizza con il consumo illimitato e con la forza del denaro, assume la forma di una vera e propria divinità monoteista. Antropomorfa ma trascendente: è Mammona, alternativa a Dio ma anche al riscatto sociale. È bene congedarsi dall’idea antica di una contrapposizione irrelata tra immanenza e trascendenza, perché la forma con cui il capitalismo si presenta, razionalità e tecnica, nasconde la sua vera natura: la rincorsa perenne di una ipostasi che gareggi direttamente con la religione. Qui sta la sfida, senza farci imbrigliare nel millenarismo e nel determinismo: nella capacità di comprendere che la forza ideologica del capitale si spinge ben oltre il limite dell’immanente. I nostri strumenti non sono quindi sufficienti, si misurano con un registro inedito rispetto al quale scontano inadeguatezza. La nuova religione del Mercato, come le grandi religioni monoteiste, pone il tema della trascendenza, cioè in ultima istanza la domanda che interroga il senso, la finitudine dell’essere umano, il limite e la tensione al suo superamento. Lo fa certamente in termini regressivi e individualistici e tuttavia lo fa. Per questo la politica, se non vuole abbandonare il campo per manifesta e definitiva inferiorità, deve trovare risposte anche a queste domande, suggerite da una spinta al destino e collegate all’orientamento complessivo di dinamiche collettive e storiche. Deve credere fino in fondo, per esempio, alla libertà dell’uomo nella Storia, nella volontà di sfidare il futuro, di volere vivere alla pari con esso, di decidere, in ultima istanza, con un atto di coraggio e di sovranità.
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Perché la politica è precisamente questo: un’opera d’arte, mossa dall’utopia, che non descrive ma crea e conquista per l’umanità un ruolo collettivo. Ma se la religione del Mercato gareggia con il Dio dei credenti, insidiandolo e attaccandolo sul suo campo, noi non abbiamo via di fuga: dobbiamo armarci dell’ambizione spregiudicata di dialogare con il pensiero teologico, in primo luogo con la cristianità – ancora più precisamente con la Chiesa che attraversa il Concilio Vaticano II – e le sue radici ebraiche. In altri termini, la nostra sfida si pone nel tentativo di aprire uno spazio di dialogo tra demos e laos, tra soggettività politica e popolo di Dio, tra il popolo che trae la sua legittimazione sul terreno della cittadinanza e il popolo unificato dalla chiamata liberatrice di Dio. Un dialogo sull’umanità, che sia in grado di spezzare la fede mercatista nell’individuo irrelato, in una ferocia predatoria che esclude ogni tensione all’oltre-da-qui, all’oltre-ora, all’altro-da-noi. Torna in mente l’apologo di Walter Benjamin dell’automa che, nell’Angelus Novus, gioca a scacchi, contiene il nano gobbo e per questo risulta invincibile. Vita mondana e vita spirituale, insieme, sono invincibili e possono difendere l’umanità dell’uomo dalla ferinità del Mercato. In questo senso occorre trovare un compromesso tra l’affermazione laica del libero arbitrio, della scelta soggettiva del proprio cammino, e l’idea di uno sviluppo oggettivo, capace di una direzione che sgorga dalla contraddizione dialettica tra la finitezza e l’infinito e l’escatologia e non soltanto, come sempre, tra le forze produttive e i nuovi rapporti di produzione. Questo punto di sintesi può essere, ancora una volta, la lezione di Benjamin, il suo balzo della tigre, la possibilità di determinare soggettivamente, nella Storia, cesure e discontinuità che consentono di instaurare, quando si è chiamati a farlo, un nuovo tempo. In nome di chi? In nome di chi vogliamo realizzare l’idea di un nuovo mondo e compiamo il passo, «il salto della scelta»? Certo in nome dell’uomo e di un telos che trova nella sua essenza, nella sua dimensione integrale, il proprio punto di gravità. Qui forse, sta la resurrezione di un pensiero alto, la salvezza laica di cui l’umanità può essere capace.
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Volgiamo lo sguardo dentro la materialità dei rapporti sociali ed economici. Qual è il dominus che a monte muove il Mercato? È l’endiadi profitto e rendita, l’unico criterio morale che guida e orienta il movimento delle merci. Questa distinzione tra Mercato e profitto, in coppia con la rendita, non è un dettaglio, almeno per due motivi. Il primo ha a che fare con noi, il secondo con il nostro avversario. Il primo dice che può esistere un mercato orientato a un modello di sviluppo differente, a un equilibrio diverso tra economia e società, tendente all’approdo a un sistema politico democratico e non oligarchico. È il tema della transizione a una fase socialista che interroga oggi molti Paesi della nuova America Latina, la controversa Cina e che ha compenetrato la scommessa della Nep nell’Unione Sovietica degli anni Venti oltre ad avere informato di sé le esperienze delle democrazie popolari dell’Est a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. È la sfida, densa di contraddizioni ma non eludibile, formulata da Karl Polanyi nei termini di un’auspicata subordinazione della società di mercato creata dal capitalismo al principio della pianificazione e di una riconduzione del mercato a funzioni utili allo sviluppo della società e al suo andamento. Del resto, non dobbiamo dimenticare che è lo stesso Marx a ricordare, nel suo Discorso sul libero scambio, la natura potenzialmente progressiva del mercato, il suo ruolo oggettivo nella dinamica storica. Il secondo motivo racconta invece una verità che concerne l’avversario, spesso sottaciuta: anche il capitalismo più puro – quello che si presenta senza elementi di riforma e anzi sfoggia la sostanza mercatista della fase neo-liberale – poggia le proprie fondamenta su di un ricorso massiccio all’intervento statale. Si tratta però di un interventismo, contrario alla logica del laissezfaire di cui fa retoricamente uso, che si qualifica per una qualità e un indirizzo del tutto aderenti alle necessità di riproduzione del capitale. Questo è precisamente il punto intorno al quale anche noi dobbiamo elaborare: la qualità e l’indirizzo dell’intervento statale. In una partita viziata ancora una volta dalla falsa coscienza del capitale, che vorrebbe lo Stato morto e sepolto sotto i colpi d’ascia del libero mercato, dobbiamo liberare lo Stato dall’occupa-
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zione del capitale e recuperarne la funzione sociale e redistributiva. Sapendo che è un cristallo fragilissimo, denso di insidie e di contraddizioni. E che, per descriverla con le parole impegnative di Engels nell’Antiduhring, è una macchina essenzialmente capitalistica, è il «capitalista collettivo ideale». La transizione è, dunque, un corpo a corpo pericoloso, che obbliga a trasferte in territorio nemico. A maggior ragione se indaghiamo la storia degli ultimi decenni, nei quali lo Stato si è fatto strumento di dominio per antonomasia, in grado di cooptare nei suoi ranghi anche una parte della classe dirigente del movimento operaio, che ha occupato il potere e lo ha cogestito insieme all’avversario, arricchendo il capitale di capacità di previsione, controllo e dominio della società. Come il capitale impara dal lavoro, così la democrazia borghese impara dall’organizzazione politica del movimento operaio, nella misura in cui assorbe progressivamente quest’ultima: assorbe intelligenze, competenze, istanze, necessità e restituisce, a partire da esse, risposte compatibili, non più eversive. Il terreno semantico che ci viene proposto è ricchissimo e ha a che fare nuovamente con la transizione, con la battaglia per l’egemonia dentro un equilibrio di forze. Dentro questo campo (che è il capitalismo, è l’Occidente, è la democrazia rappresentativa) dobbiamo svolgere la nostra partita, guadagnando posizioni, conquistando casematte. Con un profilo riformatore forte, in grado di imporre, attraverso lo Stato, un ruolo progressivo e una politica espansiva che nell’immediato limiti le diseguaglianze economiche e sostenga i redditi bassi e che, in prospettiva, alzi l’obiettivo e miri all’orizzonte. Lo Stato può essere allora il tramite di un processo nuovo e alternativo. Meglio: uno dei tramiti, non l’unico. Uno dei soggetti decisivi nella valorizzazione di una proprietà non privata che a sua volta è il viatico alla definizione di nuove forme di proprietà sociale. Intorno allo Stato, immaginiamo un sistema misto nel quale esistano diversi soggetti proprietari: con i settori strategici nelle mani dello Stato; con i servizi pubblici locali nelle mani dei Comuni o delle Regioni; con una rete estesa di cooperative e istanze di autogoverno economico; e con una sorveglianza complessiva sulle attività private.
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Una volta stabilita la cornice, cioè le diverse forme di proprietà dentro una società in transizione, il soggetto in primo piano sulla tela deve essere soltanto uno: la gestione democratica di tutte le forme di proprietà, a tutti i livelli, dallo Stato all’impresa. Del resto, neppure la somma di tutti questi livelli esaurisce ciò che, con un termine orrendo, viene definito governance. Il potere, la sovranità, si colloca qui ma anche in luoghi altri, non elettivi, non democratici, dai quali lo Stato è estromesso, come tutte le sue articolazioni. Per posizionarsi alla giusta altezza, ancora una volta, serve un progetto politico ed egemonico. È nostra l’ambizione di sperimentare nel cuore dell’Occidente, dentro e oltre la suggestione della democrazia sociale di Norberto Bobbio, l’ipotesi dell’autonomia dei produttori di Antonio Gramsci, della democrazia progressiva di Eugenio Curiel: correggendo quel che non ha funzionato, tenendo ferma la prospettiva.
