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Italian Pages 404 Year 2010
Università degli Studi di Napoli “L'Orientale”
Dipartimento di Filosofia e Politica
Lumanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo a cura di Lorenzo Bianchi e Gianni Paganini
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Quaderni del Dipartimento di Filosofia e Politica Università degli Studi di Napoli «L'Orientale» Comitato di direzione: Lorenzo Bianchi, Michele Fatica, Francesca Izzo, Giampiero Moretti,
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Napoli 27-29 sertembre 2007 4/2
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Note sul ‘problema dell'unione corpo-mente in Descartes: il contributo
del carteggio con Henry More”
di /gor Agostini
Il problema che è al centro della corrispondenza fra Descartes ed Henry More è noto: in che modo Dio, che è sostanza incorporea, può agire sulla sostanza corporea per comunicare ad essa il movimento?! Con l’eccezione di un breve accenno da parte dell’ Æyperaspistes, si tratta di un problema che, sinora, a Descartes, non era mai stato posto, laddove egli, invece, era
stato ripetutamente interrogato, in particolar modo da Gassendi e da Elisabetta?, sull’interazione fra la mente, sostanza incorporea finita, ed il corpo’,
Nel carteggio con More, i riferimenti di Descartes alla questione dei rapporti fra mente e corpo occupano invece uno spazio non solo quantitativamente inferiore, ma anche concettualmente subordinato: i termini della soluzione al problema dei * Sigle: AT (seguito dal numero del volume e delle pagine) = Oeuvres de Descartes, éd. par Charles Adam et Paul Tannery, nouvelle présentation par B. Rochot et P. Costabel, 11 voll., Paris 1964-1974; B (seguito dal numero della lettera) = René Descartes, Tutte Le lettere, a cura di G. Belgioioso, con la collaborazione di I. Agostini, F. Marrone, F. A. Meschini, M. Savini e di J.-R. Armogathe, Milano 2005.
! Cfr. More a Descartes, 11 dicembre 1648: «Quomodo enim motum imprimeret materia, quod fecisse aliquando, et etiamnum facere ipse fateris, nisi proxime quasi attingeret materiam universi, aut saltem aliquando attigisset?» (B 672, p. 2596; AT V, 238, Il. 28-31). Sul problema rinvio a E. Scribano, Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento, Milano 1988, p. 151 ss.; A. Goudriaan, Philosophische Gotteserkenntnis bei Suarez und Descartes: im Zusammenhang mit der nederländischen reformierten Theologie und Philosophie des 17. Jabrunderts, Leiden-Boston-Kéln 1999, p. 98 ss., 246 ss.; I. Agostini, Sull'onnipresenza di Dio nel cartesianismo, in: F.A. Sulpizio (ed.), Studi cartesiani, Lecce, 2000, pp. 11-87; M. Spallanzani, La ‘virtus
divina’, il vuoto e gli atomi. Su alcune obiezioni di Henry More a Descartes, in: A. Santucci (ed.), Filosofia e cultura nel settecento britannico, I: Fonti e connessioni continentali. John Toland e il deismo, Bologna 2001, pp. 3-42. 2 Cfr. X*** à Descartes, luglio 1641: «Nunquid vis mentem contingere corpus in unico puncto, ut
globus contingit planum? Idemne de Deo toti mundo coextenso putas?» (B 319, p. 1502; AT III, 411, ll. 19-22). 3 Cfr. Quintae objectiones (AT VII, 343, 1. 6-345, 1. 6); ag a Descartes, 6/16 maggio 1643 (B 392, pp. 1744-1746; AT III, 661, ll. 5-26). 4 Cfr. S. Landucci, Jfilosofi e Dio, Roma-Bari 2005, p. 179.
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo x
rapporti Dio-mondo determinano infatti la particolare prospettiva sotto la quale Descartes affronta il problema dei rapporti mente-corpo. Nondimeno, questa particolare prospettiva mi pare costituire, sul piano dei contenuti, un 77/047 all’interno dell’intero del corpus cartesiano. Su di essa intendo porre l’attenzione nel presente saggio, che dividerò in quattro momenti: nel primo, cercherò di mostrare in che cosa consiste la peculiarità della spiegazione cartesiana dei rapporti mente-corpo nel carteggio con More (1); nel secondo, cercherò di ricondurre tale spiegazione al contesto problematico entro cui essa emerge (II); nel terzo, cercherò di mostrare la sua compatibilità con altri testi cartesiani, segnatamente quelli che asseriscono la tesi dell’unione sostanziale fra mente e corpo (III); nel quarto, cercherò di mostrare come essa possa addirittura contribuire a gettare luce su altri testi di Descartes che presentano su qualche punto una certa oscurità (IV).
I. L'intervento di Descartes nel carteggio con More sul problema del rapporto fra mente e corpo nasce a seguito di una questione mossa dall’interlocutore, nel corso della sua seconda lettera, quella del 5 marzo 1649. Va qui ricordato che, ad un certo punto di questa lettera’, si registra una sorta di svolta interna al carteggio perché,
mentre sino a quel punto More si era limitato ad avanzare delle obiezioni, adesso egli passa a porre delle vere e proprie questioni: richieste di chiarimento relative a difficoltà emerse nella lettura delle opere di Descartes: Principi, Diottrica, Meteore’. Quella sui rapporti mente-corpo costituisce la sesta di tali questioni, posta a proposito dell’articolo 189 della Parte IV dei Principia philosophiae (Quid sit sensus, et quomodo fiat), dove Descartes aveva qualificato l’anima, o mente, infime cerebro conjuneta’: «Perlubenter equidem hic audirem sententiam tuam de conjunctione anime cum corpore»”. La questione continua poi diffusamente’, ma il punto fondamentale è quello già toccato da Gassendi ed Elisabetta: come l’anima, che è incorporea, può muovere il corpo? Nella sua risposta del 15 aprile, Descartes rinvia More al trattato de Les Passions de l'âme, del quale poco prima aveva annunciato al filosofo inglese l'imminente
pubblicazione'’, ma aggiunge anche alcune affermazioni:
° ° 7 * *
Cfr. More a Descartes, 5 marzo 1649 (B 684, p. 2654; AT V, 311, L. 13). Cfr. ivi (B 684, p. 2654; AT V, 311, 1. 13-312, L. 3). n Cfr. Principia philosophiae, I, art. 189 (AT WINES S16; lar Cfr. More a Descartes, 5 marzo 1649 (B 684, p. 2656; AT V, 313, ll. 16-17). Ivi B 684, pp. 2656-2658; AT V, 313, L 18-315, L 14).
"Descartes a More, 15 aprile 1649 (B 694, pp. 2684-2685; AT V, 344, Il. 19-24).
Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
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Mi sono sforzato di spiegare la maggior parte delle cose che qui chiedete nel Trattato sulle passioni. Aggiungo solo che, sinora, nulla mi si è presentato, a proposito della natura delle cose materiali, di cui non possa assai facilmente escogitare una spiegazione
meccanica. E, come non è indegno di un filosofo ritenere che Dio possa muovere i corpi, anche se non ritiene Dio corporeo, così neppure è indegno di lui giudicare qualcosa di simile delle altre sostanze incorporee. E sebbene io ritenga che nessun modo di agire convenga univocamente a Dio ed alle creature, confesso, tuttavia, di non trovare in me alcun’idea che rappresenti il modo in cui Dio, o l’angelo, può muovere la materia, diversa da quella che mi esibisce il modo in cui io sono cosciente di poter muovere il mio corpo attraverso il mio pensiero!!.
Se il problema posto da More ricalca nell’essenziale una questione che — come accennavo — era stata già posta a Descartes da Gassendi ed Elisabetta, la risposta del filosofo francese contiene un’affermazione che non solo non ritorna nelle Passions de l'âme, ma non si trova neppure in tutto il resto del corpus cartesiano: l’idea che
rappresenta il modo in cui Dio, o l'angelo, può muovere la materia non è differente dall’idea che fa mi vedere il modo in cui io sono cosciente di poter muovere il mio corpo mediante il pensiero. Non solo: quest’affermazione non è semplicemente un wnicum, ma mi pare, almeno in prima battuta, contraddire, in linea di principio, la dottrina dell’unione
mente-corpo così come essa era stata difesa da Descartes nelle sue principali opere e nella stessa corrispondenza. L’affermazione avanzata con More implica, infatti, un’omologazione dell’azione della mente sul corpo a quella dell’angelo e di Dio sulla materia, ossia all’azione esercitata da un ente (quale appunto l'Angelo, o Dio) che agisce sulla materia senza comporre con esso un’unità ontologica, ossia, secondo la terminologia usata nel carteggio con More, presente nel luogo solo con la propria potenza, non per essenza'*. Eppure, Descartes ha sempre sostenuto che, fra mente e corpo, si dà un’unione strettissima. I luoghi in cui lo ha fatto sono noti, ma non
!! Ivi: «Conatus sum explicare maximam partem eorum qua hic petis, in Tractatu de affectibus. Addo tantum nihil mihi hactenus occurrisse circa naturam rerum materialium, cujus rationem mechanicam non
facilllime possim excogitare. Atque, ut non dedecet hominem Philosophum putare Deum posse corpus movere, quamvis non putet Deum esse corporeum; ita etiam eum non dedecet aliquid simile de aliis substantiis incorporeis judicare. Et quamvis existimem nullum agendi modum Deo et creaturis univoce convenire, fateor tamen, me nullam in mente mea ideam reperire, quae repraesentet modum quo Deus
vel Angelus materiam potest movere, diversam ab ea quae mihi exhibet modum, quo ego per meam
cogitationem corpus meum movere me posse mihi conscius sum. Nec vero mens mea potest se modo extendere, modo colligere, in ordine ad locum, ratione substantiae suae, sed tantum ratione potentiae,
quam potest ad majora vel minora corpora applicare» (B 694, pp. 2686-2687; ATI 347, 1.11-23).
12 Descartes a More, 15 aprile 1649: «Quantum autem ad me, nullam intelligo nec in Deo nec in
Angelis vel mente nostra extensionem substantiæ, sed potentiæ duntaxat; ita scilicet ut possit Angelus potentiam suam exerere nunc in majorem, nunc in minorem substantia corporee pattem» (B 694, p. 2682; AT V, 342, IL 13-15).
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo 1 x
sarà forse inutile richiamarli qui, anche perché su di essi dovrò ritornare nella parte finale del presente intervento. Nel 1637, nella quinta parte del Discours, Descartes scriveva che non è sufficiente pensare che l’anima sia semplicemente collocata nel corpo umano, come un
pilota nella sua nave, ma è necessario che gli sia congiunta ed unita più strettamente (étroitemenò) per essere in grado, oltre che di muoverne le membra, di avere le sensazioni e gli appetiti che caratterizzano un vero uomo: Non basta che essa sia collocata nel corpo umano, come un pilota nella sua nave, se non, forse, per muoverne le membra, ma c’è bisogno che essa sia congiunta ed unita ad esso più strettamente perché, oltre a questo, abbia sentimenti ed appetiti simili ai
nostri e, così, comporre un vero uomo".
Quattro anni più tardi, nelle Meditationes, in un noto passaggio della sesta,
fortemente affine a quello del 1637, Descartes escluderà ancora che la mente sia presente nel corpo come un pilota nella nave sulla base dell’argomento che, se fosse unita ad esso non strettissimamente (arctissime), come in effetti è ad esso unita, ma come un pilota nella nave, non avrebbe sensazioni confuse di dolore, fame, sete e
così via, ma percepirebbe tutto ciò col solo intelletto: La natura mi insegna anche che attraverso queste sensazioni di dolore, di fame, di sete
e così via, io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si trova nella sua nave, ma sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi mescolato, così da comporre con esso un qualcosa d’uno. Diversamente, infatti, io, che non sono null’altro che una
cosa pensante, quando il corpo è ferito non per questo sentirei dolore, ma percepirei questa ferita col puto intelletto, come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe nella nave; e quando il corpo ha bisogno di mangiare o di bere, lo intenderei nitidamente, e non avrei confuse sensazioni di fame e sete. Certamente, infatti, queste sensazioni di sete, di fame, di dolore e così via, non sono altro che modi confusi del
pensare originati dall’unione — quasi una mescolanza — della mente col corpo“.
Discours de la méthode, V: «Il ne suffit pas qu’elle soit logée dans le corps humain, ainsi qu’un pilote en son navire, sinon peut-être pour mouvoir ses membres, mais qu’il est besoin qu’elle soit jointe et unie plus étroitement avec lui, pour avoir, outre cela, des sentiments et des appétits semblables aux nôtres, et ainsi composer un vrai homme» (AT VI, 59, Il. 12-18). 14 Meditationes, VI: «Docet etiam natura, per istos sensus doloris, famis, sitis etc., me non tantum
adesse meo corpori ut nauta adest navigio, sed illi arctissime esse conjunctum et quasi permixtum, adeo ut unum quid cum illo componam. Alioqui enim, cum corpus laditur, ego, qui nihil aliud sum quam res cogitans, non sentirem idcirco dolorem, sed puro intellectu lesionem istam perciperem, ut nauta visu percipit si quid in nave frangatur; et cum corpus cibo vel potu indiget, hoc ipsum expresse intelligerem, non confusos famis et sitis sensus haberem. Nam certe isti sensus sitis, famis, doloris etc., nihil aliud
sunt quam confusi quidam cogitandi modi ab unione et quasi permixtione mentis cum corpore exorti»
(AT VII, 81, Il. 1-14).
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Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
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Nelle Quartae responsiones, poi, di fronte alla perplessità, avanzata da Arnauld,
che la tesi della distinzione reale potesse troppo provare, conducendo ad una sorta di platonismo (pur rigettato — riconosceva Arnauld — dall’autore stesso)”,Descartes pretenderà di avere, al contrario, avanzato a favore dell’unione argomenti più forti di quelli utilizzati a sua conoscenza da alcuno e si servirà per qualificarla — ciò che non aveva ancora fatto prima — dell’avverbio substantialiter® e dell’aggettivo
substantialis!”. Alcuni testi — in particolare, le Sexzze responsiones, con la tesi dell’ unio compositionis — sembrano andare, certo, in una direzione differente, ma è un dato di fatto che Descartes continuerà a difendere la tesi dell’unione srreftissima sino alla fine
della sua vita, dai Principia’? alle Passions”, e che ricorrerà ancora al registro lessicale substantialiter/substantialis\. Sennonché, la questione è, per l’appunto, quella di come siano fra loro compatibili la tesi dell’unione strettissima/sostanziale e l’asserzione di un’unione operazionale quale si dà appunto, secondo l’insegnamento stesso del carteggio con More, fra langelo e la materia. In un certo senso, si ripresenta qui un problema analogo posto dalla dottrina della unio compositionis, quello della compatibilità fra una
1° Quartae objectiones. «Accedit quod hoc argumentum nimis probare videtur, et nos in eam Platonicam opinionem deducere (quam tamen author refellit), nihil corporeum ad nostram essentiam pertinere, ita ut homo
sit solus animus, corpus vero non nisi vehiculum animi; unde hominem
definiunt animum
utentem corpore» (AT VII, 203, ll. 14-19). 16 Cfr. Quartae responsiones. «Satisque diligenter cavere mihi visus sum, ne quis ideo putaret hominem esse solum animum utentem corpore. Nam in eadem sexta Meditatione, in qua egi de distinctione mentis a corpore, simul etiam probavi substantialiter illi esse unitam; ususque sum rationibus, quibus non memini
me ullas ad idem probandum fortiores alibi legisse» (AT VII, 227, 1. 23, 228, 1. 5); «Nec mihi videor
nimium probasse, ostendendo mentem absque corpore esse posse, nec etiam nimis parum, dicendo illam esse corpori substantialiter unitam» (AT VII 228, Il. 11-14); «Revera illo in loco supponebam me nondum advertere mentem habere vim corpus movendi, vel illi esse substantialiter unitam» (AT VII 219, ll. 18-20). !7 Cfe. ivi, AT VII, 228, L 14. 18 Cfr. Sextae responsiones (AT VII, 422, 1. 23, 425, 1. 19). La tesi dell’wnio compositionis — vale forse la pena sottolinearlo — non è tuttavia qui mai opposta da Descartes all’idea di un’unione sostanziale, ma a quella dell’unitas naturae. 1 Principia philosophiae, II, art. 2 «Eadem ratione, menti nostre corpus quoddam magis aree, quam reliqua alia corpora, conjunctum esse [...]» (AT VIII/1, 41, Il. 14-15, corsivo mio). Il che spiega come lo stesso More si servirà dell’avverbio ar per qualificare l’unione mente-corpo stabilita da Descartes: «Deinde quero ex te, cum anima nullas habeat nec ramosas nec hamatas particulas, quomodo tam aree unitur cum corpore» (More a Descartes, 5 marzo 1649, B 684, p. 2656; AT V, 313, Il. 23-25). 20 Passions de l'âme, I, art. 41: «Et toute l’action de l’âme consiste en ce que, par cela seul qu’elle veut
quelque chose, elle fait que la petite glande à qui elle est étroitement jointe se meut en la façon qui est requise pour produire l'effet qui se rapporte à cette volonté (AT XI 360, Il. 2-6, corsivo mio). ‘ 21 Anche se nella sola corrispondenza con Regius. Per l’espressione wnio substantialis cfr. A Regis, fine gennaio 1642, B 343, p. 1602; AT III, 508, Il. 6 («veram unionem substantialem)» e 26; per l’avverbio substantialiter cfr. A Regius, fine gennaio 1642, B 343, p. 1588; AT III, 493, Il. 4-5.
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dal Rinascimento all'Illuminismoi L’umanesimo scientifico : n
determinata asserzione e le conseguenze deducibili di diritto da un’altra asserzione (se l’unione è strettissima, allora essa sembra implicare un’unione non operazionale e non di composizione), ma — mi pare — ad un livello più profondo: l’asserzione dell’unione operazionale, infatti, non è in contraddizione solo con conseguenze deducibili di diritto dalla tesi dell’unione strettissima, ma con asserzioni presenti
di fatto negli scritti di Descartes. In una famosa lettera a Regius del gennaio 1642, Descartes aveva infatti negato — e questo non solo coerentemente con la dottrina dell’unione difesa nelle Meditationes, richiamata esplicitamente, ma, anzi, sulla base della medesima motivazione lì avanzata —; aveva negato, dicevo, la riducibilità della
presenza della mente nel corpo alla presenza dell’angelo nella materia a motivo, per l’appunto, del fatto che, se l’anima fosse unita al corpo come l'angelo, essa non avrebbe sensazioni confuse di qualità come il dolore, ma percepirebbe solo i
movimenti causati dagli oggetti esterni?°. Di contro a questa evidenza concettuale e testuale, il carteggio con More presenta invece quello che, provvisoriamente, per recuperare una categoria concettuale
a volte utilizzata dagli studiosi cartesiani, qualificherò come «angelismo»: l’idea che rappresenta il modo in cui Dio, o Pangelo, possono muovere la materia non è differente dall’idea che mostra il modo in cui io sono cosciente di poter muovere il mio corpo mediante il pensiero.
Si tratta, anzi, a mio avviso, dell’affermazione RETTA più vicina in assoluto, in tutto il corpus cartesiano, all’angelismo; ed è strano che non sia mai stata discussa dai (pochi) sostenitori dell’angelismo di Descartes relativamente ai rapporti fra
mente e corpo” ?° Descartes a Regius, gennaio 1642:«Atque omnino ubicumque occurret occasio, tam privatim quam publice, debes profiteri te credere hominem esse verum ens per se, non autem per accidens, et mentem corpori realiter et substantialiter esse unitam, non per situm aut dispositionem, ut habes in tuo ultimo scripto (hoc enim rursus reprehensioni obnoxium est, et meo judicio non verum), sed per verum modum unionis, qualem vulgo omnes admittunt, etsi nulli, qualis sit, explicent, nec ideo etiam teneris explicare; sed tamen potes, ut ego in Metaphysicis, per hoc, quod percipiamus sensus doloris, aliosque omnes, non esse puras cogitationes mentis a corpore distinctae, sed confusas illius realiter unitae perceptiones: si enim Angelus corpori humano inesset, non sentiret ut nos, sed tantum perciperet motus qui causarentur ab objectis externis, et per hoc a vero homine distingueretum (B 343, p. 1588; AT III, 493, Il. 1-17). Alla luce dell’identità della motivazione usata in questa lettera per respingere l’angelismo con quella utilizzata nelle Meditationes per respingere l’unione pilota/nave mi pare difficilmente sostenibile, anche a proposito di questo passo, la posizione di chi affermi che, con Regius, Descartes non esponga il proprio punto di vista, come V. Chappell, L'homme cartésien, in J.-M. Beyssade-J.-L. Marion (éd.), Descartes. Objecter et répondre, Paris 1994, pp. 403-426: 411-413. Giustamente, dunque, a mio avviso, sottolineava la sincerità
della risposta di Descartes a Regius l’articolo di P. Hoffman, The Unity ofDescartes’s Man, in «Philosophical Review», XCIV, 1986, pp. 339-370, poi in G.J.D. Moyal (ed.), Descartes. Critical Assessments, 4 voll., London and New York 1991, vol. III, pp. 168-192: 171. * Mi riferisco a studi come quelli diJ. Maritain, Le songe de Descartes. Suivi de quelques Essais (1932), Paris s. d. [1965] e di R. Specht, Commercium mentis et corporis. Über Kausalvorstellungen im Cartesianismus,
Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
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II. Nella prima parte di questo intervento avanzerò la seguente ipotesi: le affermazioni di Descartes nel carteggio con More sul problema dei rapporti mente-corpo si spiegano, almeno parzialmente, con la soluzione data dal filosofo nel medesimo carteggio al problema dell’onnipresenza Dio e si configurano sul modello di questultima. In altri termini, la soluzione, avanzata da Descartes, al problema dominante del carteggio, l’onnipresenza di Dio, retroagisce sul problema dei rapporti fra mente e corpo orientandone i termini della soluzione. La tesi di Descartes sull’onnipresenza difesa con More, almeno sino alla lettera del 15 aprile“, è nota. Dio è onnipresente in ragione della sua potenza (ratione potentiae), non in ragione della sua essenza (razione essentiae). Ora, in conformità al
modo in cui More aveva posto dall’inizio il problema della presenza nel luogo di Dio”, Descartes, lungo tutto il corso del carteggio, non propone mai la tesi della
presenza operazionale restringendola al solo caso di Dio, ma la fa valere per tutte le sostanze pensanti: Dio, appunto, angelo e mente umana”’. Nelle sostanze pensanti — in ogni sostanza pensante — non si dà estensione di sostanza, ma solo di potenza,
in quanto esse sono qualificabili come forze che agiscono su ciò che è esteso senza essere esse stesse estese: Si conclude dunque con evidenza che nessuna sostanza incorporea è propriamente estesa. Io intendo tali sostanze, piuttosto, come una sorta di virtù, o forze, che, seb-
bene si applichino a cose estese, non sono per questo estese; ad esempio, sebbene il fuoco sia nel ferro incandescente, non per questo quel fuoco è ferro”.
Stuttgart-Bad Cannstatt 1966. Ben esemplificative della posizione contraria, molto più diffusa fra gli interpreti, sono ad esempio le pagine di F. Alquié, La découverte métaphysique de l'homme chez Descartes, Paris 1950, p. 304. La questione dell’angelismo cartesiano è stata recentissimamente ripresa, relativamente però non al problema dell’unione mente-corpo, ma a quello dei modelli di conoscenza, dal saggio di E. Scribano, Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Roma-Bari 2006.
% Sui problemi posti dalla lettera di Descartes a More dell’agosto 1649 (B 706, pp. 2742/2745; AT V, 403, ll. 12-17) mi permetto di rinviare a I. Agostini, Sw/onnipresenza di Dio, cit., p. 39 ss. > Descartes a More, 15 aprile 1649: «Puto Deum, ratione sua potenti, ubique esse; ratione autem sue essentiæ, nullam plane habere relationem ad locum» (B 694, p. 2682; AT V, 343, Il. 16-18).
26 Partendo cioè dal caso di Dio, ma estendendo subito la tesi dell’estensione a tutte le sostanze spirituali: «Res enim extensa Deus videtur esse, atque Angelus; imo vero res quælibet per se subsistens, ita ut eisdem finibus claudi videatur extensio, atque essentia rerum absoluta (More a Descartes, 11 dicembre
1648, B 672, p. 2596; AT V, 238, Il. 21-24). 2 Cfr. Descartes a More, 5 febbraio 1649: «[...] Vel in Deo, vel in Angelis, vel in mente nostra, vel denique in ulla substantia que non sit corpus » (B 677, p. 2616; AT V 269, Il. 29-31); Ivi: «[...] Et mentem
humanam, et Deum, et simul plures Angelos» (B 677, p. 2717; AT V 270, Il. 13-14); Descartes a More, 15
aprile 1649: «Nec in Deo nec in Angelis vel mente nostra» (B 694, p. 2682; AT V, 342, Il. 13-14). 28 Descartes a More, 5 febbraio 1649: «Unde manifeste concluditur, nullas substantias incorporeas proprie esse extensas. Sed intelligo tanquam virtutes aut vires quasdam, que, quamvis se applicent rebus extensis, non idcirco sunt extensæ; ut quamvis in ferro candenti sit ignis, non ideo ignis ille est ferrum»
(B 677, pp. 2616-2617; AT V, 270, Il. 15-20).
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo
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Tutti questi passi precedono, nel carteggio, il testo della risposta data a More sul rapporto mente-corpo nel quale comparirà l'omologazione dell’azione della mente sul corpo a quella dell’angelo e di Dio sulla materia da cui ho preso le mosse. Un’omologazione della mente all’angelo ed a Dio, dunque, prima di essere chiamata in causa in risposta alla questione di More sui rapporti mente-corpo, rispetto al modo di azione sulla materia, era stata già chiamata in causa, nel carteggio, in risposta al problema dell’onnipresenza di Dio, relativamente
all’estensione delle
sostanze incorporee nella materia. È all’interno di questo contesto problematico complessivo del carteggio che va collocata — mi pare — l'omologazione della mente all’angelo e a Dio relativamente al problema dell’azione sulla materia di queste sostanze: un contesto problematico orientato dalla discussione sull’onnipresenza divina e nel quale sin dall’inizio Descartes ragiona attraverso una previa assimilazione delle tre sostanze incorporee relativamente al problema, posto dall’interlocutore, della loro estensione nella materia. Resta allora da capire il motivo di questa previa assimilazione. Da un lato, essa si spiega — come accennavo — in base al modo in cui il problema era stato formulato da More; dall’altro, però, essa ha ragioni concettuali interne ben evidenziabili
testualmente. Queste mi paiono emergere da un passo di poco precedente quello, da cui avevo preso le mosse, in cui era contenuta l'omologazione della mente all’angelo. Il problema che Descartes affronta in questo passo è il seguente: come spiegare che Dio sia ubiquo solo per potenza e non per essenza se, in lui, potenza ed essenza sono identiche? Descartes, quasi a prevenire un’obiezione da parte di More”, invoca il caso dell’anima umana e dell’angelo quali oggetti più adeguati alla percezione umana: Poiché, però, in Dio la potenza e l’essenza non si distinguono, in tali questioni ritengo più conveniente ragionare, quali oggetti più adeguati alla nostra percezione, sulla nostra mente o sugli angeli, piuttosto che su Dio".
L’intelligibilità dell’azione di Dio sulla materia richiede, quale condizione di possibilità, il ricorso al caso dell’angelo e della mente umana, in quanto enti che esemplificano l’estensione razione solae potentiae di una sostanza immateriale nella materia in modo più adeguato alla nostra percezione: questo perché in essi, a differenza che in Dio, non si dà quell’identità fra essenza ed essenza che sembra
2° Il quale difatti la formulerà nella sua lettera successiva (More a Descartes, 23 aprile 1649, B 704, pp.
2712/1715; AT V 379, Il. 3-16).
°° Descartes a More, 15 aprile 1649: «Cum autem in Deo potentia et essentia non distinguantur, satius esse puto in talibus de mente nostra vel Angelis, tanquam perceptioni nostrae magis adaequatis, quam de Deo ratiocinari» (B 694, p. 2682/2683; AT V, p. 343, Il. 15-18).
Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
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rendere impensabile, in quanto contraddittoria, una presenza per potenza che non sia anche per essenza. L’omologazione del caso della mente umana al caso dell’angelo e di Dio relativamente al problema dell’azione sulla materia sembra dunque emergere, nel car-
teggio, quale istanza particolare di una più generale omologazione delle tre sostanze spirituali relativamente al problema dell’estensione nella materia; e questa ultima omologazione trova a sua volta spiegazione nel fatto che essa diviene condizione
di possibilità per pensare non contraddittoriamente un modo di presenza della sostanza spirituale nella materia in ragione della potenza ma non, anche, dell’essenza. L’omologazione nasce, dunque, per retroazione: il problema dominante del carteggio determina i termini di soluzione del problema dei rappotti dell’anima al corpo.
II. Ma contestualizzare una scelta non è ancora giustificare la sua coerenza. Il problema da cui prendevo le mosse é adesso solo aperto ad una formulazione forse più adeguata, ma resta ancora intatto nella sua sostanza: l’assimilazione dell’azione della mente sul corpo a quella dell’angelo e di Dio sulla materia, dettata dall'esigenza
di rendere intelligibili i rapporti Dio-materia, non è forse contraddittoria con la dottrina cartesiana dell’unione? Pensare l’azione della mente sul corpo nei termini dell’azione di un angelo sulla materia non contraddice forse la dottrina dell’unione strettissima e sostanziale? Per abbordare nel modo testualmente più adeguato la questione, converrà forse ritornare sui i termini precisi dell’omologazione operata da Descartes con More. Ciò che Descartes assimila non sono l’azione dell’angelo (e di Dio) sul corpo e l’azione della mente sul corpo, ma l’idea dell’azione dell’angelo (e di Dio) sul corpo e l'idea dell’azione della mente sul corpo, più precisamente, l’idea del modo in cui la mente è cosciente di poter muovere il proprio corpo: «Non c’è alcun’idea che mi rappresenti il modo in cui Dio, o l'angelo, possono muovere la materia, diversa da quella che mi
esibisce il modo in cui io sono cosciente di poter muovere il mio corpo attraverso il mio pensiero». Ora, in che cosa consista il modo in cui la mente è cosciente di muovere il
proprio corpo e in quale rapporto tale modo stia con l’unione il carteggio con More non dice. Indicazioni in tal senso sono tuttavia fornite da un altro testo, la
lettera per Arnauld del 29 luglio 1648, la cui pertinenza rispetto al problema che qui interessa è assicurata da tre ragioni: 1) In primo luogo, una ragione concettuale, in quanto in esso si trova esattamente in questione il problema della coscienza da parte della mente della sua azione sul corpo; 2) In secondo luogo, una ragione lessicale, in quanto questa trattazione viene svolta ricorrendo ad una terminologia affine a quella che opererà nella lettera a More, segnatamente a motivo dell’utilizzazione del
100.
L’uzzanesimo scientifico dal Rinascimento all Iluminismo x
registro lessicale dell’esse conscius e del modus movendi, 3) In terzo luogo, una ragione cronologica, e cioè per la prossimità di questa lettera al carteggio con More, che essa precede solo di pochi mesi. Descartes risponde qui ad una richiesta di chiarimento, da parte di Arnauld, su una difficoltà che quest’ultimo dichiara di essergli sfuggita nella sua precedente
lettera del 3 giugno 1648. È opinione di Descartes — fa osservare Arnauld — che la natura del pensiero è tale che di esso si sia sempre coscienti; ora, però, poiché, sempre secondo Descartes”, l’anima non cessa mai di pensare, si dovrà concludere che la natura del pensiero è tale che di esso siamo sempre coscienti. Questo, però, sembra in contraddizione con casi come quello» del movimento, da parte della mente, degli spiriti nel corpo, di cui essa non sembra davvero cosciente, dal momento che molti neppure sanno se hanno nervi, o ne hanno al massimo una coscienza nominale, o addirittura ignorano di avere o meno degli spiriti animali e cosa essi siano”. Alla questione Descartes risponde che è vero che noi non siamo coscienti del modo in cui la nostra mente invia gli spiriti animali in questi o in quei nervi: questo modo, infatti, non dipende dalla mente soltanto, ma dall’unione della
mente col corpo e dalla configurazione di quest’ultimo che la mente può ignorare. Nondimeno, siamo coscienti di ogni azione attraverso la quale la mente muove i nervi in quanto tale azione è nella mente, e ciò perché-tale azione non è altro che un’inclinazione della volontà a questo o quel movimento:
È vero, però, che noi non siamo coscienti del modo in cui la nostra mente indirizza gli spiriti animali in questi o quegli altri nervi. Questo modo, infatti, non dipende dalla
mente sola, ma dall’unione della mente con il corpo. Siamo tuttavia coscienti di ogni azione con la quale la mente muove i nervi, in quanto tale azione è nella mente: nella mente, infatti, tale azione altro non è che un’inclinazione della volontà verso questo
o quel movimento. I flussi degli spiriti nei nervi e tutto il resto che si richiede per il prodursi di quel movimento seguono questa inclinazione della volontà; e ciò a motivo della idonea configurazione del corpo, che la mente può ignorare, e anche dell’unione
3! Quintae responsiones, AT VII, 356, |. 23, 357, 1. 6. L’asserzione nasceva da una richiesta di chiarimento di Gassendi circa il significato di quanto affermato da Descartes, in Meditatio IT, sull’inseparabilità del
pensiero dall’io («Cogitatio est; haec sola a me divelli nequit»: AT VII, 27, I. 8): queste parole significano forse che la mente, finché è, pensa senza interruzioni ? (Quinte objectiones, AT VII, 264, Il. 5-7).
°° Amauld a Descartes, luglio 1648: «Scribis, nostre menti vim esse dirigendi spiritus animales in nervos, atque hoc pacto movendi membra. Aliis vero in locis scribis, nihil in mente nostra esse, cujus vel actu vel potestate conscii non simus; at istius virtutis, que spiritus animales dirigit, mens humana non videtur sibi conscia, cum plurimi nesciant quidem, utrum nervos habeant, nisi forsitan nomine tenus, multoque
minus an spiritus animales, et quid illi sint. Uno verbo, quantum ex tuis principiis colligere potui, id solum fit a mente nostra, que natura sua cogitatio est, quod fit cogitantibus atque advertentibus nobis; at quod spiritus animales hoc vel illo modo in nervos dirigantur, id non fit cogitantibus atque advertentibus nobis: non ergo a mente nostra fieri videtum (B 663, p. 2572; AT V, 214, 1. 28, 215, 1. 12)
Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
101
della mente con il corpo, della quale la mente è senz’altro cosciente. Se non lo fosse,
infatti, neppure inclinerebbe la sua volontà a muovere le membra?3,
Questo testo distingue fra tre livelli: a) L’azione attraverso la quale la mente muove i nervi in quanto quell’azione è nella mente, quale inclinazione della volontà;
b) L’unione mente-corpo; c) Il modo attraverso il quale la mente muove gli spiriti animali in questi o quei nervi, che consegue bensì dalla mente, ma dipende realmente
dall’unione mente-corpo e dalla configurazione del corpo. In tal modo, questo brano della lettera per Arnauld chiarisce quel che il carteggio con More lascia inesplicato, vale a dire in che cosa consista il modo in cui
la mente è cosciente di muovere il proprio corpo e in quale rapporto-esso stia con Punione: identifica infatti siffatto modo con l’atto con cui la volontà determina i movimenti corporei e, con ciò stesso, lo distingue dall’unione. Alla luce della lettera
per Arnauld del 29 luglio 1648, diviene allora più chiaro in che senso il caso dei rapporti mente/corpo possa essere paragonato al caso dei rapporti angelo/corpo senza preclusione per l’unione dell’unione sostanziale: tale paragone attiene non all'unione ma all’azione considerata sotto il modo della volontà, in quanto agisce sul corpo. La mia idea dell’atto (di volontà) col quale io muovo il mio corpo non differisce dalla mia idea dell’atto (non ulteriormente determinato) col quale l’angelo muove il corpo, senza che questo implichi anche un’assenza di distinzione fra la mia idea dell’unione della mente al corpo e la mia idea dell’azione dell’angelo sulla materia: questa attiene esclusivamente all’ambito della res cogitans e può essere estesa a rappresentare il rapporto della mente al corpo esclusivamente nella misura in cui tale rapporto è pensato come modo del pensiero (atto di volontà esercitato dalla mente sul corpo); la prima idea, invece, è relativa senz’a/tro alla dimensione costituita dall’unione sostanziale fra le due sostanze. Nel carteggio con More, dunque, non si dà, se inteso come esclusivo dell’unione sostanziale, alcun angelismo, perché
l'omologazione del caso della mente a quello dell'angelo non attiene all’unione mente-corpo in quanto tale, bensì all’azione, intesa come atto mentale, della mente
sul corpo”. 3 Descartes per Arnauld, 29 luglio 1648: «Verum autem est, nos non esse conscios illius modi, quo mens nostra spiritus animales in hos vel illos nervos immittit; iste enim modus non a mente sola, sed a
mentis cum corpore unione dependet; sumus tamen conscii omnis ejus actionis per quam mens nervos movet, quatenus talis actio est in mente, quippe in qua nihil aliud est, quam inclinatio voluntatis ad
hunc vel illum motum; atque hanc voluntatis inclinationem sequuntur spirituum in nervos influxus, et reliqua, que ad istum motum requiruntur; hocque propter aptam corporis configurationem, quam mens potest ignorare, ac etiam propter mentis cum corpore unionem, cujus sane mens conscia est; alioquin enim ad membra movenda voluntatem suam non inclinare» (B 665, pp. 2578/2759; AT V, 1 spie. ew Tex 2215130222; ied), # La lettera per Arnauld sembra addurre, oltre a queste, ulteriori indicazioni, seppur problematiche.
102.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'IWuminismo x
Il problema da cui avevo preso le mosse mi pare, dunque, suscettibile di una soluzione in questo senso; ma, d’altro canto, i dati testuali, emergenti dal carteggio
con More e da quello con Arnauld, che hanno condotto a siffatta soluzione mi sembrano recuperabili anche in un’altra prospettiva, che è quella verso la quale mi indirizzerd nell’ultima parte di questo intervento. IV. Arrischiero qui un tentativo di esegesi di due noti testi di Descartes sull’unione mente-corpo
alla luce di un testo cronologicamente
successivo
quale appunto
la
lettera a More del 15 aprile 1649.
Distinguendo infatti a (l’azione attraverso la quale la mente muove i nervi in quanto quell’azione è nella mente, quale inclinazione della volontà) non solo da b (l’unione mente-corpo), ma anche da c (il modo
attraverso il quale la mente muove gli spiriti animali in questi o quei nervi, che consegue bensì dalla mente, ma dipende realmente dall’unione mente-corpo e dalla configurazione del corpo), questo documento sembra infatti riconoscere una sorta di polivocità al concetto dell’azione della mente sul corpo. Descartes ha sempre legato alla dimensione della res cogitans certi tipi di movimenti, vale a dire imovimenti volontari: questi, pur non appartenenti alla sfera del pensiero e, quindi, tali che di essi non si sia immediatamente coscienti, conseguono tuttavia senz'altro dalla volontà (cfr., ad esempio, Dioprrigue, II, AT VI, 107, Il. 25-
29; Secundae responsiones, AT VII 160, ll. 7-13). Ma qual è esattamente l’ambito ontologico di appartenenza di siffatti movimenti? La lettera per Arnauld sembra ricondurre esplicitamente tali movimenti ad una dimensione non corporea: qualificabile come azione della mente sul.corpo, questa dimensione è distinta da Descartes da quella della res extensa e ricondotta esplicitamente alla sfera dell’unione fra le due res. Ciò che non appartiene alla sfera della res cogitans, ma che da essa pur dipende, non è riducibile integralmente all’ambito della res extensa, in quanto rientra all’interno della dimensione dell’unione fra mente e corpo; una dimensione che, nel 1643, il carteggio con Elisabetta aveva nel frattempo qualificato come nozione primitiva (4d Elisabetta, 21 maggio 1643, B 392, pp. 1748/1749; AT III, 665, ll. 9-24). Sembra dunque si
possa parlare di azione della mente sul corpo in due modi: intesa quale atto mentale, come volontà che è modo della res cogitans, l’azione della mente non può che dipendere da quest’ultima ed essere del tutto indipendente dall’unione; ma, se intesa come appartenente al livello dell’unione, essa dipende senz'altro da quest’ultima. Solo una tale distinzione, pur con tutta la sua problematicità, spiega — credo — come Descartes possa identificare l’azione della mente sul corpo alla volontà, facendola così dipendere dalla mente, e, insieme, sostenere che la forza che l’anima ha di agire sul corpo dipende dall’unione (ivi, B 392, pp. 1748/1749; AT III, 665, ll. 22-23). Ne risulta, quanto al problema che qui interessa, che l'analogia con
il rapporto angelo/materia non può essere ristretta, rispetto ai due lati del rapporto mente/corpo, quello della passione e quello dell’azione, esclusivamente a quest’ultimo (come se, cioè, per togliere l'apparente contraddizione dell’omologazione mente/angelo con la dottrina dell’unione sostanziale bastasse sostenere che tale unione attiene alla passività della mente, mentre sul piano dell’azione i due casi sono interamente sovrapponibili): l’unione mente-corpo, certo omologabile ai rapporti angelo/materia relativamente al piano dell’azione considerata come atto di volontà, sembra nondimeno irriducibile ad essi non solo al livello della passività, ma anche a quello dell’azione intesa come dipendente dall’unione e dalla configurazione del corpo. È vero cheè la dimensione della passività ad esprimere il tratto tipico dell’unione sostanziale, secondo Descartes, così come è vero cheè dalla passività che muovono in via preferenziale le argomentazioni addotte dal filosofo francese a favore dell’unione (sottolineava a ragione questo punto J. Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris 1950, p. 230 e, soprattutto, nota 6), ma questo non mi sembra autorizzare
a risolvere integralmente nella passività l’elemento discriminante fra il caso dei rapporti mente/corpo e quello dei rapporti angelo/pilota. In tal senso, già nel Discours era presente un’esitazione, da passadi Descartes, a mio avviso decisiva: «Il ne suffit pas qu’elle soit logée dans le corps humain, ainsi qu’un pilote en
son navire, sinon peut-être pour mouvoir ses membres».
Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
103
Ciò che mi propongo di dimostrare è che, lungi dal contraddire la dottrina cartesiana dell’unione strettissima e sostanziale, il carteggio con More, contribuendo
a rendere intelligibili questi due testi, fornisce un apporto singolare nella direzione di una caratterizzazione più adeguata del significato teorico di tale dottrina. Del resto, pur nella consapevolezza della problematicità di un tale approccio ermeneutico, che pretende di spiegare testi cronologicamente precedenti alla luce di uno successivo, ritengo che esso possa essere, almeno in parte, giustificato dall’as-
senza — così mi sembra — di altre evidenze testuali all’interno del corpus cartesiano che aiutino a comprendere appieno il significato dei due testi in questione. 1. Il primo si trova all’interno del brano della sesta meditazione che ho già citato: «[...] Me non tantum adesse meo corpori ut nauta adest navigio, sed illi arctissime esse conjunctum et quasi permixtum». Che cosa significa che io non sono presente nel corpo fantum come un pilota è presente nella nave? Il tantum non mi pare abbia qui significato esclusivo, come pure potrebbe avere grammaticalmente, anche nell’uso che talvolta ne fa lo stesso Descartes”: esso esprime,
invece, il fatto che il rapporto della mente al corpo non è caratterizzabile unicamente nei termini di un rapporto fra due enti uniti non sostanzialmente, senza tuttavia per questo escluderlo, ma, anzi, accompagnandosi ad esso. Come pensare,
infatti, il rapporto della mente col corpo escludendo l’atto di volontà mediante il quale l’anima inclina il corpo stesso a questo o a quel movimento? Ora, però, è proprio in quell’atto che si situa — secondo una lettura complementare della lettera a More del 15 aprile a More con quella per Arnauld del 29 luglio 1648 — la similarità fra l’azione della mente sulla materia e quella dell’angelo secondo materia. Ne deriva l’inadeguatezza di un pensiero dei rapporti fra mente e corpo che prescinda dal riferimento a questo elemento comune fra angelo e mente. Siffatti rapporti, dunque, non sono descrivibili solo, ed anzitutto, nei termini della
presenza di un pilota nella nave, perché esprimono un’unione arctissima; ma, intanto, sono caratterizzabile anche in quei termini. L’unione sostanziale (così come verrà poi qualificata nelle Quartae responsiones l’unione arctissima della sesta meditazione) esprime adeguatamente il rapporto della mente al corpo, ma non esclude, bensì si accompagna, al modo di presenza del pilota sulla nave. Stessa considerazione — per inciso — mi sembra poter valere, relativamente al luogo corrispettivo del Discours, in cui l’unione non operazionale, ancora una volta, non è esclusa, ma solo
dichiarata come insufficiente: «Il ne suffiz qu’elle soit logée dans le corps humain, ainsi qu’un pilote en son navire [...]». 35 Cfr., ad esempio, Meditationes, III: «Intelligo illum, a quo pendeo, majora ista omnia non indefinite et
potentia tantum, sed reipsa infinite in se habere» (AT VII, 51, Il. 27-29); dove ilsenso èche Dio possiede le perfezioni non tanto in potenza ed in modo indefinito, quanto in atto ed in modo infinito.
104.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’IUluminismzo
2. Il secondo testo si trova in un passaggio della lettera ad Elisabetta del 28 giugno 1643. Descartes scrive: L’anima non è concepita che tramite l’intelletto puro; anche il corpo, cioè l’estensione,
le figure e imovimenti, si possono conoscere tramite il solo intelletto, ma molto meglio
attraverso l’intelletto soccotso dall’immaginazione; e infine le cose che appartengo-
no all’unione dell'anima e del corpo si conoscono solo oscuramente tramite il solo
intelletto, e anche tramite l’intelletto soccorso dall’immaginazione; ma si conoscono
molto chiaramente tramite i sensi”.
In che modo siano i sensi a rendere /rès clairement accessibile Punione Descartes spiega subito dopo: «È solo vivendo e conversando di cose ordinarie, e astenendoci dal meditare e dall’applicarci alle cose che esercitano l'immaginazione, che si impara
a concepire l’unione dell’anima e del corpo»”. La sesta meditazione aveva del resto già stabilito, come noto, che l’unione è attestata dalle sensazioni interne (prima fra tutte il dolore), intrinsecamente confuse, certo, ma chiare e distinte se utilizzate dalPio non teoreticamente, per conoscere l’essenza delle cose esterne, ma praticamente, per sapere cioè cosa sia utile o dannoso al composto”. Ma che cosa significa che l’unione si percepisce in modo oscuro attraverso il solo intelletto? Su questo punto, che né il carteggio con Elisabetta, né le stesse Meditationes consentono di chiarire, il carteggio tra Descartes e More, letto alla luce della lettera per Arnauld del 29 luglio
1648, mi sembra invece poter essere di una qualche utilità. Con l'omologazione, che conosciamo, dell’azione della mente sul corpo a quella dell’angelo sulla materia questo carteggio dichiara infatti come possibile una rappresentazione dell’unione avente la medesima connotazione di quella cui il carteggio con Elisabetta accennava solo per un attimo, senza ulteriori chiarimenti: una rappresentazione in cui l’unione venga colta attraverso l’intelletto (ossia intesa) e quindi confusamente. Infatti, quell’omologazione attiene all'idea del modo in cui la mente è cosciente di poter muovere il proprio corpo. Ora, però, tale modo altro non è che l’atto di °° Descartes a Elisabetta, 28 giugno 1643: «L’àme ne se conçoit que par l’entendement pur; le corps, c’est-à-dire extension, les figures et les mouvements, se peuvent aussi connaître par l’entendement seul,
mais beaucoup mieux par l’entendement aidé de l’imagination; et enfin, les choses qui appartiennent à l’union de l’àme et du corps, ne se connaissent qu’obscurément par l’entendement seul, ni même par Pentendement aidé de Pimagination; mais elles se connaissent très clairement par les sens» (B 404, pp. 1780-1781; AT III, 691, 1. 22, 692, 1. 3). 77 Ivi: «C’est en usant seulement de la vie et des conversations ordinaires, et en s’abstenant de méditer et d’étudier aux choses qui exercent l’imagination, qu’on apprend à concevoir l’union de l’âme et du corps» (B 404, pp. 1780-1781; AT IV, 692, Il. 16-20). % ** Meditationes, VI: «Sensuum perceptionibus, que proprie tantum a natura date sunt ad menti significandum quænam composito, cujus pars est, commoda sint vel incommoda, et eatenus sunt satis clare et distinctæ, utor tanquam regulis certis ad immediate dignoscendum quænam sit corporum extra nos positorum essentia, de qua tamen nihil nisi valde obscure et confuse significant» (AT VII, 83, IL 16-23).
Note sul problema dell'unione corpo-mente in Descartes
105
volontà con cui la mente inclina il corpo a questo o a quel movimento; e l’atto di volontà appartiene, quale suo modo, alla dimensione della res cogitans, che Descartes
ha sempre sostenuto essere oggetto del puro intendere. Ne risulta che pensare l’unione attraverso l’idea con cui la mente è cosciente di muovere il proprio corpo significa precisamente rappresentarla mediante l’intelletto puro. Sennonché, proprio per questo una tale rappresentazione oscura la conoscenza dell’unione. L’idea della volontà, infatti, è ben chiara e distinta sino a che viene riferita alla nozione primitiva dell’anima, ma non lo è se applicata alla nozione
primitiva dell’unione: rappresentare l’unione intellettualmente significa appunto utilizzare per rappresentare l’unione una nozione primitiva che ci è data per rappresentare la res cogitans. Una tale operazione viola il secondo dei due precetti dati da Descartes ad Elisabetta: tutta la scienza degli uomini consiste, in primo luogo, nel ben distinguere le tre nozioni primitive e, in secondo luogo, nel non attribuirle
a cose cui non appartengono‘. Se una tale lettura retrospettiva è corretta, il contributo che il carteggio More-
Descartes può fornire in rapporto alla problematica dei rapporti mente corpo, che in esso pur non è centrale, come rilevavo all’inizio del presente intervento (I), è nondimeno
tutt’altro che trascurabile. Infatti, riconducendo anzitutto la scelta di
Descartes alle sue motivazioni interne (II) e, poi, individuando il piano cui essa si colloca (III), mi è parso possibile sostenere (IV) che siffatta trattazione illumina due punti dei quali Descartes, costruendo la sua dottrina sull’unione, aveva sempre riconosciuto la verità senza però mai spiegare: che cosa significhi che l’anima non è unita al corpo so/o come un pilota alla sua nave e che cosa significhi intendere, ossia percepire mediante l’intellezione, il rapporto della mente al corpo.
# Ad esempio, oltre che con la stessa Elisabetta (A Elisabetta, 28 giugno 1643, B 404, pp. 1780-1781;
AT II, 691, ll. 21-22), proprio con More: «Atqui de Deo ac etiam de mente nostra nihil tale dicere licet;
neque enim est imaginabilis, sed intelligibilis duntaxat» (B 677, p. 2616; AT V, 270, Il. 8-10).
© Descartes a Elisabetta, 21 giugno 1643 (B 392, pp. 1748-1749; AT III, 665, Il. 25-28). Sul carattere normativo della chiarezza e distinzione (quali note, per l’appunto, che risultano dal modo in cui un medesimo contenuto è interpretato) cfr., ancora, le pagine di A. Gewirth, Cleamess and Distinctness in Descartes, in «Philosophy», XVIII, 1943, pp. 17-36, poi in G.J.D. Moyal (ed.), Descartes. Critical Assessments,
cit., vol. I, pp. 185-203: 190.
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Pascal et la science des libertins par Antony McKenna
L’interprétation des Pensées de Pascal doit se fonder essentiellement sur une interprétation de la lecture pascalienne de la philosophie libertine. On n’y a guère accordé d’attention dans la tradition critique, mais le bien-fondé et la cohérence de Pargumentation pascalienne découlent manifestement de l’argumentation qu'il compte combattre, c’est-à-dire donc de la philosophie libertine telle qu’il l’entend. C’est bien sur les principes du libertin qu’il fonde son argument apologétique, car il compte montrer, par un argument ad hominem, que le libertin est un insensé, qui calcule mal son intérêt, qui méconnait sa nature et qui lit mal l’Ecriture alors que celle-ci seule fournit la clef de sa condition actuelle. Le dialogue ne peut s’engager que sur des principes communs. Pascal doit donc définir la nature humaine en des termes tels que le libertin tombe d’accord avec lui et écoute ensuite les arguments qui visent à le conduire vers la foi. Jai tenté (dans divers articles) de montrer la cohérence de cette philosophie de la foi du point de vue de Pascal en soulignant tous les traits de sa psychologie et donc de son épistémologie qui rattachent les Pensées aux ouvrages de Gassendi : ses Olyections aux Méditations métaphysiques de Descartes et sa Disquisitio metaphysica. En d’autres termes, selon ma lecture, Pascal trouvait chez Gassendi les fondements de
son portrait de la condition humaine, portrait sur lequel l’apologiste et son interlocuteur libertin tombent d’accord au cours des premiers chapitres des Pensées, et l’apologiste compte conduire son libertin de ces prémisses à la foi. La philosophie de Gassendi apparaît ainsi comme une plaque tournante, en quelque sorte, interprétée par les libertins comme le fondement de leur incroyance, exploitée par Pascal pour conduire le libertin à la foi. D’où l'intérêt des Pensées de Pascal comme témoignage sur le libertinage de l’âge classique. Le malheur a voulu que la thèse de R. Pintard sur le dibertinage érudit», qui aurait dû servir de clef pour comprendre le rapport entre la philosophie religieuse de Pascal et la philosophie de Gassendi, a fini par constituer un obstacle à cette lecture. En effet, d’une part, pour des raisons assez
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all Hluminismo \
obscures, essentiellement psychologiques peut-être ou bien qui tiennent précisément à la réception de la philosophie de Gassendi, Pintard classe Gassendi parmi les libertins, ce qui a entraîné une grande méfiance chez les critiques pascaliens à
l'égard de toute tentative de rapprocher Pascal de Gassendi. D’autre part, Pintard a méconnu la philosophie du libertin interlocuteur de Pascal dans les Pensées. En effet, il cite les milieux fréquentés par Pascal — les cercles de Jacques Le Pailleur, de Mersenne et surtout de Habert de Montmort — et établit que Pascal a bien dû connaître les doctrines des libertins érudits, mais avoue qu’il est «déconcerté par la place très restreinte que les Pensées accordent à leurs problèmes». Ainsi, souligne-til, Pascal réduit le scepticisme à celui de Montaigne, et l’épicurisme à la débauche
vulgaire (alors qu’il faisait l’objet d’une réhabilitation philosophique dans les ouvrages de Gassendi). Et Pintard en arrive à réduire la portée de l’apologie qui ne s’adresserait qu'aux libertins gens du monde, aux libertins «honnêtes gens», tels que
Méré et Mitton. Cette interprétation déçoit Pintard lui-même, puisqu'il conclut en parlant d’un Pascal «fougueux», «impatient», «téméraire», d’un «génie intransigeant
et cavalier» : entendons que Pintard est déçu par le peu de substance philosophique de l'argumentation apologétique telle qu’il la lit. Ma première réaction est donc de rétablir ce que je considère comme la véritable cohérence de l’argumentation pascalienne en y retrouvant les traces de sa lecture de Gassendi et en interprétant ses arguments fondamentaux en fonction des thèses anti-cartésiennes des Olyections de Gassendi. On verra plus loin si je relève cette gageure. Mais cette lecture des Pensées ne suffit pas à elle-même. On a beaucoup discuté ces dernières années, dans les milieux «pascaliens» pour ainsi dire, de la cohérence / incohérence entre les Pensées et les Lettres provinciales sur la
question de la «morale naturelle». Certains sont tentés de désigner une incohérence dans sa philosophie là où d’autres ne voient qu’une ambiguïté de la formulation due aux publics différents auxquels s'adressent ces deux ouvrages : Pascal semble concéder au «grand public» des Lettres l'existence d’une morale naturelle, ce qu’il conteste dans le débat strictement philosophique ou sceptique des Pensées. Certains sont tentés ainsi de voir la philosophie apologétique des Pensées comme une concession indue et momentanée, un concesso non dato, faite à l'égard de la philosophie libertine, comme une étape regrettable mais nécessaire pour conduire le libertin, malgré lui, à la foi. De même, la cohérence entre les Pensées et les écrits scientifiques a pu être mise en question. En bref, Pascal serait un mathématicien de génie, qui
aurait proposé des solutions à certains problèmes cruciaux de la physique contemporaine, mais sa philosophie scientifique serait une philosophie de la certitude et de la démonstration, contrairement à son argumentation apologétique qui, se fondant sur le témoignage historique, ne conduirait qu’à la vraisemblance par une logique imposée par la faiblesse des libertins et nullement par la nature même de la con-
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naissance (et donc de la foi) aux yeux de Pascal. La cohérence des Pensées ne serait, en ce sens, que locale, spécifique, déterminée par Paveuglement de l’interlocuteur
libertin, tandis que la véritable philosophie pascalienne se fonderait sur la certitude, sur la démonstration «géométrique», et la certitude de la foi équivaudrait, en son for intérieur, à la certitude des axiomes et des théorèmes.
Cette conception de l’incohérence de la philosophie pascalienne me paraît erronée. Ce qui est frappant, prodigieux, à mes yeux, c’est, au contraire, la cohérence entre la philosophie scientifique, morale et religieuse de Pascal, qui vit la «révolution
scientifique» de son époque, qui partage avec les scientifiques qu’il fréquente dans les salons spécialisés une certaine conception de la nature et de la méthode scienti. fique qui nous permet de raisonner sur son fonctionnement. Or, cette conception scientifique de la nature, qui‘écarte toute finalité et tout miracle, qui veut se conten-
ter d’expériences et de raisonnements logiques, est précisément celle des libertins. En ce sens, de même que je maintiens que la cohérence des Pensées est déterminée par la philosophie libertine que Pascal combat, en conduisant son interlocuteur de prémisses communes
à des conclusions chrétiennes, je maintiens également que
la philosophie scientifique de Pascal est celle même des Pensées, c’est-à-dire qu’elle est celle des libertins — partagée également, bien entendu, par bon nombre d’autres
croyants de son époque (Mersenne et tant d’autres). Le point fort de Pascal sur ce point, c’est qu'il perçoit parfaitement cette cohérence entre science et religion et qu’il propose un argument apologétique en stricte conformité avec cette philosophie de l’homme et du monde.
Imagination On me permettra de passer rapidement sur les termes-clefs de la philosophie apologétique de Pascal. Par commodité, je propose un parcours rapide en prenant comme point de depart le fragment célèbre sur imagination: Imagination. C’est cette partie dominante dans l’homme, cette maîtresse d’erreur et de fausseté, et d’autant plus fourbe qu’elle ne l’est pas toujours, car elle serait règle infaillible de vérité si elle l'était infaillible du mensonge. Mais étant le plus souvent fausse, elle ne donne aucune marque de sa qualité, marquant du meme caractère le vrai et le faux. Je ne parle pas des fous, je parle des plus sages et c’est parmi eux que l'imagination a le grand droit de persuader les hommes. La raison a beau crier, elle ne peut mettre le prix aux choses. (Lafuma, 44; Sellier, 78)
L’incertitude nos connaissances découle du statut «dominant qui est attribué à Pimagination, car elle préside à l'élaboration de nos idées:
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Cette superbe puissance ennemie de la raison, qui se plaît à là contrôler et à la dominer, pour montrer combien elle peut en toutes choses, a établi en l’homme une seconde nature. [...] L’imagination dispose de tout... (L., 44; S., 78)
L’imagination est «cette partie dominante de l’homme», car c’est elle qui fournit à l'esprit les ages sur lesquelles il travaille. Toutes nos zdées ou images sont marquées par le caractère «fourbe» de l’imagination qui se plaît à contrôler et à dominer la raison «pour montrer combien elle peut en toutes choses». Dans la «seconde nature», imagination domine la raison; cette «maîtresse d’erreur et de fausseté»
impose ses images; nous n’avons plus d’idées qui ne portent pas la marque de cette faculté corporelle. Cette domination fonde l'incertitude qui frappe toutes nos zdées: l'incertitude découle du statut central de imagination dans la psychologie de la «seconde nature». Ainsi, Nous supposons que tous les [hommes] congoivent de même sorte. Mais nous le supposons bien gratuitement, car nous n’en avons aucune preuve. Je vois bien qu’on applique ces mots dans les mêmes occasions, et que toutes les fois que deux hommes voient un corps changer de place, ils expriment tous deux la vue de ce même objet par les mêmes mots, endisant l’un et l’autre qu’il s’est mù. Et de cette conformité d'application, on tire une puissante conjecture d’une conformité d’idée. Mais cela n’est pas absolument convaincant de la dernière conviction, quoiqu'il y ait bien à parier pour l’affirmative, puisqu’on sait qu’on tire souvent les mêmes conséquences des suppositions différentes (L., 109; S., 141)
Cette «puissante conjecture d’une conformité d’idée» n’est qu’une conjecture et met désormais toutes nos idées hors de portée de la démonstration, car : Cela suffit pour embrouiller au moins la matière. Non que cela éteigne absolument la clarté naturelle qui nous assure de ces choses. Les académiciens auraient gagé, mais cela la ternit et trouble les dogmatistes, à la gloire de la cabale pyrrhonienne, qui consiste à cette ambiguïté ambiguë, et dans une certaine obscurité douteuse dont nos doutes ne peuvent òter toute la clarté ni nos lumières naturelles en chasser toutes les ténèbres. (L., 109; S., 141)
Le monde de la seconde nature est un monde d’ages qui sont frappées d’obscurité douteuse et d’ambiguité ambigue.
Image / fantaisie L’imagination est liée au corps : elle traduit les sensations en images ; elle stocke ces images, pour ainsi dire ; elle les associe à bon ou à mauvais escient. Elle se diDI
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stingue ainsi de la sensation par la distance : l’imagination garde la trace des images
suscitées par des sensations passées. Elle a donc partie liée avec la mémoire, qui est un «sentiment» (L., 646 ; S., 531) et qui est «nécessaire pour toutes les opérations de la raison» (L., 651 ; S., 536).
On sait qu’un autre terme pour l’#mage de l’imagination, parmi les contemporains (Gassendi, Hobbes) de Pascal, était «fantasme» ou «fantaisie», et Pascal reprend ce terme dans un fragment qui me paraît crucial : la fantaisie est semblable et contraire au sentiment, de sorte qu’on ne peut distinguer entre ces contraires. Il faudrait avoir une règle. La raison s’offre, mais elle est plo-
yable à tous sens. Et ainsi il n’y en a point. (L., 530 / S., 455)
Le lien entre le sentiment et le corps est ainsi souligné: la fantaisie est fruit de l’imagination et elle rivalise, pour ainsi dire, avec les sentiments. Pascal semble distinguer entre fantaisie fausse et sentiment vrai.
Fantaisie / sentiment / corps Ce lien entre fantaisie et sentiment s’explique par le role du corps dans la psychologie pascalienne. «Nous sommes automates autant qu’esprit» — d’automate entraîne l'esprit sans qu’il y pense» (L., 821 / S., 661). C’est l’automate, la Machine, l’habitude du corps qui crée le sentiment. Ce mécanisme nous est familier dans le vocabulaire qui caractérise l’argument du «pari» : c’est d’abêtissement» : «naturellement même cela vous fera croire et vous abétira» (L., 418; S., 680). C’est le mécanisme par lequel les habitudes du corps plient la Machine, matent les passions rebelles et ancrent dans le sentiment du cœur une conviction de l’esprit. La foi est ici un sentiment (Dieu sensible au cœur) produit par l’action mécanique du corps (automate) et par la force de la coutume: «Qui s’accoutume à la foi la croit...» (L., 419; S., 680). C’est la loi de toutes nos opinions, de toutes nos convictions, de tous nos sentiments :
«La coutume est notre nature» (L., 419; S., 680). Le corps joue un rôle primordial dans la naissance des sentiments. Or, le lien avec l’imagination est évidente: en effet, nous l’avons vu, c’est
l'imagination qui a créé une «seconde nature» en l’homme, et c’est dans cette «seconde nature» dominée par la coutume, par le corps, que le sentiment joue un rôle primordial, non seulement dans le domaine des affections (sentiment de la foi) qui est le sien, mais aussi dans celui des connaissances.
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Sentiment / cœur / corps L’amour est un sentiment, cela va de soi : et son siège est, non pas l’intelligence, l’esprit, mais le «cœur. Mais la mémoire est aussi un sentiment (L., 646; S., 531) et elle est «nécessaire pour toutes les opérations de la raison» (L., 651; S., 536). De plus, c’est sur les «connaissances du cœur et de l’instinct» qu’il faut que la raison
«s’appuie» : c’est le cœur qui «sent» les principes «comme qu'il y a espace, temps, mouvement, nombres» (L., 110; S.,142), et c’est en ce sens que «tout notre raisonnement se réduit à céder au sentiment» (L., 530; S.,455). Les instruments initiaux, les concepts élémentaires de tous nos raisonnements nous sont fournis par le cœur. \ D'où vient ce sentiment des principes ?
Un premier indice nous est fourni par le début même du «pari» : L’àme est jetée dans le corps où elle trouve nombre, temps, dimensions. Elle rai-
sonne là-dessus et appelle cela nature, nécessité, et ne peut croire autre chose. (L., 418; S., 680)
Cette formule confirme le ròle du corps dans la naissance du sentiment — ròle exprimé d’ailleurs sans équivoque dans les fragments cités ci-dessus. Mais qu’est-ce à dire : d’âme trouve dans le corps» ? Le fragment des «Deux Infinis» fournit une clef. Pascal y propose une sorte de cheminement épistémologique par lequel nous aboutissons à la définition des principes : ...toutes les sciences sont infinies en l’étendue de leurs recherches. Car qui doute que la géométrie, par exemple, a une infinité d’infinité de propositions à exposer ?
Elles sont aussi infinies dans la multitude et l’infinité de leurs principes. Car qui ne voit que ceux qu’on propose pour les derniers ne se soutiennent pas d’eux-mêmes et qu’ils sont appuyés sur d’autres qui, en ayant d’autres pour appui, ne souffrent jamais de dernier ? Mais nous faisons des derniers qui paraissent à la raison comme on fait dans les choses matérielles, où nous appelons un point indivisible celui audelà duquel nos sens n’aperçoivent plus rien, quoique divisible infiniment et par sa natute. (L., 199; S., 230)
Ainsi «les sciences sont infinies dans la multitude et la délicatesse de leurs principes»; notre esprit est incapable de saisir ces principes infiniment délicats; les principes que nous fournit le «247 ou le corps correspondent donc à ce que nous appelons «un point indivisible» dans les choses matérielles. En d’autres termes, l’évidence des principes est un effet de la limitation de la vue claire de l’esprit, et cette limitation est imposée par le corps. «Trouver dans le corps» signifie donc ici que ces principes sont ceux qui nous apparaissent comme «premiers» (ou «derniers») parce que le corps obscurcit la vue claire de l'esprit. En ce sens, les principes sont
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ceux qui apparaissent à un esprit uni à un corps. Le corps détermine ainsi notre vision
des choses : nous analysons le monde selon nos «principes», nous appelons cela «nature», «nécessité», mais cette «nécessité» n’est que celle de notre nature et non pas du monde que nous percevons. Ce n’est que parce qu’elle se trouve unie à un corps que l’âme pense en termes de nombres, temps, dimensions. Ce sont des concepts issus de l’union de l’àme et du corps : le sentiment est donc le mode de connaissance qui caractérise un être constitué d’une Âme et d’un corps. Ce fragment confirme
à mes yeux le lien de dépendance qui lie les sentiments au corps et confirme du même coup que nous n’avons pas affaire à un «sentiment d’évidence», à une «intuition intellectuelle» : jamais, chez Pascal, l'esprit ne fonctionne indépendamment du corps. L’âme n’a pas, comme chez Descartes, ses «espèces à part». Au contraire,
les idées primitives sont «trouvées» dans le corps et «senties» par le cœur.
Sentiment pascalien et passion cartésienne Ainsi, dans la seconde nature créée par l’imagination et qui se caractérise par la
domination du corps, le coeur (avec ses sentiments) est le mode de connaissance d’un être qui n’est pas un esprit pur mais un «mélange d’esprit et de corps». Pascal me paraît appuyer sa conception du sentiment sur la définition cartésienne des passions ou sentiments de l’âme qui sont «certaines façons confuses de penser qui proviennent et dépendent de l'union et comme du mélange de l'esprit avec le corps» (A.T. ix.64; Alquié, ii.492). «Tout notre raisonnement se réduit à céder au sentiment.» En effet, les sentiments des principes, nombre, temps, dimension, sont
les conditions memes de notre rerprésentation du monde, et ces principes dérivent de notre corps (où l’âme les «trouve»): notre représentation du monde dépend de notre constitution physique. Jamais l’esprit ne fonctionne, dans la psychologie pascalienne, indépendamment du corps. Et cette constatation nous permet de donner au sentiment pascalien son statut anti-cartésien: en effet, l’homme est livré au sentiment qu’on ne saurait distinguer de la fantaisie: «Il faudrait avoir une règle. La raison soffre, mais elle est ployable à tous sens. Et ainsi il n’y en a point» (L.,
530; S., 455).
La psychologie cartésienne décapitée Or, l'évidence et la certitude des intuitions intellectuelles dépendent, dans la philosophie cartésienne, de la liberté de la volonté, qui peut toujours suspendre le jugement et ne pas embrasser les idées obscures du confuses. De même, dans le
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traité des Passions de l'âme, cette liberté de la volonté par rapport aux perceptions confuses fonde notre capacité de contrôler les passions, et fonde donc aussi la
morale de la générosité. Les perceptions des passions sont obscures et confuses : devant une telle obscurité et une telle confusion, le libre arbitre peut toujours et doit toujours suspendre le jugement, car il est toujours et absolument en notre pouvoir. Or, de l’analyse pascalienne du rôle du sentiment, il s’ensuit que nous n’avons que des idées obscures ou confuses, en ce sens qu’elles ne sont pas engendrées par une pure intelligence, mais par l’union de l’âme et du corps : elles sont toutes fondées sur le sentiment. Devant de telles perceptions obscures et confuses, Descartes s'impose la suspension du jugement. Dans la perspective pascalienne, une telle suspension est impossible: L'esprit croit naturellement et la volonté aime naturellement de sorte qu’à faute de
vrais objets 7/faut qu'ils s'attachent aux faux (L., 661; S., 544).
La psychologie cartésienne est décapitée.
Pascal / Gassendi Ainsi, Pascal établit la chaîne des facultés psychologiques, et le sentiment surgit comme un mode de connaissance et d’affection du cœur. Dans une psychologie dépourvue d’intuition intellectuelle, le statut accordé au sentiment constitue une
objection au rationalisme cartésien, et cette objection se fonde sur une ambiguïté irremédiable dans la seconde nature. Nous ne saurions distinguer les sentiments vrais des fantaisies fausses: l’imagination, qui a institué cette seconde nature dominée par le corps, par l’automate, fait que l’homme est livré aux sentiments; c’est dire que sa nature est «pareille à celle des animaux» (L., 117; S., 149): d’homme est devenu semblable aux bêtes» (L., 149; S., 182; voir aussi L., 397, 630; S., 16,
523). C’est ce qui définit la misère de l’homme : «ce qui est nature aux animaux nous l’appelons misère en l’homme» (L., 117; S., 149). Cette nature, livrée aux sentiments et aux fantaisies du cœur sous le règne de l'imagination est conforme à la psychologie que Gassendi oppose à l'intuition intellectuelle de Descartes dans les Objections et dans la Disquisitio metaphysica. En ce sens, il me semble que Pascal se situe dans une perspective cartésienne: la première nature est dominée par l'esprit; la raison ne s’appuie pas sur le corps; l’homme accède 4 la certitude dans l'évidence de intuition intellectuelle: en somme, la première nature est cartésienne. Elle est «renversée» par la Chute et le symptôme de la Chute est la dépendance de l'esprit pat rapport au corps: cette seconde nature, instituée par l'imagination, est gassen-
Pascal et la science des libertins
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diste, et toute l’apologie pascalienne vise à conduire son libertin gassendiste à une foi humaine conforme 4 cette nature: renongant à l’évidence et aux démonstrations, il n’accéde qu’à la vraisemblance (à l’incertitude), aux apparences, aux témoignages qui fondent l’histoire sainte, mais il accède ainsi à une foi humaine conforme à sa
nature déchue.
Sciences
En abordant les écrits scientifiques de Pascal, la problématique ne change-t-elle pas radicalement ? N’abandonnons-nous pas définitivement l’univers de la vraisemblance pour la terre ferme de la certitude du calcul ? Les choses ne sont pas si simples. Pascal distingue entre le «veritable ordre», qui définit une science parfaite,
«qui consiste... à tout définir et à tout prouver», et la géométrie, qui est la science humaine la plus parfaite. Ce qui fait déchoir la géométrie de la perfection accomplie du «véritable ordre» est qu’elle se fonde sur des termes qui ne sont pas définis: On trouvera peut-étre étrange que la géométrie ne puisse définir aucune des choses qu’elle a pour principaux objets. Car elle ne peut définir ni le mouvement, ni les nombres, ni l’espace; et cependant ces trois choses sont celles qu’elle considère particulièrement... Elle suppose donc que l’on sait quelle est la chose qu’on entend par ces termes: mouvement, nombre, espace... (OC, éd. J. Mesnard, III.401)
C’est que, si on tente de définir ces termes simples de la géométrie, on glisse des définitions de noms, définitions libres et volontaires, à des définitions de choses, autrement dit à des propositions qui exigeraient d’être démontrées (III.398-399). Or, nous ignorons l’«essence» des choses; nous ignorons les «substances». Ainsi, «mouvement, nombre, espace»
fondent la géométrie mais ne sauraient étre définis
(111.401); de meme, rappelons-le, «nombre, temps, dimension» sont des «principes» dont nous avons le «sentiment», puisque d’âme» les découvre dans le «corps» où elle est «jetée» (L., 418; S., 680). Cette définition est inutile pour la perfection de la géométrie, qui se fondera sur ces principes en définissant librement les termes de sa science et les axiomes qui découlent de ces définitions de nom. Dans les limites de cette science, on pourra conduire à bien des démonstrations qui découlent des propriétés définies. Si on accepte donc les termes primitifs, cette science nous permet d’accéder à la certitude la plus élevée dans la science humaine. Mais lorsqu'il s’agit des sciences de la nature, dans les experiences sur le vide, des liqueurs ou sur la pesanteur de la masse de l’air, p.ex., nous n’avons l’équilibre sur dans la definition des choses ét nous ignorons tbe substances. liberté pas la meme
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Sur quoi portent donc les raisonnements dans le domaine de la physique ? Sur des experiences qui révèlent les fonctionnement de la nature tel que nous pouvons l’appréhender. Et comment pouvons-nous l’appréhender ? Seulement selon les apparences, puisque nous ignorons les substances. Autrement dit, nous n’avons
affaire qu’aux apparences et nous proposons des hypothèses pour rendre compte des phénomènes que nous observons à l’aide d’expériences. Nous multiplions les expériences pour faire varier d’une façon qui nous paraît significative les phénomenes observés et nous proposons des hypothèses pour rendre compte de ces variations. Comme Pascal le souligne avec sarcasme dans les lettres qu’il adresse au Père jésuite Etienne Noël, nous ne sommes pas libres dans l'affirmation de l’existence des choses; nos propositions dans le domaine
de l'observation des phénomènes
physiques ne sont pas des définitions libres. Ainsi, dans l’ignorance où nous sommes quant à la nature des substances, nos propositions ne nous permettent pas d’aller audelà de la vraisemblance. Ce qui ne veut pas dire, évidemment, que nos affirmations soient libres et gratuites: elles doivent se conformer à la logique; elles doivent éviter la contradiction interne; elles doivent éviter de supposer ce qui est en question...; el-
les doivent rendre compte des phénomènes observés en désignant une cause (ou des causes) des effets apparents; et elles doivent respecter l’économie des hypothèses. Cette dernère règle est évidemment capitale. Si un principe fournit une explication satisfaisante d’un grand nombre de phénomènes, nous n’aurons pas recours à une multiplicité d’explications différentes pour expliquer ces mêmes phénomènes. Dans la limite de l’exercice de la logique dans lexplication des phénomènes, nous pouvons atteindre des certitudes: je peux, p.ex., être certain que le Père Noël
suppose ce qui est en question, que sa conception de l’«horreur du vide» contredit les données de l’expérience, que ce même principe est insuffisant à rendre compte des phénomènes observés, etc. Sur ces différents points, Pascal s’exerce dans la certitude de la cohérence / incohérence des arguments proposés. Mais, comme il le souligne, les explications les plus cohérentes des phénomènes, les explications qui tiennent compte de la grande variété des expériences et qui désignent des causes puissantes et unificatrices, ne sont que des hypothèses; elles sont toujours soumises à la nature finie de nos observations et devront peut-être s’adapter à de nouvelles observations faisant suite à de nouvelles expériences. Ainsi, jamais nos hypothèses sur le fonctionnement de la nature n’atteignent le statut de certitudes. La limite de notre certitude est simple à définir: telle hypothèse est la meilleure (la plus cohérente, la plus puissante, la plus unificatrice...) dans l'état de nos observations des phénomènes. L'expérience est le principe de la méthode en physique et nos affirmations ne sauraient dépasser les limites des expériences sur lesquelles elles se fondent. C’est évident et c’est simple... C’est une nature désenchantée, dépourvue de qualités occultes, qu fonctionne selon l’enchaînement des causes et des effets, une
Pascal et la science des libertins
nature mécanique, dont notre science cherche à rendre compte
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sans recourir à des
causes étrangères à la matière. C’est sur ce point que nous pouvons comparer ce monde appréhendé par le physicien Pascal avec l’univers exploré par le héros de Cyrano. Sans entrer ici dans le détail, qu’il suffise de dire que la fantaisie de Cyrano le conduit à proposer toutes sortes d’explications des phénomènes physiques, toutes sortes de leçons scientifiques, qui se contredisent parfois, mais qui ont toutes ce trait commun d'expliquer le fonctionnement de la nature par la seule matière. On peut relever au passage que la fameuse leçon de l'Espagnol sur «tout est dans tout» («c’est-àdire que dans l’eau, p.ex., il y a du feu; dedans le feu, de l’eau; dedans l'air, de la terre; et dedans la terre, de aim, éd. M. Alcover, p. 83) se trouve très précisément dans la
seconde lettre que le Père Etienne Noël adresse à Pascal pour nier l'existence du vide et pour «démontrer que «tout espace est corps» (éd. J. Mesnard, II, p. 532-533). Mais l'essentiel est que, pour ce qui est du raisonnement scientifique, l’univers entier est matière. Nous ne pouvons connaître l’infinie variété de la matière, mais
nous pouvons observer les phénomènes tels qu’ils se présentent à nous et nous pouvons en proposer des explications vraisemblables, c’est-à-dire des hypothèses quant au fonctionnement mécanique de la nature. L’homme ignore les substances; il observe l’univers avec ses moyens physiques, avec ses sens, qui sont fort limités. D’autres créatures, telles que le démon de Socrate, qui a plus de sens que l’homme et qui a donc une tout autre appréhension et compréhension de la nature (il observe la cause des marées, p.ex.), permettront à Cyrano d’affirmer que lessence de la matière est le feu, auquel l’homme a un rapport privilégié par Pimagination (le «feu de l'imagination» / ’«humide radical»). Mais que l’homme n’observe la nature qu’au moyen de cinq pauvres sens, que toutes ses idées viennent des sens, que sa conception de l’univers est donc déterminée par sa constitution physique, corporelle; que la nature de l’homme est actuellement «pareille à celle des animaux», que les sentiments de l’homme sont engendrés par le corps selon la mécanique de l’«abétissement» (cad selon la mécanique de l’animal-machine, l’automate, l’habitude du corps), que l’homme conçoit l'univers en termes de «nombre, temps, dimension» parce qu'il est corps (parce que d’âme est jetée dans le corps»), qu’il suppose un enchainement de causes et d’effets matériels sur lequel il propose des hypothèses vraisemblables,
que la nature fonctionne sans égard pour l’homme, qu’elle constitue un tout ho-
mogène inépuisable dans l’infinie variété des effets, qu’il n’y a aucun besoin, pour expliquer le fonctionnement de la nature, d’avoir recours à des miracles, ni à des qualités occultes, ni à des causes surnaturelles... : sur tous ces points, Pascal et Cyrano sont d’accord. Et sur tous ces points, ils s'accordent avec les principes de la philosophie scientifique et humaine de Gassendi. Le désaccord entre Cyrano et Pascal portera évidemment sur la nature de l’homme: animal purement corporel pour Cyrano, ‘puisque le corps suffit à ren-
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x dre compte de toutes ses actions; nature double, corps et esprit, selon Pascal, car
«qu’est-ce qui sent du plaisir en nous ? on verra qu’il faut que ce soit un principe immatériel»; «Raison et instinct: marques
de deux natures».
Mais ce partage des
chemins permet de prendre la mesure de tout ce qu’ils partagent dans leur conception de l’univers et de l’homme. En ce sens, Pascal et Cyrano partagent une conception gassendiste, matérialiste, de la science de univers; sur ce fondement, Cyrano propose une conception matérialiste de la nature de l'homme, tandis que Pascal explique la condition actuelle de l’homme, sa «misère» qui s’identifie à la
«nature» mécanique des animaux, par le prodigieux «renversement» de la nature humaine opérée par la Chute. Nous avons bien affaire.aux deux héritages du gassendisme: le matérialisme hétérodoxe de Cyrano et le christianisme augustinien que Pascal déduit de ces mêmes prémisses.
Né con Descartes né con Malebranche:
l'antropologia di Pierre-Sylvain Régis di Antonella Del Prete
In un libro recente Emanuela Scribano ha sostenuto che i modelli di conoscenza elaborati da Descartes, Malebranche e Spinoza possono essere ricondotti a un’al-
ternativa fondamentale: attribuire all’uomo il tipo di conoscenza che la tradizione teologica riservava agli angeli (Descartes), oppure quella propria della visione beatifica delle anime separate (Malebranche e Spinoza)!. Che cosa accade in personaggi, certamente minori, ma comunque autorevoli rappresentanti del cartesianesimo di fine Seicento? A grosse linee, si può dire che buona parte di loro abbracciano il modello angelico, ossia la conoscenza per idee: tra di essi troviamo La Forge,
Cordemoy, Desgabets, Régis (oltre al grande oppositore di Malebranche, Arnauld). All’interno di questo gruppo, però, va segnalata una precoce divisione: da un lato si trova chi, come La Forge e Cordemoy, riprende un carattere specifico della noetica cartesiana, ossia la distinzione tra ciò che è proprio della mente da sola (le intellezioni pure, ma anche la memoria e le emozioni intellettuali) e ciò che viene mediato dal corpo (le sensazioni, le immaginazioni, la memoria corporea,
le passioni), mentre parallelamente sviluppa un modello di interazione tra l’anima e il corpo che si avvicina all’occasionalismo? o si situa nettamente in esso, con la conseguenza di rafforzare l’analogia tra la mente e gli angeli in maniera più netta
1 E. Scribano, Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Roma-Bari 2006. 2 Steven Nadler ha avanzato l’ipotesi che La Forge nel Traité de l'esprit de l'homme presenti una posizione che si può definire nettamente occasionalista solo in rapporto alla relazione tra due corpi, mentre la connessione tra la mente e il corpo è in qualche modo assimilabile all’armonia prestabilita: Zhe Occasionalism of Louis de La Forge, in Nadler (ed.), Causation in Early Modern Philosophy. Cartesianism, Occastonalism and Preestablished Harmony, University Park-Pennsylvania 1993, pp. 56-73; Id., Création continue et occasionalisme.
Louis de La Forge et l'activité de l'âme, in D. Leduc-Fayette (ed.), Le regard d'Henry Gouhier. Actes du colloque CEPF 29-31 mai 1996, Paris 1999, pp. 185-197.
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ed esplicita che in Descartes’. Dall’altro lato si collocano invece Desgabets e Régis, che negano l’esistenza di funzioni pure dell’anima, rifiutano le cause occasionali
e fanno dell’uomo un essere nettamente distinto dall’angelo. Lo scopo di questo articolo è di focalizzare l’attenzione su Régis, di analizzare il complesso rapporto
intertestuale e concettuale che istituisce con le sue fonti, in particolare La Forge e Desgabets, di individuare eventuali cambiamenti su questi temi tra il Systeme de philosophie (1690) e Usage de la raison et de la foy (1704). A una prima lettura, la sezione del Systéme dedicata alla metafisica potrebbe sembrare una mera ripresentazione delle teorie cartesiane attraverso una forma, quella del manuale, che accentua le inflessioni terminologiche appartenenti alla tradizione scolastica, senza tuttavia intaccarne la sostariza. La realtà delle cose, a uno sguardo più ravvicinato, si dimostra invece più complessa. Régis, certo, ricalca
più o meno fedelmente il percorso disegnato dalle Meditationes: analizzando noi stessi, ci accorgiamo di essere pensiero. L’esprit è dunque una sostanza
distinta
dall’estensione. Tuttavia, poco cartesianamente, il semplice fatto che la mente possieda un’idea dell’estensione prova che quest’ultima esiste realmente, a prescindere
dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio e dal rinvio alla veracità divina*. Sempre a differenza di Descartes, il tema dell’unione dell’anima e del corpo emerge subito,
senza attendere la conclusione del percorso meditativo?. Testimoni dell’unione sono la sensazione e l’immiaginazione e, poche pagine più oltre, la fame, la sete il dolore: tutto ciò è sicuramente vicino al pensiero di Descartes. Si notano però delle assenze: non si parla di unione sostanziale; l’uomo
non è definito un ens per se; non si fa dell'anima l’unica forma sostanziale esistente, dopo l’eliminazione di quelle che regnavano nella fisica. Anche a consultare le pagine che seguono, tutto ciò che possiamo dedurre è che quella tra mente e corpo è una vera unione, in quanto si tratta di due sostanze distinte realmente; ed è un’unione
fisica, che implica una dipendenza reciproca‘. Queste omissioni rispetto al modello cartesiano non sono casuali: poco oltre Régis afferma infatti che l’uomo è un essere modale; la stessa definizione viene in un altro luogo attribuita all’anima’.
