394 42 8MB
Italian Pages 605 [607] Year 2020
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stanley fischer
XII
ISBN 978 -8 8 -38 6-9577-3
www.mheducation.it
9 788838 695773
edizione
€ 59,00 (i.i.)
richard startz giuseppe canullo paolo pettenati
macroeconomia
Il successo mondiale che Macroeconomics ha avuto nei suoi quarant’anni di vita può essere attribuito a molteplici punti di forza: l’attenzione ai “fatti” economici più rilevanti; il rigore formale dell’analisi, reso possibile dall’uso di modelli interpretativi appropriati; l’inquadramento dei problemi macroeconomici in una prospettiva internazionale. La nuova edizione italiana si è proposta di valorizzare tali punti di forza ampliando e aggiornando i riferimenti alla situazione dell’Italia nel quadro dell’Unione Europea. Ha inoltre confermato l'efficace impostazione strutturale che aveva caratterizzato le due precedenti edizioni, proponendo la trattazione degli argomenti nella sequenza “breve, medio e lungo periodo”. Il testo si rivolge ai corsi di Macroeconomia a livello intermedio impartiti nei diversi corsi di laurea. Data la complessità e la varietà degli argomenti trattati sarebbe preferibile, anche se non strettamente indispensabile, far precedere lo studio del manuale da un testo introduttivo di Economia. Gli strumenti matematici richiesti sono quelli tradizionalmente insegnati nella scuola secondaria superiore.
rudiger dornbusch
rudiger dornbusch stanley fischer richard startz giuseppe canullo paolo pettenati
macroeconomia
economia
rudiger dornbusch • stanley fischer • richard startz giuseppe canullo • paolo pettenati
XII
macroeconomia
edizione
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collana di istruzione scientifica serie di economia
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Rudiger Dornbusch Stanley Fischer Richard Startz Giuseppe Canullo Paolo Pettenati
Macroeconomia Dodicesima edizione
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Titolo originale: Macroeconomics, Thirteenth Edition Copyright © 2018, 2014, 2011, 2008, 2004, 2001, 1998, 1994, 1990, 1987, 1984, 1981, 1978 McGraw-Hill Education Copyright © 2020, 2014, 2010 McGraw-Hill Education (Italy), S.r.l. Via Ripamonti 89 – 20141 Milano
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Portfolio Director: Teresa Massara Senior Portfolio Manager B&E/HSSL: Marta Colnago Pre Press Manager: Chiara Daelli Realizzazione editoriale: Fotocompos, Gussago (BS) Grafica di copertina: Feel Italia, Milano Immagine di copertina: ©NicoElNino/Shutterstock
ISBN: 978 88 386 9806-4
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Indice breve
PARTE I
PARTE II
Introduzione e contabilità nazionale 1 Introduzione 2 Contabilità nazionale 3 Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
3 21 53
Modelli di base: la macroeconomia a prezzi fissi
91
4 5 6 7 8
Reddito e spesa Moneta, interesse e reddito Politica monetaria e politica fiscale Legami economici internazionali Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
PARTE III Macroeconomia con prezzi variabili 9 Inflazione e disoccupazione 10 Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
PARTE IV Basi del comportamento degli operatori economici: un approfondimento 11 12 13 14 15
PARTE V
1
Consumo e risparmio Spesa per investimenti Banca Centrale, moneta e credito Mercati finanziari Aggiustamenti internazionali e interdipendenza
Crescita e progresso tecnologico 16 Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico 17 Teoria neoclassica e contabilità della crescita
93 121 155 183 219
253 255 311
359 361 389 419 451 465
491 493 521
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Indice
Prefazione all’edizione italiana Autori e Curatori Ringraziamenti dell’Editore Guida alla lettura
PARTE I
Introduzione e contabilità nazionale
Capitolo 1 Introduzione 1.1 1.2
Macroeconomia e microeconomia Prodotto reale e indice dei prezzi APPLICAZIONE 1.1 Crescita economica e inflazione: un esempio numerico 1.3 Livello di sviluppo e prodotto pro capite: confronti internazionali APPROFONDIMENTO 1.1 PIL e ammortamento del capitale 1.4 Sistema economico 1.4.1 Problema del coordinamento ed economia di mercato 1.4.2 Politica economica: obiettivi e vincoli 1.5 Trend e ciclo economico 1.5.1 Inflazione e ciclo economico 1.6 Macroeconomia in tre modelli 1.6.1 Breve periodo: capacità produttiva data e prezzi fissi APPROFONDIMENTO 1.2 Modelli e mondo reale 1.6.2 Medio periodo: capacità produttiva data e prezzi variabili 1.6.3 Lungo periodo: capacità produttiva variabile 1.7 Organizzazione del testo Riepilogo Capitolo 2 Contabilità nazionale 2.1 2.2 2.3
Produzione e remunerazione dei fattori produttivi APPROFONDIMENTO 2.1 Bilancio pubblico Conti economici del Paese Misurazione del PIL e degli altri aggregati dei conti nazionali 2.3.1 Beni finali e valore aggiunto APPLICAZIONE 2.1 Valore della produzione, beni intermedi e valore aggiunto 2.3.2 Produzione corrente 2.3.3 Calcolo del PIL e problemi connessi 2.3.4 Consumi 2.3.5 Investimenti
XVII XXI XXIII XXV
1 3 4 5 6 7 7 8 9 10 10 13 14 14 15 17 17 17 20 21 22 25 28 33 33 34 35 35 36 37
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Indice
2.3.6 Esportazioni nette PIL nominale e PIL reale Stime degli input di lavoro e di capitale FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 2.1 Inflazione e indici dei prezzi 2.6 Alcune importanti identità 2.6.1 Economia semplificata 2.6.2 Introduzione del settore pubblico e del commercio estero 2.6.3 Risparmi, investimenti, bilancio pubblico e commercio estero Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale 2.4 2.5
Capitolo 3 Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali 3.1
Crescita economica 3.1.1 Caratteristiche quantitative 3.1.2 Caratteristiche strutturali 3.1.3 Diffusione internazionale dello sviluppo 3.2 Input di lavoro e disoccupazione 3.2.1 Indagini sul mercato del lavoro: definizioni e metodologia 3.2.2 Bacino della disoccupazione 3.2.3 Tasso di disoccupazione (e di attività) a seconda del gruppo di lavoratori considerato e dell’area geografica di appartenenza 3.2.4 Disoccupazione frizionale e disoccupazione ciclica 3.2.5 Flussi in entrata e in uscita 3.2.6 Fattori che determinano il tasso di disoccupazione frizionale 3.2.7 Disoccupazione in Italia e in Europa 3.2.8 Costi della disoccupazione 3.3 Inflazione 3.3.1 Inflazione in Europa e negli Stati Uniti 3.3.2 Costi dell’inflazione APPROFONDIMENTO 3.1 È proprio vero che l’inflazione attesa non comporta alcun costo? APPLICAZIONE 3.1 Inflazione inattesa nel breve e nel lungo periodo APPLICAZIONE 3.2 Capire la differenza fra tassi di interesse nominali e reali nella vita di tutti i giorni 3.3.3 Inflazione e indicizzazione 3.3.4 Un po’ d’inflazione fa bene all’economia? 3.4 Teoria del ciclo politico 3.4.1 Importanza riconosciuta ai problemi 3.4.2 Scelta del momento più opportuno Riepilogo Domande di ripasso Problema Mappa concettuale
PARTE II
Modelli di base: la macroeconomia a prezzi fissi
Capitolo 4 Reddito e spesa 4.1 4.2
Offerta aggregata, domanda aggregata e prodotto d’equilibrio Funzione del consumo, domanda aggregata e reddito d’equilibrio
VII
38 38 39 40 45 45 46 47 50 50 50 52 53 53 54 59 60 62 63 65 66 67 68 68 70 72 73 74 75 77 78 79 81 84 85 85 85 87 88 89 90
91 93 94 95
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VIII
Indice
4.2.1 Funzione del consumo APPLICAZIONE 4.1 Relazione consumo-reddito negli Stati Uniti e in Italia 4.2.2 Domanda aggregata, reddito e prodotto di equilibrio 4.2.3 Formula del prodotto di equilibrio 4.2.4 Risparmio e investimento 4.3 Moltiplicatore dinamico FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 4.1 Dimostrazione della formula del moltiplicatore dinamico 4.3.1 Rappresentazione grafica del moltiplicatore 4.4 Settore pubblico 4.4.1 Reddito di equilibrio 4.4.2 Imposte sul reddito e moltiplicatore 4.4.3 Imposte sul reddito come stabilizzatore automatico 4.4.4 Conseguenze di una modifica della politica fiscale 4.4.5 Implicazioni 4.5 Bilancio pubblico 4.5.1 Effetti delle variazioni della spesa pubblica e delle imposte sull’avanzo di bilancio APPROFONDIMENTO 4.1 Moltiplicatore del bilancio in pareggio: il teorema di Haavelmo 4.6 Avanzo di bilancio di piena occupazione 4.7 Risparmio, investimento e bilancio pubblico Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale Capitolo 5 Moneta, interesse e reddito 5.1
5.2 5.3
5.4
5.5 5.6
Mercato dei beni e curva IS 5.1.1 Funzione di investimento 5.1.2 Investimenti e tasso d’interesse 5.1.3 Tasso d’interesse e domanda aggregata: la curva IS 5.1.4 Pendenza della curva IS 5.1.5 Posizione della curva IS Moneta e sue funzioni Domanda di moneta 5.3.1 Domanda per transazioni 5.3.2 Domanda precauzionale 5.3.3 Domanda speculativa APPROFONDIMENTO 5.1 Domanda nominale e domanda reale di moneta 5.3.4 Domanda di moneta: una trattazione formale Mercato monetario e curva LM 5.4.1 Introduzione 5.4.2 Pendenza della curva LM 5.4.3 Posizione della curva LM APPROFONDIMENTO 5.2 Curva LM e regola di Taylor Equilibrio del mercato dei beni e di quello monetario 5.5.1 Variazioni del livello di equilibrio del reddito e del tasso d’interesse Trattazione formale del modello IS-LM 5.6.1 Reddito e tasso d’interesse di equilibrio 5.6.2 Moltiplicatori della politica fiscale e monetaria
96 97 98 99 99 100 102 103 104 105 105 106 107 108 108 110 111 112 114 116 116 117 119 121 122 122 122 124 126 128 130 132 132 133 134 136 137 138 138 140 140 142 143 144 145 145 146
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Indice
Riepilogo Domande di ripasso Problemi Appendice 5 Modello di Baumol e Tobin della domanda di moneta per transazioni Mappa concettuale Capitolo 6 Politica monetaria e politica fiscale 6.1
Politica monetaria 6.1.1 Meccanismo di trasmissione 6.1.2 Trappola della liquidità 6.1.3 Riluttanza delle banche a concedere prestiti? APPLICAZIONE 6.1 Casi reali di trappola della liquidità: che cosa accade quando il tasso di interesse diventa pari a zero? APPROFONDIMENTO 6.1 Domanda: la Banca Centrale fissa il tasso di interesse oppure l’offerta di moneta? APPROFONDIMENTO 6.2 Teoria quantitativa e velocità di circolazione della moneta 6.1.4 Caso classico: LM verticale 6.2 Politica fiscale 6.2.1 Incremento della spesa pubblica 6.2.2 Spiazzamento della spesa privata 6.2.3 Trappola della liquidità e piena efficacia della politica fiscale 6.2.4 Caso classico e spiazzamento totale della spesa privata 6.3 Composizione del prodotto e mix di politica economica 6.3.1 Sovvenzione agli investimenti 6.3.2 Mix di politica economica 6.4 Recessioni economiche del ventennio 1990-2013 Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale Capitolo 7 Legami economici internazionali 7.1
7.2 7.3
7.4
Bilancia dei pagamenti e tassi di cambio 7.1.1 I conti con l’estero devono essere in pareggio 7.1.2 Tassi di cambio fissi 7.1.3 Tassi di cambio flessibili 7.1.4 Fluttuazione “pulita” e fluttuazione “sporca” 7.1.5 Terminologia Tasso di cambio nel lungo periodo Commercio di beni, equilibrio del mercato e bilancia commerciale 7.3.1 Spesa nazionale e spesa in prodotti nazionali 7.3.2 Esportazioni nette 7.3.3 Equilibrio del mercato dei beni FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 7.1 Modello in forma esplicita delle esportazioni nette 7.3.4 Effetti di ripercussione Mobilità dei capitali 7.4.1 Bilancia dei pagamenti e flussi di capitali FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 7.2 Equilibrio della bilancia dei pagamenti 7.4.2 Dilemmi di politica economica: equilibrio interno ed equilibrio esterno
148 149 149 151 154 155 156 159 160 161 162 163 167 167 168 168 169 170 170 173 174 174 176 179 179 180 181 183 184 186 187 188 189 189 190 192 192 193 194 196 197 197 199 199 201
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Indice
7.5
Modello di Mundell-Fleming: perfetta mobilità dei capitali in regime di tassi di cambio fissi 202 7.5.1 Espansione monetaria 204 7.5.2 Espansione fiscale 204 APPLICAZIONE 7.1 Due componenti del tasso di rendimento e due interventi possibili 205 206 APPLICAZIONE 7.2 Riunificazione tedesca e problemi esterni 7.6 Perfetta mobilità dei capitali e tassi di cambio flessibili 207 7.6.1 Aggiustamento in seguito a una perturbazione reale 208 7.6.2 Politica fiscale 210 7.6.3 Aggiustamento in seguito a una variazione dello stock monetario 210 7.6.4 Politica beggar-thy-neighbor e svalutazione competitiva 212 FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 7.3 Modello IS-LM in economia aperta con perfetta mobilità dei capitali: un’analisi formale 213 Riepilogo 214 Domande di ripasso 215 Problemi 216 Mappa concettuale 218 Capitolo 8 Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione 8.1
Formazione dei prezzi e offerta aggregata 8.1.1 Produttività del lavoro 8.1.2 Salario nominale e livello dei prezzi APPROFONDIMENTO 8.1 La produttività del lavoro nel breve periodo è costante o varia con il livello della produzione? 8.1.3 Funzione della produzione e offerta aggregata 8.2 Offerta e domanda aggregate in economia chiusa: il modello ADP-AS nel breve periodo 8.2.1 Domanda aggregata e prezzi 8.2.2 Equilibrio tra domanda e offerta 8.2.3 Critica keynesiana alla tesi classica APPROFONDIMENTO 8.2 Mondo “classico” e “rivoluzione keynesiana” 8.3 Offerta e domanda aggregate in economia aperta: cambi fissi e cambi flessibili 8.3.1 Cambi fissi 8.3.2 Cambi flessibili 8.4 Flessibilità dei salari e dei prezzi nel medio periodo 8.5 Disoccupazione frizionale e inflazione 8.6 La critica di Friedman: l'illusione monetaria e l'accelerazione dell’inflazione 8.7 Considerazioni conclusive Riepilogo Domande di ripasso Problemi Appendice 8 Modello classico del mercato del lavoro A.8.1 Domanda di lavoro A.8.2 Offerta di lavoro A.8.3 Equilibrio Mappa concettuale
PARTE III
Macroeconomia con prezzi variabili
Capitolo 9 Inflazione e disoccupazione 9.1
Offerta aggregata e conflitto distributivo
219 219 221 221 222 223 224 225 227 229 230 232 232 235 236 238 240 242 242 243 243 245 245 246 249 251
253 255 256
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Indice
9.1.1 Distribuzione del reddito e contrattazione salariale 9.1.2 Spirale prezzi-salari APPROFONDIMENTO 9.1 Statica, dinamica e statica comparata 9.1.3 La funzione di offerta AS con prezzi variabili: il ruolo delle aspettative APPROFONDIMENTO 9.2 Rigidità dei salari e disoccupazione: i modelli insider-outsider e la teoria dei salari di efficienza 9.2 Tasso di inflazione e curva di Phillips con aspettative adattive statiche 9.3 Modello IS-LM con inflazione in economia chiusa FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 9.1 Variazione della quantità reale di moneta 9.3.1 Controllo dell’offerta di moneta 9.3.2 Politica monetaria e regola di Taylor 9.4 Modello IS-LM con inflazione in economia aperta FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 9.2 Variazione e stabilità del tasso di cambio reale 9.4.1 Cambi fissi 9.4.2 Cambi flessibili 9.4.3 In quale regime di cambio si trova l’Italia? 9.5 Aspettative accelerative 9.5.1 Rigidità verso il basso dei salari nominali: il caso keynesiano APPROFONDIMENTO 9.3 Trappola della liquidità e deflazione 9.6 Aspettative razionali e credibilità della politica economica: la critica di Lucas 9.7 Disoccupazione e conflitto distributivo: altri protagonisti 9.7.1 Cuneo fiscale 9.7.2 Prezzo delle materie prime 9.7.3 Potere contrattuale dei lavoratori e organizzazioni sindacali 9.8 Conflitto distributivo e disoccupazione frizionale: una formulazione generale della curva di Phillips 9.9 Riepilogo e considerazioni di politica economica 9.10 Curva di Phillips nella realtà: Italia e Stati Uniti a confronto APPROFONDIMENTO 9.4 Shock dal lato dell’offerta: le crisi petrolifere Riepilogo Domande di ripasso Problemi Appendice 9 Mercato del lavoro in un contesto non perfettamente concorrenziale A.9.1 Teoria dei salari di efficienza A.9.2 Teoria insider-outsider A.9.3 Sindacati e contrattazione salariale A.9.4 Curva di determinazione del salario Mappa concettuale Capitolo 10 Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea 10.1 10.2 10.3 10.4 10.5 10.6
Introduzione della moneta unica europea Da Bretton Woods al Sistema Monetario Europeo Il Rapporto Delors, il Trattato di Maastricht e l’avvio dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) I criteri di convergenza del Trattato di Maastricht Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) 10.5.1 Critiche al Patto di Stabilità e Crescita La Grande Recessione del 2008-09 e la crisi dei debiti sovrani nell’UEM FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 10.1 La dinamica del rapporto debito-PIL e il problema del rientro nei parametri di Maastricht
256 258 259 260 264 265 267 268 268 270 272 274 275 276 277 278 281 282 283 286 286 287 287 288 290 290 293 298 300 300 302 302 305 306 308 310 311 311 312 314 317 318 319 319 322
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10.6.1 La crisi finanziaria del 2007 negli Stati Uniti, il contagio internazionale e la recessione 2008-09 10.6.2 La crisi dei debiti sovrani nei Paesi periferici dell’UEM: 2010-2013 10.7 L’Europa a due velocità: i vincoli della competitività e dell’indebitamento con l’estero 10.8 L’integrazione incompiuta e i limiti della politica economica europea APPROFONDIMENTO 10.1 Competitività, crescita e vincolo della bilancia dei pagamenti: una spiegazione del declino italiano 10.9 Conclusione Riepilogo Domande di ripasso Problemi Appendice 10 Macroeconomia dello SME: accordi di cambio e politiche monetarie A.10.1 L’asimmetria dello SME A.10.2 Soluzioni egemoniche e soluzioni cooperative nello SME A.10.3 Unificazione tedesca, pressioni speculative e crisi dello SME A.10.3.1 Combinazioni alternative di politica economica nella Germania unificata A.10.3.2 Mobilità dei capitali e opzioni per i Paesi aderenti allo SME Mappa concettuale
PARTE IV
Basi del comportamento degli operatori economici: un approfondimento
Capitolo 11 Consumo e risparmio 11.1 11.2
Introduzione alle evidenze empiriche del consumo Consumo e risparmio: la teoria del ciclo vitale-reddito permanente 11.2.1 Teoria del ciclo vitale APPROFONDIMENTO 11.1 Relazione tra demografia e consumo APPROFONDIMENTO 11.2 Consumo dei beni durevoli 11.2.2 Teoria del reddito permanente APPROFONDIMENTO 11.3 Teoria moderna del consumo e politica tributaria negli Stati Uniti 11.2.3 Modello del random walk 11.2.4 Teoria del ciclo vitale-reddito permanente: la “rivincita” del modello tradizionale 11.3 Ulteriori aspetti del comportamento relativo al consumo 11.3.1 Vincoli di liquidità e miopia 11.3.2 Incertezza e risparmio precauzionale 11.3.3 Consumo e mercato azionario 11.3.4 Consumo, risparmio e tassi d’interesse 11.3.5 Problema di Barro-Ricardo 11.4 Differenze internazionali nei tassi di risparmio FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 11.1 Consumi e interessi: la microteoria APPLICAZIONE 11.1 Una trattazione più formale dell’equivalenza di Barro-Ricardo 11.5 Consumo e risparmio in Italia Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale
327 329 333 336 337 347 348 349 349 350 350 351 352 352 354 357
359 361 361 364 364 365 367 367 368 369 370 371 371 372 373 373 374 376 378 379 380 383 383 384 387
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Indice
Capitolo 12 Spesa per investimenti 12.1 12.2
Introduzione alle evidenze empiriche sugli investimenti Domanda relativa allo stock di capitale e flusso di investimenti APPROFONDIMENTO 12.1 Investimenti lordi, netti e concetti più completi 12.2.1 Stock desiderato di capitale: un quadro generale APPLICAZIONE 12.1 Tasso di interesse reale e costo reale dell’indebitamento 12.2.2 Dallo stock desiderato di capitale all’investimento 12.3 Sottosettori di investimento: in capitale fisso delle imprese, nell’edilizia residenziale e in scorte 12.3.1 Investimenti in capitale fisso delle imprese APPROFONDIMENTO 12.2 Razionamento del credito APPROFONDIMENTO 12.3 Decisioni d’investimento delle imprese: il punto di vista dei protagonisti 12.3.2 Investimenti nell’edilizia residenziale 12.3.3 Investimenti in scorte 12.4 Investimenti e offerta aggregata 12.4.1 Investimenti nel mondo 12.5 Funzione di investimento in Italia Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito 13.1
Moneta: definizione e componenti dello stock monetario APPROFONDIMENTO 13.1 Velocità di circolazione della moneta rispetto al reddito 13.2 Determinazione dello stock monetario e moltiplicatore dell’offerta di moneta APPROFONDIMENTO 13.2 Corsa agli sportelli e assicurazione dei depositi FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 13.1 Moltiplicatore della moneta 13.3 Strumenti di controllo monetario 13.3.1 Operazioni di mercato aperto APPROFONDIMENTO 13.3 Operazione di mercato aperto dell’Eurosistema 13.3.2 Bilancio della Banca Centrale 13.3.3 Valuta estera e base monetaria 13.3.4 Rifinanziamenti e tassi 13.3.5 Coefficiente di riserva obbligatoria APPROFONDIMENTO 13.4 Banca Centrale come prestatore di ultima istanza 13.4 Moltiplicatore monetario e prestiti bancari 13.5 Controllo dello stock di moneta e del tasso d’interesse 13.6 Obiettivi della Banca Centrale e strategie di politica monetaria 13.6.1 Obiettivi finali e intermedi della politica monetaria 13.6.2 Strategie di politica monetaria 13.6.3 Regola di Taylor per la Federal Reserve APPROFONDIMENTO 13.5 Regola di Taylor e curva LM 13.6.4 Strategia della BCE: i due pilastri della politica monetaria Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale
XIII
389 389 391 392 393 397 398 401 402 403 404 405 407 411 412 413 414 415 416 418 419 419 422 424 426 429 430 430 431 432 432 433 434 435 436 437 439 439 441 442 443 445 447 448 448 449
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XIV
Indice
Capitolo 14 Mercati finanziari 14.1 14.2
Principi di base per i mercati finanziari Tassi di interesse a breve e a lungo termine 14.2.1 Struttura a termine dei tassi di interesse APPROFONDIMENTO 14.1 Interesse composto 14.2.2 Curva dei rendimenti 14.2.3 Prezzi e rendimenti dei titoli di credito APPROFONDIMENTO 14.2 Valore attuale e arbitraggio FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 14.1 Matematica del valore attuale netto, dei prezzi e del rendimento 14.3 Variazioni casuali dei prezzi delle azioni 14.4 Tassi di cambio e tassi di interesse APPROFONDIMENTO 14.3 Collegamento tra il mercato dei titoli e il mercato delle azioni Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale
Capitolo 15 Aggiustamenti internazionali e interdipendenza 15.1
Tassi di cambio flessibili, moneta e prezzi 15.1.1 Processo di aggiustamento 15.1.2 Effetti di breve e di lungo periodo di un’espansione monetaria 15.2 Differenziali fra i tassi d’interesse e aspettative sui tassi di cambio 15.2.1 Flussi speculativi di capitale 15.3 Overshooting del tasso di cambio 15.4 Parità dei poteri d’acquisto e competitività esterna 15.4.1 Parità dei poteri d’acquisto 15.4.2 Competitività esterna APPROFONDIMENTO 15.1 Perché le svalutazioni vengono così spesso rimandate? 15.5 Prezzi relativi e bilancia commerciale: la condizione di Marshall-Lerner e la curva “a J” 15.6 Fluttuazioni dei tassi di cambio e interdipendenza 15.6.1 Interventi sui mercati dei cambi 15.6.2 Perché le autorità monetarie intervengono 15.6.3 Interventi sterilizzati e non sterilizzati APPROFONDIMENTO 15.2 Disavanzi insostenibili e “bolla speculativa” del dollaro 15.6.4 Interdipendenza 15.6.5 La Grande Recessione Mondiale del 2007-2009 15.6.6 Sincronizzazione delle politiche economiche 15.7 Scelta dei regimi di cambio 15.7.1 Zone obiettivo 15.7.2 Interventi congiunti ad hoc 15.7.3 Dollarizzazione e currency board Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale
451 451 452 452 454 454 455 456 457 457 461 462 463 463 463 464 465 466 466 467 468 470 471 473 473 474 475 476 478 478 479 479 480 482 483 484 484 485 485 485 487 487 488 489
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PARTE V
Crescita e progresso tecnologico
Capitolo 16 Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico 16.1 16.2
Fatti e teorie della crescita: introduzione Modello Harrod-Domar 16.2.1 Caratteristiche di base 16.2.2 Progresso tecnologico esogeno 16.3 Soluzioni alternative del problema del disequilibrio dinamico: modelli con progresso tecnologico esogeno 16.3.1 Il modello H-D in sintesi: schema generale di riferimento per la teoria della crescita APPROFONDIMENTO 16.1 Instabilità nel modello H-D: un esempio numerico 16.3.2 Soluzione neomalthusiana: variazione endogena della popolazione 16.3.3 Soluzione neoclassica: flessibilità della variabile aK 16.3.4 Soluzione postkeynesiana: propensione al risparmio endogena FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 16.1 Risparmio e distribuzione del reddito nella teoria postkeynesiana 16.4 Modelli con progresso tecnologico endogeno: propensione al risparmio e capitale umano 16.4.1 Modello a–K K con progresso tecnologico endogeno: il ruolo della propensione al risparmio 16.4.2 Progresso tecnologico endogeno, flussi migratori e diffusione della tecnologia: un modello eclettico APPROFONDIMENTO 16.2 Crescita della produttività del lavoro e del prodotto pro capite 16.4.3 Il ruolo del capitale umano 16.5 Teorie alternative del progresso tecnologico: un riepilogo 16.6 Fattore imprenditoriale e investimento 16.6.1 Domanda di beni d’investimento e teoria dell’acceleratore 16.6.2 Propensione al risparmio endogena e progresso tecnologico endogeno 16.7 Politiche economiche appropriate: alcune conclusioni Riepilogo Domande di ripasso Problemi Mappa concettuale
Capitolo 17 Teoria neoclassica della crescita e progresso tecnologico endogeno 17.1 17.2
17.3
17.4
La funzione della produzione con coefficienti flessibili Il modello neoclassico di crescita con progresso tecnologico esogeno 17.2.1 Il breve periodo 17.2.2 Equilibrio di lungo periodo (steady state) 17.2.3 Un riepilogo delle due fasi FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 17.1 Un esempio numerico sulla dinamica del modello 17.2.4 Rappresentazione grafica della crescita con progresso tecnologico esogeno Crescita con progresso tecnologico endogeno 17.3.1 Capitale umano e progresso endogeno 17.3.2 Trappola della povertà FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 17.2 Due casi speciali di crescita endogena: il modello AK e il modello AH Contabilità della crescita 17.4.1 Prodotto pro capite, produttività del lavoro e tasso di occupazione
491 493 494 499 499 502 502 502 503 504 505 506 507 509 509 510 511 511 514 515 515 516 517 518 518 519 520 521 522 524 524 525 526 527 528 530 531 533 535 536 536
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17.4.2 Prodotto per occupato e progresso tecnologico: stima dei livelli FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 17.3 Funzione della produzione e distribuzione del reddito: il parametro θ 17.4.3 Prodotto per occupato e produttività totale dei fattori: stima dei tassi di variazione APPROFONDIMENTO 17.1 Residuo di Solow APPLICAZIONE 17.1 Perché alcuni Paesi hanno una produttività del lavoro tanto più alta di altri? 17.4.4 La lezione delle “tigri asiatiche” di prima e di seconda generazione 17.5 Politiche della crescita 17.5.1 Produttività totale dei fattori: social capability e infrastrutture sociali 17.5.2 Investimento in capitale fisico e in capitale umano 17.6 Ascesa e declino del tasso di crescita: il caso italiano 17.7 Sentiero di crescita equilibrata: un quadro riassuntivo delle variabili reali e monetarie 17.7.1 Settore reale 17.7.2 Settore monetario 17.7.3 Settore pubblico e politica fiscale 17.8 Sviluppo economico sostenibile e benessere 17.8.1 Le risorse naturali come limite alla crescita 17.8.2 Il Prodotto Interno Lordo e la misurazione del benessere Riepilogo Domande di ripasso Problemi Appendice 17 Prodotto per occupato e prodotto pro capite nel lungo periodo in assenza di progresso tecnologico A.17.1 La dinamica del prodotto per occupato APPROFONDIMENTO A.17.1 Rapporto capitale-lavoro (k) e rapporto prodotto-capitale (aK) A.17.2 Rappresentazione grafica della transizione verso lo stato costante A.17.3 Aumento del tasso di risparmio APPROFONDIMENTO A.17.2 Un reddito elevato è una cosa positiva? La regola aurea A.17.4 Crescita della popolazione e della forza lavoro A.17.5 Effetti del progresso tecnologico Mappa concettuale Appendice sull’uso dei logaritmi Indice analitico
538 539 539 540 540 541 543 544 545 547 549 549 549 551 552 552 554 556 557 558 560 560 563 564 565 567 567 568 569 571 573
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Prefazione all’edizione italiana
Il successo mondiale che Macroeconomics di Rudiger Dornbusch e Stanley Fisher, ai quali nel tempo si è aggiunto Richard Startz, ha avuto nei suoi quarant’anni di vita può essere attribuito ai seguenti punti di forza: (1) attenzione ai “fatti” economici più rilevanti; (2) rigore formale dell’analisi, reso possibile dall’uso di modelli interpretativi appropriati; (3) inquadramento dei problemi macroeconomici in una prospettiva internazionale. Nell’edizione italiana abbiamo cercato di valorizzare tali punti di forza ampliando e aggiornando i riferimenti alla situazione dell’Italia nel quadro dell’Unione Europea. Rispetto alle edizioni americane non ci siamo però limitati a questo compito di aggiornamento, ma abbiamo proceduto a una revisione radicale dell’ordine di trattazione della materia. L’opportunità della revisione, effettuata in gran parte già nelle due precedenti edizioni, è stata confortata dalle indagini condotte presso i docenti di Macroeconomia delle Università italiane. Vediamo con maggiore dettaglio in cosa è consistita la revisione. Da diversi anni le edizioni americane di Macroeconomics organizzano la materia trattata attorno a tre modelli principali, riferiti rispettivamente: (1) al lungo periodo, durante il quale la capacità produttiva del sistema economico e di conseguenza il prodotto interno lordo reale hanno la possibilità di crescere; (2) al medio periodo, nel quale la capacità produttiva resta inalterata, mentre prezzi e salari diventano flessibili; (3) al breve periodo, nel quale la capacità produttiva è per convenzione fissa, i prezzi e i salari sono dati e pertanto il livello dell’attività economica e dell’occupazione è regolato dalla domanda aggregata. Nelle edizioni americane i problemi economici sono dunque presentati nel seguente ordine: prima il lungo periodo, dedicato al tema della crescita, poi il medio periodo, dedicato all’inflazione e ai suoi rapporti con la disoccupazione e, infine, il breve periodo, rivolto alla determinazione del livello del reddito e dell’occupazione. Gli studenti, tuttavia, come hanno messo in evidenza le indagini citate in precedenza, incontrano notevoli difficoltà ad apprendere la materia in quell’ordine, tanto che molti docenti erano in passato indotti, dopo aver presentato la contabilità nazionale, a “saltare” direttamente al modello di breve periodo. I motivi delle suddette difficoltà sono almeno due: in primo luogo, sia la crescita sia l’inflazione sono fenomeni tipicamente dinamici e devono quindi essere trattati con strumenti più complessi di quelli statici o di statica comparata che caratterizzano i modelli reddito-spesa e IS-LM. Questi ultimi modelli, inoltre, sono basati sugli schemi di contabilità nazionale con i quali è naturale cominciare il corso. Di conseguenza, il passaggio dalla contabilità ai modelli di breve periodo è molto facilitato.
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XVIII Prefazione all’edizione italiana
Sulla base di tali considerazioni, già dalla decima edizione italiana di Macroeconomia, abbiamo deciso di cambiare l’ordine di presentazione dei tre modelli e di seguire una sequenza più naturale: breve periodo, medio periodo e lungo periodo. In questa edizione la scelta è stata riconfermata e approfondita. La successione degli argomenti e dei capitoli è pertanto la seguente: la Parte I fornisce i concetti di base necessari per lo studio dei modelli macroeconomici. In particolare, il Capitolo 1 e il Capitolo 2 introducono le definizioni e gli schemi essenziali del quadro macroeconomico, del flusso circolare del reddito e della contabilità nazionale; il Capitolo 3 presenta i “fatti” e i problemi principali riguardanti la produzione, l’occupazione, la disoccupazione, l’inflazione e la crescita, mentre rinvia ai capitoli successivi la trattazione teorica necessaria per interpretare tali problemi. La Parte II illustra i modelli di base dell’economia a prezzi fissi: il Capitolo 4 presenta il modello reddito-spesa, mentre i Capitoli 5 e 6 sviluppano il tradizionale modello IS-LM, esteso nel Capitolo 7 all’economia aperta. Il Capitolo 8 presenta nei primi due paragrafi il modello statico o di breve periodo di offerta e domanda aggregata con prezzi e salari dati (curva di offerta orizzontale) o perfettamente flessibili (curva verticale). Il terzo paragrafo considera invece il caso dei prezzi e dei salari parzialmente flessibili nel medio periodo e il trade-off tra disoccupazione e inflazione (cosiddetta “curva di Phillips”) basato sull’ipotesi della disoccupazione frizionale. La Parte III è dedicata alla trattazione della macroeconomia con prezzi variabili. Il Capitolo 9 sviluppa un’altra interpretazione della curva di Phillips, basata sull’ipotesi del conflitto distributivo tra redditi da lavoro (salari) e redditi da capitale (profitti). Secondo tale interpretazione, il salario non è stabilito dal mercato del lavoro, ma dalla contrattazione tra lavoratori e imprese, e questo spiega l’esistenza di disoccupazione involontaria. Si considerano poi altri soggetti che aggravano il conflitto distributivo, come lo Stato (cuneo fiscale) e i produttori di materie prime (in particolare di petrolio). Il capitolo propone anche un’estensione del modello con inflazione all’economia aperta. La Parte III è completata dal Capitolo 10 sull’Unione Economica e Monetaria europea, che discute le cause della crisi economica e finanziaria del 2008-2009 (la cosiddetta Grande Recessione), la successiva crisi dei “debiti sovrani”del 2011-2013 e la successiva fase di ristagno dell’economia europea e in particolare dell’economia italiana. La Parte IV (Capitoli 11-15) contiene una serie di approfondimenti su consumo, investimenti, Banca Centrale e moneta, mercati finanziari e interdipendenze internazionali. La Parte V tratta il tema della crescita. La sua collocazione nella parte finale del volume consente di dare per scontate numerose nozioni presentate nei capitoli precedenti. In particolare, il Capitolo 16 è dedicato al dibattito aperto dal modello Harrod-Domar sul problema dell’instabilità del sistema capitalistico e sul correlato problema del coordinamento tra decisioni di risparmio e decisioni di investimento. Il Capitolo 17, relativo alla teoria neoclassica, cerca di attenuare la divergenza tra modelli di crescita con progresso tecnologico esogeno e modelli con progresso endogeno. Il modello di Solow viene, infatti, presentato come caso speciale di un modello generale di accumulazione endogena sia di capitale fisico sia di capitale umano. Il Capitolo 17 contiene inoltre un paragrafo, per forza di cose soltanto introduttivo, su due argomenti di grande importanza, come la “green economy” e la “misurazione del benessere”. Il testo è integrato da tre categorie di box denominate: Approfondimento, Formalizzazione matematica e Applicazione.
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Prefazione all’edizione italiana XIX
Ringraziamenti I Curatori ringraziano il Professor Marco Crivellini, già ordinario di Economia Politica presso l’Università Politecnica delle Marche, per aver redatto l’Approfondimento 10.1 Competitività, crescita e vincolo della bilancia dei pagamenti: una spiegazione del declino italiano, e la Dottoressa Emanuela D’Angelo per la collaborazione al Paragrafo 17.7. Giuseppe Canullo Paolo Pettenati gennaio 2020
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Autori e Curatori
Rudiger Dornbusch (1942-2002) è stato Ford Professor of Economics and International Management presso il MIT, Massachusetts Institute of Technology. Stanley Fischer è stato Vice Chair presso il Board of Governors of the Federal Reserve. Richard Startz è Professor of Economics presso la University of California, Santa Barbara. Giuseppe Canullo è attualmente professore a contratto di International Integration presso la Facoltà di Economia dell'Università Politecnica delle Marche. È stato professore associato di Economia Politica presso la stessa Facoltà. Laureatosi in Economia e Commercio presso l'Università degli Studi di Urbino è stato titolare di una Ford Foundation Fellowship spesa come Visiting Fellow alla Duke University e alla University of Pennsylvania. È Segretario Generale dell'Associazione degli Economisti di Lingua Neolatina. I suoi interessi di ricerca vanno dal mercato del lavoro allo sviluppo economico italiano ai problemi dell'integrazione europea. Paolo Pettenati è stato professore ordinario di Economia Politica presso l'Università Politecnica delle Marche e ha svolto ricerche e studi di perfezionamento presso la Brandeis University (USA) e le Università di Cambridge e di Oxford (UK). È presidente onorario dell'Istituto A. Olivetti (ISTAO) e Vice Presidente dell'Associazione degli economisti di lingua neolatina. Le sue pubblicazioni riguardano soprattutto la teoria della crescita e del progresso tecnologico, lo sviluppo economico italiano e l'economia politica in prospettiva storica. Con la collaborazione di: Maurizio Manca è assegnista di ricerca presso il DISES, Università Politecnica delle Marche, dottore di ricerca in Economia Politica e laureato con lode in Economia e Management. Ha curato le esercitazioni dei corsi di Economia Politica, Statistica ed Economia Internazionale presso l'Università Politecnica delle Marche e l'Università degli Studi di Milano.
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XXII Autori e Curatori
Francesca Scaturro si è laureata in Economia e Management delle Amministrazioni Pubbliche e delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. È attualmente assegnista di ricerca in Economia Politica presso l’Università Politecnica delle Marche, dove ha conseguito il dottorato in Scienze Economiche. I principali interessi di ricerca riguardano i temi della disuguaglianza, dell’alfabetizzazione finanziaria e dell’istruzione.
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Ringraziamenti dell’Editore
L’Editore ringrazia i docenti che hanno partecipato alla review e che con le loro preziose indicazioni hanno contribuito alla realizzazione della dodicesima edizione di Macroeconomia: Maurizio Baussola, Università Cattolica del Sacro Cuore - Sede di Piacenza Giovanni Bella, Università degli Studi di Cagliari Maria Elena Bontempi, Università degli Studi di Bologna Raffaella Coppier, Università degli Studi di Macerata Carlo Di Giorgio, Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" Giulia Felice, Politecnico di Milano Anna Florio, Politecnico di Milano Michele Giuseppe Giuranno, Università del Salento Marco Guerrazzi, Università degli Studi di Genova Sergio Giovanni Mariotti, Politecnico di Milano Claudio Morana, Università degli Studi di Milano-Bicocca Beniamino Moro, Università degli Studi di Cagliari Antonella Palumbo, Università degli Studi Roma Tre Alessandro Stanchi, Università degli Studi di Torino Carmine Trecroci, Università degli Studi di Brescia Aldo Viapiana, Università degli Studi di Torino
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Guida alla lettura
Capitolo 4
Reddito e spesa
Obiettivi di apprendimento Obiettivi di apprendimento • Nel breve periodo il livello dell’attività economica dipende dalla domanda aggregata, che determina il prodotto e il reddito nazionale. Il reddito influisce a sua volta sulla spesa per il consumo e quindi di nuovo sulla domanda aggregata e sul prodotto. • Si ha pertanto un fenomeno di interdipendenza con un effetto moltiplicatore: in altri termini, un incremento della spesa autonoma fa crescere il PIL di un importo superiore all’incremento iniziale. • La spesa dello Stato per beni e servizi è una componente importante della spesa autonoma. Il suo aumento fa quindi cre-
livello dell’attività dalla domanda agmina il prodotto e il reddito influisce a a per il consumo e domanda aggregadi i t di
Individuare i concetti chiave Per migliorare la chiarezza espositiva gli obiettivi di apprendimento illustrano i temi fondamentali del capitolo e brevi riassunti sintetizzano passo passo i concetti chiave.
scere la domanda aggregata e, di conseguenza, il reddito nazionale e le entrate fiscali; poiché tuttavia queste ultime aumentano in misura inferiore rispetto alla spesa, aumenterà il disavanzo del bilancio dello Stato. Per finanziare il disavanzo lo Stato dovrà emettere titoli del debito pubblico e pagare interessi. Un eccessivo indebitamento potrebbe pertanto creare sfiducia nei confronti del Tesoro e far aumentare il tasso d’interesse. L’espansione della spesa pubblica può in conclusione far aumentare il reddito e l’occupazione nel breve termine, ma è soggetta a forti limiti.
scere la domand guenza, il reddito fiscali; poiché tu mentano in misu spesa, aumenter cio dello Stato. Pe lo Stato dovrà e bbli
108
Capitolo 4
nto la riduzione delle imposte aumenta il onsumo; l’effetto è la rotazione della dom tratteggiata. Tale misura, d’altro canto, r manda aggregata è più soggetta alle oscil
Una delle questioni centrali della macroeconomia riguarda i motivi delle fluttuazioni del prodotto intorno al livello potenziale. La crescita economica, infatti, è estremamente irregolare: nelle fasi di espansione e di recessione del ciclo economico la produzione rispettivamente aumenta e diminuisce in rapporto all’andamento del prodotto potenziale. Negli ultimi trent’anni, nei Paesi industrializzati, si sono verificate diverse recessioni, durante le quali il PIL è sceso rispetto al prodotto potenziale. Nelle fasi di ripresa, invece, il PIL è salito più del livello potenziale. In questo capitolo presenteremo una prima teoria volta a spiegare le fluttuazioni del PIL, teoria che si basa sulla reciproca interazione tra prodotto e spesa: quest’ultima determina la produzione e il reddito, ma il prodotto e il reddito a loro volta influiscono sulla spesa. Il modello keynesiano della determinazione del reddito nazionale che illustreremo più avanti è molto semplice e verrà arricchito di nuovi elementi nei capitoli successivi. La semplificazione fondamentale consiste nell’ipotizzare un contesto di breve periodo, ossia un livello dei prezzi costante. In questo modo le imprese possono produrre e vendere, a quel prezzo, qualunque quantità di prodotto consentita dalla capacità produttiva degli impianti disponibili, di conseguenza si suppone che la curva di offerta aggregata, che discuteremo in modo approfondito nei Capitoli 8 e 9, sia una retta orizzontale
Supponete ora che, invece di accrescere la spesa pubblica per beni e servizi, G, il –– – governo decida di aumentare i trasferimenti, TR: la spesa autonoma, A , crescerà solo –– di un ammontare pari a c∆TR e il corrispondente incremento del prodotto sarà uguale –– a αG · c∆TR. Il moltiplicatore dei trasferimenti è inferiore a quello della spesa pubblica di un fattore pari a c: ciò è dovuto al fatto che, quando lo Stato aumenta i trasferimenti, parte di essi viene risparmiata. Se il governo riduce l’aliquota fiscale da t a tʹ, come nella Figura 4.4, il moltiplicatore cresce in quanto la riduzione delle imposte aumenta il reddito disponibile e, di conseguenza, il consumo; l’effetto è la rotazione della domanda aggregata dalla linea solida a quella tratteggiata. Tale misura, d’altro canto, riduce l’effetto stabilizzatore, dunque la domanda aggregata è più soggetta alle oscillazioni.
Riassumendo Riassumendo
i trasferimenti incimodo analogo a un pesa autonoma pri– ti ( I = I ) o consumi
• La spesa pubblica e i trasferimenti incidono sul reddito in modo analogo a un incremento della spesa autonoma pri– vata per investimenti ( I = I ) o consumi – (C ). • Un’imposta proporzionale sul reddito riduce la quota del reddito disponibile per il consumo, perciò ha gli stessi effet-
onale sul reddito ri-
ti sulla domanda zione della prop consumo. • Un’imposta prop uno stabilizzatore • Una riduzione de
ti sulla domanda aggregata di una riduzione della propensione marginale al consumo. • Un’imposta proporzionale sul reddito è uno stabilizzatore automatico. • Una riduzione dei trasferimenti pubblici fa diminuire la domanda aggregata e quindi il prodotto.
4.4.5 Implicazioni Poiché, in base alla teoria che stiamo illustrando, le variazioni della spesa pubblica e del prelievo fiscale si ripercuotono sul livello del reddito, la politica fiscale risulta uno degli strumenti utilizzabili per stabilizzare l’economia. Quando quest’ultima attraversa una fase di recessione o di crescita lenta, sarebbe forse opportuno ridurre le imposte e aumentare la spesa pubblica per far salire la produzione. Viceversa, quando l’economia è in fase di espansione, sarebbe consigliabile aumentare le imposte o ridurre la spesa pubblica per ritornare al livello di piena occupazione. La politica fiscale viene infatti utilizzata attivamente per tentare di stabilizzare l’economia, come nel 2008-09, quando l’amministrazione Bush e in seguito l’amministrazione Obama hanno creato stimoli alla domanda aggregata attraverso rimborsi di imposta, tagli fiscali e spese pubbliche.
4.5 Bilancio pubblico
Avanzo di bilancio Eccedenza delle entrate dello Stato (imposte) sulle uscite complessive (acquisti di beni e servizi e trasferimenti).
Nella Figura 4.5 è rappresentato il saldo di bilancio annuale USA in percentuale rispetto al PIL del periodo: ogni punto sopra lo 0 corrisponde a un deficit, ogni punto sotto corrisponde a un avanzo. A sua volta ogni deficit fa aumentare lo stock di debito precedente, mentre ogni avanzo lo riduce. L’argomento verrà approfondito nei capitoli successivi, questo paragrafo serve come introduzione poiché affronta il tema del bilancio pubblico, i suoi effetti sul PIL e, viceversa, gli effetti di quest’ultimo sul bilancio stesso. Il primo concetto importante è quello di avanzo di bilancio (BS, dall’inglese Budget Surplus).
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XXVI Guida alla lettura
Mappa concettuale Politica monetaria e politica fiscale
Capitolo 5 Moneta, interesse e reddito
181
Para Politica
Capitolo 13 Mappa concettuale Banca Centrale, moneta e credito Capitolo 5 Moneta, interesse e reddito
Cogliere le connessioni La mappa a fine di ciascun capitolo illustra le interconnessioni tra gli argomenti mostrando in modo intuitivo quali nessi esistono.
Paragrafo 6.1 Politica monetaria
Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito
Capitolo 4 Reddito e spesa Capitolo 4 Reddito e spesa5 Capitolo Capitolo 5 e reddito Moneta, interesse
Paragrafo 6.2 Politica fiscale
Moneta, interesse e reddito
Para Politi
Capitolo 7 Legami economici internazionali
Capitolo 1212 Capitolo Spesa per investimenti Spesa per investimenti
102
Capitolo 4
Capitolo 5 Moneta, interesse e reddito Paragrafo 6.3 Composizione del prodotto e mix di politica economica
Capitolo 11 Consumo e risparmio
Capitolo 7 Legami economici internazionali
Per il concetto di moltiplicatore, data la sua importanza, introduciamo un nuovo simbolo. In questo caso specifico in cui sono assenti il settore pubblico e il commercio estero, indichiamo il moltiplicatore con α:
Capitolo 12 Spesa per investimenti
α≡
Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito
1 1–c
[17]
Dall’esame dell’Equazione [17] si ricava che maggiore è la propensione marginale al consumo, c, maggiore sarà il moltiplicatore: se c è 0,6 il moltiplicatore è 2,5; se c è 0,8 il moltiplicatore è 5. In effetti, un’elevata propensione marginale al consumo implica che una maggiore frazione di reddito sarà spesa in consumi e quindi sarà aggiunta alla domanda aggregata; ciò provocherà di conseguenza un maggiore incremento della spesa indotta. ridurre la spesa per investim Per quale motivo analizziamo in dettaglio il modello del moltiplicatore? Perché il nostrodiminuzione scopo è di spiegaredel le fluttuazioni guente redd del PIL. Il meccanismo del moltiplicatore indica che il prodotto varia al variare della spesa autonoma (inclusi gli investimenti) e meno, il che si tradurrà in u che la sua variazione può essere più ampia di quella della spesa autonoma. Esso consente di descrivere formalmente del moltiplicatore potrebbeciòdche suggerisce il buon senso: se per qualche ragione (per esempio un’ondata di pessimismo riguardo al futuro, che induce le aziende a fluttuazioni del prodotto. ridurre la spesa per investimenti) l’economia attraversa una fase di crisi con conseguente diminuzione del reddito, le persone i cui redditi sono calati spenderanno di meno, il che si tradurrà in un’ulteriore riduzione del reddito di equilibrio. Il modello del moltiplicatore potrebbe dunque contribuire a spiegare i motivi per cui si verificano fluttuazioni del prodotto.
Paragrafo 6.4 Recessioni economiche del ventennio 1990-2010
Dimostrare i teoremi Le dimostrazioni algebriche, collocate in appositi box, permettono una trattazione flessibile del livello di formalizzazione.
FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 4.1
Dimostrazione della formula del moltiplicatore FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 4.1 Dimostrazione della formula del moltiplicatore dinamico
Per dimostrare il passaggio dall’Equazione [15] alla [16 Per dimostrare il passaggio dall’Equazione [15] alla [16] conviene usare l’artificio di moltiplicare tutti i membri dell’Equazione [15] per il coefficiente c ottenendo bri dell’Equazione [15] per il coefficiente c ottenendo la seguente espressione: – – – – – 2 cΔAD = cΔA – c 3–ΔA + c 43ΔA + … c nΔA cΔAD = cΔA+ c+ΔA c 2+ΔA +c Δ
[15a]
Sottraendo l’Equazione [15a] dalla [15] membro per membro, si ha, dato che i termini intermedi si elidono: – – m – Sottraendo l’Equazione [15a] dalla [15] membro per (1 – c ) ΔAD = ΔA – c nΔA = (1 – c n) ΔA Reddito e spesa
Per cui:
105
Per cui: marginale al consumo sul reddito disponibile YD rimane uguale a c, la propensione marginale al consumo sul reddito complessivo Y diventa c(1 – t), dove la frazione 1 – t rappresenta appunto la parte del reddito che rimane alle famiglie dopo il pagamento delle imposte. Se, per esempio, la propensione marginale al consumo c è 0,8 e l’aliquota di imposta t è 0,25, la propensione marginale al consumo sul reddito complessivo, ossia c(1 – t), sarà uguale a 0,8(1 – 0,25) = 0,6. Dopo aver arricchito la funzione del consumo con l’intervento dello Stato, procediamo al calcolo della nuova funzione di domanda aggregata. A tal fine inseriamo le – Equazioni [4b], [5] e [19] nell’Equazione [2], che con G = G , e NX = 0 diventa:
[20]
AD = C + I + G – – – –– = C + cTR + c(1 – t)Y + I + G – –– – – = (C + cTR + I + G ) + c(1 – t)Y – = A + c(1 – t)Y
Stampli-
– (1 – c n) c–n (1 – c ) ΔAD ΔAD = = ΔA – ΔA 1–c
ΔAD =
– 1 ΔA = ΔY 1–c
AD = C + I + G + NX – I=I
[2] [5]
– = A + cY – AD = A + cY
ude il o nel avata
[6] [6]
[3]
[3]
Per trovare il nuovo livello d’equilibrio del reddito, Y0, possiamo risolvere quest’equazione raccogliendo i termini in Y: – Y [1 – c(1 – t)] = A
Y0 = Y0 =
– 1 A 1 – c(1 – t)
– –– – – 1 (C + cTR + I + G ) 1 – c(1 – t)
qua[21]
Confrontando l’Equazione [21] con la [8], si osserva che la presenza del settore pubblico implica notevoli differenze: innanzitutto essa fa aumentare la spesa autonoma di – un importo pari agli acquisti di beni e servizi da parte dello Stato, G , e alle spese di –– consumo indotte dai trasferimenti netti, cTR; inoltre l’imposta sul reddito riduce il moltiplicatore. 4.4.2 Imposte sul reddito e moltiplicatore Dimostriamo con un esempio perché le imposte sul reddito riducono il moltiplicatore. Se ci fossero imposte con un'aliquota fiscale pari a 0,25 e la propensione marginale al consumo fosse pari a 0,8, il moltiplicatore sarebbe pari a 2,5, ossia 1/[1 – 0,8(1 – 0,25)] =
[16]
Confrontando la [15c] con la [16] si nota che il valore cumulato di ΔAD e quindi di ΔY è tanto più basso quanto minore è il numero delle fasi che si sono succedute dal periodo in cui si è verificato l’aumento della spesa autonoma. Per – esempio, dopo un solo periodo, ovvero per n = 1, l’Equazione [15c] fornisce il seguente risultato: ΔAD = ΔA.
4.4.1 Reddito di equilibrio Esamineremo ora come si determina il livello di equilibrio del reddito se si include il settore pubblico. Riprendiamo l’Equazione [3], ossia la condizione di equilibrio nel Y = AD mercato dei beni, e riscriviamola sostituendo al posto di AD l’espressione ricavata dall’Equazione [20], per cui: Y = AD – Y = A + c(1 – t)Y
da cui:
[15c]
Per n tendente all’infinito cn tende a zero e l’Equazione [15c] si trasforma nella [16]:
[20]
– – –– – – dove in questo caso A = C + cTR + I + G . AD La pendenza dell’Equazione [20], ovvero della curva AD con intervento dello Stato, è inferiore a quella dell’Equazione [6] perché è ora data da c(1 – t) anziché semplicemente da c.
[15b]
Y0 =
1 – A 1–c
[8]
Memorizzare le formule Le formule richiamate dalle pagine precedenti sono state riportate a margine del testo a supporto dell’apprendimento.
00PrPag.qxp_DORNBUSCH_2013 23/12/19 13:43 Pagina XXVII
Guida alla lettura XXVII Reddito e spesa Reddito e spesa
97
APPLICAZIONE 4.1 APPLICAZIONE 4.1
Relazione consumo-reddito negli Stati Uniti e in Italia – La funzione del consumo espressa dall’Equazione [4], C = C + cYD, fornisce una buona descrizione iniziale della relazione esistente tra consumo e reddito disponibile. I dati su base annua relativi ai consumi e al reddito disponibile pro capite negli Stati Uniti dal 1960 al 2015 sono illustrati nella Figura 4.2a, mentre la Figura 4.2b riporta il caso italiano. Ricordate che, nel Capitolo 2, il reddito disponibile era stato definito come la parte del reddito che le famiglie hanno a disposizione da destinare al consumo o al risparmio dopo aver pagato le imposte e aver ricevuto i trasferimenti. Come mostra la Figura 4.2a, esiste una relazione molto stretta tra consumo e reddito disponibile. La relazione effettiva per gli Stati Uniti è la seguente:
fornisce una buona descrizione I dati su base annua relativi ai al 2015 sono illustrati nella Figu-
C = –1510 + 0,95YD
Applicare la teoria alla realtà economica italiana e internazionale Le applicazioni a casi reali della realtà economica europea e internazionale sono collocate in box che si integrano perfettamente al filo logico del discorso e sono parte integrante dello sviluppo delle idee proposte nel volume. Numerosi dati reali sono raccolti in tabelle e figure.
15
36 000
11 05
(Fonte: ISTAT, Reddito e risparmio delle famiglie, 2018.)
28 000
97 93 89
24 000
13
Politica monetaria e politica 163 Politica monetaria e fiscale politica fiscale
99
APPROFONDIMENTO 6.1
95 91
85 20 000
81
87
Domanda: la Banca Centrale fissa il tasso di interesse oppure l’offerta di moneta?
APPROFONDIMENTO 6.1
77 71
16 000
67 63
12 000
69
73
75
83 79
In base a quanto si è detto la Banca Centrale stabilisce l’offerta di moneta, mediante le operazioni sul mercato aperto, e ciò determina la posizione della curva LM. Tuttavia, spesso si legge sui giornali che la Banca Centrale ha alzato o abbassato i tassi di interesse: come sono collegate le due cose? La risposta è la seguente: finché la posizione delle curve IS e LM è nota alla Banca Centrale, le due affermazioni si equivalgono. Supponete che la Banca Centrale intenda fissare il tasso di interesse a un livello pari a i0 e che la curva IS si trovi nella posizione indicata nella Figura 6.8. Anziché scegliere un certo valore relativo all’offerta di moneta e rappresentare la curva LM corrispondente, potete tracciare una curva LM che passi per il punto E (assicurandovi di fare riferimento al tasso di interesse posto come obiettivo, i0) e, quindi, risalire all’ammontare dell’offerta di moneta che genera la curva LM passante per il punto E.
sse oppure l’offerta
65 8000 10 000
(Fonti: Bureau of Economic Analysis; Federal Reserve Economic Data FRED.)
61 15 000
20 000
25 000
30 000
35 000
40 000
Reddito disponibile (pro capite)
ce l’offerta di moneta, a la posizione della cura Centrale ha alzato o
Consumi delle famiglie
Figura 4.2b Relazione consumoreddito Italia, dati trimestrali 1999-2017 (miliardi di euro, prezzi 2010)
09 03 07
01
300 290 280 270 260 250 240 230 220 210 200 190 180 170 160 150 150
C = –23,049 + 0,99YD R2 = 0,97
i
LM
170
190
210
230
250
270
290
Reddito lordo disponibile delle famiglie
Tasso d’interesse
Figura 4.2a Relazione tra consumo e reddito disponibile negli Stati Uniti. Valori in dollari del 2009
Consumo totale (pro capite)
32 000
i0
E
IS
Y
Approfondire criticamente Gli approfondimenti propongono prospettive critiche alla teoria spiegata.
22
Capitolo 2
Prodotto Interno Lordo (PIL) Misura di tutti i beni e i serProdotto Interno Lordo (PIL) vizi finali prodotti all’interno Misura di tutti i beni e i serdi un Paese vizi in finali un prodotti anno. Il all’interno di un Paese in un anno. Il PIL reale è espresso unità PIL reale èin espresso in unità di valore costante; il PIL di valore costante; PIL in nominale il è espresso unità di valore corrente. nominale è espresso in unità di valore corrente. PIL pro capite PIL a persona.
PIL
it
Fattori produttivi Risorse (input) utilizzate dall’impresa per la produzione di beni e servizi (output). Sono: capitale, lavoro e risorse naturali. Remunerazione dei fattori produttivi Redditi percepiti dai fattori produttivi; un esempio sono i salari per remunerare il lavoro.
Flusso circolare del reddito Mostra i flussi reali e monetari di scambio tra imprese e famiglie.
tem ri è mac men
Figura 6.8 Stabilizzazione del tasso di interesse
Supponete ora che, come mostra la Figura 6.9, la curva IS si sia spostata verso destra. Per mantenere il tasso di interesse “stabile” al livello i0, dovrete spostare la curva LM verso destra, in LM′e calcolare nuovamente l’offerta di moneta necessaria. Quando la Banca Centrale interviene per fissare il tasso di interesse a un certo livello, in realtà adegua l’offerta di moneta, in modo tale che la curva LM continui a intersecare la curva IS in corrispondenza del tasso di interesse posto come obiettivo. Per lo meno nel breve periodo, le autorità monetarie possono fissare il tasso di interesse in modo assai efficace senza dover realmente calcolare l’equilibrio IS-LM. Supponete che l’obiettivo della Banca Centrale sia mantenere il tasso di interesse stabile tra il 5,9% e il 6%: essa sarà pronta ad acquistare qualsiasi quantità di titoli qualora i tassi di interesse siano superiori al 6% (garantendo acquisti sul mercato aperto in misura illimitata) e, ugualmente, a venderne qualsiasi quan-
è altrettanto vero che conoscere almeno l ensabile per correlare la teoria alla realtà: nomia si occupa principalmente del mond ciamo il nostro studio della Il PIL è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti nel Paese contabilità naz in un certo periodo di tempo. ella produzione in un sistema economico: i
tempo, ma è altrettanto vero che conoscere almeno l’ordine di grandezza di certi valori è indispensabile per correlare la teoria alla realtà: non va dimenticato, infatti, che la macroeconomia si occupa principalmente del mondo in cui viviamo. Cominciamo il nostro studio della contabilità nazionale definendo la misura fondamentale della produzione in un sistema economico: il Prodotto Interno Lordo (PIL).
Nel calcolo del PIL rientrano sia il valore dei beni materiali, come le case o i compact disc, sia il valore dei servizi, per esempio i viaggi aerei o le lezioni degli economisti. Il valore di ciascun bene o servizio è dato dal suo prezzo di mercato, e la somma di tutti i valori corrisponde al PIL. Nel 2018, il PIL dell’Italia è stato pari a circa 1765 miliardi di euro. Poiché l’Italia ha una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, il PIL pro capite è stato pari, grosso modo, a 29 417 euro (= 1765 miliardi/60 milioni).
Nel Il PIL è il valore di tutti i beni e servizi fi pac in un certo periodo di te mis som o del PIL rientrano sia il valore dei beni circ 2.1 Produzione e remunerazione fattori produttivi sia il valoredeidei servizi, per esempio i via abit In un sistema economico, gli input dal lato della produzione, quali il lavoro e il capitaalore di ciascun bene o servizio è dato le, vengono trasformati in prodotti, cioè in componenti del PIL. Il lavoro e il capitale sono definiti fattori produttivi e i redditi percepiti da tali fattori vengono definiti tutti i valori corrisponde al PIL. Nel 201 remunerazione dei fattori produttivi. Immaginate un sistemamiliardi economico molto rapporti economici con ha una p disemplice, euro.senzaPoiché l’Italia altre economie (economia chiusa) e senza Stato. Gli operatori di questo sistema economico sono raggruppatilin due blocchi: famiglie e imprese. i Le famiglie posseggonoi i fattori produttivi (lavoro e beni capitali) e la produzione di beni e servizi serve a soddisfare i loro bisogni, presenti (beni di consumo) e futuri (beni di investimento che cederanno in uso alle imprese in cambio di una remunerazione). Chiameremo i beni di consumo e di investimento beni finali, in contrapposizione ai beni intermedi, cioè alle materie prime e ai semilavorati che saranno poi incorporati nei beni finali. La produzione è realizzata in unità chiamate “imprese”. Possiamo immaginare queste imprese come verticalmente integrate, cioè esse producono al loro interno tutti i beni e servizi intermedi di cui hanno bisogno, cosicché acquistano all’esterno soltanto i servizi dei fattori produttivi dalle famiglie e pagano in cambio salari, profitti, interessi e rendite, che vanno a costituire i redditi delle famiglie. Con i servizi dei fattori produttivi le imprese realizzano la produzione con lo scopo di venderla alle famiglie. Le famiglie acquistano i beni e i servizi prodotti con i redditi che hanno percepito dalle imprese e il ciclo può ricominciare. La stilizzazione di questo processo è riportata nella Figura 2.1 e prende il nome di flusso circolare del reddito. La parte superiore della Figura 2.1 rappresenta il mercato dei fattori produttivi, nel quale le famiglie cedono alle imprese un flusso reale (servizi dei fattori produttivi) ottenendo in cambio un flusso monetario (redditi). Il valore dei servizi produttivi ceduti alle imprese è esattamente uguale ai redditi monetari percepiti dalle famiglie. La parte inferiore rappresenta il mercato dei beni. Le imprese vendono alle famiglie i beni finali (flusso reale) in cambio di un flusso monetario (spesa delle famiglie). Il valore dei beni e servizi prodotti è esattamente uguale alla spesa delle famiglie.
Apprendere la terminologia Il glossario ai margini del testo e le definizioni, poste in rilievo grafico, sono utili per apprendere i termini propri della macroeconomia.
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XXVIII Guida alla lettura
116
Riepilogo
Capitolo 4
Riepilogo • Il prodotto si trova al livello di equilibrio quando la
di beni èd uguale all’ammontare • Il prodotto si domanda trovaaggregata al livello della produzione. • Le componentidi della domanda domanda aggregata beni è aggregata sono la spesa prevista per beni di consumo da parte delle famiglie, per beni di investimento da parte delle impredella produzione. se e per acquisti di beni e servizi da parte dello Stato, • Le componenti della domand nonché le esportazioni nette. • Quando il prodotto si trova al livello di equilibrio, non spesa previstasi per beni di hanno variazioni nonconsu programmate delle scorte e gli acquisti effettuati dai diversi operatori economici miglie, per beni di investimento corrispondono esattamente a quelli programmati. Il meccanismo di accumulo o di riduzione delle scorte se e per acquisti di beni e serviz segnala che l’economia non ha raggiunto il livello del prodotto di equilibrio. nonché le esportazioni nette. • Sull’entità della domanda aggregata influisce l’ammontare delsiprodotto (cheal equivale • Quando il prodotto trova li a quello del reddito), poiché la domanda di beni di consumo dipende
Ripassare e verificare il livello di preparazione Il riepilogo supporta il ripasso delle teorie fondamentali illustrate. Per testare la propria preparazione sono a disposizione dello studente le domande di ripasso e i problemi numerici di fine capitolo. Le soluzioni dei problemi numerici sono disponibili sul sito web del volume.
dal livello del reddito. • La funzione del consumo mette in relazione la spesa per consumi con il reddito; il consumo infatti cresce all’aumentare del reddito. Poiché la parte del reddito che non è consumata viene risparmiata, la funzione del risparmio può essere ricavata da quella del consumo. • Il moltiplicatore indica l’entità della variazione del prodotto di equilibrio determinata da una variazio-
Il modello di determinazione del reddito che è stato illustrato in questo capitolo si definisce “keynesiano”. Quale ipotesi relativa ai prezzi lo caratterizza?
4.2
Che cos’è una variabile autonoma? In questo capitolo è stato specificato che alcune componenti della domanda aggregata sono autonome. Di quali componenti si tratta?
4.3
In base alle vostre conoscenze riguardo ai tempi necessari alle numerose componenti del settore pubblico per giungere ad approvare e quindi attuare modifiche di politica fiscale (per quanto concerne, per esempio, la normativa fiscale o il sistema previdenziale), riuscite a individuare eventuali problemi legati all’uso della politica fiscale come strumento di stabilizzazione dell’economia?
117
Problemi
4.1
4.1
Studieremo ora un caso particolare del modello illustrato nei Paragrafi 4.2 e 4.3, dove si era
ipotizzato un sistema economico privo di settore pubblico. Siano dati la funzione di consuStudieremo mo, C = 100 + 0,8Y, e gli investimenti, I = 50. ipotizzato un a. Qual è il livello di equilibrio del reddito in questo caso? b. A quanto ammonta il risparmio in condizioni di equilibrio? mo, C =c. 100 Se, per qualche ragione, la produzione fosse pari a 800, a quanto ammonterebbe l’ac-
Soluzioni dei problemi sul sito web dedicato al volume
Soluzioni dei problemi sul sito web dedicato al volume
cumulo non programmato di scorte?
a. Qual è gliilinvestimenti salissero a 100 (esamineremo i fattori che determinano la componend. Se te I nei capitoli seguenti) quale sarebbe l’effetto prodotto sul reddito di equilibrio? b. A quanto e. Che valore avrà il moltiplicatore, α, in questo caso? Rappresentate in un grafico la condizione di equilibrio corrispondente ai punti a. e d. c. 4.2 Se, f.Supponete per q che il comportamento in relazione al consumo ipotizzato nel Problema 4.1 si modifichin e che la nuova funzione sia C = 100 + 0,9Y, mentre gli investimenti restano invariacumulo ti, ossia I = 50. d. Se gli inv di equilibrio del reddito è maggiore o minore rispetto a quello individuato al puna. Il livello to a. del Problema 4.1? Per verificarlo, calcolate il nuovo livello di equilibrio, Y′. te Ib. nei c ora che gli investimenti salgano a I = 100, com’era stato ipotizzato al punto Supponete d. del Problema 4.1. Quale sarà il nuovo reddito di equilibrio? e. Chec. valo Questa variazione della spesa per investimenti ha una conseguenza di maggiore o minore entità sul reddito, Y, rispetto al dato ottenuto nel Problema 4.1? Motivate la vostra risposta. d. Rappresentate in un diagramma la variazione del reddito di equilibrio che si determina in questo caso. 4.3
prodotto di equilibrio determinat
Domande di ripasso 4.1
Reddito e spesa
Problemi
ne della spesa autonoma pari a 1 euro. Maggiore è la propensione al consumo, maggiore sarà il moltiplicatore. • Gli acquisti di beni e servizi da parte dello Stato e i trasferimenti pubblici incidono sul livello di equilibrio del reddito in modo analogo a un incremento della spesa autonoma per investimenti. Un’imposta proporzionale sul reddito ha gli stessi effetti sul reddito di equilibrio di una riduzione della propensione al consumo, e quindi riduce il moltiplicatore. • L’avanzo di bilancio è l’eccedenza delle entrate sulle uscite dello Stato. Quando le uscite superano le entrate fiscali, il bilancio pubblico è in deficit. L’entità dell’avanzo (o disavanzo) di bilancio è legata alle variabili della politica fiscale (la spesa pubblica, i trasferimenti e le aliquote di imposta). • Sull’avanzo effettivo di bilancio incidono anche variazioni del gettito fiscale e dei trasferimenti dovute a variazioni del livello di reddito, che si verificano quando cambia l’ammontare della spesa autonoma del settore privato. L’avanzo di bilancio di piena occupazione (massima occupazione) è utilizzato come indicatore dell’uso attivo della politica fiscale; esso misura l’avanzo (o disavanzo) di bilancio che si determinerebbe se il prodotto fosse al suo livello potenziale (di piena occupazione).
Consideriamo ora il ruolo delle imposte nella determinazione del reddito di equilibrio. Ipotizziamo un sistema economico analogo a quello illustrato nei Paragrafi 4.4 e 4.5, descritto dalle seguenti funzioni: C = 50 + 0,8YD – I = 70 – G = 200 — TR = 100 t = 0,20 a. Calcolate il livello di equilibrio del reddito e il moltiplicatore. b. Calcolate l’avanzo di bilancio pubblico, BS. c. Supponete che l’aliquota di imposta salga a t = 0,25. Quali saranno il nuovo reddito di equilibrio e il nuovo moltiplicatore? d. Calcolate la variazione dell’avanzo di bilancio. Se c = 0,9 anziché 0,8, vi aspettereste che tale variazione sia maggiore o minore? e. Siete in grado di spiegare il motivo per cui il moltiplicatore è 1 quando t = 1?
4.4
Supponete che l’economia si trovi a operare in condizioni di equilibrio, con Y0 = 1000. Ipotizzate, adesso, che il governo attui una modifica della politica fiscale che prevede un aumento pari a 0,05 dell’aliquota di imposta, t, e un incremento pari a 50 della spesa pubblica. L’avanzo di bilancio pubblico aumenterà oppure diminuirà? Motivate la vostra risposta.
4.5
Supponete che il Parlamento decida di ridurre i trasferimenti (come quelli della previdenza sociale) e di aumentare dello stesso importo la spesa pubblica per beni e servizi. In altri termini, si attua una modifica della politica fiscale tale per cui ΔG = –ΔTR.
4.4
Perché meccanismi quali le imposte proporzionali sul reddito e il sistema previdenziale sono definiti “stabilizzatori automatici”? Scegliete uno di questi meccanismi e spiegate con precisione in che modo e per quale ragione esso incide sulle fluttuazioni del prodotto.
Domande di ripasso
4.5
4.1
Il modello di determinazione de illustrato in questo capitolo si de Quale ipotesi relativa ai prezzi
4.2
Che cos’è una variabile autono tolo è stato specificato che alcu domanda aggregata sono auto ponenti si tratta?
Che cos’è l’avanzo di bilancio di piena occupazione e per quale motivo potrebbe rappresentare un criterio di misura più utile rispetto all’avanzo di bilancio effettivo? Nel presente capitolo questo indicatore viene chiamato anche “avanzo di bilancio corretto per il ciclo” e “avanzo di bilancio strutturale”. Perché si può dire che sia preferibile utilizzare queste espressioni alternative?
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Parte I
Introduzione e contabilità nazionale
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Capitolo 1
Introduzione
Obiettivi di apprendimento • Questo capitolo introduttivo presenta i principali concetti di base della macroeconomia, come quelli di sistema economico, prodotto reale, domanda aggregata, indice dei prezzi, tasso di crescita, inflazione e disoccupazione. • Lo studio della macroeconomia può essere suddiviso in tre modelli con orizzonti temporali diversi: il breve periodo, il medio periodo e il lungo periodo. • Nel breve periodo la capacità produttiva del sistema economico è per ipotesi data e il livello dei prezzi può essere considerato fisso. Le quantità di beni effettivamente prodotte dipendono pertanto dalla domanda aggregata. • Nel medio periodo i prezzi e i salari sono flessibili e pertanto le fluttuazioni della domanda aggregata tendono a influenzare i prezzi, oltre che le quantità. Il prodotto aggregato reale tende quindi a gravitare attorno al suo livello potenziale. La
capacità produttiva del sistema è per ipotesi data anche nel medio periodo. Se la domanda aggregata eccede la capacità produttiva, aumentano i prezzi e i salari nominali, ossia si ha inflazione. • L’inflazione, ovvero il processo di aumento dei prezzi, tende però a manifestarsi ancor prima che venga raggiunta la piena occupazione. La coesistenza tra inflazione e disoccupazione è uno dei problemi più controversi della macroeconomia: a tale problema sarà dedicata una particolare attenzione nell’ambito del presente volume. • Nel lungo periodo la capacità produttiva può variare. La teoria della crescita si propone appunto di spiegare i fattori che ne determinano l’aumento. Nel modello di lungo periodo si trascura invece il problema delle fluttuazioni della domanda. Si può infatti ritenere che le fasi di espansione si compensino con quelle di recessione.
L’economia mondiale è caratterizzata da profondi divari tra i livelli di sviluppo dei Paesi. Che cosa si intende per “livello di sviluppo” e come si misura? Per quale motivo alcuni Paesi diventano “ricchi” e altri restano “poveri”? E perché in uno stesso Paese si alternano fasi di espansione ad altre di rallentamento della crescita o di recessione? Queste domande riguardano il cosiddetto lungo periodo, ovvero le tendenze di fondo del sistema economico nell’arco di decenni. Ma esistono anche problemi rilevanti di breve periodo: nel corso dei mesi e degli anni si possono infatti verificare fluttuazioni della domanda aggregata che determinano situazioni di eccessiva pressione sull’offerta potenziale, alternate a situazioni di parziale inutilizzo dei fattori produttivi. Nel primo caso si avrà una spinta all’aumento dei prezzi, ossia all’inflazione, nel secondo caso si avrà invece disoccupazione della forza lavoro. Se la disoccupazione permane è possibile che nel medio periodo si creino le condizioni per una caduta delle retribu-
Domanda aggregata Somma dei valori di tutti i beni finali acquistati in un sistema economico.
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4
Capitolo 1
zioni e quindi dei prezzi (deflazione), anche se le resistenze al riguardo sono particolarmente forti. Da che cosa dipendono le fluttuazioni della domanda e quindi l’inflazione e la disoccupazione? Come si spiega la coesistenza che spesso si osserva tra questi ultimi due fenomeni? La macroeconomia si propone non soltanto di rispondere a queste domande, ma anche di fornire suggerimenti per migliorare il funzionamento del sistema economico. Non si limita quindi all’analisi dei problemi, ma estende il proprio campo di indagine alla politica economica. Nel prossimo paragrafo ci soffermeremo sui rapporti tra macroeconomia e microeconomia, in quello successivo approfondiremo i concetti di sistema economico, prodotto a prezzi costanti e indice dei prezzi.
1.1 Macroeconomia e microeconomia La macroeconomia è il ramo dell’economia politica che studia il funzionamento del sistema economico nel suo insieme, mentre la microeconomia si occupa soprattutto del comportamento dei singoli mercati e dei singoli operatori o soggetti economici. Per meglio chiarire la differenza tra i due approcci, consideriamo la seguente espressione: Z0 = Q1, 0 P1, 0 + Q2, 0 P2, 0 + Q3, 0 P3, 0 + … Qn, 0 Pn, 0
Prodotto aggregato Somma dei valori dei beni finali prodotti in un sistema economico.
[1]
dove le Q e le P rappresentano rispettivamente le quantità e i prezzi degli n beni finali prodotti dal sistema economico in un determinato periodo (per esempio, in un determinato anno), mentre Z0 è il corrispondente valore del prodotto aggregato. Sul lato destro dell’Equazione [1] il primo suffisso delle singole variabili indica il tipo di bene, mentre il secondo indica il periodo di riferimento, che in questo caso è il periodo 0, ossia il periodo base. Nel calcolo del prodotto aggregato (Z0) dobbiamo escludere i beni intermedi, che sono utilizzati per produrre i beni finali e di conseguenza sono incorporati nel valore di questi ultimi. In un’economia chiusa agli scambi con l’estero i beni finali sono rappresentati dai beni di consumo, che soddisfano direttamente i bisogni dei membri della collettività, ma anche dai beni di investimento, che sono destinati ad aumentare lo stock di capitale e quindi la produzione futura di beni di consumo. In altri termini, i beni finali hanno il compito di contribuire, in modo immediato o differito, al benessere materiale della collettività. Esempi di beni finali sono il pane, le scarpe, le automobili e i servizi di trasporto oppure i servizi sanitari. Beni intermedi sono invece la farina, il cuoio, i metalli, il carburante e gli altri materiali che servono per produrre i beni finali. Si noti che la classificazione di un bene come finale o intermedio deriva non tanto dalla natura del bene stesso, quanto dal tipo di soggetto economico che lo utilizza. Per esempio, 1 kg di zucchero è classificato come bene finale se lo acquista una famiglia per il proprio consumo e come bene intermedio se lo utilizza un pasticcere per la produzione di una torta. Il prezzo di quest’ultima terrà poi conto anche del valore dello zucchero utilizzato. Un’altra distinzione che è necessario fare, prima di proseguire, è quella tra beni e servizi: i beni sono di norma oggetti materiali, come il pane, le scarpe e le automobili, ma possono anche essere diritti, come per esempio quello di utilizzare un appartamento preso in affitto; i servizi sono invece prestazioni fornite da persone o da imprese, come per esempio un trasporto, una visita medica o la vendita di un bene da parte di un esercizio commerciale. Beni e servizi hanno in comune la caratteristica di essere mezzi idonei a soddisfare i bisogni dei consumatori in modo diretto o differito. In modo differito quando si tratta di beni di investimento, ossia di beni destinati a produr-
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Introduzione
re beni di consumo. Per semplicità d’ora in avanti useremo il termine beni in senso lato in modo da includere anche i servizi. Fatte queste premesse, supponiamo che tra un anno e l’altro le quantità prodotte e vendute di alcuni beni aumentino, di altri diminuiscano e di altri ancora rimangano costanti. Supponiamo inoltre che anche i prezzi varino in direzioni diverse. Lo studioso di microeconomia cercherà di spiegare le cause delle variazioni dei prezzi e delle quantità prodotte e vendute nei vari mercati. Si chiederà se c’è stato un cambiamento dei gusti dei consumatori e quindi della domanda dei vari beni o se sono invece mutati i costi di produzione e la tecnologia e quindi le condizioni dell’offerta. Dal punto di vista della macroeconomia, l’aspetto che invece conta di più è la variazione del prodotto aggregato nel suo complesso. Il primo dato da verificare è quindi se la variabile Z sia aumentata, diminuita o rimasta costante. I suoi mutamenti interni non sono invece rilevanti. Un paragone può chiarire questo punto: la vita di una foresta (il sistema macroeconomico) è una realtà ben diversa da quella dei singoli alberi (le unità microeconomiche) che la compongono. Il secondo aspetto da accertare, sempre dal punto di vista macroeconomico, è se l’eventuale variazione del prodotto aggregato sia dovuta al movimento delle quantità o a quello dei prezzi. O meglio, occorre stimare quale parte della variazione sia dovuta alla prima causa e quale alla seconda. C’è infatti una differenza fondamentale tra le due cause: l’aumento delle quantità prodotte comporta, infatti, di norma un maggior benessere per la popolazione, mentre un aumento dei prezzi produce soltanto un “gonfiamento” (è questo il significato del termine “inflazione”) del prodotto aggregato, senza alcun effetto sul benessere. Nel prossimo paragrafo prenderemo in esame la tecnica utilizzata dagli istituti centrali di statistica per separare l’“effetto quantità” dall’“effetto prezzi”.
