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Italian Pages 146 [54] Year 2022
Giuseppe Patota
L'UNIVERSO IN ITALIANO LA LINGUA DEGLI SCRITTI COPERNICANI DI GALILEO LINGUISTICA Celebrato come esempio inarrivabile nella storia universale della scienza, nel mondo degli studi linguistici Galileo è anche considerato il capostipite dell’italiano scientifico pienamente maturo. Molti aspetti della sua lingua, però, non sono stati ancora indagati e quasi tutti i giudizi ammirati sulla prosa del grande scienziato non sono sorretti da un’analisi puntuale e sistematica delle forme, delle parole e delle strutture che convergono a definirla. Questo libro intende contribuire a colmare tale lacuna, approfondendo alcuni aspetti della lingua e dello stile dei cosiddetti "scritti copernicani" di Galileo, che hanno svolto un ruolo cruciale nella elaborazione del suo pensiero. Dopo aver analizzato nel dettaglio la lingua della "Lettera a Benedetto Castelli" del 21 dicembre 1613, l’autore si sofferma su diversi aspetti della sintassi e della testualità della "Lettera a Cristina di Lorena", per proporre infine un’interpretazione inedita delle cosiddette "Considerazioni circa l’opinione copernicana". Giuseppe Patota insegna Linguistica italiana nell’Università di Siena ed è attualmente distaccato presso l’Accademia dei Lincei per un progetto di ricerca sulla lingua di Galileo. Con il Mulino ha pubblicato "Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano" (2007), "Bravo!" (2016) e "La Quarta Corona. Pietro Bembo e la codificazione dell’italiano scritto" (2017). Editore: Il Mulino Pubblicazione online: 2022 Isbn edizione digitale: 9788815371140 DOI: 10.978.8815/371140 Pubblicazione a stampa: 2022 Isbn edizione a stampa: 9788815298515 Collana: Studi e Ricerche Pagine: 146
RINGRAZIAMENTI Questo lavoro è parte di una ricerca triennale sulla lingua di Galileo Galilei che sto svolgendo in qualità di professore distaccato presso il Centro linceo interdisciplinare «Beniamino Segre». Se le osservazioni e le considerazioni sparse e frammentarie che ho prodotto nel primo segmento temporale di questa ricerca hanno preso la forma di un libro, il merito è dei consigli e dei suggerimenti di un grande galileista che è anche un caro amico: Massimo Bucciantini. Se il loro contenuto potrà interessare la comunità degli studiosi, il merito, oltre che suo, è di altri amici e colleghi che mi hanno aiutato con i loro consigli e la loro disponibilità: Ebe Antetomaso, Franco Giudice, Noël Golvers, Marco Guardo, Susanna Panetta, Alessio Ricci e il mio maestro Luca Serianni. A me rimangono gli errori, i dubbi irrisolti e uno stato d’animo simile a quello che Giovanfrancesco Sagredo comunicò per lettera a Galileo il 30 aprile 1609: «Qui mi si è destato un desiderio così ardente di sapere infinite cose, che maledico, mille volte l’hora, la mia ignoranza et il tempo perduto nell’otio che dovevo et potevo consumare ne’ studii».
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Darwinbooks: L'universo in italiano
Giuseppe Patota L'universo in italiano La lingua degli scritti copernicani di Galileo
Introduzione Abstract Di fronte alla ridotta ricerca filologica e storico-linguistica, questo testo si propone di intraprendere una riflessione critica sulla lingua di Galileo Galilei prendendo in esame tre scritti: Lettera a D. Benedetto Castelli, Lettera a Cristina di Lorena e Considerazioni circa l’opinione copernicana. La scelta di questi tre testi è dettata dal peso epistemologico che questi hanno nel quadro più generale degli scritti galileiani. Ad esempio, si mostrano le occorrenze dei binomi “dimostrazione necessaria” e “sensata esperienza”. Vista la maggiore attenzione agli aspetti storici, scientifici e filosofici dello scienziato, si vuole colmare tale divario. A favore di tale ricerca, si ricorda l’influenza dell’italiano di Galilei nei vocabolari della Crusca. Nel 1965 Bruno Migliorini, pur riconoscendo l’impegno di coloro che avevano rivolto la loro attenzione allo stile e al gusto critico di Galileo, lamentava una forte disparità, sia in termini quantitativi sia in termini qualitativi, fra gli studi che gli storici della scienza e del pensiero filosofico e scientifico da una parte e i filologi e gli storici della lingua italiana dall’altra avevano dedicato al grande scienziato [1] . Quasi cinquant’anni dopo Michele Cortelazzo ha giudicato quella disparità di molto ridimensionata: «oggi – il contributo in cui lo studioso esprime questa valutazione è del 2014 – possiamo dire con soddisfazione che della lingua di Galilei, ma anche delle sue osservazioni metalinguistiche e dei suoi interventi lessicografici, sappiamo molte cose, sia sul versante primario, quello italiano, sia sui versanti, ai nostri occhi secondari ma comunque importanti, del latino e pavano» [2] . Cortelazzo attribuisce giustamente gran parte del merito di questi progressi a Maria Luisa Altieri Biagi, che a una monografia del 1965 dedicata a Galileo e la terminologia tecnicoscientifica ha fatto seguire, nel corso degli anni, numerosi altri interventi, fino alla sintesi rappresentata dalla voce Galileo Galilei da lei allestita per {p. 8}
l’Enciclopedia dell’Italiano diretta da Raffaele Simone e pubblicata nel 2010 dall’Istituto della Enciclopedia Italiana [3] . Senza sottrarre un capello – per usare un’unità di misura cara a Galileo – all’importanza degli studi sulla lingua dello scienziato di Maria Luisa Altieri Biagi, proprio perché l’opera di Galileo non è certo «meno ricca di interesse per gli storici della lingua che per quelli della scienza, della filosofia e della letteratura» [4] , credo che i primi (dico gli storici della lingua) debbano lavorare ancora molto per accorciare davvero la distanza che, in merito alla conoscenza di Galileo, tuttora li separa dai secondi (dico gli storici della scienza). Una parte consistente dell’italiano dello scienziato è ancora da studiare, in sé e nei suoi rapporti con l’italiano (o meglio, con gli italiani) e col latino di coloro che prima di lui si erano impegnati a scrivere, se non di scienza pura, quanto meno di scienza applicata in lingua volgare. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo è l’unica opera galileiana di cui siano stati esplorati a fondo e con sistematicità l’assetto morfologico, sintattico e testuale [5] ; {p. 9}
con tutto ciò, diversi tratti linguisticamente significativi che caratterizzano questo scritto (per esempio, i cosiddetti connettivi semantici, che realizzano i collegamenti logici e referenziali di causa-effetto, prima-dopo, condizione-conseguenza, opposizione, concessione, conclusione e così via) sono ancora «tutti da indagare» [6] . Dialogo a parte, l’assenza di specifiche analisi linguistiche che Laura Ricci ha lamentato a proposito dell’epistolario [7] riguarda molti altri scritti di Galileo. Ci sono note le ragioni che spinsero lo scienziato a preferire il volgare al latino e le ripercussioni che una tale scelta ebbe sulla storia della scienza in generale e della lingua italiana in particolare [8] ; sappiamo quanto {p. 10}
egli abbia accolto e quanto abbia innovato nel settore della terminologia tecnico-scientifica [9] (ma anche in quest’àmbito arrivano, di tanto in tanto, sorprese) [10] ; siamo bene informati sull’impatto che le sue scelte terminologiche ebbero non solo sul Vocabolario degli Accademici della Crusca (a partire dall’impressione del 1623) ma anche su altri importanti vocabolari italiani ed europei [11] ; un eccellente consuntivo ha dato conto del suo interesse per la tradizione letteraria pavana, complementare alla valorizzazione del toscano [12] . Ma non abbiamo studi monografici sull’italiano scientifico di Galileo applicati a scritti diversi dal Dialogo, e quasi tutti i giudizi ammirati sulla prosa del grande scienziato non sono sorretti da un’analisi dei materiali linguistici che convergono a formarla [13] . {p. 11}
I tre capitoli di cui si compone questo libro aspirano a colmare una piccola parte di questo vuoto. Sono dedicati, nell’ordine, ad alcuni aspetti della lingua della Lettera a D. Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613, ad alcuni aspetti della sintassi e della testualità della Lettera a Cristina di Lorena e alla prima delle cosiddette Considerazioni circa l’opinione copernicana [14] . {p. 12}
Il peso avuto da questi scritti nella fondazione e definizione dell’epistemologia galileiana e nell’individuazione degli spazi rivendicabili alla nuova scienza è stato misurato e più volte segnalato da storici, filosofi, scienziati e anche teologi; lo storico della lingua può soltanto aggiungere che la loro centralità è confermata anche da un piccolo censimento lessicale. Non c’è testo – scientifico, scolastico o divulgativo – dedicato al pensiero di Galileo intorno alla struttura logica e alla metodologia delle scienze che non ricordi che esso si fonda sul binomio formato dalla correlazione tra dimostrazioni necessarie (o certe) e sensate esperienze. Tralasciando decine (se non centinaia) di riferimenti possibili, mi limito ad allegare la sintesi che segue, risalente al 2010: Con il binomio «sensate esperienze» e «matematiche» o «certe» o «necessarie dimostrazioni» si distingue il metodo sperimentale, che caratterizza la nuova scienza, dal procedere epistemologico tradizionale, in cui l’esperienza sensibile serviva a suffragare conclusioni raggiunte con un processo filosofico e astratto. Anche Aristotele e la scolastica, con il loro campione Simplicio, fondano la conoscenza sull’esperienza «sensata», base e fondamento della scienza della natura. La differenza però è abissale. Il concetto rozzamente empirico dell’esperienza è trasformato da Galileo in un procedimento mentale e metodico. Le «sensate esperienze» sono una tappa del percorso verso la matematizzazione della conoscenza, che è la sola via sicura per la scienza. I due momenti [quello della «sensata esperienza» e quello della «necessaria dimostrazione»] sono inscindibili e connessi {p. 13} https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/7
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da un rapporto dinamico, che va dall’impostazione delle esperienze alla verifica attraverso l’osservazione, senza soluzione di continuità [15] . C’è poco da aggiungere e niente da sottrarre a queste considerazioni, se non due informazioni: 1) la formula italiana dimostrazione necessaria, calco dell’espressione scolastica latina «demonstratio necessaria» [16] , è attestata, prima che negli scritti di Galileo, nel Convivio dantesco [17] ; 2) nell’insieme delle sue opere, Galileo qualifica sia la dimostrazione sia l’esperienza anche con altri aggettivi, qualificativi e di relazione [18] . Presenta la prima come acuta, assoluta, astratta, bella o bellissima, breve, buona, certa o certissima, chiara o chiarissima, concludente o concludentissima, difettosa, difficile, esattissima, evidente, facile o facilissima, fallace o fallacissima, falsa o falsissima, ferma o fermissima, gentilissima, geometrica, ingegnosa, insolubile, matematica, naturale, nuova, oscura, ottica, palpabile, particolare, perfetta, potentissima, potissima, profonda, pura {p. 14}
o purissima, recondita, salda o saldissima, scelta, schietta, serrata, sottile, (non) triviale, umana, universalissima, vera e verace [19] ; e la seconda, di volta in volta, come accomodata, acconcia, agevole, aggiustata, apparente ‘evidente’, artificiale, bella, buona, certa, chiara o chiarissima, concludente, concorde, efficace, esatta o esattissima, esquisita, evidente o evidentissima, facile, fallace, falsa o falsissima, familiare, favorevole, ferma o fermissima, frequente, ignota, impossibile, ingegnosa, lunga, maggiore, manifesta, migliore, mirabile, notissima, opportuna, palpabile, particolare, propria, puerile, quotidiana, replicata, sicura, speditissima, tritissima, vera o verissima e visibile [20] . {p. 17}
Ma i due aggettivi che accompagnano più spesso i sostantivi dimostrazione ed esperienza sono proprio necessaria e sensata. {p. 18}
Il più alto numero di occorrenze del secondo sintagma – sensata esperienza (o esperienza sensata o sensate esperienze o esperienze sensate) – si registra nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (12 occ.) e nella Lettera a Cristina di Lorena (8 occ.) [21] . Il primo sintagma – dimostrazione necessaria (o necessaria dimostrazione o dimostrazioni necessarie o necessarie dimostrazioni) – si addensa nella Lettera a Cristina di Lorena (11 occ.) anche più che nel Dialogo (5 occ.) [22] . La Lettera a Cristina e gli altri due scritti copernicani di cui mi occupo in questo libro sono anche gli unici in cui i due sintagmi convergono nel binomio di cui si è detto. La formula che comprende sia la sensata esperienza sia la dimostrazione necessaria si trova in un luogo della Lettera a D. Benedetto Castelli (1 occ.) riproposto quasi parola per parola nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), poi nella stessa Lettera a Cristina di Lorena (altre 4 occ.) e {p. 19}
infine nella seconda delle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.) [23] . Questo dato statistico conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la centralità di questi tre scritti nella definizione e illustrazione della proposta epistemologica di Galileo. In questo libro ho cercato d’indagare l’assetto formale dei primi due, dando conto, nel primo capitolo, della for {p. 20}
ma grafica, fonomorfologica e sintattica della Lettera a D. Benedetto Castelli così come si presenta nella minuta autografa rinvenuta nel 2018 da Salvatore Ricciardo nel fondo Early Letters della Royal Society Library ed esaminando, nel secondo capitolo, la sintassi e la testualità della Lettera a Cristina di Lorena così come si presenta nella stesura più vicina al testo originale del 1615, tràdita dal codice Bardi III 194 dell’Archivio di Stato di Firenze, che poco più di un decennio fa Ottavio Besomi ha restituito all’attenzione degli studiosi. Infine, nel terzo capitolo ho formulato un’ipotesi interpretativa in merito al primo dei restanti tre testi, tradizionalmente indicati come Considerazioni circa l’opinione copernicana. Note [1] Cfr. Bruno Migliorini, Premessa a Maria Luisa Altieri Biagi, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Firenze, Olschki, 1965, pp. V-VI. [2] Michele Cortelazzo, Le lingue di Galileo Galilei, in «Il Nuovo Saggiatore», n.s. 30, 5, settembre-ottobre 2014 e 6, novembredicembre 2014, pp. 38-45, citazione a p. 39. [3] Maria Luisa Altieri Biagi, v. Galilei, Galileo, in Enciclopedia dell’Italiano diretta da Raffaele Simone, 2 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010-2011, vol. I, pp. 548-551, consultabile anche in rete all’indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/galileogalilei%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/. [4] Lorenzo Tomasin, Galileo e il pavano: un consuntivo, in «Lingua nostra», XXXIX, 2008, pp. 23-36; citazione a p. 23. [5] Al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo sono interamente ed esclusivamente dedicati i due studi di Maria Luisa Altieri Biagi, Sulla sintassi dei «Massimi Sistemi» e L’«incipit» dei «Massimi Sistemi» e altre note in margine al «Dialogo» galileiano, in Ead., L’avventura della mente, Napoli, Morano, 1990, pp. 35-85 e 87-131; dal Dialogo sono tratti tutti i materiali linguistici analizzati e descritti nella voce di Altieri Biagi cit. in nota 3; sono circoscritte al Dialogo le indagini di Alessio Ricci, Leggendo il «Dialogo». Ricerche sulla fonomorfologia di Galileo, in «Studi Linguistici Italiani», XLIII, 2017, I, pp. 57-105 e di Laura Ricci, I segnali discorsivi nel «Dialogo» di Galilei, in «Studi Linguistici Italiani», XLIII, 2017, II, pp. 161-204; sono limitati a quest’opera anche i riscontri galileiani offerti da Francesca Irene Koban in un articolo dedicato alla Sintassi della «Ricreazione del savio» di Daniello Bartoli, in «Stilistica e metrica italiana», 11, 2011, pp. 51-110. Tre felici eccezioni sono rappresentate da uno studio di Raffaella Setti (Eleganza e precisione nelle descrizioni «lunari» di Galileo, in AA.VV., La lingua di Galileo, a cura di Elisabetta Benucci e Raffaella Setti Simone, Firenze, Accademia della Crusca, 2013, pp. 49-65) e da uno di Laura Ricci (Galilei, il «cerchio magico» e gli avversari: il registro polemico nella corrispondenza, in Prospettive galileiane. Aggiornamenti e sviluppi degli studi su Galileo, a cura di Veronica Ricotta e Claudia Tarallo, premessa di Lucinda Spera, Pisa, Pacini, 2015, pp. 31-49), nei quali si indagano alcuni aspetti testuali della Lettera al Principe Leopoldo di Toscana sul candore lunare e di alcune sezioni dell’Epistolario, e infine dalle considerazioni che Anna-Maria De Cesare dedica all’insieme della produzione scientifica di Galileo nel secondo capitolo del quinto volume della Storia dell’italiano scritto, riconoscendo e argomentando la novità complessiva delle sue scelte quanto a codice, generi testuali e strutture linguistiche: cfr. AnnaMaria De Cesare, Tipologie testuali e modelli, in Storia dell’italiano scritto. V. Testualità, a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin, Roma, Carocci, 2021, pp. 57-85, in part. pp. 75-79. [6] Cfr. Ricci, I segnali discorsivi nel «Dialogo» di Galilei, cit., pp. 163-164, citazione a p. 163. [7] Cfr. Ead., Galilei, il «cerchio magico» e gli avversari, cit., p. 31. https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/7
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[8] Cfr. Bruno Migliorini, Galileo e la lingua italiana, in Id., Lingua e cultura, Roma, Tumminelli, 1948, pp. 135-158; Paola Manni, Galileo accademico della Crusca, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana. Atti del Congresso Internazionale per il IV Centenario dell’Accademia della Crusca. Firenze, 29 settembre-2 ottobre 1983, Firenze, presso l’Accademia, 1985, pp. 119-136; Yorick Gomez Gane, «Et il tutto resti “inter nos”»: Galileo Galilei tra italiano e latino, in «Rationes Rerum», 6, luglio-dicembre 2015, pp. 161188 e soprattutto Marco Bianchi, Galileo in Europa. La scelta del volgare e la traduzione latina del «Dialogo sopra i due massimi sistemi», Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2020, in part. le pp. 15-95. [9] Cfr. Altieri Biagi, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, cit.; Ead., Lingua della scienza fra Seicento e Settecento (1976), in Ead., L’avventura della mente, cit., pp. 169-218; Paola Manni, La terminologia della meccanica applicata nel Cinquecento e nei primi decenni del Seicento, in «Studi di Lessicografia Italiana», II, 1980, pp. 139-213 e Ead., Scavi nel lessico galileiano, in La lingua di Galileo, cit., pp. 89-105. [10] Mi permetto di rinviare a Giuseppe Patota, Occhiale, cannone, cannocchiale e telescopio: una storia lincea, in «Galilaeana», XVIII, 2021, pp. 1-28. [11] Cfr. Severina Parodi, Fortuna lessicografica di Galileo, in «Studi di Lessicografia Italiana», VI, 1984, pp. 233-257; Manni, Galileo accademico della Crusca, cit., pp. 128-132 ed Elisabetta Benucci, Fortuna lessicografica di Galileo nella quinta edizione del «Vocabolario degli Accademici della Crusca», in La lingua di Galileo, cit., pp. 67-81. [12] Cfr. Tomasin, Galileo e il pavano, cit. [13] Sono quelli che possono leggersi in Umberto Bosco, Galileo scrittore, in «La Cultura», XI, 1932, pp. 110-118 (poi riproposto col titolo di Gusto letterario primo-rinascimentale di Galileo, in Id., Saggi sul Rinascimento italiano, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 159168); Natalino Sapegno, Galileo scrittore (1942), poi in Id., Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, pp. 247-267; Raffaele Spongano, La prosa di Galileo (1949) e Galileo scrittore (1956), poi in «Studi e Problemi di Critica Testuale», XLII, 1991, pp. 93-109 e 109-121; Tristano Bolelli, Lingua e stile di Galileo, in «Supplemento» al vol. II, serie X, del «Nuovo Cimento» (1955), pp. 1173-1192; Enrico Falqui, La prosa scientifica del Seicento italiano, in Libera Cattedra di Storia della civiltà fiorentina, Il Sei-Settecento, Firenze, Sansoni, 1956, pp. 25-88, in part. 33-38; Giorgio Varanini, Alcuni appunti sulla prosa di Galileo, in Id., Galileo critico e prosatore. Note e ricerche, Verona, Fiorini & Ghidini, 1967, pp. 91-107. L’autorevolezza di queste firme non toglie che il loro giudizio, «asserito più che dimostrato, andrebbe vagliato [...] attraverso un’accurata analisi delle opere» dello scienziato (Francesca Romana Berno, Appunti sul latino di Galileo Galilei, in «Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti già dei Ricovrati e Patavina», CXIX, 2006-2007, parte III, «Memorie della Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti», pp. 15-37, citazione a p. 16). Il volume La prosa di Galileo. La lingua la retorica la storia, a cura di Mauro Di Giandomenico e Pasquale Guaragnella, Lecce, Argo, 2006, che pure raccoglie saggi di grande interesse, mantiene meno di quel che promette nel titolo e nel sottotitolo. Nel saggio d’apertura (Apologie e confutazioni nella prosa di Galileo, pp. 9-38) il primo dei curatori dà conto della presenza, in alcuni scritti galileiani, delle pratiche retoriche indicate nel titolo; in quattro interventi successivi Carla Petrocelli (Per un’analisi computazionale del «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo», pp. 89-97), Luciano Labellarte (Sintesi morfologica e soluzione dell’ambiguità, pp. 99-102), Raffaele Ruggiero (Gli archivi del data-base, pp. 103-110) e Francesco Paolo De Ceglia (Analisi semantica, pp. 111-115) illustrano, in una sorta di anteprima, i meccanismi di funzionamento di un software dedicato all’analisi computazionale del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo allestito dal Seminario di Storia della Scienza e dal Laboratorio di Epistemologia Informatica dell’Università di Bari. Da allora a oggi, le informazioni nuove ricavate dall’applicazione di questo strumento al testo del Dialogo sono quelle, relative ad alcune scelte terminologiche di Galileo, che possono leggersi nel saggio di Carla Petrocelli Galileo Galilei: titubanze e incertezze nell’uso della terminologia scientifica, in Storia della Scienza e Linguistica Computazionale. Sconfinamenti possibili, a cura di Liborio Dibattista, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 151-167. [14] Qui e altrove, le citazioni dal primo testo sono tratte da Galileo Galilei, Lettera a D. Benedetto Castelli, 21 dicembre 1613, a cura di Michele Camerota, Franco Giudice e Salvatore Ricciardo, in OG, Appendice. IV. Documenti, a cura di Michele Camerota e Patrizia Ruffo, Firenze, Giunti, 2019, pp. 303-310 (Premessa), 311-313 (Appendice), 314-322 (Testo); le citazioni dal secondo testo sono tratte, salvo diversa indicazione, da Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena. Edizione critica a cura di Ottavio Besomi. Collaborazione di Daniele Besomi. Versione latina di Elia Diodati a cura di Giancarlo Reggi, Roma-Padova, Antenore, 2012; le citazioni dal terzo testo sono tratte dalle Opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale sotto gli auspici di sua maestà il Re d’Italia, direttore Antonio Favaro, vol. V, Firenze, Barbera, 1895, pp. 351-370. I riferimenti ai testi raccolti nell’Edizione Nazionale sono indicati con la sigla OG seguita dall’indicazione del volume (in numeri romani) e delle pagine (in numeri arabi). [15] Erminia Ardissino, La scrittura dell’esperienza. Studi sulle lettere, Pisa, ETS, 2010, p. 9. [16] Cfr. Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, ed. critica a cura di Ottavio Besomi e Mario Helbing, II. Commento, Padova, Antenore, 1998, p. 146. [17] «Ove è da sapere che qui non si procede per necessaria dimostrazione, sì come sarebbe a dire...»: Dante Alighieri, Convivio, a cura di Gianfranco Fioravanti. Canzoni, a cura di Claudio Giunta, in Opere. Edizione diretta da Marco Santagata, vol. II. Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge, a cura di Gianfranco Fioravanti, Claudio Giunta, Diego Quaglioni, Claudia Villa, Gabriella Albanese, Milano, Mondadori, 2014, pp. 89-805; IV, XVII, 4, p. 700. [18] Sul concetto galileiano di esperienza ha scritto delle pagine fondamentali Giorgio Stabile (Il concetto di esperienza in Galilei e nella scuola galileiana, in Lessico Intellettuale Europeo, Experientia. X Colloquio Internazionale, Roma, 4-6 gennaio 2001, atti a cura di Marco Veneziani, Firenze, Olschki, 2002, pp. 217-241), che ha anche inventariato e analizzato alcuni degli aggettivi che lo scienziato applicò al termine nei suoi scritti. [19] Fornisco qui i dati relativi all’applicazione di questi aggettivi alla parola dimostrazione nelle varie opere, ricavati, come quelli riportati in alcune delle note successive e nel testo, dall’interrogazione di Galileo//Thek@ (https://galileoteca.museogalileo.it/GTConsult/?lang=it) in cui, come è noto, sono archiviati i testi contenuti nell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei. Per quel che riguarda la Lettera a D. Benedetto Castelli, la Lettera a Cristina di Lorena, il Saggiatore e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, ho riscontrato i dati prodotti da questa interrogazione sui testi delle seguenti edizioni: Galilei, Lettera a D. Benedetto Castelli, cit.; Id., Lettera a Cristina di Lorena, cit.; Id., Il Saggiatore. Edizione critica e commento a cura di Ottavio Besomi e Mario Helbing, Roma-Padova, Antenore, 2005; Id., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano. Edizione critica e commento a cura di Ottavio Besomi e Mario Helbing, I. Testo, Padova, Antenore, 1998. Acuta: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Aritmetica: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Assoluta: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Astratta: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Astronomica: Lettera a Cristina di Lorena 1 occ. Bella o bellissima: Risposta alle https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/7
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opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 2 occ. Breve: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 4 occ. Buona: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 3 occ. Certa o certissima: Le mecaniche 1 occ., Trattato della sfera ovvero Cosmografia 1 occ., Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ. Chiara o chiarissima: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco 1 occ., Discorsi e dimostrazioni filosofiche intorno a due nuove scienze 3 occ. Concludente o concludentissima: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Lettera a Francesco Ingoli 2 occ., Scritture attenenti all’idraulica 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 3 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 3 occ. Copernicana: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Difettosa: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Difficile: Trattato della sfera ovvero Cosmografia 1 occ. Esattissima: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Evidente: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Facile o facilissima: Lettera a Iacopo Mazzoni 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Fallace o fallacissima: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ., Considerazioni circa l’opinione copernicana 1 occ. Falsa o falsissima: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ., postille alla Libra astronomica ac philosophica 1 occ. Ferma o fermissima: Considerazioni circa l’opinione copernicana 1 occ., Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Gentilissima: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Geometrica: Trattato della sfera ovvero Cosmografia 2 occ., Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 2 occ., Lettera a Cristina di Lorena 1 occ., Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua 1 occ., Saggiatore 4 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 4 occ. Ingegnosa: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 2 occ. Insolubile: Lettera a Francesco Ingoli 1 occ. Matematica: Considerazioni circa l’opinione copernicana 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 4 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 4 occ. Naturale: Considerazioni circa l’opinione copernicana 1 occ. Nuova: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari 1 occ., Saggiatore 1 occ. Oscura: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Ottica: Discorso delle comete 1 occ., Saggiatore 1 occ. Palpabile: Istoria e dimostrazioni incorno alle macchie solari 1 occ. Particolare: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Perfetta: Saggiatore 1 occ. Potentissima: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Potissima: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ. Profonda: Saggiatore 1 occ. Pura o purissima: Saggiatore 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 3 occ. Recondita: Lettera a Francesco Ingoli 1 occ. Salda o saldissima: Considerazioni circa l’opinione copernicana 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Scelta: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Schietta: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Serrata: postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco 1 occ. Sottile: Lettera a Cristina di Lorena 1 occ. (Non) triviale: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Umana: Lettera a Cristina di Lorena 1 occ. Universalissima: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Vera: Le mecaniche 1 occ., Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ., postille alla Libra astronomica ac philosophica 1 occ., Lettera a Cristina di Lorena 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ. Verace: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. [20] Fornisco qui i dati relativi all’applicazione di questi aggettivi alla parola esperienza nelle varie opere. Accomodata: postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ., Le operazioni astronomiche 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Acconcia: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Agevole: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ. Aggiustata: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Apparente ‘evidente’: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Artificiale: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Bella: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Buona: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Certa: postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito 1 occ., Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ., Saggiatore 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ. Chiara o chiarissima: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari 1 occ., Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 3 occ., Saggiatore 1 occ., Lettera a Francesco Ingoli 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 2 occ. Concludente: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Concorde: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ. Efficace: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Esatta o esattissima: Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua 1 occ., Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ., Saggiatore 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Esquisita: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ. Evidente o evidentissima: Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua 1 occ., Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ., Considerazioni circa l’opinione copernicana 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Facile: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Fallace: postille alla Ratio ponderum librae et simbellae 1 occ. Falsa o falsissima: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 6 occ., Lettera a Cristina di Lorena 1 occ. Familiare: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Favorevole: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari 1 occ. Ferma o fermissima: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Frequente: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Ignota: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Impossibile: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Ingegnosa: Della forza della percossa 1 occ. Lunga: Le operazioni del compasso geometrico e militare 1 occ., Discorso delle comete 1 occ. Maggiore: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ. Manifesta: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ., postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito 1 occ., Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 4 occ., Frammenti attenenti alla scrittura in risposta a Ludovico delle Colombe e Vincenzo di Grazia 1 occ., Lettera a Cristina di Lorena 2 occ., postille alla Libra astronomica ac philosophica 1 occ., Lettera a Francesco Ingoli 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ. Migliore: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Mirabile: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., postille alla Ratio ponderum librae et simbellae 1 occ. Notissima: Saggiatore 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Opportuna: Scritture attenenti all’idraulica 1 occ. https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/7