Non è tutto. Subito dopo aver trattato il tema dell’unione tra mente e corpo, Régis introduce una precisazione terminologico-concettuale che attraversa tutta
* Per un’analisi in dettaglio di queste problematiche, mi permetto di rinviare al mio Angeli e uomini. dibattiti cartesiani, in C. Piazzesi, M. Priarolo, M. Sanna (edd.), L’eresia della libertà. Omaggio a Paolo Cristo-
folini, Pisa * P.-S. 1690, pp. dvi.
2008, pp. 53-63. Régis, Systèe de philosophie... Tome premier, Paris, Aux dépens d’Anisson, Posuel et Rigaud, 71-74. % 115:
6 Ivi, pp. 118, 123. 7 Ivi, pp. 113, 159.
NE con Descartes né con Malebranche
121
la sua metafisica: ci invita infatti a indicare col termine esprit la sostanza pensante considerata in se stessa e secondo il suo essere assoluto, e con quello di dame invece
il rapporto dell’esprit con il corpo organico cui è unita®. Nelle pagine successive appare chiara la portata di questa distinzione. L’unione tra l’anima e il corpo, infatti,
«consiste dans l’actuelle dépendance de toutes les pensées de l’âme de quelques mouvemens du corps, et de quelques mouvemens du corps de quelques pensées de Pâme»: la causa di questa unione è Dio e altrove Régis la definirà nettamente come arbitraria”. Ma che cosa implica la reciproca dipendenza dell'anima e del corpo per esercitare le loro funzioni? Già la scelta del vocabolo dépendance è significativa: Cordemoy, per esempio, parlava solo di rapports!®. Ogni dubbio viene
eliminato dalla spiegazione che segue la definizione: «Je dis en second lieu, De toutes les pensées de l'ame de quelques mouvemens du corps, pout signifier que l’esprit entant qu’il est uni avec le corps, ne peut avoir aucune maniere de penser, qui ne dépende de
quelque mouvement du corps»!!. Le pagine successive insistono su questa stretta interconnessione tra i movimenti del corpo e i pensieri dell’anima, escludendo di
fatto ogni attività pura di quest’ultima. Régis prende dunque nettamente posizione non solo contro Descartes, ma anche contro chi su questa strada lo ha seguito,
come La Forge e Cordemoy, e lo fa ricalcando tacitamente le tesi di Desgabets, cui
è debitore per molti aspetti della sua metafisica!?. Va però notato che neppure l’adesione a questo modello è totale: anche a prescindere dalle critiche che, come vedremo, saranno rivolte al benedettino nell’ Usage,
la distinzione tra l’esprit e l’âme permette a Régis di recuperare aspetti importanti della noetica cartesiana, che giocano un ruolo di primo piano nella sua polemica con Malebranche. In effetti, nell'uomo si intersecano diversi tipi di idee e di conoscenze: alcune hanno origine nella mente in quanto sostanza pensante, distinta dall’estensione, e quindi precedono per natura, sebbene non nel tempo, le idee che invece l’anima ha tramite l’unione con il corpo. Le conoscenze che la mente ha per sua natura riguardano se stessa e Dio; non è dato sapere se conosca anche il
8 Ibid. Contrariamente da quanto affermato da T.M. Schmaltz, Radical Cartesianism. The French Reception of Descartes, Cambridge 2002, p. 174, Régis non sembra essere preceduto in questo uso da Desgabets:
non solo non sono riuscita a reperire nell’opera del benedettino luoghi in cui sia esposta questa distinzione terminologica, ma la sua adozione contraddirebbe uno degli assunti di Desgabets (che Régis non condivide), ossia che l’anima umana sia per natura destinata all’unione con il corpo, come dimostra, sul
versante teologico, il dogma della resurrezione dei corpi. ° Régis, Systàze, cit., pp. 118, 120, 122.
x
i
1 G. de Cordemoy, Le Discernement du Corps et de l’Ame..., À Paris, chez Florentin Lambert, 1666,
p. 183.
"Régis, Systeme, cit., p. 123.
dun:
2] affinita tra Régis e Desgabets era stata segnalata da G. Rodis-Lewis, L'antbropologie cartesienne, Paris
1990, ma lo studio più completo ora disponibile è quello di Schmaltz, Radical Cartesianism, cit.
122
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo ’
x x
corpo!?. Queste idee, in quanto proprie della mente a prescindere dalla sua unione con il corpo, non sono collegate alle tracce del cervello; e la mente non può pensare senza avere l’idea di Dio! Che cosa succede quando un esprit viene unito a un corpo, ossia diventa un’ani-
ma? L’idea di Dio che la mente ha in quanto sostanza separata permane nell’anima, ma diventa oscura e confusa, perché mentre la mente poteva dedicare ad essa tutta
la sua attenzione, l’anima è continuamente presa dal flusso di sensazioni, immaginazioni e passioni che provengono dal corpo. È dunque necessario che l’anima sia indotta a rivolgerle la sua attenzione: ciò avviene quando una qualche impressione corporea la spinge a prenderla in esame, per esempio tramite un tuono improvviso, oppure semplicemente grazie al segno linguistico cui l’idea è stata collegata. L’idea di Dio propria dell'anima rimanda quindi a quella della mente, ma in essa si trova
anche una dipendenza dai movimenti del corpo”. Per usare il vocabolario di Régis, nel caso dell’idea di Dio gli oggetti sensibili agiscono come cause seconde, mentre Dio ne è al tempo stesso causa efficiente prima e causa esemplare!’ Se dunque Dio rimane la causa esemplare dell’idea che ne ha l’anima, non solo l’idea di Dio
propria della mente, ma anche quella dell'anima devono poter rappresentare l’infinità divina: in breve, Régis adotta una delle tesi di Descartes su cui più aspro era stato lo scontro con Gassendi, ossia la precedenza della conoscenza dell’infinito sul finito, e ritiene anche, con Descartes e contro Malebranche, che un modo finito
della mente possa rappresentare l’infinito!” Quanto alla conoscenza di se stessa, l’anima non può invece attingere all’idea di se stessa come esprit, o essere pensante, poiché, per conoscersi come anima, deve fare esperienza della sua unione con il corpo!. L'anima deve dunque conoscersi attraverso le idee e le sensazioni: anzi, a parlare propriamente, l’anima non conosce se stessa tramite un’idea, ma attraverso una percezione!”. Ma l’unione con il corpo non comporta solo un cambiamento delle modalità con cui la mente conosce Dio e se stessa: essa permette all’uomo anche delle acquisizioni. Régis sfrutta infatti la sua suddivisione tra la facoltà di concepire, che ci permette di conoscere tutto ciò che è spirituale, la facoltà di immaginare, il cui
© Régis, Systèze, cit., p. 164. !4 Ivi, p. 127; ma si vedano anche le pp. 160, 164, 192-193. !5 Ivi, pp. 160, 162, 193.
16 Ivi, pp. 169-170. ! Ivi, pp. 127, 146, 157-159, 193-196. Si veda anche Id., Reponse aux reflexions critiques de M. Du Hamel..., Paris, chez Jean Cusson, 1692, pp. 41-42, dedicate all’idea di Dio.
!8 Id., Systeme, cit., pp. 161-162, 194, 19 Ivi, PP: 161, 194; Id., Reponse aux reflexions critiques deM.Du Hamel, cit., p. 80; Id., Seconde replique de Mr. Regisa la Reponse du R. P. Malebranche, cit., p. 22.
Né con Descartes né con Malebranche
123
oggetto sono i corpi particolari, e la facoltà di sentire, che invece ci mostra i rapporti
che i corpi hanno con l’anima, per escludere che la conoscenza dell’estensione in generale possa derivare dalla facoltà di concepite o da quella di immaginare; ne consegue «que l’idée de l’étenduë précede dans l’ame, au-moins d’une priorité de nature, tous les sentimens et toutes les imaginations», in quanto è una proprietà
essenziale dell’anima”’. Come Régis preciserà qualche anno più tardi, nel corso della sua polemica con Malebranche, l’idea dell’estensione prodotta da Dio nell’anima nel momento in cui la unisce a un corpo può, al pari dell’idea di Dio, essere infinita
obiettivamente, ossia può rappresentare l’infinito pur essendo una modalità finita
dell’anima?!. Grazie al suo corpo, infine, l’anima riesce a conoscere i singoli corpi esterni e
gode di piaceri che altrimenti non avrebbe: il che spinge Régis a dire che l’unione tra l’anima e il corpo è il fondamento di tutti i beni naturali dell’uomo e che pertanto essa deve essere amata assolutamente e per se stessa??, Nell’ Usage de la raison et de la foy, pubblicato nel 1704, ossia a quasi quindici anni di distanza dal Systéme, alcuni elementi permangono immutati, ma anche al lettore
distratto non può non risultare evidente che Régis abbia deciso di riconoscere il proprio debito concettuale con Dom Robert Desgabets: sebbene le sue spiegazioni eucaristiche non vengano accettate e anche alcuni aspetti della sua concezione dell’unione tra l’anima e il corpo vengano rifiutati, fin dall’indice dell’opera è fatta menzione della teoria dell’indefettibilità delle sostanze, vero cuore metafisico del
pensiero del benedettino. A dire il vero, Régis sembra più che altro esplicitare e talvolta radicalizzare scelte filosofiche che però erano già presenti nel trattato precedente. Eppure alcuni cambiamenti, quasi insensibili, ci sono. Nell’ Usage la stratificazione tra l’esprif e l'âme, ad esempio, è meno evidente che nel Systéme. Nell’opera del 1690, infatti, la noetica si strutturava di fatto su tre piani: le idee appartenenti alla mente in quanto tale (Dio e se stessa); le idee derivanti immediatamente dall’unione con il corpo (idea dell’estensione); le idee derivanti dall'interazione con il corpo durante la vita (quelle dei corpi particolari). Nel 1704, invece, questa classificazione è più difficile da rintracciare nel testo: da un lato sappiamo che la mente conosce se stessa e Dio per natura, ma non il corpo; dall’altro ci viene detto che le idee innate
0 Id. Systéme, cit., pp. 157-158; ma si veda anche p. 126. 21 Id., Seconde replique de Mr. Regis à la Reponse du R. P. Malebranche..., Paris, chez Jean Cusson, 1694, p. 23. Il dibattito tra Malebranche e Régis sulla conoscenza dell’infinito e i suoi presupposti scolastici sono analizzati da Scribano, Foucher and the Dilemmas of Representation: a ‘Modern’ Problem?, in G. Paganini (ed.) The Return of Scepticism from Hobbes and Descartes to Bayle, Dordtecht-London-Boston 2003, pp. 197-212 7 (soprattutto alle pagine 206-212). 2 Régis, Systèzze, cit., pp. 128-129.
124.
L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo ’
K
x — sul significato di questo termine tornerò tra poco — sono quelle che l’anima ha grazie all’unione con il corpo (ossia le idee Dio, di se stessa e del corpo)”. La prima metà del testo tratta di ciò che attiene alla ragione, ma è quasi unicamente incentrata sull'uomo e sulle sue facoltà, il che porta in primo piano l’anima, lasciando sullo
sfondo le prerogative della mente. Tenuto conto di quel che emergeva gia dal Systeme, nell’ Usage risultano dunque non solo più evidenti i punti di conflitto con l’antropologia e con la noetica malebranchiana, ma anche le distanze con la precedente kozné cartesiana, rappresentata in primo luogo dagli scritti di La Forge. La mente appare nel primo capitolo: come nel Sys/éme, essa per natura conosce se stessa e Dio. Se consideriamo la mente umana in sé, dobbiamo ammettere che queste conoscenze prescindono dal corpo (che la mente umana non conosce) e precedono le altre: in modo abbastanza fedele a Descartes, la conoscenza del
pensiero perfetto (ossia di Dio) precede quella del pensiero imperfetto (ossia della mente stessa). Emerge in queste pagine una certa affinità tra la mente e gli angeli: entrambi sono pensiero di se stessi e di Dio. Altrove sarà inoltre evidente che gli angeli, come la mente, non sono soggetti al tempo e al luogo: Régis chiarirà poco oltre che tutte le sostanze sono esenti dalla durata, perché in esse non si può dare movimento, o successione, o differenza temporale*. Régis sente però immediatamente il bisogno di segnare il discrimine tra la mente umana e quella angelica, e lo fa segnalando che la mente umana è «instituée de la nature pour être unie à un corps organisé et ma d’une certaine maniere», il che non vale ovviamente per quella angelica. Nonostante le intenzioni dell’autore, in questo paragrafo ciò che risalta in primo piano sono la distanza da Tommaso (che Régis tenta in verità di dissimulare), e le affinità tra la mente umana e la mente angelica. Régis, infatti, ritiene che l’oggetto della mente umana considerata in se stessa sia, come nel caso di quella angelica, la sua essenza, e non il corpo, come voleva Tommaso, e che la differenza tra le due risieda solo nel fatto che la mente
umana è destinata all’unione con un corpo, mentre quella angelica no. Sebbene la mente umana sia istituita per essere unita al corpo, nulla in essa, se la consideriamo
in se stessa, può indicare che il suo destino sia proprio questa unione: quest’ultima è infatti meramente accidentale sia per la mente sia per il corpo e, in quanto tale, non può essere dedotta dalle idee della mente o del corpo”.
* Id., L'usage de la raison et de la foy, ou l'accord de la foy et de la raison, Paris, chez Jean Cusson, 1704, pp. 3-4, 26. * Ivi, pp. 1-3, ma vedi anche pp. 153-158 e 373-380, per le problematiche relative alla durata e agli esseri che ne sono soggetti. Schmaltz, Radical Cartesianism, cit., pp.167-212 ha strettamente connesso la definizione del tempo come durata, ossia come misurazione del moto, con il tema dell’unione dell’anima e del corpo e con la distinzione tra intelletto umano e intelletto angelico. » Régis, Usage, cit., p. 7; si veda anche p. 375.
Ne con Descartes né con Malebranche
Da questo momento
125
in poi, però, il quadro cambia radicalmente. Régis, in-
fatti, passa a considerare le proprietà dell’uomo, ossia del risultato dell’unione tra
l’anima e il corpo. L’inizio del capitolo successivo chiarisce subito che ora non si tratterà più delle proprietà dell’esprit considerato in se stesso (proprietà che perd riemergeranno nelle pagine dedicate allo stato delle anime dopo la morte), ma solo di quelle derivanti dall’unione dell’anima e del corpo. Un’unione che condiziona le modalità di conoscenza dell’anima molto più di quanto avvenisse in Descartes e nei suoi primi commentatori. Dal momento che l’unione non produce la capacità di pensare in quanto tale posseduta dall’anima, ma la sua capacità di pensare unita a un corpo, una volta che vi è stata congiunta l’anima non può prescindere da esso
per le sue conoscenze”. In questo senso, può essere del tutto legittimo sottoscrivere l’adagio peripatetico nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. Régis polemizza esplicitamente e nettamente con chi, tra i moderni, ritiene che esista un intelletto puro, in grado di conoscere indipendentemente dal corpo. L’intelletto, in realtà, è la facoltà capace di avere conoscenze generali; esse, lungi dall’essere indipendenti dai sensi,
sono un’astrazione dalle conoscenze particolari che i sensi ci forniscono”. Tutte le idee dell’uomo sono dunque derivate dai sensi, nessuna esclusa: Régis riconduce all’esperienza sensibile anche quelle che l’uomo ha della propria anima e di Dio. Régis afferma infatti che, quando percepiamo un oggetto, si producono contemporaneamente tre idee in noi: quella dell’oggetto stesso in quando causa esemplare della nostra percezione; quella dell'anima, in quanto causa materiale; quella di Dio in quanto causa efficiente. Solo la prima idea è chiara, mentre le altre due sono oscure, il che spiega perché non sempre gli uomini sono consapevoli di averle?. Tale precisazione ha lo scopo di preservare, contro Malebranche, la possibilità che un’anima finita possa conoscere un ente infinito tramite una modalità del suo intelletto, e nello stesso tempo rientra nella polemica più generale contro le cause occasionali. Sostenendo che gli oggetti sono cause esemplari delle nostre idee, infatti, ne deriva che esse non possono rappresentare un numero né maggiore né minore di perfezioni rispetto al loro oggetto: l’idea di Dio, quindi, pur essendo una modalità finita della nostra mente, deve poter rappresentare la sua infinità e la sua perfezione. Inoltre, distinguendo tra causa esemplare e causa efficiente, Régis mantiene agli oggetti mentali o corporei una capacità di azione sull’anima umana
che non sia solo morale o occasionale”.
26 Ivi, pp. 10, 27. 27 Ivi, p. 105.
8 Ivi, p. 26.
«io
2° Per queste tematiche si vedano Id., Usage, cit., pp. 10, 15-16, 25, 102-108 e Id., Systàze, cit., pp.
126
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo N
Senza mai rifiutare completamente le idee innate, Régis ne dà poi un’interpretazione del tutto particolare: lungi dall’essere proprie dell’intelletto puro, anch'esse dipendono dall’unione tra l’anima e il corpo e quindi dai sensi. Non sono pertanto create con l’anima, ma prodotte al momento
della sua unione con il corpo. La
differenza tra le idee innate e le idee acquisite non consiste nell’essere
o meno
dipendenti dai sensi, ma nell’essere o meno inseparabili dall'uomo, e dunque pre-
senti continuativamente (idee innate: quelle di Dio, dell'anima e del corpo) o successivamente (idee acquisite) nella sua anima”. Questa definizione di idea innata, in esplicita rottura con chi ne faceva un’idea creata con l’anima e indipendente dal corpo, impedisce a Régis di sottolineare la continuità tra le idee della mente e le idee dell’anima, come invece aveva fatto nel Systéme: difficilessostenere ora che l’idea di Dio che ha l’anima è la stessa di quella della mente, solo un po’ più oscura, perché
la prima dipende dal corpo, la seconda no. Nell’opera del 1704, quindi, le idee innate mantengono uno statuto diverso dalle altre solo perché presenti continuativamente all’uomo. Parallelamente, la capacità di rappresentare l’infinito propria di alcune idee
(quella di Dio e dell’estensione) nell’ Usage non deriva più tanto dalla precedenza dell’infinito sul finito, come cartesianamente voleva Régis nel Systéme, quanto dalla necessità che anche queste idee, come
tutte le altre, rappresentino fedelmente i
caratteri della loro causa esemplare. Per valutare appieno la soluzione data da Régis (e da Desgabets, che per molti versi aveva aperto la strada) al problema dell’unione dell’anima e del corpo e la gnoseologia che ne discende, è il caso di ricordare che eliminare ogni ruolo, almeno in vita, dell’intelletto puro, e riportare ogni conoscenza ai dati sensibili, elaborati
dall’astrazione, significa abbandonare il modello cartesiano per riassumere quello aristotelico con una nettezza che perfino l’ultimo Gassendi aveva evitato: nel Sytagma, infatti, di fatto le funzioni dell’intelletto proprie dell'anima immateriale rappresentano un duplicato di quelle dell’immaginazione, salvo che si svolgono senza l’ausilio delle specie corporee che invece l'immaginazione utilizza per formare gli universali”. Si tratta di una scelta del tutto consapevole: nello spiegare il suo uso dell’adagio peripatetico nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, Régis ne abbozza infatti una breve storia, accenna alle teorie peripatetiche sull’intelletto agente e sull’intelletto potenziale, elabora un parallelo tra questa distinzione e quella ‘moderna’
ae
contro le cause occasionali si vedano Id., Usage, cit., pp. 207-208 e Id., Système, cit., pp.
°° Id., Usage, cit., p. 20; ma si vedano anche le pp. 21, 26, 108.
* P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera Omnia, Lugduni, sumptibus L. Annisson et J.-B. Devenet, 1658 (ed. anastatica a cura di T. Gregory, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964), vol. II, pp. 422b, 440, 441b, 446b-454b. Su questo tema si veda B. Brundell, Pierre Gassendi. From Aristotelianism to a New Natural Philosophy, Dordrecht-Boston-Lancaster-Tokyo 1987, pp. 85 e 95-96.
Né con Descartes né con Malebranche
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tra immaginazione e intelletto puro, e si dice alla fin fine più favorevole alle scelte
degli antichi che, seppure intricate e oscure, sono suscettibili di un’interpretazione ragionevole, mentre quelle dei moderni non hanno alcun fondamento™.
Se tra il Systéme e l Usage è possibile rintracciare qualche mutamento di accenti a proposito della noetica, il più grande accordo regna tra queste due opere quando si passa a esaminare i capitoli dedicati allo stato delle anime dopo la morte, quelli in cui emerge con maggiore chiarezza quali siano prerogative della mente umana, considerata al di fuori del suo rapporto con il corpo. L’ Usage si limita nella maggior parte dei casi a riprendere alla lettera quanto scritto nell’opera precedente, con
poche eccezioni. Una premessa: l’audacia delle proposizioni di Régis si giustifica solo tenendo conto della sua netta separazione tra la ragione e la fede®. L’oggetto della sua indagine è quel che potranno fare naturalmente le nostre anime dopo la morte, non quel che la volontà divina vorrà concedere o ha già concesso loro. Di conseguenza, tutto ciò che leggiamo nelle Scritture sulla loro capacità di conoscere le altre anime separate, di comunicare con loro, di muovere i corpi e di ingannare i nostri sensi non contraddice quanto da lui affermato, perché dipende da un dono
divino; pur essendo per noi incomprensibile come ciò accada, lo dobbiamo credere
in quanto rivelato”. Se ci atteniamo alla natura della mente, invece, le conclusioni sono molto
diverse. Certo, l’anima è immortale. Ma anche questa affermazione va analizzata attentamente. Ciò che è immortale, perché sostanza, è la mente considerata in se stessa, non l’anima in quanto unita al corpo: nel fare l’elenco delle cose che vengono distrutte dalla morte Régis non esita a nominare anche l’uomo, inteso come composto di mente e corpo, e l’anima, in quanto rapporto tra mente e corpo”. Come l’estensione, attributo essenziale del corpo, non si corrompe mai, benché i singoli corpi si dissolvano, così il pensiero, attributo essenziale dell’espr, non si può corrompere, ma i modi che lo fanno essere un’anima di un certo uomo in particolare, vengono invece distrutti quando cessa l’unione tra l’anima e il corpo”. Questo passo, modificato poi nell’ Usage, risulta alquanto sospetto: Régis ci sta dicendo che ciò che rende le anime individuali, ossia ciò che rende questa anima «l’ame ® Régis, Usage, cit., pp. 105-107. # Su questi temi si veda Schmaltz, French Cartesianism in context: the Paris Formulary and Regis's Usage, in Schmaltz (ed.), Reception of Descartes. Cartesianism in Early Modern Europe, London-New York 2005, pp. 80-95. # Régis, Systéme, cit., p. 269; Id., Usage, cit., pp. 215-216.
3 Id., % Ivi, riducono all’anima 37 Id.,
Usage, cit., pp. 212-214.
i
p. 216. Si noti peraltro che le argomentazioni di Régis a favore dell’immortalità dell'anima si essenzialmente a quelle che militano per l’indefettibilità delle sostanze, si applicano quindi in quanto sostanza, ossia all’espri/, e non all'anima in quanto unita al corpo: ivi, pp. 158-160. Système, cit., pp. 266-267.
128.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo
n
de Pierre, de Paul, de Jean, etc.», non resiste alla morte. Sì aggiunga che più avanti
polemizzerà apertamente con chi pensa che permanga una memoria intellettuale nelle anime separate e sosterrà che le anime separate, in quanto sostanze, sono totalmente sottratte al fluire del tempo, il che esclude un susseguirsi di pensieri e azioni. Certo, Régis parla sempre di anime separate al plurale, ma il lettore non può fare a meno di avere l’impressione che ci sia un ritorno alle teorie che concedevano l’immortalità solo all’intelletto agente, che insomma con la morte l’anima individuale
si dissolva in una sostanza pensante unica e indifferenziata. Una conferma indiretta di questo sospetto ci può essere fornita dalle precisazioni sulla differenziazione delle sostanze che Régis è costretto a dare nella Aéfutation de l'opinion de Spinosa che segue I’ Usage, per confutare la dimostrazione spinoziana che fa di Dio l’unica sostanza esistente. Régis contesta l’uso spinoziano del termine di attributo, rifacendosi a distinzioni di origine scolastica. Se si tiene presente che le sostanze possono avere attributi generici, specifici e numerici, ne dobbiamo infatti
trarre la conseguenza che ci possono essere più sostanze con lo stesso attributo generico (come è il caso del corpo e dell’espri/), o specifico (come è il caso di due uomini diversi, Pietro e Paolo), ma non più sostanze con lo stesso attributo numerico. Sembrerebbe quindi in prima istanza che questa affermazione di Régis autorizzi a pensare che la sostanza spirituale possa essere suddivisa in diverse sostanze che differiscono per attributo numerico, come avviene per l’estensione con i corpi. Ma
poche pagine dopo questa conclusione viene rifiutata: Régis accetta infatti proprio per la sostanza spirituale l'affermazione spinoziana che non esista un attributo grazie al quale possa essere divisa. Parlando rigorosamente, lo stesso si dovrebbe dire dell’estensione in quanto sostanza, ma in quest’ultimo caso, grazie alla quantità, possiamo affermare che le parti dell’estensione differiscono per attributo numerico,
dal momento che la quantità è divisibile e figurabile®. Régis, dunque, nei suoi testi ci fornisce esempi di distinzione che coinvolgano anche l’esprf solo quando questo è unito a un corpo, ossia è un’anima; respinge le discussioni scolastiche sulla differenziazione tra gli angeli per specie o per numero come insensate” ci dice infine che proprio a proposito della sostanza spirituale accetta senza alcuna restrizione la conclusione spinoziana che non possano esistere più sostanze con lo stesso attributo. Applicato alla sorte dell’anima umana dopo la morte, tutto ciò conferma l'impressione che per Régis si dissolva ogni tipo di identità individuale una volta distrutto il legame con il corpo, ciò che dava all'anima
88 Id., Réfutation de l'opinion de Spinosa touchant l'existence, et la nature de Dieu, in Usage, cit., pp. 490-492.
°° Ivi, pp. 496-497. Régis ha già chiarito in un precedente capitolo dell’ Usage, in che senso si pos
parlare di divisibilità dell’estensione: ivi, pp. 139-142. 4° Ivi, pp. 374-375.
Neé con Descartes né con Malebranche
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la sua essenza di modo. A distanziarlo dalla concezione spinoziana dell’eternità della mente rimane però il fatto che l’anima non potrebbe mai essere definita un’idea
del corpo: abbiamo infatti visto che l’esprit umano conosce solo se stesso e Dio, e non il corpo". Una volta riconosciuta all'anima, o piuttosto alla mente, una forma di immor-
talità, la tacita polemica con La Forge prende il sopravvento nelle pagine successive. Con la dissoluzione del suo rapporto con il corpo, l’anima sarà privata non solo dell'intelletto, così come lo intende Régis (capacità di sentire, immaginare, concepire, ricordare e avere delle passioni), ma anche della volontà, così come la intendiamo abitualmente, in quanto la volontà si applica a oggetti dell’intelletto. Senza
il corpo, l’anima separata non potrà nemmeno parlare, il che elimina ogni forma di comunicazione tra le anime; la comunicazione diretta dei pensieri, ipotizzata da
La Forge e prevista da Cordemoy è impossibile per l'assenza della volontà*?. Allo stesso modo, è esclusa ogni possibilità non solo di muovere i corpi, ma perfino
di conoscerli, visto che la conoscenza delle cose materiali prevede l’uso dei sensi
e dell’immaginazione*. Infine, l'assenza dopo la morte di tutte le facoltà di cui l’anima era dotata durante lo stato di unione con il corpo è confermata dal fatto che esse, se perma-
nessero, sarebbero nell’impossibilità di agire: l’anima non può determinarsi da sola, perché ogni cambiamento deriva da una causa esterna; non può essere determinata da Dio, che usa le cause seconde per produrre dei modi; non può esserlo ovviamente dai corpi, con cui non può avere nessun rapporto;
e nemmeno
dalle altre
4! Questi passi sono stati oggetto di un’interpretazione divergente: T.M. Lennon 7he Problem of Individuation among the Cartesians, in K.F. Barker e J.J. E. Garcia, /ndividuation and Identity in Early Modern Philosophy: Descartes to Kant, Albany 1994, pp. 13-39, li usa per sostenere che le menti individuali sono modi di una stessa sostanza e suggerisce che Régis anticipa Hume nel far consistere la mente solo nella successione dei suoi pensieri; Schmaltz, Radical Cartesianism, cit., pp. 210-212 contesta entrambe
le affermazioni, cita alcuni passi della Réfutation de l'opinion de Spinosa per argomentare che Régis fa delle anime individuali delle sostanze numericamente distinte le une dalle altre, ma poi ricorda che altrove invece le singole anime sono definite come dei modi della sostanza spirituale. Mi sembra che mentre Schmaltz abbia ragione a ricordare che le anime, come tutti i modi spirituali e corporei, hanno una loro
propria essenza che differisce dalla semplice somma dei loro stati successivi e che li identifica come modi, egli sottovaluti invece il problema posto dalla distinzione tra l'esprit e l'âme. È infatti molto chiaro che l’essenza modale di una certa anima consiste nell’essere unita a un certo corpo, come afferma esplicitamente Régis, ma molto meno evidente è che cosa rimanga di questa essenza una volta finito in rapporto con il corpo. In fondo la stessa domanda può porsi per gli angeli: Régis non ci fornisce motivazioni filosofiche in grado di spiegare la loro differenziazione, che anzi è esplicitamente classificata come incomprensibile per la ragione.
‘ G. de Cordemoy, Discorso fisico della parola. Con la Lettera a G. Cossart S. J., a cura di E. Lojacono,
Roma 2006, pp. 183, 191-195 (pp. 316-317, 330-336 per originale francese); L. de La Forge, Traitté de l'esprit de l’homme..., Amsterdam, chez Abraham Wolfgang, s.d., pp. 420-421.
* Régis, Systime, cit., pp. 267-268; Id., Usage, cit., pp. 214-215.
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo I)
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anime, che potrebbero agire l’una sull’altra solo se esistesse tra loro una forma di unione. Oltre a confermare l’immutabilità dell'anima separata, questo passo ha
come evidente conclusione che la ragione umana non possa comprendere come Dio o gli angeli possano rivelare delle conoscenze alle anime separate: lo stato di gloria, quindi è accettato per fede, ma è inconcepibile. L'anima dopo la morte è dunque unicamente pensiero di se stessa e di Dio‘; nessuna di queste due conoscenze, però, dà accesso agli enti creati esterni all'anima: è come se il percorso di
astrazione dal corpo e da tutto ciò che può essere messo in dubbio, attuato nelle Meditationes, si blocchi dopo essere arrivati al cogifo e all’idea di Dio. Un’idea che ce lo fa conoscere come essere sommamente perfetto e infinito, ma che non ci mostra
in alcun modo le idee-archetipo di enti possibili in esso: contenute, né tanto meno
quali siano gli enti realmente esistenti”. Che la mente umana, considerata in sé, abbia molte caratteristiche in comune
con la mente angelica, almeno a stare a quanto ci è possibile comprendere con la ragione, risulta evidente da un capitolo dell’ Usage, dedicato appunto agli angeli.
Gli angeli non hanno rapporto con il luogo e non sono soggetti al movimento; la ragione non può dimostrare che essi si differenzino tra di loro: il parallelo con le anime separate è esplicito”. Se invece passiamo alle conoscenze di cui dispone un angelo, si notano alcune
differenze rispetto alla mente umana: l'angelo non solo conosce se stesso e Dio, ma anche le altre menti e i corpi; tutto ciò, però sempre senza alcuna successione, tempo e movimento. Ogni discussione sulla conoscenza angelica che riguardi le cose passate e future o i pensieri nascosti dei cuori, o ancora il suo carattere discorsivo, nonché la possibilità che gli angeli si prendano cura di singoli uomini o di entità
collettive, non ha quindi ragione di essere'*: mentre nel caso della conoscenza delle menti umane Régis aveva cercato di dissimulare la distanza della sua posizione con quella di Tommaso, in questo capitolo il dissenso è palese. Poiché anche per gli angeli, come per le menti separate, viene esclusa ogni possibilità di avere rapporti con i corpi, prive di senso sono anche le discussioni sulla loro capacità di apparire
4 Id., Systàze, cit., pp. 268-269; Id., Usage, cit., pu2i5i
© Id., Systeme, cit., p. 269; Id., Usage, cit., p. 216. * Régis, del resto, difficilmente avrebbe potuto parlare di idee divine come archetipo delle essenze create, dal momento che fa propria, seppure con alcune modificazioni, la teoria cartesiana della crea-
zione delle verità eterne: su questo tema si veda Scribano, Da Descartes a Spinoza. Percorsi nella teologia razionale del Seicento, Milano 1988, pp. 92-100, G. Canziani, L'onnipotenza divina in Pierre-Sylvain Regis, in
Canziani, M.A. Granada, Y.-C. Zarka (edd.), Potentia Dei. L'onnipotenza divina nel pensiero dei secoli XVI e XVI, Milano 2000, pp. 561-588, G. Gasparri, Le grand paradoxe de.M. Descartes. La teoria cartesiana delle
verità eterne nell'Europa del XVII secolo, Firenze 2007, pp. 178-188. 4 Régis, Usage, cit., p. 375.
4 Ivi, pp. 376-377, 378-379, 380.
Né con Descartes né con Malebranche
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agli uomini e di parlare tra di loro o con gli uomini”. Il quadro finale, dunque,
contrappone con particolare nettezza le verità di fede e quelle di ragione: Régis tuttavia non solo si premura in ogni occasione di ribadire che le verità di fede vanno credute, sebbene inconcepibili per noi, ma anche che questa inconcepibilità non implica che le verità di fede contraddicano le verità di ragione. L’ Usage adotta infatti la distinzione tra ciò che è superiore e ciò che è contraddittorio con la ragione”. La critica, come ho già ricordato, ha più volte sottolineato la parentela tra le tesi di Régis e quelle di Desgabets. Bisogna però aggiungere che nell’ Usage vi è pure una polemica aperta, anche se il nome del benedettino non è fatto esplicitamente". Sebbene Régis concordi con lui sulla tesi di fondo riguardo all’unione tra anima e corpo, non per questo è disposto ad accettare che, considerata in se stessa a pre-
scindere dal rapporto con il corpo, la mente umana mostri i segni dell’inevitabilità di questa unione, al punto che questa non possa in alcun modo essere definita come un prodotto della volontà di Dio, in quanto tale arbitrario. Insomma, Régis tiene a ribadire quel che Descartes aveva stabilito, ossia che la mente, essendo sostanza del
tutto separata e distinta dal corpo, non mostra alcun bisogno intrinseco di essere a lui unita: il rischio è che, altrimenti, non si possa più dimostrare l’immortalità dell'anima”. A questo dissenso semi-esplicito, vanno aggiunti altri due elementi. In primo luogo, la distinzione tra la mente e l’anima permette a Régis, come ab-
biamo visto, di recuperare alcuni elementi propri della noetica che da Descartes conduceva a La Forge e Cordemoy, attribuendoli alla mente, elementi che invece Desgabets aveva definitivamente perso. Dotando di un proprio statuto la mente in quanto distinta dall'anima, Régis non sentiva nemmeno il bisogno di utilizzare il dogma della resurrezione dei corpi per dimostrare che lo stato normale, e in un certo senso inevitabile, della mente umana è quello di essere unita a un corpo”. Infine, fare dell'anima e dell’uomo non delle sostanze, ma dei modi realmente esi-
stenti introduce una rottura non solo con la tradizione scolastica e con la dogmatica cattolica che, dal Concilio di Vienne, definiva l’anima come la forma del corpo, ma anche con Descartes che questa tradizione aveva adottato, facendo dell’anima
# Ivi, pp. 377, 379-380. | 50 Ivi, pp. 311-314. 5! Régis cita alla lettera Desgabets, in particolare il suo Traité de l'indifectibilité des créatures: si vedano le Œuvres philosophiques inédites, introduzione di G. Rodis-Lewis, testo stabilito e annotato da J. Beaude,
Amsterdam 1983, pp. 130, 131, 132; questi passi ritornano anche nel trattato De l'union de l'âme au corps,
ivi, pp. 292, 293, 294-295. 5° Régis, Usage, cit., pp. 209-212. 5 Per questo tema negli scritti di R. Desgabets si vedano Critique de la Critique de la Recherche de la
vérité..., Paris, chez Jean Du Puis, 1675, pp. 56-57, 67, 88-132, 167; Id., Suppliment à la phshéaphisde M.
Descartes, in Œuvres philosophiques inédites, cit., pp. 176, 181-188, 191, 193, 284;Id., De l'union de l'âme et du corps, cit., pp. 289-300.
132
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo % x
l’unica forma sostanziale presente nella sua filosofia, e perfino con Gassendi che
questa formula riprendeva nel Syrfggma. Ancora una volta, questa scelta di Régis si allontana da quella compiuta da Desgabets, che invece nei suoi scritti parla a più riprese dell’anima umana come di una sostanza, mentre invece richiama almeno lontanamente quella compiuta da Regius, che faceva dell’uomo un ens per accidens,
suscitando le ire di Descartes”. Che conclusioni trarre da questo lungo periplo tra i testi di Régis? La sua posizione sembra originale sotto due aspetti. In primo luogo, perché la sua visione di che cosa sia il rapporto tra l’anima e il corpo lo induce a descrivere uno stato delle menti dopo la morte molto lontano da quello tradizionale. Le loro conoscenze,
lungi dall’aumentare grazie alla rimozione dell’ostacolò che il corpo frapponeva alle attività intellettuali, di fatto diminuiscono, perché si limitano alla conoscenza
di se stesse e di Dio. Non entrano in nessun modo in rapporto con altre anime separate né con gli angeli; non interagiscono con i corpi; non mantengono il ricordo della loro vita passata; molto probabilmente perdono ogni tipo di identità personale. Conoscere Dio per loro significa semplicemente avere un’idea chiara e distinta, anche se non completa, di un ente infinito e perfetto. Niente idee innate delle cose materiali: la separazione di pensiero ed estensione ha l’effetto di limitare le conoscenze della mente pura a ciò che può derivare da se stessa come essere spirituale, ossia l’idea del pensiero e quella del creatore di questo pensiero. Non
solo la conoscenza della anime separate sembra molto più ristretta, sebbene non più imperfetta, di quella che è possibile raggiungere in vita, ma essa si distingue in
questo da quella dell’angelo, sebbene le sia affine. Perché invece l'angelo conosce le altre menti separate e conosce i corpi. In secondo luogo, il modello elaborato da Régis, pur avendo caratteri in comune con quello di Descartes, se ne allontana, senza però propendere per quello alternativo, ossia quello malebranchiano. Affinità e divergenze giocano su piani distinti. In primo luogo, se prendiamo l’esito finale esposto nell’ Usage, la conoscenza propriamente umana è totalmente differente da quella angelica, in quanto dipende dal corpo e dall’esperienza sensibile. Questo tipo di cambiamento dell'impostazione cartesiana non poteva però sfociare in un’adesione al malebranchismo, in cui il rifiuto di subordinare l’intelletto ai sensi era altrettanto radicale che
% Per la posizione di Descartes, si vedano le Quartae responsiones, in AT IV, 227-228 e le lettere À Regius,
mi-décembre 1641, in AT IMI. 460-461, A Regis, fin janvier 1642, in AT III, 492-493, 503, 507-509,A Mesland, 9 février 1645, in AT IV, 166-168; Regius aveva esposto la sua Opinione in H. Regius, Physio/ogia seu cognitio sanitatis. .., Ultrajecti, Aegidius Romanus, 1641, III, 9. Gassendi affronta questo problema nel
Syntagma philosophicum, cit., vol. I, p. 466b e vol. II, p. 440a. Infine, Desgabets definisce l’anima come una sostanza nel Traité de l'indéfectibililté des créatures, cit., p. 69; ne Le guide de la raison naturelle, in Œuvres philosophiques inédites, cit., p. 130; e nel De l'union de l'âme au corps, cit,p.292.
Né con Descartes né con
Malebranche
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in Descartes. Tuttavia, distinguendo tra lesprit e l'âme, Régis recupera uno spazio
almeno parziale all’angelismo cartesiano: la mente conosce per sua natura Dio e se stessa, esattamente come avviene per gli angeli. Non solo questa conoscenza prescinde dai sensi (Régis tuttavia non afferma mai espressamente che si tratti di idee innate, anzi nell’ Usage le idee innate sono proprie dell’anima nel momento in cui viene unita la corpo), ma la mente ha anche un’idea chiara e distinta di Dio, ossia una rappresentazione finita dell’infinito: la divergenza con Malebranche, che
sul rifiuto di questa eredità cartesiana costruisce la teoria della visione in Dio, è netta. L’analogia con Descartes però finisce qui: la mente non ha idee di altri enti che non siano se stessa e Dio; non conosce quindi né gli altri esseri spirituali né i corpi. E, soprattutto, esercita queste sue conoscenze solo dopo la morte: quando
il suo stato naturale non assomiglierà in nulla, fatto salvo l'intervento della grazia divina, a quello dei beati e alla loro conoscenza partecipativa di Dio. È come se Régis avesse usato il modello angelico di conoscenza, che Descartes aveva applicato
all’uomo, per riservarlo alle anime separate, per di più depotenziandolo.
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Thomas Hobbes e la questione dell'umanesimo di Gianni Paganini
Porre la questione dell’umanesimo può avere tutte le apparenze del paradosso nel caso di un autore come Hobbes, che scrisse un De homine ma non volle mai dare una definizione teorica dell’umanità, che praticò al massimo livello gli studia humanitatis, unico tra i grandi filosofi a tradurre in buon latino classici come Tucidide e Omero, ma che d’altra parte sferrò un attacco in piena regola agli ideali del civis classico e rinascimentale, sino a dire che, per gli effetti sediziosi e il «grande spar-
gimento di sangue», «niente fu mai pagato tanto a caro prezzo, quanto queste parti occidentali hanno pagato l'apprendimento delle lingue greca e latina»'. In effetti, lo svolgimento del tema richiede alcuni passaggi che chiariranno meglio il senso, i
limiti e la novità dell’umanesimo hobbesiano. In primo luogo, vedremo come esso prenda le distanze dall’immagine classica della dignitas hominis e dalle sue implicazioni antropocentriche, tanto che la sua posizione potrebbe essere inscritta nel campo di quel che è stato definito il ‘Contro-Rinascimento” ($$ 1-2). In questa critica e nella delineazione di un'immagine più modesta dell’antropologia, Hobbes si è valso di indagini maturate nell’ambito della tradizione scettica e delle sue classiche tropologie che accostavano e raffrontavano dotazioni umane e psicologia animale ($ 3). Questa moderazione critica non gli impedì tuttavia di recuperare nel Leviathan un elemento centrale dell’impostazione umanistica, già presente nel socratico ‘conosci
! Th. Hobbes, Leviathan, XXI (ed. C. B. Macpherson, Harmondsworth 1968: il primo numero di pagina rinvia all’edizione originale del 1651, il secondo a questa edizione). Citiamo inoltre dalla tr. it., a cura di A. Pacchi, Roma-Bari 1989. Per questa citazione: testo inglese, p. 111/267; tr. it., p. 180.
2 Ci riferiamo alla tesi sostenuta nel libro tanto celebre quanto controverso di H. Haydn, The CounterRenaissance, New York 1960 (tr. it., Bologna 1967), ove peraltro Hobbes occupa una posizione marginale. Più che altro, compare come riferimento per i prodromi e l'affermazione del celebre «homo homini
lupus» (tr. it., pp. 609-38). Recentemente, la categoria storiografia di ‘contro-rinascimento’ è stata riesaminata da M. Ciliberto, Rinascimento e Controrinascimento, in Id.; Figure in chiaroscuro. Filosofia e storiografia nel Novecento, Roma 2001.
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’ Illuminismo ’
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N quella di Montaigne e da diversa profondamente lettura te stesso’, e di darne una cuore umano» con del quell’«alfabeto di base la farne per dell’umanesimo scettico, cui «decifrare» il linguaggio della politica mediante una «chiave» opportuna ($ 4). Muovendo da questa base di introspezione, Hobbes delineò, su basi empiriche, una nuova concezione della specificità e, entro certi limiti, del «privilegio» della condizione umana, ritrovandone le molle decisive nella passione della «curiosità» e nell’esercizio dell’ «industria». Queste due nozioni cardinali, insieme all’uso del
linguaggio, gli permisero di seguire la costruzione genetica della «ragione» umana, senza indicarne il fondamento in qualche «essenza» o facoltà innata ($ 5). Il valore di questa scoperta è tale che il Leviathan riprende alcuni temi caratteristici dell’esaltazione ermetica dell’uomo, per trasferirli però dalla condizione naturale
(in cui l’uomo è «lupo» all’uomo) a quella artificiale della politica, ove si realizza la figura del «dio mortale» e ove l’uomo può essere veramente «dio all’altro uomo». Si può dire che, ben lungi dall’essere un mero effetto del meccanicismo, la creazione
dell’uomo artificiale dipinta all’inizio del Leviathan traduce sul piano della politica l'ideale ficiniano della creatività intesa come retaggio insieme umano e divino del politico ($ 6). Infine, questo complesso intreccio di elementi anti-umanistici ed iper-umanistici trova una sua coerenza quando si pensi l’opera hobbesiana come
il superamento dell’ umanesimo rinascimentale nella direzione di un nuovo tipo di umanesimo, tecnico e costruttivistico, ma non per quésto meno consapevole della specificità dell’uomo, concepita in termini operativi e non più essenzialistici.
1. L'esperienza di ciò che fanno bambini, pazzi, idioti e bestie»: Hobbes critico dell umanesimo classico Se è giusta la definizione di Trevor-Roper secondo la quale l’anglicanesimo di tendenza arminiana e laudiana assicurò in Inghilterra la continuità degli ideali religiosi umanistici ed erasmiani’, non è sorprendente che proprio nella sua polemica con il vescovo Bramhall, ecclesiastico appunto di simpatie arminiane, Hobbes non solo abbia affrontato i temi della libertà e della necessità del volere‘, ma più in generale si sia preoccupato di definire la sua posizione nei confronti della concezione classico? Cfr. H. Trevor-Roper, Religion, the Reformation and Social Change, London 1967 (tr. it. di L. Trevisani, Protestantesimo e trasformazione sociale, Roma-Bari 1969); Id., Catholics, Anglicans and Puritans: seventeenth century essays, London 1987. * Su questo tema sono invece incentrate le due monografie di]. ‘Overhoff, Hobbes’s Theory of the Will. Ideological Reasons and Historical Circumstances, Lanham 2000 (qualche riferimento all’umanesimo politico tacitiano, di cui Hobbes si sarebbe nutrito, a pp. 89-95); D. van der Mill, Liberty, Rationality, and Agency in Hobbes’s Leviathan, Albany 2001.
Thomas Hobbes e la questione dell'umanesimo
137
umanistica dell’uomo. In effetti, i due scritti Of Liberty and Necessity e poi le Questions concerning Liberty, Necessity, and Chance contengono una puntuale demolizione critica del paradigma umanistico, investendone quei pilastri che si erano mantenuti saldi nel corso di due secoli. Com'è noto, il comune denominatore più significativo di
questo paradigma consiste nel tema centrale della dignitas hominis e non è un caso che molte delle reazioni scandalizzate di Bramhall contengano l'accusa, implicita o esplicita, di sostenere dottrine che sono incompatibili con la «dignità» del soggetto, o che comunque la minacciano più o meno direttamente. Anche se i presupposti del vescovo di Londonderry sono di tipo aristotelico-scolastico più che platonicoficiniano, la posta in gioco della discussione è la salvaguardia o meno del caratte-
re centrale e speciale dell’azione umana rispetto all’agire di altri viventi. Bramhall rimprovera a Hobbes di annullare con il suo approccio le distinzioni stabilite nelle «Scuole», tra atti «violenti» e atti «naturali», tra «atti volontari e spontanei», che procedono «da un principio interno», e atti «liberi» i quali, oltre a provenire «da
una causa interna» e non esteriore, richiedono altresì una «conoscenza più perfetta del fine» e pertanto «sono scelti su deliberazione»). Rispetto a queste classiche categorie aristoteliche, ricavate prevalentemente dall’ Erica nicomachea, la psicologia meccanicistica infrangeva tutte le gerarchie assiologiche tra differenti principi dell’azione. Propriamente Hobbes ne riconosceva uno solo: la trasmissione di movimento dall’esterno, da parte dell’oggetto sensibile, e la reazione in termini di conatus delle parti interne del senziente. Entro questo schema rigorosamente causale, dominato dalla causa materiale e da quella efficiente’, perdevano di significato le distinzioni aristoteliche, direttamente orientate ad attribuire al volere umano una superiore dignità rispetto alla semplice spontaneità, che si ritrova anche negli animali, nei bambini, nei pazzi e negli irresponsabili. Hobbes, infatti, non traccia un chiaro discrimine tra le azioni spontanee, come quelle motivate dalle passioni (l’ira, la paura), e le azioni libere, che secondo la teoria scolastica implicavano invece un processo preliminare di deliberazione tipico ed esclusivo dell’agente umano. In realtà, sia le une sia le altre «seguono immediatamente l’ultimo appetito». L’unica differenza risiede in una peculiarità del meccanismo causale,
5 Hobbes, The Questions Concerning Liberty, Necessity, and Chance (LNC), in Id., English Works, a cara di G. Molesworth, 1839-45, vol. V, p. 84 (tr. it. parziale in Id., Libertà e necessità. Questioni relative a liberta, necessità e caso, a cura di A. Longega, Milano 2000, p. 135). Per la definizione di deliberazione si veda
anche Id., Of Liberty and Necessity (LN), in Id., English Works, cit., vol. IV, p. 273 (tr. it: p. 109). 6 Che anche nel caso della volontà la causalità agisca dall’esterno è ribadito in LN, p. 274 (tr. it: pp. 111-12): «penso che nessuna cosa tragga inizio da se stessa, bensì dall’azione di qualche altro agente immediatamente fuori da sé. E che quindi, non appena un uomo abbia un appeñifo o una volontà verso qualcosa che prima non aveva, la causa della sua volontà non è lavolontà stessa, ma qualcos altro che non
è in suo potere».
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che non è tale però da richiedere una diversa dignità morale delle une rispetto alle altre: nel caso di un’azione preceduta da deliberazione si ha infatti un’alternanza di appetiti diversi, l’ultimo dei quali determina il volere, mentre nel caso dell’azione
«spontanea» che segue direttamente l’impulso passionale, «c’è un unico appetito, e questo è l’ultimo»”. À Bramhall, che aveva ribadito la classica definizione di «atto
libero» come quello che «deriva dalla libera scelta della volontà razionale dopo la deliberazione», Hobbes risponde negando il concetto stesso di orexis che da Aristotele in poi stava alla base di quella definizione: il mio «errore», sottolineava ironicamente il filosofo, «consiste in questo, che non distinguo nello stesso uomo,
tra una Le rarchia Hobbes
volontà razionale e un appetito sensibile». conseguenze non sono meno importanti del principio e investono la gemorale tra diversi tipi di azione che su quella distinzione era imperniata. indulge infatti ad accenti di spregiudicato anticonformismo nell’enunciare
tutte le conseguenze della sua presa di posizione, come se deliberatamente volesse
urtare la sensibilità umanistica del suo interlocutore. Dichiara così che la volontà nell’uomo e nella bestia sono «a stessa cosa», giacché anche gli animali, come gli uomini, «deliberano», sono cioè sottoposti all’alternanza degli appetiti che precedono il volere. Neppure all’interno della sfera umana vale il criterio discriminatorio basato sulla peculiarità dell’orexzs, giacché anche negli uomini «voluttuosi», dunque non razionali secondo le categorie dell Æ#ca nicomachea, il processo deliberativo è qualitativamente simile a quello degli «uomini saggi». È la stessa definizione dell’uomo quale animale razionale ad essere messa in discussione da Hobbes: «E se fosse concesso che la deliberazione è sempre (come non è) razionale, non ci sarebbe alcun motivo di chiamare razionale l’uomo più delle bestie. Infatti è reso evidente
da una continua esperienza che le bestie deliberano»'® Si noti che nel primo scritto, quello con il quale si apre la disputa, e cioè il trattato indirizzato al marchese di Newcastle, Hobbes aveva menzionato l’argomento con il quale il vescovo aveva reagito all’assimilazione di azioni spontanee ed azioni volontarie, per opporgli il fatto, peraltro da lui negato per garantire la validità dei patti sottoscritti sotto la spinta della paura, che necessità e scelta non possono coesistere. Bramhall era rimasto colpito dalla circostanza che Hobbes portasse ad esempio della sua teoria dell’agire proprio quei casi marginali che la filosofia aveva considerato come situazioni estreme e non significative della vera libertà umana, 7 LNC, p. 345 (tr. it: * LNG, p. 363 (tr. it: ° LNC, p. 365 (tr. it: damenti empiristici della
p. 157). p. 181). p. 183). Per una discussione più ampia del carattere meccanicistico e dei fonpsicologia hobbesiana, sia consentito rinviare al nostro studio: Hobbes, Gassendi
e la psicologia del meccanicismo, in Pacchi (ed.), Hobbes oggi, Milano 1990, pp. 351-446.
MLNG, 5365 (tr. it, p. 185):
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e cioè «le azioni dei bambini, degli idioti o delle bestie allo stato selvaggio, le cui immaginazioni sono necessitate e determinate ad una sola alternativa». Anche in questo caso Bramhall rimprovera a Hobbes di confondere ciò che caratterizza l’«agente libero» con quanto descrive invece l’«agire spontaneo». Ma è altrettanto significativo che, invece di respingere gli esempi paradossali evocati da Bramhall, Hobbes raccolga la provocazione e li faccia propri, assumendoli come conferme della teoria. A pa-
role nega di voler basare la sua risposta «sull’esperienza di ciò che fanno bambini, pazzi, idioti e bestiey'', ma di fatto utilizza proprio quei casi anomali ed eccentrici rispetto al paradigma «normale» dell’uomo razionale per attuare un vero e proprio
tour de force polemico: vuole dimostrare che le frontiere tracciate dalla tradizione classico-umanistica sono di fatto cancellate in una dottrina, come la sua, che unisce elezione, da una parte, causalità e necessità, dall’altra. Nella sua filosofia, anzi, le
parti si invertono sistematicamente: così, egli dimostra che le azioni «spontanee» di bambini, pazzi, idioti e bestie, procedono in realtà «da e/ezione e deliberazione, mentre le «azioni sconsiderate, imprudenti e spontanee si trovano normalmente anche in coloro
che si stimano e da molti sono stimati sage».
2. La critica dell antropocentrismo Non si potrebbe immaginare nulla di più lontano rispetto all’impostazione antropocentrica che aveva animato il tema della dignitas hominis in tutte le sue varianti: rispetto al filone aristotelico-scolastico l’assimilazione tra l’uomo e le bestie, e tra l’uomo razionale e quello non razionale quanto ai motivi dell’agire segna una netta cesura, mentre la tradizione platonico-ficiniana, è ancora più lontana dell’approccio di Hobbes, che ha sempre polemizzato con i residui platonizzanti e in particolare con la teoria delle essenze separate, a cui ha anche imputato di aver guastato Poriginario corporeismo e mortalismo biblico. Quanto poi al terzo grande filone dell’eredità umanistica, quello che va da Pico ad Erasmo ed insiste sul valore del libero arbitrio, esso soccombe all’affermazione hobbesiana del più rigoroso determinismo universale, che comprende anche la causazione del volere. Per Hobbes, la nozione di «agente libero» sarebbe in se stessa contraddittoria!, a meno che si applichi l’aggettivo «libero» soltanto alle azioni e non al volere, secondo la tipica concezione della libertà negativa come mera assenza di impedimenti esterni che
"LN, p. 242 (tr. it: p. 55). 2 LN, p. 243-44 (tr. it: p. 57). 5 LN, p. 275 (tr. it: p. 113).
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sarà posta alla base della teoria politica del Leviathan'*. Benché Erasmo non sia mai menzionato, né qui né negli altri scritti teologici, tuttavia il rigido predestinazionismo che domina l’ultima parte delle Questions e gli espliciti riferimenti positivi a Lutero e a Melantone sono un chiaro segno del fatto che Hobbes intendeva collocarsi esplicitamente nel campo avverso a quello del celebre umanista fiammingo, per ragioni filosofiche più ancora che per motivi teologici". Alla luce di questi presupposti, la tentazione di fare di Hobbes un esponente
di quello che Hiram Haydn ha definito il Counter-Renaïssance avrebbe senz'altro dei fondamenti legittimi, ma come vedremo più oltre essa non tiene conto della complessità della posizione del filosofo di Malmesbury, che accanto alla demolizione dell’umanesimo tradizionale si è impegnato per la costruzione di un umanesimo di
nuovo e diverso tipo". Chi esamini la sezione di psicologia e antropologia contenuta nei primi capi toli del Leviathan resta colpito dal carattere anti-umanistico delle tesi hobbesiane in materia. Per richiamarle in breve: l'intelletto è comune agli uomini e alle bestie,
consistendo in una serie di pensieri regolati, o meglio pensieri «appassionati», retti cioè da qualche desiderio o disegno, che come tale si ritrova anche negli animali; inoltre, anche le bestie sono «prudenti» in quanto presumono del futuro attingendo
“LN, pp. 273-74 (tr. it: p. 111). Cfr. Leviathan XXI, p. 107 ss./261 ss. (tr. it: p. 175 ss.). !5 Diverso è il caso di altre dottrine teologiche, e soprattutto del metodo di indagine delle Scritture, che è invece molto vicino alla sostanza dell’insegnamento umanistico, sulla linea Valla-Erasmo, come abbiamo mostrato in alcuni saggi: G. Paganini, Hobbes, Valla and the Trinity in «British Journal for the History of Philosophy», XI, 2003, pp. 183-218; Id., Zhowas Hobbes e Lorenzo Valla. Critica umanistica e filosofia moderna, in «Rinascimento», XXXIX, 1999) pp. 515-568; Id., Hobbes face à l'héritage érasmien: philologie humaniste et philosophie nouvelle, in «Institut d'Histoire de la Réformation. Bulletin annuel», XXIV >
2002-2003, pp. 33-51.
Non possiamo qui aprire il ricco e controverso dossier sul rapporto di continuità o cesura che sussisterebbe in Hobbes tra il fondamento morale e il metodo umanistico, da una parte, e, dall’altra, le concezioni
scientifiche o materialistiche. Ci limiteremo ad osservare che rispetto ai due grandi sostenitori, in tempi e forme diverse (Strauss e Skinner) di una tensione tra le due componenti (mai sanata per Strauss, riconciliata infine nel Leviathan per Skinner), il punto di vista di questo articolo è alquanto diverso. Rispetto a Leo Strauss (Political Philosophy of Hobbes: Its Basis and Genesis, Oxford 1936) intendiamo mostrare che, ben lungi dall’occultare l'originaria ispirazione etica con una veste meccanicistica posticcia, l'impulso scientifico e costruttivo operò all’interno dell’antropologia hobbesiana come il fermento di un nuovo umanesimo, grazie anche alle proiezioni ermetiche che lo avevano nobilitato nella cultura rinascimentale
precedente. Non c’è dunque frattura tra veste scientifica ed ispirazione morale, ma piuttosto l’una è interna all’altra, almeno se si guarda ad Hobbes dalla parte delle sue radici nella cultura del suo tempo. D'altro canto, rispetto a Quentin Skinner (Reason and Rbteororic in the Philosophy ofHobbes, Cambridge 1996) e alle dicotomie (ragione e passioni, scienza ed eloquenza), che secondo lui avrebbero caratterizzato a fasi alterne l’evoluzione del pensiero di Hobbes prima di trovare una sintesi nel Leviathan, la nostra prospettiva è profondamente diversa: piuttosto che alle forme della comunicazione retorica, guardiamo infatti ai paradigmi filosofici in cui Hobbes inquadrò il rapporto tra un “vecchio” umanesimo, ancora di tipo gerarchico, e un nuovo umanesimo improntato al modello della costruzione scientifica.
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all'esperienza del tempo passato!”. Negli uomini, tutte le rappresentazioni mentali soggiacciono a limitazioni sensibili dovute alle loro origini empiriche; per Hobbes «non è possibile avere alcun pensiero che rappresenti qualcosa che non sia soggetto alla sensazione» e che quindi non sia «finito», al punto che neppure per l’uomo
«esiste alcuna idea 0 concezione di ciò che chiamiamo infinito». Quanto alle «origini interne dei movimenti volontari», le conclusioni del Leviathan ribadiscono in forma
sistematica gli spunti più critici presenti nella polemica con Bramhall. Anche sotto questo profilo non sembrano esservi differenze essenziali tra uomini e animali: «pure le bestie deliberano», giacché anche le loro deliberazioni — come si è visto — consistono di appetiti alternati, finché l’ultimo va a formare ciò che si chiama
la volontà, cioè d’atto (non la facoltà) — precisa Hobbes — di volere». Parlare di «volontà come appetito razionale, come fanno le «Scuole» nell’intento di affermare un supposto privilegio umano, significherebbe in realtà dare una definizione non corretta, perché, «se lo fosse, non potrebbe darsi alcun atto volontario contro la
ragione» — ciò che l’esperienza corrente smentisce quotidianamente. I fondamenti della psicologia sono dunque comuni tanto all'uomo quanto agli animali, sia pure a prezzo di una certa tautologicità: nella definizione hobbesiana «un 40 volontario è quello che procede dalla vo/onta e niente altro». Fuori dalla provocazione, la volontà viene definita come «l’w/timo appetito nel deliberare», ma come si è già visto tanto gli impulsi dell’appetito quanto il processo deliberativo si riscontrano sia negli uomini sia negli animali, tanto meno potranno dunque giustificare un improbabile privilegio
dell’uomo!?.
3. L'apporto della tradizione scettica: gli animali deliberanti Ritengo che alle origini di queste considerazioni hobbesiane, in cui si configura il sovvertimento dell’autorevole antropocentrismo classico-umanistico, stia una ben precisa tradizione critica, quella scettico-pirroniana, che aveva elaborato riflessioni
comparative sulle diverse dotazioni umane ed animali, già a partite dai dieci tropi di Enesidemo riportati da Sesto Empirico”. In particolare nel primo tropo, allo
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Leviathan II, p. 7/93 (tr. it: p. 19); III, p. 7/95 (tr. it: p. 21), p. 11/98 (tr. it: p. 23). Leviathan III, p. 11/99 (tr. it: p. 24). . Leviathan VI, p. 28/127 (tr. it: p. 49). È notevole il fatto che considerazioni di questo tenore facciano la loro comparsa nelle opere scritte
durante il decennio trascorso da Hobbes in Francia, e non in quelle precedenti, almeno con la stessa
forza e dovizia di dettagli. Un altro testo che si potrebbe leggere in parallelo sia con la polemica contro il vescovo Bramhall sia con il Leviathan, e proprio per la sua carica avversa ad ogni veduta antropocentrica e umanistica (nella vecchia accezione del termine), è il De motu, loco et tempore, scritto contro Thomas
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo K
scopo di dimostrare che «non possiamo preferire le nostre rappresentazioni sensibili a quelle degli animali»”', Sesto si era dilungato sulle «virtù» di quello che nella dossografia diventerà celebre come l'esempio del cane «scettico». Essendo capace di ragionamento interiore, il cane manipola «rappresentazioni comprensive» non diversamente dagli uomini, delibera, cioè effettua la scelta di ciò che gli è utile e
rifugge da ciò che gli è dannoso; non è affatto privo di «virtù» (a cominciare dalla giustizia) né di arti; coraggioso e prudente, secondo Crisippo che Sesto riprende,
partecipa della dialettica; infine è in grado di articolare un linguaggio che rappresenta all’esterno i suoi ragionamenti. Dagli Shizzi pirroniani, attraverso le classiche edizioni cinquecentesche di Hervet e Estienne, questo /opos si propagherà in tutta la letteratura neoscettica di fine Rinascimento: insieme ad altri passi di Plutarco che vanno nello stesso senso, la provocazione di Sesto concorrerà ad un più ampio esame del problema se la razionalità sia o no prerogativa essenziale dell’uomo. Così, il «cane scettico» farà la sua comparsa in tutte le rassegne dossografiche che
mettono in dubbio il possesso esclusivo da parte dell’uomo di doti come l’inferenza, il linguaggio, l’elezione, la virtù e talvolta persino la religione. Il nucleo di
questa discussione verrà ripreso da Gianfrancesco Pico prima e poi da Montaigne, mentre considerazioni analoghe saranno svolte da autori non scettici che pure concorreranno a mettere in crisi l’impalcatura essenzialistica aristotelico-scolastica,
come il naturalista ed eclettico Girolamo Rorario, autore di un Quod animalia bruta ratione utantur melius nomine, che ebbe grande fortuna proprio nell'ambiente parigino
frequentato da Hobbes, grazie all’edizione procurata da Gabriel Naudé nel 1648. Spunti simili saranno rielaborati anche da un autore neo-stoico ben noto a Hobbes, come Giusto Lipsio. Grazie a questa vasta e composita letteratura, osservazioni analoghe a quelle ricorrenti Leviathan sulla prossimità tra l’intelligenza umana e quella animale erano diventate assai comuni nell’avanguardia culturale del Seicento; di sicuro stupivano meno un lettore dell’epoca di quanto possano sorprendere oggi noi contemporanei.
White (rinviamo per quest'opera alla nostra nuova traduzione commentata, con relativa introduzione storica, di prossima pubblicazione presso UTET, nei «Classici della Filosofia»). Peraltro, già in altri ar-
ticoli abbiamo sviluppato lo sfondo scettico e ‘continentale’ della riflessione di Hobbes e ci sia dunque permesso di rimandare ad essi per maggiori dettagli e chiarimenti: Paganini, Hobbes among Ancient and Modern Sceptics: Phenomena and Bodies, in 1d. (ed.), The Return of Scepticism. From Hobbes and Descartes to Bayle, Dordrecht-Boston-London 2003 («International Archives of the History of Ideas», 184), pp. 3-35; Id.,
Hobbes and the ‘Continental’ Tradition of Scepticism, in R.H. Popkin and J.M. Maia Neto (eds.), Scepticism as a Force in Renaissance and Post-Renaissance Thought. New Findings and New Interpretations of the Role and Influence ofModern Scepticism (International conference held at UCLA Center for 17° and 18*-Century Studies and the William Andrews Clark Memorial Library, Los Angeles, March 8-9, 2002), Amherst 2004, pp. 65-105. Si veda da ultimo il nostro volume: Skepsis. Le débat des modernes sur le scepticisme, Paris 2008, cap. IV. *! Sesto Empirico, Pyrrhoniae Hypotyposes, I, 78.
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Per chiarire il senso di questi accostamenti, ci soffermeremo qui su due autori moderni in particolare, per il rilievo che essi ebbero, l’uno tra le probabili letture di
Hobbes, l’altro tra i suoi maggiori interlocutori. Ci riferiamo ai Saggi di Montaigne, livre de chevet del gentilbomme europeo da una parte, e dall’altra a Gassendi, legato a Hobbes da un lungo sodalizio intellettuale. Era stato Montaigne a conferire un significato nuovo ed originale al materiale classico della tropologia sestana: le considerazioni che per Sesto riguardavano essenzialmente il problema tecnico della rappresentazione sensibile e quindi la necessità del «criterio» in presenza della «diafonia» dei fenomeni, venivano negli
Essais collocate in un contesto più vasto e tipicamente moderno: si trattava per Montaigne di definire il posto dell’uomo nel quadro di una natura che contemplava sì una varietà di ordini, ma non una gerarchia univocamente definita fra essi. «Il
y a quelque difference, il y a des ordres et des degrez; mais c’est soubs le visage d’une mesme nature», sottolineava il Perigordino. Questo regard éloigné sull'uomo aveva delle precise implicazioni: comportava infatti per l’uomo la rinuncia ad una posizione privilegiata e la perdita del posto centrale nell’universo. Come diceva Montaigne nell’Apologie: «Nous ne sommes ny au dessus, ny au dessoubs du reste: tout ce qui est soubs le Ciel, dit le sage, court une loy et fortune pareille»”. In una rassegna comparata che andava ben al di là delle diatribe classiche, l’autore degli Essais giungeva a rovesciare il punto di vista tradizionale e a vedere nella pretesa umana di superiorità una fantasia tutta illusoria, che non avrebbe «ny corps ny goust». Se pure l’uomo gode di un privilegio, si tratta in ogni caso di un «avantage qui luy est bien cher vendu et duquel il a bien peu à se glorifier», giacché proprio dalla presunzione di doti esclusive scaturisce la fonte principale dei mali reali che lo opprimono: «peché, maladie, irresolution, trouble, desespoim”. È ancora Montaigne, prima di Hobbes, a ritrovare nei comportamenti animali tracce di inferenza, «prudenza» e dunque raziocinio, persino di discorso comunicati vo che non possono essere ricondotte alla mera naturalità dell’istinto, ma richiedono invece una certa intelligenza che rielabori i dati sensoriali. L’analisi dell’Apologe si estende anche al lato morale della comparazione, mettendo in evidenza aspetti che dovevano aver colpito Hobbes: Montaigne mostra infatti che il prevalere di appetiti né naturali né necessari?’ conduce l’uomo ad abbandonare quel modello di regolazione naturale che risulta invece così efficace per gli animali, con la con-
2 M.E. de Montaigne, Essais, II xii («Apologie de Raimond Sebond»), ed. P. Villey (rivista da V.-L.
; Saulnier), Paris 1999, t. II, p. 459. 2 Ivi, p. 460. Ma sono da vedere tutte le pagine seguenti. Il classico esempio del cane ‘scettico’,
ripreso da Crisippo, è riproposto da Montaigne a p. 463.
24 Ivi, pp. 471-472.
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seguenza di incentivare nell’uomo un’aggressività («la guerre») ben oltre i limiti di «moderazione» che si ritrovano invece nelle bestie. Quanto alle altre «virtù» (fedeltà, gratitudine, socievolezza, magnanimità, ecc.), il confronto montaignano non appare più lusinghiero, fornendo un'immagine negativa della condizione umana originaria i
cui tratti confluiranno nella rappresentazione hobbesiana dello stato di natura”. In particolare, l’autore degli Essais insiste sull’intrinseca ambivalenza di «talent» umani, come il «linguaggio» e la capacità di giudicare e di conoscere, giacché entrambi
questi doni sono «pagati» al «prezzo» delle «infinite passioni» che essi alimentano e incentivano oltre ogni misura?°. Nel complesso, la lezione di un saggio come l’Apologie de Raimond Sebond è un insegnamento di umiltà e di realismo contro le pretesesillusorie dell’antropocentrismo umanistico: «nature ne nous a non plus privilegez en cela que, au demeurant,
sur ses loix communes». Per Montaigne si può tranquillamente parlare di «equalité et correspondance de nous aux bestes», tanto più che il «privilegio» dell’astrazione,
tradizionalmente considerato come il segno per eccellenza della spiritualità dell’anima, viene da lui parimenti riconosciuto anche agli animali*. Consegnati ad una delle poche opere realmente costitutive della cultura europea moderna, questi temi avranno uno straordinario impatto proprio sui citcoli frequentati da Hobbes in Francia e in particolare su Gassendi. Nella polemica da questi intrapresa contro Descartes, la critica del profilo astratto e disincarnato del-
l'intelligenza umana (la celebre mens) si accompagnerà ad una decisa rivalutazione dell’intelligenza degli animali, classica esemplificazione di quel fondamento empiristico che condiziona egualmente gli uomini. Anche gli animali, per il Gassendi della Disquisitio, hanno una loro ratio e si dimostrano capaci di raziocinio, sia pure entro limiti più ristretti, né ignorano la dimensione comunicativa del linguaggio, in quanto hanno anch'essi proprie voces. Su ciascuno di questi punti, il rovesciamento
? Si veda, per rimanere nei limiti dell’Apolggie, il passo di p. 486: «Mais, pour revenir à mon propos, nous avons pour nostre part l’inconstance, l’irresolution, l’incertitude, le deuil, la superstition, la solicitude des choses à venir, voire, après nostre vie, l’ambition, l’avarice, la jalousie, l’envie, les appetits desreglez,
forcenez et indomptables, la guerre, le mensonge, la desloyauté, la detraction et la curiosité». Si noti che in questo catalogo delle prerogative umane fatto da Montaigne compaiono qualità su cui Hobbes insisterà in termini positivi (come la curiosità), altre invece connotate in modo negativo (tutto ciò che ha riguardo al conflitto interpersonale e al suo sbocco, la guerra). Il Perigordino non trascura neppure la sollecitudine per l’avvenire, che per Hobbes sarà fonte di ansie e causa della brama del potere futuro, oltre che germe delle credenze religiose o superstiziose. 2 Ivi, p. 486. 7 Ivi, p. 483.
28 Ivi, °° Cfr. C. Adam vol. VII,
p. 481. P. Gassendi, Objectiones quintae alle Meditationes di Das (in Œuvres de Descartes, publiées par et P. Tannery, nouvelle présentation par B. Rochot et P. Costabel, 11 vol., Paris 1964-1974, pp. 269-271; cfr. anche Disquisitio Metaphysica, In Meditat. Il Dobit. VI, in (sati Opera omnia
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rispetto alle posizioni cartesiane e l’accostamento con quelle sostenute prima da Montaigne e successivamente da Hobbes nel Leviathan è troppo evidente perché ci sia bisogno qui di commentarli. L'esito di tutte queste discussioni, ben presenti a Hobbes soprattutto nel lungo soggiorno parigino di dieci anni (tra il 1641 e il 1650), può essere adeguatamente compreso soltanto se lo riportiamo alla crisi del paradigma umanistico rinascimentale. Nel caso di Montaigne, è soprattutto la tesi platonico-ficiniana ad essere presa di mira, con la sua scala gerarchica degli esseri, entro la quale l’anima occupa una
posizione centrale proprio perché intermedia: secondo la Theologia platonica, anima umana ha in comune con gli spiriti celesti la contemplazione, la volontà e l’azione, mentre condivide con gli animali inferiori le facoltà riferite alla conservazione del corpo, prima fra tutte la phantasia®. Tra i diversi officia della sostanza, Ficino aveva
nettamente distinto tra l’aczio naturalis e il sensus, da una parte, e Vintelligentia dall’altra, riservando quest’ultima solo agli uomini e di fatto non a tutti, ma unicamente ad
alcuni secondo una prospettiva aristocratica che ne sottolineava l’estrema rarità”. Contro le certezze dell’umanesimo rinascimentale, la crisi scettica di fine Cin-
quecento aveva rappresentato una salutare reazione di modestia e di spirito critico: Montaigne giunge sino a mettere in dubbio la tradizionale definizione di uomo come «animale razionale», contrapponendo la conoscenza diretta della cosa ad una
sorta di gnoseologia essenzialistica che procede invece incasellando i suoi oggetti nella griglia dei generi e delle specie, secondo la tecnica dell’albero di Porfirio. Ma in realtà, chi si ispira a queste definizioni ‘metafisiche’ dell’uomo, invece che
riportarsi all’apprensione diretta dell’individualità nell’esperienza, non fa altro che fornire materia per nuovi dubbi, tanto più numerosi quante sono le categorie che utilizza nella scomposizione porfiriana: «Je sais mieux — scrive Montaigne — que c’est quhomme, que je ne sais que c’est “animal”, ou “mortel”, ou “raisonnable”. Pour satisfaire à un doute, ils en m’en donnent trois»?.
in sex tomos divisa...Lugduni, Sumptibus Laurentii Anisson et Ioann. Bapt. Devenet, 1658 — ristampa anastatica, con introd. di T. Gregory, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964, t. II, p. 303 b ss.
30 Cfr. M. Ficino, Theologia platonica TX v-vii, (edizione a cura di Raymond Marcel, Paris 1964-70, t. II, pp. 47-48). 31 Ivi, VI ii (t. I, pp. 225-230).
32 Montaigne Essais, III xiii, ed. cit., p. 1069. Sul tema della definizione dell’uomo in Montaigne cfr.
F. Brahami, «Pourquoi prenons-nous titre d’étre»? Pensée de soi et pensée de Dieu chez Montaigne et Descartes, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 2006, pp. 21-39, in part. pp. 34-35.
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4. Hobbes e il recupero del metodo umanistico: «leggi te stesso» Si deve tuttavia dire subito che, rispetto a questi esiti di tipo scettico-nominalistico, Hobbes esprime una posizione più complessa: se, come si è visto, non è insensibile alla pars destruens della critica, non giunge tuttavia sino a condividere le tesi
più radicali che si trovano in Montaigne e negli autori che ne seguirono le tracce in Francia, da Charron sino a Gassendi e Cureau de la Chambre. E anzi possibile
vedere nella sua opera il tentativo di ricostruire una dottrina dell’uomo che fosse in grado di rispondere alla crisi scettica europea, pur tenendo conto delle obiezioni che questa aveva rivolto contro l’umanesimo di vecchia tipo. Si potrebbe dire, nel caso di Hobbes, che si tratta di un nuovo umanesimo piuttosto che di una dottrina
anti-umanistica, e questo anche a prescindere dal robusto innesto di conoscenze scientifiche che caratterizza la seconda sezione degli Elementa philosophiae. Nella realtà e nonostante l’esibita cornice meccanicistica, il nuovo umanesimo hobbesiano non dovrebbe essere confuso con una dottrina dell’uomo macchina, né visto
come una semplice applicazione dei principi generali del corporeismo materialistico al mondo umano, come pure pretende di essere la malriuscita sintesi tentata nel
tardivo De homine. Piuttosto, la concezione hobbesiana recupera dall’eredità classica e umanistica un modello di conoscenza incentrato sull’ideale socratico del ‘conosci te stesso’, eredità che il filosofo inglese non riteneva ‘affatto incompatibile con le esigenze della conoscenza scientifica, se è vero che la mette in primo piano sin dalla Introduzione al Leviathan. Su questo punto, la distanza con Montaigne non potrebbe essere più grande. Nei Saggi, questi aveva sì evocato il precetto apollineo e la relativa massima socratica, ma soltanto per ammonire che «l’advertissement à chacun de se cognoistre» in realtà
«signifie que chacun n’y entend rien du tout”, L'insegnamento di Socrate rientrava così nella cornice scettica abituale, giacché il riconoscimento dell’«humaine ignorance» era per Montaigne «le plus seur party de l’escole du monde», e questo persino nel caso della conoscenza di sé, come dimostrava non solo l’esperienza individuale,
ma ancor più l’insegnamento del filosofo ateniese, «maistre des maistres»™. Al contrario, la parte finale dell’introduzione al Leviathan contiene uno dei più begli elogi del valore del Nosce te ipsum inteso come unico metodo adatto alla ‘dimostrazione’ di quel particolare genere di dottrina positiva che è la politica, e più in generale l’antropologia. Probabilmente non immemore di un altro aspetto della riflessione di Montaigne, quando il Perigordino diceva di trovare in se stesso l’intera forma dell’umanità, Hobbes colloca la sua opera su uno sfondo nel quale è agevole Montaigne, Essais, III xiii, ed. cit., p. 1075. # Ivi, p. 1076.
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riconoscere elementi decisivi della nuova la saggezza che si acquista attraverso la del sapere astratto delle Scuole, a quella mini» e subito dopo aggiunge che il solo
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cultura rinascimentale: così, contrappone conoscenza dei «libri», evidente metafora che si conquista invece «leggendo gli uo-
modo per «leggere veramente gli uni negli
altri», senza ricadere in aspre quanto inutili e reciproche censure, si riconduce ad un
«leggi te stesso». Il nosce fe ipsum diventa dunque un «eggi te stesso», ma soprattutto rappresenta per Hobbes non l’accesso alla professione socratica di ignoranza, bensì il primo superamento della crisi scettica, almeno per quel che riguarda quella parte della dottrina dell’uomo e del cittadino che non può essere dedotta direttamente dalle cause (dalle definizioni del corpo), ma deve essere attinta all'esperienza diretta. Il «leggi te stesso» è infatti una lezione circa «la somiglianza tra i pensieri e le passioni di una persona e i pensieri e le passioni di un’altra»: se gli uomini differiscono tra loro, anche radicalmente, per la varietà degli oggetti delle loro passioni, come aveva
denunciato il pirronismo morale del primo Seicento amplificando al massimo gli effetti del decimo tropo di Enesidemo che riguarda gli usi, i costumi, le leggi, ecc., non è meno vero d’altra parte che quegli stessi uomini così discordi nelle loro mire si assomigliano invece per le passioni che li dominano in eguale maniera, come il «desiderio, il timore, la speranza ecc»*. Questa «lettura» di sé si basa dunque su un vero e proprio «alfabeto del cuore umano». Mentre questo «alfabeto» appare irrimediabilmente confuso e indecifrabile a chi cerca di individuare gli oggetti delle passioni, «celato e dissimulato com’é attraverso la finzione, la menzogna, la simulazione e le false dottrine», al contrario esso risulta del tutto «decifrabile soltanto a chi penetra nei cuori». Ma per fare questo, senza esporsi al pericolo di «decifrare senza una chiave» o di cadere nell'errore per «eccesso di fiducia o di diffidenza», per Hobbes è necessario innanzitutto «leggere
in se stessi», attuando così il precetto socratico: un deggere» che dovrebbe dunque garantire trasparenza e accessibilità. Secondo il Leviathan, questo è il compito primario del sovrano al quale implicitamente l’introduzione si rivolge. Infatti, con un imprevisto cambiamento di registro dalla teoria alla tecnica del governo, Hobbes applica a «colui che deve governare un’intera nazione», dunque alla funzione pubblica per eccellenza, il compito che Montaigne aveva riservato all'individuo nella meditazione più privata. Potremmo dire che per entrambi gli autori si tratta di ritrovare attraverso il osce te ipsum la forma intera dell’umanita, ma nel Leviathan, a differenza degli Essais, questo compito assume un significato immediatamente politico, prima che morale. Come dice Hobbes, innovando in questa diversa prospettiva il senso della celebre formula di Montaigne, che si riferiva alla «forma intera»
35 Leviathan, Introduzione, p. 1/82 (tr. it: p. 6).
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dell’umanità soltanto in termini etici: «Colui che deve governare un’intera nazione,
deve leggere in se stesso non questo o quel particolare uomo ma il genere umano». Nel caso di un sapere, come quello politico, che non può procedere «sinteticamente»
dalle cause e dalle definizioni prime, ma deve invece partire in modo «analitico» dall'esperienza, è questo l’unico vero punto di partenza e anche il solo criterio di verifica, per quanto «difficile» esso sia. E vale anche per il lettore comune, non solo per il sovrano. Come avverte il Leviathan, posti dinnanzi alla «lettura personale» che l’autore fa della natura umana nell’opera, i lettori «non dovranno far altro che riflettere se non trovino le stesse cose in se stessi».
5. Il nuovo umanesimo hobbesiano: linguaggio, industria, curiosità L’impiego di questo metodo, delineato nell’introduzione al Leviathan, consente a
Hobbes di dipingere una concezione dell’umanità che, senza essere riconducibile al vecchio umanesimo
antropocentrico, individua tuttavia una diversa specifici-
tà dell’uomo. Questi non potrà essere interamente riassorbito entro la scala dei viventi, secondo una mera variazione dal più al meno, come
nel filone scettico
anti-umanistico. D’abitudine, la storiografia ha indicato la peculiarità dell’antropologia hobbesiana nell’enfasi posta sul ruolo del linguaggio, anche se il filosofo ha sottolineato altrettanto efficacemente l’intrinseca ambiguità di questo «privilegio», in
linea con il tema dell’ambivalenza dell’umanità che era stato ampiamente svolto da Montaigne: «Questo privilegio — scrive Hobbes nel Leviathan — è tuttavia bilanciato da un altro: quello dell’assurdità a cui non è soggetta alcuna creatura vivente ad eccezione dell’uomo». Ciò nonostante, malgrado le «assurdità» di cui viene fornito scrupolosamente il catalogo, resta il fatto che senza «discorso», cioè senza questa
«invenzione» con cui gli uomini registrano i pensieri, li richiamano alla memoria e li comunicano, «non ci sarebbero stati fra gli uomini né Stato, né società, né contratto,
né pace più di quanto non vi siano tra leoni, orsi e lupi». Anzi, il filosofo ribadisce che l’«intelligenza» (Understanding) è una prerogativa tipica dell’uomo, proprio in
quanto consiste in una «concezione causata dalla parola»”, né il valore di questo «dono» è attenuato dal fatto che anche agli animali vengano riconosciute forme di comunicazione più o meno embrionali. Più in generale, proprio perché consente di
% Ivi, p. 1/82-83 (tr. it: pp. 6-7). °7 Leviathan V, p. 20/113 (tr. it: p. 37). Sul tema degli «abusi» del discorso vedi anche IV, p. 12/100 (tr. it: p. 27).
# vi, p. 12/100 (tr. it: p. 25). ® Ivi, p. 17/108-109 (tr. it: p. 32).
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trasferire il «discorso mentale» (peraltro reperibile anche negli animali) in un vero e proprio «discorso verbale», il linguaggio da accesso, per Hobbes, alla dimensione dell’«universale» (che è solo linguistico e non concettuale"! e soprattutto consente di tradurre «il calcolo sulla concatenazione delle cose immaginate nella mente in un calcolo sulla concatenazione delle denominazioni». In questo modo, il «calcolo mentale» viene finalmente dispensato dalla considerazione del tempo e del luogo,
«liberandoci dallo sforzo mentale» che sarebbe necessario per inseguire ogni singola rappresentazione. In definitiva, il linguaggio dischiude l’orizzonte della scienza vera
e propria: esso «fa sì che quel che è stato trovato vero gui ed ora, sia vero in tutti i iluoghi»”. Com’é noto, questa funzione scientifica del linguaggio risiede tempi e in tutti principalmente nell’uso delle «definizioni» che sono poste «all’inizio del calcolo»,
costituendo gli assiomi da cui verranno derivate con concatenazione logica tutte le «verità». Propriamente, la verità è «attributo del discorso e non delle cose», tanto
meno essa si predica delle rappresentazioni o immaginazioni*. Oltre a segnare la distanza che intercorre tra la semplice «prudenza» (0 «esperienza») e la «sapienza» (0 «scienza»)*, il linguaggio svolge una funzione essenziale nella genesi della «ragione»: questa non è una facoltà innata («nata con noi come la sensazione e la memoria») né si acquisisce «soltanto per esperienza, come la prudenza», bensì richiede un’elaborazione complessa, che Hobbes chiama «industria». Come viene descritta nel Leviathan, Y«industria» consiste principalmente in un uso
regolato e metodico del linguaggio, che comincia con la «corretta attribuzione dei nomi» e prosegue con un «metodo buono e ordinato» passando dalle definizioni alle asserzioni e ai sillogismi, per giungere sino alla «conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi»: «e questo — conclude Hobbes — è ciò che gli uomini chiamano scienza». Questa considerazione direi genetica ed evolutiva della «ragione», intrecciata con l’«industria», vale tanto per la storia dell’individuo, quanto per l’umanità nel suo complesso: mentre descrive i bambini come privi di ragione finché non hanno acquisito l’uso del discorso, così, in una prospettiva più ampia, Hobbes vede crescere «la luce delle menti umane» insieme al chiarificarsi del linguaggio, grazie all’uso di «definizioni esatte» e prive di «ambiguità». In una visione della storia umana permeata di accenti baconiani, per Hobbes «la ragione è il cammino, la crescita della scienza è la strada e il vantaggio dell’umanità è il fine. Tutte queste
4 Ivi, p. 12/101 4 Ivi, p. 12/102 2 Ivi, p. 16/104 # Ivi, p. 16/105 # Ivi, p. 22/117 5 Ivi, p. 21/115 4 Ivi, p. 22/116
(tr. it: (tr. it: (tr. it: (tr. it: (tr. it: (tr. it: (tr. it:
p. 26). p. 27). p. 28). p. 29). p. 40). p. 39). p. 39).