1.2 Prodotto reale e indice dei prezzi Per studiare il movimento delle quantità e dei prezzi dei beni, consideriamo il valore del prodotto aggregato in un periodo successivo a quello rappresentato dall’Equazione [1]. Indichiamo con Z1 il nuovo aggregato: Z1 = Q1, 1 P1, 1 + Q2, 1 P2, 1 + Q3, 1 P3, 1 + … Qn, 1 Pn, 1
[2]
Si noterà che il secondo suffisso delle variabili sul lato destro dell’Equazione [2] è diventato 1, invece di 0, in quanto si riferisce ora al periodo 1. Indichiamo poi con ΔZ = Z1 – Z0 la variazione assoluta di Z tra i due periodi: come abbiamo osservato in precedenza, tale variazione può essere dovuta sia al mutamento dei prezzi sia a quello delle quantità. Esiste tuttavia un modo semplice per distinguere l’effetto delle due componenti: basta ricalcolare il prodotto aggregato del periodo 1 moltiplicando le nuove quantità non per i prezzi correnti, ma per i prezzi del periodo precedente.
Così facendo si ottiene un nuovo aggregato che non è influenzato dalla variazione dei prezzi, ossia: Y1 = Q1, 1 P1, 0 + Q2, 1 P2, 0 + Q3, 1 P3, 0 + … Qn, 1 Pn, 0
[3]
Nell’Equazione [3], come si può notare, il secondo suffisso delle Q è 1, come nell’Equazione [2], mentre quello delle P è 0, come nell’Equazione [1], a conferma che le quantità del periodo corrente sono moltiplicate per i prezzi dell’anno base.
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6
Capitolo 1
Definiamo prodotto a prezzi costanti o prodotto reale dell’anno 1 la nuova variabile Y1 e prodotto a prezzi correnti o prodotto nominale dello stesso anno la variabile Z1.
È evidente che nell’anno base si ha Z0 = Y0, ossia il prodotto nominale e il prodotto reale coincidono. Possiamo ora scindere la variazione del prodotto nominale in due componenti: (a) ΔY = Y1 – Y0, che per definizione è dovuta alla variazione delle sole quantità, considerato che i prezzi utilizzati per calcolare Y1 sono rimasti quelli del periodo precedente; (b) ΔP = Z1 – Y1, che invece rappresenta la parte residuale della variazione di Z ed è quindi dovuta esclusivamente alla variazione dei prezzi. Si avrà in altri termini: ΔZ = Z1 – Z0 = Z1 – Y1 + Y1 – Y0 = ΔP + ΔY. L’analisi sin qui condotta ci consente di definire con precisione due tra i principali oggetti di studio della macroeconomia: la crescita economica e l’inflazione. Possiamo, infatti, considerare come indicatore della crescita economica il tasso di variazione percentuale (o semplicemente tasso di variazione) del prodotto reale, ovvero: ΔY/Y0 = (Y1 – Y0)/Y0 Deflatore Indice del livello dei prezzi ottenuto dividendo il prodotto nominale per il prodotto reale.
[4]
Possiamo, invece, utilizzare come indicatore dell’inflazione la seguente variabile: ΔP/P0 = (Z1 – Y1)/Y1 = Z1/Y1 – 1
dove Z1/Y1 rappresenta l’indice implicito dei prezzi o deflatore del prodotto aggregato.
APPLICAZIONE 1.1 Crescita economica e inflazione: un esempio numerico La procedura da seguire per il calcolo del tasso di crescita del prodotto reale e del tasso d’inflazione può essere illustrata dal seguente esempio. Si consideri un’economia nella quale si producono soltanto due beni finali: A e B. Le quantità prodotte e i prezzi di vendita dei due beni nell’anno 0 e nell’anno 1 sono indicati dalla seguente tabella: Anno 0
Anno 1
Beni
Q
P (euro)
Q
P (euro)
A
40
10
42
11
B
50
12
55
15
Calcoliamo ora il prodotto aggregato nominale e il prodotto reale nei due anni. Per l’anno 0 si avrà: Z0 = Y0 = 40 × 10 + 50 × 12 = 400 + 600 = € 1000 (prodotto nominale e reale). Per l’anno 1:
[5]
Z1 = 42 × 11 + 55 × 15 = 462 + 825 = € 1287 (prodotto nominale) Y1 = 42 × 10 + 55 × 12 = 420 + 660 = € 1080 (prodotto reale).
Dai tre valori Z0, Z1 e Y1 si possono poi ottenere i seguenti tassi di variazione:
ΔZ/Z0 = (1287 – 1000)/1000 = 28,7% (variazione percentuale del prodotto nominale) ΔY/Y0 = (1080 – 1000)/1000 = 8% (tasso di crescita del prodotto reale) ΔP/P0 = (1287 – 1080)/1080 = 1,1917 – 1 = 19,17% (tasso d’inflazione). Inoltre: Z1/Y1 = 1287/1080 = 1,1917 (indice implicito dei prezzi o deflatore del prodotto aggregato).
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Introduzione
7
1.3 Livello di sviluppo e prodotto pro capite: confronti internazionali Un indicatore frequentemente utilizzato per rappresentare il livello di sviluppo economico di un Paese è il prodotto pro capite a prezzi costanti, che misura la quantità di beni a disposizione (in media) dei cittadini in un determinato anno. Utilizzando l’analisi del paragrafo precedente, possiamo indicare con yi = Yi /POPi il prodotto pro capite di un dato Paese i, dove Yi e POPi rappresentano rispettivamente il prodotto aggregato reale e la popolazione. La Tabella 1.1a riporta i dati di yi per 15 Paesi negli ultimi due secoli. I dati sono espressi, da un lato, in dollari per consentire i confronti internazionali e, dall’altro, a prezzi del 2011 per rendere comparabili i valori nel tempo. La lettura in verticale della tabella consente i confronti fra i diversi Paesi per ciascun anno. Per esempio, nel 2016 il prodotto pro capite degli Stati Uniti era di oltre 16 volte più alto di
APPROFONDIMENTO 1.1 PIL e ammortamento del capitale Nella contabilità nazionale si usa di frequente l’acronimo PIL per indicare il prodotto interno lordo, dove l’aggettivo “lordo” si riferisce al fatto che nel corso del processo produttivo il capitale fisso subisce un’usura fisica e un invecchiamento tecnologico, definito obsolescenza. Di conseguenza una quota del prodotto, denominata ammortamento, deve essere destinata al ripristino della capacità produttiva del capitale. Se dal PIL si detrae l’ammortamento, si ottiene il prodotto interno netto (PIN).
1820
1870
1913
1973
2001
2080
3736
8101
15241
26603
45878
53015
Canada
1545
2894
7026
12022
21896
36884
42969
Australia
679
4292
8380
13542
21370
36266
44783
Giappone
985
1852
2519
15453
33086
36452
Germania
2362
5587
5536
18498
34560
46841
Stati Uniti
1950
2016
Corea del Sud
477
480
690
1122
3989
23412
36151
Italia
1473
1503
2728
3698
14271
34002
34989
15504
8892
23064
Federazione Russa Ex URSS
2825
5676
14893
Cina
741
751
881
757
1372
4400
12320
Brasile
600
751
724
1549
4291
8188
13479
Egitto
917
1146
1605
1983
2218
5485
11430
India
878
1340
1417
1301
2086
5961
Ghana
908
1616
2322
2392
2145
3753
1111
1019
1384
3250
Bangladesh
Tabella 1.1a Prodotto pro capite (in dollari a prezzi del 2011) Per alcuni Paesi, come l’Italia e l’URSS, i dati riferiti a periodi in cui il Paese non esisteva riguardano i territori attuali dei Paesi stessi. (Fonte: Maddison Project Database, version 2018. Bolt J., Inklaar R., de Jong H. E. van Zanden J.L., "Rebasing 'Maddison': new income comparisons and the shape of long-run economic development", ggdc Research Memorandum, 2018.)
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8
Capitolo 1
Tabella 1.1b Prodotto pro capite (valori percentuali, Stati Uniti = 100) Per alcuni Paesi, come l’Italia e l’URSS, i dati riferiti a periodi in cui il Paese non esisteva riguardano i territori attuali dei Paesi stessi. (Fonte: si veda la tabella precedente.)
1820
Stati Uniti
1870
100,00 100,00
1913
1950
1973
2001
2016
100,00
100,00
100,00
100,00
100,00
Canada
74,28
77,46
86,73
78,88
82,31
80,40
81,05
Australia
32,64
114,88
103,44
88,85
80,33
79,05
84,47
Giappone
26,37
22,86
16,53
58,09
72,12
68,76
Germania
63,22
68,97
36,32
69,53
75,33
88,35
Corea del Sud
22,93
12,85
8,52
7,36
14,99
51,03
68,19
Italia
70,82
40,23
33,67
24,26
53,64
74,11
66,00
58,28
19,38
43,50
Federazione Russa Ex URSS
34,87
37,24
55,98
Cina
35,63
20,10
10,88
4,97
5,16
9,59
23,24
Brasile
28,85
20,10
8,94
10,16
16,13
17,85
25,42
Egitto
44,09
30,67
19,81
13,01
8,34
11,96
21,56
India
23,50
16,54
9,30
4,89
4,55
11,24
Ghana
24,30
19,95
15,24
8,99
4,68
7,08
7,29
3,83
3,02
6,13
Bangladesh
quello del Bangladesh, il Paese più povero del gruppo. Se invece si leggono i dati delle due tabelle lungo le righe, si può osservare l’andamento nel tempo, in termini assoluti e relativi, del prodotto pro capite di ogni Paese. Per esempio, l’Italia nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo ha avuto una crescita relativamente modesta e di gran lunga inferiore a quella degli Stati Uniti; ha invece fatto registrare un notevole balzo in avanti, assoluto e relativo, nella seconda parte del XX secolo, tale slancio però si è perso a partire dagli ultimi anni del XX secolo e da allora è uno dei Paesi con minor crescita in Europa. Avremo in seguito molte occasioni per approfondire l’argomento, soprattutto nei Capitoli 3, 16 e 17. Per ora ci limitiamo a prendere atto che il quadro dello sviluppo economico mondiale appare estremamente variegato, sia nella sua dimensione geografica sia in quella temporale.
1.4 Sistema economico Il prodotto aggregato che abbiamo esaminato nei paragrafi precedenti è di norma riferito al sistema economico di un Paese. Con il termine “Paese” intendiamo un’estensione di terre comprese entro determinati confini e abitate da una popolazione dotata di un’organizzazione statale.
Nelle convenzioni internazionali di contabilità nazionale si usa il termine prodotto interno per indicare la produzione di beni finali effettuata entro i confini di un dato
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Introduzione
Paese (sia dalle imprese che hanno lì la loro residenza sia da quelle che risiedono in altri Paesi). Si usa invece il termine prodotto nazionale per indicare la produzione effettuata sia all’interno sia nel resto del mondo dalle imprese che hanno la residenza in un determinato Paese. Si noti che in questo caso l’aggettivo “nazionale” è usato in modo improprio, dato che in realtà si riferisce al semplice requisito della residenza. È evidente che se un Paese non ha rapporti con l’estero (economia chiusa) il prodotto interno coinciderà con il prodotto nazionale. Il primo aggregato sarà invece maggiore (minore) del secondo se il valore della produzione delle imprese estere operanti nel Paese è superiore (inferiore) a quello delle imprese nazionali operanti all’estero. 1.4.1 Problema del coordinamento ed economia di mercato Ciò premesso, occupiamoci di un problema fondamentale che ciascun sistema economico deve risolvere per la propria sopravvivenza: il coordinamento delle decisioni dei singoli soggetti che appartengono al sistema stesso. In un’economia caratterizzata dalla divisione del lavoro tra i membri della collettività, da chi e con quale criterio vengono stabiliti i compiti di ciascuno? Che cosa succederebbe se, in assenza di coordinamento, tutti gli abitanti in età da lavoro di un Paese scegliessero la stessa professione, per esempio quella di medico o di avvocato, trascurando altre attività essenziali per la sopravvivenza della comunità, come l’agricoltura o l’industria? Nella storia dell’umanità il problema del coordinamento è stato risolto con tre forme principali di organizzazione sociale della produzione e dello scambio dei beni, basate rispettivamente su: (a) la tradizione; (b) il comando o la pianificazione centralizzata; (c) il sistema della libera impresa e del libero scambio (economia di mercato). La prima forma, ampiamente diffusa nelle comunità primitive e nelle società di piccole dimensioni dell’antichità e del Medioevo, si basa sul principio che se un determinato tipo di divisione del lavoro si è dimostrato efficace attraverso l’esperienza storica, non deve essere modificato dalla collettività che l’ha adottato, ma deve essere tramandato di generazione in generazione. Una società basata sulla tradizione è quindi fortemente ostile all’innovazione. Nell’epoca contemporanea la tradizione ha ancora un certo peso nelle scelte di alcuni individui, ma svolge un ruolo marginale nell’organizzazione complessiva di gran parte dei sistemi economici. Nel sistema basato sul comando o sulla pianificazione centralizzata, la divisione del lavoro e la distribuzione degli oneri e dei benefici fra i membri della collettività sono invece stabiliti dall’alto, da un’autorità statale dotata di ampi poteri. Tale sistema ha forse raggiunto il suo apice nella parte centrale del XX secolo in seguito all’affermazione del comunismo prima nell’Unione Sovietica (1917), poi nell’Europa dell’Est e nella Repubblica Popolare Cinese subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per molti anni la pianificazione centralizzata e la proprietà pubblica dei mezzi di produzione sono state quindi adottate da quasi un terzo della popolazione mondiale e considerate come una valida alternativa all’economia di mercato da numerosi Paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”. Il fallimento dell’esperimento comunista nell’ex URSS e nell’Europa dell’Est sino al crollo del Muro di Berlino (1989) e la progressiva conversione del sistema cinese all’economia di mercato, hanno fatto sì che quest’ultima sia oggi la forma di coordinamento dominante, se non unica, nel mondo industrializzato. È pertanto a questo sistema che faremo d’ora in poi riferimento. Com’è noto, nell’economia di mercato la domanda e l’offerta dei beni sono lasciate all’iniziativa dei singoli operatori economici, rispettivamente le famiglie e le imprese, mentre il coordinamento delle decisioni individuali è basato sul meccanismo dei prez-
9
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10
Capitolo 1
zi. La flessibilità dei prezzi e dei tassi di profitto consente, infatti, al sistema di richiamare le risorse produttive laddove le variazioni della domanda segnalano le preferenze e le scelte della collettività. 1.4.2 Politica economica: obiettivi e vincoli Non si deve tuttavia pensare che l’economia di mercato possa basarsi esclusivamente sul decentramento delle decisioni e su un meccanismo di coordinamento dal “basso” garantito, secondo l’efficace espressione di Adam Smith, da una mano invisibile. In realtà, per il corretto funzionamento del mercato è necessario l’intervento di un’autorità superiore, lo Stato, a cui sono affidati due compiti fondamentali: da un lato, creare un quadro di riferimento istituzionale (politico, giuridico, amministrativo) all’interno del quale l’azione dei singoli soggetti economici si possa svolgere liberamente, ma nel rispetto di un sistema di regole e di limiti volto a tutelare i diritti umani e civili delle persone e a garantire la concorrenza tra le imprese; dall’altro, cercare con strumenti appropriati di sopperire alle lacune e ai limiti del mercato e di correggerne gli eventuali errori. Questo secondo compito è affidato alla politica economica, che di norma persegue due obiettivi principali: (a) la piena occupazione dei fattori produttivi, in particolare della forza lavoro; (b) lo sviluppo economico. Lo sviluppo economico può essere definito in senso stretto come un processo di incremento costante della capacità produttiva del sistema con conseguente ampliamento sia della quantità sia della varietà dei beni prodotti (crescita economica); in senso lato, come miglioramento delle condizioni di vita della popolazione (durata media della vita, stato di salute, livello di istruzione, qualità dell’ambiente).
Il perseguimento di tali obiettivi è tuttavia sottoposto a tre vincoli principali: (1) la stabilità dei prezzi; (2) l’equilibrio del bilancio della Pubblica Amministrazione; (3) il pareggio tendenziale della bilancia dei pagamenti, ossia del conto che in ciascun Paese registra i movimenti di merci, servizi, trasferimenti e capitali da e verso il resto del mondo. Questi tre vincoli possono essere sintetizzati con l’espressione stabilità monetaria, interna ed esterna. La politica economica nei diversi Paesi persegue naturalmente numerosi altri obiettivi ed è soggetta ad altri vincoli. Possiamo per esempio menzionare l’obiettivo di un’equa distribuzione del reddito e quindi il problema della politica sociale, ossia dell’intervento dello Stato in difesa dei soggetti deboli della società, i quali, in caso di semplice applicazione delle regole meritocratiche del mercato, verrebbero inevitabilmente lasciati a se stessi. Un altro importante obiettivo è quello della tutela dell’ambiente naturale. Si tratta di problemi di grande importanza che, tuttavia, non potranno essere presi in considerazione, se non marginalmente, in questo corso.
1.5 Trend e ciclo economico Possiamo ora utilizzare i concetti presentati nei paragrafi precedenti per illustrare con maggior precisione i problemi dei quali si occupa la macroeconomia. Come abbiamo già osservato, i Paesi che negli ultimi due secoli hanno adottato l’economia di mercato come forma di coordinamento e di organizzazione del proprio sistema produttivo hanno fatto registrare una notevole crescita di lungo periodo. La crescita, tuttavia, non ha
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Introduzione
11
avuto un andamento regolare e costante, ma è stata caratterizzata da frequenti fluttuazioni del prodotto interno. Si definisce ciclo economico l’alternarsi di fasi di espansione (ripresa) e di contrazione (recessione) del prodotto reale rispetto alla sua tendenza di crescita (trend) di lungo periodo.
In prossimità del punto massimo (o picco) di un ciclo la domanda di beni è particolarmente elevata rispetto all’offerta potenziale e di conseguenza stimola l’inflazione, mentre in prossimità del punto minimo (o punto di sella) la domanda è bassa e genera disoccupazione. L’andamento del ciclo economico è stilizzato nella Figura 1.1, nella quale la linea più chiara rappresenta il trend del PIL (Prodotto Interno Lordo) reale, ossia l’andamento che esso assumerebbe se i fattori produttivi fossero pienamente impiegati. Nel corso del tempo il PIL varia. Innanzitutto, perché aumenta la disponibilità di risorse: le imprese acquistano macchinari e costruiscono nuovi impianti, si scoprono nuovi giacimenti minerari; si accresce il patrimonio di conoscenze, in seguito all’invenzione di nuovi prodotti e alla messa a punto di nuovi metodi di produzione. Grazie alla maggiore disponibilità di risorse, il sistema economico può produrre più beni e servizi, di conseguenza in molti Paesi del mondo il trend del PIL è crescente. La produzione, tuttavia, non si trova sempre al livello del trend, vale a dire al livello corrispondente al pieno impiego (in senso economico) dei fattori produttivi. Al contrario, essa oscilla intorno al trend. Durante i periodi di espansione (o ripresa) il livello di impiego dei fattori produttivi cresce e ciò fa sì che la produzione aumenti. Il prodotto interno può superare il livello di trend, perché si fa ricorso al lavoro straordinario e gli impianti vengono utilizzati al massimo. Viceversa, durante i periodi di recessione la
Ciclo economico Alternarsi di fasi di espansione e di contrazione dell’economia. Trend Andamento assunto dal prodotto potenziale nel tempo.
Figura 1.1 Ciclo economico Massimo Trend
sa sa Ripre
Ripre
e Minimo
Tempo
e
e Minimo
ssion Rece
n ssio
ssion Rece
sa
Massimo
Ripre
Massimo
e Rec
Prodotto
Massimo
Minimo
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Capitolo 1
Gap di produzione Differenza tra il livello potenziale del prodotto e il suo valore effettivo.
disoccupazione aumenta e viene prodotta una quantità di beni e servizi inferiore a quella che si potrebbe ottenere utilizzando appieno le risorse e la tecnologia disponibili. Nella Figura 1.1 la linea ondulata indica, quando scende sotto il trend, questi allontanamenti ciclici del prodotto interno dal suo livello potenziale, che vengono definiti gap di produzione (output gap). Si definisce “gap di produzione” la differenza tra la produzione corrispondente al pieno impiego delle risorse disponibili, detta anche produzione potenziale, e la produzione effettiva: gap di produzione ≡ produzione potenziale – produzione effettiva.
La Figura 1.2 mostra l’andamento del prodotto effettivo e di quello potenziale negli Stati Uniti nel periodo 1960-2015 (le aree ombreggiate rappresentano le fasi di recessione). Come si può vedere dalla figura, il gap di produzione aumenta nei periodi di recessione. Una quantità crescente di risorse rimane inutilizzata e la produzione effettiva scende al di sotto di quella potenziale. Al contrario, nei periodi di espansione, e in modo particolare durante il lungo boom degli anni Novanta, il gap di produzione si riduce fino a diventare addirittura negativo. Un gap negativo implica che nel sistema economico esiste sovraoccupazione, si sta facendo ricorso agli straordinari e il tasso di utilizzazione degli impianti è superiore alla norma. Vale la pena di osservare che talvolta il gap di produzione è molto consistente; per esempio, negli Stati Uniti, nella grave recessione del 2009 era pari al 7,5% del prodotto potenziale. La Figura 1.3, dove sono rappresentati i tassi di variazione percentuale annua del Prodotto Interno Lordo delle principali aree del mondo (Paesi avanzati e Paesi emergenti), oltre che dell’Italia, mette in evidenza che la crisi del 2008-09 ha colpito tutto il mondo, anche se in misura inferiore i Paesi emergenti. La crisi ha colpito in modo particolarmente duro l’Italia, dove, come mostra anche la Figura 1.4, si è verificato un nuovo episodio recessivo nel biennio 2012-2013. Figura 1.2 Prodotto effettivo e prodotto potenziale negli Stati Uniti, 19602015 Le aree ombreggiate indicano le fasi di recessione. (Fonte: Congressional Budget Office, CBO’s Projection of Potential Output and Federal Reserve Economic Data, 2012.)
18 000
Miliardi di dollari (2009)
12
16 000 14 000 12 000
Potential GDP
10 000 8000 6000
Actual GDP
4000 2000 1960
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2015
01txt.qxp_201-228_C8_DRNB.qxd 21/12/19 10:41 Pagina 13
Introduzione
10 8
Italia
6
Mondo
4 2
Paesi emergenti
0
Paesi avanzati
13
Figura 1.3 Tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo, 1980-2018 nel mondo e in Italia (Fonti: Fondo Monetario Internazionale, WEO Oct 2019; AMECO 2019.)
-2 -4 -6 1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2015 2018
1.5.1 Inflazione e ciclo economico L’andamento dell’inflazione è inversamente proporzionale ai gap di produzione. Le politiche miranti a stimolare la domanda aggregata tendono a produrre inflazione, a meno che non vengano adottate quando nel sistema economico vi è un alto tasso di disoccupazione. Se per periodi di tempo piuttosto lunghi si registra un basso livello di domanda aggregata, il tasso d’inflazione tende a diminuire. La Figura 1.5 mostra l’andamento di una particolare misura dell’inflazione negli Stati Uniti dal 1960 al 2016: l’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC), dato dal costo di un determinato paniere di beni che rappresenta i consumi tipici del cittadino medio.
Indice dei Prezzi al Consumo (IPC) Indice dei prezzi che misura il costo dei beni acquistati dalla famiglia urbana tipo.
Figura 1.4 Italia: PIL a prezzi del 2010, 1990-2018
1800
(Fonte: ISTAT.) 1700
1600
1500
1400
2018
2016
2014
2012
2010
2008
2006
2004
2002
2000
1998
1996
1994
1992
1200
1990
1300
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Capitolo 1
Figura 1.5 Tasso d’inflazione dei prezzi al consumo negli Stati Uniti, 1960-2016 Come si può notare, durante la crisi 2008-09 il tasso d’inflazione ha assunto un valore negativo per la prima volta dopo molti decenni. (Fonte: www.economagic.com.)
15 Tasso d’inflazione (IPC, %)
14
12 9 6 3 0 –3 1960
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
L’inflazione, vale a dire il tasso di variazione dei prezzi, così come la disoccupazione, è considerata uno dei principali problemi macroeconomici. Tuttavia i costi dell’inflazione sono molto meno evidenti di quelli della disoccupazione. Quando nel sistema economico non c’è piena occupazione, si crea disagio sociale e una parte di prodotto potenziale va sprecata: è chiaro, quindi, il motivo per cui sia opportuno ridurre il più possibile la disoccupazione. In caso di inflazione, invece, non si ha una perdita di prodotto interno altrettanto evidente. C’è, tuttavia, chi sostiene che l’inflazione renda meno efficiente il sistema dei prezzi; sia questa o meno la ragione, i responsabili della politica economica talvolta sono disposti ad accettare un aumento della disoccupazione pur di ridurre l’inflazione. Su questi problemi torneremo ampiamente nei Capitoli 3 e 9.
1.6 Macroeconomia in tre modelli
Breve periodo Periodo di tempo abbastanza breve da non consentire alla capacità produttiva di rispondere alle sollecitazioni della domanda, mentre i prezzi e i salari normali sono rigidi, soprattutto verso il basso. Forza lavoro Costituita da persone che lavorano e da persone che cercano attivamente un’occupazione.
Nel corso di questo capitolo abbiamo sostenuto che la crescita economica, l’inflazione e la disoccupazione sono i tre principali oggetti di studio della macroeconomia. Un’analisi simultanea dei tre problemi presenterebbe, tuttavia, difficoltà notevoli e richiederebbe l’uso di strumenti eccessivamente complessi. Nei prossimi capitoli utilizzeremo quindi tre modelli, ciascuno dei quali è riferito a un determinato orizzonte temporale e ci consente pertanto di affrontare in modo approfondito un singolo problema alla volta, prendendo in esame gli aspetti della realtà che appaiono più rilevanti per quel problema. 1.6.1 Breve periodo: capacità produttiva data e prezzi fissi Nel breve periodo si suppone che la capacità produttiva del sistema economico e il livello dei prezzi siano ambedue dati. L’obiettivo del modello è di spiegare i fattori che determinano il livello del prodotto (PIL) effettivo, il grado di utilizzo della capacità produttiva, il livello dell’occupazione e quindi, data la forza lavoro, il tasso di disoccupazione. L’attenzione è quindi concentrata sulla domanda aggregata, tra le cui componenti principali troviamo la domanda di beni di consumo, gli investimenti, la spesa pubblica e, nel caso di un’economia aperta agli scambi con l’estero, le esportazioni al netto delle importazioni, che rappresentano invece la domanda rivolta all’estero. Avremo modo nel prossimo capitolo di definire in modo più preciso queste variabili.
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Introduzione
15
Per ora prendiamo atto delle conclusioni a cui porta il modello: il prodotto e l’occupazione dipendono dalla domanda aggregata e, se quest’ultima è inferiore al prodotto di piena occupazione o prodotto potenziale, si verificherà una situazione di recessione come quelle rappresentate in modo stilizzato nella Figura 1.1 e, con riferimenti concreti, nelle Figure 1.2, 1.3 e 1.4. Il motivo per cui nel breve periodo consideriamo fisso il prodotto potenziale è che, per aumentare la capacità produttiva del capitale, è necessario prima progettare e poi realizzare gli investimenti, e ciò richiede tempo. La capacità produttiva nel breve periodo non può quindi adeguarsi alle variazioni della domanda. Un ragionamento analogo si può fare anche per la forza lavoro, che nel breve periodo può essere considerata una percentuale data della popolazione in età di lavoro, e per la tecnologia.
APPROFONDIMENTO 1.2 Modelli e mondo reale I modelli sono rappresentazioni semplificate del mondo reale. Quando osserviamo la realtà e intendiamo spiegarne alcuni aspetti che riteniamo significativi, dobbiamo necessariamente trascurare molte altre informazioni che ai nostri fini non sono rilevanti. Il primo passo da compiere per l’analisi del sistema economico è dunque quello di costruire un modello realistico e coerente, anche se semplificato, dell’economia di riferimento. Dal punto di vista tecnico un modello economico è un insieme di equazioni che rendono espliciti i legami ipotizzati tra le grandezze o variabili prese in considerazione. Alcune equazioni descrivono il comportamento degli operatori economici, pubblici e privati, presenti nel sistema, altre sono semplici definizioni contabili e altre ancora precisano le condizioni di equilibrio dei vari mercati. Si definiscono variabili endogene le incognite il cui valore viene determinato all’interno del modello e variabili esogene quelle che nel modello assumono un valore prefissato dall’esterno. Nelle equazioni, inoltre, compaiono termini con un preciso valore numerico che non varia. Questi termini sono detti costanti. Quando le costanti sono moltiplicate per una variabile vengono chiamate coefficienti. Se invece che con numeri indichiamo le costanti e i coefficienti con simboli, come per esempio le lettere dell’alfabeto, useremo il termine di costanti parametriche o, più semplicemente, di parametri. Per risolvere il modello e trovare la posizione di equilibrio generale, è necessario che il numero delle incognite sia pari al numero delle equazioni indipendenti. In caso contrario il modello sarà sovradeterminato (eccesso di equazioni) oppure indeterminato (eccesso di incognite). Il concetto di equilibrio può assumere due significati distinti: il primo, derivato dalla fisica, fa riferimento a uno stato di quiete delle variabili endogene che può essere modificato soltanto da un cambiamento dei dati esterni (ossia delle variabili esogene e dei parametri); il secondo considera invece l’equilibrio come una situazione nella quale gli operatori ritengono di aver realizzato i propri obiettivi e non hanno quindi alcun motivo per modificare le decisioni prese. Può avvenire, come avremo modo di verificare in seguito, che vi sia equilibrio in un senso, ma non nell’altro. Per esempio, un sistema economico può essere in equilibrio con disoccupazione. In tal caso i disoccupati non hanno realizzato il proprio obiettivo di avere un posto di lavoro, ma non sono in grado di modificare l’equilibrio del sistema. Infine, bisogna distinguere tra l'equilibrio di breve periodo e quello di lungo periodo. L'equilibrio di breve periodo è, infatti, soggetto nel tempo a cambiamenti che derivano non soltanto dalle variabili esogene, ma anche dalle variabili endogene, dato che i soggetti economici reagiscono spesso con un certo ritardo a determinate situazioni che si sono create.
Variabili endogene Variabili determinate all’interno di un modello (il valore delle quali è influenzato dai valori delle variabili esogene). Variabili esogene Variabili determinate all’esterno del modello. Parametri Costanti esogene che danno una forma specifica a una data funzione.
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Capitolo 1
Per quanto invece riguarda l’ipotesi che i prezzi siano rigidi, soprattutto verso il basso, sono due le motivazioni principali: in primo luogo, i prezzi sono strettamente legati ai costi e in particolar modo alle retribuzioni del lavoro (per brevità, i salari) e queste ultime sono di norma oggetto di contratti a medio termine che è difficile modificare nel breve periodo; in secondo luogo, le imprese stabiliscono i prezzi in base a considerazioni strategiche di medio periodo che tengono conto non soltanto dei costi, ma anche di altre variabili, come l’elasticità della domanda dei loro prodotti al reddito e ai prezzi e la concorrenza delle altre imprese. Cambiare continuamente i prezzi a fronte di qualsiasi variazione della domanda sarebbe pertanto controproducente e presenterebbe il rischio di perdita della clientela, nel caso di aumenti, o di riduzione dei margini di profitto, nel caso di diminuzioni. Data l’ipotesi della rigidità dei prezzi, il modello di breve periodo è illustrato nella Figura 1.6, dove, per i motivi che abbiamo appena visto, il livello dei prezzi è dato e pertanto la curva di offerta aggregata è orizzontale sino al livello di piena occupazione, Y*, in corrispondenza del quale la curva diventa verticale. La funzione della domanda aggregata ha invece un’inclinazione negativa e, incrociando il tratto orizzontale della curva di offerta nel punto E0, determina il livello di equilibrio del prodotto (Y0). Essendo Y0 inferiore a Y*, vi sarà disoccupazione. Uno spostamento della curva di domanda determinerebbe una variazione del prodotto, senza alcuna variazione del livello dei prezzi. Questi ultimi aumenterebbero soltanto se la curva di domanda si spostasse verso destra sino a incrociare la curva di offerta nel tratto verticale. In tal caso si avrebbe inflazione da domanda.
Figura 1.6 Offerta aggregata e domanda aggregata nel breve periodo
P
AD = domanda aggregata AS
AS = offerta aggregata Y0 = prodotto di equilibrio Y* = prodotto potenziale
AD
Livello dei prezzi
16
P0
P0 = livello fisso dei prezzi
E0
Y
0
Prodotto
Y*
Y
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Introduzione
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1.6.2 Medio periodo: capacità produttiva data e prezzi variabili In questo modello si mantiene, per semplicità, l’ipotesi della capacità produttiva data, come nel modello di breve periodo, ma si ammette la possibilità che con il passare del tempo prezzi e salari diventino flessibili. Se pertanto la domanda aggregata eccede il livello del prodotto potenziale, si avrà inflazione, mentre nel caso opposto prezzi e salari dovrebbero cadere. Negli ultimi decenni si sono tuttavia osservati casi di inflazione anche in presenza di un certo tasso di disoccupazione. Questo paradosso si può spiegare in due modi: il primo è la presenza di imperfezioni nel mercato del lavoro che rendono difficile un perfetto incontro della domanda con l’offerta di tale fattore produttivo. Per esempio, potrebbero coesistere persone alla ricerca di un posto di lavoro, che in questa fase sono quindi classificate come disoccupate, con la ricerca di personale da parte delle imprese che in quell’intervallo di tempo hanno posti di lavoro vacanti. L’incontro tra domanda e offerta sarà ancor più difficile in presenza di una segmentazione geografica del mercato (come in Italia fra Nord e Sud) o di una segmentazione professionale (per esempio, scarsità di tecnici e abbondanza di laureati in materie letterarie). In questa situazione un certo tasso di disoccupazione, che può essere definito frizionale, è inevitabile e crea una situazione equivalente alla piena occupazione. Un secondo motivo della coesistenza di disoccupazione e inflazione deriva dal conflitto distributivo che nelle moderne economie industriali coinvolge lavoratori e datori di lavoro. Richieste di aumenti salariali si possono, infatti, manifestare in fase di contrattazione anche in presenza di disoccupazione. Gli aumenti salariali saranno poi scaricati sui prezzi e genereranno così nuove rivendicazioni salariali per la difesa del potere d’acquisto. Si metterà pertanto in moto una spirale inflazionistica che sarà tanto più rapida quanto minore è il tasso di disoccupazione e quindi quanto maggiore è il potere contrattuale dei lavoratori. In questo modello la curva di offerta aggregata non soltanto è (o può essere) inclinata positivamente, ma tende anche a spostarsi nel corso del tempo. 1.6.3 Lungo periodo: capacità produttiva variabile Il comportamento del sistema economico nel lungo periodo è oggetto di analisi da parte della teoria della crescita. Quest’ultima, come abbiamo visto in precedenza, si chiede in che modo l’accumulazione di capitale e il progresso tecnologico facciano crescere il tenore di vita della popolazione. In questo modello non si tiene, invece, conto delle fluttuazioni di breve periodo della domanda aggregata. Si ritiene, infatti, che i periodi di espansione e di recessione si compensino e che di conseguenza tutti i fattori siano in media pienamente impiegati, fermi restando i livelli di disoccupazione fisiologici ai quali si è fatto cenno nel paragrafo precedente. Per quanto riguarda il livello dei prezzi, il suo andamento dipende dai rapporti che in ciascun periodo si instaurano tra domanda e offerta aggregata. Per esempio, se la domanda aumentasse allo stesso tasso dell’offerta, come nella Figura 1.7, il livello dei prezzi rimarrebbe inalterato, mentre tenderebbe ad aumentare (diminuire) se la domanda crescesse più rapidamente (più lentamente) dell’offerta.
1.7 Organizzazione del testo Il programma di macroeconomia sarà affrontato in modo graduale nei prossimi capitoli attraverso il filo conduttore dei tre modelli di breve, medio e lungo periodo che abbiamo sommariamente illustrato nel paragrafo precedente. Prima, però, di iniziare l’analisi teorica, dedicheremo il prossimo capitolo a un’esposizione sintetica della contabilità nazionale. Questa disciplina fornisce il quadro di riferimento necessario per
Lungo periodo Periodo di tempo sufficientemente lungo perché la capacità produttiva possa aumentare e i prezzi e i salari raggiungano il livello di equilibrio compatibile con il pieno impiego dei fattori produttivi. Teoria della crescita Teoria che si propone di spiegare i fattori che determinano il tasso di incremento del prodotto potenziale nel lungo periodo.
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Capitolo 1
Figura 1.7 Offerta aggregata, domanda aggregata e prezzi nel lungo periodo
P
AS0 AD 0
Livello dei prezzi
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AS1 AD 1
AS 2
AD 2
P*
Y0
Y1
Y2
Y
Prodotto
un’ordinata raccolta della documentazione statistica sulle principali transazioni che si svolgono, nel corso di un determinato periodo, fra i settori e gli operatori più rilevanti del sistema economico. La contabilità nazionale è costruita di norma per l’economia dell’intero Paese, ma spesso è estesa anche alle principali suddivisioni territoriali, come sono per esempio in Italia le regioni. Sia l’analisi macroeconomica sia la contabilità nazionale hanno ricevuto un forte impulso negli anni Trenta del secolo scorso da John Maynard Keynes (1883-1946) il quale, di fronte alla Grande Depressione e alla disoccupazione dilagante che nel 1929 avevano colpito gli Stati Uniti, l’Europa e tutto il mondo industrializzato, cercò di elaborare uno schema interpretativo che fosse in grado di sopperire all’impotenza dimostrata dalla teoria economica tradizionale e dalle relative ricette di politica economica. La macroeconomia keynesiana, come vedremo nei prossimi capitoli, mette in particolare risalto il ruolo della domanda aggregata come motore principale della produzione e quindi dell’occupazione. Essa a tal fine si avvalse grandemente degli studi di contabilità nazionale che si erano sviluppati negli anni Trenta e nello stesso tempo diede grande impulso a tali studi: nel 1934 il National Bureau of Economic Research iniziò negli Stati Uniti d’America, in collaborazione con il Department of Commerce, la stima annuale del reddito nazionale del Paese. Negli anni successivi stime analoghe, sempre più perfezionate e dettagliate, si estesero a numerosi altri Paesi e a organismi internazionali come la Lega delle Nazioni Unite, l’ONU e, in tempi più recenti, la Comunità Europea. In Italia i conti economici nazionali sono attualmente calcolati dall’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) con il coordinamento dell’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (EUROSTAT). Nel Capitolo 3 si fa uso degli schemi di contabilità nazionale e della documentazione statistica basata su tali schemi per illustrare alcuni dei principali fenomeni economici ai quali abbiamo fatto riferimento: la crescita, le fluttuazioni economiche, l’inflazione e la disoccupazione. Il Capitolo 4, che apre la Parte II, dà inizio all’analisi macroeconomica vera e propria: viene introdotto uno schema teorico semplificato che sarà progressivamente
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Introduzione
arricchito nei capitoli successivi per renderlo più vicino alla realtà di un’economia aperta come quella italiana. Il modello di partenza riguarda il breve periodo e, come abbiamo già accennato, prevede prezzi fissi e una capacità produttiva data. Questa ipotesi consente di concentrare l’attenzione sugli aspetti principali della domanda aggregata. Nel capitolo si considera dapprima un’economia con due soli soggetti economici: le famiglie e le imprese. Le prime vendono alle seconde i servizi dei fattori produttivi di cui sono in possesso e ricevono in cambio un reddito che in parte spendono per beni di consumo e in parte risparmiano. Le imprese, invece, organizzano la produzione dei beni e prendono le decisioni relative all’investimento, ossia all’incremento dello stock di capitale. Sempre nel Capitolo 4 viene poi inserito un terzo soggetto: lo Stato. L’intervento di quest’ultimo ha due effetti principali sulla domanda aggregata: da un lato, influenza il reddito disponibile delle famiglie e quindi la domanda di beni di consumo attraverso la tassazione e i trasferimenti; dall’altro, aggiunge alla spesa privata la spesa pubblica. Il Capitolo 5 inserisce un quarto soggetto: la Banca Centrale, il cui compito principale è di creare e controllare la moneta, ossia l’insieme dei mezzi di pagamento che fungono da intermediari negli scambi dei beni e dei fattori produttivi. La Banca Centrale con la sua azione influenza anche i tassi di interesse e di conseguenza le decisioni di investimento. Il Capitolo 6 utilizza gli schemi elaborati nei due capitoli precedenti per approfondire i problemi e le tecniche della politica fiscale e della politica monetaria. Nel Capitolo 7 si estende il modello ai problemi dell’economia aperta, ossia degli scambi internazionali di merci e di capitali. La Parte II chiude con l’esame del problema della formazione dei prezzi (Capitolo 8), mentre nella Parte III si rimuove l'ipotesi dei prezzi fissi e si focalizza l'analisi sui problemi di medio periodo, in particolare i rapporti tra inflazione e disoccupazione (Capitolo 9). Il Capitolo 10 è dedicato a un tema di grande rilievo per l’Italia: la macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria Europea. Come gli altri Paesi dell’Unione che hanno scelto l’euro quale moneta unica, l’Italia ha infatti rinunciato non soltanto alla sovranità monetaria, ossia a una propria moneta e una propria Banca Centrale, ma anche a molti altri strumenti di politica economica, come, in particolare, la politica dei cambi, la politica dei dazi e, in parte, la politica fiscale. Mentre la Parte II e la Parte III si preoccupano principalmente di fornire una visione d’insieme del sistema economico, la Parte IV è dedica all’approfondimento di singoli aspetti: il consumo e il risparmio (Capitolo 11), l’investimento (Capitolo 12), il sistema monetario e creditizio (Capitolo 13) e i mercati finanziari (Capitolo 14). In questi ultimi due capitoli si introduce un nuovo operatore economico: l’azienda di credito (o, più semplicemente, la banca). Il Capitolo 15, infine, completa l’analisi dell’economia internazionale. La Parte V è dedicata ai problemi del lungo periodo, ovvero al tema della crescita. Il Capitolo 16 contiene un’introduzione all’argomento con particolare riferimento ai modelli con coefficienti fissi, mentre il Capitolo 17 sviluppa in dettaglio il modello neoclassico con coefficienti flessibili. Ambedue i capitoli considerano sia il progresso tecnologico esogeno sia quello endogeno e sono stati scritti in modo da essere studiati in modo indipendente. Questo consente ai corsi universitari che non possono dedicare eccessivo spazio al tema della crescita di scegliere soltanto uno dei due capitoli. Nel caso che venga scelto il Capitolo 17, si consiglia comunque la lettura del Paragrafo 16.1, che contiene informazioni statistiche utili all’inquadramento storico dei problemi della crescita, in particolare della questione se esiste convergenza o divergenza nel tempo tra i livelli del reddito pro capite dei Paesi nel mondo.
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Capitolo 1
Riepilogo • La macroeconomia ha come oggetto principale lo studio della crescita e delle fluttuazioni del prodotto reale. • Il prodotto reale rappresenta le quantità di beni finali a disposizione degli abitanti di un sistema economico. Il prodotto reale pro capite è pertanto un indice del livello del benessere materiale raggiunto da un Paese. • La macroeconomia, per facilitare l’analisi dei singoli problemi, si avvale di modelli con diverso orizzonte temporale: breve, medio e lungo periodo. I modelli sono rappresentazioni semplificate della realtà che concentrano l’attenzione sugli aspetti ritenuti di volta in volta essenziali dal ricercatore. • Nel modello di breve periodo la capacità produttiva è data, mentre i prezzi e i salari sono considerati rigidi verso il basso. La produzione effettiva dipende dal livello della domanda aggregata. Si può quindi avere disoccupazione di parte della forza lavoro oppure aumento dei prezzi a seconda che la domanda sia infe-
riore o superiore al livello di pieno impiego del prodotto reale, detto anche “prodotto potenziale”. • Nel medio periodo la capacità produttiva è fissa, come nel breve periodo, mentre i salari e i prezzi diventano flessibili. Il sistema economico tende quindi a gravitare attorno al livello del prodotto potenziale. Nella definizione di quest’ultimo concetto bisogna tuttavia tenere conto di un certo tasso di disoccupazione che è difficile, se non impossibile, eliminare a causa sia delle imperfezioni del mercato del lavoro (disoccupazione frizionale) sia del conflitto distributivo tra lavoratori e datori di lavoro. È quindi possibile osservare una compresenza di inflazione e disoccupazione qualora la domanda aggregata spinga la disoccupazione a scendere al di sotto del suo livello minimo. • Nel lungo periodo la capacità produttiva può variare in seguito all’investimento e al progresso tecnologico. La teoria della crescita studia i fattori che determinano l’aumento tendenziale del prodotto potenziale.
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Capitolo 2
Contabilità nazionale
Obiettivi di apprendimento • Il PIL è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti in un Paese. Nella condizione di equilibrio, la quantità di beni e servizi prodotta è uguale alla quantità domandata. • L’output realizzato genera reddito a favore di chi lo produce. Buona parte di tale reddito è destinato al lavoro e ai proprietari del capitale.
• Il prodotto interno viene domandato per il consumo privato, l’investimento, le necessità del settore pubblico e l’esportazione. • Il valore monetario del PIL dipende sia dalla quantità di beni e servizi prodotta, sia dal livello dei prezzi. L’inflazione è la variazione nel tempo del livello dei prezzi.
La buona contabilità trasforma i dati numerici in informazioni. Studiamo la contabilità nazionale per due ragioni. La prima è che i conti economici nazionali forniscono la struttura sulla quale costruiremo i nostri modelli macroeconomici. Il prodotto interno può essere suddiviso in due modi: dal punto di vista della produzione, una parte del prodotto interno serve a remunerare il lavoro, sotto forma di salari, e un’altra parte serve a remunerare il capitale, sotto forma di interessi e dividendi; dal punto di vista della domanda, il prodotto interno viene consumato oppure investito per il futuro. La suddivisione del prodotto interno in redditi percepiti dai fattori produttivi (salari, interessi, profitti ecc.) ci fornisce una traccia per lo studio della crescita e dell’offerta aggregata. La suddivisione del prodotto interno dal lato della domanda, in consumi, investimenti ecc., ci fornisce invece uno schema per lo studio della domanda aggregata. Le due contabilità, quella dal punto di vista della domanda e quella dal punto di vista della produzione, in condizioni di equilibrio dovranno necessariamente essere uguali. Oltre a valutare la produzione reale, i conti economici nazionali forniscono una misura del livello generale dei prezzi; questa sarà la nostra base di partenza per parlare dell’inflazione. La seconda ragione per cui è utile studiare i conti economici nazionali è che essi permettono di apprendere, almeno approssimativamente, alcune cifre che aiutano a caratterizzare il sistema economico. Se si ripartisse equamente la produzione annua dell’Italia tra la popolazione del Paese, a ciascun individuo spetterebbero 3000, 30 000 o 300 000 euro? 1 euro di oggi corrisponde a 10 centesimi, 80 centesimi o a 1 euro del 2000? È vero che memorizzare i dati statistici precisi sarebbe una perdita di
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Capitolo 2
Prodotto Interno Lordo (PIL) Misura di tutti i beni e i servizi finali prodotti all’interno di un Paese in un anno. Il PIL reale è espresso in unità di valore costante; il PIL nominale è espresso in unità di valore corrente.
PIL pro capite PIL a persona.
tempo, ma è altrettanto vero che conoscere almeno l’ordine di grandezza di certi valori è indispensabile per correlare la teoria alla realtà: non va dimenticato, infatti, che la macroeconomia si occupa principalmente del mondo in cui viviamo. Cominciamo il nostro studio della contabilità nazionale definendo la misura fondamentale della produzione in un sistema economico: il Prodotto Interno Lordo (PIL). Il PIL è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti nel Paese in un certo periodo di tempo.
Nel calcolo del PIL rientrano sia il valore dei beni materiali, come le case o i compact disc, sia il valore dei servizi, per esempio i viaggi aerei o le lezioni degli economisti. Il valore di ciascun bene o servizio è dato dal suo prezzo di mercato, e la somma di tutti i valori corrisponde al PIL. Nel 2018, il PIL dell’Italia è stato pari a circa 1765 miliardi di euro. Poiché l’Italia ha una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, il PIL pro capite è stato pari, grosso modo, a 29 417 euro (= 1765 miliardi/60 milioni).
2.1 Produzione e remunerazione dei fattori produttivi
Fattori produttivi Risorse (input) utilizzate dall’impresa per la produzione di beni e servizi (output). Sono: capitale, lavoro e risorse naturali. Remunerazione dei fattori produttivi Redditi percepiti dai fattori produttivi; un esempio sono i salari per remunerare il lavoro.
Flusso circolare del reddito Mostra i flussi reali e monetari di scambio tra imprese e famiglie.
In un sistema economico, gli input dal lato della produzione, quali il lavoro e il capitale, vengono trasformati in prodotti, cioè in componenti del PIL. Il lavoro e il capitale sono definiti fattori produttivi e i redditi percepiti da tali fattori vengono definiti remunerazione dei fattori produttivi. Immaginate un sistema economico molto semplice, senza rapporti economici con altre economie (economia chiusa) e senza Stato. Gli operatori di questo sistema economico sono raggruppati in due blocchi: famiglie e imprese. Le famiglie posseggono i fattori produttivi (lavoro e beni capitali) e la produzione di beni e servizi serve a soddisfare i loro bisogni, presenti (beni di consumo) e futuri (beni di investimento che cederanno in uso alle imprese in cambio di una remunerazione). Chiameremo i beni di consumo e di investimento beni finali, in contrapposizione ai beni intermedi, cioè alle materie prime e ai semilavorati che saranno poi incorporati nei beni finali. La produzione è realizzata in unità chiamate “imprese”. Possiamo immaginare queste imprese come verticalmente integrate, cioè esse producono al loro interno tutti i beni e servizi intermedi di cui hanno bisogno, cosicché acquistano all’esterno soltanto i servizi dei fattori produttivi dalle famiglie e pagano in cambio salari, profitti, interessi e rendite, che vanno a costituire i redditi delle famiglie. Con i servizi dei fattori produttivi le imprese realizzano la produzione con lo scopo di venderla alle famiglie. Le famiglie acquistano i beni e i servizi prodotti con i redditi che hanno percepito dalle imprese e il ciclo può ricominciare. La stilizzazione di questo processo è riportata nella Figura 2.1 e prende il nome di flusso circolare del reddito. La parte superiore della Figura 2.1 rappresenta il mercato dei fattori produttivi, nel quale le famiglie cedono alle imprese un flusso reale (servizi dei fattori produttivi) ottenendo in cambio un flusso monetario (redditi). Il valore dei servizi produttivi ceduti alle imprese è esattamente uguale ai redditi monetari percepiti dalle famiglie. La parte inferiore rappresenta il mercato dei beni. Le imprese vendono alle famiglie i beni finali (flusso reale) in cambio di un flusso monetario (spesa delle famiglie). Il valore dei beni e servizi prodotti è esattamente uguale alla spesa delle famiglie.
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Contabilità nazionale
Figura 2.1 Schema di flusso circolare del reddito (economia chiusa, assenza di Stato)
Redditi dei fattori
Servizi dei fattori produttivi
Imprese
Famiglie
Beni e servizi finali Spesa delle famiglie
Il valore dei beni e servizi finali, d’altra parte, non può che essere uguale alla somma dei costi di produzione sostenuti per realizzarli e questi sono costituiti esclusivamente dalla remunerazione dei fattori produttivi, inclusi i profitti che vengono integralmente distribuiti alle famiglie. Ne consegue che il valore dei beni e servizi finali prodotti è esattamente uguale ai redditi guadagnati dalle famiglie. Ciò è vero non solo nell’ipotesi di imprese verticalmente integrate ma anche nel caso più generale in cui le imprese acquistino beni intermedi da altre imprese. L’Applicazione 2.1, nel Paragrafo 2.3, ne fornisce una dimostrazione. Alla fine del processo la moneta è ritornata nella disponibilità delle imprese ed esse la utilizzano per iniziare un nuovo ciclo di produzione. Questa rappresentazione semplificata del flusso circolare del reddito è utile per avere una prima idea di come funziona un sistema economico, ma contiene ipotesi troppo restrittive per rappresentare il funzionamento di una moderna economia di mercato. Innanzitutto perché nelle economie moderne lo Stato gioca un ruolo rilevante nella produzione di beni e servizi e nella redistribuzione del reddito. In secondo luogo perché queste economie sono aperte, scambiano cioè flussi finanziari, di fattori produttivi e di beni e servizi con altre economie. Infine, l’ipotesi che le famiglie acquistino direttamente i beni di investimento per poi affittare questi beni alle imprese è poco realistica. Sebbene in alcuni casi le famiglie possano acquistare e in effetti acquistino beni di investimento (si pensi all’acquisto di un’abitazione o di un locale commerciale per darli in locazione e ricavarne un reddito), nella maggior parte dei casi esse investono i loro risparmi in strumenti finanziari (obbligazioni, azioni, titoli di Stato ecc.). Le decisioni di acquistare beni capitali sono invece prese direttamente dalle imprese. Le imprese finanziano questi acquisti in vari modi: con profitti non distribuiti, emettendo azioni e/o obbligazioni, ricorrendo a prestiti bancari e così via. Accanto ai mercati dei servizi dei fattori produttivi e dei beni e servizi finali che già conosciamo viene così a crearsi un altro mercato, il mercato finanziario, in cui le famiglie fanno affluire i loro risparmi per ottenere un reddito e le imprese e lo Stato li richiedono per finanziare le loro attività. La Figura 2.2 riporta lo schema di flusso circolare del reddito di questa moderna economia aperta. Accanto ai due blocchi di operatori già noti (famiglie e imprese) abbiamo aggiunto un blocco “resto del mondo” (RdM) e un blocco che rappresenta
Legenda: ––––– Flussi reali ------- Flussi monetari
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Capitolo 2
Figura 2.2 Schema di flusso circolare del reddito in un’economia a quattro settori (flussi monetari)
Spesa del RdM Reddito dei fattori da imprese estere Resto del mondo (RdM) a famiglie estere a famiglie residenti
Reddito dei fattori Imposte dirette e contributi sociali Famiglie
Imposte indirette Politica fiscale
Unità di produzione: imprese e PA
Trasferimenti Spesa per consumi
Acquisti pubblici di beni e servizi
di beni prodotti all’interno Risparmio delle famiglie Mercati finanziari
Spesa per investimenti
di beni di importazione Indebitamento o accreditamento verso l’estero
l’attività economica dello Stato: l’abbiamo chiamato “politica fiscale”, per sottolineare le decisioni economiche che lo Stato attua attraverso il suo bilancio. Accanto al mercato dei fattori (parte superiore) e al mercato dei beni abbiamo aggiunto il mercato finanziario, e per evidenziarlo lo abbiamo rappresentato con un ovale. Per rendere lo schema più leggibile abbiamo omesso i flussi reali limitandoci a rappresentare i flussi monetari. Esaminiamo per cominciare come lo Stato, attraverso la sua politica di bilancio, modifica lo schema di flusso circolare del reddito. Prima di proseguire nella trattazione lo studente è invitato a familiarizzarsi con le voci che compongono il bilancio dello Stato, riportato nell’Approfondimento 2.1. Le entrate del bilancio dello Stato sono essenzialmente costituite da tre voci: imposte dirette, imposte indirette e contributi sociali. Le imposte dirette e i contributi sociali sono dei prelievi commisurati ai redditi. In quanto tali essi costituiscono una sottrazione dal flusso circolare del reddito perché diminuiscono il reddito che le famiglie hanno a disposizione. Nella Figura 2.2 sono rappresentati da un flusso che va dalle famiglie allo Stato. Le imposte indirette come l’IVA sono stabilite in percentuale del prezzo dei beni e servizi finali. In quanto tali, le imposte indirette rompono l’uguaglianza tra il valore dei beni e servizi finali e i redditi guadagnati dai fattori produttivi che hanno contribuito alla loro realizzazione. Una parte del prezzo pagato dall’acquirente finale infatti viene girato allo Stato e non va a remunerare i fattori produttivi. Nello schema di flusso circolare le imposte indirette sono rappresentate da un flusso che va dal blocco dei produttori allo Stato.
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Contabilità nazionale
APPROFONDIMENTO 2.1 Bilancio pubblico La Tabella 2.1 riporta il conto consolidato delle Pubbliche Amministrazioni per l’anno 2018. Per Pubbliche Amministrazioni si intendono le Amministrazioni centrali, le Amministrazioni locali e gli Enti nazionali di previdenza e assistenza sociale. Principali entrate
• Le imposte dirette colpiscono la capacità contributiva dei soggetti e quindi il loro reddito e il loro patrimonio. Le principali imposte dirette in Italia sono: l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF), l’Imposta sul Reddito delle Società (IRES), che grava sul reddito delle società di capitali, e l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP). • Le imposte indirette sulla produzione e sulle importazioni comprendono i prelievi obbligatori a carico delle unità produttive effettuati dalle Pubbliche Amministrazioni e dalle istituzioni comunitarie europee sulla produzione e sulle importazioni di beni e servizi. Rientrano tra le imposte indirette: l’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), l’imposta di registro, le imposte ipotecarie e catastali, le imposte di bollo, le accise. • I contributi sociali si distinguono in contributi sociali effettivi e figurativi. I contributi sociali effettivi corrispondono ai versamenti effettuati dai datori di lavoro, dai lavoratori dipendenti e dai lavoratori autonomi agli enti di previdenza e di assistenza sociale destinati a garantire future prestazioni sociali ai lavoratori. I contributi sociali figurativi rappresentano la contropartita delle prestazioni sociali erogate direttamente dai datori di lavoro ai propri dipendenti o ex dipendenti. • Le entrate in conto capitale comprendono, tra le altre voci, le imposte in conto capitale che sono percepite a intervalli irregolari, e solo saltuariamente, sul valore delle attività o del patrimonio netto posseduti dalle unità istituzionali, ovvero Tabella 2.1 Conto consolidato delle Amministrazioni pubbliche dell’Italia (consuntivo 2018, miliardi di euro) Entrate
Uscite
Imposte dirette
249
Spesa per consumi finali
319
Imposte indirette
253
Prestazioni sociali in denaro
349
Contributi sociali
235
Contributi alla produzione
25
Altre uscite correnti
38
Altre entrate correnti
75
Spese correnti al netto interessi Interessi Totale entrate correnti Entrate in conto capitale Totale entrate complessive Indebitamento netto Totale a pareggio
731 65
812
Totale spese correnti
796
4
Investimenti fissi lordi
38
Contributi agli investimenti
14
816 39 855
Altre spese in conto capitale Totale spese complessive
(Fonte: Banca dati delle amministrazioni pubbliche, 2019.)
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Capitolo 2
sul valore dei beni trasferiti per effetto di lasciti, donazioni o altri trasferimenti. Rappresentano un tipico esempio di imposte in conto capitale le imposte di successione. Principali uscite • Spesa per consumi finali: è la spesa sostenuta dalle Pubbliche Amministrazioni per beni e servizi utilizzati per soddisfare i bisogni individuali e collettivi. Essi possono essere prodotti direttamente dalle Pubbliche Amministrazioni, come per esempio i servizi dell’istruzione forniti gratuitamente o semigratuitamente, o acquistati dai produttori privati, come le cosiddette “prestazioni sociali in natura” (per esempio, i medicinali). • Prestazioni sociali in denaro: sono prestazioni in denaro erogate alle famiglie dalle Pubbliche Amministrazioni nell’ambito dei sistemi di sicurezza e di assistenza sociale, come per esempio le pensioni, i sussidi di disoccupazione ecc. • Contributi alla produzione: si tratta di trasferimenti correnti che le Pubbliche Amministrazioni effettuano a favore dei produttori residenti allo scopo di influenzarne il livello di produzione o i prezzi, o di influenzare la remunerazione dei fattori della produzione. • Interessi: sono costituiti in massima parte dagli interessi passivi dovuti per la remunerazione dei titoli del debito pubblico. • Investimenti fissi lordi: sono costituiti dalle acquisizioni, al netto delle cessioni, di capitale fisso. • Contributi agli investimenti: sono trasferimenti, in denaro o in natura, effettuati dalle Pubbliche Amministrazioni o dal RdM ad altre unità istituzionali, residenti o non residenti, allo scopo di finanziare in tutto o in parte i costi per l’acquisizione di capitale fisso. Costituiscono un sostegno all’ampliamento della capacità produttiva. Saldi Diverse nozioni di saldo sono utilizzate nell’analisi economica. • Saldo corrente o risparmio lordo: rappresenta il saldo delle partite correnti (totale entrate correnti – totale uscite correnti). • Indebitamento o accreditamento netto: rappresenta il saldo del conto economico delle Pubbliche Amministrazioni ed è calcolato come differenza tra il totale delle entrate complessive e il totale delle uscite complessive. Può essere positivo (accreditamento), e in tal caso significa che il settore delle Pubbliche Amministrazioni ha avuto entrate più che sufficienti a coprire i propri livelli di spesa; nel caso contrario, in cui le uscite superano le entrate, generando un saldo negativo, il settore pubblico ha avuto la necessità di fare ricorso all’indebitamento per finanziare le proprie spese in eccesso. • Saldo primario: rappresenta il saldo del conto economico consolidato delle Pubbliche Amministrazioni al netto degli interessi passivi. Saldo primario = entrate complessive – (uscite complessive – interessi). Rapporti caratteristici Spesso, discutendo del bilancio delle Pubbliche Amministrazioni, piuttosto che ai valori assoluti delle voci o dei saldi, si fa riferimento al rapporto percentuale tra questi ultimi e il PIL. Ciò dà un’idea più immediata dell’importanza dell’intervento dello Stato nell’economia e facilita i confronti nel tempo e fra Paesi. La Tabella 2.2 illustra i rapporti caratteristici per il 2018.
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Contabilità nazionale
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Tabella 2.2 Rapporti caratteristici del conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche
% Indebitamento netto/PIL
2,2
Saldo primario/PIL
0,9
Pressione fiscale*
41,8
Entrate correnti/PIL
46,0
Entrate totali/PIL
46,2
Uscite correnti/PIL
45,1
Uscite totali al netto interessi/PIL
44,7
Uscite totali/PIL
48,4
Per memoria: il PIL nominale 2018 è stato pari a 1765 miliardi di euro. * La pressione fiscale è la somma di imposte dirette, imposte indirette, contributi sociali e imposte in conto capitale, rapportata al PIL.
(Fonte: Banca dati delle amministrazioni pubbliche, 2019.)
Dal lato delle uscite lo Stato interviene nel flusso circolare del reddito in due modi: • acquistando beni e servizi finali, sia di consumo sia di investimento, da imprese private per metterli poi a disposizione dei cittadini (per esempio l’acquisto di vaccini da case farmaceutiche o la costruzione di strade appaltata a imprese private) o producendoli direttamente con il suo personale inquadrato in unità operative specializzate (per esempio servizi ospedalieri, di istruzione, di polizia, difesa nazionale ecc.). Possiamo scindere le decisioni di bilancio dello Stato dall’attività di produzione delle sue unità operative assimilando queste unità operative alle imprese, inglobandole nel blocco dei produttori (PA) e immaginare che lo Stato ne acquisti i beni e servizi che esse producono. Chiameremo acquisti pubblici di beni e servizi la spesa per l’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato e degli enti locali. Gli acquisti pubblici sono quindi un flusso monetario che va dallo Stato alle unità di produzione aggiungendosi alla spesa privata; • trasferendo a determinate categorie di cittadini e sulla base di requisiti prestabiliti delle somme in denaro (pensioni, sussidi di disoccupazione, borse di studio ecc.). Queste somme prendono il nome di trasferimenti e vanno ad aggiungersi ai redditi che le famiglie hanno guadagnato prestando i servizi dei fattori produttivi. L’apertura dell’economia a scambi con altre economie allarga le opportunità delle imprese e delle famiglie sia sul mercato dei fattori sia sul mercato dei beni. Sul mercato dei fattori produttivi le unità di produzione possono domandare i servizi dei fattori produttivi di cui hanno bisogno, oltre che alle famiglie del nostro sistema economico, a famiglie estere, dando in cambio la rispettiva remunerazione. Ecco dunque che il flusso di redditi monetari pagato dalle unità di produzione si biforca: una parte va alle
Trasferimenti Pagamenti che lo Stato fa a famiglie e imprese, senza alcuna contropartita.
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Capitolo 2
famiglie nazionali e una parte alle famiglie estere. Quest’ultimo flusso costituisce una sottrazione dal flusso circolare del reddito perché si tratta di moneta che esce dal circuito produzione-reddito. D’altro canto anche le famiglie nazionali possono decidere di cedere i servizi dei fattori produttivi che posseggono a imprese estere, ricevendone in cambio i relativi redditi. Questi redditi da imprese estere costituiscono un’aggiunta al flusso circolare del reddito perché aumentano i redditi a disposizione delle famiglie nazionali. Ottenuti i redditi e pagate le imposte e i contributi sociali allo Stato, la prima e fondamentale decisione che le famiglie devono prendere è quale parte destinare al consumo e quale parte destinare al risparmio. La spesa per consumi delle famiglie sarà diretta in parte ad acquistare beni prodotti all’interno del Paese e in parte ad acquistare beni di consumo prodotti dal RdM. Così come le famiglie e le imprese della nostra economia possono decidere di comprare rispettivamente beni di consumo o di investimento prodotti all’estero, le famiglie e le imprese del RdM possono decidere di acquistare beni prodotti nel nostro Paese. La spesa del RdM è quindi un flusso di denaro che entra nel nostro Paese come contropartita dei beni e servizi esportati. La spesa del RdM è un’aggiunta al flusso circolare del reddito mentre ovviamente la spesa delle nostre famiglie e imprese per beni di importazione è una sottrazione al flusso circolare del reddito. Con la parte di reddito risparmiata le famiglie acquisteranno strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, titoli del debito pubblico, depositi bancari ecc.) emessi dalle imprese o dallo Stato per ottenerne dei redditi (interessi e profitti). Il risparmio affluisce quindi sul mercato finanziario dove verrà chiesto dalle imprese per finanziare gli investimenti e dallo Stato per finanziare il deficit di bilancio, vale a dire l’eventuale eccesso di spese rispetto alle entrate. Ottenuti i fondi, le imprese li impiegano per acquistare beni capitali (spesa per investimenti) sia da imprese nazionali sia da imprese estere. In realtà nulla vieta agli operatori nazionali di finanziare imprese e Stati esteri acquistandone i relativi titoli o concedendo prestiti né a operatori esteri di finanziare imprese e Stato della nostra economia. Si creano così due flussi monetari, uno in uscita dal Paese e uno in entrata. Il saldo tra questi due flussi costituisce l’indebitamento o l’accreditamento verso l’estero. Si avrà un indebitamento se il flusso proveniente dal RdM è superiore al flusso in uscita. Viceversa si avrà un accreditamento.
2.2 Conti economici del Paese I flussi che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente vengono sistematicamente rilevati dagli uffici nazionali di statistica (in Italia l’ISTAT) e presentati in una struttura coerente di conti economici del Paese. L’analisi dei conti del Paese ci permette di rafforzare e di precisare i concetti sviluppati nel paragrafo precedente, oltre che di avere un’idea più precisa dell’entità dei flussi di cui stiamo discutendo. Ogni conto contrassegna un particolare circuito economico e genera a saldo un aggregato significativo per l’analisi economica. I conti sono costituiti da due sezioni: uscite nella parte sinistra ed entrate nella parte destra. Per assicurare la coerenza contabile, la registrazione dei flussi segue le regole della partita doppia: ciascun flusso viene registrato una volta in uscita in un conto e un’altra volta in entrata in un altro conto. Una versione semplificata dei conti dell’Italia per l’anno 2018 è riportata nella Tabella 2.3.
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Contabilità nazionale
Uscite
Entrate Conto delle risorse e degli impieghi
PILpdm
1765
Importazioni
511
Consumi finali nazionali
1401
Investimenti fissi lordi
313
Variazione delle scorte e oggetti di valore
7
Esportazioni Totale
2276
Totale
555 2276
Conto della distribuzione del PIL Imposte indirette alle PA
253
Imposte indirette alla UE
PILpdm
1765
3
Contributi alla produzione dalle PA
25
Redditi interni da lavoro dipendente
709
Contributi alla produzione dalla UE
6
Risultato lordo di gestione
831
Totale
1796
Totale
1796
Conto del reddito Contributi alla produzione dalle PA Redditi da lavoro dipendente al RdM
25
Redditi interni da lavoro dipendente
709
2
Risultato lordo di gestione
831
Redditi da capitale al RdM
54
Imposte indirette alle PA
253
Trasferimenti correnti al RdM
35
Redditi da lavoro dipendente dal RdM
Reddito Nazionale Lordo Disponibile (RNLD) 1767
Redditi da capitale dal RdM
Totale
Totale
6 67
Trasferimenti correnti dal RdM 1883
17 1883
Conto dell’utilizzazione del reddito Consumi finali nazionali
1401
Risparmio nazionale lordo
366
Totale
1767
Reddito Nazionale Lordo Disponibile
1767
Totale
1767
Conto della formazione di capitale Investimenti fissi lordi:
Risparmio nazionale lordo
Ammortamenti Investimenti fissi netti
309 4
Variazione delle scorte
7
Trasferimenti in conto capitale verso il RdM
1
Trasferimenti in conto capitale dal RdM
366 2
Acquisizioni nette di attività non finanziarie non prodotte
2
Accreditamento netto verso l’estero Totale
45 368
Totale
368
Conto delle transazioni internazionali Esportazioni Contributi alla produzione dalla UE Redditi da lavoro dipendente dal RdM
555
Imposte indirette alla UE
6
Redditi da lavoro dipendente al RdM
Redditi da capitale dal RdM
67
Trasferimenti correnti dal RdM
17
Trasferimenti in conto capitale dal RdM
Importazioni
6
2
653
3 2
Redditi da capitale al RdM
54
Trasferimenti correnti al RdM
35
Trasferimenti in conto capitale verso il RdM Acquisizioni nette di attività non finanziarie non prodotte Accreditamento netto verso l’estero
Totale
511
Totale
1 2 45 653
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Tabella 2.3 Conti economici dell’Italia (anno 2018, miliardi di euro) (Fonte: I.Stat, Conti nazionali, 2019.)
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Capitolo 2
Esaminiamo dettagliatamente i singoli conti e la natura dei flussi che li compongono. Il conto delle risorse e degli impieghi rappresenta il mercato dei beni e servizi finali e ne mette in evidenza l’offerta aggregata (risorse) e la domanda aggregata (impieghi). L’offerta aggregata, cioè l’insieme dei beni e servizi di cui il Paese può disporre, non può evidentemente che essere uguale ai beni e servizi finali prodotti all’interno del Paese più i beni importati. I beni e servizi prodotti all’interno del Paese prendono il nome di Prodotto Interno Lordo (PIL) e la sigla pdm sta a indicare che essi sono stati valutati ai prezzi di mercato. La sezione delle entrate specifica come sono state utilizzate le risorse. La parte preponderante è stata impiegata per consumi dalle famiglie e dalle Pubbliche Amministrazioni. Gli investimenti lordi si compongono di due voci: gli investimenti fissi lordi e la variazione delle scorte. Gli investimenti fissi lordi sono costituiti da macchinari, attrezzature, fabbricati, mezzi di trasporto commerciali ecc. L’aggettivo lordo, applicato a questo e ad altri aggregati di contabilità nazionale, vuol dire che sono al lordo degli ammortamenti, cioè del consumo di beni capitali verificatosi nel corso del processo produttivo appena conclusosi e che occorre reintegrare per mantenere inalterata la capacità produttiva.1 La variazione delle scorte esprime la differenza fra il valore delle scorte (di materie prime, semilavorati, prodotti finiti) detenute dalle imprese alla fine dell’anno e quello delle scorte presenti nei magazzini all’inizio del periodo. Se a fine periodo le scorte sono aumentate rispetto alla consistenza iniziale, ciò vuol dire che una parte della produzione dell’anno non ha (ancora) trovato una collocazione sul mercato. Ciò può essere avvenuto o perché le imprese hanno volontariamente deciso di aumentare le consistenze di magazzino, per esempio in previsione di una domanda più elevata in futuro, o perché hanno sbagliato i calcoli sulla effettiva volontà di acquisto degli acquirenti. La volontarietà o meno dell’accumulo delle scorte da parte delle imprese gioca un ruolo importante nella determinazione del livello futuro di attività del sistema economico: se l’accumulo di scorte è stato subìto e non voluto dalle imprese, queste ridurranno il livello di produzione nel periodo successivo. Viceversa, se la variazione delle scorte ha segno negativo, ciò può voler dire o che le imprese ritenevano di avere magazzini troppo pieni e hanno programmato una produzione ridotta per l’anno in corso, o che la domanda è stata così vivace che la produzione del periodo non è stata sufficiente a soddisfarla e le imprese aumenteranno i prezzi e/o programmeranno un livello di produzione più elevato per il periodo successivo. In altri termini, affinché il mercato dei beni sia in equilibrio occorre che la produzione programmata dalle imprese sia uguale alla domanda programmata dagli acquirenti. Rinviamo ai capitoli successivi per una trattazione approfondita di questo problema e dei relativi meccanismi di aggiustamento. Qui annotiamo soltanto che in contabilità nazionale ci si limita a registrare il valore della variazione delle scorte, senza tentare di distinguere se la variazione è stata programmata o meno dalle imprese. Di conseguenza, il conto delle risorse e degli impieghi è sempre in equilibrio.
1 Quando gli aggregati sono considerati al netto degli ammortamenti, nel loro nome l’aggettivo lordo viene sostituito dall’aggettivo netto: investimenti fissi netti, Prodotto Interno Netto (PIN), Reddito Nazionale Netto (RNN) e così via.
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Contabilità nazionale
L’ultima componente della domanda aggregata è costituita dalle esportazioni, vale a dire dai beni e servizi venduti al RdM. La differenza tra le esportazioni e le importazioni prende il nome di esportazioni nette, un concetto che useremo spesso nel corso della nostra analisi. Il conto della distribuzione del PIL mette in evidenza come il valore dei beni e servizi finali si trasformi in redditi dei fattori produttivi e abbozza un tentativo di distribuzione funzionale del reddito. Abbiamo già accennato come in presenza di imposte indirette una parte del prezzo pagato dagli acquirenti finali venga trasferita allo Stato e non vada a remunerare i fattori produttivi. Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che in alcuni casi lo Stato decide di sussidiare alcune produzioni. I motivi di questa decisione possono essere vari: indurre le imprese a praticare prezzi più bassi per alcuni beni di cui si ritiene utile incentivare il consumo o sostenere i redditi di alcune categorie di produttori considerati meritevoli di particolari attenzioni. Questi sussidi prendono il nome di contributi alla produzione e in definitiva permettono di remunerare i fattori al di sopra di quanto consentito dai ricavi di vendita. Quindi, per passare dal concetto di valore della produzione finale al concetto di redditi dei fattori occorre tener conto di queste due poste correttive. Il conto della distribuzione del PIL parte dal PILpdm, aggiunge a esso i contributi alla produzione versati dalle amministrazioni nazionali e dall’Unione Europea e sottrae (mettendole nella sezione opposta) le imposte indirette pagate rispettivamente alle Pubbliche Amministrazioni italiane e a quelle comunitarie. Se facciamo la somma algebrica tra questi aggregati troviamo ancora una nozione di PIL, ma questa volta si tratta di PILcdf (cdf sta per al costo dei fattori). Questa nozione di prodotto interno lordo al costo dei fattori coincide esattamente con i redditi guadagnati dai fattori produttivi che hanno contribuito alla sua realizzazione. A questo punto il conto opera una parziale distribuzione funzionale del reddito distinguendo tra redditi interni da lavoro dipendente e risultato lordo di gestione. Quest’ultimo aggregato racchiude gli interessi, i profitti, le rendite, ma anche i redditi da lavoro autonomo. Il motivo dell’inclusione dei redditi da lavoro autonomo nel risultato lordo di gestione è dovuto al fatto che per i lavoratori autonomi è difficile distinguere quanta parte del loro reddito complessivo è dovuta al loro lavoro e quanta parte deriva invece dalla proprietà dei beni capitali che impiegano nella loro attività. Tutti i redditi sono rilevati al lordo dei contributi sociali e delle imposte dirette, cioè della parte che dovrà essere versata allo Stato. Il conto del reddito si propone di determinare il reddito nazionale. In contabilità nazionale l’aggettivo interno sta a indicare le attività economiche svolte da tutti i soggetti che operano all’interno del territorio economico del Paese, mentre l’aggettivo nazionale designa le attività dei soggetti che hanno il centro dei propri interessi nel Paese. Il centro di interessi è identificato con la residenza e non con la cittadinanza. Per esemplificare, ciò significa che un lavoratore immigrato stabilmente nel nostro Paese svolge la sua attività di produzione e di consumo in Italia e contribuisce quindi all’economia nazionale, mentre un cittadino italiano che risiede stabilmente in Argentina contribuisce all’economia di quel Paese. Il conto del reddito mette quindi in evidenza i redditi guadagnati dalle famiglie residenti nel Paese e le entrate delle Pubbliche Amministrazioni nazionali. Il conto del reddito presenta nella sezione delle entrate gli aggregati che costituiscono le componenti positive del reddito e
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Reddito nazionale Somma dei redditi (al netto delle imposte e dei contributi sociali) delle famiglie e delle entrate della PA.