6. CAPITALE, LAVORO E MERCIFICAZIONE: UN NUOVO PARADIGMA
La dialettica regina è quella tra il capitale e il lavoro: una dialettica di scontro, di conflitto, di lotta permanente. Che disciplina il reale non più che in ultima istanza, come ricorda Engels nella famosa lettera a Joseph Bloch, suggerendo già al culmine dell’Ottocento una preminenza non autosufficiente, non assoluta e non meccanica del momento economico. E tuttavia la dialettica tra lavoro e capitale è al centro, anche agli albori del nuovo millennio, in una forma inedita. Essa sopravvive nella sua natura, ma estendendosi e allargandosi a territori più ampi attraverso la forma della mercificazione. La mercificazione – il processo di riduzione a merce di ogni ambito del reale, compresa quella natura e quelle risorse ritenute per secoli indisponibili a processi di valorizzazione e privatizzazione – aggiorna il paradigma centrale, estendendo oltre i confini consolidati la sussunzione nel processo di valorizzazione. Ma non è questa un’innovazione a tal punto eversiva da rendere inefficace il paradigma classico? Almeno due argomenti falsificano tale ipotesi. Il primo è che il lavoro manuale industriale è, su scala globale e grazie alla recente industrializzazione asiatica, tutt’altro che in contrazione. In termini numerici, assoluti e relativi, cresce la classe operaia. Nel 1980 i lavoratori salariati erano nel mondo poco più di 1 miliardo e 700 milioni, il 38% della popolazione mondiale. Oggi sono tre miliardi, il 42% del totale mondiale. Il secondo è che sostituendo alla categoria di lavoratore quella di mercificato insubordinato tout court si introduce un cortocircuito. Non soltanto perché si darebbe l’ipotesi di individui, e potenzialmente classi di individui, sottoposti al ricatto della mercificazione ma collocati, sul terreno delle dinamiche produttive
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e del processo di valorizzazione, sul versante del capitale. Ma anche perché la contraddizione esplosiva per il modo di produzione non potrebbe mai essere un’opzione morale, quale sarebbe il semplice benché generalizzato ripudio della mercificazione. Tuttavia l’irrompere della finanza, del conflitto tra uomo e natura, il rilievo del lavoro intellettuale e autonomo soprattutto nelle civiltà post-industriali pongono il tema di un soggetto della trasformazione non più circoscrivibile al lavoro salariato tradizionale. E suggeriscono, prepotentemente, l’estensione di questo nucleo a una massa più estesa di senza proprietà e senza potere sottoposti, a diversi livelli, ai processi di mercificazione. Non soltanto i salariati e non tanto le vittime della reificazione onnicomprensiva del capitale, ma i senza proprietà e i senza potere, salariati ed espulsi o marginalizzati dal ciclo produttivo, sono il nuovo polo dell’antagonismo con il capitale grazie a una collocazione oggettiva a maglie più larghe. La stessa caduta tendenziale del saggio di profitto approfondisce e rende più complessa la realtà. La crescita di quella che Marx definisce “la composizione organica del capitale” (più capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro) e quindi la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante conduce al fatto che il saggio di profitto, cioè il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante), diminuisca. Sebbene il calcolo sia difficile e non privo di contraddizioni, le analisi empiriche (di Reati, Roland, Weisskopff, Wolff, Moseley, Shaikh, Tonak) dimostrano effettivamente una tendenza alla riduzione del tasso di profitto fino alla fine degli anni Ottanta e poi ancora nei primi anni del nuovo millennio (secondo gli studi di Giacché, Li, Xiao, Zhu). Parliamo di un dimezzamento secco, tra Francia, Germania e Italia, tra l’inizio degli anni Sessanta e oggi; di una diminuzione ancora più marcata per il Giappone; e di una flessione più contenuta, ancorché rilevabile, negli Stati Uniti d’America. La caduta del saggio di profitto è un’ulteriore conferma di un dato che, anche assunto isolatamente, ha forti ripercussioni: la crescita della compo-
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sizione organica del capitale, cioè l’aumento del peso della variabile macchina, limita l’incidenza della forza lavoro nella dimensione della dinamica produttiva. Del resto, l’aumento di profitti derivanti dallo sfruttamento di un numero limitato di lavoratori per alcuni settori orientanti della nuova economia della rete (l’esempio del business dei social network o delle applicazioni per messaggistica istantanea tra smartphone sono soltanto i fenomeni più visibili) indebolisce la domanda aggregata (a pochi lavoratori corrispondono pochi consumatori), incrinando la stessa razionalità del sistema. Non è irrilevante, impone altre riflessioni, approfondimenti audaci. E in alto cosa c’è? Duménil e Lévy parlano di upper classes, di classi alte, che sono già altro rispetto alla linea di frattura classica. Ne fanno parte i grandi manager, lavoratori super-salariati, ma anche pezzi di classe dirigente, élite politica e intellettuale, a esse ormai simbioticamente legati: élite nuove per una fase nuova, espressione diretta, senza bisogno di mediazioni, dell’economia al posto di comando. Al centro rimane il lavoro. Vi è il lavoro perché ciò che qualifica il modo di produzione capitalistico è la proprietà privata dei mezzi di produzione e la possibilità-necessità di accumulare e concentrare ricchezza in una forma che renda trasformabile il denaro in merce e la merce in una quantità di denaro comprensiva del plusvalore, la cui fonte ultima è il (plus)lavoro, lo sfruttamento del lavoro. Sembra una mistica, è quasi una tautologia. Ma è ancora di più il lavoro, al di fuori di ogni astrazione, perché il ciclo neo-liberista ha radicalizzato la prepotenza del capitale contro di esso, come dimostrano i grafici che testimoniano il passaggio abnorme di ricchezza dai salari alle rendite e ai profitti. Quindi nella crescita violenta della povertà e dei meccanismi di alienazione e sfruttamento vive il bisogno di ripartire da un conflitto che va riorganizzato e a cui, in primo luogo, va ridata cittadinanza e legittimità all’interno del discorso pubblico. Non siamo «oltre il Novecento», se per «Novecento» intendiamo il secolo del conflitto tra chi vende forza-lavoro e chi acquista forza-lavoro.
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Siamo dentro il Novecento, fino in fondo, fino al punto in cui il conflitto si è fatto talmente aspro da fare perdere quasi completamente il senso di sé a una delle due polarità, sino al punto di annichilire il lavoro sul piano materiale e la sua soggettività politica. Ma non per questo esso è scomparso, inghiottito da presunte moltitudini aclassiste, sussunto dai nuovi archetipi del cittadinoutente in dialogo con la tecnica, inglobato da nuove governance da arricchire o attenuare con i must della partecipazione e della trasparenza. Il lavoro, dunque, è al centro. Non per stabilire gerarchie penalizzanti o, ancora peggio, per legittimare la sottovalutazione di altro: la contraddizione tra capitale, uomo e natura o la contraddizione tra i generi. Anche perché le forze del progresso nella Storia sono riuscite a crescere e a vincere soltanto quando hanno intrecciato il lascito più fecondo della Rivoluzione francese con il movimento operaio e hanno riconosciuto uno spazio strategico di libertà e diritti individuali e civili inespugnabile anche dalla dimensione collettiva. Semmai bisogna ridefinire i confini di quel lavoro che è al centro della scena. Un lavoro diverso, verticalmente disintegrato, attraverso il ricorso sistematico all’outsourcing, al subappalto e all’esternalizzazione (anche di interi processi produttivi, allo scopo di aumentare l’efficienza e la produttività dell’impresa, diminuendo i costi), che ha rovesciato la tendenza fordista all’integrazione verticale e determinato una frammentazione decentrata della produzione anche in presenza di una crescente centralizzazione finanziaria. Un lavoro in cui l’incontro con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in generale con il digitale, ha determinato nuovi e più alti livelli di specializzazione; in cui la flessibilità, connessa a una richiesta di adattabilità ai mutamenti di ritmo e di mansione, diventa l’elemento cardine della sua organizzazione, soprattutto per la manodopera femminile, introducendo un secondo livello di sfruttamento e discriminazione, ancora di più nel tempo della crisi; in cui cresce il peso della conoscenza e del lavoro autonomo, interno ma anche esterno allo schema del rapporto salariato; in cui si diffondono relazioni industriali ad alta individualizzazione, che alludono al superamento o perlomeno alla marginalizzazione della contrattazione
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collettiva e alla compressione del principio della rappresentanza. Un lavoro, in definitiva, che è completamente cambiato e che, soprattutto se guardiamo la direzione e la tendenza, ci costringe ad affinare lo sguardo, ad allenare l’intelligenza. Fino a cogliere il vero fattore destabilizzante: la tecnica, che stringe la sua alleanza con l’economia e diventa variabile autonoma, essa stessa elemento di dominio. Lungi dal liberare il lavoro e l’uomo dal lavoro, lo sviluppo tecnologico affidato alle mani dell’intelligenza capitalistica ha imbrigliato l’uno e l’altro, aumentato i ritmi e affermato un nuovo modello. Alle spalle di questo modello agisce senz’altro la dialettica dell’illuminismo e cioè il paradosso della negazione, attraverso la razionalità tecnocratica, della libertà di un soggetto che proprio attraverso la Ragione, la scienza e la tecnica aveva cercato la via dell’autodeterminazione. Horkheimer e Adorno hanno descritto la volontà di potenza e la logica di dominio inscritte nel codice genetico della ragione strumentale che, mostruosamente, si sono ribellate all’uomo e lo hanno soggiogato. L’invadenza della tecnica di cui Habermas ci ha reso avvertiti ha finito con il soverchiare e il piegare alla sua ragione astratta e impersonale (ma economicamente connotata) i bisogni sociali e prima ancora i bisogni umani. Non è una sorpresa: è con la tecnica che nel Novecento si accentua e totalizza la subordinazione delle masse e della stessa sfera pubblica all’interesse privato. Oggi più di ieri il suo dominio parossistico (quasi una superfetazione) non coincide con le esigenze dell’umanità. Lo sviluppo della tecnica, che ha senz’altro velocità ed eccedenze sue proprie, segue però un destino che oggi nel mondo è in larga misura interno al capitalismo occidentale. E segue, della sua vicenda, ogni opacità e ambivalenza. Si pensi al Novecento, nel cui cuore si insedia la tecnica. Il secolo dello sviluppo straordinario delle forze produttive, dell’industria, della conquista dello spazio è anche il secolo della Shoah, la barbarie assoluta, che non casualmente viene pianificata nel cuore dell’Occidente capitalistico, al punto più alto della sua parabola. E non casualmente viene attuata attraverso la serializzazione industriale (for-