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riflessioni convergono poi nel rifiuto coerente di ogni prospettiva innatistica: per l’uomo non esistono attività mentali che gli siano «per natura tanto inerenti» da richiedere, per esercitarle, soltanto «l’essere nato uomo e vivere con l’uso dei cinque sensi». A parte la sensibilità, tutte le altre «facoltà», che pure sono «esclusivamente
proprie dell’uomo», vengono «acquisite e potenziate dallo studio e dall’industri». Più precisamente, «tutte procedono dall’invenzione delle parole e del discorso». Su
questo punto la posizione del Leviathan è chiarissima e può essere riassunta in due tesi diverse ma complementari. La prima tesi dovrebbe essere ormai chiara. Mantenendosi nei limiti del suo integrale meccanicismo, Hobbes non assegna alla ragione
umana basi materiali diverse da quelle della prudenza animale, giacché «oltre alla sensazione, ai pensieri e alla serie dei pensieri, la menté umana non ha altri movi-
menti» suoi propri e come si è visto quei «movimenti» in cui consiste la sensibilità si ritrovano in tutti gli esseri viventi dotati di organi appositi. Mentre questa prima tesi riguarda l’origine comune delle rappresentazioni, la seconda illumina invece il diverso sviluppo della ragione, giacché — aggiunge Hobbes subito dopo — «queste stesse facoltà possono essere migliorate al punto da distinguere gli uomini da tutte le altre creature viventi». La differenza specifica che stacca l’uomo dagli altri esseri viventi (come lui dotati di sensibilità e di embrionale comprensione) deriva dunque più da un’evoluzione, di tipo individuale e collettivo, prodotta a sua volta dall’eser-
cizio dell’«industria», che non da una particolare base'o dotazione naturale. Causato dall’«industria», l'intervento del linguaggio segna una fase nuova e tipicamente umana della «serie di pensieri». Sia nella valutazione delle opportunità che esso offre, sia nell'esame dei rapporti che il linguaggio intrattiene con la ragione, Hobbes va molto più in là dei pensatori scettici i quali avevano insistito più sulle similarità e sulle gradazioni, tra uomo e animale, che non sulle discontinuità. Coerentemente con il loro rifiuto della «scienza», autori come Montaigne, Charron
e in parte anche Gassendi si erano mantenuti nei limiti di quella sfera comune di esperienza che Hobbes descrive come «prudenza», attribuendola insieme agli uomini e agli animali'*. Proprio per la loro avversione a un ideale dogmatico di «scienza», gli scettici avevano mancato di cogliere il legame decisivo tra quest’ultima e il linguaggio. Vi è dunque una buona legittimità nel sostenere che soprattutto la padronanza e lo sviluppo dei «segni» spiega, per Hobbes, la preminenza dell’uomo sugli altri animali. Tuttavia, anche nel filosofo inglese, la centralità della dimensione lingui-
47 Ivi, p. 11/98-99 (tr. it: p. 24).
a
“ Vedi ad es. ivi, p. 10-11/98: «Neverthelesse it is not Prudence that distinguishet man from beast. There be beast, that at a year old observe more, and pursue that which is for their good, more prudently,
than a child can do at ten» (tr. it.: p. 23).
Thomas Hobbes e la questione dell'umanesimo
151
stica è temperata e per così dire accompagnata dalla presenza di un altro fattore decisivo, su cui normalmente si sorvola. In linea con la sua idea della superiorità del «pensiero appassionato», diretto verso un desiderio come fine e Scopo, rispetto al «pensiero non guidato, senza disegno e incostante»*, Hobbes individua appunto non
in una facoltà (sia essa l’intelligenza o il linguaggio), ma in una «passione» ciò che distingue la serie dei pensieri regolati nell’uomo da quella degli altri animali. Ancora una volta la distinzione si intreccia con notevoli somiglianze, e tuttavia il divario si staglia finalmente con una certa chiarezza dalle pagine del Leviathan. Hobbes distingue infatti tra due specie diverse di pensieri regolati: la prima, comune tanto agli uomini quanto alle bestie, ha luogo quando si cercano le cause o i mezzi che
producono «un effetto immaginato»”. La seconda specie di pensiero «guidato» è invece tipica dell’uomo e si produce quando, «immaginando una cosa qualunque, ne ricerchiamo tutti i possibili effetti che è in grado di produrre». Questo secondo tipo di pensiero viene attribuito da Hobbes alla «curiosità difficilmente riscontrabile in esseri viventi che siano dotati soltanto di passioni sensuali, come la fame, la sete, la concupiscenza e l'ira». Poco oltre, riferendosi invero a entrambe le serie, il filosofo le accomuna sotto il termine di «ricerca» 0, per usare i lemmi usati dai latini,
sagacitas e solertia, quasi fossero attività venatorie sia pure di tipo intellettuale: «una caccia alle cause di un effetto presente o passato, oppure una caccia agli effetti di una causa presente o passata». Per capite che cosa si debba intendere per «piaceri mentali» (contrapposti qui ai «piaceri sensibili»), dovremo riferirci al capitolo del Leviathan sulle passioni o «origini interne dei movimenti volontari»: i piaceri «mentali», chiarisce Hobbes,
«nascono dall’aspettativa indotta dalla prefigurazione del fine o della conseguenza delle cose», mentre i piaceri «sensibili» sono strettamente collegati «alla sensazione
di un oggetto presente». È in questo contesto che deve essere inquadrata la definizione di «curiosità» presente all’interno di quel minuzioso catalogo delle passioni umane che occupa tutto il cap. VI del Leviathan: Il desiderio di conoscere il perché e il come è detto CURIOSITÀ e non si trova in nessun’altra creatura vivente, se non nell’ #0. L'uomo non è petciò contraddistinto soltanto dalla ragione, ma anche da questa particolare passione, rispetto agli altri animali, in cui il predominio dell’appetito per il cibo e degli altri piaceri del senso toglie la cura di conoscere le cause. Questa passione è una forma di concupiscenza
# Ivi, p. 18/94 (tr. it: p. 20). 50 Ivi, p. 9/95 (tr. it: p. 21). 51 Ivi, p. 9/96 (tr. it: p. 22). 2 Ivi, p. 25/122 (tr. it: p. 44).
A
152
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo &
x nella continua e infaticabile generazione della mentale, che, per il persistere .del piacere : . De : . DIR conoscenza, supera la breve intensità di qualsiasi piacere carnale ”.
Per essere più precisi, è necessario distendere in una dimensione temporale quella che può sembrare soltanto una distinzione di valore. Infatti, piuttosto che ad una gerarchia di contenuti, la distinzione tra piaceri sensibili e piaceri mentali
si riferisce al loro diverso orizzonte nel tempo: mentre i primi si dispongono nella dimensione del presente, rivolgendosi al momento
della fruizione immediata, i
secondi si situano invece nella dimensione dell’aspettativa e del tempo futuro. Ciò implica che la curiosità e il piacere mentale ad essa correlato siano strettamente ordinati alla ricerca del «potere», giacché proprio il «potere», nell'accezione hobbesiana, è l’attività proiettata nello spazio «mentale» per eccellenza, lo spazio che
riguarda appunto gli effetti «futuri» di cause presenti: il potere «consiste nei mezzi di cui [un uomo] dispone al presente per ottenere un apparente bene futuro»”. In definitiva, piuttosto che come animale razionale (definizione che già Montaigne trovava insufficiente e per molti aspetti incomprensibile), l’uomo dovrebbe essere definito, per Hobbes, come un animale «curioso»: curioso di effetti a partire dalle loro cause, e dunque governato da un «pensiero appassionato» di potere. Su questo punto il filosofo era stato molto più preciso negli E/ezzents, dove aveva esplicitamente identificato il «concetto del futuro» con la nozione di «potere»: «ogni concetto del futuro è un concetto di un potere in grado di produrre qual-
cosa»”. In questo stesso testo Hobbes aveva unito strettamente la passione della «meraviglia» con quella della «curiosità», intervenendo così sul significato di un pos filosofico estremamente autorevole, le cui origini risalivano almeno alla Merafisica di Aristotele. Mentre lo Stagirita aveva sottolineato il carattere «libero» e disinteressato della «scienza che studia le cause», in quanto scaturisce da un senso di «meraviglia»? di fronte ai «fenomeni», Hobbes stabilisce invece un’equivalenza diretta tra quest’ultima e la curiosità: «considerata come appetito» («appetito di conoscenza»), la «meraviglia» è chiamata «curiosità» e consiste essenzialmente nella ricerca delle cause («la supposizione di quelle cause di tutte le cose che gli uomini pensavano
9 Ivi, p. 26/124 (tr. it: p. 46). * Ivi, p. 42/150 (tr. it: p. 69). * In generale, sul tema ‘moderno? della curiosità (su cui Hobbes ha tuttavia un posizione molto specifica e personale) si vedano: Curiosité et libido sciendi de la Renaissance aux Lumières, Fontenay-aux-Roses 1998; N. Kenny, Curiosity in Early Modern Europe Word Histories, Wiesbaden 1998; B. Günther, Curiositas:
Die Rezeption eines antikes Begriffes durch christliche Autoren bis Thomas von Aquin, Paderborn 1995. °° Hobbes, Elements of Law Natural and Politic, edited with a preface and critical notes by F. Tônnies, London 1889, I viii, 3, p. 34 (tr. it. a cura di A. Pacchi, Firenze 1968, p. 58). 57 Cfr. Aristotele, Merafisica, I 2.
Thomas Hobbes e la questione dell'umanesimo
153
potessero produrle»). In questo testo Hobbes istituisce inoltre un preciso parallelo
tra la padronanza del linguaggio e la passione della curiosità:
Come, nelle facoltà del discernimento, l’uomo abbandona ogni comunanza
con le
bestie grazie alla facoltà di IMPORT nomi, così pure egli supera la natura bestiale grazie a questa passione della curiosità
Come si vede, i temi della «curiosità», del linguaggio e del «potere» (cioè della politica) si intrecciano in uno stesso nodo che è al centro dell’antropologia hobbesiana propriamente detta: concorrono insieme a definire il proprium dell’uomo secondo il filosofo inglese.
6. Echi ermetici dell umanesimo hobbesiano: l'arte politica e il «dio mortale» Il tema della «curiosità e quello dell’«industria» avevano conosciuto importanti sviluppi in un’altra tradizione antica, diversa da quella aristotelica, cioè la tradizione ermetica, di cui solo recentemente sono stati messi in luce i legami, davvero ina-
spettati, con la riflessione di Hobbes. Dagli studi di Schuhmann, Bredekamp e più recentemente miei sono emersi punti di contatto significativi con il pensatore di Malmesbury. Per riassumere in breve queste connessioni, elencheremo qui: il tema della rapidità del pensiero e l’ascensione della mente al cielo (motivo già attestato nell’abbozzo precoce del manoscritto De principiis, poi ripreso nel Leviathan, nel De Homine e nel De corpore), la generazione del grande Leviathan concepito come «dio mortale», infine l’ermetismo ‘politico’ implicito nella formula «homo homini deus» applicata all’uomo civile in contrapposizione all’uomo ‘naturale’ che è invece «lupo» all’altro uomo. Queste affinità definiscono una versione tipicamente hobbesiana, secolarizzata e soprattutto politicizzata, dell’eredità ermetica che aveva conosciuto con Ficino, Lefèvre d’Etaples e Campanella una straordinaria fioritura in età moderna”. A questi spunti se ne potrebbero però aggiungere altri che attengono più 58 Hobbes, Elements, cit., I ix, 18, p. 45-46 (tr. it: pp. 73-74). C'è in questo passo degli Evements un'evidente allusione al concetto aristotelico di ‘meraviglia’: non solo, come nella Merafisica, il filosofo inglese identifica la scienza con la conoscenza delle cause, ma soprattutto insiste sul carattere teoretico, disinteressato di questa ricerca, che a differenza di quella degli animali non è mossa dal semplice appetito dell’avvicinamento o della fuga. Come già aveva detto più esplicitamente Aristotele, l’uomo cerca le cause per il puro scopo di sapere; qui Hobbes non è altrettanto reciso, ma nel descrivere le origini della filosofia in parallelo con quelle dell'astronomia non fa intravedere l’azione di motivi utilitari specifici. 5 Abbiamo fornito un quadro sia della letteratura critica in merito, sia di altri aspetti dell’eredità ermetica in Hobbes, nel nostro recente articolo, al quale rinviamo per ulteriori informazioni, anche di carattere bibliografico: Paganini, All origini del «Mortal God»: Hobbes, Lipsius e il «Corpus Hermeticum», in
«Rivista di storia della filosofia», LXI, 2006, pp. 509-531. Le indicazioni contenute in questo paragrafo
sono aggiuntive rispetto a quelle formulate nell’art. ora cit.
154.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo « n
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specificamente alla sfera psicologica e antropologica: in particolare i due caratteri della condizione umana derivanti direttamente dalla «curiosità», cioè la «sagacia» e l’«industriosità», erano stati al centro del dibattito sulla specificità che distingue l’uomo dagli animali, tanto nella Theologia platonica di Ficino quanto nell’opera di Campanella, che ne è in gran parte tributaria. Ficino aveva dedicato molte pagine della sua Theologia platonica a mostrare quanto fosse grande il divario che separa la dignità spirituale dell’anima immortale dell’uomo dalla natura propria degli esseri viventi inferiori. Le anime di questi ultimi sono mortali e irrazionali, interamente condizionate dal corpo, mentre quel-
le umane eccellono per una vis intelligendi che non è solo «umbratile» come nelle bestie, ma interamente «expressa atque formalis»®. Più in generale, Ficino aveva
fornito un'articolata e complessa classificazione dei «signa» per i quali si mostra che «l’anima domina il corpo»; fra questi occupa una posizione di rilievo il terzo «segno», ricavato proprio «ab artium et gubernationis industria». Mentre tutti gli altri animali «vivono senza arte, o al più con una sola arte», al cui esercizio sono «tratti da una legge fatale», come si evince anche dal fatto che «con il tempo non
fanno alcun progresso nella tecnica del produrre l’opera», al contrario gli uomini «sono inventori di innumerevoli arti, che eseguono in piena libertà». La particolarità dell’arte umana consiste, per Ficino, soprattutto nell’«imitare tutte le opere della natura divina» e nel correggere e nel perfezionare quelle della natura inferiore, «quasi non servi simus naturae, sed aemuli»®. L’assimilazione dell’uomo alla divinità è
un tema dominante di questa parte della 7heologia e si rivela proprio nell’uso delle tecniche con cui il primo regge e governa gli elementi, le cose materiali e gli esseri viventi. Non solo l’uomo domina gli animali e tutte le «materie del mondo», ma in quanto «provvede universalmente a tutti i viventi e i non viventi» «est quidam Deus». Questa metafora divina del governo si applica puntualmente a tutti gli aspetti dell’arte umana: è «Dio degli animali colui che tutti li usa»; «è Dio degli elementi colui che li abita e li coltiva tutti»; «è Dio di tutte le cose materiali colui che tutte
le tratta, le indirizza e le forma». La conclusione di Ficino è perentoria e insiste sul carattere divino del governo umano per trarne una dimostrazione dell’immortalità dell’anima: «Qui tot tantisque in rebus cotpori dominatur et immortalis Dei gerit vicem est proculdubio immortalis»®.
© Ficino, Theologia platonica, XIV ii (ed. cit., t. II, p. 255). 9 Ivi, XIII i (ed. cit., t. II, p. 196 — è il titolo del capitolo).
5 Ivi, XIII iii (ed. cit., t. II, p. 223). ® Ibid, (ed. cit., t. II, p. 225). Naturalmente, per Ficino la iitigione è uno dei segni distintivi dell’umanità e proprio su questo punto egli attacca i Lucretiani e gli Epicurei del suo tempo. Si veda su questo
aspettoJ.Hankins, Religion and Modernity ofRenaissance Humanism, in n;Mazzocco (ed.), Inzerpretations of Renaissance Humanism, Leiden 2006, pp. 137-53.
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Tra le arti, per Ficino, quella che eccelle di più è la politica ed in essa, giacché in essa, ancor pit che nelle tecniche materiali, si manifesta pienamente la divinita dell’uomo. Tutte queste considerazioni sono inserite da Ficino in un contesto
che Hobbes non avrebbe minimamente accettato, giacché attesta per il platonico l’esistenza di un’essenza o anima separata. Così Ficino argomentava contro Epicuro e contro «il demente che negasse la divinità dell'anima», mentre dalla varietà e complessità del linguaggio inferiva l’esistenza di un «artifex interior di carattere
esclusivamente spirituale’, che sarà più volte negato da Hobbes; infine, il platonico sottolineava con toni ermetici il «prodigio» dell'anima che, potendo elevarsi al divino come degradarsi nelle realtà inferiori, è veramente «universorum connexio», «centrum naturae, universorum medium, mundi series, vultus omnium nodusque et
copula mundi». Il «sesto segno» dell’immortalita nella Theologia platonica è ancora più direttamente collegato alla concezione ermetica, giacché si riferisce alla capacità con cui l’anima «conatur omnia fieri»: può essere vegetale, animale, uomo, eroe (quan-
do scruta il mondo della natura), demone (quando studia le matematiche), angelo (quando indaga i misteri divini), infine Dio stesso, quando compie ogni cosa per merito della grazia divina. È in questo contesto che ricorre la citazione dell’ Asclepins a indicare la divinizzazione dell’uomo «grande miracolo»: «Magnum miraculum esse
hominem, animal venerandum et adorandum, qui genus daemonum noverit quasi natura cognatum, quive in Deum transeat, quasi ipse sit deus». È una banalità avvertire che in Hobbes non sopravvive nulla del quadro metafisico sotteso al discorso ficiniano: troppa è la distanza tra la scala gerarchica degli
esseri contenuta nella 7heo/ogia e il materialismo hobbesiano che ha eretto il corpus a sinonimo di sostanza in generale. Ciò non significa tuttavia che Hobbes fosse in-
sensibile ad altri aspetti, certamente meno metafisici ma più operativi, di questa divinizzazione umanistica dell’arte, e dell’arte politica in primo luogo. Se si guarda alla rappresentazione del Leviathan come «dio mortale», è agevole vedere come essa sia sovraccarica di temi ermetici e risuoni di echi ficiniani. Nell’introduzione al Leviathan,
Hobbes dice esplicitamente che l’arte dell’uomo imita la natura, la quale a sua volta è l’arte di Dio: tema ermetico chiaramente valorizzato dalla lettura ficiniana dell’arte in
4 Ficino, Theologia platonica, XII iii (ed. cit., t. II, pp. 225-26): «Sed artes huiusmodi, licet materiam
mundi figurent et animalibus imperent, atque ita Deum naturae artificem imitentur, sunt tamen artibus illis inferiores, quae regnum imitatae divinum humanae gubernationis suscipiunt curam». 65 Ibid. (ed. cit., t. II, pp. 228-29).
ngi,
6 Ivi, III ii (ed. cit., t. I, p. 142); Ficino ribadisce poi a p. 143: «anima rationalis in essentia tertia Dr habet sedem, obtinet naturae mediam regionem et omnia connectit in unum». 9? Ivi, XIV ili (ed. cit., t. II, p. 257). Si tratta di una citazione dall’Asclepins ermetico (VI, 1-5). Ficino ragiona sulla base del fatto che l’intelletto diviene in atto la-côsa che comprende: «consequens est ut
quaerat res omnes effici, unde nititur deus fieri, in quo sunt omnia, dum nititur omnia fieri» (p. 258).
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generale e di quella politica in particolare. Questa imitazione si realizza, per Hobbes,
soprattutto nella capacità di produrre «un animale artificiale», del quale si dice più oltre che è in realtà un uomo, l’uomo collettivo che rappresenta lo stato: «L'arte si
spinge anche più avanti attraverso l’imitazione di quel prodotto razionale che è Popera più eccellente della natura: l’0770. Questa arte è come un vero e proprio processo di creazione, giacché i patti che istituiscono lo stato «assomigliano a quel far, 0 a quel sia fatto l'uomo pronunciato da Dio al momento della creazione». Le letture meccanicistiche di questa pagina classica di Hobbes hanno sottolineato l’analogia arte-tecnica, organismo-macchina, nella prospettiva dello statomacchina che è diventata canonica in tutti i manuali di filosofia politica; è andato così perso l'aspetto umanistico dell'immagine hobbesiana dell’uomo artificiale», così come la semplice lettura in chiave biblica del motivo del Leviathan ne ha occultato l’aspetto prometeico per appiattirlo sul mero registro dell’obbedienza al «dio mortale sotto il Dio immortale». In realtà, l'introduzione al Leviathan è carica di ben altri significati che esaltano il valore umanistico di quella tecnica per eccellenza che è la politica. Anche per Hobbes, quest’arte ha in sé molti caratteri della «divinità»: non solo il suo operare è assimilato al creare, ma anche l’oggetto dell'operazione (l’uomo artificiale che è lo Stato) risulta essere ben più di una macchina o di un prodotto tecnico, essendo niente meno che un «dio mortale». Doppiamente divina, per la tecnica di creazione e per l’oggetto che ne è il prodotto, l’arte politica hobbesiana è nella modernità quanto di più vicino all’idea ficiniana ed in ultima analisi
ermetica dell’arte politica che più di tutte «imita» «Dio artefice della natura»*°. Con un deciso spostamento, però, rispetto all’umanesimo rinascimentale: l’uomo che già nel De ave è dio all’altro uomo, cioè l’uomo politico, diventa nel Leviathan più chiaramente un uomo artificiale, alla lettera una costruzione prodotta da quel fia? che sono patti e convenzioni.
98 Leviathan, Introduzione, p. 1/81-82 (tr. it.:, p. 5-6). © Fra i tanti passi ficiniani che si potrebbero citare, ricordiamo almeno questo: «Universalis providentia Dei, qui est universalis causa, propria est. Homo igitur qui universaliter cunctis et viventibus et non viventibus providet est quidam Deus. Deus est proculdubio animalium qui utitur omnibus, imperat cunctis, instruit plurima. Deum quoque esse constitit elementorum qui habitat colitque omnia. Deum denique omnium materiarum qui tractat omnes, vertit et format. Qui tot tantisque in rebus corpori dominatur et immortalis Dei gerit vicem est proculdubio immortalis. Sed artes huiusmodi, licet materiam mundi figurent et animalibus imperent, atque ita Deum naturae artificem imitentur, sunt tamen artibus illis inferiores, quae regnum imitatae divinum humanae gubernationis suscipiunt curam. Singula bruta vix ad sui ipsius vel brevem natorum curam sufficiunt; homo autem unus tanta abundat perfectione, ut sibi
ipsi imperet primum, quod bestiae nullae faciunt, gubernet deinde familiam, administret rempublicam, regat gentes et toti imperet orbi. Et quasi qui ad regnandum sit natus est omnino servitutis impatiens» (Ficino, Theologia platonica, XIII iii [ed. cit. t. II, p. 225-26]). Naturalmente, come abbiamo detto nel testo dell’articolo, Hobbes lascia cadere le pretese di immortalità accampate da Ficino, ma resta molto interessato al tema della politica come segno di eccellenza umana che si accosta alla dimensione del divino.
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Questa dimensione divina, seppure «mortale» (in contrapposizione con l’immortalità ficiniana), è forse in contraddizione, come parrebbe, con le considerazioni anti-umanistiche e avverse all’antropocentrismo che dominano (come si è visto) l’antropologia di Hobbes? In realtà è proprio il carattere artificiale del «dio mortale» a impedire che le due diverse prospettive entrino in contraddizione. Hobbes gioca, infatti, su entrambi i registri della discussione che si era svolta tra Cinque e Seicento
intorno al posto della condizione umana nella natura. Nella filosofia hobbesiana entrambe le posizioni presenti nel dibattito svolgono un ruolo e si coordinano l’una all’altra. Come abbiamo già detto, per il suo stato naturale l’uomo non è migliore degli altri viventi, e anche la passione della «curiosità», l’«industria» e l’uso del lin-
guaggio, che pure lo caratterizzano, sono esposti a quella tragica ambivalenza che rendono le doti umane, quando sono usate male, assai peggiori delle disposizioni
semplicemente naturali proprie degli altri esseri viventi. È invece nella dimensione artificiale della politica che l'umanità supera se stessa accedendo a una dimensione privilegiata, addirittura divina sia pure precaria, così come precaria e finita, «mor-
tale», è ogni costruzione dell’uomo. Si può dunque concludere che all’umanesimo tradizionale Hobbes sostituisce un costruttivismo, la cui massima espressione si manifesta nel modello geometrico della scienza e in quello convenzionale dell’etica e della politica: tanto l’una quanto le altre vengono «dimostrate a priori», cioè letteralmente generate a partire da definizioni assiomatiche, in quanto «i princìpi con i quali si conosce che cosa siano il giusto e l’equo, o per contro l’ingiusto e l’iniquo, cioè le cause della giustizia, vale a direle leggi e i patti, noi stessi li abbiamo fatti»”. Il tema della «conoscenza dell’artefice» (largamente presente anche nei contesti scettici del Seicento, con l'intento di limitare la portata del sapere umano) viene usato da Hobbes per dare un fondamento, limitato ma certo, alle principali produzioni umane, tanto nella
teoria (la geometria) come nella pratica (il diritto e la politica). Non si tratta però di un costruttivismo senz’anima, come spesso si è rimproverato a Hobbes, giacché la «vita artificiale» dello stato — scrive il filosofo — contiene al suo interno «un’anima», seppure anch'essa «artificiale», cioè la sovranità che «dà vita e movimento
all’intero corpo» del Leviathan”. Con questo spostamento dalla «testa» (come nella trattatistica medievale e ancora in Bodin) al principio vitale dello Stato, la sovranità perde l’astratta superiorità dell’élite dirigente per essere coinvolta nel funzionamento vitale, alla lettera «animale», di quel corpo artificiale che è il Leviathan. Non è dunque arbitrario affermare che un’opera come quella di Hobbes conclude idealmente il vasto dibattito sviluppatosi intorno al tema della dignitas hominis. In una 70 Hobbes, De homine X, 5 (Opera latina, cit., t. II, p. 94). | Leviathan, Introduzione, p. 1/81 (tr. it.: p. 5).
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sorta di ideale arbitrato tra le correnti anti-umanistiche e le tendenze umanistiche del pensiero moderno, il costruttivismo hobbesiano riconosce alle prime di aver dimostrato l’integrale naturalità dell’antropologia, ma concede alle seconde di aver colto una differenza specifica dell’uomo, irriducibile alla condizione degli altri vi-
venti. La «curiosità» e l’«ndustria» individuano il proprium dell'umanità, così come il fiat creativo della politica è alla base della nascita del «cittadino». Non si tratta però, né in un caso né nell’altro, di semplici prerogative naturali, già date una volta per tutte, bensì di procedimenti operativi che, cumulando su se stessi, consentono una
reale evoluzione, un autentico progresso della condizione umana al di là della sua base di partenza puramente naturale.
Str Jobn Finch (1626-1682), Doctor, Diplomat and Virtuoso by Sarah Hutton
Introduction
This paper discusses philosophy of the English anatomist and diplomat, Sir John Finch (1626-1682). Despite his obscurity today, and the fact that he was evidently without influence (he never published anything in his lifetime), Finch is a figure who offers a revealing glimpse of intellectual life in the second half of the seventeenth century. For he was the author of an unpublished treatise, completed sometime after 1675, which captures an important period in the development of European science and philosophy, as well as offering some original contributions to theories of man and society. Some 550 pages in length, and apparently prepared for publication; this treatise discusses a wide range of scientific, philosophical, political and moral subjects, extending to such topics as music, art, astronomy, Italian
and Turkish social customs, and economic theory. The treatise reflects Finch’s engagement with scientific and philosophical developments, both in England and in Europe. Its pages bear testimony to his experience as doctor, diplomat and man of culture, to his studies under Henry More, to his activities as lecturer in anatomy
at Pisa, his encounter with the new science of Galileo and the Royal Society, and his philosophical engagement with Descartes and Hobbes. The following paper
! This manuscript survives among the Finch papers at the Leicester County Record Office (Finch Papers. DG7) where it is erroneously attributed to Daniel Finch, Earl of Nottingham. This mistake was noticed by Henry Horwitz. See his, The Work ofSir John Finch, in «Notes and Queries», CCXIII, 1968, pp. 103-104. I am grateful to for permission to quote from this manuscript (hereafter cited as Finch Papers). Very little work has been done on Finch. But see S. Hutton, Henry More, John Finch and The History of Scepticism, inJ.R. Maia Neto and R.H. Popkin (eds), Skepticism in Renaissance and Post-Renaissance TIbought, Amherst 2004, pp. 43-64; Ead., Anne Conway. A Woman Philosopher, Cambridge 2004, chapter 5; S. Villani, Between Anatomy and Politics: John Finch and Italy, 1649-71, in M. Pelling and S. Mandelbrote Practice ofReform in Health, Medicine, and Science, 1500-2000, Aldershot 2000, pp. 151-166.
(eds), The
160.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo ’
& x
is an attempt to understand Finch in this context by examining his discussion of epistemology and scientific method.
Background John Finch came from a well-connected family in seventeenth-century England. He was the youngest son of Sir Heneage Finch, MP and Speaker of the House of Commons, who died when John was only five years old. His elder brother, Heneage, and nephew, Daniel pursued public careers in law and politics: the younger Sir Heneage Finch, became Lord Chancellor of England, and was rewarded for his
services to the crown by elevation to the Earldom of Nottingham. Heneage’s son, Daniel, was to become a senior figure in the governments of William II and Queen Anne. Family distinction was not confined to the male line. John Finch’s youngest sibling, his half-sister, Anne, was one of the very few women philosophers of the
seventeenth century — better known by her married name, Conway. John Finch’s career trajectory took him first in a medical direction and then to diplomacy. After studying, first, at Oxford and then with Henry More at Christ’s College, Cambridge, he set off in 1651 to study medicine and anatomy at Padua,
where he studied under Antonio Molinetti, in the company of the man who was to be his lifelong companion, Thomas Baines. Finch’s attainments as an anatomist earned him an enzrée into Italian scientific circles. In Florence he was active in the Accademia del Cimento (with which he became associated in 1657) and he was appointed Professor of Anatomy at Pisa from1659 to 1665. He performed dissections and demonstrations at the Arcispedale of Santa Maria Novella, with such distinguished men of science as Tilman Trutwijn, Nils Stensen, Francesco Redi and Stephano Lorenzini. To judge by his letters to Leopoldo de’ Medici, he had a special interest in the anatomy of the brain, and introduced Leopoldo to the works of Thomas Willis. He also conducted investigations into the phenomena of nature, including torpedo fish (which lead to controversy with Giovanni Alfonso Borelli) and adders. His letters to his talented sister bear out his interest in new scientific enquiry: among the subjects discussed are the circulation of the blood, and the growth of plants, and theories of tidal motion. He was also an art collector: he
* For biographical information on Finch, see T.A. Malloch, Finch and Baines: a Seventeenth-Century Friendship, Cambridge, 1917; The Conway Letters, ed. M.H. Nicolson, revised by S. Hutton (Oxford 1992; ans my article in the Oxford Dictionary of National Biography, sv. Finch, Sir John, Oxford 2004. ? Finch was elected pro-rector and syndic at the University of Padua in 1656.
Str John Finch (1626-1682), doctor, diplomat and virtuoso
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commissioned and collected some sixty paintings, including four by Carlo Dolci‘. His scientific activities in Italy brought soon brought him recognition in England: knighted in 1661, he was elected fellow of the Royal College of Physicians (as socius extraordinarius) and of the Royal Society (in 1663). In 1665 he returned to Italy to commence a career as a diplomat, first as English Resident at Florence, and subsequently (1672) as Ambassador to the Ottoman court at the Porte, Constantinople. He remained Turkey until 1681, when, following the death of Thomas Baines, he
returned to England. He died shortly thereafter in 1682. Despite his evident attainments in science and culture, Finch published noth-
ing of importance in his lifetime. The late date of his treatise suggests that it did not circulate in manuscript. Since it was apparently unknown before the twentieth century, it must be considered to all intents and purposes, a work without influence, which made no contribution to the history of science and philosophy. This does not, however, mean that it has no importance for the history of science and
philosophy. Its not having an endpoint in the present is no good reason for not studying it. For one thing, it offers a revealing glimpse of seventeenth century life and culture, and a snapshot of the intellectual world of his time. For another, its
not having an outcome of its own means that its relationship to culture of its time can, considered without the distracting issues of instructive to see how Finch’s natural philosophy sits in relation to his contemporaries. Although evidently the work of someone with
the intellectual reception. It is the theories of leisure enough
to write, it is not the work of a dilettante, but a systematically organised treatise,
which bases its conclusions on observation. In its range and subject matter it may aptly be described as the philosophy of a vir/voso, that is to say, a gentleman scientist, deeply involved in investigating and explaining natural phenomena, and evaluating
on the theories of others. Instead of being underpinned by the kind of book learning practised by his Cambridge tutors it is, explicitly, the product of observation and experience, appropriate to his participation in the new observational science at the Royal Society and its sister institution, the Accademia del Cimento. Furthermore, Finch anticipates the future direction of scientific enquiry by proposing a materialist account of the natural world derived from a sense-based epistemology. Quite how radical a departure this was from his origins may be shown by comparing him with him with Henry More. An instructive instance is the account of the logical consequences of a materialist theory of perception which More gives in his Immortality ofthe Sou1659). As part of his argument for the existence of spirit 4 On Finch as art collector, see C. McCorquodale, Some Paintings and Drawings by Carlo Doli in British Collections, Kunst des Barock in der Toskana, Florence and Munichs1976, pp. 312-20. The Dolci portraits
of Finch and Baines are now at the Fitzwilliam Museum in Cambridge.
162
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo i)
&
or immaterial substance in this work, Henry More adopted the controversial strategy of agreeing with his major target of attack, Thomas Hobbes, That sense and Perception in Matter, supposing nothing but Matter in the World, is really the same with Corporeal Motion and Re-action .
The key premise for the truth of this assertion (derived from Hobbes, Ekments of Philosophy, Chapter 25, article 2), is that it only holds on a materialist view that denies the existence of immaterial substance («supposing nothing but Matter in the World»).
Among the consequences
of this position, More claims, is that
all perceptions are corporeal, and that the perceptivexpowers men and beasts are indistinguishable except in so far as men can communicate their perceptions by means of language or signs. According to Mr Hobbes, More claims, we have not the perception of any thing but the Phantasmes of materiall Objects, and of sensible words or Markes, which we make to stand for such and such Objects. Which certainly would be most true if there were nothing but Matter in the world; so that they speak very consonantly to their own Principles: I say, this is not only true in that School, but also rationall in it self, supposing nothing but Matter in the world, and
that Perception and Reaction is really one. For that Reaction being in as in Men, there must not be any difference by a perception of quite but by an externall way of communication of their perceptions. And distinction betwixt Men and Beasts must consist onely in this, that the
Brutes as well another kind, therefore the one can agree
in some common mark, whether Voices or Characters, or whatever else, to express
their perceptions, but the other cannot; but the perceptions themselves must be of one kind in both, they neither of them perceiving any thing but corporealliimpressions, such as they feel by the parts of the Matter bearing one against another.
More justified using his adversary in this way by claiming that it enabled him to «argue with him upon his own Principles». What he sought to show was that a necessary inference from Hobbes’ own principles is the existence of immaterial substances. A major part of his /wwortality of the Soul, is devoted to proving their existence. It goes without saying that More’s argument failed to have their intended effect on Hobbes — although Hobbes is said by More’s biographer, Richard Ward, to have considered More’s philosophy the next best thing to his own’. The materialist position which More ascribes to Hobbes, in his Zyzortality ofthe Soul, does, however,
find an echo in the writings of one of More’s pupils, Sir John Finch. On the face ° H. More, The Immortality of the Soul, p. 62, in A Collection ofSeveral Philosophical Writings, London 1662, p. 5. ° Ibi, pp. 61-2. 7 R. Ward, Life of Henry More, Dordrecht 2000, p. 55.
Sir John Finch (1626-1682), doctor, diplomat and virtuoso
163
of it, this might not seem very surprising, except for the fact that Finch did not follow his teacher in using these points as a weapon against the materialists. For,
like Hobbes, Finch held that all knowable reality is corporeal. Furthermore, Finch echoes More in holding «very consonantly» to his «own Principles», that sense perceptions ate corporeal impressions, and that the difference between animals and humans is the latters’ ability to communicate perceptions. Where More tried to use Hobbes’s materialist theory of sense perception as a platform from which to argue the contrary — namely that the conditions of perception imply the operation of spiritual agency — Finch declined to take that step. But in explaining senseperception in materialist terms, he did not take the high road to Hobbism. What he proposed was altogether less dogmatic, and better adapted to the conditions of experimental modes of discovery. The theory of human nature which it underpins was, as it turns out, less hostile to More than his scepticism about immaterial spirits would seem to suggest.
Epistemology The fundamental premise of Finch’s philosophy is that all knowledge is sensory: everything of which we have knowledge is material since «all knowledge arises from sense, & that what is not Sensible is not Intelligible». Knowledge is produced by connecting and comparing sense impressions received in the common sensorium, which he also calls variously «the Perceiving Faculty», «Common Sense» or even «Soul». According to Finch the common sensorium receives and accumulates sense impressions from the various sense organs in the form of «signatures» or «corporeal shapes», everyone of which corresponds to a sensation. Although they are physical, these signatures are neither straightforward imprints of sensation, nor reproductions in miniature of the object sensed. Rather, signatures function symbolically — Finch also refers to them as «notes» and «hieroglyphs», as if they constitute some kind of shorthand. They are not, therefore, phantasms in the traditional sense of Aristotelian psychology. Rather, they function like the shapes which make up letters of alphabet. The sense data processed by the «Perceiving Faculty» include both impressions received immediately from the senses and those taken from the accumulated data bank of signatures stored in the memory. («For all knowledge is
* Finch Papers, fol.133. ° Ibi, fol. 19
164.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo \ x
either an inward alteration from the present outward affection of the sensorium or Organ of sense or else the memory of some alteration before perceiv’d») . A number of things follow from Finch’s theory of perception. First, in the absence of sense impressions, and the signatures derived thence, there can be no
knowledge: «That a thing, of w[hi]ch I find no signature layd up or impress’d can never be known or apprehended by me». Secondly, the process of forming signatures requires sense impressions to be repeated: since signatures are normally indistinct at first, they need to be re-inforced so that clear understanding can be achieved. Perception can be sharpened and knowledge thereby improved by refresshing or re-imprinting the signatures, by «the frequent reimpressing or reading the signatures elicited from outward sensations». Conversely absence of sensory stimulus can result in the loss of the power to perceive — Finch cites the case of prisoners who have gone blind as a result of being held in dark prison cells. But Finch was also persuaded that the common sensorium makes it possible to substitute once sense for another, citing the instance of a blind Dutchman who, reputedly, could discern colours by touch. A further consequence of Finch’s doctrine of signatures, is that the physical imprint can have physiological consequences. The best example of this is the old theory according to which physical characteristics of unborn babies derive from the pregnant mother. Finch explains foetal characteristics not through the power of the mother’s imagination, but by means of his doctrine of signatures through which he elaborates a theory of inherited characteristics — of which more later on. An important consequence of his claim that knowledge derives from senseperception is scepticism about the knowledge of incorporeal things. Finch objects, that the term ‘incorporeal itself implies body: «incorporeall is nothing but meer negation in us, being the same as not Corporeall; and that when we say a thing is Incorporeall wee onely mean it is not either thick or thin body» . He argues that speculation on the nature of spirits, souls and God is futile. Finch does not in fact deny the existence of spiritual beings. Rather, he denies that we can form any knowledge of them: «Yet I will not deny that there are Orders and ranks of Incorporeall Beings [...] and that the Soul is Incorporeal too, but we understand nothing of y° Soub .Nevertheless, in spite of his scepticism about the possibility of non-sensory knowledge, he did not deny the existence of absolute and unchanging moral principles, and held that moral principles are imprinted in human minds. God, he writes, provided for man’s well-being
10 " 2 !3
Ibi, fol. 17. Ibi, fol. 28. Ibid. Ibi, fol. 119.
Str John Finch (1626-1682), doctor, diplomat and virtuoso
165
by Implanting in the Souls of Mankind the Sense of Good and Evill, as well as in
their Bodyes the Sense of Triste and Jucundum. Dolorus and Pleasant‘.
Finch’s scepticism extends beyond question of the existence of immaterial things to all metaphysical speculation. He also applies scepticism to knowledge of the physical world. Our grasp of the truth is restricted by the limitations of our faculties: not only does truth exceed our finite minds but since human beings can only know what is perceivable by their senses, human knowledge is necessarily limited. As a result, individual knowledge is potentially impoverished — in this respect humans and animals are alike; if anything animals have a sharper awareness than men. But the difference between mankind and animals is that human beings have the ability to accumulate and communicate sense knowledge, both to one another and across time (a claim which echoes Henry More, in the quotation above). This social aspect of learning distinguishes men from beasts and makes it possible to overcome the limitations on knowledge that our dependence our senses imposes. As a result human beings have developed both knowledge and culture, whereas the «want of Communication of the severall Experiences of their Predecessours to their Posterity» which results in «the want therefore of Arts & Sciences amongst Brutes». The limitations on human knowledge being what they are, most knowledge is provisional or uncertain, but it can be brought closer to the truth through the
sharing of experience. Thus, certainty is not actually a precondition for advances in science and philosophy, but collective endeavour is essential. Experiment is central to the acquisition of knowledge, for, just as we are able to form a clearer understanding of the physical world around us from repeated sense impressions, so knowledge may be increased and repeated correction of what are taken to be the facts, which are modified in the light of experience. But since observation through experimentation can only produce limited knowledge — as he puts it, «Experiments may afford a good Sallad or a Good Sauce in Philosophy, but Never a good Mealy” —so experiment must be part of a wider process of collective enquiry, of which communication is also an essential part. Scientific enquiry is, therefore, a discursive process, advanced by communication with other people: And the Nearest approach Human Discourse can make to the Discovery of Naturall Objects, being the History of their Actions and Passions faithfully Recorded from our own Observations; Or as Veridically convey’d to us by long and repeated Experiences of others .
14 Ibi, fol. 407. 15 Ibi, fol. 7. 16 Ibi, fol. 195. 17 Ibi, fol. 133.
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all Huminismo : x
We have access to the «experiences of others» either directly (by conversing with them) or indirectly (through their books). The search after truth being a collective process, no single individual can claim a monopoly on truth — «in Philosophizing there can be no Dictatoun»'*. It also follows that the advancement of science does not entail the repudiation of past contributions. «Knowledge does infinitely depend upon the Tradition of Our Ancestors, especially if we Improve the Speculation, by reflecting upon whatsoever comes under the cognisance of Mankind».
Anthropology Finch’s theory of perception and his methodology of discovery may be illustrated by his anthropology. As an ultra-montane traveller in Mediterranean
territories,
Finch was intrigued by cultural and physical difference, in particular skin colour and differences of temperament. These he sought to explain by a theory of inherited characteristics which have their origins in environmental conditions — (it would, therefore, not be too far-fetched to call proto-Lamarkian). Finch arrived at his theory by a combination of his own theory of perception, his own observations and the reports of others. According to Finch the dark skin colour of non-white peoples (e.g. Moors, Turks or native Americans), is the mark of long-repeated cultural practices, which developed as a way of dealing with particular climatic conditions. His explanation depends on the role of signatures in his theory of sense-perception. Finch’s hypothesis is that humankind was originally one homogenous species, and that variation in colour evolved as a result of the fact that people inhabiting warm places where insects are a problem adopted the practice of using unguents as insect repellent. These preparations stain the skin. By persistent use, the unguent stain comes to act as a signature which, over time and from one generation to the next,
causes physical changes, so that eventually later generations acquire the colour in question without application of the unguent. Thus the skin itself became dark: Tis very probable that in Africa India and all those Hott Regions where Black & Tawny Mores are found, That Anciently the defence against Insects was that of oyl and Fatt of Animals; wch unctions by constant use under the heat of a scorching Sun Must needs Tann the skinns of them yt us’d them and produce a Tawny Colour, and some particular oyles and compositions of oyntment rendred them Black. »
18 Ibi, fol. 14. !° Ibi, fol. 7. 2 bifoLe7A:
Str John Finch (1626-1682), doctor, diplomat and virtuoso
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Finch bases his conclusions on comparative analysis of different cultures — Turkish, Abyssinian and Newfoundland are the ones he mentions. The data he uses
in his analysis is not first hand, but derives on the reports of first-hand witnesses whom he evidently regarded as reliable. The first such report is anonymous — an account of the indigenous peoples of Newfoundland given by un-named «credible Persons that have bine upon the Place». According to these travellers, the natives of Newfoundland rub themselves in a red-ochre to deter gnats, with the eventual result that, over time, their skin colour has taken on a reddish hue. The second
report is from a Turkish source who is named. He is «Rastan Aga» whom Finch met at Adrianople on 23rd July 1675. From Rastan Aga he learned about a Turkish client of the prince of Abyssinia who used a time-honoured device for insect repellent, in accordance with «the Custome of His Ancestors». This consisted of a hat made of raw ox hide and which was filled with two pounds of suitably perfumed tallow, which melted in the heat all over his body. This made his skin «of a Jett and Shining Black». Now this Black Colour produced at first from the artificial Use of these unctions, a thing partly accidentall, growing into Esteem, as well as into use & custome, The Perceiving Faculty from the pleasing & Common Signatures of it, produced these Colours in the succeeding offspring & Generations, wch with much Labour the first Parents arriv’d to. And thus what at first was Artificiall became afterwards Natural to another of that Race, & to them Onely .
Another example of inherited characteristics concerns the temperament of contemporary Italians who bear the hallmark of their Roman ancestors in heir courage, dignity and independence. Finch explains this in a similar way to the theory by which he accounted for dark skin colour. Seventeenth-century Italians, he writes,
«Naturally be the wisest Men & the bravest spirits». This is to be explained by the fact that they still bear the marks of the dignity of the ancient Romans. In a discussion which focuses on the temporal (as opposed to spiritual) power of the Pope, Finch draws a surprisingly (for a Protestant) secular parallel between Catholic and Pagan Rome. Despite invasions, he writes, Italy from the first Infancy of the Roman Government to this day, was never without Rule & Civility being made the seat of the greatest Universall Power that Ever was known either in Temporal or Ecclesiastical Jurisdiction [i.e. the papacy].
2 Jhi, fol. 72.
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all‘Illuminismo
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L'antropologia filosofica di Pierre Bayle: nuova scienza e critica della religione di Gianluca Mori
Pierre Bayle non fu certamente uno scienziato, e la sua preparazione scientifica non è neppure paragonabile a quella di molti filosofi a lui contemporanei. Su questo è stato detto di tutto e con abbondanza, spesso anche con esagerazione: si è parlato di incultura matematica, di ignoranza della fisica newtoniana e dei recenti sviluppi delle ricerche sul vuoto, perfino di una generale insensibilità e arretratezza rispetto al progresso delle scienze del suo tempo, tanto è vero che Bayle sceglierebbe sempre, tra due teorie in concorrenza, quella in contrasto con la scienza moderna, con
una sorta di fiuto scientifico alla rovescia'. In realtà, aldilà di queste forzature (che potrebbero essere facilmente smentite, per esempio sul punto del copernicanesimo), Pinfluenza su Bayle della tradizione scientifica e in particolare della ‘nuova scienza’ — ma forse sarebbe contestualmente più corretto parlare di ‘nuova filosofia’ — è notevole, per motivi soggettivi e oggettivi. Bayle si sentiva, e questo è il lato soggettivo, un filosofo nuovo, irridente nei
confronti della tradizione aristotelica (con alcune giustificate eccezioni, specialmente in merito alla logica)? e sempre pronto a mostrare il suo interesse per le tematiche scientifiche, alle quali riserva uno spazio rilevante sulla sua rivista, le Nouvelles de la
république des Lettres. Ma già nel manuale universitario redatto a Sedan verso il 1675 si sente un forte orgoglio nella trattazione delle materie riguardanti la scienza, che costituiscono il grosso dell’opera, con ampie aperture alla fisica meccanicistica dei ! C.B. Brush, Montaigne and Bayle: Variations on the Theme ofSkepticism, The Hague 1966, p. 274, nota 1. Cfr. A. Robinet, L'aphilosaphie de Pierre Bayle devant les philosophies de Malebranche et de Leibniz, in P. Dibon (ed.), Pierre Bayle, le philosophe de Rotterdam, Amsterdam 1959, p. 58; E. Labrousse, Pierre Bayle, Hétérodoxie
et rigorisme [1964], Paris 1996’, vol. II, p. 209. 2 Cfr. P. Bayle, Œuvres diverses, La Haye, 1727-1731, 4 voll., ristampa anastatica con due volumi supplementari: Olms 1964-1990 [d’ora in poi: OD], vol. IV, p. 132: «nous croyons la logique beaucoup plus
utile, et plus digne de l’étude des philosophes, que plusieurs modernes ne se l’imaginent».
192
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo i)
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«moderni». Un orgoglio tutto cartesiano, quello di Bayle, che si ritrova per esempio
nella conclusione della Dissertation sur l'essence des corps (1680): la fisica deve spiegare i fenomeni naturali, non limitarsi ad elencarli o a ricondurli a qualche misteriosa facoltà; altrimenti non saremmo scienziati ma annalisti della natura, o vuoti ripetitori
di stanche formule come i tardi scolastici’. E l’interesse di Bayle per la scienza, e in particolar modo per la fisica, non si esaurisce con il passare degli anni. Nel Dizionario
storico-critico (1697) si sprecano gli elogi della scienza moderna e della «cultura dell'evidenza», che ha soppiantato le vane formule degli aristotelici*. Ancora nel 1702,
infine, Bayle trova il tempo e il modo di criticare una spiegazione della continuazione del movimento proposta da un anonimo sul Journal de Trévoux. Ci si può però anche chiedere se, dal punto di vistà oggettivo, cioè per quanto
riguarda la filosofia di Bayle nei suoi contenuti, vi sia effettiva osmosi tra questo lato filoscientifico della personalità di Bayle e la sua concezione dell’uomo. Apparentemente, il legame può apparire abbastanza blando. Cos'è infatti l’uomo,
per Bayle? Varie definizioni e caratterizzazioni si trovano nella sua opera: la più caratteristica del suo pensiero potrebbe essere quella delle Nouvelles lettres critiques: «l’uomo è un ammasso di pregiudizi e di passioni che sa tirare delle conseguenze»®. Ma tante altre formule, non tutte originali, si trovano nei suoi scritti. Una breve lista, in ordine sparso: —
—
— —
«L’uomoè fatto di un Dio e di un animale, attaccati insieme» (Dic, «Ovide», H); «L'uomo è un animale credulo e bugiardo» (Dic, Borri», I)
—
«L'uomo è un lupo per l’uomo» (Die., «Blomberg, Barbe», C) «L'uomo è un mostro più mostruoso dei centauri e delle chimere della mitologia» (Pensées diverses, § 176, OD HI, 113) «L’uomo è la più sfortunata di tutte le creature» (Dic, «Pauliciens», L)
— —
«L'uomo è la più vana di tutte le creature» (Dic, «Xénophanes», D) «L'uomo è cattivo e infelice» (Dic, «Manichéens», D)
—
«L'uomo è una piccola repubblica che cambia spesso i suoi magistrati» (Dict., Pyrrhon», F)
OD
IVs 131:
* Cfr. P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, Amsterdam, P. Brunel ef 4, 1740 [d'ora in poi: Dict],
art. «Aristote», rem. M: sulla «culture de l’évidence» che deve far cessare ogni riferimento a «ce grand
nombre d’entités dont notre esprit n’a aucune idée», limitando le ricerche scientifiche «à la figure, au
mouvement et à la situation des particules de la matière, toutes choses que l’on conçoit clairement et distinctement». "Gir O IDA a100: ‘OD II, 328b.
L'antropologia filosofica di Pierre Bayle
193
—
«L'uomo è un animale indisciplinabile» (Dic, «Esope», I).
—
«L'uomo è un caos più inestricabile di quello dei poeti» (Continuation des pensées diverses, § 112, in OD III, 343a)
— —
«L'uomo è un assemblaggio mostruoso di mille cose contraddittorie» (OD II, 319a) «L'uomo è il boccone più duro da digerire per tutti i sistemi filosofici» (Continuation des pensées diverses, § 112, in OD III, 343a)
Questo è il lato più apparente, vistoso e spettacolare, anche se forse non il
più genuinamente bayliano. Qui, infatti, Bayle riprende molti luoghi comuni della sua epoca e si adegua ad un clima culturale diffuso. I suoi punti di riferimento, com'è stato ampiamente sottolineato, sono i vari La Rochefoucauld, Sénault, Jacques Esprit (poi oggetto di un articolo omonimo, pieno di irritazione e sarcasmo, nel
Dizionario filosofico di Voltaire), uniti alla folta tradizione calvinista e luterana. Per non dir niente, ovviamente, di Pascal, in cui si ritrovano, a proposito dell’uomo,
molti degli epiteti usati da Bayle: chimera, mostro, caos, soggetto di contraddizioni (e anche verme, fogna, tanto per gradire)”. C’è un nome per tutto questo, nel Seicento: agostinismo. Etichetta che intende indicare alcune scelte filosofiche e teologiche generali: pessimismo antropologico, insistenza sulla macchia del peccato originale, sulla necessità della grazia divina, ma anche sulla funzionalità del male del mondo nel quadro del disegno provvidenziale, ancorché imperscrutabile, di Dio. Per Pascal, il peccato originale è la chiave per comprendere le contraddizioni dell’uomo, la sua duplicità, la coesistenza nell’uomo di male e bene, di verità ed errore, di grandezza e miseria”. E Bayle utilizza certamente queste celeberrime prese di posizione pascaliane, a cui rinvia più volte, in modo esplicito e implicito’. Non è dunque un caso che nel Settecento un gesuita — il padre Castel — potesse anche metterli insieme, Pascal e Bayle, distinguendo certo tra il primo, sublime misantropo (come aveva detto Voltaire) e il secondo, classificato invece tra gli «spiriti maligni», ma accomunandoli per il loro pessimismo nero: «tutto era infetto, tutto era corrotto, tutto era perduto, secondo Bayle e Pascal [.. De
Ma è questo il Bayle filosofo o piuttosto solo il Bayle moralista? La distinzione è genuinamente bayliana, e la si può applicare qui con piena legittimità. Il moralista declama, deplora, giudica, esalta, condanna, fustiga i costumi del secolo; il filosofo
7 Si vedano le Pensées nell’ed. Lafuma, n° 131. 8 Ivi, n° 246. ° Cfr. Pensées diverses sur la comète, § 176, OD II, 113; Dict, «Panormita», H.
ve
10 Journal de Trévoux, fév. 1737, art. 13, p. 220. Cfr. A. McKennay Pierre Bayle: moralisme et anthropologie, in
A. McKenna e G. Paganini (eds.), Pierre Bayle, religion, critique, philosophie, Paris 2004, pp. 321-347: 321.
194
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Iluminismo % x
ha, secondo Bayle, un compito più chiaro e più arduo insieme: quello di provare le sue asserzioni!!. Quando si parla di antropologia filosofica si parla allora di qualcosa di diverso dalle semplici esclamazioni sulla depravazione umana. D'altronde, per antropologia, già all’epoca di Bayle, si intendeva per l'appunto soprattutto questo: una sorta di dottrina filosofica dell’uomo, fondata sulla metafisica ma anche sulla
fisica, e vertente sui rapporti tra la mente e il corpo nel compositum umano, com'era il caso della Anthropologia (1683) del cartesiano Pierre Cally — ma l’uso del termine, peraltro non univoco in epoca cinque-seicentesca, è attestato anche in ambito medico e in contesti extra-cartesiani!. Certo, trattandosi di Bayle, non si avrà il caso
di un pensiero sistematicamente strutturato, ma quello .di una serie di riflessioni rapsodiche, sparse in opere diverse e in un arco di tempo molto ampio. Il concetto centrale che Bayle prende in considerazione fin dall'inizio è quello delle leggi della natura: concetto chiave del meccanicismo seicentesco, ovviamente
ereditato nella versione cartesiana e soprattutto malebranchiana, per la quale fa testo il Traité de la nature et de la grace (1680), opera rivoluzionaria in cui si sostiene appunto che quella delle leggi generali è la modalità tipica dell’agire divino, l’unica compatibile con la saggezza di Dio. Fin dall’epoca di Sedan Bayle insiste su questo punto: l’uomo è una macchina e il suo corpo è una parte di materia priva di qualsiasi differenza rispetto al resto delle sostanze estese, se non il carattere organico, ovvero
il fatto che nell’uomo — come anche negli animali — le varie parti di materia concorrono alla conservazione del corpo in maniera ordinata e diretta a questo scopo. Però questa macchina, cartesianamente, è unita dal suo creatore ad una mente. E
ciò avviene attraverso leggi psico-fisiologiche generali, quelle leggi che Bayle chiama «leggi dell’unione dell’anima e del corpo» e che sono del tutto analoghe a quelle del
mondo fisico per la loro universalità! È il momento qui di ricordare una tesi che è particolare di Bayle, almeno all’interno della tradizione cartesiana a cui egli pur appartiene, e che incide notevolmente sulle sue dottrine antropologiche: lo stretto parallelismo tra atti della mente e moti corporei. Secondo Bayle, non si danno idee nella mente, ovvero stati mentali di
!! Sul modo diverso di leggere Platone e Cicerone quando scrivono da moralisti o da filosofi, cfr. Continuation des pensées diverses, § 68 (OD III, 2905-2919). Si veda anche OD, III, 1784, sui declamatori e
i «professeurs de rhétorique»: «ils vont droit au cœur, non pas droit à l’entendement [...] Ce n’est [pas] notre méthode» (e cfr. OD, III, 526d). 1° Cfr. A. Kyper, Anthropologia corporis humani, Lugd. Batavorum, Wijngaerden, 1650. Nella tradizione umanistica italiana parlava di Antropologia già Raffaele Mattei, detto il Volterrano, ma in un senso diverso, come storia dell’umanità attraverso le biografie di uomini e donne illustri (Maffei, tra l’altro, è una delle
fonti di Bayle, che lo cita in molti articoli del Dizionario storico-critico). Si veda però anche lAnthropologia di Galeazzo Capella (1533), intesa come studio della natura fisica dell’uomo. In francese, invece, il termine
anthropologie designa a fine Seicento una concezione di tipo antropomorfico (cfr. Littré, 52). !3 Questa la posizione di Bayle fin dal suo manuale di Sedan (1675 circa), cfr. OD IV, 462.
L'antropologia filosofica di Pierre Bayle
195
qualsiasi tipo, secondo la nozione allargata di ‘idea’ inaugurata da Descartes, senza
un corrispettivo corporeo, presumibilmente nel cervello, fatta salva ovviamente l’eterogeneità tra gli stati mentali e quelli materiali: i primi non hanno niente a che vedere con i secondi, le sensazioni non sono lunghe o larghe, le percezioni non
sono triangoli o quadrati. Questa tesi è presente in tutto Bayle, dal manuale di Sedan e dalle Obiezioni a Poiret (1679)!5 fino alla Risposta alle questioni di un provinciale (1703-07)%. E si tratta di una tesi originale, che non si trova in questa forma in altri cartesiani, se non nell’eterodosso Regius, filosofo in odore di materialismo che
sostiene il carattere organico della mente rispetto al corpo (nel senso che la mente non può compiere nessun azione senza usare gli organi corporei)'’. Ma niente di simile in La Forge, niente in .Poiret — contro cui appunto reagisce Bayle —, niente ovviamente in Malebranche perché la vision en Dieu implica per l'appunto l’assoluta indipendenza dal corpo delle idee intellettuali, e niente nell’Art de penser di Arnauld e Nicole. L’autore a cui forse Bayle si avvicina di più, tra i cartesiani ortodossi, è Pierre-Sylvain Régis, sostenitore di una versione empiristica o sensualistica del cartesianismo, il quale sostiene infatti che ogni idea dipende dai sensi e, quindi, dai
movimenti materiali presenti nel cervello™. Questa tesi di Bayle merita di essere sottolineata tanto più che egli la presenta assertoriamente — il che è assai raro in lui, patito com’era delle proposizioni condizionali, dell’ ‘ammesso che...’, del ‘se... allora’, del “dato non concesso’. Dunque: «è certo che la nostra anima, durante la sua unione con la materia, ha bisogno
del corpo per tutte le sue operazioni; non ne escludo le più intellettualiy'®. Con il che viene meno quel privilegio cartesiano dell’io sostanza pensante, che si scopre esistente proprio negando la materialità. Bayle, tra l’altro, contesta anche questa argomentazione di Descartes: mi sento pensante anche negando l’esistenza dei corpi, ma potrei esser io stesso soltanto corpo, e ingannarmi credendo di essere una mente...” Secondo Bayle, il pensiero e il corpo sono nell’uomo strettamente legati e non si da un’autonomia della mente rispetto ai movimenti corporei ad essa connessi: si può supporre, infatti, che «Dio abbia regolato le leggi dell’unione dell’anima e del corpo in modo tale che tutte le modalità dell’anima, senza eccettuarne alcuna,
14 Ivi, 482. © Ivi, 1482. 16 Cfr. OD III, 543a e 785b-786a.
!? Cfr. H. Regius, Philosophia naturalis, Amsterdam, L. Elzevier, 1654, p. 342 ss.: «mens humana [.|
est organica, sive corporeorum organorum indigens, ita ut plane nullas actiones sine corporeis organis perficere possi».
8 P.-S. Régis, L'usage de la raison et de lafoi, Paris, J. Cusson, 1706, pp. 5, 108: des mouvements particu-
liers des organes du corps sont la véritable origine de toutes les connaissances particulières de l'âme».
OD III, 543a,
2 OD IV, 147b.
;
196
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo LU
x
siano legate necessariamente tra loro con l’interposizione [cioè: im corrispondenza] delle modalità del cervello [...]»?!. Bayle si appoggia, a questo proposito, su osservazioni di senso comune, tipiche peraltro di ogni materialista, e in particolare sulla stretta connessione tra pensieri,
compresi anche quelli più astratti, e stati fisici: siamo ancora più stanchi dopo un ragionamento che dopo uno sforzo fisico; alcune malattie corporee distruggono la ragione e la memoria, altre rendono fanatici e masochisti (è il caso di Savonarola yi oppure, con la solita ironia: alcuni poeti hanno bisogno di una bella bevuta per far versi, e così via”. Per rendere pensabile la sua posizione, Bayle si appoggia su un dogma della nuova scienza meccanicistica: l’eterogeneità tra movimenti corporei e sensazioni della mente. Così come la fame non ha niente a che vedere con un certo movimento di spiriti animali nel cervello a cui essa corrisponde, analogamente
non c’è nessun bisogno che un pensiero intellettuale abbia un esatto corrispettivo corporeo: basta che un certo movimento degli «spiriti animali» a livello cerebrale sia l'occasione di determinati pensieri, che possono essere anche i più astratti ed intellettuali?*. Bayle disegna così una sorta di occasionalismo funzionalistico (i pensieri come corrispettivo mentale di stati del corpo, o meglio come risultato di una determinata configurazione materiale)”, certo tutt’altro che facile da dimostrare, ma
non privo di conseguenze degne di esser considerate sul piano antropologico. 1) Determinismo psicologico e negazione del libero arbitrio. Se i movimenti dei corpi sono causalmente determinati e dipendono da Dio in ogni istante, altrettanto deve valere per le menti. I pensieri della mente stanno infatti alla sostanza pensante così come il movimento sta alla sostanza corporea’. Non a caso, per spiegare come funzioni la volontà, Bayle si serve del principio d’inerzia: la nostra volontà tende al bene, ma cambia direzione se viene sviata da ostacoli sensibili”. Il determinismo
psicologico non è che la traduzione del determinismo fisico, ed è uno dei risultati del nuovo concetto di mente uscito dal cartesianesimo unito ad uno dei dogmi del meccanicismo.
2! OD III, 785b-786a. 2 Cfr. Dict., «Savonarola», M: «Personne au reste ne doit ignorer que la vertu d’un fanatique, son
zéle, ses macérations, ne soient équivoques. C’est pour l’ordinaire une vertu de vapeur, un déréglement des organes, un dérangement de quelques fibres du cerveau». 2 OD UI, 543a. # OD IV, 148a («ipsas quoque puras intellectiones animae elici dependenter a spiritibus animalibus»); 482 («Deus voluit ut anima cogitaret ad praesentiam motuum organorum, et sensationes haberet, quae
essent quasi gradus necessari ad ratiocinia, judicia, ideasque mere intellectuales»). 2 Cfr. anche OD IV, 151a. % OD IV, 151b. ZOD My 2122
L'antropologia filosofica di Pierre Bayle
197
Si ha qui, ovviamente, anche un'alleanza apparente con le teologie rigide e predestinatarie, negatrici del libero arbitrio dell’uomo in nome dell’onnipotenza e
dei giudizi imperscrutabili di Dio. Alleanza ampiamente cavalcata da Bayle, per ovvi motivi opportunistici, senza che peraltro ciò gli impedisca di osservare che da questa tesi sulla determinazione degli stati mentali deriva naturalmente una delle difficoltà maggiori di ogni teologia cristiana: se Dio, come già Cartesio aveva stabilito, è la causa di tutti i movimenti corporei ed è anche, come dovrebbe aggiungere ogni cartesiano, causa dei pensieri della mente, anche di quelli malvagi, ne risulterà che
«Dio è la causa del peccato esattamente come è la causa del movimento locale”, Dietro l’intransigente calvinismo di Bayle, anche sulla questione del libero arbitrio,
si nascondeva quindi una posizione ben più radicale: e non è un caso che Bayle metta insieme, ad un certo punto, gli spinozisti e i calvinisti, usando gli argomenti
dei secondi per giustificare la posizione dei primi: infatti, tutte le obiezioni che si potrebbero fare a uno spinozista sul suo presunto fatalismo colpirebbero anche i calvinisti (con l'aggravante che questi ultimi devono anche difendere gli attributi morali di Dio)”. Bayle, insomma, concepisce l’uomo come un automa, che si differenzia
dagli automi puramente meccanici perché è dotato di coscienza (viene qui addirittura ripreso l'esempio spinoziano della pietra che si crederebbe libera se sapesse di
rotolare) e perché, talvolta, subisce degli impulsi che gli risultano gradevoli”. È da notare che anche su questo punto Bayle abbandona il suo procedere attraverso proposizioni condizionali, per asserire dogmaticamente l'impossibilità della libertà «d’indifferenza», ridotta anch’essa ad un'illusione della mente, ovvero
ad uno dei tanti pregiudizi che la nuova filosofia ha dissolto. La conformità, del tutto accidentale, tra preferenze soggettive e modificazioni della mente, causate
in realtà da Dio, illude gli uomini e fa creder loro di essere liberi. In realtà la mente è determinata da cause precedenti così come lo sono i corpi. E il fatto che spesso siamo costretti ad agire volontariamente contro le nostre stesse preferenze — come quando un pericolo ci costringe a gettar via i nostri beni — dimostra che non siamo padroni delle nostre volizioni?!. La volontà è per Bayle una bilancia che agisce meccanicamente secondo i pesi che gravano su di essa, e non si dà alcun potere autonomo di scelta diverso dai moventi interni alla mente, i quali a loro volta dipendono dagli spiriti animali che affluiscono nel cervello e che causano in ultima analisi le nostre paure e le nostre speranze. Non è la semplice idea di una
28 OD IV, 153b. L’obiezione tornerà in Dig, «Sennert, D.
2 Cfr. soprattutto OD III, 402b, 665a. 30 OD IV, 158b e I, 460% «les pierres mêmes
capables de sentiment».
31 OD III, 784b-785a.
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seraient des causes très libres [...] si elles étaient
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198.
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punizione, in quanto tale, che ci fa cambiare idea, ma una passione generata nel cervello dagli spiriti animali, che prevale su una passione contraria facendo scendere
uno dei piatti della bilancia: su tutti questi fenomeni causali la nostra mente non
ha il minimo potere”. 2) Possibilità del materialismo e dubbio sull'immortalità dell'anima. La tesi della necessaria corrispondenza tra pensieri della mente ed eventi corporei nel cervello può naturalmente essere il primo passo per rimettere in questione l’esistenza di una sostanza pensante diversa dal corpo. Così era stato per Regius e così è per Bayle. Il quale sostiene infatti, fin dal 1679, che il pensiero potrebbe essere soltanto una
proprietà (non essenziale) del corpo, tale da aver luogo in presenza di determinate aggregazioni materiali, magari per un miracolo divino”. Un argomento, questo, che diventerà famoso con Locke, ma che era già stato proposto da Mersenne nelle VI obiezioni alle Meditazioni di Descartes (Bayle aggiunge peraltro che, se si ammette la possibilità di questo miracolo, si ammette anche l'eventualità che la materia sia
pensante per natura). Quanto all’immortalita dell'anima, essa non è dimostrabile razionalmente anche se valesse lo spiritualismo, perché Dio potrebbe comunque decidere di ridurre al nulla le anime alla morte del corpo, e questo sembrerebbe il caso, secondo Bayle, dato che non si ha indizio alcuno della sopravvivenza delle anime: sta dunque ai sostenitori dell’immortalita dimostrare che le cose stanno altrimenti”. In ogni caso, la credenza nell’immortalita, attestata soltanto dalla fede, non
è necessaria né per la morale né per la politica — lo avevano già detto Pomponazzi e Cardano — e il fatto che l’anima sia ritenuta immortale da tutti gli uomini potrebbe essere solo un effetto della loro vanità, come voleva Plinio”.
Certo, Bayle sostiene anche, e specialmente in vari luoghi del Dizionario, la maggior chiarezza filosofica del dualismo cartesiano rispetto alle varie tesi materialistiche, in particolare quella di Democrito e degli epicurei*’. Ma è anche vero che poi fa di tutto per rimettere in crisi tale chiarezza, che si scontra con uno scoglio insuperabile: la sensibilità degli animali, vera croce del cartesianismo, e quindi dello spiritualismo. Fin dalle sue tesi sostenute presso i gesuiti di Tolosa nel 1670*, Bayle * Sul tema della volontà come «bilancia», cfr. soprattutto OD III, 783a-b.
# OD IV, 150b. * Ibid. Lo ripeterà anche molti anni dopo: «On ne prévient pas l’inconvénient par ce correctif, c’est que la matière ne devient pensante que par un don tout particulier de Dieu, Cela n’empécherait point qu’il ne fût vrai que, de sa nature, elle est susceptible de la pensée» (Die, Jupiter», G). * OD IV, 159a. Cfr. anche Dick, «Bonfadius», E (nessuno è mai tornato dall’aldilà, anche chi aveva
promesso di farlo per dirci com'è). * OD II, 780b. Cfr. anche Di, «Pomponace», F; «Perrob, L. Cfr. soprattutto Dic, «Dicéarque», C, L, M; «Leucippe», E; «Épicure», rece
38 Pubblicate in OD V 1, 2-11.
L'antropologia filosofica di Pierre Bayle
199
sostiene che gli animali sono dotati di sensibilità e che solo un cieco potrebbe negarlo. Diventato cartesiano, sospende il giudizio sulla questione e nel manuale di Sédan se la cava con un escamotage: all’interno del capitolo dedicato ai corpi animati tratta delle piante, viventi ma prive di sensibilità, e poi, parlando della cosiddetta anima sensitiva, salta acrobaticamente all’uomo, considerandone le funzioni conoscitive
inferiori, mentre non menziona neppure gli animali (anche se il capitolo si intitola De bestiis...). Ma lo scheletro nell’armadio prima o poi viene fuori e, nelle sue ultime opere, avendo ormai rinunciato da tempo a presentarsi come un cartesiano ortodosso o un malebranchiano, Bayle sostiene di nuovo apertamente l’assurdità della posizione di Descartes: ma allora, dato che è impossibile negare che gli animali sentano, e dato che è implausibile dar loro un’anima immortale‘, non resta che
ammettere la possibilità del materialismo. In un luogo della Risposta alle questioni di un provinciale, Bayle giunge ad affermare che l’ipotesi materialistica, almeno, rende conto dell’opposizione tra stati mentali all’interno dello stesso individuo, che invece
la tesi della spiritualità ed indivisibilità dell'anima (da lui stesso pur apertamente lodata e sostenuta in molte occasioni, ed anche contestualmente) non permette di capire: se l’anima è una e indivisibile, com’è possibile che essa sia divisa tra una scelta e un’altra, o tra un giudizio e la sua negazione? Se si trattasse di qualcosa di materiale, invece, le oscillazioni interne alla mente sarebbero spiegate più facilmente perché sarebbero riportabili alla lotta tra corpuscoli diversi, in analogia con quanto
avviene nel mondo esterno"!. 3) Negazione del peccato originale. L'opposizione di Bayle a questo dogma deriva da motivazioni teologiche — ed è questo l’aspetto più noto della sua polemica — ma anche strettamente antropologiche. Questo secondo aspetto merita attenzione perché rimanda ancora una volta alla posizione di Bayle sul rapporto tra la mente e il corpo. Due erano, nell’uomo, i segni indelebili del peccato per la tradizione agostiniana: l’ignotanza e la cosiddetta concupiscenza, cioè l’istinto sessuale. Ad esse si associavano, come punizione del peccato, morte e malattie. Bayle riporta tutti questi caratteri dell’uomo alle leggi della natura, e ciò del tutto esplicitamente. «Non so spiegarmi», scrive nel Sypplément del Commentaire philosophique, «come tanti si siano lasciati trarre in inganno da questa immaginazione che l'ignoranza sia
una conseguenza del peccato»*. L’ignoranza dipende dalla struttura naturale dell’uo-
mo, cioè dalle leggi dell’unione dell'anima e del corpo, il cui effetto è a volte ancora
3° 40 # 4
Cfr. Cfr. OD OD
| OD IV, 431 ss. Dict., «Pereira», in corp.; «Rotatius», C, e soprattutto OD III, 657a, 791a, 889b, 940a.
III, 543b-544a. II, 514a-b.
È
200.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo
peggiorato dall’educazione e dai pregiudizi. D’altra parte, quando Adamo iniziò a peccare — osserva Bayle lapalissianamente — egli non aveva ancora peccato, e non avrebbe potuto peccare se non fosse caduto in un giudizio erroneo, il che dimostra
che era già ignorante...*. L'ignoranza dunque non ha niente a che vedere con il peccato; essa deriva dall’unione della mente umana con una «macchina portatile» — così Bayle definisce, cartesianamente, il corpo —, una macchina che si sviluppa
poco a poco e che ha bisogno di molte esperienze per orientarsi nel mondo della natura. Se i bambini nascono sprovveduti e privi di tante conoscenze, ciò dipende dalla disproporzione sussistente tra le loro facoltà corporee e mentali, che li espone
ai peggiori pregiudizi. Ancora una volta si tratta di una semplice conseguenza delle leggi della natura, che Dio ha stabilito e che non muterà (come aveva insegnato Malebranche); quindi, conclude Bayle, le cose sarebbero andate allo stesso modo anche se Adamo non avesse peccato‘. Quanto alla concupiscenza, qui il punto cruciale è ancora quello degli animali: si trovano infatti negli animali — che non hanno avuto un Adamo — gli stessi istinti che si trovano nell'uomo. A questo riguardo, nell’articolo «Eve» del Dizionario,
Bayle se la prende direttamente con Sant'Agostino. A sentire quest’ultimo (il riferimento, canonico, è al libro XIV del De evitate Dei, cap. 23), gli uomini, prima del
peccato di Adamo, avrebbero potuto procreare senza alcun gesto impuro, con la stessa tranquillità con cui i contadini seminano i campi. Ma si potrebbe obiettare, osserva Bayle, che gli animali «si portano a moltiplicare la loro specie con un ardore incredibile; ciò che viene chiamato /bido, e tutto ciò che si può concepire di più
impuro e di più impetuoso sotto questo termine, si nota tra gli animali quando il fuoco dell’amore li anima: essi non hanno tuttavia fatto niente che li abbia sottratti al loro stato naturale»*. La questione della concupiscenza si presta inoltre ad un aut-aut molto scomodo: se si sostiene che Adamo
non aveva istinti sessuali, si è
costretti a sostenere che Dio li ha creati negli uomini suoi posteri, il che è assurdo (bel modo di punire, con una punizione che incita a reiterare il criminel)“; se ce li aveva già, ma poteva reprimerli grazie alla ragione, Dio è comunque colpevole perché era causa diretta di una passione di per sé condannabile e sensuale, per quanto momentaneamente sottoposta al dominio della parte razionale dell’uomo“’.
4° Ibid. * Ibid. Su Malebranche si vedano le Pensées diverses sur la comète, À 66, in OD III, 44a (Dio non cambia
le leggi della natura anche se gli uomini hanno peccato). Cfr. anche il Commentaire philosophique, in OD II, 437a: «il ne paraît nullement que les faiblesses de l’enfance soient une suite du péché d’Adam, non
plus que les sensations continuelles que nous avons, ensuite de l’action des objets sur nos organes». 4 Dict., «Eve», F. CODA iui: * Dict., Hélène», X: «Ce serait supposer que la machine de l’homme, en sortant des mains de son
L’antropologia filosofica di Pierre Bayle
201
D/altra parte, e qui si entra nell’ambito più specificamente teologico, il peccato
originale è quanto di più assurdo si possa immaginare: lo ammettono imprudentemente anche i cristiani quando trovano dottrine simili nei pagani**. L’assurdita del dogma deriva da un’infinità di motivi: intanto è Dio, secondo la dottrina occasionalistica e secondo la concezione del libero arbitrio che si è vista sopra, che crea la
volizione di Adamo che lo porta a peccare‘; ma comunque Dio, con la sua saggezza ed onniscienza, non doveva permettere il peccato, oppure doveva bloccarne ogni conseguenza”. Inutile, poi, affidarsi alla comoda soluzione di incolpare il Diavolo, dato che anche il Diavolo dipende da Dio, e «ciò che è causa della causa è causa anche del causato» (in altre parole, il Diavolo è sottomesso a Dio, e dunque è ancora una volta Dio il responsabile primo del male, anche nel caso in cui il Diavolo
ci metta del suo)”. Infine, nella Remarque B dell’articolo «Pyrrhon» del Dizionario, Bayle colloca senza esitazione il peccato originale tra i dogmi contraddittori con la ragione: O questi o quella, e occorre in questi casi scegliere tra il cristianesimo e la
filosofia (come precisera nell’E/aircissement sur les pyrrboniens, aggiunto alla seconda edizione dell’opera)”. Sul male, si sa, crolla per Bayle la teologia razionale, che non può spiegarne la compatibilità con l’esistenza di un Dio buono, saggio e soprattutto libero. La materia deve necessariamente muoversi per avere qualche effetto, ma il pensiero, così come la materia può assumere le forme più diverse, può diversificarsi in tanti modi senza necessariamente includere la sofferenza: perché allora l’uomo soffre? Tutta la polemica di Bayle contro William King, nella Risposta alle questioni di un provinciale, è fondata per l'appunto sul dogma dell’eterogeneità tra movimenti corporei e pensieri, e dunque sull’esistenza di leggi psico-fisiologiche che connettono certe sensazioni a certi stimoli corporei: se c'è un Dio, è da lui che dipendono tali leggi, ma esse sono l’origine, oltre che di vari sentimenti piacevoli, anche di quanto di più odioso e crudele si possa immaginare: il dolore di un moribondo, le sofferenze della gotta, del parto, della calcolosi. Insomma, se il male dipendesse dalla scelta di Dio, Dio stesso dovrebbe essere considerato alla stregua di un monarca che si
divertisse a torturare i suoi sudditi®. Créateur, auroit été actuellement tournée vers les sensualités et vers les passions condamnables; et ce
serait faire tort aux perfections du souverain Etre». 4 Cfr. Dict., «Tullie», R.
fr OD LY, Gla. 50 Si vedano al riguardo i due celebri articoli del Dizionario sui Manichei e sui Pauliciani. 5! Dict., «Zoroastre», F. 5 Dict. vol. IV, p. 644.
5 OD II, 655a. Vedi anche, nel Commentaire philosophique: «toutes les suites du péché d’Adam, par
rapport à ses descendants, comme sont celles d’être enclin aux choses sensibles, de trop dépendre du corps, d’ être traversés par les passions et les préjugés, [sont] des dépendances nécessaires des lois que
202
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo 4
%
Bayle rompe dunque lo stretto legame tra antropologia e teologia, tipico dei moralisti cristiani di ogni epoca. Per Bayle, il cristianesimo non risolve le difficoltà e le contraddizioni dell’uomo, anzi le complica, perché mette la ragione in contrasto
con se stessa. Il crollo filosofico della teologia lascia la scienza dell’uomo in una sorta di limbo, dove, in attesa di tempi migliori, l’unico appiglio è ad una «natura
delle cose» genericamente intesa, interpretabile soltanto in un quadro deteologizzato. All’immagine, rivelatasi razionalmente insostenibile, di un Dio legislatore eterno,
che stabilisce le leggi dei corpi e delle relazioni tra i corpi e le menti, si sostituisce quella di un ordine originario fondato su leggi generali, oggetto della scienza. Ma è un ordine cieco, che non ha nessun occhio di riguardo per gli uomini e per le
altre specie viventi: il mondo è sempre nello stato più»perfetto che si possa dare, perché è nell’unico stato possibile” — e questo vale, evidentemente, anche per l’uomo, rispetto al quale la natura non è né madre né matrigna”, ma semplicemente indifferente. L’uomo, quindi, si comprende filosoficamente soltanto supponendo che egli è una parte dell’universo naturale, e che la ragione ha su di lui un potere limitato. La ragione non è che wo dei moventi naturali della volontà, la quale è in preda ad un continuo gioco di azione e reazione dipendente in ultima analisi dagli spiriti animali nel cervello. Come in un orologio, il movimento finale è illusoriamente unico, ma risulta da tanti ingranaggi che girano anche in senso contrario gli uni agli altri’. In questo gioco segreto di moventi, la ragione è tendenzialmente dalla parte più debole. Ciò spiega perché «l’uomo non agisce secondo i suoi principi» (tesi preferita di Bayle, che egli in realtà riprende, reinterpretandola, dagli Essais
de morale di Pierre Nicole)”. La natura umana, infatti, è fatta in modo tale che gli stimoli sensibili risultano più forti di quelli razionali: il vero motivo per cui gli uomini, dice Bayle fin dai Pensieri sulla cometa, amano le passioni e detestano coloro che vogliono impedirne la soddisfazione, è che «la costituzione macchinale dell’uomo, cioè l’unione della sua anima con il corpo, fa sì che quasi tutti gli uomini trovino
Dieu a établies de sa pure volonté, en unissant les esprits avec la matiere, et en ordonnant la multipli
cation de l’homme par la voie des générations» (OD II, 437b).
* Cfr. Continuation des pensées diverses, § 110, OD, III, 339b-340a: «S'il arrivait un arrangement des corps différent de celui que nous voyons, et qui parut moins beau et plus incommode à l’homme, il ne serait pas pour cela ni moins beau, ni moins commode eu égard à tout l’univers». 59 Su quest’ultimo punto, cfr. ivi, § 59, in OD III, 271a-b.
°° OD III, 543b-544a. O Cfr. Pensées diverses sur la comète, § 136 («Que l'homme n’agit pas selon ses principes»), in OD III, 87 s. Il brano di Nicole da cui Bayle si ispira, ma ovviamente rifiutandone il sottofondo teologico, è riportato nella Continuation des pensées diverses, $ 139, in OD III, 389: «quand il s’agit de passer de la
spéculation à la pratique, les hommes ne tirent pas de conséquence...», ecc. (Essais de morale, vol. I, p. 171 dell’ed. Paris, Desprez, 1701).
L'antropologia filosofica di Pierre Bayle
203
piacere nel vendicarsi e nell’essere ricchi, e che solo pochi si dilettino nella caccia, nella pittura, nello studio e nella virtù», È dunque del tutto naturale ed ovvio che,
nel mondo, le azioni virtuose siano incomparabilmente più rare di quelle dettate da moventi egoistici — proposizione che, per Bayle, è «altrettanto certa di un principio
della metafisica». Le leggi dell’unione dell’anima e del corpo sfuggono dunque al nostro controllo. Tuttavia, il comportamento degli uomini può essere modificato solo agendo su di esse, e non, assurdamente, contro di esse, in nome di un inesistente potere
della ragione sulle passioni (l’anti-stoicismo è un tratto costante in Bayle). Il ruolo della società è proprio quello di controllare le passioni macchinali dell’uomo, combattendo, o correggendo, la natura attraverso la paura delle punizioni e il desiderio delle ricompense. Perché cos'è la natura, si chiede infine Bayle? È qualcosa che è in noi indipendentemente dall’educazione e che ha a che fare soprattutto con la conservazione fisica del corpo: mangiare, bere, più quelle passioni che si trovano in
ogni essere umano fin dalla tenera età, come lo spirito vendicativo, il desiderio di essere lodati — tipico, secondo Bayle, degli intellettuali e degli studiosi —, la passione per il gioco e per l’amore fisico”!. In Bayle il binomio cristiano peccato/grazia si trasforma nella dicotomia natura/società, o in quella, analoga, natura/educazione — entrambe destinate ad ampia
fortuna nel secolo dei Lumi. Da qui si capisce anche la lontananza dell’antropologia di Bayle da quella di Pascal: il padre Castel aveva torto nel metterli insieme. Per Pascal, l’uomo è contraddittorio e il peccato originale è l’unica dottrina che spieghi questa contraddizione. Per Bayle, invece, ad esser contraddittorio, in senso proprio,
cioè in senso logico, è proprio e soltanto il peccato originale (che contraddice evidentemente la bontà e la saggezza di Dio), mentre le follie degli uomini si spiegano semplicemente con un riferimento alla loro natura e alle leggi psico-fisiologiche che li determinano; sono certo, retoricamente, delle contraddizioni, tali follie e compor-
tamenti apparentemente assurdi, ma del tutto spiegabili a chi conoscesse i segreti del cervello e degli «spiriti animali» che agiscono caoticamente in esso. Quello dell’uomo è infatti un caos ordinato — per usare un ossimoro del tutto sostenibile nel quadro del meccanicismo cartesiano. Non a caso Bayle descrive con le stesse parole il caos originario dell’universo e il caos della mente umana: in entrambi i casi si tratta di un caos sottoposto a leggi, quelle leggi che, secondo i
58 Pensées diverses sur la comète, § 171, in OD HI, 109b.
9 OD II, 248b.
6 «Les deux anses avec quoi l’on remue l’homme sont la crainte du châtiment et le désir de la ré-
compense » (Ec/aircissement sur les athées, in Dict., vol. IV, p. 628).