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Palpabile: Saggiatore 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Particolare: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 3 occ. Propria: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 occ. Puerile: postille alla Ratio ponderum librae et simbellae 1 occ. Quotidiana: Saggiatore 1 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Replicata: Saggiatore 2 occ., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 2 occ. Sicura: Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 1 occ. Speditissima: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Tritissima: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1 occ. Vera o verissima: Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 1 occ., Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe 3 occ., Saggiatore 1 occ. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. Visibile: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 1 occ. [21] Di questo sintagma si hanno poi esempi nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe (5 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (3 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (2 occ.), nel Discorso del flusso e del reflusso del mare (2 occ.), nella Lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615 (2 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (2 occ.), nel Saggiatore (2 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nella Lettera a D. Benedetto Castelli (1 occ.), nelle postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito (1 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.), nel Della forza della percossa (1 occ.) e infine nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana del 1640 (1 occ.). [22] Di questo sintagma si hanno poi esempi nella Lettera a D. Benedetto Castelli (3 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe (3 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.), nel Saggiatore (2 occ.) nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (3 occ.), nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (2 occ.), nelle Mecaniche (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (2 occ.), nella Lettera a Piero Dini del 16 febbraio 1615 (1 occ.), nelle cosiddette Considerazioni circa l’opinione copernicana (2 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (2 occ.) e nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.). [23] Riporto qui di séguito i contesti: «pare che quello degl’effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi agl’occhi, o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura che avesser nelle parole diverso sembiante» (Lettera a D. Benedetto Castelli, rr. 52-56); «pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gl’occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante» (Lettera a Cristina di Lorena, 9, 1); «Stante dunque ciò, mi par che nelle dispute de’ problemi naturali non si dovrebbe cominciare dall’autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie» (ibidem); «Ma che quello istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, postponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli occhi e all’intelletto, doviamo negar il senso e la ragione, non mi pare che sia necessario il crederlo» (ivi, 10, 3); «Ma torniamo a considerare quanto nelle conclusioni naturali si devono stimare le dimostrazioni necessarie e le sensate esperienze, e di quanta autorità le abbiano reputate i dotti e i santi teologi» (ivi, 12, 1); «quello che sostiene il vero, può aver molte esperienze sensate e molte dimostrazioni necessarie per la parte sua, mentre che l’avversario non può avvalersi d’altro che d’ingannevoli apparenze, di paralogismi e di fallacie» (ivi, 32, 1); «La mobilità della Terra e stabilità del Sole non può mai esser contro alla Fede o alle Scritture Sacre, quando ella fosse veracemente, con esperienze sensate, con osservazioni esquisite e con demonstrazioni necessarie, provata esser vera in natura da filosofi, astronomi e matematici» (Considerazioni circa l’opinione copernicana, OG, V, p. 364). Oltre che in questi testi, il binomio occorre in una lettera di Galileo a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611: «Hora io di questo istesso corpo lunare, da noi veduto mediante la illuminazione del sole, asserisco il primo, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza et per necessaria dimostrazione, che egli è di superficie piena di innumerabili cavità et eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità» (OG, XI, p. 142). Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino - Legal notice Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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Giuseppe Patota L'universo in italiano La lingua degli scritti copernicani di Galileo
Capitolo primo La Lettera a D. Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Appunti linguistici sul testo autografo Abstract Nel primo capitolo si prende in esame la Lettera a D. Benedetto Castelli rivenuta nel 2018 da Salvatore Ricciardo nel fondo Early Letters della Royal Society Library. Nella lettera, Galilei verte sui rapporti tra scienza e religione e, difendendo il sistema copernicano, chiede di svincolare la ricerca dall’autorità teologica. A livello filologico, si demarca la grafia latineggiante in linea con la scrittura seicentesca. Per i suoni vocalici si studiano i tratti del vocalismo tonico e atono. Queste occorrenze, assieme a verbi, lessico, sintassi e testualità della Lettera vengono comparate con altre opere dello stesso e con Crusca I e II riscontrando linearità. Il 2 agosto 2018 Salvatore Ricciardo ha avventurosamente rinvenuto, nel fondo Early Letters della Royal Society Library di Londra, il testo autografo della celebre Lettera di Galileo a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613. Il ritrovamento ha arricchito e in parte sconvolto il panorama degli studi sui cosiddetti scritti copernicani dello scienziato, inaugurati proprio da questo «breve trattato in forma epistolare, dove Galileo per la prima volta espone le sue idee sui rapporti tra scienza e religione, difende il sistema copernicano dalle accuse di inconciliabilità con la Sacra Scrittura e rivendica la necessità di svincolare la ricerca scientifica dalla giurisdizione dell’autorità teologica, affermandone così la piena autonomia» [1] . La scoperta di questo autografo ha, più che suggerito, imposto a Michele Camerota, a Franco Giudice e allo stesso Ricciardo una riconsiderazione approfondita del testo che esso veicola, non solo dal punto di vista della sua restituzione, ma anche dal punto di vista della sua genesi, struttura e ricezione. Quanto al primo punto: quando lo pubblicò, nel 1895, nel V volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, Antonio Favaro poté basarsi su dodici copie manoscritte, dieci di mano secentesca e le restanti due {p. 24}
risalenti, rispettivamente, al XVIII e XIX secolo [2] . La nuova edizione critica che i tre studiosi hanno pubblicato nel quarto volume di Aggiornamento di quella stessa Edizione Nazionale si fonda naturalmente sull’autografo e riporta, in due fasce sovrapposte d’apparato, le varianti dell’autografo nella prima fascia e le lezioni divergenti tràdite dai testimoni nella seconda [3] . Quanto al secondo punto: l’importanza di questa scoperta per la storia della scienza in generale e degli scritti di scienza di Galileo in particolare è ben rappresentata dalla sintesi che segue: È il caso di ricordare che – il 7 febbraio 1615 – il domenicano Niccolò Lorini inviò a Roma, al cardinale Paolo Camillo Sfondrati, prefetto della Congregazione dell’Indice, una copia della Lettera a Castelli, denunciando come «sospette e temerarie» le teorie sostenutevi. L’esemplare trasmesso da Lorini è ora conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano e contiene alcune espressioni non attestate dalla gran parte della restante tradizione manoscritta. Tali formulazioni appaiono teologicamente più controverse delle lezioni tramandate dalla quasi totalità degli altri codici e per questo motivo vennero da molti studiosi giudicate spurie, nella convinzione che Lorini avesse alterato alcuni passi del testo originale al fine di screditare Galileo. Ad avvalorare il sospetto contribuiva il fatto che lo stesso Galileo, il 16 febbraio 1615, si premurò di far recapitare a Piero Dini, a Roma, una versione della Lettera redatta «nel modo giusto che l’ho scritta io», in quanto, soggiungeva: «forse chi l’ha trascritta può inavvertitamente aver mutata qualche parola». L’esame dell’autografo appena ritrovato capovolge i termini della ricostruzione fin qui dominante. Il manoscritto della Royal Society presenta diverse correzioni che emendano lezioni identiche a quelle del codice Pr (con questa sigla viene usualmente indicata la copia fornita da Lorini agli inquisitori). Così, per fare un solo esempio, Galileo aveva originariamente scritto che la Bibbia contiene «molte proposizioni false quanto al nudo senso delle parole»; {p. 25}
tale formulazione (che ricorre identica in Pr) venne sostituita dalla espressione, tramandata dal resto della tradizione manoscritta e di sicuro teologicamente meno problematica: «molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole hanno aspetto diverso dal vero». In sostanza, sembra che Galileo si preoccupò di modificare le affermazioni più oppugnabili sotto il profilo dottrinario, le stesse che ricorrono (identiche) nella copia di Lorini [4] . È peraltro possibile che, nell’allestire questa lettera, lo scienziato abbia seguito gli schemi della retorica classica così come erano stati presentati da Cicerone sia nel De inventione sia nella Rhetorica ad Herennium, articolando il suo scritto in un exordium (rr. 1-20), una divisio (rr. 21-25), una narratio (rr. 26-41), una confirmatio (rr. 42-67), una confutatio (rr. 67-103) e una conclusio (rr. 104-126) seguite da una seconda divisio (rr. 127-130), narratio (rr. 131-172), confirmatio (rr. 173-183) e conclusio (rr. 184-200) [5] . C’è poi un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, la lettera a Castelli è l’unico degli scritti copernicani di cui, grazie alla scoperta di cui si è detto, è disponibile una versione autografa. Lo storico della lingua italiana può rappresentarsela come un’istantanea che fotografa l’italiano dello scienziato così come si presenta, all’altezza del dicembre 1613, in un testo di fondamentale importanza: la prima di una serie di lettere-trattato in cui Galileo s’impegna a dire la sua, in un momento cruciale, sulla cruciale questione dei rapporti fra scienza e religione. Nei lavori in cui hanno dato conto della scoperta, Camerota, Giudice e Ricciardo hanno sostenuto inop {p. 26}
pugnabilmente l’autografia della lettera conservata nella Royal Society Library soprattutto confrontando la grafia di alcuni suoi campioni, di cui hanno dato la riproduzione fotografica, con quella di altrettanti campioni assunti da altri autografi galileiani [6] . Proverò ad analizzare l’assetto linguistico di questo testo in modo analogo, assumendone alcuni tratti relativi alla grafia, ai suoni, alle forme e al lessico (seguiti dall’indicazione, tra parentesi tonde, della riga in cui compaiono nel testo dell’edizione critica) confrontandoli con tratti omologhi assunti dalle opere scientifiche e soprattutto dalle lettere autografe di Galileo («per l’ovvia ragione che solo i testi di mano dell’autore possono dare qualche indicazione certa in analisi di questo tipo» [7] ), verificando poi il grado di congruenza delle due serie; contestualmente, commenterò questi tratti servendomi di riscontri di vario tipo: studi (per la verità rari e circoscritti) sull’assetto https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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fonomorfologico della lingua di Galileo in particolare e della prosa italiana del Seicento in generale, testi grosso modo coevi e indicazioni provenienti dalla grammaticografia e dalla lessicografia cronologicamente contigue alla Lettera a Castelli [8] . {p. 27}
Grafia Liminarmente, vanno segnalate le scrizioni latineggianti contradizione (24), contradizioni (33), in cui non è rappresentato il raddoppiamento dopo contra-, e inoltre inspirate (86), inspirati (74) e instituto (64). Dalla consultazione di Galileo//Thek@ ricavo che il tipo contradizione è largamente prevalente nell’insieme degli scritti dello scienziato; seguono contradizzione e il raro contraddizione [9] . Nelle lettere autografe sono rappre {p. 28}
sentate sia la prima sia la seconda scrizione, mentre non è presente la terza [10] . Una situazione analoga si registra nella prosa italiana del Seicento, in cui la forma senza raddoppiamento è di gran lunga la più rappresentata [11] , in controtendenza rispetto alle indicazioni di Crusca I e II, in cui è lemmatizzato solo il tipo contraddizione. Vale la pena segnalare, con Bruno Migliorini, che, fra gli scrittori {p. 29}
delle generazioni precedenti, nei composti di contra- la forma priva di raddoppiamento era stata usata non solo dai settentrionali ma anche dai toscani [12] . Quanto a inspirate/inspirati e a instituto, le occorrenze che se ne hanno negli altri scritti di Galileo presentano tutte la grafia latineggiante, che nella prosa italiana del Seicento sembra moneta corrente [13] . Sono pienamente galileiane (anzi: più galileiane di quelle concorrenti) anche le scrizioni mezo (93, 95) e rozi (58), riconducibili a «una tradizione scrittoria ben attestata lungo tutto l’arco del secolo, che distingueva [...] la serie sorda da quella sonora tramite l’uso della zeta doppia o scempia (pazzo contro mezo)» [14] . Nelle opere scientifiche ho inven {p. 30}
tariato circa 540 occorrenze del tipo mezo e oltre 400 del tipo mezzo; 5 occorrenze del tipo rozo e 1 del tipo rozzo [15] . {p. 31}
Nelle lettere autografe, le scrizioni con z scempia prevalgono largamente su quelle con z doppia per quel che riguarda mezo [16] ; s’incontrano poi 2 occorrenze di rozo e una di rozzo. Merita poi considerazione il raddoppiamento della labiale sonora in obblivione (36). È stato già segnalato che nel XVII secolo il fenomeno del raddoppiamento della labiale sonora, normale riflesso grafico di abitudini fonetiche di scriventi meridionali, talvolta affiora «persino nel toscanissimo Galileo» [17] . Di obblivione non si hanno altre occorrenze né nelle opere scientifiche né nelle lettere autografe; ma si possono segnalare, a titolo di riscontro, i casi di obblazione e di subblime già inventariati da Luca Serianni, che nella scrittura dello scienziato si alternano con oblazione e sublime [18] . Nelle prime due impressioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca l’unica forma lemmatizzata è proprio obblivione, ma nei testi in prosa del Seicento da me utilizzati come riscontri è presente solo oblivione [19] . {p. 33}
Suoni Nell’ambito del vocalismo tonico, rientrano fra le abitudini linguistiche di Galileo le forme della tradizione letteraria e toscana [20] insurger (82) e vulgo (39, 66), che mantengono u latina originaria: infatti, in tutti i luoghi delle opere scientifiche e delle lettere autografe in cui ricorrono, le forme del verbo insurgere presentano sempre la vocale radicale u [21] ; quanto all’opposizione volgo/vulgo, ben documentata nella prosa italiana del Seicento [22] , la forma con {p. 34}
u, largamente maggioritaria nell’insieme della produzione scritta di Galileo, è l’unica presente nelle lettere autografe [23] . Per quel che riguarda il vocalismo atono sono da segnalare depende (155), depender (153) e referitimi (21), in cui è mantenuta e protonica originaria; il latinismo litterale (73); nissun (12), nissuna (174) e quistione (109), in cui si è avuta chiusura di e in protonia [24] ; l’oscillazione fra respetto (61) e rispetto (57) sostantivo; la voce offizio (68), in cui è mantenuta o protonica originaria; infine emoli (7) e ascultarne (19). {p. 35}
Così nelle opere scientifiche come nelle lettere autografe è generalizzato il tipo dependere [25] , che è l’unico lemmatizzato in Crusca I e II, ma che nella prosa italiana del Seicento {p. 36}
si alterna, grosso modo nella stessa misura e spesso negli stessi autori, con l’allotropo dipendere [26] . In merito all’opposizione tra referito e riferito, la forma con e che troviamo nell’autografo della Lettera a Castelli è maggioritaria nelle opere scientifiche e l’unica presente nelle lettere autografe, e rappresenta un tratto tipico della scrittura di Galileo [27] . Crusca I e II lemmatizzano soltanto il tipo riferire, che nella prosa italiana del Seicento sembra ricorrere molto più spesso di referire [28] . {p. 37}
Litterale (o literale) è un latinismo occorrente in altre due scritture scientifiche e in una lettera autografa [29] . L’aggettivo è raro; s’incontra soltanto in due dei testi in prosa del Seicento da me utilizzati per i riscontri, in uno nella forma con i e nell’altro nella forma con e [30] . Crusca I e II rinviano da litterale a letterale. Quanto al tipo nissuno, esso è del tutto normale nella scrittura di Galileo. Una ricerca condotta sulle opere scientifiche e soprattutto sulle lettere autografe dello scienziato ha consentito ad Alessio Ricci di appurare che, tranne che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la forma con i protonica di questo aggettivo e pronome indefinito è maggioritaria rispetto a quella con e protonica; un supplemento d’indagine su testi di autori pisani del XVI e del XVII secolo ha inoltre portato lo studioso a ipotizzare «che il largo uso di questa forma da parte di Galileo debba essere ricondotto essenzialmente alla sua lingua materna» [31] . È un fatto, però, che nei testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ il tipo nissuno è anche più frequente del tipo nessuno [32] , ed è ammesso come alternativa a nessuno in {p. 38}
Crusca I e II [33] : è dunque possibile che, in merito a questo tratto, l’uso linguistico originario di Galileo abbia trovato consonanza con l’uso dell’italiano scritto [34] . https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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Sia nelle opere scientifiche sia nelle lettere autografe, quistione (l’unica forma lemmatizzata da Crusca I e II) ricorre pressappoco nella stessa misura di questione [35] . Nella {p. 39}
prosa del Seicento la forma quistione sembra ricorrere meno spesso della forma questione [36] , in contrasto con l’indicazione della Crusca. Non trova riscontro né nelle opere scientifiche né nelle lettere autografe, invece, l’oscillazione tra respetto e rispetto, visto che nelle une e nelle altre è attestato soltanto il tipo rispetto [37] , che è anche l’unico lemmatizzato in Crusca I e {p. 40}
II e l’unico presente nei testi in prosa secenteschi da me utilizzati per il riscontro (a fronte di una sola occorrenza di respetto), sicché vien fatto di considerare il respetto che compare nella Lettera a Castelli un lapsus calami [38] . Veniamo a offizio. Nelle opere scientifiche di Galileo ne sono rappresentate diverse varianti (officio, offizio e ofizio; ufficio, uffizio e ufizio), ma la più frequente è proprio quella che occorre nella Lettera a Castelli: offizio [39] ; nelle lettere {p. 41}
autografe ricorrono solo le forme offizio e uffizio, e anche in questo caso quella che prevale largamente è offizio [40] . Diverso il panorama offerto dai testi secenteschi in prosa utilizzati come riscontro, nei quali compaiono, in ordine di frequenza, ufficio (355 occ.), officio (140 occ.), offizio (23 occ.), ufizio (6 occ.) e uffizio (5 occ.), mentre non è {p. 42}
rappresentato ofizio [41] . Non sono in linea con le scelte di Galileo né con le tendenze della prosa secentesca le indicazioni offerte da Crusca I (in cui è lemmatizzata soltanto la voce uficio) e da Crusca II (in cui sono lemmatizzate, nell’ordine, le voci uficio, e ufizio). La forma emoli, non rappresentata nelle opere scientifiche, ricorre però in una delle lettere autografe [42] . Maurizio Vitale, registrandone la presenza in un’opera in versi molto più tarda (il Giorno di Giuseppe Parini), la giudica un «tosco-fiorentinismo di tradizione» [43] , che però non è {p. 43}
inventariato, neppure come forma secondaria, in Crusca I e II, che registrano soltanto emulo, maggioritario (ma non esclusivo) nella prosa italiana del Seicento [44] . Oltre a quella di respetto, una seconda presenza difficile da spiegare è quella di ascultarne, perché in tutte le opere di Galileo, nelle sue lettere autografe e in tutti i testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ non ho trovato altri esempi di questo tipo con u, ma solo occorrenze del tipo con o [45] . Di quello con u non c’è alcuna traccia neppure in Crusca I e II. Un altro lapsus calami? Nel consonantismo, importa segnalare le forme con n palatale che si registrano nella flessione di costringere, di giungere e del suo composto aggiungere: costrignendogli (148), giugnerebbe (162), aggiugner (83), aggiugnergli (85) e Aggiugnesi (173). Il tipo antico con nasale palatale in luogo del nesso nasale + affricata palatale sonora (nesso impostosi nel fiorentino quattrocinquecentesco e di lì affermatosi nell’italiano comune) ricorre ancora nella prosa secentesca in generale e in quella di Galileo in particolare [46] . Infatti, nel caso della {p. 44}
coppia costrignere/costringere, il tipo con nasale palatale è minoritario nelle sue opere scientifiche ma è quello che ricorre nell’unica lettera autografa in cui è presente un esempio utile [47] ; nel caso della coppia giugnere/giungere, la prima forma prevale largamente nelle opere scientifiche ed è l’unica attestata nelle lettere autografe [48] ; infine, nella coppia aggiugnere/aggiungere, il tipo con nasale palatale è maggioritario nelle opere scientifiche e quasi l’unico nelle {p. 45}
lettere autografe, in cui si contano 30 esempi di aggiugnere e 1 di aggiungere [49] . {p. 46}
Per quel che riguarda la morfologia verbale, meritano attenzione i tratti che seguono: alla prima persona dell’indicativo imperfetto, la desinenza analogica in -o ricostruita sul presente indicativo, che occorre in dubitavo (4). Nelle opere scientifiche, e ancor più nelle lettere autografe, è più frequente di quella etimologica in -a, maggioritaria nella prosa italiana del Seicento, in cui comunque non mancano esempi di imperfetto in -o, quasi sempre (ma non sempre) escluso dai grammatici [50] ; {p. 47}
alla sesta persona del congiuntivo presente dei verbi di 2a, 3a e 4a classe, la desinenza argentea in -ino [51] , diffusa {p. 48}
tra gli scriventi e gli scrittori fiorentini del Cinquecento [52] ma ben attestata anche, accanto all’uscita maggioritaria in -ano (l’unica accolta dai grammatici [53] ), negli scritti dei prosatori italiani del Seicento [54] . Nella lettera a Castelli {p. 49}
occorre in abbino (132), dichimmi (109), procedino (104), produchino (40) e venghino (123) e trova riscontri sia nelle opere scientifiche sia nelle lettere autografe [55] ; {p. 50}
alla sesta persona del condizionale presente, la desinenza -ebbono, che nell’uso fiorentino aveva sostituito fin dal Trecento l’uscita originaria -ebbero [56] . Nella Lettera a Castelli questa uscita occorre in apparirebbono (33) e avrebbon (65 e 101), e trova riscontro nelle opere scientifiche [57] . Nella prosa italiana del Seicento sono ugualmente rappresentati sia questo tipo sia quello in -ebbero [58] , e i grammatici coevi {p. 51}
generalmente li ammettono entrambi [59] . Per quel che riguarda i singoli verbi, importa segnalare: alla sesta persona del congiuntivo presente di essere, l’oscillazione fra siano (41) e sien (168), sieno (51, 51 e 119), quest’ultima «forma della tradizione toscana e letteraria» [60] e dell’uso corrente fiorentino cinquecentesco [61] preferita dai grammatici [62] . Quest’alternanza trova riscontri sia nelle opere scientifiche (in cui è più frequente sieno) e nelle lettere autografe (in cui è più frequente siano) di Galileo sia nella prosa italiana del Seicento (in cui è parimenti più frequente siano) [63] ; {p. 52}
al congiuntivo imperfetto di essere, l’alternanza tra il tipo fosse (75) e l’argenteismo fusse (27 e 193), con vocale tonica influenzata dal perfetto indicativo, di cui Luca Serianni ha segnalato la presenza «straripante» nel Dialogo [64] . Nell’insieme https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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delle opere e delle lettere autografe sono rappresentate entrambe le forme, ma la prevalenza del tipo fusse è netta. Limitando l’indagine alle forme di terza persona singolare, segnalo che del tipo con o si hanno 306 occorrenze nelle opere scientifiche e 10 occorrenze nelle lettere autografe, e che del tipo con u si hanno 1.014 occorrenze nelle opere scientifiche e 65 nelle lettere autografe [65] . {p. 53}
Nei testi in prosa del Seicento, invece, la forma con o (che è quella normalmente prescritta dai grammatici) [66] è molto più rappresentata della forma con u [67] , che comunque vi «fa {p. 54}
capolino» [68] . Dato che il tipo fusse è originario della Toscana occidentale [69] , credo che anche il largo uso di questa forma da parte di Galileo sia riconducibile alla sua lingua materna; al gerundio di essere, l’alternanza tra la forma piena essendo (47, 49, 67, 71, 159, 165 e 186), che è maggioritaria, e la forma aferetica sendo (91), minoritaria, la quale «ha avuto senza dubbio una grande diffusione nel fiorentino (e toscano) argenteo» [70] . La preferenza per la forma piena che si registra nella lettera a Castelli, in linea con gli usi della prosa italiana del Seicento [71] , trova riscontro non solo nelle opere scientifiche, ma anche nelle lettere autografe di Galileo. Spogli alla mano, Alessio Ricci ha dimostrato che lo scienziato accoglie piuttosto moderatamente la forma aferetica «di preferenza nella dimensione pratica della {p. 55}
comunicazione (scrittura epistolare) piuttosto che in quella letteraria (Dialogo e Discorsi)», e inoltre che la accoglie «sempre meno col passare degli anni» [72] ; al condizionale di avere, l’oscillazione tra la forma con labiodentale havrebbon (65 e 101), che è del fiorentino più antico, e quella ridotta harebbe (159, 172 e 174), che arriva a Firenze tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, ma che nei dialetti occidentali è originaria [73] . Anche quest’alternanza è documentata sia nelle opere scientifiche sia nelle lettere autografe. Nelle une e nelle altre, però, prevale, come nella lettera a Castelli, il tipo «“moderno” e “parlato”» [74] senza labiodentale: in particolare, nelle opere scientifiche si contano 72 occorrenze del tipo (h)avr- e 81 del tipo (h)ar-, mentre nelle lettere autografe si contano 1 occorrenza del tipo (h)avr- e 11 occorrenze del tipo (h)ar- [75] . Nella {p. 56}
prosa del Seicento, invece, a prevalere larghissimamente è il tipo con labiodentale [76] , generalmente l’unico codificato {p. 57}
dai grammatici coevi [77] ; al participio passato di avere la forma hauto (90 e 100). Estranea alle tre Corone «e attestata prevalentemente in testi di natura pratica, è documentata un po’ per tutta la Toscana, Firenze compresa, già nel XIII secolo»; successivamente ricorre «soprattutto in autori toscani quattro-cinquecenteschi per varie ragioni legati alla lingua dell’uso», ed è normale nella lingua di Galileo, sia nelle opere scientifiche sia nelle lettere autografe, in cui il tipo con dileguo della labiodentale prevale larghissimamente [78] . Nella prosa italiana del Seicento si verifica esattamente il contrario: il tipo avuto è la norma, mentre il tipo auto, che i grammatici coevi non prendono in considerazione neppure come forma secondaria [79] , è la rarissima eccezione [80] ; alla terza persona del congiuntivo presente di cangiare, la forma cangi (10). L’oscillazione cambiare/cangiare, ben {p. 58}
documentata nella prosa del Seicento [81] e registrata nella lessicografia coeva [82] , è attestata nelle opere, ma non nelle lettere autografe di Galileo, in cui l’unico esempio utile è una voce di cambiare [83] ; alla quarta persona del presente indicativo di dovere, il tipo doviamo (123), che nelle opere è la forma più ricorrente (rispetto a debbiamo, deviamo e dobbiamo) e nelle lettere autografe è l’unica documentata. Questa forma, non molto diffusa nel fiorentino argenteo, praticamente assente dalla prosa italiana del Seicento [84] e non codificata dai grammatici {p. 59}
coevi [85] , nella scrittura dello scienziato è «segno di una chiara adesione a un tratto della lingua dell’uso» [86] toscano: Ricci ne segnala il ricorrere, a titolo di significativo riscontro, nelle lettere autografe dei familiari di Galileo (i figli Maria Celeste e Vincenzo e il fratello Michelangelo) e di diversi corrispondenti toscani di varia provenienza (Lucca, Firenze, San Casciano in Val di Pesa) [87] ; alla terza persona del congiuntivo presente di valere, la forma vaglia (134), che è l’unica accolta nelle opere (nelle lettere autografe non sono presenti esempi utili) [88] ed è anche l’unica attestata nei testi secenteschi in prosa adoperati come riscontri [89] . alla terza persona del congiuntivo presente di vedere, il tipo con inserimento di gg anetimologica [90] vegga (104), che è l’unica forma documentata sia nelle opere sia nelle lettere autografe [91] . Diversa la situazione nella prosa del {p. 60}
Seicento, in cui sono rappresentati sia il tipo vedo, veda sia il tipo veggo, vegga [92] , entrambi codificati dai grammatici {p. 61}
coevi [93] ; la forma piena dell’infinito offerirmegli (199), anche questa l’unica che occorre sia nelle opere sia nelle lettere autografe, alle quali è sconosciuto il tipo sincopato offrire [94] ; Crusca I e II lemmatizzano solo la forma piena, e anche nella prosa italiana del Seicento le forme di offerire sono incomparabilmente più numerose delle forme di offrire [95] . Tra le congiunzioni, spicca l’uso di anco (10, 35 e 61), che per Galileo rappresenta «pressoché l’unica opzione» [96] . {p. 62}
Secondo Ricci, «Dal momento che anco non è mai stato tipico del fiorentino, neppure nel periodo argenteo [...], è assai verisimile che per lo scienziato si tratti di una forma del proprio idioma conservata per tutta la vita» [97] . Occorre aggiungere, però, che anco è discretamente rappresentato nella prosa del Seicento [98] , ed è anche inventariato in Crusca I e Crusca II, in cui però lo si dice «più del verso». Come nel caso di nessuno, dunque, credo che anche in questo un’abitudine linguistica originaria abbia trovato una parziale consonanza con l’uso dell’italiano scritto. {p. 63}
Lessico
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Nel lessico, merita attenzione satisfazion (5), satisfazione (18), «allotropo latineggiante di soddisfazione» [99] genuinamente galileiano, modicamente attestato nella prosa del Seicento, nella quale ricorrono più spesso altre forme [100] . Crusca I e II lemmatizzano soltanto soddisfazione; le molte varianti di questa parola presenti nelle opere dello scienziato convergono a rappresentare un’oscillazione analoga a quella documentata nei testi secenteschi di riscontro. Negli scritti di Galileo abbiamo, in ordine decrescente di frequenza, sodisfazione (29 occ.), satisfazione (15 occ.), sodisfazzione (4 occ.), soddisfazione (4 occ.), soddisfazzione (2 occ.) e satisfazzione (2 occ.) [101] ; nelle lettere autografe, {p. 64}
invece, ricorrono soltanto satisfazione (20 occ.) e sodisfazione (9 occ.) [102] . È ragionevole pensare che tra un primo periodo che va dal 1607 al 1616 (in cui rientra la Lettera a Castelli) e un secondo periodo che va dal 1624 al 1633 Galileo abbia effettuato un cambio linguistico, passando {p. 65}
dall’uso della forma satisfazione (presente nelle lettere che vanno dal 1607 al 1616, per un insieme di 18 occ.) all’uso della forma sodisfazione (presente nelle lettere che vanno dal 1624 al 1636, per un insieme di 9 occ.). È da segnalare, ancora, asseverantemente (60), una forma che ha in questo scritto una delle sue rare attestazioni [103] e che lo scienziato adopera, qui come altrove, come avverbio epistemico con portata ridotta sul predicato verbale col significato di ‘con assoluta certezza’ [104] . {p. 66}
Infine, importa rilevare che in questa lettera compaiono altri due avverbi che potremmo qualificare tra i più galileiani degli avverbi in mente [105] , e cioè necessariamente (43, 184) e sensatamente (163), derivanti dai due aggettivi che convergono a comporre la formula delle «dimostrazioni necessarie» e delle «sensate esperienze». Nella Lettera (come peraltro nella gran parte dei contesti in cui ricorrono negli altri scritti galileiani) il primo ha il significato quasi inedito di ‘in modo rigoroso, valido, probante; con piena certezza, in modo evidente; in maniera incontrovertibile’ [106] , mentre il secondo significa ‘attraverso una verifica (per lo più affidata al senso della vista) che ne ha certificato il carattere fisico’.