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dista) della morte, che ha il suo topos non nelle camere a gas, anch’esse simbolicamente e concretamente decisive, ma nell’idea dello sterminio, dei grandi numeri, della ripetitività in serie infinita della morte. Allo sbocco di questa ambivalenza c’è il capitalismo neo-liberale, che pare avere inverato la sintesi tra tecnocrazia e dittatura plebiscitaria. La realtà della governance europea è davvero un paradigma. Il governo oligarchico delle tecnocrazie (in primo luogo la Bce, unica banca centrale del mondo ad avere uno statuto che la obbliga a utilizzare le banche private come intermediarie, a scopo di lucro ovviamente, nel rapporto con le banche nazionali; e la Commissione Europea, nominata ma non eletta dal Parlamento europeo) si accompagna su scala nazionale a processi di involuzione delle architetture istituzionali che mirano al presidenzialismo e al plebiscitarismo. Torniamo sempre al punto, al passaggio di fase interno alla storia del capitalismo occidentale che si colloca a metà degli anni Settanta. Frammentazione del processo produttivo e delocalizzazioni, precarizzazione del lavoro ed esternalizzazioni, conseguente caduta dei redditi, privatizzazioni, finanziarizzazione e liberalizzazione dei movimenti di capitale fanno quindi pendant con la metamorfosi della democrazia e cioè con l’accentramento del potere negli esecutivi e l’innesto a tutti i livelli di dosi di autoritarismo e plebiscitarismo. E la tecnica – in questo caso dei governi – è il mastice con cui si cementa l’intero processo. Qui si situa la nostra lotta per l’egemonia, di nuovo all’interno e non all’esterno delle contraddizioni vive, della natura dialettica del reale. L’impresa, questa volta, è porre la tecnica al servizio di un processo di trasformazione governato politicamente. È fare della politica il Principe di un vero controllo democratico dei processi che guidi la tecnica, contrastandone i pericoli e valorizzandone gli elementi potenzialmente progressivi, anticipatori di emancipazione e libertà. Nell’epoca di quello che è destinato a essere il lento crepuscolo della televisione, la Rete è soltanto un esempio di questa ambivalenza. Non soltanto per le sue arcinote condizioni genetiche: essa nasce da un massiccio investimento pubblico e, in particolare, dal-
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la ricerca tecnologica del comparto militare statunitense. Da una parte, quindi, internet è il teatro del capitalismo californiano e il suo totem, nel quale aziende come Facebook e Google (che si vanta di essere una un-company, cioè priva delle tradizionali strutture di potere, sebbene valga 400 miliardi di dollari e sia la seconda company al mondo anche grazie ad addentellati che la introducono in settori decisivi come le telecomunicazioni e l’industria automobilistica) vengono celebrate per la loro intelligente eterodossia. Mettendo a valore le comunicazioni personali e la quotidianità di milioni di utenti, sono in grado di produrre infatti un ulteriore e decisivo accentramento finanziario, riducendo al minimo la quantità di forza-lavoro messa in produzione e aumentando al massimo la quantità di plusvalore estratta. Se rapportiamo la capitalizzazione di Google e di General Motors al numero dei dipendenti delle rispettive aziende, il dato è eloquente: 8,5 milioni di dollari contro 235mila dollari. Una proporzione di 36 a 1. Google (428 miliardi di dollari) ha una valore di Borsa nove volte superiore a General Motors (47 miliardi di dollari) ma un quarto dei dipendenti (50mila contro 200mila). Per non parlare di WhatsApp, comprata da Facebook nel 2014 per 19 miliardi di dollari e con 55 dipendenti: 345 milioni di dollari per ogni dipendente. Si tratta di una bolla eccezionale e irripetibile, ovviamente, ma che rende perfettamente l’idea del limite. General Motors non fallirà. Ma Kodak è fallita, demolita insieme alla sua storica fabbrica di New York: un impero che nel 1988 contava 145mila dipendenti. Una grandezza imparagonabile con il numero 13, e cioè il totale dei dipendenti di Instagram nel 2012, al momento della sua acquisizione – per 1 miliardo di dollari – da parte di Facebook. Da una parte quindi tutto questo: un capitalismo che inserisce nel processo di valorizzazione l’esistenza, la comunicazione di milioni di utenti, riservando a sé il frutto dell’appropriazione. E che distrugge, non incidentalmente, forza lavoro, aprendo la strada alla propria autodistruzione. In questo senso la tecnica (tecnica nelle mani del capitale, prodotto collettivo e appropriazione privata) è parte dell’arsenale dell’avversario. Non dimentichiamo che, contestualmente, queste corporation sono in grado di condizionare apertamente – attraverso una egemonia antica ma
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di forma nuovissima – i processi democratici e gli orientamenti culturali di massa. Allo stesso tempo e per quanto possa apparire paradossale (e lo sia, a meno che non si riconosca la natura dialettica del reale), internet è però la dimostrazione di come la tecnica possa facilitare la costituzione di nuovi territori di incontro, scambio, condivisione di cultura, conoscenza e saperi. Saperi tecnici all’interno di piattaforme digitali che dimostrano ogni giorno la possibilità di stabilire legami di cooperazione, di mutualismo virtuale e talvolta addirittura forme diverse di proprietà. Il peer-to-peer, il free software, l’open source e altre forme di condivisione in campo informatico mettono in discussione il carattere privatistico del sapere e le speculazioni che vivono grazie a esso. La rete diventa quindi, anche, il territorio in cui la tecnologia è l’oggetto possibile di un’offensiva egemonica. Il nostro compito, come nella rudezza dei rapporti materiali, è permettere l’irruzione prorompente di nuove soggettività, cui connettere cittadinanza e poteri. La riflessione sulla Rete ci obbliga ad analizzare più in profondità un fenomeno di cui ora scorgiamo soltanto la superficie. Cogliere le linee di tendenza, la direzione complessiva dell’onda lunga che ha travolto la democrazia e modificato i connotati del discorso pubblico è un’impresa indispensabile benché difficile. Sappiamo con certezza che essa si colloca al punto d’intersezione tra la crescita del lavoro materiale su scala mondiale, grazie soprattutto all’accumulazione originaria e all’industrializzazione del continente asiatico (il cui modello non è scalfito dal crollo delle Borse dell’agosto 2015, non paragonabile per genesi e quantità alla crisi globale cominciata negli Stati Uniti nel 2007), e la crescita della composizione organica del capitale nei Paesi dell’Occidente. La previsione che avanziamo è che a quel punto d’intersezione – nei prossimi decenni – vi sarà il conflitto e non l’armonizzazione, uno scenario di esclusione e non di inclusione, a meno di un cambio di rotta significativo. Ed è questa una ragione ulteriore per organizzare la nostra parte e non soccombere. Uno dei terreni sui quali verificheremo questa congettura è precisamente la sfida che dovremo essere in grado di giocare all’interno
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di quella prospettiva economica dell’accesso (e non della proprietà, per utilizzare le categorie di Jeremy Rifkin) che connota la sharing economy, vera e propria miniera di contraddizioni. Non soltanto perché essa, lungi dall’essere economia della condivisione e collaborativa, si traduce sovente in un modello di rental economy, in cui le possibilità del noleggio e dell’accesso sono del tutto proporzionali alle possibilità di acquisto e di proprietà. Ma anche perché l’economia della condivisione, proprio come la Rete in quanto tale, sta negli ultimi anni trasformandosi in una macchina di estrazione del profitto da parte di grandi corporation. Michel Bauwens ha parlato di net-archical capitalism, mettendo l’accento sul processo gerarchico di sfruttamento, dall’alto verso il basso, delle forme economiche sharing. Da Uber a Airbnb il mercato ha scoperto che le pratiche peer-to-peer sono estremamente produttive e capaci di generare profitti molto alti, approfittando anche della possibilità di utilizzare queste reti e le rispettive piattaforme per esternalizzare i rischi sui privati locatori-lavoratori e abbassare i costi di produzione. Ovviamente, oggetto della condivisione può essere anche la forza-lavoro in quanto tale, come nel caso di taskrabbit.com, un marketplace che fa incontrare domanda di servizi e offerta di lavoro, al di fuori di qualsiasi contrattazione collettiva, addirittura in forme analoghe a quelle offerte dalle aste di eBay. Siamo giunti al punto che il venture capital di un sistema che ha polverizzato il mondo del lavoro viene investito per lucrare sulla possibilità, per disoccupati o inoccupati, di trovare piccoli lavori saltuari. Il nostro compito è duplice: non abbandonarci all’idea che la sharing economy sia il modello alternativo al capitalismo che cerchiamo, facendoci attrarre dalle sirene di pensieri solo apparentemente anti-sistemici che la considerano, in nuce, liberata; e non consegnare la sharing economy al grande capitale, provando a trasformarla (a trasformare alcune sue espressioni) in un punto di resistenza virtuosa e in uno dei tasselli di un nuovo e articolato modello di sviluppo. Del resto, alcune pratiche di consumo collaborativo (la condivisione di infrastrutture, spazi di lavoro, automobili, strumenti digitali) sono già oggi parte di un ingranaggio differente. Una ragione in più per comprendere la razionalità di fondo e distinguere, nel cammino quotidiano, il grano dal loglio.