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Capitolo 2
nella sezione delle uscite le componenti negative (che devono essere quindi sottratte). Il punto di partenza è costituito dai redditi interni da lavoro dipendente e dal risultato lordo di gestione. È evidente che buona parte dei redditi distribuiti dalle unità produttive del Paese apparterranno a famiglie residenti. Tuttavia le imprese possono aver utilizzato lavoro (di immigrati stagionali, frontalieri ecc.) e capitale (azioni possedute da famiglie non residenti) esteri. I salari e dividendi pagati a questi lavoratori e a queste famiglie estere devono essere dunque sottratti al complesso dei redditi risultanti dall’attività di produzione. I due aggregati “redditi da lavoro dipendente verso l’estero” e “redditi da capitale verso l’estero”, posti nella sezione opposta a quella del risultato lordo di gestione e dei redditi interni da lavoro dipendente, servono a effettuare questa correzione. Le famiglie residenti, dal canto loro, possono aver prestato servizi dei fattori produttivi a imprese operanti sul territorio economico di altri Paesi. I relativi redditi devono essere aggiunti a quelli che le famiglie residenti hanno percepito dalle imprese che operano nel Paese e questa correzione viene effettuata dai due aggregati “redditi da lavoro dipendente” e “redditi da capitale” dal RdM. Un’ulteriore correzione deve essere effettuata per tener conto delle imposte indirette e dei contributi alla produzione. Come si ricorderà, i redditi da lavoro dipendente e il risultato lordo di gestione sono registrati al lordo delle imposte dirette e dei contributi sociali. In quanto tali, essi possono essere visti come la somma dei redditi che rimangono effettivamente a disposizione delle famiglie residenti (una volta pagate le imposte e i contributi sociali) e delle entrate dello Stato per imposte dirette e contributi sociali. Ma tra le entrate dello Stato vanno annoverate anche le imposte indirette, che erano state scorporate nel conto della distribuzione del PIL e quindi vanno aggiunte alle componenti positive del reddito nazionale. Parallelamente devono essere sottratti i contributi alla produzione pagati dalle Pubbliche Amministrazioni nazionali, perché nel conto della distribuzioni del PIL sono già stati considerati come una componente positiva dei redditi distribuiti dalle imprese. Altre due voci che troviamo nel conto riguardano i trasferimenti correnti da e verso l’estero. Questi trasferimenti sono costituiti dai versamenti in denaro o in natura che avvengono fra Stati o istituzioni internazionali (come per esempio gli aiuti internazionali) e dai trasferimenti internazionali a titolo gratuito effettuati dai privati (rimesse degli emigrati residenti alle loro famiglie di origine, aiuti umanitari). Naturalmente i trasferimenti dall’estero si aggiungono alle componenti positive del reddito, mentre i trasferimenti verso l’estero sono una componente negativa. La differenza fra le uscite e le entrate costituisce il saldo del conto ed è il reddito nazionale lordo disponibile, cioè il reddito delle famiglie residenti e le entrate dello Stato di cui il Paese può disporre. Il conto dell’utilizzazione del reddito mette in evidenza come il Paese utilizza il reddito disponibile. La prima e fondamentale decisione che le famiglie e lo Stato devono prendere è quanta parte destinarne al consumo e quanta parte al risparmio, ed è esattamente quello che mette in evidenza il conto dell’utilizzazione del reddito. Nella sezione delle entrate troviamo il saldo del conto precedente, cioè il reddito nazionale lordo disponibile. Nella sezione opposta troviamo i consumi nazionali e a saldo il risparmio nazionale lordo. Il conto della formazione di capitale mette in evidenza come vengono finanziati gli investimenti. La prima e principale fonte di finanziamento degli investimenti è costituita ovviamente dal risparmio nazionale lordo, che è stato determinato a saldo nel conto precedente. A esso vanno aggiunti i trasferimenti in conto capitale dal resto del mondo, cioè quei trasferimenti dall’estero che hanno come specifica destinazione gli
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investimenti (per esempio attrezzature mediche finanziate da istituzioni o Stati esteri). Nella sezione opposta vengono dettagliati gli impieghi del risparmio: investimenti fissi lordi, variazione delle scorte e trasferimenti verso il resto del mondo con specifica destinazione agli investimenti. Gli investimenti fissi lordi sono stati distinti nelle due voci che li compongono: gli ammortamenti, cioè i beni capitali che vanno a rimpiazzare il valore stimato dello stock di capitale consumato nel processo produttivo appena conclusosi, e gli investimenti fissi netti, cioè l’aggiunta netta allo stock di capitale. Se gli investimenti sono stati superiori ai risparmi, ciò evidentemente è stato possibile grazie a debiti contratti all’estero e il saldo del conto mette in evidenza l’ammontare di questo indebitamento netto verso l’estero. Nel caso contrario il Paese avrebbe risparmiato più di quanto ha investito e il saldo metterebbe in evidenza un accreditamento netto verso l’estero. Il conto delle transazioni internazionali è il conto di chiusura e riepiloga le transazioni tra l’economia nazionale e il resto del mondo. Il conto è costruito dal punto di vista del resto del mondo: per esempio le esportazioni (un impiego per la nostra economia) sono una risorsa per il resto del mondo. Il pagamento per i beni che abbiamo esportato determina un flusso monetario in uscita dal RdM e diretto nel nostro Paese. Lo stesso ragionamento vale per gli altri aggregati raccolti nella sezione delle uscite del conto. D’altro canto, il pagamento delle nostre importazioni rappresenta un’entrata per il RdM (e ovviamente un’uscita per l’economia nazionale).2 L’aggregato a saldo, accreditamento netto verso l’estero, è lo stesso che abbiamo trovato nel conto della formazione di capitale e segnala che il nostro Paese ha concesso crediti al RdM.
2.3 Misurazione del PIL e degli altri aggregati dei conti nazionali Sono numerose le questioni, più o meno sottili, legate al calcolo del PIL. Cominciamo considerando i problemi di più facile comprensione. 2.3.1 Beni finali e valore aggiunto Abbiamo detto che il PIL è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti in un Paese. La ragione per cui nel calcolo del PIL si considerano solo i beni e servizi finali deriva dalla necessità di evitare errori di doppia contabilizzazione. Per esempio, non sarebbe corretto includere nel PIL sia il prezzo finale di un’automobile sia il valore degli pneumatici che la casa costruttrice ha acquistato e montato sull’auto. I componenti delle automobili che vengono venduti alle case costruttrici sono beni intermedi e, in quanto tali, vengono esclusi dal calcolo del PIL. Nella pratica gli errori di doppia contabilizzazione si evitano facendo riferimento al valore aggiunto. In ogni fase della produzione di un bene, ai fini del calcolo del PIL, si considera solo il valore aggiunto al bene in quella fase. L’Applicazione 2.1 chiarisce il concetto con un esempio concreto.
2
Quando esamineremo la bilancia dei pagamenti, ritroveremo gli stessi aggregati che figurano nel conto delle transazioni internazionali raggruppati nelle partite correnti e nel conto capitale. Poiché la bilancia dei pagamenti è costruita dal punto di vista del nostro Paese, ciò che qui è un’uscita per il RdM verrà lì registrato come entrata del nostro Paese e viceversa.
Beni finali Beni di consumo venduti agli utilizzatori finali e beni di investimento; tutti i beni a eccezione di quelli intermedi. Beni intermedi Materie prime, semilavorati e servizi che l’impresa acquista da altre imprese, esclusi i beni di investimento. Valore aggiunto Aumento del valore del prodotto a un dato stadio della produzione. In altri termini, valore del prodotto meno costo dei beni intermedi.
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Capitolo 2
APPLICAZIONE 2.1 Valore della produzione, beni intermedi e valore aggiunto Il valore della produzione di un’impresa è uguale ai ricavi di vendita più la variazione delle scorte. Per “beni intermedi” si intendono tutte le materie prime, semilavorati e servizi che l’impresa acquista da altre imprese, a esclusione dei beni di investimento. Il valore aggiunto è la differenza tra il valore della produzione e i beni intermedi. L’esempio riportato di seguito chiarisce perché il valore aggiunto è una stima corretta della produzione finale, mentre non lo è il valore della produzione. Supponiamo che la produzione di pane avvenga con il concorso di tre imprese, una agricola, una industriale e una commerciale. Per semplicità supponiamo che non ci siano imposte indirette e contributi alla produzione, né variazione delle scorte, cosicché il valore della produzione di ogni impresa è uguale ai ricavi di vendita. La tabella seguente riporta sinteticamente il conto economico delle tre imprese. Imprese
Costi
Valore della produzione
Beni intermedi
Redditi dei fattori
---
200
I
200
500
700
C
700
300
1000
Totali
900
1000
1900
A
200
L’impresa A produce grano ed è verticalmente integrata, produce cioè al proprio interno tutti i beni intermedi di cui ha bisogno. Realizzata la produzione, vende il grano all’impresa I. È evidente che il valore della produzione sarà uguale ai costi sostenuti dall’impresa e questi, nel caso specifico, sono costituiti esclusivamente dalla remunerazione dei fattori produttivi impiegati (includendo nei costi i profitti, al lordo degli ammortamenti). L’impresa I, un panificio industriale, acquista il grano dall’impresa agricola, lo trasforma prima in farina e poi in pane. Il valore della produzione sarà uguale al totale dei costi e questi sono costituiti dal valore del grano acquistato più la remunerazione dei fattori produttivi impiegati. L’impresa C, un’azienda commerciale, acquista il pane dal panificio, lo trasporta nei suoi negozi e lo vende ai consumatori finali applicando un sovrapprezzo. È evidente che il valore del bene finale “pane”, prodotto e venduto alle famiglie, è pari a 1000, vale a dire pari ai ricavi dell’azienda che commercializza il pane. Possiamo raggiungere lo stesso risultato in altri due modi: • sommando i redditi guadagnati dai fattori produttivi impiegati nelle tre imprese; • facendo la differenza fra la somma dei ricavi delle tre imprese e la somma dei beni intermedi da esse acquistati. Questa differenza fra i ricavi e i beni intermedi prende il nome di valore aggiunto. La semplice somma del valore della produzione delle imprese ci darebbe invece una misura distorta del valore del bene finale: nel nostro esempio i ricavi dell’impresa commerciale incorporano già i ricavi dell’impresa industriale e i ricavi di quest’ultima incorporano i ricavi dell’impresa agricola. È evidente che a parità di prodotto finale il valore della produzione totale sarà tanto più alto quanto più il processo produttivo sarà frazionato tra imprese diverse. Sulla base di apposite rilevazioni annuali dei conti economici delle imprese3 e dei conti delle Pubbliche Amministrazioni, l’ISTAT calcola il valore aggiunto distinto per branche produttive omogenee. Il PIL è dato dalla somma dei valori aggiunti di tutte le unità produttive.
3
ISTAT, Conti economici delle imprese e dei gruppi di imprese, anni vari.
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Contabilità nazionale
2.3.2 Produzione corrente Il PIL indica il valore della produzione corrente, quindi nel calcolarlo non si prendono in considerazione gli scambi di prodotti preesistenti. Per esempio, il PIL comprende il valore delle case di nuova costruzione, ma non tiene conto della compravendita degli immobili costruiti in anni precedenti; tuttavia vengono incluse nel PIL anche le commissioni percepite dagli agenti immobiliari per queste operazioni commerciali. In effetti gli agenti immobiliari, facendo incontrare venditori e acquirenti, forniscono un servizio nell’anno in corso, e questo viene giustamente incluso nella produzione corrente. 2.3.3 Calcolo del PIL e problemi connessi Nella pratica i dati relativi al PIL vengono usati non solo come misura della produzione, ma anche come misura del benessere degli abitanti del Paese cui si riferiscono. Normalmente, per gli economisti e i politici, un aumento del PIL reale equivale a un miglioramento del tenore di vita della popolazione. Tuttavia il PIL non fornisce una misura precisa né della produzione né del benessere.4 Ciò è dovuto principalmente a tre problemi. • Alcuni beni e servizi sono esclusi dal calcolo del PIL perché non vengono scambiati sul mercato. Per esempio, se preparate una torta in casa, del vostro lavoro non rimane traccia nei dati ufficiali relativi alla produzione; ma se comprate una torta dal pasticciere, il lavoro di quest’ultimo rientra nel calcolo del PIL. Analogamente, il sempre più massiccio inserimento delle donne nella forza lavoro ha fatto crescere il valore del PIL, ma non si è tenuto conto in alcun modo del conseguente calo del lavoro da esse svolto in casa (il lavoro di chi bada ai bambini a pagamento ha un valore ai fini del calcolo del PIL, mentre occuparsi dei propri figli ha un valore pari a zero). Va osservato, inoltre, che il prezzo dei servizi pubblici non è fissato direttamente dal mercato. Nelle statistiche ufficiali si presume che ogni importo speso dal settore pubblico valga effettivamente il corrispondente ammontare; di conseguenza la stima del PIL sarà inesatta nella misura in cui i cittadini assegnano un valore maggiore o minore a ogni somma di denaro spesa dalla Pubblica Amministrazione. • Alcune attività, alle quali viene assegnato un valore positivo ai fini del calcolo del PIL, in realtà non servono a produrre beni, ma a limitare “mali” quali la criminalità o le minacce alla sicurezza nazionale. Analogamente, nei conti economici nazionali non viene assegnato un valore negativo all’inquinamento e al degrado ambientale. • Non è facile tener conto, nelle statistiche ufficiali, dei perfezionamenti nella qualità dei beni. Ciò vale in particolare per i computer, le cui prestazioni sono progredite enormemente, mentre i prezzi sono scesi in misura consistente. Ma lo stesso problema si pone un po’ per tutti i beni; si pensi per esempio alle automobili, la cui qualità non cessa di crescere. Gli esperti di contabilità nazionale cercano di tener conto dei miglioramenti qualitativi; tuttavia non è un’impresa facile, specie perché vengono continuamente introdotti nuovi prodotti e nuovi modelli. Sono stati compiuti diversi tentativi per calcolare, per una serie di anni consecutivi, valori del PIL aggiustati, che tenessero conto di alcuni degli aspetti sopra menzionati e quindi fornissero una misura più precisa del benessere del Paese. Dal più completo di
4 Si vedano gli articoli di Boskin M.J., Moulton B.R., Nordhaus W.D. nella sezione “Getting the 21st Century GDP Right” in American Economic Review, maggio 2000.
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36
Capitolo 2
Tabella 2.4 Consumi in Italia, anno 2018
Miliardi di €
In % del PIL
1055
59,8
336
19,0
10
0,5
1401
79,3
Acquisti sul territorio dei non residenti (+)
42
2,4
Acquisti all’estero dei residenti (–)
20
1,2
1423
80,6
Spesa delle famiglie residenti Spesa delle Pubbliche Amministrazioni
(Fonte: I.Stat, Conti nazionali, 2019.)
Spesa delle istituzioni sociali private Consumi finali nazionali
Consumi finali interni
Prodotto Nazionale Lordo (PNL) Misura del valore di tutti i beni e servizi prodotti da fattori di produzione di proprietà nazionale. Spesa per consumi Spesa dei consumatori e della PA.
questi studi, condotto da Robert Eisner della Northwestern University, risulta che il valore aggiustato del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) reale è superiore del 50% circa rispetto a quello ufficiale.5 2.3.4 Consumi La Tabella 2.4 riporta la composizione dei consumi finali nazionali dell’Italia e mette in evidenza la differenza tra i consumi nazionali (cioè i consumi dei residenti del Paese) e i consumi finali interni (cioè la spesa per consumi all’interno del territorio economico del Paese). Consumi delle famiglie La principale componente della domanda è la spesa delle famiglie residenti. Questa voce comprende le spese per l’acquisto, da parte delle famiglie, di qualunque bene e servizio, dal cibo alle lezioni di chitarra. Vi rientrano anche, come vedremo parlando degli investimenti, le spese per l’acquisto di beni durevoli, per esempio televisori, lavatrici e automobili. Spesa pubblica (in beni e servizi) La seconda componente della domanda per entità è la spesa delle Pubbliche Amministrazioni in beni e servizi. In questa voce rientrano, per esempio, le spese per la difesa nazionale, quelle per la manutenzione delle strade sostenute sia dallo Stato sia dalle amministrazioni locali e gli stipendi dei dipendenti pubblici. Quando si parla delle uscite della Pubblica Amministrazione bisogna fare attenzione alla terminologia usata. Per indicare le spese sostenute dallo Stato e dagli enti locali per acquistare e produrre beni e servizi si parla di acquisti pubblici di beni e servizi. Tra le uscite della Pubblica Amministrazione, però, vi sono anche i trasferimenti, vale a dire le somme erogate ai cittadini che non rappresentano compensi per attività produttive correnti. Tipici esempi di trasferimenti sono i sussidi di disoccupazione e le pensioni di invalidità.
Spesa pubblica Spesa pubblica complessiva; comprende sia gli acquisti sia i trasferimenti della Pubblica Amministrazione.
Definiamo la somma dei trasferimenti e degli acquisti pubblici di beni e servizi come spesa pubblica.
5
Eisner R. espone i risultati dei suoi studi nel libro The Total Incomes System of Accounts, University of Chicago Press, Chicago 1989. Nell’Appendice E, l’Autore prende in esame numerosi altri tentativi di correzione delle principali inesattezze dei conti economici ufficiali. Eisner ha ricavato una serie di valori “aggiustati” del PNL e non del PIL, perché nel periodo in cui condusse i suoi studi la misura fondamentale della produzione era il PNL.
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Contabilità nazionale
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Spesa delle istituzioni sociali private È la spesa delle istituzioni sociali private che operano al servizio delle famiglie. Spesso nei conti nazionali è aggregata alla spesa delle Pubbliche Amministrazioni. Consumi nazionali e consumi interni Se vogliamo passare dal concetto di consumi nazionali al concetto di consumi effettuati all’interno del Paese, dobbiamo sottrarre al totale dei consumi nazionali quella parte di consumi che i residenti hanno effettuato all’estero (per viaggi di lavoro, vacanze ecc.) e aggiungere la spesa che i non residenti hanno effettuato in Italia. La seconda parte della Tabella 2.4 mette in evidenza questi flussi. In Italia, un Paese con molte attrattive turistiche, i consumi interni sono normalmente superiori ai consumi nazionali. Nella pratica corrente della contabilità nazionale (e in particolare nel conto delle risorse e degli impieghi nella Tabella 2.3) le spese all’estero dei residenti sono conglobate nelle importazioni, mentre le spese degli stranieri in Italia sono comprese nelle esportazioni. 2.3.5 Investimenti La voce investimenti lordi richiede qualche precisazione. In primo luogo, in contabilità nazionale il termine “investimento” sta a indicare gli investimenti reali, cioè un’aggiunta allo stock fisico di capitale. Se si usa il termine in questa accezione, non si può, per esempio, definire investimento l’acquisto di obbligazioni o di azioni che sono investimenti finanziari. Per essere considerati investimenti i beni devono avere quattro caratteristiche:
Investimenti lordi Acquisti di beni di durata pluriennale destinati alla produzione di altri beni.
1. essere materiali, avere cioè una consistenza fisica (il che esclude i servizi dal computo degli investimenti); 2. essere riproducibili, cioè suscettibili di essere prodotti (la terra è un bene capitale ma non un bene di investimento, in quanto l’acquisto di un terreno dà luogo a un semplice passaggio di proprietà, ma non aumenta la quantità di terra disponibile del Paese); 3. avere durata pluriennale, cioè la capacità di essere impiegati in più cicli produttivi. Questa caratteristica li differenzia dai beni intermedi in quanto questi ultimi vengono completamente inglobati nel prodotto finale (si pensi alla farina per fare il pane e al forno che serve per cuocerlo: la prima è un bene intermedio, mentre il forno esplica la sua utilità per più cicli produttivi ed è quindi un bene di investimento); 4. essere utilizzati per una produzione destinata al mercato o quantomeno allo scambio. Questa caratteristica serve a differenziare i beni di investimento dai beni di consumo durevoli: lo stesso tipo di automobile se utilizzato da un rappresentante di commercio è un bene di investimento, ma se è utilizzato da una famiglia è un bene di consumo durevole. Esiste però un’eccezione a questa regola: le abitazioni acquistate dalle famiglie sono considerate beni di investimento e non beni di consumo durevole e il valore dei fitti figurativi delle case di proprietà è incluso nel calcolo del PIL. Se intendessimo l’investimento in senso più generale, come qualunque attività corrente che accresce la capacità produttiva futura del sistema economico, dovremmo tener conto anche dei cosiddetti “investimenti in capitale umano”. Il capitale umano è costituito dalle conoscenze e dalle capacità acquisite dalla forza lavoro. Gli investimenti in istruzione possono essere considerati investimenti in capitale umano; tutta-
Capitale umano Istruzione e preparazione delle persone che fanno parte delle forze di lavoro.
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Capitolo 2
via, nella contabilità nazionale le spese personali per l’istruzione vengono incluse nella voce “consumi” e la spesa pubblica per l’istruzione nella voce “acquisti pubblici di beni e servizi”.
Esportazioni nette Esportazioni meno importazioni.
2.3.6 Esportazioni nette La cifra che gli stranieri spendono per acquistare prodotti del nostro Paese va ad accrescere la domanda di beni e servizi interni; viceversa, la cifra che noi spendiamo per acquistare prodotti esteri va sottratta dalla domanda di beni e servizi nazionali. Ne consegue che la differenza tra esportazioni e importazioni, vale a dire le esportazioni nette, è una delle componenti della domanda aggregata di prodotti nazionali. Il ruolo delle esportazioni nette nel calcolo del PIL può essere chiarito con un esempio. Ipotizziamo che si verifichi un aumento dei consumi privati di 2 miliardi di euro; che variazioni subirebbe il PIL in questo caso? Supponendo che la spesa pubblica in beni e servizi e la spesa in investimenti rimangano invariate, saremmo tentati di dire che il PIL aumenterebbe di 2 miliardi di euro. Ciò sarebbe corretto solo se la maggiore spesa in consumi fosse servita ad acquistare esclusivamente prodotti nazionali (per esempio, auto costruite a Torino). Se al contrario la maggiore spesa delle famiglie si fosse rivolta tutta a prodotti di importazione (per esempio auto importate dalla Germania), si registrerebbe un aumento dei consumi di 2 miliardi di euro e un contemporaneo calo di 2 miliardi di euro nelle esportazioni nette, per cui il PIL rimarrebbe invariato.
2.4 PIL nominale e PIL reale I quadri di contabilità nazionale danno una descrizione dettagliata e sistematica di che cosa avviene nel sistema economico in un determinato anno e, poiché le rilevazioni di contabilità nazionale vengono fatte e pubblicate continuamente, disponiamo di queste informazioni per periodi lunghi di tempo. Tuttavia, se fossimo interessati a conoscere se nel tempo la disponibilità di beni è aumentata, diminuita o rimasta invariata, non possiamo mettere a confronto il PIL (o gli altri aggregati) del 2018 con quello di un anno precedente. Questo perché il PIL e gli altri aggregati riportati nella Tabella 2.1 sono calcolati ai prezzi correnti, vale a dire al loro valore nominale. PIL nominale Valore di tutti i beni e servizi finali prodotti in economia, valutati ai prezzi correnti.
Il PIL nominale (o a prezzi correnti) indica il valore della produzione di un determinato anno ai prezzi di quell’anno, cioè in moneta a valore corrente.
Quindi il PIL nominale del 2018 indica il valore dei beni e servizi prodotti in quell’anno ai prezzi di mercato in vigore nel 2018, mentre il PIL nominale del 2012 indica il valore dei beni e servizi prodotti in quell’anno ai prezzi di mercato in vigore nel 2012. Il PIL nominale varia da un anno all’altro per due motivi: da un lato varia la quantità dei beni e servizi prodotti, dall’altro cambiano i prezzi di mercato. Le variazioni del PIL nominale derivanti da variazioni dei prezzi non ci dicono nulla riguardo ai risultati conseguiti dal sistema economico nella produzione di beni e servizi. Supponiamo per esempio che tra un anno e il successivo i prezzi di tutti i beni e servizi (e i redditi guadagnati dai fattori produttivi) raddoppino, ma le quantità rimangano le stesse: il PIL nominale risulterebbe raddoppiato, ma sarebbe sbagliato concludere che quel sistema economico ha visto raddoppiato il benessere materiale della sua popolazione.
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Contabilità nazionale
È per questo motivo che per confrontare la produzione in anni diversi si fa riferimento al PIL reale. Il PIL reale indica il valore assunto nel corso del tempo dalla produzione di beni e servizi finali, valutati in anni diversi agli stessi prezzi, cioè in moneta a valore costante.
PIL reale Misura della produzione che adegua il valore dei beni e servizi finali per riflettere le variazioni nel livello dei prezzi.
L’ISTAT pubblica la serie del PIL (e degli altri aggregati del conto delle risorse e degli impieghi), oltre che a prezzi correnti, anche ai prezzi dell’anno precedente. Confrontando il valore del PIL 2018 valutato a prezzi 2017 con il valore del PIL 2017 valutato a prezzi 2017, è possibile ricavare di quanto è cresciuta (o diminuita) percentualmente la quantità di beni e servizi fra i due anni. Lo stesso viene fatto per calcolare la variazione tra il 2017 e il 2016 e così via. Applicando i tassi di variazione del PIL così ottenuti per i diversi anni al PIL nominale di un determinato anno, si può ricostruire una serie dei valori assoluti del PIL reale a valori concatenati. La Figura 2.3 mostra l’andamento del PIL nominale e del PIL reale a valori concatenati a prezzi del 2010. La Formalizzazione matematica 2.1 spiega che cosa sono gli indici dei prezzi e come si giunge, in contabilità nazionale, alle valutazioni a prezzi costanti.
2.5 Stime degli input di lavoro e di capitale Nei conti economici nazionali l’ISTAT fornisce, oltre ai flussi di cui abbiamo trattato finora, una stima degli input di lavoro e di capitale impiegati nel processo produttivo. Queste stime sono necessarie per il calcolo del contributo che i fattori hanno dato alla realizzazione del prodotto (produttività totale o parziale dei fattori), un argomento che affronteremo nei prossimi capitoli.
Figura 2.3 PIL nominale e PIL reale dell’Italia. (PIL nominale: miliardi di euro correnti; PIL reale: miliardi di euro del 2010)
1800
1700
1600
(Fonte: I.Stat, Conti nazionali, 2019.) 1500
1400
1300
2010
2011
2012
2013 PIL reale
2014
2015
2016
2017
2018
PIL nominale
Tra il 2010 e il 2018 il PIL nominale è aumentato del 9,6%, il PIL reale è diminuito dello 0,3%
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Capitolo 2
FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 2.1 Inflazione e indici dei prezzi L’inflazione è il tasso di aumento dei prezzi e il livello dei prezzi è il risultato dell’inflazione registrata in passato. Se vogliamo calcolare l’aumento dei prezzi di un qualsiasi aggregato, dobbiamo far ricorso agli indici dei prezzi. Indici a base fissa Supponiamo di voler calcolare l’aumento dei prezzi di un paniere formato da m beni tra l’anno zero (anno base) e l’anno t. Possiamo farlo ricorrendo all’indice dei prezzi di Laspeyres, dal nome dell’economista e statistico tedesco che per primo lo sviluppò: m
∑ qi 0 pit IL =
i =1 m
× 100
∑ qi 0 pi 0
[1]
i =1
dove qi0 è la quantità del bene i acquistata nell’anno base, pi0 è il prezzo del bene i nell’anno base e pit il prezzo del bene i nel periodo t. Il denominatore è chiaramente la spesa sostenuta per l’acquisto del paniere nell’anno zero. Il numeratore rappresenta la spesa che si sosterrebbe nell’anno t se si acquistassero le stesse quantità di beni dell’anno zero. Il risultato è un numero indice che sarà maggiore di 100 se i prezzi sono aumentati tra l’anno base e l’anno t e inferiore a 100 nel caso contrario. L’utilizzo dell’indice di Laspeyres tende a sovrastimare l’inflazione. La sovrastima deriva dal fatto che il paniere di riferimento è quello dell’anno iniziale e rimane costante quando i prezzi aumentano. In altri termini, l’indice non tiene conto degli effetti di sostituzione, cioè del fatto che quando i prezzi aumentano le persone tendono a limitare l’incremento di spesa sostituendo i beni che diventano relativamente più costosi con quelli più economici. Un modo alternativo di calcolare l’aumento dei prezzi di un paniere di beni è l’indice dei prezzi di Paasche: m
∑ qit pit IP =
i =1 m
× 100
∑ q it pi 0
[2]
i =1
In questa formulazione il paniere di riferimento è quello dell’anno finale, e l’indice tende a sottostimare l’aumento dei prezzi verificatosi tra l’anno base e l’anno finale perché prende in considerazione le quantità dei beni dell’anno t, quando i consumatori hanno già aggiustato i loro acquisti per tener conto del fatto che i prezzi sono aumentati.6 Indici a catena Oltre a quelli discussi sopra, gli indici a base fissa presentano altri problemi. • Se si tiene fermo l’anno base per un lungo periodo di tempo, diventa difficile tener conto dei beni che nell’anno base non esistevano ancora o di quelli che nel frattempo sono usciti dal mercato. Per esempio, un indice di Laspeyres con anno base 1970 poteva contenere nel paniere macchine da scrivere, mentre
6
Un modo per risolvere i problemi di sovrastima e di sottostima insiti nei due indici di Laspeyres e di Paasche è stato proposto dall’economista americano Irving Fisher. L’indice dei prezzi di Fisher è la media geometrica degli indici dei prezzi di Laspeyres e di Paasche: IF = IL · IP
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oggi usiamo computer e le macchine da scrivere non sono più prodotte. Entrambi i beni sono usati per scrivere, ma le caratteristiche e le funzionalità di un computer sono così diverse da quelle di una macchina da scrivere che è difficile dire che si tratta dello stesso bene. • Un altro problema deriva dalla difficoltà di tenere conto dei miglioramenti qualitativi. Per rimanere nell’esempio dei computer, supponiamo che un computer di ultima generazione costi il 10% in più di un computer del 2015. È corretto concludere che il prezzo dei computer è aumentato del 10% quando la velocità di calcolo e la capacità di archiviare dati di un computer odierno sono di molto superiori a quelle di un computer del 2015? Ovviamente no. In contabilità nazionale i miglioramenti di qualità vengono assimilati ad aumenti di quantità. Nel nostro caso, se il computer di ultima generazione ha una velocità di calcolo e una capacità di archiviare dati doppie di quello del 2015 e queste sono le sole due caratteristiche rilevanti, esso dovrebbe equivalere a 2 computer del 2015, e quindi l’aumento apparente dei prezzi del 10% equivale in effetti a una diminuzione dei prezzi, se si tiene conto dei miglioramenti qualitativi. Per eliminare o almeno attenuare questi problemi si sta diffondendo la pratica di modificare l’anno base in ogni periodo. In termini pratici questo vuol dire che per un indice di tipo Laspeyres, per ogni coppia di anni consecutivi l’anno base è l’anno iniziale. Questo metodo fornisce un’approssimazione più corretta dell’aumento dei prezzi avvenuto tra l’anno iniziale e l’anno successivo perché permette di adeguare continuamente sia la lista dei prodotti per i quali vengono rilevati i prezzi, il paniere, sia le quantità con cui i prodotti partecipano al calcolo degli indici, i pesi. Ma se volessimo sapere di quanto sono aumentati i prezzi in un periodo più lungo, che cosa dovremmo fare? La risposta è che è sufficiente porre uguale a 100 l’anno che scegliamo come riferimento iniziale e concatenare gli indici dei prezzi dei vari anni facendone il prodotto, secondo la seguente formula:
)
Ic (0, n = 100 ×
I (0, 1 100
) × I (1, 2) × ... × I (n – 1 , n) 100
100
[3]
con: Ic = indice dei prezzi concatenato 0 = anno di riferimento iniziale n = anno finale Moltiplicare 100 per l’indice dei prezzi degli anni successivi divisi per 100 equivale ad aumentarlo del tasso di crescita dei prezzi verificatosi in ogni anno. I principali indici dei prezzi pubblicati dall’ISTAT sono: • l‘indice Nazionale dei prezzi al consumo per l’Intera Collettività (NIC): questo indice viene calcolato con riferimento all’insieme di tutti i beni e servizi acquistati dalle famiglie e aventi un effettivo prezzo di mercato; misura quindi l’inflazione a livello dell’intero sistema economico; • l’indice nazionale dei prezzi al consumo per le Famiglie di Operai e Impiegati (FOI): l’indice si riferisce ai consumi delle famiglie che fanno capo a un lavoratore dipendente e viene utilizzato, tra l’altro, come base per l’adeguamento degli affitti; • l‘Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i Paesi membri dell’Unione Europea (IPCA): questo indice viene calcolato in relazione a un paniere di beni e servizi costruito tenendo conto sia delle particolarità nazionali sia di regole comuni per la ponderazione dei beni che compongono il paniere. L’IPCA è utilizzato per verificare la convergenza delle economie dei Paesi membri dell’UE ai fini dell’accesso e della permanenza nell’Unione monetaria; • l’Indice dei Prezzi alla Produzione dei prodotti industriali (IPP) misura le variazioni nel tempo dei prezzi che si formano nel primo stadio di commercializzazione dei beni. Deflatore del PIL Per il PIL (e gli altri aggregati del conto delle risorse e degli impieghi) i conti nazionali forniscono per ogni anno tre serie: il PIL a prezzi correnti, il PIL ai prezzi dell’anno precedente e il PIL a valori concatenati (attualmente con anno di riferimento 2015).
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Capitolo 2
Ora che conosciamo gli indici di tipo Laspeyres a Paasche possiamo esaminare più da vicino le relazioni che intercorrono tra queste specificazioni. Sappiamo che il PIL è il valore dei beni e servizi finali. Possiamo indicarlo come una sommatoria di quantità per prezzi. Il PIL dell’anno t a prezzi correnti sarà: n
PILpct = ∑q it pit
[4]
i =1
E il PIL dell’anno t ai prezzi dell’anno precedente sarà: n
PILpapt = ∑qit pit – 1
[5]
i =1
Mentre il PIL dell’anno precedente a prezzi correnti sarà: n
PILpct −1 = ∑qit −1 pit −1
[6]
i =1
Facciamo il rapporto tra la [4] e la [5] e moltiplichiamo come al solito per 100: n
PILpct = PILpapt
∑ qit pit i =1 n
∑qit pit −1
× 100 = ID
[7]
i =1
Il risultato è chiaramente un indice dei prezzi di tipo Paasche. Il deflatore del PIL è pari al rapporto tra il PIL nominale di un determinato anno t e il PIL reale dello stesso anno (cioè, nel nostro caso, le quantità dell’anno t per i prezzi dell’anno t – 1). Esso misura la variazione dei prezzi tra l’anno corrente e l’anno base.
Questo indice dei prezzi prende il nome di deflatore del PIL. Facciamo ora il rapporto tra la [5] e la [6] e moltiplichiamo per 100: n
PILpapt PILpct −1
=
∑qit pit − 1 i =1 n
∑qit − 1 pit −1
× 100 = IQ
[8]
i =1
Il risultato è un indice di quantità (di tipo Laspeyres) e ci dice di quanto è variato il PIL reale tra l’anno t – 1 e l’anno t. Dalle serie del PIL a prezzi correnti e del PIL ai prezzi dell’anno precedente possiamo quindi calcolare, per ogni anno, l’indice dei prezzi (deflatore) e l’indice delle quantità. Se poi vogliamo “concatenare” uno o entrambi gli indici per più anni possiamo utilizzare la [3]. La Tabella 2.5 riporta i valori assoluti e gli indici del PIL dell’Italia per il periodo 2010-18. Deflazione degli aggregati di contabilità nazionale Supponiamo di avere il valore del PIL a prezzi correnti per un determinato anno e il relativo deflatore e di voler trovare il PIL reale, cioè il PIL ai prezzi dell’anno precedente. Ebbene, basterà dividere il PIL a prezzi correnti per il deflatore e moltiplicare per 100. Per esempio, nella Tabella 2.5 il PIL a prezzi correnti per il 2018 è pari a 1765 e il deflatore per lo stesso anno (indici annuali) è pari a 101. Dividendo 1765 per 101 e moltiplicando per 100 otteniamo 1750, cioè il PIL 2018 a prezzi dell’anno precedente. Possiamo generalizzare questo risultato e dire che per deflazionare (depurare dell’aumento dei prezzi) un aggregato a prezzi correnti basta dividerlo per l’appropriato indice dei prezzi e moltiplicare il risultato per 100.
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Contabilità nazionale
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Tabella 2.5 Indici delle quantità e dei prezzi del PIL, 2010-2018
Anni
2010
PILpc
PILpap
(Miliardi di euro)
(Miliardi di euro)
Deflatore del PIL
Indici annuali
1611
Indice concatenato, 2005= 100
PIL reale
Indici annuali
100
Indice concatenato, 2010= 100 100
Valori concatenati, anno di riferimento 2010 1611
2011
1649
1623
102
102
101
102
1623
2012
1624
1600
102
103
102
103
1574
2013
1613
1594
101
104
101
104
1545
2014
1627
1613
101
105
101
105
1545
2015
1655
1640
101
106
101
106
1557
2016
1696
1677
101
108
101
108
1577
2017
1737
1725
101
108
101
108
1604
2018
1765
1750
101
109
101
109
1617
(Fonte: EUROSTAT, 2019.)
Nella discussione del paragrafo precedente abbiamo indicato il PIL come una sommatoria di prezzi per quantità. Ciò in un certo senso è vero, ma per trovare il PIL a prezzi dell’anno precedente l’ISTAT parte dalle stime a prezzi correnti del valore della produzione e dei beni intermedi di settori produttivi omogenei, li deflaziona separatamente con appropriati indici dei prezzi (rispettivamente della produzione e dei beni intermedi di quel settore) e per differenza ottiene il valore aggiunto deflazionato. Sommando i valori aggiunti deflazionati di tutti i settori trova i valori del PILpap esposti nella Tabella 2.5. È per questo motivo che il deflatore del PIL viene chiamato anche indice implicito dei prezzi del PIL. In altri termini, esso non viene calcolato direttamente, come gli indici dei prezzi al consumo, ma solo come rapporto tra due valori monetari, il PIL a prezzi correnti, calcolato come somma dei valori aggiunti a prezzi correnti, e il PIL ai prezzi dell’anno precedente, calcolato come somma dei valori aggiunti settoriali deflazionati.
Per quanto riguarda il capitale, l’ISTAT fornisce stime degli stock di capitale lordo e netto: • lo stock di capitale lordo per un dato anno è il valore dei beni capitali ancora in uso nel sistema economico valutati come se fossero beni capitali nuovi (ovvero allo stesso prezzo dei beni capitali nuovi dello stesso tipo), senza tener conto della loro età e del loro stato (ovvero del deprezzamento che essi subiscono nel corso del tempo). Esso viene calcolato stimando quanti dei beni capitali installati come risultato degli investimenti effettuati negli anni passati sono sopravvissuti fino all’anno per il quale si vuole calcolare lo stock; • lo stock di capitale netto per un dato anno è il valore dei beni capitali ancora in uso nel sistema economico valutati allo stesso prezzo dei beni capitali nuovi dello stesso tipo, meno il valore cumulato del deprezzamento maturato fino all’anno per il quale si vuole calcolare lo stock.
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Capitolo 2
Per quanto riguarda l’input di lavoro, l’ISTAT fornisce diverse stime (Tabella 2.6). • Occupati: per occupati si intendono tutte le persone, dipendenti e indipendenti, che prestano la propria attività lavorativa presso unità produttive residenti sul territorio economico del Paese. Nella stima degli occupati, secondo il concetto di occupazione interna, utilizzato nella contabilità nazionale, si fa riferimento alla residenza dell’unità di produzione e non alla residenza della persona occupata; si escludono, quindi, i residenti che lavorano presso unità di produzione non residenti sul territorio economico del Paese, mentre si includono i non residenti che lavorano presso unità di produzione residenti. • Unità di lavoro (o Equivalente a tempo pieno): la stima degli occupati ci fornisce il numero delle persone che partecipano al processo produttivo ma nulla ci dice sul tempo che impiegano nel lavoro. Alcuni potrebbero essere occupati a tempo parziale o svolgere un’attività non continuativa, altri potrebbero svolgere un’attività a tempo pieno e in aggiunta dedicarsi a un secondo lavoro. Per avere una stima più precisa della quantità di lavoro impiegata nel processo produttivo è stato sviluppato il concetto di unità di lavoro a tempo pieno. L’insieme delle unità di lavoro è ottenuto dalla somma delle posizioni lavorative a tempo pieno e dalle posizioni lavorative a tempo parziale (principali e secondarie) trasformate in unità a tempo pieno. Le posizioni lavorative a tempo parziale (principali e secondarie) sono trasformate in unità di lavoro tramite coefficienti ottenuti dal rapporto tra le ore effettivamente lavorate in una posizione lavorativa non a tempo pieno e le ore lavorate nella stessa branca in una posizione a tempo pieno. Le unità di lavoro sono utilizzate come unità di misura del volume di lavoro impiegato nella produzione dei beni e servizi rientranti nelle stime del prodotto interno lordo in un determinato periodo di riferimento. • Monte ore effettivamente lavorate: ore di lavoro effettuate dagli occupati alle dipendenze con esclusione delle ore di cassa integrazione guadagni e delle ore non Tabella 2.6 Input di lavoro e di capitale
Anni
Occupati totali (migliaia)
Unità di lavoro totali (migliaia)
Ore annue lavorate per occupato (migliaia)
Capitale netto ai prezzi di sostituzione (miliardi di euro correnti)
Capitale netto, valori concatenati (miliardi di euro 2010)
2010
24 660
23 967
1772
5653
5653
2011
24 739
24 003
1772
5844
5686
2012
24 661
23 746
1752
5961
5687
2013
24 173
23 295
1752
5992
5669
2014
24 357
23 284
1716
5831
5646
2015
24 516
23 440
1717
5841
5627
2016
24 849
23 758
1722
5849
5618
2017
25 138
23 946
1719
5880
5615
2018
25 359
24 147
1723
5926
5620
(Fonte: I.Stat e AMECO, 2019.)
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Contabilità nazionale
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lavorate relative ad assenze per ferie, festività, permessi personali, scioperi e in genere delle ore non lavorate anche se per esse è stata corrisposta una retribuzione. In contabilità nazionale la definizione comprende anche le ore effettivamente lavorate dagli occupati indipendenti. Negli ultimi anni, la domanda degli utilizzatori di stime sull’input di lavoro si è modificata rivolgendosi verso le ore lavorate quale misura del fattore lavoro più idonea ad assicurare la comparabilità internazionale degli indicatori sulla produttività. In realtà, ancora diversi problemi devono essere superati prima di giungere a tale obiettivo, problemi derivanti dalle differenze tra Paesi nelle fonti di informazione e nei metodi di stima.
2.6 Alcune importanti identità In questo paragrafo riassumeremo quanto finora detto, stabilendo una serie di relazioni che utilizzeremo ampiamente nel resto del libro. Inoltre introdurremo alcune notazioni e convenzioni che continueremo a usare in tutto il volume. Per agevolare il nostro lavoro di analisi nei capitoli successivi, ipotizziamo che il PIL coincida con il reddito disponibile. In genere ignoreremo gli ammortamenti, e quindi la differenza tra PIL e Prodotto Interno Netto (PIN), come pure la differenza tra investimenti lordi e investimenti netti. Parleremo semplicemente di spesa per investimenti. Non terremo conto nemmeno delle imposte indirette, né dei trasferimenti alla produzione. Date queste convenzioni, ci riferiremo al reddito nazionale e al PIL chiamandoli anche, rispettivamente, reddito o prodotto. Introduciamo queste semplificazioni solo per comodità, consapevoli del fatto che non hanno gravi conseguenze teoriche. Infine, almeno in una prima fase, escluderemo dalla nostra analisi la Pubblica Amministrazione e il settore estero. 2.6.1 Economia semplificata Indichiamo con Y il livello di produzione nel nostro sistema economico semplificato, nel quale non esistono né una Pubblica Amministrazione né scambi con l’estero. Indichiamo inoltre con C la spesa per consumi e con I la spesa per investimenti. La prima identità fondamentale è che l’ammontare della produzione deve essere pari all’ammontare delle vendite. Che cosa accade alla produzione invenduta? Le scorte accumulate vengono considerate parte degli investimenti (come se le imprese vendessero a loro medesime i beni aggiunti tra le scorte) e, pertanto, tutta l’intera produzione viene consumata o investita. Le vendite si possono esprimere mediante la somma delle componenti della domanda; nel caso specifico, mediante la somma di consumi e investimenti. Possiamo dunque scrivere: Y≡C+I
[9]
Il passo successivo consiste nello stabilire una relazione tra consumo, risparmio e PIL. Come verrà impiegato il reddito? Esso verrà in parte destinato al consumo e in parte risparmiato. Quindi possiamo scrivere: Y≡S+C
[10]
dove S indica il risparmio del settore privato. Dall’Identità [10] risulta che tutto il red-
Prodotto Interno Netto (PIN) PIL meno gli accantonamenti per il deprezzamento del capitale, vale a dire gli ammortamenti.
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Capitolo 2
dito viene ripartito tra consumo e risparmio. A questo punto possiamo confrontare le due identità precedenti, ottenendo: C+I≡Y≡C+S
[11]
Il membro di sinistra nell’Identità [11] indica le componenti della domanda, quello di destra invece l’allocazione del reddito. L’identità mette quindi in evidenza che l’ammontare della produzione coincide con l’ammontare delle vendite. Il valore della produzione è pari al reddito percepito dai fattori produttivi e il reddito, a sua volta, viene speso per acquistare beni e servizi oppure viene risparmiato. Possiamo riformulare l’Identità [11] per porre in evidenza la relazione tra risparmio e investimento. Sottraendo il consumo da ciascun membro, otteniamo: I≡Y–C≡S
[12]
L’Identità [12] indica che in questa economia semplificata l’investimento è esattamente pari al risparmio. Tale relazione tra investimento e risparmio può essere interpretata in diversi modi. In un sistema economico molto semplice, l’unica maniera in cui gli individui possono risparmiare è compiendo azioni concrete che rappresentano un investimento per il futuro, per esempio facendo provvista di cereali o costruendo un canale d’irrigazione. In un sistema economico un po’ più complesso, si può pensare che quanti vogliono effettuare investimenti prendano a prestito denaro dai risparmiatori. 2.6.2 Introduzione del settore pubblico e del commercio estero A questo punto introduciamo nel precedente sistema semplificato il settore pubblico e il settore estero.7 Indichiamo con G gli acquisti pubblici di beni e servizi e con TA tutte le imposte. Con TR indichiamo invece i trasferimenti pubblici al settore privato (compresi gli interessi sul debito pubblico) e con NX le esportazioni nette (vale a dire la differenza tra esportazioni e importazioni). Prendiamo di nuovo in considerazione l’identità tra produzione e vendite, tenendo ora conto di tutte le componenti della domanda, comprese G e NX. L’identità fondamentale diventerà quindi: Y ≡ C + I + G + NX
[13]
Ora ci proponiamo di ricavare la relazione fondamentale tra produzione e reddito disponibile. Dobbiamo considerare il fatto che una parte del reddito serve a pagare le imposte e che il settore privato, oltre al reddito nazionale, riceve i trasferimenti netti (TR). Quindi il reddito disponibile (YD) è pari al reddito al netto delle imposte, più i trasferimenti: YD ≡ Y + TR – TA
[14]
Inoltre il reddito disponibile viene ripartito tra consumi e risparmio: YD ≡ C + S
7
Per “settore pubblico” intendiamo lo Stato più le amministrazioni locali.
[15]
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Contabilità nazionale
47
Riordinando l’Identità [14] e inserendola al posto di Y nell’Identità [13], abbiamo: YD – TR + TA ≡ C + I + G + NX
[16]
L’unione dell’Identità [15] con l’Identità [16] produce: C + S – TR + TA ≡ C + I + G + NX
[17]
Infine, con qualche riassestamento, otteniamo: S – I ≡ (G + TR – TA) + NX
[18]
2.6.3 Risparmi, investimenti, bilancio pubblico e commercio estero Esaminiamo attentamente l’Identità [18]. Il primo gruppo di termini al secondo membro, (G + TR – TA), corrisponde al disavanzo del bilancio pubblico (BD). G + TR è la spesa pubblica complessiva, che è data dalla somma degli acquisti pubblici di beni e servizi (G) e dei trasferimenti pubblici (TR); TA indica le entrate fiscali della Pubblica Amministrazione. L’espressione (G + TR – TA) rappresenta perciò l’eccesso di spesa rispetto alle entrate del settore pubblico, in altre parole il disavanzo del bilancio pubblico. Il disavanzo di bilancio è un avanzo negativo, BS = TA – (G + TR). L’ultimo termine al secondo membro, NX, indica la differenza tra esportazioni e importazioni, cioè le esportazioni nette di beni e servizi. NX viene anche detto avanzo commerciale se positivo e deficit commerciale se negativo. L’Identità [18] indica quindi che l’eccesso di risparmio rispetto agli investimenti (S – I) nel settore privato è pari alla somma del disavanzo del bilancio pubblico e dell’avanzo della bilancia commerciale. La relazione suggerisce, correttamente, che esistono importanti legami tra l’eccesso di risparmio sugli investimenti privati (S – I), il bilancio pubblico (BD) e il commercio con l’estero (NX). Per esempio, se nel settore privato l’ammontare del risparmio è pari a quello degli investimenti, il disavanzo (l’avanzo) del bilancio pubblico sarà accompagnato da un disavanzo (avanzo) commerciale di pari entità. La Tabella 2.7 chiarisce il significato dell’Identità [18]. Supponiamo che il risparmio del settore privato, S, sia pari a 1000 (in miliardi di euro). Nelle prime due righe ipotizziamo che l’ammontare delle esportazioni sia uguale a quello delle importazioni, per cui il saldo della bilancia commerciale è uguale a zero. Nella prima riga ipotizziamo che il bilancio pubblico sia in pareggio. Di conseguenza gli investimenti dovranno essere pari a 1000. Nella riga sottostante supponiamo che vi sia un disavanzo del
Risparmio (S)
Investimenti (I)
Disavanzo pubblico (BD)
Esportazioni nette (NX)
1000
1000
0
0
1000
850
150
0
1000
900
0
100
1000
950
150
–100
Disavanzo del bilancio pubblico Eccesso di spesa pubblica rispetto alle entrate pubbliche.
Tabella 2.7 Disavanzo pubblico, commercio estero, risparmio e investimento
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Capitolo 2
bilancio pubblico uguale a 150. Dati l’ammontare del risparmio (1000) e il pareggio della bilancia commerciale, ora l’ammontare degli investimenti dovrà necessariamente ridursi di 150. La terza riga mostra come un avanzo commerciale di 100 influisca sugli investimenti, se il bilancio pubblico è in pareggio. Nella quarta riga la bilancia commerciale è in disavanzo e questo equivale a importare risparmio dall’estero per finanziare gli altri settori. In linea generale, i settori che spendono in misura superiore alle proprie entrate devono prendere a prestito denaro per far fronte all’eccesso di spesa. Sono tre i modi in cui, per esempio, il settore delle famiglie può impiegare il suo risparmio. Innanzitutto può concedere prestiti al settore pubblico, che così potrà colmare la differenza tra le proprie uscite e le entrate fiscali. In secondo luogo, può concedere prestiti agli stranieri che acquistano nel nostro Paese più di quanto noi acquistiamo da loro. In seguito a ciò gli stranieri incassano da noi meno denaro rispetto all’ammontare di cui avrebbero bisogno per pagare i beni e servizi acquistati nel nostro Paese; quindi devono contrarre debiti con i nostri risparmiatori. In terzo luogo, la famiglie possono prestare denaro alle imprese, che lo useranno per finanziare i propri investimenti. In tutti e tre i casi i risparmiatori verranno ripagati dopo un certo tempo e, in aggiunta al capitale prestato, riceveranno interessi o dividendi. La Figura 2.4 mette in evidenza per l’Italia l’andamento delle esportazioni nette e il deficit di bilancio del settore pubblico rapportati al PIL. Mentre il saldo della bilancia commerciale ha oscillato intorno allo zero, il deficit annuale del bilancio pubblico è stato molto elevato, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta. Il risultato è stato un forte accumulo del debito pubblico, come mostra la Figura 2.5.
Figura 2.4 Indebitamento netto ed esportazioni nette dell’Italia in percentuale del PIL (Fonte: I.Stat e AMECO, 2019.)
25 20 15 10 5 0 –5 –10 –15 –20 1970
1975
1980
1985
1990
Esportazioni nette/PIL
1995
2000
2005
2010
Indebitamento netto/PIL
2015
2020
1860
1880
1900
1920
1940
1960
1980
2000
2020
Contabilità nazionale
(Fonte: Banca d’Italia.)
Figura 2.5 Italia – Rapporto Debito/PIL
0
20
40
60
80
100
120
140
160
180
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50
Capitolo 2
Riepilogo • Il PIL è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti in un Paese in un determinato periodo di tempo. • Dal punto di vista della produzione, il prodotto interno corrisponde alla somma dei redditi percepiti dai fattori produttivi, principalmente dal lavoro e dal capitale. Dal punto di vista della domanda, il prodotto interno viene consumato o investito dal settore privato, acquistato dal settore pubblico o esportato. • Vale la relazione: Y ≡ C + I + G + NX. • Vale la relazione: C + I + G + NX ≡ Y ≡ YD + + (TA – TR) ≡ C + S + (TA – TR).
• L’eccesso di risparmio rispetto agli investimenti nel settore privato è pari alla somma tra il disavanzo del bilancio pubblico e le esportazioni nette. • Il PIL nominale indica il valore della produzione di un determinato anno ai prezzi di quell’anno, cioè in moneta a valore corrente. • L’inflazione è il tasso di aumento dei prezzi e il livello dei prezzi è il risultato dell’inflazione registrata in passato.
Domande di ripasso 2.1
2.2
Come cambierebbe il PIL se la Pubblica Amministrazione assumesse alle proprie dipendenze un certo numero di lavoratori disoccupati, che finora hanno percepito sussidi di disoccupazione per un ammontare pari a TR€, e li pagasse TR€ per non fare nulla? Spiegate la vostra risposta.
2.3
Spesso gli incrementi del PIL reale vengono considerati segnali di un aumento del benessere; quali problemi pone questa interpretazione? A vostro parere, qual è il problema principale e perché?
2.4
L’IPC e l’IPP servono entrambi a misurare il livello dei prezzi; in che cosa differiscono? In quali casi si può dire che uno dei due indici dei prezzi è preferibile all’altro?
2.5
Che cos’è il deflatore del PIL e in che modo differisce dall’indice dei prezzi al consumo e dall’indice dei prezzi alla produzione? In quali casi può essere più utile dell’IPC e dell’IPP per misurare l’inflazione?
2.6
Se vi svegliaste una mattina e scopriste che da un giorno all’altro il PIL nominale è raddoppiato, quali dati fareste bene a controllare prima di farvi prendere dall’entusiasmo? Perché?
Per ciascuno dei seguenti comportamenti spiegate gli effetti sui conti economici nazionali. a. Un’azienda acquista un’automobile per un dirigente invece di aggiungere al compenso del dirigente il denaro necessario per l’acquisto dell’automobile. b. Assumete vostra moglie o vostro marito perché esegua i lavori domestici, invece di farglieli fare senza alcun compenso. c. Decidete di acquistare un’automobile italiana invece di un’automobile tedesca.
Problemi 2.1
Soluzioni dei problemi sul sito web dedicato al volume
Calcolate gli indici dei prezzi di Laspeyres e Paasche sulla base dei dati indicati nella tabella sottostante: Anno 1
Anno 2
Quantità
Prezzo
Quantità
Prezzo
100 130 60
150 100 200
110 145 55
180 80 250
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Contabilità nazionale
2.2
Calcolate il PIL a prezzi costanti (Y) e l’indice implicito dei prezzi (IP) o deflatore del PIL nell’anno 2 in un’economia composta da tre beni finali sulla base dei seguenti dati: Anno 1 Quantità Prezzo 90 110 40
161 96 216
Anno 2 Quantità Prezzo 86 124 38
172 95 212
2.3
Sulla base dei concetti di contabilità nazionale di cui al Paragrafo 2.6, dimostrate che: a. un aumento delle imposte (nell’ipotesi che i trasferimenti rimangano costanti) implica necessariamente una variazione delle esportazioni nette, della spesa pubblica in beni e servizi o della differenza tra risparmio e investimenti; b. un aumento del reddito disponibile deve necessariamente essere accompagnato da un aumento dei consumi o da un aumento del risparmio.
2.4
I seguenti dati sono tratti dai conti economici di un’ipotetica nazione. PIL Investimenti lordi Investimenti netti Consumi Acquisti pubblici di beni e servizi Avanzo di bilancio pubblico
6000 800 200 4000 1100 30
Calcolate a quanto ammontano: a. il PIN; b. le esportazioni nette; c. la differenza tra imposte e trasferimenti; d. il reddito disponibile; e. il risparmio. 2.5
Ipotizzate che il PIL sia pari a 6000, il reddito disponibile a 5100 e il disavanzo di bilancio pubblico a 200. Supponete inoltre che i consumi ammontino a 3800 e il deficit commerciale a 100. a. Qual è il valore del risparmio (S )? b. A quanto ammontano gli investimenti (I )? c. A quanto ammonta la spesa pubblica in beni e servizi (G )?
2.6
Se in uno Stato la remunerazione complessiva del lavoro è pari a 6 miliardi di euro, la remunerazione del capitale è pari a 2 miliardi di euro, a quanto ammonterà la produzione?
2.7
Immaginate un sistema economico costituito esclusivamente da persone che fanno il pane e persone che producono gli ingredienti a ciò necessari. Supponete che il prodotto interno di questo sistema economico sia così composto: 1 milione di filoni di pane (venduti a 2 euro l’uno); 500 000 kg di farina (venduta a 1 euro/kg) e 50 000 kg ciascuno di lievito, zucchero e sale (tutti venduti a 1 euro/kg). Farina, lievito, zucchero e sale vengono venduti solo ai fornai, che li usano esclusivamente per fare il pane. a. A quanto ammonta il prodotto interno (vale a dire il PIL nominale) di questo sistema economico? b. Qual è il valore aggiunto dai fornai a farina, lievito, zucchero e sale?
2.8
Supponete che in un Paese l’IPC aumenti da 210 a 230 nel corso di un anno; calcolate il tasso d’inflazione relativo a quell’anno. Perché l’indice dei prezzi al consumo potrebbe sovrastimare l’inflazione?
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Capitolo 2
Mappa concettuale
Capitolo 1 Introduzione
Paragrafo 2.1 Produzione e remunerazione dei fattori produttivi
Paragrafo 2.2 Conti economici del Paese
Paragrafo 2.3 Misurazione del PIL e degli altri aggregati dei conti nazionali
Paragrafo 2.4 PIL nominale e PIL reale
Paragrafo 2.5 Stime degli input di lavoro e di capitale
Capitolo 7 Legami economici internazionali
Capitolo 11 Consumo e risparmio Capitolo 12 Spesa per investimenti
Capitolo 3 Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
Capitolo 16 Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico Capitolo 17 Teoria neoclassica e contabilità della crescita
Capitolo 4 Reddito e spesa Paragrafo 2.6 Alcune importanti identità
Capitolo 5 Moneta, interesse e reddito Capitolo 7 Legami economici internazionali
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Capitolo 3
Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali Obiettivi di apprendimento • La crescita economica dipende dall’aumento degli input di lavoro e capitale e dai miglioramenti della tecnologia. • I costi della disoccupazione, soprattutto in termini di beni non prodotti, sono molto elevati. • I costi dell’inflazione attesa sono molto ridotti, per lo meno se essa si mantiene entro i livelli che si registrano di norma nei Paesi industrializzati.
• L’inflazione non attesa, che può avere costi piuttosto rilevanti, incide per lo più sulla distribuzione della ricchezza: c’è chi ne trae vantaggio e chi ne viene danneggiato. • Il tasso frizionale di disoccupazione e il tasso di disoccupazione ciclica variano molto da Paese a Paese e da una categoria lavorativa all’altra.
3.1 Crescita economica I nostri redditi sono di gran lunga più elevati di quelli dei nostri antenati; gli abitanti dei Paesi industrializzati sono molto più ricchi di coloro che vivono nei Paesi in via di sviluppo; addirittura, il reddito di cui disponevano i cittadini degli Stati Uniti e molti europei un secolo fa era più elevato del reddito di cui dispongono attualmente gli abitanti delle nazioni più povere. Come si spiegano queste enormi differenze? Da che cosa dipenderà il nostro tenore di vita in futuro? A questi interrogativi rispondono la contabilità della crescita e la teoria della crescita. La contabilità della crescita indica in che misura i diversi fattori della produzione (capitale, lavoro ecc.) contribuiscono all’incremento della produzione totale. La teoria della crescita, come abbiamo già osservato nel Capitolo 1, ci aiuta a capire in che modo le decisioni economiche influiscono sull’accumulazione dei fattori produttivi. Esamineremo più in dettaglio questi temi nei Capitoli 16 e 17. Qui introduciamo l’argomento definendo innanzitutto che cosa si intende per “crescita economica”, analizzando come essa trasforma il modo di produrre e di vivere dei cittadini e fornendo una panoramica sulle differenze di tenore di vita che si riscontrano oggi nel mondo.
Contabilità della crescita Misura la correlazione tra l’accumulazione dei fattori produttivi e la dinamica del PIL.
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Capitolo 3
Simon Kuznets, premio Nobel per l’economia nel 1971 e uno dei padri fondatori della branca dell’economia che studia lo sviluppo economico, ha dato la seguente definizione: “La crescita economica di un Paese può essere definita come un aumento, sostenuto nel tempo, della capacità di fornire beni economici sempre più differenziati alla popolazione. Questa crescente capacità si basa sul progresso tecnologico e sugli adattamenti istituzionali e ideologici che esso comporta”.1
L’aumento dell’offerta dei beni è il risultato della crescita economica, attraverso il quale essa viene misurata. Ma non è solo la quantità che conta: la diversificazione crescente di beni permette di renderli sempre più appropriati e adatti a soddisfare i bisogni di singoli individui o di gruppi di persone con specifiche esigenze e caratteristiche. Il progresso tecnologico è il fattore permissivo ma, come sottolinea Kuznets, è solo una potenzialità, una condizione necessaria ma non sufficiente. Per sfruttare appieno le opportunità offerte dal progresso tecnologico e per crearne di nuovo la società deve continuamente adattare le proprie istituzioni e i propri schemi di pensiero. I moderni modi di produrre sono incompatibili con la schiavitù, la mancanza di istruzione, la famiglia allargata o una popolazione sparsa nelle campagne, che hanno caratterizzato per secoli l’organizzazione delle società umane. Progresso tecnico e innovazioni hanno ovviamente da sempre caratterizzato lo sviluppo delle società umane. Quello che distingue lo sviluppo economico moderno, che comincia a delinearsi in Europa nel XVI secolo e che subisce una forte accelerazione verso la metà del XVIII secolo (con la rivoluzione industriale inglese) è la centralità della ricerca sistematica di metodi di produzione più efficienti e di nuovi prodotti come principi ispiratori dell’attività economica. Kuznets attribuisce allo sviluppo economico moderno alcune caratteristiche, che lo distinguono dalle epoche precedenti. Due sono di carattere quantitativo, due di carattere strutturale e due si riferiscono alla diffusione internazionale della crescita economica. Esaminiamole una per una. 3.1.1 Caratteristiche quantitative La prima caratteristica distintiva è l’accelerazione nella crescita del PIL pro capite (Figura 3.1). Nell’Europa occidentale2 la quantità media di beni e servizi per abitante è aumentata di 18 volte nei quasi duecento anni che ci separano dal 1820, contro 1,5 volte del periodo compreso tra il 1500 e il 1820. Ancora più spettacolare è stata la crescita degli Stati Uniti, dal 1870 il leader mondiale dello sviluppo: dal 1820 a oggi il reddito medio dei cittadini statunitensi è aumentato di circa 25 volte. L’Italia, uno dei Paesi che, secondo queste ricostruzioni, durante il Rinascimento aveva uno dei redditi pro capite più alti d’Europa e che nell’Ottocento aveva avuto una crescita più lenta di quella di molti altri Paesi europei, ha sperimentato una prima accelerazione verso la fine dell’Ottocento e una seconda, molto più robusta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, in particolare tra il 1950 e il 1973, durante il cosiddetto “miracolo economico italiano”. Negli ultimi venti anni la crescita italiana ha rallentato progressivamente ed è stata inferiore alla media europea. 1
Kuznets S., Lo sviluppo economico moderno, risultati e riflessioni, in Castellino O. (a cura di), Popolazione, tecnologia, sviluppo, Il Mulino, Bologna 1990. 2 L’aggregato Europa Occidentale comprende i seguenti 12 paesi: Austria, Belgio, Svizzera, Danimarca, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Finlandia, Norvegia e Svezia.
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
Figura 3.1 Livelli di PIL pro capite (dollari internazionali del 2011)
60 000
55 000
(Fonte: Maddison Project Database, version 2018. Bolt, Jutta, Robert Inklaar, Herman de Jong e Jan Luiten van Zanden (2018), “Rebasing ‘Maddison’: new income comparisons and the shape of long-run economic development”.)
40 000
30 000
20 000
10 000
0
55
1000
1500
1600
1700
1820
Italia
1870
1913
1950
Europa occidentale*
1973
1992
2007
2016
Stati Uniti
* L'aggregato Europa Occidentale comprende i seguenti 12 paesi: Austria, Belgio, Svizzera, Danimarca, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Finlandia, Norvegia e Svezia.
La crescita del PIL pro capite è stata accompagnata, in tutti i Paesi, da un forte aumento della popolazione (Figura 3.2). L’aumento è particolarmente rilevante nell’Ottocento: tra il 1820 e il 1913 la popolazione dell’Europa occidentale raddoppia e quella degli Stati Uniti, anche a causa dei grandi flussi migratori dall’Europa, decuplica. L’aumento della popolazione continua nel XX secolo ma il grafico mostra chiaramente una decelerazione negli ultimi decenni, sia in Europa occiden-
Figura 3.2 Popolazione (in milioni)
400 350
(Fonte: Maddison Project Database, version 2018, op. cit.)
300 250 200 150 100 50 0 1000
1500
1600
1700
1820 Italia
1870
1913
1950
Europa occidentale
1973 Stati Uniti
1992
2007
2016
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Capitolo 3
Figura 3.3 Tassi di natalità e di mortalità della popolazione svedese, 1736-1987 (per 1000 abitanti) (Fonte: Maddison A., The World Economy: A Millenium Perspective, OECD, Paris 2001.)
50
40
Tassi di natalità 30
20
Tassi di mortalità
10
0 1740
1760
1780
1800
1820
1840
1860
1880
1900
1920
1940
1960
1980
tale sia negli Stati Uniti. Il fenomeno della crescita accelerata della popolazione nelle prime fasi dello sviluppo economico moderno e di un successivo rallentamento nelle fasi di maturità prende il nome di transizione demografica. La Figura 3.3 illustra il processo di transizione demografica per un Paese dell’Europa occidentale, la Svezia. Nelle fasi precedenti lo sviluppo i tassi di natalità e di mortalità (soprattutto la mortalità infantile) sono alti e molto vicini tra di loro cosicché la popolazione cresce lentamente. Con l’accelerazione nella crescita del reddito e l’associato miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie, il tasso di mortalità comincia a cadere mentre il tasso di natalità rimane alto, a causa delle convenzioni sociali e religiose legate alla riproduzione. Il gap tra i due tassi si traduce in un rapido incremento della popolazione. Nel tempo, tuttavia, i tassi di natalità cominciano a declinare avvicinandosi sempre più ai ridotti tassi di mortalità e la crescita della popolazione rallenta. In effetti in diversi Paesi europei, compresa l’Italia, il saldo naturale (differenza fra nascite e morti) è diventato negativo e la residua crescita della popolazione è dovuta esclusivamente ai flussi migratori. Un’altra caratteristica dello sviluppo economico moderno è l’aumento costante della speranza di vita alla nascita. Se nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento esso era dovuto soprattutto alla diminuzione della mortalità infantile, negli ultimi decenni è stato guidato da una crescente longevità delle persone anziane, dovuta a modelli di vita più salutari e al progresso delle scienze mediche nel controllo delle malattie tipiche della vecchiaia. La seconda caratteristica quantitativa è la crescita della produttività, vale a dire dell’output per unità di input, sia che prendiamo in considerazione il fattore più importante, il lavoro, sia che consideriamo tutti gli input. Nel primo caso parliamo di produttività del lavoro, mentre nel secondo caso ci riferiamo alla produttività totale dei fattori. Analizzeremo il concetto e le stime empiriche della produttività totale dei fattori quando studieremo la contabilità della crescita, nel Capitolo 17.
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
Figura 3.4 PIL per ora lavorata (tassi di crescita medi annui)
7 6
(Fonte: Maddison A., op. cit.; The Conference Board Total Economy Database, aprile 2019.)
5 4 3 2 1 0 1870-1913
1913-50
Italia
1950-73
Europa occidentale
1973-92
1992-2018
Stati Uniti
Qui ci occuperemo dell’andamento della produttività del lavoro e dell’input di lavoro nel corso dello sviluppo. La Figura 3.4 mostra che la produttività media del lavoro è cresciuta, nei periodi esaminati, tra l’1 e il 2% all’anno in tutte e tre le aree prese in considerazione, con la notevole eccezione del periodo 1950-73 dove in Europa e soprattutto in Italia è cresciuta a tassi più che doppi di quelli di lungo periodo. Ritorneremo su questo punto più avanti, quando parleremo della convergenza. L’input di lavoro, qui inteso come ore mediamente lavorate all’anno per abitante, mostra invece una tendenza continua alla diminuzione (Figura 3.5). La riduzione è sostenuta fino al 1950 e molto più lenta nell’ultimo sessantennio. In altri termini, possiamo dire che l’aumento della produttività ha reso possibile un reddito pro capite più elevato e che questo risultato è stato ottenuto dalla popolazione con un minor sforzo, almeno in termini di ore annue dedicate al lavoro. Le ore di lavoro per abitante possono essere scomposte in due componenti: il numero di persone occupate nella produzione del PIL per 100 abitanti (tasso di occupazione) e le ore che ciascun occupato in media dedica ogni anno al lavoro. L’andamento di queste due variabili è riportato nelle Figure 3.6 e 3.7. I tassi di occupazione nel complesso non mostrano una grande variabilità nel tempo, se si eccettua una “sella” tra il 1950 e il 1973. In realtà, questa apparente stabilità nasconde profonde trasformazioni nella composizione dell’occupazione. Nel corso del processo di crescita diminuisce il contributo delle classi di età giovani, a causa dell’estensione della scolarità, e anziane, per l’affermarsi dei sistemi di welfare. L’occupazione tende quindi a concentrarsi nelle classi centrali di età. La seconda caratteristica riguarda il contributo delle donne al processo di produzione. Nelle fasi iniziali, quando il peso dell’agricoltura era alto e l’economia era ancora organizzata su imprese di carattere familiare, il contributo delle donne, almeno nei Paesi occidentali, tendeva a essere elevato. Nelle fasi intermedie di industrializzazione in genere tende a diminuire. Nelle economie mature la diminuzione della natalità e l’estensione dei servizi ripor-
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Capitolo 3
Figura 3.5 Input di lavoro (ore lavorate per abitante)
1600 1400
(Fonte: Maddison A., op. cit., The Conference Board Total Economy Database, aprile 2019.)
1200 1000 800 600 400 200 0 1870
1913
1950
Italia
1973
Europa occidentale
2000
2018
Stati Uniti
Figura 3.6 Tassi di occupazione 60
(Fonte: Maddison A., op. cit., The Conference Board Total Economy Database, aprile 2019.)
50
40
30
20
10
0 1870
1913
1950
Italia
1973
Europa occidentale
2000
2018
Stati Uniti
ta nel mercato del lavoro un numero crescente di donne. L’aumento del tasso di occupazione che si registra nelle tre aree dopo il 1973 è dovuto in larga misura alla componente femminile. Se la percentuale di popolazione che si dedica ad attività produttive non è cambiata molto nel corso del tempo, pur con le importanti qualificazioni che abbiamo visto
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
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Figura 3.7 Ore annue di lavoro per occupato
3500 3000
(Fonte: Maddison A., op. cit., The Conference Board Total Economy Database, aprile 2019.)
2500 2000 1500 1000 500 0 1870
1913
1950
Italia
1973
Europa occidentale
2000
2018
Stati Uniti
sopra, ben diverso è il discorso per quanto riguarda il numero di ore lavorate per occupato. In questo caso la diminuzione è stata drastica, quasi un dimezzamento nel secolo compreso tra il 1870 e il 1973, seguito da una sostanziale stabilizzazione negli ultimi decenni. L’estendersi del lavoro dipendente, l’affermarsi dei contratti collettivi e, più di recente, la crescita del lavoro a tempo parziale sono tra le cause principali di questa diminuzione del carico di lavoro per occupato. 3.1.2 Caratteristiche strutturali La crescita economica moderna comporta profonde trasformazioni della struttura economica. Tra queste vanno ricordate la diminuzione della quota (in termini di addetti e di valore aggiunto) dell’agricoltura a favore dell’industria e in seguito dei servizi (Tabella 3.1), il passaggio da piccole imprese di carattere familiare a grandi società di capitale gestite in forma manageriale e il connesso incremento del lavoro dipendente rispetto al lavoro autonomo. Altri aspetti delle trasformazioni strutturali includono i mutamenti nella composizione dei consumi, con la perdita di peso relativo, al crescere del reddito, dei consumi alimentari (“legge di Engel”), l’espansione dei servizi di istru-
1881
1911
1951
1971
2017
Agricoltura
56,8
55,4
43,9
18,6
3,6
Industria
25,9
25,5
29,5
38,1
26,3
Servizi
17,4
19,1
26,7
43,2
70,1
Totale
100
100
100
100
100,0
Tabella 3.1 Quote dell’occupazione per settori (Italia, anni vari) (Fonti: Vitali O., Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva, Collana dell'Istituto di Demografia dell'Università di Roma, n. 20, 1970; Banca d’Italia, Occupati presenti in Italia 1951-65; ISTAT, Mercato del lavoro 2018.)
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Capitolo 3
Tabella 3.2 Tassi di urbanizzazione (percentuale di popolazione in centri superiori a 10 000 abitanti) (Fonti: Maddison A., op. cit.; World Bank, World Development Indicators, 2019.)
Regno Unito
Italia
Giappone
Cina
1500
3,1
14,9
2,9
3,8
1800
20,3
18,3
12,3
3,8
1890
61,9
21,1
16,0
4,4
1960
78,4
60,0
62,0
16,0
2018
83,3
70,4
91,6
59,2
zione, sanità e più in generale servizi alla persona, la variazione del mix tra beni prodotti all’interno e beni di importazione. Altrettanto significativi sono i mutamenti delle strutture sociali, dei costumi e dei modi di pensare. L’urbanizzazione (Tabella 3.2) e la secolarizzazione sono aspetti importanti e significativi del processo di modernizzazione, così come il passaggio dalla famiglia patriarcale alla famiglia nucleare e il mutamento del ruolo delle donne nell’economia e nella società.
Ipotesi della convergenza Ipotesi in base alla quale, sotto certe condizioni, un Paese ritardatario ha la possibilità di crescere più rapidamente del Paese leader.
Tabella 3.3 PIL pro capite (Stati Uniti = 100) (Fonti: Maddison Project Database, version 2018, op. cit.)
3.1.3 Diffusione internazionale dello sviluppo La crescita economica moderna, iniziata in Europa e diffusasi nei Paesi oltremare a popolazione prevalentemente europea e in particolare anglosassone (Stati Uniti, Canada e Australia), ha mostrato due tendenze divergenti in termini di diffusione al resto del mondo. I Paesi sviluppati hanno sempre più proiettato i loro modelli di vita verso le altre società creando effetti di imitazione e suscitando aspirazioni che hanno reso il mondo sempre più omogeneo. La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha fortemente contribuito a questo risultato. Sotto il profilo economico, tuttavia, lo sviluppo ha stentato a lungo a diffondersi al di là dei Paesi che abbiamo menzionato, con la notevole eccezione del Giappone. Il risultato è stato l’aprirsi di un divario crescente, in termini di reddito pro capite, tra i Paesi sviluppati e il resto del mondo, come è facile vedere dalla Tabella 3.3. I motivi della mancata diffusione dello sviluppo a tutte le società umane per un periodo così lungo ha attirato e attira tuttora l’attenzione di economisti, di politici e dell’opinione pubblica in generale, che stenta a capacitarsi dell’esistenza contemporanea di società ricche e opulente vicino a società poverissime in cui di tanto in tanto si riaffaccia lo spettro delle carestie. Molte ipotesi sono state avanzate per cercare di spiegare questo fenomeno, dallo sfruttamento coloniale che ha avvantaggiato i Paesi ricchi a scapito dei Paesi poveri, allo scarso sviluppo dell’istruzione, alle politiche economiche sbagliate messe in atto dai governi dei Paesi in via di sviluppo. Qui accenneremo a un tentativo di spiegazione generale, l’ipotesi della convergenza, sviluppata da Moses Abramovitz e Paul A.
Europa occidentale
1870
1913
1950
1973
1998
2016
66
61
40
63
70
76
31
31
47
18
37
Europa orientale America Latina
25
22
20
23
20
25
Asia Orientale
22
14
8
8
10
19
10
12
7
9
Africa
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
David,2 due dei massimi esperti internazionali dello sviluppo. Nei Capitoli 16 e 17 approfondiremo l’argomento e in particolare il ruolo dell’istruzione, quando studieremo i modelli di crescita. Abramovitz e David partono dalla constatazione che, coeteris paribus, un Paese povero ha più probabilità di crescere rapidamente di quante non ne abbia un Paese ricco. Un Paese alla frontiera dello sviluppo, che usa già le migliori tecnologie disponibili, per crescere ulteriormente deve creare nuovo progresso tecnologico, vale a dire “ricette” ancora più efficienti per produrre i beni che già produce o per produrne di nuovi, e questo è un processo costoso (bisogna investire risorse in ricerca) e rischioso, nel senso che i risultati non sono garantiti a priori. Un Paese povero, al contrario, si trova a disporre di tutta la gamma delle tecnologie sviluppate dai Paesi ricchi. Se adotta queste tecnologie e i relativi modelli organizzativi, può quindi ottenere grandi guadagni di produttività e di reddito pro capite. Gli Autori in particolare citano quattro motivi per cui un Paese ritardatario può crescere più rapidamente del Paese leader: • in un Paese ritardatario il capitale fisico è vecchio e obsoleto da un punto di vista tecnologico. Se lo si sostituisce con capitale che incorpora gli ultimi ritrovati della tecnologia, il potenziale di crescita della produttività è molto elevato. Un discorso analogo vale per l’adozione di modelli organizzativi più efficienti; • un Paese povero ha un basso livello di capitale per addetto e i rendimenti di tale fattore sono pertanto elevati. Ciò costituisce un incentivo ad aumentare la dotazione di capitale, specie se si considera che il nuovo capitale è più efficiente; • nei Paesi in via di sviluppo molte persone sono impiegate in occupazioni marginali nell’agricoltura e nei piccoli servizi. Lo spostamento di questi occupati nell’industria e nei servizi a più alto valore aggiunto contribuisce alla crescita della produttività media del sistema economico; • la crescita del reddito pro capite dovuta alle tre cause precedenti allarga le dimensioni del mercato dei beni e servizi e rende più conveniente l’adozione di metodi di produzione di massa, contribuendo ulteriormente alla crescita della produttività e del reddito. I vantaggi dell’arretratezza sono tuttavia un potenziale, una possibilità che si realizza solo se l’unica differenza tra Paesi poveri e Paesi ricchi è il livello di produttività. Nella realtà possono esistere altre cause che differenziano i Paesi sviluppati da quelli in via di sviluppo, cause che impediscono a questi ultimi di attingere con successo allo stock di conoscenze tecnologiche e organizzative disponibili. Queste cause possono essere divise in due grandi categorie: congruenza tecnologica e capacità sociale. La congruenza tecnologica sta a significare che le tecnologie messe a punto dai Paesi sviluppati devono essere adatte alle caratteristiche del Paese inseguitore. Ma in molti casi questo può non verificarsi: per esempio le tecnologie di produzione di massa necessitano di grandi mercati di sbocco. Un piccolo Paese generalmente non ha un grande mercato interno e quindi difficilmente potrà utilizzare queste tecnologie, a meno che non riesca a esportare buona parte della produzione. In altri casi possono essere la mancanza di una materia prima essenziale, la difficoltà, a causa dell’orogra-
2
Abramovitz M., David P.A., “Convergenza e ritardo nella rincorsa: leadership produttiva e declino del vantaggio americano”, in Gruppo di Ancona (a cura di), Trasformazioni dell’economia e della società italiana, studi e ricerche in onore di Giorgio Fuà, Il Mulino, Bologna 1999.