Sintassi e testualità Trascorrendo infine agli aspetti relativi alla sintassi e alla testualità, registro la presenza di un coesivo e di quattro strutture abbreviate o abbrevianti tipiche del dettato di Galileo, e cioè l’anafora testuale di «vivace piglio colloquiale» costituita dal dico che riprende il filo di un discorso interrotto o riannoda due componenti della frase (a) [107] , la frase soggettiva (b) e oggettiva (c) costruita con l’accusativo e l’infinito [108] e l’incapsulazione anaforica del segmento di testo che precede attuata o mediante l’aggettivo relativo concordato con un nome che lo segue (d) o mediante il pronome relativo neutro che (e) [109] : {p. 67}
(a) «Ma se questi tali veramente credono d’aver il vero senso di quel luogo particolar della Scrittura, et in consequenza si tengon sicuri d’aver in mano l’assoluta verità della quistione che intendono di disputare, dichimmi appresso ingenuamente se loro stimano gran vantaggio aver colui che in una disputa naturale s’incontra a sostener il vero, vantaggio, dico, sopra l’altro, a chi tocca a sostener il falso?» (107-112); (b) «parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella, e conceduto e stabilito dalla P. V., non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma esser i suoi decreti d’assoluta e inviolabil verità» (26-29); (c) «Chi vorrà asserire già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile?» (79-80); «loro stimano gran vantaggio aver colui che in una disputa naturale s’incontra a sostener il vero» (110-111); «è forza ch’e’ risponda quello muoversi di due movimenti» (140); «È forza risponder il giorno e la notte esser effetti del moto del primo mobile; e dal moto proprio del Sole depender non il giorno e la notte, ma le stagioni diverse e l’anno stesso» (152-154); «Essendo, dunque, assolutamente impossibile nella costituzion di Tolommeo e d’Aristotele fermare ’l moto del Sole e allungare ’l giorno, sì come afferma la Scrittura esser accaduto» (165-167); «già siamo convenuti non dovers’alterar il senso delle parole del testo» (180-181); «Avend’io, dunque, scoperto e necessariamente dimostrato il globo del Sole rivolgersi in se stesso» (184-185); (d) «diminuendosi o annullandosi il moto del Sole, in tanto più breve tempo giugnerebbe all’occaso; il qual accidente sensatamente si vede nella Luna» (161-163); (e) «Ma perché, com’ho detto pur ora, quello che ha la parte vera dalla sua ha gran vantaggio, anzi grandissimo, sopra l’avversario, e perché è impossibile che due verità si contrariino, non doviamo temer d’assalti che ci venghino fatti da chi si voglia, purché a noi ancora sia dato campo di parlare e d’esser ascoltati da persone intendenti e non soverchiamente alterate da proprie passioni e interessi. In confermazione di che vengo ora a considerare il luogo particolare di Giosuè, per il quale ella apportò a loro AA. SS. me tre dichiarazioni» (121-128). {p. 68}
Conclusioni Tiriamo le somme. Nell’ambito delle scelte grafico-fonetiche, i casi in cui, in questa lettera, Galileo si discosta dal modello offerto dalla tradizione – tradizione che, di fatto, risuona nella prosa italiana del Seicento – sono pochi. Per la grafia, possiamo citare quello di obblivione; per la fonetica, quello di referire. Tra le scelte morfologiche, pochi tratti (la desinenza -o alla prima persona dell’indicativo imperfetto, l’uscita -ino alla sesta persona del congiuntivo presente dei verbi di seconda, terza e quarta classe, le forme sieno, fusse, harei e hauto) testimoniano una naturale apertura all’uso fiorentino e/o toscano moderno, doviamo può essere considerata una forma che viene allo scienziato dalla lingua materna, nissuno e anco due forme che certamente vengono allo scienziato dalla lingua materna ma che trovano riscontro nella prosa coeva. Fermo restando il dato del «completo disinteresse» che «Galileo nutriva [...] per la precettistica grammaticale» [110] , la piccola indagine in corpore vili condotta su questo autografo dà una pur limitata consistenza documentaria all’impressione del «raggiungimento di un equilibrio stabile fra il polo letterario e quello usuale, fra il polo espressivo e quello tecnico della lingua» [111] che Maria Luisa Altieri Biagi a suo tempo manifestò e Luca Serianni successivamente ribadì, argomentandola, quando studiò la lingua dello scienziato [112] . Credo inoltre che quest’indagine consenta di retrodatare di quasi un ventennio sia l’adozione di meccanismi di progressione testuale funzionali all’argomentazione scientifica già individuati da me nel Dialogo https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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sopra i due massimi sistemi del mondo [113] sia l’adesione a un «toscano rinascimentale con sensibili aperture alla lingua dell’uso medio» [114] già individuata da Alessio Ricci sempre nel Dialogo: un toscano, quello di Galileo, che, in forza della «sensata esperienza» dei suoni, delle forme e delle parole che convergono a comporre l’assetto formale di questo autografo, mi sembra di poter definire «ben temperato». Note [1] Michele Camerota, Franco Giudice, Salvatore Ricciardo, Galileo ritrovato. La lettera a Castelli del 21 dicembre 1613, Brescia, Morcelliana, 2019, pp. 5-6. [2] Cfr. OG, V, pp. 266-270 e 281-288. [3] Galileo, Lettera a D. Benedetto Castelli, cit. [4] Ivi, p. 304. [5] È l’ipotesi sostenuta e argomentata da Andrea Battistini, Scienza come retorica: la lettera copernicana a Benedetto Castelli, in Id., Galileo e i gesuiti, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 87-124. Le righe sono quelle indicate nell’edizione della Lettera cit. a p. 11 nota 14. [6] Cfr., oltre allo studio cit. in nota 1 e alla Premessa alla Lettera a D. Benedetto Castelli, cit., Michele Camerota, Franco Giudice e Salvatore Ricciardo, The reappearance of Galileo’s original Letter to Benedetto Castelli, in «Notes and Records. The Royal Society Journal of the History of Science», 24 October 2018, pp. 1-18; http://rsnr.royalsocietypublishing.org/content/early/2018/10/18/rsnr.2018.0053. [7] A. Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 60. [8] Per i riscontri con le altre opere e con le lettere galileiane ho utilizzato Galileo//Thek@ (https://galileoteca.museogalileo.it/GTConsult/?lang=it), in cui, come è noto, sono archiviati i testi contenuti nell’Edizione Nazionale delle Opere dello scienziato. Successivamente ho riscontrato i dati prodotti dall’interrogazione della Lettera a Cristina di Lorena, del Saggiatore e del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo sui testi delle edizioni citate nelle note 14 e 19 alle pp. 11-12 e 14. Per i riscontri con la prosa del Seicento ho utilizzato la LIZ 4.0. Letteratura Italiana Zanichelli, CD-ROM dei testi della letteratura italiana, a cura di Pasquale Stoppelli ed Eugenio Picchi, Bologna, Zanichelli, 2001, che d’ora in poi indicherò come LIZ. Per i riscontri grammaticali mi sono servito di quattro dei testi meno lontani dal tempo in cui fu attivo Galileo: le Regole della toscana favella di Lionardo Salviati, risalenti al 1576-1677 (cfr. Nicoletta Maraschio, v. Salviati, Lionardo, in Enciclopedia dell’Italiano, cit., vol. II, pp. 1269-1271, in part. p. 1269, consultabile anche in rete all’indirizzo: https://www.treccani.it/enciclopedia/lionardo-salviati_(Enciclopediadell%27Italiano)/); il Trattato della lingua di Giacomo Pergamini, del 1613, le Osservazioni della lingua italiana di Marco Antonio Mambelli detto Cinonio, probabilmente composte tra il 1613 e il 1626 (cfr. Cecilia Robustelli, v. Mambelli, Marco Antonio, detto Cinonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 68, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2007, pp. 370-371, consultabile anche in rete all’indirizzo: https://www.treccani.it/enciclopedia/mambelli-marco-antonio-detto-cinonio_%28Dizionario-Biografico%29/) e infine il Della lingua toscana di Benedetto Buommattei, pubblicato nella sua forma definitiva nel 1643. Le edizioni da me consultate sono le seguenti: Leonardo Salviati, Regole della toscana favella, edizione critica a cura di Anna Antonini Renieri, Firenze, Accademia della Crusca, 1991; Giacomo Pergamini, Trattato della lingua, Venezia, Giunta, 1613; Osservazioni della lingua italiana raccolte dal Cinonio Accademico Filergita. Tomo secondo che contiene il Trattato de’ verbi, e le Annotazioni fatte al medesimo, Verona, Berno, 1722; Benedetto Buommattei, Della lingua toscana, a cura di Michele Colombo, Firenze, Accademia della Crusca, 2007. Infine, per i riscontri lessicografici ho fatto riferimento al Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, Alberti, 1612, che di seguito indico come Crusca I, al Vocabolario degli Accademici della Crusca, II impressione, Venezia, Sarzina, 1623, che di seguito indico come Crusca II e, sporadicamente, al Vocabolario degli Accademici della Crusca, III impressione, 2 voll., Firenze, Stamperia dell’Accademia della Crusca, 1691, che di seguito indico come Crusca III. [9] Il tipo contradizione (o contradizzione) ricorre nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (3 occ.), nell’Argomento e traccia d’una commedia (1 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (11 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (37 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (3 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nel Saggiatore (12 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.), nelle postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (12 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (2 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (13 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (3 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (2 occ.), nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.). Il tipo contraddizione ricorre invece nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.) e nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.). [10] In particolare, contradizione s’incontra in una lettera a Onofrio Castelli del gennaio 1605 (OG, X, p. 134) e nella bozza di una lettera a Marco Welser dell’8 novembre 1610 (OG, X, p. 465), mentre contradizzione s’incontra in due lettere a Cesare Marsili del 10 gennaio e del 27 giugno 1626 (OG, XIII, pp. 297 e 328). Non fanno testo né le due occorrenze di contradittione presenti in altrettante lettere a Federico Cesi del 30 giugno 1612 e del 25 gennaio 1613 (OG, XI, pp. 345 e 465) né l’occorrenza della stessa forma presente nella copia di una lettera a Elia Diodati del 9 aprile 1632 (OG, XIV, p. 340), perché le lettere in questione non sono autografe. [11] Ho registrato infatti un solo esempio di contraddizione nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini; per il resto ho inventariato solo esempi di contradizione o contradizzione nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (48 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (3 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (15 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (1 occ.), nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (1 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (3 occ.). [12] Cfr. Bruno Migliorini, Note sulla grafia italiana del Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 197-225, in part. p. 218. Crusca I e Crusca II lemmatizzano soltanto contraddizione. [13] Nel Vocabolario degli Accademici della Crusca sono lemmatizzati (a partire dalla terza impressione) il solo inspirare e la coppia instituto e istituto, in quest’ordine. Fra i testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ, offrono riscontri di inspirare e/o d’instituto l’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi, i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, le Dicerie sacre di Giovan Battista Marino e il Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino. Per quel che riguarda gli scritti di Galileo, inspirato s’incontra nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1 occ.) e nella Lettera a Cristina di Lorena (2 occ.), a cui può aggiungersi l’infinito inspirare https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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che ricorre nella Lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615 (1 occ.). Instituto s’incontra nelle Mecaniche (2 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (5 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (3 occ.), nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.). [14] Nicoletta Maraschio, Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Storia della lingua italiana. I. I luoghi della codificazione, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, Torino, Einaudi, 1993, pp. 139-227, citazione a p. 182. Nel merito, si vedano anche Migliorini, Note sulla grafia italiana del Rinascimento, cit., pp. 209 e 214; Vania De Maldé, Sull’ortografia del Seicento: il caso Marino, in «Studi di grammmatica italiana», XII, 1983, pp. 107-166, in part. p. 150; Claudio Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 208 e Luca Serianni, La lingua del Seicento: espansione del modello unitario, resistenze ed esperimenti centrifughi, in Storia della letteratura italiana diretta da Enrico Malato, vol. V. La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 561-595, in part. p. 582. [15] Per quel che riguarda l’alternanza mezo/mezzo (sostantivo o aggettivo che sia), la scrizione con -z- è presente nelle opere che seguono: La bilancetta (5 occ.), Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (12 occ.), Trattato di fortificazione (13 occ.), Le mecaniche (1 occ.), Operazioni del compasso geometrico e militare (32 occ.), Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (4 occ.), postille all’Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis (1 occ.), Considerazioni al Tasso (18 occ.), Trattato della sfera ovvero Cosmografia (23 occ.), Argomento e traccia d’una commedia (4 occ.), postille al Contro il moto della terra (1 occ.), Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (7 occ.), postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito (16 occ.), Proposte per la determinazione della longitudine (1 occ.), Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (8 occ.), postille al De phaenomenis in orbe lunae nunc iterum suscitatis (3 occ.), Frammenti attenenti alle lettere sulle macchie solari (3 occ.), Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.), Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (28 occ.), Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (27 occ.), Lettera a Cristina di Lorena (5 occ.), Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), Discorso del flusso e del reflusso del mare (15 occ.), Saggio delle scritture antecedenti alla stampa del Compasso geometrico e militare (1 occ.), postille alla Libra astronomica ac philosophica (3 occ.), Discorso delle comete, con alcuni frammenti ad esso attenenti (3 occ.), Saggiatore (56 occ.), Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.), postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (11 occ.), Scritture attenenti all’idraulica (16 occ.), Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (181 occ.), postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.), Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (33 occ.), scritti o frammenti d’incerta datazione (4 occ.). Invece, la scrizione con -zz- è presente nelle opere che seguono: Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (5 occ.), Trattato di fortificazione (20 occ.), Le mecaniche (18 occ.), Trattato della sfera ovvero Cosmografia (9 occ.), Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (2 occ.), Proposte per la determinazione della longitudine (5 occ.), Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (6 occ.), Lettera a Cristina di Lorena (6 occ.), aggiunte agli Errori di Giorgio Coresio nella sua Operetta del galleggiare della figura (2 occ.), Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (29 occ.), Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (29 occ.), Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (59 occ.), Saggio delle scritture antecedenti alla stampa del Compasso geometrico e militare (5 occ.), Discorso delle comete, con alcuni frammenti ad esso attenenti (1 occ.), Saggiatore (1 occ.), Lettera a Francesco Ingoli (13 occ.), postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (1 occ.), Scritture attenenti all’idraulica (12 occ.), Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (4 occ.), postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (58 occ.), Le operazioni astronomiche (3 occ.), Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (117 occ.), Della forza della percossa (2 occ.), Lettera al principe Leopoldo di Toscana (5 occ.), Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (5 occ.), scritti o frammenti d’incerta datazione (6 occ.). Quanto all’alternanza rozo/rozzo: nelle opere, rozo s’incontra nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (2 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.) e nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.); rozzo, invece, s’incontra in una lettera al principe Leopoldo di Toscana del 23 marzo 1615 (1 occ.). [16] Per quel che riguarda l’alternanza mezo/mezzo, la scrizione con z scempia s’incontra in cinque lettere a Belisario Vinta del 3 maggio 1605, del 30 ottobre 1609, del 30 gennaio 1610, del 19 marzo 1610 e del 28 maggio 1610 (OG, X, pp. 208, 263, 280 [2 occ.], 301 e 360), in una ad Antonio de’ Medici dell’11 febbraio 1609 (OG, X, p. 229), in una a Vincenzo Giugni del 25 giugno 1610 (OG, X, p. 382), in una a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, pp. 109 e 112), in due a Giuliano de’ Medici del 1o ottobre 1610 e del 23 giugno 1612 (OG, X, p. 440 e XI, p. 336), in una a Gio. Battista Baliani del 12 marzo 1614 (OG, XII, p. 35), in quattro a Curzio Picchena del 26 dicembre 1615, dell’8 gennaio 1616, del 6 febbraio 1616 e del 26 marzo 1616 (OG, XII, pp. 212, 222, 232 e 250), in tre a Cesare Marsili del 21 aprile 1629, del 5 aprile 1631 e del 17 luglio 1626 (OG, XIV, pp. 36 e 240 e XIII, p. 332), in due a Giovanfrancesco Buonamici del 19 giugno 1629 e del 19 novembre 1629 (OG, XIV, pp. 38 [2 occ.] e 53), in una ad Andrea Cioli del 7 marzo 1631 (OG, XIV, p. 217), in una agli Stati Generali delle Provincie Unite dei Paesi Bassi del 15 agosto 1636 (OG, XVI, pp. 465 [2 occ.] e 466), in una a Benedetto Guerrini del 4 marzo 1636 (OG, XVI, p. 400), in una a Pietro Carcavy del 5 giugno 1637 (OG, XVII, p. 90) e in due a Geri Bocchineri del 25 febbraio 1633 e del 5 marzo 1633 (OG, XV, pp. 51 e 59). La scrizione con z doppia, invece, s’incontra in una lettera a Belisario Vinta del 30 luglio 1610 (OG, X, p. 410), in una a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 114), in una a Cristina di Lorena del 16 gennaio 1609 (OG, X, p. 226), in una a Giovanfrancesco Buonamici del 19 giugno 1629 (OG, XIV, p. 38) e in una a Cassiano Dal Pozzo del 7 luglio 1631 (OG, XIV, p. 282). Il tipo mezzo occorre anche in 2 lettere a Cristoforo Clavio del 25 febbraio 1588 (OG, X, p. 28) e del 30 dicembre 1610 (OG, X, p. 500 [2 occ.]) che i curatori dell’Edizione Nazionale dichiarano «riscontrate sugli autografi, che prima del 1870 si conservavano a Roma in una delle Case della Compagnia di Gesù» grazie «alla cortese mediazione del P. Francesco Ehrle, Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana» (OG, X, p. 22). Per quel che riguarda l’alternanza rozo/rozzo, la scrizione con z scempia occorre in una lettera a Marco Welser del febbraio 1611 (OG, XI, p. 38) e in una a Niccolò Fabri di Peiresc del 16 marzo 1635 (OG, XVI, p. 235); rozzo, invece, occorre in una lettera a Pietro Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 108). [17] Serianni, La lingua del Seicento, cit., p. 578. [18] Cfr. ibidem. Aggiungo che obblazione s’incontra in una lettera autografa a Francesco Barberini del 23 dicembre 1624 (OG, XIII, p. 242) e subblime in una lettera autografa a Francesco Barberini del 19 settembre 1623 (OG, XIII, p. 430) e in una seconda lettera, sempre autografa, a Ippolito Aldobrandini del 18 dicembre 1628 (OG, XIII, p. 463). Alessio Ricci mi segnala, inoltre, la presenza di un debbito in una lettera autografa ai Riformatori dello Studio di Padova del 12 febbraio 1603 (OG, X, p. 103). https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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[19] Ne ho raccolto esempi nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (7 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (1 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (1 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.) e nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.). [20] Cfr. Maurizio Vitale, Leonardo Di Capua e il capuismo napoletano, in Id., L’oro nella lingua, Milano-Napoli, Ricciardi, 1986, pp. 173-272, in part. p. 195. Vale la pena segnalare il fatto che nelle prime due impressioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca sono lemmatizzate solo le forme con u, insurgere e vulgo, e che dall’interrogazione della LIZ ho ricavato un solo esempio utile (del tipo con vocale radicale o) nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino. [21] Per le opere, registro la presenza del tipo con vocale radicale u nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (3 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (2 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.); per quel che riguarda le lettere autografe, ne registro 1 occorrenza in una lettera a Francesco Barberini del 16 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 407). È difficile, dunque, che la forma insorge che occorre in Saggiatore 12, 40, presente nella princeps e da qui confluita sia nel testo dell’Edizione Nazionale sia in quello dell’edizione critica curata da Ottavio Besomi e Mario Helbing (citata a p. 14, nota 19) sia ascrivibile a Galileo: si tratterà, piuttosto, di uno degli interventi di ripulitura linguistica del materano Tommaso Stigliani (cfr. Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 58). [22] Dall’interrogazione della LIZ ho ricavato esempi di volgo nel Fuggilozio di Tommaso Costo (2 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (8 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (9 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (5 occ.), nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce (2 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (3 occ.), nel Corriero svaligiato (3 occ.) e nella Retorica delle puttane (5 occ.) di Ferrante Pallavicino e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (5 occ.), mentre ho ricavato esempi di vulgo nel Fuggilozio di Tommaso Costo (7 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (1 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.) e nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.). [23] Ho inventariato esempi di volgo nelle Considerazioni al Tasso (2 occ.), nelle Mecaniche (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.) e nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (5 occ.). Per il resto, ho raccolto soltanto esempi di vulgo: nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (2 occ.), nei Frammenti attenenti alla scrittura in risposta a Ludovico delle Colombe e Vincenzo di Grazia (1 occ.); nella Lettera a Cristina di Lorena (8 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (2 occ.), nel Saggiatore (2 occ.), nelle note alla Famosi et antiqui problematis de Telluris motu vel quiete hactenus optata solutio di Jean-Baptiste Morin (2 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (4 occ.), nei Frammenti attenenti al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (3 occ.), nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.). Nelle lettere autografe, vulgo s’incontra, in particolare, in una a Cesare Marsili del 5 aprile 1631 (OG, XIV, p. 241) e in una a Fulgenzio Micanzio del 15 marzo 1636 (OG, XVI, p. 405). [24] Ricordo, con Paolo Trovato (Il primo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 277) e con Silvia Morgana (Le «lingue» del «Galateo», in Ead., Capitoli di storia linguistica italiana, Milano, LED, 2003, pp. 79-115, in part. p. 97), che gli scrittori fiorentini cinquecenteschi avevano oscillato nell’uso tra i ed e secondo le abitudini della scrittura umanistica latineggiante. È un fatto, però, che nissuno non aveva un modello latino a cui appoggiarsi. [25] Il tipo con e conservata s’incontra nella Bilancetta (1 occ.), nella Lettera a Iacopo Mazzoni (1 occ.), nelle Mecaniche (5 occ.), nelle postille all’Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis (1 occ.), nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (1 occ.), nel Trattato della sfera overo Cosmografia (1 occ.), nelle Matematiche dell’arte militare (1 occ.), nei Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (3 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (14 occ.), nelle postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito (2 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (10 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (7 occ.), nelle Lettere a Piero Dini (2 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (48 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (3 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nel Discorso del flusso e reflusso del mare (12 occ.), nel Discorso delle comete, con alcuni frammenti ad esso attenenti (6 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (1 occ.), nel Saggiatore (17 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (2 occ.), nelle Scritture concernenti il quesito in proposito della stima d’un cavallo (2 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (4 occ.), nelle note al Famosi et antiqui problematis de Telluris motu vel quiete di Jean-Baptiste Morin (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (77 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (20 occ.), nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e in vari scritti o frammenti d’incerta datazione (6 occ.). A fronte di tante occorrenze del tipo con e protonica, ho inventariato 3 soli esempi del tipo con i protonica nel Trattato di fortificazione, in una delle Lettere a Piero Dini e nella Lettera a Cristina di Lorena. Per quel che riguarda lo spoglio delle lettere autografe, ho registrato esempi del tipo con e protonica in una missiva a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, pp. 105, 106, 106, 110, 111 e 112), in una a Margherita Sarrocchi del 21 gennaio 1612 (OG, XI, p. 265), in due a Giovan Battista Baliani del 12 marzo 1614 e del 6 agosto 1630 (OG, XII, p. 33 e XIV, p. 128), in due a Curzio Picchena del 23 gennaio 1616 e del 6 febbraio 1616 (OG, XII, pp. 228 e 230), in una a un destinatario sconosciuto del febbraio 1609 (OG, X, p. 233), in una a Belisario Vinta del 7 maggio 1610 (OG, X, pp. 351 e 352), in due a Cesare Marsili dell’11 gennaio 1625 e del 25 aprile 1626 (OG, XIII, pp. 249 e 320), in una a Giovanfrancesco Buonamici dell’8 aprile 1630 (OG, XIV, p. 92) e in una agli Stati Generali delle Provincie Unite dei Paesi Bassi del 15 agosto 1636 (OG, XVI, p. 468), mentre ho registrato un solo esempio del tipo con i protonica in una lettera a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611 (OG, XI, p. 147). [26] Il tipo dependere s’incontra nella Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (49 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (2 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (4 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.); il tipo dipendere s’incontra nella Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (2 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (13 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (5 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (1 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (2 occ.), nella Retorica delle puttane (4 occ.) e nel Corriero svaligiato (2 occ.) di Ferrante Pallavicino e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (6 occ.). [27] Referito è nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (2 occ.), nel Discorso delle comete (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (2 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.) e in una lettera autografa ad Andrea Cioli del 19 marzo 1633 (OG, XV, p. 70); inoltre, si registra la presenza di referto nelle postille all’Usus et fabrica cercinis cuiusdam proportionis (3 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (2 occ.) e in una lettera autografa a Fulgenzio Micanzio del 15 marzo 1636 (OG, XVI, p. 406). Riferito, invece, è nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nel Saggiatore (1 occ.) e nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.). [28] In particolare, forme di referire s’incontrano nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.) e nel Brancaleone del Latrobio (3 occ.); forme di riferire sono presenti nel Fuggilozio di Tommaso Costo (16 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (51 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (24 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (8 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (4 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (3 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (3 occ.), nel Corriero svaligiato (4 occ.) e nella Retorica delle puttane (1 occ.) di Ferrante Pallavicino e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (11 occ.). [29] Literale s’incontra nella Lettera a Cristina di Lorena (2 occ.) e in un’altra lettera (autografa) a Cristina di Lorena del settembre 1608 (OG, X, p. 223); litterale s’incontra nelle note alla Famosi et antiqui problematis de Telluris motu vel quiete hactenus optata solutio di Jean-Baptiste Morin (1 occ.). [30] In particolare, letterale s’incontra nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (1 occ.), mentre litterale è attestato nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (3 occ.). [31] Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 94. [32] Nessuno è attestato nel Fuggilozio di Tommaso Costo (10 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (2 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (2 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (4 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (5 occ.), nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (2 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.); nissuno è attestato nel Fuggilozio di Tommaso Costo (28 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (360 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce (5 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (7 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (14 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.) e nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.). [33] Che lemmatizzano nessuno e nissuno, in quest’ordine. [34] D’altra parte, Alessio Ricci mi fa notare che i testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ citati nella nota 32 sono tutti di autori non toscani, e mi segnala anche che alcuni suoi sondaggi su testi toscani dei secoli dal XV al XVII documentano che questa forma è diffusa soprattutto a Siena e nella Toscana occidentale, e molto meno a Firenze. [35] Nell’insieme delle opere si contano 43 occorrenze di questione e 56 di quistione, mentre nelle lettere autografe si hanno 3 occorrenze di questione e 1 di quistione. In particolare, per quel che riguarda le opere, il tipo con e protonica è l’unico presente nella Lettera a Iacopo Mazzoni (1 occ.), nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (1 occ.), nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (2 occ.), nelle Matematiche nell’arte militare (1 occ.), nei Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (6 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1 occ.), nel Saggiatore (5 occ.) e nelle Scritture concernenti il quesito in proposito della stima d’un cavallo (3 occ.). Il tipo con i protonica è, invece, l’unico presente nel Discorso del flusso e reflusso del mare (1 occ.) e nella Lettera a Francesco Ingoli (5 occ.). Nelle altre opere sono rappresentate entrambe le forme. In particolare, nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono si contano 2 ess. di questione e 11 di quistione; nelle postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito 1 es. di questione e 2 di quistione; nella Lettera a Tolomeo Nozzolini abbiamo 1 es. di questione e 1 di quistione; nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono 6 ess. di questione e 14 di quistione; nella Lettera a Cristina di Lorena 1 es. di questione e 3 di quistione; nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 2 ess. di questione e 16 di quistione; nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco 2 ess. di questione e 1 di quistione; nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 5 ess. di questione e 1 di quistione. Infine, in diverse scritture di data incerta s’incontrano 2 ess. di questione e 1 di quistione. Passando alle lettere autografe, il tipo questione s’incontra in una lettera a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 105), in una a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611 (OG, XI, p. 152) e infine in una ad Antonio de’ Medici dell’11 febbraio 1609 (OG, X, p. 229); il tipo quistione è invece presente in una lettera a Cesare Marsili del 7 aprile 1629 (OG, XIV, p. 30). [36] Infatti, questione s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (3 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (57 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (10 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nelle Due comedie in comedia di Giovan Battista Andreini (5 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.), nel Corriero svaligiato (2 occ.) e nella Retorica delle puttane (3 occ.) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (1 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.), mentre quistione è presente nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (8 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (56 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (6 occ.). [37] Nelle opere si trovano esempi della sola forma rispetto, che occorre, in particolare, nel Trattato di fortificazione (3 occ.), nelle Mecaniche (3 occ.), nell’Argomento e traccia d’una commedia (6 occ.), nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (3 occ.), nelle postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito (2 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (2 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (8 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (7 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (5 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (2 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (1 occ.), nel Saggiatore (6 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (4 occ.), nelle postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (1 occ.), nelle Scritture concernenti il quesito in proposito della stima d’un cavallo (2 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (13 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (4 occ.) e nei Problemi (1 occ.). Così anche nelle lettere autografe: rispetto s’incontra in una lettera a Cosimo de’ Medici del 29 dicembre 1605 (OG, X, p. 153), in varie lettere a Belisario Vinta dell’8 febbraio 1608, del 30 maggio 1608, del 13 febbraio 1610, del 13 marzo 1610, del 7 maggio 1610, del 19 marzo 1611 e del 27 aprile 1611 (OG, X, pp. 189, 190, 212, 283 [2 occ.], 289, 350 e 351 e XI, pp. 71 e 94), a un destinatario sconosciuto del febbraio 1609 (OG, X, p. 231), a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 116), a Gallanzone Gallanzoni https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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del 16 luglio 1611 (OG, XI, pp. 146 e 149), a Paolo Gualdo del 16 giugno 1612 (OG, XI, p. 327), a Curzio Picchena del 6 marzo 1616 (OG, XII, pp. 244 e 245), a Cesare Marsili del 17 dicembre 1624 (OG, XIII, p. 240), ad Andrea Cioli del 7 marzo 1631 e del 23 luglio 1633 (OG, XIV, p. 217 e XV, p. 187). [38] Nei testi in prosa secenteschi usati come riscontro, ho registrato un solo esempio di respetto nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi e poi solo esempi di rispetto nel Fuggilozio di Tommaso Costo (37 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (107 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (33 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (3 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (3 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (14 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (3 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (1 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (16 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (2 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (8 occ.), nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (4 occ.), nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (5 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.). [39] In particolare abbiamo: officio nel Trattato di fortificazione (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (3 occ.) e nel Saggiatore (2 occ.); offizio nel Trattato di fortificazione (7 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nella Lettera a Piero Dini del 16 febbraio 1615 (1 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (1 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.) e nei Frammenti di data incerta (1 occ.); ofizio nelle Scritture attenenti all’idraulica (1 occ.); ufficio nel Trattato di fortificazione (1 occ.); uffizio nelle Mecaniche (1 occ.), nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (2 occ.), nelle postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (1 occ.) e nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (2 occ.); ufizio nei Frammenti di lezioni e studi sulla nuova stella dell’ottobre 1604 (1 occ.). [40] Offizio è generale nella sequenza S.to offizio: ricorre in una lettera ad Andrea Cioli del 6 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 403), in una a Francesco Barberini del 13 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 407, 2 occ.), in una a Cesare Marsili del 16 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 410), in due a Geri Bocchineri del 12 marzo 1633 e del 16 aprile 1633 (OG, XV, p. 63 e XV, p. 88), in una ad Andrea Cioli del 23 luglio 1633 (OG, XV, pp. 187 e 188) e infine in una a Ladislao IV re di Polonia del luglio-agosto 1636 (OG, XVI, p. 658 [2 occ.]). La stessa forma s’incontra anche in una lettera a Giacomo Contarini del 22 marzo 1593 (OG, X, p. 55), in una a Niccolò Giugni dell’11 giugno 1605 (OG, X, p. 145), in due a Belisario Vinta del 30 gennaio 1610 e del 13 febbraio 1610 (OG, X, pp. 280 e 283), in una a Vincenzo Giugni del 25 giugno 1610 (OG, X, p. 381), in tre a Giovanfrancesco Buonamici del 19 giugno 1629, dell’8 aprile 1630 e del 14 febbraio 1634 (OG, XIV, pp. 38 e 91 e XVI, p. 42), in una a Ferdinando II Granduca di Toscana del luglio 1629 (OG, XIV, p. 40), in una a Federico Cesi del 13 gennaio 1630 (OG, XIV, p. 67), in una a Benedetto Castelli del 17 maggio 1632 (OG, XIV, p. 352) e infine in una ad Andrea Cioli del 17 marzo 1633 (OG, XV, p. 70). Uffizio, invece, s’incontra in una lettera a Cristina di Lorena dell’11 febbraio 1609 (OG, X, p. 228), in una a un destinatario sconosciuto del febbraio 1609 (OG, X, p. 232), in una a Belisario Vinta del 21 maggio 1610 (OG, X, p. 355), in una a Cosimo II Granduca di Toscana del 23 luglio 1610 (OG, X, p. 405), in due a Michelangelo Buonarroti, entrambe del 3 giugno 1630 (OG, XIV, pp. 110 [2 occ.] e 112 [2 occ.]) e infine in una a Geri Bocchineri del 25 febbraio 1633 (OG, XV, p. 51). [41] In particolare: ufficio s’incontra nella Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (269 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (7 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (2 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (1 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (27 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (9 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (22 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (3 occ.), nel Corriero svaligiato (2 occ.) e nella Retorica delle puttane (1 occ.) di Ferrante Pallavicino e nella Ricreazione del Savio di Daniello Bartoli (11 occ.); officio s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (10 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (102 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (16 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (1 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (2 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (1 occ.) di Giulio Cesare Croce, nella Città del Sole di Tommaso Campanella (1 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (3 occ.) e nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (1 occ.); offizio s’incontra nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (3 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (10 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (3 occ.) e nella Supplica di Niccolò Barbieri (7 occ.); ufizio s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (3 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (3 occ.); infine, uffizio s’incontra nella Supplica di Niccolò Barbieri (5 occ.). [42] Nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra sono presenti 2 esempi del tipo emulo, che ricorre anche in una lettera autografa a Cesare Marsili del 7 settembre 1629 (OG, XIV, p. 46); invece, in una missiva parimenti autografa a Francesco Barberini del 13 ottobre 1632 è rappresentato il tipo emolo (OG, XIV, p. 407). [43] Cfr. Maurizio Vitale, La «dizione» formale dell’«italo cigno». Notazioni di stile e di lingua nella poesia e nella prosa di Giuseppe Parini, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 2014, p. 303. [44] Ho incontrato esempi di emulo nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (7 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (12 occ.) e nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.) ed esempi di emolo nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (2 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (1 occ.). [45] Dalla ricerca, limitata alle forme dell’infinito, ho rilevato la presenza del solo tipo ascoltare nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (3 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nell’Argomento e traccia d’una commedia (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), nel Saggiatore (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (3 occ.) e nelle seguenti lettere autografe: ai Riformatori dello Studio di Padova del 9 marzo 1609 (OG, X, pp. 236 e 237) e a Maffeo Barberini del 14 aprile 1613 (OG, XI, p. 495). [46] Cfr. Serianni, La lingua del Seicento, cit., p. 579. [47] Il tipo costrignere s’incontra nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1 occ.) e nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.), mentre il tipo costringere s’incontra nelle Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (1 occ.), nelle Mecaniche (1 occ.), nelle aggiunte agli Errori di Giorgio Coresio nella sua Operetta del galleggiare della figura (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (2 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1 occ.) e nei Frammenti attenenti al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1 occ.). Nelle lettere autografe, troviamo il tipo costrignere in una lettera a Francesco Barberini del 13 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 409). https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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[48] Ho inventariato esempi del tipo giugnere nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (3 occ.), nel Discorso del flusso e reflusso del mare (1 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (9 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (2 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (10 occ.) e nel Della forza della percossa (1 occ.), ed esempi del tipo giungere nel Trattato di fortificazione (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nel Saggiatore (3 occ.) e nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (2 occ.). Nelle lettere autografe, il solo tipo giugnere s’incontra in una lettera a Curzio Picchena del 6 marzo 1616 (OG, XII, p. 245), in due a Cesare Marsili dell’11 gennaio 1625 e del 5 aprile 1631 (OG, XIV, p. 240 e XIII, p. 248), in una ad Andrea Cioli del 6 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 403) e infine in una a Fulgenzio Micanzio del 12 luglio 1636 (OG, XVI, p. 449). [49] Per quel che riguarda le opere, il tipo aggiugnere s’incontra nella Bilancetta (1 occ.), nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (12 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (10 occ.), nelle postille a Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis (3 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (1 occ.), nell’Argomento e traccia d’una commedia (1 occ.), nelle postille al Contro il moto della Terra (2 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (11 occ.), nei Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (5 occ.), nelle postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito (3 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (8 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (42 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (4 occ.), nel Saggiatore (1 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (10 occ.), nelle Scritture concernenti il quesito in proposito della stima d’un cavallo (3 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (4 occ.), nelle note alla Famosi et antiqui problematis de Telluris motu vel quiete hactenus optata solutio di Jean-Baptiste Morin (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (37 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (2 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (21 occ.), nei Frammenti attenenti ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.), nel Della forza della percossa (6 occ.), nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.), nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e in vari scritti o frammenti d’incerta datazione (12 occ.). Invece, il tipo aggiungere occorre nelle Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (2 occ.), nel Trattato di fortificazione (2 occ.), nella Lettera a Iacopo Mazzoni (1 occ.), nelle Mecaniche (6 occ.), nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (3 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (6 occ.), nei Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (1 occ.), nelle Lettere a Piero Dini (2 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nel Saggio delle scritture antecedenti alla stampa del compasso geometrico e militare (3 occ.), nel Saggiatore (17 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (2 occ.) e nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.). Per quel che riguarda le lettere autografe, ho inventariato aggiugnere in una lettera a Onofrio Castelli del gennaio 1605 (OG, X, p. 135), in tre a Belisario Vinta del 3 maggio 1605, del 30 maggio 1608 e del 7 maggio 1610 (OG, X, pp. 208, 211 e 353), in tre a Cristina di Lorena dell’11 novembre 1605, dell’8 dicembre 1606 e del settembre 1608 (OG, X, pp. 148, 165 e 222), in una ai Riformatori dello Studio di Padova del 9 aprile 1607 (OG, X, p. 172), in una a Vincenzo Giugni del 25 giugno 1610 (OG, X, p. 380), in una a Giuliano de’ Medici del 1o ottobre 1610 (OG, X, pp. 440 e 441), in una a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 113), in una a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611 (OG, XI, p. 147), in tre a Curzio Picchena del 23 gennaio 1616, del 26 marzo 1616 e del 20 aprile 1618 (OG, XII, pp. 228, 250 e 383), in una a Federico Cesi del 9 ottobre 1623 (OG, XIII, p. 134), in una a Federigo Borromeo del 18 novembre 1623 (OG, XIII, p. 148), in una a Ippolito Aldobrandini del 18 dicembre 1628 (OG, XIII, p. 463), in una ad Andrea Cioli del 7 marzo 1631 (OG, XIV, p. 216), in una a Cesare Marsili del 23 febbraio 1632 (OG, XIV, p. 332), in una a Francesco Barberini del 13 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 409), in due ad Andrea Cioli del 19 marzo 1633 e del 23 luglio 1633 (OG, XV, pp. 70 e 188), in una a Fulgenzio Micanzio del 19 novembre 1634 (OG, XVI, p. 162), in una a Giovanfrancesco Buonamici del 13 agosto 1636 (OG, XVI, pp. 466 e 468), in una a Vincenzo Renieri del 4 aprile 1637 (OG, XVII, pp. 56 e 57) e infine in una a Pietro Carcavy del 5 giugno 1637 (OG, XVII, p. 89). Ho poi raccolto un unico esempio di aggiungere in una lettera a Giovan Battista Baliani del 12 marzo 1614 (OG, XII, p. 35). [50] Circoscrivendo l’indagine alla prima persona dell’indicativo imperfetto di due verbi di largo uso come avere e essere si ottengono i seguenti risultati: aveva è presente nelle opere (3 occ.) e in una lettera autografa a Federico Cesi del 24 dicembre 1629 (1 occ.), avevo è presente nelle opere (41 occ.) e in una lettera autografa a Federico Cesi del 13 gennaio 1630 (1 occ.); era è presente nelle opere (10 occ.) ma non nelle lettere autografe; ero è presente sia nelle opere (21 occ.) sia nelle seguenti lettere autografe: a Belisario Vinta dell’8 febbraio 1608 (1 occ.), del 30 gennaio 1610 (1 occ.) e del 18 giugno 1610 (1 occ.), a Michelangelo Buonarroti del 4 dicembre 1609 (1 occ.), ad Andrea Cioli del 10 marzo 1615 ( 1 occ.), a Curzio Picchena del 1° gennaio 1616 (1 occ.) e del 13 febbraio 1616 (1 occ.). La stessa indagine, applicata ai testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ, dà i risultati che seguono: aveva è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (7 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (3 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (14 occ.) e nell’Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini (1 occ.); avevo è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (2 occ.), nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce (6 occ.), nelle Due comedie in comedia di Giovan Battista Andreini (1 occ.) e nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (16 occ.); era è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (4 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (3 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (2 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (33 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.), nell’Amor nello specchio (2 occ.) e nelle Due comedie in comedia (2 occ.) di Giovan Battista Andreini, nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (2 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (1 occ.); ero è presente nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.), nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce (4 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (1 occ.), nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (17 occ.) e nella Ricreazione del savio di Francesco Pona (1 occ.). Salviati accoglie solo la desinenza in -a (Regole, cit., pp. 160, 161, 164, 165, 174); Pergamini scrive, a proposito dell’imperfetto dell’indicativo: «Termina questo Tempo [l’indicativo imperfetto] in A nella prima voce del Meno, e si deriva dalla seconda voce dell’Indicativo Presente nel Numero del Più, cangiando la TE in VA» (Trattato, cit., p. 171); gli fa eco il Cinonio: «L’Imperfetto dell’Indicativo nella prima voce del meno termina in VA [...]: contr’alcuni moderni che finiscono in O questa prima voce, per variarla, com’essi dicono, dalla terza» https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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(Osservazioni, cit., p. 14). Ben diversa la posizione di Buommattei: «Terminava la prima persona sempre e in tutte le coniugazioni in A [...] ma, come ho detto, è stato introdotto da alcun tempo in qua di terminarla in O e dire IO ERO, AMAVO, TEMEVO, SENTIVO, PENSAVO. Il che, essendo senz’alcun danno, anzi con qualche guadagno della favella, è stat’abbracciato da molti, almeno nella viva voce e nelle scritture non così gravi, e s’io non mi inganno potrebbe introdursi in breve comunemente, perché di vero in questa maniera tutte le persone in quel numero son distinte: IO ERO, TU ERI, COLUI ERA, dove, seguitando lo stile antico, la prima dalla terza non si distingue» (Della lingua toscana, cit., pp. 306-307). E altrove, a proposito della prima persona dell’indicativo imperfetto di essere: «regolarmente si dice ERA, ma l’uso si va sempre introducendo a finirla in O» (ivi, p. 322). [51] Cfr. Paola Manni, Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, in «Studi di grammatica italiana», VIII, 1979, pp. 115-171, in part. pp. 156-159. [52] Cfr. Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, cit., p. 116 e nota 24 e Giovanna Frosini, La lingua di Machiavelli, con la collaborazione di Andrea Felici, Bologna, Il Mulino, 2021, p. 50. [53] Cfr. Salviati, Regole, cit., pp. 164, 167, 177; Pergamini, Trattato, cit., p. 196. Anche Buommattei presenta, nella flessione dei verbi di 2a, 3a e 4a classe, soltanto l’uscita -ano, e aggiunge: «nè si dirà senza biasimo ABBINO» (cfr. Della lingua toscana, cit., p. 333, citazione a p. 328). Non ho trovato indicazioni utili nelle Osservazioni del Cinonio. [54] L’indagine sui testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ circoscritta alle forme di sesta persona del congiuntivo presente di avere, dire, procedere, produrre e venire ha dato i risultati che seguono. Per abbiano/abbino: abbiano è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (5 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (66 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (31 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (1 occ.), nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce (1 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (13 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (7 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (4 occ.), nell’Amor nello specchio (2 occ.) e nelle Due comedie in comedia (1 occ.) di Giovan Battista Andreini, nella Supplica di Niccolò Barbieri (17 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (2 occ.), nel Corriero svaligiato (13 occ.) e nella Retorica delle puttane (4 occ.) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (20 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (7 occ.); abbino è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (2 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (4 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (21 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (3 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce (2 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.) e nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (1 occ.). Per dicano/dichino: dicano è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (3 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (1 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (1 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (4 occ.), nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (1 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (9 occ.); dichino è presente nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.) e nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (3 occ.). Per procedano/procedino: procedano è presente nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (1 occ.); procedino è presente nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (2 occ.) e nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.). Per producano/produchino: producano è presente nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (1 occ.); produchino è presente nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.). Per vengano/venghino: vengano è presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (2 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (1 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (1 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (3 occ.), nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (3 occ.), nella Ricreazione del Savio di Daniello Bartoli (2 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.); venghino è presente nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.) e nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (7 occ.). [55] Dall’interrogazione di Galileo//Thek@ (che ho limitato alle forme dei soli verbi presenti nella Lettera a D. Benedetto Castelli) si ricava che nelle opere dello scienziato ricorrono sia abbiano (98 occ.) sia abbino (77 occ.), sia dicano (4 occ.) sia dichino (2 occ.), sia procedano (4 occ.) sia procedino (1 occ.), sia producano (1 occ.) sia produchino (5 occ.), sia vengano (19 occ.) sia venghino (17). Quanto alle lettere autografe, ho registrato vengano in una lettera a Cesare Marsili del 5 aprile 1621 (OG, XIV, p. 241) e venghino in una a Cristina di Lorena del settembre 1608 (OG, X, p. 222), in una a Curzio Picchena del 23 gennaio 1616 (OG, XII, p. 228) e infine in una a Fulgenzio Micanzio del 12 luglio 1636 (OG, XVI, p. 449). Alessio Ricci mi segnala che in un frammento autografo del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (Ms. Gal. 66, ff. 3v-13v), le cui varianti rispetto alla princeps sono «quantitativamente e qualitativamente così rilevanti da giustificare come necessaria una stesura intermedia tra questo testimone e la stampa» (Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, II. Commento, cit., p. 929), si registrano diversi esempi del tipo in -ino passati poi nella princeps ad -ano: possino > possano III 13, 3, creschino > crescano III 27, 4, dependino > dependano III 42, 1, divenghino > divengano III 47, 3, constituischino > constituiscano III 62, 2, detragghino > detraggano III 73, 33. Naturalmente è impossibile stabilire se queste correzioni siano farina del sacco di Galileo o semplici aggiustamenti tipografici. [56] Cfr. Roberta Cella, Fenomeni innovativi nel fiorentino trecentesco. La terza persona plurale dei tempi formati con elementi perfettivi, in «Studi di grammatica italiana», XXXIII, 2014, pp. 1-97, in part. pp. 31-34 e Frosini, La lingua di Machiavelli, cit., p. 130. La presenza di questa stessa uscita nel Saggiatore è segnalata e commentata da Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, cit., p. 248 nota 20. [57] Ho limitato la ricerca ai due soli verbi apparire e avere. Esempi di apparirebbono s’incontrano nel Trattato della sfera ovvero Cosmografia (3 occ.), nei Frammenti attenenti alle lettere sulle macchie solari (1 occ.) e nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (6 occ.); esempi di arebbono e di avrebbono s’incontrano nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (2 occ.), nei Frammenti attenenti alla scrittura in risposta a Ludovico delle Colombe e Vincenzo di Grazia (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.) e nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1 occ.), a fronte di un solo esempio di avrebbero in questo stesso ultimo testo. [58] Non ho registrato occorrenze di apparirebbero né di apparirebbono. Avrebbero (o arebbero o averebbero) s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (3 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (5 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (11 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (7 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.), nel Corriero svaligiato (8 occ.) e nella Retorica delle puttane (1 occ.) di Ferrante Pallavicino; apparirebbono s’incontra nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.); avrebbono (o arebbono o averebbono) s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (5 occ.) e https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (8 occ.). Estendendo l’indagine alle forme di sesta persona del condizionale di due verbi di largo uso come essere e fare ho ricavato che nella prosa del Seicento i due tipi in -ebbero e in -ebbono sono ugualmente diffusi: sarebbero è nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (5 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (5 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (5 occ.), nel Corriero svaligiato (1 occ.) e nella Retorica delle puttane (1 occ.) di Ferrante Pallavicino e nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (3 occ.); sarebbono è nel Fuggilozio di Tommaso Costo (4 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (134 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (41 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (1 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (4 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (3 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (13 occ.); farebbero è nel Brancaleone del Latrobio (3 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (4 occ.) e nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (1 occ.); farebbono è nel Fuggilozio di Tommaso Costo (3 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (16 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (4 occ.), nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (5 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (5 occ.). [59] Salviati (Regole, cit., pp. 168 e 177) codifica le uscite -ebbono e -ieno ma non l’uscita -ebbero; Pergamini (Trattato, cit., p. 193) e Cinonio (Osservazioni, cit., pp. 89 e 94) codificano sia -ebbero sia -ebbono; anche Buommattei (Della lingua toscana, cit., pp. 314, 318, 328, ammette entrambe le uscite, privilegiando -ebbero nella presentazione del quadro flessionale dei verbi regolari delle tre coniugazioni (p. 332). [60] Vitale, Leonardo Di Capua e il capuismo napoletano, cit., p. 205. [61] Cfr. Morgana, Le «lingue» del «Galateo», cit., pp. 109-110 e nota 156; Frosini, La lingua di Machiavelli, cit., p. 140. [62] Salviati (Regole, cit., pp. 179 e 180) e Buommattei (Della lingua toscana, cit., pp. 314 e 315) inseriscono nel quadro flessionale di essere soltanto la forma sieno, mentre Pergamini (Trattato, cit., pp. 208 e 209) dà, nell’ordine, siano e sieno. Non ho trovato indicazioni utili nelle Osservazioni del Cinonio. [63] Il tipo siano s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (432 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (31 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (14 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (3 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (16 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (10 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (9 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (3 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (9 occ.), nelle Due comedie in comedia di Giovan Battista Andreini (5 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (42 occ.), nel Corriero svaligiato (19 occ.) e nella Retorica delle puttane (29 occ.) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (71 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (10 occ.); il tipo sieno s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (39 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (66 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (24 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (7 occ.), nell’Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini (6 occ.), nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (3 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.). [64] Serianni, La lingua del Seicento, cit., p. 579. [65] In particolare, il tipo fosse è presente nelle seguenti lettere autografe: a Curzio Picchena del 12 marzo 1616 (OG, XII, p. 248) a Cosimo II Granduca di Toscana del febbraio 1619 (OG, XII, p. 441), a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 109), a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611 (OG, XI, p. 148), a Cosimo de’ Medici del 24 agosto 1607 (OG, X, p. 178), ai Riformatori dello Studio di Padova del 4 novembre 1609 (OG, X, p. 264), a Francesco Barberini del 19 settembre 1623 (OG, XIII, p. 130), a Cesare Marsili del 7 dicembre 1624 (OG, XIII, p. 235), a Fulgenzio Micanzio del 21 giugno 1636 (OG, XVI, p. 441), a Giovan Battista Baliani del 6 agosto 1630 (OG, XIV, p. 128). Invece, si registra la presenza del tipo fusse nelle seguenti lettere autografe: a Michelangelo Galilei del 20 novembre 1601 (OG, X, p. 85), ai Riformatori dello Studio di Padova del maggio 1602, del 9 marzo 1609 e del 4 novembre 1609 (OG, X, pp. 88, 236 e 264), a Vincenzo Gonzaga del 22 maggio 1604 (OG, X, p. 106), a Cristina di Lorena dell’8 dicembre 1606 e del settembre 1608 (OG, X, pp. 166 e 223), a Cosimo de’ Medici del 24 agosto 1607 (OG, X, p. 178), a Belisario Vinta del 14 marzo 1608 e del 30 maggio 1608 (OG, X, pp. 195 [3 occ.] e 211), ad Antonio de’ Medici dell’11 febbraio 1609 (OG, X, p. 229), al «S. Vesp.» del febbraio 1609 (OG, X, p. 232), a Leonardo Donato del 24 agosto 1609 (OG, X, p. 250), a Belisario Vinta del 13 febbraio 1610, del 13 marzo 1610, del 19 marzo 1610 e del 7 maggio 1610 (OG, X, pp. 284, 289, 299 [2 occ.], 300, 350 e 351), a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611 (OG, XI, pp. 142 [2 occ.], 146, 147 [2 occ.], 148 [2 occ.], 149 [2 occ.], 150 [2 occ.] e 152), ad Andrea Cioli del 15 ottobre del 1613, del 1o gennaio 1629, del 6 ottobre 1632, del 19 marzo 1633 e del 23 luglio 1633 (OG, XI, p. 584, XIV, pp. 11 e 403, XV, pp. 70 e 187), a Giovan Battista Baliani del 12 marzo 1614 e del 6 agosto 1630 (OG, XII, p. 34 e XIV, p. 128 [3 occ.]), a Curzio Picchena dell’8 gennaio 1616 e del 22 marzo 1617 (OG, XII, pp. 222 e 311), a Federigo Borromeo del 23 dicembre 1617 (OG, XII, p. 357), a Federico Cesi del 4 aprile 1624 e del 13 gennaio 1630 (OG, XIII, p. 169 e XIV, p. 67 [2 occ.]), a Cesare Marsili del 28 febbraio 1625, del 22 novembre del 1625, del 17 luglio 1626, del 16 febbraio 1630, del 5 aprile 1631, del 5 luglio 1631 e dell’11 settembre 1632 (OG, XIII, pp. 256, 290 e 332 e XIV, pp. 79, 240 [3 occ.], 280 e 386), a Benedetto Castelli dell’11 giugno 1628 (OG, XIII, p. 434), a Giovanfrancesco Buonamici del 19 novembre 1629 (OG, XIV, pp. 53 e 54), ad Alessandra Bocchineri Buonamici dell’8 agosto 1630 (OG, XIV, p. 131), a Raffaello Staccioli del 3 aprile 1631 (OG, XIV, p. 238), e a Francesco Barberini del 13 ottobre 1632 (OG, XIV, pp. 406 e 407). [66] Salviati (Regole, cit., p. 180), ammette sia le forme con vocale radicale o sia le forme con vocale radicale u; Cinonio (Osservazioni, cit., p. 2) codifica «s’io Fossi, s’egli Fosse»; Buommattei (Della lingua toscana, cit., p. 324) ammette solo le prime e censura esplicitamente le seconde: «E diciamo fossi, fosse, fossimo, foste e fossero, non fvsti, fvsse e c. come pensano alcuni doversi dire». [67] Fosse si trova nel Fuggilozio di Tommaso Costo (14 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1.627 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (543 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (5 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (15 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (5 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (109 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (130 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (6 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (2 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (8 occ.), nell’Amor nello specchio (7 occ.) e nelle Due comedie in comedia (7 occ.) di Giovan Battista Andreini, nella Supplica di Niccolò Barbieri (60 occ.), nel Corriero svaligiato (33 occ.) e nella Retorica delle puttane (7 occ.) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (108 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (12 occ.); fusse si trova nel Fuggilozio di Tommaso Costo (204 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (40 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (6 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (16 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (7 occ.) di Giulio Cesare Croce. https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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[68] Serianni, La lingua del Seicento, cit., p. 579. [69] Cfr. Manni, Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, cit., pp. 143-144. [70] Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 84; e cfr. anche Frosini, La lingua di Machiavelli, cit., p. 130. [71] Ho registrato esempi di essendo (oltre duemila, nell’insieme) in tutti i testi secenteschi in prosa archiviati nella LIZ, e qualche esempio di sendo soltanto nella Lucerna di Francesco Pona (8 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (8 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (12 occ.) e nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (1 occ.). Se non ho visto male, nelle Regole di Salviati e nel Della lingua toscana di Buommattei non ci sono riferimenti al gerundio di essere (cfr., nel merito, anche Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 85); nel Trattato di Pergamini (p. 210) e nelle Osservazioni del Cinonio (p. 119) è codificata solo la forma piena. [72] Ivi, p. 86. Lo studioso precisa: «mentre nelle lettere del periodo 1574-1613 il rapporto tra la forma aferetica (56 occorrenze, di cui 28 autografe) e la forma normale (112, di cui 41 autografe) è di 1 a 2 (addirittura 1 a 1.5 nelle sole missive autografe), in quelle degli anni 1620-1636 (9 sendo contro 46 essendo; 7/29 nelle sole lettere autografe) passa da 1 a 5.1 (1 a 4.1 nelle autografe)» (ivi, p. 84). [73] Cfr. Manni, Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, cit., pp. 141-142 e Serianni, La lingua del Seicento, cit., p. 578. [74] Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, cit., p. 168. [75] Do conto dei risultati prodotti dall’interrogazione di Galileo//Thek@, precisando che ho circoscritto l’indagine alle forme di terza e di sesta persona, che sono quelle attestate nella lettera a Castelli. Nelle opere scientifiche, il tipo con labiodentale è attestato nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (5 occ.), nelle aggiunte agli Errori di Giorgio Coresio nella sua Operetta del galleggiare della figura (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (3 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (2 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (3 occ.), nel Saggiatore (14 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (3 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (33 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.) e in vari scritti e frammenti d’incerta datazione (4 occ.), per un totale di 72 occorrenze. Invece, il tipo senza labiodentale è attestato nell’Argomento e traccia d’una commedia (1 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nelle postille al Contro il moto della Terra (1 occ.), nelle postille e frammenti della risposta alle Considerazioni di Accademico Incognito (3 occ.), nelle postille al De phaenomenis in orbe lunae nunc iterum suscitatis (1 occ.), nei Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (1 occ.), nella Lettera a Tolomeo Nozzolini (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (2 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (23 occ.), nei Frammenti attenenti alla scrittura in risposta a Ludovico delle Colombe e Vincenzo di Grazia (1 occ.), nelle Lettere a Piero Dini (1 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (2 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.), nelle postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (2 occ.), nelle Scritture concernenti il quesito in proposito della stima d’un cavallo (3 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (3 occ.), nelle note alla Famosi et antiqui problematis de Telluris motu vel quiete hactenus optata solutio di Jean-Baptiste Morin (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (18 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.) e nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (13 occ.), per un totale di 81 occorrenze. Nelle lettere autografe, il tipo con labiodentale occorre in una lettera a Leopoldo d’Austria del 16 aprile 1621 (OG, XIII, p. 61), mentre il tipo senza labiodentale occorre nelle seguenti missive: a Curzio Picchena del 12 dicembre 1615 e del 23 gennaio 1616 (OG, XII, pp. 208 [2 occ.] e 227), a Benedetto Castelli dell’8 gennaio 1629 (OG, XIV, p. 16), a Michelangelo Buonarroti del 3 giugno 1630 (OG, XIV, p. 112), ad Andrea Cioli del 10 marzo 1615 e del 3 maggio 1631 (OG, XII, p. 152 e XIV, p. 258 [2 occ.]), a Cesare Marsili dell’11 settembre 1632 (OG, XIV, p. 386) e a Fulgenzio Micanzio del 12 luglio 1636 (OG, XVI, p. 448 [2 occ.]). [76] Il tipo ar- s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (30 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (28 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (19 occ.); il tipo avr- s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (66 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (3 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (121 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (4 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (4 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (2 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (51 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (14 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (9 occ.), nell’Amor nello specchio (1 occ.) e nelle Due comedie in comedia (3 occ.) di Giovan Battista Andreini, nella Supplica di Niccolò Barbieri (12 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (3 occ.), nel Corriero svaligiato (22 occ.) e nella Retorica delle puttane (3 occ.) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (22 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (2 occ.). [77] Codificano esclusivamente il tipo con labiodentale Pergamini (Trattato, cit., pp. 204-205), Cinonio (Osservazioni, cit., p. 92) e Buommattei (Della lingua toscana, cit., pp. 318-319), che censura esplicitamente quello senza labiodentale: «Avrò, non arò, come dicono e scrivono i negligenti, nè averò, conforme a’ troppo saputi [...], e ’l simile avviene di avrei, avresti co’ suo’ compagni» (ivi, p. 327). Soltanto Salviati (Regole, p. 165) ammette in alternativa arei. [78] Cfr. Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., pp. 86-88, tutte le citazioni a p. 87; Frosini, La lingua di Machiavelli, cit., p. 124. [79] Salviati non inserisce la forma del participio passato nel quadro flessionale di essere, ma altrove (Regole, pp. 159-160) dà alcuni esempi di tempi composti con avuto; non ho trovato indicazioni nelle Osservazioni del Cinonio; Pergamini (Trattato, cit., p. 206) e Buommattei (Della lingua toscana, cit., pp. 316-321) codificano, rispettivamente, havuto e avuto. [80] Mentre avuto occorre in tutti i testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ, di auto si ha un solo esempio nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi. [81] Il tipo cambiare s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (4 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (15 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (4 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce (1 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (1 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (3 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.), nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (1 occ.), nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (15 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.). Il tipo cangiare è attestato nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (18 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (19 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (9 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (6 occ.), nel Corriero svaligiato (12 occ.) e nella Retorica delle puttane (2 occ.) di Ferrante Pallavicino. [82] Crusca I e Crusca II lemmatizzano sia cambiare sia cangiare. https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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[83] Il tipo cambiare, infatti, si trova nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (4 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (1 occ.), nel Saggiatore (1 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (2 occ.), nelle postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (1 occ.) e in un frammento d’incerta datazione (1 occ.); cangiare, a sua volta, ricorre nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (3 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nel Saggiatore (3 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (5 occ.), nei Frammenti attenenti al Dialogo (1 occ.), nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1 occ.), nelle Postille all’Ariosto (1 occ.) e in una lettera autografa a Cristina di Lorena dell’8 dicembre 1606 (OG, X, p. 165). [84] Fra i testi in prosa del Seicento archiviati nella LIZ ne ho registrato un unico esempio nel Brancaleone del Latrobio. [85] Salviati, nelle sue Regole, non dà indicazioni sul paradigma di dovere; Pergamini (Trattato, cit., p. 245), Cinonio (Osservazioni, cit., p. 3) e Buommattei (Della lingua toscana, cit., p. 343), che invece ne danno, non ammettono doviamo nella lista delle forme di verbo. [86] Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 66. [87] Cfr. ivi, pp. 65-66. [88] Vaglia è presente nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (1 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (4 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (3 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nel Saggiatore (2 occ.), nella Lettera a Francesco Ingoli (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (7 occ.) e, fra i testi e i frammenti d’incerta datazione, nelle Postille all’Ariosto (1 occ.). [89] Vaglia s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (2 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (4 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (5 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (12 occ.). [90] Cfr. Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Morfologia, Torino, Einaudi, 1968, § 535. [91] Limitando la ricerca alle forme di terza persona, registro che nelle opere il tipo vegga s’incontra nel Trattato di fortificazione (2 occ.), nell’Argomento e traccia d’una commedia (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (3 occ.), nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (4 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (16 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), nel Saggiatore (12 occ.), nelle Scritture concernenti il quesito in proposito della stima d’un cavallo (1 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (16 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1 occ.), nelle Operazioni astronomiche (1 occ.) e nei Frammenti di data incerta (1 occ.). Se ne trovano poi esempi nelle seguenti lettere autografe: a un destinatario sconosciuto del 14 giugno 1596 (OG, X, p. 67), a Michelangelo Galilei dell’11 maggio 1606 (OG, X, p. 158), a Belisario Vinta del 15 gennaio 1611 e del 4 giugno 1612 (OG, XI, pp. 27 e 316 [2 occ.]), a Giuliano de’ Medici del 23 giugno 1612 (OG, XI, p. 336), a Giovanfrancesco Buonamici del 19 novembre 1629 (OG, XIV, p. 54), a Michelangelo Buonarroti del 15 maggio 1614 e del 5 giugno 1630 (OG, XII, p. 62 e XIV, p. 115), a Fulgenzio Micanzio del 9 febbraio 1636 e del 12 luglio 1636 (OG, XVI, pp. 391, 448 [2 occ.] e 449). [92] Ho circoscritto la ricerca alla prima persona singolare dell’indicativo presente e alle prime tre persone del congiuntivo presente. Il tipo vedo, veda s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (4 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (1 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (1 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (13 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (3 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (7 occ.), nell’Amor nello specchio (1 occ.) e nelle Due commedie in commedia (3 occ.) di Giovan Battista Andreini, nella Supplica di Niccolò Barbieri (7 occ.), nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (1 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.); il tipo veggo, vegga s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (8 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (7 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (13 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (1 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce (5 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (2 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (9 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (1 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.), nell’Amor nello specchio (7 occ.) e nelle Due comedie in comedia (3 occ.) di Giovan Battista Andreini e infine nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (27 occ.). [93] Nelle Regole di Salviati non ci sono riferimenti al paradigma di vedere; Cinonio (Osservazioni, cit., p. 3) cita sia vedo sia veggo; Pergamini (Trattato, cit., pp. 214-215) e Buommattei (Della lingua toscana, cit., pp. 346-347) codificano l’alternativa vedo/veggo per la prima persona dell’indicativo presente, mentre ammettono vegga ma non veda per la prima e la terza persona di quello che chiamano, rispettivamente, «disiderativo futuro» e «futuro dell’ottativo» (ma Pergamini inventaria «Veda Colui» tra le forme dell’imperativo presente). [94] In particolare, la forma piena dell’infinito offerire s’incontra nelle Considerazioni al Tasso (4 occ.), nei Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno su l’acqua (4 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1 occ.), in una delle due Lettere a Piero Dini (1 occ.) e nelle seguenti lettere autografe: a Belisario Vinta dell’8 febbraio 1608 e del 14 marzo 1608 (OG, X, pp. 191 e 195), a Giovan Battista Baliani del 25 gennaio 1614 (OG, XII, p. 16) e a Curzio Picchena del 13 febbraio 1616 (OG, XII, p. 234). [95] Registro esempi della forma piena nel Fuggilozio di Tommaso Costo (9 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (75 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (2 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (4 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (3 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (8 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (36 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (1 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (5 occ.), nel Corriero svaligiato (7 occ.) e nella Retorica delle puttane (2 occ.) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (9 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (1 occ.) ed esempi della forma sincopata nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (4 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (2 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (3 occ.), nel Corriero svaligiato (10 occ.) e nella Retorica delle puttane (6 occ.) di Ferrante Pallavicino. [96] Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 96. [97] Ibidem. Sulla storia presecentesca di anco sono utilissime anche le osservazioni e le indicazioni bibliografiche offerte da Pierluigi Ortolano in Paolo Del Rosso, Regole, osservanze et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa et in https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/21
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versi, Edizione a cura di Pierluigi Ortolano, Pescara, Opera University Press, 2009, p. 43 e nota 138. [98] Naturalmente anche è la forma più diffusa. Se ne trovano esempi nel Fuggilozio di Tommaso Costo (103 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (43 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (7 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (3 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (3 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (38 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (16 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (6 occ.), nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (102 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (12 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (62 occ.), nell’Amor nello specchio (20 occ.) e nelle Due comedie in comedia (34 occ.) di Giovan Battista Andreini (13 occ.), nella Supplica di Niccolò Barbieri (32 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (74 occ.), nel Corriero svaligiato (127 occ.) e nella Retorica delle puttane (105) di Ferrante Pallavicino, nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (188 occ.) e nella Relazione della China di Lorenzo Magalotti (10 occ.). Anco s’incontra nel Fuggilozio di Tommaso Costo (47 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1.446 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (352 occ.), nell’Idea delle perfette imprese di Emanuele Tesauro (10 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (6 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (2 occ.) di Giulio Cesare Croce, nel Brancaleone del Latrobio (109 occ.), nella Lucerna di Francesco Pona (57 occ.), nella Città del Sole di Tommaso Campanella (3 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (19 occ.), nella Maria Maddalena di Anton Giulio Brignole Sale (3 occ.), nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (1 occ.) e nella Ricreazione del savio di Daniello Bartoli (74 occ.). [99] Luca Serianni, Il primo Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 195 nota 5. [100] Nella fattispecie, sodisfazzione e soddisfazione. La prima s’incontra nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (130 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce (1 occ.), nel Brancaleone del Latrobio (4 occ.), nel Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto (4 occ.), nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (8 occ.) e nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino (24 occ.); la seconda s’incontra nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (119 occ.) e nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (2 occ.). Seguono sodisfazione, presente nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (3 occ.), nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (4 occ.), nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo (1 occ.) e nelle Piacevoli simplicità di Bertoldino (1 occ.) di Giulio Cesare Croce, nella Lucerna di Francesco Pona (3 occ.), nell’Amor nello specchio (1 occ.) e nelle Due comedie in comedia (1 occ.) di Giovan Battista Andreini, nella Supplica di Niccolò Barbieri (2 occ.) e nella Retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino (27 occ.); satisfazzione, presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (3 occ.) e nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (22 occ.); satisfazione, presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.), nell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi (1 occ.) e nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (2 occ.) e infine soddisfazzione, presente nel Fuggilozio di Tommaso Costo (1 occ.) e nel Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala (1 occ.). [101] In particolare, sodisfazione è attestato nella Lettera a Iacopo Mazzoni (1 occ.), nelle Operazioni del compasso geometrico e militare (1 occ.), nelle Considerazioni al Tasso (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (2 occ.), nelle Scritture attenenti all’idraulica (1 occ.), nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (14 occ.), nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (8 occ.) e in uno scritto d’incerta datazione (1 occ.); satisfazione è attestato nelle Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (1 occ.), nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (5 occ.), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1 occ.), nella Risposta alle opposizioni di Ludovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato Delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (2 occ.), nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana (1 occ.), nel Discorso del flusso e reflusso del mare (1 occ.), nelle postille alla Libra astronomica ac philosophica (1 occ.) e nelle postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (3 occ.); sodisfazzione nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (2 occ.), nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.); soddisfazione è attestato nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (3 occ.) e nel Della forza della percossa (1 occ.); soddisfazzione s’incontra nel Saggiatore (2 occ.) e infine satisfazzione è attestato nei Frammenti attenenti alla lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.) e nella Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1 occ.). [102] Satisfazione s’incontra nelle lettere autografe che seguono: a Curzio Picchena del 9 febbraio 1607, del 6 febbraio 1616 e del 12 marzo 1616 (OG, X, p. 168 [2 occ.] e XII, pp. 231 [2 occ.] e 248), a Belisario Vinta dell’8 febbraio 1608, del 14 marzo 1608, del 18 giugno 1610, del 1o aprile 1611 e del 27 aprile 1611 (OG, X, pp. 189 [3 occ.], 190 [2 occ.], 195 e 373, XI, pp. 79 e 94), a un destinatario sconosciuto del febbraio 1609 (OG, X, p. 232), a Marco Welser del febbraio 1611 (OG, XI, p. 38), a Piero Dini del 21 maggio 1611 (OG, XI, p. 105) e a Federico Cesi del 19 dicembre 1611 (OG, XI, p. 248). Sodisfazione, invece, s’incontra nelle lettere autografe che seguono: a Curzio Picchena del 27 aprile 1624 (OG, XIII, p. 175), a Cesare Marsili del 7 settembre 1629 (OG, XIV, p. 46); ad Andrea Cioli del 7 marzo 1631 (OG, XIV, pp. 216 e 217), a Francesco Barberini del 13 ottobre 1632 (OG, XIV, p. 410), a Geri Bocchineri del 28 luglio 1633 (OG, XV, p. 198), a Fulgenzio Micanzio del 1o dicembre 1635 e del 18 ottobre 1636 (OG, XVI, pp. 355 e 506), a Ladislao IV re di Polonia del luglio-agosto 1636 (OG, XVI, p. 459). [103] Il GDLI dà come prima attestazione di asseverantemente un luogo dell’Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi; ma la forma è già presente nel volgarizzamento del De inventione dialectica dell’umanista olandese Roelof Huysman (noto anche come Rudolf Agricola Frisius) allestito da Orazio Toscanella e dato alle stampe nel 1567, e in uno scritto polemico di Giovanni Antonio Bovio pubblicato nel 1606. Ecco i contesti: «I modi generali di cercare sono due, percioché overo noi cerchiamo asseverantemente, overo con condicione. Asseverantemente, quando noi diciamo: “Se s’ha da governar la Republica”. Con condicione, come: “Se s’ha da governar la Republica, se il mondo non si regge per providenza”. I Greci chiamarono la prima κατηγορική, la quale noi possiamo chiamar predicativa; la seconda ὑποϑετική, la quale noi possiamo chiamar condicionale» (Rodolfo Agricola Frisio Della inuention dialettica; tradotto da Oratio Toscanella della famiglia di maestro Luca fiorentino..., in Venetia, appresso Giovanni Bariletto, 1567, p. 136); «mi dà grandissima admiratione che un huomo tale parli così asseverantemente di cosa che non sa come stia» (Confirmatione delle considerationi del P. M. Paulo di Venetia contra le oppositioni del R. P. M. Gio. Antonio Bovio Carmelitano di M. Fulgentio Bresciano Servita..., in Venetia, appresso Ruberto Meietti, 1606, p. 354). Per quel che riguarda gli altri scritti di Galileo, l’avverbio è presente nella Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra (1 occ.), nella Lettera a Cristina di Lorena (1 occ.), nel Saggiatore (1 occ.), nelle postille alla Ratio ponderum librae et simbellae (1 occ.) e nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1 occ.). Fra i testi secenteschi in prosa archiviati nella LIZ se ne incontrano esempi solo nella già citata Istoria di Sarpi (2 occ.). [104] Sull’uso sistematico, da parte di Galileo, di alcuni avverbi in -mente epistemici di frase cfr. Davide Ricca, «Soggettivizzazione» e diacronia degli avverbi in «-mente»: gli avverbi epistemici ed evidenziali, in AA.VV., «Diachronica et synchronica». Studi in onore di
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Anna Giacalone Ramat, a cura di Romano Lazzeroni, Emanuele Banfi, Giuliano Bernini, Marina Chini, Giovanna Marotta, Pisa, ETS, 2008, pp. 429-452, in part. pp. 436-437 e De Cesare, Tipologie testuali e modelli, cit., pp. 78-79. [105] Sulla presenza ricorrente di questa categoria di avverbi negli scritti dello scienziato ho avviato uno studio che s’intitolerà Galileo Galilei e l’economia delle parole: l’avverbio in «-mente» nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo». [106] Cfr. GDLI, s. v. necessariamente. [107] Luca Serianni, Profilo della prosa letteraria, cit., in Id., Italiano in prosa, Firenze, Cesati, 2012, pp. 11-169, in part. p. 106; ivi la citazione. [108] Cfr. Altieri Biagi, Sulla sintassi dei «Massimi sistemi», cit., pp. 51-52. [109] Mi permetto di rinviare a Giuseppe Patota, «Ut semper dicenda ex dictis pendeant». Gli incapsulatori anaforici nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo» e negli altri scritti scientifici di Galileo, in «Studi Linguistici Italiani», XLVII, 2021, I, pp. 1-18, in part. pp. 9-13. [110] Serianni, Profilo della prosa letteraria dal Due al primo Novecento, cit., p. 105. [111] Altieri Biagi, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, cit., p. 13. [112] Cfr. Serianni, Profilo della prosa letteraria dal Due al primo Novecento, cit., p. 106. [113] Cfr. Patota, «Ut semper dicenda ex dictis pendeant», cit. [114] Ricci, Leggendo il «Dialogo», cit., p. 100. Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino - Legal notice Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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Giuseppe Patota L'universo in italiano La lingua degli scritti copernicani di Galileo
Capitolo secondo Come scriveva Galileo all’altezza del 1615? Sintassi e testualità della Lettera a Cristina di Lorena Abstract La Lettera a Cristina di Lorena, tràdita dal Codice Bardi III 194 dell’Archivio di Stato di Firenze, è il soggetto di questo secondo capitolo. In questa si pone il problema delle scienze fisiche e della teologia affrontando il nodo della libertà d’indagine e riflessione intellettuale. La sintassi e la testualità della Lettera svelano la sua natura di lettera-trattato. Si discutono poi la stesura, i ritocchi e le trascrizioni del testo marcando una corrispondenza di tratti con i Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo. A livello sintattico, è di risalta il ricorso al chiasmo e allo spostamento del peso sintattico-semantico a fine periodo. La Lettera a Cristina di Lorena fu, come è ben noto, il punto d’arrivo di una campagna di autodifesa e, contemporaneamente, di difesa [1] dell’ipotesi della «mobilità della Terra e stabilità del Sole» che impegnò Galileo tra il 1613 e il 1615. Nata dal tentativo dello scienziato di rispondere in modo argomentato e documentato agli avversari suoi e della teoria copernicana, accusata di essere contraria alla Scrittura, la Lettera ha finito col diventare un testo d’importanza fondamentale nella storia della cultura dell’Occidente moderno. In essa si pone il problema dell’emancipazione delle scienze fisiche dalla teologia, si affronta il nodo della libertà d’indagine e riflessione intellettuale [2] e si prospettano, forse al di là delle stesse intenzioni di Galileo [3] , «nuovi assetti di potere intellettuale nei paesi cattolici» [4] . Lo scienziato vi mise a confronto, con maggiore estensione, profondità e ricchezza di riferimenti alla tradizione {p. 74}
patristica di quelle applicate ad alcuni scritti che l’avevano preceduta, i due libri di Dio – la natura e la Bibbia – in merito alla questione della mobilità o stabilità della Terra e del Sole e della loro collocazione nel sistema dell’Universo. Egli arrivò a questa lettera-trattato per approssimazioni successive, trasferendovi considerazioni e argomentazioni già prodotte nella Lettera a D. Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613, nelle due a Piero Dini del 14 febbraio e del 21 marzo 1615 e nella terza delle cosiddette Considerazioni circa l’opinione copernicana, consistente, come si vedrà nel capitolo seguente, in una serie numerata di annotazioni a singoli luoghi della lettera che Roberto Bellarmino scrisse a Paolo Antonio Foscarini il 12 aprile 1615 [5] . La storia della composizione e della ricezione dello scritto di cui qui si tratta è stata puntualmente ricostruita da Ottavio Besomi fra il 2008 e il 2012. Da un suo articolo del 2009 e, a seguire, dalla Premessa e dall’Introduzione alla sua edizione critica della Lettera a Cristina, pubblicata per l’appunto nel 2012, ricaviamo che Galileo, tra il febbraio e il maggio 1615, avvertì per lettera sia Piero Dini sia Benedetto Castelli del fatto che stava lavorando a questa nuova scrittura. Allestitane una prima stesura (che non sarebbe stata quella definitiva) nei primi mesi del 1615, dopo la censura del Sant’Uffizio nei confronti delle opere copernicane del 26 {p. 75}
settembre 1616, dopo il decreto di condanna di quelle stesse opere del 3 marzo 1616 e dopo il monito del cardinal Bellarmino, che gl’imponeva di non dichiarare pubblicamente la sua adesione alla dottrina copernicana [6] , Galileo preferì tenere la Lettera nel cassetto, facendola semmai conoscere a pochissimi lettori fidati. Dopo il 16 maggio 1615, infatti, dal carteggio dello scienziato non emerge più alcun riferimento a quello scritto fino all’aprile del 1632, quando esso tornò al centro dell’interesse di amici e corrispondenti; e al centro dell’interesse di corrispondenti e amici rimase nel 1635, in concomitanza con l’uscita del Systema cosmicum, la versione latina del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che Matthias Bernegger pubblicò a Strasburgo, e naturalmente nel 1636, in concomitanza con l’uscita, nella stessa città di Strasburgo, della sua prima edizione a stampa, con l’originale italiano a supporto dell’edizione latina di Elia Diodati [7] . L’andamento «carsico» che caratterizzò il segmento più antico della storia della ricezione della Lettera a Cristina connota anche il segmento più recente della storia della sua restituzione. Nel 1890 Antonio Favaro, censiti 34 (27, secondo Ottavio Besomi) manoscritti di provenienza perlopiù fiorentina e romana «scelti in base a un criterio non specificato – ma legato probabilmente alla mera contingenza della loro accessibilità» [8] , pose a fondamento della sua edizione, pub {p. 76}
blicata nel V volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, il testo trascritto alle cc. 23-57 del codice segnato Mss. Galileiani, Par. IV, T.I della Biblioteca Nazionale di Firenze (G), da lui giudicato «un de’ migliori» ed «esemplato da copista toscano» [9] . Lo studioso, però, corresse varie lezioni di questo testo sulla base di quello trascritto alle cc. 101-119 del codice allora segnato Volpicelliano A (oggi Archivio Linceo 1) della Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana (V), da lui giudicato «singolarissimo» sia perché vi compaiono correzioni autografe di Galileo sia perché in esso, diversamente che in tutti gli altri testimoni censiti, la Granduchessa Cristina non è mai menzionata: i diversi passaggi di tutti gli altri testimoni in cui Galileo si rivolge a «Sua Altezza Serenissima», in V o mancano o sono sostituiti dall’allocuzione a una «Paternità» che, secondo Favaro, è da individuare in Benedetto Castelli. Questi fatti spinsero Favaro a ritenere che quella contenuta nel codice linceo fosse una più antica stesura della lettera, risalente a quando il testo era ancora in formazione, e che fosse stata spedita o portata da Galileo o al principe Cesi o ad altro suo amico romano [10] . La contraddittorietà della soluzione praticata dallo studioso, che restituiva un testo artificiale, in cui una versione ritenuta più recente della Lettera a Cristina veniva corretta soprattutto sulla base di una sua redazione giudicata provvisoria e più antica, è stata segnalata nel 2000 da Franco Motta [11] , che anche per questo deve aver fondato la sua edizione sul testo offerto dal primo esemplare a stampa della lettera, quello pubblicato a Strasburgo nel 1636. {p. 77}
Il panorama fin qui delineato è stato poi arricchito e rivoluzionato dalla scoperta, che Ottavio Besomi ha annunciato al pubblico degli studiosi nel 2008 [12] , di una prima stesura di quella lettera rimasta fino ad allora ignota, strutturalmente sovrapponibile al testo definitivo della princeps ma diversa da questo in oltre 350 luoghi per fatti di lingua e di stile. Questa stesura originaria impegna l’intero codice segnato Bardi III 194 conservato nell’Archivio di Stato di Firenze. Nell’articolo in cui dà conto della scoperta e nella nota al testo che accompagna l’edizione critica della lettera (in cui confluiscono i due contributi già citati del 2008 e del 2009 e un terzo del 2010) [13] , Besomi argomenta inoppugnabilmente la priorità cronologica del testo contenuto in questo codice (da lui indicato come A) sulla https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/71
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base di tre fatti fondamentali: 1) l’assenza, in esso, di dittologie (sinonimiche e non) presenti invece in tutti gli altri testimoni e nel testo della princeps: «sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi, sintagmi che in A si trovano in una forma semplice, risultano sdoppiati nella lezione definitiva, in forma di vere e proprie dittologie»; 2) la presenza di un centinaio di altre varianti; 3) l’assenza di due porzioni di testo [14] . Anche in forza della scoperta di questa stesura più remota, che Favaro non conosceva, Besomi rovescia l’antica ipotesi di lui: lungi dall’essere una versione antica della Lettera a Cristina offerta da Galileo in lettura o in dono a Cesi o a un altro amico romano, quella veicolata dal codice V è, probabilmente, una trascrizione piena di errori e/o lacune che un possessore di cui non è dato conoscere l’identità chiese a Galileo di correggere e/o colmare [15] ; e {p. 78}
questa trascrizione occupa «un posto nella tradizione meno alto rispetto a quello che Favaro le ha riconosciuto» [16] . Viceversa, dal fatto che nella lettera a Dini del 15 febbraio Galileo anticipi un passaggio della Lettera a Cristina, Besomi ipotizza – ed è ipotesi affatto persuasiva – che al tempo della stesura di quella prima lettera a Dini lo scienziato «avesse di fronte, o mentalmente presente, una redazione in fieri, che stava redigendo in quei giorni, corrispondente o vicina ad A» [17] . E visto che A «rappresenta la prima stesura nota della Lettera, contraddistinta da scelte stilistiche che l’autore muta radicalmente in séguito, quando conforma la scrittura a modi che diventeranno caratterizzanti qui e nelle opere maggiori» [18] , l’antica versione scoperta da Besomi rappresenta, per lo storico della lingua italiana, una preziosa occasione di studio, che forse può consentirgli di rispondere alla domanda che segue: come scriveva Galileo all’altezza del 1615, otto anni prima della pubblicazione del Saggiatore e diciassette anni prima della pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo? Ovviamente, non essendo quella tramandata da A una scrittura autografa, la risposta potrà riguardare soltanto l’assetto sintattico e testuale di questa prima versione della Lettera a Cristina, e non quello grafico e fonomorfologico: ma non è poco, visto che, come ho già scritto nell’Introduzione (p. 8), il Dialogo è l’unica opera galileiana di cui siano stati esplorati a fondo e con sistematicità, oltre e più che la morfologia, proprio l’organizzazione sintattica e testuale. Nel merito, Maria Luisa Altieri Biagi, esaminando specificamente queste due dimensioni dell’opera, ha dimostrato che Galileo ne rende conciso il dettato ricorrendo a un gran numero di costrutti ellittici, variamente abbreviati e abbrevianti. Sono, nella {p. 79}
fattispecie, i tratti seguenti: incapsulatori anaforici adoperati all’inizio di una battuta (1) o al confine tra due unità sintattiche (2); ellissi del verbo nelle risposte a domande che lo contengono (3) e in frasi coordinate (4) o giustapposte (5) a una prima proposizione in cui tale verbo è espresso; frasi subordinate aperte da un connettivo applicato non a un verbo ma a un nome (6), a un aggettivo (7) o a un participio (8); uso dell’avverbio presentativo ecco in frasi nominali (9) o seguito dal solo participio (10); sostituzione del verbo con un nome di significato analogo (11); accoglimento di un participio presente (12) o passato (13) equivalente a una frase subordinata; participio assoluto (14); condensazione di una frase relativa nell’aggettivo verbale in -bile (15); infinito sostantivato sostitutivo di una frase (16); proposizione soggettiva (17) e oggettiva (18) costruite con l’accusativo e l’infinito; sintagmi nominali che surrogano frasi esplicite (19); inserti parentetici che consentono di evitare un grado di subordinazione (20); gerundio (21) [19] . {p. 80}
Nel Dialogo ricorrono con frequenza anche altri tratti, parimenti abbrevianti, che possono arricchire questa lista: si tratta dell’incapsulatore anaforico costituito dal pronome relativo neutro che preceduto dall’articolo o dalla preposizione articolata (22) e dell’incapsulatore anaforico costituito dall’aggettivo relativo [20] concordato con un nome che richiama, sintetizzandolo, il contenuto di una porzione di testo di estensione variabile collocata alla sua sinistra (23) [21] . Quali di questi tratti sono presenti anche nella stesura più antica della Lettera a Cristina? La risposta che il suo spoglio consente di dare è quella che segue [22] . Per (2): «Nè si dovrebbe stimar temerità il non si quietare nell’opinioni comuni, nè dovrebbe niuno prendere a sdegno se alcuno non aderisce in dispute naturali alle loro opinioni, e massime intorno a problemi stati già migliaia d’anni controversi fra filosofi grandissimi, quale è la stabilità del Sole e la mobilità della Terra; opinione tenuta da Pittagora e tutta la sua setta» (13, 5); «Quindi resta manifesto {p. 82}
che tali autori, per non havere penetrato i veri sensi della Scrittura, l’haverebbono (quando la loro autorità fusse di gran momento) posta in obligo di dovere altri a stringer per vere conclusioni repugnanti alle ragioni manifeste et al senso: abuso che Deus avertat che pigliasse piede o autorità» (15, 1); «ponendo qualsivogli’hora del giorno, o la meridiana o altra quanto ne piace vicino alla sera, il giorno fu allungato e fermate tutte le conversioni celesti col fermarsi il Sole nel mezzo del cielo, cioè nel centro di esso cielo, dove egli risiede: senso tanto più accomodato alla lettera (oltre a quello che si è detto) quanto...» (39, 5). Per (4): «la moltitudine de’ veri sapienti concorre all’investigazione, accrescimento e stabilimento delle discipline, e non alla diminuzione e destruzione» (1, 2); «E prima, hanno cercato per loro medesimi di sparger concetto che tali proposizioni siano contro alle Sacre Lettere, et in conseguenza dannande et eretiche» (3, 1); «ne seguita che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra» (6, 1); «Però, prima che far questo, bisognerebbe che fosse loro mostrato il modo di fare che le potenze dell’anima si comandassero l’una l’altra, e l’inferiori alle superiori» (18, 2); «quando [il Sole] fusse stato nel meridiano, essendo allora intorno al solstizio estivo, e però i giorni lunghissimi, non pare verisimile che fosse necessario chiedere l’allungamento del giorno per conseguire vittoria in un conflitto» (39, 2). Per (7): «anzi, certificati d’alcune conclusioni naturali, doviamo servircene per accomodarci alla certa esposizione di esse et all’investigazion di quei sensi che in loro si contengono, come verissimi e concordi con le verità dimostrate» (10, 1); «Anzi, che non solo gl’autori delle Sacre Lettere non habbino preteso d’insegnarci i movimenti de’ cieli, delle stelle, figure e distanze, ma che a bello studio (benché in tutto ciò scientissimi) se ne siano astenuti, è opinione di santissimi e dottissimi Padri» (10, 5); «i Padri reflessero sopra questa conclusione come controversa» (26, 4); «il corpo solare, benché stabile nell’istesso, si rivolge però in sè stesso» (38, 1). Per (8): «l’istesso Spirito Santo a bello studio ha pretermesso d’insegnarci simili proposizioni, come nulla attenenti alla sua intenzione, cioè alla nostra salute» (11, 2); «[la teologia] quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine» (17, 5). Per (9): «dice che si deve mostrare che quel che è detto nella Scrittura della pelle, non è contrario a quelle vere dimostrazioni. Ecco le sue parole» (21, 4-5); «nulladimeno dice egli che la Scrittu {p. 83} https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/71
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ra, per accomodarsi alla credenza del vulgo, che pensa che in tale spazio non sta nulla, lo chiama vacuo e niente. Ecco le parole di S. Tommaso» (24, 5-6). Per (11): «si sono per tali rispetti risoluti a tentare di fare scudo alle fallacie dei loro discorsi col manto di simulata religione e con l’attestazione delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di ragioni nè intese nè sentite» (2, 4); «ho stimato necessario per mia giustificazione appresso dell’universale (del di cui giudizio in materia di religione e di reputazione, devo fare grandissima stima) discorrer di quei particolari che costoro producono per detestare et abolire questa opinione» (4, 1); «non si curerebbono d’arrischiare la dignità delle Sacre Lettere per sostentamento della reputazione di loro vane immaginazioni» (29, 2); «[i Padri santissimi] sono andati non solamente circospettissimi, ma hanno, per ammaestramento degl’altri, lasciati i seguenti precetti» (29, 4); «[Giosuè] non havendo intenzione d’insegnarli la constituzione delle sfere, ma solo che essi comprendessero la grandezza del miracolo fatto nell’allungamento del giorno, parlò conforme all’intendimento loro» (35, 2). Per (12) (scelta): «Io scopersi anni adietro (come ben sa l’Altezza Vostra Serenissima) molti particolari nel Cielo, stati invisibili sino a questa età; li quali, sì per la novità, sì per alcune conseguenze che da essi dependono, contrarianti ad alcune proposizioni naturali comunemente ricevute dalle scuole de’ filosofi, m’eccitarono contro non piccol numero di tali Professori» (1, 1); «parlando di certa conclusione naturale attenente ai corpi celesti, scrive così» (1, 2); «onde a lui fu dato il carico dal Vescovo Semproniense, allora sopraintendente a questa impresa, di cercare con replicati studi e fatiche di venir in maggior lume e certezza di essi movimenti celesti» (3, 2); «Potrà, dunque, essere un’opinione eretica, e nulla concernente alla salute dell’anima, e potrà dirsi, havere lo Spirito Santo voluto 〈non〉 insegnarci cosa concernente alla salute?» (11, 3); «Quindi resta manifesto che tali autori, per non havere penetrato i veri sensi della Scrittura, l’haverebbono (quando la loro autorità fusse di gran momento) posta in obligo di dovere altri a stringer per vere conclusioni repugnanti alle ragioni manifeste et al senso» (15, 1); «e più aggiungono che quando nell’inferiore scienza s’havesse alcuna conclusione per sicura, in vigore di dimostrazioni e d’esperienze, alla quale si trovasse nella Scrittura altra conclusione repugnante, devono gl’istessi professori di quella scienza procurar per sè medesimi di sciorre le {p. 84}
loro dimostrazioni et discoprire le fallacie delle proprie esperienze, senza ricorrere a teologi e scritturali» (16, 2); «mentre la stimano falsa, gli par d’incontrare, nel leggere le Scritture, solamente luoghi ad essa repugnanti» (40, 1). Per (13) (scelta): «Io scopersi anni adietro (come ben sa l’Altezza Vostra Serenissima) molti particolari nel Cielo, stati invisibili sino a questa età» (1, 1); «E scordatisi in certo modo che la moltitudine de’ veri sapienti concorre all’investigazione, accrescimento e stabilimento delle discipline, e non alla diminuzione o destruzione [...], scorsero a negare e far prova di annullare quelle novità» (1, 2); «inacerbiti più che prima da quello, onde gl’altri si sono addolciti e quietati, sento progiudicarmi in altri modi» (2, 1); «forse confusi per la conosciuta verità d’altre proposizioni da me affermate, diverse dalle comuni, e però diffidando ormai di difesa mentre restassero nel campo filosofico, si sono per tali rispetti risoluti a tentare di fare scudo alle fallacie dei loro discorsi col manto di simulata religione e con l’attestazione delle Scritture Sacre» (2, 4); «Quindi maggiormente affidati, e vanamente sperando che quel seme, che prima fondò radice nella mente loro non sincera, possa diffondere suoi rami, et alzarli verso il Cielo, vanno mormorando tra il popolo, che per tale ella sarà in breve dichiarata dall’autorità suprema» (3, 1); «onde egli, con fatiche veramente atlantiche, rimessosi a tale studio, s’avanzò tanto in queste scienze» (3, 2); «dedicò il suo libro Delle Revoluzioni Celesti, il quale, stampato pure allora, è stato ricevuto da S.ta Chiesa, letto e studiato per tutto il Mondo» (3, 2); «anzi, certificati d’alcune conclusioni naturali, doviamo servircene per accomodarci alla certa esposizione di esse et all’investigazion di quei sensi che in loro si contengono, come verissimi e concordi con le verità dimostrate» (10, 1); «Nè si dovrebbe stimar temerità il non si quietare nell’opinioni comuni, nè dovrebbe niuno prendere a sdegno se alcuno non aderisce in dispute naturali alle loro opinioni, e massime intorno a problemi stati già migliaia d’anni controversi fra filosofi grandissimi, quale è la stabilità del Sole e la mobilità della Terra; opinione tenuta da Pittagora e tutta la sua setta» (13, 5); «nella suprema autorità di quelli che, scorti dallo Spirito Santo, non possono se non santamente ordinare» (15, 2); «Io non metto in questo numero alcuni teologi reputati da me per huomini di profonda dottrina e santissimi costumi, e perciò tenuti in gran venerazione» (16, 1); «Potrei anco nominarle altri mattematici, che, mossi da miei scoprimenti, hanno confessato esser necessario mutare la già concepita constituzione del mondo, non potendo in {p. 85}
modo alcuno più sussistere» (19, 4); «anco nell’età nostra popolo assai men rozzo vien mantenuto nell’istessa opinione da ragioni che, ben esaminate, si troveranno frivolissime» (23, 3); «Nè si può pur tentare di rimuoverlo, non essendo capace delle ragioni contrarie, appoggiate sopr’astrazioni che per concepirsi richieggono troppo gagliarda immaginativa» (23, 3); «quelli che, abbagliati da proprio interesse o sollevati da maligne suggestioni, predicano che ella fulmini senz’altro la spada» (29, 3); «la quale interpetrazione (ammonito da S. Agostino) non direi esser necessariamente questa» (37, 1). Per (14): «le quali, sì come, dettante così lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite dalli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo, assai rozzo et indisciplinato, così, per quelli che meritano d’esser separati dalla plebe, è necessario che i sacri espositori ne produchino i veri sensi» (7, 2); «Stante dunque ciò, mi pare che nelle dispute de’ problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle Autorità delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie» (9, 1); «Stante questo, ed essendo (come si è detto) che due verità non possono contrariarsi, è officio de’ sacri espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de’ luoghi sacri» (13, 1); «L’istesso tenne Aristarco Samio, come haviamo appresso Archimede, Niceta filosofo, referente Cicerone, e da molt’altri» (13, 6); «Ma finalmente, concedendo a questi signori più di quello domandano, cioè di sottoscrivere interamente il parere de’ sapienti teologi, già che tal particolare disquisizione non si trova essere stata fatta dai Padri antichi, potrà farsi dai sapienti della nostra età, li quali, ascoltate prima l’esperienze, l’osservazioni e ragioni dei filosofi et astronomi per l’una et per l’altra parte (poiché la controversia è di problemi naturali e dilemmi necessarii et impossibili ad essere altrimenti che in una delle due maniere controverse) potranno sicuramente determinare quello che le divine inspirazioni gli detteranno» (29, 1); «questo acciò che, fermatone una sola, non si confondessero tutte le constituzioni» (38, 1); «bastò fermare il Sole, alla cui quiete fermatesi tutte l’altre conversioni, restarono e la Terra e la Luna et il Sole nella medesima constituzione» (38, 5). Per (15): «io ne’ miei studi d’Astronomia e Filosofia tengo, circa la constituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle conversioni degl’orbi celesti, e che la Terra, convertibile in se stessa, se li https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/71