51 Cfr. Continuation des pensées diverses, § 8, in OD II, 199b-200a. Cfr. anche OD III, 713b.
204.
L’'umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ,
N
cartesiani, sono sufficienti a far evolvere l’universo (secondo la celebre «favola» del Monde di Descartes) fino ad una condizione di stabilità, dovuta all’equilibrio dei vari movimenti. Non c’è anarchia, in questo mondo meccanicistico dove vale la «legge del più forte», ma un equilibrio che risulta dall’azione uguale e contraria delle varie particelle: lo stesso equilibrio tra forze uguali e contrarie che si ritrova, secondo Bayle, in ogni uomo e nel complesso della storia umana. Anche nell’uomo, infatti,
le infinite combinazioni degli spiriti animali generano le infinite sfaccettature delle passioni, delle immaginazioni, dei desideri. Perché Guillaume Farel ha perso il dono
della continenza e si è sposato quando ormai era in età avanzata? Non lo sappiamo ma non ce ne dobbiamo stupire: non sappiamo quali movimenti si generano nel cervello per l’azione dei sensi esterni, e quali infiniti cambiamenti questi movimenti generano nella mente®. Solo in un luogo, l’articolo «Esope» del Dizionario, Bayle suppone che si potrebbero prevedere i corsi e ricorsi della storia umana così come si è potuto descrivere le oscillazioni di un pendolo, cosicché, prendendo spunto
da Huygens, si potrebbe addirittura scrivere un De centro oscillationis morals, in cui si ragionerebbe su principi quasi altrettanto necessari. Tuttavia, nonostante queste uscite non esenti da una certa qual millanteria, non
c'è in Bayle alcuna certezza ottimistica sul fatto che la nuova scienza permetterà di rispondere a tutte le domande fondamentali dell’antropologia. Il mondo psicofisiologico eccede in complessità le capacità umane: gli stoici antichi e moderni sostengono che i beni mondani non sono in nostro potere, ma essi lo sono, in realtà, molto più di quanto lo siano i movimenti del nostro corpo, e quindi molto più dei nostri stessi pensieri. La tranquillità dell'animo non dipende certo da noi: «lo stomaco, la milza, i vasi linfatici, le fibre del cervello, cento altri organi di cui
gli anatomisti non conoscono ancora la sede e la figura producono in noi tante inquietudini, gelosie, tristezze... Tutto ciò è forse in nostro potere»®. Insomma c'è molto da spiegare nell’essere umano, che permane un mistero nonostante la nuova scienza. Al filosofo non resta allora che osservare il caos dell’uomo con un certo distacco, quella via di mezzo tra il sarcasmo di Democrito e la disperazione di
°° Cfr. Continuation des pensées diverses, § 110 e § 115, in OD III, 339 s., 348 s.; Dit, «Ovide», G (dove
Bayle discute anche la «favola» cartesiana) e OD III, 544a. 9 Cfr. Dict., «Fare», I: «Considérons que l’impression de certains objets sur notre cerveau ne dépend
point de notre âme. Ce n’est point à cause que nous le voulons que certains objets nous plaisent, c’est à cause qu’ils remuent d’une certaine manière les fibres de notre cerveau, et qu’ils y ouvrent des valvules qui étaient fermées. Ce changement en produit d’autres presqu’à l'infini dans la machine: de là naissent des désirs, et des avant-goûts de plaisir, et cent autres innovations qui détruisent la continence». Sulle infinite combinazioni degli spiriti animali e dei sentimenti umani, cfr. anche Dict., «Savonarola», M (citato sopra, nota 22); «Spinoza», M (su Bredemburg). î “ Cfr. Dict., «Esope», I. % Dict. «Reinesius», B.
L'antropologia filosofica di Pierre Bayle
205
Eraclito® che Bayle ha sempre predicato. Uno sguardo disincantato sulla commedia umana che egli, peraltro, non ha sempre saputo praticare in proprio; ma si può anche considerare questo fatto come un’ennesima conferma della sua tesi preferita: l’uomo non agisce secondo i suoi principi. 4
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Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani di Oreste Trabucco
Temi del discorso che seguirà sono: l’immagine di un filosofo, Descartes; di una città, Genova; di uno dei molti savants che, lungo il Seicento, s’appassionano alla scienza in terra italiana, Giovan Battista Baliani.
Figura eclettica costui, solo /ato sensu annoverabile nell’eterogenea schiera che nella storiografia contemporanea è andata sotto il nome di ‘scuola galileiana’, sicché, quarant’anni or sono, Serge Moscovici aveva ben donde di riconoscere «le problème Baliani». Condizione peraltro non comune in seno agli studi quella di Baliani, tra quanti ebbero a dialogare con Galileo sui problemi della nuova scienza, giacché il nostro genovese può vantare — ciò che non può dirsi, pur nel complesso di saggi e di edizioni che ne hanno eletto ad oggetto l’opera, né di Castelli né di Cavalieri né di Torricelli — due classiche monografie a lui dedicate, venute a breve distanza, 1967 e 1969: quella del già ricordato Moscovici; quella di Claudio Costantini?. Studi che, seppure assai distanti per metodi d’indagine e fini, s’imperniavano sulla parte più nota dell’opera di Baliani, quella che lo aveva proiettato negli scottanti dibattiti contemporanei de motu e de vacuo, e che gli aveva guadagnato rinomanza nella respublica literaria. Benefico rilancio storiografico, dunque, che però non ha poi ulteriormente fruttificato a vantaggio di una ricostruzione complessiva della vicenda di questo intellettuale della Genova seicentesca, la cui esperienza ha un rilievo pressoché unico ai fini di una più fondata documentazione dei delicati quanto sfuggenti rapporti tra nuovo sapere filosofico-scientifico e strutture socio-politiche nell’Italia barocca. Dai libri di Moscovici e Costantini la via è stata segnata, fino a ! S. Moscovici, L'expérience du mouvement. Jean-Baptiste Baliani disciple et critique de Galilée, Paris 1967, pp. 21-28. 2 €. Costantini, Baliani e i Gesuiti: annotazioni in margine alla 5
falonieri e Orazio Grassi, Firenze 1969.
ila del Baliani con Gio Luigi Con-
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giungere alla meritoria edizione del 1998, per cura di Giovanna Baroncelli, del De
motu naturali gravium solidorum et liquidorum”. Con una macroscopica conseguenza: la restante parte dell’opera di Baliani resta a tutt'oggi solo lambita. Ciò che potrebbe non generare le ambasce dello storico, se solo, già prima facie, essa non rivelasse un alto grado di ricercata intertestualità e non fosse animata da una corrente unificante che stringa i diversi domini in cui Baliani volle esercitarsi. Per non sacrificare oltremodo all’astrazione, è bene subito offrire una verifica testuale di siffatta intenzionale compattezza. Osservando in margine che essa è già additata nel densissimo libro di Costantini*, contenente im nuce la traccia di un lavoro avvenire rimasto allo stato di desideratum. Nei mesi della prima diffusione della propria operetta De motu, precisamente nel settembre 1639, nel discuterne per
lettera con Bonaventura Cavalieri a petto dei Discorsi di Galileo, Baliani scrive: Per quello che dice intorno alla suppositione, dirò prima in quelle che per esser il fundamento d’ogni cosa, io ho havuto per bene di averle per principio di scienza, pet le ragioni accennate nella prefatione, et per dichiararmi meglio, ancorché io habbia
fatto qualche studio nella matematiche, il mio genio è stato più tosto circa il cercare le cause e gli effetti delle cose naturali, de’ quali ho sempre stimato se ne sappia poco, percioché non ci serviamo ove si può dell’aiuto delle matematiche, le quali ci
assicurano del vero [...] Per mezzo della scienza sappiamo le passioni di un sogetto dai suoi principii, i quali o sono propositioni universali, dette definitioni, e tale è sempre la proposition maggiore del sillogismo demonstrativo,-o sono altre passioni dello stesso sogetto, e tale è la proposition minore, la quale se non è provata con un sillogismo precedente convien supporla e merita nome di petitione, se è certa, et evidente, né può per mio credere provarsi tale sol per esperienza.
Queste parole, abbozzando a quest’altezza una sorta di personale discorso de methodo, sono riprese, a distanza di quindici anni, in altro ben differente conte-
sto, permanendo tuttavia il riferimento alla situazione che le ha generate; il nuovo contesto è l'avvertenza al lettore premessa alla seconda edizione del Trattato della pestilenza, stampata a Genova nel 1653. Qui si legge: [...] in mia gioventù, dimorando gran parte del tempo nel mio studio; havea letto più libri, quasi in qualunque materia: ma senza rimanerne, il più delle volte, interamente appagato. Dandomi più attentamente alle matematiche; mi parve di cominciar a conoscere, come sia stato il sapere: e quanto meno goda l’intelletto della opinione, 3 GB. Baliani, De motu naturali gravinm solidorum et liquidorum, a cura di G. Baroncelli, Firenze 1998.
‘Cfr. Costantini, Baliani e i Gesuiti, cit., in particolare pp. 64-65; altrettanto tale coscienza si rinviene in G. Nonnoi, // pelago d’aria. Galileo, Baliani, Beckmann, Roma 1988, passim. 5 La lettera è edita in Moscovici, L'expérience du mouvement, cit., p. 204; si avverte una volta per tutte
che, nell’attingere alle trascrizioni di Moscovici, s’interviene implicitamente a sanare gli errori di lingua che quelle costellano.
Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani che della scienza. Trasportato perciò da un ardente desiderio di ovviamente cercandola; venni in cognitione, #ervos atque artus esse credere. Appoggiato io per tanto sopra questa verità; m’ingegnai di mio potere, in qualunque disciplina, le cose certe dalle dubbie.
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ritrovarla, e perciò Sapientiae, non temere distinguere, a tutto E già, che siamo
certi, essere qualunque cosa vera, qualora conosciamo la dipendenza, che ha ella da primi principij; mi parve di comprendere che saremo allora sicuri di saperla, quando, riducendo il discorso fattone in sillogismi; sarà in ogn’un di loro, la maggiore una di quelle propositioni, che, intesi i termini, sono naturalmente da chi che sia conosciute;
e la minore una suppositione, dipendente, in matematica, da petitioni; in teologia, da rivelationi; ed in filosofia, da esperienze [...] Già mi parve haver provato (confidato pure in replicate esperienze) che i corpi gravi naturalmente discendono con la proportione de’ numeri impati [...] So che lo stesso fu provato dal Galilei (ancorché per via contraria alla mia) nel suo libro stampato in Leida, lo stesso anno 1638 [...] Ma non di meno sono venuto poi in,cognitione, che tal proportione non è mai sicuramente vera [...] Quindi si scorge, quanto la nostra mente soglia errare, etiandio nelle esperienze;
qualora esse non siano in tutto sicure: sì come essendo tali; sono quelle sole, onde derivano le verità, che nelle materie fisiche si ritrovano’.
La relazione intertestuale ora evidenziata era già riconosciuta da Costantini, lo si è detto. Ma proprio da qui rampolla la domanda: cosa induce Baliani a recuperare, dopo tre lustri, quel lacerto de methodo, inserto nella lettera a Cavalieri dove intende
dar conto della via parallela e distinta seguita nelle proprie ricerche de motu gravium a fronte dei Discorsi galileiani? E recuperare, si badi, in un trattato sulla eziogenesi e sul governo della peste? Dalla meccanica alla fisiopatologia, ritenendo i medesimi primi principii validi in qualunque disciplina, invocando la stessa potente ra//0 reggitrice delle matematiche. Alla luce di consonanze ed attestazioni documentarie, la risposta, che si tenterà di suffragare in itinere, è: la lettura dei cartesiani Discours de la méthode ed Essais. Ma la prima domanda, quando pure fosse così soddisfatta, ne genera subito un’altra, ed assai urgente, correlata a quel problème Baliani di cui avvertiva Moscovici, sia pure mosso da ragioni alquanto diverse. Tra quanti s’accostano alla nuova scienza e ne fanno professione, Baliani occupa un posto singolare. Moscovici identificava la specificità di Baliani nelll’essere tra costoro l’unico amateur de marque, exception sul suolo italiano, in quanto isolato rappresentante di quell’awateurisme qui était la règle dans toute l'Europe. Se ciò, alla luce degli studi odierni, risulta ormai insostenibile,
essendo simili amateurs ben altrimenti numerosi e a vari livelli warquants, resta tuttavia la singolarità di Baliani. Giacché Baliani, prima che un amateur distintosi per i suoi studi scientifici nello spazio della respublica literaria, e soprattutto, è un politico, un uomo d’apparato, un esponente di spicco della classe dirigente della sua Genova. Non a caso a Baliani giungeva quarant'anni fa circa Claudio Costantini, il maggior 6 G.B. Baliani, Trattato... della Pestilenza ove si adducono pensieri nuovi in più materie... ora riveduto et ampliato, A In Genova, per Benedetto Guasco, 1653, pp. n.n.
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storico della repubblica di Genova del nostro tempo attuale; vi giungeva sotto la direzione di Luigi Bulferetti, ripetutamente interessato, e quindi esortante, ad wna più ampia comprensione storica della scuola galileiana, come dichiara il titolo di una sua problematica relazione tenuta ad un convegno che ebbe importanti ripercussioni sugli studi italiani di storia della scienza, nella medesima occasione in cui Maurizio
Torrini ampliava il novero degli amateurs in campo scientifico guardando alla Roma barberiniana’. La suddetta correlata domanda investe allora Baliani uomo di stato, alla ricerca
di leggi generali che spieghino i fenomeni naturali e siano importabili nella sfera della salute pubblica; di qui i nessi intertestuali concatenanti le diverse parti della sua
opera, dal trattato sul moto a quello sulla peste ai dialoghi filosofici e morali, opera pensata come una costellazione governata da quelle leggi universali il cui possesso è clavis nelle mani di chi guida la respublica, fondamento per l’esercizio di quel governo dei Magnificà che è tratto distintivo della Genova cinque e seicentesca. Ma accostiamoci ora più decisamente al 7raffato della pestilenza. Esso appare per la prima volta a Savona nel 1647; nell’offrirlo al cwrioso lettore, Baliani premette poche parole, intese a legare l’operetta alla parte già nota della sua attività scientifica consegnata alle stampe, e invoca la stessa methodus là adottata: «[...] dicendo io alcune cose nuove, quali elleno si sieno, mi giova sperare, che sien per dover esser
aggradite da chiunque è più tosto di cercar la natura delle cose nelle cose stesse che ne’ libri altrui (come mi è forse riuscito parlando del moto) io sarò più ardito in palesarti altri miei pensieri intorno a più materie [...]»?. Parole che ben restituiscono il clima intellettuale in cui opera in tali anni Baliani, che ha l’anno precedente fatto ristampare a Genova una seconda edizione con ampi incrementi e modifiche del suo De motu gravium del 1638, sempre più divaricando le proprie posizioni da quelle di Galileo in nome di un peculiare habitus sperimentale che mira a vincolare la stessa legalità matematica tanto ammirata, e che sappiamo essere punctum dolens dell’intera sua parabola scientifica. Methodus altrettanto esibita mentre è coinvolto nel serrato dibattito de vacuo seguito all’esperimento torricelliano, entro cui assume una propria originalissima posizione. Tutto ciò è stato oggetto d’indagine ampia ed approfondita, sicché qui non vi s’indugia. Prima d’entrare nel corpo del 7rattato, tuttavia, devono aggiungersi due considerazioni. La prima di ordine filologico: pur
7 L. Bulferetti, Per una pin ampia comprensione storica della scuola galileiana, in La scuola galileiana. Prospettive
di ricerca. Atti del Convegno di studio di Santa Margherita Ligure (26-28 ottobre 1978), Firenze 1979, pp. 179201; in tali atti si legge la relazione di M. Torrini, Due galileiani a Roma: Raffaello Magiotti e Antonio Nardi,
pp. 53-88. ' * La formula è tolta dal titolo del libro, assai rilevante per il discorso che si viene qui conducendo, di C. Bitossi, // governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova 1990. ? Baliani, Trattato della Pestilenza..., In Savona, per Gio. Tomaso Rossi, 1647, p. n.n.
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recando il libro la data del 1647, esso esce di tipografia solo l’anno successivo,
come apprendiamo dal carteggio che Baliani intrattiene con Mersenne, cui annuncia ripetutamente la pubblicazione imminente nel corso del 1648. Ai primi di gennaio, a poca distanza: «[...] stampo un’operetta della peste. Stampata che sia,
la manderò a V.P. già che l’intenderà ancorché sia in lingua italiana e stampo più tosto quest'opera che altre per esser questo stampatore più atto alle cose volgari che latine», e «Hora, Io stampo un trattato della Peste»; quindi in febbraio: «Vado
appresso a stampare il mio libro della peste in cui spero che V.P. retroverà materie curiose almeno nuove»; per dire infine nel giugno: «lo son mortificato di esser stato impedito a non poter mandar [il mio trattato della Peste] per quest'ora a V.P., ma in ver, ancora che io Phabbia cominciato a stampare questo Decembre passato e che questa fosse opera da finir in pochi giorni, varii accidenti han cagionato la dilatione [...] hora il libro è finito»'®. Non è questo dato estrinseco: il libro è annunciato a Mersenne in dense lettere, dove si discute di urenti questioni pneumatiche, ma
pure di problemi anatomo-fisiologici a partire da un noioso intervento chirurgico subito dal Minimo. Baliani premette nella succitata prima lettera del gennaio 1648: «Il trattare delle vene non è cosa di mia professione ch’io non son medico, ad ogni modo un giorno forse ne dirò qualche cosa» - nell’avvertenza al lettore del Trattato della pestilenza conclude: «Del curar la peste io non parlo, pet non esser io Medico» — e aggiunge: «Del moto del cuore, Io ne parlerò e forse non tarderd molto»; in quella, pure citata, del giugno successivo informa: «Nel mio trattato della Peste, non mi è venuto a proposito parlar del flusso e reflusso del Mare. Ho ben parlato del moto del cuore» — e qui si ponga attenzione all’accostamento di moti di così diversa natura e al fatto che la teoria galileiana della maree era stata oggetto da parte di Baliani di intensa riflessione, anzi aveva costituito per lui pochi anni prima il principale argomento di critica al Dialogo sopra i due massimi sistemi, egli, pur latore di idee avanzate e solidali col corso della nuova scienza, così antidogmatico e spregiudicato sino alla civetteria per altri versi, impermeabile al copernicanesimo tanto da poter dichiarare incrollabilmente: «io tengo per vero solo quelle cose che non ripugnano punto a tutto ciò che tiene la S.ta Chiesa e [...] perciò stimo falsa l'opinione di Copernico de li moti della Terra, anzi tengo che sia stabile e centro dell’Universo»!!. Ora nella prospettiva del patrizio genovese il flusso del sangue acquisisce nel colloquio con Mersenne la medesima importanza del flusso del mare. Moto cardiaco e circolazione del sangue sono al centro del modello eziopatogene-
10 I brani epistolari in M. Mersenne, Correspondance..., publiée et annotée par C. de Waard et A. Beaulieu, Paris 1980, pp. 7, 22, 118, 357.
;
!! Così al gesuita Gianluigi Confalonieri, con cui intratteneva fitta corrispondenza, nel dicembre 1641
— il brano di lettera in Costantini, Baliani e i Gesuiti, cit., p. 51.
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tico assunto nel 7raftato della pestilenza: un connotato di originalità il cui valore, a quest’altezza cronologica, non sfugga. Aveva piena ragione Paolo Preto a scrivere, nel suo ormai classico libro laterziano Epidemia, paura e politica nell Italia moderna, sia pure rischiando la forzatura, con un’energia degna di miglior ricezione: «Baliani [...] nell’analisi delle cause della peste apporta lo stesso spirito di indipendenza e di pragmatico appello all’espetienza che lo guida nelle ricerche sulla trasformazione dell’energia in calore, il peso dell’aria, la pressione atmosferica e le proprietà del moto uniformemente accelerato. Il suo trentennale rapporto di amicizia e di collaborazione con Galileo, ma soprattutto le acide polemiche in vita e post-mortem sul presunto plagio delle teorie del moto, hanno oscurato nei biografi il ricordo di altre sue opere scientifiche, tra le quali un Trattato della‘pestilenza, in cui dà concreta prova di quel distacco dal dogmatismo peripatetico che il Salviati loda nella sua
presentazione epistolare a Galileo»! Quando, nel ripubblicare il 7rattato a Genova nel 1653, Baliani ne vorrà rico-
struire la genesi, indicherà in primo luogo la volontà di estirpare le credenze riposte da superstiziosi e dogmatici in una presunta peste manufatta, credenze all’origine di untori e di colonne infami; così al lettore: Ti si presenta la seconda volta questo libro, stampato la prima volta in Savona, mentre che io vi fui Governatore. Me ne diede occasione lo stampatore otioso, e l’haver meco un trattatello, che, gl’anni adietro, io haveva abbozzato della Contagione. Indussemi a scriverlo il darmi a credere, che, per lo stimarsi la Pestilenza più contagiosa di quel, che in fatti ella sia, e che i soli semi pestilenti, rimasti nelle robe toccate da un appestato, siano possenti ad infettar un Paese; si accrescono non leggiermente i mali, che
da essa ogn’hor derivano. E non solo ne’ luoghi infetti; ove, per la soverchia paura di essa contagione, si applicano rimedii, peraventura, contrarii a ciò che tal morbo richiederebbe; ma etiandio ne’ sani, per lo disturbo, che al traffico, sì necessario al
mondo, ad ogn’hora ne risulta. E parendomi che non havesse sì fatta opinione più salde radici, che l’esserci stato dato ad intendere, che ella sempre sia vivuta, e che sia
comune a tutto il Mondo, e per lunga esperienza conosciuta vera; mi cadé nell’animo, non dover essere inutil fatica, tentare di sradicarla!3.
E, dunque, che natura ha la peste, per Baliani, e come si produce? «La pestilenza [è] morbo comune, procedente da sangue infetto da vapori maligni, prodotti per virtù d’aria lungamente calda, humida, e quieta, e da lei trasportata nelle vene»; d’aria [è] quella che apport[a] la pestilenza, qualhora per esser lungamente calda, humida, 1° P. Preto, Epidemia, paura e politica nell Italia moderna, Roma-Bari 1987, p. 21; sulla peste come problema storiografico sono almeno da aggiungersi la rassegna di A. Pastore, Peste e società, in «Studi storici», XX, 1979, pp. 857-873 e i saggi magistrali raccolti in C.M. Cipolla, Contro un nemico invisibile. pi e strutture sanitarie nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1985. !9 Baliani, Trattato... della Pestilenza... ora riveduto et ampliato, cit., p. nn.
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e quieta, disponga le materie a corrompersi, ed indi estrarsene vapori pestilenti, e che poi non pur seco gli conduca, ma ce gli introduca nel polmone, nel cuore, nelle
arterie, e nelle vene; onde per esser il sangue ivi acconcio a riceverne infettione [...] in lui si generi un morbo»!*. Discorso in seguito ripreso nel Dialogo de gl'atomi visibili, apparso in quel volume di Opere diverse che Baliani vedrà stampate nel 1666 poco prima di morire. Qui si delinea un corpuscolarismo — Baliani rilutta alle tesi atomiste — di matrice eterogenea, accostabile a quello dell’indirizzo iatrochimico con cui l’autore dimostra di avere confidenza: «Più cose pet mio credere, sono atte per
dispor l’Huomo a ricever la peste, fra quali stimo io il più principale il perseverare lungamente a respirare l’aria, che contenga [gli] atomi, e semi pestiferi [...]»; «gli animali respirano di continuo l’aria, la quale [...] è necessaria per comporre gli spiriti, che poi mischiati col sangue [...] gli nodriscono: con l’aria sono questi atomi, e perciò anch'essi entrano a comporre gli spiriti, il sangue, le parti solide». Fin qui non molto di nuovo, si direbbe a ragione. Non si leggeva già in un classico della
letteratura medica cinquecentesca sulla peste, l’/uforzzatione del pestifero et contagioso morbo di Giovanni Filippo Ingrassia, che «due sieno le cagioni principalissime della
peste, Puna agente, che è la corrottion dell’aere, o ver de’ seminarii principii rimasi ne i panni, o in altre robe, o ver nella soperficie dell’huomo. L’altra patiente, che è la corrottion de gli humori»'®? Si, ma Baliani alle parole anzidette premette un lungo excursus anatomo-fisiologico de motu cordis et sanguinis'’. Baliani pone la circolazione del sangue a fondamento della vita dell’uomo. La sua anatomo-fisiologia è intricata, ritiene la nozione-chiave della medicina rinascimentale rigettata da Harvey, quella di spéritus vitalis, in dipendenza dalla quale, pur in presenza della circolazione polmonare, sussiste la convinzione che una parte del sangue transiti anche negli adulti dalla cavità cardiaca destra a quella sinistra, dove appunto gli spiriti vitali si producono!*. Benché l’esposizione di Baliani non sia interamente riconducibile al De motu cordis di Harvey, di quest'opera egli pure dové avere contezza, se allusivamente ne riprende una tesi capitale, quella della sistole quale fase attiva del moto cardiaco: «Presuppongo io primieramente insieme con molti, ancorché altri che sono in gran credito sentano in contrario, che, qualora, per essersi fatta la diastole, il cuore si : MId., Trattato della Pestilenza, cit., p. 79. 5 Id., De gli atomi visibili, in Opere diverse, In Genova, per Pietro Giovanni Calenzani, 1666, pp. 75-
76.
16 G.F. Ingrassia, Znformatione del pestifero et contagioso morbo, a cura di L. Ingaliso, Milano 2005, P- 155:
donde si trascrive con qualche modifica; su questa edizione cfr. quanto abbiamo scritto XXI (2006), pp. 390-392. 17 Cfr. G.B. Baliani, Trattato della Pestilenza, cit., p. 60 ss. mi 18 Entro la monumentale bibliografia sulla anatomo-fisiologia harveiana resta prezioso di F. Alessio a corredo dell’edizione italiana delle opere harveiane a sua cura: W. Harvey, 1963; si aggiunga almeno R. French, William Harvey's natural philosophy, Cambridge 1994.
in «Nuncius»,
è: il commento Opere, Torino
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sia gonfiato [...] con la sistole si ristringa, e che allora il sangue del seno diritto, perciò fortemente compresso [è] spinto per la vena arteriale nel polmone»!; e se in un luogo, benché incrostato di tesi viete, cita il testo di Harvey (De motu cordis,
cap. III) quasi ad litteras: «E per dar principio a cercar qual sia il moto delle arterie, ritrovandosi il sinistro ventricolo del cuore ripieno di spiriti, in quel mentre che si
ristringe nella sistole, gli caccia a forza, a mio giuditio non potendo altrove, nella maggior arteria; i quali per esser moltissimi, scorrendo agevolmente per quante le arterie che ritrovan vote, le riempiono, slargano ed aggrandiscono non a guisa de
i mantici, ma de gli otri»”’. Entro la produzione scientifica italiana della prima metà del Seicento abbiamo attestazione, per quanto ci consti, di un solo caso assimilabile a quello di Baliani.
Si situa anch’esso nel policromo scenario intellettuale che diciamo scuola galileiana ed è costituito dal Delle cagioni delle febbri maligne di Giovanni Alfonso Borelli?!, che appare nel 1649, quindi appena dopo il 7raftato della pestilenza. Qui lo scienziato messinese, studioso di geometria e di meccanica, nell’occasione di un’epidemia di febbri tifoidee, interviene, ad istanza del Senato mamertino, a proporre una
concezione della vita e della malattia sulla base del moto del cuore e del sangue, unificando i domini in cui esercita il proprio intelletto. Stante la comunanza di interessi e di rapporti dei due autori, non è possibile però oltrepassare la constatazione di analogie. E allora torniamo alla domanda precedentemente formulata, cui s’era data momentanea risposta riservando al seguito l’esibizione di più cogenti motivazioni: come giunge lo studioso de motu gravium a comporre un trattato sulla natura della peste, dove la malattia è ricondotta al wofus cordis et sanguinis? Sera risposto: mediante la lettura del Discours e degli Essais cartesiani. Baliani leggeva Descartes da anni, tra il 1641 ed 1642 discuteva per lettera del Discours e della Géométrie con l’amico gesuita Giovan Luigi Confalonieri e con Bonaventura Cavalieri, di opere del filosofo francese avrebbe continuato a provvedersi mediante Mersenne”. Nella quinta parte del Discours, al centro, trovava la circolazione del sangue nella peculiare — e dichiarata autonoma dall’opera di Harvey — versione cartesiana, dove la vita umana ed animale era ridotta al moto del fluido sanguigno”. Una wéfhode capace © Baliani, Trattato della Pestilenza, cit., pp. 61-62.
2° Ivi, pp. 63-64; questo il luogo harveiano: «[...] appare chiaro che [...] la diastole delle arterie si verifica con la sistole del cuore e che le arterie si riempiono e si tendono per l’afflusso di sangue provocato dalla contrazione dei ventricoli: anzi, chiaro è anche che le arterie si tendono perché si vanno colmando di sangue — come gli otri o la vescica — e non è già che si riempiano come i mantici, perché siano già dilatate» (Harvey, Opere, cit., p. 31).
2! Su cui O. Trabucco, «Delle cagioni delle febbri maligne» di GA. Borelli: una lettura contestuale, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXIX , 2000, pp. 236-280. °° Sulla familiarità di Baliani con gli scritti cartesiani Costantini, Baliani e i Gesuiti, cit. passim.
* Sulle scienze della vita entro l’opera cartesiana la bibliografia è ormai vastissima e proliferante; basti
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di estrinsecarsi nei diversi campi del sapere scientifico, nutrita, come afferma Descartes nella seconda parte del Discours, «di ragioni affatto semplici e facili, di cui i
geometri si servono abitualmente per portare in fondo le loro dimostrazioni più difficili», tali «che tutte le cose suscettibili di cadere sotto la conoscenza umana si
susseguano allo stesso modo»”. È nella ricezione di tale méthode che s’annidano le ragioni originanti le cospicue varianti instaurative introdotte da Baliani nella seconda edizione del Tratfato della pestilenza. Se nella prima versione del testo egli aveva incastonato una breve trattazione dedicata all’anatomo-fisiologia cardio-circolatoria per correlarvi strettamente l’eziopatogenesi della peste, ripubblicandone il testo, lo vediamo ampliare la portata della fisiologia circolatoria, ad essa riconducendo pure le passioni dell’anima. Nel
corpo di un trattato sulla peste Baliani trapianta una breve trattato delle passioni, apparentemente alla materia principale del tutto allotrio, quasi una diversione dal tema dell’opera. Ma invece ben radicato nella sua struttura profonda, a guardar meglio. Baliani mira più in alto, al possesso delle cause della salute e della malattia tanto del corpo quanto dell’anima. E, come Descartes, sia pute a tratti in maniera approssimativa ed involuta, sul fondamento del moto del sangue e degli spiriti entro la cornice della anatomo-fisiologia harveiana, o in una ad essa assai affine. È questa la ragione precipua che ci conforta nel ritenere il Descartes del Discours e degli Essais fonte della prima redazione del Zraztato della pestilenza, poiché la via cartesiana Baliani continua a percorrere nella seconda forma del testo, ora fruendo di Les Passions de l'Âme: Ma principalmente sono necessari questi spiriti nelle vene, accioché servono alla parte appetitiva dell’anima, in quanto sensitiva: perciocché sicome di quei, che non entrano nelle vene, condotti che sien per la carotide, al cervello, se ne producono gli spiriti animali, che sono i strumenti dell’istessa anima per le potenze conoscitive e motive; a qual fine per tutto ’l corpo, col mezzo de nervi, si ditribuiscono; così quei, che in esse vene s’intromettono, sono gli strumenti (oltre ciò che si è detto del vegetare) per le sue potenze appetitive, cioè a dire, per quei moti naturali, o affetti, co’ quali, per natural istinto, essi spiriti, o per dir meglio, l’anima stessa, per mezzo loro, si muove,
o vero in verso l’oggetto appreso per buono, quasi che voglia uscire ad incontrarlo, o vero, quando l’apprende per reo, ad internarsi verso il cuore, a cagione di sfuggirlo: onde si muove poi l’animale stesso a procacciarlosi: i quali moti naturali, o affetti, o qui il rinvio a E. Gilson, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Paris
19754, pp. 51-101; G. Canguilhem, La formation du concept de réflexe au XVII et XVIII siècle,ivi1955, pp:
27-57; G. Micheli, Introduzione al volume a sua cura R. Descartes, Opere scientifiche. La Biologia, Torino
1966, pp. 9-48; M. Di Marco, Spiriti animali e meccanicismo fisiologico in Descartes, in «Physis», XIII, 1971,
pp. 21-70; A. Bitbol-Hespériès, Le principe de vie chez Descartes, Paris 1990.
|
% R. Descartes, Discorso sul metodo, in Id., Opere filosofiche, 1, a,cura di E. Garin, Roma-Bari 1986, p.
303.
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passioni, che vogliam dirgli, l’uno Desiderio, e l’altro Fuga sono nominati: e perché
stando questi spiriti nelle vene, sono accompagnati dal sangue; qualor si muovono,
una portione seco ne conducono: onde è il viso, nel desiderio, di color più vivo, e
nella fuga più palido [...] Le quali passioni dell’anima (procedenti da varij moti degli spiriti nati nel cuore, e da lui spinti, per mezzo delle arterie, nelle vene) si vede, che tranno origine dal cuore;
da cui non pur escono i mali pensieri, ma da lui dipendono tutte quante le funtioni
dell’anima sensitiva, nel modo, che si è detto”.
Dove si può appunto riconoscere la fondamentale consonanza con l’articolo XXVII di Les Passions de l’Ame. «[...] mi sembra si possano definire [le passioni dell’anima], in genere, percezioni, o sentimenti, o emozioni dell’anima, che si riferiscono ad essa in particolare e che sono causate, mantenute, rafforzate, da qualche
movimento degli spiriti»?°. Ma altresì la contraddizione circa l’incerta identificazione della sede delle passioni, cuore o cervello, che è invece centrale in Descartes,
giacché la funzione attribuita alla ghiandola pineale recide energicamente il legame con la fisiologia rinascimentale cui Baliani resta largamente vincolato nel leggere
il filosofo francese”: «L’opinione poi di quelli che credono che l’anima riceva le sue passioni dal cuore, non è da prendersi nella minima considerazione, essendo fondata esclusivamente sul fatto che le passioni fanno avvertire nel cuore qualche alterazione; è facile notare che questa alterazione è avvertita come se fosse nel cuore solo per l’azione di un piccolo nervo che discende dal cervello verso di esso [...] dimodoché non è più necessario che la nostra anima eserciti immediatamente le
sue funzioni nel cuore per sentire in esso le passioni [...]»**. Dal che discende: «Nel # Baliani, Trattato... della Pestilenza... ora riveduto et ampliato, cit., pp. 131-132, 136. * Descartes, Le passioni dell'anima, in Id., Opere filosofiche, cit., IV, p. 20; su tale opera ci si limita a rinviare alla classica edizione introdotta e commentata da G. Rodis-Lewis: Descartes, Les Passions de l'âme, Patis 1966; per la letteratura precedente A. Levi, French Moralists. The Theory of the Passions, 1585
to 1648, Oxford 1964. *” Cfr., emblematicamente, quanto è detto in un testo assai celebre, dedicato all’analisi della passione
d’amore, tutto imperniato sul rapporto corpo-anima alla luce delle contemporanee cognizioni mediche e cronologicamente a ridosso della nuova anatomo-fisiologia seicentesca, a proposito della questione Se la sede della malinconia erotica sia il cuore 0 il cervello: «Se chiedete ai nostri amanti quale sia l’organo in cui essi sentono più tormento, di comune
accordo risponderanno che è il cuore [...] Io sostengo
come punto fondamentale che nella malinconia erotica il cervello è la parte ammalata, mentre il cuore è la sede della causa della malattia [...]» (J. Ferrand, Malinconia erotica. Trattato sul mal d'amore, a cura di M. Ciavolella, Venezia 1991, pp. 31-32). Sulla questione cfr. Levi, French Moralists, cit., pp. 317-328. Va altresì detto che, nel corso della ricezione, di Les Passions de l’Ame si accentuerà su alcuni versanti
«le matérialisme virtuel» tornando a sostituire il cuore all’anima quale sede delle passioni, com'è nella Explication mechanique et physique de l'ame sensitive, des passions et du mouvement volontaire (1678) di Guillaume Lamy, il quale afferma: «Les passions sont de veritables sentiments qui sont propres au coeur, comme les couleurs aux yeux, les saveurs à la langue, les sons aux oreilles» (cit. in H. Busson, La religion des
classiques, Paris 1948, pp. 134-135). ? Descartes, Le passioni dell'anima, cit., pp. 22-23.
Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani
217
conflitto fra i movimenti che il corpo coi suoi spiriti, e l’anima con la sua volontà, tendono ad eccitare contemporaneamente nella ghiandola, si risolvono tutte le lotte che si è soliti immaginare fra la parte inferiore dell'anima, che chiamiamo sensitiva, e la parte superiore, che è razionale; 0, meglio, fra gli appetiti naturali e la volontà; perché in noi c'è un’anima sola, che non ha in sé nessuna diversità di parti; e quella stessa che è sensitiva è anche razionale [...]»”. Se tuttavia vediamo giusto, abbiamo qui la prima attestazione della ricezione italiana dell’opera estrema di Descartes; ricezione tanto più significativa perché assai
tempestiva non solo, ma compiuta entro la cultura italiana che invece quest’ultimo Descartes parcamente e tardivamente assimila®. Ricezione assai tempestiva da parte di chi già era agli atti degli studi, giusta Costantini, quale lettore italiano tra i più
precoci delle opere cartesiane. E qui torna più che mai il problema Baliani. Poiché, per comprendere appieno le implicazioni del Trattato della pestilenza, ma poi dell’opera di Baliani tutt’intera,
bisogna entrare nel cuore della Genova seicentesca, «la plus mal connue — et la plus difficile à comprendre — des villes marchandes italiennes», come avvertivano le pages bleues delle Annales, segnalando nel 1988 il libro periodizzante di Edoardo Grendi su La repubblica aristocratica dei genovest!. Qui non è dato profondarsi nell’intrico socio-politico di questa Genova, ma almeno uno sguardo a volo d’uccello bisogna portare su di essa, per tentare di cogliere appieno il ruolo che Baliani vi svolge sulla scena istituzionale, oltre che culturale”. Egli, esponente della nobiltà
nuova, quella del portico — il portico emblematizza nella geografia cittadina la fazione nobiliare — di San Pietro, nipote ex sorore del doge Bernardo Claravezza, è attivo esponente del patriziato giusdicente, ossia detentore di cariche di governo, è tra i Sig pasta 30 Su db ricezione Torrini, Le passioni di P.M. Doria: îlproblema delle passioni dell'animo nella Vita civile, in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Atti del Convegno di Studi — Lecce, 4-6 novembre 1982,
Galatina 1985, pp. 433-454; su questa scia, quanto alla ricezione napoletana fin de siècle di Les passions de LAme, E. Lojacono, L’arrivo del «Discours» e dei «Principia» in Italia: prime letture dei testi cartesiani a Napoli, in «Giornale critico della filosofia italiana», XVII, LX 1996, pp. 438-442, poi in Id., Immagini di René Descartes
nella cultura napoletana dal 1644 al 1755, Lecce 2003, pp. 58-63; S. Serrapica, Note napoletane alle «Passioni dell'anima», ivi, LXXVII, 1996, pp. 476-494; S. Contarini, «// mistero della macchina sensibile». Teorie delle passioni da Descartes a Alfieri, Pisa 1997, pp. 59-91; in generale, sulla fortuna di Descartes in Italia tra Sei e Settecento sempre fondamentale Garin, Cartesio e l’Italia, in «Giornale critico della filosofia italiana», XXIX, 1950, pp. 385-405, da rileggersi ora alla luce di Torrini, Cartesio e l’Italia: un tentativo di bilancio, ivi, LXXXI, 2001, pp. 213-222, anche raccolto in M.T. Marcialis e F.M. Crasta (ed.), Descartes e l'eredità cartesiana nell’ Europa sei-settecentesca, Lecce 2002, pp. 245-260. 31 La citazione in Bitossi, // governo dei Magnifici, cit., p. 11 — la segnalazione in «Annales E.S.C», XLIII, 1988, è di E. Grendi, La repubblica aristocratica dei genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e
re 2 Per cui cfr. Bitossi, // governo dei Magnifici, cit., ad indicem e Costantini, La Repubblica di Genova, Torino
Seicento, Bologna 1987. 1987, ad indicem.
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo I)
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nobili uno di coloro che più seggono nei Collegi — si dica Senato e Camera —, che col Doge formano il vertice dello stato genovese. Scandita da cariche importanti la sua carriera di uomo di stato: commissario di Sarzana nel 1623, governatore di Savona nel 1628, di nuovo commissario di Sarzana nel 1635, e ancora governatore
di Savona nel 1647. Incarichi assai delicati, giacché Savona e Sarzana sono podestarie costituenti piazze-chiave per il governo genovese della Terraferma. Baliani condivide il programma repubblicano dei giovani, orientato alla riconquista della perduta grandeur, che cerca i suoi punti di forza in una concordia civile mirante a contenere la lotta tra fazioni generatrice di sedizioni e di immobilismo nell’azione di governo”, e nell’irrobustimento della vita culturale genovese. Un programma
guidato dall’amico letterato Anton Giulio Brignole Sale, figlio del doge Giovan Francesco. Il Brignole resuscitatore dell’Accademia degli Addormentati e amico dei Gesuiti, il cui Collegio è l’unica concreta possibilità di garantire a Genova un corso
d’istruzione universitaria?*. Vicinanza all'Ordine ampiamente condivisa da Baliani ed egregiamente documentata dal libro di Costantini, com'è quella con il padre Orazio Grassi, rettore del Collegio genovese dal 1646. Una relazione nutrita dal reciproco inconfessato interesse: quello di Baliani che seconda l’indirizzo culturale del Brignole Sale a vantaggio della città, quello di Grassi e di altri suoi confratelli, che mirano a fare di Baliani, mai ammiccante o acquiescente però in tal senso, un ariete antigalileiano sull’onda della polemica de motu, finché l'Ordine, allo scoccare degli anni Cinquanta, non chiuderà i pochi varchi sfruttati da quanti, gesuiti, inseguono un impossibile accordo tra ortodossia cattolica e nuova scienza sul terreno di uno sperimentalismo evirato della filosofia che questa sottende. Pace e cultura foriera di pace nel programma del Brignole Sale, per una città continuamente scossa dai conflitti tra fazioni nobiliari. In questa temperie, mentre è governatore di Savona, Baliani dà alle stampe il Trattato della pestilenza. La peste, il morbo per eccellenza, che semina disordine, accende gli animi della plebe sovversiva, ostacola i commerci, spopola, impovetisce; la peste associata alla guerra e alla rivolta, in questa /ron Age, per dire con Kamen, questo secolo di ferro, questa fase della storia europea a lungo ritenuta dalla storiografia essere attraversata dalla general crisis of the Seventeenth-century. Per il governatore di Savona il governo del corpo fisico è incatenato al governo del corpo
* Sui conflitti fazionali nella Genova seicentesca ancora Bitossi, // governo dei Magnifici, cit. * Sul progetto culturale del Brignole Sale Costantini, La Repubblica di Genova, cit., pp. 290-294; E. Graziosi, Cesura per il secolo dei Genovesi: Anton Giulio Brignole Sale, in «Studi secenteschi», XLI, 2000, pp.
27-87 e l'ampia bibliografia ivi menzionata. » » Su tale assai dibattuta categoria storiografica cfr. ora le recenti riflessioni di F. Benigno, Ripensare la crisi del Seicento, in «Storica», II, 1996, poi raccolte in Id., Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica
nell’ Europa moderna, Roma 1999, pp. 61-103.
Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani
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politico. Il linguaggio del trattato non può essere interpretato senza tener conto del programma politico-culturale cui Baliani aderisce. Un programma in cui, entro altra temperie ed in ragione di nuove istanze, è ripensato l’austero repubblicanesimo di Andrea Spinola, uomo di stato ed analista politico, «Andrea il filosofo», come
lo dice Galileo scrivendo a Baliani nel 1630°°. Se la metafora del corpo politico è caratteristica dell’episteme barocca, essa acquisisce ben precisi significati nel 7raztato della pestilenza quale espressione del contesto genovese. Spinola sostiene che «chi è uomo da bene è assai filosofo atto a governar bene», che chi segga nei Consigli — le assemblee dei nobili genovesi — ha, come il medico, «’ufficio [di scoprire] il mal
dell’infermo per applicarvi il rimedio [e sanare] le piaghe pubbliche», che la libertà dei Consigli è inviolabile per la salute dello Stato, poiché «per ogni poco che si offenda il cuore si dà subito morte a tutto il corpo»?. A questo lessico politico Baliani allude, e allude altresì al manifesto del programma di riforma del Brignole Sale, Le instabilità dell'ingegno del 1635, raccolta di dialoghi tra gentiluomini ritiratisi fuori da una Genova colpita dalla peste: di fronte alla calamità l’ordine sociale è ristabilito dalla cultura che feconda la civil conversazione, evocando il discorso accademico
pacificatore degli Addormentati. Qui, sotto il velame dei piacevoli conversari della nobile brigata, si sperimenta, certo alla luce di tempi nuovi, un peculiare tentativo di mettere a frutto gli avvertimenti che, una generazione prima, ancora Spinola aveva formulato: «In diversi tempi ho veduto instituir academie da’ nostri giovani nobili, ma se ben mi ricordo non ci si trattavano cose, che nelle occotrenze potessero giovar al ben publico. Ci si trattava della bellezza, dell'amore e di simili materie, le quali sapute né fanno l’uomo migliore, né più atto al governo della Republica. Non è dubio ch’eziandio trattandosi della bellezza e dell'amore si sarebbe potuto entrar a mostrare quanto bella sia la libertà publica e di quanti beni cagione. Intorno all’amore, divertir a dire che l'amor reciproco non è altro che conformità et unione d’animi e che quando tal unione si truova nelle republiche, per quanto picole e deboli elle si siano, si rendono felici et invincibili»**. Ancora di amore e bellezza si tratta nell'Accademia degli Addormentati, ma declinati con occhi miranti a/ ben publico, al governo della Republica: | O si cerca perché l’Academia de gli Addormentati solo nel Carnovale si risvegli a studiare, o pure a far mostra di quello, ch’ella ha studiato. Ad entrambi i quesiti dò la stessa risposta, cioè: perché somigliante stagione, & all’uno, & all’altro è la più proportionata di tutte. Circa dello studiare, io non credo trovarsi alcuna dottrina, che meriti più liberali le vigilie dell’huomo, quanto quella del penetrar l’intrinseco, de gli % G. Galilei, Opere, XIV, edizione nazionale a cura di A. Favaro, Firenze 1968, p. 123. # Le citazioni da A. Spinola, Seritti scelti, a cura di C. Bitossi, Genova 1981, pp. 104, 180.
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220
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo :
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altri huomini, e del non lasciar penetrare il proprio. Pàrliam prima di questo. Arte
nobilissima è il sapersi dissimulare. Que’ Prencipi, che vantan maggior vicinanza con
la Divinità s’involano a gli occhi quasi, teman di esserne profanati. Or che più fra noi divino dell’animo? e se il corpo è sua veste, per altro già non è la
veste, che per coprire. Stiasene pur dunque la schiettezza fra sciocchi, che a ragion son chiamati semplici, lasciando le cose semplici trasparir ciò, che han sotto. La dissimulazione venga ad habitar fra le porpore, non già applicata ad uffici volgari; ma
ad erudire i sembianti de’ stessi Regi [...] Tanta è la possanza di questa scienza; la quale oltre l’esser più nobile, è anche più
propria della nostra Accademia, che qual si voglia, se è vero che sia proprio il dissimulare di chi fa l’Addormentato, & è desto. Riflettete ora voi, se di lezzioni in sì fatta materia, apre stagione alcuna, scuola più frequentata del Carnovale, ch'è tutto maschere, tutto travestimenti. Egli è ben vero, che s’ei c’insegna il dissimulare noi
stessi con la finzione de’ sembianti, è all’incontro mirabilissimo in farci conoscer gli altri con la licenza, ch’era il primo studio da me proposto, e non è men confacente alla nostra Accademia, che finge a confessarla schietta il dormire; perché s’induca ad iscoprirsi chi non crede d’esser notato. Signori non ha il segreto traditore più astuto del tempo dell’allegrezza. Un cuore, ch’é solleticato dal piacere non può star fermo nel petto; forza gli è ch’ei corra alle uscite, che ne gli occhi, nelle labra, & in mille
moti apronglisi numerosissime”.
Sotto il segno della dissimulazione, la volontà di «dare fondo alle risorse metaforiche del linguaggio in un contesto ludico» coesiste con «una coscienza etica della letteratura»; e la dissimulazione si congiunge alla destrezza: Vive l’huomo co ’l pensiero destinato ad alcun fine mai sempre; e perché il conseguimento di quello è il solo centro, dove spera in braccio a bel riposo adagiarsi, a tutta forza vi s’indrizza col mezo di molte operationi, le quali sono hor con maggiore, hor con minore difficoltà condotte, secondo che più facili, o difficili sono per se medesime,
o secondo le diversità del talento di chi le essercita. Ammesso questo principio, come che incapace di contradittione mi sembri, stimerei io che la Destrezza fusse una attitudine naturale abilitata maggiormente dall’uso, e dalle regole, in esseguire con facilità, prontezza, e perfettione qualche opra, all’assoluto compimento di cui non fusse la sola forza bastevole. Ma perché delle azzioni, altre dal corpo riconoscono l’origine, altre dall’animo; quindi avviene, che, secondo la diversità dell’agente, la destrezza hora di animo, hora di
corpo richiegga il titolo, e nell’uno, e nell’altro di varii stromenti, de quali alcun de’ più principali andrem toccando, si serva. E perché prima, che a quella dell’animo si sollevi la lingua vuol prudenza, che alla scuola della men nobile si dirozi. Dico esser la destrezza di corpo una habilità di
°° A.G. Brignole Sale, Le instabilità dell'ingegno divise in otto giornate. .., In Bologna, Per Giacomo Monti e Carlo Zenero, 1635, pp. 57-59. “Le definizioni sono di A. Battistini, / Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma 2000, p. 219.
Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani
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membra in operare alcun movimento difficile con perfettione, la quale dalla sola forza
non può rimaner conseguita [...] La quale [destrezza dell’animo] per quel, che io senta, altro non è che una habilità di animo in saper operar con piacevolezza cose ancora difficili, & accommodarsi
alla
varietà delle occasioni. Ne’ termini sì angusti io già le voglio prescrivere, che seguace inseparabile della Prudenza facendola, non le conceda di stendersi pure un punto fuori de’ confini della giustitia, perché io non lascerò di stimar destro colui, il quale pur che giunga a’ suoi disegni con servire alle vicende, calchi qualche sentiere, che da quello della giustitia alcun tanto travii. Or la destrezza di animo come io diceva con quella del corpo sì domesticamente conversa, che ne gli habiti suoi gode bene spesso comparire ravvolta“!.
Dissimulazione e destrezza: controllo di sé, delle proprie passioni e capacità di leggere sotto la dissimulazione le passioni altrui. La barocca dissimulazione si catica nella Genova di Brignole Sale di significato politico*: il dominio delle passioni intende farsi disciplina che temperi le discordie civili e garantisca l’ordine sociale. In questa Genova barocca Baliani trapianta, mediante una ricodificazione dettata dal contesto autoctono, l’assai poco politica maitrise de soi cartesiana: il dressage delle passioni è assunto quale strumento politico, una medicina dell’anima capace di procurare utile rimedio al male antico che scuote e tormenta il corpo della repubblica genovese, la sediziosità delle fazioni nobiliari, a vantaggio di una socialità disciplinata derivante da «conformità et unione d’animi»; «quando tal unione si truova nelle republiche», aveva sostenuto Andrea Spinola, «per quanto picole e deboli elle si siano, si rendono felici et invincibili». Pur se fortemente caratterizzato da ragioni d’ambiente, il discorso di Baliani
evidenzia qui tutta la sua origine cartesiana: Dalla stessa considerazione del bene e del male È dunque il Desiderio un moto naturale degli spinascono tutte le altre passioni; ma per indicarle in riti, che stanno nelle vene, verso l’oggetto appreso ordine, mi servirò di distinzioni temporali; e tenen- per buono: dato dalla natura all’animale a fine, ch’ei do conto che esse ci portano a guardare molto di si muova a procacciarsi il proprio bene. più all’avvenire che non al presente o al passato, Hor si fatto moto, o desiderio, quando non sia accomincio col desiderio. Perché, non solo quando compagnato da immaginatione ne’ bruti, ed in noi si desidera conquistare un bene che non si possie- da opinione, che ciò, che si brama debba, o possa de ancora, o evitare un male che si ritiene possa avvenire; riesce debole, e picciol tempo dura: e
4 Brignole Sale, Le instabilità dell'ingegno, cit., pp. 75-76, 83.
|
# Sul valore politico della dissimulazione nel Seicento ha insistito — a partire dalla rilettura accettiana compiuta da S.S. Nigro con l’edizione T. Accetto, Della dissimulazione onesta, Genova 1983 — R. Villari, amici Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari 1993. 4 Su questo punto R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e 450 politico, Milano 1991, pp. 301-303; cfr. inoltre J.-P. Cavaillé, La politique révoqué. Note sur le statut du politigue dans la philosophie de Descartes, in Diogène», 138, 1987, pp. 123-142. 3
222.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ;
accadere, ma anche quando si desidera solo la conservazione di un bene-o l’assenza di un male — ed
\
quindi è, che non solo non desideriamo haver le ali, ma né pure grandezze, ed honori, che eccedano di
in ciò consiste tutto l’ambito di questa passione — è gran lunga il nostro stato. Ma se il desiderio è unito con tal opinione, si doevidente che essa guarda sempre al futuro [...] Basta il pensiero che un bene si può acquistare, o
manda
un male sfuggire, per essere spinti a desiderarlo.
accoppiamento di desiderio ed opinione, ancorché
Ma quando, inoltre, si considera se la probabilità
vi habbia più parte l’opinione, che il desiderio, in
di ottenere ciò che si desidera sia grande o piccola, una grande probabilità suscita in noi la speranza,
quanto che la speranza cresce, e scema, quanto cresce, e scema non il desiderio, ma l’opinione: onde
mentre
speranza,
la quale è perciò unione, o sia
scarse probabilità suscitano il timore, di cessando questa, e non il desiderio, in vece della
cui la gelosia è una specie. Quando la speranza è speranza succede la Disperatione, che è opinione vivacissima, cambia natura e si chiama sicurezza di del contrario; cioè che ’l1 bene desiderato non sia
sé o sicumera; come, al contrario, l'estremo timore diviene disperazione [...] E ora che le conosciamo tutte [le passioni], abbiamo meno motivi di prima per temerle; vediamo
per seguire. [...] E queste passioni si vede haver il loro fondamento, o vero nel desiderio, o vero nella fuga, o in un solo di loro, se sotto un solo nome generico di abbrac-
infatti che per loro natura son tutte buone, e che
ciar il bene, e fugir il male vogliamo comprendergli
ci resta solo di evitarne il cattivo uso e l’eccesso LATE
amendue: ed in questo senso sappiamo sicuramente, che il desiderio è la radice d’ogni male, non perché si fatte passioni, guidate dalla ragione non siano principal cagione d’ogni nostro bene; ma perciocché da essa scompagnate, hora con unirsi, ed hora disunirsi, hora con seguirsi, ed hora scacciarsi, talmente
ci turbano; che ci rendono questa vita inquieta, ed infelice, come stanno per pruova gli ambitiosi, gli amanti, i giuocatori, i litiganti, i nemici, e tutti colo-
ro, che si lascian'guidare dagl’affetti più tosto, che
guidin loro con la ragione‘.
La compenetrazione di physique e moral è tratto distintivo della riflessione di Baliani, sarà pure cifra del suo esquisse di filosofia morale quale emerge da uno dei cinque dialoghi costitutivi delle Opere diverse avvenire, dove la forma testuale del dialogo‘ evoca il grande suo interlocutore, anche contraltare dialettico: Galileo. Sempre a tre voci (Gioanni, Carlo, Alessandro) i dialoghi di Baliani, le medesime per ognuno dei cinque, dove la voce di Baliani è affidata all’omonimo Gioanni. Nel dialogo primo, Della virtà morale, ad Alessandro che gli chiede: «E questi diletto, e
“ Descartes, Le passioni dell'anima, cit., pp. 39-40, 119: sono gli articoli LVII (77 desiderio), LVIMI (La speranza, il timore, la gelosia, la sicurezza di sé e la disperazione) e CCXI (Un rimedio contro le passioni). © Baliani, Trattato... della Pestilenza... ora riveduto et ampliato, cit., pp. 132-133, 135-136. * Sul dialogo in generale nel Cinque e Seicento, e quindi sulla sua declinazione di forma del discorso filosofico e scientifico, la letteratura è vasta; oltre il classico J.R. Snyder, Writing the Scene of Speaking.
Theories of Dialogue in the Late Italian Renaissance, Stanford 1989, si rinvia qui miratamente a M.L. Altieri Biagi, Forme della comunicazione scientifica, in Letteratura italiana. Volume terzo. Le forme del testo. II La prosa, dir. A. Asor Rosa, Torino 1984, pp. 918-930; A. De Pace, Forme del dialogo e sapere in alcune interpretazioni del Rinascimento italiano. Nuove prospettive sul Dialogo galileiano, in M. Galuzzi, G. Micheli, M.T. Monti (ed.), Le forme della comunicazione scientifica, Milano 1998, pp. 123-165.
Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani
223
dolore sono affetti?», risponde Gioanni, con eco rivelatrice dei nessi intertestuali
innervanti l’opera tutta di Baliani: Io credo che sì, per parlar come gl’altri; perché in fatti sono anche questi moti dell’anima, cioè a dire delli spiriti, che io stimo essere quella parte dove l’anima risiede,
ma sì come il desiderio e la fuga sono (per così dire) moti locali, cioè dal centro
alla circonferenza, o dalla circonferenza al centro, ed in somma o verso l'esterno, o verso l’interno di noi, il piacere ed il dolore sono moti da essi molto diversi, essendo
il piacere un moto di essi spiriti suave, e perciò dilettevole, dove che il dolore è un moto violento, che cagiona una certa perturbatione [...]*”
Dove, cogliendo le differenze una ad una, e quindi i vincoli da Baliani non recisi
con alcune tesi filosofiche tradizionali, deve pure conferirsi attenzione alla fruizione in questa sede della nozione di motus localis sub specie cartesiana; «moti dell’anima, cioè a dire degli spirit», «moti locali», com’é nell’articolo XIII di Les passions de l'Ane,
secondo quanto asserito nei Principia (II 24): «Motus enim, scilicet localis, neque enim ullus alius sub cogitationem meam cadit; nec ideo etiam ullum alium in rerum naturam fingendum puto»*. Governo del corpo fisico e governo del corpo politico, medicina del corpo e medicina dell’anima sostanziano il 7raftato della pestilenza di Baliani nel suo comporsi, venire a stampa ed ampliarsi. Se «il governo dei corpi fisici e del corpo sociale trova[va] uno dei suoi momenti critici nelle città colpite da un’epidemia di peste», Baliani riconosce nella méthode cartesiana il nodo attorno a cui stringere i discorsi rivolti alla costruzione di un ordine politico e di un controllo sociale per la sua Genova dimidiata e infiacchita. Politico habillé à la cartésienne, Baliani fonde nell’Ita-
lia secentesca scienza e politica in una propria — tanto degna d’attenzione quanto vulnerabile — sintesi originale. E, in tale quadro, una valida strategia di controllo del morbo epidemico rimanda pure alla capacità di fronteggiare i tumulti, sentiti come malattie contagiose, che sconvolgono questi anni seicenteschi. La rivolta antispagnola di Napoli veniva a turbare non poco gli osservatori politici genovesi; il giurista Raffaele Della Torre, voce autorevolissima in patria, così commenterà la sollevazione partenopea: «importuna remedia morbos non expellere, sed irritare [...] morbus insanientis Plebis erupit; exarsitque; et iam desaevire coepisse»”. Lessico
47 Baliani, Della virtà morale, in Id., Opere diverse, cit., pp. 7-8. 48 Cfr. il commento di Micheli a Descartes, Opere scientifiche. La Biologia, cit., p. 261.
# Pastore, Governare la città appestata: giuristi e medici a confronto, in A. Prosperi (ed.), // piacere deltesto. Saggi e studi per Albano Biondi, Roma 2001, p. 423, poi in Pastore, Le regole dei corpi. Medicina e disciplina
sociale nell italia moderna, Bologna 2006, p. 37; su questi temi cfr. pure i saggi raccolti in P. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’ Occidente moderno, Bologna 1999.
50 Per la ripercussione dei moti napoletani del 1647 sulla pubblicistica politica e la storiografia genovesi
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Iluminismo K
metaforico largamente attestato in questo torno d’annf a Genova, un cui ritratto
assai vivido è quello di Gaspare Squarciafico, sotto il titolo appunto di Le politiche malattie della Repubblica di Genova e loro medicine. Qui così è descritta l’ostilità della nobiltà vecchia per le famiglie di nuova ascrizione ai Collegi: «Li dicono vapori ascesi dal loto al cielo del governo. E li rassomigliano ad essitiali comete che se non possono vestire il bello splendore delle stelle, ad ogni modo con esse hanno
col primo mobile il corso diurno et emulando i loro raggi dorati, spargono sovra la terra propria madre sanguigni rossori e pestilentiali influenze. Così gli nomano lo sdegno e lo scherno degli ottimati l'invidia e l’odio della plebe, l'umore peccante e l’epidemica corrottione della Republica»; e così l’autore si rivolge al suo fittizio
interlocutore per dipingere la propria città cui intende somministrare le politiche medicine: «Quindi avrai potuto conoscere [...] le molte e gravi malattie, che mortalmente travagliano la nostra libertà. Poiché, o dal popolo, o da’ nobili o da gli uni e gli altri, o dalle forze esterne, suole essere minacciata una republica. Nel nostro
popolo averai considerata la facilità delle seditioni, il desiderio dell’antico governo, la bramata vendetta delle offese quotidiane. Ne gli ottimati le fattioni antica e nuova, la potenza di molti, l’otio, la licenza, i malcontenti. Ne gli uni, e ne gli altri, le parti spagnuola e francese, e le straniere dipendenze. Nei potentati vicini il desiderio di sottometterla e la debolezza della nostra oppositione. Sì che da tutte le parti ella viene violentemente agitata, e rimane, come un difforme e vitioso composto, che
da gli alterati elementi, e dagli umori corrotti è spinto alla dissolutione. Io però nell’ultime parti del gelato settentrione, con una sacra fuga, ho procurato sottrami da questo morbo contagioso [...] Di presente, dal mio solitario romitaggio, te ne invio le medicine [...|»°!. Baliani incarna P«uomo da bene [...] filosofo atto a governar bene», che proietta il possesso delle leggi de motu nel governo del corpo fisico e quindi del corpo politico, entro un vasto programma condiviso con intellettuali coetanei che mira a conseguire ordine politico e controllo sociale. Un caso particolarissimo quello di Baliani nell’Italia del Seicento, non di scienziato che dialoga con il potere pubblico o è episodicamente partecipe di vicende politiche, com’è per Borelli a Messina. Ma di politico che adotta la nuova scienza come parte di un piano di riforma sociale e culturale che risani gli assetti istituzionali di cui è rappresentante. Un piano poggiato tuttavia su un terreno assai friabile, quello della Genova ora lacerata ora atrofizzata dai contrasti fazionali. E quindi destinato al fallimento, come ben presto dimostrerà
Costantini, La Repubblica di Genova, cit., pp. 297-298; le parole di Della Torre sono citate in S. D'Alessio,
Contagi. La rivolta napoletana del 1647-'48: linguaggio e potere politico, Firenze 2003, p. 68. ?! G. Squarciafico, Le politiche malattie della Repubblica di Genova e loro medicine, a cara di E. Villa, Genova
1998, pp. 41, 121-122.
Scienza e vita civile nel Trattato della pestilenza di Giovan Battista Baliani
225
la cesura degli anni Cinquanta, preparata dalla congiura di Gian Paolo Balbi e dalla traumatica uscita dalla scena politica del Brignole Sale, che vestirà l’abito gesuitico™. E soprattutto la peste del 1656, la tanto paventata peste che verrà, aggredendo l'economia e la società genovese, senza che nulla varranno le tesi di Baliani: Genova, durante l’epidemia. sarà spopolata e travolta da «baccani, furti, forfanterie d’ogni sorta», e molte energie le autorità spenderanno a perseguire «diavoli incarnati» titenuti responsabili del diffondersi della «peste artificiosa»,
Delle tesi enunciate nel 7raftato della pestilenza restava solo quella venata di crudo fatalismo, cupamente figlia di un secolo squassato da guerre, carestie, epidemie”: «che è necessaria peste, guerra o fame», la peste come flagello inesorabile, valido a
diradare le schiere dei poveri, le miserabili bocche affamate di pane selvaggio”, così riequilibrando il rapporto tra risorse e popolazione: Considero per ultimo quanto poco si habbiano a ripor le speranze ne’ beni del mondo, ove è sì misera la nostra condizione, che oltre al soggiacer a tante altre sciagure;
la pestilenza, e la guerra, che riempion il Mondo d’horrore, schifar non si possono, senza incorrer finalmente nella fame, forse peggior di loro, se non si ha a cambiare e confonder l'ordine della natura, il qual richiede che nasca più gente di quella che
naturalmente muore. Se ciò non fosse, l’human genere, che già prese cominciamento da un solo, sarebbe poco più che da un solo perpetuamente habitato, ma ciò esser non può, che ’l mondo è fatto per gli huomini, e per doversi di loro riempire, come
habbiam veduto, in non molto lungo tempo esser già due volte avvenuto. Ma non per tanto gli è impossibile andarsi tuttavia riempiendo senza che gran gente si muoia di fame, che non può la terra gran fatto nutrirne più di coloro che al presente ci vivono, a cagione del gran paese, che overo per esser coperto dall’acque, o ingombrato da selve, che pur vi si richiedono per uso d’huomini, o d’animali, o per esser affatto sterile, non è habile a coltivarsi; e di ciò che è atto a ridursi a coltura già vi è (al mio credere) per la maggior parte ridotto; e perciò al mondo (se non ha a cambiarsi il suo natural corso) è inevitabile quel male, ancorché dolorosissimo, ove più che 71 dolor puote il digiuno: è forza donque che tanta gente ha violentemente di tempo in tempo scemata: e perciò ove non sopravvenga la pestilenza, o la guerra, non si può sfuggir finalmente la fame, non punto men cruda, ed horribile di loro”.
Non diversamente il carmelitano Antero Maria da San Bonaventura, che aveva
diretto durante il contagio il Lazzaretto della Consolazione e che dava alle stam-
2 Cfr. Costantini, La Repubblica di Genova, cit., pp. 297-299, 341-343.
5 Le parole citate si traggono da Pastore, ra giustizia e politica: il governo della peste a Genova e Roma nel
1656/7,in «Rivista storica italiana», C,1988, pp. 126-154, cui si rimanda pure per la restante bibliografia sulla peste genovese. 54 Su tale tema basti il rinvio a Cipolla, Contro un nemico invisibile, cit., pp. 31-50; H. Kamen, // secolo di
ferro 1550-1660, tr. it., Roma- Bari 1985, pp. 5-57.
55 Si evoca qui P. Camporesi, // pane selvaggio, Milano 1980. 56 Baliani, Trattato della Pestilenza, cit., pp. 80-81. 4
226
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo :
(N
pe, nel 1658, l’opera intitolata Li /azaretti della città di Genova, e Riviere di Genova
del MDCLVI.
Per il padre Antero «appartiene alla Divina Provvidenza mandare
talvolta il contagio, non solo pet castigo delle colpe, ma ancora per il buon governo dell'Universo»: la peste è fiume rationale che trascina con sé i cadaveri di quanti eccedono il numero compatibile con la provvisione del mondo, è ineluttabile tonsura
orbis terrarum”. A Baliani trattatista come al padre Antero cronista dell’epidemia interessava sopra ogni altra ragione il governo della peste in chiave politica. Baliani dichiara programmaticamente: «Del curar la peste io non parlo, per non esser io
Medico»; per lui il sapere sul corpo fisico è potere da esercitare sul corpo politico, col fine di instaurare un modello di disciplina sociale la cui efficacia sia rinvigorita nell’essere filosoficamente innervato. |
"Le citazioni dall’opera del padre Antero sono tratte da S. Rotta, 7/ padre Antero ovverosia «il rasoio della peste», in«Quaderni franzoniani», VII, 1994, pp. 308-310; sull’opera del carmelitano cfr. pure Pastore, Tra giustizia e politica: i governo della peste a Genova e Roma nel 1656/7, cit., pp. 130-132.
Un Jardin très imparfait: anthropologie néo-épicurienne et analyse du divertissement d'un siècle à l'autre pat Jean-Charles Darmon
[...] ef que la mort me trouve plantant mes choux, mais nonchalant d'elle, et plus encore de mon jardin imparfait..
Pour qui s’interroge sur les transformations de l’humanisme scientifique entre Renaissance et Lumières, le néo-épicurisme de l’Age classique offre assurément un très riche terrain d'investigation: de Bayle 4 Gibbon, de Sorbière à Naigeon, n’a-t-on pas souvent présenté Pierre Gassendi, qui en fut la figure philosophique centrale, comme «e plus grand humaniste parmi les philosophes et le plus grand philosophe parmi les humanistes»? Et n’a-t-on pas été parfois tenté de caractériser l’ensemble de son œuvre, au premier chef, comme une philosophie de transition entre l’humanisme cher aux Anciens et l’univers épistémologique des Modernes? Mais il importe, également de mesurer à quel point ce néo-épicurisme put, en certaines de ses disséminations périphériques, contribuer parallèlement, et parfois simultanément, à la constitution d’un nouveau type de discours moral sur l’homme,
en rupture avec la philosophia perennis dont l’humanisme avait revisité les traditions; en dialogue, certes, avec elle, mais au prix de bien des écarts. Comme si, dès lors qu’il
s’agit de «science de mœurs» (au sens de Michel de Montaigne), aucune «pérennité» n’était plus possible, n’était plus crédible désormais — à moins de céder aux tentations et aux impostures de la raison dogmatique, dont le «moraliste» post-montanien stigmatise volontiers les leurres et l’incurable présomption. La question que l’on peut alors légitimement se poser est la suivante: si celui que l’on nommera ultérieurement le «moraliste», si le «philosophe de la vie», pour
! MLE. de Montaigne, Les Essais, éd. Villey, Paris 1999, p. 89.
228
L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo I)
&
x parler comme Dilthey, ne coïncide pas, en son point de vue, en sa posture, avec «la philosophie» des «philosophes», que signifie pour lui se référer à telle ou telle figure majeure du panthéon philosophique? Comment interpréter, par exemple, le grand retour d’Épicure au sein d’un horizon anthropologique nouveau qui a fort
peu de ressemblance avec celui du Jardin originel, ce qui peut conduire à bien des déviations, à bien des «péchés» à l’égard de l’épicurisme orthodoxe, celui que la philologie de Gassendi, au premier chef, s’est employée à restituer et réhabiliter,
pour ne rien dire évidemment de l’épicurisme d’Épicure lui-même ? On voudrait ici attirer l’attention sur un cas singulier, et une question majeure pour le discours moral. Ce cas singulier, si singulier, est celui de Saint-Évremond, particulièrement fécond pour affiner ce type de questionnement, entre deux siècles, et même entre trois: en aval, entre cet Âge d’or des moralistes qu’est la seconde moitié du XVII siècle, et le siècle des philosophes; mais aussi en amont, entre l’héritage de Montaigne, dont Saint-Évremond prolonge et détourne bien des gestes, par variations successives, et Pascal, dont il est le contemporain. La question, qui peut servir de fil d'Ariane dans ce labyrinthe de petits traités, de lettres, de «conversations» et autres «considérations», décisive pour la «science des mœurs», et dont l’histoire a été plutôt négligée par les historiens de la philosophie,
sera celle du «divertissement», de son analyse anthropologique, et des valeurs qui lui furent successivement associées.
Longtemps après sa mort, Saint-Évremond incarnera durablement le type même de l’écrivain-philosophe épicurien, brillamment mondain, et aussi, pour certains, brillamment superficiel. Mais qu'est-ce, en l’occurrence, qu’écrire en épicurien?
Et en quoi consiste au juste cette superficialité? La superficialité en question ne tient pas seulement à une paresse de l’esprit et à une incompréhension de la pensée d’Épicure, ou même de celle de Pierre Gassendi, avec lequel Saint-Évremond dit s’être longuement entretenu en sa jeunesse. Elle relève aussi de toute une série de déplacements caractéristiques qui font en partie pour nous l'intérêt de SaintEvremond. Déplacées, les catégories de la pensée épicurienne du plaisir le sont en premier lieu dans un horizon anthropologique moderne foncièrement étranger à celui de l’épicurisme antique, et même à celui du premier gassendisme. L'homme, et surtout l‘honnête homme? qui prend en charge la philosophie du plaisir se sait par nature fort éloigné du Sage; à l’image de Montaigne, il ne peut espérer jouir que d’un ‘Jardin imparfait à jamais — pour faire écho au Montaigne du chapitre «Que philosopher c’est apprendre à mourir», cité en exergue. | Pour bien des successeurs de Montaigne, l’imperfection en question renvoie aussi, en l’occurrence, à celle de la philosophie du Jardin elle-même, telle que certains
Un Jardin très imparfait
229
se la réapproprient en lui ôtant toute «perfection»: un néo-épicurisme moderne à l'usage de ceux qu’ils savent qu’ils ne coincideront jamais avec l’image du Philosophe antique en son Jardin, et qui mettent au point, tout en s’en inspirant, d’autres techniques de bonheur et d’autres «arts de jouim. J'ai déjà eu l’occasion de mettre l’accent sur les ‘erreurs de parallaxe’ les plus caractéristiques qui déforment et transforment la morale d’Épicure: celle, en particulier, qui consiste à interpréter l’épicurisme à partir d’une expérience du dvertissement, notion centrale dont Saint-Évremond fut en quelque sorte l’un des ‘théoriciens’ majeurs?. L’histoire de la philosophie a fait du concept de divertissement un «philosophème» essentiellement pascalien — «pascalien» étant l’adjectif qui suit presque mécaniquement le terme de divertissement sous la plume pour spécifier ce dont il s’agit, et qui est étranger à l’acception la plus courante. On néglige, on oublie généralement les sources épicuriennes de la pensée du divertissement. Et les relations entre épicurisme et divertissement entre Age Baroque et Lumières n’ont jamais été abordées de manière synthétique. Pourtant, toute une tradition avant Pascal, à còté de lui, et après lui, réfère
le concept même de divertissement à la pensée d’Épicure, et à sa théorie de la diversion. Ressaisir cette tradition diffuse en ses mouvements successifs impliquerait de prendre la mesure de toute une série de déviations par rapport à l’épicurisme orthodoxe; de resituer en contexte des «voisinages» problématiques entre «diversion» épicurienne et divertissement mondain. Déviations, déplacements qui peuvent être envisagées comme autant de perversions et d’affaiblissement de l’épicurisme. Mais qui peuvent aussi être réexaminés comme des réaménagements inventifs du Jardin originel. Saint-Évremond, à maints égards, affaiblit et pervertit l’épicurisme; mais il lui apporte simultanément des suppléments essentiels pour son devenir. Pour vivre heureux, il faut faire peu de réflexions sur la vie, mais sortir comme
hors de soi; et parmi les plaisirs que fournissent les choses étrangères se dérober la connaissance de ses propres maux. Les divertissements ont tiré leur nom de la diversion qu’ils font faire des objets fâcheux et tristes, sur les choses plaisantes et agréables: ce qui montre assez, qu’il est difficile de venir à bout de la dureté de notre condition par aucune force d’esprit, mais que par adresse on peut ingénieusement
s’en détourner’.
2 Notamment dans le dernier chapitre de Philosophie épicurienne et littérature au XVLléme siècle en France. Etudes sur Gassendi, Cyrano, La Fontaine, Saint-Evremond, Paris 1998.
#.
is
3 Saint-Evremond, Œuvres en prose, ed. par R. Ternois, Paris 1969,t.IV, p. 12. Les références ultérieures
à Saint-Evremond renverront 4 cette édition.
230
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo ’
C’est sans doute dans la lettre «Sur les plaisirs» adressée par Saint-Evremond au Comte d’Olonne que la réflexion néo-épicurienne sur le divertissement trouve son point de cristallisation le plus lumineux et le plus spécifique. Ce petit «discours sur le plaisir» (comme le nomme Desmaizeaux, lorsqu'il édite cette lettre en 1705) contient à la fois une définition (apparemment) claire du divertissement, et une réhabilitation de sa valeur morale*. Mais ce discours sur le plaisir se singularise surtout par la mise en relation qu’il opère entre l'éthique du divertissement et la philosophie d’Épicure. A la fin de la même Lettre, Saint-Évremond affirme en effet: Je veux que la connaissance de ne rien sentir qui m’importune, que la réflexion de me voir libre et maitre de moy, me donne la volupté spirituelle du bon Epicure; j’entens cette agréable indolence, qui n’est pas un état sans douleur et sans plaisir; c’est le sentiment délicat d’une joye pure, qui vient du repos de la conscience, et de la tran-
quillité de l’esprit (IV, 21; nous soulignons).
On remarquera cependant que la petite théorie du divertissement ici esquissée ne se donne nullement à lire comme une simple «application» de la morale d’Épicure: c’est par une décision toute subjective du moraliste («Je veux que [...]») que pratique du divertissement et théorie épicurienne pourraient avoir en définitive des effets «voisins » — pour parler comme
Montaigne —: repos de la conscience,
tranquillité de l’esprit. Mais les voies conduisant à ce point d’aboutissement sont en réalité assez étrangères au Jardin, et même à toute philosophie (définie comme «amour de la sagesse»). Un détour par l’essai de Montaigne consacré à la diversion aide à en percevoir quelques méandres.
* Cette réhabilitation passe notamment par une remise en question du modèle d’autarkeia que se donne le Sage du Jardin, et par une critique anthropologique des plaisirs «catastématiques» procurant le «repos», notion capitale pour la pensée du plaisir de l’âge classique, et l’histoire de l’idée de bonheur entre âge baroque et Lumières. «Il n’appartient qu’à Dieu de se considérer, et de trouver en lui-même sa félicité et son repos. À peine saurions-nous jetter les yeux sur nous, sans rencontrer mille défauts, qui nous obligent à chercher ailleurs ce qui nous manque» (IV, p.13). Il en résulte une relativisation
de la sagesse, de ses pouvoirs, de ses effets: «La gloire, les fortunes, les amours, les voluptés bien entendues et bien ménagées, sont de grands secours contre les rigueurs de la Nature, contre les misères
attachées à notre Vie. Aussi, la sagesse nous a été donnée principalement pour ménager nos plaisirs; toute considérable qu’elle est, on la trouve d’un faible usage parmi les douleurs, et dans les approches de la mort» (IV, p.13).
Un Jardin très imparfait
231
I. Pour une éthique de la diversion: l'étrange « voisinage » d’Epicure selon Michel de Montaigne Apres que je me fus appliqué un temps à son tourment, je n’essayai pas de le guarir par fortes et vives raisons, par ce que j'en ay faute, ou que je pensois autremement faire mieux mon effect, ni n’allay choisissant les diverses manieres que la poles rie prescrit à consoler: Que ce qu’on plaint n’est pas mal, comme Cleanthes; Que c’est un leger mal, comme les Peripateticiens; Que ce plaindre n’est action ny juste ny louable, comme Chrysippus; [C] Ny cette cy d'Épicurus, plus voisine à mon style, de transferer la pensée des choses fascheuses aux plaisantes [.-.]; [B] mais, declinant tout mollement noz propos et les gauchissant peu a peu aus subjects plus voisins, et puis un peu plus esloingnez, selon qu’elle se prestoit plus à moy, je lui desrobay imperceptiblement cette pensée doulereuse, et la tins en bonne contenance et du tout r’apaisée atant que j’y fus. J’usay de diversion (De /a diversion, III, 4, 831).
L’essai de Montaigne consacré à la diversion marque en réalité un infléchissement majeur dans l’histoire du «divertissement» et des valeurs morales qu’on lui attribuera par la suite. C’est sans doute 4 travers lui, dans bien des cas, que la «diversion» de «style» épicurien (point plutòt marginal et relativement peu connu de la doctrine du Jardin) deviendra topique pour un ‘moraliste’ comme Saint-Évremond. Apparemment, sous la plume de Montaigne, la portée du propos sur la diversion est assez restreinte, sa fonction est surtout rhétorique et thérapeutique. De quoi s’agit-il en effet, en l’occurrence? Pour l'essentiel de la question suivante: comment consoler au mieux un être en deuil, comment le guérir de ses pensées douloureuses et même, dit Montaigne, les lui «dérober» imperceptiblement (III, 831)? La diversion ainsi conçue est en quelque sorte une ruse rhétorique détournant l’autre des passions mauvaises qui l’investissent. Par ses effets, elle se démarque aux yeux de Montaigne des raisons avancées par le discours moral des philosophes dans son ensemble, dévalué ici non en sa pertinence intrinsèque, mais en sa pragmatique même, en sa
capacité à agir efficacement sur les passions dans l’expérience de la mort. Au sein de l’argumentation opposant le choix rhétorique de Montaigne et le discours des philosophes en matière de consolation et de diversion, la référence à la doctrine d’Épicure prend dès lors un statut ambigu, assez énigmatique si l’on y réfléchit à deux fois. En premier lieu, elle est bel et bien insérée dans des argumentations philosophiques auxquelles Montaigne oppose sa propre pratique de la diversion (aux côtés d’arguments fournis par Chrisippe ou par Cicéron); mais Montaigne, tout en la tenant à distance, signale, dans son cas, en incise, une proximité, un «voisinage» qui lui confère un statut exceptionnel dans sa propre réflexion, et il place cette [:.Î] Ny cette cy d’Épicure, plus proximité sous le signe d’un ‘style’ singulier — «[.
232
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo x
voisine à mon style, de transférer la pensée des choses fascheuses, aux plaisantes»
(III, 831). Pour le lecteur attentif, la ligne de démarcation entre la position d’ Épicure et la pratique de Montaigne en matière de diversion est assez indéterminée. Où l'opposition résiderait-elle donc? Pourquoi ce «ny» («ny cette ci d’ Épicure»)? La différence ne se manifesterait-elle que dans l’aspect progressif, imperceptible, de la technique de consolation mise au point par Montaigne lui-même? En second lieu, il apparaît bien vite que, pour Montaigne, ce qui semblait relever d’un point très local de rhétorique (comment consoler au mieux de la mort d’un
proche?) procède d’une conception de la vie morale en général: en matière de diversion comme ailleurs, le choix d’un sf voisin de celui d’Epicure renvoie aux incertitudes d’une anthropologie. Anthropologie de la*faiblesse, marquée en profondeur par l'expérience de la vanité. C’est à ce titre que la technique de la diversion s’oppose à la grande thématique de la préparation à la mort, éprouvée en d’autres Essais, et vaut ici contre elle, en
compensant ses déficiences. C’est à ce titre également que l'efficacité rhétorique de la diversion est profondément liée à une problématique de l'illusion et de l’inconstance dans la pensée: Nous pensons tousjours ailleurs (III, 834).
Les trois références majeures, explicites, à l’épicurisme qui ponctuent cet essai marquent de ce point de vue un glissement progressif affectant le statut du modèle épicurien dans la réflexion de Montaigne. 1) Après avoir été mentionné comme une source d'arguments philosophiques parmi d’autres en matière de consolation, Épicure lui-même intervient comme exewble de divertissement, fuyant la pensée de la mort au moment où elle se présente: Nous pensons toujours ailleurs; l'espérance d’une meilleure vie nous arreste et appuie, ou lesperance de la valeur de nos enfants, ou la gloire future de nostre nom, ou la fuite des maux de cette vie [...] Epicurus mesme se console en sa fin sur l’eternité et utilité de ses escrits [...] Et telles autres circonstances nous amusent, divertissent et détournent de la considération de la chose en soi (III, 834, je souligne).
Exemple qui n’est nullement présenté par Montaigne comme un exercice délibéré de diversion, conforme à la doctrine mentionnée dans la première occurrence, mais comme un cas, parmi d’autres, de divertissement involontairement subi au
contact de la mort, et comme une preuve de la vanité, en pareille circonstance, de la raison philosophique elle-même, si on l’envisage dans sa dimension dogmatique. Les commentaires auxquels donne lieu le «testament» d’Épicure sous la plume de Montaigne alimenteront des amplifications voisines sous celle de Saint-Évremond.
Un Jardin très imparfait
2) Dans un moment
233
ultérieur, des éléments épicuriens sont sollicités pour
donner à imaginer le substrat d’inconsistance ontologique légitimant la diversion;
et mettre au jour ce qui la rend réellement opératoire, ce qui explique sa relative réussite: allusion à la théorie des «simulacres», redoublée par une citation du livre V de Lucrèce, aide à figurer l’homme comme être de variation, sans fondement stable, donc facile à détourner de lui-même: Peu de chose nous divertit et détourne, car peu de chose nous tient (III, 4, 836).