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Capitolo 3
fia del Paese, a costruire efficienti reti di comunicazione, oppure la lontananza dai mercati internazionali o ancora la struttura della domanda interna a creare impedimenti nell’adozione delle tecnologie più efficienti. L’altro insieme di limiti che può ritardare il processo di inseguimento dei Paesi ritardatari riguarda la capacità sociale. Con questo termine si intende una vasta gamma di caratteristiche, quali il livello di istruzione e di qualificazione della popolazione, la qualità delle istituzioni commerciali, industriali e finanziarie che sono necessarie per gestire le attività moderne, l’assetto giuridico e le istituzioni politiche. La capacità sociale comprende anche il sistema dei valori sociali e religiosi della popolazione, le sue aspirazioni e l’atteggiamento verso la remunerazione del rischio e del merito e la mobilità sociale. Queste cause hanno ritardato a lungo lo sviluppo in Asia, Africa e America Latina. Considerando che questi Paesi hanno avuto una transizione demografica ritardata e accelerata, si è creato progressivamente un fossato profondo tra una parte della popolazione mondiale sempre più ricca e una quota crescente di poveri. Negli ultimi 20 anni tuttavia una serie di Paesi, soprattutto asiatici, ha iniziato una rincorsa accelerata. In particolare la crescita dell’India e della Cina (i due Paesi più popolosi del mondo) ha, per la prima volta in più di due secoli, trasformato la tendenza secolare alla divergenza in una tendenza alla convergenza.3 A sua volta, la diffusione della crescita a masse enormi di popolazione ha amplificato i timori sulla sostenibilità ambientale dello sviluppo mondiale. È indubbio tuttavia che la ricerca di politiche economiche che assicurino alla popolazione un livello di prosperità crescente nel lungo periodo è diventata, come abbiamo osservato nel Capitolo 1, uno degli obiettivi prioritari dei governi.
3.2 Input di lavoro e disoccupazione Nel paragrafo precedente abbiamo visto come nel corso dello sviluppo di lungo periodo l’input di lavoro, inteso come numero di ore lavorate all’anno per abitante, tenda a diminuire e come questo fenomeno sia dovuto più a una diminuzione del numero di ore lavorate per occupato che a una variazione dei tassi di occupazione. Certo questi ultimi oscillano anche notevolmente e l’esperienza storica conferma che tendono a diminuire nelle fasi intermedie dello sviluppo (durante il passaggio da economie prettamente agricole a economie industriali) per poi tornare a crescere nelle economie mature. Qui approfondiremo l’argomento esaminando l’andamento dell’input di lavoro nel breve e medio periodo e parleremo in modo particolare della disoccupazione. Iniziamo dicendo che la crescita del PIL reale non procede in modo uniforme ma per fasi cicliche di espansione e di recessione. Si parla di recessione quando i livelli di attività produttiva sono più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando completamente e in maniera efficiente tutti i fattori produttivi a disposizione. Durante le fasi di contrazione la domanda di lavoro diminuisce e una quota di occupati perde il posto di lavoro entrando nella condizione di disoccupati. La disoccupazione ha dei costi economici e sociali4 e questo impegna i governi, attraverso le politiche economiche, a ridurne per quanto possibile la portata.
3 Sala-i-Martin X., “The Disturbing Rise of Global Income Inequality”, NBER Working Paper, n. 8904, 2002. 4 Si veda Darity W., Goldsmith A., “Social Psychology, Unemployment and Macroeconomics”, Journal of Economic Perspectives, inverno 1996.
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
Figura 3.8 Legge di Okun: relazione tra disoccupazione e crescita del PIL
10 Tasso di crescita del PIL reale (%)
63
8
(Fonti: Bureau of Labor Statistics; Bureau of Economic Analysis.)
6 4 2 0 –2 –4 –3
–2
–1
0
1
2
3
4
Variazione del tasso di disoccupazione (%)
Il principale costo economico della disoccupazione è la perdita di produzione: chi non riesce a trovare un lavoro non produce, quindi la disoccupazione riduce la quantità di beni a disposizione della collettività. La perdita di produzione ha un costo notevole: una recessione può far perdere dal 3 al 5% del PIL potenziale. Negli anni Sessanta Okun ha evidenziato una relazione empirica tra disoccupazione e livello di produzione: la legge di Okun afferma che, per ogni punto di aumento della disoccupazione, il PIL diminuisce del 2%. La Figura 3.8, nella quale il tasso di crescita del PIL reale è rappresentato in funzione dell’andamento del tasso di disoccupazione, dimostra che la legge di Okun descrive correttamente la relazione tra disoccupazione e prodotto interno lordo per gli Stati Uniti. La disoccupazione inoltre incide notevolmente sulla distribuzione del reddito e i suoi costi sono ripartiti in modo tutt’altro che omogeneo. In altre parole, i costi di una recessione ricadono prevalentemente sulle persone che rimangono senza lavoro. Per esempio, gli studenti universitari che hanno la sfortuna di laurearsi in un periodo di recessione incontrano forti difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro; se invece gli stessi studenti si fossero laureati in un periodo di espansione, l’inizio della loro carriera sarebbe stato molto più semplice. Coloro che sono alla ricerca della prima occupazione e i lavoratori più giovani sono tra le categorie maggiormente esposte al rischio di un aumento della disoccupazione. 3.2.1 Indagini sul mercato del lavoro: definizioni e metodologia Per analizzare il mercato del lavoro e la disoccupazione, è opportuno partire dalla Tabella 3.4, dalla quale risulta che nel 2018 in Italia le persone di 15 anni e più erano circa 52 milioni, il 50% delle quali appartenenti alle forze di lavoro. L’entità delle forze di lavoro viene determinata mediante indagini statistiche trimestrali ed è data dal numero di persone che dichiarano di essere occupate e di quelle che dichiarano di essere alla ricerca di un lavoro (disoccupati).
Legge di Okun “Legge” empirica che mette in relazione la crescita del PIL alle variazioni della disoccupazione; prende il nome dal suo scopritore, Arthur Okun.
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Capitolo 3
Tabella 3.4 Popolazione e forze di lavoro in Italia (media 2018, valori assoluti in migliaia)
Valori assoluti (migliaia)
Popolazione di 15 anni e più
(Fonte: I.Stat, 2019.)
52 027
Forze lavoro
25 970
Occupati
23 215
Disoccupati Forze lavoro potenziali Non cercano e non disponibili Popolazione 0-14 Popolazione totale
2755 3021 23 036 8065 60 092
Gli occupati comprendono le persone di 15 anni e più che alla domanda sulla condizione professionale rispondono: • di possedere un’occupazione, anche se nella settimana di riferimento non hanno svolto attività lavorativa (occupati dichiarati); • di essere in una condizione diversa da occupato, ma di aver effettuato ore di lavoro nella settimana di riferimento (altre persone con attività lavorativa). I disoccupati comprendono le persone di 15 anni e più che dichiarano: • • • •
una condizione professionale diversa da occupato; di non aver effettuato ore di lavoro nella settimana di riferimento dell’indagine; di essere alla ricerca di un lavoro; di aver effettuato almeno un’azione di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la rilevazione; • di essere immediatamente disponibili ad accettare un lavoro, qualora venga loro offerto. Le forze di lavoro potenziali comprendono: gli individui che non cercano attivamente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare; le persone che cercano lavoro ma non sono subito disponibili. Le non forze di lavoro comprendono: • i giovani fino ai 15 anni che per legge non possono svolgere un lavoro retribuito dovendo adempiere agli obblighi scolastici; • le persone in età di lavoro che non hanno e non cercano un’attività lavorativa, per esempio gli studenti a tempo pieno, le casalinghe e i cosiddetti “lavoratori scoraggiati” (vale a dire le persone che vorrebbero lavorare ma hanno smesso di cercare un impiego); • le persone di età superiore ai 64 anni che hanno dichiarato di non avere o di non cercare un lavoro. Nel linguaggio corrente, piuttosto che ai valori assoluti, spesso è più utile far riferimento ai tassi, ovvero al rapporto percentuale tra le variabili oggetto di indagine. • Tasso di attività: rapporto tra le forze di lavoro e la corrispondente popolazione di riferimento. • Tasso di occupazione: rapporto tra gli occupati di 15 anni e più e la corrispondente popolazione di riferimento.
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
• Tasso di disoccupazione: rapporto tra le persone in cerca di occupazione di 15 anni e più e le corrispondenti forze di lavoro. • Tasso di inattività: rapporto tra le persone non appartenenti alle forze di lavoro di 15 anni e più e la corrispondente popolazione di riferimento.
3.2.2 Bacino della disoccupazione In qualunque momento esiste un determinato numero di persone disoccupate, che costituiscono il cosiddetto bacino della disoccupazione; tale bacino è caratterizzato da un flusso in entrata e uno in uscita. Le ragioni per cui un individuo può essere considerato appartenente alla categoria dei disoccupati sono quattro: 1. può essere alla ricerca della prima occupazione e quindi entrare a far parte per la prima volta della forza lavoro, oppure può rientrarci riprendendo a cercare un impiego dopo non averlo fatto per oltre quattro settimane; 2. può darsi che abbia lasciato volontariamente il suo impiego precedente e stia cercando una nuova occupazione; 3. può darsi che sia stato allontanato temporaneamente dal suo posto di lavoro, perché in esubero, e stia aspettando di essere richiamato; 4. può aver perso l’impiego, o perché licenziato, o perché l’impresa presso cui lavorava ha cessato l’attività. I modi in cui un individuo può uscire dal bacino della disoccupazione sono essenzialmente tre: 1. può trovare un (nuovo) impiego; 2. può essere richiamato al proprio posto di lavoro, dopo essere stato temporaneamente sospeso; 3. può smettere di cercare un impiego e quindi, per definizione, uscire dalla forza lavoro. Il concetto di “bacino della disoccupazione” aiuta a comprendere le variazioni del livello di occupazione: la disoccupazione aumenta quando il flusso in entrata è più consistente del flusso in uscita. Quindi, a parità di altre condizioni, un aumento del numero di dimissioni e di sospensioni temporanee fa crescere la disoccupazione, così come un incremento dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro. La relazione tra disoccupazione e prodotto indicata dalla legge di Okun è valida in prima approssimazione, ma in realtà la dinamica del rapporto tra disoccupazione e prodotto è più complessa. Consideriamo le ripercussioni di una recessione sull’impiego di manodopera. Inizialmente le imprese riducono le ore di lavoro per dipendente (per esempio vietando gli straordinari) e solo in un secondo momento cominciano a ridurre il personale. A questo punto i licenziamenti e le sospensioni temporanee aumentano e, di conseguenza, la disoccupazione cresce. Tuttavia, contemporaneamente le dimissioni volontarie diminuiscono, in quanto i lavoratori si rendono conto che non è opportuno lasciare la propria occupazione in questo periodo. Se la recessione si protrae, molti disoccupati si scoraggeranno e smetteranno di cercare lavoro, cosicché il tasso di disoccupazione ufficiale risulterà inferiore a quello effettivo. Per tutte queste ragioni, in genere le variazioni del tasso di disoccupazione avvengono più tardi rispetto alle variazioni della produzione.
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Capitolo 3
3.2.3 Tasso di disoccupazione (e di attività) a seconda del gruppo di lavoratori considerato e dell’area geografica di appartenenza In ogni periodo esiste un certo livello di disoccupazione o, se lo si indica come percentuale della forza lavoro, un determinato tasso di disoccupazione. Per esempio, nel 2018 in Italia il tasso di disoccupazione medio annuo è stato pari al 10,6%. Dietro questo dato complessivo si celano tuttavia valori molto disomogenei in relazione a diversi segmenti della popolazione. La Tabella 3.5 ne fornisce una sintetica dimostrazione. Esaminiamone le caratteristiche principali. • I tassi di disoccupazione femminili sono sempre più elevati dei corrispondenti tassi maschili; • i tassi di disoccupazione, sia maschili sia femminili, diminuiscono costantemente al crescere dell’età dei lavoratori, il che testimonia la difficoltà che incontrano i giovani a trovare il primo impiego, non possedendo ancora un’esperienza lavorativa apprezzabile; va considerato inoltre che per le classi anziane di età la perdita di lavoro si traduce spesso in un prepensionamento più o meno anticipato, piuttosto che in una entrata nella disoccupazione; • le persone con un titolo di studio medio-basso si trovano più spesso senza un lavoro: il tasso di disoccupazione diminuisce costantemente all’aumentare del livello di istruzione, sia per gli uomini sia per le donne; • in Italia la distribuzione territoriale della disoccupazione è molto disomogenea e tende a crescere mano a mano che ci si sposta verso il Sud; in particolare il Mezzogiorno ha tassi di disoccupazione quasi tripli rispetto al Nord-Est, l’area che registra la disoccupazione più bassa. Tabella 3.5 Tassi di disoccupazione in Italia (media 2018, valori percentuali) (Fonte: ISTAT, 2019.)
Maschi
Femmine
Totale
Per classi di età
15-24
30,4
34,8
32,2
25-34
14,5
17,8
15,9
≥35
6,9
8,5
7,6
Totale
9,7
11,8
10,6
Licenza elementare
17,0
20,3
18,0
Licenza media
12,7
16,9
14,1
Diploma
8,9
11,7
10,1
Laurea e post-laurea
4,6
7,0
5,9
Totale
9,7
11,8
10,6
Nord-Ovest
6,1
8,1
7,0
Nord-Est
5,0
7,3
6,0
Per titolo di studio
Per ripartizioni geografiche
Centro
8,6
10,4
9,4
Mezzogiorno
16,8
20,9
18,4
9,7
11,8
10,6
Italia
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
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La variabilità della disoccupazione per sesso, classi di età, livello di istruzione e area geografica può determinare variazioni significative nel tasso medio di disoccupazione nazionale. Quest’ultimo, infatti, è la media ponderata dei tassi relativi ai vari gruppi. Il tasso nazionale può variare o perché variano i tassi di occupazione dei singoli gruppi o perché aumenta il peso di un particolare gruppo caratterizzato da alti (o bassi) tassi di disoccupazione. I gruppi con alti tassi di disoccupazione in generale mostrano anche tassi di attività più bassi. Ciò vuol dire che, nei gruppi che sperimentano maggiori difficoltà a trovare lavoro, è più alto il numero di lavoratori scoraggiati i quali, disperando di trovare un impiego, rinunciano alla ricerca. La Tabella 3.6 conferma questo fenomeno a livello territoriale. Il Mezzogiorno, che come abbiamo visto ha tassi di disoccupazione sia maschili sia femminili più alti del Centro-Nord, mostra anche tassi di attività più bassi. In altri termini, nel Mezzogiorno meno persone, in proporzione alla popolazione in età di lavoro, partecipano al mercato del lavoro e una quota più consistente di queste risulta disoccupata. Poiché meno persone partecipano al processo produttivo nel Meridione, produzione e reddito pro capite risultano più bassi che nelle regioni centrosettentrionali. Questo spiega in parte la mancata convergenza tra le diverse aree del Paese. La bassa partecipazione al lavoro nelle regioni meridionali, soprattutto della componente femminile, contribuisce anche a spiegare come l’Italia abbia tassi di attività inferiori a quelli dell’area dell’euro e degli altri principali Paesi europei (si veda la seconda parte della Tabella 3.6). Ciò detto, per comprendere meglio le caratteristiche del mercato del lavoro italiano (modesto tasso di partecipazione ed elevati differenziali regionali) bisogna tener conto della particolare rilevanza, nel nostro Paese, del fenomeno dell’economia sommersa. Il lavoro sommerso costituisce una quota rilevante del lavoro complessivo, soprattutto in agricoltura, nel commercio e nelle costruzioni, con punte estremamente elevate nel Mezzogiorno. 3.2.4 Disoccupazione frizionale e disoccupazione ciclica Esiste una differenza molto importante tra disoccupazione frizionale e disoccupazione ciclica. Si definisce frizionale la disoccupazione dovuta alla rigidità e alle imperfezioni del sistema economico e che non può essere ridotta nel breve periodo.
Maschi
Femmine
Nord-Ovest
79,4
64,4
Nord-Est
79,1
64,8
Centro
77,6
62,5
Mezzogiorno
68,1
41,6
Italia
75,1
56,2
Euro area
78,8
68,1
Germania
82,9
74,3
Spagna
78,8
68,6
Francia
75,8
68,2
Disoccupazione frizionale Disoccupazione dovuta alle rigidità e alle imperfezioni del mercato del lavoro.
Tabella 3.6 Tassi di attività (età 15-64, anno 2018) (Fonti: ISTAT, 2019; Eurostat, 2019.)
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68
Capitolo 3
La disoccupazione frizionale dipende dalla struttura del mercato del lavoro, cioè dalle informazioni disponibili sui posti di lavoro vacanti, dalle convenzioni sociali, dalla mobilità geografica e professionale, dalla normativa esistente (per esempio i sussidi di disoccupazione), tutti elementi che influiscono sul comportamento di lavoratori e imprese. Il tasso di disoccupazione frizionale è anche chiamato “tasso naturale di disoccupazione”. Disoccupazione ciclica Disoccupazione risultante dalle fluttuazioni del ciclo economico.
Turnover all’interno del mercato del lavoro Frequenza con la quale i lavoratori cambiano occupazione in un’economia.
Si definisce invece disoccupazione ciclica quella che eccede il tasso frizionale.
3.2.5 Flussi in entrata e in uscita Il turnover all’interno del mercato del lavoro, vale a dire il numero di persone che passano da un’occupazione all’altra e dal gruppo dei disoccupati al gruppo degli occupati e viceversa, è rilevante. La Tabella 3.7 mostra quante persone ogni 100 dipendenti, mediamente, sono entrate e uscite dal settore delle grandi imprese italiane dal 2005 al 2010. Nel 2005 le imprese aggiungevano ai loro libri paga 13,4 nomi per ogni 100 dipendenti e ne cancellavano praticamente lo stesso numero. Nel 2009, in piena recessione, il numero delle assunzioni era sceso al 10,5%, ma le uscite erano restate alte. Nel complesso le imprese stavano riducendo il personale. Questi dati dimostrano che i flussi lordi in entrata e in uscita dal lavoro sono elevati e variano con il ciclo economico. 3.2.6 Fattori che determinano il tasso di disoccupazione frizionale Il concetto di piena occupazione, e quindi di tasso di disoccupazione frizionale, ha un’importanza fondamentale ai fini della politica economica. I fattori che determinano il tasso di disoccupazione frizionale sono fondamentalmente la durata e la frequenza della disoccupazione. Iniziamo parlando della durata della disoccupazione. Si definisce “periodo di disoccupazione” un intervallo di tempo consecutivo durante il quale un individuo rimane senza lavoro. Per durata della disoccupazione si intende il tempo medio per il quale ciascun individuo rimane disoccupato. Analizzando la durata della disoccupazione si può capire se normalmente si tratta di una condizione a breve termine (cioè se si riesce a trovare la prima occupazione o una nuova occupazione nel giro di poco tempo) o se invece la disoccupazione a lungo termine è un problema diffuso. La durata della disoccupazione è normalmente associata al suo livello. Laddove la disoccupazione è alta anche la sua durata tende a
Tabella 3.7 Tassi annui di ingresso e di uscita nelle grandi imprese (valori per 100 occupati dipendenti) (Fonte: ISTAT, I flussi occupazionali in entrata e in uscita nelle grandi imprese per tipologia di contratto, 2013.)
Anni
Tassi di ingresso
Tassi di uscita
Saldi
2005
13,4
13,6
–0,2
2006
13,9
13,4
0,5
2007
15,0
14,9
0,2
2008
13,5
14,3
–0,8
2009
10,5
12,5
–2,0
2010
11,4
12,3
–0,9
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
69
Figura 3.9 Quota dei disoccupati di lunga durata (≥ 12 mesi) sul totale dei disoccupati
80 70 60
(Fonte: OECD, Employment and Labour Market Statistics 2019.)
50 40 30 20 10 0 2000
2003
2006
Euro area
2009
Italia
2012
2015
2018
Stati Uniti
essere elevata.5 Tradizionalmente l’Italia e l’Europa, con tassi di disoccupazione complessivi elevati, hanno un’alta percentuale di disoccupazione di lunga durata, se rapportata agli Stati Uniti (Figura 3.9). Nel decennio 1998-2008, tuttavia, la disoccupazione di lunga durata ha mostrato una tendenza alla diminuzione in Europa e a un leggero aumento negli Stati Uniti. Con l’insorgere della crisi economica e finanziaria, la quota dei disoccupati di lunga durata è bruscamente risalita in tutte e tre le aree. La durata della disoccupazione dipende da fattori ciclici e dalle seguenti caratteristiche strutturali del mercato del lavoro: • l’organizzazione del mercato del lavoro, compresa l’esistenza o meno di agenzie di collocamento, di centri per l’avviamento dei giovani al lavoro e servizi simili; • la composizione demografica e la dislocazione geografica della forza lavoro; • la possibilità o la volontà dei disoccupati di continuare a cercare un impiego migliore, che dipende in parte dal fatto che ricevano un sussidio di disoccupazione. Quest’ultimo punto merita particolare attenzione. È possibile che un lavoratore si licenzi volontariamente per poter disporre di più tempo da dedicare alla ricerca di un impiego migliore: in tal caso si parla di disoccupazione da ricerca. Se tutti i lavori fossero equivalenti, una persona disoccupata accetterebbe il primo che le viene offerto; se, al contrario, alcuni posti sono migliori di altri, vale la pena di continuare a cercare e aspettare che si presenti una buona occasione. Più alti sono i sussidi di disoccupazione, più probabilità ci sono che i disoccupati continuino a cercare un impiego
5
Si veda Baker M. “Unemployment Duration: Compositional Effects and Cyclical Variability”, American Economic Review, marzo 1992.
Disoccupazione da ricerca Disoccupazione dovuta alle persone che hanno lasciato un’occupazione per cercarne un’altra.
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Capitolo 3
migliore e che gli occupati lascino il loro lavoro attuale nella speranza di trovare di meglio. Ne consegue che un aumento dei sussidi fa crescere il tasso naturale di disoccupazione. Ai fini della durata della disoccupazione, è importante anche il comportamento dei lavoratori temporaneamente sospesi perché in esubero. Di norma un lavoratore sospeso aspetta di essere richiamato e non si dà molto da fare per trovare un altro impiego. I motivi di questo comportamento sono abbastanza semplici: una persona che ha lavorato a lungo per un’impresa conosce bene il modo in cui questa è organizzata e ha maturato diritti di anzianità, di conseguenza difficilmente troverà un impiego migliore altrove. È probabile, quindi, che questa persona preferisca aspettare di riprendere il suo lavoro, soprattutto se nel frattempo percepisce un sussidio di disoccupazione.
Frequenza della disoccupazione Numero medio di volte, per periodo di tempo, in cui i lavoratori rimangono disoccupati.
Frequenza della disoccupazione Per frequenza della disoccupazione si intende quante volte in media, in un dato periodo di tempo, i lavoratori rimangono disoccupati. La frequenza della disoccupazione dipende fondamentalmente da due fattori. Il primo è la variabilità della richiesta di lavoro da parte delle diverse imprese operanti all’interno del sistema economico. Anche quando la domanda aggregata si mantiene costante, ci sono imprese in crescita e imprese in declino: le prime assumono nuovi dipendenti, mentre le seconde riducono il personale. Maggiore è la variabilità della domanda di lavoro da parte delle diverse imprese, più alto è il tasso di disoccupazione. Il secondo fattore da considerare è il tasso di crescita della forza lavoro: più la crescita è rapida, maggiore è il tasso naturale di disoccupazione. I tre fattori che influiscono sulla durata e i due fattori che influiscono sulla frequenza della disoccupazione sono i principali elementi che determinano il tasso naturale di disoccupazione. Naturalmente tutti questi fattori variano nel corso del tempo: la struttura del mercato del lavoro e la composizione della forza lavoro possono cambiare, così come può mutare la variabilità della domanda di lavoro da parte delle diverse imprese. Come ha affermato Edmund Phelps, il tasso naturale di disoccupazione non è “una costante intertemporale che, come la velocità della luce, è indipendente da qualunque altro fattore”.6 3.2.7 Disoccupazione in Italia e in Europa L’elevata disoccupazione registrata in Italia e in Europa negli ultimi decenni è fonte di notevole preoccupazioni a causa dei costi che essa impone sulla società. In questo paragrafo descriveremo brevemente quali sono i principali fattori che possono spiegarne l’andamento, soprattutto in termini comparativi con l’esperienza degli Stati Uniti. La Figura 3.10 mostra l’andamento del tasso di disoccupazione dal 1960 al 2018 in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti, suggerendo alcune importanti conclusioni: • l’elevata disoccupazione che osserviamo in Italia è un fenomeno comune anche agli altri Paesi europei; • il tasso medio di disoccupazione ha mostrato un incremento generalizzato dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Ottanta; • la disoccupazione statunitense sino all’inizio degli anni Ottanta ha seguito lo stesso andamento di quella italiana ed europea, ma da quella data a oggi si è assestata a un livello sensibilmente più basso.
6
Si veda Phelps E.S., “Economic Policy and Unemployment in the Sixties”, Public Interest, inverno 1974.
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71
30
25
20
15
10
5
0 1960
1970 Francia
1980 Germania
1990 Italia
2000 Spagna
2010
2020
Stati Uniti
Figura 3.10 Tassi di disoccupazione (Fonte: OECD, Population and Labour force Statistics, 2013, OECD Labour Market Statistics 2019.)
Il confronto con gli Stati Uniti mostra che per comprendere il fenomeno della disoccupazione europea è necessaria una spiegazione sia delle cause dell’elevato livello di disoccupazione, sia dei motivi per cui, una volta raggiunti livelli elevati, la disoccupazione non abbia mostrato una tendenza alla diminuzione come negli Stati Uniti. In altre parole occorre spiegare tanto il livello della disoccupazione quanto la sua persistenza. Il fenomeno per cui una variabile (in questo caso la disoccupazione) non mostra la tendenza a ritornare verso l’equilibrio iniziale, una volta colpita da uno shock, prende il nome di isteresi. Fra i motivi che hanno determinato la crescita del tasso di disoccupazione al di qua e al di là dell’Atlantico negli anni Settanta un posto preminente occupano i due shock petroliferi che si sono susseguiti in quegli anni. Essi hanno aumentato non solo il costo delle materie prime impiegate ma anche del lavoro, dato che i datori di lavoro hanno dovuto mantenere adeguato il salario reale pagato ai dipendenti. Ciò ha posto in seria difficoltà le imprese che hanno dovuto ridurre la forza lavoro. Un altro motivo è che dalla fine degli anni Sessanta il mercato del lavoro europeo, e in particolare quello italiano, ha subìto profondi interventi legislativi orientati a una regolamentazione più marcata. Sono stati introdotti meccanismi di protezione del posto di lavoro, maggiori forme di tutela per i lavoratori disoccupati ecc., che hanno reso più rigido il mercato del lavoro, in particolare per quanto riguarda la rigidità verso il basso dei salari reali e i costi elevati di licenziamento imposti per legge.7 In altri termini, le 7
Si veda Blanchard O.J., Wolfers J. “The Role of Shocks and Institutions in the Rise of European Unemployment: the Aggregate Evidence”, Economic Journal, marzo 2000.
Isteresi Permanenza di un fenomeno anche dopo la rimozione della causa che lo ha provocato.
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Capitolo 3
Modello insider-outsider Modello che ipotizza che i contratti collettivi stipulati dai sindacati tendano a favorire gli occupati (insider) e a ridurre le possibilità dei disoccupati (outsider) di trovare un lavoro.
imprese europee sarebbero diventate riluttanti ad assumere lavoratori per non sostenere gli elevati costi connessi con l’eventuale licenziamento. Alla fine degli anni Novanta diversi Paesi europei, tra cui l’Italia e la Spagna, hanno varato riforme del mercato del lavoro mirate ad aumentarne la flessibilità (contratti a termine, a tempo parziale ecc.) e questo si è tradotto in una diminuzione del livello medio di disoccupazione, nonostante che la crescita del PIL reale, in Italia, sia stata la più bassa d’Europa. La forza dei sindacati europei è stata considerata una delle principali cause della persistenza di elevati livelli di disoccupazione. Il modello insider-outsider parte dalla constatazione che le imprese contrattano con gli occupati (insider) organizzati sindacalmente. Di fronte a uno shock negativo della domanda, le imprese, non riuscendo ad abbassare i salari reali, licenzieranno una parte degli occupati che diventeranno outsider. Durante la successiva ripresa gli insider, che non si preoccupano degli outsider, chiederanno incrementi salariali a scapito dell’aumento dell’occupazione.8 A meno che non vi siano aumenti inattesi di domanda, lo shock iniziale assume persistenza.9 In generale, l’effetto dei fattori istituzionali è quello di “isolare” maggiormente gli insider dalla potenziale concorrenza degli outsider per due motivi: da una parte, tutelando maggiormente i lavoratori occupati, viene aumentato il loro potere contrattuale e viene ridotto il tasso di turnover; dall’altra, offrendo maggiori forme di assicurazione per i lavoratori disoccupati, si riduce l’intensità con cui essi cercano un nuovo impiego. Entrambi questi fattori hanno l’effetto di far aumentare la durata della disoccupazione. In questo modo si genera tuttavia un processo perverso in cui quanto più la disoccupazione perdura, tanto più i lavoratori tendono a perdere le loro capacità professionali e diminuisce la loro probabilità di trovare un altro impiego, con conseguenze rilevanti sulla struttura dell’occupazione: aumenta la disoccupazione di lunga durata e aumenta la disoccupazione dei giovani a scapito dei lavoratori più maturi. I dati per l’Italia mostrati nella Tabella 3.5 e nella Figura 3.9 quantomeno non contraddicono queste conclusioni. Nel Capitolo 9 torneremo a parlare ampiamente di questo tema sviluppando un modello teorico che lega la forza sindacale, la disoccupazione e l’inflazione. 3.2.8 Costi della disoccupazione I disoccupati, come individui, soffrono sia per il reddito che viene loro a mancare dopo la perdita del posto di lavoro, sia per i problemi sociali derivanti da lunghi periodi di disoccupazione. La società nel suo complesso viene danneggiata dalla disoccupazione, perché il prodotto totale è inferiore a quello potenziale. In questo paragrafo cercheremo di stimare il valore della mancata produzione; parleremo inoltre di alcuni problemi legati alla disoccupazione e dei benefici che potrebbero derivare da una sua riduzione. Ci occuperemo in particolare dei costi della disoccupazione ciclica, rappresentata dagli scostamenti temporanei del tasso di disoccupazione da quello frizionale.
8
C’è una chiara evidenza empirica che mostra come in Italia fattori legati al potere contrattuale degli insider siano rilevanti per la determinazione del salario; si veda Lucifera C. “Gli effetti del sindacato sulla creazione e distruzione dei posti di lavoro e sul turnover dei lavoratori”, in Vivarelli M. (a cura di), Occupazione e disoccupazione in Italia, Giuffrè, Milano 1995. Si veda anche Ordine P., “Wage Drift and Minimum Contractual Wage: Theoretical Interrelatioship and Empirical Evidence from Italy”, Labour Economics, gennaio 1996. 9 Si veda Blanchard O., Summers L., “Hysteresis and the European Unemployment Problem”, NBER Macroeconomic Annual, 1986, per un modello dinamico.
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Costi della disoccupazione ciclica Una prima misura dei costi della disoccupazione ciclica è data dalla perdita di produzione dovuta al fatto che nel sistema economico non c’è piena occupazione. Possiamo stimare questa perdita utilizzando la legge di Okun, illustrata nella Figura 3.8. In base alla legge di Okun, a ogni punto percentuale di aumento del tasso di disoccupazione al di sopra del tasso frizionale corrisponde una perdita pari a circa il 2% del prodotto potenziale. Consideriamo la leggera recessione del 2001-02: poiché, secondo una stima del Congressional Budget Office statunitense (CBO), il tasso frizionale di disoccupazione era pari al 5,2%, mentre il tasso reale di disoccupazione era pari al 5,7%, in tale biennio la recessione provocò una perdita equivalente all’1% del PIL, cioè a circa 100 miliardi di dollari. Di fronte a costi così rilevanti viene da chiedersi come mai i responsabili della politica economica tollerino tassi di disoccupazione così elevati. Effetti della disoccupazione sulla distribuzione del reddito La legge di Okun consente di stimare il costo complessivo della disoccupazione ciclica, ma è importante tener conto anche degli effetti redistributivi della disoccupazione. Negli Stati Uniti, a un aumento dell’1% del tasso di disoccupazione complessivo corrisponde un incremento del 2% del tasso di disoccupazione dei lavoratori neri. In generale, la disoccupazione colpisce in maggior misura le fasce più povere della popolazione, e questo aspetto aumenta la gravità del problema. La stima basata sulla legge di Okun corrisponde a tutto il reddito perso, compreso quello che veniva percepito dalle persone rimaste senza lavoro. In teoria, la perdita complessiva potrebbe essere ripartita in tanti modi diversi tra gli individui che operano nel sistema economico. Per esempio, i disoccupati potrebbero ricevere un sussidio, di ammontare grosso modo pari al loro reddito da lavoro, e i sussidi potrebbero essere finanziati mediante le imposte pagate dai lavoratori occupati. In questo caso le persone rimaste senza lavoro non subirebbero una perdita di reddito, ma la società nel suo complesso subirebbe comunque una perdita in termini di mancata produzione. I sussidi di disoccupazione servono a ripartire in modo più equo, ma sicuramente non omogeneo, i costi della disoccupazione. Altri costi e benefici La disoccupazione comporta altri costi, o magari qualche beneficio? Un possibile beneficio è rappresentato dal fatto che i disoccupati hanno più tempo libero. Tuttavia questo tempo libero non ha molto valore, soprattutto perché in buona parte non è voluto. Inoltre, poiché i lavoratori pagano l’imposta sui redditi, quando alcuni di loro rimangono disoccupati la società nel complesso e i lavoratori condividono i costi legati alla perdita di produzione, in quanto i lavoratori perdono le loro retribuzioni e la società il corrispondente gettito d’imposta. Questa è un’altra ragione per cui il beneficio derivante dalla maggiore quantità di tempo libero compensa solo in parte i costi della disoccupazione ciclica, stimati in base alla legge di Okun.
3.3 Inflazione L’inflazione è il tasso di aumento dei prezzi e il livello dei prezzi è il risultato dell’inflazione registrata in passato. Se indichiamo con Pt – 1 il livello dei prezzi dell’anno scorso e con Pt il livello dei prezzi attuale, il tasso d’inflazione relativo all’ultimo anno può essere espresso nel modo seguente:
Inflazione È misurata dal tasso percentuale di incremento del livello generale dei prezzi.
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Capitolo 3
π=
Pt – Pt – 1 Pt – 1
dove π è il tasso d’inflazione. Ne consegue che il livello dei prezzi attuale sarà pari al livello dei prezzi dell’anno scorso adeguato all’inflazione: Pt = Pt – 1 (1 + π) Nel Capitolo 2 (Formalizzazione matematica 2.1) abbiamo visto come si calcolano gli indici dei prezzi per un paniere di beni e quali sono gli indici dei prezzi più utilizzati, tra cui il deflatore del PIL. Poiché il controllo dell’inflazione è uno degli obiettivi della politica economica, in questo paragrafo ci occuperemo dell’andamento dei prezzi nel tempo e dei costi che provoca l’inflazione e quindi dei motivi per cui è necessario tenerla sotto controllo. 3.3.1 Inflazione in Europa e negli Stati Uniti La Figura 3.11 mostra l’andamento dei prezzi dal 1960 al 2018 in tre Paesi europei e negli Stati Uniti. Negli anni Sessanta, Germania e Stati Uniti avevano tassi di inflazione inferiori al 5% e Spagna e Italia di poco superiori. A partire dall’inizio degli anni Settanta si verifica una fiammata inflazionistica in tutti i Paesi rappresentati nel grafico e anche negli altri Paesi sviluppati qui non rappresentati. La causa principale è il primo shock petrolifero, con i Paesi produttori che riescono a imporre prezzi del
25
20
15
10
5
0 1960
1970
1980
1990
2000
2010
–5
Italia
Figura 3.11 Deflatore del PIL: tassi di crescita annui (Fonte: AMECO, 2019.)
Spagna
Germania
Stati Uniti
2020
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Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
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petrolio più elevati. Altre cause, di origine interna, si sommano a questo shock esterno. Un secondo shock si verifica alla fine degli anni Settanta. Si noti come la reazione agli shock sia diversa negli Stati Uniti e in Germania, da un lato, e in Italia e Spagna dall’altro. In questi ultimi due Paesi l’inflazione raggiunge punte doppie di quelle dei primi. Con un lieve ritardo, anche la disoccupazione in questi Paesi raggiunge livelli più elevati (si veda la Figura 3.10). Nel complesso quindi gli shock petroliferi, coniugati alle cause interne a cui si è accennato nel paragrafo precedente, hanno un impatto particolarmente elevato, in termini di disoccupazione e inflazione, nei Paesi dell’Europa meridionale. Il rientro dall’inflazione d’altra parte è molto più lento e difficile: il loro tasso di inflazione rimane più alto ancora negli anni Novanta, nella fase di preparazione all’euro e anche dopo che l’euro è diventata la moneta comune. Nel Capitolo 9 discuteremo le politiche per il rientro dall’inflazione e il legame tra inflazione e disoccupazione. Nel resto di questo capitolo introduciamo l’argomento discutendo i costi dell’inflazione. 3.3.2 Costi dell’inflazione Diversamente dalla disoccupazione, l’inflazione non provoca direttamente una perdita di produzione. Quando si parla di costi dell’inflazione, è importante distinguere l’inflazione perfettamente attesa, della quale si tiene conto nelle transazioni economiche, dall’inflazione imperfettamente attesa o inattesa. Cominciamo con l’analisi dell’inflazione perfettamente attesa. Inflazione perfettamente attesa Supponiamo che in un sistema economico si registri da molto tempo un certo tasso d’inflazione, per esempio del 5%, e quindi che tutti si aspettino, correttamente, che l’inflazione continui a essere pari al 5%. In questo sistema economico tutti i contratti terranno conto di quel 5% d’inflazione attesa. Creditori e debitori saranno consapevoli del fatto che la moneta con cui verranno ripagati i prestiti varrà meno rispetto alla moneta prestata; di conseguenza i tassi d’interesse nominali verranno innalzati del 5% per compensare l’inflazione. I contratti di lavoro pluriennali prevederanno, oltre agli aumenti dei salari reali concordati tra le parti, un incremento annuo del 5% di tutte le retribuzioni, così come terranno conto dell’inflazione attesa i contratti di locazione a lungo termine. In poche parole, qualunque contratto la cui validità si protrae nel tempo dovrà tener conto del tasso d’inflazione annuo del 5%. In questa categoria rientreranno anche le leggi tributarie, che supponiamo essere indicizzate; per esempio gli scaglioni d’imposta verranno aggiornati annualmente, per adeguarli all’inflazione.10 Date queste premesse, l’inflazione non avrà costi reali, se si eccettuano due tipi particolari di costi. La prima eccezione deriva dal fatto che non vengono pagati interessi sulla moneta; ne consegue che
il costo del detenere moneta cresce con l’aumentare del tasso d’inflazione,
10 Affinché il sistema tributario sia adeguatamente indicizzato, dovrebbero essere soggetti a imposta i rendimenti reali (cioè al netto dell’inflazione) delle attività.
Inflazione perfettamente/ imperfettamente attesa Grado di precisione delle previsioni delle persone riguardo al tasso di inflazione.
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76
Capitolo 3
Costi di listino Modesti costi sostenuti per l’aggiornamento dei prezzi nominali di un bene; per esempio, il costo di ristampa dei menu di un ristorante quando ritocca i prezzi.
essendo pari agli interessi cui bisogna rinunciare per la ragione di non possedere un’attività fruttifera al suo posto.11 Quando il tasso d’inflazione cresce, cresce anche il tasso d’interesse nominale e quindi aumenta il costo di detenere moneta; di conseguenza la domanda di moneta diminuisce. Ciò significa che le persone si accontentano di detenere una quantità di contante minore rispetto a prima e si recano più spesso in banca per incassare assegni d’importo inferiore. A proposito dei costi derivanti dal recarsi più spesso in banca, si parla spesso di “costi da consumo delle scarpe”. Questi costi dipendono da quanto la domanda di moneta diminuisce in seguito a un aumento del tasso d’inflazione attesa, ma in ogni caso non sono elevati. Si stima che una riduzione dell’inflazione negli Stati Uniti dal 10% (una cifra molto elevata per gli standard storici) allo 0% equivarrebbe, nel lungo periodo, a un incremento del prodotto pari all’1%.12 La seconda eccezione è rappresentata dai cosiddetti costi di listino dell’inflazione. Essi derivano dal fatto che, se si ha inflazione invece che prezzi stabili, bisogna utilizzare risorse reali per aggiornare i prezzi, sostituire i telefoni pubblici, i distributori automatici, i registratori di cassa ecc. Questi costi esistono, ma anch’essi sono poco rilevanti. Dobbiamo precisare, comunque, che la nostra discussione si basa sull’ipotesi di un tasso d’inflazione contenuto, ossia non tanto elevato da sconvolgere il sistema dei pagamenti. In presenza di un tasso d’inflazione medio-basso, i costi dell’inflazione perfettamente attesa sono ridotti.13 Quest’ultima asserzione non si concilia molto con la forte avversione nei confronti dell’inflazione che emerge dalle parole e dalle decisioni dei politici. Bisognerebbe tener presente che l’esperienza di diversi Paesi è caratterizzata da un’inflazione variabile e imperfettamente attesa, i cui costi sono sostanzialmente diversi da quelli sinora trattati. Inflazione imperfettamente attesa Il quadro idilliaco appena descritto a proposito di un perfetto adeguamento all’inflazione non rispecchia ciò che avviene nel mondo reale. I sistemi economici moderni presentano diverse caratteristiche istituzionali, alle quali corrispondono differenti livelli di adeguamento all’inflazione. I sistemi economici con una lunga tradizione inflazionistica, come quelli di Brasile e Israele, hanno raggiunto un notevole livello di adeguamento mediante l’indicizzazione. Non altrettanto si può dire dei Paesi, come gli Stati Uniti, in cui l’inflazione è un fenomeno meno usuale.
Tassa da inflazione Entrata ottenuta dal governo grazie alla svalutazione inflazionistica della moneta detenuta.
11 Si noti che coloro che detengono moneta in realtà stanno concedendo un prestito senza interessi allo Stato. Un aumento dei tassi d’interesse implica un trasferimento di entrate dal settore privato a quello pubblico; a questo proposito si parla talvolta di tassa da inflazione. 12 Si veda Robert Lucas E. Jr., “Inflation and Welfare”, Econometrica, marzo 2000. 13 Ci sono prove evidenti del fatto che a un alto tasso d’inflazione corrisponde un tasso di crescita ridotto. Questa relazione inversa non è dovuta ai costi dell’inflazione in sé, piuttosto è “il tasso d’inflazione a fungere da indicatore della capacità del governo di amministrare l’economia; poiché non ci sono validi argomenti a favore di un tasso d’inflazione molto elevato, se un governo fa crescere molto l’inflazione vuol dire che la situazione gli è sfuggita di mano” (Fischer S., “Macroeconomic Factors in Growth”, Journal of Monetary Economics, dicembre 1993). Si vedano anche: Chiari V.V., Jones L.E., Manuelli R.E., “Inflation, Growth, and Financial Intermediation”; Bruno M., Easterly W., “Inflation and Growth: In Search of a Stable Relationship”; Barro R.J., “Inflation and Growth”, tutti in Federal Reserve Bank of St. Louis Review, maggiogiugno 1996; si veda inoltre Bruno M., “Does Inflation Really Lower Growth?”, Finance and Development, settembre 1995.
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APPROFONDIMENTO 3.1 È proprio vero che l’inflazione attesa non comporta alcun costo? In sostanza, la risposta alla domanda riportata nel titolo è “sì”, ma per il cittadino medio “il 5% d’inflazione ha un costo pari al 5%”. Se si ha un 5% d’inflazione attesa, sia i prezzi sia i salari nominali aumentano del 5%, cosicché i salari reali rimangono invariati. Tuttavia i lavoratori tendono ad attribuire l’aumento salariale del 5% al proprio impegno, al potere contrattuale dei sindacati o al successo dell’azienda in cui lavorano, e pensano che l’incremento dei prezzi vada a erodere i loro meritati guadagni.14 Gli studenti di economia capiscono che l’aumento dei salari nominali e dei prezzi è una diretta conseguenza dell’inflazione, ma è difficile far accettare quest’idea alla gente comune.
Inflazione inattesa ed efficienza nei processi decisionali Nella maggioranza dei contratti i valori sono espressi in termini nominali. Se avete concordato il pagamento di una determinata somma a una certa data futura e il tasso di inflazione è inaspettatamente elevato, il valore della moneta che dovrete versare risulterà inferiore e ne sarete avvantaggiati. Naturalmente varrà il contrario se l’inflazione è minore rispetto alle previsioni; in entrambi i casi vi sarà qualcuno che ci guadagna e qualcuno che ci rimette. In altri termini, la possibilità che vi sia inflazione inattesa introduce un ulteriore elemento di rischio, per effetto del quale alcune transazioni tra imprese e consumatori, che sarebbero ritenute appetibili, non vengono effettuate. Chiaramente si tratta di un costo legato all’inflazione inattesa, un costo che tuttavia è molto difficile da misurare. Redistribuzione della ricchezza attraverso l’inflazione Un importante effetto dell’inflazione è quello di modificare il valore reale delle attività il cui valore nominale rimane costante. Tra il 1975 e il 2005 il livello dei prezzi negli Stati Uniti è quadruplicato, cosicché il potere d’acquisto di tutte le attività e di tutti i crediti con valore nominale fisso si è ridotto a un quarto di quello iniziale. Pertanto, chi aveva acquistato nel 1975 un titolo di Stato a scadenza trentennale, aspettandosi di ricevere nel 2005 un capitale di 100 dollari con un potere d’acquisto immutato, in realtà si è ritrovato alla scadenza con un capitale di 100 dollari avente il potere d’acquisto di 25 dollari del 1975. Analogamente, un lavoratore a riposo che aveva cominciato a ricevere nel 1975 una pensione fissa in termini monetari, nel 1999 si è reso conto che il potere d’acquisto di quella somma si era ridotto a circa un quarto di quello iniziale. Il notevole aumento del livello dei prezzi, se non era stato previsto, ha trasferito ricchezza dai creditori, o detentori di titoli, ai debitori, e dai pensionati alle aziende.
14 Per una trattazione molto accessibile di questo problema si veda Blinder A., Hard Heads, Soft Hearts: Tough Minded Economics for a Just Society. Addison-Wesley, Reading, MA 1987.
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Capitolo 3
APPLICAZIONE 3.1 Inflazione inattesa nel breve e nel lungo periodo Quanto pesa l’inflazione inattesa? Ai bassi livelli di inflazione che caratterizzano la maggior parte dei Paesi, una piccola percentuale di inflazione inattesa non rappresenta un grosso problema nel breve periodo. (La risposta cambia nei momenti e nei luoghi caratterizzati da un’inflazione estremamente elevata. Si veda il Paragrafo 9.5 sull’iperinflazione). Supponete di aver sottostimato l’inflazione del 3%. A un anno di distanza scoprirete che il valore delle disponibilità liquide e di altre attività fisse sarà diminuito del 3% rispetto alle previsioni. Naturalmente, anche il rimborso di ogni eventuale debito nominale che avevate contratto sarà leggermente più conveniente. Quando l’inflazione è compresa tra l’1% e il 4%, come è accaduto nell’ultimo decennio in Italia e negli Stati Uniti, è difficile che la previsione sull’anno successivo si discosti di oltre 3 punti percentuali dal tasso effettivo. Supponiamo tuttavia che abbiate sottoscritto un contratto che prevede pagamenti nominali fissi per 30 anni, sottostimando l’inflazione del 3% all’anno per l’intera durata del contratto. Alla scadenza dei 30 anni, il valore di 1 euro sarà pari ad appena 41 centesimi. Si tratta di una differenza significativa: molti mutui per la casa prevedono versamenti nominali fissi di lungo periodo; l’inflazione inattesa di lungo periodo può quindi favorire enormemente i proprietari delle case così come può danneggiare fortemente i sottoscrittori di alcune pensioni integrative, che prevedono il versamento di premi fissi.
Tasso di interesse reale Rendimento di un investimento misurato in unità di moneta nazionale a valore costante; equivale approssimativamente alla differenza tra il tasso di interesse nominale e il tasso d’inflazione.
Tabella 3.8 Rendimenti reali delle attività negli Stati Uniti (percentuali annue) (Fonte: www.economagic.com e nostre rielaborazioni.)
Questo effetto redistributivo caratterizza tutte le attività aventi un valore nominale fisso, come la moneta, i titoli, i depositi a risparmio, i contratti assicurativi e alcuni tipi di pensione. I tassi d’interesse reale su queste attività sono inferiori a quelli nominali, e in qualche caso addirittura negativi. Si tratta chiaramente di un effetto molto importante, in quanto può ridurre drasticamente il potere d’acquisto dei risparmi di una vita, accantonati per le necessità della vecchiaia. La Tabella 3.8 indica il rendimento reale registrato da varie attività negli Stati Uniti. Si noti che, quando il tasso d’inflazione è positivo, il rendimento reale della moneta è sempre negativo. La Tabella 3.9 mostra la situazione finanziaria netta nominale negli Stati Uniti divisa per settore. Lo status di creditore netto nominale deriva dalla differenza tra attività e passività nominali. In base a questa definizione il settore delle famiglie è un debitore in termini nominali. L’inflazione non attesa, perciò, accresce il valore reale dei crediti nominali delle famiglie in una misura limitata. Nel 2005 il valore totale delle passività nette in termini nominali detenute dalle famiglie e dalle organizzazioni non a scopo di lucro era pari a 2700 miliardi di dollari; un aumento di un punto percentuale del livello dei prezzi ne avrebbe ridotto il valore reale di 27 miliardi di dollari.
1960-69
1970-79
1980-89
1990-99
2000-09
–2,4
–7,2
–5,5
–3,0
–2,6
Buoni del Tesoro a 3 mesi
1,6
–0,9
3,3
1,9
0,1
Buoni del Tesoro a 10 anni
2,3
0,3
5,1
3,7
1,9
Moneta
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APPLICAZIONE 3.2 Capire la differenza fra tassi di interesse nominali e reali nella vita di tutti i giorni Quando investite denaro in obbligazioni o depositi bancari fruttiferi, una parte del rendimento ottenuto (cioè una parte del tasso di interesse nominale) è un adeguamento all’inflazione per compensare la futura riduzione del potere di acquisto della moneta. Se, per esempio, nel 1990 una coppia di genitori americani avesse depositato 1927 dollari in un conto che frutta il 5% di interessi, in 18 anni il conto avrebbe raggiunto 4636 dollari che, ipotizziamo, corrispondevano esattamente al costo delle tasse universitarie annue richieste dall’Università di Washington nel 2008. Nessuno vuole dissuadere i genitori generosi, ma quando si apprende la differenza fra tassi reali e tassi nominali si capisce che il conto non frutta “realmente” un interesse annuo del 5%; parte del pagamento serve soltanto a compensare l’inflazione. Se si prevede un’inflazione media del 3%, allora il conto frutta il 2% all’anno una volta conteggiata l’inflazione. In altri termini, se le tasse universitarie fossero cresciute al ritmo dell’inflazione, il conto avrebbe raggiunto la somma di 4636 dollari ma le tasse sarebbero aumentate a 7892 dollari. Ignorare l'inflazione induce le persone a pensare che il rendimento dei loro investimenti sia più alto di quello che è nella realtà, il che vuol dire che non mettono da parte somme sufficienti per raggiungere gli obiettivi che si prefiggono.
Una variazione del livello dei prezzi porta quindi a una sensibile redistribuzione di ricchezza tra gli individui e i settori di un sistema economico; in particolare, se il settore pubblico è il maggior debitore netto in termini nominali, la redistribuzione principale avviene fra il settore pubblico e quello privato.
Attività Finanziarie Tangibili
Famiglie e organizzazioni non a scopo di lucro
Nominali
Reali
25 625,9
9 203,9
Settore delle imprese agricole*
1 522,0
67,5
212,6
Società semplici non agricole
6 979,4
2 325,5
3 958,1
Società per azioni non agricole e non finanziarie
11 815,4
10 949,0
10 345,9
335,9
8 469,1
8 094,8
Banche commerciali Pubblica Amministrazione (al netto)**
29 525,6
Passività, nominali
11 925,6
Tabella 3.9 Situazione finanziaria netta nominale negli Stati Uniti, fine 2005 (miliardi di dollari) (Fonti: Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts of the United States, giugno 2006; Assets and Liabilities of Commercial Banks in The United States, giugno 2006; OECD, OECD Economic Outlook, n. 78, dicembre 2005, tavola 33; United States Department of Agriculture, Balance Sheet of the U.S. Farming Sector, 2002-2006F.) * Previste. ** Passività finanziarie.
5719,1
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Capitolo 3
È importante sottolineare due aspetti impliciti nella Tabella 3.9. In primo luogo, non sappiamo in quale misura l’inflazione fosse prevista quando sono stati stipulati i contratti che stanno alla base delle cifre riportate nella tabella. Se la previsione fosse stata corretta, i trasferimenti di ricchezza provocati dall’inflazione non avrebbero prodotto né sorpresa né scompiglio. In secondo luogo, se si considera il sistema economico nel suo complesso, i guadagni e le perdite derivanti dai trasferimenti di ricchezza da un settore all’altro provocati dall’inflazione non attesa si annullano a vicenda. Se il settore pubblico trae vantaggio dall’inflazione, può darsi che i privati debbano pagare meno imposte. Se le società traggono beneficio dall’inflazione, gli azionisti guadagnano a spese di altri. Se non attribuissimo alcuna importanza al modo in cui è distribuita la ricchezza all’interno della società, i costi dell’inflazione non attesa sarebbero trascurabili. Gli individui interessati dai trasferimenti di ricchezza, inoltre, possono appartenere a generazioni diverse; per esempio, gli attuali possessori di titoli di Stato potrebbero essere danneggiati dall’inflazione, a vantaggio dei futuri contribuenti. Chi trae vantaggio e chi viene danneggiato dall’inflazione non attesa? È opinione diffusa che gli anziani siano più vulnerabili dei giovani di fronte all’inflazione, perché posseggono più attività definite in termini nominali, ovvero non indicizzate all’inflazione. In compenso, tuttavia, le pensioni di vecchiaia sono indicizzate, cosicché buona parte della ricchezza dei pensionati è protetta dall’inflazione non attesa. La retorica politica dichiara inoltre che anche i poveri sono particolarmente vulnerabili all’inflazione inattesa: negli Stati Uniti si tratta di una lettura dei fatti che non trova molti riscontri,15 mentre in altri Paesi ciò è ampiamente dimostrato.16 L’inflazione redistribuisce ricchezza tra debitori e creditori, ma potrebbe redistribuire anche reddito. Si sente spesso affermare che dall’inflazione non attesa traggono vantaggio i capitalisti, cioè coloro a cui vanno i profitti, a discapito dei salariati. Secondo i sostenitori di questa tesi, se c’è inflazione non attesa vuol dire che i prezzi aumentano più rapidamente dei salari, e quindi i profitti crescono. Per quanto riguarda gli Stati Uniti dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, non ci sono prove convincenti che ciò avvenga. È dimostrato, invece, che l’inflazione non attesa riduce il rendimento reale delle azioni ordinarie, cioè il valore reale dei dividendi e dei guadagni in conto capitale. Gli azionisti, pertanto, vengono danneggiati dall’inflazione non attesa.17 L’ultimo importante effetto redistributivo dell’inflazione riguarda il valore reale delle imposte da pagare. Se la struttura fiscale non è indicizzata, l’inflazione fa spostare i contribuenti verso scaglioni di reddito più elevati e quindi accresce il valore reale delle imposte che devono versare o, in altre parole, riduce il loro reddito reale disponibile. In assenza di indicizzazione, l’inflazione ha gli stessi effetti di un aumento delle aliquote d’imposta. Dal momento che l’inflazione non attesa influisce quasi esclusivamente sulla distribuzione della ricchezza, ci si è chiesti perché preoccupi tanto l’opinione pubblica. Evidentemente chi guadagna dall’inflazione non si fa sentire quanto chi ci rimette,
15 Si veda Blank R., Blinder A., “Macroeconomics, Income Distribution and Poverty”, in Danziger S. e Wein-
berg D. (a cura di), Fighting Poverty, Harvard University Press, Cambridge MA 1986. 16 Si veda Easterly W., Fischer S., “Inflation and the Poor”, Journal of Money Credit and Banking, maggio 2001. 17 Uno dei primi saggi in cui si perviene a questa conclusione e che ha resistito a numerose verifiche è Nelson C., “Inflation and Rates of Return on Common Stocks”, Journal of Finance, maggio 1976. Si veda anche Modigliani F., Cohn R., “Inflation, Rational Valuation and the Market”, Financial Analysts Journal, marzo-aprile 1979.
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ma visto che alcuni di coloro che ne traggono vantaggio (i futuri contribuenti) devono ancora nascere, non c’è da sorprendersi. Inoltre, non sempre i lavoratori mettono nella giusta relazione gli aumenti del livello dei prezzi e gli aumenti del loro salario nominale. 3.3.3 Inflazione e indicizzazione In questo paragrafo esamineremo brevemente due tipologie contrattuali che risentono in modo particolare dell’inflazione: i contratti di prestito a lungo termine e i contratti di lavoro. Parleremo poi della possibilità di ridurre la vulnerabilità all’inflazione mediante l’indicizzazione, che lega i termini del contratto all’andamento del livello dei prezzi. Inflazione e tassi d’interesse Esistono molti contratti di prestito a lungo termine, per esempio i titoli di Stato trentennali e i mutui ipotecari a 25 o 30 anni. Un’impresa può offrire sul mercato dei capitali obbligazioni a scadenza ventennale a un tasso d’interesse annuo dell’8%. Il tasso d’interesse reale (al netto dell’inflazione) sulle obbligazioni risulterà basso o elevato, a seconda del valore che assumerà il tasso d’inflazione nel ventennio successivo. Quindi il tasso d’inflazione riveste grande importanza per chi concede prestiti e chi contrae debiti a lungo termine, e ciò è vero soprattutto nel settore immobiliare. Inflazione e mutui ipotecari Molte famiglie acquistano un’abitazione prendendo a prestito denaro da una banca o da un’altra istituzione finanziaria. L’interazione di inflazione e imposte influisce in misura notevole sul costo reale del prestito. Di norma negli Stati Uniti chi beneficia di un mutuo ipotecario (così viene chiamato un prestito concesso per l’acquisto o la costruzione di una casa) deve pagare un tasso d’interesse nominale fisso per 25 o 30 anni; gli interessi sono deducibili dal reddito imponibile, cosicché il tasso d’interesse effettivo sul mutuo diminuisce. Per esempio, supponendo che l’aliquota marginale dell’imposta sui redditi sia del 30%, il tasso d’interesse effettivo sul mutuo sarà pari al 70% di quello nominale. Consideriamo ora un caso specifico: un mutuo venticinquennale a tasso fisso con il quale, nel 1963, fu finanziato l’acquisto di un’abitazione. Il tasso d’interesse sui mutui nel 1963 era uguale al 5,9% e il tasso d’inflazione medio atteso per i 25 anni successivi era 5,4%, quindi il tasso d’interesse reale al lordo delle imposte era pari allo 0,5%. Inoltre era possibile detrarre dal reddito imponibile gli interessi pagati sul mutuo. Considerato che il tasso d’interesse nominale sul mutuo era 5,9% e che l’aliquota d’imposta era pari al 30%, il valore annuo della detrazione era pari all’1,77% (il 30% del 5,9%); pertanto, il tasso d’interesse reale sul mutuo al netto delle imposte era meno 1,3%: niente male davvero! Tuttavia il tasso d’inflazione effettivo avrebbe potuto essere inferiore a quello atteso e, in quel caso, il mutuo non sarebbe stato altrettanto conveniente per il debitore, mentre il creditore ci avrebbe guadagnato. L’incertezza riguardo all’andamento futuro dell’inflazione ha portato alla comparsa di un nuovo strumento finanziario: il mutuo ipotecario a tasso variabile. Si tratta di un prestito a lungo termine soggetto a un tasso d’interesse che periodicamente (per esempio, ogni anno) viene adeguato, cioè allineato con i principali tassi d’interesse a breve termine. Nella misura in cui i tassi d’interesse a breve riflettono il trend dell’inflazione, i mutui ipotecari a tasso variabile riducono gli effetti dell’inflazione sul costo reale dei finanziamenti richiesti per l’acquisto di abitazioni.
Mutuo ipotecario a tasso variabile Mutuo edilizio soggetto a un tasso d’interesse che periodicamente viene adeguato, cioè allineato con i principali tassi d’interesse a breve termine.
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Capitolo 3
Indicizzazione del debito pubblico Debito pubblico per il quale il pagamento degli interessi viene rivisto all’insù ogni anno per tener conto dell’inflazione.
Indicizzazione del debito pubblico Nei Paesi in cui il tasso d’inflazione è elevato e instabile diventa impossibile contrarre debiti a lunga scadenza a un tasso d’interesse fisso: i creditori, infatti, non hanno alcuna certezza riguardo al valore reale delle somme che verranno loro restituite. In genere in questi Paesi lo Stato emette titoli indicizzati, ovvero attua una indicizzazione del debito pubblico. Un titolo è indicizzato (al livello dei prezzi) quando il tasso d’interesse o il capitale, oppure entrambi, vengono adeguati all’inflazione.18
Normalmente il possessore di un titolo indicizzato ha diritto a un interesse pari al tasso d’interesse reale dichiarato (per esempio il 3%), più il tasso d’inflazione corrente. Quindi, se l’inflazione è al 18%, il tasso d’interesse sul titolo sarà pari al 21%; se l’inflazione è al 50%, il tasso d’interesse sarà pari al 53%. In questo modo il possessore di titoli viene difeso dall’inflazione. Molti economisti sostengono che lo Stato dovrebbe comunque emettere titoli indicizzati, in modo che i cittadini possano detenere almeno un’attività con un rendimento reale sicuro. Tuttavia ciò avviene in genere solo nei Paesi con inflazione molto alta, come il Brasile, l’Argentina e Israele, in cui lo Stato, altrimenti, non riuscirebbe a ottenere prestiti. Per quanto riguarda i Paesi con un tasso d’inflazione ridotto si può citare il caso del Regno Unito, dove dal 1979 vengono emessi titoli di Stato indicizzati. Il Ministero del Tesoro statunitense ha dato il via all’indicizzazione nel 1997, con la speranza che “l’assicurazione contro l’inflazione” facesse scendere il tasso d’interesse reale sui titoli di Stato. Inoltre in molti Paesi i sussidi statali sono adeguatamente indicizzati, per cui i cittadini hanno a disposizione un’attività che è in grado di proteggerli dall’inflazione; si tratta però di un’attività che non può essere acquistata e venduta. Esamineremo più avanti gli argomenti a favore dell’indicizzazione e quelli contro.
Adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita Salari indicizzati al tasso di inflazione.
Indicizzazione dei salari Talvolta i contratti di lavoro collettivi comprendono alcune clausole che prevedono l’adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita. Queste clausole fanno sì che a ogni aumento del livello dei prezzi corrisponda un incremento dei salari nominali e consentono ai lavoratori di recuperare, del tutto o in parte, il potere d’acquisto perso, dalla firma del contratto, a causa dell’aumento dei prezzi. L’indicizzazione dei salari è piuttosto diffusa in molti Paesi. Essa consente di conciliare i vantaggi dei contratti di lavoro a lungo termine con l’esigenza dei lavoratori e delle imprese di non far allontanare troppo i salari reali dai valori concordati. Dal momento che la contrattazione salariale richiede tempo e fatica, le retribuzioni non vengono rinegoziate ogni settimana od ogni mese, ma vengono fissate mediante contratti la cui validità è di uno o tre anni. Tuttavia, poiché i prezzi variano durante il periodo di validità dei contratti, le retribuzioni vanno adeguate all’inflazione. In generale esistono due possibilità. La prima consiste nell’agganciare i salari all’indice dei prezzi al consumo o al deflatore del PIL e nell’aggiornarli a scadenze
18
Il valore del debito può anche essere collegato a una valuta estera, che in molti casi è il dollaro statunitense.
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regolari (per esempio, ogni tre mesi) sulla base dell’aumento verificatosi nell’ultimo periodo. La seconda possibilità consiste nel programmare aumenti salariali periodici commisurati al tasso d’inflazione atteso. Se fosse possibile prevedere l’inflazione con certezza, i due metodi darebbero gli stessi risultati, ma poiché l’inflazione effettiva può non coincidere con quella attesa, si può arrivare a esiti diversi. È probabile che si ricorra all’indicizzazione, piuttosto che ad aumenti salariali prefissati, nei casi in cui vi è forte incertezza riguardo all’andamento dell’inflazione. Poiché tale incertezza è maggiore quando il tasso d’inflazione è elevato rispetto a quando è basso, l’indicizzazione dei salari è più frequente nei Paesi caratterizzati da un alto livello d’inflazione. A metà degli anni Ottanta, negli Stati Uniti oltre il 50% dei lavoratori coperti da contratti collettivi beneficiava di un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita. Le clausole contrattuali che prevedono l’adeguamento dei salari all’inflazione divennero molto più frequenti dopo il 1973, quando il tasso d’inflazione statunitense aumentò e divenne più instabile. Sebbene l’adeguamento dei salari al costo della vita sia previsto da molti contratti di lavoro collettivi, i lavoratori statunitensi interessati da questo tipo di clausole sono una minoranza, a causa del calo della sindacalizzazione; nel 1995, per esempio, l’indicizzazione dei salari riguardava solo il 22% dei lavoratori coinvolti nei più importanti contratti collettivi. Shock dal lato dell’offerta e indicizzazione dei salari Ipotizziamo che i prezzi delle materie prime aumentino e che le imprese decidano di scaricare sui consumatori il conseguente aumento dei costi di produzione, alzando i prezzi dei beni finali. I prezzi al consumo saliranno, così come i salari qualora siano indicizzati. Ciò porterà a un ulteriore incremento dei costi di produzione, dei prezzi e dei salari. In questo caso l’indicizzazione alimenta una spirale inflazionistica, che potrebbe essere evitata se gli aumenti salariali fossero prefissati sulla base dell’inflazione attesa, perché in questo caso i salari reali potrebbero diminuire in seguito all’aumento dei prezzi delle materie prime. Dal precedente esempio risulta chiaro che, quando si valutano gli effetti dell’indicizzazione salariale, bisogna distinguere due casi: gli shock dal lato della domanda e gli shock dal lato dell’offerta. Nel caso di uno shock della domanda, si ha un “puro” disturbo da inflazione e le imprese possono continuare a pagare gli stessi salari reali, per cui l’indicizzazione salariale non le danneggia. Nel caso di uno shock negativo dal lato dell’offerta, invece, i salari reali dovrebbero diminuire in concomitanza di un aumento dei prezzi, ma ciò non può avvenire se sono totalmente indicizzati. L’indicizzazione salariale rende quindi molto più difficile il processo di adeguamento di un sistema economico agli shock dell’offerta. Negli anni Settanta e Ottanta gli Stati Uniti, per esempio, si adeguarono più facilmente agli shock petroliferi rispetto ai Paesi europei, nei quali l’indicizzazione salariale è più frequente.19 Perché non si dovrebbe indicizzare? Gli economisti hanno spesso affermato che i governi dovrebbero fare ampio ricorso all’indicizzazione, e quindi indicizzare i titoli di Stato, il sistema fiscale e tutto ciò che è sotto il loro controllo. In questo modo sarebbe molto più facile convivere con l’infla-
19 Si veda Bruno M., Sachs J., The Economics of Worldwide Stagflation, Harvard University Press, Cambridge
MA 1985.
Shock negativo dal lato dell’offerta Spostamento verso l’interno della curva dell’offerta aggregata. L’aumento del prezzo del petrolio in seguito all’embargo dell’OPEC dei primi anni Settanta è un tipico esempio.
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zione e si eliminerebbero molti dei costi dell’inflazione non attesa. Tuttavia la teoria stenta a trovare consenso. Questo atteggiamento è dovuto a tre valide ragioni. Innanzitutto l’indicizzazione fa sì che il sistema economico incontri maggiori difficoltà ad adeguarsi agli shock, ogniqualvolta sarebbe necessaria una variazione dei prezzi relativi (come abbiamo visto a proposito dell’indicizzazione salariale). In secondo luogo, dal punto di vista pratico, l’indicizzazione è piuttosto complessa da attuare. In terzo luogo, i governanti temono che l’indicizzazione (che comunque non è in grado di annullare completamente le conseguenze dell’inflazione),20 facilitando la convivenza con l’inflazione, riduca la volontà politica di combatterla e quindi porti a un suo aumento e a un peggioramento della situazione economica. 3.3.4 Un po’ d’inflazione fa bene all’economia? Una riduzione dei salari nominali è un evento molto raro. Più di venticinque anni fa James Tobin affermò che un po’ d’inflazione fa bene all’economia (e fa diminuire il tasso naturale di disoccupazione) perché consente di ridurre i salari reali lasciando invariati quelli nominali.21 Questa idea è stata riproposta negli anni Novanta in un importante articolo scritto da George A. Akerlof, William T. Dickens e George L. Perry.22 La tesi sostenuta è la seguente: in un mondo in continua evoluzione, per mantenere l’efficienza economica e un basso tasso di disoccupazione è necessario che alcuni salari aumentino, in termini reali, e altri diminuiscano. È facile aumentare i salari reali: basta fare in modo che i salari nominali crescano più dell’inflazione. Viceversa, per ridurre i salari reali le imprese devono fare in modo che i salari nominali aumentino meno dell’inflazione. Per esempio, se il tasso d’inflazione è pari al 10%, si possono ridurre del 3% i salari reali facendo aumentare solo del 7% i salari nominali. Se invece l’inflazione fosse pari a zero, bisognerebbe ridurre i salari nominali del 3%. I lavoratori sono fortemente contrari a una riduzione dei salari nominali, a meno che non sappiano che la loro azienda si trova in gravi difficoltà finanziarie; le imprese, da parte loro, sanno che un simile provvedimento sarebbe molto impopolare. La soluzione potrebbe quindi essere quella di mantenere l’inflazione intorno al 3%, cosicché l’adeguamento dei salari reali si possa ottenere senza ridurre i salari nominali. Succede raramente che i salari nominali vengano ridotti,23 ed è vero che lavoratori e imprese affermano di non gradire affatto questo provvedimento.24 Tuttavia c’è chi sostiene che, se l’inflazione si mantenesse costantemente pari a zero, lavoratori e imprese finirebbero per giudicare una riduzione del 3% dei salari nominali in modo non diverso da un aumento del 7% dei salari nominali in presenza di un tasso d’inflazione del 10%.
20 L’indicizzazione non può essere perfetta perché la misurazione del livello dei prezzi e i conseguenti adeguamenti all’inflazione non avvengono in tempo reale. 21 Si veda Tobin J., “Inflation and Unemployment”, American Economic Review, marzo 1972. 22 Si veda Akerlof G.A., Dickens W.T., Perry G.L., “The Macroeconomics of Low Inflation”, Brookings Papers on Economic Activity, n. 1, 1996. 23 Alcuni dati sulla frequenza delle riduzioni salariali si trovano in Card D., Hyslop D., “Does Inflation ‘Grease the Wheels of the Labor Market’?”, in Romer C., Romer D. (a cura di), Reducing Inflation: Motivation and Strategy, University of Chicago Press, Chicago 1997. 24 È interessante notare che i regolamenti di molte università statunitensi proibiscono di ridurre i salari nominali nell’ambito di singole facoltà; ciò nonostante, di tanto in tanto viene decisa una riduzione generale delle retribuzioni.
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L’idea che un tasso d’inflazione superiore a zero possa portare qualche vantaggio è molto controversa, ma l’esistenza stessa di questa controversia rappresenta un allontanamento dalla teoria tradizionale secondo cui l’obiettivo a cui mirare è l’assenza d’inflazione.
3.4 Teoria del ciclo politico In un mondo ideale non esisterebbe inflazione e il tasso di disoccupazione non sarebbe superiore a quello frizionale, ma sappiamo che un mondo così non esiste. Nel breve periodo i responsabili della politica economica si trovano spesso a decidere quanto duramente contrastare uno shock inflazionistico, sapendo che più saranno intransigenti più alto sarà il tasso di disoccupazione. Per il lungo periodo si tratta di decidere se porsi l’obiettivo di ridurre il più possibile (eventualmente anche a zero) l’inflazione oppure tollerare un certo tasso d’inflazione. La previsione più nota nell’ambito di questo approccio è che l’andamento del ciclo economico è collegato alle scadenze elettorali. Consideriamo gli elementi che compongono tale teoria del ciclo politico.25 Abbiamo già parlato del primo, cioè delle alternative tra cui ciascun governante può scegliere. Ci sono altri due fattori fondamentali: l’importanza che gli elettori riconoscono al problema (dell’inflazione rispetto a quello della disoccupazione) e la scelta del momento migliore per influenzare i risultati elettorali. 3.4.1 Importanza riconosciuta ai problemi La Tabella 3.10 indica i risultati dei sondaggi d’opinione effettuati negli Stati Uniti dall’istituto di ricerche Gallup. Analizzando quella tabella, si può notare che i cittadini si preoccupano dell’inflazione e della disoccupazione quando questi fenomeni raggiungono livelli elevati. Da uno studio più attento riguardo i risultati dei sondaggi emerge un ulteriore importante aspetto: gli elettori si preoccupano non solo del livello raggiunto dall’inflazione e dalla disoccupazione, ma anche del loro tasso di variazione. Se la disoccupazione è in aumento, cresce l’attenzione dell’opinione pubblica nei suoi confronti. Analogamente, la preoccupazione dei cittadini per l’inflazione dipende non solo dal tasso d’inflazione corrente, ma anche da quello atteso. Questi fattori influiscono sulla scelta di politica economica da parte del governo in carica. 3.4.2 Scelta del momento più opportuno I politici in carica vorrebbero che al momento del voto l’economia fosse orientata nella giusta direzione, in modo da ottenere il massimo consenso da parte degli elettori. I tassi d’inflazione e di disoccupazione dovrebbero essere in calo e, possibilmente, non troppo elevati. Il problema sta nell’utilizzare al meglio il periodo compreso tra l’insediamento in carica e le elezioni successive, in maniera tale che alla scadenza elettorale l’economia risulti effettivamente orientata nella giusta direzione. Secondo la teoria del ciclo politico le cose andrebbero nel modo seguente: all’inizio del mandato i politici in carica adottano politiche economiche restrittive, facendo aumentare la disoccupazione, al fine di ridurre l’inflazione. Spesso si può scaricare sul governo precedente la responsabilità di aver reso necessarie le misure restrittive. Poi, in vista delle elezioni, si comincia ad attuare una politica espansiva, cosicché la disoc25
Per un resoconto sull’argomento si vedano: Alesina A., “Macroeconomics and Politics”, NBER Macroeconomics Annual, vol. 3, 1988; Nordhaus W., “Alternative Approaches to the Political Business Cycle”, Brookings Papers on Economic Activity, n. 2, 1989. Per un giudizio critico si veda Chrysta K.A., Peel D.A., “What Can Economics Learn from Political Science, and Vice Versa?”, American Economic Review, maggio 1986.
Teoria del ciclo politico Teoria che sostiene che i rappresentanti politici manipolano deliberatamente l’economia per produrre un boom economico in tempo di elezioni.
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Capitolo 3
Tabella 3.10 Qual è il principale problema che affligge la nazione? Tasso (%)
(Fonti: Gallup Report, annate varie; www.gallup.com; Bureau of Labor Statistics.) * Il segno “meno” indica un valore inferiore all’1%.
1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
10,4 6,2 3,2 4,3 3,5 1,9 3,7 4,1 4,8 5,4 4,3 3,0 3,0 2,6 2,8 2,9 2,3 1,6 2,2 3,4 2,8 1,6 2,3 2,7 3,4 3,2 2,9 3,9 —0,4 1,6 3,2 2,1 1,5 1,6 0,1
Inflazione
Disoccupazione
Quota di intervistati che la indica come problema numero uno (%)
Quota di intervistati che la indica come problema numero uno (%)
73 49 18 10 7 4 5 –* 3 – – – – 2 2 – 1 1 – 2 2 1 1 1 1 1 2 3 1 1 2 1 1 1 1
Tasso (%)
7,6 9,7 9,6 7,5 7,2 7,0 6,2 5,5 5,3 5,6 6,9 7,5 6,9 6,1 5,6 5,4 4,9 4,5 4,2 4,0 4,7 5,8 6,0 5,5 5,1 4,6 4,6 5,8 9,3 9,6 8,9 8,1 7,4 6,2 5,3
8 28 53 28 24 23 13 9 6 3 23 25 13 11 9 5 8 5 5 2 6 8 15 12 9 5 4 6 16 27 29 25 17 15 9
cupazione in calo aiuti a raccogliere consensi, mentre il tasso di disoccupazione è ancora tale da frenare l’inflazione. In base alla teoria del ciclo politico la disoccupazione dovrebbe quindi assumere un andamento ciclico, appunto, aumentando durante la prima parte della legislatura e diminuendo durante la seconda.
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Gli studi empirici sulla validità della teoria del ciclo politico hanno dato risultati contrastanti.26 I dati relativi agli Stati Uniti non mostrano un andamento ciclico regolare, anche se, applicato a particolari periodi (come il 1969-72, il 1981-84 e il 1988), il modello funziona alla perfezione. In ogni caso, alcuni fattori giocano a sfavore del ciclo politico. In generale, il governo non è sempre in grado di manovrare l’economia a suo piacimento. Ci sono poi problemi più specifici; negli Stati Uniti, per esempio, il Presidente deve anche tener conto delle elezioni di metà mandato per il rinnovo del Congresso. Un altro limite è rappresentato dal fatto che il governo non può programmare le fasi di recessione e di ripresa in modo troppo scoperto; inoltre esiste sempre la possibilità che un forte shock economico, come una guerra o una crisi petrolifera, scompagini il ciclo elettorale. A ciò va aggiunto che l’esecutivo non ha il completo controllo del sistema economico; per esempio, la Banca Centrale è in larga misura indipendente e può decidere di non assecondare la politica economica del governo.27 Infine, se le aspettative sono razionali, le politiche monetarie espansive attuate solo a fini elettorali avranno scarsi effetti reali e produrranno principalmente inflazione. Per tutte queste ragioni non dovrebbe sorprenderci il fatto che i cicli politici non siano sempre regolari. In ogni caso l’ipotesi del ciclo politico non dovrebbe essere accantonata. Non c’è dubbio che qualunque governo vorrebbe che l’economia fosse in forte espansione e l’inflazione in calo quando si avvicinano le elezioni; alcuni sono più abili o fortunati e vengono rieletti, altri sono meno abili o fortunati e perdono le elezioni.
Riepilogo • La crescita del PIL pro capite nel lungo periodo dipende dai miglioramenti della tecnologia. • Il lavoro è l’input più importante. • La crescita economica comporta profondi cambiamenti nella struttura dell’economia. • La crescita economica non ha riguardato allo stesso modo tutti i Paesi ed esistono tuttora profonde differenze nel livello di sviluppo. • Una parte consistente della disoccupazione riguarda persone che sono senza lavoro da molto tempo. • Ci sono sensibili differenze, per quanto riguarda la disoccupazione, tra i diversi gruppi sociali. I giovani e le donne hanno in genere tassi di disoccupazione significativamente più alti. • Il concetto di tasso naturale di disoccupazione coincide in condizioni di equilibrio con il tasso di disoccu-
26
pazione frizionale. Questa disoccupazione è dovuta alle normali frizioni che caratterizzano il mercato del lavoro. È difficile stabilire quale sia il tasso naturale di disoccupazione; per gli Stati Uniti si ritiene che esso sia pari al 5,5%. • La peculiarità della situazione italiana non è tanto il tasso di disoccupazione, di poco superiore alla media europea, bensì il tasso di occupazione che risulta tra i più bassi fra i Paesi industrializzati, soprattutto nella componente femminile. • Per ridurre il tasso naturale di disoccupazione occorre adottare politiche che siano in grado di modificare alcune caratteristiche strutturali del mercato del lavoro. L’esistenza di un livello salariale minimo, che scoraggia l’assunzione e la formazione di nuovi dipendenti, e sussidi di disoccupazione elevati, che inducono a
Si vedano Fair R., “Econometrics and Presidential Elections”, Journal of Economic Perspectives, estate 1996, e Allan Drazen, “The Political Business Cycle after 25 Years”, oltre ai commenti di Alesina A. e Walsh C., in NBER Macroeconomics Annual, n. 15, 2000. 27 Il tema dell’indipendenza della Banca Centrale verrà trattato più ampiamente nel Capitolo 13.