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muova attorno» (2, 4); «mi dichiaro ancora non volere in quelle ingaggiar lite con niuno, ancor che fussero punti disputabili» (5, 1). {p. 86}
Per (16) (scelta): «non venivano mantenuti in negativa o in dubbio da altro che dall’innaspettata novità, e dal non vedere sensate esperienze» (2, 1); «è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i Teologi, che superfluo sarebbe il produrne [di proposizioni] attestazione alcuna» (7, 2); «crederei fosse molto prudentemente fatto, se si proibisse l’impegnare i luoghi della Sacra Scrittura» (13, 2); «Nè si dovrebbe stimar temerità il non si quietare nell’opinioni comuni» (13, 5); «non potrebbe il piccol numero degl’intelligenti reprimere il furioso torrente di quelli, che troverebbero tanti più seguaci, quanto il potersi far reputare sapienti senza studio e fatica è più suave che il consumarsi senza riposo intorno a discipline laboriosissime» (15, 1); «Però grazie a Dio benedetto, il quale per sua benignità ci libera di questo timore, spogliando d’autorità simili persone, riponendo il decretare sopra determinazioni tanto importanti nella somma sapienza di prudentissimi Padri» (15, 2); «Tal differenza è stata benissimo conosciuta da i Padri dottissimi e santissimi, come l’haver posto loro grande studio in confutare molti argomenti e fallacie filosofiche ci manifesta» (18, 4); «Quanto all’altro punto, riguardando noi al primario scopo di esse Sacre Lettere, non crederei che l’haver esse parlato sempre nell’istesso senso havesse a perturbare questa regola» (23, 1); «se noi tenteremo la capacità degl’uomini vulgari, gli troveremo molto più inetti a restar persuasi della stabilità del Sole e mobilità della Terra, che dell’esser lo spazio che ci circonda ripieno d’aria» (24, 8); «potrò sempre dire, che il non havere havuta loro occasione di discuterla, ha fatto che l’hanno lasciata et ammessa solo come corrente, ma non già come resoluta e stabilita» (26, 3); «pare molto probabile che quando Giosuè domandò il prolungar del giorno, il Sole fosse vicino a tramontare, e non nel meridiano» (39, 2). Per (17): «E di questo genere si scorgono esser questi che s’ingegnano di persuadere che tal Autore si danni, senza pur vederlo» (5, 1); «Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire» (7, 1); «il quale non credo si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello 〈che〉 suona il puro significato delle parole» (7, 1); «potrà dirsi, havere lo Spirito Santo voluto 〈non〉 insegnarci cosa concernente alla salute?» (11, 3); «Di qui e da altri luoghi parmi (s’io non m’inganno) l’intenzione de’ Santi Padri essere, che...» (22, 1); «tal particolare disquisizione non si trova essere stata fatta dai Padri antichi» (29, 1). Per (18): «ne seguita che erronea e dannanda sia la sentenza di {p. 87}
chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra» (6, 1); «Ma non per questo voglio inferire, non doversi considerare i luoghi delle Scritture Sacre» (10, 1); «Io qui direi quello che già intesi dall’Em.mo Baronio, cioè l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (11, 4); «Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di scibile?» (13, 3); «E Seneca, eminentissimo filosofo, nel libro De cometis ci avverte doversi con grandissima diligenza cercare di venire in certezza, se sia il cielo o la Terra in cui risegga la diurna conversione» (13, 7); «Le conclusioni poi naturali, nelle quali dicono essi che noi doviamo fermarci sopra la pura autorità della Scrittura senza glosarla et interpretarla in sensi diversi dalle parole, dicono esser quelle di cui la Scrittura parla sempre nel medesimo modo» (16, 3); «Dalle quali parole mi pare che se ne cavi che ne’ libri de sapienti di questo mondo si contenghino alcune cose della natura dimostrate veramente, et altre semplicissimamente insegnate, et che quanto alle prime sia officio de’ sacri teologi mostrare non esser contrarie alla Sacra Scrittura» (19, 1); «Potrei anco nominarle altri mattematici, che, mossi da miei scoprimenti, hanno confessato esser necessario mutare la già concepita constituzione del mondo, non potendo in modo alcuno più sussistere» (19, 4); «Ma non perciò deve tenerlo ognuno per vero, perché se noi interroghiamo gl’istessi huomini dei motivi perchè così credino, riceveremo esser a ciò persuasi da semplicissime apparenze e riscontri vani e ridicoli» (23, 5); «la Scrittura chiama vacuo e niente lo spazio che circonda la Terra, e noi sappiamo non esser voto, ma ripieno d’aria» (24, 5); «conclude la mobilità della Terra non esser contro alla Scrittura» (26, 5); «Così del miracolo al tempo d’Ezechia, Paulo Burgense stima non esser stato fatto nel Sole, ma nell’oriolo» (28, 3); «la quale interpetrazione (ammonito da S. Agostino) non direi esser necessariamente questa» (37, 1); «il quale movimento vegghiamo sensatamente essere, nella parte superiore del globo, inclinato verso il mezzogiorno, e quindi, verso la parte inferiore, piegarsi verso Aquilone» (38, 1); «Potrebbono dire, il nome di firmamento convenirsi molto bene ad litteram alla sfera stellata» (41, 1). Per (19): «si sono per tali rispetti risoluti a tentare di fare scudo alle fallacie dei loro discorsi col manto di simulata religione e con l’attestazione delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di ragioni nè intese nè sentite» (2, 4); «Ma più direi che converrebbe al decoro e maestà di esse Sacre Lettere {p. 88}
il provvedere che non ogni vulgare scrittore potesse (per autorizare sue composizioni bene spesso fondate su vane fantasie) spargervi luoghi della Scrittura Sacra [...] vicini alla derisione di coloro che non senza qualche ostentazione se ne vanno adornando» (14, 2); «non è da sperarsi da quelli che non si curerebbono d’arrischiare la dignità delle Sacre Lettere per sostentamento della reputazione di loro vane immaginazioni» (29, 2); «pare molto probabile che quando Giosuè domandò il prolungar del giorno, il Sole fosse vicino a tramontare, e non nel meridiano; perchè quando fusse stato nel meridiano, essendo allora intorno al solstizio estivo, e però i giorni lunghissimi, non pare verisimile che fosse necessario chiedere l’allungamento del giorno per conseguire vittoria in un conflitto» (39, 2). Per (20): «Perchè (come si è detto) per il solo rispetto d’accomodarsi alla capacità popolare, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare principalissimi pronunziati» (8, 2); «Stante questo, ed essendo (come si è detto) che due verità non possono contrariarsi, è officio de’ sacri espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de’ luoghi sacri» (13, 1); «le Scritture (come si è detto) per l’addotte cagioni ammettono in molti luoghi esposizioni lontane dal significato delle parole» (13, 2); «devono gl’istessi professori di quella scienza procurar per sè medesimi di sciorre le loro dimostrazioni et discoprire le fallacie delle proprie esperienze, senza ricorrere a teologi e scritturali; non convenendo (come si è detto) alla dignità della teologia abbassarsi all’investigazione delle fallacie delle scienze soggette» (16, 2); «de’ quali nessuno (cred’ io) dirà che più eccellente si contenga la geometria, l’astronomia, la musica e la medicina nei Libri Sacri, che in Archimede, Tolomeo, Boezio e in Galeno» (17, 3). Per (21) (scelta): «dimostrandosi nell’istesso tempo più affezionati alle proprie opinioni che alle vere, scorsero a negare e far prova di annullare quelle novità» (1, 2); «[S. Agostino] parlando di certa conclusione naturale attenente ai corpi https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/71
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celesti, scrive così» (1, 2); «non le potendo più negare, coprono sotto silenzio, e divertono il pensiero ad altre fantasie» (2, 2); «Persistendo dunque il primo loro instituto, di volere con ogni immaginabil maniera atterrar me e le cose mie, sapendo come io ne’ miei studi d’Astronomia e Filosofia tengo, circa la constituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle conversioni degl’Orbi Celesti, e che la Terra, convertibile in se stessa, se li muova attorno [...]; e però diffidando ormai di difesa, mentre restassero nel campo filosofico; si sono per tali rispetti risoluti a tentare di fare scudo alle fallacie {p. 89}
dei loro discorsi col manto di simulata religione e con l’attestazione delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di ragioni nè intese nè sentite» (2, 4); «et havendo egli ridotta tal dottrina in sei libri, la publicò al Mondo ai preghi del cardinal Capuano e del Vescovo Culmense» (3, 2); «non manca chi, non havendo veduto nè meno tal libro, procuri il premio di tante fatiche al suo Autore con farlo dichiarare eretico» (3, 3); «Il motivo, dunque, che producono per condennare l’opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è che leggendosi nelle Sacre Lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, nè potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne seguita che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra» (6, 1); «procedendo di pari dal Verbo Divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice degl’ordini di Dio; et essendo, di più, convenuto nelle Scritture (per accomodarsi all’intendimento dell’universale) dir molte cose, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura immutabile [...]; pare che quello degl’effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi agl’occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in modo alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi delle Scritture che havessero nelle parole diverso sembiante» (9, 1). Per (22): «Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Scrittura Sacra mentire, tutta volta si sia penetrato il suo vero sentimento; il quale non credo si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello 〈che〉 suona il puro significato delle parole. Dal che ne segue, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono grammaticale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contradizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora» (7, 1-2); «non ogni detto della Scrittura è legato a oblighi così severi come ogni effetto di natura. Nè meno eccellentemente ci si scopre Iddio negl’effetti naturali che nei sacri detti delle Scritture: il che volse per avventura intendere Tertulliano in quelle parole» (9, 1-2); «anco nell’età nostra popolo assai men rozzo vien mantenuto nell’istessa opinione da ragioni che, ben esaminate, si troveranno frivolissime, et esperienze o in tutto false o fuori del caso. Nè si può pur tentare di rimuoverlo, non essendo capace delle ragioni {p. 90}
contrarie, appoggiate sopr’astrazioni che per concepirsi richieggono troppo gagliarda immaginativa. Per lo che, quando bene appresso i sapienti fusse più che certa e dimostrata la stabilità del cielo et il moto della Terra, bisognerebbe ad ogni modo, per mantenersi il credito appresso il numerosissimo vulgo, profferire il contrario» (23, 3-4); «Ma più dirò, che non solo il rispetto dell’incapacità del volgo, ma la corrente opinione di quei tempi fece che li scrittori sacri nelle cose non necessarie alla beatitudine più s’accomodarono all’uso ricevuto che all’essenza del fatto. Di che scrive S. Girolamo» (24, 2-3); «se ci applicarono, già l’havrebbono dannata se l’havessero giudicata per erronea; il che non si trova che habbino fatto» (26, 4); «quando [il Sole] fusse stato nel meridiano, essendo allora intorno al solstizio estivo, e però i giorni lunghissimi, non pare verisimile che fosse necessario chiedere l’allungamento del giorno per conseguire vittoria in un conflitto, potendo benissimo bastare per ciò lo spazio di sett’ore e più che rimanevano ancora di giorno. Dal che mossi, gravissimi teologi hanno veramente tenuto che il Sole fosse vicino all’occaso» (39, 2-3). Per (23): «e per questo produssero varie cose, et alcune scritture publicarono ripiene di vani discorsi; e, quel che fu più grave errore, sparse di attestazioni delle Sacre Scritture tolte da luoghi da loro non bene intesi e lontani dal proposito addotti: nel qual errore forse non sarebbero incorsi, se havessero avvertito un utilissimo documento che ci dà S. Agostino» (1, 2); «L’altro esempio sia di quello che pur nuovamente ha stampato, contro gli astronomi e filosofi, che dicono che la Luna non altrimenti riceve il lume dal Sole, ma è per se stessa splendida: 〈la〉 quale immaginazione ci persuade di confermare, con varii luoghi della Scrittura, li quali gli pare che non si potesse salvare, quando la sua opinione non fosse vera et necessaria» (14, 5); «essi pretendono di poter costringere altri, con l’autorità della Scrittura, a seguire in dispute naturali quell’opinione che pare a loro, stimandosi non obligati di solvere le ragioni et esperienze in contrario. In confirmazione del quale loro parere, dicono che...» (16, 1-2); «et in specie in S. Agostino così: Hoc indubitanter tenendum est [...] neque simulatae religionis superstitione terreamur. Dalle quali parole mi pare che se ne cavi, che ne’ libri de’ sapienti di questo mondo si contenghino alcune cose dalla natura dimostrate veramente, et altre semplicissimamente insegnate» (18-19, 1); «Forse questa considerazione mosse prima Dionisio Areopagita a dire che in questo miracolo si fermò il primo Mobile, e fermandosi questo, in conseguenza si fermarono tutte le {p. 91}
sfere celesti: della qual opinione è l’istesso S. Agostino, e l’Apulense diffusamente la conferma» (36, 1); «considero nel secondo luogo come il corpo solare, benché stabile nell’istesso, si rivolge però in sè stesso, facendo un’intera conversione in un mese in circa, sì come concludentemente mi pare d’haver dimostrato nelle mie Lettere delle Macchie Solari: il quale movimento vegghiamo sensatamente essere, nella parte superiore del globo, inclinato verso il mezzogiorno» (38, 1); «Ma quello che (s’io non m’inganno) si deve stimare è che 〈con〉 questa constituzione copernicana si ha il senso litterale apertissimo d’un altro particolare che si legge nel medesimo miracolo; che è che il Sole si fermò nel mezzo del cielo. Sopra il quale passo gravi teologi muovono difficultà» (39, 1-2). Ben diciotto dei ventitré tratti che caratterizzano l’organizzazione sintattica e testuale del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo già ricorrono nella Lettera a Cristina di Lorena, che del Dialogo è molto più breve. Dei cinque che non vi compaiono, due (il n. 1 e il n. 3) non ci sono perché non possono occorrere, per forza di cose, in un testo che non sia un dialogo o che non abbia sequenze dialogiche al suo interno. Si può ben dire, dunque, che all’altezza del 1615 Galileo già scriveva nel modo in cui avrebbe continuato a scrivere nel 1623 e nel 1632, e si può anche andare oltre, segnalando altri due fatti. https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/71
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Primo. Nello stesso saggio in cui registra la presenza delle strutture sintattiche e testuali fin qui esaminate, Altieri Biagi rileva anche che il chiasmo è «una delle figure retoriche più utilizzate da Galileo», e ne constata la presenza sia in periodi complessi sia in periodi «più snelli» del Dialogo [23] . Gli esempi che qui produco consentono di dire altrettanto a proposito della Lettera a Cristina di Lorena: «per questo produssero varie cose, et alcune scritture publicarono ripiene di vani discorsi» (1, 2); «sì come i più intendenti dell’Astronomia restarono persuasi al mio primo avviso, così si sono quietati di grado in grado gl’altri tutti» (2, 1); «apertamente confutano il sistema tolomaico, e mirabilmente con quest’altra posizione s’accordano» (2, 4); «concedo a chi l’ha dette che dette non l’habbia» (5, 2); «ne séguita che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra» (6, 1); «Le conclusioni poi naturali, nelle quali dicono essi che noi doviamo fermarci sopra la pura autorità della Scrittura senza glosarla et interpretarla in sensi diversi dalle parole, dicono esser quelle di cui la Scrittura parla sempre nel medesimo modo, ed i S.ti Padri tutti nel medesimo sentimento le ricevono et espongono» (16, 3); «Dalle quali parole mi pare che se ne cavi, che nei libri de’ sapienti di questo mondo si contenghino alcune cose dalla natura dimostrate veramente, et altre semplicissimamente insegnate» (19, 1); «Che dunque fusse necessario attribuire al Sole il moto, e la quiete alla Terra [...] è assai manifesto» (24, 1). Secondo. È sempre Altieri Biagi ad informarci che «Uno degli espedienti più usati da Galileo, per tendere il filo logico e linguistico del discorso, è la collocazione del baricentro sintattico e semantico del periodo alla fine di esso. Lo scrittore, cioè, ritarda la frase reggente tenendo in sospensione il lettore fino alla conclusione del discorso. Si veda», prosegue la studiosa, «nei densi periodi che seguono, come l’anticipo delle oggettive e di altre frasi secondarie, esplicite o implicite, sposti alla fine l’equilibrio sintattico dell’intera costruzione: “Che poi, venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitudine che si chiama linea, aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l’altezza o profondità ne risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra, sì che in queste tre sole si termini l’integrità e per cosí dire la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato dimostrato con necessità...”. {p. 93}
“Ma se nel passare gli archi piccoli, quali sarebbono, per esempio, i 12 segni, e’ mantenga un moto regolarissimo, o pure proceda con passi or più veloci alquanto ed or più lenti, come è necessario che segua quando il movimento annuo sia solo in apparenza del Sole, ma in realtà della Terra accompagnata dalla Luna, ciò non è stato sin qui osservato, né forse ricercato”» [24] . Periodi riconducibili a questa tipologia sono presenti anche nella Lettera a Cristina di Lorena: «Ma che quell’istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, habbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che ci vengono esposte innanzi agl’occhi et all’intelletto, doviamo negare il senso et la ragione, non mi pare necessario il crederlo» (10, 3); «Anzi, che non solo gl’autori delle Sacre Lettere non habbino preteso d’insegnarci i movimenti de’ cieli, delle stelle, figure e distanze, ma che a bello studio (benché in tutto ciò scientissimi) se ne siano astenuti, è opinione di santissimi e dottissimi Padri» (10, 5); «Che dunque fusse necessario attribuire al Sole il moto, e la quiete alla Terra, per non confondere la poca capacità del volgo, e renderlo renitente nel prestar fede agl’articoli principali e che sono assolutamente de Fide, è assai manifesto» (24, 1); «Quanto poi restino offesi i Padri veramente saggi da quelli che, per sostenere proposizioni da loro non capite, impegnano in certo modo i luoghi della Scrittura, accrescendo il primo errore col produrne altri luoghi meno intesi de’ primi, esplica il medesimo santo come appresso» (30, 5). In altri casi, però, la collocazione della frase reggente verso la fine o proprio alla fine del periodo non nasce affatto dall’intenzione dell’autore di ritardarla, tenendo così in sospeso il lettore fino alla conclusione del discorso, ma segue, semplicemente, l’andamento dell’argomentazione: {p. 94}
la reggente, collocata al centro (a) o a destra (b) oppure all’estremità destra (c, d, e) del periodo, è preceduta da subordinate le quali veicolano contenuti che, nell’ordine dell’argomentazione o della narrazione, precedono il contenuto veicolato dalla reggente. Per esempio: (a) Ora, se la teologia, risedendo per dignità nel trono regio, occupata nell’altissime contemplazioni divine, non descende alle più basse speculazioni dell’inferiori scienze, anzi quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbono i professori di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non studiate da loro; perchè questo sarebbe come se un prencipe assoluto volesse (non essendo egli nè medico nè architetto) che si medicasse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de’ miseri infermi e manifesta rovina degl’edifizii (17, 5); (b) Anzi, conoscendo l’istesso Copernico qual forza habbia nella nostra fantasia un’invecchiata consuetudine, per non accrescer confusione nella nostra astrazione, doppo haver prima dimostrato che li movimenti, che a noi appariscono esser del Sole o del firmamento, sono veramente della Terra, nel ridurli poi in tavole et applicarli all’uso, li nomina per del Sole e del cielo superiore a’ pianeti, chiamando nascere e tramontar del Sole e delle stelle, mutazioni nell’obliquità del Zodiaco e variazione nei punti degl’equinozzi, movimento medio, anomalia e prostaferesi del Sole, et altre cose tali, quelle che sono veramente della Terra (25, 1); (c) Ma quelli che, oltre all’amore del primo errore, non saprei qual altro loro immaginato interesse gli rende male affetti, non tanto alle cose che all’Autore delle medesime, non le potendo più negare, coprono sotto silenzio, e divertono il pensiero ad altre fantasie, inacerbiti più che prima da quello, onde gl’altri si sono addolciti e quietati, sento progiudicarmi in altri modi (2, 2); (d) Persistendo dunque il primo loro instituto, di volere con ogni immaginabil maniera atterrar me e le cose mie, sapendo come io ne’ miei studi d’Astronomia e Filosofia tengo, circa la constituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle conversioni degl’Orbi Celesti, e che la Terra, convertibile in se stessa, se li
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muova attorno; e di più, sentendo che tali proposizioni confermo non solo col reprovare le ragioni di Tolomeo e d’Aristotile, {p. 95}
ma col produrne molte in contrario, et in specie alcune attenenti ad effetti naturali, le cause de’ quali farsi in altro modo non si possono assegnare, et altre Astronomiche, dependenti da molti riscontri di nuovi scoprimenti celesti, li quali apertamente confutano il sistema tolomaico, e mirabilmente con quest’altra posizione s’accordano e la confermano; e forse confusi per la conosciuta verità d’altre proposizioni da me affermate, diverse dalle comuni; e però diffidando ormai di difesa, mentre restassero nel campo filosofico; si sono per tali rispetti risoluti a tentare di fare scudo alle fallacie dei loro discorsi col manto di simulata religione e con l’attestazione delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di ragioni nè intese nè sentite (2, 4); (e) ma perchè le sue parole erano ascoltate da gente che forse non haveva altra cognizione de’ movimenti celesti, e non havendo intenzione d’insegnarli la constituzione delle sfere, ma solo che essi comprendessero la grandezza del miracolo fatto nell’allungamento del giorno, parlò conforme all’intendimento loro (35, 2). Del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo galileiano Francesca Irene Koban ha opportunamente segnalato la «tendenza abbastanza pronunciata al periodo lungo, con una media di 8,4 proposizioni: il 35% dei periodi presenta oltre 9 frasi semplici», e questo nonostante che il genere dialogico implichi «una maggiore incidenza [...] di frasi mono e biproposizionali». Di solito, due di queste frasi semplici sono indipendenti, «con una media di quasi 5 subordinate ciascuna» [25] ; circa il 50% dei periodi di cui l’opera si compone presenta un grado di subordinazione superiore al secondo; il 17% va oltre il quarto. I cinque periodi della Lettera a Cristina che ho allegato a titolo d’esempio per ultimi contano, rispettivamente, 84, 96, 61, 200 e 58 parole. Considerando i participi come frasi subordinate implicite, possiamo constatare che il primo e il {p. 96}
secondo periodo si compongono ciascuno di 11 frasi, alcune delle quali raggiungono il terzo grado di subordinazione; che il terzo si compone di 9 frasi, alcune delle quali raggiungono il secondo grado di subordinazione; che il quarto si compone di 22 frasi, alcune delle quali raggiungono il quinto grado di subordinazione; e infine che il quinto si compone di 7 frasi, una delle quali raggiunge il terzo grado di subordinazione. La misura di questi periodi è senz’altro avvicinabile alla misura di quelli che scandiscono i passaggi più sostenuti del Decameron di Boccaccio o di quelli più artefatti degli Asolani di Bembo. Le analogie con questi testi, però, finiscono qui. Il periodare della Lettera a Cristina, come d’altronde quello del Dialogo, è indubbiamente complesso, ma lontanissimo da quello «sbilanciato a sinistra» del Decameron [26] o da quello «distanziato» degli Asolani [27] , nei quali spesso le frasi interposte smembrano la principale, aprendo «insenature e profonde gole» [28] nella sua superficie; né è vicino al periodare, definito «discendente» da Marcello Durante [29] , che caratterizza varie parti del Libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione, del dialogo Dell’arte della guerra di Niccolò Machiavelli e dei Dialoghi di Torquato Tasso [30] . Entrando nel merito di quest’ultima opera, occorre anche {p. 97}
ricordare, con Sergio Bozzola, che nel tessuto prosastico che la compone non mancano casi di frasi subordinate a sinistra della principale: queste, però, diversamente che negli Asolani, «non sono semanticamente opzionali, ma parte integrante della progressione e del compimento del senso fondamentale del periodo» [31] . Questa qualità è il tratto che più caratterizza la prosa della Lettera a Cristina di Lorena di Galileo. La sua complessità non è il frutto ricercato dell’artificio, ma il prodotto naturale dell’argomentazione; non è artefatta ma necessaria e, se mi si lascia passare l’ossimoro, chiara e distinta: ed è la stessa complessità che connota gran parte del periodare del Dialogo e che, come nel caso del Dialogo, si spiega perfettamente «con le finalità dimostrative del testo» [32] . Note [1] Di una «strategia difensiva» vera e propria ha parlato Alfredo Damanti nell’Introduzione al suo volume Libertas philosophandi. Teologia e filosofia nella «Lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena» di Galileo Galilei, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. XI-XIX, citazione a p. XVI. [2] Cfr. ivi, pp. XIV-XV. [3] Cfr. Luigi Guerrini, «Con fatiche veramente atlantiche». Il primato della scienza nella «Lettera a Cristina di Lorena», in «Bruniana & Campanelliana», IX, 2003, pp. 61-81, in part. pp. 67-68. [4] Questo recita il titolo dell’Introduzione di Mauro Pesce a Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena. Sull’uso della Bibbia nelle argomentazioni scientifiche, a cura di Franco Motta, introduzione di Mauro Pesce, Genova, Marietti, 2000, pp. 7-66. [5] «Questa lettera [a Castelli del 21 dicembre 1613], assieme alle due inviate a monsignor Dini nel febbraio e nel marzo 1615, costituiranno il nucleo di quella, ben più ampia ed elaborata, ai limiti del piccolo trattato, che Galilei si deciderà a indirizzare direttamente a Cristina di Lorena» (Giorgio Stabile, Linguaggio della natura e linguaggio della Scrittura in Galilei. Dalla «Istoria» sulle macchie solari alle Lettere copernicane, in «Nuncius», 9, 1994, I, pp. 37-64, citazione a p. 51). La presenza di più luoghi di questi testi nella Lettera a Cristina di Lorena è stata poi censita e studiata da Damanti, Libertas philosophandi. Teologia e filosofia nella «Lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena» di Galileo Galilei, cit., in part. nel capitolo VIII, corrispondente alle pp. 147-186 e da Ottavio Besomi, Nota ai testi, in Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, cit., pp. 125-216, in part. pp. 167-170. [6] Per una più distesa illustrazione di questi fatti rinvio, come già aveva fatto Besomi, a Michele Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica dell’età della Controriforma, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 260-332. [7] Cfr. Ottavio Besomi, Itinerario carsico della Lettera a Cristina di Galileo, in «Filologia e Critica», XXXIV, 2009, fascicolo II, pp. 290-303; Id., Premessa e Introduzione, in Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, cit., pp. 9-12 (in part. pp. 9-10) e 13-30 (in part. pp. 1315). [8] Franco Motta, Nota al testo, in Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, cit., pp. 67-80, citazione a p. 71. [9] Antonio Favaro, Avvertimento, in OG, V, pp. 263-278, in part. pp. 272-277, citazioni a p. 276. [10] Cfr. ivi, pp. 275-276, citazione a p. 275. [11] Cfr. Motta, Nota al testo, cit., pp. 72-73. [12] Ottavio Besomi, Una redazione sin qui ignorata della «Lettera a Cristina» di Galileo, in «Studi secenteschi», XLIX, 2008, pp. 131143. [13] Id., Varia fortuna delle lettere copernicane di Galileo, in «Filologia e Critica», XXXV, 2010, II-III, pp. 289-308. [14] Cfr. Besomi, Nota ai testi, cit., pp. 160-164, citazione a p. 161. [15] Cfr. ivi, pp. 164-167. https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/71
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[16] Ivi, p. 160; e cfr. pp. 172-173 e 177. [17] Ivi, p. 169. [18] Ivi, pp. 160-161. [19] Riprendo alcuni degli esempi prodotti da Maria Luisa Altieri Biagi nel suo saggio Sulla sintassi dei «Massimi Sistemi», cit., altri ne aggiungo di nuovi. Per tutti i luoghi citati, il testo di riferimento è quello citato a p. 14, nota 19. Per (1): «Sagredo. Oh se la Terra fu, pure avanti tale alluvione, generabile e corruttibile, perchè non può esser tale la Luna parimente senza una simile mutazione? perchè è necessario nella Luna quello che non importava nulla nella Terra? Salviati. Argutissima instanza. Ma io vo dubitando che...» (I 137-138). Per (2): «se però noi non volessimo dir con Platone, che anco i corpi mondani, dopo l’essere stati fabbricati e del tutto stabiliti, furon per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma che dopo l’esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si son mantenuti e tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone, intorno al quale mi sovviene aver sentito discorrere il nostro comune amico Accademico Linceo» (I 33, 5). Per (3): «Salviati. Dite, Sig. Simplicio: se voi aveste a ritrar quel muro, con quello specchio attaccatovi, dove adoprereste voi colori più oscuri, nel dipignere il muro o pur nel dipigner lo specchio? Simplicio. Assai più scuri nel dipigner lo specchio» (I 199-200). Per (4): «e voi, che sete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri» (I 4). Per (5): «il dipignere s’apprende col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura de i libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici» (I 91, 3). Per (6): «Il Sig. Salviati, come di profonda dottrina, stima bene spesso che quei termini che a sè medesimo sono notissimi e familiari, debbano parimente esser tali per gli altri ancora» (I 79, 1). Per (7): «e quando per muover l’universo ci voglia una virtù finita, benchè grandissima in comparazione di quella che basterebbe per muover la Terra sola, non però se n’impiegherebbe maggior parte dell’infinita» (II 62, 3). Per (8): «e queste sono le madreperle, le quali si lavorano in varie figure, e benchè ridotte ad una estrema liscezza, sembrano all’occhio tanto variamente in diverse parti cave e colme, che appena al tatto stesso si può dar fede della loro egualità» (I 264). Per (9): «Ma che più altri discorsi? Eccovi là su la Luna, che è più di meza; eccovi là quel muro alto, dove batte il Sole» (I 283, 1-2). Per (10): «Eccovi levata via ogni reflessione, ancorchè vi sia rimasto il grande specchio convesso» (I 224, 4). Per (11): «Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri, che noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto più distintamente e particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e loro efficacia» (I 1, 1). Per (12): «potrebbe dar bando al suo stesso libro, come nulla concludente» (III 54). Per (13): «e allettato dall’altre novità udite da voi, starò più attentamente a sentire il resto» (III 159). Per (14): «Inteso quanto sin qui ho esposto, non credo che resti difficultà veruna» (III 178, 15). Per (15): «Non può dunque l’interna sustanza di questo nostro globo essere una materia frangibile, dissipabile e nulla coerente, come questa superficiale che noi chiamiamo terra» (III 292, 2). Per (16): «dopo l’ottima distribuzione e collocazione è impossibile che in loro resti naturale inclinazione di più muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne seguirebbe il rimuoversi dal proprio e natural luogo, cioè il disordinarsi» (I 33, 4). Per (17): «Di qui è manifesto, la Luna, come allettata da virtù magnetica, constantemente riguardare con una sua faccia il globo terrestre, nè da quello divertir mai» (I 179, 7). Per (18): «non crederò già che eglino stimassero, il vero disco esser quello che si mostra nelle profonde tenebre» (III 202, 2). Per (19): «il cessare da tal inquisizione e rimettersi al semplice detto del Copernico, può ben bastare a convincer l’uomo, ma non già a chiarirsi del fatto, potendo esser che la diversità ci sia, ma non cercata, o per la sua piccolezza [= perché era piccola] o per mancamento di [= perché mancavano] strumenti esatti, non compresa dal Copernico» (III 228, 1). Per (20): «E perchè la distanza del Sole dalla Terra contiene di comune assenso 1.208 semidiametri di essa Terra, e la distanza delle fisse (come si è detto) 2.160 semidiametri dell’orbe magno, adunque molto maggiore (cioè quasi il doppio) è il semidiametro della Terra in comparazione dell’orbe magno, che ’l semidiametro dell’orbe magno in relazione alla distanza della sfera stellata» (III 196, 7). Per (21): «Il quale argomento tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con discorsi dependenti da alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni particolari» (I 1, 3). [20] Indico con la qualifica di aggettivo relativo (o AR) il relativo analitico attributo di un nome che richiama un segmento di testo collocato alla sua sinistra, ripetendolo in tutto o in parte o riformulandolo: cfr. Francesco Bianco, L’aggettivo relativo in italiano antico, in «Bollettino dell’Atlante Lessicale degli Antichi Volgari Italiani», 2, 2009 (ma 2010), pp. 31-54, in part. p. 31. Mi permetto di rinviare anche a Patota, «Ut semper dicenda ex dictis pendeant», cit., in part. pp. 9-13. [21] Completo la lista degli esempi. Per (22): «se una ruota di dieci braccia di diametro, movendosi in maniera che un punto della sua circonferenza passasse in un minuto d’ora cento braccia, e perciò avesse impeto di scagliare una pietra, tale impeto si accresce centomila volte in una ruota che avesse un milion di braccia di diametro: il che nega il Sig. Salviati, ed io inclino a creder l’istesso; ma non ne sapendo la ragione, l’ho da esso richiesta, e con desiderio la sto attendendo» (II 533, 3). Per (23): «Noi, quanto all’illuminazion diurna, abbiamo nella maggior parte della Terra ogni ventiquattr’ore parte di giorno e parte di notte, il quale effetto nella Luna si fa in un mese» (I 318, 9). [22] Tutti i contesti riportati sono stati trascritti dal codice A; invece, i numeri tra parentesi che li seguono corrispondono, rispettivamente, ai paragrafi e ai sottoparagrafi in cui è articolata l’edizione Besomi. [23] Altieri Biagi, Sulla sintassi dei «Massimi Sistemi», cit., p. 71 e nota 11. [24] Ivi, pp. 69-70. [25] Francesca Irene Koban, La sintassi della «Ricreazione del savio» di Daniello Bartoli, in «Stilistica e metrica italiana», 11, 2011, pp. 51-110, in part. pp. 54-55; ivi le citazioni. [26] Cfr. Marcello Durante, Dal latino all’italiano moderno, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 50 ss. e Serianni, Profilo della prosa letteraria dal Due al primo Novecento, cit., pp. 37-38. [27] Cfr. Fiammetta Papi, Passeggiata sintattica nel giardino delle nozze (Bembo, Asolani I V), in Briciole di discorsi amorosi. Scritti per Sara Natale & Simone Albonico offerti dagli amici fiorentini, Pisa, Edizioni Il Campano, 2018, pp. 201-220. Mi permetto di rinviare anche a Giuseppe Patota, La Quarta Corona. Pietro Bembo e la codificazione dell’italiano scritto, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 19-22 e a Id., La grande bellezza dell’italiano. Il Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 17-19. [28] Sergio Bozzola, Purità e ornamento di parole. Tecnica e stile dei «Dialoghi» del Tasso, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1999, p. 153. [29] Cfr. Durante, Dal latino all’italiano moderno, cit., p. 55. [30] Cfr. Bozzola, Purità e ornamento di parole, cit., p. 150. [31] Ivi, p. 167. [32] Koban, La sintassi della «Ricreazione del savio» di Daniello Bartoli, cit., p. 77. Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino - Legal notice
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Giuseppe Patota L'universo in italiano La lingua degli scritti copernicani di Galileo
Capitolo terzo Della mobilità della Terra e stabilità del Sole. Note sulle cosiddette Considerazioni circa l’opinione copernicana Abstract Le due lettere di cui ai capitoli precedenti possono rientrare nella formula Della mobilità della Terra e stabilità del Sole;formula ricorrente in vari scritti galileiani. I tre testi che compongono le Considerazioni circa l’opinione copernicana (titolo attribuito dall’Edizione Nazionale) e la loro ipotesi interpretativa sono al centro di questo terzo e ultimo capitolo. Il termine di paragone principale resta Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo con particolare accento su un’indagine linguistica dei tratti sintattici e testuali. Tale ricerca è volta a soppesare e documentare la corrispondenza tra i due. Alla serrata disputa a distanza nella quale s’inscrivono le due lettere analizzate nei capitoli precedenti potremmo dare, assumendolo dalle lingue in cui fu dibattuta, il titolo che segue: Della mobilità della Terra e stabilità del Sole o De mobilitate Terrae et immobilitate solis. Lo stesso titolo potremmo attribuire all’insieme degli scritti di cui quella disputa si costituì, e che qualche anno fa sono stati raccolti, ordinati e inseriti nel loro contesto da Massimo Bucciantini e Michele Camerota in un libro che i due studiosi hanno intestato a Galileo, intitolato Scienza e religione e sottointitolato Scritti copernicani [1] . Ho scritto «hanno intestato a Galileo» perché il volume comprende non solo testi che portano la sua firma, ma anche altri, in calce ai quali compaiono altri nomi e cognomi, e ho dato all’insieme di quei testi quel titolo bilingue perché la formula di cui si compone vi ricorre spesso: campeggia, per esempio, nel titolo esteso della letteratrattato Sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico, uscita a Napoli all’inizio del 1615 [2] , nella quale il teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini argomentava la conciliabilità dell’opinione copernicana con le Sacre Scritture [3] , e ricorre nella forma latina nel testo {p. 102}