On mesure mieux, dès lors, la différence qui sépare la conception de la diver-
sion que se forge Montaigne et celle qu’Epicure lui fournit comme modèle philosophique «voisin» à son «style». Là où la diversion épicurienne implique la totale maîtrise d’un détournement de l'attention, en vue d’un plaisir plus pur, dégagé des fantasmes nocifs et des passions aliénantes, la diversion selon Montaigne procède du
constat des faiblesses de l’homme glissant en permanence d’une «phantasie» à une autre: elle relève moins d’un discours de maîtrise ou d’un exercice spirituel (au sens où Pierre Hadot utilise ce terme pour les philosophies antiques), que d’une manière de tirer parti au mieux de l’inconstance et de l’inconsistance naturelle d’un sujet en mouvement, que «peu de chose tient» par nature, sujet fort éloigné assurément de la figure du Sage érigée en exemple par le Jardin. 3) Mais il y a, si jose le dire ainsi, «pire» que cela dans le détournement de la diversion épicurienne, et qui en fait un bien étrange «voisinage». La source principale d’inspiration en matière de diversion épicurienne «voisine à son style» est pour Montaigne le chant IV de Lucrèce, où c’est de l’amour et de sa frénésie qu’il est question de savoir se détourner. Si vostre affection en l’amour est trop puissante, dissipez la, disent-ils; et disent vray, car je l’ay souvant essayé avec utilité: rompez la à divers desirs, desquels il y en ayt un regent et un maistre, si vous voulez; mais de peur qu’il ne vous gourmande et tyrannise, affoiblissez le, sejournez le, en le divisant et divertissant:
Cum morosa vago singultiet inguine vena’, Conjicito humorem collectum in corpora quaque’.
; % Et pourvoyez y de bonne heure, de peur que vous n’en soyez en peine, s il vous a une fois saisi,
5 «Lorsque vos sens seront tourmentés par un violent désir (Perse, Satires, VI, 73) Ibi, traduction et reference donnée par Pierre Villey. 6 «Assouvissez le sur les premiers objets qui s’offriront Tea: De rerum natura, IV, 1062).
234.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all "Illuminismo w
x
Si non prima novis conturbes vulnera plagis,
Volgivagaque vagus venere ante recentia cures’ (III, 835).
«Si vous ne mélez à ses premiers coups de nouvelles blessures, et que vous n’effaciez ses premières impressions, en laissant errer vos caprices» (IV, 1063). Dans le poème de Lucrèce, la problématique de la diversion intervenait dans le droit fil d’une analyse physiologique du désir et dans le contexte d’une «clinique de l'amour» à caractère hygiénique et prophylactique: [...] que l'aimé soit absent, ses images pourtant Sont présentes, son nom hante et charme l'oreille.
Mais il convient de fuir sans cesse lès images, De repousser ce qui peut nourrir notre amour, De tourner ailleurs notre esprit [alio convertere mentem] ef de jeter En toute autre personne le liquide amassé, Au lieu de le garder, au même amour voué,
Et de nous assurer la peine et la souffrance. À le nourrir, l'abcès se ravive et s’incruste,
De jour en jour croit la fureur, le mal s'aggrave Si de nouvelles plaies n’effacent la première,
Si tu ne viens confier au cours d'autre voyages Le soin des plaies vives à la Vénus volage Et ne transmets ailleurs les émois de ton cœur.
Mais Montaigne — on s’en est trop peu étonné — déporte la pratique de la diversion de /’expérience de l'amour (qui sert de paradigme à sa légitimation dans les vers de Lucrèce qu’il cite) à celle de /a pensée de la mort — il n’est nullement question d'incitation à la diversion au sujet de la mort, ni dans le De rerum natura, ni dans
aucun texte majeur du corpus épicurien. Comme si la pensée de la mort relevait, en l’occurrence, de la même thérapeu-
tique morale que cette frénésie érotique dont la diversion, dans les vers du chant IV de Lucrèce, nous aidait à guérir, en nous en détournant.
Détournement, déplacement, au sens le plus fort, qui entre en résonance, dans le même essai, avec l’expérience de la mort de La Boétie, et de la ruse qui permit à Montaigne d’en soulager le chagrin: Montaigne rappelle, dans le paragraphe qui suit immédiatement les vers de Lucrèce, comment c’est en se faisant artificiellement
amoureux qu’il essaya de se divertir de la mort de son ami: «Si vous ne mélez à ses premiers coups de nouvelles blessures, et que vous n’effaciez ses premières impressions, en laissant errer vos caprices» (ibi, IV, 1063). * Lucrèce, De rerum natura, vv. 1061-1073 (trad. J. Turpin, Paris 1998, p. 301).
Un Jardin très imparfait
235
Je fus autrefois touché d’un puissant desplaisir, selon ma complexion, et encores plus juste que puissant: je m’y fusse perdu à l’avanture si je m’en fusse simplement fié à mes forces. Ayant besoing d'une vehemente diversion Dour m'en distraire, je me fis, par art,
amoureux, et par estude, à quoy l’aage m’aidoit. L'amour me soulagea et retira du mal
qu’il m’estoit causé par l’amitié. Par tout ailleurs de mesme: une aigre imagination me tient; je trouve plus court, que de la dompter, la changer; le lui en substitue, si je ne puis une contraire, aumoins un’autre. Tousjours la variation soulage, dissout et
dissipe (III, 835-836; nous soulignons).
| Pratique, vis-à-vis de la mort, bien peu «voisine» en vérité de la philosophie
d’Epicure! Pour le Sage du Jardin, c’est bien plutôt à la pensée de la mort comme «rien», rien pour nous, qu'il conviendrait de s’adonner, et non à son occultation
di-vertissante.
II. Voisinages d'Épicure selon Saint-Evremond: pour une théorie néo-6picurienne du divertissement Avec Saint-Évremond, le divertissement (comme prodigieuse extension de la diversion selon Epicure) s’étend bien au-delà de cette stratégie de ruse avec les passions
délétères qui nous obsèdent dans la proximité de la mort. Le divertissement devient une dimension cardinale de notre «condition» dans son ensemble, il est désormais
présenté comme l’horizon avec lequel notre conscience ne peut que composer. L'homme est cet être qui perd toute animation intérieure et sombre dans la langueur, la mélancolie, l'ennui, s’il ne sort pas de soi, s’il ne se détourne pas de soi. En ce sens, le divertissement devient une condition inéluctable de toute vie
morale heureuse; l’homme est originairement un être-pour-le-divertissement. Toute morale du plaisir, toute pensée du bonheur consistera d’abord à aménager au mieux cette «structure d’expérience», cette donnée anthropologique inévitable. Quelle signification et quelle valeur donner à la référence à Épicure en pareil contexte? Dans la lettre Sur kes plaisirs évoquée précédemment, l’honnéte homme qui, bien que retiré du monde, ne pense qu’à se divertir, n’est pas le Sage (il évite de trop réfléchir, il ne cherche pas les mêmes vérités, celles-ci du reste «ne méritent pas d’être approfondies [...]») et pourtant l’image du Sage épicurien lui est utile pour décrire le plaisir visé par le divertissement, en premier lieu la cessation de la douleur («indolence»). Voici donc une théorie du mouvement hors de soi, de l’aliénation de soi par soi, du refus de «trop» de vérité, qui vise («je veux que [...]») à atteindre par d’autres moyens le même genre de bonheur que celui du Sage du Jardin, mettant l'accent sur les plaisirs en repos: «repos de la conscience», «tranquillité d’àme», «indolence». Voici donc la référence à Epicure et sa*définition du Souverain Bien
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x
projetées dans un espace qui leur est par nature étranger”À peine cette sagesse des limites visant au «repos» est-elle évoquée que l’éloge du mouvement reprend, en une séquence de «réflexions» très rapides, juxtaposant les énoncés suivants: [...] c’est [Pindolence] le sentiment délicat d’un joie pure, qui vient du repos de la conscience, et de la tranquillité de l’esprit. Après tout, quelque douceur que nous trouvions chez nous-mêmes, prenons garde d’y demeurer trop longtemps. Nous passons aisément de ces joies secrètes à des chagrins intérieurs; ce qui fait que nous avons besoin d'économie dans la jouissance de nos propres biens, comme dans l’usage des étrangers. Qui ne sait que l’Ame s’ennuie d’être toujours dans le même assiette, et qu’elle perdroit à la fin toute sa force, si elle n’était réveillée par les passions ? Pour vivre heureux, il faut faire peu de réflexions sur la vie, mais sortir souvent comme
hors de soy; et parmi les plaisirs que fournissent les choses étrangères, se dérober la connaissance de ses propres maux. Voilà ce que la Philosophie d’Epicure et celle d’Aristippe peuvent donner à leurs sectateurs (IV, 22; je souligne).
A peine évoquée, l’«indolence» du bonheur contemplatif, qui apparaissait comme l’horizon ultime du divertissement, est contestée en sa pertinence («toujours
dans la même assiette», l’âme «perdroit toute sa force [...]»), la logique du «divertissement» exige un supplément, qui ete en mouvement l'éthique d'Épicure, et par
effet de boule de neige, on glisse d’un modèle semblait-il unique et simple (da volupté spirituelle du bon Epicure») à un modèle double: da philosophie d’Epicure et d’Aristippe». Sans doute ne faut-il pas voir dans cet ajout d’Aristippe 4 Epicure un geste excessivement profond, une volonté de synthése entre deux philosophies du plaisir privilégiant l’une le mouvement, l’autre le repos. Mais ce glissement cumulatif nous intéresse surtout dans la mesure où il suggère un certain flottement dès lors qu’il s’agit de situer une réflexion «moderne» sur le divertissement par rapport aux grands repères antiques de la pensée du plaisir. Dans ces quelques lignes qui conduisent de l’«indolence» d’Épicure à la référence double (des sectateurs d’Epicure et Aristippe») deux types de problématiques familières aux ‘moralistes’ du XVIT siècle ont surgi, qui, en tant que telles, n’occupaient pas du tout la méme place dans la morale épicurienne antique, et qui sont comme les «opérateurs de glissement» conduisant d’Epicure vers Aristippe. 1) Celle du «moi», objet opaque, énigmatique, dangereux, quoi qu’on dise et quoi qu’on fasse, source de mélancolie dès lors qu’on le fixe avec une attention excessive. C’est son évocation («prenons garde d’y demeurer trop longtemps») qui fait dévier le discours épicurien topique (éloge du repos), qui le relance vers le mouvement. Le «moi» constituerait implicitement, pour le moraliste, une sorte de
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«noyau» d’obscurité irréductible, qui ne se résorbe pas sous la lumière apollinienne de la sagesse épicurienne antique; avec l’exigence du mouvement vers l’ailleurs, le
«moi» n’en aura jamais fini. 2) L’expérience de Pennui, élément essentiel dans l’analyse évremondienne des plaisirs, et qui apparaît elle aussi comme un type de problème neuf, ou du moins qui ne se posait pas du tout en ces termes pour le sage épicurien en sa quête d’a/4raxie. Pour le Jardin, l’ennui ne représente aucune menace majeure, il ne concerne que ceux qui veulent toujours plus, et n’ont pas du tout compris ce qu’est un plaisir pur. Mais l’expérience de l’ennui est présentée ici comme ce qui menace en permanence l'être en repos «avec soi-même», et comme une évidence première de
toute réflexion sur le plaisir: «Qui ne sait que Ame s’ennuye d’être toûjours dans la même assiette [...]?» (IV, 22). Le discours sur les plaisirs se donne ainsi un cadre philosophique qu’il déborde immédiatement avec la plus grande légèreté. Il serait vain de se demander si Saint-Évremond a conscience de «trahir «ce bon Épicure» (on note au passage la désinvolture aristocratique avec laquelle Épicure est convoqué), mais il importe plutôt de souligner les lignes de fuite propres à un certain «épicurisme mondain», qui fait appel à l’«indolence» épicurienne tout en la mettant inlassablement en mouvement. Car cette /sfabilité dans la pensée du plaisir demeure une constante
pour Saint-Évremond, il la revendiquera clairement lorsque, près de quarante ans plus tard, dans la lettre Sur la morale d’Epicure, il fera état de son interprétation de la morale d’Épicure (tantôt indolent, tantôt en mouvement) contre l'interprétation trop «stable», homogène et «ascétique» de Sarasin — qu’on lui avait attribuée. Ce
flottement n’est peut-être pas un simple contresens (par ignorance de l'esprit ou négligence de la plume), il signale une «erreur de parallaxe» durable et caractéristique, et qui consiste à interpréter l’épicurisme à partir du «divertissement». L’exigence du mouvement hors de soi est première, même si, dans la sagesse épicurienne antique,
on puise une certaine science des limites permettant de le réguler. Pour Saint-Évremond comme pour Montaigne, c’est dans les marges de la philosophie, et souvent contre elle, que s’élabore la pensée du divertissement’. C’est que, du divertissement lui-même, la philosophia perennis ne dit que bien peu de choses. Quand les philosophes abordent la question du divertissement, c’est généralement
? Dans la mise en scène de sa propre voix, Saint-Évremond prend soin d’emblée de souligner un refus de la profondeur, loin des méditations telles que les philosophes les conçoivent: «Vous me demandez ce que je fais à la campagne? Je parle à toutes sortes de gens, je pense sur toutes sortes de sujets, je ne médite sur aucun. Les vérités que je cherche n’ont pas besoin d’être approfondies; d’ailleurs je ne veux avoir sur rien un commerce trop long et trop sérieux avec moi-même» (IV, 12).
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ù de biais, ou plutôt en négatif, à l’occasion d’un sujet bien plus digne de la gravité
du discours philosophique: la pensée de la mort.
Divertissement, diversion et pensée de la mort
Saint-Évremond lui-même semble à première vue emprunter ce chemin habituel. C’est à propos de la mort et de la pensée qu’il convient (ou non) de lui consacrer que le discours sur le divertissement se déploie. Mais il apparaît bien vite que ce n’est là qu’un trompe-lceil. Il n’y a pas d’un côté la mort, notre «condition» de mortel,
comme seule vérité authentique qui mérite que la pensée philosophique s’y arrête; de l’autre, le divertissement, présenté comme une fuite illusoire nous détournant de cette vérité, et nous orientant vers des réalités de dignité ontologique infiniment
moindre. Le divertissement n’est pas un substitut dérisoire usurpant la place qui reviendrait légitimement à la pensée de la mort et de la souffrance. La seule réalité qui lui donne sens, force, et dégitimité», ce n’est pas, en négatif, la mort; c’est, de
manière pleinement positive, le plaisir dont nous disposons en cette vie, et qu’il s’agit de savoir «ménager» au mieux. Et par un renversement ironique subtil, ce sont les
exigences de la Vie et les modalités du plaisir qui représentent l’essentiel; ce sont celles de la mort, de la mélancolie, de la souffrance qui apparaissent comme des sources d’illusion, comme les simulacres nocifs d’une fausse profondeur, et même comme les symptômes d’une complaisance malsaine du sujet pour ses fantasmes les plus pernicieusement pathogènes — pour ses «passions tristes»: Je connais des gens qui troublent la joie de leurs plus beaux jours par la méditation d’une mort concertée; et comme s'ils n'étaient pas nés pour vivre au Monde, ils ne songent qu’à la manière d’en sortir (IV, p. 14).
Diversion néo-6picurienne et divertissement pascalien: une symétrie trompeuse Or, on n’a peut-être pas assez prêté attention aux résonances spécifiquement épicuriennes qu’à pu avoir pour certains auteurs, lecteurs de Montaigne, l’analyse du divertissement, analyse à propos de laquelle il est d’usage de comparer Pascal et Saint-Evremond. En ce gente de comparaison il ne faut pas aller trop vite, car ce n’est pas seulement par leurs conclusions que les deux points de vue divergent; ici et là, le mot «divertissement» n’a pas le même sens, selon qu’il puise son sémantisme et ses connotations plutôt dans la pensée épicurienne du plaisir et de la diversio (même au prix de certaines déformations) ou plutôt dans la grande problématique augustinienne opposant aversio et conversio.
Un Jardin très imparfait
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Si l’on se réfère prioritairement à la tradition épicurienne, comme le fait Montaigne, le diversio a d’abord un sens technique et restreint. La question est simplement:
comment détourner son attention (ou celle d’autrui) d’une image jugée nuisible? Marcel Conche décrivait ainsi l’acte libre qui rend possible ce simple détournement de l’attention qu’est la diversion épicurienne: Je peux empêcher que le simulacre ne s’impose à mon esprit, cela par une déviation de mon attention qui se fait exprès distraite à l'égard du simulacre qui se présente,
et se tourne vers autre chose.
Deux remarques s'imposent: la diversion ainsi définie ne va pas du vrai vers le faux, elle va d’un simulacre, jugé nocif, vers «autre chose», d’une image (pathogène)
vers une autre qui l’est moins.’ Ce n’est pas une fuite face à ce que l’on est (sens pascalien du mot «divertissement»), mais pour un épicurien, c’est ce qui permet au contraire de mieux être soi, de mieux revenir à soi, et de «décliner librement».
Ce dont on se détourne n’est pas «notre» nature, (encore moins notre «essence»), mais un élément exérieur qui au contraire perturbe le «vivre selon la nature»: effet de peur, de trouble, fantasme érotique excessivement ravageur, etc.
Certes, dans le mouvement suprêmement léger où il explicite et contextualise le «divertissement», Saint-Évremond dit qu’il nous détourne de «la connaissance de
nos propres maux», de «la dureté de rofre condition», des «misères attachées à notre Vie». Mais ces misères affachées à nôtre Vie ne se présentent pas comme une vérité ultime et centrale (Misère de l’homme). Dans le divertissement, on ne quitte une part sombre de la Vie que pour une
autre part de Vie plus lumineuse. Dans le cas de Pascal, il est possible, encore une fois, que ce sens «épicurien»
soit aussi latent — par l’intermédiaire notamment de Montaigne — mais comme le rappelle Philippe Sellier, le «divertissement» pascalien fait d’abord écho au grand couple antithétique aversio/conversio propre à la théologie augustinienne, et à la vision du péché qu’elle exprime: mouvement par lequel on se détourne de Dieu pour se tourner vers les créatures. «Tous les péchés, écrivait Augustin, sont enfermés dans cette classe unique [aversio] puisque l’homme se détourne des réalités divines et vraiment durables, pour se tourner vers des réalités changeantes et incertaines»!" Or, pour Pascal, «le divertissement, c’est la forme mineure de l’aversio a Deo,
10 De lib. Arbitrio, 1, 16, cité par Ph. Sellier, Pascal et Saint-Augustin, Paris 1970, p. 163.
M Ibi, p. 165.
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même s’il tend, par les exemples donnés dans les Pensé?s, a laiciser le contexte de l’analyse!?, comme l’atteste, entre autres, le fragment 620-146: L’ordre de la pensée est de commencer par soi, et par son auteur et sa fin. Or à quoi pense le monde? Jamais à cela, mais à danser, à jouer du luth, à chanter, à faire des vers, à courir la bague, e/c. et à se battre, à se faire roi, sans penser à ce que c’est
; ; . 13 qu’étre roi et qu’étre homme .
Mais rappelle encore Philippe Sellier, «cette laîcisation ne doit pas nous em-
pêcher de voir à quel point l’apologiste est resté proche de son maître: d’abord ce divertissement n’est évidemment possible qu’à cause du pouvoir de la volonté augustinienne, elle détourne l'intelligence de considérer ce qui est déplaisant, ce qui
risque de l’entraîner à de douloureux renoncements. À la base du divertissement on trouve la mauvaise foi. C’est pourquoi l’homme est coupable, responsable de cette aversio, aussi bien chez Pascal que chez Augustin'*. On ne trouvera évidemment rien de semblable dans le divertissement évre-
mondien. Ici, il n°y a pas d’«ordre de la pensée», ou s’il y en a un, il n’est dicté que par les exigences de la «Vie». Or, l'image de la Vie qui prévaut chez Saint-Évremond comme chez Montaigne est celle d’un mouvement par nature léger, et marqué par l’expérience de la «vanité». Lorsque, dans le même livre des Essais, il réfléchissait sur le sens de la
diversion, Montaigne la renvoyait moins à une volonté (ou à une «mauvaise foi) qu’à un mouvement presque insensible de la vie (III, 6, B, 836). Et les images de
Lucrèce qu’il associait au mouvement hors de soi étaient puisées dans un passage de livre V du De natura rerum où il était question de la genèse des «espèces ailées»: Tout d’abord les espèces ailées, les divers oiseaux quittaient leurs œufs éclos à la température printanière, comme de nos jours encore les cigales en été abandonnent d’elles-mémes leurs rondes tuniques pour chercher leur nourriture et leur vie!
L’image de notre misère, en laquelle le sujet «tombe» dès lors qu’il reste trop avec lui-même ne se voit ici à aucun moment accorder le statut de vérifé supérieure: ce n’est qu’une image parmi d’autres, récurrente il est vrai car liée à un certain état du corps et de l’âme qui s’ennuient. Pour beaucoup, l’image de notre misère est un effet
!° Ibid: Aussi ce dernier [...] a-t-il dans une certaine mesure laïcisé la théorie. Il s’adresse à un athée. Il parlera donc souvent moins de Dieu que de la condition humaine [...]»
5 Ibid.
14 Ibi, p 166.
‘
!° De la nature, V, vv. 801-805. (traduction d'A. Ernout, Paris 1942, pp. 80-81). Nous soulignons ce qui est cité par Montaigne.
Un Jardin très imparfait
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mécanique de lennui. Car il est naturel pour la vie qui s’exprime en l’imagination d’être en mouvement; mouvement perpétuel vers l’ailleurs, image en image. Que l’on se tourne trop vers soi: le mouvement ne sera pas neutralisé, mais au contraire il sera plus difficilement maîtrisable encore. La pensée de notre Misère se présente moins comme un invariant métaphysique que comme l'effet récurrent et transitoire de cette physiologie du mouvement, naturel pour l'imagination, dans la succession des douleurs et des plaisirs. La pensée mélancolique sur soi, née de l’ennui, est riche en illusions de toutes sortes, et en mouvements intérieurs clandestins, Son authenticité sera plus ou moins forte en certains états du corps, en certains moments de
la vie. En d’autres, la «pensée de notre misère» apparaîtra comme une maladresse de l’esprit qui ne s’en remet qu’à soi, ou comme une fabrication nocive, artificielle, répondant aux besoins souvent suspects des amateurs de tristesself,
Divertissement et variations dans les modalités du Plaisir
La pensée néo-épicurienne du divertissement se différencie dès lors fondamentalement des oppositions augustiniennes de Pascal en ce qu’elle est une pensée du graduel, caractérisant ses objets par seuils successifs, et non par de grandes entités antagonistes, dramatisées par une rhétorique de l’antithèse. Dans le «Jardin imparfait» de l’homme moderne, il faut ni trop de divertissements, ni trop peu. Et il ne suffira pas à l’homme animé par ses désirs de «deviner» à quelle distance il convient de situer du divertissement pour trouver sa juste place, son « point de perspective » optimal dans l’empire des divertissements qui se présentent à lui. En terres néo-épicuriennes se dessine un art de jouir fondé sur une science empirique
des limites et de la variation. Le concept de variation semble triplement opératoire pour décrire ce qui serait une conception néo-épicurienne du divertissement. — Variation des sujets, qui n’ont pas le même rapport au plaisir — dans la typologie rapidement esquissée en cette lettre à Olonne, Saint-Évremond en dégage
16 Cf. également le constat suivant: Je connais des gens qui troublent la joye de leurs plus beaux jours par la méditation d’une mort concertée; et comme s’ils n’étaient pas nés pour vivre au Monde, ils ne songent qu’à la manière d’en sorti» (IV, 14) et, plus loin: Faut-il rendre aux malheurs ce pitoyable hommage De sentir leur atteinte, ou garder leur image, De nourrir ses douleurs et toujours se punir D'une peine passée, ou d'un mal à venir ? Je laisse volontiers ces Messieurs dans leurs murmures et tâche à tirer quelque douceur, des mêmes choses dont ils se plaignent» (IV, 21). i
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N trois types principaux: les «Sensuels», les «Voluptueux», lès «Délicats»!? —, variations aussi, faudrait-il ajouter du génie du peuple auquel ces sujets appartiennent histori-
quement; — variation des objets de plaisirs, ou plutôt des types d’ipressions liées à Pimage-idée du plaisir"; — variation des modalités de la diversion envisagée comme une «sortie hors de soi» du sujet jouissant, comme une activité dont il règle les modulations, choix délibéré, et non «inconstance» passivement acceptée. Que ces variations, combinées les unes avec les autres selon les cas envisagés,
aillent de pair avec un art néo-épicurien des limites, voilà qui semble évident: mais il ne s’agit pas seulement de limiter les désirs et l’effet des passions pour viser au repos du sage épicurien. Il s’agit, aussi et surtout, de ruser au mieux avec deux risques
liés au repos et au mouvement lui-même, et à ces plaisirs cinétiques indispensables à l «honnête homme»: celui de l «ennui» (par excès de repos) et celui du «dégoût» (par excès de mouvement). Dans l’«usage des plaisirs» ainsi défini, il importera donc de /miter le mouvement humain sous ses deux formes: mouvement vers trop d’extériorité (c’est le péril de la dissipation de l’être, celle des personnes dégères» qui ne maîtrisent plus le i
!” «La Nature porte tous les hommes à rechercher leurs plaisirs, mais ils les recherchent différemment selon la difference des humeurs et des génies. Les Sensuels s’abandonnent grossièrement à leurs appetits, ne se refusant rien de ce que les animaux demandent à la Nature. Les Voluptueux reçoivent une impression sur les sens, qui va jusqu’à l’Ame. Je ne parle pas de cette Ame purement intelligente, d’où viennent les lumières les plus exquises de la Raison; je parle d’une âme plus mêlée avec le corps, qui entre dans toues les choses sensibles, qui connaît et goûte les voluptés. L'Esprit a plus de part au gout des Délicats qu’à celui des autres; sans les Délicats, la galanterie serait inconnue, la musique rude, les repas mal-propres et grossiers. C’est à eux que l’erudity luxu de Pétrone,
et tout ce que le raffinement curieux de notre siècle a trouvé de plus poli, et de plus curieux dans les plaisirs» (IV, pp. 16-17). !* «Jai fait d’autres observations sur les objets qui nous plaisent, et il me semble avoir remarqué des differences assez particulières dans les impressions qu’ils font sur nous. Il y a des impressions légères, qui ne font qu’effleurer Ame, pour le dire ainsi, éveiller son sentiment, la tenir présente aux objets agréables, où elle s’arrête avec complaisance, sans soin, sans beaucoup d'attention. Il y en a de molles et voluptueuses, qui viennent comme à se fonder, et à se répandre délicieusement sur l’Ame, d’où naît cette douce et dangereuse nonchalance, qui fait perdre à l'Esprit sa vivacité et sa vigueur. Il y a des objets touchants, qui font leur impression sur le Cœur, et y remuent ce qu’il a de plus sensible. Il y en a qui par un charme secret, difficile à exprimer, tiennent l’Ame dans une espèce d’enchantement. Il y en a de piquants, dont elle reçoit une atteinte qui lui plait, uneblessure qui lui est chère. Au-delà, ce sont les transports et les défaillances, qui arrivent manqué de proportion entre le sentiment de ’Ame et l'impression de l’objet. Aux premiers l’Ame est enlevée par une espèce de ravissement; aux
autres elle succombe sous le poids de son plaisir, si on peut parler de la sorte» (IV, pp. 18-19).
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plaisir et s’y perdent); mouvement vers trop d’intériorité (c’est le péril des «réveurs», qui trop absorbés en eux-mêmes, s’y dissipent, également, et s’y perdent). Comme il n’y a que les personnes légères et dissipées, qui ne se possedent jamais, il n’y a que les rêveurs, les esprits sombres, qui demeurent toûjours avec eux-mêmes: et il est à craindre qu’au lieu de goûter la douceur d’un véritable repos, l’inutilité de ce grand attachement ne les jette dans l’ennui (IV, 20).
La réflexion néo-épicurienne sur le divertissement peut dès lors s’associer à deux types de déviations, ou plutôt de projections de l’épicurisme dans des domaines qui traditionnellement ne sont guère «voisins à son style»: celle des plaisirs esthétiques, et plus largement d’une esthétique de l’existence où concepts moraux et notions esthétiques en cessent de se superposer: ainsi, le concept de «goûb», une œuvre comme celle de Saint-Évremond incitant se poser la question insolite suivante: qu’est-ce qu’un goût épicurien?
III. Pratiques néo-épicuriennes du divertissement, entre morale et esthétique: à propos de la Lettre au Maréchal de Créqui Un grand nombre de gestes spécifiques propres à une pratique néo-épicurienne du divertissement se trouvent condensés dans la Lettre
À Monsieur le Maréchal de
Créqui, long «essai» publié par Barbin en 1692, mais probablement composé, pour l'essentiel, dans les années 1669-1671, puis corrigé et complété en 1685-86, si l’on en croit René Ternois. J'ai plus besoin du fond de la vie que de la manière de vivre [...]: pour une conception énergétique de la morale.
Les premières pages de cette lettre rappellent quel est le substrat anthropologique qui sert de cadre à la description de cette pratique heureuse du divertissement: une conception énergétique de la morale. Les vertus du retour à soi et de la sortie hors de soi sont relatives, elles dépendent du «fonds de vie» dont le sujet dispose. Économie des forces vitales qui conduit à opposer, une fois de plus, sujets jeunes et sujets vieillissants, les uns naturellement portés à plus de «mouvement» et à une «profusion de leur être», les autres non moins naturellement incités à davantage de ménagement, de « repos », de retrait dans l’usage des plaisirs. Vi Tout se passe comme si le «Je» qui s’exprime ici en son nom propre faisait l’expérience de ce qui alimente ailleurs sa critique de la définition épicurienne du
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x Souverain Bien: indolence du corps et tranquillité d’âme ne valent pas en soi, dans Pabsolu, elles ne doivent leur valeur qu’à un état du corps languissant ou souffrant — les variations d'intensité et d’extension du divertissement correspondant ellesmêmes à différents états du corps et différents régimes de l’imagination: Autrefois mon imagination errante et vagabonde se portait à toutes choses étrangères; aujourd’hui mon esprit me ramène au corps et s’y unit davantage: à la vérité ce n’est point par le plaisir d’une douce liaison, c’est par la nécessité du secours et de l’appui mutuel qu’ils cherchent à se donner l’un à l’autre (IV, 104).
Et c’est seulement lorsque la puissance des «impressions» diminue que l’indolence du Sage peut devenir une valeur dans le Jardin imparfait des modernes. On remarquera au passage que le lexique même de lindolence va jusqu’à se séparer ici de celui de la volupté (au lieu qu’ailleurs l’indolence apparaît comme l’un des régimes, «en repos», de la volupté): Il n’est pas toujours besoin de la jouissance des voluptés; si on fait un bon usage de la privation des douleurs, on rend sa condition assez heureuse (IV, 105).
Alors que le Sage antique prétend traditionnellement savoir se rendre heureux au milieu des douleurs, dans le Jardin imparfait de Saint-Evremond cet exercice de soi ne devient pertinent qu’une fois les «maux présents» calmés: C’est ce qui m’oblige à remettre tout à la nature dans les maux présents; je garde ma sagesse pour le temps où je n’ai rien à endurer; alors par des réflexions sur mon indolence, je me fais un plaisir du tourment que je n’ai pas, et trouve un secret pour rendre heureux l’état le plus ordinaire de la vie (IV, 105).
Conception énergétique de la morale qui conduit non seulement à réhabiliter le divertissement, mais aussi à célébrer rétrospectivement les «erreurs» et les illusions mêmes qu’il a pu procurer. Dans le jardin imparfait, le thème récurrent de la jouissance de l’erreur, de
la volupté de Pillusion n’est pas seulement un thème esthétique (au sens restreint que nous donnons ordinairement à ce terme); il participe pleinement d’une morale de l'énergie, de toute une «esthétique» de l’existence où le rôle de l'imagination est fondamental. Seuls les faibles, frappés à juste titre de «ridicule» dans le monde, se détournent hors de saison des mouvements vitaux de l'illusion et des erreurs de apparence: Il siérait mal à un jeune homme de se désabuser trop tôt et de compter pour rien les apparences, l'éclat, le faux honneur, la vanité, les chimères; c’est par là qu’agissent tous ceux de son âge. Si par là il ne se donne aucun mouvement, on ne dira pas qu’il
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en a connu l’erreur, on l’accusera de faiblesse ou de nonchalance. Jose dire que s’il suivait en tout la véritable raison, il serait plus méprisé que s’il ne la suivait en rien
(IV, 106).
Et c’est de la manière la plus explicite que le «Je» met en avant sa propre puissance affirmative lorsqu’il s’agit, comme le disait Montaigne, de faire valoir la vanité même, l’erreur, l’illusion: «Pour moi je me tiens scrupuleusement aux véritables devoirs; je rebute ou admets les imaginaires selon qu’ils me choquent ou
qu’ils me plaisent. Car en ce que je ne dois pas, je me fais également une sagesse de rejeter ce qui me déplait et de recevoir ce qui me contente. Chaque jour je me défais de quelques chaînes avec autant d’intérêt pour ceux dont je me détache que pour moi, qui reprends ma liberté» (IV, 106). Dans la Lettre à Créqui, Saint-Évremond écrit sa propre version des «trois commerces» du point de vue de cette morale énergétique du divertissement. La pratique de la lecture, par exemple, est présentée ainsi: Jaime le plaisir de la lecture plus que jamais, pour dépendre plus particulièrement de l'esprit, qui ne s’affaiblit pas comme les sens. A la vérité je cherche plus dans les livres qui me plait que ce qui m’instruit: à mesure que j’ai moins de temps à pratiquer les choses, j’ai moins de curiosité à les apprendre. J'ai plus besoin du fond de la vie que de la manière de vivre, et le peu que j’en ai s’entretient mieux par des agréments que par des instructions. Les livres latins m’en fournissent le plus, et je relis mille fois ce que j’y trouve de beau sans m’en dégoüter (IV, 110).
La lecture elle-même sera d’abord évaluée en termes communication (de plaisir) entre soi et soi par le détour du livre; ou plutôt par le détour de l’arte” qui intéresse Saint-Evremond sous le livre. Plus encore que dans le texte-source de Montaigne, où celui-ci s’attardait sur la solitude de l’acte de lecture, la lecture est présentée immédiatement sous les espèces d’une conversation avec autrui. Tout comme Montaigne, Saint-Évremond voit dans les livres une provision de bonheur échappant aux vicissitudes du temps et du corps, la lecture constituant le plaisir le plus stable dont l’étre vieillissant puisse rêver, ce qui ne signifie pas que ce plaisir soit sans mouvement: mais c’est un mouvement désormais sans inquiétude,
d’une douceur incomparable, maîtrisé et limité par Part du choix”.
1« Un choix délicat me reduit à peu de livres, ou je cherche beaucoup plus le bon que le bel esprit,
et le bon goût se rencontre ordinairement dans les écrits des personnes considerables» (IV, 110).
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Un savoir par expression D'une certaine façon, les variations de Vofiwm ainsi cultivé prolongent lanalyse du divertissement («il faut sortir de soi») mais elles lui apportent en chemin un supplément décisif: en lisant, en parlant, le sujet oisif décrit ici ne «réfléchit pas trop» sur soi, mais il exprime mieux ce qu’il pense et ce qu’il est. Les limites de lofivm en canalisant le divertissement, lui donnent une sorte de
profondeur qu’il n’avait pas du tout dans la Leftre sur les plaisirs (où il était question de fuite hors de soi). Le «gai savoir de l’ofium évremondien est un savoir d’expression plus que de reflexion. Dans une très belle parenthèse, Saint-Evremond s’interroge en effet sur la nature exacte de cette parole sur soi qui emplit la lettre à Créqui. Je n’escris point cecy par un esprit de vanité qui donne au public ses fantaisies. Je me
sens en ce que je dis, et me connois mieux par l'expression du sentiment que je forme de moy méme, que je ne ferois dans l’intérieur par les plus secrettes reflections. L’idée qu’on forme de soy par la simple attention à se considerer au dedans est toujours un peu confuse; l’image qui s’en exprime au dehors est beaucoup plus nette et nous fait juger de nous plus sainement, quand elle repasse à l’examen de l’esprit apres s’estre presentée à nos yeux (IV, 118). ‘
C’est par expression, et non par réflexion, que le divertissement peut être profond en sa légèreté. En réfléchissant trop directement sur soi, on ne trouve que des idées vagues. En s’exprimant, indirectement, au travers des livres, de la conversation des hommes ou des femmes, on «fixe» de son propre mouvement quelques images précises, vives et pleines. La parole heureuse est par essence divertissante: mais en parlant bien d’autre chose (livres, conversation), elle permet à l’ego de produire une image éclairante sur lui-même et de mieux revenir à soi. La qualité heuristique de l'expression détermine la qualité du jugement moral que l’on porte sur soi. Extérieurement, l'expression pour autrui peut sembler pure vanité du moi («Je n’escris point cecy par un esprit de vanité qui donne au public ses fantaisies»). En «moraliste», Saint-Evremond ne nie pas, du reste, qu’il y ait
«amour propre» au cœur de tous des mouvements. En écrivain, il affirme que la force de P«amout-propre» varie en fonction des formes données à l’idée de soi-même par l'imagination. >
D’ailleurs l’opinion flatteuse de nôtre mérite perd la moitié de son charme si fost qu'elle se produit, et les complaisances de l'amour propre venant à s'évanouir insensiblement, il ne
Un Jardin très imparfait
247
nous reste qu'un dégoût de sa douceur avec de la honte pour une vanité follement PE ) conçuë (IV, 118)*°. On
trouvera
dans la même
lettre une très belle illustration de ce savoir par
expression qui anime la parole littéraire en ce qui constitue, pour Saint-Évremond l’un de ses sommets: Corneille.
Le grand maître du Théâtre, à qui les Romains sont plus redevables de la beauté de leurs sentiments, qu’à leur esprit ou à leur vertu, Corneille, devient un homme com-
mun si tot qu’il s'exprime pour lui même. Il ose tout penser pour un grec ou pour
un Romain; un Français ou un Espagnol diminue sa confiance, et quand il parle pour
lui, elle se trouve tout à fait ruinée. Il preste à ces vieux heros tout ce qu’il a de noble dans l'imagination, et vous: diriez qu’il se défend l’usage de son propre bien, comme s’il n’était pas digne de s’en servir (IV, 126).
Curieusement, dans la lettre au Maréchal de Créqui, le développement sur Corneille prend place dans l’analyse du troisième commerce: la conversation des hommes. L’imagination littéraire est à Corneille ce que la conversation est à d’autres;
dans son cas, elle s’y substitue: dans la conversation le «vrai Corneille» ne sait pas s’exprimer. Mais il fait ici figure d’exception et surtout d’avertissement. L’exemple de Corneille exprimant dans la conversation si peu de lui-même prouve que chaque conversation peut avoir ses lacunes, ses imprévus, ses déchets, ses bonheurs rares,
ses mystères. Il ne faut pas s’attendre à ce que 7047 s’y exprime à claire voie. Avec le temps, Saint-Évremond a appris à faire de la conversation un art du «discernement», c’est à dire un choix des plaisirs locaux, goûtés ici et là pour ce qu’ils sont”.
20 Il ne suffit pas, aux yeux de Saint-Évremond, de répéter, conformément à un 79pos de ‘moraliste’ si
largement répandu, qu’il y a, quoi qu’on fasse, de l’«amour-propre» sous telle activité d’apparence innocente, sous telle ou telle représentation de l’ego. Mais ce qui l’intéresse, ce sont les effets de rétroaction de l'expression, du langage, de la phantasia, sur l’amour-propre. Celui-ci n’est pas ‘transcendant’ au jeu des images, il est lui-même tributaire des ‘images-idées’ en fonction desquelles il opère, il est aussi effet
de la mise en forme des apparences du moi et du monde — une expression plus juste (et plus ‘saine”) tendant à en affaiblir les conséquences les plus nocives. La où d’autres thématisent l’amour-propre comme une sorte de ‘Dieu caché’ de la subjectivité, Saint-Évremond, en un geste assez conforme en cela à l'esprit de l’épicurisme, en limite le ‘mauvais infini et le réinscrit, légèrement, et comme ‘au passage’, dans une analyse de l'imagination: ses effets sont relatifs à la «situation de l'esprit», et aux images qu’une conscience de soi en mouvement se donne d’elle-même. On n'aime, on ne désire en soi que ce que l’on a préalablement senti, et ‘vu’. Ici encore, l’apparence est première. | 21 «Pour la conversation des hommes, javoüe que j’y ay esté autrefois plus difficile que je ne suis, et je pense y avoir moins perdu du costé de la delicatesse, que je n’ay gagné du costé de la raison. Je
cherchois alors des personnes qui me plussent en toutes choses. Je cherche aujourd’huy dans les per-
sonnes quelque chose qui me plaise. C’est une rareté trop grande, que la conversation d’un homme en qui vous trouviez un agrément universel, et le bon sens ne souffre pas une recherche curieuse de ce qu’on ne rencontre presque jamais» (IV, 124).
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’ Illuminismo ,
% x
Les diversions heureuses de l'écriture morale: «Je me sens en ce que je dis [...]» «Je me sens en ce que je dis [...]»: on a pu parler à diverses reprises d’un «cogito sensualiste» de Saint-Evremond (Jean Lafond); cogito d’un sujet qui, loin de pouvoir faire métaphysiquement l’expérience de lui-méme en mettant entre parenthèses tout ce qui relève des sens, sait à quel point ce geste métaphysique d’auto-fondation est en soi illusoire et présomptueux; à quel point l’épreuve réelle de soi n’est jamais métaphysique mais physique, et passe d’abord par l’acte même du sentir et de l’expression qui permet d’en rendre compte de manière plus ou moins adéquate; acte
qui ne relève pas seulement d’une synthèse «passive» de la conscience, interprétant un donné empirique, mais aussi d’un culture active du ‘bien sentir, du mieux
sentir,
procédant elle-même d’une décision réitérée du sujet. L’anti-cartésianisme de Saint-Évremond est sans doute à bien des égards frivole et superficiel. Mais cette superficialité, dans son ordre propre, a sa profondeur. Et de cette «frivolité» il importe de faire l «archéologie». Le «je me sens en ce que je dis» de la grande lettre à Créqui peut sans doute être mis en relation avec des plaisanteries à l’encontre de Descartes manquant de rigueur philosophique, ainsi le «j’aime donc je suis» que l’on trouve sous sa plume dans une lettre à Ninon de Lenclos: Le plus grand plaisir qui reste aux vieilles gens, c’est de vivre; et rien ne les assure si bien de leur vie que leur Amour. /e pense donc je suis, sur quoi roule la Philosophie de Mr Descartes est une Conclusion pour eux bien froide et bien languissante: j'aime, donc
Je suis, est une conséquence toute vive, toute animée, par où l’on rappelle les désirs de la Jeunesse, jusqu’à s’imaginer quelquefois d’être jeune encore.
Or, ce qui vaut pour l’amour en général dans la lettre à Ninon, vaut tout particulièrement pour l’amour des livres et de la conversation. Lorsqu’il évoque les livres et les auteurs qui «se sont donné le droit de lui plaire toute sa vie», Saint-Évremond use de formulations assez similaires à celles qu’il associait à sa pratique épicurienne de la mémoration affective: le dogme épicurien selon lequel avoir été heureux une fois permet de le redevenir indéfiniment (pour le sage sachant faire bon usage de sa mémoire et de son attention), vaut, par déplacement, pour les instants de bonheur
procurés par certains livres et certaines conversations. Les revivre, c’est réactiver, ressusciter un «fond de vie» que le sujet vieillissant croyait perdu, ou dont il ne se croyait plus capable. C’est ainsi qu’une fois de plus Saint-Évremond donne un tour et une consistance esthétiques à ce qui, dans la sagesse du Jardin, relevait d’un .
2 Cf. l'étude de J. Lafond, Cogito et géut chez Saint-Evremond, in «Cahiers des annales de Normandie»,
XIV, 1982, reprise dans Id., L'homme et son image, Paris 1996, pp. 369-376.
Un Jardin très imparfait
249
«exercice spirituel » propre à résister aux douleurs et aux infirmités — l'exemple
topique étant évidemment celui d’Épicure lui-même, neutralisant par ces exercices mémoriels les troubles de la maladie qui l’accablait. «Je me sens en ce que je dis [...]»: L'écriture morale ainsi conçue ressemble à maints égards à ces exercices analysés par Pierre Hadot pour la philosophie antique. L’acte d'écriture, comme mode particulier de « divertissement », ne peut être réduit à n’être que la mise en forme rhétorique d’un contenu de pensée préalable, d’une doctrine de référence. Écrire (mais aussi s’adonnerà l’art de la conversation), c'est s'exercer à être soi, c’est réajuster son rapport à soi en parlant d’autre chose à autrui, et à soi-même, par imagination et par le langage; c’est modifier ce que Saint-Évremond nomme la «situation» de son esprit. «Technique de soi» qui forme et transforme le sujet, à la fois dans le monde et à distance du monde; exercice d’émancipation de la subjectivité à l’égard des discours d’autorité qui pèsent sur elle, où elle ne peut se contenter d’imiter des modèles, de résumer abstraitement une doctrine, mais s’y essaie, au besoin, dans une quéte vivante de soi.
Aussi l’analogie avec les «exercices spirituels» des philosophes s’arrête-elle là. À la différence de ceux que pratiquaient les apprentis philosophes dans la parénétique des différentes «écoles», on ne sait pas ici vraiment ce que l’on va trouver au terme de l’exercice, ni par quel détour langagier et imaginatif le retour à soi sera le plus juste et le plus vrai. À cet égard aussi, dans la pratique récurrente de ce geste sans terme, qui accepte ses propres indéterminations avec joie et désinvolture, Montaigne reste la référence par excellence, sans précédent ni équivalent dans la tradition philosophique.
IV. Divertissement et expression: de Saint-Évremond à Hume Pour Saint-Évremond, le divertissement renvoie, certes, à la «vanité» de la nature
humaine; mais l'explication donnée à la ne dans l’extériorité n’est pas du tout ce qu’elle est chez Pascal: ne pas penserà notre misère. Pour user d’un vocabulaire humien, le «moi» trouve dans cette sortie continuelle hors de soi des sources d’ «animation», de «vivification» de toutes ses idées, et, en premier lieu, de Pidée
qu’il se fait de lui-même (pour Saint-Evremond comme pour le Hume qui en fera la théorie dans le Traité de la nature humaine, Videntité personnelle est cette fiction plus ou moins animée qui vit de ces relations: le cas Corneille est à cet égard exemplaire). Et s’il s’agit d’échapper à quelque chose, c’est sans doute moins à la pensée de notre misère, comme le veut Pascal, qu’à l’état de langueur, d’ennui, ou de mélancolie dans lequel nous tomberions mécaniquement, en un état de stricte que le moraliste énonce, on solitude. Evidence tout immanente, toute naturelle,’
250
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ‘
&
s’en souvient, sur le mode du lieu commun: «Qui ne sait que l’âme s’ennuie [... |». Et les dévots, les solitaires les plus rigoureux eux-mêmes ne font pas exception à
la règle lorsqu'ils vivent dans un total retrait du monde. Le rapprochement avec Hume, plus encore qu’avec Voltaire, n’est pas, en pareille matière, tout à fait fortuit et mériterait de plus amples commentaires.
L’Épicurien que David Hume mettra en scène dans un bref essai sera à cet égard très proche du type d’épicurisme que Saint-Evremond incarne durablement sur la scène de la République des Lettres. (Au point que lon peut se demander si Saint-Évremond n’en constitue pas le modèle sous-jacent, modèle dont on sait l'importance pour toute une part de la pensée anglaise). L’Épicurien selon Hume aura, notamment, ceci de particulier, qu’il fera de la sortie du sujet hors de soi et de ce que Saint-Évremond nomme «divertissement» une question déterminante,
non seulement pour la technique du bonheur, mais encore pour la critique de toute philosophie spéculative en la matière, ayant pour ambition de définir des règles universelles, pleinement rationnelles. Bannissons donc toutes ces vaines prétentions de nous rendre heureux à lintérieur de nous mêmes, de nous repaître de nos propre pensées, de nous satisfaire de la conscience de nos bonnes actions, de mépriser toutes les aides et tous les secours qui nous viennent des objets extérieurs. Car c’est PORGUEIL qui parle ainsi, ce n’est pas la NATURE. Encore serions nous trop heureux si cet orgueil pouvait se soutenir lui-même et nous procurer un réel plaisir av dedans, tout mélancolique et sévère qu’il fût. Mais son impuissance est telle qu’il ne sait régler que les dehors; donner au langage et à la contenance le tour de dignité philosophique qui en impose au vulgaire ignorant lui coûte des peines et des soins infinis. Pendant ce temps, le cœur est vide de toute jouissance; et l’àme, qui n’est point soutenue par les objets qui lui conviennent, sombre dans le chagrin et l’abattement le plus profond. Malheureux, mais bien vaniteux mortel! Quoi! Ton âme trouverait son bonheur en elle-même! Mais de quoi dispose-t-elle pour combler un vide aussi immense et suppléer à tous les sens et toutes les facultés de son corps? Ta tête peut-elle subsister sans tes autres membres? [...] Dans quelle léthargie et quelle mélancolie ton âme doit-elle s’enfoncer, si les objets du dehors cessent de l’occuper et de la réjouir! Ne m’imposez donc plus cette violente contrainte! Ne me renfermez pas au dedans de moil Montrez-moi ces objets et ces plaisirs qui donnent la vraie jouissance. Mais pourquoi m’adresserai-je à vous, 6 sages pleins d’orgueil et d’ignorance, pour m'indiquer la voie du bonheur? Laissez-moi consulter mes propres passions et inclinations. C’est en elle qu'il me faut lire les décrets de la nature, et non dans vos discours frivoles®.
© D. Hume, Essais et traités sur plusieurs sujets. Essais moraux, politiques et littéraires (première partie), introduction, traduction et notes par M. Malherbe, Paris 1999, pp. 192-193. Le titre de ce quinziéme essai, L'épicurien est ainsi glosé en note (édition citée, p.191): «homme d’élégance et de plaisir. L’intention de cet essai et des trois suivants n’est pas tant d’expliquer de manière précise les sentiments des anciennes sectes de philosophie que de rendre les sentiments de ces sectes qui se forment naturellement dans le
UnJardin très imparfait
251
Comme l’a remarqué justement Jean-Pierre Cléro, cette critique prend évidemment tout son sens dans le jeu différentiel qui ’oppose au discours du Stoïcien et à l'illusion d’autonomie qui affecte sa conception de la raison et de la vertu. «La vertu peut calculer, organiser, et par là multiplier et vivifier les plaisirs: elle ne saurait S'y opposer. Le sage stoïcien, qui croit pouvoir le faire, demande à chacun de rentrer en soi-même, c’est-à-dire de substituer à la loi de la nature celle de l'autonomie de la raison. Mais sans hétéronomie, Pesprit n’est rien qu’une chimère; il n’existe qu’à
condition de s’ouvrir à un monde à l'extérieur de lui. Otez ce monde et le psychisme sombre dans la pire des dépressions. L’esprit est une mise en ordre du flux des impressions; si on les lui òte, si on le sépare artificiellement du corps ou si on lui demande de produire des règles propres, il n’est plus rien. Cette prétention stoïcienne d’autarcie est en réalité le produit de la suprématie de l’orgueil sur les autres passions». Le statut réservé à la conversation par Hume, comme par Saint-Évremond, va dans le même sens anti-stoïcien: «C’est la même illusion d’autonomie, poursuit le même commentateur, qui porte à édicter des règles pour penser. «C’est dans vos joyeuses conversations, mieux que dans les raisonnements formels des écoles, que se trouve la vraie sagesse», dit l’Épicurien (éd. citée, p. 215) qui sous-entend que la pensée nous est aussi naturelle «que la respiration et le sentiment; et que c’est lui
faire violence que de la barder de règles»*. D’où les remarques suivantes. 1) Faire de Saint-Evremond un ‘anti-Pascal’, le résumer à n’être que cela, a longtemps été une tentation facile, et un leurre pour l’histoire des idées — celle de l’histoire de l’idée de divertissement tout particulièrement. Saint-Evremond, faut-il le rappeler, ne répond pas à Pascal comme Voltaire le fera. Non seulement parce qu’il écrit avant lui (la lettre sur les plaisirs date sans doute de 1647), ou ne la pas du tout en ligne de mire par la suite dans la grande lettre à Créqui ou dans d’autres
monde et nourrissent différentes idées de la vie humaine et du bonheur. J'aidonné à chacune le nom de la secte philosophique avec laquelle elle a le plus d’affinité». J.-P. Cléro, Gassendi et ‘Les quatre philosophes’ de Hume, dans S. Murr (éd.), Gassendi et l'Europe, Paris 1997, pp. 246-262. Comme le remarque également Cléro (ibi, p. 247) de discours de l’Épicurien tel qu’on peut le lire dans le premier des Quatre essais ne correspond pas entièrement à celui d’Epicure ou de Lucrèce, repris par Gassendi». L’Epicurien de Hume, tout comme Voltaire à l’encontre de Pascal, use il est vrai d’un argument providentialiste qui a pu être inspiré par Gassendi (voyant dans «la quête universelle du plaisir» «la marque providentielle de l'habileté du Créateur qui a voulu, par ce biais, amener les êtres vivants à accomplir les opérations nécessaires à la vie» — OO, II, 107b): «Il n’y a qu’une certitude que nous puissions obtenir, affirme l’Epicurien: s’il y a un esprit qui gouverne et préside ce monde, il doit se complaire à nous voir remplir les fins de notre existence, à nous voir jouir de cette volupté pour laquelle seul nous avons été créés. Que cette pensée
nous délivre de nos angoisses [...]» (éd. citée, p. 218). Mais on insistera sur le caractère hypothétique et très vraisemblablement ironique de pareil argument sous la plume de Hume (cf. les remarques de Cléro, Gassendi et ‘Les quatre philosophes’ de Hume, cit., p. 253). 2 Tip. 249:
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ’
LT
traités où il est question du divertissement. Mais aussi parce que l’un et l’autre ne parlent pas vraiment de la méme chose. Saint-Evremond rend pleinement visible tout un pan de la réflexion néo-épicurienne sur le divertissement qui est foncièrement étrangère à Pascal. Il analyse ce que Pascal ignore, ou feint d’ignorer dans l’expérience même du divertissement, ou
plutôt ce dont la métaphysique augustinienne détourne 4 priori Pascal, ce dont elle le divertit: la fécondité à la fois cognitive, morale et esthétique du divertissement.
Cognitivement, c’est en se détournant de soi que le sujet apprend à mieux être soi, en exprimant mieux ce qu’il est et ce qu’est le monde. Moralement, c’est en s'exprimant mieux avec autrui et pour autrui, ou «pour soi-même comme un autre», que l’idée morale qu’il aura de soi sera plus ou moins «saine», vive, animée, «vraie». Esthétiquement, c’est par les détours et retours du divertissement que la sub-
jectivité explore réellement ses propres possibles, accroît l'expérience de sa propre plasticité imaginative, éduque et affine son propre goût, et les jugements qui en résultent sur soi, sur autrui et sur le monde. 2) Selon une pareille perspective, le divertissement n’est ni bon, ni mauvais en soi. (On se gardera bien d’en faire une entité, une essence, on le mettra du reste
volontiers au pluriel.) Mais aucune «thérapie du désim ne peut en faire l’économie: c’est par le divertissement que l’on se divertit de ses,effets les plus nocifs. Depuis le «peu de choses nous divertit, car peu de choses nous tient» de Montaigne, la pensée néo-épicurienne du divertissement n’aura cessé d’accorder à la volonté et à Pusage de la raison un statut instable dans les pratiques morales qui lui sont liées: dans les moments successifs qui constituent cette histoire, il faudrait suivre les mouvements par lesquels le sujet se sent a /a fois objet du divertissement («tenu», agi par lui à travers ses inclinations successives) et sujet du divertissement. si, de Montaigne à Saint-Évremond, la façon de régler optimalement le divertissement dépend des «tempéraments» et inclinations naturelles de chacun, elle passe aussi par une série de décisions, différentes selon les types d'individus envisagés: ces décisions peuvent conduire des jouissances les plus «grossières» aux voluptés les
plus «délicates». À cet égard, réinscrire l’analyse des plaisirs religieux au sein de l’économie des divertissements les plus «délicats» et des jouissances les plus « divines » constitue
* Il importerait de suivre cette approche typologique des sujets jouissants jusqu’aux conclusions les
plus scandaleuses d’un La Mettrie — grand connaisseur de Saint-Évremond, soit dit en passant. Voir
notamment sur ce point l’étude de F. Markovits, La Mettrie: une éthique de l'inconstance, une métaphysique de la tendresse, dans L'épicurisme des Lumières, numéro spécial sous la direction de A. Denneys-Tunney et P.-F. Moreau, «Dix-Huitiéme siècle», XXXV,
2003, pp. 171-186.
UnJardin très imparfait
253
Pun des aspects les plus subversifs de ces variations néo-épicuriennes, que l’on a parfois considérablement affadies en les qualifiant de «mondaines». «Mondains», les divertissements ainsi conçus le sont à la fois dans un sens social (nul plaisir sans communication) et dans un sens proprement ontologique: l’autre monde, le Ciel, le Dieu des Dévots participent eux aussi, en tant que représentations, à cette dialectique du détour et du retour, du méme et de l’autre qui conditionnent l’esthétique de toute existence, la force de toute expression, le rapport à soi de
chaque sujet. 3) On comprend peut-être mieux, dans une telle perspective, l'extrême mobilité du concept de gout (et de son envers négatif, le dégoût), surgissant en toutes sortes de contextes, esthétiques, mais aussi politiques, moraux, et religieux. Le goût néo-épicurien est cette instance complexe qui trace une voie aussi heureuse que possible entre détours hors de soi et retours à soi, entre aliénation consentie et réappropriation délibérée. Il y des cas où l'écart est trop faible pour être goûté de manière féconde et productive (tel est, par exemple, aux yeux de Saint-Évremond, celui que procure à la subjectivité du lecteur français Le Grand Alexandre de Racine). Il y a en revanche des cas, des «situations», des moments où
l'écart est trop fort pour que le sujet moderne puisse véritablement s’y (re)trouver, ou même s’y chercher, trop «vaste» (et l’on connaît le sens péjoratif que SaintÉvremond donne à ce terme) pour ne pas inspirer le dégoût (tels sont les excès du recours aux divinités, aux divinations et oracles qui dans bien des tragédies antiques ont fait selon Saint-Evremond le succès l’épicurisme à Rome). Le goût ainsi conçu est à la croisée des représentations, qui, de Pordre de la «coutume», conditionnent la «culture» collective dont chacun hérite, et de ce
processus d’auto-éducation et d’auto-normation que chaque sujet peut se donner progressivement à lui-même: c’est aussi dans cette constitution du goût, entre individu et communauté, que se mesure une singularité, et que se fait l'épreuve de la liberté.
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Denis Vetras's Utopia: Forward-Looking Science Fiction, Backward-Looking Politics by John Christian Laursen
The utopian novel of the late seventeenth century by Denis Veiras, The History of the Sevarambians, raises several puzzles'. One of them is this: why does a writer who is evidently familiar with some of the latest developments in mechanical science seem to have no knowledge or appreciation of the latest developments in politics? As my title puts it, why is his fiction forward-looking in some aspects of ‘science’, and yet backward-looking in most aspects of politics? By ‘science’ I do not mean the abstract mathematics of Isaac Newton’s Principia. Rather, I mean the mechanical and medical conquest of nature often described in those days as ‘projecting’ and summarized as ‘engine science’ and ‘medical police’ in a recent book’. Veiras seems to have had a particular interest in hydraulics, including fountains, plumbing, and fire control in buildings and irrigation and the making navigable of rivers in the outdoors. But there are also descriptions of his proposal for crossing the mountains by tunneling and by what we would call an aerial tramway. And there is more of this sort of thing, perhaps what we would call ‘engineering’ today. What we have in this text is thus an example of the political ideas of engineers — or of one of their sympathizers. There may be some contemporary relevance here, since ten members of the Politburo of the Chinese Communist Party are engineers. We can ask ourselves: Is their politics forwardlooking or backward-looking?
! D. Veiras, The History of the Sevarambians:
Albany 2006.
A Utopian Novel, eds. J. C. Laursen and C. Masroori,
yi
2 P. Carroll, Science, Culture, and Modern State Formation, Berkeley 2006. Carroll argues that engineering and science should be seen as two parts of «one collective practicè» rather than as separate fields.
256
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo
First, we shall review the basic elements of this bdok for those who are not familiar with it. Denis Veiras (also spelled Vairasse) never actually acknowledged his utopian novel, although its narrator, Captain Siden, and the founder of his utopia, Sevarias, are anagrams of his name. His book was written in two versions. Part One came out in English in 1675 as The History of the Sevarites or Sevarambi; then Parts One to Five came out in French in the years 1677 to 1679; and then a different version of Part Two came out in English in 1679. Then all five Parts of
the French version were translated back into English in 1738 as The History of the Sevarambians. The book was quickly translated into German (1689), Dutch (1682), and Italian (1730), and there have been modern editions in French, German, Rus-
sian (because of the socialism) and Japanese (the Greater East Asia Co-Prosperity Sphere)’. There was no modern edition in English until 20006’. The book was widely read in the late seventeenth and eighteenth centuries. Everybody from Madame de Sévigné in Paris to Pierre Bayle in Rotterdam and philosophers Gottfried Leibniz, David Hume, Montesquieu, Rousseau, and Kant
opined about it’. The story begins with a shipwreck on the coast of Australia and the discovery of an advanced civilization, and it is enriched by romantic tales, magical realism, and
more. It reads like what we expect from the entertainment industry: it is comparable to Peter Jackson’s movie version of the Lord of the Rings. But interspersed with the entertainment are substantial analyses of the Sevarambians’ deistic and enlightened religion, and of their advanced hydraulic science and architecture. There is also an ideal government and its fine leaders, an optimo reipublicae statu (to quote from the title of Thomas More’s Utopia). Recall that More’s Utopia was written and first published in Latin. Veiras’s utopia was written in two vernaculars: English and French, indicating a change in the perceived readership and market. The refined Latin and the Greek puns are replaced by naked dancing girls. In Part One, our narrator takes ship for Batavia in the Dutch Fast Indies, only to be wrecked on the coast of what is now Australia. The castaways build a
For information on these editions, see A. Rosenberg, Denis Vezras: Histoire des Sévarambes: a
Preliminary Checklist of Seventeenth- and Eighteenth-Century Editions in D. Garrioch, et al. (eds.), The Culture of the Book: Essays from Two Hemispheres in Honour of Wallace Kirsop, Melbourne 1999, pp. 120-135; Veiras,
L'Histoire des Sévarambes, ed. Aubrey Rosenberg, Paris 2001, pp. 15-30; and D. Veiras, The History of the Sevarambians, cit., pp. XXITI-XXVI.
*Veiras, The History of the Sevarambians, cit. $ The modern German edition reprints selections from dozens of pieces of Rezeprionsgeschichte, although it misses Fontenelle, Hume, and Kant. See Eine Historie der Neu-gefundenen Volker SEVARAMBES ‘genannt,
eds. W. Braungart and J. Golawski-Braungart, Tübingen 1990, pp. 64*-203*.
Denis Veiras’s Utopia
settlement, and decide to share women
they well of a take
257
in order to avoid fights over them. Then
are captured by the natives, but rather than harm them the natives treat them and bring them up the river to see their more advanced civilization. In the first series of romantic scenes dispersed throughout the novel, a husband agrees to a punishment for his adulterous but repentant wife‘. In Part Two of the first English version, unicorns and camels provide tran-
sportation for our travelers, along with other fanciful animals. Gabriel de Foigny’s over-the-top The Southern Land, Known of 1676 may have given our author the idea of using magical realism’. Magical waters wash away lustful appetites and talismans kill flies and venomous creatures and restore life to dead animals. Prefiguring the role of television and cinema for us, a magical talisman causes a group of men and women to dance naked for an audience, and makes another group of naked virgins dance. Animals are made to talk. The present king is the 7,509"-generation descendant of the lawgiver Sevarias. The 1738 version of Part Two, translated from the French, is very different. There are no magic, no talismans, no titillating sex. But there is more fancy te-
chnology, as the travelers cross
a mountain range by an aerial tramway. In this
version, Sevarias was a Zoroastrian from Persia — an echo of the Persian con-
nection in More —, and the present Viceroy is only the seventh since his reign. Note also that the market may account for some of the changes: one obvious one is that the main character is a Protestant in the English version and a Catholic in the French version. The European travelers ate checked for venereal disease before they are allowed to enter: this is an example of Carroll’s ‘medical police’, somewhat analogous to Foucault’s bio-politics®. Other examples include the provision of prostitutes as a matter of public health regulation’. Veiras is a contemporary of William Petty, the chief early example for Carroll’s purposes, and most of Carroll’s examples are from much later. Foucault said that this sort of thing only began «toward the beginning of the eighteenth century» and only
“The issue of gender comes up in a wide variety of contexts, which makes it surprising that although writers like Nicole Pohl and M.-F. Bosquet mention it, they do not study it in any depth. See N. Pohl, Women, Space and Utopia, 1600-1800, Aldershot 2006, pp. 3, 36; ‘The Empress of the World’: Gender and the
Voyage Utopia, in Id. and Brenda Tooley (eds.), Gender and Utopia in the Eighteenth Century: Essays in English and French Utopian Writing, Aldershot 2007, p. 123; M.-F. Bosquet, /wages du fémenin dans les utopies françaises classiques, Oxford 2007 («Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», vol. I). 7 G. de Foigny, La Terre australe connue, Paris 1676, translated as The Southern Land, Known, tr. D.
Fausett, Syracuse 1993. 8 Carroll, Science, Culture, and Modern State Formation, cit., ch. 5.
I
? Thus in some respects Veiras anticipates Bernard Mandeville’s A Modest Defence of the Public Stews, ed. I. Primer (orig. 1724); modern edition: New York 2006. - *
258
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo %
really took off «at the turn of the nineteenth century», but here we have it in the
seventeenth century”. Part Three tells us a lot about Sevarias and how he conquered the country, partly by using firearms, which were unknown to the natives. He claimed to control thunder and lightning and developed a theology of Sun-worship, calling himself the Viceroy of the sun. He abolished private property, like More. Everyone was required to work eight hours a day, with eight for rest and eight for recreation. The officers in charge of educating the youth are among the most respected, as Plato would have it. Part Four includes several more love stories, with numerous dissimulations and double-crosses. Court life is described, including permission to exchange wives in
lieu of divorce. The Viceroy is entitled to his pick of the prettiest girls, but gives up one of them after her boyfriend stabs himself in grief (but survives). We also learn a lot about Sevarambian architecture, hydrology, and other scientific matters,
making this an important early example of science fiction. Part Five continues the religious history of the Sevarambians with thinly veiled analogy to Christianity. Sevarias allies himself with the purer sun-worshippers against the impostor Omigas, who uses false miracles to maintain his cult. The latter also has the people send their virgin daughters to the temple for intercourse with the sun, and if a child is born they are to consider themselves blessed. One famous couple fight this system, but die martyrs to the impostor’s cruelty. Then everyone is happy when the impostor is overthrown. A learned scholar gives an account of Sevarambian theology, which amounts to an almost-Spinozistic materialism. The last of the romances tells the story of a competition for love among the greatest poet, the best musician, and the handsomest man, and the poet wins.
To return to the inquiry about the forward- and backward-looking aspects of the book, even more precision in the case and terminology is called for. The 1679 English version of Part II can be excluded from the argument about forwardlooking science because its egregious violations of science and engineering are too numerous to relate. A selection of them includes the fact that the author follows Francis Bacon from the beginning of the century in thinking that engraved plates can contain all of human knowledge, rather than that science is always in motion, making progress, ever-changing. There is all sorts of magic: supernatural animals and wonder-working talismans co-exist with what I am calling science. The air
M.
Foucault, Histoire de la sexualité. La volonté de savoir, Paris 1976, vol. I, pp. 33-35, 155-156; Id. -
The History of Sexuality, New York 1978, vol. I, pp. 23-24, 117-118.
Denis Veiras’s Utopia
259
causes visible marks or growths on the nose and forehead of adulterers and thieves. Dead bodies are preserved forever, pending resurrection. But the 1677 French version of Part II, translated into English in the 1738
version, turns our admiration from magic and naked dancers to feats of engineering. One major theme is hydraulics, or the control of water. The city of Sporagounde is remarkable for «the wonderful Canals round it [...] By these Canals, and certain Walls, Bridges, and Sluices, a great Quantity of Water is carried very far out into
the Plain»''. Sevarinde has the same, «a multitude of Canals from the Mountains» (289). The Sevarambians bring back water organs (272). A «Water Mount» is a large fountain, 50 cubits high with a basin on top, cascades, and «little spurting streams» that can be directed in every direction; and its water is eventually made available for use by the citizens of the city (285-6). A large artificial basin provides a venue for naval war games (288). A recent article discusses Veiras’s later involvement with water projects in the south of France!?. He dedicated the French version of his book to Pierre Paul Riquet, originator of the Canal du Midi. In 1696 he presented a proposal to the Estates of Languedoc for canals and locks to render navigable
the Gardon River. Another public works project is a tunnel through the mountains, by which the travelers are told they would be going «to Paradise, by the way of Hell» (176177). But although the joke is Biblical, the description of the natural cave and its improvement by human hands is just engineering: stairs are cut, narrow points in the cave are widened, a tow ramp is built (176-179, 184-185). Torches provide light and riding hoods of oil case, lined with cotton, help people retain warmth (177). The next mountain range is traversed by an aerial tramway consisting of large carriages hanging on cables, which hold twenty persons each. The weight of the descending carriage would pull up the ascending catriage, «without any Labour of Men or Horses» — this exaggerates engineering, for an engineer would know it would take sozze labor (181-182). When a palace is described, its size and construction of white marble are emphasized (193). But there are also design details aimed at comfort: iron balconies shelter people from rain and sun (198) and cloth awnings and tents moved by pulleys are spread out in summer (199). There is more on hydraulics: à Jet d'eau (fountain) at the center of the building is part of a piping system that provides cisterns, baths, and fire protection (198-199). Marshes are drained, earth piled up,
11 Veiras, The History of the Sevarambians, cit., p. 173. In the following, citations in parentheses in the asie lei text are to this edition. 2 V. Joucla, De la fiction romanesque au projet réel, adduction d'eau et réalisations hydrauliques chez Denis Veiras,
in «Dix-septième siècle», LIT, 2000, pp. 330-40.
260.
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and streams diverted to provide arable land (200). Then something imaginative that goes beyond practical engineering: there is an «Invention to dissolve, fatten, and convert the Sand into good Earth» (200). This is, no doubt, a good idea, but rather vague on the science. Other elements of scientific knowledge emerge in a naturalist explanation of the optical illusion of a mirage (310-312), and matters such as descriptions of the architecture of an ampitheatre (287). The materialism of the Prayer to the Sun (225258) and the confession of faith of the rationalist theologian Scromenas (353-357) can also count as acknowledgement and acceptance of modern science. Veiras emphasizes the interest of political leaders in scientific matters. In Part Three we learn that the political founder, Sevarias, personally found the rock quarry from which the capital city was built (220). He also «caus’d divers Canals to be cut in the Plains of Sevarambe, for the Improvement of the Land» (235). He got people involved in agricultural improvement, drainage, and so forth. One Viceroy specialized in architecture (243, 290). Another «applied himself to the study of Simples and Metals, of which last he discovered several Mines, and even some rich ones of Gold» (244, 290). Here Veiras has to squirm out of the implication that they might seek gold as money, because there is no money in this utopia — so they seek gold just for the decorative value, for adornment of temples (244). Another Viceroy leveled roads and measured distances (245). The reigning Viceroy finished an aqueduct and designed the Water Mount (245, 286). The idea that political leaders should take an interest in engineering is an old one. Natural scientists and engineers like to encourage such leaders to serve as Maecenases of their projects. But the division of labor of modernity eschews the
idea that they should personally take a hand in it. Personal political power, as we all know, can distort the progress of science. This can serve as a transition to Veiras’s politics. What counts as forward-looking and backward-looking will be debatable. For some, following Plato and Thomas More in idealizing socialism and the abolition of private property should be counted as backward-looking, although others will count this as part of the history of socialism and thus forward-looking. But this is not Marx’s ‘scientific socialism’. In what follows, I will give some reasons for counting it as backward-looking. It is somewhat odd that there is very little indication that Veiras was on to the new currents of liberal political thought that were beginning to circulate in this period. These are the ideas I am thinking of as forward-looking, although I do not want to imply that Veiras should have seen the coming triumph of the Whigs, parliamentary democracy, the right to revolution, and individual rights. But why does he have no interest in this sort of thing at all?
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261
Veiras seems to have lived in England approximately from the years 1665 to 1674, so he could have picked up early liberal ideas. Maybe Veiras never saw Milton’s Areopagitica and divorce pamphlets, with their incipient individualism. Maybe he wrote too early: Locke’s Two Treatises and Letter on Toleration were not published yet. But Veiras knew Locke personally, or at least Locke knew something about him, according to Jean Le Clerc, who reported that Locke had told him Veiras was
a native of Provence”. Some writers, such as Jonathan Israel'*, have claimed that Veiras was a Spinozist, but if that were true he should have repudiated some of the anti-liberal features of his own utopia. Spinoza quoted Tacitus in one of his chapter titles: «in a free commonwealth every man may think as he pleases, and say what he thinks»!5. But
in Sevarambia, censorship prevents the reading of Greek fables (310) and only approved books are published (197). An authoritarian government prevents the saying of some things that can be thought. In Sevarambia, «no Person dares to speak evil
of him [the Viceroy], none is heard to murmur against him» (289). There is no such thing as healthy debate, by liberal standards. In order to try to bring out a bit more of what is backward about Veiras’s politics, let us go back to Thomas More, who also described a socialist utopia. Some interpreters took this as just another element of the facetious side of the zocoserio, serio ludere, or serious joking aspect of the work, which he could not possibly have
meant. But recent scholars like Quentin Skinner, who identify with something now called ‘republicanism’, have tried to rehabilitate this aspect of More’s work. To Skinner, More was writing in a tradition of civic humanism — emphatically not the Christian or Ciceronian humanists — who believed that true nobility came from virtue, not from wealth or heritage. That meant that the only way to have the best possible government was to eschew private property so no one could be fooled by false virtues. Skinner believes that More’s Utopia «concludes on a wistful and elegiac note»: «we have no hope of ever living in the manner of the Utopians; but... theirs may nevertheless be the best state of a commonwealth»!°. Another recent scholar, Eric Nelson, agrees, in the following sense. To him, More was a Grecophile, promoting the Greek tradition in republican thought, which focuses on human happiness, contemplation, and living in accordance with nature — all of which they claim can be found only in socialism. This is in contrast 15 J. Le Clerc, Bibliothèque choisie, Tome XXV, Première Partie (1712), p. 402 and Tome XXVI, Première Partie, (1713), pp. 460-1, reprinted in Eine Historie der Neu-gefundenen Volker SE VARAMBES,
cit., pp. 124*-125*. 4 J. Israel, Radical Enlightenment, Oxford 2001, pp. 591-592, 597. 15 B. Spinoza, Tractatus Theologico-Politicus, tr. S. Shirley, Leiden 1989, p. 291. 16 Q. Skinner, Visions of Politics, Cambridge 2002, vol. Il: Renaissance Virtues, pp. 213-244.
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to Roman republicanism, which put the emphasis on political independence and civic participation, the pursuit of honor and glory, and private property. So More could be genuinely promoting a Grecophile socialist utopia!. Neither of these two critics, however, raises the points I am about to make.
On their theories, More is really advocating a Utopia-like ideal, which in principle we should be striving for. But neither asks whether, even if More thinks we should be striving for it, any of us actually would. Both of these authors seem to think the main issue is private property, and both of these authors are comfortable enough with socialism. They are taking their places in what is actually an old debate between Ciceronian defenders of private property — loosely, in contemporary terms, capitalists — and socialists, including the ancient Greek and later Christian socialists. But
what if socialism and the absence of private property are only a small fraction of the important issues? The following is a list of things that happen in More’s Utopia that are not necessarily related to socialism or private property — although of course some of them might be part of the ‘package’ that comes with socialism. My question is whether we should think of any of these as forward-looking or backward-looking. First, Utopia consists of 54 identical cities; identical in architecture, language, customs, institutions, and law. Is this healthy urban planning and sociology? Is there no need for diversity in any of these areas? There would not be much reason for tourism if everything is the same everywhere. Then, every citizen has to take his or her turn laboring in the countryside. All are educated in agriculture. Mao Zhedong borrowed this idea from More: do we wish to endorse it? Or is there something to be said for a division of labor? Nothing in your home is private property, and every person is rotated out of his or her house and into another one every ten years. Is this something we should look forward to in the future? In politics, it is a capital offense to hold discussions outside the public committees or Senate. This is to prevent conspiracies of the Prince and Tranibores (or high officials). Is there nothing valuable in freedom of speech? Elsewhere, the Utopians have abolished the death penalty, but evidently not here. All the clothing is the same, except for different clothing for the married. Is this an improvement on Mao’s same-clothes-for-everyone? All cloaks are the same color, and people get one every two years. Luckily, leather work clothes last seven
years. Again, is this forward- or backward-looking?
TE, Nelson, The Greek Tradition in Republican Thought, Cambridge 2004, pp. 19-48.
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263
You get to work in the skill you like — unless the city needs another skill more. This is not too dissimilar from what the market assigns you here and now, but at least the market sometimes allows a choice to earn less but do what you
want. When the population grows, colonies are sent out. If the natives assimilate to the Utopians, fine. If not, they drive them out and wage war on the resistors.
War is just if it is waged to oust unproductive peoples. In modern times, that has been used to justify the German invasion of Russia and the displacement of the Palestinians. The Utopians consider war detestable and inglorious, but everyone is trained for it. They fight «to liberate peoples who have been made miserable by tyranny». This is one of the reasons given for the invasion of Iraq. At one point the Utopians defeated the civilized Alaopolitans and gave them to the uncivilized Nephelogetes. This seems to be happening in Iraq, too. In war, the Utopians pro-
mise rewards to assassins of princes and leaders, and bribe enemy leaders. They try to avoid fighting themselves, giving material aid to allies and paying mercenaries. No citizen has to fight abroad, just volunteers.
Children obey elders, wives serve husbands, the younger serve the elder. The social order of More’s time is not changed. Dirty work and slaughtering of cattle are done by bondsmen. More’s socialism includes slavery just as much as the old feudal culture did. People need permission to travel to other cities, and have to travel in groups. It is true that most tourists do that today, but there is no room here for indivi dualism. If you get caught on your second trip without a passport, you go into slavery. You can travel within your city’s district — that is, with your father’s and wife’s consent. So you cannot plan on personal freedom of movement. The way this is put, it sounds like the women are not going anywhere at all. But then, why travel? Everything is the same everywhere, you have to work for your food, and there are no taverns. Women cannot marry before 18, nor men before 22. But then marriage is required if you want to have sex. The reason is that «few would come together in conjugal love if they could be promiscuous». That is the old «he won’t buy the cow if he can milk it for free». Is this the latest and best justification for marriage? Adulterers go into the most burdensome slavery, and upon relapse they get the death penalty again (is this forward-looking?). For other crimes, there is no fixed penalty but the Senate fits the punishment to the crime. It would certainly pay to have friends in the Senate if that is the rule. There are no lawyers, and everyone pleads their own cases. This is an excellent theory for the silver-tongued, charismatic, good-looking, well-educated, and articulate. It is not so good for those who
need some help in dealing with the law.
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Then there’s religion, with pluralism and toleration. Except that it is forbidden
to think that the soul is mortal and that there is no providence. You are not even human if you think that. The Utopians don’t require dissimulation; but they do forbid the public voicing of these ideas. Those with different opinions are encouraged to discuss their opinions with the priests. By the time we get to socialism, it is pointed out that abolishing money would abolish greed and theft, and even the rich are better off without all that superfluous money that burdens them now. This may or may not be true, but it pales in com-
parison to the other aspects of society that I have just mentioned. Regimentation is carried to a high degree. If this really is More’s ideal, then one person’s ideal may be another person’s nightmare. So, one big question is, why don’t readers
like Skinner and Nelson see any of this as problematic? Are they really «wistful and regretful» that we do not have all of this? This is all part of a more general critique of many republican political writers of the seventeenth century, including, for example, James Harrington and Andrew Fletcher of Saltoun. They are usually
more backward-looking than forward-looking". And now let us return to Veiras’s utopia. We shall ask the same question here: how much of this is politically forward-looking, and how much is not? The medical police and bio-politics mentioned above are perhaps forward-looking in the sense that they anticipate the use of public health measures'for colonial enterprises such as the English domination of Ireland." But that is not forward-looking in the sense of establishing rights and liberties. As for the Platonic idea that educators should have the most authority and prestige in a society, there is room for more than a little skepticism. We educators may want more authority and respect; but it is not at all clear that our fellow schoolmasters are the best-suited to run our politics. International trade is allowed in the first version of Part Two, but not in the
second. Part Three explains that one Viceroy forbid commerce with the northern continent because it might undermine commitment to the principle of socialism (243). But isolationism does not usually count as forward-looking. The optimal government of this utopia is the kind that depends on leadership. In the Greek and Roman tradition, one kind of political theory required a Pater patriae,
Father of his Country. That is what Veiras’s utopia depends on: a series of enlightened, virtuous, and skilled Viceroys. There is even a cautionary tale about one Viceroy
who would send the Sevarambians abroad on unnecessary military adventures, but the higher magistrates restrain him, so he dedicates his time to building roads. !* See D. Herzog, Some Questions for Republicans, in «Political Theory», XIV, 1986, pp. 473-493. !° See Carroll, Science, Culture, and Modern State Formation, cit.
Denis Veiras’s Utopia
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Remember that the founding hero is a Zoroastrian. Is admiration for the political finesse of a Zoroastrian forward-looking? Veiras may or may not have known much about the reality of Zoroastrianism, and his use of Persians may be best understood as a cover for a European policy. But that policy would seem to be paternalistic Machiavellianism, the adroit manipulation of the people for their own good. As we have seen, Sevarias obtained firearms from China, and used
them to spook the enemy told them he controlled Bolts of Heaven (212-214); he also used religious fraud to obtain the respect and obedience of the people. Later,
the leader ousted by Sevarias, Stroukaras (also known as Omigas), is accused of many pious frauds. But if Sevarias performs them, too, one can assume the only difference is that some are performed with the common good in mind and some are performed for private benefit. It is not particularly forward-looking to believe that pious frauds are o.k. as long as the right people are doing them. There are other down-sides to this utopia. Like More’s, it is very regimented. All women must marry by eighteen, and all men by 22. Clothing reflects age and marital status. Does two suits a year count as a forward-looking improvement over More’s one suit every two years? (262-263). Military training for all follows More’s example. So does slavery. Cities are all alike, with this twist: everyone lives in thousand-person apartment buildings. Then there are things that More did not think of. People with any sort of physical deformity are exiled to the outer provinces of the empire. Thieves and adulterers are also exiled to an island. This would add to the medical policing that Carroll identifies. Is it really a forward-looking improvement over More? The biggest sort of entertainment is bear-baiting, supplemented by fights among tigers and a host of indigenous animals, and also by hunts (esp. the 1679 Part Two, but also 173-176, 180). There is clearly no sense here that cruelty might not be the highest form of recreation. To our urbanized tastes, this is not forwardlooking, and we might even adopt the line of the SPCA that brutal treatment of animals leads to brutal politics and brutal treatment of humans. Slave girls are kept in each city for the use of travelers. It is only natural that travelers will have sexual needs, we are told; nothing is said about whether the slaves like this work. Government officials are entitled to more than one wife, an
increasing number as higher rank is reached. They are also entitled to concubine slaves (283-284). The narrator points out that some women seek out unambitious men in order to not have to share them if they become high officials (255). At the age of seven, children are removed from their parents — who might spoil them or be too severe with them — and become wards of the state. There is censorship of the reading of Greek mythology for its tendency to corrupt morals.
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There is a kind of religious freedom in Sevarambia, described as «a full Liberty
of Conscience» (301; see discussion on p. XVI). The minority Catholics are allowed to carry on their own worship. But there is no separation of church and state and everyone else is required to participate in numerous religious rituals and festivities, whether they believe them or not. Although the religious impostures of the previous reign are exposed, Sevarias and his successors also rely on religious fraud such as making it appear that the sun is giving orders from the sky, by means of a false compartment in the roof of a church (228-229). There is one element of Sevarambian politics that might be interpreted today as forward-looking: the equality of ‘racial’ groups. A black man is mayor of a city (179). But oddly enough, there is no explanation or futther comment on that fact. So one of the few things that seems like a progressive political attitude has no backing or context of larger theory behind it. Just a few years after Veiras’s book appeared, Fontenelle wrote an Histoire des Ajaoiens (1682)?°. From the many parallels, it is obvious that he had Veiras’s book in mind as he wrote it. It can be argued that he was more forward-looking in politics than Veiras, and for that reason included political equality among the male citizens and atheism as a political principle designed to prevent religious violence. His utopia did not depend on a founder like Sevarias. But he also maintained a helot-like slave class, polygamy, obligations to marry, the exclusion of women from government or matters of justice, as well as from learning to write, no private property, and several other features that would not count as forward-looking.
So, what can we conclude about the science and politics of Veiras’s utopia? Who would want to live in it? Is this a forward-looking politics? Did Veiras improve on More’s politics? Was he much more modern? I think the answer is clear: he was not. So we have a kind of paradox: engine science engineers who are up to date on the latest in hydraulics, architecture, and food production, and medical police who are up to date on health care, can also be very backward politically.
One set of explanations of Veiras’s politics could begin from his heritage as a Huguenot, or French Protestant. Some of the critique of the false miracles of an «imposto» and an edict of expulsion (320) can be read as critique of Catholicism and Louis XIV’s policy. But I have not found much in the way of especially Huguenot political theory in his work. Like many exile groups, the Huguenots were divided in their politics. Pierre Jurieu would soon write that the Huguenots should
2" B. de Fontenelle, Histoire des Ajaicens, ed. H.-G. Funke [orig. published in 1768], Oxford 1998.