7. IDENTITÀ E CULTURA POLITICA, DENTRO E OLTRE LA TRADIZIONE
La rivoluzione neo-liberista, il crollo del Muro di Berlino, il tempo della crisi e della tecno-finanza: il capitale accelera la sua corsa e travolge ostacoli e avversari. Qual è stata la colpa di questi ultimi? Qual è la colpa che rischia di diventare anche nostra se non agiamo, trasformando il pensiero in azione? Non avere saputo elaborare il lutto, non avere emulato l’intelligenza del vincitore e non avere messo a punto le controffensive necessarie, sino al punto di nascondersi mimeticamente nelle sue ragioni. La sconfitta ha portato prima ad allearsi con l’avversario e poi, attraverso una lunga mutazione genetica, a cambiare pelle, ad assumerne il punto di vista, il linguaggio, la cultura: ecco ciò che ha fatto la sinistra europea negli ultimi vent’anni. Mentre il capitale affondava i colpi nell’attacco frontale, dando vita a un campo semantico vasto e suadente, trasversale seppure parcellizzato (giacché la frammentazione ha agito sistematicamente anche qui, sul terreno della iper-specializzazione e della demolizione di ogni sapere organico e olistico), la sinistra retrocedeva imbelle, sceglieva il disancoraggio, dal suo pensiero e dalla sua classe, sconfitta e perduta. La abbandonava a se stessa, alla potenza apparentemente irreversibile della sua stessa regressione antropologica. Afasica, aprassica, senza più bussola né rotta. Talmente disorientata da iniziare a credere alla narrazione dell’avversario e da iniziare a trovar gusto nel governare, da funzionario esattore, in nome di quelle regole e di quei principii per lunghi decenni combattuti. Pensiamo all’Italia, dove il centrosinistra dal 1991 in poi è la storia di questa progressiva infatuazione nei confronti del neoliberalismo. Sia nella progettazione del campo politico, contrassegnata da un’ansia truffaldina di scappare dalle proprie radici, di congedarsi dalla propria funzione storica, dalla propria ragione sociale, sia ancora di più nell’azione di governo, puntellata nel
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corso di due decenni da processi di cartolarizzazione, privatizzazione, aziendalizzazione dello statale e del pubblico. Un grande e irresponsabile inganno che ha bloccato lo sviluppo di una vera e seria auto-riforma del nostro campo e ha concesso, ai suoi margini, la mera sopravvivenza di culture e pratiche radicali quanto residuali. Non solo in Italia, ma in tutta Europa, la famiglia del socialismo europeo è diventata lo sparring partner dei conservatori e delle destre europee, l’esecutore materiale di politiche di austerità e di contrazione dello stato sociale. Alla sua sinistra, l’opposizione di sua maestà: sterile, inefficace, protestataria e rinunciataria, aggrappata ai simboli e all’estetica del conflitto, disinteressata al consenso e al governo, minoritaria e dunque inoffensiva. Anch’essa inesorabilmente sconfitta. Oltre le dune e oltre l’illusione delle oasi, alla fine del deserto c’è però un mare che una nuova sinistra può tornare a navigare, per il quale occorrono nuovi strumenti e nuove destinazioni. A patto che sia forte di un pensiero all’altezza, che riscopra e rielabori le categorie della trasformazione e trovi il coraggio di tradurre questo pensiero in prassi, in un vero e proprio soggetto politico. Il segno più clamoroso dell’interiorizzazione della sconfitta è la rimozione di sé, di una storia che poggia sulla scelta della propria parte nel mondo. Un sé e una storia che si chiamano identità e che, nell’epoca del post-pensiero, paiono banditi e criminalizzati. L’unica identità lecita è quella del capitale. La nostra sfida è ridefinire un’identità, sapendo che essa – il suo carico di significati, di storie, le stratificazioni che la definiscono – può rivelarsi progressiva, può aprire strade, può istruire sviluppi. Il nostro compito è costruire la nostra identità sfidando la profezia dell’avversario, smontando la gabbia nella quale vorrebbe che noi ci chiudessimo a chiave e per sempre. Andrebbe preso sul serio il monito insito nell’annuncio della partenza di Abramo (Genesi, 12): «Vattene dal tuo paese, dai tuoi parenti, dalla casa di tuo padre». Questa è l’identità che sentiamo nostra: una condizione ontologica di diaspora, di nomadismo, che è straordinariamente moderna. Un esodo che è un invito a considerare
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il presente e la costruzione del futuro come un cammino e non come un dogma da inverare. Nell’atto stesso in cui definiamo l’identità, la mettiamo in discussione e la superiamo, perché essa contiene la spinta alla ricerca. Qui vive il senso della nostra necessaria grande trasformazione, nel bisogno di riappropriarci di parole antiche e nella capacità di costruirne di nuove. Per reagire al dramma di tempi nei quali le parole, anche le nostre, non significano più nulla, vittime di quella che Calvino chiamava «epidemia pestilenziale»: una malattia terribile perché in grado di livellare, diluire, banalizzare il nostro vocabolario, restituendoci soltanto residui. Se la Sinistra ha smarrito se stessa la via d’uscita è soltanto una: abbandonare la rincorsa all’eterno presente per riconquistare uno sguardo critico sul mondo attraverso un modo diverso di leggerlo e interpretarlo, cioè attraverso parole nostre, inequivoche, immediatamente significative. Il primo scoglio da superare è proprio all’incrocio tra passato e futuro, dentro la natura polisensa dell’identità: determinare un giusto equilibrio tra discontinuità e tradizione. Nella mente serbiamo la lezione di Enrico Berlinguer, l’idea di una forza conservatrice del proprio passato ma non per questo meno rivoluzionaria. Conservatrice e rivoluzionaria, una definizione contradditoria per una (apparente) contraddizione necessaria. La tradizione, innanzitutto. In una lettera del 1924 alla moglie Giulia, Antonio Gramsci ricorda alcuni episodi di vita insieme e in particolare l’immagine di lei in partenza, «tutta sola», incamminata «col carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile». Grande e terribile come il secolo della cui storia quel mondo svolge le trame. Il secolo delle guerre più truculente ma anche il secolo che, poggiandosi sulle spalle di Kelsen e Rawls, pone le basi giuridiche e filosofiche della pace. Il secolo della bomba atomica ma anche il secolo della teoria e della pratica della non violenza, da Gandhi ad Aldo Capitini. Il secolo della Shoah, l’abisso più profondo della Storia umana (così sapientemente colto nella sua ontologia da Karl Jaspers e da Hannah Arendt), ma anche il secolo dell’epopea delle liberazioni,
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delle rivoluzioni, delle insorgenze di popoli che, da schiavi, hanno rotto le catene e guadagnato libertà, democrazia, uguaglianza, dando vita – ancora una volta – a vicende grandi e terribili. Ma cosa dice l’ambivalenza, contenuta nell’endiadi ricorrente? Forse ci consegna un insegnamento sulla modernità e sull’iniziativa dell’uomo dentro di essa. La consapevolezza che il moderno è il regno della dialettica, dove la tesi e l’antitesi vivono e si superano reciprocamente conformando di sé il reale. E allora accade che – per usare un altro paradosso significativo – il progresso scientifico e gli studi sulla fissione nucleare vengono posti al servizio della bomba atomica; e che le ricerche sulla chimica dei gas vengono piegate allo scopo di eliminare, nei campi di concentramento, sei milioni di ebrei. Perché il capitalismo, tutto, contiene allo stesso tempo guerra e diritti sociali, colonialismo e democrazia. E nella sua indole esso è irrazionale sino al suicidio, la forma più estrema di irrazionalità. Il rapporto cannibalesco con le risorse naturali, l’ipersfruttamento e la contaminazione dei suoli, dell’atmosfera e degli oceani, la cancellazione progressiva delle foreste, la riduzione della biodiversità sono il paradigma più efficace di questa pulsione omicida e al contempo autodistruttiva. È come se questa natura nevrotica e multiforme del Novecento ci raccontasse la genetica del moderno, epoca del sublime. Come un quadro di Friedrich, come Il naufragio della speranza, che trapassa l’Ottocento e arriva fino al secolo che abbiamo alle spalle. Conosciamo un solo antidoto al naufragio della speranza: è la Politica. Per iniettare la politica nelle vene di una democrazia in crisi è essenziale contrastare la vulgata che ci vuole oltre la politica e oltre la modernità, e che per questa via tematizza la subalternità del discorso pubblico alle ragioni della tecnica e teorizza la necessità di un governo dell’esistente come disciplina della somma algebrica dei bisogni e degli interessi individuali. La sfida che ci lancia l’impianto teorico del post-modernismo, da Jean-François Lyotard a Richard Rorty, va presa sul serio, perché soltanto una sua falsificazione ci consente di liberare il campo
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dagli ostacoli che impediscono lo svilupparsi di un processo politico. Quel che qui mettiamo in evidenza è come il post-modernismo sia il controcanto del neo-liberalismo e lo accompagni semanticamente a partire dal disincanto prodotto dall’incapacità – tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta – di inverare le promesse elargite nei decenni precedenti dalla metafisica del progresso e dalla grande narrazione marxista. Questa razionalizzazione del disincanto produce almeno tre effetti: il primo è la convinzione di non potere trasformare il mondo; il secondo – nella demitizzazione dei pensieri forti – è la produzione paradossale di un pensiero dogmatico e inflessibile, che ruota intorno all’aporia dell’impossibilità di cambiare il mondo; il terzo effetto è l’adattamento alle dinamiche del Mercato che, nel mare magnum delle differenze di una società globale, interconnessa e pluralistica, svetta e comanda; e la conseguente valorizzazione dell’uomo flessibile, in grado di vivere esistenzialmente nel tempo del Mercato. In questo perimetro concettuale non c’è spazio per la Politica, né come descrizione di ciò che è coerente con il nuovo contesto molecolare, né come anticipazione narrativa di ciò che potrebbe sconvolgerlo. Mentre quel che serve, dal nostro punto di vista, è esattamente l’opposto: ricostruire una centralità e un primato della Politica, assumere l’intuizione geniale di Mario Tronti, l’autonomia di questa forza, intesa come agente di una trasformazione nella quale si incarna la volontà storica collettiva dei subalterni. Ciò implica fare i conti con la sua sconfitta e con i suoi limiti; e pure con le illusioni più suadenti che hanno sfondato il perimetro del pensiero dominante divenendo parte integrante finanche di certe narrazioni alternative. Con i suoi limiti: perché la politica che è sopravvissuta all’offensiva neo-liberista è avvizzita, spesso priva di aderenza al piano del concreto, assurta a pura forma astratta, a liturgia o a catechesi di formule ideologiche autocentrate, egotistiche, incapaci di produrre legami con il tessuto sociale né al livello della rappresentazione di interessi materiali e collettivi né al livello della comune produzione di senso e di pensiero simbolico. E con le illusioni suadenti: perché troppo spesso, anche a sinistra, si sono inseguiti i cliché del pensiero dominante e si è combattuta nei