del decreto con cui la Congregazione dell’Indice dei libri proibiti sospese il De revolutionibus orbium celestium di Copernico e i Commentaria in Iob di Diego de Zuñiga e proibì la lettera di Foscarini [4] . Ma soprattutto, la formula ricorre in quasi tutti quelli che Bucciantini e Camerota hanno indicato come gli Scritti copernicani di Galileo [5] : nella fattispecie, s’incontra nelle Lettere copernicane a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613 (1 occ.), a Piero Dini del 23 marzo 1615 (1 occ.) e a Cristina di Lorena (4 occ.) [6] ; e {p. 103}
s’incontra altrettanto spesso (anzi più spesso, tenendo conto della loro minore estensione rispetto alle Lettere copernicane) nei tre testi tradizionalmente indicati con l’unico titolo di Considerazioni circa l’opinione copernicana: se ne contano 4 esempi nel primo, 1 nel secondo e 2 nel terzo [7] . {p. 104}
La formula di cui ci stiamo occupando rappresenta, evidentemente, la quintessenza dell’ipotesi copernicana, e come tale Galileo la fa presentare a Simplicio nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: io, se ben non mi sono interamente impadronito della materia del discorso fatto dal Sig. Salviati, non trovo che la mia logica, mentre riguardo alla forma, m’insegni che tal maniera d’argomentare m’induca necessità veruna di concludere a favor dell’ipotesi Copernicana, cioè della stabilità del Sole nel centro del zodiaco e della mobilità della Terra sotto la di lui circonferenza [8] . Benché l’ipotesi (o, se si preferisce, l’«opinione») che le soggiace attraversi e percorra gran parte dell’opera di Galileo, la formula mobilità della Terra e stabilità del Sole non s’incontra in nessuno degli altri suoi scritti: oltre che nei testi che abbiamo citato, ricorre soltanto in una lettera a Gallanzone Gallanzoni del 16 luglio 1611 [9] . L’unitarietà, la coerenza e la specificità di questi Scritti copernicani sono confermate, oltre che da questa piccola spia linguistica, dal fatto che c’è un codice che conserva tutte insieme le loro copie, insieme a quelle di altri scritti di Galileo e di altri: è il ms. Archivio Linceo 1 della Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, già descritto {p. 105}
da Domenico Berti prima e poi da Giuseppe Gabrieli [10] . In particolare, in esso troviamo: alle cc. 101-119, la Lettera a Cristina di Lorena; alle cc. 161-167r e 173-176r, le Considerazioni circa l’opinione copernicana; alle cc. 193-197v, la Lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615; alle cc. 198-201, la Lettera a D. Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613; alle cc. 203-230r, la Lettera a Francesco Ingoli del 1624 in risposta alla De situ et quiete Terrae contra Copernici systema disputatio. I tre scritti che una tradizione ormai più che secolare indica come Considerazioni circa l’opinione copernicana e che, come ho già segnalato, occupano le cc. 161r-167r e 173r-176r del manoscritto, fanno parte del suo blocco finale (cc. 151-230), che Gabrieli presenta come un insieme di «scritture, in gran parte copie, di Galileo e di altri (Bellarmino, P.A. Foscarini, Fr. Ingoli, G. Keplero ecc.), sul sistema Copernicano» [11] . All’interno di questo blocco, le cc. 151-178r sembrano comporre una sorta di dossier relativo alla lettera-trattato di Foscarini. Infatti: alla c. 151 troviamo un giudizio in latino su questa lettera, il cui titolo – Iudicium de Epistola Pauli Antonii Foscarini De Mobilitate Terrae – si legge sul verso della c. 152, che per il resto è completamente bianca, come la c. 153; alle cc. 154-157 troviamo una Defensio epistolae F. Pauli Antonii Foscareni Veneti ordinis Carmelitarum Theologi et Provincialis Provinciae Calabriae super Mobilitate Terrae: è un’autodifesa in latino sottoscritta da Foscarini e da lui inviata al cardinal https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/99
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Bellarmino insieme alla Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico, ed è menzionata da Bellarmino nella sua risposta a Foscarini [12] . Segue la c. 158, bianca; alle cc. 159-160r troviamo una copia della risposta che Bellarmino fece avere a Foscarini in merito alla sua Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico, come risulta anche da un’annotazione a c. 160v che recita: «Copia della risposta dell’Ill.mo Sig. Card.le Bellarmino: al P. M.ro F. Paolo Antonio Foscarini Prov.le De’ Carmelitani di Calabria sopra la sua lettera stampata della mobilità della Terra». {p. 107}
Il testo che occupa la c. 151 è «il documento inquisitoriale di un voto di censura, anonimo e privo di data, scritto da un perito teologico, non si sa se su incarico del Sant’Uffizio oppure dell’Indice, e che rimproverava alla Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici di screditare i tradizionali commenti dei brani astronomici della Bibbia in nome della cosmologia copernicana, qualificata da questo esperto dell’inquisizione romana come “temeraria”, vale a dire, in linguaggio teologico, una dottrina che senza motivi sufficienti negava verità religiose considerate certe» [13] . Nel giudizio si dicono inammissibili diversi passi del libro di Foscarini e se ne evidenzia il contrasto con i canoni esegetici correnti [14] . Veniamo ora ai tre scritti che impegnano le cc. 161r-167r e 173r-176r del codice. Sono adespoti e anepigrafi ma, benché non siano autografi, chi li pubblicò nell’Edizione Nazionale li attribuì a Galileo per tre ordini di motivi: 1) perché il loro assunto generale è lo stesso delle lettere copernicane, e i concetti particolari che vi sono esposti ricorrono anche in quelle; 2) perché nei tre testi «lo stile ha tutto il sapore del galileiano» (il che, come vedremo, è verissimo); 3) perché un preciso richiamo intertestuale li collega alla lettera di Galileo a Dini del 23 marzo 1615 [15] . {p. 108}
In tempi a noi più vicini, Mauro Pesce ha fatto cenno alla diversità di contenuto che separa il secondo e il terzo testo dal primo: Nei mesi trascorsi a Roma [Galileo] redige diverse «scritture», tre delle quali, senza titolo né data ma con tutta probabilità anteriori al marzo 1616, sono state pubblicate da Favaro nel volume V delle Opere sotto il titolo Considerazioni circa l’opinione copernicana (EN, V, 349-370). La seconda (EN, V, 364-366) e la terza (EN, V, 367-370) trattano della interpretazione della Scrittura [16] . Gli ultimi editori, Bucciantini e Camerota, hanno anche loro pubblicato le tre Considerazioni insieme, una di seguito all’altra; ma, «per meglio rimarcarne la distinzione» [17] , hanno scelto di contrassegnare le tre parti con numeri romani. E hanno anche segnalato che, fermo restando il fatto che l’argomento che ne è al centro è lo stesso, i tre testi hanno finalità diverse: Le tre Considerazioni sono dedicate rispettivamente: 1) a rivendicare il carattere realistico della dottrina copernicana, di contro alla tendenza a considerarla nei termini di una mera ipotesi astronomica; 2) a difenderla dalle accuse di una presunta inconciliabilità con l’esegesi scritturale; 3) a ribattere punto per punto agli argomenti avanzati da Bellarmino nella sua lettera a Foscarini del 12 aprile 1615 [18] . A mio avviso si può andare oltre, arrivando a separare completamente il primo testo dal secondo e soprattutto dal terzo [19] . {p. 109}
I curatori dell’Edizione Nazionale hanno pubblicato i tre scritti nello stesso ordine in cui sono disposti nel codice Archivio Linceo 1; lo stesso aveva fatto il loro editore più antico, Domenico Berti [20] , e lo stesso hanno fatto i loro editori più recenti. Nonostante la puntualizzazione di Pesce, e nonostante le cautele, gli avvertimenti e le quanto mai opportune precisazioni di Bucciantini e Camerota, è inevitabile che il lettore sia portato a considerare i tre scritti come tre segmenti di un unico testo. È bene tener presente, però, che nel codice essi sono sì in successione, ma non sono disposti uno di seguito all’altro. Il primo scritto impegna le carte 161r-167r, fino alla metà superiore della c. 167r. La parte rimanente della carta, il suo verso e l’intera c. 168 sono bianche. Segue, alle cc. 169r-171r, una lettera a Galileo priva di firma, che Favaro ha collocato tra il 1615 e il 1616 e attribuito a Paolo Antonio Foscarini; l’autore vi delinea il disegno di un’opera sui due sistemi, tolemaico e copernicano [21] . Se mai ce ne fosse bisogno, un piccolo elemento che conferma la correttezza dell’attribuzione a Foscarini è dato dal fatto che in essa il telescopio è indicato con la voce polirematica occhiale di prospettiva [22] , cioè con la stessa formula che s’incontra nella Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico dello stesso Foscarini [23] , e {p. 110}
che, per quanto mi risulta, fu usata solo ed esclusivamente da lui [24] . La c. 172 è bianca; le cc. 173r-174r sono occupate dal secondo scritto di Galileo; la c. 174v è bianca; le cc. 175r-176r sono occupate dal terzo scritto di Galileo, contenente le sue note alla lettera di Bellarmino a Foscarini. Il verso della c. 176 è bianco. Le cc. 161-168, unite da una brachetta, costituiscono un quaderno a sé stante; le cc. 173-174 e 175-176 costituiscono due fogli a sé stanti, ciascuno con la sua brachetta. Inoltre, la mano che ha vergato le cc. 161-168 (quelle del primo scritto) non è la stessa che ha vergato le cc. 173-174r e 175-176r (rispettivamente, quelle del secondo e del terzo scritto): tutte queste cose fanno pensare che i tre testi siano separati, o quanto meno che il primo sia separato dal secondo e dal terzo. A seguire, le cc. 177r-178r sono occupate da una lettera con cui Galileo, nel maggio 1615, risponde a una lettera che Piero Dini gli aveva inviato il 2 di quello stesso mese. Lo scienziato vi esprime il desiderio di venire a Roma per argomentare personalmente e pubblicamente la veridicità dell’ipotesi copernicana e la sua conciliabilità con la Sacra Scrittura: ciò che avrebbe effettivamente fatto tra il dicembre di quello stesso anno e il giugno dell’anno successivo [25] . Quello che nel codice viene dopo è ben più legato al dibattito sulla questione copernicana in generale che alle lettere di Foscarini e Bellarmino in particolare: abbiamo, {p. 111}
nell’ordine, la copia della Responsio di Keplero (cc. 179-186) alla De situ et quiete Terrae contra Copernici Systema disputatio di Francesco Ingoli, a sua volta trascritta nelle cc. 189-191 [26] ; le copie delle già citate Lettere copernicane a Dini (cc. 193-197v) e a Castelli (cc. 198-201) e infine una copia della Lettera di Galileo a Ingoli in risposta alla De situ et quiete Terrae, con la quale si chiude il manoscritto (cc. 203-230r). Nelle righe iniziali del documento inquisitoriale trascritto nella c. 151 è presente la formula De mobilitate Terrae atque immobilitate Solis di cui si è detto alle pp. 101-104. Tale richiamo intertestuale da una parte conferma il rapporto diretto intercorrente fra questo https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/99
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giudizio e il decreto della Congregazione dell’Indice del 5 marzo 1616, dall’altra accresce il grado di coerenza interna dei testi che impegnano le carte 150-178r. Abbiamo infatti: 1) un giudizio in latino sulla Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico di Foscarini; 2) una difesa in latino della Lettera, di Foscarini stesso; 3) la lettera di Bellarmino a Foscarini; 4) il primo scritto di Galileo sull’ipotesi copernicana; 5) una lettera di Foscarini a Galileo in cui l’autore delinea il disegno di un’opera sui due sistemi tolemaico e copernicano; 6) il secondo scritto di Galileo (che è soprattutto un appunto sulla compatibilità fra Sacra Scrittura e ipotesi copernicana, argomento trattato sia nel giudizio anonimo in latino sia nell’autodifesa di Foscarini sia nella lettera di Bellarmino); 7) le annotazioni di Galileo alla lettera di Bellarmino a Foscarini, il cui «vero destinatario – come è stato ragionevolmente affermato – non è tanto Foscarini quanto Galileo» stesso [27] ; 8) una lettera {p. 112}
di Galileo relativa a una sua possibile venuta a Roma per discutere pubblicamente l’ipotesi copernicana e la sua conciliabilità con la Sacra Scrittura. Si compone, come dicevo, una sorta di dossier sulla Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico di Foscarini comprendente, oltre al giudizio anonimo in latino, due scritti dello stesso Foscarini, uno scritto di Bellarmino e quattro scritti di Galileo: tutto materiale utile a organizzare una «difesa scientifica e teologica in grande stile» [28] non solo del libro in cui uno scienziato (Copernico) aveva formulato l’ipotesi Della mobilità della Terra e stabilità del Sole, ma anche del testo in cui un teologo di professione (Foscarini) l’aveva sostenuta, argomentando la sua compatibilità con la Sacra Scrittura e dunque osando, come aveva scritto monsignor Dini nella già citata lettera a Galileo del 2 maggio 1615, «entrare in sagrestia» [29] , provocando in tal modo grande scalpore negli ambienti ecclesiastici e «contribuendo non poco ad aggravare la posizione di Galileo» [30] . I tre scritti dello scienziato pisano sono ascrivibili a questo progetto, ma, a mio avviso, sono completamente indipendenti uno dall’altro, e solo il primo dei tre si configura non come un appunto o un insieme di annotazioni, ma come un testo che si avvicina alla completezza. Favaro ipotizzò che le tre scritture fossero «state composte, o almeno diffuse, da Galileo durante il suo soggiorno in Roma nella fine del 1615 e nei primi mesi del 1616» [31] . L’indicazione temporale, se corretta, spiega bene perché i tre testi, archiviati nel codice linceo, vi riposarono fino al 1882, quando Berti li pubblicò. Dopo il decreto della {p. 113}
Congregazione dell’Indice del 5 marzo 1616, «gli spazi di discussione sulla questione copernicana» si erano fatti «esigui» [32] , e completare e utilizzare quelle scritture per una qualunque forma di pubblicazione sarebbe stato inutile o pericoloso. La separazione fra i tre scritti può essere confermata da un’analisi della loro fisionomia linguistica. Come ho già ricordato, Favaro li attribuì a Galileo anche – e opportunamente – per il «sapore galileiano» dello stile che li connota. L’indagine linguistica dà consistenza documentaria a questo giudizio, del tutto corretto benché fondato soltanto su un’impressione. Torniamo per un momento all’inventario (riportato a p. 79 di questo volume) dei tratti sintattici e testuali che ricorrono nella prosa del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Non pochi di questi tratti compaiono, come risulta dallo spoglio che ho riportato in appendice, anche nelle attuali Considerazioni circa l’opinione copernicana, ma con ben diversa distribuzione fra i tre testi: sono frequenti nel primo, si fanno rari nel secondo e ancora più rari nel terzo. Questo dipende certamente dalla diversa lunghezza dei tre scritti, che contano, rispettivamente, circa 4.500, circa 1.100 e circa 1.500 parole; ma dipende anche, a mio avviso, dalla loro diversa tipologia e dal diverso grado di compiutezza, che mi sembra totale o quasi nel caso del primo testo (un insieme organico di argomentazioni chiare e distinte a sostegno dell’ipotesi copernicana), parziale nel caso del secondo (un abbozzo di riflessione e argomentazione volto a contestare la presunta inconciliabilità fra l’ipotesi copernicana e le Sacre Scritture) e quasi nullo nel caso del terzo (una lista numerata di annotazioni a singoli luoghi della lettera di Bellarmino a Foscarini). In quest’ultimo testo in particolare, costituito da semplici annotazioni a un altro {p. 114}
testo, la firma di Galileo traspare non dall’organizzazione sintattica, ma dalla presenza di tratti caratteristici relativi alla fraseologia e al lessico. In particolare, nella quinta osservazione s’incontra una formula tipicamente galileiana, che è come si dice, con cui lo scienziato introduce nel testo e contemporaneamente attenua modi di dire colloquiali o espressivi: Bruno Migliorini, che per primo ne segnalò la fitta presenza nella prosa di Galileo, la battezzò «riguardo verbale» [33] . Nella sesta osservazione, poi, ricorre un avverbio – indubitabilmente – che, nella tradizione dell’italiano scritto, Galileo è il primo a usare con sistematicità come avverbio epistemico di frase (cioè che misura il grado di probabilità, a giudizio di chi parla o scrive, che l’enunciato prodotto sia vero), col significato di ‘con certezza’, ‘senza dubbio’ [34] . In precedenza ho pure ricordato che Favaro attribuì le Considerazioni a Galileo anche perché un richiamo intertestuale collegava i tre testi alla lettera a Monsignor Dini del 23 marzo 1615. Anche Bucciantini e Camerota, commentandolo, hanno ritenuto «possibile che Galileo alluda qui alle Considerazioni circa l’opinione copernicana» [35] . Il richiamo intertestuale è – a mio avviso – evidente, ma mi sembra che esso colleghi la lettera a Dini non a tutti e tre i testi, ma soltanto al primo, visto che si legge nelle righe che lo aprono. E quello che si legge è tale da presentare questo primo scritto di Galileo (b) come l’applicazione di un proposito dichiarato nella sua lettera a Dini (a): (a): «Anzi, per il medesimo zelo, vo mettendo insieme tutte le ragioni del Copernico, riducendole a chiarezza intelligibile da molti, dove ora sono assai difficili, e più aggiungendovi molte e molte altre considerazioni, fondate sempre sopra osservazioni celesti, sopra esperienze sensate e sopra incontri di effetti naturali, per offerirle {p. 115}
poi a i piedi del Sommo Pastore ed all’infallibile determinazione di Santa Chiesa, che ne faccia quel capitale che parrà alla sua somma prudenza» (Lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615, OG, V, p. 300; corsivo mio). (b): «Ma se io non prendo errore, questo discorso è fallace e diverso dalla verità, come dalle sequenti considerazioni posso far manifesto: le quali seranno solamente generali, e atte a poter esser comprese senza molto studio e fatica anco da chi non fusse profondamente versato nelle scienze naturali ed astronomiche» (Considerazioni circa l’opinione copernicana, OG, V, p. 351; corsivo mio). Il primo testo di Galileo è proprio questo: un insieme di considerazioni circa l’opinione copernicana «atte a poter essere comprese [...] anco da chi non fusse profondamente versato nelle scienze naturali ed astronomiche». La parola considerazioni ricorre sia nella lettera a Dini sia in questo scritto, nel quale compare anche la formula opinione copernicana, che in Galileo è rara [36] : oltre che qui, s’incontra soltanto una volta nella Lettera a Francesco Ingoli in risposta alla Disputatio de situ et quiete Terrae (che è, come ricordano Bucciantini e https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/99
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Camerota, un’appendice del 1624 alla disputa consumatasi tra 1612 e 1616) [37] e un’altra volta nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [38] . Questo rende del {p. 116}
tutto appropriato il titolo di Considerazioni circa l’opinione copernicana proposto nell’Edizione Nazionale; io, però, per le ragioni fin qui esposte, lo riserverei al solo primo testo. Nell’appendice, lo spoglio linguistico di cui ho detto è seguito da un intervento di filologia plastica: ho osato riservare alla lettera a Foscarini del cardinal Bellarmino il trattamento che, nel Saggiatore, Galileo riservò alla Libra astronomica ac philosophica di Orazio Grassi, dividendo la lettera in 3 parti, seguite dalle relative annotazioni che compongono il terzo scritto galileiano, forse intitolabile Annotazioni alla lettera di Roberto Bellarmino a Paolo Antonio Foscarini. L’operazione è, naturalmente, arbitraria, ma contribuisce a separare il primo testo dal terzo, restituendo a ciascuno la sua autonomia. Resta fuori gioco il secondo scritto: ferma restando la sua ascrivibilità al dossier Foscarini in particolare e alla disputa di cui si è detto in generale, che cos’è, dove andrebbe collocato, e che titolo potremmo dargli? Avanzo una possibile risposta alla sola terza domanda: potremmo assumere il titolo dall’incipit, e dunque intitolarlo La mobilità della Terra e stabilità del Sole. Spero che qualche studioso più competente di me, accolta e forse perfino approvata la proposta di separare definitivamente il primo scritto dal terzo, sia in grado di rispondere alle altre due, restituendo a questo appunto di Galileo l’identità e il posto che gli spettano in quella disputa Della mobilità della Terra e stabilità del Sole che, nel secondo decennio del Seicento, si consumò tra la Calabria di Foscarini, la Firenze di Galileo e la Roma di Federico Cesi e Roberto Bellarmino. Note [1] Galileo Galilei, Scienza e religione. Scritti copernicani, a cura di Massimo Bucciantini e Michele Camerota, Roma, Donzelli, 2009. [2] Cfr. Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., pp. XXXV e 113. [3] Lettera del R. P. M. Paolo Antonio Foscarini Carmelitano Sopra l’Opinione de’ Pittagorici, e del Copernico. Della mobilità della Terra, e stabilità del Sole. E del nuovo Pittagorico Sistema del Mondo, In Napoli, Per Lazaro Scoriggio, 1615, ora in Galilei, Scienza e religione, cit., pp. 117-154, da cui sono tratti i riferimenti successivi. [4] «ad notitiam praefatae Sacrae Congregationis pervenit, falsam illam doctrinam Pithagoricam, divinaeque scripturae omnino adversantem, de mobilitate Terrae & immobilitate Solis, quam Nicolaus Copernicus De revolutionibus orbium coelestium, & Didacus Astunica in Job etiam docent, iam divulgari & a multis recipi» («È giunta anche notizia alla Sacra Congregazione dell’Indice che quella falsa dottrina pitagorica, in tutto contraria alla divina Scrittura, sulla mobilità della Terra e l’immobilità del Sole, insegnata da Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium e da Diego de Zúñiga nel suo commento a Giobbe, si va diffondendo e viene accettata da molti»: Decreto della Congregazione dell’Indice, Roma, 5 marzo 1616, in Galilei, Scienza e religione, cit., pp. 259-262, citazione alle pp. 260-261). [5] L’unico dei testi di Galileo antologizzati da Bucciantini e Camerota in cui la formula non compare è la Lettera a Francesco Ingoli in risposta alla De situ et quiete Terrae contra Copernici systema disputatio: non senza ragione, perché la lettera a Ingoli fu scritta nell’estate del 1624, e dunque a una distanza considerevole dal tempo in cui si svolsero i fatti e si produssero gli atti e i documenti più significativi della disputa: cfr. Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., pp. 189-190. [6] Ne riporto i contesti: «I particolari che ella disse, referitimi dal S. Arrighetti, m’hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ’l portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali, ed alcun’altre in particolare sopra ’l luogo di Giosuè, propostogli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dalla G. D.sa M.re, con qualche replica della S.ma Arcid.sa» (Lettera a D. Benedetto Castelli, cit., rr. 21-25); «Però, quanto al Copernico, egli, per mio avviso, non è capace di moderazione, essendo il principalissimo punto di tutta la sua dottrina e l’universal fondamento la mobilità della Terra e stabilità del Sole» (Lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615, OG, V, p. 299); «Il motivo, dunque, che loro producono per condennar l’opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è che leggendosi nelle Sacre Lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, nè potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per sè stesso immobile, e mobile la Terra» (Lettera a Cristina di Lorena, cit., 6, 1); «Ma la mobilità della Terra e stabilità del Sole non son di questo genere, conciosia che tale opinione fosse in quei tempi totalmente sepolta e remota dalle quistioni delle Scuole, e non considerata, non che seguita, da veruno» (ivi, 26, 2); «Ed in somma, se non è possibile che una conclusione sia dichiarata eretica mentre si dubita che ella poss’esser vera, vana dovrà esser la fatica di quelli che pretendono di dannar la mobilità della Terra e la stabilità del Sole, se prima non la dimostrano esser impossibile e falsa» (ivi, 33, 3). Alle 4 occorrenze della Lettera a Cristina di Lorena possono aggiungersi le 2 che seguono, che se ne differenziano lievemente: «nè dovrebbe esser chi prendesse a sdegno se alcuno non aderisce in dispute naturali a quell’opinione che piace loro, e massime intorno a problemi stati già migliaia d’anni controversi tra filosofi grandissimi, quale è la stabilità del Sole e mobilità della Terra» (ivi, 13, 5); «Perchè, se noi tenteremo la capacità de gli uomini vulgari, gli troveremo molto più inetti a restar persuasi della stabilità del Sole e mobilità della Terra, che dell’esser lo spazio che ci circonda ripieno d’aria» (ivi, 24, 8). [7] Ne riporto i contesti: «[Copernico] invitato dall’autorità di tanti antichi uomini grandissimi, si diede alla contemplazione della mobilità della Terra e stabilità del Sole» (Considerazioni I, OG, V, p. 355); «Concorderà, dunque, in ogni spezie di consonanza la mobilità della Terra e stabilità del Sole con la disposizione di tutti gli altri corpi mondani e con tutte le apparenze, che sono mille, che noi ed i nostri antecessori hanno minutissimamente osservate» (ivi, OG, V, p. 356); «Veggiamo adesso tra quali spezie di ipotesi riponga il Copernico la mobilità della Terra e stabilità del Sole» (ivi, OG, V, p. 357); «volontieri ammetterò tutto questo discorso, pur che loro ancora si contentino di stare alle loro medesime concessioni, sì che la mobilità della Terra e stabilità del Sole sia altrettanto falsa o vera in natura quanto gli epicicli e gli eccentrici» (ivi, OG, V, p. 360); «La mobilità della Terra e stabilità del Sole non può mai esser contro alla Fede o alle Scritture Sacre» (Considerazioni II, OG, V, p. 364); «non così accade della mobilità della Terra e stabilità del Sole» (Considerazioni III, OG, V, p. 368); «È vero che non è istesso il mostrare che con la mobilità della Terra e stabilità del Sole si salvano l’apparenze, e ’l dimostrare che tali ipotesi in natura sien realmente vere» (ivi, OG, V, p. 369). Alle 4 occorrenze di Considerazioni I può aggiungersi questa, che se ne differenzia lievemente: «chiunque desidera di aver accertarsi della opinione del stesso Copernico, legga non una vana scrittura dello stampatore, ma tutta l’opera dell’autore stesso; chè senza dubbio toccherà con mano che il Copernico ha tenuta per verissima la stabilità del Sole e la mobilità della Terra» (Considerazioni I, OG, V, p. 363). [8] Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, cit., III 182, 1. [9] «Ultimamente, io non so vedere a qual proposito scriva nella lettera il medesimo S. Col., che io habbia veduti i suoi scritti contro di me in materia della montuosità della Luna et ancora della mobilità della terra et stabilità del sole» (Galileo a Gallanzone Gallanzoni, 16 luglio 1611, OG, XI, p. 152). [10] Le descrizioni del codice di Berti e Gabrieli non si sovrappongono, ma si completano. In particolare, Berti descrive ciascuno degli scritti che compongono le cc. 150-230 del ms., che invece Gabrieli indica genericamente come scritture di Galileo e di altri sul sistema Copernicano (p. 1216). È dunque d’obbligo rinviare a entrambe le descrizioni: Domenico Berti, Antecedenti al processo galileiano e alla https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/99
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condanna della dottrina Copernicana, in «Atti della R. Accademia dei Lincei», CCLXXIX, 1881-82, s. III. Memorie della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, vol. X, Roma, Salviucci, pp. 49-96, in part. pp. 60-67; Giuseppe Gabrieli, Contributi alla storia della Accademia dei Lincei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1989, 2 tomi, t. II, pp. 1214-1216. Per completezza d’informazione riporto, con qualche taglio, la sola parte iniziale della descrizione di Gabrieli, a p. 1214: «Volume miscellaneo in-4° (m. 0.300 × 0.220), rilegato di cartone coperto esternamente con pergamena. Sul dorso è scritto in alto: Astronomia | A | DCLVII, | e, in basso: 34. Cartaceo, di carte numerate nei recto I-III (incollate nell’ordine III. I. II.), 1-240; più in fine 3 carte bianche, non numerate. Manca, o più probabilmente è stata saltata nella numerazione, la carta 11, la 100 del tutto bianca, è ripetuta con 100-bis, così la 109 con 109-bis. Sono bianche anche le cart. 10v, 29v, 31r, 39r, 64, 98, 99, 109-bis v, 119v, 126, 130v, 138v, 141v, 149-150, 152v, 153, 158, 167v, 168, 172, 174v, 176v, 178v (la carta è ridotta a metà), 187-188, 192, 202, 230 v. Dopo la 99, seguono inserte quattro carte di formato più piccolo segnate a-d [...]. Nella carta II r-v, leggesi di mano alquanto posteriore, l’Index del volume: indice redatto nel ’600 da mano coeva, forse da Fr. Stelluti [...]. Scrittura di diverse mani, dei secoli XVI e XVII». [11] Gabrieli, Contributi alla storia della Accademia dei Lincei, cit., t. II p. 1216. [12] «Molto Reverendo Padre mio, Ho letto volentieri l’epistola italiana e la scrittura latina che la P. V. m’ha mandato» (Roberto Bellarmino a Paolo Antonio Foscarini, 12 aprile 1615, OG, XII, pp. 171-172, citazione a p. 171). [13] Pietro Redondi, Fede lincea e teologia tridentina, in «Galilaeana», I, 2004, pp. 117-141, citazione a p. 126. Il giudizio fu pubblicato a suo tempo da Berti, Antecedenti al processo e alla condanna della dottrina Copernicana, cit., pp. 72-73. [14] Cfr. Galilei, Scienza e religione, cit., p. 113. [15] Cfr. Scritture in difesa del sistema copernicano. Avvertimento, OG, V, pp. 263-278, in part. pp. 277-278, citazione a p. 277. I tre testi erano già stati attribuiti a Galileo da Berti, Antecedenti al processo e alla condanna della dottrina Copernicana, cit., p. 49: «Seguono tre scritti a sostegno della dottrina copernicana, certamente composti da Galileo, sebbene non siano di suo carattere. E ciò affermiamo senza esitare, per più ragioni; ed in ispecie, perché vi si riscontrano periodi frasi concetti che si leggono nelle lettere di Galileo di quel tempo, e perché nell’ultimo di questi tre scritti si risponde ordinatamente punto per punto alla lettera del cardinal Bellarmino al Foscarini». [16] Pesce, La «Lettera a Cristina»: una proposta per definire ambiti autonomi di sapere e nuovi assetti di potere intellettuale nei paesi cattolici, cit., pp. 21-22. [17] Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. 85. [18] Ibidem. [19] Che probabilmente fu composto per primo: cfr. Massimo Bucciantini, Contro Galileo. Alle origini dell’affaire, Firenze, Olschki, 1995, p. 58 nota 16 e Damanti, Libertas philosophandi. Teologia e filosofia nella «Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena» di Galileo Galilei, cit., p. 115 nota 31. [20] Cfr. Berti, Antecedenti al processo e alla condanna della dottrina Copernicana, cit., pp. 78-91. [21] OG, XII, pp. 215-220. [22] «Mi sarà caro poi intendere se con l’occhiale di prospettiva V. S. ha scorto di nuovo alcuna cosa degna di sapersi o nel corpo lunare o pure del sole e sopra le macchie di lui; e così se vi è alcuna cosa scoperta di nuovo sopra i compagni di Giove, Pianeti Medicei, oltre di ciò che V. S. pose nel publico gli anni passati» (ivi, p. 219). [23] «Successe poi il trovato dell’occhiale di prospettiva, e scoperse con ferma sensatione varie belle cose nel cielo, tutte curiose et incognite insino a questi secoli: come la Luna essere montuosa e Venere e Saturno tricorporei e Giove quadricorporeo, e nella Via Lattea e nelle Pleiadi e nelle Nebulose essere una moltitudine di grandissime stelle tra loro vicine»: Foscarini, Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico, cit., p. 121. [24] Mi permetto di rinviare a Patota, Occhiale, cannone, cannocchiale e telescopio: una storia lincea, cit., p. 7. [25] Cfr. OG, XII, pp. 183-185. [26] Cfr., nel merito, Francisci Ingoli, De situ et quiete terrae contra Copernici Systema disputatio. Avvertimento, OG, V, pp. 399-401 e Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. 163. [27] Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. XXIX. [28] Redondi, Fede lincea e teologia tridentina, cit., p. 126. [29] Come aveva fatto Galileo scrivendo la Lettera a Benedetto Castelli: cfr. Damanti, Libertas philosophandi. Teologia e filosofia nella «Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena» di Galileo Galilei, cit., p. 51. [30] Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. XXXV. [31] OG, V, p. 277. [32] Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. XVI. [33] Cfr. Migliorini, Galileo e la lingua italiana, cit., pp. 156-157. [34] Cfr. De Cesare, Tipologie testuali e modelli, cit., p. 79. [35] Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. 23 nota 13. [36] «E se noi attentamente discorreremo, troveremo che più ha da valere l’autorità di un solo che segua l’opinione Copernicana, che cent’altri che tenghino la contraria, poi che quelli che hanno a esser persuasi della verità del sistema copernicano, sono tutti da principio contrarissimi» (Considerazioni circa l’opinione copernicana, OG, V, p. 353; corsivo mio). Dalla consultazione di Galileo//Thek@ ricavo che, nell’insieme degli scritti e delle lettere di Galileo, l’aggettivo copernicano accompagna, in ordine decrescente, i seguenti nomi: sistema (39 occ.), ipotesi (10 occ.), posizione (5 occ.), costituzione (4 occ.), opinione (3 occ.), coniettura (1 occ.), dimostrazione (1 occ.), fabbrica (1 occ.), lontananza (1 occ.), parte (1 occ.), ragione (1 occ.) e sfera (1 occ.). [37] Cfr. Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., pp. 189-190. [38] «e perché questo era reputato da me per uomo intelligente assai e molto circospetto, pentitomi di non vi essere andato, cominciai da quel tempo in qua, secondo che m’incontravo in alcuno che tenesse l’opinione Copernicana, a domandarlo se egli era stato sempre dell’istesso parere» (Galilei, Dialogo, II 75, 3). Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino - Legal notice Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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Darwinbooks: L'universo in italiano
Giuseppe Patota L'universo in italiano La lingua degli scritti copernicani di Galileo
I. Tratti caratteristici comuni alla prosa del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e delle Considerazioni circa l’opinione copernicana 1. Incapsulatori anaforici adoperati al confine tra due unità sintattiche Il modulo ricorre 2 volte nel solo testo I: «Leggesi nel rovescio della carta dell’intitolazione del libro del Copernico certa prefazione al lettore, la quale non è dell’autore, poi che parla di esso per terza persona, ed è senza nome; dove apertamente si legge, che non si creda in modo alcuno che il Copernico stimasse per vera la sua posizione, ma solo che la fingesse ed introducesse per i calcoli de’ movimenti celesti, e finisce il suo discorso concludendo che il tenerla per vera e reale sarebbe stoltizia: conclusione tanto resoluta, che chi non legge più oltre, e la reputa per posta almeno di consenso dell’autore, merita qualche scusa dell’error suo» (OG, V, pp. 360-361); «Venere digredisce dal Sole quasi 48 gradi, e la sua distanza quando è lontanissima dalla Terra convien che sia maggiore più di 6 volte che quando è vicinissima, ed in consequenza il suo diametro visuale maggiore in questa posizione che in quella più di 6 volte, e non 4, ed il corpo più di 216 volte maggiore, e non 16 solamente: errori tanto sconci, che non è da credere che fossero commessi da Copernico, né da altri che da persone imperitissime» (OG, V, pp. 361-362). {p. 120}
2. Ellissi del verbo in frasi coordinate a una prima proposizione in cui tale verbo è espresso Questo tipo di ellissi ricorre 5 volte nel testo I e 1 volta nel testo II: «Quanto a i moderni, Niccolò Copernico in prima l’ha suscitata ed amplamente in tutto il suo libro confermata, e successivamente altri» (OG, V, p. 352); «esse ragioni o sono vere e dimostrative, o fallaci» (OG, V, p. 353); «se la stabilità della Terra e mobilità del Sole è de facto vera in natura, e assurda la contraria posizion, come si potrà ragionevolmente dire, che meglio si accordi all’apparenze manifeste visibili e sensate, nei movimenti e constituzioni delle stelle, la posizione falsa che la vera?» (OG, V, p. 356); «Inoltre, afferma che il suo diametro dovrebbe apparire 4 volte, ed il suo corpo 16, maggiore in questa positura che in quella» (OG, V, p. 361); «Venere digredisce dal Sole quasi 48 gradi, e la sua distanza quando è lontanissima dalla Terra convien che sia maggiore più di 6 volte che quando è vicinissima, ed in consequenza il suo diametro visuale maggiore in questa posizione che in quella più di 6 volte, e non 4, ed il corpo più di 216 volte maggiore, e non 16 solamente» (OG, V, pp. 361-362); «se le ragioni provanti la mobilità della Terra si troveranno esser fallaci, e le contrarie dimonstrative, già saremo fatti certi della falsità di tal proposizione e della verità della contraria» (OG, V, p. 364).
3. Frasi subordinate aperte da un connettivo applicato non a un verbo ma a un aggettivo Questa forma di nominalizzazione ricorre 3 volte nel solo testo I: «Anzi tanto è falso che egli prenda questa supposizione per satisfare alla parte de’ calcoli astronomici, che {p. 121}
egli medesimo, quando viene a cotali calcoli, lascia questa posizione e ritorna alla vecchia, come più accommodata e facile ad essere appresa e come destrissima ancora per gli stessi computi» (OG, V, p. 358); «[Copernico] ritorna a prender l’ipotesi vecchia [...] come più facile ad esser appresa da ciascheduno per l’inveterata consuetudine» (ibidem); «soggiunse volersi attenere alla prima come più semplice della seconda» (OG, V, p. 359).
4. Frasi subordinate aperte da un connettivo applicato non a un verbo ma a un participio Il modulo ricorre 1 volta nel solo testo II: «Ma quando pur paresse ad alcuno inconveniente il lasciar la comune esposizione de i Padri, anco in proposizioni naturali, ben che non discusse da quelli, né pur cadutogli in considerazione la proposizione contraria, io domando quello che si dovria fare quando le demostrazioni necessarie concludessero il fatto in natura per l’opposito» (OG, V, p. 366).