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Capitolo 3
prolungare la ricerca di un nuovo impiego, sono fattori che tendono ad accrescere il tasso naturale di disoccupazione. • I costi della disoccupazione sono rappresentati dal disagio economico e psicologico di coloro che non hanno un lavoro e dalla perdita di produzione. Inoltre, le fasce più deboli della popolazione sono quelle maggiormente colpite da un aumento del tasso di disoccupazione. • Un sistema economico può adeguarsi all’inflazione perfettamente attesa a condizione che il sistema tributario venga indicizzato e i tassi d’interesse nominali tengano conto del tasso d’inflazione atteso. Se l’inflazione è perfettamente attesa e il sistema economico vi si adegua, gli unici costi che essa comporta sono quelli “da consumo delle scarpe” e quelli di listino. • L’inflazione imperfettamente attesa provoca consistenti trasferimenti di ricchezza da un settore all’altro del sistema economico. I debitori, in termini monetari, traggono vantaggio dall’inflazione non attesa,
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•
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mentre i creditori, sempre in termini monetari, ne vengono danneggiati. La Pubblica Amministrazione vede aumentare il valore reale delle entrate fiscali, mentre il valore reale del debito pubblico diminuisce. Nel mercato immobiliare statunitense, aumenti non previsti dell’inflazione, assieme alla deducibilità degli interessi dalle tasse, hanno reso l’investimento immobiliare particolarmente vantaggioso nel periodo 1960-80. Nel sistema economico degli Stati Uniti l’indicizzazione non è né diffusa né completa. L’assenza di una forte indicizzazione ha probabilmente facilitato l’adeguamento agli shock dell’offerta. Un tasso d’inflazione molto elevato è dannoso, ma è dimostrato che una leggera inflazione ha effetti positivi sull’economia, in quanto riduce la rigidità dei salari reali. Secondo la teoria del ciclo politico, affinché i politici in carica vengano rieletti, al momento del voto il tasso di disoccupazione dovrebbe essere in calo e l’inflazione non dovrebbe essere in aumento.
Domande di ripasso 3.1
Indicate le diverse caratteristiche che la disoccupazione assume tra gli adulti e tra i giovani. Che implicazioni hanno tali differenze per quanto riguarda le occupazioni preferite (in media) dai due gruppi di lavoratori?
3.2
Una riduzione del minimo salariale durante i mesi estivi farebbe diminuire il costo del lavoro per le imprese, ma anche il reddito di coloro che percepiscono il salario minimo. a. Chi trarrebbe vantaggio da tale provvedimento?
Quali sono gli argomenti a favore e a sfavore di queste due teorie? A vostro parere, quali obiettivi di lungo periodo bisognerebbe perseguire per quanto riguarda l’inflazione? 3.4
Che cosa dice la legge di Okun? In che modo ci aiuta a stimare il costo della disoccupazione (per la collettività)?
3.5
Quali sono i costi dell’inflazione perfettamente attesa? Questi costi cambiano al variare del tasso d’inflazione?
3.6
Quali sono i costi dell’inflazione imperfettamente attesa? Illustrateli in maniera dettagliata. Chi ci guadagna e chi ci rimette quando l’inflazione è più alta del previsto?
3.7
Il nostro Paese dovrebbe fare più ampio ricorso all’indicizzazione? Spiegate quali sarebbero i pro e i contro. La vostra risposta sarebbe diversa se per il prossimo futuro fosse previsto un tasso d’inflazione molto elevato (diciamo del 300%)?
b. Chi verrebbe danneggiato? c. Votereste a favore di questo progetto? 3.3
Poiché nel lungo periodo è possibile ridurre l’inflazione senza che ciò comporti un aumento della disoccupazione, alcuni sostengono che l’inflazione dovrebbe essere eliminata completamente. Secondo altri, invece, l’obiettivo da perseguire è un tasso d’inflazione ridotto (poniamo del 3%) e stabile.
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Problema 3.1
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Usate le seguenti informazioni per calcolare il tasso di disoccupazione. Supponete che la forza lavoro sia costituita da due gruppi principali: i giovani al di sotto dei vent’anni e gli adulti, e che questi ultimi siano divisi in uomini e donne. I giovani al di sotto dei vent’anni rappresentano il 10% della forza lavoro, gli adulti il rimanente 90%. Il 35% dei lavoratori adulti sono donne. Supponete inoltre che i tassi di disoccupazione relativi ai diversi gruppi siano i seguenti: giovani al di sotto dei vent’anni, 19%; uomini, 7%; donne, 6%. a. Calcolate il tasso di disoccupazione complessivo. b. Come varierebbe il tasso di disoccupazione complessivo se la quota di giovani nella forza lavoro passasse dal 10 al 15%?
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Capitolo 3
Mappa concettuale Capitolo 1 Introduzione Capitolo 2 Contabilità nazionale
Capitolo 2 Contabilità nazionale
Paragrafo 3.1 Crescita economica
Capitolo 16 Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico Capitolo 17 Teoria neoclassica e contabilità della crescita
Paragrafo 3.2 Input di lavoro e disoccupazione
Capitolo 9 Inflazione e disoccupazione
Paragrafo 3.3 Inflazione
Capitolo 9 Inflazione e disoccupazione
Paragrafo 3.4 Teoria del ciclo politico
Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito
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Parte II
Modelli di base: la macroeconomia a prezzi fissi
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Capitolo 4
Reddito e spesa
Obiettivi di apprendimento • Nel breve periodo il livello dell’attività economica dipende dalla domanda aggregata, che determina il prodotto e il reddito nazionale. Il reddito influisce a sua volta sulla spesa per il consumo e quindi di nuovo sulla domanda aggregata e sul prodotto. • Si ha pertanto un fenomeno di interdipendenza con un effetto moltiplicatore: in altri termini, un incremento della spesa autonoma fa crescere il PIL di un importo superiore all’incremento iniziale. • La spesa dello Stato per beni e servizi è una componente importante della spesa autonoma. Il suo aumento fa quindi cre-
scere la domanda aggregata e, di conseguenza, il reddito nazionale e le entrate fiscali; poiché tuttavia queste ultime aumentano in misura inferiore rispetto alla spesa, aumenterà il disavanzo del bilancio dello Stato. Per finanziare il disavanzo lo Stato dovrà emettere titoli del debito pubblico e pagare interessi. Un eccessivo indebitamento potrebbe pertanto creare sfiducia nei confronti del Tesoro e far aumentare il tasso d’interesse. L’espansione della spesa pubblica può in conclusione far aumentare il reddito e l’occupazione nel breve termine, ma è soggetta a forti limiti.
Una delle questioni centrali della macroeconomia riguarda i motivi delle fluttuazioni del prodotto intorno al livello potenziale. La crescita economica, infatti, è estremamente irregolare: nelle fasi di espansione e di recessione del ciclo economico la produzione rispettivamente aumenta e diminuisce in rapporto all’andamento del prodotto potenziale. Negli ultimi trent’anni, nei Paesi industrializzati, si sono verificate diverse recessioni, durante le quali il PIL è sceso rispetto al prodotto potenziale. Nelle fasi di ripresa, invece, il PIL è salito più del livello potenziale. In questo capitolo presenteremo una prima teoria volta a spiegare le fluttuazioni del PIL, teoria che si basa sulla reciproca interazione tra prodotto e spesa: quest’ultima determina la produzione e il reddito, ma il prodotto e il reddito a loro volta influiscono sulla spesa. Il modello keynesiano della determinazione del reddito nazionale che illustreremo più avanti è molto semplice e verrà arricchito di nuovi elementi nei capitoli successivi. La semplificazione fondamentale consiste nell’ipotizzare un contesto di breve periodo, ossia un livello dei prezzi costante. In questo modo le imprese possono produrre e vendere, a quel prezzo, qualunque quantità di prodotto consentita dalla capacità produttiva degli impianti disponibili, di conseguenza si suppone che la curva di offerta aggregata, che discuteremo in modo approfondito nei Capitoli 8 e 9, sia una retta orizzontale
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Capitolo 4
rispetto al livello dei prezzi. In questo capitolo ci concentreremo quindi sul ruolo della domanda aggregata. La tesi centrale del capitolo è che, a causa dell’effetto di interazione reciproca esistente tra spesa e reddito, aumenti della spesa autonoma, per esempio maggiori acquisti di beni e servizi da parte dello Stato, determinino ulteriori incrementi della domanda aggregata, stimolando in particolare la spesa per beni di consumo. Nei capitoli successivi prenderemo, invece, in considerazione gli effetti di freno dovuti alle variazioni del livello dei prezzi e dei tassi di interesse.
4.1 Offerta aggregata, domanda aggregata e prodotto d’equilibrio Come si è visto nel Capitolo 1, il livello dell’attività economica è governato dalle forze dell’offerta aggregata e della domanda aggregata: possiamo ora analizzarle una per una con maggiore dettaglio. L’offerta, ovvero la quantità di beni e servizi che un sistema economico è in grado di produrre, dipende dai fattori produttivi disponibili e dallo stato della tecnologia. La funzione della produzione rappresenta in modo sintetico la relazione che intercorre fra input e output. Supponiamo per semplicità che tutti i fattori produttivi siano riconducibili a due: il lavoro (N) e il capitale (K). L’Equazione [1] indica che il prodotto interno lordo (in breve il prodotto), che indichiamo con Y, dipende dalle quantità disponibili di tali due fattori e dallo stato della tecnologia (T): Y = f (K, N, T)
Prodotto potenziale Prodotto che è possibile ottenere quando tutti i fattori sono pienamente impiegati.
[1]
dove f è il simbolo di “funzione” (indicante che la variabile Y dipende dalle variabili tra parentesi), mentre T rappresenta lo stato della tecnologia in senso lato, compresa cioè la capacità organizzativa delle imprese. A parità di K e di N, quanto più alto è il parametro T (ossia quanto più avanzata è la tecnologia) tanto maggiore sarà Y. Indichiamo con Y* il livello massimo di prodotto che è possibile ottenere quando tutti i fattori sono pienamente impiegati. Y* può quindi anche essere definito prodotto potenziale o prodotto di pieno impiego dei fattori produttivi. Nel breve periodo, come si è già ipotizzato nel Capitolo 1, il capitale, la forza lavoro (FL) e la tecnologia sono dati e quindi anche Y* assume un valore determinato. Il prodotto effettivo (Y) potrà quindi variare tra 0 e Y*, mentre l’occupazione (N) potrà oscillare tra 0 e FL (totale della Forza Lavoro). Nel lungo periodo, invece, Y* potrà crescere, a condizione che la popolazione e quindi la forza lavoro aumentino, si sviluppi il progresso tecnologico e il capitale sia incrementato dall’investimento. Ricordiamo infatti che I (investimento lordo) ha due componenti: una quota (definita ammortamento) volta a rimpiazzare i beni capitali che hanno subìto un’usura fisica o tecnologica e un’altra (investimento netto) destinata ad aumentare lo stock di capitale e quindi la capacità produttiva. Rinviamo ai Capitoli 16 e 17 per un’analisi delle forze che governano la crescita del prodotto potenziale Y*. In questo capitolo e in quelli successivi ci occuperemo invece del breve periodo nel quale, come si è detto, il valore di Y* è dato. Consideriamo ora il lato della domanda. La domanda aggregata, come sappiamo dal Capitolo 2, è la quantità totale dei beni e dei servizi prodotti in uno Stato e domandati, per consumo o per investimento, dai suoi residenti oppure da Paesi esteri. Nei conti nazionali, le componenti di tale domanda sono contenute nel lato destro del conto delle risorse e degli impieghi, otteniamo la sua formula sommando la spesa per con-
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sumi (C), per investimenti (I), la spesa pubblica (G) e le esportazioni nette (NX), ossia la domanda aggregata (AD): AD = C + I + G + NX
[2]
Il prodotto (Y) si trova al livello di equilibrio quando la quantità di beni offerta è uguale a quella domandata. Perciò l’economia è in equilibrio di breve periodo quando: Y = AD
[3]
Se invece la domanda aggregata non è uguale al prodotto offerto dalle imprese, come effetto immediato si ha una variazione non programmata delle scorte, ovvero: IU = Y – AD dove IU (dall’inglese Inventories Unplanned) indica appunto tale variazione. Se la produzione è superiore alla domanda aggregata si hanno investimenti in scorte non programmati, ossia IU > 0; se si accumulano scorte in eccesso, le imprese riducono la produzione finché la quantità prodotta e la domanda aggregata non sono di nuovo in equilibrio. Al contrario, se la produzione è inferiore alla domanda le scorte diminuiscono, IU < 0, e la produzione viene aumentata fino al ripristino dell’equilibrio, ossia fino a che Y = AD e IU = 0. Da questo primo modello con tre equazioni – dalla [1] alla [3] – e tre incognite (Y, N e AD) possiamo trarre alcune conclusioni significative, anche se provvisorie. In primo luogo, osserviamo che se il prodotto effettivo d’equilibrio (Y = AD) è inferiore al prodotto potenziale, ovvero se Y < Y*, si avrà anche N < FL e quindi una parte della forza lavoro rimarrà disoccupata. Se questa situazione dovesse durare a lungo, è possibile che i lavoratori accettino decurtazioni del salario e le imprese siano indotte a diminuire i prezzi dei loro prodotti. Il caso opposto è quello in cui la domanda aggregata eccede la produzione di pieno impiego, ovvero AD > Y*. In tal caso, poiché l’occupazione non può andare oltre la forza lavoro disponibile (piena occupazione), i salari e i prezzi tenderanno invece ad aumentare. Del problema delle variazioni dei prezzi e dei salari, così come delle conseguenze che tali variazioni possono avere sul sistema economico, ci occuperemo nei Capitoli 8 e 9, nell’ambito dell’analisi del cosiddetto medio periodo. Nei prossimi paragrafi del presente capitolo, così come nei restanti capitoli della Parte II, continueremo invece a sviluppare l’analisi di breve periodo della domanda aggregata, mantenendo l’ipotesi dei prezzi dati.
4.2 Funzione del consumo, domanda aggregata e reddito d’equilibrio Avendo definito con precisione il concetto di prodotto di equilibrio nel breve periodo, analizziamo ora in dettaglio i fattori che determinano la domanda aggregata e le sue componenti. Ci soffermiamo in particolare sulla domanda di beni di consumo e sul legame esistente tra consumo e reddito. Per semplicità tralasciamo per ora il settore pubblico e il commercio estero, stabilendo dunque che G e NX nell’Equazione [2] siano uguali a zero. La domanda di beni di consumo in effetti cresce all’aumentare del reddito: come le famiglie con un reddito più elevato hanno un livello di consumo maggiore rispetto alle famiglie più povere, così i Paesi il cui reddito nazionale è più alto hanno livelli di consumo globale superiori. La relazione tra consumo e reddito è descritta dalla funzione del consumo.
Livello di equilibrio del prodotto Livello di prodotto al quale l’offerta aggregata e la domanda aggregata si equivalgono.
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Capitolo 4
Funzione del consumo Equazione che mette in relazione il consumo con il reddito disponibile. Reddito disponibile Reddito complessivo al netto delle imposte più i trasferimenti.
4.2.1 Funzione del consumo La funzione del consumo dipende dal reddito disponibile (YD), ossia dal reddito che resta al settore privato dopo che lo Stato ha prelevato le imposte ed effettuato i trasferimenti. In questo paragrafo, tuttavia, si è ipotizzata l’assenza del settore pubblico ovvero della tassazione e dei trasferimenti, e pertanto il reddito disponibile è pari al reddito totale, che a sua volta è uguale al prodotto, per cui YD = Y. Ciò premesso, supponiamo che la funzione del consumo abbia la seguente forma lineare: – – C = C + cYD = C + cY
Propensione marginale al consumo Consumo aggiuntivo che deriva da un aumento di 1 euro del reddito disponibile.
– C>0
0> >>
Y0
Reddito, prodotto
Pet
[7b]
i lavoratori vedranno decurtato il potere d’acquisto del loro salario e pertanto è probabile che in occasione della successiva contrattazione salariale, le loro richieste diventeranno più elevate. In tal caso W aumenterà e i datori di lavoro trasferiranno sui prezzi i nuovi aumenti salariali. Si metterà così in moto una spirale prezzi-salari che potrà essere fermata soltanto da un ritorno del tasso di disoccupazione al livello iniziale. In conclusione, il conflitto distributivo fra datori di lavoro e lavoratori descritto dalle Equazioni [3b] e [5b] tende a generare inflazione quando i prezzi effettivi sono più alti di quelli attesi. Si potrebbe verificare anche un terzo caso: Pt < Pet. In tale situazione il potere d’acquisto dei salari sarebbe maggiore del previsto e i lavoratori dovrebbero quindi accet1 Per questa definizione (derivata da Samuelson P.A., Fondamenti dell’analisi economica, Il Saggiatore, Milano
1976), si veda Balducci R., Candela G., Scorcu A.E., Teoria della politica economica. Modelli dinamici e stocastici, Zanichelli, Bologna 2002, Capitolo 12.
Spirale prezzi-salari Processo nel quale le variazioni dei prezzi si ripercuotono sui salari e da questi di nuovo sui prezzi.
Pt =
Wt (1 + z) a
g Wt = u Pet t
[3b] [5b]
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Capitolo 9
tare salari nominali più bassi, ma è poco realistico pensare che lo facciano, come si è visto nel capitolo precedente (Paragrafo 8.2.3). 9.1.3 La funzione di offerta AS con prezzi variabili: il ruolo delle aspettative Le aspettative svolgono dunque un ruolo di particolare rilievo nella generazione o meno del processo inflazionistico. Per meglio comprendere questo aspetto sostituiamo l’Equazione [5b] nella [3b] così da ottenere la seguente funzione dinamica del livello dei prezzi: Pt =
g(1 + z) e Pt aut
[8]
Come si può notare dall’Equazione [8], il livello effettivo dei prezzi (Pt) nel periodo t dipende dal prezzo atteso dai lavoratori (Pet). Sulla formazione dei prezzi attesi si possono fare diverse ipotesi. In particolare, considereremo i seguenti tipi di aspettative: (a) date; (b) adattive statiche; (c) adattive aumentate dall’inflazione (o accelerative); (d) razionali. Le ultime due categorie di aspettative saranno discusse nei Paragrafi 9.5 e 9.6. Aspettative date Secondo questa ipotesi i lavoratori ritengono che esista un livello “normale” dei prezzi rappresentato da P* e che quindi qualsiasi deviazione da quel livello debba considerarsi temporanea e reversibile. Nell’Equazione [5b] di richiesta del salario nominale, la variabile Pet va pertanto sostituita dalla costante P*, ovvero: Pet = P*
P=
– βM
– Y − γA
[9a (Cap. 8)]
u ≡ DIS ≡ FL − N ≡1 − N FL FL FL [11 (Cap. 8)]
[9]
In questo caso un’eventuale variazione dei prezzi correnti non determinerà alcuna richiesta di aumento del salario nominale W. I lavoratori, in altri termini, accetteranno una riduzione del salario reale, ritenendola puramente temporanea. Sostituendo l’ipotesi [9] nell’Equazione [8], si ottiene la seguente versione della funzione dei prezzi: g(1 + z) Pt = P* [8a] aut Come si può notare, una riduzione del tasso di disoccupazione u determinerebbe inizialmente un aumento una tantum dei salari e dei prezzi, ma le aspettative rimarrebbero date al livello P* e di conseguenza non vi sarebbe un ulteriore impulso sui salari e quindi sui prezzi. In altri termini, non si originerebbe un processo inflazionistico e i prezzi rimarrebbero fermi al nuovo livello. Il caso delle aspettative date è illustrato per un’economia chiusa dalla Figura 9.2, dove la curva di domanda aggregata ADP rappresenta l’Equazione [9a] del capitolo precedente (Paragrafo 8.2.1). L’equazione è stata ottenuta, come si ricorderà, dalla combinazione delle funzioni IS e LM. La nuova curva di offerta aggregata AS si ricava, invece, dall’Equazione [8a] sostituendo la variabile ut con il lato destro della seguente espressione: u = 1 − N/FL (ricavata dall’Equazione [11] del Capitolo 8). L’Equazione [8a] pertanto diventa: Pt =
g(1 + z) P* a(1 − Nt /FL)
[10]
Tenuto poi conto della funzione della produzione di breve periodo ipotizzata nelle – – Equazioni [8] e [7b] del Capitolo 8, Yt = a Nt e Y* = a FL, e che pertanto N/FL = – – = (Y/a )/(Y*/a ) = Y/Y*, la [10] può essere riscritta nel seguente modo:
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Inflazione e disoccupazione
Livello dei prezzi
P
ADP
AD P′
Figura 9.2 Domanda aggregata (ADP) e offerta aggregata (AS) con aspettative date Uno spostamento verso l’alto della curva di domanda aggregata, dovuto a una politica monetaria e/o fiscale espansiva, determina un aumento una tantum di Y e del livello dei prezzi (P), ma non genera inflazione, perché l’aumento di P è considerato temporaneo e reversibile.
AS
E1
P1
E0
Pt = P*
g (1 + z)P*/a
Yt
Y1
Y*
Y
Prodotto
funzione AS con aspettative date
Pt =
g(1 + z) P* a(1 − Yt /Yt*)
[11]
L’Equazione [11], ovvero la funzione AS con aspettative date, è rappresentata nella Figura 9.2. Come si può notare, per Yt = 0 il prezzo assumerebbe, sull’asse delle ordig(1 + z) P*, mentre per Y tendente a Y* (PIL di piena nate, un valore minimo Pmin = a occupazione) il prezzo tenderebbe all’infinito. La curva AS è di conseguenza asintotica all’asse Y*. Se confrontiamo la Figura 9.2 con la Figura 8.1, quadrante (c), del Capitolo 8, possiamo apprezzare il cambiamento di forma della curva AS: nella Figura 8.1 era ad angolo retto, a causa dell’ipotesi del salario dato sino al livello della piena occupazione. Nella Figura 9.2 la funzione AS è invece una curva concava verso l’alto in seguito all’ipotesi (Equazione [5b]) che il tasso di disoccupazione (u) eserciti un’influenza negativa sul salario nominale, W, e quindi sul livello dei prezzi, P. Sempre con riferimento alla Figura 9.2, supponiamo che l’offerta aggregata incroci inizialmente la domanda aggregata esattamente nel punto E0 in corrispondenza del quale Pt = P*: il prezzo di equilibrio nel periodo t è pertanto al livello considerato “normale” dai lavoratori. Supponiamo poi che, per effetto di una politica monetaria e/o fiscale espansiva, la curva di domanda aggregata si sposti nella posizione ADP′ e che incroci pertanto la curva AS in corrispondenza di un prezzo P1 > P* e di un prodotto Y1 > Y0. Anche la nuova posizione di equilibrio può essere considerata stabile dal momento che i lavoratori, ritenendo temporaneo l’aumento dei prezzi, non chiederanno ulteriori aumenti salariali. Le aspettative date non generano quindi inflazione, ma soltanto un aumento una tantum del livello dei prezzi. Aspettative adattive statiche Se, tuttavia, i prezzi rimangono fermi al nuovo più alto livello P1, senza tornare al livello P* ritenuto “normale” dai lavoratori, questi ultimi prima o poi si renderanno conto di aver formulato una previsione sbagliata e, in occasione del rinnovo del contratto, chiederanno un adeguamento salariale che compensi la decurtazione di potere d’acqui-
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Pt =
Capitolo 9
g(1 + z) e Pt aut
Pet = P*
[8]
sto causata dall’aumento dei prezzi. L’adeguamento salariale potrebbe anche avvenire automaticamente se fosse previsto dal contratto di lavoro. In Italia, per esempio, fra il 1957 e il 1992 è rimasto in vigore il cosiddetto istituto della “scala mobile” che prevedeva l’adeguamento automatico della retribuzione dei lavoratori dipendenti alle variazioni dell’indice del costo della vita avvenute nei sei mesi precedenti. Possiamo definire aspettative adattive l’ipotesi che il livello dei prezzi atteso per il periodo t non sia dato, ma sia influenzato dall’andamento dei prezzi nei periodi precedenti. Nel caso semplificato in cui il livello atteso sia quello assunto dai prezzi nell’ultimo periodo, le aspettative, seguendo la terminologia di Milton Friedman,2 si possono definire adattive statiche. Dal punto di vista formale, per tenere conto di quest’ultimo tipo di aspettative, si deve semplicemente sostituire l’Equazione [9] con la seguente:
[9]
Pet = Pt – 1
[9a]
L’Equazione [8] di conseguenza diventa: g(1 + z) Pt = Pt – 1 aut
[8b]
Poiché, come si è visto in precedenza, ut ≡ 1 − N/FL ≡ 1 − Yt /Yt*, sostituendo quest’ultima espressione nell’Equazione [8b] si ottiene la seguente funzione dinamica di offerta aggregata: funzione AS con aspettative adattive statiche
Pt =
g(1 + z) Pt – 1 a(1 − Yt /Yt*)
[12]
Il caso delle aspettative adattive statiche è rappresentato nella Figura 9.3. Come nel caso precedente della Figura 9.2, partiamo da una posizione di equilibrio E0 nella quale il prezzo effettivo nel periodo t è per ipotesi pari al prezzo atteso, che però in questo caso non è dato, ma coincide con il prezzo del periodo precedente, ossia Pt = Pet = Pt – 1. Data questa ipotesi sui prezzi attesi, dall’Equazione [12] si ottiene il seguente valore di Y.
Livello dei prezzi
Figura 9.3 Domanda aggregata (ADP) e offerta aggregata (AS) con aspettative adattive statiche: caso di un aumento della domanda Uno spostamento verso l’alto della curva di domanda aggregata (politica monetaria e/o fiscale espansiva) porta in E1 con l'aumento del prodotto (Y) e dei prezzi (P), ma poi aumentano i salari nominali (W) e la curva AS si sposta in alto a sinistra. Nella posizione finale E2 il prodotto Y ritorna al livello iniziale YNI.
P
Pt + 2 Pt + 1 Pt = Pt – 1
ADP
YNI AS′
ADP′
AS
E2 E1 E0
g(1 + z)Pt + 1/a g(1 + z)Pt – 1/a
Yt = YNI Yt + 1
Y*
Y
Prodotto
2
Si veda Friedman M., “The Role of Monetary Policy”, American Economic Review, vol. 58, 1968.
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Inflazione e disoccupazione
Yt = [1 −
g(1 + z) ]Yt* = YNI a
[13]
YNI può essere definito prodotto non inflazionistico poiché ha la caratteristica di non generare aumenti dei prezzi. Si noti che, essendo per ipotesi g(1 + z) < a (questo punto sarà meglio precisato nel prossimo paragrafo), il prodotto “non inflazionistico” è maggiore di zero e inferiore al prodotto potenziale, ovvero 0 < YNI < Y*. Se ora nella Figura 9.3 ripetiamo l’esperimento di uno spostamento verso l’alto della curva di domanda aggregata nella posizione ADP′ (politica monetaria e/o fiscale espansiva), otteniamo un nuovo punto di equilibrio E1 con un livello del prezzo Pt + 1 > Pt e un prodotto Y1 > YNI. Si potrà, come nel caso precedente della Figura 9.2, considerare stabile la nuova posizione di equilibrio? La risposta è no! I lavoratori, infatti, nel periodo successivo (t + 2), essendo aumentati i prezzi nel periodo t + 1, chiederanno un adeguamento salariale che le imprese concederanno per evitare conflitti sindacali, ma che poi trasferiranno sui prezzi. La curva di offerta AS si sposterà pertanto verso l’alto a sinistra andando a incrociare la nuova curva di domanda in corrispondenza di un prezzo più elevato e di un prodotto più basso. Il sistema, come mostra la Figura 9.3, raggiungerà una nuova posizione di equilibrio nel punto E2. Lo spostamento della funzione AS nella posizione AS′ riporta quindi il prodotto al livello iniziale YNI: soltanto allora, infatti, la disoccupazione sarà tale da scoraggiare ulteriori richieste salariali. Se invece le autorità responsabili della politica economica volessero mantenere l’obiettivo di prodotto Y1, dovranno continuare a spostare la domanda verso l’alto in modo da compensare gli spostamenti dell’offerta, accettando di conseguenza un continuo aumento del livello dei prezzi ovvero un tasso costante di inflazione. Ci possiamo ora chiedere se valga il ragionamento simmetrico nel caso di una caduta della domanda aggregata. Consideriamo la Figura 9.4 dove, partendo dalla posizione di equilibrio E0 nella quale il prodotto è al livello “non inflazionistico”, la
YNI
Livello dei prezzi
AS AS′
P
ADP
ADP′
Pt = Pt – 1
Figura 9.4 Domanda aggregata (ADP) e offerta aggregata (AS) con aspettative adattive statiche: caso di una caduta della domanda Lo spostamento verso il basso della curva ADp porta, in caso di rigidità dei salari nominali, non nella posizione E2 con la caduta dei prezzi, ma nella posizione ER con la caduta di Y al livello YR.
E0
ER E1
Pt + 1 Pt + 2
E2
g (1 + z)Pt – 1/a g (1 + z)Pt + 1/a
YR
Yt + 1 Yt = YNI = Yt + 2 Prodotto
Y*
Y
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Capitolo 9
curva ADP si sposta verso il basso nella posizione AD′P . In linea teorica, date le ipotesi fatte, i prezzi dovrebbero cadere prima al livello Pt + 1 e poi, in seguito allo spostamento verso il basso della funzione AS, al livello Pt + 2. Il prodotto, pertanto, ritornerebbe spontaneamente al livello “non inflazionistico” YNI grazie alla flessibilità (verso il basso) dei salari e dei prezzi. Se però vale l’ipotesi avanzata nei capitoli precedenti della rigidità verso il basso dei salari e dei prezzi, il sistema economico potrebbe attestarsi nella posizione di equilibrio di “recessione” ER con un livello dei prezzi inalterato al livello Pt = Pt – 1 e un prodotto pari a YR. La disoccupazione si attesterebbe quindi a un livello superiore a quello “non inflazionistico” e potrebbe pertanto rendersi opportuno (necessario) un intervento di politica economica, fiscale e/o monetaria, per riportare l’economia al livello YNI. In conclusione, in un regime di aspettative adattive statiche, se la domanda aggregata supera il livello del prodotto “non inflazionistico”, si manifesterà una spirale salari-prezzi che, in assenza di interventi monetari o fiscali di sostegno alla domanda, tenderà a riportare il prodotto nella posizione iniziale YNI. Nel caso opposto di una caduta della domanda aggregata al di sotto di YNI si potrebbe, invece, verificare una “resistenza” alla diminuzione dei salari nominali e dei prezzi. In tal caso il sistema si attesterebbe su una posizione di equilibrio stabile con un livello di disoccupazione relativamente elevato che le forze spontanee del mercato non sarebbero in grado di ridurre. Ulteriori approfondimenti sul mercato del lavoro in un contesto non perfettamente concorrenziale sono disponibili nell’Appendice al presente capitolo.
APPROFONDIMENTO 9.2 Rigidità dei salari e disoccupazione: i modelli insider-outsider e la teoria dei salari di efficienza
Teoria insider-outsider Teoria che sostiene che i salari rimangono al di sopra del livello di equilibrio perché i disoccupati non si siedono al tavolo delle trattative. Teoria dei salari di efficienza Teoria secondo la quale i salari potrebbero essere fissati a un livello superiore al prezzo di equilibrio del mercato allo scopo di motivare i lavoratori; essa fornisce una possibile spiegazione della rigidità dei salari e dello squilibrio del mercato del lavoro.
Nel precedente capitolo, in particolare nel Paragrafo 8.2, abbiamo accennato ai motivi per i quali le imprese potrebbero trovarsi nella impossibilità di ridurre i salari, e quindi i prezzi, a causa della resistenza dei loro dipendenti. Tali motivi sono approfonditi dalla cosiddetta teoria insider-outsider e dai modelli di contrattazione sindacale. Queste teorie dividono la forza lavoro in due grandi gruppi: gli insider, vale a dire i lavoratori già assunti dall’impresa, e gli outsider, ossia i disoccupati in cerca di lavoro. I primi, nella contrattazione con i datori di lavoro, cercano di difendere le proprie retribuzioni dalla concorrenza dei disoccupati avvalendosi del fatto che per le imprese il turnover ha costi palesi (tempi e costi sia di licenziamento del personale occupato, sia di selezione e formazione del nuovo personale) e occulti, per esempio la minaccia di un comportamento ostile da parte degli insider nei confronti dei nuovi assunti. Ma si può anche ritenere che le stesse imprese non abbiano convenienza ad abbassare le retribuzioni, pur in presenza di disoccupazione. Questa tesi è sostenuta dalla teoria dei salari di efficienza in base alle seguenti considerazioni: le imprese, soprattutto di grandi dimensioni, non sono in grado di controllare l’impegno dei propri dipendenti; di conseguenza, garantire a questi ultimi retribuzioni stabili e relativamente elevate può essere un modo efficace per motivarli e stimolarne la produttività e, allo stesso tempo, per attirare nell’azienda personale particolarmente qualificato. Per un esame più approfondito delle suddette teorie, si rinvia all’Appendice di questo capitolo.
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Inflazione e disoccupazione
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9.2 Tasso di inflazione e curva di Phillips con aspettative adattive statiche L’analisi condotta nel paragrafo precedente può essere svolta in modo da mettere in evidenza la variabile tasso di inflazione, che indichiamo con π, e il suo rapporto con il tasso di disoccupazione. Innanzitutto ricordiamo che π rappresenta la variazione percentuale del livello generale dei prezzi fra due determinati periodi, ossia: ΔP P − Pt – 1 πt ≡ t ≡ [14] Pt – 1 Pt – 1 Riprendiamo poi in esame l’Equazione [8b], basata sull’ipotesi di aspettative adattive statiche. Dividendo per Pt – 1 ambedue i lati dell’equazione e tenendo presente Pt – 1 + ΔP ΔP Pt che P = = 1 + Pt – 1 Pt – 1 = 1 + πt, si ottiene la seguente espressione: t–1 1 + πt =
Pt =
g(1 + z) Pt – 1 aut
[8b]
g(1 + z) , da cui: aut
g(1 + z) −1 [15] aut L’Equazione [15] fornisce un’interpretazione della curva di Phillips, ossia della correlazione negativa (o trade-off) fra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione rilevata empiricamente, come si è ricordato all’inizio di questo capitolo, da A.W. Phillips per il Regno Unito (Figura 9.1). Numerosi studi su altri Paesi hanno successivamente confermato l’esistenza di tale relazione, anche se, come vedremo nel Paragrafo 9.10, essa ha subìto negli ultimi tempi sostanziali modifiche. L’Equazione [15] è rappresentata nella Figura 9.5. Per comprendere l’andamento della curva osserviamo che per u tendente a 0 il tasso di inflazione π tende all’infinito, mentre per u pari a 1 (valore massimo che può assumere il tasso di disoccupazione), π ha un valore negativo: è infatti ragionevole ritenere, sempre con riferimento all’Equazione [15], che g(1 + z) sia inferiore ad a e che quindi g(1 + z)/a sia inferiore πt =
curva di Phillips
Figura 9.5 Curva di Phillips e conflitto distributivo
Tasso di inflazione
π
π= π1
E1
g (1 + z) aut
–1
u=1
0 u1
uNI
Tasso di disoccupazione
–1 uNI = tasso di disoccupazione non inflazionistico
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Pt =
Capitolo 9
g(1 + z) Pt – 1 aut
[8b]
g(1 + z) ]Yt* = YNI a [13] g(1 + z) −1 [15] πt = aut Yt = [1 −
a 1. Il motivo di questa affermazione è che g (il salario reale minimo richiesto dai lavoratori) rappresenta la quantità di beni o di servizi che il singolo lavoratore si può procurare svolgendo attività in proprio, mentre a è la quantità di beni, molto più elevata, che lo stesso lavoratore è in grado di produrre in un contesto produttivo più organizzato ed efficiente come quello dell’impresa. a/(1 + z) rappresenta invece il salario reale, ossia la quota del prodotto per addetto che perviene al lavoratore. Poiché la curva di Phillips è inclinata negativamente e taglia l’asse delle ascisse, esiste un particolare valore di u in corrispondenza del quale il tasso di inflazione è nullo: definiremo dunque tasso di disoccupazione non inflazionistico (uNI) tale valore. Il tasso uNI può essere calcolato dall’Equazione [15] ponendo πt = 0 oppure dalla precedente Equazione [8b] ponendo Pt = Pt – 1. In ambedue i casi si ottiene: uNI =
g(1 + z) a
[16]
La curva di Phillips può anche essere espressa come relazione tra π e Y. Ricordando, infatti, che u ≡ 1 − Y/Y*, se si sostituisce tale espressione nell’Equazione [15] si ha: π=
g(1 + z) −1 a(1 − Y/Y*)
[17]
L’Equazione [17] è illustrata dalla Figura 9.6 dove, come si può notare, per Y = 0 il tasso di inflazione π è pari a g(1 + z)/a − 1 ed è quindi negativo; per Y = YNI il tasso di inflazione è nullo, mentre per Y tendente al prodotto di pieno impiego (Y*), π tende asintoticamente all’infinito. Ponendo inoltre π = 0 possiamo calcolare il livello del prodotto non inflazionistico (YNI), già rappresentato nell’Equazione [13]. Sostituendo l’Equazione [16] nella [13], notiamo che YNI può essere espresso anche nella forma seguente: YNI = (1 − uNI)Y*
[18]
Possiamo ora trarre alcune conclusioni di politica economica. A tal fine conviene ritornare allo schema IS-LM e integrarlo con l’analisi dell’inflazione che abbiamo sin Figura 9.6 Curva di Phillips come relazione tra inflazione (π) e prodotto (Y)
π
π=
g (1 + z) a(1 – Y/Y*)
–1
E1
π1
0
E0 YNI
g(1 + z)/a – 1
Y1
Y*
Y
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Inflazione e disoccupazione
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qui effettuato. Nel prossimo paragrafo considereremo il caso dell’economia chiusa, mentre nei paragrafi successivi prenderemo in esame l’economia aperta, in regime prima di cambi fissi e poi di cambi flessibili.
9.3 Modello IS-LM con inflazione in economia chiusa L’abbandono dell’ipotesi che i prezzi e i salari siano dati, e quindi la presenza dell’inflazione, comportano per il modello IS-LM alcuni cambiamenti di rilievo. Nel caso dell’economia chiusa il sistema di equazioni assume, infatti, la seguente configurazione3 (la lettera C sta per “economia chiusa”): – funzione IS Y = αG (A − br) [C.1] – L − MR k funzione LM i= + Y [C.2] h h relazione di Fisher
r=i−π
curva di Phillips
π=
equilibrio monetario
g(1 + z) −1 a(1 − Y/Y*)
ΔM =π M
[C.3] [C.4]
[C.5]
I cambiamenti più rilevanti, rispetto al modello con prezzi dati del Capitolo 8, sono i seguenti. • Nell’Equazione [C.1], ovvero nella funzione IS, compare, al posto del tasso di interesse nominale i, il tasso di interesse reale r, che definiamo nell’Equazione [C.3] come differenza fra i e il tasso di inflazione π. Il motivo di questa sostituzione deriva dal fatto che l’investimento in beni capitali è influenzato positivamente dall’inflazione. Se, infatti, il prezzo dei beni aumenta, anche il valore nominale del capitale fisico aumenterà e di conseguenza chi ha investito otterrà un guadagno in conto capitale. Per esempio, se un’impresa effettua un investimento di 100 000 euro prendendo a prestito la somma occorrente a un tasso nominale dell’8%, dopo un anno si troverà a pagare interessi per un importo di 8000 euro. Se tuttavia il tasso di inflazione (π) è del 5%, il valore previsto del capitale investito aumenterà, a parità di altre condizioni, di 5000 euro e di conseguenza il costo reale dell’operazione – ovvero al netto del guadagno in conto capitale – sarà, nel primo anno, soltanto di 3000 euro, ossia del 3%. L’Equazione [C.3] è nota come relazione di Fisher dal nome dell’economista statunitense Irving Fisher (1867-1947) che analizzò appunto il legame tra inflazione e tasso di interesse (effetto Fisher) nel saggio The Rate of Interest (Macmillan, New York 1907). Per un approfondimento dell’argomento si rinvia al Capitolo 12, in particolare l’Applicazione 12.1. • Nell’Equazione [C.2] la variabile MR ≡ M/P rappresenta la quantità di moneta in termini reali, mentre l’Equazione [C.5] definisce la condizione necessaria affinché MR, una volta raggiunto il proprio valore di equilibrio, rimanga stabile nel tempo. Affinché questo si verifichi è ovviamente necessario che la variazione percentuale di MR sia pari a zero, ossia: ΔMR/MR = 0. Sappiamo d’altra parte che la variazione percentuale di MR è data approssimativamente dalla seguente espressione (si veda la For3 Si veda Pettenati P., “Inflazione e disoccupazione”, Appunti di Macroeconomia, Capitoli 3-5, Dipartimento di Economia, Università Politecnica delle Marche, anno accademico 2005-06.
Relazione di Fisher r=i–π Effetto Fisher Tendenza dell’inflazione e dei tassi di interesse nominali a muoversi insieme.
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Capitolo 9
FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 9.1 Variazione della quantità reale di moneta La formula esatta della variazione proporzionale della quantità reale di moneta fra due periodi è: =
ΔM/M0 − π . Se infatti indichiamo con i suffissi 0 e 1 i valori assunti dalle variabili in esame rispettivamente 1+π
nei periodi 0 e 1, possiamo scrivere:
=
ΔMR = MR
ΔMR M1/P1 − M0/P0 (M0 + ΔM)/M0 1 + ΔM/M0 = = −1= −1= MR M0/P0 (P0 + ΔP)/P0 1 + ΔP/P0
ΔM/M0 − π 1 + ΔM/M0 − 1 − π = . Quest’ultima espressione può essere approssimata da ΔM/M0 − π per 1+π 1+π
valori non molto elevati di π.
π=
g(1 + z) − 1 [C.4] a(1 − Y/Y*)
ΔM =π M
[C.5]
– Y = αG (A − br) [C.1] – L − MR k i= + Y [C.2] h h [C.3] r = i − πe
malizzazione matematica 9.1): ΔMR /MR = ΔM/M − ΔP/P. Ponendo uguale a zero tale espressione, si ottiene appunto l’Equazione [C.5]: ΔM/M = π (dove ΔP/P ≡ π). • È necessario però precisare che l’Equazione [C.5] è valida soltanto in un contesto di medio periodo come quello che stiamo esaminando. In tale contesto il prodotto potenziale Y* è per ipotesi dato. Nella realtà sappiamo invece che Y* = aFL tende a crescere nel tempo in seguito all’aumento sia della produttività del lavoro (a) sia della forza lavoro (FL). Nel lungo periodo, pertanto, come si vedrà nel Paragrafo 17.7 del Capitolo 17, l’aumento della quantità di moneta dovrà essere tale da finanziare non soltanto l’inflazione, ma anche la crescita del prodotto potenziale, ossia: ΔM/M = ΔY*/Y* + π. • Infine, l’Equazione [C.4] rappresenta la curva di Phillips come relazione tra il tasso di inflazione π e il livello del prodotto Y. 9.3.1 Controllo dell’offerta di moneta Il modello IS-LM relativo a un’economia chiusa con inflazione è quindi composto da cinque equazioni e sei incognite (Y, r, i, π, MR, ΔM/M), ma bisogna tenere presente che l’autorità monetaria ha il controllo dell’offerta di moneta nominale e in particolare del suo tasso di variazione (ΔM/M). Il modello può quindi essere completato dalla seguente equazione: ––– ΔM ΔM =( ) [C.6] M M L’Equazione [C.6] riflette la realtà di molti Paesi industrializzati nei quali la Banca Centrale gode di totale autonomia dal potere politico e di norma persegue con determinazione l’obiettivo di tenere sotto controllo il tasso di inflazione. La Banca Centrale, in altri termini, fissando ΔM/M, pone un vincolo di lungo periodo al tasso di inflazione (Equazione [C.5]). La soluzione del modello procede quindi nel seguente modo: dato il livello di equilibrio di π, stabilito dalle Equazioni [C.5] e [C.6], si ottiene Y dalla curva di Phillips (Equazione [C.4]), il tasso di interesse reale (r) dalla funzione IS (Equazione [C.1]) e il tasso di interesse nominale (i) dalla relazione di Fisher [C.3]. Infine, l’Equazione [C.2], ovvero la funzione LM, determina l’ultima incognita: la quantità reale di moneta di equilibrio (MR). Il modello è rappresentato graficamente nella Figura 9.7, che riporta le curve IS e LM nel grafico (a) e la funzione [C.4] nel grafico (b), dove sull’ordinata misuriamo, oltre al tasso di inflazione, anche la variazione percentuale della quantità nominale di moneta (ΔM/M) fissata dalla Banca Centrale.
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Inflazione e disoccupazione
Figura 9.7 Modello IS-LM con inflazione in economia chiusa: politica fiscale inefficace Un aumento della spesa pubblica (o una riduzione della pressione fiscale) sposta la IS in alto a destra. Nella nuova posizione di equilibrio E1 aumentano Y e il tasso di inflazione. È quindi necessario che la Banca Centrale aumenti anche il tasso di crescita di M. In caso contrario cadrebbe la quantità di moneta reale e la funzione LM si sposterebbe in alto a sinistra, andando a incrociare la IS′ nel punto E2. Y ritornerebbe nella posizione iniziale. La manovra fiscale sarebbe quindi inefficace.
i IS′
LM′
IS E2 i2
E1
(a)
E0
i0
LM Y
π
(b) Curva di Phillips E1
(ΔM/M)′ = π1 ΔM/M = 0
YNI
Y1
Y*
Si noti che, per rappresentare la funzione IS come relazione fra i e Y, dobbiamo prima sostituire l’Equazione [C.3] nella [C.1] ottenendo la seguente espressione: – Y = αG (A − bi + bπ)
[C.1a]
L’Equazione [C.1a] mette in evidenza che il tasso di inflazione atteso ha un’influenza positiva sulla domanda aggregata poiché, come abbiamo già osservato, stimola gli investimenti. Mettendo poi in evidenza il tasso di interesse nominale (i), si ottiene dall’Equazione [C.1a]: – i= A +π− Y [C.1b] b bαG Come si nota da questa versione della funzione IS, il tasso di interesse nominale è direttamente proporzionale al tasso di inflazione π. Graficamente π fa parte dell’intercetta della IS sull’asse delle ordinate. Per comprendere il funzionamento del modello, supponiamo che nella Figura 9.7 la IS , tratta dall’Equazione [C.1b], e la LM si incrocino inizialmente nel punto E0 proprio in corrispondenza di YNI e che quindi non vi sia inflazione. Supponiamo, inoltre, che successivamente venga aumentata la spesa pubblica e che di conseguenza la curva IS si sposti verso l’alto nella posizione IS′, andando a incrociare la LM nel punto E1 e facendo aumentare il prodotto al livello Y1. Quest’ultimo, come si può notare dal grafico (b), genererà un tasso di inflazione pari a π1 e la Banca Centrale si troverà pertanto di fronte a un’alternativa: (a) finanziare l’inflazione con un pari aumento percentuale di M, in modo da lasciare inalterata la quantità reale di moneta e mantenere quindi la curva LM nella sua posizione originaria; (b) non ratificare l’inflazione, non
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Capitolo 9
aumentare quindi la quantità nominale di moneta (ΔM/M = 0) e lasciar diminuire la quantità reale, MR. In questo secondo caso la curva LM si sposterà verso l’alto sino a raggiungere la posizione LM′ e incrociare la IS′ nella posizione E2. Il prodotto ritornerà quindi al livello di origine YNI e l’inflazione sarà di nuovo azzerata. In conclusione, a differenza del sistema economico con prezzi dati, nel quale la politica fiscale può essere utilizzata indipendentemente dalla politica monetaria per raggiungere gli obiettivi di reddito e di occupazione prestabiliti, in un’economia soggetta a inflazione la manovra fiscale può avere successo soltanto se la politica monetaria è accomodante. In caso contrario la politica fiscale sarebbe non soltanto inefficace, ma anche dannosa, poiché, come si può notare dal grafico (a) della Figura 9.7, determinerebbe, se usata in senso espansivo, un aumento del tasso di interesse sia nominale (da i0 a i2) sia reale, dato che π torna a zero. Si avrebbe quindi uno spiazzamento degli investimenti privati, oltre che un aggravio delle finanze pubbliche, costrette a pagare interessi più alti sul debito pubblico. Questa è in fondo la storia della politica economica italiana negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: quel periodo fu infatti caratterizzato da una politica fiscale espansiva, volta a stimolare o a difendere l’occupazione, e da una politica monetaria restrittiva, volta a frenare l’inflazione causata dalle ricorrenti impennate del prezzo del petrolio (si veda il Paragrafo 9.10) e dalle rivendicazioni salariali. Il risultato fu un forte aumento dei tassi di interesse nominali e reali, che a loro volta contribuirono in misura significativa all’aumento ulteriore della spesa pubblica e quindi all’enorme accumulo del debito pubblico che ancora oggi caratterizza lo Stato italiano. La politica monetaria può invece essere efficace, ma al prezzo di un tasso di inflazione più elevato. Si consideri, infatti, la Figura 9.8 dove, partendo dalla solita posizione di equilibrio non inflazionistico, la Banca Centrale aumenta una tantum la quantità di moneta spostando quindi la funzione LM nella posizione LM′. Per effetto di questa manovra cade il tasso di interesse, salgono gli investimenti e quindi il prodotto aumenta a Y1, mentre l’inflazione sale da 0 a π1. Se l’autorità monetaria considera accettabile il nuovo tasso di inflazione, dovrà aumentare anche il tasso di variazione della quantità di moneta da 0 a ΔM/M = π1; in caso contrario, l’inflazione riporterebbe la quantità reale di moneta MR al livello iniziale e quindi anche Y tornerebbe al livello YNI. Si noti che, in seguito alla manovra monetaria espansiva, il tasso di interesse nominale non potrà restare al livello indicato dal punto E1 nel grafico (a) della Figura 9.8. Essendo, infatti, il tasso di inflazione salito da zero a π1, si verificherà, come si deduce dall’Equazione [C.1b], uno spostamento verso l’alto della funzione IS: aumenterà pertanto la domanda aggregata e l’inflazione supererà il limite considerato accettabile dalla Banca Centrale. L’eccesso di inflazione non sarà quindi finanziato, cadrà la quantità di moneta reale e la funzione LM si sposterà verso l’alto, andando a incrociare la nuova curva IS (non evidenziata nella Figura 9.8) nella posizione di equilibrio finale indicata nel grafico (a) dal punto E2. Rispetto alla posizione di equilibrio iniziale E0 non si avrà quindi un aumento del tasso di interesse nominale, ma una caduta del tasso di interesse reale che spiega, come si è osservato in precedenza, l’aumento degli investimenti e di Y. 9.3.2 Politica monetaria e regola di Taylor Come abbiamo visto nel Capitolo 5 (Approfondimento 5.2) e nel Capitolo 6 (in particolare nell’Approfondimento 6.1) e come vedremo in modo più dettagliato nel Capitolo 13 (Paragrafo 13.6), la crescente instabilità finanziaria di questi ultimi decenni ha indotto molte Banche Centrali, fra le quali il Federal Reserve System degli Stati Uniti e la Banca Centrale Europea, ad abbandonare il monetary targeting in senso stretto, ovvero la fissazione del tasso di crescita della quantità di moneta, come strumento
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Inflazione e disoccupazione
i IS E2 i0
LM
E0
LM′
(a)
E1
Y π (b) E1
ΔM/M = π1
ΔM/M = 0
YNI
Y1
YF
principale della politica monetaria. È infatti apparso evidente che se la domanda di moneta – o, se si vuole, la velocità di circolazione di M – è soggetta a frequenti e accentuate oscillazioni, mantenere rigida l’offerta di moneta (o il suo tasso di crescita) significa scaricare sui tassi d’interesse l’onere dell’aggiustamento. La fluttuazione dei tassi si ripercuoterà a sua volta sull’investimento, sulla domanda aggregata e sull’occupazione, trasmettendo così l’instabilità dal settore monetario a quello reale. Le nuove strategie di politica monetaria sembrano quindi più orientate al controllo dei tassi di interesse nominali secondo una regola che tenga conto delle variabili obiettivo più rilevanti del sistema economico. La regola di Taylor, come si può vedere nei capitoli citati, illustra in modo efficace la logica seguita dalle Banche Centrali ricordate in precedenza. Vediamo in che modo essa può essere inserita nel modello IS-LM con inflazione. In primo luogo, prendiamo atto che la fissazione del tasso d’interesse nominale secondo la regola di Taylor prende il posto dell’Equazione [C.6] come strumento principale della politica monetaria, ovvero: – Y−Y regola di Taylor i = r* + π + απ (π – π*) + αY (100 [C.6a] – ) Y – – dove r* è il tasso di interesse reale di equilibrio corrispondente al prodotto Y , essendo Y l’obiettivo di reddito della Banca Centrale, mentre π* è l’obiettivo d’inflazione. I coefficienti απ e αY indicano la reazione della Banca Centrale alle deviazioni del tasso d’inflazione, da un lato, e del prodotto, dall’altro, dai rispettivi valori obiettivo. Ciò premesso, supponiamo che la situazione economica sia esattamente quella desiderata dalla Banca – Centrale ovvero che Y = Y e π = π*. L’Equazione [C.6a] allora si semplifica e diventa:
271
Figura 9.8 Modello IS-LM con inflazione in economia chiusa: politica monetaria efficace Un aumento della quantità di moneta reale MR sposta in basso la funzione LM. La LM′ incrocia la IS in E1, determinando una caduta del tasso di interesse nominale e reale (a) e un aumento sia di Y sia del tasso di inflazione (b). La IS si sposta allora in alto a destra, aumenta ulteriormente il tasso di inflazione, cade la quantità di moneta reale MR, la LM ritorna nella posizione iniziale e incrocia la nuova IS nel punto E2 con un tasso di interesse nominale più alto.
––– ΔM ΔM =( ) M M
[C.6]
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Capitolo 9
i = r* + π + απ (π ‒ π*) + – Y−Y + αY ( 100 – ) [C.6a] Y
i = r* + π* = i*
[C.6b]
dove i* è il livello del tasso di interesse nominale che la Banca Centrale assume come riferimento. Se pertanto si dovessero verificare variazioni nella domanda di moneta, senza però che vi siano scostamenti di Y e π dai loro valori di equilibrio, la Banca Centrale semplicemente reagirà adeguando l’offerta di moneta alla domanda, in modo da impedire cambiamenti di i. Se invece le turbolenze riguardano il settore reale e l’andamento dei prezzi, allora la BC cercherà di contrastarle variando in modo opportuno il tasso di interesse. Possiamo meglio renderci conto delle caratteristiche di tale manovra considerando la Figura 9.8T (dove la lettera T richiama la regola di Taylor). Supponiamo, per semplificare, che la Banca Centrale assuma come obbiettivo il punto E0 lungo la curva di Phillips nel grafico (b), ovvero il livello di prodotto non inflazionistico YNI e di conseguenza π* = 0. Proiettando quel livello di Y nel grafico (a), si trova attraverso la curva IS il corrispondente tasso d’interesse nominale di equilibrio, ovvero i0 = i*. Essendo l’inflazione pari a zero, i0 rappresenta anche il tasso d’interesse reale. Consideriamo ora la regola di Taylor ovvero l’Equazione [C.6a]. Avendo posto π* = 0, possiamo riscriverla nel seguente modo: – Y−Y i = r* + (1 + απ)π + αY (100 – ) [C.6c] Y Se rappresentiamo graficamente tale funzione, che possiamo chiamare curva di Taylor (CT), osserviamo che ha un’inclinazione positiva se αY > 0, ovvero se all’aumentare di Y la Banca Centrale reagisce alzando il tasso di interesse; è invece orizzontale se αY = 0. L’intercetta sull’asse delle ordinate è inoltre influenzata dal tasso di inflazione. All’au– mentare di π, pertanto, la curva si sposta verso l’alto. Infine, per Y = Y = YNI e di conseguenza π = 0, si ha i = i0 = r*, ovvero la funzione CT passa per il punto E0. Supponiamo ora, partendo dalla posizione di equilibrio E0, che aumenti la spesa pubblica o un’altra componente autonoma della domanda aggregata, e che pertanto la funzione IS si sposti nella posizione IS′. Il prodotto Y aumenterà oltre il livello YNI e di conseguenza la BC aumenterà il tasso d’interesse, muovendosi lungo la curva CT, in base al coefficiente di reazione αY. Il sistema economico approderà quindi nel punto E1, in corrispondenza del quale, tuttavia, l’inflazione è salita al livello π1. Seguirà quindi un secondo intervento della Banca Centrale sul tasso d’interesse, che può essere rappresentato dallo spostamento verso l’alto della curva CT. Il sistema raggiungerà la sua posizione di equilibrio finale nel punto E2, in corrispondenza del quale il tasso d’interesse nominale è aumentato a i2, il prodotto è tornato nella posizione YNI e il tasso di inflazione è di nuovo sceso a zero. Questo significa che è aumentato anche il tasso d’interesse reale e che pertanto l’incremento della spesa pubblica ha ridotto gli investimenti di un pari importo (crowding-out). In conclusione, nel modello di Taylor cambia l’obiettivo intermedio – controllo del tasso di interesse nominale invece del controllo del tasso di crescita della quantità di moneta nominale – ma si ottengono risultati molto simili in termini di efficacia della politica monetaria e della politica fiscale.
9.4 Modello IS-LM con inflazione in economia aperta Il modello IS-LM con inflazione e aspettative adattive statiche assume la seguente configurazione in un’economia aperta (la lettera A prima del numero delle singole equazioni sta appunto per “economia aperta”): – – funzione IS in economia aperta Y = αm(A + X + νR − br) [A.1] – L − MR k funzione LM i= + Y [A.2] h h
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Inflazione e disoccupazione
i CT = curva di Taylor con obiettivo d’inflazione zero (π* = 0)
IS′ IS
i2
E2
(
i = r* + (1 + απ) π + αY 100
E1 E0
i0 = r* CT′ CT
Y
(b) E1 E0 YNI
Y1
Y*
Figura 9.8T Curva di Taylor e modello IS-LM con inflazione in economia chiusa
relazione di Fisher
r=i−π
curva di Phillips
π=
g(1 + z) −1 a(1 − Y/Y*)
[A.3] [A.4]
ΔM M =π
[A.5]
equilibrio della BP
i = if + Δe/e
[A.6]
competitività internazionale
Δe/e = π − πf
[A.7]
equilibrio monetario
)
• L’aumento di π determina lo spostamento verso l’alto della CT (movimento da E1 a E2)
π
ΔM/M = 0
YNI
• L’incremento di Y determina un aumento di i (movimento lungo la curva CT da E0 a E1)
(a)
π1
Y – YNI
Il modello è in questo caso composto da sette equazioni e otto incognite: Y, R, r, i, MR, π, ΔM/M, Δe/e. Sono state aggiunte due variabili al modello dell’economia chiusa con inflazione: nell’Equazione [A.1] compare infatti R = Pf e/P, che rappresenta il tasso di cambio reale (Pf , come sappiamo, è il prezzo in valuta estera dei beni importati), men-
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Capitolo 9
– – Y = αm(A + X + νR − br) [A.1]
i = if + Δe/e
[A.6]
Δe/e = π − πf
[A.7]
tre nell’Equazione [A.6] troviamo Δe/e, che rappresenta la variazione percentuale del tasso di cambio nominale. Si noti inoltre che nell’Equazione [A.1] compare 1 il moltiplicatore del reddito in economia aperta αm = , inferiore a 1 − c (1 − t) + m quello dell’economia chiusa (αG) per effetto dell’inserimento della propensione marginale a importare m (si veda il Capitolo 7). Sono state aggiunte anche due equazioni: la [A.6] e la [A.7]. La prima rappresenta la condizione di equilibrio dinamico della bilancia dei pagamenti in regime di perfetta mobilità dei capitali. L’ipotesi sottostante è che ai residenti in un determinato Paese converrà investire i propri capitali all’estero se il tasso di rendimento interno, ossia il tasso di interesse nominale (i), è più basso del tasso di rendimento estero. Quest’ultimo è dato dal tasso di interesse nominale estero (if) più il guadagno atteso (o meno la perdita attesa) in conto valuta. In altri termini, non è sufficiente confrontare i due tassi di interesse nominali, ma bisognerà anche tenere conto della variazione attesa nel tasso di cambio nominale (Δe/e). Se, per esempio, il tasso di interesse annuo in Italia è del 4% e negli Stati Uniti del 3%, ma si prevede nell’arco dell’anno un apprezzamento del dollaro (un aumento percentuale di e) pari al 2%, converrà investire i propri capitali negli USA, dato che il rendimento complessivo previsto è, dopo la riconversione in euro, del 5%. L’Equazione [A.7] rappresenta, invece, la condizione di stabilità del tasso di cambio reale (R). Poiché, infatti, R = ePf /P, il tasso di variazione di R sarà dato approssimativamente dalla seguente espressione (si veda per la dimostrazione la Formalizzazione matematica 9.2): ΔR/R = Δe/e + ΔPf /Pf − ΔP/P = Δe/e + πf − π
[A.7a]
dove πf = ΔPf /Pf rappresenta il tasso di inflazione estero. Ponendo ΔR/R = 0 (ovvero R costante come condizione di equilibrio di lungo periodo), si ottiene l’Equazione [A.7].
FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 9.2 Variazione e stabilità del tasso di cambio reale La formula di ΔR/R fornita nel testo è approssimata. Indicando, infatti, con i deponenti 0 e 1 i valori assunti dalle diverse variabili rispettivamente nei periodi 0 e 1, si ottiene la seguente formula: e1Pf1 e0Pf 0 (e0 + Δe)(Pf0 + ΔPf ) − P1 P0(e0 + Δe)(Pf 0 + ΔPf ) (e0 + Δe)(Pf0 + ΔPf ) P1 P0 ΔR = ––––––––––––––––––– = ––––––––––––––––––––––––––––– − 1 = −1= −1= e0Pf 0(P0 + ΔP) e0Pf0(1 + ΔP/P0) R e 0P f 0 e 0P f 0 P0 P0 =
ΔPf Δe ΔPfΔe ΔP πf + Δe/e + πf Δe/e − π + + − = Pf 0(1 + ΔP/P0) e0(1 + ΔP/P0) Pf 0e0(1 + ΔP/P0) P0(1 + ΔP/P0) 1+π
Quest’ultima espressione può essere approssimata dalla seguente: πf + Δe/e − π, se i valori di π e di πf non sono troppo elevati e se pertanto al numeratore il termine πf Δe/e può essere approssimato a zero, mentre al denominatore 1 + π può essere approssimato a 1. In tal caso la condizione ΔR/R = 0 porta all’Equazione [A.7]. Si noti inoltre che sostituendo l’Equazione [A.7] nella [A.6] si ottiene: i − π = if − πf ovvero, in base alla relazione di Fisher: r = rf. In altri termini, la condizione di equilibrio della BP, in condizioni di perfetta mobilità dei capitali, può anche essere espressa dall’uguaglianza fra il tasso di interesse reale interno e il tasso di interesse reale estero (rf ).
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Inflazione e disoccupazione
IS′ i
(a)
E1
IS E0
if
π = Δe/e + πf Y π
(b)
π
(c)
E1
π1 E0
πf
ΔM/M = πf
YNI
Y0
Y1
Y*
Δe/e
Figura 9.9 Modello IS-LM con inflazione in economia aperta: cambi fissi (Δe/e = 0)
Secondo quest’ultima equazione, in altri termini, se l’inflazione nazionale è superiore a quella estera bisognerà svalutare o lasciare deprezzare il tasso di cambio per evitare una perdita di competitività del Paese. Il modello di economia aperta è illustrato nelle Figure 9.9 e 9.10, nelle quali il grafico (c) riporta l’Equazione [A.7] scritta in modo da mettere in evidenza il tasso di inflazione interna in funzione della variazione del tasso di cambio nominale, dato il tasso di inflazione internazionale: π = Δe/e + πf
[A.7b]
La soluzione del modello dipende dal regime dei cambi, in modo analogo a quanto si è visto nel Capitolo 8 per il modello con prezzi dati. 9.4.1 Cambi fissi Nel caso dei cambi fissi vale la condizione e = e–, per cui si ha: Δe/e = 0
[A.7c]
e pertanto, in base all’Equazione [A.7], nel lungo termine dovrà essere rispettata la condizione π = πf. Dato il tasso di inflazione dal grafico (c) della Figura 9.9, dove si è ipotizzato un tasso di inflazione internazionale positivo, si troverà poi il livello di equilibrio del
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π=
Capitolo 9
g(1 + z) − 1 [A.4] a(1 − Y/Y*)
Δe/e = π − πf
[A.7]
prodotto attraverso la curva di Phillips (Equazione [A.4]), rappresentata nel grafico (b). Come si può notare nella figura, il livello di equilibrio del prodotto, indicato con Y0, è maggiore di YNI dato che, per ipotesi, l’inflazione internazionale è superiore a zero. È interessante notare che in questo tipo di economia con cambi fissi e inflazione non soltanto la politica monetaria è inefficace, ma anche la politica fiscale lo diventa nel medio periodo. Si supponga, infatti, che, partendo dalla posizione di equilibrio E0 con Y = Y0 e il tasso di inflazione π = πf, venga aumentata la spesa pubblica e che pertanto la curva IS si sposti verso l’alto nella posizione IS′ sino a incrociare la curva LM nel punto E1, in corrispondenza del quale il prodotto aumenta al livello Y1 > Y0. Aumenterà però anche il tasso di inflazione al livello π1 > πf, diminuirà pertanto il tasso di cambio reale R, che come sappiamo è un indice di competitività internazionale, cadranno le esportazioni nette (NX) e la IS comincerà a tornare indietro. Gli spostamenti della IS avranno termine soltanto quando la curva sarà tornata nella posizione iniziale e si saranno ripristinate le condizioni di equilibrio di lungo periodo π = πf e Y = Y0. In regime di cambi fissi con inflazione, pertanto, il livello del reddito è vincolato a lungo andare dal tasso di inflazione internazionale e dalla curva di Phillips. Non solo la politica monetaria, ma anche la politica fiscale è quindi inefficace nel lungo periodo. Una politica fiscale espansiva peggiorerebbe pertanto sia il bilancio dello Stato sia la bilancia commerciale. 9.4.2 Cambi flessibili In questo regime la Banca Centrale mantiene, come in economia chiusa, il controllo del tasso di variazione della quantità di moneta nominale: – – ΔM/M = (ΔM/M) [A.6a] Il sistema economico è pertanto meno vincolato rispetto alla situazione dei cambi fissi. Per verificare se la politica monetaria continua a essere efficace come lo è, secondo il modello di Mundell-Fleming, nell’economia con prezzi dati, si supponga, con riferimento alla Figura 9.10, che la Banca Centrale, partendo dalla situazione di equilibrio indicata da E0 con il prodotto al livello Y0 e un tasso di inflazione pari a quello internazionale, si proponga di far aumentare il prodotto al livello Y1 e consideri accettabile il corrispondente tasso di inflazione π1 indicato dalla curva di Phillips. La prima manovra consisterà in un aumento una tantum della quantità di moneta che faccia spostare la curva LM nella posizione LM′ e incontrare la IS nel punto E′. Il tasso di interesse reale interno cadrà al di sotto del livello internazionale e si verificherà pertanto una fuga di capitali che determinerà un deprezzamento della valuta nazionale (aumento del tasso di cambio nominale e), un aumento del cambio reale R e quindi un impulso alle esportazioni nette e allo spostamento verso l’alto della curva IS. Una volta raggiunta la posizione E1 con il prodotto al livello Y1 e un tasso di inflazione pari a π1, la Banca Centrale dovrà assicurare una variazione percentuale di M di pari entità: è questa la condizione essenziale, come abbiamo visto, per garantire la stabilità della quantità di moneta reale (MR) e quindi della curva LM. Si può inoltre notare che, siccome il tasso di inflazione interno π1 è superiore al tasso internazionale πf, si avrà una variazione del tasso di cambio nominale, Δe/e, pari alla differenza fra i due tassi di inflazione (si veda il grafico (c) della Figura 9.10). È questa la condizione essenziale per garantire la stabilità del tasso di cambio reale e quindi della curva IS. In conclusione, la politica monetaria può essere efficace, ai fini di un aumento del prodotto Y e dell’occupazione, a condizione che la Banca Centrale sia disposta ad accettare due condizioni: (a) un aumento percentuale della quantità di moneta pari al tasso
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Inflazione e disoccupazione
r
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(a)
IS′
LM
IS E0
rf
LM′
E1 E′
Y
(b)
π
π E1
E1
ΔM/M = π1 E0
πf
ΔM/M = πf
YNI
Y0
(c)
Y1
YF
0
(Δe/e)1
Δe/e
Figura 9.10 Modello IS-LM con inflazione in economia aperta: cambi flessibili
di inflazione generato dalla curva di Phillips; (b) un deprezzamento della valuta nazionale ovvero una variazione del tasso di cambio nominale (e) pari al differenziale tra l’inflazione interna e l’inflazione internazionale. Come però si vedrà nel Paragrafo 9.5, le Banche Centrali sono nei fatti spesso frenate dal timore che l’inflazione sfugga al loro controllo e subisca un’accelerazione, trasformandosi in iperinflazione. 9.4.3 In quale regime di cambio si trova l’Italia? Sino all’ingresso nell’Unione Economica e Monetaria europea (UEM), che ha adottato l’euro come moneta comune il 1° gennaio 1999, l’Italia faceva parte del Sistema Monetario Europeo (SME), che può essere definito come un regime di cambi fissi “aggiustabili”. Tale regime, infatti, consentiva una politica di periodiche revisioni delle parità centrali di cambio con le altre valute, revisioni che però dovevano essere concordate con le autorità monetarie dei Paesi facenti parte dell’accordo. Con l’espediente delle svalutazioni una tantum era possibile ridare efficacia, sia pure nel breve periodo, alla politica fiscale. Se, infatti, in seguito all’aumento della spesa pubblica e quindi del reddito l’inflazione interna superava il livello internazionale, con una conseguente caduta di R e quindi delle esportazioni nette, una appropriata svalutazione poteva ripristinare la competitività internazionale. Questa possibilità è naturalmente oggi preclusa all’Italia dall’adesione all’Unione Economica e Monetaria, all’interno della quale vige il sistema della moneta unica che equivale a un regime di cambi irrevocabilmente fissi. Nei confronti del resto del mondo, invece, l’euro è in regime di cambi flessibili, ma i
Sistema Monetario Europeo (SME) Accordo stipulato fra diversi Paesi europei che fissava in modo elastico i rapporti di cambio fra le loro monete. Regime vigente tra il 1979 e il 1998.
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Capitolo 9
Trattato di Maastricht Trattato che nel 1992 ha istituito l’Unione Europea, l’euro e la Banca Centrale Europea. Patto di Stabilità e Crescita Accordo stipulato dai Paesi membri dell’Unione Economica e monetaria Europea che conferma i vincoli alle politiche di bilancio, stabiliti dal Trattato di Maastricht. In particolare, i Paesi membri nei quali il rapporto tra debito pubblico e PIL abbia superato il vincolo di Maastricht (60%), sono tenuti ad attuare politiche di bilancio pubblico che garantiscano una graduale riduzione di tale rapporto.
tassi di cambio dell’euro con le altre valute dipendono dalla bilancia dei pagamenti dell’intera area dell’euro e sono quindi in gran parte esogeni rispetto all’economia italiana. Inoltre, il controllo della quantità nominale di moneta e della sua variazione è nelle mani della Banca Centrale Europea. L’Italia si trova quindi in un regime di cambi in parte fissi e in parte esogeni, nel quale ha perso il controllo della politica monetaria, della politica dei cambi e, in buona misura, anche della politica fiscale, dato che il Trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità e Crescita siglati dai Paesi aderenti all’UEM pongono seri limiti all’indebitamento delle Pubbliche Amministrazioni dei singoli Stati. Quali strumenti rimangono quindi a disposizione dello Stato italiano se desidera ridurre la disoccupazione? Come si vedrà nei prossimi paragrafi, le principali possibilità di intervento sono di tipo strutturale e non congiunturale. Riassumendo Le conclusioni principali del Paragrafo 9.4 possono essere così sintetizzate. • In regime di cambi fissi il tasso di inflazione interno è a lungo andare vincolato dal tasso di inflazione internazionale, mentre il livello di equilibrio del prodotto (e dell’occupazione) è determinato, dato il tasso πf, dalla curva di Phillips e quindi dai parametri che la definiscono: g, a e z. Al di sopra di quel livello del prodotto tutti i principali strumenti di politica economica congiunturale sono pertanto, nel lungo termine, privi di efficacia: alla politica dei cambi si è, infatti, rinunciato in partenza; la politica monetaria è subordinata all’obiettivo di difendere il tasso di cambio stabilito; la politica fiscale può essere efficace nel breve termine, ma se genera un’inflazione più elevata di quella internazionale farà cadere le esportazioni nette e quindi la domanda aggregata. A lungo andare è quindi anch’essa inefficace. • In regime di cambi flessibili le autorità di politica economica conservano invece, come nell’economia chiusa, un maggior grado di libertà. La politica monetaria, in particolare, può consentire un tasso di inflazione più elevato di quello internazionale
e quindi un livello di Y più alto di quello possibile con cambi fissi, purché siano rispettate due condizioni: la variazione percentuale della moneta deve essere pari al tasso di inflazione (ΔM/M = π) e il tasso di cambio nominale deve aumentare (la moneta nazionale deve deprezzarsi) in misura pari all’eccesso di inflazione rispetto all’estero, per cui: Δe/e = π − πf . Le autorità di politica monetaria, in altri termini, possono in teoria scegliere qualsiasi combinazione desiderata di inflazione e disoccupazione (e quindi di prodotto) lungo la curva di Phillips senza essere vincolate dalla concorrenza internazionale. • Quest’ultima conclusione è però strettamente legata all’ipotesi di aspettative adattive sulla quale sinora abbiamo basato l’analisi del sistema economico, e può pertanto essere messa in discussione, come vedremo nei prossimi paragrafi, se cambia il regime della previsione dei prezzi. • L’Italia si trova in un regime di cambi fissi nei confronti dei Paesi dell’euro e di cambi esogeni nei confronti delle altre valute. Per l’Italia valgono quindi le considerazioni sull’inefficacia della politica monetaria e, in caso di inflazione, della politica fiscale in regime di cambi fissi.
9.5 Aspettative accelerative Indicizzazione Aggiustamento automatico dei prezzi e dei salari in base al tasso di inflazione.
Il regime delle aspettative adattive statiche esaminato nei paragrafi precedenti può anche essere interpretato come un sistema di indicizzazione dei salari nominali in base al quale i salari vengono periodicamente adeguati all’aumento dei prezzi con un certo ritardo. Questo ci porta a due considerazioni: da un lato, non è vero che in questo regime i salari reali non sono difesi dall’inflazione e che quindi i lavoratori soffrono di illusione moneta-
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ria. Se infatti riprendiamo l’Equazione [3] del Paragrafo 9.1, possiamo derivare la seguente dinamica dei prezzi e dei salari nell’ipotesi che il mark-up z rimanga costante nel tempo: ΔP/P = ΔW/W − Δa/a
[19]
Δw/w = ΔW/W − ΔP/P = Δa/a
[20]
P=
W (1 + z) a
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[3]
per cui: dove Δw/w e Δa/a rappresentano, rispettivamente, la variazione percentuale dei salari reali e della produttività del lavoro. Come si può osservare dall’Equazione [20], i salari reali variano allo stesso tasso percentuale della produttività o rimangono costanti se quest’ultima, come abbiamo sinora ipotizzato per semplicità, non varia. Dall’altro lato è però vero che l’adeguamento dei salari nominali ai prezzi avviene con ritardo e che questo comporta una perdita temporanea di potere d’acquisto. Se tale perdita è modesta (ovvero se l’aumento dei prezzi non è molto elevato), i lavoratori potranno considerarla accettabile, tenuto conto che aprire una vertenza contrattuale per evitarla potrebbe comportare costi più alti. Se invece l’aumento dei prezzi fosse elevato, i lavoratori potrebbero ricorrere a due tipi di rivendicazione: chiedere di accorciare l’intervallo dell’indicizzazione e/o chiedere aumenti salariali che anticipino l’inflazione attesa. In ambedue i casi, l’inflazione andrebbe soggetta a un’accelerazione. Nel primo caso, infatti, se l’intervallo dell’indicizzazione è per esempio di un anno, un aumento iniziale dei prezzi del 3% darebbe luogo a un aumento dei salari nominali di pari importo e quindi a un tasso di inflazione annuale del 3%. Se l’intervallo di indicizzazione venisse accorciato a sei mesi, l’aumento dei salari e quindi dei prezzi avverrebbe due volte all’anno e quindi l’inflazione salirebbe a oltre il 6%. Si avrebbe quindi una accelerazione. Per chiarire invece le conseguenze, come vedremo analoghe, del secondo tipo di rivendicazione (anticipazione dell’inflazione), supponiamo che il sistema economico sia caratterizzato da un certo tasso di inflazione d’equilibrio, tollerato e finanziato costantemente dalle autorità monetarie con un pari aumento percentuale della quantità nominale di moneta. I lavoratori, a lungo andare, rendendosi conto che i prezzi sono sempre più alti di quelli del periodo precedente e che pertanto l’ipotesi delle aspettative adattive statiche Pet = Pt – 1 (la quale implica un’inflazione attesa pari a zero) è sistematicamente smentita dai fatti, saranno indotti a incorporare l’inflazione nel prezzo atteso per il periodo t. Se questo avviene, l’Equazione [9a] del Paragrafo 9.1.3 dovrà essere sostituita dalla seguente: Pet = Pt – 1(1 + πet)
[9b]
Pet = Pt – 1
[9a]
dove πet rappresenta il tasso di inflazione atteso. Se supponiamo, per semplicità, che quest’ultimo sia dato dal tasso di inflazione del periodo precedente, πt – 1, l’Equazione [9b] diventa: Pet = Pt – 1(1 + πt – 1)
[9c]
Quest’ultima equazione rappresenta l’ipotesi delle aspettative adattive aumentate dall’inflazione, che possiamo più semplicemente definire aspettative accelerative poiché, per i motivi che vedremo in seguito, portano all’accelerazione del processo inflazionistico. Sostituendo l’Equazione [9c] al posto di Pet nell’Equazione [8] del Paragrafo 9.1.3, otteniamo la seguente formula del prezzo: g(1 + z) Pt = Pt – 1(1 + πt – 1) [8c] aut Dividendo per Pt – 1 ambedue i lati dell’equazione e ricordando che Pt /Pt – 1 ≡ 1 + πt (si veda l’inizio del Paragrafo 9.2), ricaviamo una nuova versione della curva di Phillips:
Aspettative accelerative Aspettative basate sull’ipotesi che il livello dei prezzi aumenti in futuro al tasso di inflazione dei periodi precedenti.
Pt =
g(1 + z) e Pt aut
[8]
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Capitolo 9
πt = Curva di Phillips aumentata Curva di Phillips che tiene conto delle aspettative d’inflazione come determinanti del tasso di inflazione stesso.