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fatti una guerra contro la Politica i cui effetti sono oggi lampanti. In nome della proclamata «autonomia del sociale» e, più recentemente, di pulsioni alla iper-personalizzazione della forma-partito e alla spettacolarizzazione dei protagonisti carismatici, si è zittita la Politica. La si è consegnata alla logica maggioritaria dei sistemi politico-istituzionali liberali e alla prospettiva del presidenzialismo, revocando un protagonismo di massa faticosamente conquistato in secoli di lotte sociali. Va rimessa al centro la Politica, quindi, e per questa via occorre organizzare un nuovo campo progressista. In maniera intelligente, sapendo che soltanto questo cimento potrebbe consentire di battere i populismi e le demagogie, sostituendo a essi il progetto di una nuova grande narrazione e di una nuova grande organizzazione di massa in grado di interpretarla. Politica e populismo sono nemici irriducibili. Quest’ultimo, infatti, vive all’interno di una prospettiva organicistica che rende impossibile una sua reinterpretazione e un suo utilizzo all’interno di un discorso contro-egemonico progressista. Il populismo qualifica una chiamata alle armi di un “basso” indistinto ma moralmente puro e virtuoso – il popolo – contro un “alto” altrettanto nebuloso ma moralmente corrotto. Presuppone una visione corporativa del popolo che mette tra parentesi, quando non ignora completamente, le differenze e le gerarchie che fratturano la società e gli interessi contrapposti. E mette a capo di questo popolo in marcia contro il potere un capo carismatico, capace di saltare le mediazioni tipiche delle forme moderne della rappresentanza, percepite come burocratiche e anacronistiche. Il populismo annienta quindi la Politica, svolgendo una funzione di disgregazione e riaggregrazione in termini ampiamente regressivi del rapporto tra masse e potere. Utilizzando una categoria cara ad Antonio Gramsci, il populismo è fratello gemello del bonapartismo. Ai corpi intermedi, agli istituti democratici e ai luoghi di autogoverno si sostituisce il rapporto immediato tra leader e popolo. È rilevante constatare come questo stesso schema valga anche all’interno del pensiero tecnocratico cui il neo-liberalismo attinge, perché l’oligarchia tecnocratica è il dominus che sostituisce il capo
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carismatico annichilendo la rappresentanza e la dinamica sociale. La negazione in via teoretica del conflitto e della dialettica tra interessi contrapposti, in nome della postulazione di una tecnica buona ed efficiente (come buono ed efficiente è il popolo nel discorso populista), produce la cancellazione dell’utilità dei corpi intermedi, degli istituti democratici, dei luoghi di autogoverno. La nostra proposta – per queste ragioni – non può che definirsi in autonomia e in alternativa alle suggestioni populistiche (in alternativa anche a presunte declinazioni “di sinistra” del populismo). La riconquista di una connessione con il popolo – che in alcuna misura può essere appannaggio esclusivo della lettura populista – si deve fondare su altri presupposti: su di una scelta precisa in ordine agli interessi sociali, sulla definizione di un nuovo immaginario simbolico, su di un’idea inedita di democrazia e sul protagonismo diffuso e molecolare delle donne e degli uomini socialmente connotati. Si tratta di un compito molto più articolato, ma è l’unico modo per ricollocare su basi realmente diverse la nostra idea di società, di politica e di mondo. Il terreno della cultura politica è quello di un reticolo di pensieri, di suggestioni, di orizzonti, di esperienze. Che è anche l’impegno a immaginare – con Ingrao – l’impossibile, a oltrepassare il limite del già pensato, del già sperimentato. A perseverare nella ricerca, accogliendo l’esortazione di Claudio Napoleoni a «cercare ancora», a cercare sempre. Ma una cultura politica è, al contempo, anche la scelta di alcuni punti cardinali che, declinati nel tempo nuovo, orientano, richiamano a una coerenza indissolubile. Alcuni di questi hanno una costante: il protagonismo integrale dei corpi collettivi. Il primo è l’intuizione feconda del giovane Eugenio Curiel, quell’idea di democrazia progressiva come «formulazione politica del processo sociale della rivoluzione permanente». Non quindi una condizione di equilibrio statico delle forze sociali, non un governo in nome e per conto delle classi popolari, ma un processo di progressivo coinvolgimento di queste nell’esercizio del governo coerente con il progresso sociale. Oltre la patina di polvere del linguaggio antico, e oltre la contingenza storica in
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cui Curiel inscrive la propria riflessione, la sostanza è decisiva: il socialismo si conquista soltanto attraverso una pratica di autogoverno. Sullo sfondo, agiva in Curiel la convinzione che il fascismo non fosse una parentesi e che dunque non fosse sufficiente ricominciare nel punto in cui si era interrotta la tradizione dello Stato liberale. La nuova Italia doveva nascere dalla valorizzazione ed estensione della rete di organismi di massa che era alla base del Cln: solo così la democrazia poteva essere presidiata e compiuta. Oggi che abbiamo perso ogni retaggio di quegli istituti di democrazia dal basso, dobbiamo provare a ricostruirli, per poi impostare proprio da lì la nostra risalita. Ma dove si collocano questi prodromi di democrazia? Nel campo delle idee o nel cuore della struttura sociale? Il secondo punto cardinale è il monito di Antonio Gramsci, la sua acuta insistenza sulla necessità di concepire gli istituti di autogoverno come precondizione per l’affermarsi di una «autonomia dei produttori» che condensi coscienza e consapevolezza di sé, del proprio valore, della propria funzione, della propria responsabilità, del proprio avvenire. Il sistema dei Consigli di fabbrica è questo: è la democrazia progressiva a partire dai luoghi della produzione, è l’alternativa consapevole che si forgia nel punto alto della contraddizione con il capitale. Una scelta che tornerà in quello che è per noi il terzo punto cardinale e che troviamo nei pensieri eretici ed eterodossi di Pietro Ingrao e Lucio Magri: l’idea di una storia mossa dal basso, di un rapporto con il potere come sfida della partecipazione, come estensione di un protagonismo di massa che trova il suo centro di gravità nella nuda vita degli uomini e delle donne che incarnano il presente e il futuro di un’idea di liberazione. Non si tratta di santini per un Pantheon démodé, ma di tracce feconde, gravide di prospettiva, a condizione di fare vivere il nostro progetto dentro le trame dell’oggi e le frequenze della sua nuova complessità. Occorre però fare i conti con una contraddizione, che rischia di essere antinomia se non vi prestiamo attenzione. Autonomia del politico e protagonismo integrale dei corpi collettivi, alto della politica e democrazia in costruzione e in trasformazione: sono due orizzonti che dobbiamo conciliare in una sintesi complessa
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ma a nostro avviso necessaria. In che modo? Mitigando l’idea assoluta dell’autonomia del politico nel senso della critica all’avanguardismo già espressa. Quando la distanza dalla politica dalla società diventa estraneità si produce un cortocircuito e la capacità di previsione e di lettura e di indirizzo dei processi sociali da parte della politica si esaurisce, slegandosi completamente dalla Storia. E d’altra parte, allo stesso tempo, non possiamo mai confondere la gramsciana «adesione al territorio», l’internità al basso della società, con l’accettazione acritica della sua natura e della sua «immaturità», soprattutto in un contesto in cui il guasto antropologico determinato dal neo-liberalismo ha prodotto i suoi effetti, inducendo anche in questi settori l’introiezione dei suoi valori dominanti. Per questo una democrazia progressiva che nasce e si sviluppa per contagio popolare non aggredisce dal basso la politica né legittima visioni spontaneiste: al contrario, rafforza la politica perché si colloca nel cuore dell’alto dei processi economici e produttivi, delle sue contraddizioni. Qui è possibile una sintesi: in un momento della politica che vive ed esprime la sua autonomia insieme e dentro la trasformazione materiale, economica e sociale della democrazia.
8. UN’AMBIZIONE MAGGIORITARIA: PERCHÉ CI INTERESSA TRASFORMARE IL MONDO
Il protagonismo necessario dei corpi sociali e l’idea di una democrazia progressiva e permanente – praticata dai nuovi soggetti della trasformazione all’interno di ciascuno dei gangli reali e virtuali della società contemporanea – hanno senso soltanto nella misura in cui irrompono autonomamente ed escono da un racconto eterodiretto nel quale il capitale vorrebbe imbrigliare il concetto di partecipazione e la sua pratica. Lo possono fare a tre condizioni. La prima è che questa prassi del potere popolare miri al governo dei processi politici, economici e sociali. Non si dà politica senza ambizione al cambiamento, non si dà sinistra senza impegno strategico per il rovesciamento, anche attraverso la pratica del governo, degli equilibri sociali. Il governo è virtù preziosa, che muove dal territorio, dalla cura delle città, dei piccoli borghi, dell’ambiente e che esplora poi dimensioni più ampie, più suggestive. Governo e potere sono due concetti distinti ma il primo è indispensabile e propedeutico al secondo. Da qui non si sfugge, giacché riteniamo concluso il tempo del commento esterno, della polemica e dell’opposizione sconnessa all’assunzione di responsabilità nel produrre il cambiamento. Anche nell’epoca più difficile, in cui le compatibilità riducono all’osso lo spazio di manovra. A maggior ragione qui e ora, con questa complessità: più dura è la sfida, più impegnativa deve essere la nostra scommessa. La seconda necessità, che consolida e completa la prima, è che la nuova democrazia ponga al centro della propria prospettiva il tema delle alleanze. Non come questione algebrica di addizione o sottrazione di contenitori elettorali strategicamente vuoti e sconnessi da ancoraggi sociali precisi, ma come grande materia che concerne i rapporti tra le forze sociali, i movimenti, le arti-
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colazioni complesse della società civile e tra il partito e ciascuna di queste reti. Il tema delle alleanze va posto allora come strumento della costruzione di un blocco sociale nella definizione di convergenze tra centri di rappresentanza di interessi sociali, il cui punto di sintesi è un progetto di società, un programma dai contenuti vincolanti. La terza condizione, infine, impone una rivoluzione copernicana nel pensiero e, ancora prima, nel nostro approccio alla politica. Allude alla definizione necessaria di un sistema di interessi che contemperi esigenze diverse e disarticoli il blocco dell’impresa conquistando alle nostre ragioni settori avversari attraverso un patto tra le forze produttive del Paese che sia serio, dettagliato, rigoroso e moderno. Governare il cambiamento non consente scorciatoie massimaliste. Impone, al contrario, grande fiducia nella capacità di dirigere egemonicamente un nuovo blocco storico. Di cosa stiamo parlando, concretamente? Guardiamo al nostro Paese e a quei settori produttivi che, pur dentro la crisi, non sono affondati. Guardiamo alla loro qualità, a ciò che li caratterizza in via peculiare, come emerge dal Rapporto Unioncamere 2014: si tratta di piccole imprese trasformate in imprese sociali, in grado di continuare a produrre in assenza di profitto (con una logica che incrina il mantra capitalistico); di attività produttive familiari e cooperative che seguitano a generare ricchezza e a salvaguardare occupazione anche in presenza di una remunerazione insufficiente del fattore produttivo; della capacità, infine, di mantenere nicchie di produzione al riparo della competizione globale, attraverso un export di qualità. Si tratta di imprenditorialità diffusa, che spesso è in grado di produrre innovazione e che molto spesso vive al di fuori della logica della massimizzazione del profitto di breve periodo, riuscendo a diventare un punto di riferimento, non solo produttivo, del territorio, esprimendo rappresentanza di un insieme più vasto di interessi e, talvolta, addirittura una pratica di salvaguardia del bene comune. Perché non deve essere lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, a farsi carico di valorizzare questi modelli dentro una prospettiva nazionale e perché non deve essere la Sinistra a governare e indirizzare, in alleanza con questi poteri, lo sviluppo dell’economia reale?