5. Sostituzione del verbo con un nome di significato analogo Questa modalità di compressione testuale ricorre 17 volte nel testo I e 3 volte nel testo II: «affermando essere talmente in filosofia dimostrata la stabilità della Terra e mobilità del Sole» (= ‘il fatto che la Terra sia stabile e che il Sole sia mobile’, OG, V, p. 351); «Davide Origano, nel principio delle sue Effemeridi, comproba la mobilità della Terra con lunghissimo discorso» (OG, V, p. 352); «In oltre, quanto sia vano l’argumentar l’applausibilità di questa o di quella opinione dalla semplice moltitudine de i seguaci, si può da questo agevolmente raccòrre» (OG, V, p. 354); {p. 122}
«onde probabilmente si può stimare, anco da chi non sentisse le ragioni né di questa né di quella parte, che le dimostrazioni per la mobilità della Terra sieno molto più gagliarde di quelle dell’altra parte» (ibidem); «Ma più dirò, che quando per scrutinio si avesse a vincere la probabilità delle due posizioni, io non solamente mi contenterei di chiamarmi vinto quando la parte avversa avesse tra cento un voto più di me» (ibidem); «persistono in voler affermare che il Copernico abbia solamente come astronomo presa ex hypothesi la mobilità della Terra e stabilità del Sole» (ibidem); «si diede alla contemplazione della mobilità della Terra e stabilità del Sole» (OG, V, p. 355); «Concorderà, dunque, in ogni spezie di consonanza la mobilità della Terra e la stabilità del Sole con la disposizione di tutti gli altri corpi mondani e con tutte le apparenze, che sono mille, che noi ed i nostri antecessori hanno minutissimamente osservate, e sarà tal posizione falsa; e la stabilità della Terra e mobilità del Sole, stimata vera, in modo alcuno non potrà con le altre verità concordarsi?» (OG, V, p. 356); «passa ad un’altra sorte di supposizioni, che ha per mira di ritrovar le ragioni, come, senza mutar le prime, possa esser l’evidente e sensata inequalità ne i movimenti delle stelle e nel loro appressamento e discostamento dalla Terra» (OG, V, p. 357); «Veggiamo adesso tra quali spezie di ipotesi riponga il Copernico la mobilità della Terra e stabilità del Sole» (ibidem); «il Copernico non https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/119
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per altra ragione né in altra maniera prende la mobilità della Terra e stabilità del Sole, che per stabilire, in grazia del filosofo naturale, questa ipotesi della prima spezie» (OG, V, p. 358); «Ma quando le ragioni discursive non bastassero a far capire la necessità di dover realissimamente porre gli eccentrici ed epicicli in natura, doverà almeno persuaderglielo il senso stesso» (OG, V, p. 359); «altri dice, introdurre gli astronomi moderni il moto della Terra e stabilità del Sole ex suppositione per salvar le {p. 123}
apparenze e per servir a i calcoli» (OG, V, p. 360); «volontieri ammetterò tutto questo discorso, pur che loro ancora si contentino di stare alle loro medesime concessioni, sì che la mobilità della Terra e stabilità del Sole sia altrettanto falsa o vera in natura quanto gli epicicli e gli eccentrici» (ibidem); «gli concedo per gran assurdo la mobilità della Terra» (ibidem); «confessino altresì la mobilità della Terra» (ibidem); «il Copernico ha tenuta per verissima la stabilità del Sole e la mobilità della Terra» (OG, V, p. 363); «La mobilità della Terra e stabilità del Sole non può mai esser contro alla Fede o alle Scritture Sacre» (OG, V, p. 364); «le ragioni provanti la mobilità della Terra si troveranno esser fallaci» (ibidem); «l’opinione della mobilità della Terra era a i tempi loro totalmente sepolta» (OG, V, p. 365).
6. Accoglimento di un participio presente equivalente a una frase subordinata Il tratto ricorre 4 volte nel testo I, 1 volta nel testo II e 1 volta nel testo III: «Ma più, de’ seguaci di tale dottrina, ben che non ne abbino mandato scritture in publico, ne potrei nominare moltissimi viventi in Roma, Firenze, Venezia, Padova, Napoli, Pisa, Parma ed altri luoghi» (OG, V, p. 352); «ma poi con lunghe e sensate osservazioni, con incontri concordanti e fermissime dimostrazioni, lo [il concetto] scoperse talmente consonante alla mondana armonia, che interamente s’accertò della sua verità» (OG, V, p. 355); «ora chi vidde mai autore alcuno sensato porsi a confutar le dimostrazioni confermanti una proposizione stimata da sé vera e reale?» (OG, V, p. 356); «Due sorte di supposizioni hanno sin qui fatto gli astronomi: alcune sono prime e riguardanti all’assoluta verità in natura» (OG, V, p. 357); «se le ragioni provanti la mobilità della Terra si troveranno {p. 124}
esser fallaci, e le contrarie dimonstrative, già saremo fatti certi della falsità di tal proposizione e della verità della contraria» (OG, V, p. 364); «La differenza ratione nostri è perché noi ponghiamo la regione elementare, circondante la Terra, molto diversa dalla parte celeste» (OG, V, p. 368).
7. Accoglimento di un participio passato equivalente a una frase subordinata Il tratto ricorre 9 volte nel testo I, 2 volte nel testo II e 1 volta nel testo III: «Ora chi crederà che una opinione reputata per vana, anzi stolta, che non abbia appena uno per migliaio tra i filosofi che la seguitino, anzi reprobata dal Principe della filosofia corrente, possa esser persuasa da altro che da saldissime dimostrazioni, evidentissime esperienze e sottilissime osservazioni?» (OG, V, p. 353); «ma poi, spoliatosi l’abito di puro astronomo e vestitosi quello di contemplatore della natura, si pose a esaminare se questa già introdotta supposizione da gli astronomi, e che quanto a i calcoli ed apparenze di moti a pianeta per pianeta competentemente satisfaceva, potesse anco re vera sussistere nel mondo e nella natura» (OG, V, p. 355); «E trovandosi ricchissimo di osservazioni vere e reali in natura, fatte ne i corsi delle stelle, senza la qual cognizione è del tutto impossibile conseguire una tal notizia, s’applicò con indefessi studii al ritrovamento di tale constituzione» (ibidem); «e prima, invitato dall’autorità di tanti antichi uomini grandissimi, si diede alla contemplazione della mobilità della Terra e stabilità del Sole» (ibidem); «nulladimeno, forzato da i comandamenti del Cardinal Capuano e dal Vescovo Culmense, egli la publicò» (OG, V, p. 356); «e la stabilità della Terra e mobilità del Sole, stimata vera, in modo alcuno non potrà con le altre verità concordarsi?» {p. 125}
(ibidem); «solamente soggiungerò qual possa essere stato il motivo, sopra il quale alcuni fondatisi, possino con qualche ombra di verisimile avere avuta opinione che l’istesso Copernico non abbia veramente creduta la sua ipotesi» (OG, V, p. 360); «ma ben resteremo noi fatti cauti, come per nostra ignoranza non avevamo penetrato i veri sensi delle Scritture, i quali allora potremo conseguire, aiutati dalla nuovamente conosciuta verità naturale» (OG, V, p. 364); «Ma, all’incontro, quando fermati solamente sopra quello che a noi paresse il vero e certissimo senso delle Scritture, si passasse a dannar una tal proposizione senza esaminar la forza delle dimostrazioni, quale scandalo seguirebbe quando le sensate esperienze e ragioni mostrassero il contrario?» (ibidem); «oltre la grandissima disparità che è tra una piccola barca, divisa da ogni suo ambiente, ed una spiaggia immensa, conosciuta da noi immobile per mille e mille esperienze» (OG, V, p. 370).
8. Condensazione di una frase relativa nell’aggettivo verbale in -bile Questo meccanismo di condensazione ricorre 2 volte nel testo I e 1 volta nel testo III: «Certo nissuno si lascierà rimuovere da una opinione imbevuta col latte e con le prime discipline, plausibile quasi da tutto il mondo, appoggiata su l’autorità di gravissimi scrittori, se le ragioni in contrario non saranno più che efficaci» (OG, V, p. 353); «Tolomeo [...] dalli stessi filosofi piglia, che i movimenti celesti sieno tutti circolari e regolari, cioè equabili» (OG, V, p. 357); «Potrebbe essere che noi avessimo delle difficultà in espor le Scritture etc.: ma ciò per nostra ignoranza, ma non già perché realmente vi sia, o possa essere, difficultà insuperabile in concordarle con le verità dimostrate» (OG, V, p. 367). {p. 126}
9. Infinito sostantivato sostitutivo di una frase Ne troviamo 10 esempi nel testo I e 2 esempi nel testo II: «In oltre, che ella sia fondata sopra potentissime ed efficacissime ragioni si può argumentare dall’essere tutti i suoi seguaci stati prima di opinione contraria» (OG, V, pp. 352-353); «In oltre, quanto sia vano l’argumentar l’applausibilità di questa o di quella opinione dalla semplice moltitudine de i seguaci, si può da questo agevolmente raccòrre» (OG, V, p. 354); «Di più, conobbe e scrisse nell’istesso luogo il Copernico, che il publicare al mondo questa opinione l’averebbe fatto reputar pazzo dall’infinità de i seguaci della corrente filosofia» (OG, V, p. 355); «nulladimeno l’aver già tanti geometri ed astronomi in tanti e tanti libri dimonstrati gli accidenti delle ascensioni rette ed oblique delle parti del zodiaco in rispetto all’equinozziale, le declinazioni delle parti dell’ecclittica, le diversità degli angoli di essa con gli orizonti obliqui e col meridiano, e mille altri particolari accidenti necessarii ad integrare la scienza astronomica, fa che l’istesso Copernico, quando viene a considerare detti https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/119
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accidenti de i primi moti, gli considera al modo antico» (OG, V, p. 358); «Oltre a ciò, dell’essere i tre pianeti superiori vicinissimi alla Terra quando sono all’opposizione del Sole, e remotissimi circa le congiunzioni [...], che altro si potrà concludere, se non la loro conversione essere in cerchi eccentrici, o vero in epicicli, o nell’aggregato di questi e di quelli, se si considera la seconda anomalia?» (OG, V, pp. 359-360); «quando succeda loro il rimovergli dimostrativamente dalla natura, io subito m’arrendo, e gli concedo per gran assurdo la mobilità della Terra» (ibidem); «egli doveva pur ricordarsi che, opponendo il Copernico nel cap. 10 del libro primo, parlando ad hominem, a gli altri astronomi per grande essorbitanza il dare a Venere un epiciclo così grande che eccedesse tutto il concavo della {p. 127}
Luna più di 200 volte e che in sé contenesse niente, tal assurdo vien poi tolto da lui mentre dimostra manifestamente, dentro all’orbe di Venere contenersi l’orbe di Mercurio ed il corpo stesso del Sole, posto nel centro di quello» (OG, V, p. 362); «Ma finalmente, per levar ogn’ombra di dubitare, quando il non apparire al senso così gran diversità nelle grandezze apparenti del corpo di Venere avesse a revocare in dubbio la sua circolar conversione intorno al Sole, conforme al sistema Copernicano, facciasi diligente osservazione con stromento idoneo, cioè con un perfetto telescopio» (ibidem); «e come dal non discerner tal diversità con la semplice vista, per le ragioni da me addotte altrove, parerà che si potesse ragionevolmente negar tal posizione, così ora dal vederne essattissimo rincontro in questa ed in ogn’altra particolarità, rimovasi ogni dubbio, e si reputi per vera e reale» (ibidem); «E che loro non ci facessero reflessione, è manifesto dal non si trovare ne’ loro scritti pur una parola di tale opinione» (OG, V, pp. 365-366); «A me, s’io non m’inganno, pare che più sicuro sarebbe il modificare questo secondo decreto, che il voler costringere a tener per de Fide una proposizione naturale la quale per concludenti ragioni fusse dimonstrata falsa in fatto ed in natura» (OG, V, p. 366).
10. Proposizione soggettiva costruita con l’accusativo e l’infinito Se ne registrano 3 esempi nel testo I: «Se si potesse dire, non esser vera né questa né quella posizione, potrebbe esser che l’una si accomodasse meglio che l’altra al render ragione dell’apparenze» (OG, V, p. 356); «che altro si potrà concludere, se non la loro conversione essere in cerchi eccentrici, o vero in epicicli, o nell’aggregato di questi e di quelli, se si considera la seconda anomalia?» (OG, V, p. 360); «troverassi puntualmente rispondere il tutto in effetto ed in esperienza» (OG, V, p. 362).
11. Proposizione oggettiva costruita con l’accusativo e l’infinito Se ne registrano 16 esempi nel testo I e 3 esempi nel testo II: «affermando essere talmente in filosofia dimostrata la stabilità della Terra e mobilità del Sole, che ce ne sia sicura ed indubitabile certezza» (OG, V, p. 351); «onde concludono, potersi sicuramente venire all’esecuzione del dannarla» (ibidem); «il Copernico apporta assai minutamente i fondamenti e le ragioni per le quali gli antichi han creduto la Terra esser immobile» (OG, V, p. 356); «chi è quello che non sappia, concordantissima essere l’armonia di tutti i veri in natura, ed asprissimamente dissonare le false posizioni da gli effetti veri?» (ibidem); «immagina i cerchi de i primi movimenti con i loro accidenti essere nel cielo altissimo intorno alla Terra stabile, come più facile ad esser appresa da ciascheduno per l’inveterata consuetudine» (OG, V, p. 358); «su le quali parole assai debolmente argomentano alcuni, aver Tolomeo reputata non necessaria, anzi totalmente fittizia, questa e quella posizione, poi che afferma, tanto potersi accomodar l’una quanto l’altra, mentre che una sola, e non più, si può attribuire alla teorica del Sole» (OG, V, p. 359); «chi sarà, dico, della professione che, intendendo queste prime apprensioni, possa poi negare ritrovarsi realmente in natura gli eccentrici e gli epicicli?» (ibidem); «uno che confessasse, di questi tre caratteri il primo esser D, il secondo I, il terzo O, potrebbe poi in conclusione negare, dal computo di essi resultarne D I O» (ibidem); «altri dice, introdurre gli astronomi moderni il moto della Terra e stabilità del Sole ex suppositione per salvar le apparenze e per servir a i calcoli» {p. 129}
(OG, V, p. 360); «confessino sé essere dalle proprie contradizioni convinti» (ibidem); «dico, tal prefazione non poter essere d’altri che del libraio per facilitare la vendita al libro» (OG, V, p. 361); «Scrive questo prefatore, non doversi aver per verisimile, se non da chi fosse del tutto ignorante di geometria e di optica, che Venere abbia un sì grande epiciclo» (ibidem); «dimostra manifestamente, dentro all’orbe di Venere contenersi l’orbe di Mercurio ed il corpo stesso del Sole, posto nel centro di quello» (OG, V, p. 362); «doviamo dire ciò accadere per infirmità del nostro intelletto» (OG, V, p. 364); «Rispondo, doversi cominciare dal luogo più sicuro e lontano dall’apportare scandalo» (ibidem); «Quale de i due decreti sarebbe da alterarsi? quello che ci determina, nissuna proposizione poter esser vera ed erronea, o l’altro che obliga a reputare come de Fide le proposizioni naturali insignite della concorde interpretazione de i Padri?» (OG, V, p. 366).
12. Inserti parentetici che consentono di evitare un grado di subordinazione Se ne registrano 2 esempi nel solo testo I: «Quelli che persistono in voler affermare che il Copernico abbia solamente come astronomo presa ex hypothesi la mobilità della Terra e stabilità del Sole [...] mostrano (e sia detto con pace loro) d’aver troppo creduto alla relazione di chi forse parla più per proprio arbitrio, che per pratica che egli abbia nel libro del Copernico o nell’intender la natura di questo negozio» (OG, V, p. 354); «Oltre a ciò, dell’essere i tre pianeti superiori vicinissimi alla Terra quando sono all’opposizione del Sole, e remotissimi circa le congiunzioni, intanto che Marte nella maggior vicinanza ci si mostra al senso cinquanta e più volte maggiore che nella massima {p. 130}
lontananza (onde alcuno ha talora temuto che ei si fosse smarrito e svanito, restando veramente, per la sua somma lontananza, invisibile), che altro si potrà concludere, se non la loro conversione essere in cerchi eccentrici, o vero in epicicli, o nell’aggregato di questi e di quelli, se si considera la seconda anomalia?» (OG, V, pp. 359-360).
13. Incapsulazione anaforica realizzata col pronome relativo «che» preceduto dall’articolo o dalla preposizione semplice o articolata Il tratto occorre 2 volte nel testo I e 1 volta nel testo III: «In oltre, che ella sia fondata sopra potentissime ed efficacissime ragioni si può argumentare dall’essere tutti i suoi seguaci stati prima di opinione contraria; anzi che essi ancora per lungo tempo se ne risero e la reputorono stoltizia: di che ed io ed il Copernico, e tutti gli altri che vivono, possiamo render testimonianza» (OG, V, pp. 352-353); https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/119
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«[Tolomeo] passa ad un’altra sorte di supposizioni, che ha per mira di ritrovar le ragioni, come, senza mutar le prime, possa esser l’evidente e sensata inequalità ne i movimenti delle stelle e nel loro appressamento e discostamento dalla Terra; per il che fare introduce alcuni movimenti pur circolari, ma sopra ad altri centri che quello della Terra, descrivendo cerchi eccentrici ed epicicli» (OG, V, p. 357); «tutto quello che è nella Scrittura è de Fide ratione dicentis, onde per tal rispetto dovrebbe essere compreso dalla regola del Concilio, il che chiaramente non è stato fatto» (OG, V, p. 367). {p. 131}
14. Incapsulazione anaforica mediante un sintagma nominale la cui testa è preceduta dall’aggettivo relativo Il tratto ricorre 6 volte nel solo testo I: «E trovandosi ricchissimo di osservazioni vere e reali in natura, fatte ne i corsi delle stelle, senza la qual cognizione è del tutto impossibile conseguire una tal notizia, s’applicò con indefessi studii al ritrovamento di tale constituzione» (OG, V, p. 355); «e prima, invitato dall’autorità di tanti antichi uomini grandissimi, si diede alla contemplazione della mobilità della Terra e stabilità del Sole; senza il quale invito ed autorità, per sé stesso o non gli sarebbe venuto in mente tal concetto, o l’averebbe avuto, come egli confessa d’averlo avuto nel primo apparire, per acroama e paradosso grandissimo» (ibidem); «tanta è la forza del vero e l’infermità del falso, che quegli che in simil modo discorrono, per lor medesimi si scuoprono non in tutto intelligenti e versati in queste materie, tuttavolta che si sono lasciati persuadere che la seconda spezie di ipotesi sia reputata chimerica e favolosa da Tolomeo e da gli altri astronomi gravi, e che essi veramente la stimino falsa in natura e solamente introdotta in grazia de’ computi astronomici. Della quale vanissima opinione non addurranno altro fondamento che un luogo di Tolomeo» (OG, V, pp. 358-359); «[Tolomeo] scrisse che per render ragione di quella si poteva prender tanto l’ipotesi del semplice eccentrico quanto dell’epiciclo nel concentrico, e soggiunse volersi attenere alla prima come più semplice della seconda; su le quali parole assai debolmente argomentano alcuni, aver Tolomeo reputata non necessaria, anzi totalmente fittizia, questa e quella posizione» (OG, V, p. 359); «Scrive questo prefatore, non doversi aver per verisimile, se non da chi fosse del tutto ignorante di geometria e di optica, che Venere abbia un sì grande epiciclo, che per esso possa or precedere ed or {p. 132}
posporsi al Sole per 40 gradi o più, poi che bisognerebbe che quando ella è altissima, il suo diametro si mostrasse appena la quarta parte di quello che si mostra quando è bassissima, e che il suo corpo si vedesse in questo sito 16 volte maggior che in quello; alle quali cose, dice egli, repugnano l’esperienze di tutti i secoli. Ne i quali detti, prima, si vede che egli non sa che Venere si allontana di qua e di là del Sole poco meno di 48 gradi, e non 40, come dice lui» (OG, V, p. 361). Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino - Legal notice Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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Giuseppe Patota L'universo in italiano La lingua degli scritti copernicani di Galileo
II. Lettera di Roberto Bellarmino a Paolo Antonio Foscarini con dieci annotazioni di Galilei Il testo della lettera di Bellarmino è riportato in corsivo e diviso in tre parti. In calce alla prima sono riportate in tondo le annotazioni 1-3 di Galileo; in calce alla seconda è riportata l’annotazione 4 e infine, in calce alla terza, sono riportate le rimanenti annotazioni 5-10. Per la divisione della lettera e per la distribuzione delle dieci annotazioni ho tenuto in conto anche i rinvii allo scritto di Bellarmino prodotti da Bucciantini e Camerota nel loro commento alle singole annotazioni che compongono il testo di Galileo [1] . Per questa giustapposizione, che non ha alcun fondamento filologico ed è puramente strumentale, ripropongo, come hanno fatto i due studiosi, i testi dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, così come possono leggersi in OG, XII, pp. 171-172 e V, pp. 367-370. Al Molto Reverendo Padre Maestro F. Paolo Antonio Foscarini, Provinciale de’ Carmelitani della Provincia di Calabria. Molto Reverendo Padre mio, Ho letto volentieri l’epistola italiana e la scrittura latina che la P. V. m’ha mandato: la ringratio dell’una e dell’altra, e confesso che sono tutte piene d’ingegno e di dottrina. Ma perché lei dimanda il mio parere, lo farò con molta brevità, perché lei hora ha poco tempo di leggere et io ho poco tempo di scrivere. Primo. Dico che mi pare che V. P. et il Sig.r Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare «ex suppositione» e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico. Perché il dire, che supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la terra stia nel 3o cielo e giri con somma velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante; perché la P. V. ha bene dimostrato molti modi di esporre le Sante Scritture, ma non li ha applicati in particolare, ché senza dubbio havria trovate grandissime difficultà se havesse voluto esporre tutti quei luoghi che lei stessa ha citati. [1o]. Il Copernico pone gli eccentrici e gli epicicli; né questi sono stati cagione di rifiutare il sistema Tolomaico (essendo loro indubitatamente in cielo), ma altre essorbitanze. [2o]. Quanto a i filosofi, se saranno veri filosofi, cioè amatori del vero, non doveranno irritarsi, ma, conoscendo di aver mal creduto, dovranno ringraziar chi gli mostra la verità; e se la loro opinione rimarrà in piede, aranno causa di gloriarsi, e non di sdegnarsi. I teologi non si dovranno irritare: perché, trovandosi tal opinione falsa, potranno liberamente proibirla; e scoprendosi vera, dovranno rallegrarsi che altri gli abbia aperta la strada di trovare veri sensi dalle Scritture, e raffrenati dall’incorrer in un grave scandalo, di dannare una proposizione vera. Quanto al render false le Scritture, ciò non è né sarà mai nell’intenzione delli astronomi cattolici, quali siamo noi; anzi nostra opinione è che le Scritture benissimo concordino con le verità naturali dimonstrate. Guardinsi pure alcuni teologi non astronomi dal render false le Scritture con volerle interpretar contro proposizioni che possono esser vere e dimonstrate in natura. [3o]. Potrebbe essere che noi avessimo delle difficultà in espor le Scritture etc.: ma ciò per nostra ignoranza, ma non già perché realmente vi sia, o possa essere, difficultà insuperabile in concordarle con le verità dimostrate. Dico che, come lei sa, il Concilio prohibisce esporre le Scritture contra il commune consenso de’ Santi Padri; e se la P. V. vorrà leggere non dico solo li Santi Padri, ma li commentarii moderni sopra il Genesi, sopra li Salmi, sopra l’Ecclesiaste, sopra Giosuè, trovarà che tutti convengono in esporre «ad literam» ch’il sole è nel cielo e gira intorno alla terra con somma velocità, e che la terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si dia alle Scritture un senso contrario alli Santi Padri et a tutti li espositori greci e latini. Né si può rispondere che questa non sia materia di fede, perché se non è materia di fede «ex parte obiecti», è materia di fede «ex parte dicentis»; e così sarebbe heretico chi dicesse che Abramo non habbia havuti due figliuoli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato di vergine, perché l’uno e l’altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de’ Profeti et Apostoli. [4o]. Il Concilio parla de rebus Fidei et morum etc.: il dir poi che tal proposizione è de Fide ratione dicentis, se bene non ratione obiecti, e che però sia delle comprese dal Concilio, si risponde che tutto quello che è nella Scrittura è de Fide ratione dicentis, onde per tal rispetto dovrebbe essere compreso dalla regola del Concilio, il che chiaramente non è stato fatto, perché avrebbe detto in omni verbo Scripturarum sequenda est expositio Patrum etc., e non in rebus Fidei et morum; avendo detto dunque in rebus Fidei, si vede che la sua intenzione è stata d’intender in rebus Fidei ratione obiecti. Che poi molto più sia de Fide il tener che Abramo avesse figli, e che Tubbia avesse un cane, perché la Scrittura lo dice, che non è il tener che la Terra si muova, ben che questo ancora si legga nella medesima Scrittura, e che il negar quello sia eresia, ma non il negar questo, parmi che dependa da tal ragione: perché, essendo al mondo stati sempre uomini che hanno avuto 2, 4, 6 figli etc., ed anco nissuno, e parimente chi abbia de’ cani e chi no, onde sia egualmente credibile che alcuno abbia figli o cani e che altri non ne abbia, non apparisce ragione o rispetto alcuno per il quale lo Spirito Santo avesse ad affermare in tali proposizioni diversamente dal vero, essendo a tutti gli uomini egualmente credibile la parte negativa e l’affirmativa; ma non così accade della mobilità della Terra e stabilità del Sole, essendo proposizioni lontanissime dall’apprensione del vulgo, alla capacità del quale in queste cose, non concernenti alla sua salute, è piaciuto allo Spirito Santo di accomodar i pronunciati delle Sacre Lettere, ben che ex parte rei il fatto stia altramente. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel 3o cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/133
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tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della 2a ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa, esposta da’ Santi Padri. Aggiungo che quello che scrisse: «Oritur sol et occidit, et ad locum suum revertitur» etc., fu Salomone, il quale non solo parlò inspirato da Dio, ma fu huomo sopra tutti gli altri sapientissimo e dottissimo nelle scienze humane e nella cognitione delle cose create, e tutta questa sapienza l’hebbe da Dio; onde non è verisimile che affermasse una cosa che fusse contraria alla verità dimostrata o che si potesse dimostrare. E se mi dirà che Salomone parla secondo l’apparenza, parendo a noi ch’il sole giri, mentre la terra gira, come a chi si parte dal litto pare che il litto si parta dalla nave, risponderò che chi si parte dal litto, se bene gli pare che il litto si parta da lui, nondimeno conosce che questo è errore e lo corregge, vedendo chiaramente che la nave si muove e non il litto; ma quanto al sole e la terra, nessuno savio è che habbia bisogno di correggere l’errore, perché chiaramente esperimenta che la terra sta ferma e che l’occhio non s’inganna quando giudica che il sole si muove, come anco non s’inganna quando giudica che la luna e le stelle si muovano. E questo basti per hora. Con che saluto charamente V. P., e gli prego da Dio ogni contento. Di casa, li 12 di Aprile 1615. Di V. P. molto R. Come fratello Il Card. Bellarmino [5o]. Quanto al porre il Sole nel cielo e la Terra fuori di esso come pare che affermin le Scritture, etc., questa veramente mi pare una semplice nostra apprensione ed un parlar solamente ratione nostri, perché realmente tutto quello che è circondato dal cielo è nel cielo, sì come tutto quel che vien circondato dalle mura è nella città; anzi, se vantaggio alcuno si avesse a fare, quello è più nel cielo e nella città, che è nel mezo, e, come si dice, nel cuore della città e del cielo. La differenza ratione nostri è perché noi ponghiamo la regione elementare, circondante la Terra, molto diversa dalla parte celeste: {p. 137}
ma tal diversità sarà sempre, pongansi essi elementi in qualsivoglia luogo; e sempre sarà vero che ratione nostri la Terra ci sia sotto e il cielo sopra, perché tutti gli abitatori della Terra hanno il cielo sopra il capo, che è il nostro sursum, e sotto i piedi il centro della Terra, che è il nostro deorsum. Così rispetto a noi il centro della Terra e la superficie del cielo sono i lontanissimi luoghi, cioè termini del nostro sursum e deorsum, che sono i punti diametralmente oppositi. [6o]. Il non creder che ci sia demonstrazione della mobilità della Terra sin che non vien mostrata, è somma prudenza; né si domanda da noi che alcuno creda tal cosa senza demonstrazione: anzi noi non ricerchiamo altro, se non che, per utile di Santa Chiesa, sia con somma severità essaminato ciò che sanno e possono produrre i seguaci di tal dottrina, e che non gli sia ammesso nulla se quello in che eglino fan forza non supera di grande spazio le ragioni dell’altra parte; e quando loro non abbino più di 90 per 100 di ragione, siano ributtati: ma quando tutto quel che producono i filosofi e astronomi avversi sia dimostrato essere per lo più falso, e tutto di nissun momento, non si disprezzi l’altra parte, né si reputi paradosso, da non dubitar che mai possa essere dimostrato apertamente. E ben si può far sì larga offerta: perché è chiaro che quelli che terranno la parte falsa, non possono aver per loro né ragione né esperienza alcuna che vaglia; dove che con la parte vera è forza che tutte le cose si accordino e rincontrino. [7o]. È vero che non è istesso il mostrare che con la mobilità della Terra e stabilità del Sole si salvano l’apparenze, e ’l dimostrare che tali ipotesi in natura sien realmente vere; ma è ben altrettanto e più vero che con l’altro sistema comunemente ricevuto non si può render ragion di tali apparenze. Quello è indubitabilmente falso, sì come è chiaro che questo, che si accommoda benissimo, può essere vero: né altra maggior verità si può o si deve ricercare in una posizione, che il rispondere a tutte le particolari apparenze. [8o]. Non si domanda che in caso di dubio si lasci l’esposizione de’ Padri, ma solo che si procuri di venire in certezza di quel che è dubbio, e che perciò non si disprezzi quello dove si veggono inclinare, ed aver inclinato, grandissimi filosofi e astronomi: fatta poi ogni necessaria diligenza, prendasi la determinazione. [9o]. Noi crediamo che e Salomone e Moisè e tutti gli altri scrittori sacri sapessero perfettamente la constituzione del mondo, come anco sapevano che Iddio non ha mani né piedi né ira né di {p. 138}
menticazione né pentimento, né metteremo mai dubbio sopra ciò; ma diciamo quel che dicono Santi Padri ed in particolare S. Agostino sopra queste materie, che lo Spirito Santo volse dettare così per le ragioni che si allegano etc. [10o]. L’errore della apparente mobilità del lito e stabilità della nave è conosciuto da noi doppo l’essere molte volte stati sopra ’l lito a osservare il moto delle barche, e molte altre in barca a osservare il lito: e così se potessimo ora stare in Terra ed ora andar nel Sole o in altra stella, forse verremmo in ogni cognizione sensata e sicura, qual di lor si muova: se ben quando non guardassimo altro che questi 2 corpi, sempre parrebbe a noi che fermo stesse quello dove ci trovassimo, sì come chi non guarderà altro che l’acqua e la barca, gli parrà sempre che l’acqua corra e la barca stia ferma; oltre la grandissima disparità che è tra una piccola barca, divisa da ogni suo ambiente, ed una spiaggia immensa, conosciuta da noi immobile per mille e mille esperienze, immobile, dico, rispetto all’acqua ed alla barca; e molto differente dal far paragone tra due corpi, ambidue per sé consistenti e disposti egualmente al moto ed alla quiete: tal che meglio quadrerebbe il far paragone di due navi tra di loro, delle quali assolutamente ci parrebbe sempre stabile quella dove fussimo noi, tutta volta che non potessimo far altra relazione che quella che cade tra esse 2 navi. Ci è, dunque, bisogno grandissimo di corregger l’errore circa l’apparenza se la Terra o pure il Sole si muova, sendo chiaro che uno che fosse nella Luna o in qualsivoglia altro pianeta, sempre gli parrebbe di star fermo e che l’altre stelle si movessero. Ma queste e molte altre più apparenti ragioni de’ seguaci della comune opinione [2] sono quelle che si devono snodare più che manifestissimamente, prima che pretendere pur di essere ascoltati, non che approvati; tantum abest che non sia da noi avuta minutissima considerazione di quanto ci vien prodotto contro: oltre che né il Copernico né i suoi seguaci si serviranno mai di questa apparenza, presa dal lito e dalla barca, per provare che la Terra stia in moto e il Sole in quiete; ma solo l’adducono per un essempio che serve non a dimostrar la verità della posizione, ma la non repugnanza tra ’l poterci parere, quanto ad una semplice apparenza del senso, la Terra stabile, e mobile il {p. 139} https://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:2548/fullChapter/1/initPage/133
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Sole, ben che realmente fusse il contrario. Ché se questa fusse la dimostrazione del Copernico, o le altre sue non concludessero con maggiore in efficacia, credo veramente che nissuno gli applauderebbe. Note [1] Cfr. Galilei, Scritti copernicani, cit., pp. 105-110. [2] La parola opinione è stata aggiunta da Bucciantini e Camerota in Galilei, Scienza e religione, cit., p. 110 e nota 82, che hanno così colmato la lacuna del ms. mantenuta da Favaro nell’Edizione Nazionale. Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino - Legal notice Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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