πt =
g(1 + z) (1 + πt – 1) − 1 au [15a]
Tasso naturale di disoccupazione Tasso di disoccupazione sulla curva di Phillips aumentata in corrispondenza del quale l’inflazione attesa è pari all’inflazione effettiva.
g(1 + z) (1 + πt – 1) − 1 au
[15a]
Questa nuova formulazione, definita curva di Phillips aumentata dalle aspettative inflazionistiche, ci obbliga innanzitutto a distinguere fra tasso di disoccupazione “non inflazionistico” (uNI) e tasso di disoccupazione “che non accelera l’inflazione” (uNAI). Il primo, noto nella letteratura anglosassone come NIRU (Not-Inflationary Rate of Unemployment), si trova ponendo πt = 0 nell’Equazione [15a], per cui: uNI =
g(1 + z) (1 + πt – 1) a
[21]
Il tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione, denominato in inglese NAIRU (Not-Accelerating Inflation Rate of Unemployment) o anche tasso naturale di disoccupazione, si trova invece ponendo, sempre nell’Equazione [15a], πt = πt – 1 e quindi (1 + πt) = (1 + πt – 1), ossia ipotizzando un livello di inflazione stabile. Dall’Equazione [15a] si otterrà allora, spostando il numero 1 sul lato sinistro e dividendo ambedue i lati per (1 + πt – 1): uNAI =
g(1 + z) a
[22]
Come dunque possiamo notare, nel regime di aspettative accelerative, mentre uNI dipende dal tasso di inflazione del periodo precedente e quindi può assumere diversi valori, esiste un solo livello di uNAI. I due tassi coincideranno soltanto nel caso d’assenza di inflazione, ossia se πt = πt – 1 = 0. Se poi sostituiamo l’Equazione [22] nella [21], otteniamo la seguente relazione tra i due tassi di disoccupazione: uNI = uNAI (1 + πt – 1)
[23]
Il caso delle aspettative accelerative è rappresentato nella Figura 9.11, dove la curva più in basso riporta l’Equazione [15a] nell’ipotesi di un’inflazione pregressa nulla, ovvero: πt – 1 = 0. Per capire le conseguenze del nuovo regime di aspettative, supponiamo di trovarci in un’economia chiusa e che le autorità responsabili della politica economica, partendo dalla posizione E0, dove l’inflazione è nulla, vogliano ridurre la disoccupazione sino al tasso u1 al quale corrisponde un’inflazione pari a π1. Supponiamo anche che la Banca Centrale consideri accettabile tale tasso di inflazione e lo finanzi con un pari aumento percentuale della quantità di moneta (si veda il punto E1 nella Figura 9.11). Potremo considerare tale posizione sostenibile nel tempo? La situazione è in realtà cambiata rispetto al caso delle aspettative adattive statiche: mentre in quel caso la combinazione π1-u1 indicata dal punto E1 poteva essere difesa senza difficoltà, nel regime di aspettative accelerative che stiamo considerando i lavoratori, come abbiamo visto, tenderanno a incorporare nel prezzo atteso il tasso di inflazione che hanno osservato in passato. La curva di Phillips di breve periodo si sposterà allora verso l’alto, dato che, come mostra l’Equazione [15a], la posizione nello spazio di tale curva è influenzata dall’inflazione attesa (per ipotesi uguale a quella del periodo precedente). Se quindi l’inflazione attesa sale da 0 a π1, le richieste di aumenti salariali aumenteranno spingendo il tasso di inflazione effettivo a π2 (si veda il punto E2 nella Figura 9.11). Gli spostamenti della curva di Phillips continueranno nel tempo e pertanto diventerà impossibile mantenere la disoccupazione al tasso u1, a meno che la Banca Centrale non sia disposta a finanziare un’inflazione sempre più elevata (iperinflazione) aumentando senza limiti l’offerta di moneta. Se questo non avviene, ossia se il tasso di crescita dell’offerta di moneta è mantenuto costan-
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Figura 9.11 Curva di Phillips con aspettative accelerative
π
π2
ΔM/M = π1
ΔM/M = 0
E2
E1
E3
E0 u1
uNAI
E4
u=1
uNI
te, per esempio al livello di ΔM/M = π1, si determinerà di fatto una contrazione della quantità reale di moneta e il tasso di disoccupazione riprenderà a salire sino a ritornare al livello uNAI . Il sistema, muovendosi lungo la nuova curva di Phillips (quella più alta), si sposterà dunque nella posizione E3, caratterizzata da un tasso di inflazione costante pari a π1. È questa in ogni caso una nuova posizione di equilibrio stabile. Se a questo punto la Banca Centrale decidesse di ripristinare un tasso di inflazione nullo e ponesse, a tal fine, ΔM/M = 0, si verificherebbe una riduzione (pari inizialmente al segmento E3-E0) del tasso di crescita della quantità reale di moneta. La disoccupazione aumenterebbe allora sino al tasso uNI nel punto E4, in corrispondenza del quale il tasso di inflazione scenderà nuovamente a zero. La curva di Phillips di breve periodo scenderebbe allora nella posizione iniziale (basata appunto su un’inflazione prevista uguale a zero), i salari nominali e quindi i prezzi comincerebbero a diminuire, la quantità di moneta aumenterebbe in termini reali e il tasso di disoccupazione tornerebbe nella posizione uNAI con un tasso di inflazione nullo. Il sistema, in altri termini, si riporterebbe nella posizione E0 dalla quale si era mosso in seguito alla (inutile) manovra di politica economica, ma ciò avverrà soltanto dopo un determinato periodo di transizione con tassi di disoccupazione superiori a uNAI. 9.5.1 Rigidità verso il basso dei salari nominali: il caso keynesiano Può però avvenire, come a suo tempo aveva sostenuto Keynes e come abbiamo ipotizzato nel Capitolo 8 (si veda anche l’Approfondimento 9.2), che i salari nominali siano rigidi verso il basso e agiscano quindi da freno anche alla caduta dei prezzi. Le curve di Phillips, in tal caso, sarebbero soggette al limite inferiore π = 0 e pertanto, una volta raggiunto quel limite, verrebbero a coincidere con l’asse delle ascisse. Se dunque, in seguito alla politica di disinflazione descritta in precedenza, il sistema economico si trovasse nella posizione E4 con ΔM/M = 0, ma anche con salari nominali rigidi verso il basso, ossia ΔW/W = 0 e quindi π = 0, la quantità reale di moneta rimarrebbe inalterata e non fornirebbe quindi alcun impulso alla riduzione della disoccupazione. Quest’ultima quindi non ritornerebbe al livello NAIRU.
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Capitolo 9
Sarebbe questa una tipica situazione à la Keynes di insufficienza della domanda aggregata e di disoccupazione involontaria elevata, come quella rappresentata dal modello con prezzi dati esaminato nei Capitoli da 4 a 8 della Parte II. Ci si potrebbe allora chiedere: è la rigidità verso il basso dei salari e dei prezzi che impedisce alle forze del mercato di risolvere spontaneamente il problema della disoccupazione o, più esattamente, di una disoccupazione superiore al NAIRU? Per rispondere a questa domanda è necessario considerare anche l’effetto che la deflazione (ossia un π negativo) avrebbe sul tasso di interesse reale: r infatti aumenterebbe e pertanto l’investimento e la domanda aggregata cadrebbero. Per maggiori dettagli su questo punto si veda l’Approfondimento 9.3.
APPROFONDIMENTO 9.3 Trappola della liquidità e deflazione
Deflazione Tasso di diminuzione del livello dei prezzi, in termini percentuali; si tratta quindi del contrario dell’inflazione.
Nel testo ci siamo chiesti se la caduta dei salari e dei prezzi potrebbe effettivamente favorire la ripresa della domanda aggregata e quindi la diminuzione del tasso di disoccupazione. Per semplicità consideriamo il caso di un’economia chiusa. L’argomento a favore di tale tesi è che la caduta dei prezzi determinerebbe un aumento della quantità reale di moneta e quindi una diminuzione del tasso di interesse nominale (i), che a sua volta dovrebbe stimolare l’investimento. In realtà non dobbiamo dimenticare che quest’ultimo dipende dal tasso di interesse reale, definito come i − πe. Di conseguenza, nel caso in cui i sia già sceso vicino a zero ci si troverà in una situazione di trappola della liquidità nella quale la politica monetaria non ha più alcun effetto sull’investimento, mentre un valore negativo di π (deflazione) determinerebbe un aumento del tasso di interesse reale e quindi la caduta degli investimenti. Per esempio, con i = 0 e π = −2% il tasso di interesse reale sarebbe r = 2%. In questa situazione la flessibilità verso il basso dei salari e dei prezzi sarebbe dannosa per la ripresa dell’economia. Per chiarire questo punto riconsideriamo il modello con inflazione illustrato dalle Figure 9.7 e 9.8 per l’economia chiusa. Nella Figura 9.12 osserviamo che se nel grafico (a) le curve IS e LM si incrociano nel punto E0 con un livello del prodotto Y0 < YNI e un tasso di interesse nominale pari a zero, mentre nel grafico (b) il tasso di inflazione π1 è negativo, l’economia si troverà in una situazione di crisi e di disoccupazione che corre il rischio di peggiorare con ulteriori cadute del prodotto. La politica monetaria ha infatti esaurito il proprio potenziale (la curva LM è diventata orizzontale e coincide con l’asse delle ascisse a sinistra di E0), mentre la caduta dei prezzi incide negativamente sugli investimenti e fa quindi muovere la curva IS verso sinistra. La Grande Depressione del 1929-33 e la Grande Recessione del 2008-09 Una situazione di “doppia trappola” come quella illustrata nella Figura 9.12 si creò negli Stati Uniti durante la Grande Depressione: l’indice dei prezzi al consumo cadde infatti di 25 punti percentuali fra il 1929 e il 1933 e quindi il tasso di inflazione, che nel periodo precedente era vicino allo zero, assunse un valore negativo medio annuo di circa –6%. Nello stesso periodo il tasso di interesse nominale a breve termine scese dal 5,9% allo 1,7%. Il tasso di interesse reale oscillò quindi fra quasi 6% (5,9% – 0) e quasi 8% [1,7% – (–6%)], valori inevitabilmente destinati a deprimere gli investimenti. È istruttivo al riguardo il confronto con la recente recessione di gravi proporzioni che ha colpito gli USA (si veda il forte aumento del tasso di disoccupazione nella Figura 9.22 alla fine del capitolo) e l’economia mondiale nel biennio 2008-09. In questo caso, mentre i tassi di interesse nominali sono scesi quasi a zero, il tasso di inflazione è rimasto lievemente positivo. Anche il tasso di interesse reale si è quindi praticamente
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azzerato. La rigidità verso il basso dei salari e dei prezzi ha quindi agito da stabilizzatore del sistema economico. Questo aspetto, assieme ai programmi keynesiani di stimolo all’economia messi in atto dal governo degli Stati Uniti, spiega la relativa brevità della recente crisi americana rispetto alla durata e alla profondità della Grande Depressione. Diverso è invece il caso dei Paesi dell’area dell’euro e in particolare dei cosiddetti GIPSI (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia) dove, come si vedrà meglio nel Capitolo 10, le politiche fiscali restrittive imposte dalla cosiddetta crisi dei “debiti sovrani” hanno prolungato la recessione sino al 2013.
i
Figura 9.12 Trappola della liquidità e deflazione
YNI
(a)
IS LM IS′ E0
i=0
Y π
(b)
Y0 π1 < 0
YNI
Y*
9.6 Aspettative razionali e credibilità della politica economica: la critica di Lucas Il regime delle aspettative adattive, sia statiche sia accelerative, si basa sull’ipotesi che le previsioni degli operatori economici siano basate sull’andamento passato delle variabili da prevedere. Le aspettative di questo tipo sono anche definite backward looking. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, tuttavia, alcuni economisti dell’Università di Chicago, fra i quali il Premio Nobel 1995 per l’economia Robert Lucas, e altri economisti di ispirazione liberista hanno sottoposto a severa critica tale ipotesi, così come le teorie e le conclusioni di politica economica su di essa basate. Quella che è ormai nota come la critica di Lucas parte infatti dal presupposto che gli individui, in quanto operatori razionali, formulino le proprie previsioni utilizzando in modo efficiente tutte le informazioni disponibili sul sistema economico. Se, pertanto, si presentano fatti nuovi in grado di influenzare le variabili oggetto di previsione, non avrà alcun senso non tenerne conto e continuare semplicemente a estrapolare il passato. Questo vale in
Critica di Lucas I modelli tradizionali di politica macroeconometrica suppongono che le aspettative siano determinate da parametri invariabili del passato, mentre dipendono anche dalle decisioni dei policy maker e da altri fatti nuovi.
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Capitolo 9
Credibilità Grado di fiducia riposto dagli operatori economici e dal pubblico nell’implementazione delle politiche annunciate dalle autorità di politica economica. Teoria delle aspettative razionali Teoria sulla formazione delle aspettative secondo la quale esse si basano su tutte le informazioni disponibili riguardanti la variabile economica sottostante; frequentemente associata alla nuova macroeconomia classica.
modo particolare per i cambiamenti di politica economica, purché le autorità competenti godano di credibilità presso il pubblico e presso gli operatori economici. L’impostazione suggerita da Lucas, definita teoria delle aspettative razionali, fa riferimento a un modello di concorrenza perfetta sia nel mercato dei beni sia nel mercato del lavoro nel quale esiste un tasso di disoccupazione di equilibrio, definito “naturale” (NRU, dall’inglese Natural Rate of Unemployment), che ha le caratteristiche della disoccupazione volontaria. L’ipotesi delle aspettative razionali può, tuttavia, essere inserita anche nel modello neokeynesiano di conflitto distributivo e di disoccupazione involontaria che abbiamo sin qui discusso. Tale ipotesi modifica in modo sostanziale le conclusioni raggiunte in base alle aspettative adattive. Per valutare questo punto ricapitoliamo brevemente i principali risultati ai quali siamo sin qui pervenuti. 1. In presenza di aspettative adattive statiche, la curva di Phillips è stabile e pertanto i responsabili della politica economica possono scegliere la combinazione desiderata fra disoccupazione e inflazione. In particolare, gli strumenti monetari e fiscali possono essere efficacemente utilizzati per ridurre la disoccupazione in modo permanente, purché si rispettino le seguenti condizioni: (a) in un’economia chiusa le autorità monetarie devono essere disposte a finanziare il tasso di inflazione generato dal nuovo tasso di disoccupazione; (b) in un’economia aperta con cambi flessibili è necessario, in aggiunta, accettare un tasso costante di deprezzamento della valuta nazionale pari alla differenza tra inflazione interna e inflazione estera; (c) in regime di cambi fissi invece l’inflazione interna non può superare l’inflazione internazionale. 2. Con aspettative accelerative il tasso di disoccupazione tenderà invece a gravitare attorno al livello NAIRU con un tasso di inflazione pari a ΔM/M. La curva di Phillips di lungo periodo è pertanto verticale. Una politica economica volta a ridurre il tasso di disoccupazione al di sotto del livello NAIRU potrebbe quindi avere effetto soltanto nel breve termine, a meno che le autorità monetarie non siano disposte a finanziare un processo di iperinflazione, dato che con il passare del tempo l’inflazione tenderebbe ad aumentare. 3. Sempre con le aspettative accelerative, se la Banca Centrale decidesse di far scendere il tasso di inflazione riducendo la percentuale di aumento della quantità nominale di moneta, l’obiettivo potrà essere raggiunto soltanto se u supera il livello NAIRU durante il periodo della disinflazione. Nell’ipotesi di un obiettivo di inflazione pari a zero e di rigidità verso il basso dei salari nominali, la disoccupazione potrebbe tuttavia restare ancorata in modo permanente al nuovo livello di u (caso keynesiano). L’inserimento nel modello dell’ipotesi delle aspettative razionali porta invece alla conclusione che la politica economica non produce di norma effetti di rilievo sulle variabili reali, in particolare sul prodotto e la disoccupazione, mentre può incidere efficacemente sul tasso di inflazione. Per chiarire questo punto supponiamo che le autorità responsabili della politica economica indichino come obiettivo un tasso di inflazione, π*, più basso di quello del periodo precedente πt – 1 (per esempio, 0 invece di 12%). Supponiamo, inoltre, che il cambiamento di obiettivo non solo sia annunciato pubblicamente, ma sia anche ritenuto credibile. Questo significa, per esempio, che la politica monetaria deve essere coerente (ΔM/M = π*) e non deve essere contraddetta da altre politiche, in particolare da quella di bilancio. Nell’ipotesi delle aspettative razionali, il prezzo atteso sarà definito dalla seguente equazione: Pet = Pt – 1(1 + π*)
[9d]
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e la curva di Phillips diverrà: πt =
g(1 + z) (1 + π*) − 1 aut
[15b]
Per valutare meglio le conseguenze della nuova formula semplifichiamola ricordando che, in base all’Equazione [22] del paragrafo precedente, uNAI = g(1 + z)/a, per cui l’Equazione [15b] diventa: πt =
uNAI (1 + π*) − 1 ut
[15c]
Da quest’ultima equazione si osserva che, per far scendere il tasso di inflazione del periodo t al livello programmato (π*), è sufficiente portare il tasso di disoccupazione u al livello NAIRU, ovvero ut = uNAI per cui πt = π*. Per meglio chiarire questa conclusione supponiamo, facendo di nuovo riferimento alla Figura 9.11, che il sistema si trovi nel punto E3 con un tasso di inflazione pari a π1 e che l’obiettivo sia quello di far scendere l’inflazione a π* = 0. Dal momento che quest’ultimo valore, se ritenuto credibile, sarà inserito subito dai lavoratori nelle proprie previsioni al posto di πt – 1, la curva di Phillips si abbasserà istantaneamente nella posizione inferiore senza che si debba attendere l’aumento della disoccupazione sino al livello indicato dal punto E4, come si verificherebbe invece nel regime di aspettative accelerative. In quest’ultimo regime, infatti, la curva di Phillips (Equazione [15a]) può essere riformulata nel seguente modo, data l’Equazione [22]: πt =
uNAI (1 + πt – 1) − 1 ut
[15d]
Se l’obiettivo da raggiungere è πt = 0, dall’Equazione [15d] otteniamo: ut = uNAI (1 + πt – 1). In altri termini, il tasso di disoccupazione dovrebbe aumentare oltre il livello NAIRU per far cadere il tasso corrente di inflazione al livello zero. Se, per esempio, avessimo i seguenti dati: uNAI = 10% e πt – 1 = 12%, il tasso di disoccupazione effettivo, u, dovrebbe salire all’11,2% per ottenere πt = 0. Nel caso delle aspettative razionali, invece, come abbiamo visto in precedenza, il tasso di inflazione si adegua istantaneamente all’obiettivo senza che il tasso di disoccupazione debba superare il livello NAIRU. Per ottenere questo risultato è tuttavia necessario, come abbiamo già osservato, che il programma di disinflazione annunciato dalle autorità di politica economica sia ritenuto credibile. Un importante esempio di politica economica basata sulle aspettative razionali è il programma che fu adottato dai governi italiani nella parte centrale degli anni Novanta del secolo scorso per abbattere gli alti tassi di inflazione ereditati dagli anni Settanta e Ottanta. Tali governi legarono la credibilità del loro programma non soltanto a una politica fiscale rigorosa accompagnata da una politica monetaria altrettanto severa da parte della Banca d’Italia, ma anche all’impegno, assunto formalmente in sede europea, di far rientrare l’Italia, entro il maggio 1998, nei parametri economici e finanziari stabiliti dal Trattato di Maastricht al fine dell’ammissione alla terza fase (1999-2002) dell’Unione Monetaria Europea. Il programma di rientro, ritenuto credibile dagli operatori economici, fece sì che il tasso di inflazione scendesse in Italia in modo graduale nel biennio 1997-98 al livello desiderato (circa il 2%) senza alcun aumento del tasso di disoccupazione (si vedano le Figure 9.13 e 9.19).
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Capitolo 9
9.7 Disoccupazione e conflitto distributivo: altri protagonisti Nei paragrafi precedenti abbiamo concluso che, in presenza di aspettative accelerative o di aspettative razionali, le politiche economiche “congiunturali”, ossia le politiche volte semplicemente a stimolare la domanda aggregata, non sono in grado di far scendere la disoccupazione permanentemente al di sotto del tasso che non accelera l’inflazione (NAIRU). Le politiche di sostegno alla domanda sono invece efficaci e opportune nelle situazioni in cui il tasso di disoccupazione è superiore al livello NAIRU, ma i salari e i prezzi sono rigidi verso il basso e gli investimenti e la domanda aggregata sono incapaci di riprendersi spontaneamente, come nella crisi 2008-09 alla quale ha fatto seguito, soprattutto in Italia, una seconda recessione nel 2012-2013. Dando comunque per scontato che il NAIRU rappresenti un punto di gravitazione del sistema, conviene ora cercare di capire quali altri fattori e attori, oltre a quelli già presi in esame nei paragrafi precedenti, contribuiscano a determinarne il livello e, di conseguenza, quali misure di politica economica e istituzionale possano essere adottate per ridurlo. Nelle prossime pagine prenderemo brevemente in esame i seguenti tre fattori: 1. la pressione tributaria e contributiva (il cosiddetto “cuneo fiscale”); 2. l’impatto dei prezzi delle materie prime e, in particolare, dei prodotti petroliferi; 3. il potere contrattuale dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali. 9.7.1 Cuneo fiscale L’ipotesi di fondo su cui si basa il modello discusso nei paragrafi precedenti è che il fenomeno dell’inflazione sia la conseguenza del conflitto distributivo che in un’economia industriale moderna si genera tra lavoratori dipendenti e datori di lavoro. In questo modello la disoccupazione ha l’effetto di moderare le richieste salariali sino a renderle compatibili con il salario reale offerto dalle imprese. L’intervento dello Stato, in particolare il prelievo fiscale, contribuisce in realtà ad acuire il conflitto poiché riduce il reddito disponibile che può essere suddiviso fra i due contendenti. È infatti ragionevole supporre che ai lavoratori interessi il salario disponibile (WD) al netto delle imposte, definito, nell’ipotesi di un’aliquota fiscale t proporzionale al reddito, dalla seguente formula: WDt = Wt(1 − t) W=
g e P u
[6]
[24]
L’Equazione [6], proposta nel Paragrafo 9.1.1, diventa pertanto: g WDt = u Pet t
[25]
Uguagliando le Equazioni [24] e [25], otteniamo: Wt = P=
W (1 + z) a
[3]
g Pe ut(1 − t) t
[26]
Sostituendo poi l’Equazione [26] nella [3], otteniamo la seguente funzione del prezzo: Pt =
g(1 + z) e P aut (1 − t) t
[27]
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Da questa espressione, uguagliando Pt a Pe è infine possibile ricavare il nuovo NAIRU: uNAI =
g(1 + z) a(1 − t)
[28]
Come si può notare, uNAI sarà tanto maggiore quanto più alto è il cuneo fiscale, t. 9.7.2 Prezzo delle materie prime Molti Paesi, come l’Italia, importano dall’estero gran parte del proprio fabbisogno di materie prime e, in particolare, di prodotti petroliferi. Per tenere conto di questo importante aspetto del sistema economico e della struttura dei costi di produzione che ne consegue, possiamo riscrivere l’equazione del prezzo dei prodotti finiti nel seguente modo: Pt =
Wt (1 + z) + ϑPM t e a
[29]
dove ϑ rappresenta la quantità di materie prime necessaria per produrre una unità del prodotto finito; PM t è il prezzo unitario delle materie prime denominato in valuta estera (per esempio, in dollari); e indica il tasso di cambio nominale e quindi PM t e è il prezzo in euro delle materie prime. PMe Quest’ultimo può anche essere scritto nel seguente modo: P = RMP, dove P RM è il prezzo relativo o prezzo reale delle materie prime importate. Wt (1 + z) , da L’Equazione [29], se si riordinano i termini, diventa pertanto Pt = a(1 − ϑRM t ) cui, data l’Equazione [26], si ottiene: Pt =
g(1 + z) e Pt a(1 − t)(1 − ϑRM )u t t
[30]
Infine, ponendo Pt = Pet, si perviene alla seguente formula del NAIRU: uNAI =
g(1 + z) a(1 − t)(1 − ϑRM t )
[31]
Ne consegue che quanto più alti sono il prezzo relativo delle materie prime e il parametro ϑ, tanto maggiore sarà il NAIRU. La spiegazione è che accanto ai tre soggetti sinora presi in considerazione – lavoratori, datori di lavoro e fisco – entra in gioco, nella spartizione del reddito, un quarto protagonista: i produttori di materie prime. Deve pertanto aumentare il tasso di disoccupazione necessario per moderare le richieste dei lavoratori e renderle compatibili con un minor salario reale. Negli ultimi quarant’anni gli shock provocati dagli improvvisi aumenti dei prezzi del petrolio, conseguenti alle ricorrenti crisi del Medio Oriente e ad altre cause, hanno in effetti contribuito in misura rilevante all’aumento del NAIRU verificatosi in Italia e negli altri Paesi industrializzati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Negli anni più recenti gli aumenti dei prezzi del petrolio sono invece stati in parte neutralizzati dal risparmio energetico (ovvero dalla riduzione del parametro ϑ). 9.7.3 Potere contrattuale dei lavoratori e organizzazioni sindacali L’esperienza internazionale mostra che, a parità di u, la forza contrattuale dei lavoratori varia ampiamente da Paese a Paese e, all’interno di un dato Paese, tra un periodo storico e l’altro. Per garantire la stabilità dei prezzi o comunque un’inflazione modera-
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Capitolo 9
ta, in alcune parti del mondo industrializzato si richiedono, pertanto, tassi di disoccupazione più elevati che in altre. In parte le diversità nei tassi di disoccupazione fra un sistema economico e l’altro sono spiegabili con i fattori che abbiamo considerato in precedenza: g, a, z, t, ϑ e RM. In parte dipendono, invece, da fattori politici, sociali e istituzionali, oltre che dalle capacità di aggregazione e di mobilitazione delle organizzazioni sindacali. Per esempio, una legislazione sul lavoro come quella italiana, che pone molti ostacoli non soltanto al licenziamento, ma anche alle assunzioni, conferisce ai lavoratori una forza contrattuale ben maggiore di quanto avvenga nei Paesi anglosassoni, dove la flessibilità dei contratti e la mobilità delle forze di lavoro sono valori tutelati, piuttosto che osteggiati, dalla normativa vigente. Un discorso analogo è possibile fare anche per il potere delle organizzazioni sindacali, le quali in alcuni Paesi vantano antiche tradizioni e un forte radicamento non soltanto tra i lavoratori, ma anche nella società e nel sistema politico, mentre in altri sono praticamente assenti. Di questi fattori possiamo tenere conto riscrivendo l’equazione base del salario nel seguente modo: Wt =
Pt =
g(1 + z)
e
a(1 − t)(1 − ϑRM t )ut
[26a]
dove il parametro σ è un indice della forza sindacale. Come si può notare, quanto più alto è il valore di σ tanto maggiori saranno, a parità di g, u e t, le richieste salariali dei lavoratori. È noto, per esempio, che le organizzazioni sindacali tendono a essere tanto più aggressive quanto più ristretta è la categoria dei lavoratori che rappresentano. I sindacati di categoria, in altri termini, sono maggiormente portati a privilegiare gli interessi particolari dei loro rappresentati rispetto agli interessi generali del mondo del lavoro. Sostituendo la [26a] nell’Equazione [30], si ottiene:
Pt
[30]
gσ Pe ut(1 − t) t
Pt =
g(1 + z)σ Pet aut (1 − t)(1 − ϑRM t )
[30a]
g(1 + z)σ a(1 − t)(1 − ϑRM t )
[31a]
da cui, ponendo Pt = Pet, si ha: uNAI =
9.8 Conflitto distributivo e disoccupazione frizionale: una formulazione generale della curva di Phillips In questo capitolo si è sinora adottata l’ipotesi di un mercato del lavoro perfettamente omogeneo, caratterizzato dall’assenza di imperfezioni e segmentazioni, e quindi di disoccupazione frizionale. In un mercato con queste caratteristiche, se la domanda di lavoro (Nd) è uguale all’offerta (FL), la disoccupazione è ovviamente nulla e quindi si avrà u = 0. Nel mercato del lavoro reale esistono invece, come si è visto nel Capitolo 8 (Paragrafo 8.5), delle imperfezioni che impediscono o perlomeno ostacolano fortemente il raggiungimento della piena occupazione. Richiamiamo brevemente le principali imperfezioni. In primo luogo, i lavoratori disoccupati hanno bisogno di tempo per la ricerca di un posto di lavoro adatto alle loro ambizioni e anche le imprese impiegano tempo per la selezione del personale. In secondo luogo, si possono formare delle segmentazioni del mercato del lavoro che portano a un disallineamento tra la domanda e l’offerta di tale fattore produttivo. Due forme di segmentazione sono particolarmente rilevanti: quella professionale e quella geografica.
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Inflazione e disoccupazione
289
In Italia, per esempio, è ben nota l’abbondanza relativa di diplomati e laureati in discipline umanistiche e contemporaneamente la scarsità di operai specializzati e di tecnici ai diversi livelli. Altrettanto noto è il dualismo fra le regioni del Centro-Nord, dove l’offerta di posti di lavoro da parte delle imprese è relativamente alta e quindi i tassi di disoccupazione sono piuttosto bassi, e le regioni del Mezzogiorno, dove invece la quantità e la qualità delle imprese sono insufficienti per assorbire l’intera forza di lavoro disponibile. Tale forma di dualismo è in gran parte dovuta, da un lato, alla scarsa mobilità della forza lavoro fra le due aree e, dall’altro, all’altrettanto scarsa mobilità delle imprese nella direzione opposta. Se dunque i diversi segmenti del mercato del lavoro non sono perfettamente allineati, può accadere che in alcuni la domanda ecceda l’offerta e vi siano quindi posti di lavoro vacanti, mentre in altri l’offerta ecceda la domanda e quindi una parte delle forze di lavoro rimanga disoccupata. Può quindi accadere a livello aggregato che la domanda totale di lavoro (Nd) sia pari alla forza lavoro disponibile (FL), ma che nello stesso tempo esistano, da un lato, posti di lavoro vacanti e dall’altro un pari numero di disoccupati. In altri termini, siano date le seguenti identità contabili: • Nd ≡ N + V, dove N e V rappresentano rispettivamente gli occupati e i posti di lavoro vacanti; • FL ≡ N + DIS, dove DIS rappresenta la disoccupazione. Se per ipotesi Nd = FL, la disoccupazione scenderà non a zero, come avverrebbe in un mercato del lavoro perfettamente omogeneo, ma a un livello minimo rappresentato appunto dalla disoccupazione frizionale. Possiamo indicare con DIS* tale livello – e con u = DIS*/FL il tasso di disoccupazione frizionale. Se pertanto si cercasse di far scendere il tasso di disoccupazione effettivo al di sotto – del livello frizionale (ovvero se u < u ), il sistema economico reagirebbe come se fosse in regime di piena occupazione e quindi prenderebbero il via aumenti salariali e dei – prezzi, mentre nel caso opposto (u > u ), i salari e i prezzi tenderebbero a diminuire. La spiegazione della curva di Phillips legata alla disoccupazione frizionale non è alternativa a quella basata sul conflitto distributivo, ma è complementare. Se infatti si accetta l’ipotesi dell’imperfezione del mercato del lavoro e quindi di un tasso di disoccupazione frizionale incomprimibile, la variabile appropriata per misurare il – potere contrattuale dei lavoratori sarà un ≡ u − u , dove un sta per “tasso netto di disoccupazione”. In tal caso la funzione di richiesta salariale, rappresentata dall’Equazione [26a] del Paragrafo 9.7.3, dovrà essere riformulata nel seguente modo: Wt =
gσ Pet – (ut − u )(1 − t)
[26b]
e pertanto l’Equazione [30] diverrà: Pt =
g(1 + z)σ a(1 − t)(1 −
ϑRM t )(u
e – Pt − u)
[30b]
Si avrà di conseguenza, ponendo Pt = Pet: uNAI =
g(1 + z)σ – +u M a(1 − t)(1 − ϑRt )
[31b]
In altri termini, le segmentazioni e imperfezioni del mercato del lavoro fanno aumentare il NAIRU o “tasso naturale”, rispetto al caso di un mercato perfettamente omoge-
Wt =
gσ Pe ut(1 − t) t
[26a]
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290
Capitolo 9
neo e senza tempi di attesa per la ricerca del posto di lavoro, di una percentuale pari al – tasso di disoccupazione frizionale u . Infine, la curva di Phillips di breve periodo diventa: πt =
g(1 + z)σ a(1 − t)(1 −
ϑRM t )(u
e – (1 + πt) − 1 − u)
[32]
ovvero la curva è traslata sulla destra dal tasso di disoccupazione frizionale e πt ten– derà all’infinito per u tendente non più a zero, ma a u .
9.9 Riepilogo e considerazioni di politica economica Sono dunque molti i fattori che spiegano il livello del NAIRU. Una politica di largo respiro volta a ottenere risultati permanenti nella lotta alla disoccupazione, senza scatenare l’inflazione, dovrà quindi cercare di agire su tali fattori con riforme e azioni strutturali, quali per esempio: • una politica di bilancio orientata a ridurre il cuneo fiscale t (e contemporaneamente la spesa pubblica, in modo da non aggravare il bilancio dello Stato); • politiche per il risparmio energetico e l’uso efficiente dell’energia e delle materie prime in generale (riduzione di ϑ); • incentivazione della ricerca e del progresso tecnico per aumentare la produttività del lavoro (il parametro a) e la competitività delle imprese; • politiche antimonopolistiche volte a ridurre il potere di mercato delle imprese (ossia il parametro z); • politiche dei redditi volte a incentivare la moderazione sindacale (e a ridurre il parametro σ); • riforme per dare maggiore flessibilità al mercato del lavoro e aumentare la mobilità professionale; • politiche di formazione e riqualificazione professionale; • politiche dell’abitazione e altri incentivi per aumentare la mobilità geografica; • politiche per attirare nelle aree con alta disoccupazione investimenti diretti da altri Paesi e da altre regioni. Alle politiche fiscali di carattere congiunturale si dovrà invece fare ricorso nei casi in cui il tasso di disoccupazione tenda a permanere a livelli superiori al NAIRU, a causa delle varie “trappole” keynesiane: impossibilità di ridurre i tassi di interesse nominali e reali, insensibilità degli investimenti al tasso di interesse, salari e prezzi rigidi verso il basso (curva di Phillips orizzontale a destra di uNAI).
9.10 Curva di Phillips nella realtà: Italia e Stati Uniti a confronto La relazione tra inflazione e disoccupazione che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del secolo scorso (Figura 9.13) rispecchia abbastanza fedelmente quanto è avvenuto negli Stati Uniti in un periodo simile, anche se un po’ più spostato verso il nuovo secolo (Figura 9.14). Come si può osservare, in nessuno dei due Paesi esiste una precisa relazione di lungo periodo tra le due variabili come quella evidenziata da A.W. Phillips per il Regno Unito di cento anni prima (Figura 9.1). Piuttosto sembrano esservi relazioni di breve periodo che non mostrano stabilità nel tempo.
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Inflazione e disoccupazione
Figura 9.13 Curva di Phillips italiana nel periodo 1956-2001
23 80 20
75 76
17
77
81 82 83
79 14
73
11
78
84 85
63
8
64 65 67 60 2
66 58
72
68
61
90 89 92 87 93 96 54 56 94 01 00 99 98 53 86
71
62
5
55
57
59
–1 0
2
4
6
8
10
12
14
Tasso di disoccupazione (%)
Figura 9.14 Rapporto tra inflazione e disoccupazione negli Stati Uniti, 1961-2012
80
14 Tasso di inflazione (variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo)
Tasso di inflazione (%)
(Fonti: dal 1956 al 1959, Maddison A., Dynamic Forces in Capitalist Development: A Long Run Comparative View, Oxford University Press, Oxford-New York 1991; dal 1960, IMF, Financial Statistics e OECD, Labour Force Statistics.)
74
(Fonte: Bureau of Labor Statistics.)
79
12 74
81
10
75 8
78 73 90 77 70 76 91 89 08 71 85 68 00 06 05 88 87 84 96 72 93 67 95 92 01 07 66 98 04 03 94 0263 99 97 86 61 65 64 62 69
6 4 2 0
82
11
83
12
10 09
–2 3
4
5
6
7
Tasso di disoccupazione (%)
8
9
10
291
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292
Capitolo 9
Come nel caso degli Stati Uniti, buona parte della instabilità della curva di Phillips italiana è dovuta all’effetto del doppio shock petrolifero degli anni Settanta del secolo scorso (si veda l’Approfondimento 9.4). Ciò suggerisce di analizzare distintamente alcuni sottoperiodi. In primo luogo, consideriamo in Italia il periodo che va dal 1953 al 1972, alla vigilia del primo shock petrolifero del 1974 (Figura 9.15). Notiamo che la curva di Phillips relativa a questo periodo è abbastanza piatta, come negli USA negli anni Sessanta (si veda la Figura 9.16). Ciò significa che il tasso di inflazione è risultato meno volatile del tasso di disoccupazione e le oscillazioni cicliche della domanda aggregata si sono tradotte soprattutto in variazioni della disoccupazione. In secondo luogo, gli anni Settanta sono stati caratterizzati da un doppio shock petrolifero nei bienni 1973-74 e 1979-80 (Figura 9.17). I bruschi rialzi del prezzo del petrolio hanno poi causato un notevole aumento dell’inflazione e allo stesso tempo della disoccupazione (Figura 9.18), generando quindi un classico caso di stagflazione. In terzo luogo, l’analisi relativa al periodo 1980-96 (Figura 9.19) evidenzia di nuovo l’esistenza di una curva di Phillips, traslata però verso l’alto rispetto al periodo 1953-72, poiché incorpora le aspettative di inflazione generate dagli shock petroliferi. Possiamo tuttavia notare che la nuova curva è molto più inclinata della precedente: a ogni livello di inflazione il tasso di disoccupazione appare, infatti, sistematicamente più elevato che negli anni Cinquanta e Sessanta. Si potrebbe parlare in questo caso di innalzamento del tasso naturale di disoccupazione, fenomeno comune a tutti i Paesi europei. Il periodo 1980-96 può dunque essere considerato come una fase di lento e costoso (in termini di disoccupazione) recupero dei bassi livelli di inflazione precedenti il primo shock petrolifero. Un confronto con gli USA (Figure 9.14 e 9.20) ci segnala che in quel Paese la disinflazione era stata completata già nel
Figura 9.15 Curva di Phillips italiana, 1953-1972
9 8
Tasso di inflazione (%)
(Fonti: per l’inflazione, IMF, Financial Statistics; per la disoccupazione, OECD, Labour Force Statistics.)
10
63
7 64
6
71 62
5
65
72
70
4 3
61 60
2
67 66 69 58
54
55 57
53
7
8
56
1 0
59
–1 1
2
3
4
5
6
Tasso di disoccupazione (%)
9
10
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Inflazione e disoccupazione
293
Figura 9.16 Rapporto tra inflazione e disoccupazione negli Stati Uniti, 1961-69
6,0 5,5
Tasso di inflazione (%)
(Fonte: DRI/McGraw-Hill.)
1969
5,0 4,5
1968
4,0 3,5
1966
3,0
1967 1965
2,5
1962
2,0 1,5 1964
1,0
1961
1963
0,5 0 0
3,5
4,0
4,5
5,0
5,5
6,0
6,5
7,0
Tasso di disoccupazione (%)
APPROFONDIMENTO 9.4 Shock dal lato dell’offerta: le crisi petrolifere Nel secolo scorso, tra gli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta, l’opinione prevalente era che le variazioni della produzione e dei prezzi in un sistema economico fossero causate da spostamenti della curva di domanda aggregata, dovuti, per esempio, a mutamenti della politica monetaria o fiscale (da questo punto di vista le guerre vengono equiparate a espansioni fiscali), oppure a variazioni della domanda di investimenti. Negli anni Settanta, invece, l’andamento delle variabili macroeconomiche è stato influenzato negativamente soprattutto da shock dal lato dell’offerta. Uno shock dal lato dell’offerta è un evento che turba l’equilibrio del sistema economico e che, come primo effetto, provoca uno spostamento verso l’alto della curva di Phillips. Come infatti si può notare dall’Equazione [30b] del Paragrafo 9.8 e dalla corrispondente curva di Phillips:
πt =
g (1 + z ) σ (1 − πte) − 1 a (1 − t )(1 − ϑRtM)(u − u–)
Shock dal lato dell’offerta Turbamento economico il cui primo impatto è uno spostamento verso l’alto della curva dell’offerta aggregata.
[32]
un aumento del prezzo relativo del petrolio RtM determina, per ogni dato tasso di disoccupazione u e a parità di altre condizioni, un aumento del tasso di inflazione πt e quindi una traslazione verso l’alto della funzione. Nel corso degli anni Settanta la curva subì due principali spostamenti in seguito a considerevoli aumenti del prezzo del petrolio, che fecero salire i costi di produzione e quindi anche i prezzi a cui le imprese erano disposte a vendere i loro prodotti finiti.
Pt =
g(1 + z) σ e – Pt a(1 − t)(1 − ϑRM t )(u − u ) [30b]
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Capitolo 9
Prezzo al barile del greggio (dollari, 2010)
294
120
100
80
60
40
20
0 1968
1973
1978
1983
1988
1993
1998
2003
2008
2013
Figura 9.17 Prezzo reale di un barile di petrolio, 1949-2015 (Fonti: Energy Information Administration, www.eia.doe.gov; Federal Reserve Economic Data - FRED.)
La Figura 9.17 mostra l’andamento del prezzo reale del petrolio. Tra il 1973 e il 1974, durante la prima crisi petrolifera, il prezzo reale, o relativo,4 aumentò in misura notevole e questa fu una delle cause della recessione che colpì i Paesi industrializzati tra il 1973 e il 1975: la peggiore recessione verificatasi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La seconda crisi petrolifera provocata dall’OPEC tra il 1979 e il 1981 fece raddoppiare il prezzo del petrolio e determinò una brusca crescita dell’inflazione. Tra il 1980 e il 1982, per combattere l’inflazione, negli Stati Uniti fu adottata una politica monetaria restrittiva, con il risultato che l’economia entrò in una fase di recessione persino peggiore di quella del 1973-75. Dal 1982 alla fine del decennio il prezzo reale del petrolio ha continuato a scendere, facendo registrare un calo particolarmente marcato tra il 1985 e il 1986. Una breve crisi petrolifera si è avuta ancora nel secondo semestre del 1990, in seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq; essa ha contribuito ad aggravare la recessione del 1990-91. Una nuova esplosione del prezzo del petrolio si è verificata tra il 1998 e il 2007 ed è questa una delle spiegazioni principali della Grande Recessione 2008-2009. Le due recessioni legate alle crisi petrolifere degli anni Settanta non lasciano dubbi sulla rilevanza degli shock dal lato dell’offerta. Il forte aumento del prezzo del petrolio del periodo 1998-2007 lo conferma, anche se alla successiva crisi economica del 2008-09 hanno concorso altri fattori. Quando l’economia statunitense cominciò a risentire della prima crisi petrolifera alla fine del 1973, né gli economisti né i politici sapevano se si potesse fare qualcosa per contrastarne gli effetti, e soprattutto che cosa, perché fino ad allora gli shock dal lato dell’offerta erano un fenomeno sconosciuto. Tuttavia, poiché alla fine del 1974 il tasso di disoccupazione superò l’8%, nei due anni successivi gli Stati Uniti adottarono politiche monetarie e fiscali espansive, che aiutarono l’economia a uscire più rapidamente dalla fase di recessione. La stessa politica espansiva di stampo keynesiano fu seguita anche per superare la recessione 2008-09, men-
4 Il prezzo reale del petrolio è calcolato sulla base del prezzo corrente americano di acquisto di petrolio greggio, deflazionato con l’indice implicito dei prezzi del prodotto interno lordo degli USA (in dollari del 2010).
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Inflazione e disoccupazione
tre in Europa è stata seguita una pesante politica di austerità con gravi conseguenze di aumento della disoccupazione soprattutto nei Paesi del Sud come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e anche l’Italia. Perché, allora, in presenza di shock negativi dal lato dell’offerta non si adottano sempre politiche economiche espansive? La risposta è che bisogna trovare un compromesso tra gli effetti recessivi di uno shock dal lato dell’offerta e l’effetto inflazionistico delle politiche accomodanti: più si fa ricorso a queste ultime, più si alimenta l’inflazione, ma nello stesso tempo si riesce a contenere la disoccupazione. Con la politica economica seguita in quel periodo negli USA si ottenne un risultato intermedio: una riduzione parziale della disoccupazione accompagnata da un tasso moderatamente elevato di inflazione. Oltre a considerare i costi relativi della disoccupazione e dell’inflazione, i responsabili delle politiche economiche che affrontano uno shock dal lato dell’offerta aggregata devono prevedere se il fenomeno ha un carattere transitorio o permanente. In caso di shock permanente, la politica della domanda aggregata non può evitare una successiva recessione. Un tentativo di evitare tale eventualità non fa che determinare una continua crescita dei prezzi e quindi dei tassi di interesse nominali con gravi conseguenze per la spesa pubblica e l’indebitamente dello Stato. In generale, la politica della domanda aggregata può essere utilizzata per prevenire il calo di produzione associato a uno shock transitorio dell’offerta.
1983 e che da quel momento in poi si è proseguito nella riduzione della disoccupazione, con risultati molto anticipati rispetto al caso italiano. Proseguendo nell’analisi si osserva che il periodo 1997-2007 (Figura 9.21a) registra un graduale riassorbimento della disoccupazione con un’inflazione a livelli molto bassi. Questo periodo è contraddistinto dall’ingresso dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea e verrà analizzato in maggior dettaglio nel Capitolo 10. Possiamo tuttavia osservare che, come si è accennato alla fine del Paragrafo 9.6, le regole severe del Trattato di Maastricht e la politica di avvicinamento all’euro, condotta con rigore e fermez-
22
80
20
Tasso di inflazione (%)
Figura 9.18 Effetto degli shock petroliferi sulla curva di Phillips in Italia negli anni Settanta
74
18
(Fonti: per l’inflazione, IMF, Financial Statistics; per la disoccupazione, OECD, Labour Force Statistics.)
77 75 76
16 79 14
12
78 73
10 0
1
2
3
4
5
6
7
Tasso di disoccupazione (%)
8
9
1 0
295
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296
Capitolo 9
Figura 9.19 Curva di Phillips italiana, 1980-96
24 22
(Fonti: per l’inflazione, IMF, Financial Statistics; per la disoccupazione, OECD, Labour Force Statistics.)
80
20
Tasso di inflazione (%)
18
81
82
16
83
14 12
84
10
85
8
90 89 86 88 93 92 94 96
6 4 2 0 0
2
4
6
8
10
12
14
Tasso di disoccupazione (%)
πeprimi anni Ottanta = 7% Tasso di inflazione (%)
Figura 9.20 Inflazione attesa e curva di Phillips negli USA in termini stilizzati
7
S Curva di Phillips relativa ai primi anni Ottanta
πeinizi del XXI secolo = 2% 2 Curva di Phillips relativa agli inizi del XXI secolo u* Tasso di disoccupazione (%)
za dai governi italiani e dalla Banca d’Italia negli anni Novanta, hanno consentito la sostituzione delle aspettative backward looking, relative agli alti tassi di inflazione degli anni Settanta e Ottanta, con aspettative razionali di sostanziale stabilità dei prezzi. Nel corso degli anni Novanta sino al 1997, è quindi sceso il tasso di inflazione ed è aumentata la disoccupazione (Figura 9.19); nel decennio successivo è poi di nuovo caduta la disoccupazione (Figura 9.21a). Nei termini stilizzati della Figura 9.11 (Paragrafo 9.5) potremmo quindi sintetizzare nel seguente modo la storia della curva di Phillips in Italia nell’ultimo mezzo secolo: (a) gli shock petroliferi degli anni Settanta hanno com-
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Inflazione e disoccupazione
Figura 9.21 Curva di Phillips italiana 1998-2007 e curva di Phillips italiana 2008-2017
(a)
Tasso di inflazione (%)
5,0 4,0
(Fonte: ISTAT, 2013 (a); ISTAT 2019 e OECD 2019 (b).)
2002 2001
3,0
2004
2003
1998
2007
2,0
2005
2000
2006
1999
1,0 0,0 5,0
6,0
7,0
8,0
9,0
10,0
11,0
12,0
Tasso di disoccupazione (%) (b)
Tasso di inflazione (%)
3,5 2008
3,0
2012 2011
2,5 2,0 1,5
2017 2010
1,0
2013 2009
0,5
2015
0,0 -0,5
6
9
2016
2014
12
15
Tasso di disoccupazione (%)
portato lo spostamento verso l’alto della curva;5 (b) gli anni Ottanta e la prima parte degli anni Novanta corrispondono alla transizione dal punto E2 al punto E4 (aumento della disoccupazione e caduta dell’inflazione); (c) nel decennio 1997-2007 si ha invece il ritorno dal punto E4 al punto E0 (caduta della disoccupazione verso il livello “naturale” con bassa inflazione). Nel 2008 è cominciata una nuova fase: da un lato, il boom mondiale del decennio precedente, soprattutto di Paesi emergenti come la Cina e l’India, ma anche degli Stati Uniti, ha comportato un nuovo aumento del prezzo del petrolio (si veda la Figura 9.17) e un conseguente accenno di ripresa dell’inflazione, evidenziato per l’Italia dal dato 2008 della Figura 9.21b; dall’altro, la grave crisi finanziaria originata negli Stati Uniti dall’insolvenza di molti titolari di mutui ipotecari e dal conseguente fallimento di alcuni colossi bancari, ha determinato una grave crisi economica diffusasi nel 2009 al settore reale. Il forte aumento della disoccupazione negli USA (Figura 9.22) ha quindi spento sul nascere gli effetti dello shock petrolifero sull’inflazione. Anche in Italia nel biennio 2009-10 la disoccupazione è salita di due punti superando l’8% e 5 Per un’analisi degli effetti delle crisi petrolifere degli anni Settanta e della prima metà degli anni Ottanta, si veda Pettenati P., “Occupazione e inflazione nei Paesi industriali dopo la crisi petrolifera: strategie alternative a confronto”, TRANSIZIONE: bimestrale di cultura e politica, nn. 5-6, 1985.
297
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298
Capitolo 9
Figura 9.22 Tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, 1948-2016
11 10
Tasso di disoccupazione (%)
(Fonte: Federal Reserve Economic Data - FRED.)
12
9 8 7 6 5 4 3 2 1948 1953 1958 1963 1968 1973 1978 1983 1988 1993 1998 2003 2008 2013
dopo la nuova crisi del biennio 2012-2013 si è attestata sopra la soglia del 10% (si veda la Figura 9.21b). Negli Stati Uniti, invece, come si nota dalla Figura 9.22, il tasso di disoccupazione ha cominciato a scendere dopo il picco del 2010.
Riepilogo • Il modello classico, caratterizzato da prezzi flessibili e assenza di frizioni di qualsiasi genere, non ammette disoccupazione in condizioni di equilibrio. La disoccupazione potrebbe esistere in una situazione di disequilibrio con la domanda aggregata inferiore all’offerta di pieno impiego, ma in tal caso i prezzi e i salari nominali diminuirebbero sino a quando non si sarà nuovamente raggiunta la posizione di equilibrio. • Nella realtà dei sistemi economici contemporanei si osserva, invece, non soltanto la persistenza di tassi di disoccupazione relativamente elevati per lunghi periodi di tempo, ma anche la coesistenza (detta “stagflazione”) di disoccupazione e inflazione. La relazione tra queste due variabili è definita “curva di Phillips” dal nome dell’economista che l’ha rilevata per la prima volta in uno studio del 1958 sul Regno Unito. • Nel corso del capitolo abbiamo discusso due tipi di spiegazioni del paradosso della stagflazione e della curva di Phillips: (a) le teorie del conflitto distributivo; (b) le teorie che si rifanno alle imperfezioni e frizioni del mercato del lavoro.
• Nel primo caso le tensioni inflazionistiche sono dovute al conflitto tra datori di lavoro e lavoratori per la distribuzione del valore aggiunto dell’impresa e quindi del reddito nazionale tra “salari” (redditi da lavoro) e “profitti”. Le imprese, infatti, data la produttività del lavoro, stabiliscono i prezzi dei prodotti sulla base del salario nominale e del mark-up che desiderano applicare al costo diretto. In tal modo fissano anche il salario reale e le quote distributive di salari e profitti. • I lavoratori occupati nelle imprese (i cosiddetti “insider”) chiedono invece un salario reale che, partendo da un dato valore minimo, chiamato “salario di riserva”, sarà tanto più elevato quanto maggiore è la loro forza contrattuale. Quest’ultima dipende da diverse cause, ma in particolar modo dal tasso di disoccupazione. • Esisterà quindi un dato tasso di disoccupazione, definito NAIRU (che “non accelera l’inflazione”) o “naturale”, che rende il salario reale richiesto dai lavoratori compatibile con quello offerto dalle imprese. Al di sotto di quel tasso il salario richiesto sarà maggiore di quello offerto e quindi sorgeranno ten-
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Inflazione e disoccupazione
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sioni inflazionistiche dal momento che le richieste salariali in eccesso saranno trasferite dalle imprese sui prezzi, ma l’aumento dei prezzi determinerà a sua volta nuovi aumenti salariali volti a difendere il potere d’acquisto dei lavoratori. Si formerà in altri termini una “spirale prezzi-salari”. Il conflitto distributivo è acuito dalla presenza di altri attori, fra i quali: (a) il fisco che, prelevando sotto forma di imposte una parte del reddito, diminuisce il reddito da distribuire; (b) i produttori di materie prime, in particolare di petrolio, che, aumentando il prezzo reale dei loro prodotti, creano una spinta inflazionistica. Per riassorbirla sarà necessario un tasso più alto di disoccupazione che moderi le richieste dei lavoratori. La presenza di tali fattori incide sulla posizione della curva di Phillips nello spazio. Il secondo tipo di spiegazione si rifà, invece, alle imperfezioni e alle “frizioni” del mercato che possono ostacolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tra queste ricordiamo in primo luogo il tempo necessario tanto ai lavoratori per cercare il primo (o un nuovo) posto di lavoro, quanto alle imprese per la ricerca e la selezione del personale. Inoltre possiamo citare le segmentazioni del mercato del lavoro dovute a fattori geografici e alla varietà dei titoli di studi e delle qualifiche professionali. Può dunque avvenire che, pur in presenza di una domanda in grado di assorbire sul piano quantitativo l’intera forza lavoro disponibile e quindi in presenza di una potenziale situazione di equilibrio di piena occupazione, i posti di lavoro offerti rimangano in parte vacanti, mentre si registra un pari numero di disoccupati (“disoccupazione frizionale”). La seconda spiegazione non è incompatibile con la prima, ma è complementare. Il tasso di disoccupazione frizionale può infatti essere inserito tra i fattori che determinano il tasso naturale. Di fatto determina uno spostamento verso destra della curva di Phillips. La forma e la posizione della curva di Phillips dipendono in modo determinante anche dalle aspettative o previsioni riguardanti i prezzi. Dato, infatti, che gli imprenditori si riservano il diritto di fissare i prezzi dei prodotti dopo aver conosciuto il livello dei salari, i lavoratori al momento della trattativa dovranno basare il calcolo del salario richiesto sul prezzo previsto per il periodo di valenza del contratto di lavoro.
299
• La curva di Phillips originaria è basata sull’ipotesi di aspettative adattive statiche: in altri termini, il prezzo atteso per il periodo t è quello del periodo precedente t − 1. Questo significa che di fatto la previsione è basata sull’ipotesi di un’inflazione futura pari a zero. • Nel caso, invece, che il prezzo atteso per il periodo t sia basato sul prezzo del periodo precedente maggiorato però dal tasso di inflazione atteso (per esempio, quello del periodo precedente), la curva di Phillips non sarà più stabile, ma tenderà a spostarsi verso l’alto (verso il basso) ogniqualvolta il tasso di inflazione previsto aumenti (diminuisca). Soltanto in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione l’inflazione rimarrà stabile: per tassi di disoccupazione più bassi si determinerà invece una tendenza all’accelerazione dell’inflazione. Per questo motivo le previsioni che incorporano l’inflazione pregressa possono essere definite “accelerative”. • Sia le aspettative statiche (inflazione prevista pari a zero) sia quelle accelerative (inflazione prevista uguale a quella del periodo precedente) sono “backward looking”, ossia basate sull’esperienza passata. La teoria delle aspettative razionali sostiene invece che un soggetto razionale deve basare le proprie previsioni su tutte le informazioni disponibili e non è detto che il passato sia una buona guida per il futuro. Per esempio, se le autorità di politica economica annunciano l’obiettivo di ridurre il tasso di inflazione e sono credibili, l’inflazione da prevedere sarà quella annunciata. • Le conseguenze dei diversi tipi di aspettative per la politica economica sono molto rilevanti: per esempio, la curva di Phillips con aspettative statiche consente la scelta tra diverse combinazioni di inflazione e disoccupazione, mentre le aspettative accelerative comportano il rischio di iperinflazione qualora il tasso di disoccupazione scenda sotto il livello naturale. Le aspettative razionali danno invece molta importanza alla trasparenza e alla credibilità delle decisioni delle autorità responsabili della politica monetaria. • Un problema altamente controverso è quello della simmetria dei due segmenti della curva di Phillips: mentre non è in discussione che una disoccupazione più bassa del tasso naturale (segmento sinistro della curva) comporti una tendenza all’aumento del tasso di inflazione, molti ritengono, in particolare le scuole keynesiane, che sopra tale tasso (segmento destro della curva) l’inflazione incontri un limite inferiore nell’asse delle ascisse ovvero che i prezzi e i salari
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Capitolo 9
tali curve sono soggette a periodici spostamenti verso l’alto, provocati in particolare dagli shock petroliferi. Tali spostamenti sono poi seguiti da fasi di rientro dell’inflazione con aumento della disoccupazione e, successivamente, da fasi di riduzione della disoccupazione con un tasso di inflazione relativamente stabile. Tutto questo è in linea con l’analisi teorica presentata nel capitolo.
siano rigidi verso il basso. In tal caso, le forze del mercato non sarebbero in grado di risolvere spontaneamente il problema della disoccupazione e sarebbero quindi necessari interventi di politica economica, in particolare di stimolo fiscale. • L’esame della curva di Phillips nell’esperienza italiana e statunitense mostra che sono identificabili curve di Phillips nei periodi di inflazione moderata, ma che
Domande di ripasso 9.1 9.2
9.3
9.4
Che cos’è l’inflazione, come si misura e quali sono le sue cause? Quali sono i legami tra inflazione e disoccupazione? In particolare, che cos’è la curva di Phillips e quali sono i suoi fondamenti teorici? Qual è il ruolo dei prezzi attesi nella curva di Phillips e quali tipi principali di aspettative possiamo configurare? In particolare, che differenza c’è tra curve di Phillips di breve periodo e di lungo periodo? In che modo l’inserimento dell’inflazione e della curva di Phillips nei modelli IS-LM modifica le condizioni di efficacia delle politiche economiche (in particolare fiscali e monetarie)? Distinguete tra economia chiusa ed economia aperta con cambi fissi e con cambi flessibili.
9.5
9.6
La curva di Phillips di breve periodo prevede tassi di inflazione positivi e crescenti nel ramo a sinistra del tasso di disoccupazione non inflazionistico e tassi di inflazione negativi e decrescenti nel ramo a destra. Esiste un’effettiva simmetria tra i due lati della curva? In altri termini, è confermata o meno dai fatti l’ipotesi keynesiana della rigidità verso il basso dei salari nominali e dei prezzi? Se sì, quali sono le cause e quali le conseguenze di tale fenomeno? Quale comportamento ha avuto la curva di Phillips nei decenni passati in Italia e negli Stati Uniti? In particolare, quali sono state le conseguenze degli shock petroliferi?
Problemi 9.1
Calcolate il NIRU (tasso di disoccupazione non inflazionistico, uNI) in un’economia chiusa sulla base dei seguenti dati: Y = 30N (funzione aggregata della produzione), dove Y è il PIL reale e N l’occupazione; i prezzi nel periodo t (Pt ) siano fissati in base al principio del markup con z (mark-up) = 0,5; la funzione di richiesta salariale sia: Wt = (g/u)Pet dove Wt = salario nominale, u = tasso di disoccupazione, g = 2 (salario reale minimo), Pet (prezzo atteso con aspettative statiche) = Pt – 1.
9.2
Considerate un’economia aperta agli scambi internazionali con cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali, caratterizzata da aspettative adattive statiche e dai seguenti dati: c = 2/3, t = 1/4, – – – m = 1/5, C = 200, I = 200, X = 50, G = 350, TR = 300, ν = 30, R = 9, b = 200, k = 1/5, – – – h = 400, if = 5% , dove C , I e X sono rispettivamente le componenti autonome dei consumi, degli investimenti e delle esportazioni, G è la spesa pubblica e TR i trasferimenti pubblici. a. Calcolate il PIL (Y) e la quantità reale di moneta necessaria per ottenerlo. b. Calcolate il tasso di disoccupazione (u) corrispondente al valore di Y trovato in precedenza, nell’ipotesi che la funzione di produzione sia: Y = 40N e la forza lavoro (FL) sia pari a 50 unità. c. Supponete infine che i prezzi dei prodotti siano fissati in base alla formula del mark-up con z = 1, che la funzione della produzione sia quella del punto precedente e che la funzione di richiesta salariale sia: Wt = (g/u)Pt – 1, con g (salario reale minimo) = 2. Se il tasso di inflazione internazionale fosse πf = 4%, a quale tasso di disoccupazione tenderebbe il sistema nel lungo periodo?
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Inflazione e disoccupazione
9.3
Considerate un’economia aperta agli scambi internazionali con cambi flessibili e perfetta mo– – bilità dei capitali, caratterizzata dai seguenti dati: c = 2/3, t = 1/3, m = 1/9, C = 130, I = 100, – X = 40, G = 92, ν = 8, b = 200, k = 1/4, h = 400, if = 5%, Pf = 4, P = 3, M = 372. a. Calcolate il livello di equilibrio del PIL (Y ) e del tasso di cambio nominale (e). b. Calcolate il tasso di disoccupazione (u) corrispondente al valore di Y trovato in precedenza, data la funzione della produzione Y = 12N e data la forza lavoro FL = 50 unità. c. Supponete infine che i prezzi dei prodotti siano fissati con la formula del mark-up con z = 0,2, che la funzione di produzione sia quella del punto precedente e che la funzione di richiesta salariale sia: Wt = (g/u)Pt – 1 con g = 0,4. A quale tasso di disoccupazione tenderebbe il sistema nel lungo periodo, se la Banca Centrale aumentasse la quantità di moneta in ogni periodo al tasso del 25%?
9.4
Considerate una curva di Phillips in un’economia chiusa con aspettative accelerative e i seguenti dati: g = 2, z = 1, a = 40. a. Calcolate il NAIRU e il NIRU nell’ipotesi che il tasso di inflazione del periodo precedente sia pari a zero (πt − 1 = 0). b. Supponete che nel periodo successivo il tasso di disoccupazione scenda a u1 = 8%. Calcolate il nuovo tasso di inflazione. c. Calcolate il tasso di inflazione nel periodo t + 2. d. Supponete che la Banca Centrale intenda a questo punto azzerare l’inflazione stabilizzando la quantità nominale di moneta (per cui ΔM/M = 0) e che pertanto cada la quantità di moneta reale provocando un aumento del tasso di disoccupazione. Calcolate il tasso di disoccupazione necessario per riportare l’inflazione a 0. e. Verificate che con un tasso di disoccupazione al 15,625% l’inflazione diventa negativa. f. Con l’inflazione a −36% e ΔM/M = 0 la quantità reale di moneta aumenta, e pertanto la disoccupazione dovrebbe diminuire (il condizionale è d’obbligo perché con un’inflazione negativa il tasso di interesse reale aumenta e di conseguenza gli investimenti potrebbero diminuire cosicché l’economia ristagnerebbe in una situazione di disoccupazione elevata). Quale sarà la soluzione di lungo periodo?
9.5
Supponete che in un’economia chiusa con aspettative accelerative l’inflazione annua sia pari al 10,24% e che le autorità monetarie desiderino abbassarla al 4% riducendo appunto a tale tasso la creazione di nuova moneta (ΔM/M = 4%). Supponete inoltre di avere i seguenti dati: g = 1, z = 0,5 e a = 30. Il tasso di disoccupazione è inizialmente al livello NAIRU ossia: u = uNAI = g (1 + z)/a = 5%. a. A quanto dovrà aumentare la disoccupazione nella fase transitoria per raggiungere l’obiettivo di π = 4%? b. Se le aspettative fossero razionali, come avverrebbe l’aggiustamento al target di inflazione del 4%?
9.6
Se il tasso di disoccupazione naturale o NAIRU è, come nel problema precedente, pari a 5% in assenza di tassazione, come si modifica se introduciamo nel sistema economico un’imposta proporzionale sul reddito e quindi sui salari del 37,5% (ovvero t = 0,375)?
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Appendice 9
Appendice 9
Mercato del lavoro in un contesto non perfettamente concorrenziale
Il persistere della disoccupazione a livelli molto elevati1 ha generato insoddisfazione nei confronti del modello classico del mercato del lavoro. Di conseguenza sono state presentate numerose ipotesi alternative per spiegare l’esistenza di disoccupazione involontaria come fenomeno di equilibrio anziché come situazione transitoria. La costruzione di teorie alternative al modello classico richiede che si affronti in modo soddisfacente un quesito fondamentale. Per quale motivo, in presenza di un alto tasso di disoccupazione, le imprese e i lavoratori disoccupati non concordano una riduzione dei salari in modo da creare nuovi posti di lavoro? In altri termini, per quale motivo esiste disoccupazione, malgrado i disoccupati abbiano convenienza ad accettare lavori a salari più bassi di quelli vigenti nel mercato e visto che le imprese dovrebbero trarre vantaggio dall’assumere i disoccupati a tali salari? Due sono le possibili spiegazioni di questo fenomeno: 1. le imprese non vogliono ridurre i salari al di sotto di un certo livello; 2. le imprese non possono ridurre i salari al di sotto di un certo livello. La prima tipologia di spiegazione è illustrata dalla teoria dei salari di efficienza, la seconda dalla teoria di insider-outsider e dai modelli di contrattazione salariale.
A.9.1 Teoria dei salari di efficienza Può una riduzione dei salari corrisposti ai propri lavoratori costituire un costo per un’impresa? La teoria dei salari di efficienza dimostra non solo che una riduzione salariale può implicare costi, oltre ai benefici in termini di minori spese, ma anche che vi possono essere situazioni in cui i costi sono maggiori dei benefici e le imprese preferiscono pagare un salario superiore a quello in cui domanda e offerta di lavoro si eguagliano. Alla base della teoria dei salari di efficienza vi sono due presupposti. 1. L’impresa non può controllare con precisione la reale produttività dei lavoratori. Per esempio non può osservare la loro abilità, l’effettivo impegno profuso ecc. In queste circostanze diciamo che esiste un’asimmetria informativa tra impresa e lavoratori. 2. Il salario percepito dai lavoratori influenza la loro produttività. 1
Si veda il Capitolo 3 per il caso europeo e le figure del Paragrafo 9.10 per l’Italia e gli Stati Uniti.
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Appendice 9
Ciò che è rilevante per l’impresa, in definitiva, è la reale produttività dei lavoratori, che purtroppo non può essere controllata con precisione. Il legame tra salario e produttività conferisce tuttavia all’impresa uno strumento aggiuntivo: essa può infatti modificare il salario per garantirsi la massima produttività da parte dei propri lavoratori. Riguardo alla relazione tra salario e produttività, di importanza cruciale, sono state avanzate tre spiegazioni. 1. Supponiamo che l’impresa non sia in grado di controllare perfettamente l’impegno e l’accuratezza che i lavoratori pongono nello svolgimento delle proprie mansioni. I lavoratori cercano di sfruttare questa incapacità dell’impresa ma, una volta colti in flagrante a lavorare meno del dovuto, vengono licenziati: il costo opportunità del “lavorare meno del dovuto” è costituito dalla perdita del salario. In questo contesto, se i lavoratori percepiscono salari elevati, da una parte attribuiscono maggiore valore al lavoro, dall’altra la minaccia del licenziamento costituisce un incentivo adeguato a profondere impegno. Salari elevati garantiscono dunque un impegno elevato e quindi una produttività elevata.2 2. Salari elevati possono creare un sentimento di gratitudine e riconoscenza da parte dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro e quindi contribuiscono anche indirettamente all’aumento della produttività.3 3. Se i lavoratori sono caratterizzati da diversi livelli di abilità non controllabili da parte dell’impresa e se individui con un livello di abilità più elevato hanno anche salari di riserva più elevati, aumentando i salari l’impresa migliora il livello qualitativo medio del gruppo di persone che richiede un posto di lavoro presso di essa.4 Se dunque esiste una relazione positiva tra salario e produttività, quando un’impresa considera l’opportunità di una riduzione salariale si trova di fronte a un trade-off: un salario minore comporta da una parte costi minori, dall’altra una minore produttività e quindi minori profitti. La scelta ottimale dell’impresa dipende dalla rilevanza di questi due effetti e dall’esatto tipo di relazione esistente tra salario e produttività. Con l’ausilio della Figura A.9.1 esaminiamo la determinazione del salario di efficienza, quello cioè che massimizza l’impegno del lavoratore, nel caso in cui il salario influenzi l’impegno profuso dai lavoratori. La curva EE mostra la relazione tra salario reale, w, e impegno (e dunque produttività), e; essa presenta inizialmente rendimenti crescenti e successivamente rendimenti decrescenti. L’intuizione che giustifica tale andamento è la seguente. A livelli salariali bassi i lavoratori profondono un impegno limitato. All’aumentare del salario l’impegno aumenta più che proporzionalmente (un modesto aumento salariale determina un notevole incremento di e), tuttavia una volta raggiunto un livello di impegno elevato diventa sempre più difficile incrementarlo ancora e di conseguenza, per ottenere un ulteriore aumento di e, le imprese devono accrescere il salario in misura più che proporzionale.5 I raggi che partono dall’origine rappresentano i luoghi di punti in cui il rapporto tra e e w è costante. L’impresa sceglie il livello salariale che massimizza l’impegno per unità di salario cor-
2 Si veda Shapiro C., Stiglitz J., “Equilibrium Unemployment as a Worker Discipline Device”, American Economic Review, dicembre 1985. 3 Questo aspetto è stato sottolineato da Akerlof G., “Labor Contracts as Partial Gift Exchange”, Quarterly Journal of Economics, novembre 1992. 4 Si veda Weiss A., “Job Queues and Layoffs in Labor Markets with Flexible Wages”, Journal of Political Economy, giugno 1980. 5 In genere la posizione e la forma della curva EE dipendono anche dalle condizioni del mercato del lavoro, vale a dire dal tasso di disoccupazione, dall’ammontare dei sussidi di disoccupazione ecc.
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Appendice 9
Figura A.9.1 Salario di efficienza
Impegno (produttività)
e EE A
w* ef
w
Salario reale
risposto; ciò avviene al punto A. Il salario corrispondente al punto A è il salario di efficienza pagato dall’impresa. Più formalmente, data la funzione di profitto Π = Y − wN, supponiamo che la funzione della produzione abbia la seguente forma: Y = F(eN), ove e denota l’impegno profuso dai lavoratori nello svolgimento delle proprie mansioni. A sua volta l’impegno dipende dal salario (reale) corrisposto: e = e(w). A differenza del modello classico in cui ogni impresa sceglie la quantità ottimale di lavoro essendo il salario dato, nel caso dei salari di efficienza l’impresa riconosce l’effetto esercitato dal salario sulla produttività (e dunque sui profitti); di conseguenza anche il salario diviene una variabile di scelta. L’impresa dunque sceglie w e N per massimizzare Π = F[e(w)N] − wN; le condizioni di primo ordine sono: 𝜕Π = 0 ⇒ F′[e(w)N]e(w) = w 𝜕N
[A.9.1]
𝜕Π = 0 ⇒ F′[e(w)N]Ne′(w) = N 𝜕w
[A.9.2]
L’Equazione [3] è molto simile alla condizione di primo ordine dell’impresa classica in cui il salario reale eguaglia il prodotto marginale del lavoro. In questo caso il salario reale eguaglia il prodotto marginale del lavoro effettivo, vale a dire del lavoro ottenuto prendendo in considerazione anche l’impegno profuso. L’Equazione [4] illustra la condizione di primo ordine rispetto al salario. Dividendo la seconda condizione per la prima otteniamo: we′(w) = 1 e(w)
[A.9.3]
ovvero l’elasticità dell’impegno rispetto al salario è uguale a 1. L’Equazione [5] determina il salario di efficienza esattamente come descritto nella Figura A.9.1. Il salario di efficienza è infatti quello per cui la curva di impegno [che ha inclinazione e′(w)] è tangente al raggio più elevato con inclinazione e/w. Una volta determinato il salario di efficienza (w*ef ) l’impresa sceglie la quantità ottimale di lavoro (Nw*ef ) utilizzando l’Equazione [3].
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Appendice 9
Salario reale
w
Figura A.9.2 Equilibrio con salari di efficienza
NS
w ef*
ND MN w *
ef
s N ef
N
Occupazione
Consideriamo ora gli effetti dei salari di efficienza sulla domanda di lavoro aggregata; supponiamo che nel mercato vi siano M imprese identiche. La domanda aggregata di lavoro è MNw*ef ; se l’offerta aggregata di lavoro, al salario w*ef (cioè N Sef ), è maggiore di MNw*ef (Figura A.9.2) in condizione di equlibrio vi saranno (N Sef − MNw*ef ) disoccupati. Inoltre, poiché tutte le imprese pagano un salario di efficienza, il salario reale risulta essere rigido, vale a dire le imprese non sono disposte ad abbassare il salario pagato a fronte di shock negativi che colpiscono la domanda di lavoro.
A.9.2 Teoria insider-outsider Come accennato, vi sono anche circostanze in cui le imprese, pur desiderando pagare salari più bassi, sono impossibilitate a farlo. La teoria insider-outsider offre una spiegazione di questo fenomeno ponendo l’attenzione sulla modalità con cui i lavoratori occupati influenzano la determinazione del salario.6 La forza lavoro viene distinta in due grandi gruppi: gli insider, vale a dire i lavoratori che sono già impiegati dall’impresa, e gli outsider, ossia i disoccupati in cerca di lavoro. L’assunzione fondamentale alla base di questo approccio consiste nel fatto che lo status degli insider è protetto dall’esistenza di “costi di turnover” e che gli insider sono preoccupati solamente del proprio benessere e non di quello degli outsider. I costi di turnover sono tutti quei costi che rendono oneroso rimpiazzare un lavoratore con un nuovo assunto. Alcuni di questi sono facilmente identificabili; tali sono per esempio i costi legali di licenziamento, i costi di selezione e i costi di formazione di nuovo personale. Tuttavia esistono anche costi di turnover meno espliciti: per esempio gli insider possono decidere di cooperare tra loro ma di avere un comportamento “ostile” verso i nuovi assunti, riducendo di conseguenza la loro produttività. Questi ultimi costi sono di particolare importanza in quanto sono “manipolabili” da parte degli insider; modificando i costi di turnover essi possono rafforzare la propria posizione contrattuale nei confronti dell’impresa. Infatti gli insider, decidendo di ostaco6 Si vedano Lindbeck A., Snower D.J., “The Insider-Outsider Theory: A Survey”, IZA discussion paper, n. 534, luglio 2002.
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Figura A.9.3 Curve di domanda di lavoro per gli insider (ID) e per gli outsider (OD)
wi we Salario reale
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w w or
ID
w ir
OD Occupazione
N0
N
lare i nuovi assunti, riducono il rendimento di questi ultimi per l’impresa e allo stesso tempo aumentano il salario di riserva dei potenziali concorrenti nel mercato del lavoro: un ambiente di lavoro ostile riduce l’utilità del lavoro e gli outsider, consapevoli della potenziale discriminazione nei loro confronti, incrementano il salario minimo cui sono disposti a lavorare. La Figura A.9.3 rappresenta la curva di domanda di lavoro per i soli insider (ID) e per i soli outsider (OD). La distanza verticale tra le due curve è costituita dai costi di turnover. Nella figura w ir rappresenta il salario di riserva degli insider e wor il salario di riserva degli outsider; wor è maggiore di w ir proprio perché gli insider possono peggiora– re le condizioni lavorative per gli outsider. Infine w rappresenta il salario massimo che l’impresa è disposta a pagare agli insider, ed è uguale al salario di riserva dei nuovi – assunti più il costo di turnover unitario. A salari maggiori di w l’impresa preferisce assumere nuovi lavoratori. Dalla figura emerge chiaramente che, per ogni livello di occupazione scelto dall’impresa, gli insider, ricevendo il salario corrispondente sulla curva ID, sono in grado di ottenere un “premio” rispetto al salario cui sarebbero disposti a lavorare gli outsider. Tale premio è direttamente proporzionale all’ammontare dei costi di turnover. È interessante analizzare che cosa accade in presenza di shock che colpiscono il mercato del lavoro. Supponiamo che siano impiegati N0 insider al salario w ir e che si verifichi uno shock negativo che sposta la curva di domanda verso il basso. L’impresa dovrà ridurre la forza lavoro e una parte degli insider perderà il posto. Al contrario, uno shock positivo non ha alcun effetto sul livello di occupazione. Infatti gli insider reagiscono a tale shock aumentando il proprio livello salariale in modo da mantenere la propria occupazione, ma escludendo dall’occupazione potenziali nuovi assunti. La teoria insider-outsider dunque permette di spiegare non solo la rigidità salariale ma anche le risposte asimmetriche di fronte a shock che colpiscono la domanda di lavoro.
A.9.3 Sindacati e contrattazione salariale Nella teoria insider-outsider abbiamo ipotizzato che ogni lavoratore contratti il proprio salario individualmente con l’impresa. Di fatto, in molte imprese la contrattazione avviene a livello collettivo tramite un sindacato. Possiamo considerare la teoria della contrattazione salariale sindacale come una variante della teoria insider-outsider, in
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Appendice 9
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cui viene data maggiore rilevanza all’aspetto strategico della contrattazione. Supponiamo che l’intera forza lavoro dell’impresa sia rappresentata da un sindacato e che sia in corso una contrattazione salariale tra sindacato e impresa. Assumiamo che la contrattazione riguardi solamente il livello salariale e che, una volta stabilito il salario, l’impresa decida quante persone impiegare; strutturato in questo modo il modello è definito right to manage proprio perché l’impresa ha il diritto di scegliere il livello di occupazione unilateralmente.7 Occorre ora specificare quali sono gli obiettivi di sindacato e impresa. L’impresa persegue il fine della massimizzazione del profitto, di conseguenza, a prescindere dal salario esito della contrattazione, essa sceglierà il corrispondente livello occupazionale utilizzando la propria curva di domanda (o curva del valore del prodotto marginale). La linea tratteggiata nella Figura A.9.4 rappresenta la curva di domanda dell’impresa; essa non è definita per valori di w < b, ove b identifica il sussidio di disoccupazione, dato che a quelle condizioni ogni lavoratore preferirebbe essere disoccupato. Passiamo ora agli obiettivi del sindacato. Assumiamo che il sindacato sia composto da lavoratori identici; inoltre, qualora si dovessero verificare riduzioni della forza lavoro, i lavoratori licenziati verrebbero selezionati all’interno del sindacato in maniera puramente casuale. Possiamo dunque supporre che l’obiettivo del sindacato sia la massimizzazione dell’utilità attesa E(U) del proprio lavoratore rappresentativo: E(U) = qU(w) + (1 − q)U(b) = ( N )U(w) + (1 − N )U(b) N0 N0
[A.9.4]
Nell’Equazione [6] il termine q indica la probabilità che un lavoratore ha di rimanere occupato nell’impresa. Essa è definita come q = N/N0, dove N0 denota il numero iniziale di iscritti al sindacato mentre N indica la scelta in termini occupazionali dell’impresa. Se, dunque, il sindacato contratta un certo livello salariale, il lavoratore rappresentativo rimarrà impiegato con probabilità q, percependo il salario contrattato, che genera un’utilità pari a U(w), mentre verrà licenziato con probabilità (1 − q), nel qual caso percepirà il sussidio di disoccupazione (per semplicità, non consideriamo la pos-
Figura A.9.4 Contrattazione salariale tra impresa e sindacato
w
Salario reale
ND
w* U0
U1
b Nw*
7
Occupazione
N
Si veda McDonald I., Solow R., “Wage Bargaining and Employment”, American Economic Review, dicembre 1981. Per semplicità, supponiamo che il sindacato abbia potere monopolistico nella determinazione del salario.