Un’ambizione maggioritaria
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Per dirigere il cambiamento e assumersi la responsabilità di invertire la rotta di decenni di politiche neo-liberiste bisogna essere certi di conoscere il cammino. La nostra stella polare è una e si chiama uguaglianza. Recentemente uno studio di Oxfam Italia ha stabilito che le 85 persone più ricche del mondo possiedono l’equivalente della ricchezza detenuta da metà della popolazione mondiale. Ancora, il reddito dell’1% delle persone più ricche del mondo ammonta a 110miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza posseduta dalla metà della popolazione più povera del mondo. Ciò che rileva è che non si tratta di costanti, ma di valori in rapida crescita. Sette persone su dieci vivono in Paesi nei quali la diseguaglianza economica è aumentata negli ultimi trent’anni. L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito, tra il 1980 e oggi, in 24 dei 26 Paesi più industrializzati. Restringendo ancora di più lo spettro temporale agli ultimi cinque anni (dopo la crisi, dunque) e focalizzando l’attenzione sull’epicentro del mondo capitalistico, l’1% dei cittadini statunitensi più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse mentre il 90% della popolazione si è impoverito. Tutto questo è diretta conseguenza di precise politiche economiche e fiscali. È sufficiente un dato: negli ultimi trent’anni la tassazione per i più ricchi è diminuita in 25 Paesi su 26. L’Italia non fa eccezione e gli studi della Banca d’Italia dimostrano che le diseguaglianze nella ricchezza sono ancora più marcate rispetto a quelle relative ai redditi. Già nel 2006, i dieci individui più ricchi del nostro Paese possedevano una quantità di ricchezza equivalente a quella dei 3 milioni di italiani più poveri. Questi dati aiutano a raccontare quanto è grande e feroce la diseguaglianza, la disparità nell’accesso alle risorse e ai servizi, nell’esigibilità dei diritti e, ancora più, nel controllo delle risorse e nel potere che da questo controllo deriva. Questi numeri pongono, ancora una volta, il tema della proprietà e della democrazia, rivolgendosi a noi. Noi rispondiamo affermando che non accettare la diseguaglianza come fatto naturale e incontrovertibile non è soltanto un dovere morale, ma è la chiave dell’alternativa, di una controffensiva democratica che mira, attraverso l’egualitarismo, a riconsegnare ai subalterni e a tutti i cittadini potere e dignità.
9. CENNI ESSENZIALI SUL PROGRAMMA DI GOVERNO
Non saranno le classi dominanti a risolvere la crisi, perché il perseguimento cieco e persistente del loro interesse rischia di travalicare i limiti di riproduzione dello stesso sistema di cui si nutrono. Tocca a noi articolare una proposta, evitando la solita collezione di intuizioni rapsodiche e i tanti pot-pourri di idee che abitano il dibattito politico. Ciò che serve è un programma di medio periodo, nazionale e anche europeo, giacché la dimensione interna ai confini nazionali – come abbiamo dimostrato – non ha alcuna autosufficienza. In primo luogo dobbiamo esplicitare quali sono i margini di manovra, perché il mantra delle compatibilità, del risanamento dei conti e della lotta al debito pubblico rischia di imbrigliare ogni ipotesi di politica espansiva. Noi riteniamo che soltanto stabilizzando o, se necessario, aumentando il debito pubblico rispetto al Pil nel breve termine, attraverso disavanzi buoni e pianificati in valori d’uso sociali, sia possibile evitare il default europeo. Per questo riteniamo necessario programmare immediatamente una Conferenza europea sul debito nella quale si ristrutturi e si rinegozi il valore differenziato dei debiti e dei pagamenti. Sul medio periodo, invece, il debito può essere ridotto soltanto investendo: in infrastrutture di interesse collettivo, in formazione e ricerca, in settori chiave dell’industria e della post-industria. Questo è il fulcro del programma: il tema di un piano per gli investimenti, della programmazione di una nuova politica industriale e post-industriale. Si tratta però di rovesciare una tendenza, perché la dismissione del patrimonio produttivo è stata accettata in questi anni come un dato naturale e insindacabile. Si pensi al nostro Paese: da una parte la lunga teoria di privatizzazioni e di svendite delle industrie pubbliche, che negli ultimi vent’anni ha
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smontato pezzo dopo pezzo il patrimonio pubblico regalandolo o cedendolo a prezzi ridicoli a investitori privati. Dall’altra parte la cessione, all’interno di strategie di mercato guidate dalla regola del massimo profitto, di quote significative di controllo di gruppi industriali italiani a società o holding straniere. Per frenare questa vera e propria desertificazione, bisogna organizzare una nuova strategia nazionale in tema industriale, che individui le priorità e determini gli orientamenti, incidendo direttamente anche nella dinamica dell’occupazione. Il primo tassello fondamentale è la ri-pubblicizzazione delle imprese strategiche, per esempio nel settore dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell’energia e del gas, nei settori fondamentali dell’industria pesante. Il secondo è la conversione ecologica dell’industria e della stessa economia, rompendo la subalternità a una logica produttivista che, portata alle sue estreme conseguenze, risulta incompatibile con la salvaguardia della salute e dell’ambiente. Per questo il tema della conversione ecologica – radicalmente valorizzata da Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – impone la ricerca sulla e della qualità, ecologica e umana, del lavoro (inteso espressamente come diritto sociale) e delle sue condizioni. Essa si può tradurre in un’opera di bonifica dei terreni inquinati e delle aziende inquinanti, modernizzando gli impianti, scegliendo e settorializzando la produzione; e, ancora, nel passare al setaccio il territorio nazionale e inaugurare un’opera decennale di cura e ricucitura della mappa dei dissesti idro-geologici. Il terzo tassello riguarda la cultura, la formazione, la ricerca scientifica, la scuola, l’Università, l’innovazione tecnologica: come insegna il capitalismo, anche nella sua fase neo-liberista, si cresce soltanto – soprattutto nel settore dell’alta tecnologia, dove un alto tasso di innovazione è essenziale – attraverso piani di investimento pubblici, anche in sostegno all’avvio di iniziative imprenditoriali private. Ma il terreno della pianificazione ha a che fare anche con l’Europa in quanto tale, che però deve cambiare pelle e riconquistare un’anima se vuole tornare a svolgere un ruolo politico nello scacchiere internazionale. Noi sappiamo che un’alternativa esiste sempre e che la progressiva (e all’apparenza inesorabile) contrazione dei margini di riformabilità di questa architettura istitu-
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zionale pone un problema serissimo. Tuttavia la nostra priorità, nella consapevolezza che la strada si fa sempre più stretta, è oggi quella di determinare dall’interno una riforma radicale di questa cornice. Non c’è futuro, infatti, senza un Parlamento con pieni poteri legislativi, senza una Costituzione votata dai popoli, senza una Banca Centrale Europea in grado di finanziare illimitatamente i disavanzi degli Stati stampando nuova moneta e in grado di finanziare, direttamente e senza vincoli esterni, i programmi nazionali di investimento pubblico. Di nuovo, il tema è il processo democratico. Con la democrazia formale e istituzionale che va implementata e rafforzata anche attraverso nuove forme di democrazia dal basso, autogestita, a partire dai luoghi reali della vita, dello studio e della produzione, non per contrapporre queste alle forme istituzionali già esistenti ma per completarle, per rafforzarle, per dare loro un senso e un valore più profondi. In questo senso riteniamo che sia possibile inaugurare una nuova stagione democratica soltanto a patto di mettere in discussione e sottoporre al voto dei popoli europei i trattati fondamentali. Noi riteniamo che un’Europa riformata, ricostruita dalle fondamenta, possa diventare lo strumento di affermazione di un nuovo ruolo del pubblico e di sperimentazione di nuove forme di cogestione. In quest’ottica, essa necessiterebbe in primo luogo di separare le banche commerciali per la raccolta di risparmio dalle banche d’investimento con fini speculativi. A valle di questo, l’Europa necessiterebbe di un bilancio incrementato, finanziato anche attraverso la Tobin tax europea. Inoltre, di una legislazione che proibisse i derivati finanziari speculativi e rendesse pubbliche le agenzie di rating, allo scopo di regolamentare il sistema del rating, che oggi è lo strumento privatistico di cui i grandi investitori si dotano per orientare al meglio i propri sconfinati conflitti di interesse. Per esempio, confinando il trading speculativo ad ambiti ridottissimi e vietando l’high frequency trading con denaro raccolto dal risparmio per la valorizzazione del risparmio. All’interno di quest’ottica il problema della politica monetaria – che appare talvolta decisivo e risolutivo – torna a essere una variabile dipendente del sistema economico.