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revolt against the Crown that had so maliciously revoked the Edict of Nantes. Pierre Bayle would champion the traditional view that loyalty and obedience would bring the King around to revoking the Revocation and readmitting the Huguenots to France. But Veiras was writing before them. He had the monarchomachs from the previous century as precedents, but he does not draw on them in any obvious way. The authoritarian, manipulative, and evil Stroukaras is replaced by an authoritarian,
manipulative, but good regent. There is nothing particularly Huguenot about that: it is purely party politics. No general principle of a right to revolution is vindicated. David Fausett wrote that «the heart [...] of the story is [...] an absolute social ideal: pure democracy»?!. That is hard to square with the near-absolute power of the Viceroy and a hierarchy of officials from the local level up. Nan Keohane is closer to the truth when she calls it «enlightened absolutism», which might be forwardlooking into the eighteenth century, but not beyond it”. Veiras himself calls the form of government «monarchical, despotical, and heliocratical [...] which has also a mixture of Aristocracy and Democracy in it» (246). It might be best to agree with his characterization. But that is not a particularly forward-looking politics.
2 D. Fausett, Writing the New World, Syracuse 1993, p. 120. a 2 N, Keohane, Philosophy and the State in France, Princeton 1980, p. 323.
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2-0,
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu di Lorenzo Bianchi
I. L’analisi della religione attraversa l’intera opera di Montesquieu, dai primi scritti giovanili — quali la Dissertation sur la politique des Romains dans la religion (1716) — fino a L'Esprit des lois e il tema della religione sarà anche al centro della Défense de L'Esprit des lois, pubblicata anonimamente nel febbraio del 1750, nella quale il Presidente risponde alle accuse di «spinozismo» e di «deismo» portate contro la
sua opera maggiore'. "Su Montesquieu e il problema della religione si vedano tra gli altri: R.B. Oake, Montesquien’s religious ideas, in «Journal of the History of Ideas», XIV, 1953, pp. 548-570; R. Caillois, Montesquieu et l'athéisme contemporain, in Actes du Congrès Montesquieu réuni à Bordeaux du 23 au 26 mai 1955 pour commémorer le deuxième centenaire de la mort de Montesquieu, Bordeaux 1956, pp. 327-336; R. Shackleton, La religion de Montesquien,
ivi, pp. 287-294, ora in Shackleton, Essays on Montesquieu and on the Enlightenment, ed. by D. Gilson and M. Smith, Oxford 1988, pp. 109-116; Id., Montesquieu. A Critical Biography, Oxford 1961, cap. XVI, «Religion», pp. 337-355; S. Cotta, La funzione politica della religione secondo Montesquieu, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XLIII, 1966, pp. 582-603; P. Kra, Religion in Montesquien’s «Lettres persanes», in «Studies on Voltaire and the Eighteenth century», LXXII, 1970; P.M. Masterson, Rights, relativism and religious
faith in Montesquieu, in «Political studies», XXII, 1981, pp. 204-216; S. Rotta, Montesquieu et le paganisme ancien, in E. Mass et A. Postigliola (ed.), Lectures de Montesquieu, Actes du Colloque de Wolfenbiittel (2628 octobre 1989), Napoli-Paris-Oxford 1993 («Cahiers Montesquieu», n: 1), pp. 151-175; M. Régaldo, Montesquieu et la religion, Bordeaux 1998; R. Kingston, Montesquieu, Locke et la tolérance religieuse, in Actes du Colloque International tenu è Bordeaux, du 3 au 6 décembre 1998 pour commémorer le 250° anniversaire de la parution de l'Esprit des Lois, Bordeaux 1999, pp. 225-234; Ead., Montesquieu on religion and on the question of toleration, in D.W. Carrithers, M.A. Mosher and P.A. Rahe (eds.) Montesquien’s Science of Politics. Essays on the Spirit ofLaws, Lanham-Boulder-New York-Oxford 2001, pp. 375-408; R. Minuti, Orientalismo e idee di
tolleranza nella cultura francese del primo ‘700, Firenze 2006, cap. IV «Montesquieu, l’Oriente religioso e la tolleranza», pp. 331-402; Montesquieu, l'état et la religion. Colloque de Sofia (7 et 8 octobre 2005) précédé d’une table ronde. Avant- propos de J. Ehrard, Sofia 2007 («Cahiers Montesquieu», hors série). Rimando infine a alcuni miei studi: L. Bianchi, Nécessité de la religion et de la tolérance chez Montesquieu. La «Dissertation sur la politique des Romains dans la religion», in Lectures de Montesquieu, cit., pp. 25-39; Id., Religione e tolleranza in Montesquieu, in «Rivista di storia della filosofia», XLIX, 1994, pp. 49-71 (ripubblicato in una nuova versione come Montesquiey e la religione, in D. Felice (ed.), Leggere l’«Esprit des lois».
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all Hluminismo ,
‘
Dalla giovanile Dissertation sulla religione presso i romani fino all’opera maggiore del 1748 Montesquieu affronta il tema della religione essenzialmente da un punto di vista politico e non a caso nel primo capitolo del libro XXIV de L'Esprit des lois — il primo dei due libri dedicati alla religione — Montesquieu afferma di esaminare le diverse religioni del mondo solamente in rapporto alle conseguenze da esse prodotte sullo stato civile e ribadisce di non essere «théologien, mais écrivain politique». Montesquieu è convinto della necessità sociale della religione,
che diventa quindi un «motif répriman per gli uomini? e per questa ragione non può assolutamente concepire l’ipotesi di Bayle, a suo avviso assurda e paradossale, secondo cui sarebbe meglio essere atei che idolatri e non potrebbe sussistere una società veramente cristiana*; due punti, questi, nei confronti dei quali egli avanza
un'articolata critica nei capitoli 2 e 6 del libro XXIV. Del resto il Presidente si era confrontato criticamente con Bayle fin dagli anni giovanili — come mostra un passo delle Pensées nel quale si ritrovano alcune riflessioni contro il paradosso di Bayle «qu’il vaut mieux être athée qu’idolatre»? — e resterà sempre convinto della necessità sociale della religione e del fatto che essa condiziona, seppure in maniere
differenti, la storia di ogni popolo. Questa ipotesi è esemplarmente esposta in un passo famoso del libro XIX, capitolo 4, nel quale Montesquieu definisce e analizza «esprit général» e dove si legge che «plusieurs choses gouvernent les hommes: le climat, la religion, les lois, les maximes du gouvernement, les exemples des choses
Stato, società e storia nel pensiero di Montesquieu, Napoli 1998, pp. 203-227); Id., La funzione della religione in Europa e nei paesi orientali, in A. Postigliola et M.G. Bottaro Palumbo (ed.), L'Europe de Montesquieu, Actes du Colloque de Gêne (26-29 mai 1993), Napoli-Paris-Oxford 1995 («Cahiers Montesquieu», n. 2), pp. 375-387; Id., Histoire et nature: la religion dans «L'Esprit des lois», in M. Porret et C. Volpilhac-Auger
(ed.), Le temps de Montesquieu, Genève 2002, pp. 289-304; Id. Lege? divine e leggi umane. Note sulla religione nel libro XXVI de «L’Esprit des lois», in D. Felice (ed.), Libertà, necessità, storia. Percorsi dell'’«Esprit des lois» di Montesquieu, Napoli 2003, pp. 243-275; Id., «L'auteur a loué Bayle, en l'appelant un grand homme»: Bayle dans la «Défense de l'Esprit des Lois», in C. Larrère (ed.), Montesquien, oeuvre ouverte?(1748-1755), Actes du Colloque de Bordeaux (6-8 décembre 2001, Bordeaux, Bibliothèque Municipale), Napoli-Oxford 2005 («Cahiers Montesquieu», n. 9), pp. 103-114. ° EL, XXIV, 1. E si veda il passo immediatamente sopra: «Je n’examinerai donc les diverses religions du monde, que par rapport au bien que l’on en tire dans l’état civil». Il De Esprit des lois (EL) è citato con la sola indicazione del libro (in numeri romani) e del capitolo (in numeri arabi). * Cfr. EL, XXIV, 2: «Dire que la religion n’est pas un motif réprimant, parce qu’elle ne réprime pas toujours, c’est dire que les lois civiles ne sont pas un motif réprimant non plus». 4 Cfr. P. Bayle, Pensées diverses..., in P. Bayle, Œuvres Diverses, t. III, La Haye 1727, $ CXIV «IV.
Réponse. Que l’Athéisme n’est pas un plus grand mal que l’Idolatrie», p. 75 et §CLXXII «Si une société d’Athées se feroit des loix de bienséance et d’honneum, pp. 109-110. ? Cfr. Montesquieu, Pensées, in Montesquieu, Pensées. Le Spicilege, édition établie par L. Desgraves, Paris
1991, n. 1946, pp. 593-597: «Quelques réflexions qui peuvent servir contre le paradoxe de M. Bayle, qu’il vaut mieux être athée qu’idolatre, avec quelques autres fragments de quelques écrits faits dans ma jeunesse, que j’ai déchirée» (poi citato come Pensées).
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu
271
passées, les moeurs, les manières; d’où il se forme un esprit général qui en résulte»®.
La religione risulta così un elemento costitutivo della società, uno dei sette fattori che producono «l’esprit général» e in quanto tale essa viene a occupare, con i due libri a lei dedicati, uno spazio preciso nell’architettura teorica de L'Esprit des lois.
L'intreccio tra religione, morale e politica era comunque già stato evidenziato da Montesquieu qualche anno prima de L'Esprit des lois. Nelle Considérations sur les Romains (1734) infatti — dove il ruolo della religione è comunque fortemente ridotto rispetto a uno scritto degli anni dieci come la Dissertation sur la politique des Romains— si ritrova un passo del capitolo decimo — «De la corruption des Romains» — che parla degli stretti legami che univano presso i romani il sentimento religioso all’amore di patria e che si conclude con l’affermazione che: «a religion est toujours le meilleut garant que l’on puisse avoir dès moeurs de l’homme»’. Montesquieu riprenderà ne L'Esprit des lois questa ipotesi dell’utilità morale della religione, e verrà a sostenere
che «la religion, méme fausse, est le meilleur garant que les hommes puissent avoir de la probité des hommes. L’analisi montesquieuiana della religione mostra come questa abbia un ruolo sociale determinante in tutte le società al punto da condizionarne le forme di governo. Così la religione cristiana si adatta meglio a un governo moderato — visto l’azione di moderazione che essa è capace di suscitare’ — mentre la religione musulmana conviene meglio a un governo dispotico!. Quest’ultima infatti si adatta pienamente al dispotismo grazie all’indifferenza suscitata dal «dogme d’un destin rigide»!!; ma anche se il fatalismo è un elemento peculiare alla religione musulmana e il dispotismo e l’intolleranza ne sono la forma politica, la stessa religione maomettana riesce talvolta a esercitare un effetto di moderazione sui governi". Ma se numerose sono le cause che contribuiscono a formare quello «spirito generale» che governa gli uomini, la stessa religione è a sua volta influenzata da altri
SEL SAA. ? Œuvres Completes de Montesquieu, 2, Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, texte établi et présenté par F. Weil et C. Courtney, introductions et commentaires par P. Andrivet et C. Volpilhac-Auger, Oxford-Napoli, 2000, p. 161 (le Œuvres Complètes de Montesquieu nella nuova edizione critica pubblicata a Oxford presso la Voltaire Foundation sono di seguito citate come Montesquieu, OC).
EL, OSV, 8.
° Cfr. EL, XXIV, 3: «La religion chrétienne est éloignée du pur despotisme: c’est que la douceur
étant si recommandée dans l’Evangile, elle s’oppose à la colère despotique avec laquelle le prince se ferait justice, et exercerait ses cruautés».
DEL, XXIN.3, . CL XXV 2 Cfr. EL, V, 14, cit: Dans les empires mahométans, c’est de la religion que les peuples tirent en partie le respect étonnant qu’ils ont pour leur prince. C’est la religion qui corrige un peu la constitution turque».
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all Hluminismo
" elementi quali il clima. Così quando la cristianità si divise tra cattolici e protestanti i paesi del sud abbracciarono il cattolicesimo e quelli del nord la riforma in quanto «les peuples du nord ont et auront toujours un esprit d’indépendance et de liberté I)
que n’ont pas les peuples du midi» e «une religion qui n’a point de chef visible,
convient mieux à l'indépendance du climat que celle qui en a un». Ed è sempre il clima insieme alle leggi religiose locali a impedire che si possa «transporter une religion d’un pays dans un autre»*.Le conclusioni di Montesquieu sono in proposito radicali: dorsque la religion, fondée sur le climat, a trop choqué
le climat d’un autre pays, elle n’a pu s’y établir; et quand on l’y a introduite, elle en a été chassée. Il semble, humainement parlant, que ce soit le climat qui a prescrit des bornes à la religion chrétienne et à la religion mahométane»". È il clima allora
a stabilire dei limiti insuperabili — insieme storici e geografici — alle due maggiori religioni, quella cristiana e quella maomettana, e in queste affermazioni si delinea
l'attitudine storica e scientifica di Montesquieu che ricostruisce in rapporto a diversi elementi — storici, geografici, climatici, legislativi — il ruolo che ogni religione eser-
cita in un paese. Da qui anche l’interesse ne L’Esprit des lois, che potrebbe apparire eccessivo a una prima lettura, per i resoconti o le relazioni di viaggio. L’attenzione per le analisi antropologiche, storiche e geografiche così come per gli usi, i costumi, le leggi e le religioni dei popoli extraeuropei rivela in realtà l’esigenza scientifica di chi ricerca in queste relazioni gli elementi di costanza e di variabilità della storia umana.
Come ha messo in evidenza R. Shackleton, non senza una punta di sar-
casmo: «few people ever so persistently sought the society of missionaries, and so assiduously read their works, while believing all the time that their activities were
bound to fail»'®. Da questa sintetica analisi del tema della religione si possono comunque trarre alcune prime considerazioni. Montesquieu mostra nella sua disamina l’attitudine storica di chi vuole descrivere e comprendere il ruolo politico che le religioni rivestono nella società. Da questo punto di vista egli fa proprio l’atteggiamento dell’uomo politico e di scienza che analizza e descrive un fenomeno e, in questa prospettiva, egli si colloca su un piano necessariamente differente rispetto a chi, come Voltaire, critica le religioni storiche e intraprende una lotta contro l’«Infame» o chi, come d’Holbach o altri autori della letteratura filosofica clandestina, considera
la religione come prodotto dell’impostura e della tirannia clericale. Ma, malgrado questa attitudine pienamente storica e malgrado la distanza del nostro autore da
SUSIE OA NE as: le SIN 25 15 BL, XXIV, 26. "© Shackleton, Montesquieu. A Critical Biography, cit., p. 340.
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu
273
ogni ipotesi materialistica e la critica risoluta nei confronti dei paradossi di Bayle, la posizione di Montesquieu rivela punte di irriducibile lontananza rispetto all’ortodossia. La religione svolge infatti un ruolo essenzialmente sociale condizionato da cause naturali (il clima) e storiche; inoltre l’analisi dei diversi fenomeni religiosi non può prescindere dall'indagine delle relazioni che intercorrono tra natura, storia, leggi
e costumi. Così, e nonostante ogni possibile cautela argomentativa, Montesquieu viene anch’egli a occupare un suo autonomo spazio all’interno di quel movimento di critica religiosa messo in atto dal secolo dei Lumi!” II. Se la religione è allora considerata da Montesquieu nei suoi molteplici rapporti con elementi naturali e storici, ci si può chiedere quale contributo possa fornire a
questa indagine la disamina di un testo per più versi eccentrico e trasversale come lo Spicilège, dove questi stessi temi compaiono nella loro genesi e nella loro prima elaborazione. Una precisazione s'impone comunque. Nel caso dello Spicilége ci si trova di fronte a qualcosa di radicalmente diverso e opposto rispetto a uno scritto compiuto; si tratta piuttosto di un testo-laboratorio, di un’opera che consiste di sole annotazioni, note di lettura, appunti, o di citazioni tratte da riviste scientifiche
o erudite. Montesquieu raccoglie qui le esperienze di lavoro che hanno accompagnato e affiancato la sua ricerca critica ed erudita nel corso di tutta la vita e che rendono questa raccolta una sorta di cantiere, un esempio del farsi e dell’articolarsi della sua strumentazione teorica. Si tratta di appunti, certamente, ma di appunti di lavoro; qualcosa di volutamente distante, allora, rispetto a un altro scritto privato e personale come le Pensées, dove Montesquieu espone, all’interno di una sorta di diario intellettuale, le proprie meditazioni sulla politica, sulla storia, sull’arte o sulla
filosofia. Lo Spicilége rifiuta questo livello di elaborazione intellettuale — seppure privato e non destinato alla pubblicazione; esso si pone unicamente come una raccolta di annotazioni; ma, proprio per questo, diventa anche uno strumento per più versi insostituibile per ripercorrere il pensiero di Montesquieu nel suo farsi, per individuarne fonti e opere di consultazione, per ricostruirne interessi, curiosità, letture, per cogliere infine i cambiamenti e l’evoluzione di una riflessione eccezionalmente ricca e profonda. L'analisi di questo voluminoso testo di note di lettura e di frammenti diversi inedito fino al secolo scorso e pubblicato da A. Masson nel 1944 e poi rimasto — con alcune incompletezze e esclusioni, nell'edizione Masson delle sempre ripreso, (1950) — è ora resa agevole grazie alla recente edizione Montesquieu Œuvres di
17 Per inessi tra natura e storia in rapporto all’analisi della seligione ne L'Esprit des lois rinvio a Bianchi, Histoire et nature: la religion dans «L'Esprit des lois», cit.
274.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ,
%
critica dovuta a Rolando Minuti e a Salvatore Rotta!*. Si tratta di un lavoro encomiabile non solo per l’accuratezza filologica, che restituisce integralmente il testo originario del manoscritto di Bordeaux (Ms. 1867), ma anche per l’enorme ricchezza dell’apparato critico che individua con precisione le fonti utilizzate da Montesquieu — dai giornali letterari quali la Gazette d'Amsterdam, la Gazette de France o la Gazette d'Utrecht, fino ai diversi testi di viaggio, di storia o di politica. Inoltre l’analisi delle differenti scritture dei segretari di Montesquieu, condotta sulla base dei classici studi di R. Shackleton, permette di datare con una utile approssimazione gli anni della composizione di questi frammenti che accompagnano l’intera vita del Presidente,
grosso modo dal 1715 fino al 1753”.
;
Dei 782 frammenti che compongono lo Spicilége secondo la numerazione dell’edizione Masson i primi 202, conosciuti come «recueil Desmolets» — dal nome del padre Desmolets, giansenista, che diede a Montesquieu, probabilmente nel 1713
(quando questi ritornò a Bordeaux da Parigi) questo quaderno di annotazioni appartenuto a un personaggio a noi ignoto e intitolato Spicilegium — furono fatti trascrivere da Montesquieu al suo rientro a Bordeaux”. Montesquieu che doveva trovare interessanti e per più versi condivisibili questi appunti relativi non solo a argomenti scientifici — come il barometro o il termometro — ma anche a temi storici, a relazioni
di viaggio o a considerazioni religiose — come quelle sulla Bibbia o su Maometto —, decide di fare proprio questo scritto continuandone la'composizione con lo stesso intento programmatico, ovvero quello di utilizzare questo quaderno come testo di annotazioni e di lavoro. Nel primo articolo dello Spicilége Montesquieu ricorda come la prima parte di questo libro sia frutto di una compilazione «qui m’a esté preté par le r. PDemolets» e come de reste e esté recueilli par moy et est le fruit de certeines lectures»?!. Così a partire dal breve frammento n. 203 — dove si legge «Fin de ce recueil qui n’est pas de moy mais m’avoit esté preté et que j’avois fait copier”
"Cf. OC, 13, Spicilége, edité par R. Minuti et annoté par S. Rotta, Oxford-Napoli 2002 (poi citato come Spic., seguito dal numero del frammento e dalla pagina). Per i riferimenti all’edizione Masson cfr. Montesquieu, Un carnet inédit, Le Spicilége, introduction et notes par A. Masson, Paris 1944 e Montesquieu, Spicilege, in Œuvres complètes, éd. A. Masson, 3 voll., Paris 1950-1955, vol. II, pp. 681-919. Si deve co-
munque alla più recente edizione curata da L. Desgraves la pubblicazione integrale dello Spicilége con il recupero delle lacune e dei passaggi inediti non presenti nell’edizione Masson. Cfr. Montesquieu, Pensées. Le Spicilege, édition établie par L. Desgraves, cit. !° Sulla scrittura dei segretari di Montesquieu cf. Shackleton, Les secrétaires de Montesquieu, in Montesquieu, Œuvres complètes, éd. A. Masson, cit., vol. II, p. xxv-xliti, ora in Shackleton, Essays on Montesquieu and on the Enlightenment, cit., pp. 65-72. Sui manoscritti montesquieuiani cfr. anche G. Benrekassa, Les Manu-
scrits de Montesquieu. Secrétaires, Ecritures, Datations, Napoli-Oxford 2004 («Cahiers Montesquieu», n. 8). ® Secondo S. Rotta (/ntroduction a Spicilège, edité par R. Minuti et annoté par S. Rotta, cit. p. 8) si tratta di annotazioni composte tra il 1703 e la prima metà del 1705.
ARS
pe ali
2 Spic., n. 203, p. 224.
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu.
275
— Montesquieu prosegue e arricchisce con propri materiali questa raccolta. Ma si ritorni brevemente al titolo. Il termine latino Spicileginm che figura nella rilegatura e all’inizio del manoscritto e a cui Montesquieu fa riferimento in una delle sue Pensées (n. 397) viene poi francesizzato da Montesquieu stesso che, sempre nelle Pensées, si riferirà in seguito a questa raccolta col termine Spicilége, La parola designa l’atto di raccogliere le spighe rimaste sui campi dopo la mietitura; corrisponde all'italiano «spigolatura» e già nell’antichità classica — in Varrone, ad esempio — era
stata utilizzata in senso metaforico per indicare una raccolta di testi diversi. Tale senso traslato viene ripreso a partire dal Rinascimento e si estende in seguito fino a diventare sinonimo di «antologia» o «florilegio»”. Non stupisce allora che in uno scritto volutamente antologico i temi affrontati siano numerosi, come emerge già dalla prima parte — il «recueil Desmolets» — dove argomenti scientifici si affiancano a temi medici e naturalistici, ma anche a annota-
zioni legate all’antichità egizia, greca o romana o a soggetti geografici, storici, politici o religiosi. Né mancano talune interessanti critiche alla credenza nelle possessioni diaboliche (n. 165) o all’astrologia (n. 55 e n. 68) o un riferimento alla critica scettica — «le doute des sceptiques» — ripreso da Sesto Empirico (n. 54). Una pluralità e varietà di temi, questa, che rimarrà sostanzialmente immutata nel prosieguo della raccolta, anche se l’accentuazione scientifica, più marcata nella prima parte, perderà in qualche modo consistenza a favore di aspetti più propriamente storico-politici; a partire dal frammento n. 203, infatti, Montesquieu ignorerà sostanzialmente riviste erudite quale il Journal des savants o i Mémoires de Trévoux per preferire loro giornali politici quali la Gazette de France, la Gazette d'Amsterdam o la Gazette d'Utrecht. Ma già nel «recueil Desmolets» compaiono alcuni temi geografici, antropologici o religiosi che riemergeranno anche in seguito. Così il frammento n. 170 recupera
ampi passi tratti dai viaggi di Tavernier, pubblicati a Parigi nel 1676”, dove si parla dei monasteri in Armenia, degli abitanti di Cipro giunti dal Libano che «sont maronites [...] et suivent la religion romaine», del modo in cui si adornano il viso di gioielli
le donne arabe, delle rovine dell’antica Babilonia o delle piantagioni di palme. Inoltre si ricorda come alcuni cristiani abitino le città della Persia o dell Arabia ma come essi 2 Cfr. Pensées, n. 782, p. 348 e n. 1184, p. 405; cfr. poi Rotta, /ntroduction, cit., p. 3:
24 Cfr. Rotta, Introduction, cit., pp. 3-5. Cfr. inoltre Grand Larousse de la langue française en sept volumes, tome sixième, Paris 1986, p. 5679: «Spicilège, n. m. (lat. spicilegium, glanage, de spica, pointe, épi, et de legere, ramasser, recueillir; 1678, Journ. des savants, p. 22). Recueil d’actes, de documents variés, de textes.
Syn.: anthologie, florilège. Il termine «spicilège» non appare ancora nella terza edizione del Dictionnaire de
L'Académie Françoise (Paris, J.-B. Coignard, 1740), mentre compare nella quarta edizione del 1762. Cfr.
Dictionnaire de l'Académie francoise. Quatriéme édition, Paris, Vve B. Brunet, 1762, 2 vol., tome second, p.
. 759: «Spicilège. s.m. Terme didactique. Recueil, collection de pièces, d’actes, etc.». 25 Cfr. Les six voyages de J.-B. Tavernier [...] qu'il a fait en Turguie,enPerse et aux Indes, Paris, G, Clouziet
et C. Barbin, 1676, 2 vol.
276
L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo ,
& x
«ne baptisent iamais que dans les rivieres et que le dimanche seulement», come non abbiano «connoissance du mistere de la s.te Trinité, et ils tiennent seulement avec
les mahometans que J.C. est l’esprit et la parole du Verbe Eternel» e credano che ange Gabriel» è il «fils de Dieu non J.C»*. O ancora, si parla dell’antichità della monarchia persiana o della conquista dell'Armenia da parte di Abbas I il grande, re di Persia, mentre, a proposito degli armeni, si afferma come questi abbiano «deux
langues, une pour le peuple, une autre pour la religion)”. Nei resoconti di viaggio utilizzati da Montesquieu si ritrovano costantemente elementi storici e geografici a fianco di annotazioni antropologiche, di costume 0 di rilievi cutiosi. Una simile commistione di attenzione storica e di annotazioni insolite
emerge anche dagli appunti su Maometto (n. 178) tratti\da La vie de Mahomet di Prideaux”®, dove si evidenzia immediatamente la vocazione aggressiva e di conquista di
questa religione”. Si ritrova probabilmente una eco di queste affermazioni in un passo de L’Esprit des lois dove si sostiene che «la religion mahométane, qui ne parle que de glaive, agit encore sur les hommes avec cet esprit destructeur qui l’a fondée»”. L’analisi della religione musulmana nell’opera del 1748 è comunque diversamente
articolata e Montesquieu spiega ad esempio gli inconvenienti di trasportare una religione da un paese a un altro rifacendosi al divieto nei paesi musulmani di cibarsi di
carne di maiale; interdizione che viene spiegata con ragioni storiche e e mediche?!. Ma in queste note sull’opera di Prideaux si trovano accanto a annotazioni storiche anche accenni più curiosi e singolari. Così dopo le notizie sulla figlia di
% Spic., n. 170, pp. 193-194. 27 Spic., n. 170, p. 196. # H. Prideaux, La vie de Mahomet, où l'on découvre amplement la vérité de l'imposture, Amsterdam, G. Gal-
let, 1698.
” Cfr. Spic., n. 178, p. 202: « Les dix dernieres années de l’apostolat de Mahomet furent employées a la guerre. Il stempara de Medine d’ou il fit la guerre à ceux de la Mecque [...] Il se fit ensuite declarer roi a Medine, fit plusieurs conquêtes et surprit la Mecque, il fit de cette ville la capitale et le centre de sa religion». oT ELE OVS Ae ° Cfr. EL, XXIV, 25: «“Le cochon, dit M. de Boulainvilliers, doit être très rare en Arabie [...]”. La
loi locale qui le défend, ne saurait étre bonne pour d’autres pays [...]. Je ferai ici une réfléxion. Sanctorius a observé que la chair de cochon que l’on mange se transpire peu; et que même cette nourriture empéche beaucoup la transpirations des autres aliments [...]: la nourriture du cochon doit donc étre défendue dans les climats où l’on est sujet à ces maladies, comme celui de la Palestine, de l’Arabie, de
PEgipte et de la Libye». Montesquieu cita qui sia il De statica medicina (Venezia 1614, ripubblicato molte volte nel corso del XVII secolo) del medico italiano Santorio Santori (1561-1636) sia La vie de Mahomet di Boulainvilliers nell’edizione londinese del 1730, di cui possedeva copia nella biblioteca di La Brède.
Cfr. Catalogue de la bibliothèque de Montesquien à La Brède, publié parL.Desgraves et C. Volpilhac-Auger avec la collaboration de F. Weil, Napoli-Oxford 1998 («Cahiers Montesquieu», n. 4), n. 3124 (poi citato come Catalogue, seguito dal numero del volume). Montesquieu cita nuovamente il testo di Boulainvilliers su Maometto nelle Pensées. Cfr. Pensées, n. 948, p. 373.
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquien Maometto
277
«Phatima, d’ou dêcendent tous ceux qui se disent de la race de Maho-
met, parmi laquelle on choisit les gouverneurs de la Mecque et de Medine», si può
leggere un passo sull’eccezionale vigore sessuale del Profeta che «on dit qu’en une heure de temps il satisfaisoit a onze femmes, et que dans cet exercice il valoit 40
hommes des plus robustes»? Il frammento n. 181 sul Corano è anch’esso debitore nei confronti dell’opera di Prideaux sulla vita di Maometto; in queste note si può leggere, tra l’altro, come Maometto «n’a pas produit tout d’un coup l’Alcoran» in quanto «il ne le dictoit que chapitre a chapitre» e «apres sa mort on fit le recüeil de tout ce qu’il avoit ainsi dicté». Inoltre si ricorda come «le 33.e chap. de l’Alcoran contient d’amples pouvoirs qu’il avoit regu du ciel pour user comme il lui plaisoit des femmes», come «Mahomet a reconnu J.C. pour un plus grand prophete que lui», nonché le differenti letture e le contraddizioni contenute in questo libro sacro. Il giudizio sul Corano è comunque per più versi lusinghiero: «cependant ce livre est tres eloquent en arabe, et Mahomet qui avoüe qu’il ne fait point des miracles pretend que ce livre
lui-même est un miracle»?. Sempre nel «recueil Desmolets» vanno infine almeno segnalati alcuni passi relativi alla religione cattolica e all’antico testamento. In relazione a quest’ultimo si ritrovano due passaggi, nel primo dei quali (n. 63) intitolato «creation», si mettono in rapporto tra di loro, facendo ricorso all’ Histoire critique du Vieux Testament di Richard Simon, le narrazioni mitologiche orientali, caldee e egiziane, con l’idea della
creazione ex nibilo avanzata dalla Genesi”. In un frammento più ampio, invece (n. 197) si espone in maniera più tradizionale l’ipotesi cara a S. Agostino di una lettura allegorica dell’Antico Testamento come anticipazione della venuta del Cristo, dato che da lecture de Ancien Testament seroit bien dangereuse a un home qui ne consulteroit que les foibles lumieres de sa raisons”. Gli ampi frammenti n. 121 e n. 127 sono invece rispettivamente dedicati a due movimenti religiosi del tempo, il quietismo e il movimento trappista, mentre non si ritrova alcun articolo consacrato specificamente al giansenismo. Nella prima annotazione si riassume un’opera di Nicole che risale al 1695 sui principali errori
2 Spic., n. 178, pp. 202-203. 3 Spic., n. 181, pp. 205-206.
1
4 Cfr. Spic., n. 63, p. 113: «Le sentiment des chretiens que le monde a eté tiré du neant n’est appuyé
,
poétes, que sur la tradition; les chaldeens et egiptiens le croyent sorty du chaos: c'est le sentiment des
auxquels sans la tradition on pourroit joindre Moyse. L’expression bara dont il se sert appuye ce senti-
ment, et tout son recit ne marque autre chose que le debrouillement du cahos». E cfr. R. Simon, Histoire > critique du Vieux Testament, Rotterdam, R. Leers, 1685, p. 219)
Bae Pree
Tepe ee:
278.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ,
LS x»
dei quietisti® mentre in relazione all’abbazia di La Trappe si ritrovano una serie di aneddoti che mettono in pessima luce questa comunità ascetica, che sarebbe
composta da persone ipocrite e simulatrici””. III. Per più versi centrale appare invece l’ampio frammento n. 122 dedicato all’inquisizione e che riassume, seppure in maniera approssimativa, un testo di Jean
Marsollier sulla storia dell’Inquisizione™. Sotto il titolo «Inquisition» si leggono delle annotazioni che acquistano un rilievo del tutto particolare se rapportate ai capitoli 11 e 12 del libro XXVI de L'Esprit des lois dedicati al tribunale dell’Inquisizione. Del resto questo stesso tema dell’Inquisizione permette di passare all’analisi della seconda parte dello Spici/ège, ovvero ai frammenti che a*partire dal n. 203 sono stati raccolti direttamente da Montesquieu. Il tema dell’inquisizione riappare infatti ripetutamente, così come ricompare un esplicito riferimento alla Histoire di Marsollier.
Il frammento n. 610 descrive infatti — rifacendosi alla Histoire de l’Inquisition et de son origine — la separatezza degli inquisitori dalla società come un presupposto necessario per esercitare questo compito con la spietatezza richiesta: Dans une histoire de l’Inquisition il y est dit[:] il falloit des gens separés de la societé malheureux par estat privés de toutes sortes de liens affin qu’ils fussent durs impitoyables et inexorables pour arrester par les voyes les plus crueles la naissance des heresies|.]
tels se trouverent les inquisiteurs»”. E soggetti legati all’inquisizione ricompaiono in relazione al ruolo svolto da questo tribunale sia in Spagna sia in Portogallo, con un riferimento per quest’ultima nazione alla storia dell’inquisizione scritta dal domenicano Pedro Monteiro. Nel frammento n. 472 si riporta invece la testimonianza di Giuseppe Athias «principal juif de Livourne» secondo cui «les portugais sont catholiques come les jesuites sont catholiques», ovvero «qu’ils font ce qu’ils veulent parce qu’ils sont disentils encor plus catholiques que le pape et toutte la cour romaine de sorte qu’ils doivent suivre toujours leurs maximes et leurs usages parce qu’ils ont la relligion
°° Cfr. Spic., n. 121, pp. 151-156 e cfr. [P. Nicole], Refutation des principales erreurs des Quietistes dans les livres censurez par l'ordonnance de Monseigneur l'archevéque de Paris du 16 octobre 1694, Paris, G. Desprez, 1695.
37 Cfr. Spic., n. 127, pp. 167-170. * Cfr. Spic., n. 122, pp. 156-163 e J. Marsollier, Histoire de l'Inquisition et de son origine, Cologne, P. Marteau, 1693.
® Spic., n. 610, pp. 525-526. ‘° Cfr. per la Spagna, Spic., n. 446, pp. 395-396; n. 779, pp. 649-650; per il Portogallo, Spic, n. 459, pp. 415-416; n. 297, pp. 297-299. E cfr. p. 298: «Le Pere Pierre Monteiro religieux dominicain et qualificateur du s.t Office qui a accepté avec plaisir l’emploi d’historien de l’Inquisition lut un long memoire sur l'importance de sa matiere [...]». Dell’opera del padre domenicano Monteiro, rimasta incompiuta, apparirà a stampa la prima parte. Cfr. P. Monteiro, Histria da Santa Inquisiçäo do Reyno de Portugal e suas conquistas. Primeira parte, Lisboa, Regia officina sylviana, 1749-1750, 2 voll.
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquien
279
dans sa pureté au lieu que la cour de Rome est corrompué»; per questa ragione l’inquisizione portoghese non ha mai voluto osservare le bolle papali che invitavano alla moderazione e a «otter certeins abus de PInquisition»*'. In questo stesso passo Montesquieu espone il tragico destino dei marrani in Brasile raccontatogli da Athias: i «nouveaux chretiens» che si erano trasferiti in Brasile nella seconda metà del XVI secolo per coltivarvi la canna da zucchero furono costretti da confische e arresti dettati dall’inquisizione a lasciare quel paese e a trasferirsi altrove, come
nel Surinam olandese”.
Queste testimonianze di colloqui diretti con Athias — del resto documentati anche da un passo dei Voyages nel quale si registra una conversazione tra Monte: squieu e questo ebreo livornese tenutasi a Firenze il 25 dicembre 1728 — conferma l’attenzione del Presidente per la sorte di ebrei e marrani e per il tribunale
dell’Inquisizione. Del resto nel primo dei due brevi ma incisivi capitoli sull’Inquisizione del libro XXVI de L'Esprit des lois egli verrà a definire questo tribunale «contraire à toute bonne police» e «insupportable dans tous les gouvernements», in quanto frutto di una assurda confusione tra leggi umane e divine e capace di produrre ogni sorta di perversione morale e civile. Inoltre già nel famoso capitolo 13 del libro XXV — «Très humble remontrance aux Inquisiteurs d’Espagne et de Portugal» — Montesquieu aveva denunciato la persecuzione degli ebrei in Spagna e in Portogallo operata dall’Inquisizione, invitando il proprio secolo illuminato dalla filosofia a rifiutare ogni barbaro pregiudizio e a riaffermare i diritti della ragione e della tolleranza religiosa‘. Se si considera la condanna senza attenuanti dell’Inquisizione e dei suoi metodi avanzata ne L'Esprit des lois, questi passi dello Spicilége risultano allora particolarmente
# Spin, n. 472, p. 426. Su Giuseppe Athias cfr. E. Gencarelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. IV, Roma 1962, ad vocem, pp. 525-526. #2 Cfr. Spic., n. 472, p. 427: «A Pegar du comerce il dit que celuj des sucres du Bresil est tombé I° par
la decouverte des mines d’or 2° parce que l’Inquisition qui n’estoit pas dans le Bresil contre les juif[s] a fait que les nouveaux chretiens y estoint allés mais que l’Inquisition a encor esté les tourmenter de facon que leurs plantations ont esté perdues ou par la mort des uns ou par la fuitte des autres qui se sont retirés a Surinam ou ailleurs». Per ulteriori riferimenti all’inquisizione cfr. Spi, n. 290, pp. 288-290; n. 371, p. 347; n. 687, p. 593. # Su Athias cfr. anche Montesquieu, Voyages, in Montesquieu, Œuvres complètes, texte présenté et annoté par R. Caillois, Paris 1949-1951, 2 voll., vol. I, p. 656: «Le 25 décembre 1728, Dathias m’a dit que la ville de Livourne pouvoit avoir 35 à 36,000 habitants. Il m’a soutenu qu’il n’y avait que 5,000 Juifs, et
qu'il le sait bien, puisqu'il a lui-même les rôles de la distribution des pains azymes, et, par conséquent,
le ròle des familles».
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4 Cfr. EL, XXV, 13. Su Montesquieu e l’Inquisizione cfr. J. Ehrard, Montesquieu et l'Inquisition, in «Dix-huitième siècle», XXIV, 1992, pp. 333-344, poi in Id., L'esprit des mots. Montesquieu en lui-même et parmi les siens, Genève 1998, cap. 5, L’Inquisition», pp. 81-93 e Bianchi, Legg? divine e leggi umane. Note
sulla religione nel libro XXVI dell«Esprit des lois», cit., in particolare pp. 259-267.
280.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo ‘
&
x significativi. Certamente non si può ancora leggere in questi appunti un esplicito invito alla tolleranza — anche se i passaggi relativi alla conversazione avuta con Athias mostrano un interesse non solo scientifico ma anche umano per la sorte degli ebrei portoghesi (si pensi ad esempio all’utilizzazione del verbo «tourmenter a proposito delle vessazioni operate contro questi «nouveaux chrétiens») — ma gli accenti polemici contro questo tribunale mostrano un'attitudine critica che Montesquieu verrà a riprendere e a rielaborare sia nelle Pensées, sia nella sua opera maggiore.
Comunque l’interesse per i soggetti religiosi — spesso legati a indagini giuridiche, antropologiche o politiche — è costante in tutto lo Spicilége come è possibile documentare con un semplice elenco dei temi affrontati. Gli argomenti legati alla religione cristiana e alle vicende della chiesa e dei papi — ma anche alla riforma protestante — sono certamente centrali, ma a questi temi se ne affiancano altri relativi non solo alla religione ebraica e a quella musulmana ma anche allidolatria e al paganesimo antico. E ancora nello Spici/ège numerosi sono i riferimenti a dibattiti su empietà e di eresia, su miracoli e oracoli (di Delfi), su processioni e reliquie, mentre
occupano uno spazio importante i richiami a giansenisti — e alla bolla Unigenitus—ea gesuiti, a monaci e a missionari, nonché alle polemiche sui riti cinesi e malabarici.
In relazione a questi ultimi, si ritrovano interessanti passaggi frutto di incontri e di dialoghi tra Montesquieu e i suoi diversi interlocutori. Così il Presidente riferisce alcune affermazioni del gesuita Jean-François Fouquet, incontrato
a Roma
nel 1729, che aveva soggiornato in Cina dal 1699 al 1721 e che nel dibattito sui riti cinesi mantenne una posizione distante dal proprio ordine sottomettendosi ai voleri papali. Secondo questi vi erano circa trecentomila cristiani in Cina, ma tutti mal visti dall'imperatore per il pericolo che la religione cristiana poteva arrecare al celeste impero: «Il m’a dit qu’il croyoit que lors que le dernier empereur mourut il y avoit trois cens mille chretiens a la Chine; [...] que l’empereur avoit ecrit a un gouverneur d’accuser les chretiens sous quelque pretexte que ce fut[;] que sur Pacusation il avoit declaré que la relligion chretiene estoit prejudiciable a ’empire[;] qu’il ne permettoit de rester aux europeens qu’a ceux qui estoient utiles a l’empire[;] qu’il voulut que le reste fut conduit a Macao»*’. Fouquet informa inoltre il suo interlocutore sugli «inconciliabili» conflitti interni ai gesuiti e su quelli sorti tra questi e gli altri missionari, che contribuirono tutti alla pessima fama che i predicatori
cristiani si guadagnarono in Cina". © Cfr., Spic., n. 472, p. 427: «mais que l’Inquisition a encor esté les tourmenter de facon que leurs plantations ont esté perdues». © Cfr. Pensées, n. 144, p. 220; n. 395, p. 294; n. 409, pp. 297-298; n. 482, p. 307; n. 898, p. 367; n. 1931, p. 588; n. 2079, p. 631.
#7 Spic., n. 481, p. 432.
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4 Cfr. Spic., n. 481, p. 432: «des jesuites portugais allemans francois sont irreconciliables enemis les
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu
281
Sulla questione dei dibattiti sui riti cinesi Montesquieu riporta in un altro frammento «une tres grande conversation avec m.gnr Fouquet» (n. 483) da cui emerge la posizione contraria ai riti di questo vescovo; in effetti Fouquet fu inviato a Roma dal
nunzio apostolico in Cina Carlo Ambrogio Mezzabarba per sostenere una relazione
sfavorevole alle azioni dei gesuiti in Asia, determinante per il fallimento dell’attività
missionaria di questa compagnia‘. L'atteggiamento del gesuita dissidente Fouquet doveva poi mostrarsi ancora più drastico in relazione ai titi indiani o malabarici. In proposito infatti si legge che «Mr Fouquet dit que les rites des indiens que les jesuites permettoient et qui sont condamnés sont beaucoup plus perniciéux que ceux de la Chine: la principalle mission est a Maduré»*. Montesquieu ritorna comunque sulla missione di Mezzabatba e sui dibattiti relativi ai riti cinesi nel frammento
n. 491, dove si ritrovano alcune notizie su
Ch.-Th. Maillard de Tournon, aiutante di camera del papa e arrivato in Cina nel 1705 come commissario generale delle missioni dell'Estremo Oriente. Una missione politico-religiosa, quest’ultima, che nello Spicilége diventa anche l’occasione per registrare le ingerenze papali e gesuitiche nei confronti della politica cinese: «Quand Pempereur fut instruit des differens [con i gesuiti] il dit[:] voila des gens qui font des chretiens par tout l’empire[.] ils condannent les rites[.] les uns disent qu’il faut les suivre d’autres non[.] cela fera une guerre[.] d’ailleurs le pape se mesle de decider des affaires de mon empire»”. Un ulteriore riferimento ai conflitti relativi alle cerimonie cinesi appare infine nel frammento n. 494, dove vi è un rimando a «le p.[ape] Conti» — ovvero a Innocenzo XIII — che decise di assumere una posizione
di dura condanna nei confronti dei missionari gesuiti in Cina”. Questa attenzione per i riti cinesi e per i dibattiti sul ruolo missionario svolto dai gesuiti in Cina con l’adattamento delle pratiche cristiane alla ritualità locale denotano l’interesse di Montesquieu per l’analisi delle relazioni tra religione, leggi e costumi che troverà un’illuminante applicazione nell’indagine sulla peculiarità del governo cinese e sulla singolarità dei loro riti svolta in tre capitoli del libro XIX de L'Esprit des lois (EL, XIX, 17-19). Il giudizio di Montesquieu sulla Cina, che considera legata allo spirito e alla pratica del dispotismo”, è in proposito poco uns des autres et les autres missionaires ennemis d’eux touts ce qui a donné bien mauvaise opinion 4 d’eux». 4 Sul Mezzabarba cfr. G. Di Fiore, La /egazione Mezzabarba in Cina (1720-1721), Napoli 1989.
50 Spic., n. 483, p. 435. 51 Spi, n. 491, pp. 440-441.
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2 Cfr. Spic., n. 494, p. 443: «Les j[esuites]. N’ayant pas obei a la boule de Clement'11 qui condanne les ceremonies chinoises le p. Conti ordona que si dans 3 ans il ne constoit pas de leur Obsissance il leur seroit deffendu de prendre des novices». 5 Cfr. EL, VIII, 21: «On a voulu faire régner les lois avec le despotisme; {£a Chine est donc un
Etat despotique, dont le principe est la crainte».
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indulgente: i legislatori cinesi «confondirent la religion, les lois, les moeurs
et les
manières: tout cela fut la morale, tout cela fut la vertu. Les préceptes qui regardoient ces quatre points furent ce que l’on appela les rites. Ce fut dans l’observation exacte de ces rites que le gouvernement chinois triompha»”*. Ma questa centralità dei riti nel governo della Cina fa sì anche che «la Chine ne perd point ses lois par la conquête. Les manières, les moeurs, les lois, la religion y étant la même chose, on ne peut changer tout cela à la fois». Per questa ragione in Cina sono i vincitori che hanno dovuto sempre adeguarsi al popolo vinto — ovvero, in una parola, ai
riti praticati in questo impero — e sempre per questo stesso motivo Montesquieu è convinto «qu’il n’est presque pas possible que le christianisme s’établisse jamais à la Chine» in quanto i dogmi e i sacramenti della religione cristiana — dalle assemblee delle donne nelle chiese fino alla confessione auricolare o al matrimonio monogamico — capovolgono «les moeurs et les manières du pays» e ne colpiscono
contemporaneamente la religione e le leggi”. Le conclusioni de L'Esprit des lois sull’impossibilità per il cristianesimo di stabilirsi in Cina — che richiamano le affermazioni per più versi simili sui limiti naturali che il clima ha stabilito per la diffusione del cristianesimo e della religione musulmana — sono allora l’esito di un interesse storico-politico e antropologico pet i riti cinesi e per le polemiche sulle pratiche gesuitiche di conversione di cui si trovano significative indicazioni nei frammenti dello Spii/ège. Si tratta di linee di ricerca che andrebbero comunque affiancate a altre note di lettura di Montesquieu, come gli ampi passaggi che si ritrovano nei Geographica relativi a resoconti di viaggio quali i Nouveaux voyages autour du monde di Dampier, la Description de la Chine di Du Halde,
i Voyages in Cina e nel Cachemire di F. Bernier o l Histoire généalogique des Tatares, che si rivelano anch’essi dei veri e propri materiali preparatori, quando non delle
effettive fonti, de L'Esprit des lois. SEI YSIS Gf » Cfr. EL, XIX, 18: «Les voeux de virginité, les assemblées des femmes dans les églises, leur com-
munication nécessaire avec les ministres de la religion, leur participation aux sacrements, la confesion auriculaire, l’extrême-onction, le mariage d’une seule femme: tout cela renverse les mœurs et les manières
du pays, et frappe encore du méme coup sur la religion et sur les lois». °° Cfr. OC, 16, Geographica, sous la direction de C. Volpilhac-Auger. Textes établis, présentés et annotés par S. Albertan-Coppola, M. Benitez, R. Minuti, U. Haskins-Gonthier, C. Volpilhac-Auger, Oxford-Napoli 2007. Per i testi citati e utilizzati da Montesquieu cfr. W. Dampier, Nouveaux voyages autour du Monde où l'on décrit en particulier [...], Amsterdam 1711 (Catalogue, n. 2740); J.B. Du Halde, Description géographique, bistorique, chronologique, politique et physique de l'Empire de la Chine et de la Tartarie Chinoise, Paris, P.G. Le Mercier, 1735, 4 voll.; F. Bernier, Voyages [...] contenant la description des Etats du Gran Mogol, de l'Hindoustan, du royaume de Cachemire, Amsterdam 1710, 2 voll. (Catalogue, n. 2735); Histoire genealogique des
Tatars traduite du manuscript Tartare d'Abulgasi-Bayadur-Chan et enrichie d'un grand nombre de remarques authentiques et tres-curieuses |...], Leyde, Abram Kallewier, 1726 (Catalogue, n. 3125). Sui resoconti di viaggio e la
loro importanza nel’ EL cfr. M. Dodds, Les récits de voyage sources de L'Esprit des lois de Montesquieu, Paris,
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquien
283
IV. Ma le pagine dello Spicifége portano anche le tracce degli incontri giovanili di Montesquieu a Parigi con intellettuali e eruditi, noti anche per la loro posizioni in-
dipendenti in materia di religione, quando non in taluni casi eterodosse: da Nicolas Fréret a Fontenelle, da Desmolets a Boulainvilliers, dall’abate veneziano Antonio
Conti — che soggiornò a Parigi dal 1718 al 1726 — al napoletano Bernardo Lama — interessato alla filosofia di Malebranche e che trascorse lunghi periodi nella capitale francese dal 1705 al 1708 e poi nel 1717. Montesquieu che dovette entrare in rapporto con questi personaggi fin dal suo primo soggiorno parigino tra il 1709 e il 1713, continuò a mantenere relazioni culturali con alcuni di loro, come Fréret
o Fontenelle, anche nel corso degli anni venti e nei decenni successivi, seppure segnate, come nel caso del Fréret presidente della «Académie des Inscriptions», da un progressivo distanziamento che doveva sfociare in un esplicito disaccordo”. Ma gli echi di queste conversazioni particolarmente libere, che spaziavano dalla mitologia e dalle religioni antiche fino alla religione ebraica e cristiana, emergono da numerosi passi dello Spicilege. Si ritrovano così delle annotazioni frutto di conversazioni con Fréret relative vuoi a una dissertazione storica di questo accademico sull’origine dei franchi, vuoi alle credenze ingenue sui costumi morali e religiosi occidentali di Arcadio Hoange, un giovane cinese fattosi cristiano e giunto a Parigi per occuparsi dei libri cinesi
della Biblioteca reale’. Inoltre si attribuisce a Fréret un giudizio impietoso su una biografia di un monaco catalano piena di fatti meravigliosi e «de toutes les sotises
du monde»? nonché un’analisi fortemente critica sul caso della presunta possessione delle orsoline di Loudun che portò al rogo Urbain Grandier nel 1634, basata sulla lettura da parte di Fréret di una lettera scritta a Richelieu e consultata alla Biblioteca reale”.
1929 (rist. anastatica, Genève 1980). Sul tema dei tartari in Montesquieu cfr. R. Minuti, Oriente barbarico
e storiografia settecentesca. Rappresentazioni della storia dei Tartari nella cultura francese del XVIII secolo, Venezia 1994, cap. 2, «Il popolo “le plus singulier de la terre”», pp. 63-93. 57 Cfr. Montesquieu, Correspondance, éd. F. Gébelin, in Id., Œuvres complètes, éd. A. Masson, cit., vol. III, p. 1080, lettera a Guasco del 1 marzo 1747: «Jai parlé à M. de Boze: il m’a renvoyé assez rudement et assez maussadement, et m’a dit qu’il ne se mélait pas de ces chose-là; qu’il falloit s’adresser à M. Fréret et à M. le comte de Maurepas; [...] Vous sgavez que je suis brouillé avec M. Fréret». Per una prima ricostruzione delle relazioni tra Montesquieu e Fréret rimando a L. Bianchi, Montesquieu et Fréret: quelques notes, in «Corpus. Revue de philosophie», n. 29, 1995, pp. 105-128.
8 Cfr. Spic., n. 585, pp. 511-512; n. 368, p. 345. 9 Cfr. Spic., n. 416, p. 372. sm | © Cfr. Spic., n. 366, p. 344: Pai oùi dire a Freret qu’on voit dans un m.s. de la bibliotheque du roi une lettre ecrite au card. de Richelieu ou on lui mande qu’on a fort bien instruit les religieuses de Loudun &c., ainsi il fit bruler Grandier qui lui avoit disputé un benefice autrefois et fait une satyre contre lui depuis son elevation». Sulla vicenda di Urbain Grandier cfr. anche P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, Rotterdam 1740°, art. «Grandien».
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x Ma il frammento più significativo è quello relativo alla disamina di un passo dell’antico testamento relativo alle evocazioni dei morti. Montesquieu, che attribui-
sce a Fréret la paternità di quanto contenuto in queste annotazioni e che ricorda in proposito i debiti di questi nei confronti del De oraculis veterum Ethnicorum di Van Dalef!, riporta qui il commento
a un passo della Bibbia (I Samuele, XVIII, 7-25)
relativo a «la Pythonisse de Saül», ovvero alla negromante di Endor interrogata da Saul prima della battaglia contro i filistei. La negromante, sollecitata da Saul, afferma di vedere uno spirito in cui Saul riconosce Samuele, il quale profetizza la sconfitta degli israeliani e la morte del loro re. Ora, senza entrare nel merito della
lunga tradizione esegetica che questo passo ha suscitato — dove emergono tre differenti posizioni, quella di chi sostiene che la negromante agisce con l'inganno e non evoca veramente lo spirito di Samuele (San Gerolamo e Egidio Strauchio), quella di chi afferma che l’apparizione ha avuto effettivamente luogo ed è stata provocata dal demonio (Eustate d’Antiochia, S. Gregorio di Nissa e Tertulliano) e quella infine di chi dichiara che questa apparizione è reale e voluta da Dio (Giuseppe, Origene) — interessa qui evidenziare il giudizio fortemente scettico su questo passo biblico, che viene spiegato con l’inganno operato dalla negromante. Così Montesquieu, sulla scia di Fréret, denuncia gli inganni della negromante — da
friponerie de la Pythonisse»: «Pour prouver la friponnerie de la pithonisse de Saul il n’y a que la pithonisse qui voye quelque chose, elle ne dit-point que ce soit le diable ou Pombre de Samuel mais seulement la figure d’un homme couvert d’un manteau, Saul croit que c’est ’ombre de Samuel parce qu’une voix lui repond au nom de Samuel». Inoltre si nega che sia effettivamente avvenuta l’evocazione di Samuele e si avanza l'ipotesi che la negromante abbia operato la sua profezia con l’inganno®. A queste prime affermazioni Montesquieu fa poi seguire un’analisi vòlta a mostrare che la stessa predizione doveva risultare o vaga o errata in quanto se per un verso era semplice ipotizzare la sconfitta degli israeliani vista la supremazia militare dei filistei, per altro verso la disfatta militare con la conseguente morte volontaria di Saul e dei suoi figli non dovette avvenire il giorno dopo — come
9! Cfr. Spic., n. 421, p. 375: «C’est Freret qui m’a donné ceci[.] il l’a tiré sans doute de Van Dale» (De oraculis veterum..., ed. secunda, Amsterdam 1700). Per un’analisi di questo passo sulla «Pythonisse de Saül» rinvio a Bianchi, Montesquieu et Fréret: quelques notes, cit., pp. 114-122.
9 Spic., n. 421, p. 374. °° Cfr. Sie. n. 421, p. 375: «La pithonisse etoit eloignée de Saul, et ne s’aperçoit de son evanouissement que lorsqu’elle s’est aprochée de lui, elle avoit donc pu joüer des gobelets; l’Ecriture ne dit point que ce fût Samuel ou un diable, la pithonisse dit seulement qu’elle avoit và des dieux Eloim qui s’elevoient de terre, Saül demande comme ils sont faits, elle repond que c’est un vieillard couvert d’un manteau».
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parrebbe suggerire la profezia — ma tre o quattro giorni dopo l’evocazione®. Questo passo sull’evocazione di Samuele mostra come grazie anche alla mediazione di Fréret Montesquieu si sia interessato negli anni giovanili alla critica biblica come al tema delle strutture religiose antiche; Fréret da parte sua continuerà a af-
frontare temi legati ai sistemi religiosi e agli oracoli greci, e dedicherà alla credenza
nell’evocazione dei morti le Observations sur les oracles rendus par les âmes des morts, lette
all’Accademia delle Iscrizioni il 17 gennaio 17495, Lo Spicilège riporta comunque anche alcune brevi ma interessanti indicazioni sugli incontri di Montesquieu con Antonio Conti e con Bernardo Lama. Gli argomenti trattati dovevano riguardare per il primo personaggio temi relativi al teatro, alla drammaturgia e alla poesia italiana mentre, per il secondo, questioni sulla
religione ebraica, relative alle ‘decisioni rabbiniche sui libri canonici del Talmud, o
digressioni sulla storia greca”. Nello Spicilege Montesquieu parla anche delle sue relazioni culturali con Fontenelle relative vuoi a annotazioni storiche e erudite — come una sull’originario progetto bayliano di un dizionario solamente critico e non ancora storico-critico
o un’altra sul tema delle genealogie® — vuoi a informazioni scientifiche tratte dagli elogi che l’autore della Histoire des oracles aveva dedicato a scienziati quali l’astronomo Cassini, il botanico Blondin o il «chimiste italien» Martino Poli. Ma Montesquieu riprende anche una lettera di Fontenelle al marchese de La Fare sulla resurrezione dei corpi che merita di essere ricordata per la sua caustica irriverenza”. In questo testo che risale probabilmente al 1723 si avanzano alcune obiezioni mordaci sullo
% Cfr. Spic., n. 421, p. 375.
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55 Cfr. N. Fréret, Observations sur les oracles rendus par les âmes des morts, in Id., Œuvres complètes, Paris, An
IV [1796], t. XVII, pp. 163-192. Cfr. Spic., n. 464, p. 422; n. 465, p. 423 e n. 473, pp. 428-429. 9 Cfr. Spic., n. 365, pp. 343-344. Cfr. anche Spic., n. 392, pp. 355-356 sulle «favole» trasmesse degli storici antichi: «Strabon dit qu’Herodote, Ctesias et Theopompe ont debité plus de fables qu’Homere ni Hesiode dans sa Theogonie [...] Ceci est de l’abé de Lama». Sulla presenza di Lama a Parigi e le sue frequentazioni di Fréret, Desmolets e Boulainvilliers cfr. F. Venturi, Saggi sul? Europa illuminista, I, Alberto Radicati da Passerano, Torino 1954, pp. 113-114. % Cfr. Spic., n. 460, p. 416; n. 627, pp. 557-558. Ma si veda il passo relativo a Bayle, Spic., n. 460, P
416: «Jay oui dire a Fontenelle que Baisle luj ecrivit son premier dessein qui estoit de mettre les faits dans son dictionaire[,] touts les faits faux mis en credit par les autheurs avec des nottes pour en prouver la fausseté de facon que dans le corps de l’ouvrage il n’y auroit rien eu que de faux». Ì
unampio 99 Cfr. Spic., n. 260, pp. 266-267; n. 263, p. 269; n. 688, pp. 593-594. Montesquieu riporta
passo dell’elogio fontenelliano di Cassini, dove si può leggere il paragone tra Cassini e Galilei, accomu-
nati oltre che dalla scienza anche dalla cecità. Cfr. Spic., n. 260, p. 266: «M.r de Cassini sur la fin de ses jours devint aveugle et ce sort lui fut commun avec le fameux Galilée; on pourroit comparer ces deux
grands hommes a Tirisie que les dieux aveuglerent selon la fable pour avoir decouvert aux hommes 5 le secret du ciel». 70 Spic., n. 310, pp. 308-309.
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«espace immense qu’il faudra un jour pour contenir tous les hommes qui n’ayant existé que successivement depuis la creation n’ont pas laissé d’occuper une grande partie de l’univers». Inoltre si mostrano alcune difficoltà in rapporto al problema della composizione e del movimento della materia: «J’ay un autre embaras le voicy[.] lorsqu’il plaira a Dieu de rendre a chaque esprit le corps qu’il aura animé comment s’y prendra-t-il[P] nos corps ne sont composés aujourd’hui que des debris de ceux de nos peres[.] ces elemens circulent pour ainsy dire et vont de la composition d’un homme a celle d’un cheval et de celle d’un cheval a celle d’un arbre[.] la matiere reste toujours mais ce qu’on appelle la forme en est la victime[.] or comment fera Dieu pour rendre contemporains tant d’hommes qui n’ont eu chacun un corps que parce qu’ils se le sont cedés les uns aux autres»”!. Emergono da queste affermazioni una attitudine irreligiosa e una irriverenza libertina poco conosciute nell’opera di Montesquieu, anche se nelle Lestres persanes
si possono certamente ritrovare talvolta accenti simili. Ma questa opposizione tra rivelazione e ‘senso comune’ scientifico rinvia anche all’ipotesi poco ortodossa di una materia come sostanza eterna che cambia in continuazione nelle forme che di volta in volta essa assume. Un'ipotesi questa che può condurci a un altro e più tardo passo dello Spicilége (n. 580) — riportabile con tutta probabilità al 1738 — dove si parla di un manoscritto clandestino nel quale si sostiene che l’azione della fermentazione verrebbe a costituire dei corpi organizzati: «Jay oui parler d’un manuscrit où l’autheur veut prouver que plusieurs corps organisés viennent de la
fermentation»”?. Questo probabile rinvio a uno scritto anonimo quale la Dissertation sur la formation du monde” — che apre anche a interessanti questioni sugli interessi scientifici e sulle tentazioni materialistiche del cartesiano Montesquieu — si affianca nello Spicilege a altri passi sarcastici sulla religione o sul papa. Valga per tutti il breve frammento n. 475: «Spiritus ubi vult spirat sed non ultra Alpes car il faut que le pape soit italien”*.
7 Spic., n. 310, p. 308. 72 Spic., n. 580, p. 509. ™ Il manoscritto clandestino Dissertation sur la formation du monde (Paris, Bibliothèque Mazarine, Ms.
1168) è databile intorno al 1738. Cfr. la recente edizione critica: Dissertation sur la formation du monde (1738). Dissertation sur la résurrection de la chair (1743). Manuscrits du recueil 1168 de la Bibliothèque Mazarine de Paris, textes établis, présentés et commentés par Claudia Stancati, Paris 2001. Su questo testo cfr.
M. Benitez, La face cachée des Lumières. Recherches sur les manuscrits philosophiques clandestins de l'âge classique,
Paris-Oxford 1996, p. 330 e A. Del Prete, Z/ «Jordanus Brunus redivius» e il materialismo infinitista nel Sette-
cento francese, in G. Canziani (ed.), Filosofia e religione nella letteratura clandestina. Secoli XVII e XVIII, Milano
1994, pp. 220-223. ™ Spic., n. 475, p. 429.
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu
287
V. Questa prima e per più versi sommaria disamina di alcuni dei temi religiosi che circolano nell’ampia raccolta di annotazioni dello Spicilege permette di avanzare alcune considerazioni. In primo luogo le note relative alla religione riconfermano la centralità che questo tema ha sempre occupato nella speculazione del Presidente, dalla giovanile Dissertation sur la politique des Romains sur la religion fino a L'Esprit des bois. Pur nella loro varietà e incompletezza gli appunti di lavoro dello Spicilége, che denotano anche un'estrema libertà nell’affrontare i temi più diversi, assumono,
se rapportati alle
opere maggiori, tutto il loro significato teorico. Così, se la religione è spesso vista in relazione alla politica, la sua analisi è anche fortemente condizionata, di volta in volta, da elementi geografici, antropologici o climatici, mentre emergono specie
nelle annotazioni che risalgonò agli anni dieci e venti, affermazioni più radicali dove all’interesse per le religioni antiche e per la mitologia si affiancano momenti di più diretta e accentuata critica biblica. Ma, ci si può chiedere, è allora possibile, avvalendosi anche delle annotazio-
ni dello Spic/ège, parlare di un Montesquieu libertino o materialista? Certamente no, se si assumono queste categorie in maniera assoluta o indeterminata, ma il discorso cambia per chi voglia ricostruire geneticamente e storicamente le tappe dell'evoluzione del pensiero montesquieuiano. Così le affermazioni dello Spicilege che rimandano a una materia in movimento possono essere affiancate a quelle contenute ne l’Essai d'observations sur l'histoire naturelle, letto nel novembre del 1721 al?Accademia di Bordeaux, dove Montesquieu si dichiara «cartésien rigide», rifiuta
ogni teoria preformista come quella di Malebranche e afferma che la produzione delle piante è del tutto fortuita, che la loro vegetazione differisce molto poco da quella delle pietre e dei metalli e che da plante la mieux organisée n’est qu’un effet simple et facille du mouvement general de la matiere»”. E in quegli stessi anni al Montesquieu cartesiano rigido che inclina nella filosofia della natura verso il mate75 Ma si veda l’intero passo. Cfr. Montesquieu, Essai d'observations sur l'histoire naturelle, texte établi, présenté et annoté par L. Bianchi, in OC, 8, Œuvres et écrits divers I, sous la direction de P. Rétat, Oxford-
Napoli 2003, p. 187-233, p. 207: « Nous finissons cet article en avertissant que ceux qui suivent opinion que nous embrassons peuvent se vanter d’être cartésiens rigides, au lieu que ceux qui admettent une providence particulière de Dieu dans la production des plantes, différente du mouvement général de la matière, sont des cartésiens mitigés qui ont abandoné la règle de leur maître ». Una simile attitudine
a ritrovare un movimento proprio alla materia e alla sua organizzazione emerge anche in una delle Pensées. Cfr. Pensées, n. 76, p. 203: «On peut dire que tout est animé, tout organisé. Le moindre brin
d’herbe fait voir des millions de cerveaux. Tout meurt et renaît sans cesse. Tant d’animaux qui n’ont été reconnus que par hasard doivent bien en faire soupçonner d’autres. La matière qui a eu un mouvement général, par lequel s’est formé l’ordre des cieux, doit avoir des mouvements particuliers qui la portent à l’organisation. [...]». Su possibili somiglianze — in una prospettiva materialista 7%tra le ipotesi di due
«cartesiani rigidi» quali il giovane Montesquieu e Jean Meslier, cfr. Ehrard, L'idée de nature en France à
l'aube des Lumières, Paris 1970, pp. 56-60.
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo
N della tradizione e della confronti nei critico rialismo va affiancato un Montesquieu taluni esempi; del ancora offrono ci Spicilége stessa religione, di cui le pagine dello i segni di questo indubbiamente portano resto le Lettres persanes pubblicate nel 1721 doppio percorso critico ai bordi dell’eterodossia. Comunque l’attitudine di Montesquieu nei confronti della religione cambia e si trasforma dagli anni giovanili fino alla pubblicazione de L'Esprit des bis. E se un’operetta come la Dissertation sur la politique des Romains dans la religion letta all’Accademia di Bordeaux nel giugno del 1716 contiene già alcuni dei temi portanti della disamina montesquieuiana sulla religione — come il nesso religione-politica I)
e quello religione-tolleranza — essa risente anche della lettura di Machiavelli, della
eco di correnti scettiche e libertine nei confronti della, tradizione religiosa e della frequentazione di personaggi come Fréret, Fontenelle o Boulainvilliers. Ma questa radicalizzazione nell’analisi dei fenomeni religiosi certamente presente nelle opere di Montesqueiu fino alle Leztres persanes — e di cui lo Spicilege può offrire alcuni elementi di supporto — viene anche a smussarsi e a mutare progressivamente. Montesquieu continuerà sempre a considerare la religione in rapporto alla politica, ma accentuerà e riequilibrerà la sua indagine in una direzione più storica e ‘scientifica’, propria di chi non si pone come critico ma come osservatore dei fenomeni sociali. La conseguenza sarà una cautela maggiore nell'indagine dei fatti religiosi ricondotti all’interno dello «spirito generale» e ricollocati in un complesso contesto politico e naturale dove la religione è condizionata — e condiziona a sua volta — una realtà sociale nella quale agiscono fattori diversi quali il clima, le leggi, i costumi o le maniere. Da qui anche un interesse antropologico, oltre che geografico
e politico, per i modi diversi della diffusione di una religione in un altro paese o continente, per il suo entrare in conflitto con le leggi, il clima, i costumi locali. Del
resto è solo all’interno di questo vasto programma scientifico che si può spiegare l’attenzione quasi ossessiva di Montesquieu per i resoconti di viaggio, per le relazioni e le testimonianze dei missionari, per i conflitti legati alle cerimonie cinesi, per le contraddizioni giuridiche — ma anche morali e teologiche — prodotte dal tribunale dell’Inquisizione. Ne L'Esprit des lois tutti questi temi verranno a formalizzarsi e a riequilibrarsi all’interno dell’analisi e della ricostruzione di un complesso di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società e che ne costituiscono lo «spirito». Si tratta di una ricerca scientifica che si tramuta anche in un programma morale e politico — basti pensare alla denuncia del dispotismo o al tema della tolleranza —, dove l’analisi del fenomeno religioso occupa un momento centrale e irrinunciabile. Ma per chi voglia ripercorrere le varie tappe del pensiero di Montesquieu — considerandone gli sviluppi, le variazioni, le successive elaborazioni e gli esiti — anche l’enorme insieme documentario rappresentato dalle annotazioni dello Spicilége rappresenta uno
Antropologia, natura e religione. Note sullo Spicilège di Montesquieu
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strumento essenziale. Certamente non tutto quanto si ritrova in questa ricchissima raccolta confluirà nello scritto del 1748 ma l’insieme dei temi e dei problemi trattati costituisce uno strumento per più versi unico per ricostruire la strumentazione teorica di Montesquieu e per ripercorrere la genesi della sua opera maggiore.
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Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani di Salvatore Serrapica
1. Nel 1725 Giambattista Vico invia una copia, con dedica, della Scienza nuova prima
a Celestino Galiani. Com'è noto, l’opera di Vico prende le mosse proprio dal rifiuto di certo giusnaturalismo — che pure aveva ammesso fondamentale per la propria formazione. In particolare, il filosofo napoletano non risparmia nulla ai «gittadi in questo mondo senza niuna cura o aiuto di Dio di Pufendorfio», tanto da ironizzare magistralmente, riferendosi all'importanza della religione nel costituirsi dell’umana società che «a capo di lunga età, de’ giganti empi, rimasti nell’inferma comunione delle cose e delle donne, nelle risse ch’essa comunion produceva [...] gli scempi di Grozio, gli abbandonati di Pufendorfio, per salvarsi da’ violenti di Obbes [...] ricorsero alle are de’ forti»!. In tutto ciò Vico riconosce la mano della Provvidenza che, di fronte alla «immane fierezza e sfrenata libertà bestiale», al fine di «addimesticar
quella ed infrenar questa», non poteva che instillare nei primi uomini un qualche recondito, ed al contempo spaventoso, timore; in altre parole «che l’uomo, caduto
nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, desidera una cosa superiore che lo salvasse», ma «cosa superiore alla natura è Iddio, e questo è il lume ch’Iddio ha sparso sopra tutti gli uomini»’. In ragione di queste considerazioni, qualsiasi tentativo giusnaturalistico che voglia aggirare la reale e costante azione provvidenzialistica nella storia umana porta ad un vano, ché superficiale, parlare e perciò Pufendorf, che inizia la sua analisi «con un'ipotesi epicurea, che pone l’uomo gittato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio» — senza quindi tener conto del «primo principio della provvidenza» — «non può affatto aprir bocca a ragionare di diritto». ! G.B. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini Milano-Napoli 1953, p. 605.
2 Ivi, pp. 484-5. 3 Ivi, p. 515.
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Di diritto no, ma di morale, forse, sì. A considerare almeno componendo
quanto viene
Celestino Galiani in quel torno d’anni.
2. Nel decennio compreso tra il 1720 e il 1730, probabilmente*, quando cioè insegna Storia della Chiesa alla Sapienza di Roma, Galiani butta giù, a più riprese ma senza
mai concluderlo, un trattato Della scienza morale. A quell’epoca si è già guadagnato fama di valente matematico — uno dei pochi in Italia a padroneggiare il calcolo newtoniano — oltre che di attento uomo di cultura. Dopo alcuni incidenti con l’Inquisizione si risolve a non pubblicare più nulla, convinto ormai che le sue idee, e lo scriveva al fiorentino Bargellini, andassero rivelate solo agli amici più fidati «senza curarsi di esporle al volgo», proprio ad evitare «Censura di gente sì vulgare»).
E proprio nell’aprire lo scritto Galiani specifica l’uso privato di tale scrittura (essendo mio intendimento di scriver solo per mio uso). L’impostazione del trattato è, per così dire, ‘ipotetica’, chiaramente in senso cartesiano più che newtoniano, ma ancor più, diremo, in senso ‘astronomico”: così come bisognerebbe fare — dopo la condanna copernicana prima, galileiana poi — con le teorie astronomiche, anche per la morale, dal momento che la Sacra Scrittura in
materia ha già detto quanto necessario, si può solo ipotizzare uno stato differente, ‘naturale’ appunto, nel quale l’uomo vien posto adulto sì come se fosse fanciullo. Non fanciullo e basta, ovviamente, ché si sarebbe presentato il problema di come senza protezione ed aiuto potesse giungere all’età adulta, ma fanciullo di mente, così che, quasi in un immaginario laboratorio sia possibile scorgere il nascere e lo strutturarsi delle idee, e nello specifico, di quelle morali. Di qui la possibilità — al momento solo intravista — d’una scienza morale. Come lo scienziato in laboratorio isola l'oggetto del proprio studio per poterne esaminare l’interazione con determinati, perché determinabili, fattori, così prova a fare Galiani, in un laboratorio però solo mentale e con strumenti solo ipotetici. Perciò scrive: Quantunque il vero principio del mondo e della natura umana sia stato tal quale nella Sacra Scrittura si descrive, noi nulladimeno per nostra maniera d’intendere, e
per dedurne ciò che andiamo ricercando, supporremo, che in questa terra tal quale ella è all’infuori solamente di tutto ciò, che la sua origine riconosce dall’industria degli uomini disabitata ed incolta, un uomo adulto sì, ma nella condizione di un fanciullo, che nasce, vi si trovi e cominci ad essere.
* Cfr. V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, 1982, p. 359. ° Ivi, p. 321 . ° Della scienza morale — ricerche intorno alle prime origini della scienza morale, Società Napoletana di Storia Patria, ms. XXX.C.16, cc.1r-68r. Sulle due copie della Scienza morale e altro si rimanda sempre a Ferrone, Scienza natura religione, cit., p. 354, nota 25.
Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani
293
E qui fa la sua apparizione Pufendorf. Va detto che per procurarsi i suoi libri, ma non solo, Galiani aveva trovato il modo di aggirare i pericoli inquisitoriali, tanto che, nello scrivere al nunzio apostolico a Bruxelles, e siamo nel gennaio 1715,
indicava due indirizzi sicuri, passando per i quali «si scanseranno gli intoppi dell’Inquisizione, benché a dire il vero per quanto mi ricordo non dovrebbe esserci libro gran cosa cattivo se non qualche uno di proibizione ordinaria come il Puffendorf o altro simile». Compare, dicevamo, l’abbandonato — per usar l’espressione vichiana — di Pufendorf, che nel definire lo stato di natura, anzi per «formarsi una corretta idea
dello stato di natura considerato puramente e semplicemente per se stesso», invitava a figurarsi un uomo 7072bé, per così dire, dalle nuvole, e interamente abbandonato a se stesso8, E il padre celestino fedelmente, allorché suppone il proprio uomo «che dalle nuvole
tutto in un tratto discenda, e si trovi in mezzo ad una campagna ignudo e privo di tutti i sensi». Ma se l’overzure è pufendorfiana, il seguito è sicuramente lockiano,
laddove nel conoscere il mondo segue la semplice norma di «sfuggire per quanto può il dolore, e col procurarsi del piacere». Ma non basta. Sembra, infatti, evidente a Galiani che la semplice sperimentazione out court non sia realmente attendibile; la
necessità quindi di una guida, innata; che è l’istinto. «Nel girar per le selve — scrive — incontri una vipera, che serpeggi, che farà egli l’andera a prendere? forse per istinto come fugge la pecorella all’apparir del lupo, fuggerà egli ancora.» E non solo. L’atto stesso della procreazione presuppone più un atteggiamento istintivo che una sperimentazione. È il caso, si diceva, della gravidanza: Ingravida la donna, e piano piano il ventre le si va gonfiando, né essi sanno cosa sia. Ma ecco che ella dà fuori un fanciullo. Chi le insegnerà di prenderlo colle mani, e non piuttosto lasciarlo cadere in terra? Chi a legargli i vasi umbilicali? O forse senza legargli può il feto vivere? Così ancora da chi imparerà ad accostarselo al petto, ed a nutrirlo _ col suo latte, e non piuttosto lasciarlo di fame morire? Ma siccome il fanciullo per istinto sa succhiare, così la madre per istinto è portata a nutrirlo, ad averne cura.
7 Ferrone, Scienza natura religione, cit., p. 419.
# «Pour se former une juste idée de Etat de Nature considéré purement & simplement en lui-même, figuronsnous un homme tombé, si j’ose ainsi dire, des nues, & entièrement abandonné à lui-même; qui aiant les qualitez de son Esprit & de son Corps aussi bornées qu’on les voit aujourd’hui lots qu'elles n'ont pas été cultivées, ne soit ni secouru par ses semblables, ni favorisé d’un soin extraordinaire de la Divinité»
(S. Pufendorf, Le droit de la nature et des gens ou systeme general des principes les plus importans de la morale, de la jurisprudence et de la politigue, a Basle, chez Thoumeisen, vol. I, 1732, p. 149). Sul giusnaturalismo Vv.
A. Passerin d’Entrèves, La dottrina del diritto naturale, Milano, Edizioni di Comunità, 1962; N. Bobbio, //
diritto naturale nel secolo XVIII, Torino, Giappichelli, 1947; Id., Leibniz e Pufendorf in: Da Hobbes a Marx, Napoli, Morano, 1965, pp. 129-146 e L. Krieger, The Politics ofDiscretion. Pufendorf and the Acceptance of natural Law, Chicago, University press, 1965.
294.
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E fin qui il discorso fila liscio, anche troppo, e il futuro Cappellano Maggiore del Regno di Napoli, comprende bene che la questione si presenta in realta piu complessa. 3. A voler considerare il vivere sociale del nostro uomo, Galiani deve introdurre nel suo ipotetico laboratorio una nuova variante o, meglio, moltiplicare le varianti. Non è più uno l’uomo caduto dalle nuvole ma «supponiamolo di cento o mille
venuti nell’istesso tempo, ma in diversi luoghi». Introdotta la variante, segue la questione: «come si condussero tra loro?» e per la successiva ipotesi: «la donna d’uno si accoppiera coll’altro? E facendolo conoscerà di far.male?» la risposta è chiara: «sembra che no». Inizia ora il vivere comunitario, e là lenta scoperta della caccia, del fuoco, del ferro; lenta, o forse lentissima, tanto che a Galiani serve richiamare ancora una volta l’autorità scritturale a tutela di un’affermazione che con le Sacre
Scritture contrasta apertamente’: Come potrà venire in cognizione di cuocer al fuoco le carni e i pesci? Quanto tempo
passerà prima che conoscano il fuoco, e che imparino ad accenderlo, e a farne uso in preparar le vivande? Molto più tempo vi avrà voluto prima di conoscer l’uso del ferro, d’imparare a cavarlo dalla terra, ed a lavorarlo. Di maniera che dal ben considerare lo stato in cui sono oggi le arti, e le scienze, non possa farsi a meno di dedurre, che ‘1
mondo non sia assai antico, e gli si darebbe antichità molto maggiore di quella, che in fatti gli conviene, se non fusse per l’autorità delle Sacre Scritture.
Ad accompagnare il suo procedere Galiani invita il padre Louis Hennepin, richiamando la descrizione del suo viaggio in Louisiana (di cui esisteva una traduzione italiana già dal 1686)'° dove era venuto in contatto con intere popolazioni che «vivono senza alcuna forma di governo, e con totale indipendenza l’uno dall’altro»;
per aggiungere che «vanno affatto ignudi». Galiani immagina quindi i selvaggi della Louisiana quali esempi viventi dell’uomo da lui ipotizzato; si può perciò vedere «che idea avrebbero della virtù e del vizio».
° Per una trattazione generale del tema si rimanda a P. Rossi, J segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano 1979; Id., Le sterminate antichità. Studi vichiani, Pisa 1969; P. Hazard,
La crisi della coscienza europea, Verona 1968. Di Louis Hennepin cfr. Description de la Louisiana, nouvellement découverte au sud-ouest de la Nouvelle-France,
Paris, 1683 e Nouvelle découverte d'un très grand pays situé dans l'Amerique, entre le Nouveau Mexique et la Mer Glaciale, Utrecht, chez Broedelet, 1697, dove scrive: «En un mot on y trouve des hommes fort raison-
nables, qui savent se servir fort bien de leurs lumieres naturelles» (p. 306). Cfr. J. Delanglez, Hennepin’s Description of Louisiana. A critical essay, Chicago 1941. La traduzione italiana è Descrizione della Luigiana,
paese nuovamente scoperto nell'America settentrionale... con la carta geografica del medesimo... tradotto dal francese, in Bologna, per Giacomo Monti, 1686 (tr. da Casimiro Freschot, il cui nome figura nella prefazione).
Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani
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Fintanto che il selvaggio è solo, non è il caso di parlare di vizi o virtù, ché ciò
presuppone il conformare o difformare da certe e date leggi. Il problema si pone, invece, se si ammette l’esistenza d’una legge innata, di natura appunto:
Dal conoscere il nostro selvaggio quanto fin qui si è detto, non acquista certamente idea di virtù o di vizio: perché la virtù propriamente in altro non consistendo, che nell’abitudine o sia faciltà di operar conformemente a certe leggi, e viceversa il vizio nell’operar difformemente alle medesime, e non avendo egli in tal senso conoscenza di alcuna legge, né tampoco può aver idea di virtù, e di vizio. Ma non ha egli idea della legge di natura, che taluni vogliono innata, e che si porti da ciascuno in noi im-
pressa nelle nostre menti nel venire al mondo? Per decider una tal questione convien esaminare che cosa sia legge di natura, e se si dia, e come si conosca.
Nel formulare la definizione di legge, Galiani si rifà ancora a Pufendorf, al
capitolo VI del primo libro del Diritto della natura e delle genti. Applicandola quindi al suo caso, divengono necessari: (a) l’esistenza d’una mente eterna «che sappia tutto, e possa tutto», che abbia in suo potere «e di distruggerci, e di renderci infelici o beati, secondo più le aggrada»; (b) la consapevolezza che la stessa natura umana non potrebbe esistere, o quantomeno felicemente operare, se non si comportasse «in tale, e tal modo, di maniera che infelice ella sarebbe, o che non potrebbe conservarsi, se altrimenti si conducesse». Ma dimostrare entrambe ancora non basta a
Galiani per poter definitivamente accettare l’esistenza della legge di natura; si tratta di cogliere anche la connessione esistente tra natura umana, comportamento ed esistenza di Dio, «cioè — scrive — convien dimostrare, che Dio voglia, e comandi
che noi ci conduciamo in un certo tal modo, e non in un altro. Ed inoltre che egli premierà chi nel modo da lui comandato si condurrà, e viceversa castigherà coloro, che si condurranno altrimente». Galiani era quindi consapevole che richiamatsi ai selvaggi della Louisiana poteva essere una prova concreta d’un certo modo di vivere, al di là per così dire del bene e del male. Ma di contro, per quanto potesse sembrare ‘naturale’ tale vivere,
di fatto non era espressione d’una legge di natura. In altre parole, c’è legge se c’è legislatore; o per ritornare alle parole di Vico, una legislazione che riguardi la natura può darla solo chi è sopra di essa, cioè Dio. Non sembra quindi che nell’occasione si possa parlare dell’uso del selvaggio in chiave bayliana. Per cui se è vero, come ha notato Ferrone!?, che ad un certo punto Galiani parafrasa un brano del Dictionnaire, " De Ja Règle des Actions Morales, ou de la Loi en général, dove scriveva: «La Loi donc en Bence
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autre chose, à mon avis, qu’wne Volonté d'un Supérieur, par laquelle il impose à ceux qui dépendent de lui l'obligation d'agir d'une certaine manière quil leur prescrit» (S. Pufendorf, Le droit de la nature et desgens, cit., p. 89).
2 Ferrone, Scienza natura religione, cit., p. 427. Scrive Ferrone: «Galiani condivideva infatti le affermazioni di Pierre Bayle circa gli atei virtuosi e non esitava a parafrasare nella Scienza morale un brano del Dictionnaire».
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x laddove scrive che «il vero principio dei nostri costumi è sì poco ne’ giudizi specu-
lativi che noi formiamo della natura delle cose che non vi è nulla di più ordinario che il veder cristiani ortodossi che vivon male e libertini di spirito che vivon bene», nulla ha a che fare — almeno non è qui presa in considerazione — con l’idea d’una nazione d’atei. Il problema dei selvaggi è letto più in chiave lockiana, come risposta ad un certo innatismo morale. Anche se, accettare l’idea d’un relativismo etico tra i selvaggi poteva rafforzare più che indebolire certa morale.