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Appendice 9
sibilità che il lavoratore possa trovare impiego presso un’altra impresa) e un’utilità pari a U(b). Malgrado la contrattazione avvenga solo sul salario, il livello di occupazione viene preso in considerazione implicitamente dal sindacato; un aumento salariale infatti aumenta i costi per l’impresa e diminuisce il livello ottimale di occupazione (diminuisce N); in questo modo aumentano le probabilità per i lavoratori di venire licenziati (diminuisce q). Il trade-off tra salario e occupazione è rappresentato dall’inclinazione della curva di indifferenza. La funzione di utilità del sindacato è crescente sia nel salario sia nel livello di occupazione, di conseguenza curve di indifferenza più elevate corrispondono a una maggiore utilità. Il salario di equilibrio esito della contrattazione è determinato dal punto di tangenza della curva di indifferenza del sindacato con la curva di domanda di lavoro dell’impresa. Si noti che le curve di indifferenza del sindacato sono diverse da quelle che potrebbero essere le curve di indifferenza di un lavoratore impegnato in una contrattazione salariale personale. Per capire meglio questo concetto possiamo fare un parallelo con la situazione di monopolio. Sappiamo che il monopolista produce la quantità a cui il ricavo marginale eguaglia il prezzo marginale. In altri termini, il monopolista sceglie il prezzo che massimizza i propri profitti sotto il vincolo costituito dalla curva di domanda di mercato. Possiamo pensare al sindacato come a un monopolista nel mercato del lavoro. Anche il sindacato ha la facoltà di scegliere il livello di prezzo (il salario), e il vincolo che esso fronteggia è costituito dalla curva di domanda di lavoro dell’impresa. Come nella situazione di monopolio in equilibrio si determinano un prezzo superiore e una quantità prodotta inferiore ai valori determinati in una situazione concorrenziale, così in presenza del sindacato il salario di equilibrio risulta essere maggiore e il livello di occupazione minore rispetto alla situazione perfettamente concorrenziale in cui ogni lavoratore negozia il salario individualmente con l’impresa. Possiamo identificare il potere monopolistico (o potere contrattuale) del sindacato con la posizione della curva di indifferenza lungo la curva ND. Un elevato potere monopolistico implica una posizione elevata della curva di indifferenza, quindi un salario di equilibrio alto e un livello di occupazione basso. Al contrario, un limitato potere del sindacato si manifesta con una curva di indifferenza bassa; nel caso estremo in cui il sindacato non ha alcun potere, il salario contrattato è al livello b.
A.9.4 Curva di determinazione del salario Malgrado le giustificazioni microeconomiche che stanno alla base delle teorie dei salari di efficienza, insider-outsider e di contrattazione sindacato-impresa siano differenti, le conseguenze generali sul mercato del lavoro sono quanto mai simili. Sostanzialmente, rispetto al modello classico scompare l’assunzione che vede imprese e individui considerare i prezzi come dati. Ciò rende priva di senso la curva di offerta di lavoro, che viene sostituita con una curva di determinazione del salario (Figura A.9.5); essa costituisce in termini aggregati la curva con cui le imprese determinano il salario di efficienza oppure la curva che riflette la capacità che hanno gli insider di influenzare i costi di turnover o, infine, la curva che riflette la contrattazione salariale tra imprese e lavoratori. Per esempio, consideriamo la determinazione del salario nel caso della contrattazione tra impresa e sindacato. In presenza di spostamenti verso l’esterno della curva di domanda di lavoro (Figura A.9.6) i punti di tangenza con le curve di indifferenza del sindacato determinano la sua curva di offerta di lavoro (la linea NsS). Abbiamo precedentemente sottolineato che in presenza di un sindacato il salario risulta essere maggiore di quello contrattato da un singolo lavoratore; ne consegue che la curva di offerta di lavoro del sindacato giace sempre al di sopra della curva di offerta
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Appendice 9
Figura A.9.5 Curva di determinazione del salario
w ND
Nw NS
w*
Nw*
N*
N
di lavoro riferita al modello classico. Aggregando le curve di offerta dei diversi sindacati otteniamo la curva aggregata di determinazione salariale, Nw , rappresentata nella Figura A.9.5. Il salario di equilibrio nel mercato del lavoro viene determinato dal punto di intersezione tra la curva di domanda ND e la curva Nw. Il salario w* non garantisce piena occupazione, al contrario vi sono disoccupati per un ammontare pari alla distanza orizzontale (N* − Nw*). Considerazioni analoghe possono essere svolte nel caso di salari di efficienza. I salari di efficienza sono in effetti un “premio” rispetto al salario di mercato, che dipende dal livello di disoccupazione: a elevati livelli di disoccupazione l’impresa non ha bisogno di aumentare notevolmente i salari, in quanto la minaccia di licenziamento costituisce già di per sé una motivazione sufficiente a profondere il massimo impegno. In presenza di bassi livelli di disoccupazione, invece, l’impresa è incentivata a pagare elevati salari di efficienza per motivare adeguatamente i propri lavoratori. A livello aggregato osserveremo una curva di determinazione salariale simile a Nw, in cui il tasso di crescita del salario è inversamente proporzionale alla distanza tra le due curve (cioè al tasso di disoccupazione).
Figura A.9.6 Curva di offerta del sindacato
w N sS
U0
U1
N 1D N 0D N
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Appendice 9
Mappa concettuale Capitolo 1 – Introduzione Capitolo 3 – Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali
Capitolo 3 – Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
Capitolo 5 – Moneta, interesse e reddito Capitolo 6 – Politica monetaria e politica fiscale Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione Capitolo 6 – Politica monetaria e politica fiscale Capitolo 7 – Legami economici internazionali Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
Capitolo 4 – Reddito e spesa Capitolo 7 – Legami economici internazionali
Capitolo 3 – Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
Paragrafo 9.1 Mercato del lavoro e conflitto distributivo
Paragrafo 9.2 Tasso di inflazione e curva di Phillips
Capitolo 16 Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico
Capitolo 10 Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
Paragrafo 9.3 Modello IS-LM con inflazione in economia chiusa
Paragrafo 9.4 Modello IS-LM con inflazione in economia aperta
Capitolo 15 Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
Paragrafo 9.5 Aspettative accelerative
Capitolo 18 I grandi eventi economici dell’ultimo secolo La Grande Depressione, l’iperinflazione e i disavanzi di bilancio - La crisi finanziaria del 2007-09
Paragrafo 9.6 Aspettative razionali e credibilità della politica economica: la critica di Lucas
Capitolo 19 La macroeconomia dagli anni Settanta a oggi
Paragrafo 9.7 Disoccupazione e conflitto distributivo: altri protagonisti
Capitolo 16 Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico
Paragrafo 9.8 Conflitto distributivo e disoccupazione frizionale: una formulazione generale della curva di Phillips
Paragrafo 9.9 Riepilogo e considerazioni di politica economica
Capitolo 3 – Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
Capitolo 3 – Sviluppo, disoccupazione e inflazione: i fatti principali Capitolo 8 – Offerta e domanda aggregate: prezzi, salari e occupazione
Paragrafo 9.10 Curva di Phillips nella realtà: Italia e Stati Uniti a confronto
Appendice 9 Mercato del lavoro in un contesto non perfettamente concorrenziale
Capitolo 16 – Accumulazione di capitale, risparmio e progresso tecnologico Capitolo 17 – Teoria neoclassica e contabilità della crescita
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Capitolo 10
Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea Obiettivi di apprendimento • Esamineremo il lungo percorso compiuto dall’Europa verso l’Unione Economica e Monetaria (UEM) iniziando dall’analisi del Sistema Monetario Europeo (SME), il più importante tentativo d’integrazione monetaria effettuato da alcuni Paesi europei tra il 1979 e il 1992, dopo la caduta del sistema di Bretton Woods ancorato al dollaro prima dell’adozione dell’euro. • Mostreremo come un sistema a cambi fissi con una valuta dominante sulle altre, qual era nello SME il marco tedesco, presenti dei fattori di instabilità, soprattutto se gli obiettivi di politica economica sono divergenti all’interno dell’area valutaria. • Ricorderemo come, nonostante il fallimento del Sistema Monetario Europeo, la spinta all’integrazione economica e moneta-
ria sia stata riproposta con forza nel 1992 dal Trattato istitutivo della Comunità Europea, il cosiddetto Trattato di Maastricht, che ha programmato l’introduzione dell’euro come moneta unica in tre fasi. • Osserveremo come il Trattato preveda non soltanto la convergenza legale e istituzionale dei Paesi aderenti all’UEM, ma anche e soprattutto quella monetaria e finanziaria, e come tale obbiettivo imponga politiche economiche basate sul rigore e sul contenimento del disavanzo e del debito pubblico. • Esamineremo infine con quale tipo di percorso e di politiche economiche i Paesi inadempienti dell’UEM possano attuare il ritorno del rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo entro i parametri stabiliti dal Trattato.
10.1 Introduzione della moneta unica europea Il 1° gennaio 1999 l’Europa ha adottato una nuova moneta comune, l’euro. A partire da quella data l’euro ha rimpiazzato le valute nazionali degli 11 Paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna) che avevano deciso di istituire l’Unione Economica e Monetaria (UEM). Hanno successivamente aderito all’UEM, tra il 2001 e il 1° gennaio 2015, altri otto Paesi: Grecia, Slovenia, Cipro, Malta, Slovacchia, Estonia, Lettonia e Lituania. Questi diciannove Stati formano l’area dell’euro, che a sua volta fa parte dell’Unione Europea (UE), composta da 28 Stati membri, destinati a diventare 27 dopo la cosiddetta “Brexit”, ossia dopo la decisione del parlamento inglese di uscire dall’UE in seguito al referendum tenutosi in Gran Bretagna nel 2016. Anche tre microstati (Principato di Monaco, Repubblica di San Marino e Stato della Città del Vaticano) hanno adottato l’euro sulla base di accordi formali stipulati con l’UE.
Area dell’euro Comprende gli Stati membri dell’UE che, in conformità con il Trattato di Maastricht, hanno adottato l’euro come moneta unica.
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Capitolo 10
La rinuncia alla sovranità monetaria da parte degli Stati aderenti all’UEM è stato il risultato finale di un processo non indolore, durato più di cinquanta anni, segnati da fasi di accelerazione verso l’unione economica e monetaria alternate a momenti di ripensamento.
10.2 Da Bretton Woods al Sistema Monetario Europeo L’introduzione dell’euro è stata preceduta dal fallimento di due importanti riforme dell’ordine monetario internazionale, attuate nella seconda metà del secolo XX: il sistema di Bretton Woods (1946-1973) e il Sistema Monetario Europeo (1979-1992). La prima delle due riforme fu avviata nel 1946, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con l’entrata in vigore del regime di cambi fissi nei confronti del dollaro concordato nella conferenza di Bretton Woods (New Hampshire, USA) del luglio 1944. La conferenza, organizzata dalle Nazioni Unite su iniziativa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, aveva posto le basi di un sistema monetario mondiale che attribuiva al dollaro statunitense lo status di valuta di riferimento internazionale. Il sistema corrispondeva in sostanza a un Gold Exchange Standard, poiché il dollaro poteva essere convertito in oro (a un tasso fisso di 35 $ per oncia), anche se questa facoltà era riservata alle banche centrali dei Paesi aderenti al sistema. La conferenza di Bretton Woods aveva inoltre previsto la creazione di due importanti istituti che avrebbero dovuto contribuire a risolvere le difficoltà economico-finanziarie e i conflitti valutari che erano sorti dopo la Prima Guerra Mondiale. Gli Stati organizzatori della Conferenza erano, infatti, convinti che tali difficoltà e conflitti fossero stati in buona parte responsabili della Seconda Guerra Mondiale. I due istituti, tuttora operanti, erano il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (oggi Banca Mondiale). Il primo aveva il compito di sorvegliare il funzionamento del sistema dei cambi, di approvare eventuali richieste di modifica del tasso di cambio delle singole valute con il dollaro e di finanziare i fabbisogni temporanei di valuta estera dei singoli Paesi, derivanti da difficoltà congiunturali della bilancia dei pagamenti o da eventi eccezionali. La Banca aveva invece il compito di concedere prestiti a lungo termine soprattutto ai Paesi in via di sviluppo per finanziare i loro investimenti. I padri fondatori dell’Europa moderna – fra i quali, in particolare, Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi – erano tuttavia convinti che il sistema di Bretton Woods non fosse sufficiente e che, al fine di evitare un’altra guerra mondiale, i Paesi dell’Europa si dovessero unire economicamente e politicamente. Fu così che, dopo l’istituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti nel 1950 e della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nel 1952, fu creata, con il Trattato di Roma del 1957, la Comunità Economica Europea (CEE), che si proponeva di rimuovere le barriere agli scambi commerciali tra i Paesi membri e creare un unico grande mercato comune europeo. Si deve inoltre tenere presente che il sistema di Bretton Woods prevedeva un regime di cambi fissi, ma aggiustabili su richiesta dei singoli Paesi. Questo meccanismo aveva consentito nel corso degli anni una forte variabilità dei tassi di cambio delle valute comunitarie e aveva pertanto indotto i vertici europei a nominare un gruppo di esperti, sotto la guida del primo ministro lussemburghese Pierre Werner, con lo scopo di elaborare un programma per la realizzazione di una più stretta integrazione monetaria europea. Il Rapporto Werner, pubblicato l’8 ottobre 1970, definiva come principale obiettivo della Comunità il raggiungimento di un’unione monetaria in gra-
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
do di realizzare “una convertibilità totale e irreversibile delle monete, l’eliminazione dei margini di fluttuazione dei corsi di cambio, la fissazione irrevocabile dei rapporti di parità e la liberalizzazione totale dei movimenti di capitale”. Il Rapporto Werner non fu però mai posto in atto, sopratutto perché il sistema di Bretton Woods, sul quale il Rapporto si basava implicitamente, crollò nel 1971 in seguito alla decisione unilaterale, annunciata il 15 agosto dal presidente degli USA, Richard Nixon, di abbandonare l’impegno della convertibilità del dollaro con l’oro. Nel corso degli anni, infatti, si era verificata un’enorme espansione dell’emissione di dollari, necessaria per finanziare la crescita del commercio internazionale, mentre le riserve statunitensi in oro erano aumentate molto di meno. Era quindi diventato impossibile per gli Stati Uniti rispettare l’obbligo della convertibilità. I Paesi europei si trovarono quindi costretti a cercare una soluzione ai loro problemi valutari più semplice e meno impegnativa di quella prevista dal Rapporto Werner. Fu così che il 24 aprile 1972 i sei Paesi allora membri della CEE (Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) e i quattro Paesi che avevano deciso di aderire alla CEE (Danimarca, Irlanda, Regno Unito e Norvegia, che poi rinuncerà all’adesione) diedero vita a un regime di cambio europeo, il cosiddetto “serpente nel tunnel del dollaro”, all’interno del quale le monete europee potevano oscillare nei confronti del dollaro con uno scostamento massimo del 2,25%. L’esperienza del “serpente” risultò difficile fin dal principio e già cinque anni dopo, nel 1977, Francia, Italia, Irlanda e Regno Unito uscirono dal sistema, che si era ridotto a una zona valutaria basata sull’egemonia del marco tedesco. Il 13 marzo 1979 il “serpente nel tunnel” fu rimpiazzato dal Sistema Monetario Europeo (SME), creato per volontà soprattutto della Germania e della Francia. Lo SME era un sistema di cambi fissi con bande di fluttuazione delle singole valute rispetto all’ECU (European Currency Unit), una nuova moneta definita come “paniere” di quantità fisse delle valute degli Stati membri della CEE. Lo SME si prefiggeva quattro principali obiettivi: • • • •
la creazione di una “zona di stabilità monetaria” che comportasse bassa inflazione e tassi di cambio stabili; un contesto che migliorasse la cooperazione di politica economica tra gli Stati membri; l’attenuazione dell’instabilità monetaria mondiale tramite l’adozione di politiche comuni nei confronti dei Paesi terzi; l’auspicio che gli accordi di cambio dello SME determinassero un sentiero di convergenza economica e monetaria che avrebbe portato all’unione monetaria e valutaria vera e propria.
Lo SME rimase in vita 13 anni, ma parve sin dall’inizio condizionato da due elementi di debolezza: l’impostazione che tendeva a considerare la convergenza monetaria e valutaria come un prius rispetto a quella reale; il ruolo preminente del marco tedesco nella gestione degli accordi di cambio. Questi due fattori, in particolare la cosiddetta German dominance, comportavano problemi che alla fine avrebbero determinato il fallimento dello SME. Il sistema, infatti, si scontrava periodicamente con il problema dell’asimmetria originata da un sistema di cambi fissi in cui, da un lato, i Paesi con disavanzo della bilancia dei pagamenti, le cui valute si trovavano quindi sotto pressioni svalutative, erano costretti a ripristinare l’equilibrio dei conti con l’estero tramite una deflazione dei livelli di produzione e di reddito; dall’altro, i Paesi che registravano avanzi di bi-
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ECU (European Currency Unit) Paniere delle valute degli Stati membri della CEE, ognuna inserita con un peso proporzionale all’importanza economica del Paese corrispondente. Introdotto nel 1978 dal Consiglio Europeo, l’ECU è stato sostituito il 1° gennaio 1999 dall’euro con rapporto di conversione di 1 a 1.
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Capitolo 10
lancia dei pagamenti, come la Germania, non erano invece costretti a rilanciare la domanda aggregata e ad aumentare le proprie importazioni dai Paesi in disavanzo. Tra il 1979 e il 1987 si determinarono 11 riallineamenti delle valute soggette a deprezzamento, accompagnati dalla compressione della domanda interna e da aumenti dei tassi di interesse. La crisi del sistema divenne irreversibile nel 1992 allorquando il forte incremento dei tassi di interesse, causato in Germania, come si può vedere nell’appendice di questo capitolo, dall’unificazione del 1989, unitamente all’accentuarsi della mobilità internazionale dei capitali, determinò l’impossibilità per i Paesi più deboli di mantenere cambi stabili con il marco tedesco. È interessante notare, come si chiarirà meglio in seguito, che gli stessi problemi che hanno portato al fallimento dello SME si presenteranno anche nell’UEM, soprattutto dopo la grave crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2008 e la successiva crisi dei debiti sovrani che colpì alcuni Paesi dell’Europa occidentale e mediterranea nel 2011.
10.3 Il Rapporto Delors, il Trattato di Maastricht e l’avvio dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) Ancora prima che lo SME entrasse in crisi nel 1992, un forte stimolo al perseguimento dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) era venuto dall’adozione dell’Atto unico europeo, firmato nel febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987. L’Atto era infatti teso non soltanto all’introduzione del mercato unico, ma anche all’obiettivo della costruzione dell’Unione Economica e Monetaria. Vi era in effetti un consenso diffuso tra i responsabili politici europei che un mercato senza frontiere interne avrebbe intensificato significativamente il grado di integrazione economica della Comunità, ma non sarebbe stato in grado di sfruttare appieno il suo potenziale in assenza di una moneta unica. Quest’ultima avrebbe assicurato una maggiore trasparenza dei prezzi per i consumatori e gli investitori, avrebbe eliminato i rischi di cambio all’interno del mercato unico, avrebbe ridotto i costi di transazione e, di conseguenza, avrebbe significativamente accresciuto il benessere economico della Comunità. Alla luce di queste considerazioni, gli allora 12 Stati membri della Comunità Economica Europea decisero di rilanciare il progetto dell’Unione Economica e Monetaria. Nel giugno 1988 il Consiglio europeo di Hannover confermò l’obiettivo della progressiva realizzazione dell’UEM e assegnò a un comitato di esperti guidato da Jacques Delors, all’epoca Presidente della Commissione europea, il compito di proporre “tappe concrete” per il suo conseguimento. Il Rapporto Delors, approvato il 17 aprile 1989, raccomandava di articolare la realizzazione dell’Unione Economica e Monetaria in tre fasi distinte ma progressive e prevedeva la creazione di una nuova istituzione monetaria, il Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), con la responsabilità della politica monetaria unica per la nuova area monetaria. Prima fase: 1/7/1990-31/12/1993 Nel giugno 1989 il Consiglio europeo decise che la prima fase della realizzazione dell’UEM sarebbe iniziata il 1° luglio 1990. In tale data sarebbero state abolite, in linea di principio, tutte le restrizioni alla circolazione dei capitali tra gli Stati membri. Nel contempo, con decisione del Consiglio del 12 marzo 1990 furono conferite più ampie competenze al Comitato dei governatori delle Banche Centrali degli Stati membri della CEE.
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
Il Comitato dei governatori avviò i lavori preparatori per la seconda e terza fase dell’UEM non appena si furono conclusi i negoziati per la revisione del Trattato di Roma con la stesura del nuovo Trattato sull’Unione Europea, denominato Trattato di Maastricht dal nome della cittadina olandese in cui fu sottoscritto il 7 febbraio 1992. Il Trattato modificò in misura notevole i precedenti trattati alla base delle Comunità europee. In particolare fu aggiunto un nuovo capitolo sulla politica economica e monetaria, che, recependo le proposte del Rapporto Delors, stabiliva i fondamenti dell’UEM nonché la metodologia e il calendario per la sua realizzazione. Inoltre, per rispecchiare l’ampliamento dei poteri e delle competenze della Comunità, la CEE fu rinominata Comunità Europea (CE – con la scomparsa quindi dell’aggettivo “economica”, considerato restrittivo), da cui anche il nome di “Trattato CE”. Il termine Unione Europea (UE) sarà invece adottato ufficialmente soltanto nel 2009, in seguito alla ratifica del Trattato di Lisbona approvato nel 2007. Infine, fu allegato al Trattato come protocollo lo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea. Alla Danimarca e al Regno Unito fu conferito uno status speciale in base al quale i due Stati furono esentati dall’obbligo di partecipare alla terza fase dell’UEM, mentre a tutti i Paesi nuovi membri dell’UE che non soddisfacevano le condizioni necessarie per l’entrata nell’UEM si applicava una deroga con carattere temporaneo, nel senso che si richiedeva a tali Paesi l’impegno a conseguire la convergenza economica e legale, presupposto per l’adozione finale della moneta unica. L’entrata in vigore del Trattato di Maastricht era stata prevista per il 1° gennaio 1993 ma, a causa di ritardi nel processo di ratifica in Danimarca e Germania, non avvenne fino al 1° novembre dello stesso anno. Seconda fase: 1/1/1994-31/12/1998 Può essere considerata di transizione verso la fase finale. Il 1° gennaio 1994 fu istituito l’Istituto Monetario Europeo (IME) quale organo transitorio precursore della Banca Centrale Europea (BCE). I due compiti principali dell’IME erano: rafforzare la cooperazione tra le Banche Centrali e il coordinamento delle politiche monetarie; svolgere i preparativi necessari per l’istituzione del SEBC, per la conduzione della politica monetaria comune e per la creazione di una moneta unica nella terza fase dell’UEM. Nel dicembre 1995 il Consiglio europeo di Madrid confermò che la terza fase dell’UEM sarebbe iniziata il 1° gennaio 1999 e denominò “euro” la moneta unica. Per integrare le disposizioni del Trattato, nel giugno 1997 il Consiglio europeo adottò il Patto di Stabilità e Crescita (PSC), teso a garantire la disciplina di bilancio nell’ambito dell’UEM. Il Patto vincola gli Stati membri ad attuare politiche volte a soddisfare i “criteri di convergenza” economica (art. 121 del Trattato CE) e a effettuare una revisione approfondita degli ordinamenti nazionali per renderli conformi ai requisiti di convergenza legale (art. 109 del Trattato CE). Le decisioni finali sull’UEM furono adottate a partire dal maggio 1998. Il 2 maggio il Consiglio dell’UE, composto dai capi di Stato o di governo, decise all’unanimità che 11 Stati membri dell’UE (Belgio, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Portogallo e Finlandia) soddisfacevano le condizioni necessarie per l’introduzione della moneta unica, prevista per il 1° gennaio 1999, e avrebbero pertanto partecipato alla terza fase dell’UEM. La Danimarca e il Regno Unito, in virtù dello status speciale a essi conferito, si avvalsero invece della “clausola di esenzione” dalla terza fase dell’UEM, mentre si ritenne che la Grecia e la Svezia non avessero ancora realizzato le condizioni necessarie per l’ammissione alla moneta unica. Il 25 maggio 1998 gli 11 Stati aderenti, rappresentati dai capi di Stato o di governo, nominarono formalmente il presidente, il vicepresidente e gli altri quattro membri del Comitato Esecutivo della Banca Centrale Europea (BCE). La nomina ebbe
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Trattato sull’Unione Europea, detto Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992) Trattato istitutivo dell’Unione Europea (EU) che ha stabilito anche i fondamenti dell’Unione economica monetaria (UEM).
Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) Istituito dal Trattato di Maastricht, è costituito dalla Banca Centrale Europea e dalle Banche Centrali Nazionali degli Stati membri dell’Unione Europea, a prescindere dall’adozione della moneta unica.
Patto di Stabilità e Crescita (PSC) Adottato dall’UE nel giugno 1997, ha il compito di rafforzare la disciplina di bilancio nell’ambito dell’UEM. Il Patto vincola gli Stati membri al rispetto dei “criteri di convergenza” economica dell’art. 121 del Trattato di Maastricht.
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Capitolo 10
effetto dal 1° giugno 1998, data di istituzione della BCE. In questo modo l’IME concluse il suo mandato e fu posto in liquidazione, in conformità dell’articolo 123 del Trattato di Maastricht. Terza fase: dall’1/1/1999 Il 1° gennaio 1999 ebbe inizio la terza e ultima fase dell’UEM con la fissazione irrevocabile dei tassi di conversione delle valute degli 11 Stati aderenti e l’affidamento della conduzione della politica monetaria comune alla BCE. Nel caso dell’Italia il tasso di cambio fu fissato in 1936,27 lire italiane per 1 euro (i tassi di conversione per le valute degli altri Paesi sono mostrati nella Tabella 10.1). L’euro sostituì immediatamente come unità di conto le valute nazionali, che però rimasero come suddivisioni della moneta unica durante il periodo transitorio dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2001. Il 1° gennaio 2002 rimasero in circolazione nell’UEM come mezzi di pagamento legali soltanto i biglietti e le monete in euro. Nel frattempo anche la Grecia era entrata (il 1° gennaio 2001) nell’area dell’euro, portando a 12 il numero dei Paesi aderenti. Altri sette membri dell’Unione Europea si sono in seguito uniti all’UEM: Slovenia nel 2007, Cipro e Malta nel 2008, Slovacchia nel 2009, Estonia nel 2011, Lettonia nel 2014 e Lituania nel 2015. Altri sette Paesi dell’Unione Europea (Svezia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania e Croazia) sono invece membri con deroga, nel senso che si impegnano a perseguire la convergenza economica e legale richiesta per l’adozione finale dell’euro. Infine, la Danimarca è esentata, come abbiamo visto, dall’obbligo di partecipare alla terza fase dell’UEM, mentre la Gran Bretagna ha optato per l’uscita dall’UE (la cosiddetta Brexit).
Tabella 10.1 Tassi di conversione fissi con l’euro I tassi irrevocabili di conversione delle valute dei Paesi dell’UEM sono stati fissati il 1° gennaio 1999 per i primi 11 Paesi aderenti all’UEM e di volta in volta, in occasione dell’ammissione all’euro, per gli altri Paesi. (Fonte: BCE.)
Valute nazionali: tassi di conversione con 1 euro
FRF DEM ITL ESP PTE IEP BEF LUF NLG ATS FIM GRD CYP MTL SIT SKK EEK LVL LTL
6,55957 1,95583 1936,27 166,386 200,482 0,787564 40,3399 40,3399 2,20371 13,7603 5,94573 340,750 0,585274 0,429300 239,640 30,1260 15,6466 0,702804 3,45280
(franchi francesi) (marchi tedeschi) (lire italiane) (pesetas spagnole) (escudos portoghesi) (sterline irlandesi) (franchi belgi) (franchi lussemburghesi) (fiorini olandesi) (scellini austriaci) (marchi finlandesi) (dracme greche) (lire cipriote) (lire maltesi) (talleri sloveni) (corone slovacche) (corona estone) (lats lettone) (litas lituane)
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
10.4 I criteri di convergenza del Trattato di Maastricht L’articolo 121 del Trattato di Maastricht e il Protocollo sui cosiddetti “criteri di convergenza” allegato al Trattato stabiliscono due condizioni principali per l’ammissione di un Paese all’area dell’euro: (a) la compatibilità della legislazione nazionale del Paese candidato con gli articoli 108 e 109 del Trattato e con lo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali; (b) il raggiungimento di un elevato grado di convergenza economica sostenibile. Per quanto riguarda la prima condizione (convergenza legale), il termine “compatibilità” implica in particolare che la normativa nazionale deve eliminare eventuali norme contrarie all’indipendenza della Banca Centrale del Paese e al suo ruolo di parte integrante del SEBC. Nel momento in cui uno Stato membro adotta l’euro, le eventuali incompatibilità pregresse devono già essere state eliminate. Per quanto riguarda la seconda condizione, il grado di convergenza economica sostenibile di un Paese è valutato, ai sensi dell’articolo 121, paragrafo 1 del Trattato, in base ai seguenti criteri: •
•
•
•
un alto grado di stabilità dei prezzi, risultante da “un tasso di inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi”; sostenibilità della situazione della finanza pubblica, risultante “dal conseguimento di una situazione di bilancio pubblico non caratterizzata da un disavanzo eccessivo secondo la definizione di cui all’articolo 104, paragrafo 6”. Ai sensi di tale articolo: il rapporto tra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo • non deve superare il valore di riferimento del 3% del PIL, se non in via eccezionale e temporanea; il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un • valore di riferimento pari al 60% del PIL, a meno che detto rapporto non sia in corso di riduzione e si stia avvicinando al valore di riferimento con un ritmo adeguato; rispetto dei margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema Monetario Europeo per almeno due anni. A questo riguardo si deve ricordare che all’inizio della terza fase dell’UEM sono entrati in vigore i nuovi Accordi Europei di Cambio (AEC II), che hanno sostituito quelli del vecchio Sistema Monetario Europeo. Il paniere ECU è stato abbandonato e la nuova moneta unica, l’euro, è diventata un’ancora per le monete che non l’hanno adottato, ma che partecipano al nuovo accordo di cambio; stabilità dei tassi di interesse a lungo termine. Come recita l’articolo 4 del Protocollo allegato all’art. 21 del Trattato, “il criterio della convergenza dei tassi d’interesse […] richiede che il tasso d’interesse nominale a lungo termine di uno Stato membro, osservato in media nell’arco di un anno prima dell’esame, non abbia ecceduto di oltre 2 punti percentuali quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi. I tassi di interesse si misurano sulla base delle obbligazioni a lungo termine emesse dallo Stato o sulla base di titoli analoghi, tenendo conto delle differenze nelle definizioni nazionali”.
Come si può notare, fra i criteri di convergenza del Trattato CE una notevole rilevanza viene attribuita alla politica fiscale e alle sue componenti tanto di flusso, il disavanzo pubblico, quanto di stock, il debito pubblico. In caso di mancato rispetto di tali criteri è previsto l’avvio di una “procedura di infrazione per disavanzi eccessivi” che è legal-
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Capitolo 10
mente vincolante e ha efficacia esecutiva. Alla disciplina di bilancio contribuiscono anche il divieto della concessione di crediti alle amministrazioni pubbliche da parte della Banca Centrale (art. 101) e il divieto di qualsiasi forma di accesso privilegiato del settore pubblico alle istituzioni finanziarie (art. 102). La clausola del “divieto di salvataggio finanziario” esclude che a rispondere o a farsi carico dei debiti contratti da uno Stato membro possano essere la Comunità e/o gli altri Stati membri (art. 103). Di conseguenza, non è possibile per uno Stato lasciar lievitare il proprio debito pubblico contando poi di disfarsene; un governo che non rispetti le regole non potrà contare sull’intervento di altri Paesi in suo soccorso. I fondamenti macroeconomici del Trattato non annettono dunque rilevanza alla concezione keynesiana della politica fiscale come strumento per il controllo (e in particolare, in tempi di crisi, per l’aumento) della domanda aggregata. Riflettono piuttosto in modo esplicito il convincimento che gli equilibri di finanza pubblica, e cioè il contenimento del disavanzo e del debito pubblico, siano un obbligo che i singoli Stati devono rispettare per poter far parte dell’UEM.
10.5 Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) La medesima concezione della politica fiscale è stata riaffermata e rafforzata, come già abbiamo osservato, dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC), approvato a Dublino nel dicembre 1996 ed entrato in vigore nel giugno dell’anno successivo. Se il Trattato di Maastricht pone vincoli di convergenza per l’ingresso nell’UEM, il PSC mira a garantire la disciplina di bilancio degli Stati che già fanno parte dell’area dell’euro. Nella sua versione originale, costituita da una risoluzione e due regolamenti del Consiglio europeo, il PSC sanciva: •
•
•
la permanenza strutturale dei vincoli posti dal Trattato sia al rapporto disavanzo pubblico-PIL (3%) sia al rapporto debito pubblico-PIL (60% o, in caso di sfondamento, l’obbligo di percorrere un sentiero di rientro); la possibilità di deroghe solo in caso di recessione economica, definita come una riduzione annua del PIL reale pari almeno al 2% (oppure compresa fra lo 0,75 e il 2% se improvvisa, inattesa o continuata per più di un anno); il compito affidato all’Ecofin (il Consiglio dei Ministri dell’Economia dei Paesi aderenti all’UEM) di decidere – in caso di mancato rispetto dei vincoli del Patto – l’avvio di una Procedura per Deficit Eccessivo (PDE), declinata in tre fasi: avvertimento, raccomandazione e sanzione. Se il deficit di un Paese membro si avvicina al tetto del 3% del PIL, la Commissione europea propone, e l’Ecofin approva (o meno), un “avvertimento preventivo” (early warning), al quale segue una raccomandazione vera e propria in caso di superamento del tetto. Se a seguito della raccomandazione lo Stato interessato non adotta sufficienti misure correttive della propria politica di bilancio, esso viene sottoposto a una sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. L’ammontare della sanzione presenta una componente fissa pari allo 0,2% del PIL e una variabile pari a 1/10 dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3%. È comunque previsto un tetto massimo, pari allo 0,5% del PIL, all’entità complessiva della sanzione. Se invece lo Stato adotta tempestivamente misure correttive, la procedura viene sospesa fino a quando il deficit non sarà sceso sotto il 3%. Se però tali misure si rivelano inadeguate, la procedura ritorna in vigore e alla fine sarà irrogata la sanzione.
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
10.5.1 Critiche al Patto di Stabilità e Crescita La realtà dell’economia europea nel nuovo secolo è però risultata diversa da quella che la Commissione europea auspicava al momento del varo del PSC. Sin dai primi anni Duemila, molti Stati aderenti all’UEM, compresi alcuni di grandi dimensioni, hanno cominciato a evidenziare disavanzi di bilancio e livelli del debito pubblico eccedenti i valori “soglia” fissati dal PSC. L’Italia per esempio subì una prima Procedura di Deficit Eccessivo (PDE) nel 2005, a causa di un deficit di bilancio pari al 4,5% del PIL. La procedura fu poi chiusa senza sanzioni nel 2008 per l’avvenuto rientro del deficit entro il limite del 3% e per la tendenziale diminuzione del debito pubblico. Ma le politiche restrittive poste in essere di volta in volta dai diversi Paesi per rispettare i vincoli del PSC contribuirono sensibilmente al basso tasso di sviluppo dell’area dell’euro, rispetto al resto del mondo, nel primo decennio di vita dell’UEM. Da più parti si cominciò pertanto a sottolineare l’eccessiva rigidità del Patto, accusato di non promuovere la crescita né la stabilità, anche in considerazione dei rischi involutivi derivanti dalla contrazione degli investimenti pubblici che esso comportava. Nel marzo 2005, in risposta alle crescenti perplessità, l’Ecofin decise di rendere il Patto più flessibile. Il Regolamento 1055 del 2005 prevede infatti che si abbia recessione quando la variazione annua del PIL reale sia negativa, anche se di poco. Per di più possono essere presi in considerazione “altri fattori significativi” che giustificano uno sfondamento dei vincoli di bilancio, come per esempio le spese per l’innovazione, la ricerca e la riforma del sistema pensionistico. Nonostante la maggiore flessibilità introdotta nel 2005 nell’applicazione del PSC, sono tuttavia rimaste ferme le ragioni di fondo che hanno portato alle regole di bilancio stabilite dal Trattato di Maastricht. Tali regole sono infatti principalmente tese, come osserva la BCE,1 “a frenare la tentazione dei governi a spendere più di quanto si possano permettere, facendo gravare l’onere sulle generazioni future. Questo atteggiamento, se non è tenuto sotto controllo, può alimentare una tendenza a privilegiare l’accumulo di disavanzi che dà luogo a un debito crescente, in grado di gettare permanentemente un’ombra sulle prospettive economiche dell’Unione europea. Alti livelli del disavanzo e del debito portano, infatti, a tassi di interesse a lungo termine più elevati e a investimenti privati più modesti a causa della competizione per il risparmio privato. Questa situazione può determinare una perdita permanente di prodotto nel lungo periodo”. Il PSC ribadisce quindi il principio secondo cui le componenti pubbliche della domanda aggregata sono potenzialmente destabilizzanti nel medio-lungo periodo e pertanto devono essere controllate per poter garantire la sopravvivenza dell’unione valutaria. Questa concezione dell’UEM, ispirata quasi esclusivamente al principio della “austerità”, è stata posta in discussione da più parti in seguito alla Grande Recessione che ha colpito l’economia mondiale nel 2008-2009 e dopo la crisi dei debiti sovrani che alcuni anni dopo ha investito i Paesi periferici dell’area occidentale e mediterranea dell’euro.
10.6 La Grande Recessione del 2008-09 e la crisi dei debiti sovrani nell’UEM Il sistema dei parametri di Maastricht entra decisamente in crisi nel 2009 quando il disavanzo del bilancio pubblico, come si può osservare nella Tabella 10.2, sfora il limite 1 Banca Centrale Europea, “La riforma del Patto di Stabilità e Crescita”, in Bollettino Mensile della BCE, n. 8, agosto 2005, pp. 68-69.
319
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Capitolo 10
Tabella 10.2 Bilancio pubblico: area dell’euro e Unione Europea Avanzo (+) o disavanzo (–) del bilancio pubblico in percentuale del PIL. Bilancio pubblico/PIL
Austria
1998
2008
2009
2012
2014
2016
2018
-2,7
-1,5
-5,3
-2,2
-2,7
-1,5
0,2
Belgio
-1,0
-1,1
-5,4
-4,3
-3,1
-2,4
-0,7
Cipro
-3,8
0,9
-5,4
-5,6
-8,7
0,1
-4,4
Estonia
-0,7
-2,6
-2,2
-0,3
0,7
-0,5
-0,6
1,6
4,2
-2,5
-2,2
-3,0
-1,7
-0,8
Francia
-2,4
-3,3
-7,2
-5,0
-3,9
-3,5
-2,5
Germania
-2,6
-0,1
-3,2
0,0
0,6
1,2
1,9
Grecia
-6,3
-10,2
-15,1
-8,9
-3,6
0,5
1,0
Irlanda
2,0
-7,0
-13,8
-8,1
-3,6
-0,7
0,1
Italia
-3,0
-2,6
-5,1
-2,9
-3,0
-2,4
-2,2
Lettonia
0,0
-4,2
-9,5
-1,2
-1,4
0,1
-0,7
Lituania
-3,0
-3,1
-9,1
-3,1
-0,6
0,2
0,6
Lussemburgo
3,2
3,3
-0,7
0,3
1,3
1,8
2,7
Finlandia
Malta
-9,3
-4,2
-3,2
-3,5
-1,7
0,9
1,9
Paesi Bassi
-1,4
0,2
-5,1
-3,9
-2,2
0,0
1,5
Portogallo
-4,4
-3,7
-9,9
-6,2
-7,4
-1,9
-0,4
Slovacchia
-5,3
-2,5
-8,1
-4,4
-3,1
-2,5
-1,1
Slovenia
-2,3
-1,4
-5,8
-4,0
-5,5
-1,9
0,8
Spagna
-2,6
-4,6
-11,3
-10,7
-5,9
-4,3
-2,5
Area Euro
-2,4
-2,2
-6,2
-3,7
-2,5
-1,4
-0,5
Bulgaria
1,1
1,6
-4,0
-0,3
-5,4
0,1
1,8
Croazia
n.d.
-2,8
-6,0
-5,4
-5,3
-1,1
0,3
Danimarca
-0,4
3,2
-2,8
-3,5
1,1
0,2
0,8
Polonia
-4,2
-3,6
-7,3
-3,7
-3,6
-2,4
-0,2
Regno Unito
-0,3
-5,1
-10,1
-8,2
-5,6
-3,4
-2,3
Repubblica Ceca
-4,2
-2,0
-5,5
-3,9
-2,1
0,7
1,1
Romania
-3,2
-5,4
-9,1
-3,7
-1,2
-2,6
-3,0
Svezia
0,9
1,9
-0,7
-1,0
-1,5
1,0
0,8
Ungheria
-7,4
-3,7
-4,7
-2,3
-2,8
-1,8
-2,3
Unione Europea
n.d.
-2,5
-6,6
-4,3
-2,9
-1,7
-0,7
(Fonte: EUROSTAT, 2019.)
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
Tabella 10.3 Debito pubblico in rapporto al PIL: area dell’euro e Unione Europea Debito pubblico/PIL 1998
2008
2009
2012
2014
2016
2018
Austria
63,9
68,7
79,9
81,9
84,0
82,9
74,0
Belgio
119,2
93,2
100,2
104,8
107,0
104,9
100,0
Cipro
55,7
45,6
54,3
80,3
109,2
103,4
100,6
5,9
4,5
7,2
9,8
10,6
10,2
8,4
Finlandia
46,8
32,6
41,5
53,6
59,8
62,6
59,0
Francia
61,3
68,8
83,0
90,6
94,9
98,0
98,4
Estonia
Germania
59,5
65,5
73,0
81,1
75,7
69,2
61,9
Grecia
97,4
109,4
126,7
159,6
178,9
178,5
181,2
Irlanda
51,5
42,4
61,5
119,9
104,4
73,9
63,6
Italia
114,1
106,1
116,6
126,5
135,4
134,8
134,8
Lettonia
9,0
18,1
36,2
41,6
40,9
40,2
36,4
Lituania
16,5
14,6
28,0
39,8
40,6
39,9
34,1
Lussemburgo
n.d.
14,9
15,7
22,0
22,7
20,1
21,0
Malta
51,2
62,6
67,6
67,7
63,4
55,5
45,8
Paesi Bassi
62,7
54,7
56,8
66,2
67,8
61,9
52,4
Portogallo
55,6
75,6
87,8
129,0
132,9
131,5
122,2
Slovacchia
33,9
28,6
36,4
51,8
53,5
52,0
49,4
Slovenia
22,7
21,8
34,5
53,6
80,3
78,7
70,4
Spagna
62,3
39,7
53,3
86,3
100,7
99,2
97,6
n.d.
69,6
80,2
90,7
92,8
90,0
85,9
Area Euro Bulgaria
67,5
13,0
13,7
16,7
27,1
29,3
22,3
Croazia
22,8
39,3
48,7
70,1
84,7
81,0
74,8
n.d.
33,3
40,2
44,9
44,3
37,2
34,2
38,4
46,3
49,4
53,7
50,4
54,2
48,9
Danimarca Polonia Regno Unito
41,0
49,4
63,3
83,2
86,2
86,8
85,9
Repubblica Ceca
14,0
28,3
33,6
44,5
42,2
36,8
32,6
Romania
16,8
12,3
21,8
37,0
39,2
37,3
35,0
Svezia
66,3
37,7
40,9
37,7
45,2
42,3
38,8
Ungheria
60,5
71,8
78,2
78,5
76,8
75,5
70,2
n.d.
61,3
74,0
84,4
87,0
83,8
80,4
Unione Europea (Fonte: EUROSTAT, 2019.)
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Capitolo 10
del 3% in quasi tutti i Paesi dell’area dell’euro con punte particolarmente elevate nelle economie della cintura periferica occidentale e meridionale (Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia). Lo sforamento dell’Italia (–5,1%) non è tra i più vistosi: è infatti inferiore a quello di altri Paesi industrializzati come Francia e Belgio. Ma non bisogna dimenticare che l’Italia presentava anche il debito pubblico – in rapporto al PIL – di gran lunga più elevato di tutta l’Unione europea a parte la Grecia (Tabella 10.3) e si trovava quindi nella scomoda posizione di sorvegliato speciale. Si spiega così la seconda PDE (procedura per deficit eccessivo) aperta nei suoi confronti dalla Commissione europea nel 2009, procedura chiusa poi nel 2013 in seguito alla politica di risanamento attuata con pesanti tagli di bilancio dai governi Monti e Letta. Il permanere di elevati disavanzi del bilancio pubblico in gran parte dei Paesi dell’UEM dal 2009 al 2012 ha provocato inevitabilmente la lievitazione del rapporto debito-PIL dell’intera area (da quasi il 70 per cento nel 2008 a oltre 92 per cento nel 2014, come mostra la Tabella 10.3), ben oltre quindi la soglia del 60% fissata dal Trattato di Maastricht, dal Patto di stabilità e dal Fiscal Compact (per una discussione più approfondita dell’andamento del rapporto debito pubblico-PIL si veda la Formalizzazione matematica 10.1). Ci dobbiamo quindi chiedere quali sono state le cause di uno sforamento così vistoso e generalizzato dei parametri fiscali di Maastricht e quali le conseguenze per i singoli Paesi inadempienti e per l’intera area dell’euro.
FORMALIZZAZIONE MATEMATICA 10.1 La dinamica del rapporto debito-PIL e il problema del rientro nei parametri di Maastricht Ricordiamo innanzitutto che il debito pubblico è una grandezza stock pari al valore nominale di tutte le passività lorde consolidate delle Pubbliche Amministrazioni (centrali, locali e previdenziali). Il debito aumenta quando i bilanci pubblici nel loro complesso presentano un disavanzo che dovrà essere finanziato con l’emissione di titoli di Stato2. Il debito invece si riduce in caso di avanzo, mentre rimane inalterato se il bilancio è in pareggio. Ricordiamo anche che per indicare il grado di rischio derivante dall’acquisto dei titoli emessi da uno Stato occorre guardare non tanto al livello assoluto del debito, quanto al suo livello relativo, espresso appunto dal rapporto con il PIL. Il PIL, infatti, è un buon indicatore della capacità dello Stato di raccogliere entrate fiscali e quindi di far fronte alla restituzione del proprio debito, oltre che al pagamento degli interessi. Ciò premesso, indichiamo il rapporto debito pubblico-PIL con
b=
B pY
[1]
dove B è il valore nominale dello stock di debito pubblico cumulato negli anni, Y il PIL reale dell'anno in corso p il deflatore del PIL (ossia l’indice implicito dei prezzi) e quindi pY rappresenta il PIL nominale. Il vincolo del Trattato di Maastricht, relativo al debito pubblico, può pertanto essere espresso nel seguente modo: b* = 60%
2
[2]
In linea teorica il fabbisogno finanziario del settore pubblico potrebbe essere coperto anche con la vendita di titoli di Stato alla Banca Centrale e quindi con la creazione di nuova base monetaria. In questa sede però escludiamo tale forma di finanziamento monetario del disavanzo, non consentita dal Trattato di Maastricht.
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
323
Consideriamo ora le variabili da cui dipende la variazione del rapporto b. A tal fine teniamo presenti le seguenti regole matematiche: il tasso di variazione percentuale (o più semplicemente il tasso di variazione) di un prodotto è approssimato dalla somma algebrica dei tassi di variazione dei singoli fattori che lo compongono, mentre il tasso di variazione di un rapporto è approssimato dalla differenza tra il tasso di variazione del numeratore e il tasso di variazione del denominatore. Applicando tali regole otteniamo che il tasso di variazione di b può essere approssimato dalla seguente formula:
Δb ΔB Δp ΔY = – – b B p Y
[3]
dove ΔB (variazione assoluta del debito pubblico) rappresenta l’emissione netta di nuovi titoli con la quale la Pubblica Amministrazione finanzia, in un dato anno, l’eventuale disavanzo dei conti pubblici. In altri termini, ΔB è pari all’eccedenza delle uscite rispetto alle entrate complessive delle Pubbliche Amministrazioni in un determinato anno, ovvero:
Δ B = G + TR + iB – TA
[4]
dove G è la spesa complessiva per consumi pubblici e per investimenti pubblici, TR rappresenta i trasferimenti della Pubblica Amministrazione (PA), i è il tasso d’interesse nominale e quindi iB è la spesa complessiva per interessi sul debito pubblico (o “costo per il servizio del debito pubblico”). TA è il complesso delle entrate della PA (imposte dirette e indirette, contributi sociali e altre entrate). Se tra le uscite della PA non consideriamo la spesa per interessi (iB), parleremo di spesa primaria e, nel caso dell’Equazione [4], di disavanzo primario. È evidente dalla [3] che se un Paese come l’Italia vuole (deve) far diminuire il rapporto debito-PIL per ritornare o per lo meno avvicinarsi al parametro di Maastricht (b = 60%), dovrà fare in modo che Δb/b sia negativo e pertanto dovrà essere:
ΔB b (i – π – g), ovvero se l’avanzo primario in rapporto al PIL è maggiore della differenza (moltiplicata per b) tra il tasso di interesse nominale sui titoli del debito pubblico e il tasso di crescita del PIL nominale. Per esempio, con i = 4%, π + g = 3% e b = 1,3 il rapporto debito-PIL tenderà a scendere a condizione che l’avanzo primario in rapporto al PIL sia superiore a 1,3%.
Perché b = 60%? Molti si chiedono perché il Trattato di Maastricht ponga come vincolo/obbiettivo di lungo periodo per gli Stati membri dell’UEM un rapporto tra debito pubblico e PIL pari al 60%. In realtà non esistono spiegazioni specifiche e nemmeno precise ragioni teoriche che giustifichino la scelta di tale valore. La risposta più plausibile è che probabilmente il valore del 60% è stato scelto perché, ai tempi del Trattato, corrispondeva alla media dei valori fatti registrare in passato dai principali Paesi europei (esclusi quelli poco “virtuosi” come l’Italia e la Grecia). Ci si può inoltre chiedere quale sia il legame di coerenza fra b = 60% e il rapporto di indebitamento d = 3%, ossia tra i due vincoli principali del Trattato di Maastricht. La relazione fra i due parametri è stabilita, come
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326
Capitolo 10
abbiamo visto, dall’Equazione [9]. In tale equazione sappiamo che una volta raggiunta la posizione di equilibrio (b* = 60% = 0,6) la variazione di b dovrà essere per definizione pari a zero, ossia: Δb = d* – b*(π + g) = 0,03 – 0,6(π + g) = 0
[16]
Dalla [16] possiamo poi ricavare come incognite π + g, ovvero il tasso di crescita del PIL nominale (inflazione + crescita del PIL reale) coerente con i valori dei parametri di Maastricht d* e b*: π + g = 0,03/0,6 = 5%
[17]
In altri termini, solo con un tasso di crescita del PIL nominale del 5% (per esempio, g = 2,5% e π = 2,5%) i due parametri di Maastricht sono fra loro coerenti e possono quindi rimanere stabili. Si noti che il suddetto tasso di crescita corrisponde abbastanza bene alla media fatta registrare dai Paesi europei ai tempi del Trattato. Oggi tale media, a parte gli ultimi anni di recessione, è più vicina al 3% o al 4%. Se pertanto sostituiamo tali valori (per esempio, 4%) nell’Equazione [9] e questa volta poniamo come incognita b (dopo aver naturalmente posto Δb = 0), otteniamo: b* = d/(π + g) = 0,03/0,04 = 0,75 = 75%
[18]
In conclusione, se il tasso di crescita di lungo periodo del PIL diminuisce, come si è verificato in Europa in questi ultimi anni, anche il rapporto di equilibrio debito pubblico/PIL dovrà essere rivisto verso l’alto. Per esempio, nel caso di una crescita nominale del 4% il rapporto b di riferimento, ossia b*, dovrebbe essere portato al 75%, come indica l’Equazione [18]; nell’ipotesi di una crescita del 3%, si può verificare che b* dovrebbe salire al 100%. Con tale revisione il Fiscal Compact imporrebbe ai Paesi eccessivamente indebitati dei piani di rientro più sostenibili, come si può verificare sostituendo b* =100% (ossia 1) al posto di 60% (ossia 0,6) nell’Equazione [10]. Come si può notare, il risultato sarebbe: – Δb = 0,015 = 1,5 punti base
Perché il rapporto debito-PIL in Italia è aumentato tra il 2011 e il 2013? Dopo la crisi dell’autunno 2011 i governi italiani hanno avviato una politica di pesante restrizione fiscale per riportare il rapporto di indebitamento (d) sotto il 3%. Molti si aspettavano che, di conseguenza, anche il rapporto debito-PIL sarebbe diminuito e invece è aumentato da 120,7 nel 2011 a 133 nel 2013. Come si spiega tale aumento? La risposta è che una politica restrittiva da un lato fa migliorare il bilancio dello Stato e quindi, se genera un avanzo, fa cadere il debito pubblico (ossia il numeratore B del rapporto b), ma, dall’altro, fa anche cadere il reddito (il denominatore Y). Si può al riguardo dimostrare che se il moltiplicatore del reddito è abbastanza alto (pari o superiore a 0,6), il secondo effetto è maggiore (in valore assoluto) del primo e di conseguenza il rapporto b inizialmente aumenta. Nei periodi successivi, tuttavia, se la manovra restrittiva si arresta, il reddito smetterà di cadere, mentre l’avanzo di bilancio generato dalla manovra iniziale farà di nuovo diminuire il debito pubblico e, di conseguenza, il rapporto b comincerà a scendere. Un esempio può chiarire la dinamica di b. Si supponga di partire dai seguenti valori: B = 130 euro, Y = 100 euro, per cui b = B/Y = 1,3. Si supponga inoltre che il bilancio pubblico sia in pareggio, con una spesa pubblica totale (compresi gli interessi sul debito pubblico) pari a 40 euro e le entrate fiscali TA = tY = 0,4Y = 40 euro (dove t è, come sappiamo, l’aliquota fiscale). Ipotizziamo infine un moltiplicatore del reddito pari a 1,25. Immaginiamo ora che lo Stato riduca la spesa pubblica (G) di 10 euro con l’intenzione di generare un avanzo di bilancio e quindi una riduzione del debito pubblico. Il risultato sarà il seguente: ΔY = 1,25 ΔG = 1,25 (–10) = – 12,5 per cui Yt+1 = 100 – 12,5 = 87,5 TA t+1 = 0,4 (87,5) = 35 BDt+1 (saldo del bilancio pubblico) = (40–10) – TAt+1 = 30 – 35 = – 5 euro (avanzo) Bt+1 = Bt + ΔB = 130 – 5 = 125 per cui bt+1 = Bt+1/Yt+1 = 125/87,5 = 1,43.
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
327
Nel periodo t + 1 il rapporto debito-PIL quindi aumenta. Questo risultato dipende, come abbiamo osservato in precedenza, dal valore del moltiplicatore: come infatti si può verificare, se il moltiplicatore fosse più basso – pari o inferiore a 0,6 – il rapporto b diminuirebbe sin dal primo periodo. Proseguendo l’esercizio precedente, si osserva che nel periodo t + 2, in assenza di nuove manovre di bilancio e di altri cambiamenti, le variabili Y e TA rimarranno inalterate, mentre il debito pubblico, dato l’avanzo di bilancio pari a 5, scenderà a 120 euro per cui b t+2 = 120/87,5 = 1,37. Dal secondo periodo in poi il rapporto debito/PIL comincia quindi un percorso di discesa. Nel caso italiano, il rapporto b è aumentato nel 2012 e nel 2013 in parte a causa di versamenti straordinari effettuati dallo Stato italiano al Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF), nato per salvare dall’insolvenza il Portogallo e l’Irlanda, e allo European Stability Mechanism (ESM), fondo finanziario creato per la stabilità finanziaria dell’area dell’euro. Ma è aumentato soprattutto a causa delle politiche restrittive che il governo ha dovuto adottare per fermare l’esplosione dei tassi di interesse. Dal 2014 il rapporto debito/PIL avrebbe dovuto tuttavia, per i motivi esaminati in precedenza, cominciare a scendere. Questo però non è avvenuto perché il PIL nominale è aumentato molto meno del previsto e perché il bilancio pubblico si è allontanato dal pareggio, facendo registrare un rapporto di indebitamento vicino al 3%.
10.6.1 La crisi finanziaria del 2007 negli Stati Uniti, il contagio internazionale e la recessione 2008-09 Per quanto riguarda le cause, il deterioramento dei parametri di Maastricht è da attribuire soprattutto alla Grande Recessione, ossia alla forte caduta del PIL e dell’occupazione che si verificò in gran parte del mondo, soprattutto nei Paesi industrializzati, nella seconda parte del 2008 e nel 2009. Abbiamo già sottolineato la gravità della crisi nel Capitolo 1 (Paragrafo 1.5), in particolare con le Figure 1.3 e 1.4 relative all’andamento del PIL, rispettivamente nelle principali aree del mondo e in Italia. Abbiamo inoltre visto nei Capitoli 4, 5 e 6 come la caduta del PIL e del reddito nazionale determini inevitabilmente un peggioramento del bilancio dello Stato a causa, da un lato, della contrazione delle entrate fiscali e, dall’altro, dell’aumento della spesa pubblica e dei trasferimenti ai lavoratori, alle famiglie e alle attività economiche in crisi. La recessione comporta quindi l’aumento del rapporto deficit-PIL non solo perché fa ridurre il denominatore, ma anche perché fa aumentare il numeratore. Il disavanzo del bilancio pubblico fa a sua volta lievitare il debito e di conseguenza, se il PIL non cresce, aumenterà nel tempo anche il rapporto debito-PIL. L’aumento di tale rapporto renderà più rischioso acquistare titoli di Stato, farà lievitare i tassi di interesse e aggraverà quindi il bilancio pubblico, da un lato, e scoraggerà gli investimenti dall’altro. Se dunque la recessione è la causa principale dello sforamento dei parametri di Maastricht, dobbiamo allora chiederci quali fattori abbiano a loro volta scatenato una recessione così grave e diffusa come quella del 2008-09. Esiste a questo riguardo un generale consenso che la responsabilità principale sia da attribuire alla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2007, al termine di un periodo relativamente lungo di sviluppo economico e di stabilità dei prezzi, succeduto alle crisi petrolifere degli anni Settanta del secolo scorso. La storia della crisi finanziaria comincia nel mercato immobiliare americano con un aumento senza precedenti dei prezzi delle case proseguito dalla fine degli anni Novanta a tutto il 2006 (si veda la Figura 10.1). Gli aumenti in questione furono in gran parte alimentati dai mutui a basso costo (cosiddetti subprime) concessi dal sistema bancario ad acquirenti con redditi troppo bassi per permettersi l’acquisto delle case che stavano comprando. Ma perché le banche adottarono, nel periodo in esame, una condotta così rischiosa? In realtà sino a quando i prezzi delle case salivano, i proprietari che non erano in
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Capitolo 10
Figura 10.1 Indice dei prezzi reali delle case negli Stati Uniti, 1890 = 100
200 Prezzi reali delle case 1890 = 100
328
180 160 140 120 100 80 60 1890
1910
1930
1950
1970
1990
2010
grado di pagare le rate del mutuo originario con i propri risparmi potevano ricorrere a nuovi finanziamenti concessi dalle banche proprio in base alla rivalutazione del patrimonio immobiliare. Quando però i prezzi delle case smisero di aumentare, i debitori non furono più in grado di utilizzare tale canale per onorare i propri impegni. Cominciarono così a manifestarsi per gli istituti di credito le prime “sofferenze”, ossia crediti non più esigibili che si trasformarono nel tempo in perdite sempre più diffuse. La vendita delle case pignorate contribuì poi ad accelerare la caduta dei prezzi degli immobili. La crisi del settore immobiliare contagiò quindi anche il settore bancario e creditizio con drastiche svalutazioni delle attività ipotecate, declassamenti delle quotazioni degli istituti di credito da parte delle agenzie di rating e massiccio esodo dei clienti. La crisi del settore finanziario toccò la sua fase più acuta nei mesi di settembre e ottobre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers, la quarta investment bank degli Stati Uniti, e di oltre cento istituti di credito immobiliare di minori dimensioni. Per timore che il panico dilagasse, il governo degli USA decise allora di procedere al salvataggio di molti altri istituti di grandi dimensioni come Merrill Lynch, Fannie Mae, Freddie Mac, Washington Mutual, Wachovia, Citigroup e AIG. La bolla speculativa si era però protratta molto più a lungo di quanto sarebbe avvenuto ai tempi del “vecchio mondo bancario”. Negli anni che stiamo esaminando si era infatti diffusa un’innovazione finanziaria che si dimostrerà di notevole impatto: la “cartolarizzazione dei mutui ipotecari” da parte delle banche che li avevano concessi, ossia la vendita sui mercati finanziari di titoli detti “derivati” poiché basavano il loro valore sui suddetti mutui. In linea di principio tale prassi può anche essere considerata positiva poiché consente di suddividere e diffondere il rischio del finanziamento su una platea molto più vasta di risparmiatori. Nel caso specifico ci fu però un eccesso speculativo a opera di istituti finanziari sorti in molti casi fuori dal sistema bancario ufficiale e quindi non sottoposti alle rigide norme della vigilanza bancaria, anche se spesso tali istituti erano partecipati e talvolta promossi dalle banche stesse. In conclusione, fino a quando i prezzi delle case salivano, il sistema funzionava e consentiva guadagni ingenti a molti operatori, ma quando scoppiò la bolla speculativa l’intero castello di carte crollò portando non soltanto alla crisi del mercato immobiliare e del settore bancario, ma anche a una perdita generalizzata di fiducia tra i singoli operatori. Di
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
solito, in tempi in cui prevale un clima di fiducia, le banche e gli altri operatori finanziari si fanno prestiti uno con l’altro per far fronte a problemi temporanei di liquidità, senza preoccuparsi troppo dei rischi connessi con tali operazioni. Ma in seguito alle vicende che abbiamo descritto e alla crisi generalizzata dei mercati finanziari, nessuno fu più in grado di sapere di quali banche ci si potesse ancora fidare. Si bloccarono così i prestiti interbancari e sorsero problemi gravissimi di liquidità ai quali la banca centrale americana (la Federal Reserve) cercò di far fronte con massicce immissioni di base monetaria. Nel frattempo però, dato che i mercati finanziari nell’era della globalizzazione sono strettamente interconnessi, la crisi dagli USA si diffuse in tutto il mondo: anche negli altri Paesi, industrializzati ed emergenti, le banche subirono perdite e si trovarono costrette a ridurre sempre più i finanziamenti a imprese e famiglie. La recessione si propagò quindi dai mercati finanziari ai mercati dei beni (investimenti e consumi) e del lavoro, assumendo dimensioni così rilevanti da essere paragonata alla Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Per fortuna però è stata meno lunga e profonda di quest’ultima grazie soprattutto alle politiche espansive monetarie e fiscali adottate da grandi Paesi come gli Stati Uniti e il Giappone, che hanno saputo far tesoro della lezione keynesiana e delle tecniche di sostegno alla domanda aggregata che abbiamo studiato nei capitoli precedenti. Meno efficace, come meglio vedremo in seguito, è stata invece l’azione di politica economica nell’Unione Europea e soprattutto nell’area dell’euro dove, da un lato, il processo di integrazione è ancora largamente incompleto e mancano quindi strumenti fondamentali di politica monetaria e di politica fiscale; dall’altro, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, predomina la filosofia della “austerità” non interventista che ha ispirato l’UE dal Trattato di Maastricht in poi. Si spiegano così le maggiori difficoltà a uscire dalla crisi di molte economie dell’UEM, in particolare di quelle periferiche. 10.6.2 La crisi dei debiti sovrani nei Paesi periferici dell’UEM: 2010-2013 Nel paragrafo precedente abbiamo visto come gli sforamenti dei parametri fiscali di Maastricht siano da attribuire principalmente alla recessione del 2008-2009 e come quest’ultima sia stata a sua volta generata dalla crisi finanziaria che aveva colpito gli Stati Uniti nell’anno precedente, per poi diffondersi in tutto il mondo contagiando anche i mercati dei beni reali e dei fattori produttivi, in particolare il lavoro. La crisi ha però interessato in modo diverso le principali aree del mondo. I più colpiti sono stati i Paesi industrializzati e fra questi, come mostra la Tabella 10.4, il Giappone e l’Unione Europea più degli Stati Uniti. Differenze notevoli si riscontrano anche nei tempi e nei modi dell’uscita dalla recessione. Mentre i principali Paesi industrializzati, come gli Stati Uniti, il Giappone e la maggior parte dei Paesi europei erano (o almeno sembravano) fuori dalla recessione già nel biennio 2010-2011, in alcune economie periferiche di minori dimensioni dell’UE, come la Grecia, la Croazia, la Romania e in misura inferiore la Spagna, l’andamento del PIL continuò a presentare il segno meno anche in quel biennio (Tabella 10.4). Gli investitori internazionali – che la crisi finanziaria aveva reso estremamente cauti, diffidenti e selettivi – cominciarono quindi a considerare sempre più a rischio i titoli finanziari emessi dai Paesi in difficoltà e a ridurre di conseguenza il peso di tali titoli, soprattutto se di Stato, nei loro portafogli. È d’altra parte evidente che quanto più un titolo è considerato rischioso tanto maggiore sarà il rendimento (il tasso di interesse) richiesto dai risparmiatori per essere indotti ad acquistarlo. Nel corso del 2009 e del 2010 cominciarono così a manifestarsi, come si può osservare per alcuni Paesi nella Tabella 10.5, le prime differenze di rilievo
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330
Capitolo 10
Tabella 10.4 Tassi annuali medi di crescita del PIL a prezzi costanti nell’Unione Europea
Belgio
1999-2007
2008-2009
2010-2011
2012-2013
2014-2017
2018
2,6
-0,8
2,3
0,6
1,8
1,5
Germania
1,6
-2,4
4,1
0,4
2,2
1,5
Estonia
7,1
-9,8
5,1
2,2
3,3
4,8
Irlanda
6,3
-4,8
1,1
0,8
11,4
8,2
Grecia
3,9
-2,3
-7,3
-5,3
0,4
1,9
Spagna
3,8
-1,5
-0,3
-2,2
2,8
2,4
Francia
2,3
-1,3
2,1
0,5
1,4
1,7
Italia
1,5
-3,2
1,2
-2,4
1,0
0,8
Cipro
4,6
0,8
1,2
-5,0
3,2
4,1
Lettonia
7,9
-8,8
0,9
3,2
2,7
4,6
Lituania
6,6
-6,1
3,8
3,7
3,1
3,6
Lussemburgo
5,0
-2,9
3,7
1,7
3,8
3,1
Malta
3,0
0,4
2,4
3,7
8,0
6,8
Paesi Bassi
2,7
-0,8
1,5
-0,6
2,1
2,6
Austria
2,6
-1,2
2,4
0,4
1,6
2,4
Portogallo
1,8
-1,4
0,0
-2,5
2,0
2,4
Slovenia
4,4
-2,0
1,1
-1,8
3,2
4,1
Slovacchia
5,1
0,0
4,3
1,3
3,2
4,0
Finladia
3,6
-3,7
2,9
-1,2
1,5
1,7
Area Euro
2,3
-2,1
1,9
-0,6
2,0
1,9
Bulgaria
4,3
1,4
1,5
0,4
3,3
3,1
Repubblica Ceca
4,2
-1,1
2,1
-0,7
3,7
3,0
Danimarca
2,0
-2,7
1,6
0,6
2,2
1,5
Croazia
3,9
-2,7
-0,9
-1,4
2,2
2,6
Ungheria
3,7
-2,8
1,3
0,3
3,6
5,1
Polonia
4,2
3,5
4,3
1,5
3,8
5,1
Romania
5,1
1,9
-1,0
2,8
4,8
4,0
Svezia
3,4
-2,2
4,7
0,3
3,0
2,3
Regno Unito
2,9
-2,3
1,7
1,8
2,2
1,4
Unione Europea
2,5
-1,9
2,0
-0,1
2,2
2,0
Giappone
1,3
-3,3
2,1
1,8
1,0
0,8
Stati Uniti
3,0
-1,3
2,1
2,0
2,4
2,9
(Fonte: Commissione Europea, European Economic Forecast [Stastical Annex], autunno 2019.)
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
nei tassi di rendimento dei titoli di Stato dell’area dell’euro. La tabella fa riferimento in particolare ai titoli decennali, tradizionalmente utilizzati per misurare le differenze (i cosiddetti spread) tra i tassi di interesse dei diversi Paesi. Come si può osservare nella prima riga della tabella, all’inizio del 2008 i tassi erano quasi perfettamente allineati. La differenza più alta era infatti tra il 4,4% dell’Italia e della Grecia, da un lato, e il 4,0% della Germania. Una differenza quindi molto modesta, pari a 0,4% ovvero a 40 punti base. Si può pertanto sostenere che nel primo decennio dell’Unione monetaria si era in effetti realizzata l’ipotesi che nel Capitolo 7 abbiamo definito della “perfetta mobilità dei capitali”. Tale ipotesi, come si ricorderà, comporta che i tassi di interesse dei diversi Paesi tendano ad allinearsi su un unico livello comune, il “tasso internazionale”, sotto l’azione livellatrice dei capitali che si muovono senza ostacoli o barriere su scala mondiale alla ricerca del massimo rendimento. Nel corso del 2009 e del 2010 cominciano invece a manifestarsi notevoli differenze tra i tassi d’interesse dei diversi Paesi. Nel gennaio del 2010 lo spread tra il tasso della Grecia (salito al 6%) e quello della Germania (sceso al 3,3%) è pari al 2,7%, ovvero a 270 punti base. Ma la vera crisi dei debiti sovrani dell’eurozona si scatena nel corso del 2011: i tassi di interesse della Grecia e dell’Irlanda raggiungono livelli insostenibili, la speculazione si estende al Portogallo e successivamente attacca anche la Spagna e l’Italia. Questi cinque Paesi della fascia meridionale e occidentale dell’area dell’euro sono spesso accomunati con l’acronimo GIPSI (oppure con quello, meno benevolo nella lingua inglese, di PIIGS). In realtà la loro performance presenta alcune differenze di rilievo: il debito pubblico di Grecia, Irlanda e Portogallo entra di fatto in default. I tre Stati, in presenza di tassi di interesse così elevati, si trovano nell’impossibilità di finanziare i loro disavanzi e di rinnovare i titoli in scadenza con il ricorso ai mercati finanziari. Sono quindi costretti a chiedere l’aiuto della cosiddetta Troika, ossia del Fondo Monetario Internazionale, della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea, i quali però impongono condizioni molto pesanti e provvedimenti drastici per riportare il bilancio pubblico in pareggio. In Grecia e Portogallo la pesante politica fiscale restrittiva – aumenti delle tasse e riduzioni della spesa pubblica – prolungherà la crisi al 2012 e al 2013 con la caduta del PIL e un forte aumento della disoccupazione. L’Irlanda dimostra invece una maggiore capacità di reazione e anticipa la ripresa al 2011 (Tabella 10.4). Nel dicembre del 2013 il Paese esce dal programma di aiuti internazionali e torna a rivolgersi ai mercati finanziari per il proprio fabbisogno. La sorte dell’Italia e della Spagna è stata un po’ meno traumatica, nel senso che i due Paesi non hanno dovuto dichiarare default e far ricorso ai prestiti della Troika, Valori %, medie mensili
Gennaio “ “ “ Novembre Gennaio Dicembre “ Ottobre
2008 2009 2010 2011 2011 2012 2012 2013 2019
Ir
Gr
Spa
It
Por
De
Fr
4,3 5,2 4,8 8,8 8,5 7,7 4,2 3,5 0,0
4,4 5,6 6,0 11,7 17,9 25,9 14,9 8,7 1,5
4,2 4,2 4,0 5,4 6,2 5,4 5,3 4,2 0,2
4,4 4,6 4,1 4,7 7,1 6,5 4,4 4,2 0,9
4,3 4,3 4,2 7,0 11,9 13,9 7,3 5,9 0,2
4,0 3,1 3,3 3,0 1,9 1,8 1,4 1,8 –0,4
4,2 3,6 3,5 3,4 3,4 3,2 2,2 2,4 –0,3
331
Fondo Monetario Internazionale (FMI) Organizzazione internazionale creata per promuovere la cooperazione monetaria internazionale; mette temporaneamente a disposizione le sue risorse, a rigide condizioni, ai Paesi membri che affrontano problemi legati alla bilancia dei pagamenti.
Tabella 10.5 Tassi d’interesse sui titoli di Stato decennali nell’area dell’euro (Fonte: database della Banca Centrale Europea.)
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332
Capitolo 10
ma non è stata meno pesante in termini di politiche fiscali restrittive. Queste ultime hanno poi comportato una nuova recessione nel biennio 2012-13 (Tabella 10.4) e l’aumento del tasso di disoccupazione (Figura 10.2). L’attacco al debito pubblico italiano era iniziato nell’estate del 2011 con forti vendite di titoli soprattutto dall’estero. A novembre il tasso di interesse sui buoni del tesoro decennali aveva superato il 7%, soglia oltre la quale si ritiene che ben difficilmente uno Stato riesca a far fronte ai propri impegni di pagamento degli interessi e di rimborso del debito. La gravità della crisi attraversata dall’Italia in quella circostanza è del resto provata dalle dimissioni del governo Berlusconi e dall’avvento del governo tecnico di Mario Monti, chiamato dal Presidente della Repubblica al compito di avviare una drastica politica di austerità volta a riportare il disavanzo del bilancio dello Stato entro il limite di Maastricht del 3%. Come mostra la Tabella 10.5, la crisi dei debiti sovrani nell’area dell’euro si è andata attenuando nel corso del 2012 e al termine del 2013 appariva in buona parte superata, anche se non del tutto risolta. I tassi d’interesse dell’Italia, della Spagna e dell’Irlanda erano infatti ritornati ai livelli di partenza del 2008; quelli della Francia e soprattutto della Germania erano però scesi a livelli molto più bassi (addirittura negativi in termini reali, tenuto cioè conto dell’inflazione), a dimostrazione del fatto che gli investitori internazionali ritenevano i titoli di quei Paesi come “attività rifugio”; infine, i tassi di interesse del Portogallo e della Grecia, pur essendo fortemente calati dai picchi raggiunti nel culmine della crisi, erano ancora molto alti e, nel caso della Grecia, fuori mercato. La situazione alla fine del 2013 era quindi caratterizzata, oltre che da spread ancora piuttosto alti, da un forte stato di incertezza sulle prospettive future dell’area dell’euro. L’ultima riga della Tabella 10.5 ci consente di fotografare la situazione a sei anni di distanza. Come si può notare, i tassi di interesse sui titoli di Stato decennali sono scesi drasticamente in tutti i Paesi, diventando addirittura negativi in Germania e Francia. È stato questo il risultato della nuova politica monetaria avviata dalla BCE, sotto la guida di Mario Draghi, con vasti interventi di Quantative Easing, ossia di acquisti di obbligazioni e titoli non soltanto di Stato, ma anche del settore privato.
Figura 10.2 Tasso di disoccupazione: 1970-2018
30
25 (Fonte: OECD.Stat.)
20
15
10
0
1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016 2018
5
Stati Uniti
Spagna
Italia
Germania
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
In questo quadro, progressi straordinari sono stati compiuti dall’Irlanda, dalla Spagna e dal Portogallo, che nel corso degli anni sono riusciti a ridurre il rapporto debito/PIL, migliorando il tasso di crescita dell’economia e tenendo sotto controllo il deficit pubblico. Anche la Grecia ha fatto progressi notevoli ed è uscita (il 20 agosto 2018) dal programma di salvataggio della Troika. Il Paese può ora finanziare sui mercati finanziari il proprio debito pubblico, ma i sacrifici compiuti in termini di disoccupazione e di riduzione del reddito sono stati molto alti; il debito pubblico ha inoltre raggiunto un livello estremamente elevato in rapporto al PIL (pari a 181,2% nel 2018). L’Italia è forse il Paese che ha compiuto minori progressi. Il tasso di crescita del PIL è stato molto basso (il più basso dell'Area Euro nel 2018) e il debito pubblico in rapporto al PIL ha continuato a registrare valori molto elevati (pari a 134,8% nel 2018).
10.7 L’Europa a due velocità: i vincoli della competitività e dell’indebitamento con l’estero La crisi dei debiti sovrani ha messo in evidenza come nell’area dell’euro si sia venuta a creare una frattura tra Paesi finanziariamente “forti” e Paesi “deboli” o perlomeno ritenuti tali dalla comunità internazionale. Tra i primi possiamo collocare la Germania e altri Paesi del centro-nord Europa; tra i secondi i cosiddetti GIPSI e altri Paesi appartenenti alla fascia meridionale e a quella orientale dell’Eurozona. La Francia sembrerebbe invece occupare una posizione intermedia, anche se un pò più vicina al primo gruppo. I Paesi “deboli” corrono il rischio di entrare in un circolo vizioso. Il debito pubblico elevato, infatti, mantiene alti i tassi di interesse sui titoli di Stato e fa quindi lievitare la spesa pubblica, costringendo lo Stato a una politica fiscale costantemente restrittiva. Induce le banche a razionare il credito al settore privato (credit crunch); deprime gli investimenti; danneggia anche le esportazioni poiché aumenta i costi di produzione e abbassa la competitività delle imprese; fa diminuire il reddito nazionale e quindi le entrate fiscali; fa peggiorare di conseguenza i parametri di Maastricht e costringe a nuove manovre restrittive. I Paesi “forti” sono invece avvantaggiati in modo simmetrico dal regime dei bassi tassi di interesse. La causa della “debolezza” non è, però, da ricercare soltanto nella politica fiscale arrendevole dei governi che hanno lasciato lievitare il debito pubblico. Questa tesi potrebbe forse valere, nell’area dell’euro, per Paesi come la Grecia, il Portogallo e l’Italia, ma non per la Spagna e l’Irlanda, che, come conferma la Tabella 10.3, hanno sempre avuto, fino alla recessione del 2008-09, debiti pubblici particolarmente bassi. Per questi due Paesi lo stato di “debolezza” e l’aumento dei tassi d’interesse del 2011 e del 2012 devono quindi essere spiegati in altro modo. Fuori dall’Europa notiamo poi che negli Stati Uniti, che hanno un debito pubblico superiore al 100% del PIL, e a maggior ragione in Giappone, dove il rapporto debito-PIL supera il 220%, i tassi d’interesse dovrebbero essere molto alti e invece sono tra i più bassi del mondo. In realtà, vi sono buoni motivi per ritenere che la crisi dei debiti sovrani di alcune economie dell’area dell’euro derivi principalmente da altre due cause: la prima è l’eccessivo debito esterno (sia pubblico sia privato) che tali economie hanno cominciato ad accumulare sin dai primi anni Novanta del secolo scorso; la seconda consiste nel mancato completamento del processo di integrazione europea e di conseguenza nella insufficiente politica di difesa dei debiti sovrani degli Stati membri dell’UEM. Per quanto riguarda la prima causa, si può osservare dalla Tabella 10.6 che la Grecia, il Portogallo, la Spagna e, in misura inferiore, l’Irlanda hanno fatto registrare forti disavanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti sin dall’ingresso nell’UEM. Que-
333
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Capitolo 10
Tabella 10.6 Saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti in rapporto al PIL, Unione Europea 2000-04
2005-09
2010-14
2015
2016
2017
2018
Austria
0,8
2,9
2,3
1,9
2,9
1,7
2,4
Belgio
5,2
3,4
1,1
1,4
0,6
1,2
-1
Cipro
-5,7
-16,7
-4,5
-0,5
-4,2
-5,1
-4,4
Estonia
-9,7
-8,9
0,4
1,8
1,6
2,7
2
Finlandia
6,9
3,2
-1,1
-0,8
-1,9
-0,8
-1,4
Francia
1,4
-0,3
-1,1
-0,5
-0,6
-0,6
-0,6
Germania
1,2
5,8
6,7
8,6
8,6
8,3
7,6
Grecia
-9,3
-13,1
-6
-0,2
-1,1
-1
-1,1
Irlanda
0,3
-5,3
-0,7
4,4
-4,2
0,5
10,6
Italia
-0,4
-1,7
-0,7
1,4
2,6
2,7
2,6
Lettonia
-8,5
-12
-1,9
-0,9
1,4
1
-0,7
Lituania
-6
-8,6
0
-2,4
-1,1
0,5
0,3
Lussemburgo
6,5
4,6
0,7
0,3
0,2
-0,9
0
Malta
-4,1
-6,2
-0,5
2,8
3,8
10,5
9,8
Paesi Bassi
5,6
5,6
9,1
6,3
8,1
10,8
11,2
Portogallo
-8,9
-10,3
-3,3
0
0,6
1
0,1
Slovacchia
-5,1
-4,8
0,2
-0,6
-2
-1,8
-1,6
Slovenia
-2
-3,1
1,2
3,9
4,9
6,3
5,8
Spagna
-4,4
-7,7
-0,5
2
3,2
2,7
1,9
Area Euro
0,4
0,2
1,9
3,4
3,6
3,8
3,8
-5
-16,5
0,4
0,6
5,3
6,1
4,6
-3,7
-6,5
0,4
4,6
2,5
4,1
2,9
Danimarca
2,9
3,1
7,2
8,2
7,9
8
5,7
Polonia
-3,6
-4,8
-2,9
0,2
0
0,2
-0,4
Regno Unito
-2,1
-3,1
-3,6
-4,9
-5,2
-3,5
-4,3
Repubblica Ceca
-4,1
-4
-2,8
-1,5
0,1
0,3
-0,2
Romania
-5,5
-9,8
-3,3
-1,1
-2
-3,4
-4,4
Svezia
4,5
6,6
4,9
3,4
3,1
3,3
2,4
Ungheria
-8,3
-6,4
1,4
2,3
4,7
2,3
-0,3
Unione Europea
-0,1
-0,5
1
1,8
2
2,5
2,2
Giappone
2,8
3,6
1,7
3,1
4
4,2
3,5
USA
-4,3
-4,7
-2,5
-2,2
-2,3
-2,3
-2,4
Bulgaria Croazia
(Fonte: Commissione Europea, European Economic Forecast, autunno 2019.)