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Un problema primario è invece, qui e ora, il commercio internazionale e, in particolare, la Transatlantic Trade and Investment Partnership, il cui obiettivo è adeguare la legislazione europea al più alto livello di liberalizzazione negli accordi di libero scambio. Nello specifico, l’obiettivo della contrattazione in corso tra Stati Uniti e Unione Europea è generalizzare un dispositivo, già noto nei free trade agreements, che consente la possibilità per gli investitori multinazionali di citare in giudizio gli Stati qualora questi promulgassero leggi o emettessero regolamentazioni che ne ledessero i profitti attesi o realizzati. Si tratta della vera cartina di tornasole per leggere lo stato della lotta di classe del capitale contro il lavoro, dal momento che – se il dispositivo fosse approvato – impedirebbe ab origine qualsiasi tipo di intervento statale. Cartina di tornasole per la forza del capitale e rappresentazione plastica della logica sottesa alle politiche d’austerità che, in sintesi, possiamo riassumere così: definitiva subordinazione del politico all’economico ossia definitiva adesione del profilo politico-istituzionale degli Stati alle esigenze di riproduzione del capitale globale; definitiva impermeabilità dei centri di potere economico – e delle loro decisioni – rispetto alle istanze, agli orientamenti e alle esigenze delle cittadinanze; e, dunque, definitivo svuotamento della democrazia di ogni significato sostanziale. Di fatto, si tratta – si tratterebbe – del compimento dell’obiettivo della rivoluzione passiva cominciata nella seconda metà degli anni Settanta: una ragione sufficiente per porre la sua ratifica in cima alle nostre preoccupazioni. Ma non è l’unica. Affondare il colpo di una vera controffensiva egemonica significa riconsegnare dignità e forza al lavoro, a partire dalla sua qualità e dalla sua quantità. Programmaticamente, ciò equivale innanzitutto a pensare a un piano di redistribuzione dei tempi di lavoro che riporti l’Italia nella media europea. Oggi, infatti, il monte ore mensile medio di un lavoratore nel nostro Paese è significativamente più alto. Contrastare la politica di incentivazione degli straordinari, ridurre l’orario di lavoro e riportarlo alla media europea equivarrebbe a creare diverse centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
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Ancora, ripensare il lavoro significa contraddire il pensiero dominante e, anche allo scopo di riaprire l’accesso a un mondo della produzione bloccato, vuol dire diminuire l’età pensionabile, a partire dalle donne e dai lavori usuranti. A fianco del lavoro o, per meglio dire, dentro il lavoro vive il tema dei salari, il cui aumento è la precondizione per una ripresa economica. Negli ultimi sei anni il reddito medio delle famiglie dei lavoratori dipendenti, in tutta Europa, ha recuperato a stento l’inflazione media. In Italia è addirittura calato e continua a calare, come dimostrano le rilevazioni e le stime più recenti. Per questo l’introduzione di uno standard retributivo europeo è improrogabile, senza contare che indurre i Paesi in surplus commerciale a una crescita dei salari reali oltre la produttività del lavoro contribuirebbe al riequilibrio nei conti con l’estero con grandi benefici pure dal punto di vista del processo – oggi interrotto – di unificazione politica. Infine, non esiste programmazione economica che non faccia i conti con un contesto che, mentre ricostruisce le condizioni per una occupazione piena e di qualità, si riproduce nella discontinuità reddituale per settori crescenti di popolazione, soprattutto per le fasce di popolazione giovanili mai entrate stabilmente nel mercato del lavoro. Per questo motivo l’obiettivo di una forma di reddito minimo è essenziale: non un reddito incondizionato di base (che sarebbe del tutto coerente con una opzione di stato sociale che accetti l’accesso al processo produttivo solo quando è compatibile con l’efficienza e la necessità del mercato) ma un reddito minimo garantito, legato a politiche di reinserimento lavorativo e collocato all’interno di una nuova idea di welfare che veda garantito, universalmente di base e a scalare in nome di un principio di progressività dei redditi, l’accesso ai servizi pubblici, alla formazione, alla salute, alla mobilità sostenibile, alla casa. Tutto questo deve sapere precipitare in un governo del territorio e dei beni indisponibili al profitto e alla mercificazione (che taluni, con un’intuizione suggestiva, chiamano «beni comuni») coerente e compatibile con quest’aspirazione globale. Una pratica amministrativa locale che faccia i conti con le difficoltà strutturali ma che indichi in ogni caso una strada percorribile: di
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buon governo e di innovazione. Da questo punto di vista la sperimentazione delle società in house no profit è particolarmente interessante, dato che permette di garantire la natura pubblica degli Enti che si occupano di beni comuni tramite la forma in house, che prevede di coprire per intero i costi di gestione pur non generando mai profitti. Tra l’Europa che tenta di umiliare la Grecia e quella che vogliamo esiste uno scarto impressionante. Da una parte il terreno di conquista del grande capitale tedesco, dall’altra una nuova Europa, con un baricentro più basso, che guardi certamente a nord e alla cultura mitteleuropea ma anche a sud, al Mediterraneo, ai ponti da gettare verso l’Africa e il Medio Oriente. Una nuova Europa che non volga lo sguardo soltanto a ovest, agli Usa e alla cultura anglosassone ma anche a est, come base per lo sviluppo di un nuovo multipolarismo, con nuovi attori, nuovi poteri, nuove culture. Del resto, il grande fenomeno migratorio – costante nella storia ma accentuatosi e radicalizzatosi in conseguenza dell’apertura delle frontiere e dell’allargamento globalizzato dei commerci, ma anche in conseguenza del moltiplicarsi in gran parte del pianeta di conflitti e guerre – non può essere oggetto della postilla di un programma. È già, inevitabilmente, la realtà costituente di un mondo in trasformazione e, con le seconde e terze generazioni di migranti, di un’Europa che mescola la propria natura (ciò che sceglie, della propria natura, come insindacabile) a quella di ciò che è altro da sé. Siamo a un passaggio epocale e la Storia, nel cammino di decine di migliaia di migranti verso l’Europa, segna un punto di svolta che dobbiamo sapere interrogare. Non soltanto perché ne cambia la fisionomia, i connotati demografici e persino culturali, ma anche perché avviene nel cuore della sperimentazione di politiche di austerità che rischiano di determinare, nella crisi, sentimenti di odio esplosivi. In questo senso l’ipotesi di un’uscita a destra dalla crisi può coincidere con l’ipotesi di una gestione di estrema destra del fenomeno migratorio. Il nostro compito è impedire la saldatura tra le due destre, tecnocratica e xenofoba,
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e una guerra civile molecolare di entrambe contro la diversità, l’alterità, i migranti in carne e ossa. Anche per questo motivo la costruzione di una nuova identità europea è la vera sfida, raccogliendo e non rifiutando la domanda di civiltà che viene assegnata al nostro Continente dai flussi di profughi e richiedenti asilo. Dobbiamo però essere consapevoli che questa identità non si produce per decreto; si crea piuttosto attraverso processi culturali di lungo corso e attraverso un impegno politico a fare dell’Europa un luogo sovrano e federato, in cui ciascun cittadino sia coinvolto, di cui ciascun cittadino sia responsabile. Parliamo di un’identità non statica ma dinamica, che abbraccia e accoglie la natura odierna dell’Europa ed è pronta a scrutare a fondo all’interno delle proprie radici. La solidarietà e l’accoglienza, la giustizia sociale e l’eguaglianza si incardinano nel terreno fecondo del pensiero politico laico e dell’illuminismo, del movimento operaio cosciente e delle sue organizzazioni di massa così come nella cristianità. Sono radici che si diramano in una direzione completamente diversa da quella tracciata dalle politiche monetariste e d’austerità dell’Unione Europea, dei suoi trattati e dei suoi organismi tecnocratici. In questa operazione di scavo e ridefinizione a più livelli della nostra identità non aiuta un approccio relativista, arreso all’inevitabilità dei processi. Aiuta invece, ancora una volta, la capacità sovrana di scegliere, indicando un orizzonte e salvaguardando, nel cammino del cambiamento europeo, conquiste di civiltà non negoziabili. Per tutte queste ragioni, rispondendo alla domanda contenuta nella magistrale lezione conclusiva di Lucien Febvre al corso tenuto al College de France nel 1945, scegliamo l’Europa come «tappa necessaria» e crediamo ancora che il problema europeo sia «questione mondiale» perché progettare l’Europa è ancora «in funzione del pianeta». È una strada strettissima ma non abbiamo altra via. L’unica alternativa appare la resa, l’adesione all’idea che la Storia sia finita per sempre. Con essa, il dichiarare conclusa e persa la partita della lotta di classe su scala continentale e quindi rinunciare al sogno di un diverso modello di sviluppo che nasca, dialetticamente e per contraddizione, dal cuore del modo di produzione capitalistico.
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Vorrebbe dire costringersi all’autocensura, a ripiegare su lotte di resistenza all’interno dei singoli Stati nazionali, mettendo tra parentesi la genesi, la genealogia e la genetica – sovente tutt’altro che progressiste – di ciascuno di essi. Noi non ci arrendiamo.
10. LA FORZA CHE SAREMO
Il confronto tra il passato e il presente è disarmante. Che fine ha fatto la forza, il patrimonio di idee e di azioni, della nostra Resistenza antifascista? Che fine ha fatto – utilizzando le parole di Pier Paolo Pasolini – quel «Paese onesto nel Paese disonesto», quel «Paese colto nel Paese ignorante», quel «Paese umanistico in quello consumistico» che prendeva la forma di un partito nuovo e di massa e di molto di più, all’intersezione tra lotte sociali e lotte politiche della nuova sinistra a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta? Non è sufficiente raffrontare quella storia – che certo non va mitizzata, ma che neppure possiamo permetterci il lusso di derubricare con sufficienza – con la miseria dell’oggi per giungere alla conclusione che il rinnovamento, profondo, della Sinistra e dei suoi gruppi dirigenti è indifferibile? E che esiste anche una questione generazionale – che ha la sua ragione soggettiva nei fallimenti clamorosi delle classi dirigenti degli ultimi vent’anni e la sua ragione oggettiva nelle modifiche del quadro economico e sociale – che spinge, che erompe, che urla un’eccedenza alla quale bisognerebbe arrendersi e consegnarsi? Una questione generazionale che sta dentro le linee di frattura della Storia, di questa storia, e che impone un salto, uno strappo, qui e ora, portando nella dialettica con il presente anche i suoi caratteri eterodossi: il suo essere precaria, cosmopolita, meticcia. Una dialettica tra tempi e generazioni differenti che è anche un invito a ricercare l’innovazione, sempre. Fuori e contro le catechesi stagnanti di una politica e di una sinistra che non comunicano più, che non interpretano più e che soprattutto non ascoltano più le sofferenze, il disagio, i desideri di un mondo in rapida evoluzione. Di una sinistra che ha insegnato a perdere, a banaliz-
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zare, a guardarsi allo specchio. E che siamo chiamati a scuotere e rivoltare, per tornare a essere, vivere, vincere. Siamo arrivati al punto conclusivo, che è uno solo perché sgorga consequenzialmente dall’analisi, dal pensiero, dalla realtà. Abbiamo il compito di costruire il partito, il luogo della politica permanente e organizzato. Il Principe capace di essere spazio di incontro tra sguardi diversi: dal basso verso l’alto delle istituzioni e dall’alto delle istituzioni verso il basso della società. Machiavelli e Gramsci, ancora una volta. Su questo terreno giochiamo per intero la nostra sfida e chiamiamo a raccolta forze e intelligenze pronte a spendersi contro una dittatura dell’effimero e della subalternità che è alla base delle passate sconfitte. Abbiamo bisogno di un soggetto, un luogo, un campo, uno spazio: la leva dell’azione politica, la struttura che dia gambe alle nostre aspirazioni. Esso deve nascere necessariamente come partito europeo, ponendosi già, nel nostro Paese, come articolazione di un processo continentale che ancora è incompiuto. Perché la Sinistra Europea non è più sufficiente e perché la crisi del socialismo europeo deve ancora tradursi nella rottura e nella esplosione necessaria di quel campo. Erompe l’urgenza di una Sinistra nuova e moderna, che torni a rappresentare gli interessi degli ultimi, di una maggioranza invisibile di soggetti subalterni e diversi che, senza, non ce la fa più. Liberata dallo sconfittismo e dal reducismo. Capace di sollecitare passioni, di moltiplicare la partecipazione. Gentile, in grado di sorridere. Popolare, radicata e allo stesso tempo a proprio agio con le nuove forme della democrazia digitale: in grado di discutere e decidere nelle proprie sedi fisiche così come in Rete. Rivoltata da cima a fondo, rinnovata e innovata. Con un’ambizione maggioritaria. Che abbandoni tutte le liturgie che non parlano più a nessuno, che abbia il coraggio e la sfrontatezza di osare, senza alcuna rendita di posizione. Con una cultura non improvvisata, consapevole delle proprie radici e del proprio destino. Che nasca come investimento costituente di un popolo finalmente sovrano e protagonista, senza più deleghe in bianco, senza alcuna operazione pattizia tra vertici sempre meno autorevoli e sempre più autoreferenziali. Questa è la Sinistra del futuro, questo è il partito che costruiremo.