Non è un caso che qualche anno dopo, siamo nel 1735 e nella Filosofia morale, Muratori sembra quasi rispondere idealmente alla questione posta da Galiani: che Locke abbia ragione o meno riguardo ai selvaggi, nulla.toglie al fatto che i cristiani selvaggi non siano, né vogliano esserlo. Per cui anche ‘se il filosofo inglese riporta di «popoli nelle Indie orientali ed occidentali che uccidono i loro genitori [...] o mangiano i lor teneri figliuoli» — e Muratori inserisce un «il che non so se sia vero» — nulla toglie alla forza che ha, o che è bene che abbia, la ragione: «Or qui si vuol rispondere essere una vergogna che uomini grandi arrivino a voler screditar la
ragione umana infin coll’esempio de’ barbari e degli scellerati. Ma se que’ barbari non consultano la ragione, conceduta anche loro da Dio, che maraviglia è se non distinguono certe azioni mal fatte dalle ben fatte?»'* Su questa linea, ci sembra, si muova Galiani allorché precisa, s'è visto, che finché manchi l’idea d’una legge e
d’un legislatore nemmeno si possa parlar di morale. Più che in un relativismo morale siamo cioè ancora prima, e fuori, da qualsiasi discorso morale. Diverso ancora
l'atteggiamento di Vico che nel riferirsi ai «moderni viaggiatori, i qual narrano che popoli del Brasile, di Cafra ed altre nazioni del mondo nuovo [...] vivono in società senza alcuna cognizione di Dio», e nel chiamare in causa Bayle, «persuaso [...] che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia», liquida la questione con un lapidario: «queste sono novelle di viaggiatori che proccurano smaltimento a’ loro libri con mostruosi ragguagli»!*.
4. Abbiamo visto come siano necessari, nel riconoscimento d’una legge di natura, l’esistenza di Dio e la convinzione che tale esistenza influisca sulla felicità umana. Galiani a questo punto, più che concentrare il proprio discorso in maniera analitica sull’esistenza d’un Ente supremo, preferisce semplicemente fare un paio di considerazioni, non prive d’interesse. Ad esempio, non accetta che si voglia dimostrare l’esistenza di Dio partendo dall’osservazione del complesso e perfetto ordine del mondo. Occorre altro e l'esempio è quanto mai pregnante:
© L.A. Muratori, Opere, a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli 1964, vol. I p. 824. ™ Vico, Opere, cit., pp. 480-1.
Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani
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Osservisi inoltre, che le opere dell’arte ed industria umana perché dipendono da loro artefici solamente nel fieri e non nell’esser conservate, dal sapersi che elle siano, non
s’inferisce l’attuale esistenza degli artefici, ma solamente che erano allora quando
quella tal opera fecero. Per ragion di esempio la nobile basilica di San Pietro, se per
qualche accidente mancasse tutto il genere umano, e non vi restasse né pure un sol uomo sulla terra potrebbe almeno per qualche tempo continuar ad essere: onde dalla sua esistenza non può inferirsi quella de’ suoi artefici, ma solamente che questi erano allora quando la fabbricavano. Quindi s’inferisce, che per provar l’attuale esistenza di Dio convien far vedere, che tutte le altre cose ritornerebbero nel nulla nell’ipotesi assurda ed impossibile che egli cessasse di essere.
La seconda notazione si riferisce implicitamente alle questioni sollevate da Bayle, cui pure Vico aveva fatto riferimento: in funzione dei due presupposti in precedenza indicati, non è possibile parlare di legge di natura nel caso di ammissione d’ateismo, ché «non può intendersi il comando di un superiore senza che vi
sia questo superiore». Una breve divagazione, a questo punto, sulla libertà di Dio; divagazione, però, solo parziale e se ne coglie il senso più avanti: nel richiamare l'assioma teologico in operibus ad extra Deus libere operatur, Galiani fa presente, nel caso
appunto di opere ad extra, la possibilità di una «specie di necessità, che ipotetica e condizionata suol chiamarsi». L'esempio che utilizza è dei più noti: Può per esempio Dio creare e non creare a suo beneplacito un triangolo. Ma non può determinarsi di crear un triangolo, senza voler nell’istesso tempo una figura di tre lati, in cui due di essi in qualunque maniera presi siano sempre maggiori del terzo: perché se egli volesse l’esistenza del triangolo, e nell’istesso tempo vorrebbe, e non vorrebbe il triangolo. Il che alla sua sapienza non conviene. Così nel caso nostro poteva Iddio creare, e non creare questo mondo, poteva fare, e non fare l’uomo. Ma posto che
egli abbia fatto l’uomo tal quale infatti egli è, non poteva lui descrivere se non che tali, e non altre leggi di condotta; perché altrimente, come si è detto del triangolo,
nell’istesso tempo averebbe, e non averebbe voluto l’uomo tal quale egli è.
Il senso di tale divagare, dicevamo, si coglie nelle considerazioni successive, allorché ritorna al vivere comunitario dei primi uomini. Nel dimostrare, infatti,
la naturale socievolezza dell’uomo, che sceso dalle nuvole inizia a creare piccole comunità, Galiani può concludere, richiamandosi ancora al triangolo quasi a un termine medio: Quella tal maniera di condursi di uomo tanto verso di sé medesimo, quanto cogli altri uomini, necessaria per la conservazione della società, o per ritrarre da questa comodi, e piaceri, è quella appunto, che prescrive la legge di natura: cioè che Iddio creando l’uomo animal sociabile ha voluto che egli pratichi; perché non ha potuto il supremo Autor delle cose voler l’uomo sociabile, senza che insieme volesse tutto ciò, che colla sociabilità ha connessione: siccome non può crearsi un triangolo che nell’istesso tempo facciasi una figura trilatera, di cui due lati maggiori siano del terzo.
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo % x
Con l’instillare, per così dire, la socievolezza negli uomini, usciamo dall’oriz-
zonte lockiano dell’unica ricerca del piacere e fuga dal dolore. E noto che per Galiani, e lo scriveva ad Antonio Conti, «il signor Lock abbia reso un buon servizio
agli uomini che vogliono far buon uso della loro mente». Ma sono altresì note le accuse che al filosofo inglese venivano mosse, e nella cerchia stessa del Galiani. Già nel 1722, ad esempio, il cardinale Davia, che del celestino era amico, scriveva allo scienziato Eustachio Manfredi, anch'egli legato al futuro Cappellano Maggiore, che riteneva Locke «cento volte più pericoloso di Machiavelli», infatti «il nostro italiano
nulla è più di un matto che la discorre con la corta vista di un segretariuccio di una piccola e sempre tumultuosa repubblica», invece d’inglese [...] va insinuando certi principi che sembrano universali e senza applicarli gli fa però cadere ad essere fondamentali [...] fabbricandoci sopra un perfidissimo ateismo»”. La pericolosità sta quindi nell’estensione di «certi principi» e Galiani questo ben lo comprende. Lo stesso Muratori, un anno dopo la messa all’Indice di Locke (1734), avrebbe addirittura parlato di «sottile veleno»'®, che s’insinuava senza quasi essere avvertito, così che, e qui usiamo invece le parole di Vico, «Obbes, Spinoza,
Bayle ed ultimamente Locke [...] si dimostrano andar essi a distruggere [...] tutta l’umana societa»'’. È facile quindi comprendere che se Galiani voleva aggirare tali accuse doveva necessariamente puntare sull’uzzara societa.
E non ponendo, pero, la paura come fon-
damento. Ancora dall’ambiente vichiano, e Garin giustamente n’aveva dato risalto, veniva un esplicito richiamo. Gherardo De Angelis, poeta amico ed ammiratore di Vico, nella sua Orazione, segnalava tutta la pericolosità della socievolezza per paura, quasi che l’uomo, s’avesse potuto, «avrebbe amato di vivere nella capanna contento di regger solo, e conservare la sua propria famiglia»; quasi, ancora, che «la forza sola, quasi naturale, e misura di giustizia, avesse ordinate, e mantenute le Compagnie, e gli Stati del Mondo»"*. Il problema resta, per l’appunto, in quel quasi naturale. Pet comprendere la pienezza della legge di natura occorre altro. Per tornare a Galiani quindi, fin quando si rimane nell’ambito della ricerca del piacere e della fuga dal dolore non è possibile ancora parlare di una reale legge morale.
!5 Cit. in A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in: Storia d'Italia, V, I documenti, Torino 1973, p. 1488 e in Ferrone, Scienza natura religione, cit., p. 450.
!0 «Il Locke, sottilissimo filosofo inglese, ma che ha anche sparso nel suo libro dell’/ntendimento, o sia dell’intelletto umano, un sottile veleno a cui non tutti fanno riflessione, prende che l’uomo non abbia innato nella mente sua alcuno principio o sia regola di morale» (Muratori, Opere, cit., I, p. 821).
! Vico, Opere, cit., pp. 117. x 8 Cfr. E. Garin, Per una storia dei rapporti tra Bayle e l'Italia, in: 1d., Dal Rinascimento all'Iuminismo. Studi e ricerche, Il ed. rivista e accresciuta, Firenze 1993, p. 164. Su De Angelis rinviamo alla voce del Dizionario Biografico degli italiani, vol. 33.
Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani
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Divengono necessarie, e in ciò il discorso s’accosta all’esigenze espresse da Vico, le idee di Dio e dell’immortalita dell’anima, della possibilità quindi di premi o castighi
dopo la morte. Il caso specifico a cui Galiani fa riferimento è quello del suicidio: cosa impedisce, in altre parole, al primo uomo in caso di fortissimi dolori di togliersi la vita? Per cui, se «il bene, o male morale consiste nella conformità, o difformità dell’operare
con una certa regola, ossia legge», l’uomo caduto dalle nuvole «potrà conoscere che l’ammazzarsi sia far qualche cosa di male, se prima col riflettere non averà egli
conosciuta questa tal legge»? Da ciò la necessità che prima acquisisca determinate conoscenze — e qui Galiani s’allontana nuovamente dall’impostazione vichiana — e due, in particolare, sono i principi che deve fare propri. Innanzi tutto, «convien pertanto che egli in primo luogo col riflettere si persuada, non esser stato sempre, ma che vi è una cosa eterna, indipendente da qualunque altra, infinita, immensa,
onnipotente, da cui ha ricevuto l’essere». Per rendersi conto poi che sempre per natura è portato a conservarsi, o meglio «che Dio vuole che egli procuri conservarsi». Ma a Galiani tutto ciò sembra non essere ancora sufficiente; non impedisce ancora all’uomo di ammazzarsi in caso di «fiero dolore». «Per ben intendere questo — scrive — dee osservarsi, che può l’uomo trovarsi in istato peggiore del non essere, siccome può tal uno possedere meno del niente, il che succede quando i suoi debiti fanno somma maggiore di ciò, che vagliano tutte le sue robe». Qual è quindi quello stato dell’essere, per così dire, che è addirittura peggiore del non essere? La risposta è semplice: «Dico esser quello in cui egli trovasi quando è travagliato da fieri dolori». Di qui, seguendo un preciso ragionare, si giunge alla necessità d’una ulteriore conoscenza: Ritornando ora al nostro uomo, che supponiamo solo disceso di fresco dalle nuvole, trovandosi egli afflitto da acerbissimo dolore per una spina conficcatagli nel piede, senza poter per la gravezza del dolore dormire, o ricever altro ristoro, si troverebbe in istato peggiore del non essere. Quindi, quantunque col riflettere egli si fosse persuaso dell’esistenza di Dio, e dell’origine sua da lui derivata, ed inoltre che Dio voglia che e?
si procuri conservarsi: se oltre tutto ciò il nostro uomo non fosse persuaso, che dopo la morte si può ancora godere e patire non averebbe egli bastevole motivo (purché non voglia in lui supporsi una virtù eroica) da non darsi la morte: perché in tal modo secondo la sua opinione (benché peraltro falsa) ritornerebbe nel nulla, stato migliore di quello in cui troverebbesi da gravissimo dolore oppresso.
5. Arriviamo dunque alla fondazione d’una scienza morale: è chiaro che una qualsiasi legge divina che non si fondi sulla convinzione d’una vita dopo la morte perda immediatamente di efficacia, e quindi di senso, in merito almeno alla conservazione stessa della vita umana. È da qui che per Galiani può e deve necessariamente partire, quindi fondarsi, una morale che voglia essere al contempo scienza:
300.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’ Iuminismo o)
[N DI
Ricavasi ancora dal detto fin qui, che niun progresso può farsi nella scienza morale prima che siasi certamente
stabilito l’ultimo fine dell’uomo, e se le sue speranze si
restringan tutte in questa vita, oppure passino di là, e vi sia luogo di sperare, e temer premio e gastigo anche dopo la morte.
Come non scorgere la distanza da Bayle, che pure tanto ha influito su Galiani. Se, in altre parole, l’autore del Dictionnaire aveva ipotizzato una società d’atei lo aveva fatto proprio escludendo l’idea che «un ateo, convinto che la sua anima muoia con
il corpo, non sia capace di compiere azioni lodevoli, privo come è del desiderio, così forte invece nell’animo degli altri uomini, di immortalare il proprio nome». Tale possibilità è esclusa anche ai credenti. «Coloro — continua — che hanno compiuto grandi imprese per essere lodati dai posteri, non si sono certamente cullati nella speranza di sapere nell’altro mondo ciò che si sarebbe detto di loro». In effetti,
pare abbastanza stupido che un ‘eroe’ possa trarre, dopo morto, «qualche piacere dai monumenti innalzati» alla sua gloria, o che «nell’altro mondo si avrà cura di informarli di quello che avviene sulla terra». L’amore per la gloria ha una ragione tutta presente, e quindi ugualmente, se non maggiormente, valida anche per gli atei, basandosi sulle «piacevoli immagini che durante questa vita rincorriamo nei nostri pensieri, fantasticando una lunga serie di secoli ricolmi di ammirazione per
le nostre imprese»””. Del resto, pet rimanere ancora alle pagine bayliane, ma anche spinoziane — altro filosofo letto da Galiani — pensare che una morale possa considerarsi scientifica, e cioè che possa ritrovare salde ragioni, ricorrendo finanche a Dio e all’immortalità,
non ha senso, presuppone un’abissale distanza dall'uomo reale, resta valida appunto per un uomo immaginato, «gittato» in questo mondo. «Che l’ateismo — scriveva sempre Bayle — sia lo stato più abominevole in cui si possa versare è un falso pregiudizio, che ci si forma sui lumi della coscienza, quando ci si immagina che questa sia la regola delle nostre azioni, anziché esaminare le vere molle che ci fanno agire»; così come, con apparente sfiducia, Spinoza, allorché considerava la «via indicataci
dalla ragione» come «difficilissima», per invitare a non coltivare d’illusione che sia possibile condurre a vivere secondo l’esclusiva disciplina della ragione la massa o gli
© P. Bayle, Pensieri diversi scritti... in occasione della cometa apparsa nel mese di dicembre 1860 con l'Aggiunta pubblicata il 1694, a cura di G. Cantelli, Bari 1979, (173; si rimanda ovviamente al saggio, sempre di G.
Cantelli, Teo/ogia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, Firenze . Ma cfr. anche C. Senofonte, Pierre Bayle: dal calvinismo all'illuminismo, Napoli 1978; L. Bianchi, Tradizione libertina e critica storica: da Naudé a Bayle, Milano 1988; Id., Passioni necessarie e passioni causa di errori in Pierre Bayle, in Tra
antichi e moderni. Passioni e morale in prima età moderna, Napoli 1990, pp. 137-169; G. Mori, Bayle philosophe,
Paris 1999; L. Bianchi (ed.), Pierre Bayle e l’Italia, Napoli 1996; Bayle, Progetto di un Dizionario Critico, a
cura di Lorenzo Bianchi, Napoli 1987.
Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani
301
uomini impegnati negli affari pubblici»”. Ma basta rivolgersi al medesimo ambiente napoletano, a Paolo Mattia Doria, al secondo capitolo della Vita civile: Dell'essenz
della vita civile e seguentemente della morale. A parlar di morale a nulla serve immaginare
un uomo mai esistito; è bensì un discorso che guarda costantemente alla virtù, «ch’é
solo una, ma in se stessa rigida e sopra la cima di altissimo ed asprissimo monte collocata», e ai vizi degli uomini che «con leggi e con precetti dal rigor della pena e del castigo avvalorati al proprio lor bene» bisogna «guidare». Ancora una volta di morale si può parlare se si è disposti a discorrer anche di politica, del vivere in società. Com'è noto, per Doria, non aveva però senso risalire, in maniera per così dire sperimentale, secondo l’intento scientifico di Galiani, dall'uomo particolare ai principi morali, ché «la felicità consiste nel conoscere il fonte e sapersi servire de’ rivi», in altre parole: «conoscére gli universali cioè la metafisica, e quelli applicare
alla conoscenza delle virtù particolari e de’ sensi; e per mezzo di essa saperne far uso e delle loro proprietà rettamente e sanamente godere»?! Se in altre parole Galiani aveva dapprima provato a guardare gli uomini per quel che sono, con il loro piacere o dispiacere, con l’introdurre l’idea dell'immortalità,
la conoscenza d’una vita dopo la morte quale regola delle azioni morali, prende d’un colpo le distanze da Bayle come da Vico, senza porsi però, se così possiamo esprimerci, nel ‘giusto mezzo’. Se ci rivolgiamo al finire del secolo, e rimaniamo a Napoli, ormai patria di Galiani, soprattutto dopo la nomina nel 1732 a Cappellano Maggiore, possiamo
scorgere ancora un differente approccio alla questione, e sempre da un autore profondamente, per sua ammissione, influenzato da Bayle. Se in altre parole è possibile l’umana società, non è più per volere, o per necessità, della provvidenza,
20 «Est enim hoc certum, et in nostra Ethica verum esse demonstravimus, homines necessario af-
fectibus esse obnoxios, et ita constitutos esse, ut eorum, quibus male est, misereantur, et quibus bene
est, invideant, et ut ad vindictam magis, quam ad misericordiam sint proni, et praeterea unumquemque appetere, ut reliqui ex ipsius ingenio vivant, et ut probent, quod ipse probat, et quod ipse repudiat, repudient unde fit, ut cum omnes pariter appetant primi esse, in contentiones veniant, et, quantum possunt, nitantur se invicem opprimere, et, qui victor evadit, magis glorietur, quod alteri obfuit, quam
quod sibi profuit. Et quamvis omnes persuasi sint, Religionem contra docere, ut unusquisque proximum, tanquam se ipsum amet, hoc est, ut jus alterius perinde, ac suum, defendat, hanc tamen persuasionem
in affectus parum posse ostendimus. Valet quidem in articulo mortis, quando scilicet morbus ipsos af-
fectus vicit, et homo segnis jacet, vel in templis, ubi homines nullum exercent commercium at minime in foro, vel in aula, ubi maxime necesse esset. Ostendimus praeterea, rationem multum quidem posse
affectus coërcere, et moderari; sed simul vidimus viam, quam ipsa ratio docet, perarduam esse; ita ut,
qui sibi persuadent posse multitudinem, vel qui publicis negotiis distrahuntur, induci, ut ex solo rationis praescripto vivant, saeculum Poétarum aureum, seu fabulam somnient» (B. Spinoza, Trattato politico, testo e traduzione a cura di P. Cristofolini, Pisa 1999, I 5).
Les
2 PM. Doria, La vita civile, con un trattato della Educazione del Principe, Napoli, per i tipi di Vocola, 1729, parte I, cap. II.
302
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Hluminismo I) n
ma per un’intrinseca bontà, o per usare le parole del Longano, ché di lui si tratta, per un «intimissimo senso di comune benevolenza». Ed è da tale «tronco di be-
nevolenza universale» che «spuntano, come tra suoi più principali rami l'umanità, la beneficenza e la clemenza». Tali vittù poi «sono come una forza di coesione morale, per cui gli uomini d’animi, e d’interessi disuniti, condensandosi insieme, volentieri si reciprocano bisogni, aiuti e perdoni». Siamo ormai in pieno Illumi-
nismo, e siamo di fronte ad un allievo di Genovesi; un Genovesi, il quale aveva
saputo sicuramente trarre dal pensiero lockiano più di quanto era riuscito a fare il suo mentore Galiani”, anche perché si trattava d’un Locke sicuramente più meditato, ma non solo, ché differente ci sembra anche il valore del ‘meditante’, se così
possiamo dire. E Longano, ritorniamo a lui, poteva affermare con decisione che l’uomo che tu leggi qui meditato è quello il quale non riconosce altra regola, che la sua ragione; altri obblighi, che i suoi bisogni; altri diritti, che della sua esistenza e della propria specie; altra forza, che le sue braccia; altri diletti, che del senso, altra
vita, che la presente»?!. 6. Galiani, dunque, è come se si accorgesse di non poter più proseguire così come aveva incominciato: le necessità che ha introdotto sembrano irrisolvibili rimanendo legati all'ipotesi dell’uomo «caduto dalle nuvole». A voler parlare di scienza, morale,
ma pur sempre scienza, è necessaria la riflessione e fin:quando il nostro selvaggio è tutto preso nelle oscure selve a procacciarsi cibo, sembra quanto meno difficile che abbia tempo e mente per tale attività, la quale «riconosce per madre l’ozio, la quiete e l’agiata vita». Per cui fintanto che l’uomo vive alla maniera dei selvaggi narrati dal padre Hennepin «poco, o niun progresso è da credersi che nella cognizion del vero egli si facesse». C'è bisogno, in altre parole, che si siano formate le città e le arti, tanto che alcuni uomini non debbano necessariamente dedicarsi a procacciar cibo, ma con bastante tempo da dedicare all’ozio, perché si possa finalmente dar avvio alla riflessione, o se vogliamo dirla altrimenti, alla filosofia. Per cui il Cappellano Maggiore si vede costretto ad aggirare l’impasse cambiando decisamente strada: Onde poco giova qui il cercare quanto tempo stato sarebbe il nostro uomo ad innalzarsi cola mente alla contemplazione d’idee non venutegli per lo mezzo de’ sensi; perché
* IMuministi italiani. V: Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli, p. 373. ? Cfr. a riguardo P. Zambelli, La prima autobiografia, in Ead., La formazione filosofica diAntonio Genovesi, Napoli 1972; A. Cutolo, Memorie autobiografiche, in «Archivio Storico delle province napoletane», riportate in A. Genovesi, Autobiografia e lettere, a cura di Gennaro Savarese, Milano 1962.
2 Iluministi italiani, cit., V, p. 335.
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ciò forse essendo egli in quello stato non gli sarebbe giammai accaduto; e lasciandolo intanto per ora da parte, cominceremo altronde le nostre ricerche.
Devia allora per la formazione delle idee, semplici, quindi composte, per trat-
tare poi dell’idea di Dio. E allora c’è da fare i conti con Cartesio: Quest’idea alcuni han voluto, che non siasi acquistate per le solite strade della sensazione e della riflessione, colle quali si sono acquistate tutte le altre; ma bensì che sia
stata creata dall’Autore della natura, cioè che egli quando dal nulla produsse la nostra mente, quest’idee le impresse, tarzquare nota artificis (son parole del Cartesio uno de’
difensori di tale sentenza) impressa operi suo. Tale opinione a me con molti altri sembra del tutto falsa: e primieramente ciascun di noi col rifletter solamente sopra di sé stesso può persuadersi, che noi nella nostra fanciullezza non avevamo quell’idea, tal quale ora l'abbiamo. Allora non avevamo idea di cose inestense, e ci rappresentavamo l’animo sotto l’immagine di un corpo sottilissimo come il vento; e dio con le sembianze per
lo più umane, e di un corpo venerando.
Galiani chiama poi, ancora una volta, in causa i popoli selvaggi delle Americhe, ma anche i «rustici» delle nostre terre che hanno spesso un’idea di Dio invero mostruosa. E qui pare avvalori certe espressioni bayliane, anche perché continua analizzando la formazione dell’idea di Dio che, non essendo innata, formiamo
estendendo le nostre facoltà, e unendole in un essere che rispecchi i nostri desideri più intimi. Gia Locke s’era reso conto, nel capitolo De/la nostra conoscenza dell'esistenza di un Dio, dei rischi impliciti in tali considerazioni, che pure aveva pienamente fatte sue. E invitava a non fondare la propria lotta all’ateismo unicamente sul fatto che «idea dell’essere più perfetto, che l’uomo può formare nel suo spirito, provi o non
provi l’esistenza di un Dio»?. Scriveva infatti subito dopo: Credo tuttavia di poter dire che è una via errata, per stabilire questa verità e far tacere gli atei, insistere troppo su un punto così importante come se fosse l’unico fondamento; e assumere il fatto che alcuni uomini hanno l’idea di Dio nei loro spiriti [...] come la sola prova di una Deità; e, per una eccessiva predilezione per questa beneamata invenzione, cancellare o almeno cercar di indebolire tutti gli altri argomenti”.
Il pericolo di una simile strategia era per Locke palese, e così vedremo anche per Galiani, «giacché è evidente che alcuni uomini» l’idea di Dio «non l’hanno, alcuni ne hanno una che sarebbe meglio non avere e i più ne hanno diverse». Quindi, anche per il Nostro, si rischia, a rimaner per certi campi, di perdersi tra selve libertine, laddove più che creature di Dio, ne diveniamo creatori: 25J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Torino 1996, p. 710.
Ivi py ils 7 Ibid.
3
304.
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%
E nel formarla abbiamo preso per guida i nostri desiderj con mettervi tutto cid, che a noi è più grato, e piacevole, e che aver vorremmo per esser pienamente beati. Piace a noi l’essere, e vorremmo, esser sempre senza angoscia, e dolori, con sommi piaceri, e colla certezza di dover sempre continuar in un tale stato senza alterazione, e senza pericolo. Ci è grato inoltre sapere, e ‘l potere, e vorremmo saper tutto, e poter tutto.
Ci reputeremmo beati se nell’istesso-tempo potremmo esser in Roma, ed in Parigi; ed in ogni altra parte della terra, e di questo mondo, nella Luna, nel Sole ed in ogni altro luogo. Per fine ci piacerebbe al sommo l’aver tutte le cose dipendenti da noi, da poter fare, e disfare a modo nostro. Insomma si osservi tutto ciò che più ci piace, che si troverà da noi incastrato nell’idea che ci siamo formati dell’Ente perfettissimo.
E Galiani si figura la possibile obbiezione: ‘
Adunque taluno dirà, questa idea dell’Ente perfettissimo sara simile a quella, che io mi son formata di un cavallo alato col collo, e colla testa d’uomo e simile anche a quella, che s’eran formati gli antichi Persiani di un Sole, che sapesse, e potesse
tutto: per lo che se mai così fusse; siccome quegli stolti Persiani in adorando quel lor Sole, altro non veneravano che un lor sogno, un parto mostruoso dell’istessa lor mente; così chi adora l’Ente perfettissimo altro non farà che inchinarsi, e portare
suppliche ad un fantasma della sua mente.
Per uscirne, bisogna dimostrare che l’idea di un «ente perfettissimo» ha, a differenza del Sole dei Persiani, una precisa realtà, e Galiani, in quelle che sono le ultime pagine prima della definitiva interruzione, segue quasi alla lettera lo schema lockiano di dimostrazione dell’esistenza di Dio.
7. «Benché s’interrompa proprio al momento di affrontare la revisione di tutte le consuete categorie morali alla luce di premesse teoriche così limpide, la Scienza morale lascia al lettore la sensazione di un’opera precocemente aperta allo spirito del secolo rispetto ad una cultura italiana che ancora nel 1750 [...] rifiuterà di considerare l'esigenza di una morale totalmente razionalistica»*. Così Vincenzo Ferrone a chiusura delle pagine che dedica all’inedito galianeo. Certo, sarebbe da indagare proprio quel benché d’apertura. Ferrone ha giustamente messo in risalto con estrema precisione i debiti dello scritto, da Pufendorf a Locke, passando per Spinoza e il giusnaturalismo tutto, ma l’intenzione della nostra analisi, per così dire ‘interna’,
dell’opera di Galiani è tutta nel coglierne gl’intenti, come i meccanismi, i risultati e perché no, anticipandone la conclusione, i fallimenti. Quindi più che su un benché s’interrompa, S'è voluto gettar l’occhio sul perché s'interrompa, o ancor meglio, sul come s'interrompa. Non si tratta forse nemmeno di rivolgersi ad altri giudizi, per x
2% Ferrone, Scienza natura religione, cit., p. 437.
Gli «abbandonati di Pufendorfio» e la Scienza morale di Celestino Galiani
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richiamare quello di Casini che, recentemente, nel ricordare quanto Galiani non avesse pubblicato pressoché nulla, scrive: «ma un ruolo probabilmente sovradimen-
sionato di protagonista di un ampio movimento d’opinione pro-newtoniano gli è stato attribuito, in base all’epistolario e alle carte inedite, da V. Ferrone»?. È vero, senz'altro, che altre saranno le strade che l'indagine morale seguirà in
Italia, e rispetto ad alcune d’esse la Scienza morale di Celestino Galiani rappresenti una precoce apertura; precoce appunto. E vero, dicevamo, che Muratori, rifiutando proprio certe aperture, penserà bene di rifugiarsi «nel Credo, e col fanale della santa religione nostra, e col ‘scio cui credidÿ di San Paolo fo coraggio a me stesso». Allo stesso tempo, e sempre Muratori, nel suo rifiuto di Locke, pare anche coglierne
meglio certi spunti, soprattutto quelli che il filosofo inglese aveva proposto nel capitolo prima citato, e perciò scrivere: «unicamente dirò che, se non è facile il
provare nell'uomo cognizioni e principi innati, almeno è certo che portiamo nell’anima nostra innato un vigore di scoprire le proporzioni, le relazioni, le cagioni, gli effetti, le verità o falsità di infinite cose. Questo vigore si chiama ragione. E coll’aiuto di questa facoltà, a noi data da Dio, possiamo anche scoprire ciò che sia bene o
male, giusto o ingiusto nelle azioni umane». Non molto differente da come Locke apre il capitolo sull’esistenza di Dio: «Sebbene Dio non ci abbia dato nessuna idea innata di sé [...] pure, avendoci forniti della facoltà di cui i nostri spiriti sono dotati, non ci ha lasciato senza testimonianza di sé»; abbiamo infatti «senso, percezione e ragione», quanto basta per avere «una prova chiara di lui finché ci occupiamo noi stessi di noi”. Per il cattolico Muratori è chiaro che non è quanto basta, ma
sicuramente è tanto quanto serve per ragionar di morale. Un'opera, la Scienza morale, alle dichiarazioni d’intenti dell’autore, scritta per se stesso, strutturata però più come un trattato che come un taccuino d’appunti e di pensieri (come altri invece degli inediti galianei); un’opera ancora che prova una storia della nascita della morale, intendendo come storia l’ipotesi d’un uomo girato e abbandonato su questa terra, che parte con certe asserzioni giusnaturalistiche per cercarne poi le risposte in Locke, in un Saggio sull'intendimento umano che va in tutt’altra direzione. Di qui, il repentino mutamento di rotta quando Galiani si trova di fronte ad un selvaggio che a tutto pensa fuorché a ragionar di morale; alla necessità
quindi di società, ed arti, e filosofia. Ancora una volta la morale più che scienza sembra voler esser altro: storia appunto, «ideale eterna» come quella di Vico, che
2 P. Casini, // momento newtoniano in Italia: un post-scriptum, in «Rivista di storia della filosofia», LXI, 2006, p. 310, nota 33.
3° Muratori, Opere, cit., II, p. 1917, lettera a Tartarotti.
À Ivi, I, p. 822.
® Locke, Saggio sull'intelletto umano, cit., p. 708.
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bene sintetizza il fallimento galianeo; fallimento di chi ha «creduto — e son parole
di Vico — che l’equità naturale nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazioni gentili fin da’ loro primi incominciamenti, senza riflettere che vi volle da un duemila
anni perché in alcuna fussero provenuti i filosofi». Non è intenzione di chi scrive ridimensionare o meno figure come quella di Galiani, anzi. Di certo il valore culturale, più che filosofico, della sua opera, della sua
attività di politica istituzionale (si pensi alla riforma dell’università napoletana, o alla fondazione di un’accademia della scienza sempre a Napoli) non sono assolutamente da trascurare — né sembra possibile dopo il lavoro di Ferrone. Ché poi si possa confondere una innegabile abilità matematica, o la volontà di diffondere il nuovo sistema del mondo newtoniano, e con esso tanta dellà nuova cultura inglese, con
delle indubbie capacità filosofiche è tutt’altro. Per questo, definire «precoce» il suo tentativo dice tutto e al contempo nulla. Come ben aveva colto il nipote di Galiani, il più famoso Ferdinando, allorché scriveva da Napoli, il 12 aprile 1772: Certamente mio zio non fu giansenista: aveva troppo Newtone in corpo. Cosa fusse non lo so. Forse non lo seppe egli neppure. Contrastò la bell’anima da Dio donatagli col genere di vita a cui si votò, colla città dove abitò, col secolo in cui visse. Dio sa
quali teorie, o quali perplessità ne risultarono!*.
8 Vico, Opere, cit., p. 478. 4 # F. Galiani, Opere, a cura di F. Diaz e L. Guerci, Milano-Napoli 1975, p. 1144, lettera a Sanseverino.
Déterminisme et liberté dans le matérialisme athée de Jean Mesher: la discussion avec Fénelon par Miguel Benitez
La liberté est la pierre d’achoppement des monothéismes. Il n’est pas aisé en effet de concilier avec le libre arbitre, ou la libre détermination de la volonté de Phom-
me, l’image d’un Dieu qui fait dans ses créatures tout ce qu’il veut. Les catholiques parlent d’un mystère, et ils ont essayé des explications différentes qui, sans toucher à ce que l’on doit à Dieu, laisseraient sauve, d’une manière ou d’une autre, la li-
berté. D’autres ont coupé ce nœud gordien en niant tout simplement le problème: l'homme n’est pas libre, et son salut dépend seulement du choix que Dieu a fait de lui de toute éternité. Dans les deux cas, l’ombre du Père tout-puissant plane sur sa créature. On peut aussi enlever à l’homme cette tutelle, pour le livrer à ses propres forces, libre de construire ses destinées. En ce qui concerne la liberté cependant, le matérialisme mécaniste des temps modernes se trouve lui-même placé devant un dilemme. En effet, il doit en général expliquer cette liberté en termes de
nécessité, tout arrivant nécessairement dans un monde formé par les mouvements d’une matière aveugle. C’est pourquoi ce matérialisme a souvent nié la liberté. Cela signifie rejeter le sentiment spontané de l’homme, qui se croit libre de faire ce qu’il veut, en ce qui concerne tout au moins son propre corps, et surtout affirmer que l'homme n’est pas responsable d’actes dont il n’est pas le maitre; or, sans responsabilité, pas d'éthique. Et ainsi, on donnerait gain de cause aux apologistes de tout bord, qui crient que sans Dieu tout est permis. C’est sans doute pourquoi Meslier a énergiquement revendiqué la liberté dans les remarques qu’il a apposées dans les marges de son exemplaire du traité de Fénelon sur l’existence de Dieu’. Tout
! Œuvres philosophiques. Premiere Partie: Demonstration de l'existence de Dieu, Tirée de l'art de la Nature. Second Partie: Demonstration de l'existence de Dieu et de ses attributs, Tirée des Preuves purement intellectuelles, etde l'idée de l’Infini mesme. Par feu Messire François de Salignac de la Motte Fenelon, Précepteur de Messeigneurs les Enfans de France, & depuis Archevéque Duc de Cambray, Prince du Saint Empire, &c. À Paris, chez
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d’abord contre l’idée d’un Dieu qui ferait tout dans ses créatures — ce qui le fera entrer dans les discussions de l’époque sur le franc arbitre et la gràce, sans trop
les approfondir cependant, puisque de toute façon ce Dieu n’est point. Ensuite, contre l’idée d’une matière qui par ses mouvements déterminerait nécessairement notre volonté. L’apologétique catholique s’attache laborieusement à accommoder ensemble ces deux vérités qu’affirme le dogme: l’homme est un être dépendant, et pourtant libre. En vue de mieux faire ressortir cette opposition, Fénelon a développé
séparément ces deux éléments, avant de tenter leur conciliation. Cette dynamique a facilité une certaine polarisation. Tout d’abord, l’évêque.a insisté sur la dépendance. En effet, l’homme ne tire pas son être de lui-même; c’est Dieu qui lui donne son
corps, son Âme, ainsi que leurs opérations: les mouvements du corps, la pensée et la volonté de l’âme. Il ne lui donne pas seulement la volonté, ou «capacité de vouloir»,
une puissance «susceptible du bien, & du mab», mais aussi le penchant de la volonté
vers le bien, ce que Fénelon appelle la bonne volonté, ou le bon vouloir [Œwvres philosophiques, § 64, pp. 219, 221]. Rien ne lui semble mieux illustrer cette dépendance que la formule de l’apôtre Paul, qui affirme que Dieu donne aux hommes le vouloir et le faire, selon son bon plaisir [6 65, p. 225]?. Et pourtant, la liberté n’a pas besoin de preuves, elle éclate partout, personne ne questionne son « évidence intime » [( 68, p. 235]. Fénelon écrit ainsi, sans aucune nuance, que la « volonté
se détermine elle-même » [§ 67, p. 228], que «[son] vouloir est pleinement en [sa] puissance» [J 68, p. 232], et n'hésite pas à en appeler aux conclusions du concile de Trente pour affirmer que l’homme peut «rejezte» l’«actuelle inspiration» divine, «quelque forte qu’elle soit», da frustrer de son effet» [( 68, p. 232], et choisir enfin librement entre les choses qui se présentent à lui et la prévention que Dieu met
Florentin Delaulne, rue S. Jacques, à l'Empereur. 1718. Les pages 523-559 contiennent les «Reflexions du Pere Tournemine Jesuite. Sur l’Atheisme, sur la Demonstration de Monseigneur de Cambray, & sur le système de Spinosa». Meslier a introduit des réflexions dans les marges de l'ouvrage de Fénelon, qui ont été recopiées par des lecteurs; je cite la copie Versailles-B.M. Réserve C 45, éditée par J. Deprun dans les Oeuvres de Jean Meslier, édition animée et coordonnée par R. Desné, Paris, Anthropos, 19701972, en renvoyant à la page des Œuvres philosophiques, suivie de la numérotation des remarques et des pages dans l'édition; entre parenthèses, la numérotation des fragments dans l’édition citée des Œuvres
de J.M., tome et page. * Fénelon renvoie, sans le citer, à Philippenses TI, 13: « Deum est enim, qui operatur in vobis et velle
et perficere pro suo beneplacito ». ? Il renvoie à «Concil. Trid. Sess. 6» [§ 68, p. 232]. Le canon 4 de cette séance, en 1547, se lit: «Si quis dixeris, liberum hominis arbitrium a Deo motum
et excitatum nihil cooperari assentiendo Deo
excitanti atque vocanti, quo ad obtinendam iustificationis gratiam se disponat ac praeparet, neque posse dissentire, si velit, sed velut inanime quoddam nihil omnino ageri mereque passive se habere: anathema
sit». Fénelon interprète que la volonté, prévenue par la grâce, peut n’y pas consentir.
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dans son àme*. Le problème est donc de «comprendre un vouloit qui est libre, &
qui est donné par un premier Etre» [J 69, p. 236]. Tant que Fénelon développe les raisonnements qui postulent la dépendance de l’homme par rapport à son créateur, Meslier reste impassible; il écrit tout sim-
plement dans la marge: «vain raisonnement» [Versailles-B.M. Réserve C 45, pn221; rem. (fr. 53; III, 261)]. Il lui semble évident en effet que l’homme ne se donne pas lui-méme son étre, qu’il est donc un être dépendant; mais il est aussi clait pour lui
que l'homme ne reçoit pas son être d’un Dieu qui n’est point, mais de la matière. Sitôt cependant que Fénelon s’appréte à disserter sur la liberté, avant même d’écouter ses raisons, Meslier lui oppose que l’homme n’est pas libre, si Dieu lui donne vraiment le vouloir et le faire, comme le dit l’évêque: Si c’est Dieu qui donne le vouloir et le faire selon son bon plaisir, il n’y a plus de liberté à chercher, parce que nous ne pouvons pas ne pas vouloir ce que Dieu nous fait vouloir, ni ne pas faire ce qu’il nous fait faire, et pareillement nous ne pouvons pas vouloir ce qu’il ne nous fait pas vouloir, ni faire ce qu’il ne nous fait pas faire, et
ainsi point de liberté [p. 225, rem. 1.2.3. (fr. 55; III, 262)].
Là où l’évêque voyait un profond mystère difficilement pénétrable, Meslier perçoit une contradiction insoluble. D’après lui en effet, l’homme ne peut résister à l’action de Dieu sur l’âme, ni rien vouloir, ni faire, sans Dieu. Il réfute dans la suite
pas à pas chacune des affirmations de Fénelon. Mais il n’a pas songé à disputer avec lui sur leur portée doctrinale. Il aurait pu opposer au molinisme de l’évêque les thèses des thomistes, qu’il avait sans doute fréquentées pendant ses années de séminaire, ou même
celles des jansénistes, qu’il lisait chez Pasquier Quesnel, et
qui enseignaient que la grâce efficace entraîne inévitablement le consentement de la volonté — tout en laissant intacte la puissance de résister à l’inspiration divine. Si Meslier n’a pas emprunté ce chemin, c’est sûrement qu’il trouvait frivoles ces distinctions des théologiens, mais aussi qu’il savait que toutes ces écoles opposées
4 Cette position de Fénelon n’a pas été sans lui poser des problèmes avec l’orthodoxie, comme le rappelle Tournemine dans ses «Réflexions», où il affirme que l’on a reproché à l'évêque de s’appuyer «quelquefois sur des opinions nouvelles fort contestées, & fort éloignées de la certitude des principes», parmi lesquelles celles qu’il enseigne au § 65, sous l’épigraphe «Un être supérieur étant Ja cause de toutes les modifications des créatures, il est impossible que la volonté puisse vouloir le bien par elle. même» [p. 536]. 5 S'il réagit en cet endroit, ce n’est pas pour discuter ponctuellement le point de vue de Fénelon, mais pour se demander comment un Dieu qui est dit immuable pourrait donner ses mouvements à la matière: «Comment est-ce qu’un Etre qui seroit essentielement immuable et immobile pourroit être la cause réele et immediate de toutes les configurations et de tous les mouvemens de tous les corps; puisqu’il ne sgauroit se mouvoir lui-même, comment pourroit-il mouvoir un autre corps. Ce qui ne se
peut mouvoir ne peut certainement rien mouvoir» [p. 223, rem. 1.2.3 (fr. 54; III, 261-262)].
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tombent d’accord pour enseigner que, par quelque moyen que ce soit, la grâce efficace elle-même n’annule pas la liberté, mais l’accomplit, ou l’actualise. Au lieu donc de se placer sur ce terrain, Meslier a rejeté en bloc le prétendu mystère: si le Dieu tout-puissant dont parle Fénelon pouvait prévenir mon âme, de quelque façon que ce soit, la volonté ne pourrait que suivre ses desseins: Ma volonté, dit-il se determine elle-même, et se modifie elle-même‘; mais comment
se determineroit-elle et se modifiroit-elle elle-même, puisque c’est Dieu qui donne le vouloir et le faire, cela se contredit manifestement.
Si c’est Dieu qui donne le vouloir et le faire, je ne suis pas maître d’un vouloir qu’il ne me donne pas et ne suis pas maitre non plus de-n’avoir pas une pensée et un vouloir qu’il me donne. Pareillement je ne suis pas maitre de faire ce dont il ne me donne pas le faire, ni le maître de ne pas faire ce dont il me donne le faire même [p.
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Ce n’est donc pas que Meslier n’ait pas compris, ou voulu comprendre, la position de Fénelon’. Il n’ignore pas que l’évêque distingue la capacité de vouloir et ses actes.* Mais il ne croit pas cette distinction significative. En effet, il ne peut concevoir
comment chez l’homme la volonté prévenue par Dieu pourrait être «cause réelle» de son vouloir autant que Dieu même; comment dès lors accepter qu’elle puisse vraiment résister à la prévention que, dit-on, Dieu met dans l’âme? Dans ce qui lui semble être la logique propre de cette fausse question, toute prévision d’un Dieu tout-puissant serait nécessairement efficace, et l’homme ne saurait aucunement résister à son action. Ainsi, quand l’évêque affirme qu’il ne connaît d’autre cause de son vouloir que sa volonté même, Meslier lui rappelle les propos qu’il a tenus préalablement dans un sens tout opposé: Il faut bien qu’il reconnoisse d’autre raison de son vouloir, que son vouloir même,
puisqu'il dit que c’est Dieu qui donne le vouloir et le faire selon son bon plaisir [p. 229, rem. 3.4. (fr. 62; III, 266)].
° Ce n’est pas une citation littérale, mais la formule résume bien les propos de Fénelon, qui écrivait: «Ainsi Dieu est l'unique cause réelle & immédiate de toutes les différentes modifications des corps. Pour les esprits, il n’en est pas de même; ma volonté se détermine elle-même. Or se déterminer à un vouloir,
c’est se modifier. Ma volonté se modifie donc elle-même» [§ 67, pp. 227-228]. ’J. Deprun signale ainsi que «Meslier refuse de distinguer la puissance de vouloir (puissance ‘à deux tranchants’, d’après Fénelon) d’avec ses actes. Si Dieu me donne / vouloir, il doit aussi me donner
chaque vouloir [Œuvres de J. M., op. cit, tome III, p. 265, note 1]; ailleurs, il accuse encore Meslier de confondre la volonté et son acte: «Fénelon dit ‘un vouloir’ pour désigner la faculté de vouloir; Meslier comprend: un acte, une décision» [p. 266, note 1]. * Fénelon appelle aussi «vouloir» l’acte, par opposition à la «volontés. L’évêque écrit en effet que «de
vouloir est la modification des volontez» et parle du «bon vouloir des volontez» [§ 65, pp. 223, 224]: ces volontés ne sont pas ici expression particulière de la capacité de vouloir, mais la faculté elle-même telle qu’elle se trouve dans les différents individus.
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Quelque formule semblerait éventuellement nuancer cette conclusion. L’évéque insistant encore sur l’autonomie de la volonté par rapport aux desseins de la divinité,
et niant toute contrainte”, Meslier ne le dément pas complètement, mais lui rappelle tout de même que le dernier mot revient nécessairement à Dieu dans le rapport inégal qu’il établit ici avec la créature:
Je ne sçaurois vouloir malgré moi, passe pour cela; mais si mon vouloir vient d’aille [ur]s que de moi, je n’en suis plus le maitre, quoi que je ne sois nullement contraint [p. 229, rem. 1 (fr. 60; III, 265)].
Car méme si l’on admettait que la volonté peut jouer un quelconque rôle dans sa détermination, sans que la prévention divine exerce sur elle aucune contrainte, ce
que Meslier juge évidemment impossible, elle ne serait pourtant pas moins dépendante, puisque son vouloir ne vient somme toute pas de son propre fonds, mais de Dieu. Et ainsi, Meslier rétablit immédiatement sa doctrine, selon laquelle si Dieu prévient notre âme, nous voulons nécessairement ce qu’il nous fait vouloir: Quand Dieu donne un vouloir comme dit l’auteur, pourroit-on ne le pas avoir; nullement, c’est une necessité de vouloir ce que l’on veut [p. 229, rem. 2 (fr. 61; III,
266)].
Il conclut donc qu’il n’y aurait point de vraie élection dans l’hypothèse d’un Dieu qui prévient notre volonté, contre Fénelon encore, qui, en appellant implicitement à l’expérience, dit ridicule le sentiment d’une délibération qui serait viciée dans sa racine par la nécessité de suivre ce qui aurait été prédéterminé par les desseins de la divinité: Elle ne seroit effectivement qu’un jeu dans la supposition d’un Etre tout puissant qui donneroit le vouloir et le faire qui seroit tout en tout [p. 231, rem. 1 (fr. 64; III,
267)]."°
Dans ces conditions, l’homme serait un jouet entre les mains de Dieu, dès lors que c’est lui qui donne tout vouloir et tout faire. ° «Je ne suis pas contraint dans mon vouloir, & je ne scaurois l’être: car je ne sçaurois vouloit malgré moi ce que je veux, puisque le vouloir que je suppose exclut évidemment toute contrainte» [6 67, p.
| 229]. !° Le texte biblique auquel Meslier renvoie implicitement dit plutôt que Dieu est tout en tous, «ut sit
Deus omnia in omnibus» (I Corinthiens 15, 28). Il pourrait s’agir d’une faute de copiste; les deux autres copies connues à ce jour présentent la même lecture. La copie Paris-BnF Rés. D 34916 complète la rédaction: «... un Etre tout puissant qui donneroit le vouloir et le faire, et qui seroit tout en toub, tandis
que Paris-Arsenal Rés. 8° S 1109 suggère que Dieu serait tout en tout parce qu'il donne le vouloir et le faite: «.. un Etre tout puissant qui donneroit le vouloir et le faire ce qui seroit tout en tout».
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Il est vrai que l’évêque restreint la liberté au ressort de la seule volonté, qui est une faculté de l’âme, ou de l’esprit, sans le moindre rapport avec le corps. Liberté
signifie ainsi la capacité de la volonté pour se déterminer elle-même, sans aucune contrainte, puisqu'elle peut vouloir ou ne pas vouloir, sans aucune nécessité, puis-
qu’elle peut choisir entre deux objets différents!!. D’après lui cependant, il n’y aurait chez l’homme la moindre liberté d’agir. En effet, il est sûr que la matière ne se meut pas d’elle-méme, et que l’âme n’a pas elle-même la force de la mouvoir — car elle ignore tout du corps, et de ses ressorts purement mécaniques?.Ainsi, Fénelon avoue volontiers que Dieu est cause unique de tout ce qui se fait dans la matière: aucun corps ne se meut par conséquent, ni n’agit, de lui-même. Meslier s'étonne que l’évêque puisse se dire encore libre dans ces conditions: Si cela est, nous ne sommes donc pas libres des modifications ni des mouvemens de nôtre corps et par consequent point de liberté pour les exercices du corps; comment
donc l’auteur peut-il dire qu'il est libre et qu’il n’en peut douter [p. 227, rem. 1. (fr. 58; III, 264)]. C’est que Fénelon tient que la volonté se détermine elle-même: ainsi, si c’est Dieu
qui fait agir mon corps, il est certain qu’il ne violente aucunement ma volonté. Toujours est-il, remarque Meslier, que, d’après l’évêque lui-même, c’est Dieu qui donne à l’âme ses opérations, ses pensées et ses volontés. Or, dans l'hypothèse d’un Dieu qui donnerait son vouloir à âme de quelque façon que ce soit, la volonté ne serait pas plus libre que le corps. De ce point de vue, la distinction que Fénelon fait du corps, qui règle ses mouvements suivant les lois d’une stricte nécessité que Dieu aurait mises dans la matière, et de l’âme, qui se détermine librement d’ellemême à vouloir ce qu’elle veut, serait tout imaginaire: "' C’est la description que Fénelon donne du sentiment d’être libre qui est le propre de l’homme: «Je suis libre, & je n’en puis douter. J’ai une conviction intime & inébranlable que je puis vouloir, & ne vouloir pas, qu’il y a en moi une élection, non seulement entre le vouloir, & le non vouloir: mais
encore entre diverses volontez, sur la variété des objets qui se présentent» [§ 66, pp. 225-226]. Plus loin, il décrit l’«éxemption de toute contrainte» en ces termes: «Quand je veux une chose, je suis maitre de ne la vouloir pas: quand je ne la veux pas, je suis maître de la vouloir» [6 67, pp. 228-229 ]; et «’éxemption de toute nécessité»: «Je sens que j’ai un vouloir, pour ainsi dire, à deux tranchans, qui peut se tourner à son choix vers le oiii & vers le non, vers un objet, ou vers un autre» [§ 67, p. 229]. 2 Pour Meslier, l'affirmation de Fénelon que lame se détermine elle-même signifierait ainsi qu’elle
se connaît elle-même et sait donc comment elle forme ses productions. C’est ce qui explique ce commentaire quelque peu cryptique: «L’Esprit sçait mieux ce qu’il faut faire pour se modifier lui-même et pour former des pensées, des desirs et des volontez, que pour modifier et mouvoir en aucune maniere
le corps auquel il est joint. [?] s’il falloit que l’auteur prouvat ce qu'il avance ici, il se trouveroit fort embarassé» [p. 228, rem. 1.2.3. (fr. 59; III, 264-265. L’éditeur de ces réflexions n’a pas corrigé la lecture
du copiste, comme il le fait habituellement en ces cas, sans doute parce que la lecture est la méme dans
les deux autres copies; cela laisse entendre qu’il n’a pas bien saisi le sens de la remarque de Meslier]. Car
il tient que l’àme produit ses pensées et ses volontés sans savoir comment elle le fait...
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Si c’est Dieu qui donne la pensée, le desir et le vouloir, l'ame ne peut avoir d’autres
pensées, d’autres desirs, ni d’autres volontez que celles que Dieu lui donneroit selon
son bon plaisir, et ne pourroit ne pas avoir celles qu’il lui donneroit selon son bon plaisir, comme dit l’auteur, et par tout elle seroit aussi necessitée et aussi invinciblem' déterminée à vouloir ce qu’elle voudroit, que les corps le sont à se mouvoir du mouvement qu'ils se mouvent et ainsi point de liberté selon le principe de l’auteur [p.
230, rem. 1.2. (fr. 63; III, 266)}'°.
Si Dieu est, point de liberté donc. Mais Dieu n’est pas, et le vouloir ne peut venir à l’homme que de lui-même. Meslier le dit ainsi libre. Contre évêque, il revendique la liberté de nos actes. Ainsi, Fénelon dissertant sur « la conviction intime et inébranlable » où nous sommes tous du fait que nous sommes libres de vouloir
ou ne pas vouloir et de vouloir ceci ou cela, Meslier lui oppose cette formule: Nous sommes libres dès que nous faisons ce que nous voulons sans contrainte; nous
ne sommes point autrement libres [p. 225, rem. 4. (fr. 56; III, 263)].
Nous sommes libres donc si nous ne sommes pas forcés à faire ce que nous faisons, ou si rien, d'ordre physique ou moral, ne nous empêche de faire ce que nous voulons faire. Et puisque la liberté se joue dans cette discussion sur le double plan de la volonté et de l’acte qui accomplit, il faudrait croire que Meslier suggère par là que nous ne sommes pas libres de vouloir ce que nous voulons. Certes, le commentaire qui suit semblerait démentir cette interprétation. Quand Fénélon affirme que les mouvements du corps sont réglés par les lois de la nécessité*,tandis que la liberté est du ressort exclusif de la volonté, et donc de l’âme, Meslier lui répond: Faux raisonnem'; nous sommes
determinons nous-mêmes!
corporels tous tant que nous sommes, et nous nous
à tout ce que nous voulons
[p. 226, rem. (fr. 57; II,
264)].
13 Jean Deprun ne semble pas avoir bien saisi le fonds de la doctrine de Fénelon sur la liberté. D’après lui, Pévéque distingue «deux niveaux de liberté», dont l’un, «la simple spontanéité naturelle», incomplet,
implique l’exemption de contrainte et se compatit avec la présence de la grace nécessitante, ou efficace; le second, da liberté proprement dite» exige l’exemption de nécessité, et comporte le pouvoir de résister à la grâce [Œuvres de J. M., op. cit, tome III, p. 263, note 1]. Si nous comprenons bien, da simple spontanéité naturelle» ne serait rien d’autre que la liberté d’agir, dans l'absence de toute contrainte, ou détermination externe, tandis que la liberté proprement dite implique l’absence de toute détermination,
externe comme interne. Or, chez Fénelon, l’exemption de contrainte et celle de nécessité se rapportent ino re toutes deux au vouloir.
!4 «Tout ce qui est corps, ou corporel, ne se détermine en rien soi-même, & est au contraire déterminé
en tout par des loix qu’on nomme physiques, qui sont nécessaires, invincibles, & contraires à ce que en i: j'appelle liberté» [§ 66, p. 226]. 1 Le copiste écrit: «nous mémes-mémes». Son erreur s’explique par la rédaction que nous trouvons dans la copie Paris-Arsenal Rés. 8° S 1109: «... et nous nous determinons nous nous-mêmes à tout ce que nous voulons».
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Ce qui ne signifie pas forcément que l’homme se détermine librement à vouloir
ce qu’il veut, mais plus simplement qu’il se détermine de lui-même, tout corporel qu’il est, sans aucune intervention d’un Dieu. Car se déterminer de soi-même ne signifie pas nécessairement le faire librement. Ou, pour le dire autrement, la liberté
d’agir n'implique point que le vouloir qui est à sa racine se forme librement. Meslier s’explique plus loin sur cette apparente dialectique de liberté et de nécessité, où la liberté semble s’enraciner dans la nécessité, et s’en nourrir: La liberté n’exempte point de toute necessité; pour preuve de cela, est-ce que la liberté de l’homme depend necessairement des pensées, des connoissances, des affections,
des desits et des volontez qu’il peut avoir; car on ne dira pas qu’il puisse faire aucun usage de sa liberté sans pensée, sans connoissance et sans volonté: Or les pensées, les connoissances, les affections, les desirs et les volontez que nous pouvons avoir, dependent necessairement de certains mouvemens du corps", et à leur tour les mou-
vemens libres du corps dependent necessairement des pensées, des connoissances, des desirs, des affections et des volontez de l’ame. C’est ce que l’auteur lui-même ne
sgautoit nier; puisqu'il dit precisement ci-dev p. 148. que les mouvemens du corps donnent promptem!' et infailliblement certaines pensées à l’ame, et que les pensées de l’ame donnent promptem' et infailliblement certains mouvemens au corps, donc les mouvemens libres du corps, ni les pensées et les volontez de lame ne sont point exempts de toute necessité, ni par consequent la liberté non plus [p. 233, rem. 1. (fr. 65, III, 267-268)]"7. i
L’explication de Meslier est quelque peu embrouillée. Par liberté, il entend ici la liberté d’action, autrement dit «les mouvements libres du corps». Or, ces mouvements libres dépendent «nécessairement» des mouvements des particules matérielles qui composent le corps. En effet, les mouvements de ces corpuscules forment dans le cerveau des pensées et des volontés'*, qui à leur tour déterminent
!° Les copies Paris-Arsenal Rés. 8° S 1109 et Paris-BnF Rés. D 34916 ajoutent: «et suivent necessairement certains mouvemens du corps».
" La citation de Fénelon est presque littérale: «D’où vient que des êtres si dissemblables, sont si intimement unis ensemble dans l’homme? D'où vient que les mouvemens du corps donnent si promtement, & si infailliblement certaines pensées à l’ame? D’où vient que les pensées de l’ame donnent si promtement & si infailliblement certains mouvemens au corps? D’où vient cette société si réguliere de soixante-dix ou quatre-vingts ans, sans aucune interruption?» [§ 45, pp. 148-149]. Plus loin, l’évêque insiste sur l’idée de cette «dépendance réciproque» du corps et de l’âme: « Rien n’est plus absolu que l'empire de l’esprit sur le corps. L'esprit veut: & tous les membres du corps se remuént à l'instant, comme s’ils étoient entraînez par les plus puissantes machines. D’un autre côté rien n’est plus manifeste que le pouvoir du corps sur l'esprit. Le corps se meut: & à l'instant l’esprit est forcé de penser avec plaisir, ou avec douleur, à certains objets» [iid., pp. 150-151]. Fénelon explique cette dépendance par l'intervention divine; pour Meslier, elle prouverait plutôt la matérialité de l'âme. ! Le mécanisme de la détermination de la volonté est plus compliqué chez Fénelon: les mouvements de la matière dans les corps donnent lieu aux idées, et la perception de ces idées conforme la volonté.
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les mouvements libres du corps —c’est-a-dire ceux répondant aux déterminations de la volonté”. La volonté est donc sous Pemprise de la nécessité dans ce sens, qu’elle ne saurait être sans les mouvements des parties composant le corps. Mais
il ne semble pas que Meslier ait voulu aller plus loin, et dire que ces mouvements nous déterminent nécessairement à vouloir ce que nous voulons. En effet, il n’écrit point que ces mouvements des particules matérielles soient eux-mémes nécessaires. Il ne semble donc pas que Meslier enseigne ici que la liberté consiste seulement à faire ce que l’on veut faire, et que nous ne sommes donc pas libres de vouloir ce que nous voulons. D’autres remarques au texte de Fénelon pourraient confirmer
cette interprétation. Plus loin, en effet, Fénelon s’attaque aux épicuriens, qui, parmi les Anciens, ont cependant revendiqué la liberté. En cela toutefois, ils ne se seraient pas montrés
conséquents. Car le sentiment intime de la liberté qu’ils n’ont pas osé désavouer aurait dû leur faire recevoir une divinité, puisque, d’après l’évêque, «il faut douter de
nôtre liberté même, pour pouvoir douter de la Divinité» [J 87, p. 287]. Sans aucunement se soucier d’expliciter la logique qui sous-tend cette affirmation”!, et encore moins de revendiquer le théisme des épicuriens, Meslier la dénie avec conviction, sa doctrine à lui étant la preuve du contraire: Cette proposition est absolum' fausse: tous ceux qui doutent de la divinité ou qui la nient ne doutent pas pour cela de leur liberté [p. 287, rem. 1.2. (fr. 98; III, 285)]”’.
Ce que l’évêque reprochera substantiellement aux épicuriens en cette matière est de prétendre expliquer la liberté en termes de nécessité. Il considère en effet que le clinamen par lequel les épicuriens entendent expliquer la liberté serait lui-même aussi nécessaire, si par impossible il pouvait être, que le mouvement en ligne droite qu’ils donnent aux atomes”, Le dilemme pour ces matérialistes que seraient les
Pour Meslier, apparemment, les mouvements du corps donneraient lieu indistinctement aux différentes affections de l’âme, pensées et vouloirs. ,
1 C’est pourquoi Meslier pouvait accepter «ww grano salis la formule de Fénelon qui dit:«Je ne sçaurois vouloir malgré moi» — car même si ma volonté ne se déterminait pas elle-même, ce qui la détemine ne fait pas moins partie de moi-même. % Elle est aisée à reconstruire: si nous sommes libres, nous sommes responsables de nos actes, qui deviennent ainsi susceptibles de récompenses et de châtiments; d’où un Dieu rémunérateur.
2! La copie Paris-BnF Rés. D 34916 se lit: «Tous ceux qui doutent de la verité Divinité ou qui la
nient...».
sa
2 «Dira-t-on qu’une loi essentielle & immuable du mouvement local des atômes, explique la véritable
liberté de l’homme? Ne voit-on pas que le clinamen ne peut pas mieux l'expliquer, que la ligne directe même? Le cinamen, s’il étoit vrai, seroit aussi nécessaire que la ligne perpendiculaire, par laquelle une pierre tombe du haut d’une tour dans la ruë. Cette pierre est-elle libre dans sa chûte? La volonté de l'homme, selon le principe du clinamen, ne l'est pas davantage» [J 87, pp. 289-290].
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épicuriens serait donc de nier la liberté, et donc l’évidence même, ou de la soutenir,
pour l’expliquer par la combinaison d’atomes qui se meuvent sous les lois d’une nécessité aveugle, ce qui serait contradictoire; et ainsi, conclut Fénelon, l’on ne peut
faire moins qu’expliquer la liberté par un «principe incorporel». Et d’insister encore: la matière se meut par des lois nécessaires, qui ne sauraient expliquer la liberté. A chacun de ces pas successifs, Meslier a répondu par trois fois consécutives: «Faux raisonnement» [p. 290, rem. (fr. 101; III, 286); p. 291, rem. (fr. 102; II, 286); p.
292, rem. (fr. 103; III, 286)]??. Toute la force des raisons de Fénelon contre les épicuriens réside dans le caractère de nécessité qui serait dans leur système le propre de la matière. Or, Meslier n’a pas songé à le démentir..Il aurait pu signaler que le clinamen introduit pour Lucrèce une certaine contingerice dans la nature, cette déviation minime se produisant «incerto tempore ferme incertisque locis spation™, et
qu’il n’explique pas ainsi la liberté de l’homme sur le fond de nécessité qui préside au mouvement des atomes. En réalité, Meslier s’est plutôt démarqué des thèses des épicuriens. Fénelon leur reprochant de faire le mouvement
essentiel à la matière,
ainsi que la ligne droite, avant qu’ils n’aient songé à introduire arbitrairement l’idée d’une déviation sans cause, Meslier écrit: «Le mouvem' n’est point essentiel aux corps ni à la matière il n’en est qu’une propriété» [p. 288, rem. 1. (fr. 99; III, 285)], et «Le mouvem‘ en ligne droite n’est essentiel a aucun corps» [p. 288, rem. 2. (fr. 100; III, 285)]. Non pas que Fénelon se trompe dans la lecture qu’il fait de Pépicurisme, certes; ce sont les épicuriens qui s’abusaient, et c’est pourquoi Meslier ne
les suit pas sur ce terrain”. Mais si les lois du mouvement ne sont pas de l’essence de la matière, ses particules ne se meuvent pas inévitablement sous l’emprise de la nécessité. Or, cela étant, il semble évident que les modifications de la matière dans le corps ne sauraient déterminer nécessairement nos pensées et nos vouloirs... Toujours est-il que Meslier ne tire pas lui-même explicitement cette conclusion. Plus loin cependant, il dira son dernier mot sur le sujet, à propos des réflexions de Tournemine. Le jésuite montrant sa perplexité devant le déterminisme sans faille de Spinoza, et voulant savoir quelle pourrait bien être la source de la liberté qui
éclate partout dans les actions de l’homme”, Meslier répond: * Meslier écrit en marge la même formule une quatrième fois [p. 293, rem. (fr. 104; III, 286)]. A cette dernière occasion, Fénelon prétendait ridiculiser les épicuriens, qui, obligés par ses raisonnements d’accepter que le siège de la liberté est incorporel, ne sauraient comment «accrocher» l’âme au corps. 24 De rerum natura II, 218-219; voir l’ensemble de cette discussion dans le poème, II, 216-293. Meslier
ne connaît cependant pas ces vers, qu’il ne trouvait pas cités, sauf erreur, chez Montaigne * Sur les rapports de matière et de mouvement chez Meslier, voir mon livre Les jeux de la raison: matérialisme et athéisme chez Jean Meslier, 2° partie, section «La matière et le mouvement», en préparation. 2° «Encore une reflexion. Si tout est asservi aux loix de la necessité, de quel fonds nous vient la liberté
dont notre volonté joüit? Nous la sentons trop évidemment pour en douter, & ce témoignage de notre conscience réfute sans replique les vaines subtilitez de Spinosa & de ses Maîtres. L'auteur [Fénelon] a
Déterminisme et liberté dans le matérialisme athée de Jean Meslier
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Nòtre volonté joüit de la liberté lors qu’elle choisit ce qui nous plaît” et qu’elle fait sans contrainte ce qu’elle veut [p. 553, rem. 3. (fr. 256 (35); III, 350)].
Meslier délimite ici avec netteté le territoire où se développe la liberté: nous sommes libres quand nous faisons sans contrainte ce que nous voulons, et nous le sommes aussi quand la volonté se détermine à vouloir, puisqu’elle choisit ce qu’elle veut. Or, comme Meslier l’a appris chez Fénelon, cette liberté de choix est précisément l’exemption de nécessité. La volonté n’est donc pas strictement déterminée à vouloir ce qu’elle veut”, et elle peut être dite libre, comme nos actes”’. La discussion entre Fénelon et Jean Meslier sur la liberté est curieuse à plus d’un titre. Tout d’abord, ils ne s’opposent pas sur la doctrine: l’un et l’autre soutiennent
également que l’homme est libre. Cette prise de position n’est que trop normale chez un évêque catholique. Elle l’est beaucoup moins à considérer les fondements que Fénelon donne à sa doctrine. Son molinisme cède trop d’autonomie à la vo-
donné aux preuves de la liberté, si fortes d’elles-mêmes, une nouvelle force, par ce tour ingénieux qu’il donne à tous les sujets qu’il traite. Il a donc par avance confondu les Spinosistes, & son ouvrage suffit
pour détruire toutes les especes d’athéisme» [pp. 553-554]. 77 Les copies Paris-Arsenal Rés. 8° S 1109 et Paris-BnF Rés. D 34916 se lisent à cet endroit: «elle choisit ce qu’il lui plait».
# Les copies Paris-Arsenal Rés. 8° S 1109 et Paris-BnF Rés. D 34916 ajoutent aux remarques apposées dans les marges des pages 290 et 292 (frs. 101 et 103; III, 286) cette explication: «Le principe de la liberté, ne peut et ne doit tomber sous la liberté». Le lecteur qui est à l’origine de cette modification a cru comprendre que Meslier enseigne que nous ne saurions être libres que par la capacité qui serait en nous de faire sans empêchement ce que nous voulons pourtant nécessairement. Et il a appuyé son interprétation sur cette règle concernant les principes, que Meslier développera dans le Mémoire de ses pensées et ses sentiments, même s’il donne ici un avant-goût moins technique en réponse à Fénelon, qui se demandait qui aurait pu donner à la matière la capacité de penser: «Ce qui donne à l’homme la faculté de marcher ne marche pas pour cela, ce qui lui donne la faculté de parler ne parle pas pour cela, donc ce qui lui donne la faculté de penser ne doit pas penser pour cela» [p. 153, rem. 1 (fr. 34; HI, 251)].
29 Jean Deprun interprète que Meslier définit la liberté exclusivement par l’exemption de contrainte, la volonté dépendant nécessairement d’«une série de déterminations internes, physiologiques et psychologiques» [Œuvres de J.M., op. cit., III, p. 263, note 1]; cette interprétation repose sur la confusion des deux territoires sur lesquelles peut s’exercer la liberté. Cela ressort plus nettement de Particle qu’il a consacré plus tard à cette question: Meslier et la III proposition de Jansenius: Notes de typologie philosophique, in: R. Desné éd., Le curé Meslier et la vie intellectuelle, religieuse et sociale (fin 17°-début 18° siècle), Reims, Bibliothèque de PUniversité, 1980, pp. 249-261. En effet, il tient ici que dire que « nous sommes libres dès que nous faisons
ce que nous voulons sans contrainte» est exactement de même qu’affirmer qu'être libre, c’est “choisir ce qui nous plaî et ‘faire sans contrainte ce que nous voulons» (p. 252), ce qui lui permet de créditer Meslier d’avoir branché «a liberté [...] une certaine liberté — sur la nécessité de la nature» (éd). C'est sur cette erreur de jugement que repose le rapprochement de la position attribuée à Meslier sur ce point avec celle de Jansenius: «Notre hypothèse est la suivante: Meslier a pris conscience que cette conception, en apparence minimisée de la liberté, était la seule qui pit trouver place dans sa propre philosophie [...]. En faisant sienne la Ille Proposition, Meslier eut sans doute conscience de reprendre simplement son bien» (pp. 251-252). Il n’y a cependant pas la moindre preuve documentaire de cet intérêt supposé de Meslier pour Jansenius — et il est évident qu’il ne peut y en avoir sur le point précis qui nous occupe.
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lonté face à la prévision divine, et son occasionnalisme grignote trop les droits de
la matière, devenue un simple instrument des actions de la divinité. Par contre, la revendication de la liberté est assez insolite chez un matérialiste mécaniste du début des Lumières. La position de Meslier s’explique pourtant. Pour lui, il n’y a point de Dieu: la matière récupère ainsi l’autonomie de ses mouvements — et l’homme agit donc librement dans ses actions. Toujours est-il que la disparition de Dieu ne consacre cependant pas de manière automatique la liberté de la volonté. Le matérialiste Meslier enseigne en effet que la matière détermine par ses mouvements le vouloir. Cela ne signifie cependant pas qu’il prenne le contre-pied de l’évêque sur ce point. En réalité, il rejette que le mouvement soit essentiel à la matière et ne dit nulle part nécessaire le mouvement des particules matérielles qui déterminent les choix de la volonté. C’est pourquoi Meslier peut dire libre la volonté. Par rapport à Fénelon, il a donc élargi le domaine de la liberté. C’est la même doctrine qu’il
développera dans le Mémoire des pensées et des sentiments qu’il a laissé en testament. Car ici aussi, malgré ce que pourrait suggérer une lecture peu attentive, il explicitera les racines ontologiques de la liberté, la matière cachant dans son sein des mouvements
irréguliers qui rendraient somme toute aléatoires les choix de la volonté. En réalité, les entraves à la liberté surgissent plutôt sur le terrain de l’action, et pas sur celui du vouloir — puisque la société est divisée en maîtres et esclaves, et que ceux-ci n’ont pas les moyens de mettre en pratique la diberté naturelle» dont jouissent en naissant tous les hommes...
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delanbe par Sébastien Charles
Pour qui s'intéresse à la littérature clandestine de l’âge classique, un problème métaphysique essentiel ne peut que se poser, celui de la conciliation, dans un cadre moniste, du déterminisme universel et de la liberté humaine. Ce problème est récurrent dans les nombreux manuscrits à tendance matérialiste qui s’inscrivent dans la lignée spinoziste sans pour autant posséder les ressources conceptuelles et la théorie des affects propres à l’Erhique de Spinoza. Sans le support ontologique spinoziste et la distinction posée entre l’unité de la substance et l’infinité des attributs, la possible harmonisation des plans ontologique et éthique devient délicate, de même que la compatibilité entre un ordre naturel manifestant l’œuvre de la nécessité absolue et une éthique proposant une liberté de choix en faveur d’un mode de vie philosophique fait de responsabilisation individuelle et de vertu morale. Mais ce type de difficulté vaut également pour le monisme idéaliste, où tout émane de la divinité et en dépend, et où le nécessitarisme est tout aussi radical. Si les manuscrits philosophiques idéalistes sont plus rares, voire rarissimes, ils n’en sont pas moins confrontés à une aporie du même genre qui rend difficile l’imbrication des niveaux ontologique et éthique. Dans cette perspective, j'aimerais m’attarder quelque peu sur un manuscrit singulier, où la question se trouve posée dans des termes explicites, et qu'il conviendra d'interroger très précisément. Ce manuscrit, ce sont les Réflexions morales et métaphysiques sur les religions et les connaissances de l'homme, composé par Delaube au début du XVIII: siècle, et qui semble avoir peu circulé, au vu des deux seules
copies qu’il nous reste!. Ce manuscrit est particulièrement intéressant puisqu'il est
1 Il existe en effet deux manuscrits (Grenoble, ms. 329, daté Lyon, 1742; Rouen, ms. 1569, daté Caliput, 1767). Nous citerons toujours la copie de Grenoble en modernisant orthographe et ponctua-
tion — à souligner que le chiffre romain renvoie aux parties du traité, l'arabe au chapitre, suit ensuite le numéro du feuillet auquel nous faisons référence. Nous remercions Antony McKenna de nous avoir
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le seul à défendre une ontologie idéaliste forte”, qui tranche avec le matérialisme ou le naturalisme que l’on retrouve majoritairement dans la littérature clandestine.
Mais si sa tonalité ontologique en fait un manuscrit exemplaire, l’application qui en est faite dans les domaines politique, religieux ou éthique ne se distingue que fort peu des thèses essentielles de l’univers clandestin, empruntées pour une bonne part au libertinage érudit du siècle précédent, comme la dénonciation de l’imposture religieuse à vocation politique, la critique de toute forme de superstition, le mépris à l'égard d’un peuple perçu comme vulgaire et ignorant, la prise en compte de la force des préjugés et des passions qui explique la rareté des esprits déniaisés, l'égalité de nature existant entre hommes et bêtes ou encore le souci eudémoniste
d’un bonheur pensé en dehors du cadre chrétien. Ainsi, fondée sur des considérations eudémonistes et une critique sans concession des religions révélées, la démarche de Delaube s'inscrit bien dans la mouvance
clandestine. En se fixant comme finalité une éthique nouvelle censée procurer à ses lecteurs la paix de l'esprit et du corps et un bonheur terrestre libéré de toute crainte ou espérance quant à la vie future, les Réflexions morales et métaphysiques ont Yoriginalité de conserver une position idéaliste mais dégagée de tout référentiel chrétien. Le point de départ de cette démarche est identique à celui que l’on trouve dans de nombreux autres manuscrits, et évoque l’importance de penser par soi-même pour tout ce qui touche au salut individuel et la nécessité de rejeter les préjugés de l'enfance pour s’en tenir à la seule raison, faculté naturelle égale en tout homme,
qui conduit à établir un certain discours sur le monde évitant à la fois le radicalisme du dogmatisme et celui du pyrrhonisme*. Pour ce faire, la métaphysique proposée par Delaube propose de distinguer très soigneusement trois domaines de croyance: le connaissable, l’inconnaissable et le probable. Au niveau des connaissances métaphysiques, obtenues tant par l’usage de la raison que par l’attention donnée au sentiment intime, s'impose une double certitude, celle de l’existence de Dieu et celle du cogito, dont la découverte est quasi concomitante: «Je me sens, je raisonne, je ne saurais sentir ni penser sans étre, je
fourni une copie de ce manuscrit. Sur Delaube, on lita avec profit l’article de A. McKenna, Le ver est dans lefruit. Le scepticisme au XVIIF siècle: l'exemple de Delaube, in G. Paganini, M. Benitez et J. Dybikowski (eds.), Scepricisme, clandestinité et libre pensée, Paris 2002, pp. 165-177. * Sur la question de l’idéalisme dans la pensée clandestine, voir notre L'immatérialisme dans la littérature clandestine du siècle des Lumières, in Dialogue», XXXIX, 2000, pp. 491-511.
? Sur cette question, voir notre Du matérialisme à l'immatérialisme: le problème dme-corps dans la philosophie clandestine, in «Tangence», LXXXI, 2006, pp. 143-61.
* Cfr. Réflexions morales et métaphysiques, I, 8, 121: «ai bien quelque connaissance de ce que je dis car je n’aime à suivre ni la superstition qui croit tout, ni le pyrrhonisme qui ne croit rien; croire tout est au-dessus de la raison et ne croire rien est au-dessous; la superstition rend un homme fou, et le pyt-
rhonisme en fait un furieux: je cherche un juste milieu».
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delaube
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pense donc je suis, et sans me mettre plus en peine de savoir ce que je suis, ce qui est impossible, il suffit que je sois convaincu de mon existence pour étre obligé d’en rechercher l’auteur. Je vois bien qu’il faut sortir de chez moi pour être en état de faire cette découverte», La découverte de Dieu qui suit donc immédiatement la reconnaissance de Pexistence de l’ime humaine n'implique en rien la saisie intuitive de leur essence,
qui est destinée à rester inconnaissable étant donné les bornes naturelles de l’esprit humain®. Reprenant le principe métaphysique de Geulincx selon lequel «il est impossible qu’on connaisse une chose si on ignore comment elle est faite» (impossibile est ut is faciat qui nescit quomodo fiat)’, Delaube en conclut que l'esprit humain ne peut parvenir à se connaître puisqu'il ne sait pas comment il a été fait’. Quant à la nature de Dieu, elle outrepasse absolument les faibles capacités de notre raison.
C’est pourquoi, dans le chapitre 2 de la deuxième partie du manuscrit, Delaube refuse toute théologie analogique fondée sur l'attribution à Dieu de caractéristiques proprement humaines qu’il suffirait d’hypostasier pour les diviniser, permettant par là une connaissance minimale de l'essence divine. L’infinité même lui est refusée au nom de la différence radicale entre essence divine et nature humaine, d’où découle
une sorte de théologie négative assez originale pour l’époque. L’on n’a point d’idée positive de Dieu, et l’on ne peut raisonner à fond que suivant idée qu’il a Lui seul de son essence. Cette idée parfaite nous est entièrement inconnue, et c’est cette ignorance qui nous le fait appeler infini. L’infinité n’est pas proprement un attribut de Dieu, c’est un terme négatif qui veut dire un être sans borne. Je ne
> Ibi, II, 1, 7-8. Même idée plus haut (II, 1, 3) fondée sur la preuve par les effets: «Je suis bien sur
de l’existence de ce principe intérieur, et de cet être pensant, mais je ne puis le trouver ni le connaître. Comment en juger donc? Je ne saurais le faire par son idée, qui m’est inconnue. Il ne me reste donc que les effets qui me donnent moyen de juger de cet être pensant. Ce jugement est déjà prononcé, il me paraît sans appel, la raison a été son juge et je ne vois point de tribunal parmi nous qui soit audessus de la raison». ° Ibi, Préface, 3: «Je suis convaincu de mon existence, et de celle d’un Dieu, d’un Dieu infiniment plus
grand et plus majestueux que celui que les religions respectent, sans connaître pourtant la nature de ce
Dieu ni ma propre substance». 7 7 Cité par V. Vander Haeghen, Geulincx. Etude sur sa vie, sa philosophie et ses ouvrages, Gand 1886, pp. 52-53. A dire vrai, cet argument se trouvait déjà chez Sanches, tout comme la critique de l’attribution à Dieu de qualités purement humaines, même s’il est peu probable que Delaube ait trouvé ces deux éléments chez Sanches. Voir, à ce propos, l’article instructif de G. Paganini, Montaigne, Sanches e la conoscenza attraverso ifenomeni. Gli usi moderni di un paradigma antico, in M. De Caro et E. Spinelli (eds.), Scetticismo.
Una vicenda filosofica, Roma 2007, en particulier p. 70. | “NÉ 8 Réflexions morales et métaphysiques, Il, 2, 22: «Je sais que la capacité de Pouvrier surpasse infiniment
celle de l’ouvrage, et que pour faire un ouvrage sensible et raisonnable, il faut la sapasità infinie de
Pouvrier. La créature ne peut se connaître sans avoir l’étendue de cette capacité qui la formée, sans avoir ce principe universel, cette voie cachée qui forme et qui unit tant de prodiges. La créature ne peut atteindre à cette hauteur, elle ne peut donc absolument se connaître».
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x puis pas savoir positivement ce que Dieu est, je puis dire seulement ce qu’il n’est pas [...] L’infini ou ce qui n’a point de fin est donc ce qu’on ne peut comprendre dans l’étendue de l’imagination, car, encore un coup, je ne puis raisonner de Dieu que sur des idées négatives; c’est ce qui m’empéche de savoir ce qu’il est positivement’. Une fois admise la réalité de Dieu et de l’âme, cette dernière étant contrainte de reconnaître un principe rendant compte de son existence, ce qui rend l’athéisme logiquement impossible", il faut délaisser le lieu du connaissable et évaluer le reste
des connaissances humaines. C’est à ce niveau que la méthode de Delaube hésite entre pyrrhonisme et académisme. Le début du texte penche plus généralement en faveur du recours à la suspension du jugement devant'les mystères qui dépassent les faibles capacités de l’esprit humain avant de céder la place à une réflexion au sein de laquelle la notion de vraisemblance devient au fur et à mesure essentielle au procédé argumentatif. En effet, entre le connaissable et l’inconnaissable, il existe un domaine, celui du vraisemblable, qui permet des réflexions ontologiques fondées sur l’analyse rationnelle et visant à dégager un degré de probabilité permettant de trancher entre deux positions métaphysiques inconciliables. Au début du manuscrit, le choix entre matérialisme et idéalisme semble impossible, notamment en ce qui concerne un problème essentiel hérité du cartésianisme, à savoir le rapport entre idées mentales et choses physiques perçues. i
La vue de tous ces objets visibles que j'appelle soleils, terre, planètes, hommes, animaux, fait-elle partie de ma substance, ou est-elle distincte de ma personne ? Si j’interroge mon esprit, il m’apprend qu’ils ne sont que des sensations de lui-même, les sens me disent le contraire. Comment comprendre que tout cet univers sensible ne soit que mon esprit modifié, ou qu’il en soit distinct ? L’un et l’autre sentiment sont également incompréhensibles, et font voir que nous portons un fonds d’ignorance incapable de rien nous apprendre de clair sur la nature de ce monde qui sera toujours pour nous une énigme impénétrable!!,
° Ibi, II, 2, 14-15. !° L’athéisme apparaît bien comme absurde à Delaube: «Les prétendus athées ne le sont que des lèvres. Il est certain que leur coeur et leur esprit parlent un langage différent de celui de leur bouche. Ils sentent intérieurement une domination divine que leur orgueil et leur libertinage leur font désavouer, et dont la présence se fait partout apercevoir par les effets qu’elle produit au dehors, par la faiblesse de
leurs actions, et par la dépendance où ils sont de tous les objets qui les environnent. L’athéisme étant une pure chimère, il s'ensuit évidemment que cet aveu de l’existence d’un Dieu est absolument invincible
[...] L’adoration de Dieu ne consiste pas dans la pratique de certaines actions et de quelques postures inventées par les hommes, elle ne se trouve que dans l’aveu intérieur et invincible de notre bassesse, et des grandeurs infinies de l’ètre qui nous gouverne souverainement» (II, 4, 58). " Ibi, I, 3, 43-44.
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delaube
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À ce niveau, les arguments apparaissent équipollents, et, dans des cas de ce genre, Delaube préfère se contenter d’un appel à la suspension du jugement et à la reconnaissance des bornes de l'esprit humain”? Il en va de même pour ce qui concerne les erreurs des sens. Après avoir reconnu que c’est l'esprit qui perçoit et non les sens, qui ne sont que des instruments à son service!?, Delaube reprend
l'exemple sceptique du bâton droit qui apparaît courbé dans l’eau pour signifier la relativité perceptive, afin de montrer que c’est à l’entendement de rectifier la
perception sensible. Mais la difficulté est d’un autre ordre quand ce ne sont pas les sens qui se contredisent, mais l'information qu'ils livrent qui contredit l’enseignement de la raison, comme
dans le cas de la mobilité de la terre, admise par
l’entendement, et niée par les sens. L’épochè semble encore la meilleure conseillère et Delaube de retrouver cette solution à propos de la nature animale en refusant de se prononcer sur l’essence du principe vital qui l’anime, qui pourrait tout aussi
bien être spirituel que matériel!*. Mais il s’agit là d’une première étape, qui conduit à reconnaître les limites de la raison et non sa totale impuissance. Pour reprendre Pexemple de l’animal, toute une argumentation est développée par la suite pour critiquer le mécanisme cartésien dont les conséquences sont lourdes au plan onto-
logique, puisque cela conduit à faire de l’homme une machine à son tour". Or, la thèse de l’animal-machine a ses limites, qui sont celles du mouvement délibéré et
réfléchi, et la vraisemblance conduit à préférer l’animisme à l’automatisme. On ne conçoit dans le monde que deux principes de mouvements, l’un de matière ou d’impulsion, c’est celui qu’on appelle machinal, l’autre de sensation et de raison,
12 Ibi, I, 2, 32-33: «Tous les objets sensibles et visibles sont dans l’âme, attendu qu’ils en sont des
sensations. Nous voilà jetés dans un gouffre de ténèbres car je conclus de tout cela que [...] la rivière, le rivage, la terre, les astres, les cieux, tout le monde visible n’est que l’âme diversement modifiée |.J
Si Pon dit au contraire que tous les objets visibles sont des étres entiérement distincts de notre esprit, qu’on m’apprenne la maniére avec laquelle notre esprit les voit. Je défie tous les philosophes de la terte d’apporter là-dessus une raison claire et solide. Tout ceci prouve assez que l’esprit de l’homme est bien peu de chose, et qu’il voit bien obscurément dans la nature de ce monde, ses connaissances n'étant
que fumée et vanité».
me
13 Thi, I, 2, 30: «Les sens sont des propriétés essentielles à l'esprit, le corps est sourd de lui-même,
aveugle et insensible. C’est l’esprit uniquement qui entend, voit et sent, par l'entremise des organes corporels, comme nous voyons un ciron par le moyen d’un microscope. On ne s’est jamais avisé de dire que cet instrument eut la faculté de voir, quoique sans son secours on ne puisse voir un petit objeb. 4 Jhi, I, 4, 51-52: «Cet instinct, cette source de vie, de tant de mouvements réglés, est-elle un esprit
ou simplement de la matière? Si ce principe est matériel, il n’y a donc que de la matière en se alors comment concilier des effets si admirables avec une pure machine? Suivant cette supposition, n’aurai-je
pas sujet de craindre pour moi-même? Car, après tout, je ne vois pas que ma conduite soit plus digne
d’admiration que celle des animaux. Si, au contraire, ce principe est un esprit, de quelle nature A de
quel ordre est-il donc? Quelle en sera la destinée? L’immottalité lui convient-il? Ou la mortalité? Je à n’en sais rien». 15 Cfr. ibi, I, 7, 94-95.