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
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Tassi di interesse a lungo termine (media 2010-2012)
sto significa, in altri termini, che tali Paesi si sono sempre più indebitati con l’estero per pagare l’eccesso di importazioni. Anche il saldo dell’Italia mostra un segno negativo a partire dai primi anni del nuovo secolo, ma di entità inferiore a quello degli altri GIPSI. Il problema però era, all’inizio della crisi, che buona parte dell’indebitamento con l’estero dell’Italia era concentrato nel settore pubblico: nell’estate del 2011, quando iniziò l’attacco al debito sovrano italiano, circa il 60% di quest’ultimo era in mani straniere; nel corso di pochi mesi, in seguito a una vera e propria campagna di vendite, la quota estera scese a circa il 40%, per poi calare ulteriormente. Sempre dalla Tabella 10.6 si può notare che, in modo simmetrico, alcuni Paesi “forti” come la Germania, i Paesi Bassi, l’Austria e in parte la Finlandia hanno invece fatto registrare, dopo l’ingresso nell’UEM, ingenti e duraturi avanzi nel conto corrente della loro bilancia. Hanno quindi accumulato crediti nei confronti con l’estero e questo spiega la solidità finanziaria di quei Paesi. Come appare dalla Figura 10.3, la correlazione fra la crisi dei debiti sovrani e l’indebitamento esterno (pubblico e privato) è piuttosto chiara: i Paesi i cui tassi d’interesse sul debito pubblico hanno raggiunto i valori più alti nella media del triennio 2010-2012 sono quelli che avevano accumulato più debito esterno dalla metà degli anni Novanta. Consegue da questa analisi che, per capire le cause della crisi europea dei debiti sovrani, dobbiamo prima spiegare perché alcuni Paesi hanno presentato un saldo negativo della bilancia commerciale (più esattamente, delle partite correnti) e hanno quindi accumulato debito esterno nel corso degli anni, mentre altri Paesi vedevano migliorare la loro posizione con l’estero. Ci sono buoni motivi per ritenere che il fattore determinante dietro questo comportamento sia il profilo di specializzazione di ciascuna economia. In particolare, alcune economie, come la Germania, sono riuscite a consolidare la loro posizione nei settori produttivi a più alto valore aggiunto dove prevalgono le economie di scala, la ricerca e la tecnologia medio-alta. In tal modo, si sono protette dalla concorrenza basata sul prezzo che, soprattutto nei settori tradizionali, avvantaggia i
15 %
Grecia
R2 = 0,67
12 % Portogallo 9%
Ungheria Polonia Lituania Italia Spagna Rep. ceca Slovacchia
Belgio Olanda
Lettonia 6%
3%
Austria Germania Francia Finlandia Danimarca Svezia –50%
0
50%
Variazione dell’indebitamento esterno in % del PIL fra il 1996 e il 2008
100%
Figura 10.3 Correlazione tra i tassi di interesse sui titoli pubblici a lungo termine (media 2010-2012) e la variazione dell’indebitamento esterno (in % del PIL) fra il 1996 e il 2008, Unione Europea (Fonte: R. Paes Mamede, The European crisis explained in two graphs, March 2013.)
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Capitolo 10
Figura 10.4 Relazione fra l’accumulazione di debito esterno e il profilo di specializzazione delle economie europee (Fonte: R. Paes Mamede, http://euro.boellblog.org.)
100% Grecia Variazione dell’indebitamento esterno in % del PIL fra il 1996 e il 2008
336
2
R = 0,76
Portogallo Estonia Lettonia
Spagna Ungheria Rep. ceca
Slovacchia
50% Francia
Italia 0
Germania
Austria Belgio
Danimarca
Svezia
Olanda Finlandia 8
10
12
14
16
18
20
–50% 22
Occupazione nel settore manufatturiero ad alta e media tecnologia e nei servizi knowledge intensive esclusa la finanza (% di occupati, 1998)
Paesi con abbondanza di forza lavoro a bassi salari. Questa tesi appare confermata dalla Figura 10.4 che mette in evidenza come esista una stretta correlazione tra le seguenti due variabili: 1) il cambiamento dell’indebitamento esterno, in percentuale del PIL, dei principali Paesi europei (escluso il Regno Unito) tra il 1996 e il 2008; 2) la percentuale degli occupati nelle industrie manifatturiere ad alta e media tecnologia e nei servizi “knowledge intensive” (esclusa la finanza) nel 1998, ovvero alle soglie dell’adozione della moneta unica. Particolarmente significativo, a questo riguardo, è il caso della Germania che ha saputo ampiamente profittare dell’allargamento a Est dell’Unione Europea dopo la caduta del Muro di Berlino decentrando un’alta percentuale delle sue attività produttive nei Paesi ex comunisti con una forza di lavoro caratterizzata da bassi salari, ma anche da un discreto grado di istruzione. In tal modo le imprese tedesche sono riuscite a produrre merci ad alta e media tecnologia mantenendo bassi i costi e guadagnando così quote di mercato sia all’interno dell’UE sia nel resto del mondo. In seguito all’apprezzamento dell’euro hanno poi potuto acquistare sui mercati internazionali materie prime e fonti energetiche a prezzi relativamente bassi (ragioni di scambio favorevoli). In altri termini, le regole e le istituzioni dell’UE si sono dimostrate molto adatte per alcuni Paesi con strutture politiche, sociali ed economiche avanzate, ma problematiche per altri.
10.8 L’integrazione incompiuta e i limiti della politica economica europea La conclusione del paragrafo precedente ci riporta al ruolo della politica economica europea e in particolare alla seconda causa della crisi dei debiti sovrani: la mancanza di un vero e proprio scudo di difesa dei titoli pubblici nazionali e dei relativi tassi di interesse da parte delle istituzioni europee.
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
APPROFONDIMENTO 10.1 Competitività, crescita e vincolo della bilancia dei pagamenti: una spiegazione del declino italiano* Il tasso di crescita “garantito” e la competitività Come abbiamo visto nel Paragrafo 10.7, una bilancia dei pagamenti in disavanzo diventa a lungo andare un serio ostacolo allo sviluppo economico di un Paese. Per dimostrare questa tesi possiamo partire dall’analisi proposta da Thirlwall4 e in particolare dall’identità che definisce l’elasticità (E) delle importazioni al reddito: E ≡ q/g
[19]
dove q = ∆Q/Qt‒1 e g = ∆Y/Yt‒1 sono i tassi di crescita rispettivamente delle importazioni (Q) e del PIL (Y), ambedue in termini reali. Partendo dall’Equazione [19] è possibile calcolare il tasso di crescita “garantito” del PIL (gw) che, in questo contesto di economia aperta, possiamo definire come il tasso di crescita compatibile con l’equilibrio esterno del sistema economico ovvero con un saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti in media nullo nel lungo periodo. I passi da seguire per il calcolo di gw sono i seguenti. In primo luogo, immaginiamo per semplicità che il conto corrente coincida con la bilancia commerciale. Pertanto, affinché vi sia equilibrio esterno le importazioni dovranno nel lungo periodo essere pari alle esportazioni, ovvero: QPf e = XP
[20]
dove Pf è il prezzo all’origine (per semplicità in dollari) dei beni importati (Q), e è il tasso di cambio nominale (il valore in euro del dollaro), Pf moltiplicato per e rappresenta pertanto il prezzo in euro delle importazioni, X sta per esportazioni in termini reali (quantità esportate), P è il prezzo in euro delle esportazioni e quindi XP indica le esportazioni a prezzi correnti. Se poi poniamo Pf e = Pq (prezzo delle importazioni in euro) e XP = XC (esportazioni in euro a prezzi correnti), la [20] può essere riscritta come segue: QPq = XC
[21]
Per rispettare l’equilibrio esterno, le importazioni e le esportazioni a prezzi correnti dovranno crescere nel lungo periodo allo stesso tasso. Dall’Equazione [21] otteniamo quindi (ricordando che la variazione percentuale di un prodotto è approssimativamente pari alla somma algebrica dei tassi di variazione delle singole variabili che lo compongono): q + πq = xc
[22]
dove πq è il tasso di variazione dei prezzi in euro delle importazioni e xc il tasso di crescita delle esportazioni a prezzi correnti. Dalla [22] possiamo derivare il tasso di crescita di equilibrio delle importazioni in termini reali: q = xc ‒ πq
[23]
Sappiamo inoltre dall’Equazione [19] che la crescita delle importazioni dipende dalla crescita del PIL reale, data l’elasticità rispetto al reddito, ossia: q ≡ gE
[24]
* A cura di Marco Crivellini. Si veda anche M. Crivellini (2013). Per la bibliografia completa si rimanda all’elenco delle opere citate alla fine dell’Approfondimento 10.1. 4 Vedi A. P. Thirlwall (1979) e per una rassegna della letteratura più recente A. P. Thirlwall (2011).
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Capitolo 10
Uguagliando infine i lati destri delle Equazioni [23] e [24] e riordinando i termini, otteniamo finalmente il tasso di crescita “garantito”: gw = (xc ‒ πq)/E
[25]
dove gw rappresenta il tasso di crescita del PIL compatibile con il vincolo dell’equilibrio esterno. Come si può notare dalla [25], gw sarà: • •
•
tanto maggiore quanto più alto è il tasso di crescita delle esportazioni a prezzi correnti (xc); tanto minore quanto più alto è πq, il tasso di aumento dei prezzi in euro delle importazioni (per esempio, il forte aumento del prezzo all’importazione del petrolio, avvenuto fra il 2003 e il 2008, contribuisce a spiegare la caduta del tasso di crescita del PIL nel 2009, come si può notare dalla Tabella 10.4); tanto minore quanto più alta è l’elasticità (E) delle importazioni al reddito.
Secondo Thirlwall, la crescita effettiva (g) non si può discostare significativamente, nel medio-lungo termine, da quella “garantita” (gw). Per esempio, se partendo da una situazione di equilibrio esterno g diventa maggiore di gw, le importazioni tenderanno a crescere più delle esportazioni e pertanto aumenterà l’indebitamento con l’estero. Nel caso contrario, aumenterebbe invece l’accreditamento. Per valutare le conseguenze del disequilibrio fra i due tassi bisogna però distinguere il regime dei cambi fissi da quello dei cambi flessibili.
Cambi fissi In regime di cambi fissi un crescente indebitamento estero a lungo andare provocherà una crisi di fiducia dei finanziatori esteri che quindi provvederanno all’aumento dei tassi di interesse o al razionamento del credito. Si avrà in ogni caso una caduta del reddito e delle importazioni. Il verificarsi o meno di una crisi di fiducia dipenderà, oltre che dal livello del debito accumulato dal Paese, anche dall’assetto istituzionale riguardante la moneta e i mercati finanziari, in particolare dipenderà dal grado di protezione e sostegno offerto dalla Banca Centrale, come insegna la recente esperienza dell’area dell’euro5. Influirà ovviamente anche il clima economico interno e internazionale (il fallimento di Lehman Brothers, per esempio, ha profondamente modificato il clima di fiducia in tutti i mercati del mondo). Inoltre, ci si può aspettare una maggiore tolleranza per il deficit esterno se esso deriva da una crescita degli investimenti produttivi, specie se questi ultimi danno prova di potere, in una prospettiva temporale di lungo termine, migliorare la competitività e le esportazioni nette, allentando il vincolo finanziario sul Paese. Le reazioni dei creditori saranno invece meno favorevoli se lo squilibrio esterno trae origine dalla crescita eccessiva dei consumi, pubblici o privati, oppure da “bolle” speculative in edilizia, destinate a scoppiare e a produrre insolvenze. Infine, in una prospettiva di lungo periodo, va tenuto presente che la caduta del reddito e la conseguente disoccupazione causate da una crisi di sfiducia potrebbero provocare una “deflazione interna”, cioè ridurre l’inflazione al di sotto di quella degli altri Paesi, consentendo così un recupero di competitività, con l’aumento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni. Affinché questo avvenga è però necessario che i salari monetari e i prezzi siano relativamente flessibili. La crisi da debito estero potrebbe in tal caso ripristinare l’equilibrio esterno aumentando gw, oltre che riducendo g. Sotto questo aspetto il riequilibrio ha caratteristiche simili a quelle che saranno discusse successivamente per il regime dei cambi flessibili (si veda in particolare la nota 6). Resta il fatto che con i cambi fissi l’aggiustamento principale riguarda il reddito, mentre il ruolo dei prezzi è soltanto successivo e dipende dalla loro “flessibilità” rispetto al reddito e alla disoccupazione. 5
Il vincolo esterno è rilevante anche in un’unione monetaria come l’UEM. Si veda Giavazzi-Spaventa (2010).
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
Tutto questo nel caso di deficit della bilancia commerciale. In caso di surplus si avrà un’evoluzione di segno opposto, ma non esattamente simmetrica, in quanto l’accumulazione di crediti verso l’estero non ha vincoli così pressanti come l’indebitamento ed è quindi sostenibile molto più a lungo.
Cambi flessibili Se i cambi sono flessibili, il disequilibrio comporterà deprezzamenti o apprezzamenti del cambio che potranno far variare sia gw sia il tasso di crescita effettivo g. In particolare, nel caso di g > gw si avrà un disavanzo della bilancia commerciale causato dall’aumento eccessivo delle importazioni e quindi un deprezzamento del cambio. La maggiore competitività di prezzo farà allora aumentare le esportazioni e quindi gw, mentre la diminuzione della domanda interna dovuta all’aumento dei prezzi ridurrà g. Il risultato finale di questi movimenti dipenderà dalla reazione (elasticità) delle esportazioni, da un lato, e delle importazioni, dall’altro, alla variazione del tasso di cambio6. In questo contesto si deve anche tener presente che le modifiche del cambio nominale hanno di norma effetti soltanto transitori sulla competitività. Se, infatti, il deprezzamento comporta un’accelerazione dell’inflazione interna e innesca una spirale inflazione-svalutazione, non vi saranno modifiche sostanziali del tasso di cambio reale e quindi della competitività. Pertanto, anche nel caso dei cambi flessibili, in una prospettiva di medio-lungo periodo il riequilibrio può richiedere modifiche del tasso di crescita (g) del PIL più che della competitività (gw). In conclusione, occorre considerare, oltre che il regime dei cambi, anche la flessibilità o meno di prezzi e salari: se i prezzi sono rigidi, in entrambi i regimi il riequilibrio dipenderà soltanto dal reddito; se sono flessibili, le variazioni dei prezzi (e quindi della competitività) daranno un contributo al riequilibrio anche nel caso dei cambi fissi, facendo variare gw.
Contabilità della crescita Anche se, per le ragioni che abbiamo esaminato, è ragionevole attendersi che g (il tasso di crescita effettivo) tenda nel lungo periodo a gw (il tasso di crescita garantito, inteso come indice della competitività del Paese), possiamo in ogni caso evidenziare esplicitamente l’eventuale differenza tra i due tassi. A tal fine, tenuto conto dell’Equazione [25], possiamo scrivere: (g ‒ gw) = g ‒ (xc ‒ πq)/E da cui, mettendo in evidenza g, si ottiene: g = (xc ‒ πq)/E + (g – gw)
[26]
La [26] propone una contabilità della crescita che scompone la crescita effettiva del PIL (g) in quattro componenti: le tre componenti dell’indice di competitività complessiva gw, incluse nel primo addendo del lato destro dell’Equazione [26], e il residuo (g – gw). 6
Per esempio, un deprezzamento dell’1% dell’euro comporta un aumento di pari entità del prezzo in euro dei prodotti importati. Se la domanda e quindi il consumo di tali prodotti non diminuiscono o diminuiscono meno dell’1% (ovvero se l’elasticità delle importazioni al prezzo è inferiore a 1), vi sarà un aumento del valore nominale delle importazioni e quindi un peggioramento della bilancia commerciale. Bisognerà però vedere che cosa succede alle esportazioni: in questo caso il deprezzamento dell’euro comporta una diminuzione del prezzo delle merci italiane rispetto alle merci straniere e pertanto si verificherà un aumento delle quantità di beni esportati. Se l’elasticità delle esportazioni al prezzo è superiore a 1, vi sarà un aumento anche del valore delle esportazioni e quindi un miglioramento della bilancia commerciale. In conclusione, la variazione del saldo complessivo della bilancia commerciale dipenderà dalla reazione delle importazioni, da un lato, e delle esportazioni, dall’altro, e quindi dal valore delle due elasticità. Per un approfondimento di questo argomento si rinvia al Capitolo 15, Paragrafo 15.5, relativo alle cosiddette “condizioni di Marshall-Lerner”.
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Capitolo 10
Quest’ultimo può essere interpretato come il risultato di una scelta di politica economica, fatta più o meno esplicitamente, tra “crescita interna” ed “equilibrio esterno”. Per esempio, se per un certo periodo (g – gw) è positivo, ciò significa che si è preferito (ed è stato possibile) forzare la crescita del PIL accettando che le importazioni crescano più delle esportazioni e sacrificando quindi temporaneamente l’equilibrio esterno. Nel caso opposto, (g – gw) < 0, si sarà invece scelto di migliorare i conti con l’estero a scapito dello sviluppo interno
L’esperienza italiana, 1951-2017 La Tabella 10.7 presenta le variabili dell’Equazione [26] per l’economia italiana in un periodo di quasi settant’anni (1951-2017), suddiviso per decenni. Per l’ultimo periodo considerato (2007-2017) la tabella presenta un ulteriore termine, Δq, necessario per rendere meno restrittiva l’ipotesi, implicita nell’Equazione [19], che la variazione delle importazioni dipenda esclusivamente dalla variazione del reddito. Al posto della [19], per il periodo 2007-2017 si è infatti ipotizzato che: q = Eg + Δq
[19a]
dove Δq è una variazione esogena delle importazioni non attribuibile alla crescita del reddito (g). Conseguentemente gw risulta definito da: gw = (xc ‒ πq – Δq)/E
[25a]
Secondo la [25a], pertanto, un’eventuale variazione esogena delle importazioni modifica gw; infatti, se Δq > 0 le importazioni crescono e la competitività del Paese si riduce. Va ribadito che questa modifica è imposta dall’effettivo comportamento delle importazioni italiane che nel periodo successivo al 2007 mostrano una chiara tendenza a crescere anche indipendentemente dal reddito. Per ulteriori chiarimenti si rinvia alla nota metodologica alla fine di questo Approfondimento. Ciò premesso, si può osservare nella Tabella 10.7 e, soprattutto, nella Figura 10.5 che la relazione tra competitività (gw) e crescita effettiva (g) è molto stretta. Questa correlazione spiega completamente il declino italiano, mentre la scelta di politica economica tra “crescita interna” ed “equilibrio esterno”, indicata dalle differenze tra i due tassi, svolge un ruolo secondario. Tabella 10.7 Tassi medi annui di crescita decennale effettiva (g) e giustificata (gw) del PIL; elasticità delle importazioni (E) e altre componenti di gw, 1951-2017 Periodo
g
gw
E
xc ‒ πq
xc
πq
1951/1961
6,09%
6,92%
2,004
13,86%
11,08%
–2,44%
1961/1971
5,68%
6,01%
1,800
10,83%
12,74%
1,72%
1971/1981
3,68%
2,48%
1,177
2,92%
24,30%
20,77%
1981/1991
2,48%
2,90%
2,282
6,62%
9,56%
2,76%
1991/2001
1,64%
1,78%
2,772
4,93%
9,41%
4,27%
1997/2007
1,50%
0,92%
3,206
2,95%
5,25%
2,23%
2007-2017
‒0,53%
‒0,13%
2,900
‒0,38%*
2,00%
0,60%
Δq
1,77%
* In questo decennio: xc – πq ‒ Δq. (Fonti: Banca d’Italia, “Statistiche storiche”, Dataset: DATA_NA150-1.1. Per i periodi considerati nelle ultime due righe della tavola, i dati sono Eurostat.)
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8 7 6
g
5
gw
4 3 2 1 0 1951/1961
-1
1961/1971
1971/1981
1981/1991 1991/2001 1997/2007 2007/2017
Figura 10.5 Tassi medi annui di crescita effettiva (g) e giustificata (gW) del PIL (Fonte: Tabella 10.7.)
La relazione tra g e gw vale per l’intero periodo 1951-2017, benché quest’ultimo sia caratterizzato da diversi regimi di cambio (si veda la Figura 10.6). In sintesi, si passa dal sistema di cambi fissi di Bretton Woods nei primi due decenni del periodo ai
400 350 300 250 200 150 100 50 0 1950
1960
1970
1980
1990
Figura 10.6 Cambio nominale della lira 1950-1998, Indice 1998 = 100 (Fonte: elaborazioni su dati Banca d’Italia.)
2000
2010
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cambi flessibili o “aggiustabili” (come nello SME) dei decenni successivi e poi, con l’euro, a un regime ibrido: cambi irrevocabilmente fissi tra i Paesi dell’UEM e cambi flessibili tra l’euro e le altre valute mondiali. Il controllo di questi ultimi cambi spetta però alla Banca Centrale Europea (BCE) ed è quindi esogeno per l’Italia.
Competitività Possiamo ora utilizzare l’Equazione [25] per illustrare più in dettaglio l’esperienza italiana del periodo 1951-2017. Come si può notare dalla Tabella 10.7, il tasso di crescita “garantito” (gw) è rimasto relativamente alto nei primi due decenni, mentre è progressivamente sceso fino a zero nei decenni successivi. Il forte calo tra il secondo e il terzo decennio è dovuto soprattutto all’aumento dei prezzi delle importazioni, trainato dal petrolio e da altre materie prime. Tale variabile è del resto responsabile anche del modesto rallentamento verificatosi tra il primo e il secondo decennio, quando invece le esportazioni italiane crescono in modo rilevante, guadagnando quote di mercato. Si noti inoltre che nel primo trentennio il rallentamento della crescita di (xc ‒ πq), ossia delle esportazioni deflazionate con l’indice dei prezzi delle importazioni, è parzialmente compensato dalla caduta dell’elasticità (E) delle importazioni al PIL, mentre successivamente entrambe le componenti frenano la crescita. L’aumento di E, passato da poco più di 1 all’inizio degli anni Settanta a circa 3 nel ventennio 2007-2017, indica che l’Italia è stata oggetto di una vasta penetrazione commerciale da parte degli altri Paesi sia europei (in primis la Germania) sia del resto del mondo. Questo cambiamento strutturale del nostro sistema economico è in parte la conseguenza fisiologica della scelta strategica dell’Italia di apertura internazionale (integrazione europea e globalizzazione), ma in parte è anche la conseguenza di una limitata capacità di innovazione, soprattutto di prodotto, e della scarsa presenza dell’industria italiana nei settori ad alta tecnologia. L’elevata elasticità alle importazioni comporta a sua volta un forte limite alla politica di sviluppo basata sullo stimolo della domanda interna: per esempio, un aumento del reddito dell’1% causato da un aumento della spesa pubblica tende a determinare una crescita delle importazioni pari al 3% e ad aprire quindi un buco nel saldo della bilancia commerciale. Sale così l’indebitamento estero con tutte le conseguenze che abbiamo visto in precedenza. In termini del tradizionale moltiplicatore del reddito di economia aperta, possiamo dire che in Italia è aumentata fortemente la propensione a importare e si è quindi notevolmente ridotto il valore del moltiplicatore. Si noti che l’aumento della propensione a importare si è verificato in gran parte nell’ultimo ventennio del secolo scorso, in un regime di cambi sostanzialmente flessibili nel quale in linea di principio si sarebbe potuto recuperare competitività con il deprezzamento della lira. Come mostra la Figura 10.6, dai primi anni settanta (crisi di Bretton Woods) agli ultimi anni novanta (adozione dell’euro), il valore nominale della lira nei confronti delle valute estere cade a un livello pari a 1/3 di quello iniziale (aumenta cioè di circa tre volte il prezzo medio delle valute estere, ossia il tasso di cambio nominale e). Nello stesso tempo il tasso di crescita delle esportazioni in termini reali, ossia (xc – πq), dopo un modesto recupero negli anni Ottanta, torna a ridursi negli anni Novanta. Possiamo quindi constatare che le ripetute svalutazioni della lira sono state controbilanciate da un tasso di inflazione interno più alto di quello di molti altri Paesi industriali (si veda la Figura 3.11), così che, in ultima analisi, svalutazione e inflazione si sono inseguite e autoalimentate senza produrre risultati permanenti sulla competitività. La perdita di competitività degli anni Novanta sui mercati esteri è, infatti, rivelata dalla riduzione della quota delle esportazioni italiane nel commercio mondiale. Il fenomeno, che è peraltro comune a tutti i Paesi più industrializzati, è in buona parte spiegato dall’aumento delle quote della Cina e degli altri Paesi di nuova industrializzazione.
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Possiamo inoltre osservare che il nuovo secolo fa registrare un’ulteriore caduta di gw, dovuta sia al minor sviluppo delle esportazioni sia al versante delle importazioni. I motivi di questa perdita di competitività all’estero sono in parte da ricercare nella carenza delle politiche di internazionalizzazione. Anche nel nuovo secolo l’andamento delle esportazioni non è in ogni caso molto diverso da quello degli altri Paesi sviluppati. Più specifico è il comportamento delle importazioni: è da sottolineare l’ulteriore aumento dell’elasticità al reddito, che raggiunge il massimo proprio nel primo decennio del secolo, e soprattutto l’incremento “esogeno” delle importazioni Δq nel decennio 2007-2017. Si noti anche che nel ventennio 1997-2017 la riduzione di gw, rispetto agli anni Novanta del secolo scorso, non dipende soltanto dalla crisi internazionale successiva al 2008, ma si manifesta, come mostra la penultima riga della Tabella 10.7, già nel decennio precedente. La crisi internazionale riduce comunque della metà il tasso di crescita delle esportazioni italiane nel decennio 2007-2017 e ciò, insieme alle specificità sopra ricordate relative alle importazioni, riduce di un punto il tasso di crescita di gw, portandolo per la prima volta su valori negativi. Va, infine, considerato che nell’ultimo ventennio con l’avvento dell’euro è nuovamente mutato il regime di cambio che è diventato di tipo sostanzialmente fisso7 e che soprattutto non dipende più dalle autorità monetarie italiane. Conseguentemente non è stato più possibile ricorrere, come in precedenza, a svalutazioni come quelle della lira che negli anni Settanta e Ottanta avevano periodicamente compensato la maggiore inflazione italiana, consentendo temporanei recuperi di competitività di prezzo. D’altra parte, in quest’ultimo periodo, come mostra la Figura 3.11, anche l’inflazione ha risentito decisamente del mutato regime di cambio, scendendo quasi a zero.
Crescita La Tabella 10.7 riporta anche il tasso di crescita effettivo del PIL. Come si può notare, g eccede sensibilmente gw soltanto negli anni Settanta del secolo scorso, in un regime di cambi sostanzialmente flessibile, quando l’Italia rinunciò, a differenza per esempio della Germania, a porre sotto controllo l’inflazione causata dalla crisi energetica (si veda la Figura 3.11). Negli anni Settanta infatti l’Italia, nel tentativo di evitare la caduta del tasso di crescita e l’aumento della disoccupazione, adotta politiche fiscali e monetarie decisamente espansive e lascia correre il tasso di inflazione fino a livelli senza precedenti in tempi di pace. Soltanto verso la fine degli anni Ottanta prima la politica monetaria poi anche quella fiscale iniziano a contrastare l’inflazione. Il conseguente aumento dei tassi di interesse nominali grava però sul disavanzo pubblico e fa aumentare il rapporto fra debito e PIL. La politica di rientro dalla fase di svalutazione e di inflazione è costosa anche in termini di sviluppo, come dimostra il fatto che g non soltanto cade in termini assoluti, ma diventa inferiore a gw già negli anni Ottanta e per tutto il decennio Novanta. Come già evidenziato nel paragrafo precedente, le politiche di svalutazione del cambio non riescono quindi a rilanciare la crescita e la flessibilità dei cambi si scarica, in ultima analisi, sul debito pubblico e sull’inflazione i cui tassi di crescita raggiungono negli anni Settanta il massimo dell’intero periodo8. Si può quindi concludere che negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo la Banca Centrale in Italia ha agito in modo contradditorio in funzione di due obbiettivi tra
7
Il cambio, come abbiamo già osservato, è ovviamente fisso nei confronti degli altri Paesi aderenti all’euro, mentre nei confronti delle altre valute è dato dal contesto internazionale e dalle decisioni della BCE. 8 Il tasso medio di inflazione è il 16% negli anni Settanta, contro livelli molto modesti nei decenni precedenti e contro il 9,4% nel periodo 1981-1991, il 3,3% e il 2,6% nei due decenni successivi. Il saldo primario della Pubblica Amministrazione è –2,2% del PIL nel 1970, –3,3% nel 1980, –1,7% nel 1990; raggiunge il massimo nel 1997 (+6,2%) per tornare al 3,3% nel 2007 e a un nuovo minimo nel 2009 (–0,8%). Resta poi sempre moderatamente positivo negli anni seguenti con un massimo nel 2012 (2,3%) e l’1,5% nel 2017.
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loro in conflitto: da un lato contenere, con un cambio relativamente forte, l’elevata inflazione interna; dall’altro consentire, con successive svalutazioni, periodici recuperi della competitività persa a causa della stessa inflazione, causata dall’aumento dei prezzi del petrolio. Com’è noto, per due obbiettivi in conflitto servono due “cannoni”, ossia due strumenti separati. In altri termini, se si punta sulla competitività attraverso una politica monetaria accomodante, occorre attivare una politica fiscale restrittiva per il contenimento dell’inflazione. Questa seconda politica non è però politicamente facile da realizzare, come dimostra ampiamente il caso dell’Italia. In linea di principio si sarebbe potuto utilizzare, per il contenimento dell’inflazione, uno strumento alternativo: la cosiddetta “politica dei redditi”, ossia una politica di contenimento delle rivendicazioni salariali, da attuare soprattutto con l’abbattimento delle aspettative inflazionistiche. In effetti ciò è in parte avvenuto negli anni Novanta, nella fase immediatamente precedente all’ingresso dell’Italia nell’euro, quando le condizioni imposte dal Trattato di Maastricht hanno reso credibile l’aspettativa di una definitiva uscita dal precedente regime inflazionistico. Nel penultimo periodo, il decennio 1997-2007, analizzato specificatamente nell’ultima sezione della Tabella 10.7, g segue la riduzione di gw, ma resta più alto. Con l’euro, in altri termini, si può nuovamente manifestare, dopo venti anni di contenimento della crescita, la preferenza per lo “sviluppo interno” rispetto all’“equilibrio esterno”. Questa fase sarà interrotta nel periodo successivo dalla crisi europea dei debiti sovrani che colpisce l’Italia verso la fine del 2011 e prosegue nel 2012. L’aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato e del cosiddetto spread, combattuto inizialmente con scarso impegno dalla BCE, anche a causa del carattere incompleto dell’unione monetaria, imporrà nuovamente all’Italia una politica fiscale rigorosa e il rispetto immediato del vincolo estero. In questa fase la politica fiscale nazionale non può contrastare seriamente il ciclo, non soltanto per i vincoli formali imposti dal Trattato di Maastricht, ma anche per il mutato contesto strutturale dovuto a due fattori principali: la riduzione dei moltiplicatori causata dalla maggiore propensione all’importazione e la crisi di fiducia dei finanziatori esteri, determinata dal peso del debito pubblico, dal precedente periodo di deficit della bilancia dei pagamenti e dalla instabilità politica. Per finire, osserviamo che nell’ultimo decennio (2007-2017) la drammatica caduta del tasso medio di crescita del PIL (da +1,5% a ‒0,5%) è dovuta per circa la metà, ossia per un punto percentuale, al passaggio da una posizione che sacrifica l’equilibrio esterno a una di avanzo commerciale (g < gw)9. Ciò significa che, in prospettiva, il semplice rientro in una posizione di equilibrio esterno (g = gw) eliminerebbe almeno il segno meno della crescita italiana.
Conclusioni Le principali conclusioni sono già state anticipate nei paragrafi precedenti. Ci limitiamo quindi a sottolineare due punti ulteriori10. 1. Il vincolo posto dalla competitività internazionale, ossia dal tasso di crescita garantito gw, ha condizionato pesantemente lo sviluppo economico dell’Italia ed è, assieme alla rilevanza del debito pubblico, la spiegazione più immediata delle difficoltà che il Paese ancora oggi sta attraversando. Alcuni propongono di superare il vincolo esterno attraverso il recupero della sovranità monetaria e della flessibilità dei cambi. Nel secolo scorso l’esperienza italiana dei cambi flessibili o facilmente “aggiustabili” non è stata, però, molto incoraggiante: si sono avuti risultati modesti in termini di crescita e pesanti
9 Negli anni Settanta la caduta di g era stata decisamente maggiore, di circa 3 punti, contrastata però da w una politica espansiva di un punto. 10 Conclusioni più fondate richiederebbero l’estensione dell’analisi dell’ultimo periodo agli altri Paesi dell’area euro e una discussione delle politiche monetarie e fiscali dell’intera area. Su questo punto vedi: Crivellini (2013).
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conseguenze su inflazione e debito pubblico. Le conseguenze del debito, in particolare, sono persistenti e condizionano lo sviluppo dell’economia italiana indipendentemente dai vincoli posti dall’euro e dal Trattato di Maastricht. 2. In materia di competitività l’attenzione prevalente sulle esportazioni non coglie correttamente il caso italiano nel quale il ruolo delle importazioni nella determinazione di gw è tutt’altro che trascurabile. Come infatti abbiamo visto, un ruolo fortemente negativo hanno giocato sia l’aumento dell’elasticità (E) delle importazioni al reddito (ossia della propensione a importare) sia, in alcuni periodi, l’aumento dei prezzi, in particolare dei prodotti petroliferi. Le quote di esportazioni italiane hanno invece andamenti simili a quelle di altri Paesi che mostrano minori difficoltà a crescere. In ogni caso, è evidente che esiste in Italia un problema di recupero della produttività del lavoro e dell’efficienza delle imprese sia per competere con le esportazioni nel mercato mondiale sia per resistere alla penetrazione commerciale delle imprese straniere nel mercato interno.
Opere citate M. Crivellini (2013), Competitività, crescita e vincolo della bilancia dei pagamenti nell’area euro. In G. Canullo, P. Pettenati (a cura di) (2013), Sviluppo economico e Benessere, ESI. Si veda anche una versione successiva del lavoro in: Economia Marche, Journal of Applied Economics, XXXII (1), giugno 2013. G. Fuà (2013), Una agenda non conformista per la crescita economica, edizione a cura di Valeriano Balloni, Marco Crivellini, Paolo Pettenati, il Mulino. G. Fuà (1980), Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, il Mulino. F. Giavazzi, L. Spaventa (2010), Why the Current Account May Matter in a Monetary Union, CEPR Discussion paper, N°8008. A. P. Thirlwall (1979), The Balance of Payments Constraint as an Explanation of International Growth Rate Differences, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, marzo. A. P. Thirlwall (2011), Balance of Payments Constrained Growth Models: History and Overview, University of Kent School of Economics, Discussion Papers, may, KDPE 1111.
NOTA METODOLOGICA Nella Figura 10.7 è rappresentata la relazione tra i logaritmi naturali di Q (importazioni reali) e Y (PIL) nel periodo 1995-2017 in Italia. Come si vede, la retta tratteggiata nella figura sintetizza abbastanza bene l’esperienza italiana del primo periodo 1997-2007. La pendenza della retta non è altro che l’elasticità (E). Infatti, tale pendenza è: dLn(Q)/dLn(PIL) = (dLn(Q)/dt)/(dLn(PIL)/dt) = [(1/Q)(dQ/dt)]/[(1/PIL) (dPIL/dt)] ≈ E = q/g visto che (dQ/dt)/Q ≈ ΔQ/Q = q e (dPIL/dt)/PIL ≈ ΔPIL/PIL = g. Possiamo dunque concludere che, per il decennio 1997/2007, la [19] rappresenta abbastanza fedelmente il comportamento delle importazioni italiane, è cioè una stilizzazione accettabile della realtà. La Figura 10.7 mostra anche che la relazione tra importazioni e PIL non è più così stretta nel decennio 2007-2017, nel quale le importazioni crescono anche indipendentemente dal PIL. In altri termini, dopo il 2007 si verifica un progressivo slittamento della retta (cioè dell’equazione delle importazioni) verso l’alto (come suggerito dalle rette più sottili tracciate nella figura). Per tenere conto di tale slittamento si rende, pertanto, necessario introdurre il termine Δq e utilizzare, al posto della [19], la [19a]11.
11 Se si calcolasse anche per l’ultimo periodo l’elasticità con l’Equazione [19], il risultato sarebbe addirittura negativo (E = ‒0,4).
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Capitolo 10
13,1 13,0 12,9 Ln(Q)
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12,8 12,7 12,6 12,5 12,4 14,14
14,16 14,18 14,20 14,22 14,24 14,26 14,28 14,30 14,32 14,34 14,36 Ln(PIL)
Figura 10.7 Italia, 1995-2017 Il punto più a destra del grafico indica il 2007, anno nel quale il livello del PIL è massimo e che separa i due ultimi periodi della Tabella 10.7. Il punto più a sinistra è il 1995. La pendenza della retta che congiunge tale punto con quello relativo al 1997 misura l’elasticità storica secondo la [19]. (Fonte: Tabella 10.7.)
Per calcolare E e Δq per il decennio 2007-2017 si può ricorrere a una stima econometrica della equazione delle importazioni basata sull’ipotesi che queste dipendano sia dal PIL sia dall’anno (T) al quale si riferiscono. Si ottiene allora: Ln(Q) = ‒68,09 + 2,9 Ln(PIL) + 0,0197 T dove T = 2007, 2008, ..., 2017. I parametri stimati risultano tutti statisticamente significativi con R2 = 0,94. Dalla equazione stimata risulta: E = 2,9. Dato E si può ottenere Δq residualmente dalla [19a], utilizzando per q e g i dati storici del periodo (Δq = q ‒ 2,9g). Si può aggiungere, infine, che questo particolare procedimento si rende necessario soltanto per l’ultimo periodo, mentre per tutti gli altri precedenti decenni, considerati nella Tabella 10.7, l’elasticità può essere ragionevolmente stimata ricorrendo, come per il periodo 1997-2007, direttamente alla [19].
Nei capitoli precedenti abbiamo visto, attraverso gli schemi di analisi IS-LM, come in uno Stato dotato di piena sovranità monetaria e di strumenti standard di politica fiscale le autorità competenti siano in grado di influenzare le principali variabili economiche in base agli obiettivi che si prepongono. Per esempio, in un sistema economico a cambi flessibili, come va considerata nel suo complesso l’Unione Economica e Monetaria, dovrebbero esistere un bilancio federale con proprie entrate e uscite e un Ministero del Tesoro autorizzato a finanziare eventuali disavanzi con l’emissione di titoli del debito pubblico federale. La Banca Centrale Europea avrebbe poi la possibilità di intervenire sul mercato aperto acquistando o vendendo tali titoli, influenzando così il tasso di in-
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teresse e, per suo tramite, le altre variabili del sistema economico (investimenti, tasso di cambio, esportazioni e quindi PIL, occupazione e prezzi). Il problema dell’UEM è che non esiste di fatto un bilancio pubblico federale: le spese dell’UE ammontano a circa l’1% del PIL totale dei Paesi dell’area e sono interamente finanziate dai contributi degli Stati membri. Non sono infatti consentiti disavanzi e quindi non esiste un debito pubblico “europeo”. Esistono soltanto debiti pubblici dei singoli Stati membri sui quali però la BCE può intervenire in modo molto limitato, non solo per i vincoli posti dallo Statuto della Banca e dai vari Trattati da Maastricht in poi, ma anche perché alcuni Stati, in particolare la Germania, sono contrari a una politica monetaria interventista per il timore che i singoli Stati, di fronte alla possibilità di un sostegno della Banca Centrale, siano indotti a indebitarsi oltre i limiti del Trattato di Maastricht. Il risultato di questo stato di cose è duplice: da un lato, la mancanza di una spesa pubblica federale che raggiunga livelli simili a quelli di altri grandi Stati (il 15-20% del PIL, invece dell’1% attuale) impedisce all’UEM di svolgere una politica di coesione e di sostegno alle regioni e ai Paesi più deboli dell’Unione; dall’altro, i limiti posti all’azione della BCE impediscono a quest’ultima di svolgere un’azione di vero contrasto agli attacchi contro i debiti pubblici dei singoli Stati. Sinora la BCE ha messo in atto azioni e dichiarazioni di intenti che sono valse a impedire il default e quindi l’uscita dall’euro dei Paesi più deboli, ma non è riuscita a evitare il permanere di spread piuttosto elevati tra i titoli dei diversi Stati con tutte le conseguenze che abbiamo visto in termini di recessione e di disoccupazione. È però vero, come mostra l'ultima riga della Tabella 10.3 e come abbiamo già osservato alla fine del Paragrafo 10.6.2, che negli ultimi anni sono stati fatti notevoli passi avanti nella difesa dei debiti pubblici dell’eurozona dagli attacchi speculativi.
10.9 Conclusione Le difficoltà che da qualche anno attraversano i Paesi più deboli dell’area dell’euro stanno mettendo in dubbio in molti strati dell’opinione pubblica di quei Paesi la validità dell’intera costruzione europea. Vale quindi la pena di richiamare brevemente le ragioni più profonde che stanno alle radici del progetto di Unione Europea, ma anche i limiti che tale progetto deve superare e i passi avanti che deve compiere per completare il disegno. La prima ragione che ha ispirato il processo di Unione Europea, dal Trattato di Roma in poi, è stata di carattere politico e sociale: l’obiettivo principale dei “padri fondatori” era quello di creare in Europa un’area di pace, democrazia e sviluppo economico così da porre fine alle guerre e alle dittature che nei secoli precedenti avevano dilaniato il Continente, sino al culmine delle due guerre mondiali del secolo XX. Questo obiettivo si può dire in gran parte raggiunto: il nucleo originario della Comunità economica europea, composto da Francia, Germania, Italia e dai tre Paesi del Benelux, ossia da sei Paesi che si erano aspramente combattuti sino a pochi anni prima, si è successivamente allargato a tre Stati (Spagna, Grecia e Portogallo) che per entrare nella Comunità hanno dovuto abbandonare i precedenti regimi dittatoriali. L’attrazione esercitata dall’Unione Europea come area di democrazia e di prosperità ha poi fortemente contribuito allo sgretolamento del blocco sovietico e alla caduta del muro di Berlino, portando non soltanto all’unificazione tedesca, ma anche all’ingresso dei Paesi dell’Europa dell’Est nell’UE. Il processo è poi continuato con i Paesi dell’ex-Yugoslavia dove l’aspirazione a entrare nell’Unione ha progressivamente posto fine ai sanguinosi conflitti e ai regimi autoritari della regione.
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Capitolo 10
Abbiamo però anche visto come, dopo la creazione dell’unione monetaria, la grave crisi economica e finanziaria importata dagli Stati Uniti nel 2007 e la successiva crisi dei debiti sovrani del 2010-2013 abbiano messo in luce la fragilità di alcuni Paesi delle periferie occidentale e meridionale dell’eurozona. Tali Paesi dopo il notevole sviluppo dei primi anni dell’UEM, hanno cominciato a evidenziare disavanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti e quindi ad accumulare debiti esterni (pubblici e privati). L’indebitamento con l’estero si è a sua volta dimostrato un fattore di notevole fragilità per i titoli del debito pubblico nazionale di tali Paesi. L’UE e l’UEM hanno in questa occasione dimostrato la carenza dei loro strumenti di intervento, in particolare la mancanza di un bilancio pubblico federale e le limitazioni, statutarie e politiche, poste agli interventi della BCE. L’Europa e in particolare l’area dell’euro si trovano quindi a un bivio: o si completa il processo di integrazione dando un opportuno spazio alle politiche di coesione e di solidarietà oppure la crisi dei Paesi più deboli porterà prima o poi al rischio di un fallimento del progetto degli Stati Uniti d’Europa.
Riepilogo • L’UEM (Unione Economica e Monetaria) europea si è realizzata a partire dal 1° gennaio 1999 con l’introduzione di una moneta comune, l’euro, al termine di un processo di unificazione durato oltre mezzo secolo. • Il Sistema Monetario Europeo, il più importante tentativo di integrazione monetaria precedente all’introduzione dell’euro, conteneva al suo interno dei fattori di instabilità legati al ruolo dominante della Germania. • Il rispetto degli accordi di cambio vigenti in un regime di cambi fissi come lo SME comporta aggiustamenti asimmetrici, in termini di variazioni delle riserve valutarie e di politiche economiche da implementare, a favore delle valute che tendono ad apprezzarsi rispetto alle valute che tendono a deprezzarsi. • In un sistema a cambi fissi con una valuta dominante, come nel caso del marco tedesco all’interno dello SME, possono emergere soluzioni egemoniche in cui il Paese che fissa il tasso di interesse nell’area di accordi di cambio mantiene la propria indipendenza nella politica monetaria, mentre la politica monetaria degli altri Paesi dipende dalle decisioni assunte dal Paese dominante. • All’indomani dell’unificazione tedesca e della progressiva integrazione finanziaria internazionale i Paesi non dominanti dello SME si sono trovati a decidere fra due opzioni: difendere il cambio ai nuovi e più elevati tassi di interesse internazionali cedendo valuta estera e riducendo l’offerta di moneta e, quindi, il reddito di equilibrio, oppure abbandonare lo SME svalutando la propria valuta, rilanciando le
esportazioni e, quindi, incrementando il reddito di equilibrio. • Già prima degli attacchi speculativi alle valute dello SME e del fallimento dello stesso, il percorso verso l’integrazione monetaria era ripartito con il Rapporto Delors, che pianificava l’introduzione della moneta unica in tre fasi, a partire dal 1990. L’introduzione dell’euro è avvenuta il 1° gennaio 1999 in 11 Paesi europei e successivamente in altri 8 Paesi tra il 2000 e il 2015. • L’adesione all’UEM ha spinto i Paesi candidati a riforme legali ed economiche rivolte alla convergenza e al rispetto dei parametri imposti dal Trattato di Maastricht. Dopo l’introduzione dell’euro il mantenimento di rigorose politiche di finanza pubblica è stato imposto ai Paesi dell’UEM dal Patto di Stabilità e Crescita, approvato a Dublino nel 1996, e dal Fiscal Compact, approvato nel 2012. • La crescita non controllata dei rapporti deficit-PIL e debito-PIL di alcuni Paesi dell’UEM, soprattutto dopo il 2008, indica che vi sono potenziali fattori di instabilità nell’area dell’euro. Una politica rigorosa di rientro del disavanzo e del debito pubblico basata sulla creazione di avanzi primari dovrà quindi essere portata avanti dai governi italiani nei prossimi anni. Sarà anche necessario migliorare la competitività del sistema economico per evitare che la ripresa dello sviluppo comporti disavanzi della bilancia commerciale e quindi un aumento dell’indebitamento esterno. Un eccessivo livello di quest’ultimo, infatti, è la vera causa della fragilità di un sistema economico.
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Domande di ripasso 10.1
Qual è stata l’evoluzione del processo di integrazione europea dal Dopoguerra fino all’introduzione dello SME?
10.2
A quale tipologia di regimi di cambio corrispondeva lo SME? a. I tassi di cambio erano fissi? Erano previste bande di oscillazione? b. Quali obiettivi si prefiggeva lo SME? c. Che cos’era l’ECU? d. Quali fattori di instabilità conteneva lo SME?
10.3
Quali fattori hanno messo in crisi lo SME e portato al suo fallimento?
10.4
Quali Paesi europei hanno aderito all’UEM e quando?
10.5
Quante fasi prevedeva il Rapporto Delors per l’introduzione della moneta unica? Descrivete sinteticamente le fasi.
10.6
A chi si rivolge il Patto di Stabilità e Crescita e quali sanzioni prevede?
10.7
Qual è la differenza fra deficit e debito pubblico? Che cosa si intende con “rientro del debito pubblico”?
10.8
Che cos’è l’avanzo primario di bilancio?
10.9
Quali sono le possibili politiche di rientro del debito pubblico?
10.10 Per quali motivi il Trattato di Maastricht prescrive un rapporto debito-PIL pari al 60%? 10.11 Qual è il percorso di rientro che il Fiscal Compact impone ai Paesi che non rispettano il rapporto debito-PIL stabilito dal Trattato di Maastricht? 10.12 In che cosa è consistita la “crisi dei debiti sovrani”? 10.13 Quali poteri dovrebbero essere concessi alla Banca Centrale Europea?
Problemi
Soluzioni dei problemi sul sito web dedicato al volume
10.1
Nel 2009 in Italia il rapporto debito-PIL è stato pari al 115,2%. Al termine del 2009 l’Istituto di Studi e Analisi Economica (ISAE) prevedeva per il 2010 una crescita del PIL reale dello 0,6%, un indebitamento netto della Pubblica Amministrazione pari al 5,1% del PIL e un’inflazione pari a11’1,7%. Quale previsione si poteva fare per il rapporto debito-PIL nel 2010?
10.2
Un Paese con una crescita reale dell’attività produttiva del 4% ha un rapporto debito-PIL pari al 60%. A quale percentuale del PIL corrisponde l’avanzo primario in grado di tenere costante il rapporto debito-PIL se il tasso di interesse reale è pari al 6%?
10.3
Indicate in due modi differenti la relazione che definisce la variazione del rapporto debitoPIL. Inoltre, sapendo che un’economia è caratterizzata dai seguenti dati al tempo t: i = 8%, π > 3%, g = 2%, spesa pubblica = 50, tasse = 100, trasferimenti = 30, e che al tempo t – 1 i valori nominali del debito pubblico e del PIL erano 100 e 105 rispettivamente, calcolate: a. la variazione del rapporto debito-PIL al tempo t; b. il valore dell’avanzo primario che stabilizza il rapporto debito-PIL.
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Appendice 10
Macroeconomia dello SME: accordi di cambio e politiche monetarie Il Sistema Monetario Europeo, come si è visto nel Paragrafo 10.2, fu istituito nel 1979 per porre sotto controllo l’elevata variabilità dei tassi di cambio tra le valute europee innescata dalla crisi del sistema dei cambi fissi creato a Bretton Woods nel 1944. Il sistema di Bretton Woods, come abbiamo ricordato nel Paragrafo 10.2, era entrato in crisi nel 1971 in seguito all’abbandono della convertibilità tra dollaro e oro da parte degli Stati Uniti con la conseguente svalutazione della valuta americana. Lo SME si caratterizzava come un “sistema di cambi relativamente fissi” nel quale ciascuna valuta poteva apprezzarsi o deprezzarsi all’interno di una banda di oscillazione stabilita nei confronti di una determinata parità centrale1 assegnata contro l’ECU. I tassi di cambio fra le valute di due Paesi erano pertanto definiti come rapporto fra le due parità contro l’ECU. Qualora una delle valute avesse raggiunto uno dei due valori massimi (superiore o inferiore) della banda di oscillazione consentita dagli accordi vigenti nello SME, la Banca Centrale del Paese in questione avrebbe dovuto intervenire con operazioni di sostegno della propria valuta, acquistandola o vendendola sui mercati valutari. Per tutto il periodo in cui rimase in vigore lo SME fu tuttavia caratterizzato da tre fattori di instabilità: • •
•
l’intrinseca asimmetria fra gli aggiustamenti affidati alle Banche Centrali dei Paesi deboli, da un lato, e dei Paesi forti, dall’altro; la rilevanza della scelta tra soluzioni egemoniche e soluzioni cooperative nei mercati monetari dei Paesi aderenti allo SME e dunque il problema della sovranità monetaria, ovvero del controllo della quantità di moneta; la pressione esercitata dalla mobilità internazionale dei capitali e dalle aspettative sulla capacità di mantenimento delle parità prefissate tra le valute dei Paesi aderenti.
A.10.1
L’asimmetria dello SME
Per ciò che concerne il problema dell’asimmetria, è facile comprendere come in linea generale in un sistema di cambi fissi come lo SME la natura degli aggiustamenti e 1 La banda di oscillazione era stabilita per ciascuna valuta tra + 2,25% e – 2,25%; quindi per ogni valuta era possibile un’oscillazione complessiva del 4,5%. Tale vincolo fu accettato dalla quasi totalità dei Paesi aderenti e cioè Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda e Paesi Bassi. All’Italia fu consentito l’utilizzo di una banda di oscillazione più ampia, tra + 6% e – 6%, margine che l’Italia utilizzò fino al 1990, quando decise di aderire alla banda ristretta.
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Appendice 10
degli oneri sia strutturalmente diversa per le Banche Centrali a seconda che le valute di loro competenza si trovino ai margini superiori o a quelli inferiori della banda di oscillazione. In caso di spinte a un eccessivo deprezzamento, la Banca Centrale del Paese sotto pressione dovrà, come si è visto, intervenire sul mercato cedendo valuta estera e, dunque, utilizzando le proprie riserve. Poiché non è desiderabile che una Banca Centrale si privi per intero delle riserve internazionali a sua disposizione, ne consegue che il rispetto degli accordi di cambio deve essere assicurato a lungo andare non già cedendo riserve quanto piuttosto intervenendo sulla bilancia dei pagamenti, in particolare disincentivando le importazioni di merci e/o incentivando l’afflusso netto di capitali. Ciò potrà essere ottenuto grazie a una politica monetaria restrittiva che, incrementando il tasso di interesse, deprima da un lato il livello del reddito nazionale e dunque le importazioni di beni, dall’altro il deflusso netto di capitali verso l’estero. In definitiva, il rispetto degli accordi di cambio per un Paese tendenzialmente soggetto a un deprezzamento eccessivo della propria moneta comporta prima la perdita di riserve valutarie e poi l’avvio di politiche monetarie restrittive. Diverso è il caso in cui un Paese si trovi nella situazione potenziale di un eccessivo apprezzamento della propria moneta. In questa ipotesi, l’onere dell’aggiustamento e della stabilizzazione dei cambi porterà all’inizio a un acquisto della valuta estera e quindi a un incremento delle riserve. Dovrebbe poi seguire una politica monetaria espansiva che, incrementando l’offerta di moneta e abbassando i tassi di interesse, determini un aumento del reddito e delle importazioni e quindi una diminuzione dell’avanzo della bilancia dei pagamenti. In questo secondo caso il condizionale è però d’obbligo. Esiste infatti un’asimmetria, determinata dal diverso grado di cogenza delle due situazioni di tensione valutaria: mentre la tendenza al deprezzamento determina perdite di valuta estera e quindi a lungo andare politiche economiche restrittive, necessarie per evitare l’esaurimento delle riserve, le pressioni all’eccessivo apprezzamento non implicano un vincolo altrettanto rigido. Non esistono, infatti, limiti reali all’accumulo di riserve valutarie e pertanto potrebbero verificarsi politiche di sterilizzazione, ossia le Banche centrali dei Paesi in surplus potrebbero neutralizzare l’aumento di moneta determinato dal canale estero con una riduzione di pari importo del finanziamento interno alle banche commerciali e al settore pubblico. In tal caso non si avrebbe un incremento della quantità complessiva di moneta e verrebbe quindi meno la spinta all’aumento del reddito e al conseguente riequilibrio della bilancia dei pagamenti.
A.10.2
Soluzioni egemoniche e soluzioni cooperative nello SME
Il problema dell’asimmetria dovrebbe essere adesso più chiaro: essendo stato il marco tedesco la valuta più sensibile a un apprezzamento nello SME, si sarebbe ottenuta una maggiore stabilità se la Banca Centrale tedesca (la Bundesbank) avesse accettato, nei momenti di tensione valutaria, di attuare politiche economiche espansive, piuttosto che sterilizzare gli incrementi di base monetaria connessi agli avanzi della bilancia dei pagamenti e premere affinché l’onere dell’aggiustamento spettasse invece ai Paesi con disavanzi dei conti con l’estero e con valute tendenzialmente soggette a deprezzamento. Tale atteggiamento può essere considerato come un caso particolare del cosiddetto problema dello n-esimo Paese, cioè del fatto che in un sistema a cambi fissi, come lo SME, se il tasso di interesse prevalente nell’area è quello di un determinato Paese egemone,
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Appendice 10
Soluzione egemonica Nel caso dei cambi fissi è una situazione in cui la Banca centrale di un determinato Paese ha di fatto il potere di decidere il tasso di interesse, mentre gli altri Paesi aderenti all’accordo devono accettare tale decisione. Soluzione cooperativa In questa situazione le Banche centrali di tutti i Paesi aderenti all’accordo di cambio decidono insieme il tasso di interesse.
quest’ultimo manterrà la propria indipendenza nella politica monetaria, ovvero potrà stabilire autonomamente il proprio tasso di interesse, mentre gli altri n – 1 Paesi saranno costretti a determinare un’offerta di moneta coerente con le decisioni assunte dal Paese dominante. È questo il caso della soluzione cosiddetta “egemonica”, concettualmente antitetica a quella “cooperativa” in cui sono tutti gli n Paesi a decidere concertatamene il tasso di interesse dell’area. I problemi connessi all’adozione di soluzioni egemoniche anziché cooperative possono essere ulteriormente chiariti considerando due ipotetici Paesi, I e G, aderenti a un accordo di cambio fisso. Trattandosi di un modello a due Paesi, le esportazioni del Paese I saranno pari alle importazioni del Paese G, mentre le esportazioni del Paese G saranno pari alle importazioni del Paese I. Inoltre, a seguito degli accordi di cambio, i tassi di interesse dei due Paesi, iI e iG, dovranno essere coerenti. Se dovesse prevalere una soluzione cooperativa, il tasso di interesse comune dell’area sarebbe determinato congiuntamente da I e da G. È realistico ipotizzare che in questo caso: iE = αiI + βiG e cioè che il tasso di interesse dell’area, iE, sia una media ponderata dei tassi di interesse dei due Paesi. I pesi α e β potrebbero dipendere da una molteplicità di fattori, quali per esempio la credibilità delle rispettive Banche Centrali, la rilevanza dei mercati finanziari, il peso relativo della produzione nei due Paesi. Se invece prevalesse, così com’è avvenuto nell’esperienza europea, una soluzione egemonica di G su I, ne seguirebbe che iI dovrebbe uniformarsi a iG. In tal caso il Paese leader, G, influenzerebbe il livello del reddito di I non soltanto tramite le proprie importazioni, ma anche attraverso l’effetto esercitato sul tasso di interesse e quindi sugli investimenti del Paese I.
A.10.3
Unificazione tedesca, pressioni speculative e crisi dello SME
Lo SME, come si è ricordato in precedenza, attraversò, dopo tredici anni di funzionamento instabile, una crisi irreversibile nel 1992 a seguito di avvenimenti tra loro concatenati che si possono così sintetizzare: le ripercussioni finanziarie dell’unificazione tedesca, la mobilità dei capitali internazionali e le pressioni speculative su talune valute aderenti allo SME. Tali avvenimenti possono essere sinteticamente ricostruiti nell’ambito di un semplice schema interpretativo che tiene conto di quanto è stato trattato nei capitoli precedenti. A.10.3.1
Combinazioni alternative di politica economica nella Germania unificata A seguito dell’unificazione del 1989, la politica economica tedesca mutò le sue caratteristiche strutturali che si basavano sul primato della politica monetaria e su un sostanziale adeguamento della politica di bilancio alle priorità stabilite dalla Bundesbank. L’inclusione dei Länder orientali nella struttura istituzionale ed economica della Germania Federale determinò un vistoso scollegamento tra politica fiscale e politica monetaria. Si verificò un brusco incremento delle componenti autonome della domanda aggregata e segnatamente dei consumi pubblici, degli investimenti pubblici e dei trasferi-
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Appendice 10
menti, a seguito di decisioni accettate ma non condivise dalla Bundesbank. Tali decisioni possono, del tutto schematicamente, essere ricondotte alle seguenti: •
•
•
la conversione, deliberata dal governo presieduto dal Cancelliere Kohl, dei marchi della Germania Est, gli Ostmark, nella valuta della Germania Federale, i Deutsche Mark, a un tasso di cambio unitario. Il cambio 1:1 rappresentava per la Bundesbank una sopravvalutazione eccezionalmente elevata dell’Ostmark, pari a circa tre volte il suo valore effettivo. Il Governo in effetti accettava tale sopravvalutazione proprio per incrementare significativamente il potere di acquisto dei cittadini delle regioni orientali, fortemente svantaggiati; l’estensione ai nuovi Länder del regime retributivo e normativo e del sistema di protezione e di sicurezza sociale goduti dai lavoratori dipendenti della Germania Federale; l’erogazione di massicce incentivazioni finanziarie per l’ammodernamento della struttura industriale orientale e l’attuazione di programmi capillari di investimenti pubblici in infrastrutture.
Tutto ciò implicò che il mix di politica economica che si delineava nel quinquennio successivo all’unificazione si caratterizzasse per una politica fiscale espansiva e per una politica monetaria restrittiva e timorosa delle conseguenze inflazionistiche dei crescenti disavanzi del bilancio pubblico. Riprendiamo a questo proposito le considerazioni svolte nel Capitolo 6 a proposito del mix di politica monetaria e di politica fiscale, ricostruendo e articolando lo schema IS-LM nella Figura A.10.1.
Figura A.10.1 Mix alternativi di politica economica dopo l’unificazione tedesca
i IS1 LM2
IS
LM LM1
E′′′ i2
E′′
i1 i0
E′
E
Y0 Y3
Y2
Y1
Y
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Appendice 10
Dalla figura si nota come, muovendo da un punto di equilibrio E determinato dall’incrocio delle rette IS e LM, un incremento della spesa pubblica e/o una diminuzione della tassazione trasli la funzione IS in IS1. Gli esiti finali sul livello del reddito saranno del tutto diversi a seconda delle decisioni che saranno prese dalle autorità monetarie. Se esse vorranno assumere un atteggiamento accomodante per consentire la massima efficacia della politica fiscale espansiva, incrementeranno l’offerta di moneta in modo tale da mantenere inalterato il tasso di interesse di mercato. È questa la soluzione relativa all’equilibrio E′, in cui il reddito aumenta da Y0 a Y1 e il tasso di interesse rimane invariato al valore i0. Questa ipotesi nel Capitolo 6 è stata definita come il caso di accomodamento monetario dell’espansione fiscale. Ma le autorità monetarie potrebbero, in linea di principio, optare per decisioni diverse: per esempio, potrebbero mantenere inalterata la quantità di moneta, nel qual caso l’equilibrio tra la LM e la IS1 determinerebbe un reddito superiore a quello iniziale, Y0, ma inferiore a Y1. Il tasso di interesse salirebbe infatti a i1 in ragione della maggiore domanda di moneta transattiva, determinando uno “spiazzamento” degli investimenti privati. Nel caso estremo in cui la Banca Centrale ritenesse dannoso, ovvero potenzialmente inflazionistico, l’incremento del disavanzo pubblico, potrebbe addirittura contrarre la quantità di moneta, trasponendo verso sinistra la curva LM in LM2, determinando un maggiore incremento del tasso di interesse, in i2, e un incremento pressoché nullo del reddito, in Y3. Il caso limite è quello di una politica monetaria che contragga l’offerta di moneta in misura tale da vanificare del tutto l’incremento della spesa pubblica. L’analisi dei mix possibili di politica economica ci aiuta a comprendere quanto si verificò in Germania a seguito dell’unificazione: una politica monetaria della Bundesbank assai poco accomodante determinò tensioni sul tasso di interesse, che subì successivi incrementi come quelli rappresentati nell’equilibrio E′′′ della Figura A.10.1. A.10.3.2 Mobilità dei capitali e opzioni per i Paesi aderenti allo SME L’incremento dei tassi di interesse tedeschi all’inizio degli anni Novanta si tradusse, in base ai principi della determinazione non cooperativa delle principali variabili monetarie all’interno dello SME, in un aumento generalizzato dei tassi di interesse di tutti gli altri Paesi. Tale fenomeno si accompagnò alla progressiva tendenza in atto non soltanto in Europa, ma in campo mondiale, verso la perfetta mobilità dei capitali. Come si è avuto modo di osservare nel Capitolo 7, una situazione di perfetta mobilità dei capitali implica che il tasso di interesse nazionale non possa discostarsi da quello prevalente sui mercati finanziari internazionali (if) pena la formazione di un deflusso o di un afflusso potenzialmente infinito di capitali finanziari. Ovvero: i = if
[1]
Sotto queste ipotesi, come si è visto, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti può essere raggiunto solo nel caso in cui l’Equazione [1] sia soddisfatta e la curva BP, ovvero l’insieme delle combinazioni dei valori del tasso di interesse e del livello del reddito che assicurano l’equilibrio esterno, sia una retta orizzontale, parallela all’asse delle ascisse. Nel caso delle economie aderenti allo SME, le ipotesi relative all’incremento del tasso di interesse del Paese leader, la Germania, possono essere rappresentate nella Figura A.10.2. Nella figura si ipotizza che, in regime di perfetta mobilità dei capitali, uno Stato europeo diverso dalla Germania si trovi in un equilibrio di tipo E, a un livello del reddito Y0 e un tasso di interesse interno esattamente pari a quello internazionale if. Il
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Appendice 10
i
IS1
Figura A.10.2 Effetti di una variazione del tasso di interesse tedesco per gli altri Paesi dello SME
LM1
IS LM
i = if′
E2
E1 E
Y1
Y0
BP ′ = 0 BP = 0
i = if
Y2
Y
punto E, si ricorderà, determina sia l’equilibrio interno, poiché giace lungo le rette IS e LM, sia l’equilibrio esterno, poiché interseca la retta BP. Se il tasso di interesse di riferimento, determinato sul mercato monetario tedesco, subisce una trasposizione verso l’alto, portandosi in i′f , sarà inevitabile che gli altri Paesi aderenti all’accordo di cambio adeguino il proprio tasso di interesse al nuovo livello per soddisfare la condizione dell’equilibrio esterno: i = i′f
355
[1a]
Ma, come si evince dalla Figura A.10.2, il raggiungimento dell’equilibrio interno al nuovo valore di i = i′f può avvenire mettendo in atto due combinazioni di politiche monetarie e fiscali diametralmente opposte, sintetizzate dalle posizioni di equilibrio E1 ed E2. Questi due punti descrivono efficacemente le opzioni che erano a disposizione dei Paesi dello SME all’indomani dell’unificazione tedesca. La prima opzione era quella di rimanere all’interno del sistema, mantenendo fisso il tasso di cambio. In questo caso l’aumento del tasso di interesse in Germania avrebbe creato le condizioni per una fuga di capitali e quindi, nel caso dell’Italia, per un deprezzamento della lira. Per difendere il cambio la Banca d’Italia sarebbe quindi stata costretta a cedere valuta estera per soddisfare la domanda di fondi da investire all’estero. Così facendo avrebbe ridotto l’offerta di moneta e fatto aumentare il tasso di interesse sino al nuovo livello internazionale (i′f). Questa situazione è rappresentata nella Figura A.10.2 dallo spostamento della LM nella posizione LM1 e dalla nuova posizione di equilibrio E1. In corrispondenza di E1, come si può notare, il nuovo livello di equilibrio del reddito, Y1, è inferiore a Y0.
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356
Appendice 10
La seconda opzione era quella di uscire dallo SME e passare a un regime di cambi flessibili, al fine di evitare la contrazione monetaria necessaria per rispettare gli accordi di cambio dello SME. In tal caso la Banca d’Italia avrebbe potuto lasciare inalterata l’offerta di moneta consentendo al sistema economico di raggiungere l’equilibrio al nuovo tasso di interesse tramite il deprezzamento della lira: quest’ultimo, infatti, avrebbe fatto aumentare le esportazioni, determinando graficamente una trasposizione verso l’alto della curva IS in IS1. La posizione di equilibrio di questa opzione, rappresentata da E2, è caratterizzata, come si può notare, da un livello del reddito Y2 superiore a quello iniziale Y0. Nel Paragrafo 10.2 si è accennato alla profonda e irreparabile crisi attraversata dallo SME nel 1992, a seguito della quale solo il franco francese, tra le valute dei Paesi più importanti dell’Europa, rimase ancorato al marco tedesco, mentre la sterlina inglese e la lira italiana decidevano di abbandonare, sia pure temporaneamente, il sistema europeo di cambi fissi. Alla luce della rappresentazione della Figura A.10.2 si può quindi concludere, sia pure semplificando, che la Francia perseguì un equilibrio del tipo E1, mentre la Gran Bretagna e l’Italia optarono per equilibri del tipo E2. L’esperienza degli anni successivi dimostra tuttavia che il vantaggio competitivo concesso all’Italia dalla svalutazione della lira in seguito all’uscita dallo SME è durato poco a causa del maggior tasso di inflazione (si veda la Figura 3.11 nel Capitolo 3) e quindi della caduta del tasso di cambio reale rispetto alla Germania e ad altri Paesi virtuosi europei. Un rischio analogo – inflazione, fuga di capitali, svalutazione, aumento dei tassi d’interesse, esplosione del debito pubblico – si presenterebbe del resto anche in caso di uscita dell’Italia dall’euro.
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Macroeconomia dell’Unione Economica e Monetaria europea
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Mappa concettuale
Paragrafo 10.1 Introduzione della moneta unica europea
Paragrafo 10.2 Da Bretton Woods al Sistema Monetario Europeo Capitolo 6 Politica monetaria e politica fiscale Capitolo 7 Legami economici internazionali
Capitolo 7 Legami economici internazionali
Paragrafo 10.3 Il Rapporto Delors, il Trattato di Maastricht e l’avvio dell’Unione Economica e Monetaria (UEM)
Paragrafo 10.4 I criteri di convergenza del Trattato di Maastricht
Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito Capitolo 15 Aggiustamenti internazionali e interdipendenza
Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito
Paragrafo 10.5 Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC)
Capitolo 4 Reddito e spesa
Paragrafo 10.6 La Grande Recessione del 2008-09 e la crisi dei debiti sovrani nell’UEM
Capitolo 14 Mercati finanziari
Paragrafo 10.7 L’Europa a due velocità: i vincoli della competitività e dell’indebitamento con l’estero Paragrafo 10.8 L’integrazione incompiuta e i limiti della politica economica europea
Capitolo 13 Banca Centrale, moneta e credito
Paragrafo 10.9 Conclusione
Capitolo 15 Aggiustamenti internazionali e interdipendenza
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Parte IV
Basi del comportamento degli operatori economici: un approfondimento
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Capitolo 11
Consumo e risparmio
Obiettivi di apprendimento • In questo capitolo ci occuperemo della più importante componente della domanda aggregata: i consumi delle famiglie. • Illustreremo la differente rilevanza attribuita dalle diverse teorie sul consumo alla propensione marginale al consumo del reddito transitorio. • Spiegheremo poi perché, secondo le moderne teorie del consumo, l'andamento
del consumo dovrebbe essere più regolare di quello del reddito. • Descriveremo quindi quali ulteriori meccanismi influenzano i comportamenti reali delle famiglie rispetto al consumo. • Infine, faremo una panoramica della dinamica del consumo e del risparmio negli Stati Uniti e in Italia negli ultimi decenni.
11.1 Introduzione alle evidenze empiriche del consumo Il consumo è la componente predominante della domanda aggregata, con una quota superiore a quella di tutte le altre componenti messe insieme. Tale quota è pari a circa il 60% in Italia, mentre negli Stati Uniti è anche più importante e si attesta attorno al 70%. Inoltre, le fluttuazioni del consumo sono proporzionalmente più ridotte di quelle del PIL. Questi due elementi costituiscono il tema del presente capitolo. Cercheremo di capire che cosa determina il comportamento relativo al consumo e, in particolare, qual è il legame dinamico tra consumo e reddito. Il modello illustrato nel Capitolo 4 indicava il consumo come semplice funzione del reddito corrente; ora esamineremo alcune teorie più avanzate. La tesi centrale è che il consumo effettuato nel corso della vita è correlato al reddito percepito nell’arco dell’intera vita, ma il legame tra il consumo dell’anno corrente e il reddito dell’anno corrente è abbastanza debole. La discussione stimolata dalle differenti teorie del consumo può essere interpretata come un dibattito sull’entità, grande o piccola, della propensione marginale al consumo (MPC, dall’inglese Marginal Propensity to Consume). Secondo i primi modelli basati sull’ipotesi empirica keynesiana di una “legge psicologica fondamentale”, la MPC è elevata, mentre le teorie moderne fondate sulle decisioni razionali del consumatore indicano talvolta una MPC molto bassa. Nei modelli macroeconomici introduttivi, la propensione marginale al consumo, c, determina in modo diretto il moltiplicatore, 1/(1 – c). Anche nei modelli più complessi, un’alta MPC dà origine a un elevato moltiplicatore. Le teorie moderne, che discuteremo tra breve, attribuiscono
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Capitolo 11
Beni di consumo durevoli Beni di consumo che forniscono un servizio per un certo periodo di tempo; un esempio sono i frigoriferi.
valori diversi alla propensione marginale al consumo in relazione a variazioni di reddito che si prevede abbiano durata diversa. La MPC relativa al reddito che il consumatore ritiene permanente è elevata, come nei primi modelli elaborati, mentre quella relativa a un reddito transitorio è prossima allo zero. Prima di addentrarci nelle teorie e nei dati propri degli attuali modelli di consumo, soffermiamoci su un modello indicativo al fine di descrivere l’elemento centrale della teoria moderna del consumo e le sue insidie. Supponiamo che il nostro futuro si divida in due periodi: “corrente” e “futuro”; dove il primo indica l’anno in corso e il secondo il resto della propria vita, diciamo i prossimi 99 anni. Se guadagniamo Y corrente quest’anno e Y futuro in ogni anno successivo, il reddito percepito nel corso dell’intera vita ammonterà a Y corrente + 99 × Y futuro. Supponiamo inoltre che l’obiettivo sia di mantenere un tenore di vita costante, senza eccessi né restrizioni; se si prevede di consumare C ogni anno, la spesa nel corso dell’intera vita ammonterà a 100 × C. Distribuendo il reddito complessivo sui consumi complessivi, si ottiene una funzione del consumo indicativa C = (Y corrente + 99 × Y futuro)/100. Se quest’anno il nostro reddito dovesse aumentare di 1000 euro (il solo Y corrente), il consumo aumenterebbe di soli 10 euro all’anno. La propensione marginale al consumo di breve periodo sarebbe di appena 0,01, perché il reddito extra residuo verrebbe risparmiato per far fronte ai consumi futuri. Al contrario, se il nostro reddito dovesse aumentare stabilmente di 1000 euro (sia Y corrente sia Y futuro), il nostro consumo aumenterebbe della stessa misura, quindi la propensione marginale di lungo periodo sarebbe uguale a 1. Il nostro modello indicativo illustra gli elementi chiave della teoria moderna del consumo, ma probabilmente ognuno di voi avrà già individuato diverse ragioni per non essere del tutto soddisfatto da questa semplice spiegazione. In questo capitolo esaminiamo i punti di forza e di debolezza della teoria moderna del consumo, cominciando dall’osservazione dei dati. Le Figure 11.1, 11.2 e 4.2a spiegano i concetti alla base di questo capitolo. Nella Figura 11.1 è tracciato l’andamento, negli Stati Uniti, delle variazioni del consumo e del reddito disponibile pro capite. Nella contabilità nazionale i beni di consumo sono suddivisi in beni di consumo non durevoli (per esempio i generi alimentari), servizi (per esempio il taglio dei capelli) e beni di consumo durevoli (per esempio i frigoriferi). La teoria del consumo che studiamo e i dati che presenteremo valgono per i beni di consumo non durevoli e i servizi; il “consumo” di beni durevoli rappresenta in larga misura una forma di investimento da parte delle famiglie, tuttavia nei conti economici nazionali non rientra fra gli investimenti. Mentre oscillazioni del reddito di durata pari a 5 o 10 anni sono accompagnate da fluttuazioni grosso modo equivalenti del consumo, quest’ultimo, invece, non risulta essere molto sensibile a variazioni del reddito a breve termine. Se si osserva la Figura 11.1 si nota, infatti, come negli anni 1975, 1993, 2001 e 2008 fluttazioni consistenti del reddito non sono state seguite da variazioni altrettanto consistenti del consumo. Le oscillazioni del reddito a lungo termine modificano il consumo, al contrario di quelle a breve termine; in altre parole, nel lungo periodo la propensione marginale al consumo è elevata, mentre nel breve periodo è bassa. La Figura 11.2 mette a confronto il consumo nel trimestre corrente con quello registrato nel trimestre precedente, sempre negli Stati Uniti. La formula della retta tracciata nel diagramma a punti è la seguente: Ct = $ 85,35 + 1,0006 Ct – 1. Il consumo del trimestre corrente si può prevedere, dunque, con precisione quasi assoluta partendo dal consumo del trimestre precedente e tenendo conto di un modesto incremento. Nel Paragrafo 11.2 vedremo che tale relazione è il risultato del legame esistente tra consumo corrente e reddito futuro atteso.
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Consumo e risparmio
Figura 11.1 Variazioni del consumo e del reddito disponibile pro capite negli Stati Uniti, 1959-2015 Le variazioni del reddito disponibile e del consumo pro capite sono strettamente correlate, sebbene il secondo sia meno instabile del primo. Il consumo non è molto sensibile ai “picchi” positivi o negativi (oscillazioni a breve termine) del reddito.
7,0 6,5 6,0
Reddito disponibile pro capite
5,5 5,0 4,5 4,0 3,5 3,0 Variazione (%)
363
2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0
(Fonte: Federal Reserve Economic Data - FRED e calcoli degli Autori.)
–0,5 –1,0 –1,5 –2,0 –2,5 Consumo pro capite
–3,0 –3,5
–4,0 1959 1963 1967 1971 1975 1979 1983 1987 1991 1995 1999 2003 2007 2011 2015
Una moderna teoria del consumo deve riuscire a spiegare le Figure 11.1 e 11.2. Le teorie keynesiane originali, di fronte a dati come quelli illustrati nella Figura 4.2a, sostenevano che il consumo corrente segue da vicino il reddito corrente e non cercavano di distinguere le variazioni del reddito in temporanee e permanenti. Nei capitoli precedenti abbiamo ipotizzato che il consumo (C) sia determinato dal reddito disponibile (YD) attraverso la semplice relazione lineare: – C = C + cYD
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