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SINISTRA-UMANESIMO SOCIALE: DIECI OBIETTIVI IMMEDIATI
Obiettivo cardine della Sinistra del nuovo secolo, su di un piano generale e da cui derivano tutti gli altri, è pensare e costruire una società al cui centro vi sia l’essere umano, che quindi operi e legiferi in funzione dei suoi scopi e bisogni e del suo benessere. Ma non l’essere umano generico, destoricizzato e decontestualizzato, quanto piuttosto colui che è inserito – attraverso le relazioni sociali e produttive – all’interno di un sistema economico che oggi impone a guisa di dogmi indiscutibili i suoi meccanismi funzionali a scopi e valori anti-umani e che, domani, dovrà valorizzare invece il lavoro, l’intelligenza e la creatività. Contro il fondamentalismo del Mercato e del profitto, secondo cui è lecito e positivo tutto ciò che conduce all’arricchimento individuale, l’Umanesimo sociale deve operare per ripensare e ricostruire una nuova politica e nuove forme di democrazia. Per ciascuna di esse, in ogni ambito e contesto, l’essere umano dovrà essere il fine e non il mezzo. In vista di questo scopo fondamentale, la Sinistra deve farsi soggetto forte e autorevole e dunque determinarsi nella forma di un partito che operi per la presa democratica del potere. In nome dell’Umanesimo sociale, in nome delle grandi responsabilità che sono di fronte a noi, la Sinistra o è unita in nome di un progetto di governo e di trasformazione oppure non è. 1) La distanza tra la politica e i cittadini è in primo luogo un problema della politica. Questa distanza va cancellata, perché la politica se non è una leva nelle mani del popolo si trasforma in un’altra cosa, e cioè nell’arma per mantenere e difendere i privilegi di pochi. Occorre uno statuto pubblico dei partiti che regoli le procedure di decisione interne, garantisca i diritti di ogni
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iscritto e delle minoranze, preveda un controllo pubblico dei bilanci e stabilisca come principio generale la trasparenza. Insieme a questo occorre una legge sul finanziamento pubblico alle forze politiche che non sprechi neppure un centesimo, che imponga la rendicontazione di tutte le spese e che consenta ai cittadini e a tutte le forze politiche rappresentate nelle istituzioni l’accesso alla democrazia. 2) Lo Stato e la pubblica amministrazione devono essere strumenti nelle mani dei cittadini, funzionali al benessere e all’eguaglianza di tutti. È necessaria una severa legge contro la corruzione che sanzioni il falso in bilancio, aggravi le pene per i reati contro la Pubblica amministrazione e stabilisca la prerogativa di una “corsia preferenziale”, ovverosia della priorità assoluta ai procedimenti penali che coinvolgono personalità pubbliche indagate, perché l’accertamento della verità processuale è riconosciuto un interesse dell’intera collettività. Contemporaneamente va introdotto, anche nella disciplina italiana, l’obbligo per la pubblica amministrazione di rendere pubblici e trasparenti i propri atti, mediante l’approvazione di una normativa che – andando oltre la mera affermazione di principio – garantisca a chiunque il diritto di chiedere conto delle scelte e dei risultati del lavoro amministrativo. 3) Lo Stato deve avere voce in capitolo nella definizione tanto delle linee di fondo dell’economia quanto nella dinamica occupazionale. Lo Stato deve creare posti di lavoro, investendo sui settori che hanno bisogno di un sostegno per ripartire, promuovendo le iniziative virtuose, programmando una serie di opere pubbliche che siano realmente pubbliche (si pensi al riassetto idrogeologico del territorio in opposizione alle cosiddette grandi opere: grandi solo per qualcuno, non per tutti) e pianificando investimenti produttivi strategici, a sostegno dell’innovazione tecnologica come della produzione di qualità, per esempio nel settore agroalimentare. Ciò ad esempio anche attraverso un impegno statale per la riconversione ecologica delle aziende inquinanti e un recupero e un risanamento del patrimonio edilizio esistente,
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finalizzati all’ottenimento di costruzioni sicure, igieniche, a basso o nullo consumo energetico. Bisogna poi chiarire chi paga la crisi. Una fabbrica che chiude per aprire all’estero deve restituire i finanziamenti pubblici ricevuti, che vanno concretamente impiegati per accompagnare il reinserimento al lavoro di chi, in questo modo, l’ha perso. 4) Mentre lavora alla piena e buona occupazione, lo Stato deve affrontare e risolvere il problema della indigenza e della povertà, imputabile alla precarietà del mondo del lavoro e ai bassi salari. Lo Stato deve garantire una continuità di reddito anche nei periodi di disoccupazione: va introdotto un reddito minimo garantito paragonabile ai sussidi in vigore in quasi tutti gli altri Stati europei. Allo stesso tempo, va ripensato complessamente un sistema di welfare efficace che consenta l’esigibilità del diritto a una vita degna a tutte e tutti, in primo luogo attraverso politiche abitative che rendano inderogabile il diritto alla casa. 5) Sapere è potere e una società nuova si costruire a partire dalle fondamenta. Scuole pubbliche gratuite fino al diploma, Università da pagarsi secondo una tassazione realmente progressiva, aumento degli investimenti pubblici in scuola, Università e Ricerca ai livelli europei: questi sono i nostri obiettivi. Contemporaneamente il sistema va adeguato ai tempi mutati e reso capace tanto di razionalizzare gli sprechi quanto di reperire nuovi fondi di finanziamento per un settore centrale della vita pubblica. La linea guida primaria deve essere la valorizzazione del diritto allo studio e del talento e della qualità dei singoli, che colpisca posizioni di rendita che si rivelano improduttive e premi coloro che fanno effettivamente ricerca e dimostrano un alto livello di impegno e qualificazione nelle professioni legate alla cultura e alla trasmissione della stessa. 6) La fiscalità è da sempre uno strumento di perequazione sociale. Principio cardine della nostra politica fiscale deve tornare a essere quello di un’equa e rigorosa tassazione progressiva, che
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prelevi e distribuisca a seconda delle effettive possibilità e degli effettivi bisogni di ciascun cittadino. Il sistema fiscale va ridefinito anche con l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni che consenta la diminuzione delle imposte sul lavoro e per i cittadini meno abbienti. Parallelamente è indispensabile riorganizzare e rendere più efficace la lotta contro la frode fiscale, l’evasione e i paradisi fiscali. 7) In uno Stato di diritto la legge è uguale per tutti. Vanno dunque abrogate tutte le leggi ad personam: dalla Cirami sul trasferimento dei processi alla ex Cirielli sulla riduzione dei termini della prescrizione, alla Gasparri sull’estensione del numero di concessioni di canali televisivi per ogni singolo soggetto, alla legge sulla depenalizzazione del falso in bilancio, alla Tremonti bis sulla abolizione dell’imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni. Per lo stesso motivo va approvata una legge sul conflitto d’interessi che impedisca l’elusione delle norme vigenti contenute nella legge Sturzo sulla ineleggibilità di chi ricopre cariche sociali o controlla società che siano a vario titolo sovvenzionate dalla Stato o si avvalgano di concessioni pubbliche statali. 8) Di fronte ai cambiamenti epocali di cui i fenomeni migratori sono la cifra più evidente, bisogna avanzare proposte chiare. La prima è il diritto di cittadinanza per tutti i nati in Italia e il potenziamento delle politiche per l’integrazione e l’interculturalità. Ciò significa che l’integrazione deve essere una risorsa per tutti, un arricchimento culturale, l’occasione di un’apertura mentale. Vanno integrate poi le nostre grandi città nella rete delle città-rifugio proposta dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, creando un registro nazionale dell’accoglienza che risponda alla domanda di civiltà che prorompe dalla crisi umanitaria in corso. Il buonismo però non c’entra nulla: l’illegalità deve pesare nello stesso modo a prescindere da chi la compie, né più né meno. Anche per far ciò, bisogna trattare tutti i soggetti del diritto come tali.
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9) Il nostro compito è produrre misure politiche che garantiscano l’effettiva eguaglianza sociale. La nostra società è arretrata sul piano dell’uguaglianza effettiva di prospettive di soddisfazione nella vita tra uomo e donna, lavoratore intellettuale e lavoratore manuale, figlio di persone abbienti e figlio di persone con un reddito basso. In questo contesto le discriminazioni e le disuguaglianze più odiose si collocano sul terreno degli affetti, dell’identità di genere e di quella sessuale: bisogna voltare pagina con strumenti legislativi che – senza mediazioni – le garantiscano. 10) Sulla fattibilità di un programma di cambiamento per il nostro Paese incombe l’incubo delle compatibilità, dell’austerità, della camicia di forza di regole comunitarie che riducono ai minimi i margini della politica. Per questo, con una vocazione pienamente europeista, dobbiamo rimettere mano a una grande riforma dell’architettura costituzionale e materiale dell’Europa. Il primo passo è il voto popolare e vincolante sui trattati, perché la sovranità appartiene al popolo.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2015 da Digital Team - Fano (PU)