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all’Illuminismo 3
&
x c’est celui qu’on appelle sensible et raisonnable. Le premier principe se trouve dans toutes sortes de plantes, de machines et d’animaux — la circulation de sève dans les
plantes, du sang dans les animaux, le mouvement du cœur, des poumons et de plusieurs autres parties sont les effets de ce premier principe impulsif —, mais la détermination d’une infinité d’autres mouvements que je remarque dans les animaux ne
peut provenir de ce principe seul. Il faut, ce me semble, avoir recours aux principes sensibles et raisonnables!°.
Le choix qu’effectue Delaube ici en faveur d’une attribution à l’animal d’un potentiel de raison et de sensation au nom d’une plus grande vraisemblance rompt donc avec le pyrrhonisme de départ, sans cesse critiqué.à titre de dogmatisme, et le conduit à adopter une position académicienne. En métaphysique, Delaube choisit désormais d’argumenter pro et contra afin d’évaluer la justesse des deux options qui lui paraissent possibles, idéaliste et matérialiste, et considère à chaque fois que l'hypothèse idéaliste l'emporte sur sa concurrente, cette dernière semblant ne pas posséder d’arguments solides en sa faveur. À l'inverse, l’idéalisme paraît reposer sur une série de raisons suffisantes pour en justifier l'adoption. La démonstration de cette supériorité passe logiquement par une critique de la notion de matière dont la réalité n’est en rien prouvée, à supposer qu’elle puisse l’ètre!”. Le premier argument présenté par Delaube contre l’existence de la matière, qu’il emprunte peut-être à l’abbé de Lannion, est celui de la simplicité des voies. Une fois reconnue l’existence de Dieu et celle de l’âme, quel rôle attribuer encore à la matière si on s’accorde sur le fait qu’elle ne peut produire dans l’esprit la moindre idée? Si Dieu est cause des idées et des sensations, quelle fonction concéder à une substance inefficace, devenue par le fait même inutile? L'hypothèse idéaliste a également comme avantage indéniable de couper court aux deux difficultés essentielles du dualisme, l’action réciproque de l’âme sur le corps et du corps sur l’àme et le rapport existant entre idées spirituelles et objets matériels. Les beautés apparentes de cet univers sont tout autre chose que les corps. Supposé qu’il y en ait, elles peuvent subsister indépendamment de cet être corporel. Il est donc inutile, et même ridicule, de reconnaître son existence. On ne doit pas multiplier les êtres sans nécessité. Il n’est point de milieu: tout est Dieu et esprit, les esprits sont
en Dieu, et ce monde visible n’est qu’un faible rayon de la divinité!’.
16 Ibi, 1, 7, 98-99. 17 Ibi, Préface, 6-7: «Niez l’existence des corps en présence d’un physicien, ou d’un médecin, vous
serez regardé comme un homme qui n’a pas le sens commun, ce n’est pas qu’ils soient parfaitement convaincus de l'existence de la matière, car il faut de puissantes preuves pour former cette conviction entière, je puis même avancer qu’il n’en est point». * Ibi, II, 9, 164-65. Voir également I, 8, 108-109: «Qu’y a-t-il de plus bizarre et de plus imparfait que la conduite qu’on attribue au maître souverain de cet univers par rapport à cette matière? On avoue que
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delaube
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Le second argument s’en prend à l'essence de la matière. Comment concevoir une telle substance? Faut-il l’imaginer autonome ou dépendante vis-à-vis de l’action divine? Dans le premier cas, faire de la matière une entité indépendante du pouvoir divin, ce serait en faire une substance libre, en quelque sorte égale à Dieu, ce qui est absurde dans un cadre moniste. Dans le second, la rendre dépendante de Dieu,
comme le proposent les partisans de l’occasionnalisme, n’est guère plus probant, car cela revient à complexifier à l’envi le modèle causal. Mieux vaut reconnaître le caractère incompréhensible de cette substance prétendument existante et le mystère de l’action divine afin d’en venir à adopter l’hypothèse la plus vraisemblable. L'idée prétendue que nous avons de la matière ne provient que d’un jugement faux
et précipité qui nous fait prendre le change dans les différentes représentations de notre cerveau. Au lieu donc d’appeler corps cette idée visible de l’étendue, ou l’objet invisible et matériel qu’on lui fait supposer, nous pouvons la reconnaître sous le nom d'esprit simplement, car il y a bien plutôt apparence que ce monde visible n’est que cet esprit universel qui nous affecte tous, et qui se manifeste diversement à nous du
côté seulement de son immensité”.
Le troisième argument s’en prend au fondement du matérialisme épicurien et rejette l’idée d’un monde issu d’une combinaison d’atomes produite par hasard. Si le hasard était l’explication de l’ordre du monde, alors il devrait encore être la seule cause à l'œuvre dans l’univers. Ce qui veut dire que le règne de Paléatoire pur devrait se manifester et non celui de l’ordre et de l’harmonie. Or, le monde paraît organisé, les monstres n’étant que l'exception, et dépendre d’une intelligence qui lui donne ses lois et sa régularité, ce qui va contre l’hypothèse du hasard comme fondement ontologique du vivant et de l’inanimé. C’est donc cet être que je regarde comme l’auteur de ma substance, et que j'appelle Dieu, le maître souverain de toutes les créatures. Cet être ne tient rien du hasard ni
la substance corporelle ne peut se mouvoir d’elle-même, que c’est son auteur qui la met en mouvement. L’on veut donc que toutes les fois qu’il a dessein de produire dans l’âme une telle sensation, ilait coutume de mouvoir auparavant la matière, et de former ensuite des sentiments dans l’âme. Pourquoi ce contour? C’est un circuit ridicule et tout à fait inutile [...] S’il est nécessaire d'établir un principe permanent et des causes occasionnelles de nos sensations, ne serait-il pas mieux d’avoir recours à l’immensité de cet être universel qui nous affecte tous qu’à l'étendue matérielle qui ne peut rien sur les désirs de l'esprit et sur ses modifications, mais seulement sur le mouvement particulier de cette étendue corporelie? Pourquoi les désirs et les sentiments ne seraient-ils pas réciproquement causes occasionnelles les uns des autres? Cela paraît plus simple et plus net». P'asesn 19 Ibi, I, 8, 111. L’existence du monde renvoie donc à la vision que Dieu en prend: «La divinité ne
voit pas les êtres ni leurs manifestations parce qu’ils subsistent, si cela était ils devraient preckdas sa vue, mais ils ne subsistent que parce qu’elle les voit. Il y a un rapportessentiel entre la vision d’un Dieu et l'existence d’un objet, l’un ne peut pas exister sans l’autre» (II, 3, 31).
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de l’aveuglement; l’ordre permanent et admirable qui règne dans cet univers et dans toutes ses parties ne saurait être l’effet du hasard ni d’un être inférieur et aveugle”. Dernier argument proposé par Delaube, celui de la puissance. Si Dieu est acte pur, puissance pure, à quoi sert une matière totalement différente de lui, sans pensée
ni sentiments, et qui échapperait donc à sa domination. Ou bien Dieu exerce sa puissance sur elle, ou bien il ne le peut pas, alternative qui rappelle la critique épicurienne de la toute-puissance comme attribut divin. Si Dieu ne peut agir sur la matière, c’est qu’il n’est pas tout-puissant et qu’il existe quelque chose échappant à son pouvoir,
c’est-à-dire quelque chose d’aussi puissant que lui, ce qui, en bonne métaphysique moniste, est totalement absurde. S’il peut au contraire agir sur la matière pour produire les effets qu’il juge souhaitables, cela fait de lui un architecte brouillon qui a besoin d’un instrument extérieur à lui pour se manifester dans le monde, ce qui
revient une fois encore à borner sa puissance. Mieux vaut en conclure que nous ne dépendons que de Dieu et non d’une substance autre que lui, et c’est pourquoi
existence de la matière ne trouve aucune justification au niveau métaphysique. Le seul contenant réel est Dieu, et c’est de lui que les esprits dépendent. Les corps visibles, et non matériels, sont une portion de la divinité auxquels les esprits sont
liés, des machines qui fonctionnent suivant les lois fixées par la suprême puissance. Tout est bien sous la dépendance divine, corps et esprits, car.c’est Dieu qui règle les mouvements des corps et qui éclaire les esprits des hommes, qui modère leurs passions, augmentant ou diminuant par là leur bonheur. Nous sommes engloutis dans un point de vous-même, nous sommes enchaînés à une partie de cette immensité divine que nous appelons notre corps et par cette partie nous tenons à toute votre immensité. Nous roulons éternellement en vous-même et nous ne voyons jamais que successivement un rayon de votre divinité parce que nous ne pouvons vous comprendre tout entier [...] J'avais cru être dans un monde matériel et je suis dans un monde intelligible, immense, éternel et tout-puissant?!.
Dieu est le seul être dont l’essence consiste à agir nécessairement et en toute indépendance, tous les autres êtres n’agissant que par délégation et ne dépendant que de lui, des parties de son immensité que sont les corps qu’ils occupent et qu’ils délaissent pour passer dans d’autres corps. Le monde est toujours soumis à la vision de Dieu, il manifeste sa puissance, son immensité et son infinité que nous pouvons sentir et apercevoir mais non comprendre car cela surpasse ce que nous
20 Ibi, II, 1, 10. 2! Ibi, II, 9, 165 et 171. Voir aussi II, 10, 186-87: «Nous sommes en Dieu et pat conséquent dans un paradis éternel. Il n’en est point d’autre; celui qu’on imagine est un fantôme».
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delaube
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pouvons observer. Pour Dieu, tout est à la fois présent et connu, Dieu voyant les êtres en eux-mêmes, dans l’étendue de leurs perfections. La différence entre Dieu et les esprits finis ne se joue donc pas au niveau de l'éternité mais de la puissance. Ce qui veut dire que le monde est coéternel à Dieu même si les êtres spirituels qui l’habitent l’envisagent seulement sous un mode temporel, alors même qu'ils sont eux aussi éternels”. Tout cela laisse espérer un salut post-mortem, évoqué à plusieurs reprises par Delaube sous la forme d’une série de réincarnations ou d’un
retour au principe originel”. La toute-puissance divine justifie donc le fait que tout est présent de toute éternité à Dieu, que celui-ci voit toutes choses au niveau de leur existence et non
de leur essence”, et que le possible n’a de réalité que pour les êtres finis qui ne saisissent pas le caractère nécessaire de l’enchevétrement des causes mondaines car Dieu est à chaque instant actif pour la raison simple que la perfection ultime réside dans un être toujours en acte et jamais en puissance. Création et annihilation apparaissent dans ce cadre impossibles, puisque cela reviendrait en quelque sorte à affaiblir la vision divine sur laquelle repose l’existence du tout, et dont l’immuabilité suppose la permanence dans l’être d’un monde qui lui est éternellement présent en réalité et non en pensée”. Mais l’adoption de cet idéalisme extrême ne va pas sans poser problème, puisqu’il faut expliquer les rapports entre un être présenté comme infini et éternel, dont
hr, II, 2, 23: «Puisque vous êtes seul, mon Dieu, tout doit vous être réellement présent et par-
faitement connu [...] Vous voyez également passer le futur et le présent, tout subsiste en présence de votre infinie majesté. Vous voyez toutes nos pensées, nos désirs, nos sentiments, nos actions. Toute l'étendue de notre être vous est présente, et nous ne la voyons qu’en partie [...] Il est de ma nature d’être nécessairement borné [et] de ne me voir qu’en partie et successivement». 2 Ibi, II, 2, 23: «Ce n’est pas par mes pensées et mes sentiments successifs que je juge de mon éternité,
c’est par l’immuabilité de la vision divine, en présence de laquelle toute la propriété des objets demeure dévoilée et immuable, et dont les créatures ne s’aperçoivent que successivement, à cause des bornes étroites de leur capacité, de sorte que notre éternité ne consiste que dans une révolution continuelle de vies différentes dont nous perdons le souvenir par la perte de notre machine, et par la succession d’une nouvelle où nous commençons une autre vie. Ainsi nous volons pour ainsi dire de monde en monde et nous nageons éternellement dans l’immuabilité divine». % Ibi, II, 2, 19: «Tout vous est réellement présent de toute éternité et [...] vous ne voyez pas seulement les êtres en vous-même comme modèles ou archétypes de toutes choses, mais encore en eux-mêmes
et en leur propre substance». | 25 Ibi, II, 2, 20: «La présence réelle des objets touche plus, frappe davantage que l’idée qu'on en a, et si votre vision est sujette à voir les objets réels et à les perdre de vue, elle doit être susceptible de changement. Mais ce ridicule disparaît dès que nous supposons votre vision immuable à tous les nie dans une existence éternelle. Il ne doit pas vous être plus difficile de connaître l'éternité des objets que l'éternité de votre nature, [car] ils subsistent depuis que vous êtes, ils sont pour ainsi dire éternels avec vous, parce que vous êtes toujours égal à vous-même et que votre vision est éternellement immuable. Tout doit encore subsister éternellement; pouvez-vous anéantir ce que! vous voyez? Pouvez-vous diminuer
Pimmensité de votre vue? En un mot, pouvez-vous cesser de voir réellement ce que vous voyez?».
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la puissance apparaît absolue, et un étre fini et limité, qui semble lui étre totalement soumis. Que devient la liberté humaine dans un univers totalement déterminé
par l’esprit divin? Et comment penser une éthique véritable si Dieu seul est Petre agissant? Ces deux questions sont au cœur des Réflexions morales et métaphysiques où Dieu est présenté comme activité pure, puissance et acte s'équivalant en lui, et le monde comme entièrement dépendant de sa puissance. Le libre arbitre n’est donc qu’une illusion, les hommes se pensant libres parce qu'ils ne connaissent ni le caractère véritable de Dieu, qui connaît et fait tout, ni les ressorts passionnels qui
déterminent leur conduite. Il est constant que je suis votre ouvrage, mon Dieu, que vous avez formé en moi une
infinité de passions qui m’agitent, dont le mouvement fait toute ma vie. Le reste de ce mouvement m'est inconnu, et il est devant vous, toutes mes inclinations vous sont réellement présentes, elles ne se développent en moi que les unes après les autres. À
chaque instant, je ne fais que remplir ma destinée; c’est pour dire un développement de mon sort.
Si les décrets divins sont inflexibles, éternels et irrévocables, la notion de péché
perd tout son sens car comment Dieu aurait-il accordé à certains êtres le pouvoir d’aller contre sa volonté? Prétendre qu’il tolère le péché au nom d’une volonté permissive, c’est lui reconnaître une sorte d’indifférence, c’est-à-dire une forme d’imprévoyance et de faiblesse, Dieu se voyant contraint d’attendre les choix des hommes pour agir. C’est faire Dieu à l’image de l’homme et penser que ce dernier peut l’offenser ou lui plaire, image qui flatte les passions humaines, alors que la raison conduit à postuler le caractère nécessaire de l’action divine et à reconnaître que la liberté n’est rien d’autre au fond que l’ignorance du futur, ignorance qui fait croire aux hommes qu’ils ont le pouvoir de le déterminer autrement qu’il n’a été prévu par la providence divine. C’est [Dieu] qui veut dans les créatures. Elles ne peuvent rien vouloir par elles-mémes, elles ne sont qu’un faible instrument qui ne remue qu’autant qu’il est poussé. Il peut tout à l’aide du Très-Haut, et, en ce cas, ce n’est jamais que le Très-Haut qui le pousse, le remue, lui inspire des sentiments, des pensées, lui cause des douleurs, des
plaisirs, le jette dans la misère, l’élève dans la fortune. Enfin, ce n’est qu’un roseau agité au gré de la providence”. * Ibid., II, 3, 32. Voir également II, 5, 84: «Dieu a bien donné aux bipèdes un pouvoir d’agir, qui n’est rien dans le fond de réel et de distinct de Dieu même. Ce n'est jamais que la volonté divine qui pousse et anime notre esprit et qui nous fait apercevoir successivement de nos différentes sensations qui paraissent éternellement en présence de son immensité. Notrè volonté ou notre esprit abandonné de la volonté divine se trouve sans force et sans mouvement; il est semblable à l’instrument d’un ouvrier dont la main lui donne toute la force».
2 Ibi, II, 5, 95.
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delaube
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Pourtant, ce déterminisme absolu s’assouplit parla suite quand Delaube prétend réintroduire au plan éthique une part de liberté inexistante au plan métaphysique, ce qui paraît contradictoire, contradiction que l’avertissement placé en téte de la seconde partie tente de justifier tant bien que mal, comme l’a noté àjuste titre Miguel Benîtez*. Mais la préface déjà signalait la difficulté, puisque Delaube y indiquait la problématique conciliation du rejet du libre arbitre avec la possibilité d’un cheminement éthique conduisant à la vie heureuse, évoqué au chapitre 8 de la seconde partie, fondé sur les «conseils salutaires qu’il donne à suivre»”. Reste à savoir si
cette préface et l’avertissement de la seconde partie sont bien de Delaube, ce qui indiquerait qu’il aurait perçu la difficulté qu’il évoque, ce qui n’est pas certain. Pour la préface, on peut penser que des ajouts postérieurs ont été faits par des copistes: j'en veux pour preuve que l’ordre des chapitres évoqués ne correspond pas à l’ordre réel du manuscrit, que l’adoption de la première personne du singulier est tout à coup remplacé par une étonnante formule impersonnelle qui mentionne d’auteur du manuscrit", et que le rôle de la raison est largement surévalué par rapport au reste du texte. Quant à l’avertissement, qui renvoie d’ailleurs à la préface de la première partie sur cette question, on peut être tout aussi suspicieux à son égard, d’autant plus qu’il évoque Dieu sous la forme du Créateur’', ce qui est plus que suspect dans un cadre immanentiste. En effet, le manuscrit emploie plus généralement les formules de fabricateur ou d’auteur de la nature, la relation entre Dieu et le monde
# M. Benitez, Liber ebendus de religion abolenda: Réflexions morales et métaphysiques sur les religions et sur les connaissances de l'homme, in «Lias», XVII, 1990, p. 171. Voici le texte de l’avertissemnent du début de la
seconde partie où l’on peut lire qu’il «faut [...] redoubler son attention à la lecture du huitième chapitre de cette seconde partie; il paraît contradictoire avec le troisième chapitre de la liberté et il ne l’est point dans le fond. Dans ce huitième chapitre du philosophe heureux, on expose plutôt les vertus qui caractérisent le philosophe honnête homme, qu’on ne prétend donner des maximes sûres pour le devenir. Tout homme un peu méditatif sent qu’on ne peut le devenir qu’autant que l’auteur de la nature a mis en nous un germe propre à éclore à la lecture de cet ouvrage. Il est assez reconnu que les remontran-
ces les plus fortes et les préceptes les plus sages ne réforment pas les méchants, la sévérité des lois en fait tout au plus des hypocrites. Il suit de là que chacun n’agissant qu’en vertu des sentiments et des facultés que le créateur lui a donnés, on ne peut faire ni mieux ni plus mal, de sorte que celui qui aura Pheureuse disposition sera emporté à la lecture de cet ouvrage par un doux charme à la pratique des vertus et qu’un autre qui en sera privé restera insensible; tous les deux accomplissent néanmoins les décrets du tout-puissant». » Ibi, Préface, 3. , mi # Toute la page 12 de la préface est douteuse, et pas seulement la référence à da vue principale de l'auteur [qui] est de se faire un système de vie heureuse». En effet, si Delaube avait réellement choisi de faire publier son texte par Leers, comme le rappelle Miguel Benitez, pourquoi donc mentionner quelques lignes plus haut qu'il s’agit d’un manuscrit? 31 Une seule autre occurrence du terme «créateur» pour désigner Dieu se retrouve dans le manuscrit,
en II, 10, 189, mais il est possible que ce chapitre ne soit pas de: Delaube comme le soupgonnait déjà Miguel Benitez.
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étant celle d’un ouvrier avec son ouvrage”, et évoque l’univers sous la forme d’un
grand vivant” tout aussi éternel que celui qui en est l'architecte”. Mais ces ajouts ne rompent pas pour autant la logique du texte. Malgré le poids des passions qui nous déterminent à agir, dont la lascivité semble être la plus forte,
et la force de l’amour propre qui est la grande loi de l’espèce humaine, Delaube évoque bien dans le problématique chapitre 8 de la seconde partie la possibilité de régler tant les passions que l’amour propre, mais il le faisait déjà de manière allusive au chapitre 6. Dans ce cas, ce qu’il appelle d’amour propre bien entendu»”, à savoir la vertu, consiste dans la modération des passions et dans une vie honnête et sage,
débarrassée de tout excès pour éviter les aléas que les comportements débridés entraînent avec eux, ce qui conduit à être prudent et à faire de la maxime libertine « Au-dedans selon ton gré, au-dehors suivant l’usage » un principe nécessaire. D'où la critique des comportements vicieux et outranciers fondés sur des préjugés qui font prendre des maux pour des biens et distillent dans l’esprit une crainte permanente de se voir enlever ce que l’on a acquis, et en particulier du libertinage de mœurs dénoncé à de nombreuses reprises au nom des inquiétudes inutiles qu’il occasionne et des faux plaisirs physiques qu’il encourage et qui conduisent à gravement perturber l'équilibre corporel". D’où, aussi, l’insistance sur la nécessité de maintenir le lien religieux pour la plupart des hommes, incapables de s’en passer,
et pour qui il est préférable de conserver l’idée de châtiments post-mortem pour garantir une certaine sécurité publique.
Dieu est qualifié de fabricateur de l'ouvrage du monde en I, 1, 21 et d’auteur de la nature en I, 8, 130. * Sur le monde qualifié dans des termes leibniziens de grand vivant, cfr. I, 3, 42-43: «Tout vit dans
la nature, il n’est pas même jusqu’à la mouche et à la plante la plus imperceptible qui n’ait la qualité de créature vivante. Il est naturel de conjecturer l’existence de ces sortes d’habitants parce qu’il est juste et bienséant de se former une idée la plus sublime et la plus relevée d’un ouvrage dont l’auteur est infiniment parfait. Et quoi de plus beau que cette infinité de mondes, de soleils, de planètes habitées et de créatures de toutes espèces? Tout cela porte un caractère de divinité qui nous remplit d’admiration et nous jette dans le ravissement». * Ibi, Il, 2, 21: «Que pouvez-vous voir qui soit différent de vous, si ce n’est votre ouvrage? N'est-ce
point ce monde visible? Ne suis-je pas moi-même votre ouvrage? Votre ouvrage est donc immortel, il ne saurait échapper à votre vue qui est immuable; il est aussi éternel». Expression qui n’est pas sans rappeler «l'amour propre bien réglé» de Mitton ou d’honnéteté de Meré. Voir, à ce propos, S. Sportelli, Ægoiswo metafisico ed egoismo morale. Storia di un termine nella Francia del Settecento, Pisa 2007, pp. 120-122.
* Voir le portrait inversé du philosophe en II, 8, 154: «On voit encore le philosophe sans brutalité dans les plaisirs. À table, son caractère de modération tempère si bien les aiguillons de la volupté qu'il jouit librement des mets et des liqueurs sans passer à l’intempérante. Il mêle quelquefois un doux entretien avec cet usage nécessaire de la vie, en quoi il diffère bien de ces mangeurs avides qu’on ne voit occupés que du soin de remplir leur ventre, trop peu éclairés pour sentir que l'excès dans les plaisirs altère les passions et détruit la santé».
Métaphysique et éthique clandestines: le cas Delaube
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L’honnéte homme, le sage ou philosophe éclairé du chapitre 8, est celui qui
est parvenu à comprendre l’ordre des choses et à se débarrasser par là même des craintes concernant sa vie future. Il a compris qu’il ne peut modifier les lois de Punivers mais seulement s’y adapter, faisant siens les principes fondamentaux du stoicisme qui le conduisent à mépriser les coups du sort.
Est-il mal partagé de la fortune? La médiocrité lui suffit. Un peu de nourriture et de sagesse suffisent à un homme sensé et raisonnable. Ses nécessités ne vont pas plus loin et il n’a pas la folie de les multiplier par une ambition ridicule. Il est riche dans sa pauvreté parce qu'il ne souhaite rien. Un effort d’esprit et de méditation le rend content de son sort, lui fait porter sur son visage une sérénité d’esprit qui prévient en sa faveur et qui est une marque sensible de la tranquillité de son âme”.
La suite du chapitre roule encore sur des éléments stoïciens. Une fois parvenu à la sagesse, le philosophe possède naturellement toutes les vertus: riche, il ne fait pas ostentation de ses avoirs; commerçant, il borne ses espérances et la taille de son négoce et sait se ménager des moments de repos pour autrui et pour lui-même; amant, il sait se montrer doux et prévenant; fils, il se doit d’être respectueux; père ou frère, il se dévoue pour les siens; officier, il est courageux et prudent à la fois; prélat, il se montre modéré et charitable; magistrat, le voilà juste et équitable; enfin, placé sur le trône, il conserve sa modestie et ne se soucie que du bonheur de ses sujets. Qu'il ait à quitter le pouvoir et il redevient le même homme qu'auparavant car la fonction occupée ne pouvait en rien affecter sa vertu. Tirez du trône le philosophe [...] c’est le même esprit, le même cœur. Il anime toujours ses actions d’un esprit d’amour et de sagesse, sa conduite est modeste sans affectation, il est vif sans étourderie, vigilant sans inquiétude, hardi sans insolence, affable sans
timidité, respectueux sans bassesse, complaisant sans flatterie, habile sans intrigue, adroit sans fourberie, généreux sans orgueil, occupé sans humeur, modéré dans les
plaisirs et constant dans tous les accidents fâcheux de la vie”.
37 Ibi, II, 8, 141-42. Voir aussi II, 8, 153-54: «Le philosophe est [...] sans ressentiment dans les acci-
dents de cette vie. Et pourquoi sortirait-il hors de lui méme? Ignore-t-il que les coups de la fortune sont infaillibles? N’est-il pas assez prévenu contre tous ses traits? Il prévient comme d'un coup d'œil tout
ce qui peut lui arriver de fâcheux, et à immobile [...] Une âme de ce caractère la destinée même. Elle jouit sans cesse en elle-même tout ce que l’adversité et
chaque destinée qui se développe à sa vue ildemeure ferme et est au-dessus des assauts de la fortune et triomphe toujours de d’une joie secrète et mesurée, c’est cette joie qui contrebalance n la prospérité peuvent avoir d’extraordinaire».
38 On trouve une description quelque peu similaire chez Mitton, Pensées sur l'honnétete, in Œuvres mélées de Saint-Évremond, Paris 1680, t. VI, p. 8: «L’honnête homme remplit tous les devoirs: il est bon sujet, bon mari, bon père, bon citoyen, bon maître; il est indulgent, humain, secourable et sensible aux malheurs des autres». 4
DIE, 18,0159:
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&
Le portrait tracé ici du philosophe éclairé est bien sûr un idéal, et Delaube
sait tout aussi bien que les Stoiciens la difficulté de parvenir à un tel état de sagesse. L'essentiel est de mettre ses lecteurs sur la voie et de leur indiquer le chemin du véritable bonheur, et la vraie motivation de la rédaction des Réflexions morales
et métaphysiques est bien de suivre l’enseignement de la raison afin de parvenir à la seule félicité qui vaille“. Seulement, à aucun moment n’est évoquée concrètement la solution qui permettrait de réduire la tension existant entre un nécessitarisme
métaphysique et une éthique de la responsabilité. Les deux plans paraissent bel et bien incompatibles, et la notion de mérite, qui est postulée au niveau éthique, de-
vient pure illusion au niveau métaphysique. Ceci est d’autant plus vrai que Delaube reconnaît que la providence divine a hiérarchisé les hommes entre eux, attribuant aux uns des privilèges matériels, aux autres des avantages d’ordre spirituel*. Et comme Dieu agit toujours, c’est lui qui éclaire tantôt l’esprit des uns, tantôt celui des autres, ce qui contribue une nouvelle fois au nécessitarisme absolu. Dieu seul est visible, éclatant, majestueux. Lui seul est notre maître et nous gouverne
tous souverainement. C’est ainsi qu'il vous plaît, Seigneur, de diversifier la vie des êtres vivants [...] Vous comblez [les uns] de biens et de richesses et vous vous éloignez de leur esprit, pour ainsi dire, [et] vous les laissez dans l’aveuglement et dans
la tyrannie des préjugés. Vous vous approchez plus intimement des autres du côté de lesprit, vous éclairez leur entendement, vous modérez leurs désirs et vous les rendez comme indépendants des objets sensibles, [...] vous diminuez leur esclavage et augmentez leur félicité”.
Reste à savoir si l’action divine est médiate ou immédiate. Or, tout laisse à
penser que cette action est médiate, c’est-à-dire que c’est par la réflexion de chacun sur sa condition et sur la spécificité de la nature divine que se produit une sorte de transformation intérieure, certes initiée par Dieu, mais qui n’en est pas moins propre à chacun. Si les hommes ne sont pas responsables des pensées et des sentiments qui les affectent, ils le sont néanmoins de ce qu’ils en font. Il me semble que la conciliation des plans métaphysique et éthique est à chercher de ce côté, dans le sens d’une utilisation de cet instrument divin qu’est la raison pour parvenir peu à peu à maîtriser les passions, voire à les transformer et à faire de la quête de la
4°Ibi, II, 6, 112: Je n’ai point à mon tour, dans cet ouvrage, d’autre motif qui me fasse agir que la
vue de vivre heureux et d’éclairer mon esprit; c’est là le seul ressort qui m’agite». 4! Ibi, I, 2, 24: «Il faut savoir que la même cause qui nous met en ce monde, et qui distingue les hom-
mes dans la possession des biens terrestres, les distingue aussi par la qualité de leur esprit, en rendant les uns plus heureux que les autres, ou par l’abondance des biens, ou pat la noblesse de leur génie. Cette cause est pour nous un mystère impénétrable: c’est la providence divine».
4 Ibi, II, 9, 169-170.
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vérité la passion dominante du philosophe. Si Dieu se caractérise d’abord et avant tout par son indépendance, alors c’est en visant une indépendance du même genre qu’on peut lui ressembler au mieux", d’où l'importance d’apprendre à réfléchir sur soi, à se connaître et à contrôler les passions indispensables à la vie humaine pour qu’elles servent le bonheur de chacun et non son malheur. Les hommes ont souvent des passions dominantes qui découvrent le fond de leur cœur, gâtent souvent le meilleur naturel et altèrent le tempérament le plus robuste.
Le philosophe n’est pas exempt de passions — il est impossible d’en être privé. Mais voyez la différence: sa passion dominante est de se rendre maître de ses passions. Il a donné le branle au penchant qui peut le rendre heureux et qui peut brider toutes les autres inclinations qui lui sont contraires. Cette passion dominante est l’amour de la santé et de la réputation d’honnête homme, elle l'emporte sur toutes les autres.
C’est par de solides réflexions sur ces importantes raisons qu'il a pris un si grand empire sur lui-même“.
En conclusion, on dira peut-être que cela ne résout en rien la question et que la contradiction perdure, et l’on aura raison. Viser la santé du corps et de l’âme revient au fond à favoriser ’amour propre bien entendu, c’est-à-dire à appliquer
du mieux possible la grande loi du monde des vivants, qui est de préserver son existence. Faire jouer la raison contre les passions, c’est utiliser un instrument divin contre un autre, et cette utilisation ne déroge en rien aux lois nécessaires de la providence divine. Proposer la voie de la sagesse à des « Ames bien nées », c’est
reconnaître qu’elles seules étaient capables de pouvoir l’emprunter, et accepter une différence ontologique irréductible entre ceux qui peuvent comprendre le message des Réflexions et ceux qui ne le peuvent pas. Malgré tout, il me semble pourtant que la nécessité métaphysique ne remet pas en question l'importance de la transformation éthique. Puisque les raisons de cette détermination nous échappent et que nous ne pouvons sonder l’avenir, l’essentiel est d’être heureux au présent en effectuant cette transformation intérieure, et en parvenant à y conduire autrui. La
43. Ibi, II, 10, 187: «Lui seul jouit d’une parfaite félicité, parce que lui seul est indépendant, immense et possesseur de sa propre nature. Il est donc naturel de suivre la nature et nos idées: la divinité nous y nécessite, la raison nous le permet et l'intérêt de l'amour propre bien entendu nous oblige à en faire un usage discret et modéré. Voilà notre véritable paradis». 4 Ibi, II, 8, 152-53. Voir également II, 8, 143: «Une partie de la félicité de "homme est de savoir se
contenter paisiblement dans sa sphère et de n’avoir que des désirs proportionnés à la mesure de son état et de sa puissance. Les attraits de la volupté ne suffisent pas à lui faire perdre de vue la présence de son esprit et de la raison. Il jouit des plaisirs avec modération et retenue, il sait que le véritable bien de l’homme est de ne jamais s’oublier, de ne jamais négliger la vigueur de son esprit et la force de son corps».
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transformation par l’écriture est tout autant une transformation pat la lecture, du moins pour ceux qui y sont aptes®: Cet ouvrage développant le cœur humain et faisant voir à nu tous ses défauts donne occasion à l’Ame de réfléchir sur elle-même, de reconnaître son état de bassesse, de surprise et d’aveuglement, d’en voir les conséquences fâcheuses, de prendre les
moyens de les éviter soigneusement, de se choisir un genre de vie et des délices. C’est alors que l’esprit, parfaitement convaincu, se rend maître du cœur de ses passions et de toutes les puissances de l’âme, se formant un heureux plan de vie et demeurant ferme dans ce parti qui est conforme aux lois de la nature“.
En un mot, les Réflexions morales et métaphysiques portent bien leur titre car les deux niveaux de connaissance sont indissociables même s’ils ne sont pas toujours compatibles*’. Mais l’essentiel est ailleurs, comme le rappelle Delaube: «ce n’est point ici un ouvrage dogmatique, je ne fais simplement que réfléchir, et je donne encore plus à pensem”’.
4 Ibi, II, 10, 177: «La lecture de cet ouvrage ne peut avoir qu’un heureux succès: ou le lecteur com-
prendra ces réflexions, ou non. S’il ne les comprend pas, elles ne sauraient tirer à conséquence pour lui, c'est comme s’il ne les avaient pas lues. L’enfer sera toujours pour lui une réalité. S'il les comprend, le voilà devenu plus sage que jamais, et incapable d’aucune méchanceté». * Ibi, TI, 10, 174. C’est nous qui soulignons.
‘7 La préface balaie de la main ce reproche qu’elle signale pourtant quelques lignes plus bas: «Je ne me contredis point dans le fonds essentiel des choses, une même idée règne partout et me sert de guide dans tout mon raisonnement. Quoique, extérieurement, je paraisse me contredire quelquefois, cette contradiction apparente provient d’une disette de termes dont j'aurais besoin pour exprimer certaines idées nouvelles et extraordinaires» (Préface, 2). 48 Thi, Préface, 3.
Tra misticismo e scienza: l'uomo e la sua ‘sensibilità’
nel'Eklektik
di Francesco Tomasoni
Il concetto di Sinnlichkeit, comunemente tradotto con ‘sensibilità’, è familiare a par-
tire dalle Critiche di Kant, ma ha in sé una pregnanza e un’ambiguita risalenti alla formazione stessa del linguaggio filosofico tedesco nella cosiddetta filosofia eclettica. Vi si connetteva una serie di questioni. La conoscenza sensibile era passiva o attiva? Riproduceva qualcosa dell’oggetto o era puramente soggettiva? Qual era la sua relazione col comportamento umano? La volontà non ne subiva l’influenza? In quanto appetito, non era anch’essa un’inclinazione e una passione?
Il sentire originario: fra illuminismo e romanticismo Mentre il criticismo kantiano assumeva la sua forma definitiva, Anton Joseph
Dorsch, ordinario di filosofia e teologia a Mainz vi individuava il ruolo basilare assegnato alla sensibilità in campo gnoseologico, morale ed estetico e la inquadrava nell’orizzonte più ampio della tradizione tedesca e della riflessione francese e inglese finendo per accordarle un peso ancor più rilevante. Di primo acchito egli sottoscriveva la netta distinzione fra sensibilità e intelletto, tracciata dal filosofo di
Kônigsberg in antitesi a Leibniz', tuttavia mostrava di ricercare una radice comune in consonanza con Karl Leonhard Reinhold. Si trattava pur sempre di rappresen-
1 Säzze aus der Theorie der Sinnlichkeit, unter dem Präsid. A.J. Dorsch, 6ff. verth. J. Fügen von Sulzheim und B. Gittell von Mainz, 13. Jul. 1790, Mainz, gedruckt mit Crassischen Schriften, pp. 3-4. Qui e nel seguito si tratta di tesi presentate a Dorsch, che però, secondo l’uso accademico tedesco, ne portava la
responsabilità e sostanzialmente la paternità.
336
L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo i)
%
svolgeva la funzione di che, in sé misteriosa, originaria», «forza una a rinviati era si intermediaria?. Infine tazione, immediata
o mediata?.
Inoltre l'immaginazione
era la sorgente del conoscere e del desiderare”. Dorsch, che pure si era occupato di storia della filosofia e aveva proferito
giudizi abbastanza netti sui filosofi tedeschi, in particolare su Christian Thomasius e su Christian Wolff, nominava un ampio spettro di pensatori, dallo stesso Wolff a Mendelssohn, da Sulzer a Tetens, da Herder a Tiedemann, ma non mancava
neppure di riferirsi a Locke, Bonnet e Condillac. Egli vedeva emergere in loro la convinzione secondo cui il sentite non fosse puramente passivo, ma implicasse l’azione. «Ancora cieco alla voce della verità e della virtù, il bimbo si slancia verso
la candela accesa e l’attrattiva della bellezza fa scorrere attraverso i suoi nervi un beato sentire». Questo sentire originario, espresso col termine di Gefiih/, era da un lato descritto come un meccanismo di trasmissione delle impressioni al cervello
e degli impulsi da questo ai muscoli secondo uno schema risalente alla filosofia cartesiana’, dall’altro lato era definito come qualcosa di globale il cui senso andava ricercato in lui stesso. Non a caso veniva dato grande rilievo a una citazione di Bonnet, secondo cui noi nell’interpretare i meccanismi corporei ci avvarremmo solo di congetture e dovremmo preferire le spiegazioni che «meglio si accordano con ciò che provia-
mo». Anche Condillac, un riferimento nodale per Dorsch, aveva lasciato al rango di ipotesi le spiegazioni fisiche e si era concentrato sui rapporti che si creavano all’interno stesso degli atti conoscitivi a partire dalla sensazione’. Su questa linea Dorsch ricordava che come per la luce era ignoto se fosse di natura corpuscolare
od ondulatoria, così non si sapeva se i nervi trasmettessero attraverso un fluido * Aphorismen aus der Geschichte der Sinnlichkeit, unter dem Vors. A.J. Dorsch, Off. vert. F. K. von Haupt, 1 März, Mainz, bei A. Crass, 1791, p. 3. * Aphorismen aus der Geschichte der Einbildungskraft, unter dem Vors. A. J. Dorsch, òff. vert. H. I. Werren von Mainz u. K. Th. Brunn von Brezenheim, 15. März, Mainz, bei A. Crass, 1791, pp. 3-4.
* Saxe aus der Theorie der Sinnlichkeit, cit., pp. 3-4. > Erste Linien einer Geschichte der Weltweisheit, nebst Säzzen von der Natur des menschlichen Verstandes, unter dem Vors. A.J. Dorsch, zur Off. Verth. K. Hartleben, Mainz, Hof u.Universitàtbuchdruckerei, bei oe
Alef, Mai 1787, pp. 65-67. ° Theorie der äufern Sinnlichkeit, unter dem Pras. A.J. Dorsch, vert. F. Serger, den 7. Mai 1789, Mainz,
JAP AMEN
AV. 7 Ivi, pp. 1-5, cfr. pp. 32, 117. MAS soos ? E. Bonnot de Condillac, Essai sur l'origine des connoissances humaines, part. I, sect. II, ch. II, § 24 in
Œuvres philosophiques, pat G. Le Roy, Patis 1947, I, 16 nota (tr. it. G. Viano, in Id., Opere, Torino 1976,
110 nota); cfr. A. Charrak, Empirisme et métaphysique. L'«Essai sursl’origine des connaissances humaines» de Condillac, Paris 2003, pp. 18-19. Per l’influenza della riflessione psicologica di Wolff su Condillac, cfr. G. Paganini, Sgnes, imagination et mémoire. De la psychologie de Wolff à l'«Essai de Condillao, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», LXXII, 1988, pp. 287-300, spec. pp. 289-295, 297, 299.
Tra misticismo e scienza: l’uomo e la sua ‘sensibilità’ nel'Eklektik
337
o attraverso certe vibrazioni, né perché a certe modificazioni dei raggi luminosi corrispondessero determinati colori o perché con due occhi e due orecchie si avesse un’unica percezione e l’immagine capovolta sulla retina fosse scorta come diritta'®. Se dunque il Gefiih/ era definito come «ogni movimento immediato nel nostro corpo sotto forma di pressione», la spiegazione lasciava intendere come fosse piuttosto la facoltà di percepirlo. Attraverso di essa si coglieva la levigatezza o ruvidità, la durezza o la mollezza, la solidità o liquidità, la resistenza e, di conseguenza,
l’estensione!!. In tal senso il Gefiih/, secondo un significato particolare del vocabolo tedesco, corrispondeva al tatto e precedeva il gusto, l’olfatto, l’odorato e la vista in
una progressiva ascensione verso «i più alti godimenti spirituali»'?. La combinazione nello stesso termine del concetto generale di sentire e di quello particolare del tatto finiva per conferire al discorso una singolare pregnanza. Il tatto mostrava la sua primordialità e immediatezza radicandosi nel sentire
come tale che aveva sede in tutto il corpo!. Esso garantiva l’attendibilità delle altre sensazioni secondo un argomento, già addotto per i racconti evangelici delle apparizioni del risorto e ripreso da Dorsch attraverso una citazione di Diderot,
secondo cui il tatto sarebbe stato «il senso più profondo e più filosofico»'*, In esso la causa era immediatamente presente e la percezione non era alterata da un
medio esteriore!?. Il rinvio al sentire originario implicava però anche la prospettiva del suo sviluppo attraverso l’esperienza. In proposito si citava il discorso di Condillac sulla necessità dell’esperienza perché si cogliessero le relazioni di distanza, spessore, profondità!°. Dorsch aveva ripreso il famoso caso proposto a Locke e trattato da Leibniz del cieco nato che avesse acquistato la vista. Egli avrebbe avuto bisogno di esercizio per riconoscere nelle immagini quelle relazioni geometriche che aveva percepito col tatto!”. La Sinnlichkeit, riconducibile a un senso fondamentale, esigeva il suo sviluppo e perfezionamento. Al riguardo si richiamava l'esempio emblematico della statua su cui Condillac aveva imperniato il suo 7raftato sulle sensazioni mostran-
10 Theorie der äuffern Sinnlichkeit, cit., pp. 20, 25-26, 27-29, 73. !! Ivi, pp. 7-10. Per la relazione in Condillac fra sensazione e movimento, a prescindere da un suo particolare meccanismo, cfr. Charrak, Empirisme et métaphysique, cit., pp. 18, 19.
1° Theorie der äuffern Sinnlichkeit, cit., pp. 7-32. vip: 4 Ivi, p. 47. L'influenza della filosofia di lingua francese si può ben collegare al fatto che Dorsch fosse membro dell’accademia delle scienze di Parigi, oltre che di Monaco.
15 Ivi, pp. 60-61, 45.
16 Condillac, Essai sur l'origine des connoissances humaines, cit., part. I, sect. VI, $ 6, p. 55 (tr.it., p. 199).
17 Theorie der cuffern Sinnlichkeit, cit., p. 32; Condillac, Essai sur l'origine des connoissances humaines, cit., part.
I, sect. VI, § 14, p. 57 (tr. it., pp. 201-203).
338.
L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Hluminismo & x
do il sorgere progressivo delle facoltà dell’anima da un unico e identico principio,
evidente nel tatto™. In connessione col filosofo francese si ribadiva dunque l’unità e l'evoluzione del sentire ricorrendo ai termini di Gefähl e Sinnlichkeit. Il primo includeva il sentimento, il bisogno e il riferimento a sé comportando l’attenzione dell’anima o del
soggetto e sfociando in un piacere o dispiacere in accordo col sistema nervoso nella sua globalità!”. Il secondo indicava un'attività complessa che preludeva alle facoltà spirituali superiori. Dorsch esaltava Locke per aver riconosciuto l’origine sensoriale delle idee, ma anche Berkeley per aver inteso tutto il «mondo sensoriale come modificazione dell’anima»”. Al riguardo prendeva una.direzione che era già stata di Leibniz e di Mendelssohn. Questi nel Fedone aveva ipotizzato che anche dopo la morte le anime avrebbero conservato la Sinnlichkeit che, come loro peculiare dote
personale, avrebbe loro permesso di godere o soffrire nell’altra vita. Tale idea aveva sollevato perplessità in Herder che si era chiesto come fosse possibile una sensibilità senza un corpo”. Mentre Kant nella seconda edizione della Critica della ragion pura aveva sottoposto a critica il principio stesso dell’anima come sostanza semplice, Jacobi aveva interpretato in senso spirituale lo stesso belief di Hume facendone parte costitutiva della rappresentazione sensibile??. Se dunque la Sinz/ichkeit nascondeva al suo interno un’ambiguità che poteva sia confermare l'indispensabile controllo dei sensi, sia rinviare a un’unità identificantesi con l’i6 e situata al di là del corpo,
ciò era ancor più evidente nell’applicazione del concetto alla dimensione morale ed estetica. Al riguardo viene spontaneo pensare agli sviluppi del romanticismo tedesco. Tuttavia le radici di tale ambiguità si possono rintracciare nel momento della formazione del linguaggio filosofico in Germania e in particolare nella filosofia eclettica fra il Sei- e il Settecento.
!8 Theorie der äuffern Sinnlichkeit, cit., pp. 37, 119. !° Ivi, pp. 7, 36, 93, 81-83. Per la radice unitaria del sentire in Condillac, rintracciabile nell’inquietudine
e nel bisogno, origine dell’azione, cfr. G. Paganini, Un'etica per i lumi. Condillac dalla psicologia alla morale, in «Rivista di Storia della Filosofia», XLVII, 1992, pp. 647-688, spec. pp. 663, 667-674. 20 Theorie der äufern Sinnlichkeit, cit., pp. 116-118.
2! JubA TIL1, p. 123, cfr. lettera di Herder della seconda metà di aprile 1769 e la risposta di Mendelssohn del 2 maggio in JubA Il 1, pp. 175, 182-184. Secondo A. Altmann, Die trostvolle Aufklirung. Studien zur Metaphysik und politischen Theorie Moses Mendelssohns, Stuttgart 1982, pp. 23-24, la rivendicazione all’anima della sensibilità implicava una continuità fra questa e il pensiero. 2 FH. Jacobi, David Hume über den Glauben oder Idealismus und Realismus (1787), in Id., Werke, Il 1, Hrsg. W. Jaeschke u. 1.-M. Piske, Hamburg 2004, pp. 24-30. Si noti: «Und die Philosophie kann [...] dabey stehen bleiben, daB Glaube Etwas von der Seele Gefiibites sey, welches die Bejahung des Wiirklichen und seine Vorstellung, von den Erdichtungen der Einbildungskraft unterscheidet» (pp. 30-31).
Tra misticismo e scienza: l'uomo e la sua ‘sensibilità’ nell'Eklektik
339
Introduzione del termine nella filosofia: Christian Thomasius Dorsch non mancava di ricordare Malebranche, che, come dichiarava, aveva sì ceduto al misticismo, ma aveva anche enunciato «eccellenti regole per evitare errori nella conoscenza sensibile». Se, del resto, Malebranche era stato per Condillac un
riferimento importante nel suo sforzo per distinguere la sfera psichica da quella fisica*, un altro oratoriano, che aveva anticipato Malebranche nello studio dell’ani-
ma e che questi aveva più volte citato assume significato nella storia del concetto di Sinnlichkeit. Si tratta di Jean-François Senault (1601-1672) che aveva pubblicato un’opera di successo, De l'usage des passions (1641) e in pochi anni ne aveva fatto uscire numerose edizioni. Rifacendosi ad Agostino, egli aveva sottolineato la corruzione dell’uomo che, dopo il peccato, era in balia delle passioni e non poteva da solo raggiungere l'ideale dell’autarcheia, qual era stato delineato dagli stoici. Questi anzi, compreso lo stesso Seneca, avevano orgogliosamente proposto un’immagine vana e falsa dell’uomo. Malebranche sottoscrisse la critica agli stoici rilevando nell’uomo l’attaccamento «alle cose sensibili» e la dipendenza dal dolore, ma cercò di rettificare l'impressione di una corruzione generale precisando che di per sé d’economia dei sensi e delle passioni» era «giusta e meravigliosa» mirando alla propria conservazione”. Tuttavia lo stesso Senault aveva esplicitamente dichiarato che non
tutta la natura era stata corrotta’. Nell’ambiente tedesco, condizionato dal protestantesimo, la descrizione del
ruolo preponderante delle passioni e i consigli sul loro uso positivo trovarono un’eco immediata. Nel 1657 usciva la traduzione tedesca che nel sottotitolo presentava il concetto di Sinz/ichkeit in connessione ai peccati?”. Il carattere peccaminoso della sensibilità è rimarcato dal paragone della natura corrotta con una sorgente limacciosa. Come da questa discende necessariamente acqua torbida, così da quella non possono derivare «sensibilità pure». Al termine francese senzizzens corrisponde il vocabolo Sinnlichheiten®. Attraverso l'immaginazione la sensibilità è considerata
2 Theorie der aufsern Sinnlichkeit, cit., p. 117. 2 Charrak, Empirisme et métaphysique, cit., pp. 13-14.
25 N, Malebranche, Recherche de la verité, Œuvres Complètes, par G. Rodis-Lewis, Paris 1991’, I, pp. 354, 346, II, 1974, pp. 131, 130, 133-135; Id., Traité de Morale, Œuvres Complètes, par M. Adam, XI, Paris
1966, p. 28. 28 Per l’opera di Senault si cita dall’edizione J.-F. Senault, De usage des passions, Amsterdam, J. de Ravestern, 1668; qui I u, 2, p. 67.
i
© Rechtmifiger Gebrauch der Gemiitsbewegungen des Menschen: wie solche michtiglich beherrscht und der Stinden Sinnlichkeit zu aller Tugenden Behäglichkeit geleitet werden sollen, aus dem Franzôsischen, Ulm, in Verlegung
G. Wildeisens, 1657.
capitani
,
28 Ivi, p. 61: «weilen wir in dem Stand darein wir durch die Siinde gerathen, keine reine Sinnlichheiten mehr haben, sondern: gleich wie aus einer leymichten Quällen lauter trübe Bächlein fliessen; also seyn
340
L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo x x
anche causa di turbamenti e mali per gli uomini a differenza degli animali. Se questi nell’originale francese apparivano «insensibles» per il loro temperamento intriso di terra, nella traduzione tedesca erano privi di «sensibilità» e, come tali, esenti dalle
lusinghe dell’immaginazione”. Il termine Sinnlichkeit o Sinnlichbeit si avvicina qui a sensualità e allude a una sfera emotiva e immaginativa, ineluttabilmente sottoposta
alle influenze del peccato. Il suo ruolo risulta dunque non trascurabile in un discorso morale. L’oratoriano aveva indicato come criterio fondamentale l’amore, ma nello stesso tempo aveva avanzato l’esigenza che esso si adattasse ai «sentimenti» dell’anima, di nuovo tradotti col termine Sinz/ichbeiten®. Ogni moto dell'animo poteva diventare utile alla salvezza «mediante la grazia di Dio e la ragione». Perciò bisognava condannare i «libertini» che deridevano il rimorso e valorizzare lo stesso odio inditizzandolo contro se stessi al fine di vincere l’amor proprio e l’orgoglio?!. La Sinnlichkeit caratterizzava dunque in modo peculiare lo stato dell’uomo dopo
il peccato di Adamo, ossia l'impossibilità di giungere da soli alla salvezza, ma indicava anche un insieme di pulsioni e fantasie che agivano e potevano essere modificate dalla grazia divina. Se tutto ciò chiama in causa il tema della giustificazione, quale era stato avanzato con forza da Lutero, in questi si rintraccia l’uso del termine
Sinnlichkeit in relazione alla sensualità peccaminosa, capace di oscurare l’intelletto. Così a commento del salmo 32,9 si rivolgeva l’ammonimento a non essere come gli «animali sensibili» (stanliche Thiere) «come il cavallo o il mulo che non vogliono saperne della cavezza»?.
auch alle Neigungen unserer verderbten Natur sündhaffb»; cfr. De l'usage des passions, I 11, 2, pp. 64-65:
«car en l’estat où le peché nous a reduits, nous n’auons plus de sentimens qui soient purs : comme nostre nature est corrompué, il faut par necessité que toutes ses inclinations soient desreglées, & que les ruissseauz soient troubles qui coulent d’une source qui n’est pas nette». ® Rechtmifiger Gebrauch, p. 83: «Die Thiere seyn nach ihrer Aart rhumm, die erdische vermengung gibt ihnen keine Sinnlichheit und befreyt sie gantz glücklicher weise von den jenigen übeln, welche allein durch verletzung der Einbildung dem Leib schaden»; cfr. Senault, De l'usage des passions, cit., I 11,
5, pp. 89-90: «Les Bestes sont stupides, leur temperament qui tient de la terre, les rend insensibles, &
les exempte de tous ces maux qui ne blessent le corps que parce qu’ils ont blessé l'imagination». * Rechtmifiger Gebrauch, p. 342: «Die Sittenlehre, welche die Liebe für ihre Sonne erkennt, gewinnet gleichfals neues Vermògen, wann diese eine neue Gestalt an sich nimt. Dann ob sie wol allezeit die Liebe bleibt, und dem Wesen nach, durch die mancherley Namen so man ihr gibt nicht verindert wird,
bequemt sie sich doch jederzeit nach den Sinnlichheiten der Seelen und bringt nach Beschaffenheit derselben seltenere oder gemeinere Wiirkungen herfün»; cfr. De l'usage des passions, Il tv, 1, p. 335: «La Morale qui ne connoist point d’autre Soleil que l'Amour, confesse qu’il prend de nouueaux pouuoirs en prenant de nouueaux visages: Car encore qu'il soit tousiours luy — mesme, & que les noms differens que luy donnons, ne changent point son Essence; Neantmoins il s’accomode aux sentimens de nostre ame qu’il employe, & produit auec eux des effects ou plus rares où plus communs». *! Rechtmäffiger Gebrauch, p. 200; Senault, De l'usage des passions, cit., pp. 283-285.
°° Cfr. «Stnnlicl», Deutsches Worterbuch, v. J. u. W. Grimm, X 1, Leipzig 1905, p. 1185; M. Luther, Kritische
Ausgabe, XVII, Weimar 1908, p. 490, 2-4: «seid nicht wie ross und meuler, die nicht verstendig sind.
Tra misticismo e scienza: l’uomo e la sua ‘sensibilità’ nell'Eklektik
341
L’intreccio fra aspetto cognitivo e tendenziale, passività e attività, natura e grazia è caratteristico in Christian Thomasius, che conosceva l’opera di Senault e
possedeva nella sua biblioteca sia originale francese, sia la traduzione tedesca”. Con lui il termine Sinnlichkeit assume un significato filosofico vero e proprio. Nei suoi primi scritti, a partire dall’/n#roduzione alla filosofia aulica (1688), egli aveva difeso il ruolo imprescindibile dei sensi contro il platonismo e il cartesianesimo sostenendo che non solo l’intelletto si avvaleva delle immagini provenienti dai sensi, ma questi come tali erano infallibili. L'errore veniva dalla cattiva interpretazione
dell’intelletto*. La Einleitung zur Vernunfilebre (1691) introduceva nell’ambito strettamente filosofico il termine Sinn/igkei?®. Non solo ribadiva l’infallibilità dei sensi riprendendo l'argomento scettico del gusto come tale*, ma li esaminava anche distintamente a
partire dal tatto, il Gefh/, fino alla vista sottolineando il loro radicarsi nel sensorizz??. In essi, grazie alla loro passività, gli oggetti e le cose individuali mostravano
la
loro presenza*. Interveniva poi l’intelletto che forniva le regole generali e poteva calcolare, confrontare, giudicare e decidere”. Qualsiasi conoscenza aveva dunque
bisogno di ambedue i momenti”. Di primo acchito era naturale attribuire la passività ai sensi e l’attività all’intelletto. Ai primi Thomasius attribuiva i «pensieri passivi» (leidenden Gedancken), equiparati alle sensibilità”, ma precisava che essi erano la condizione dei «pensieri attivi» dell’intelletto*. Poiché questi dipendevano da quelli e
Das sind die, die mich nicht lassen regiren, sondern gleich wie die sinnlichen thiere, folgen, so fern sie fülen, wo sie nicht fülen oder prüfen, folgen sie nicht, und verstehen den geist nicht».
3 W. Schneiders, Naturrecht und Liebesethik. Zur Geschichte der praktischen Philosophie im Hinblick auf Christian Thomasius, Hildesheim 1971, pp. 210-211, qui (cfr. anche pp. 198-200) si sottolinea la dipendenza della concezione thomasiana degli affetti da quella agostiniana come era esposta dall’oratoriano. # C. Thomasius, /n#roductio ad philosophiam aulicam, WA, § 34, p. 83; VIII, § 29, p. 159. Sui sensi come criterio per Thomasius, cfr. R. Wildmaier, Alter und neuer Empirismus. Zur Erfabrangslebre von Locke und Thomasius, in Christian Thomasius 1655-1728. Interpretationen zu Werk und Wirkung. Mit einer Bibliographie der neueren Thomasius-Literatur, Hrsg. W. Schneiders, Hamburg 1989, pp. 95-114, spec. pp. 100-103. Per il rapporto fra sensibilità e Thomasius, come pure per le necessarie integrazioni bibliografiche, mi permetto di rinviare a F. Tomasoni, Christian Thomasius. Spirito e identità culturale alle soglie dell'illuminismo europeo, Brescia 2005, spec. pp. 41-48, 69-78, 96-109, 119-136, 143-144.
x
35 Thomasius, Einleitung zur Vernunfilehre, rept. in AW VIII, Hildesheim 1998, p. 106. Per l’importanza
di quest'opera nell’introduzione del termine, cfr. anche D. von Wille, Lessico filosofico della Friibaufklirung,
Roma 1991, 162-163. % Thomasius, Einleitung zur Vernunftlehre, cit., p. 229.
37 Ivi, pp. 163-165.
* Ivi, pp. 188, 243. # Ivi, p.106. 4 Ivi, pp. 168-170. 4! Ivi, pp. 156, 163.
A
her.
4 Ivi p. 170: «Derowegen praesupponiren die thätlichen Gedancken allezeit leidende».
342.
L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo x x
l’intelletto era recettivo verso le immagini sensoriali*, si sarebbe potuto rovesciare il rapporto di passività e attività. In effetti Thomasius attribuiva entrambi gli aspetti sia alla sensibilità, sia all’intelletto, che non solo riceveva il materiale“, ma chiariva i
suoi principi attraverso le applicazioni individuali fornite dai sensi*. La confusione derivava non dalla sensibilità, ma piuttosto dalla sua assenza”. Nel giurista di Halle il nesso fra conoscenza e azione era strettissimo. Per questo il termine Srnhgkeiten al plurale denotava le passioni che pure implicavano
in sé attività e passività‘”. Sul loro ruolo egli si soffermò nelle opere morali fino a stemperare la contrapposizione fra passioni e volontà e a mettere in discussione il potere della ragione. La Einleitung zur Sittenlebre (1692) si concentra sull'amore come sentimento interiore‘ e gli rivendica la dimensione corporea e sessuale avvicinandolo alla voluttà, vizio che più si concilierebbe col sapiente”. Mentre su di esso la razionalità ha una limitata azione moderatrice, la volontà non è più intesa come appetitus rationals, bensì come amore sensibile, inclinazione prevalente’. L’ideale della moralità non consiste dunque nel dominio delle passioni, ma in un loro equilibrio, che rimane
sempre individuale. Come per il sangue, così per la sensibilità, anzi per le sensibilità (Sinnligkeiten) un turbamento eccessivo è dannoso. Il criterio epicureo della misura sfugge però a una regola astratta, valida per tutti. Esso è dato solo dalla «tua inte-
riore assicurazione»”. L’identificazione della volontà con la passione prevalente fa si che nella Ausibung der Sittenlebre (1696) essa sia definita «una forza dell’anima umana in virtù della quale l’uomo è inclinato a qualcosa e quindi induce se stesso a fare od omettere qualcosa”. A Cartesio, pur apprezzato per l’attenzione alle passioni dell’anima nell’opera # Ivi, pp. 106, 156, 168, 170.
4 Ivi, pp. 76, 79, 82, 83. 45 Ivi, p. 234. 4 Ivi, p. 244.
47 Ivi, p. 106: «Die Passiones sind nicht anders als die itzt erzehlte Sinnlichkeiten», p. 299 («zu den blossen Sinnligkeiten»). # ‘Thomasius, Einleitung zur Sittenlebre, rept. in AW X, Hildesheim 1995 e, con traduzione italiana a fronte, in Id., Introduzione alla dottrina dei costumi, a cara di R. Ciafardone, Pescara 2005, ps
4 Ivi, «Zuschrift», p. 11. * Schneiders, Naturrecht und Liebesethik, cit., pp. 163-165, 172-174, 176-182, 192, 197-198, 200, 203204, 207-210, dove si sottolineano le implicazioni erotiche assunte dall’amore sensibile.
° Thomasius, Æinkitung zur Sittenlebre, cit., pp. 21-22. Per l’applicazione del criterio epicureo della misura, cfr. D. Kimmich, Lob der «rubigen Belustigung». Zu Thomasius' kritischer Epikur-Rezeption, in Christian Thomasius (1655-1728). Neue Forschungen im Kontext der Friibaufklirung, Tübingen 1997, pp. 379-394; I. Hunter, Rival Enlightenments. Civil and Metaphysical Philosophy in Early Modern Germany, Cambridge 2001, pp. 9, 222, 243-244, 249, 252; Ciafardone, Introduzione a Thomasius, Introduzione alla dottrina dei costumi,
cit., pp. X-XI, XV. °° Thomasius, Ausibung der Sittenlebre, rept. in AW XI, Hildesheim 1999, p. 81.
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omonima, si rimprovera di non aver colto adeguatamente la loro forza a causa del suo
intellettualismo. Esse sarebbero insieme passive e attive e non si distinguerebbero sostanzialmente dalla volontà. Da qui il loro condizionamento determinante: «Il
potere naturale di un uomo di mitigare le sue brame è molto scarso e minimo, come pure è assai inadeguato a strapparlo dalla sua inquietudine». La Sinnligkeit ha alla base un’inquietudine che fa pensare alla Uneaseness di Locke. Essa finisce per orientare in una certa direzione la ragione e lascia ancora avvertire in lei l’accezione originaria di Sinn come senso di orientamento™. Se riteniamo buono «tutto ciò che amiamo», l’evidenza razionale è condizionata e offuscata dalle passioni. L'uomo è come il malato
che non riconosce la propria infermità pregiudicando la possibile guarigione”.
Fra spiritualità e materialità: critiche e dubbi di Sturm Pur avendo connesso la sensibilità al corpo, Thomasius ne difendeva la natura spirituale interpretando in tal senso la concezione cartesiana degli spiriti animali, trasmettitori di messaggi e ordini. Riprendendo l’idea vitalistica fatta valere da Henty More contro Cartesio”, egli vedeva nello spirito non solo il principio dell’autocoscienza, bensì anche il portatore di significati e la causa interna dei movimenti vitali.
Così anche negli animali si esprimeva sensibilmente la spiritualità, come si vedeva «negli occhi di un cavallo coraggioso o indolente»?”. Le diverse passioni potevano essere assimilate a diversi spiriti in armonia o in conflitto fra loro che provocavano
movimenti e-alterazioni osservabili in «innumerevoli esperimenti»*. Indubitabili erano « potenti effetti» di un occhio «nostalgico, infiammato, in-
namorato, adirato, piangente, pudico, invidioso», come pure i turbamenti provocati dalla musica, dal canto, dalle espressioni dolci o lusinghiere. Gli spiriti insiti nelle passioni erano sollecitati da qualcosa di affine o di contrastante”. Attraverso il sensibile operava un intreccio di relazioni che oltrepassava la distinzione fra sensibilità e pensieri. Infatti Thomasius ricorreva all’espressione «sensibilità dei pensieri» per indicare la capacità di rappresentarsi «come presenti cose assenti». Egli sosteneva anche che i viziosi alimentassero lo spirito del loro vizio”.
53 Ivi, p. 500. 5 Cfr. «Sinn», Deutsches Worterbuch, v. J. u. W. Grimm, X 1, 1107.
5 Ivi, pp. 502, 467, 503-504. 56 R. Hall, Henry More and the scientific revolution, Cambridge 1990, pp. 134-138, 155-157, 163. 5 Thomasius, Ausäbung der Sittenlebre, cit., p. 382.
58 Ivi, p. 381.
5° Ivi, p. 382-383. © Ivi, p. 384.
344.
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x In questa prospettiva dichiarava non assurda l’idea di una sensibilità universale, qual era stata proposta da Campanella e altri. Del resto egli riteneva che in ogni corpo fosse insito uno spirito, ossia quella energia che ne garantiva la conservazione. Tale spirito sarebbe stato stabilito da Dio secondo una «certa dose». Una sua alterazione avrebbe provocato la corruzione della materia. Al riguardo Thomasius adduceva l’esempio di un recipiente in cui fosse immessa o tolta più aria di quanto «stabilito da Dio». La «spiritualità accresciuta» o «diminuita» avrebbe infranto le pareti. Questa spiegazione, avanzata da Thomasius, contro quella della pressione dell’aria fornita
da Torricelli e Pascal, si ricollegava al principio hylarchico o allo spirito della natura di Henry More. Essa pretendeva di appoggiarsi, anziché-alle prove sperimentali che avrebbero forzato la natura, agli «esperimenti» accessibili a tutti.
In conformità a questa concezione l’uomo appare caratterizzato dal conflitto di spiriti diversi che sono sì le sue passioni, ma hanno anche una valenza fisica. Lo spirito, l’aria, la passione in eccesso o in difetto provocano la rovina negli animali e nell'uomo, come dimostrano per i primi la voracità, per il secondo i vizi ben più numerosi. L’intrecciarsi degli spiriti in ciascuno è alla base dei suoi desideri e del suo particolare carattere, ma spiega anche l’attrazione o la repulsione reciproca fra gli individui. Mediante queste relazioni «il desiderio dell’uomo si nutre» diffondendosi nella sensibilità e assoggettando a sé i pensieri. Come gli spiriti non possono essere compressi in un recipiente senza che si provochi un’esplosione, così appare ardua
la repressione dei desideri e delle passioni mediante la ragione‘. Una volta registrati i limiti di questa, Thomasius invitava a gettar via il suo libro sulla morale per «attenersi unicamente e soltanto alla parola di Dio». Se questa conclusione ben si accordava con la visione luterana della grazia, questa operava vittoriosamente non tanto al di sopra della sensibilità, quanto entro la stessa giacché vi si faceva esperienza della nuova vita dello spirito e il «seme del peccato» quasi non si sentiva più”. In questi anni Thomasius aveva visto nel misticismo di Poiret il superamento del’intellettualismo cartesiano e aveva apprezzato il fatto che al corpo e all’anima fosse stato aggiunto come terzo componente della natura umana lo spirito. Questo
Ti pa98di 5° Ivi, pp. 384-385. 5 Cfr. Tomasoni, Christian Thomasius, cit. pp. 122-127. % Thomasius, Ausiibung der Sittenlebre, cit. pp. 385-386.
5 Ivi, pp. 386, 386-387, 387-388. Avi, pao à eM visgpn ooo: °° Ad Petri Poiret Libros de eruditione solida, in: Thomasius portentosus, Hrsg. M.A. Rotth, Lipsiae, in Verlegung des Autoris, 1700, pp. 273-274, 275.
Tra misticismo e scienza: l'uomo e la sua ‘sensibilità’ nell'Eklektik
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corrispondeva al gusto interiore e alla sensibilità secondo accenti che rivelavano
quell’avvicinamento di Thomasius al pietismo avvenuto fra il 1692 e il 1699. Non a caso la sensibilità si traduceva anche nel «cuore» da cui cominciava ogni azione” e che definiva come tale l’uomo”. Una sensibilità che si appellava ad «esperimenti» naturali, ma rifiutava prove di laboratorio, che criticava la morale della consuetudine e dei pregiudizi, ma si rivolgeva alla rassicurazione interiore e al cuore aveva in sé
un’ambiguità che diventa ancor più palese nel Saggio sull'essenza dello spirito (1699). In esso viene di nuovo difesa l’attendibilità dei sensi contro i «signori cartesiani» e si sostiene che «la sensibilità aiuta la ragione a uscire dall’errore»”!. La prima garantirebbe l’esistenza, la seconda l’essenza, la prima ciò che è esterno, la seconda ciò che è interno, la prima gli effetti, la seconda la causa, la prima ciò che è individuale, la seconda ciò che è universale”. In tal senso sarebbe il «fondamento della
ragione»”?. Questa riconduzione dell’esistenza a una facoltà distinta dalla ragione per un verso rinvia a Henry More” e per l’altro proietta verso il discorso kantiano prospettando due possibili direzioni: l'appello al senso interno o a sensazioni esterne ed empiriche.
Nel suo richiamo alla sensibilità Thomasius rimproverò a Sturm, suo antesi-
gnano nella proclamazione della filosofia eclettica”, di aver accordato fiducia alle situazioni artificiali, «prodotte con mano d’uomo», anziché a quelle naturali e aver
abusato di singoli casi per ricavarne ipotesi generali”. Mentre dunque Sturm si era schierato dalla parte del metodo scientifico di Pascal e Torricelli, Thomasius sulla scorta del platonismo di Cambridge”, rinviò all'esperienza sensibile di ciascuno” e invitò, per esempio, a tenere premuto il dito su un recipiente da cui era stata estrat-
5 Thomasius, Versuch von Wesen des Geistes, Halle, Ch. Salfeden, 1699, Th. 166, p. 182. 7 Ivi, Th. 170, 174, pp. 183, 184.
7! Ivi, Th. 13 e nn. r s) pp. 9-10. Bis Thos; 2) 5¢7-enn.); deh), d;ppi 2-5: ® Ivi, Th. 8 pp. 7-8 : «Und also braucht der Mensch in Erforschung der Wahrheit alle beyde / ja die Sinnlichkeit ist der Grund der Vernunft auf welche / so zu sagen / die Vernunft ihr Gebäude aufführet». Ivi, I, Th. 9, p. 8: «Derowegen sind auch die Vernunft / oder das Nachdenken (ratiocinatio,
meditatio) und die Sinnlichkeit oder die Erfahrung (experientia) einander nicht entgegen zu setzen / noch in Erforschung der Wahrheit eines dem andern / als eine Richtschnur / vorzusetzen / sondern
sie bieten einander die Hand». ™ Mi permetto di rinviare a Tomasoni, «Conjecture», «conceivability», «existence» between Henry More and Ralph Cudworth, in Paganini (ed.), The Return of Scepticism. From Hobbes and Descartes to Bayle, Dordrecht
2003, pp. 55-77, spec. pp. 64-69, 71. 75 Thomasius, Jntroductio ad philosophiam aulicam, cit., cap. I, § 90, pp. 42-43. 7 Id., Versuch von Wesen des Geistes, 1, Th. 14, nn. t) u), pp. 10-11; I, Th. 18 p. 14; I, Th. 21 pp. 16WT 7 Hall, Henry More and the scientific revolution, cit., pp. 181-184. + 78 Thomasius, Versuch von Wesen des Geistes, 1, Th. 20, 27, 28, pp. 15-16, 21-22.
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L'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo INS x
ta l’aria. Si sarebbe sentito che «qualcosa dall’interno» attirava il dito”. Il proprio «sentimento» (eigenes Gefühl) era fatto valere contro un «ragionamento» astratto € precipitoso™. A tale sensazione corrispondeva quella avvertita nel respiro!!. Nel Saggio sull'essenza dello spirito Thomasius sviluppò ulteriormente la concezione degli spiriti nei corpi illustrando le loro reciproche influenze, simpatie ed avversioni. In quanto invisibili, luce e aria erano spiriti universali, opposti fra loro, la prima di genere maschile, la seconda femminile*. Essi agivano attraverso la materia,
come del resto la sensibilità che era di natura spirituale*. Suggestioni provenienti dalle speculazioni sulla magia, presenti nei platonici di Cambridge e negli ambienti
paracelsiani portavano a vedere la natura e i singoli corpi come animati da essenze spirituali, ma anche a intendere queste in modo fisico”. Thomasius sosteneva che
non solo ogni corpo fosse composto di una parte materiale e spirituale, bensì che vi si potessero immettere o estratte spiriti”. In tutti gli esseri naturali si nascondeva un principio interiore di attività e di percezione”. Grazie alla comunanza che ne derivava si potevano ricavare medicine dalle pietre e riconoscere con le piante e gli
animali una particolare somiglianza nella sensibilità e nei desideri™. Questa concezione della sensibilità in un orizzonte vitalistico si oppone esplicitamente alla visione cartesiana e risulta alternativa a quella prospettata da Sturm. In tal senso si produsse fra Sei e Settecento in Germania una varietà di posizioni all’interno dell’EX/k4k, che del resto conformemente al suo programma non era e non voleva essere una scuola”. Formatosi alla scuola del matematico di Jena, Erhard Weigel (1625-1699), e dell’olandese Jean De Raey (1622-1707) a Leida, Sturm aveva ricavato dal cartesianesimo la convinzione che la matematica e gli esperimenti fossero essenziali per comprendere la natura. Egli entrò in rapporto con la Royal Society, che ne apprezzò
” Ivi, I, Th. 21 n. ©) pp. 21-22; III, Th. 18, pp. 45-47. 8° Ivi, I, Th. 27, 21 pp. 21, 17. 8! # 83 *
Ivi, IMI, Th. 16-17, pp. 44-45. Ivi, V, Th. 68, 70, 72, 74, pp. 97, 98, 99, 100-101. Ivi, V, Th. 25, pp. 82-84. Mi permetto di rinviare a F. Tomasoni, «// Sistema intellettuale» di Cudworth fra l'edizione originale e la
traduzione latina di Mosheim: culmine e crisi di un equilibrio, in «Rivista di Storia della Filosofia», XLVI, 1991
(4), pp. 629-660, spec. pp. 637-643 e Id., «Conjecture», «conceivability», «existence», cit., pp. 69-72. Thomasius, Versuch von Wesen des Geistes, cit., III, Th. I n. b), p. 35: «Nehmlich ich werde behaupten
/ daB in allen leiblichen Wesen ein Geist sey». 86 Tvi, V, Th. 35, p. 64. a vi VEL bh sie ped Soy #8 Ivi, VII, Th. 150-152, pp. 175-176.
# Sul contrasto fra le due concezioni, cfr. M. Albrecht, Thomasius — kein Eklektiker, in Christian Tho-
masius 1655-1728. Interpretationen, cit., pp. 74-94, spec. pp. 84-86, dove si accentua anche il contrasto fra misticismo e metodo eclettico.
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le opere, lo invitò a collaborare nelle osservazioni sulla pressione e acquistò perfino
un suo ritratto. Egli però seguì nelle sue ricerche una linea autonoma e giunse a importanti risultati nel campo della deviazione magnetica”. Appena avuta la cattedra ad Altdorf, egli aveva condotto una dura polemica contro l’astrologia differenziandosi dal suo predecessore Abdias Trew (1597-1669) che, come tanti matematici del tempo, era stato anche astrologo”. Mentre l’influenza del sole, della luna e dei pianeti era indubitabile, quella di determinate costellazioni non aveva nessun fondamento in un'osservazione rigorosa. In proposito Sturm aveva confutato l’attendibilità di molte osservazioni legate a determinate
congiunzioni astral”. Come a Bayle, la cometa del 1680-1681 gli offrì il pretesto per condurre una lotta alle credenze superstiziose e contrapporvi il metodo e i progressi della scienza. Mentre in quelle il legame fra le cause e gli effetti era
arbitrario, in questa esso risultava regolare e necessario”. Proprio in relazione ai fenomeni, Sturm precisò la sua visione dell’osservazione e degli esperimenti. Si potevano accogliere quelle ipotesi che spiegassero tutti e soltanto quei fenomeni determinati”*. Per questo era insostenibile il principio hylarchico o lo spirito della natura invocato da More per giustificare, con un concetto peraltro assai oscuro, i
più disparati fenomeni fisici”. I sensi dovevano essere diretti dalla ragione. Sul loro rapporto Sturm si concentrò affrontando la relazione di anima e corpo, ma anche esaminando il funzionamento della vista. Nella dissertazione Theosophiae h.e. cognitionis de Deo naturalis Specimen % H. Gaab, Die Royal Society in England in Der Wabrheit auf der Spur. Johann Christoph Sturm (1635-1703). Mathematiker, Physiker, Astronom, Hrsg. H. Volker u. Th. Platz, by Museum Schwarzes RoB Hilpoltsein, Büchenbach 2003, pp. 78-81.
© H. Gaab, Zur Biographie von J.Chr. Sturm, in Johann Christoph Sturm (1635-1703), Hrsg. H. Gaab, P. Leich u. G. Léffladt, Frankfurt a.M. 2004 («Acta Historica Astronomiae», vol. 22), pp. 63-64. 2 J.C. Sturm, Siderum influentia be. Efficacia in Mundum Hunc Sublunarem, sub Praes. M.J.Ch. Sturmii, decernit Ch. Wegleiter, 27 Sept. 1679, Altdorffi, Literis H. Meyeri, pp. 9-12, 23. 9 Cometa nuperus an et quae mala terris aut illaturus ipsemet influxu Physico, aut aliunde justo Dei Judicio inferenda portendere saltem et praesignificare credendus sit? Ea qua Christianum decet Philosophum libertate, dissentientium tamen pace quod fiat omnium, pro virili captuque suo decernit MJ. Ch. Sturmius [...] eodemque Preside auxiliante [...] tuebitur W. L. A. Reichelsheim Francus, febbr. 1681, Altdorfi, Literis Schònnerstaedtianis, pp. 3, 25, 27-32; Cometarum natura motus et origo secundum duas hodie Celebriores Joh. Hevelii & Petiti Celeberrimorum
Mathematicorum Hypotheses, Praeside M. J. Ch. Sturmio tuebitur Ch. Fürer, 7 Maji 1681, Altdorfi, Typis J.
H. Schénnerstaedt, pp. 45, 51. Per il senso storico-culturale della sua polemica, cfr. K.-D. Herbst, Der Beitrag von Johann Christoph Sturm zur astronomischen Forschung, in Johann Christoph Sturm (1635-1703), cit.,
pp. 203-225, spec. pp. 219-224. % M. Albrecht, Æypothesen und Phinomene. Zu Johann Christoph Sturms Theorie der wissenschaftlichen Methode, Lage inJohann Christoph Sturm (1635-1703), cit., pp. 119-135, spec. pp. 129, 130-131.
5 Ad Virum Celeberrimum Henricum Morum Cantabrigensem Epistola |...] de ipsius Principio Hylarchico sen
Spiritu Naturae, Norimbergae, sumptibus W. Endteri, 1675, 5, 14, 45; Collegium Experimental sive Curiosum, in quo primaria huius saeculi inventa et experimenta physico-mathematica |. spectanda oculis subjecit, Norimbergae
1676, pp. 33-34, 38-39, 42-45, 51.
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L’'umanesimo scientifico dal Rinascimento all °Illuminismo x a
Methodo mathematica conceptum® egli delineava una sorta di parallelismo psico-fisico rinviando all’esperienza, il criterio «più degno di tuttiy””, e nello stesso tempo a una volontà più potente della nostra?. Analogamente spiegava il fatto che in seguito alle impressioni sensoriali l’anima avesse le percezioni, proferisse giudizi, provasse passioni, una corrispondenza verificabile con «esperimenti quotidiani»”. Il parallelismo fra anima e corpo riemergeva anche nell’analisi della vista per la quale Sturm mostrava un patticolare interesse. In una dissertazione dedicata ad essa, egli prendeva le mosse dagli esperimenti del raggio luminoso in una camera oscura e sosteneva che qualcosa di simile avvenisse nell’occhio, in cui si proiettava
un’immagine capovolta. Era dunque una «piccola camera oscura», ma naturale, ben superiore nel funzionamento a quelle artificial”. Riprendendo la sua polemica contro More, Sturm sottolineava che il suo funzionamento non era dovuto «a un
certo spirito animale o a un principio plastico, a una non so che anima vegetativa o facoltà formatrice, sprovvista di ragione e consiglio», ma a un «nume sapientissi-
mo e potentissimo»! Da un lato infatti occorreva studiare la struttura anatomica dell’occhio, dall’altro bisognava ammettere che l’immagine recepita non equivalesse
ancora alla visione, pur essendone la condizione. Come spiegare un’unica percezione mediante due immagini e, per di più capovolte? A tale percezione non bastava neppure la trasmissione al cervello, bensì occorreva l'intervento dell’anima che «eccitata» da quegli stimoli pensasse e giudicasse. Per questo aveva avuto ragione Cartesio ad attribuire la conoscenza sensibile solo all'uomo!” Nella sua indagine Sturm coglieva il peso determinante delle condizioni soggettive, come era evidente nel colore!. Anzi fra l’anima immateriale e il corpo costatava un abisso incolmabile. Inoltre perché la prima riferiva le sue percezioni non agli stimoli ricevuti nel cervello, ma agli oggetti esterni? A questi interrogativi era vano, secondo Sturm, cercare una risposta. Gli spiriti animali, che erano materiali,
non potevano offrire la soluzione. Bisognava pensare «al potentissimo arbitrio» della volontà divina che, secondo una legge costante data da essa, facesse corrispondere
°° A Guelpho L.B. de Metternich, sub Praes. J. Ch., 13 april. 1689, Altdorfi, Typis H. Meyeri. 7 Ivi, pp. 29-30: «prae ceteris omnibus dignissimum».
° Ivi, p. 30. 9 Ivi, p. 36. ‘°° Dissertatio visionis sensum nobilissimum ex obscurae camerae tenebris, sub praes. J. Ch. Sturmii defendet I.
G. Doppelmayer, Norimbergensis, Altdorf, m. Jun. 1699, in Disputationum anatomicarum selectarum, vol. IIIT, Sensus externi, interni, respiratio, collegit A. Hallerus, Gottingae, apud A. Vandenhoeck, 1748, capp. I-IV, pp. 167-179. MT Ivi, p. 179. Viceversa Thomasius riferendosi pure all’esperimento della camera oscura ne dedusse l’immaterialità della luce: Versuch von Wesen des Geistes, cit., Th. 26-27 e n. g), pp. 85-86. 12 Dissertatio visionis, cit., pp. 181-182.
10° Ivi, pp. 183-186.
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i due mondi! . Anche gli errori di valutazione che talvolta intervenivano nella vista
erano stati così disposti dalla provvidenza divina!®, La necessità di un’anima immateriale perché ci fosse la percezione in senso proprio riproponeva la questione della sensibilità negli animali. Al riguardo Sturm mostrò incertezza. Da un lato cercò di attenuare l’interpretazione meccanicistica della natura animale, dall’altro affermò che essa aveva le sue ragioni. Rivendicando
i sensi all’uomo Cartesio aveva voluto dire che gli animali non se ne avvalevano allo stesso modo. Del resto lo scrittore francese aveva precisato di non voler togliere agli animali vita e sensazione, ma solo il pensiero. La sua opinione era in ogni caso «pia»
verso gli uomini!” Su questo punto tuttavia Sturm era molto più incerto di More e di Thomasius. Per il platonico di Cambridge l’immaterialità della sensazione era stata un argomento a favore dell'immortalità dell’anima che aveva attribuito agli stessi animali in una concezione spiritualistica dell’intero cosmo!”. Come abbiamo visto,
Thomasius ne subi influenza. Al contrario Sturm respingeva il ricorso allo spirito nella spiegazione dei fenomeni fisici pur ammettendo che la sensazione contenesse in sé un mistero e chiamasse in causa l’anima immateriale. Da un lato era difficile privare gli animali della sensazione, dall’altro era certo che la loro anima fosse materiale. In una dissertazione presentatagli nel 1683 sulle anime degli animali Sturm elogiava il rispondente per aver messo in rilievo i paradossi a cui avrebbe portato
l’anima immateriale negli animali. Nella dissertazione si era sostenuto che la loro anima fosse di natura ignea e potesse essere identificata col sangue, che come il fuoco aveva bisogno di aria'”’. Inoltre l’attribuzione all’anima del principio di attività, secondo l’insegnamento di Aristotele, non dimostrava la sua immaterialità poiché la materia non era puramente passiva!!°. Così negli animali il senso e l'immaginazione
14 Ivi, pp. 183-184: «Tametsi enim spiritus animalis sit quasi vinculum & medium, quo corpus in animam & anima vicissim in corpus agere dici potest, cum ipse tamen hic animalis spiritus materiatus sit & corporeus, non apparet quo pacto corporeum hoc principium afficere aliquod incorporeum, aut
contra, possit, nisi potentissimum voluntatis arbitrium interveniat, quod constanti quadam sibimet ipsi lata lege, efficiat, ut agentibus in corporis organa & spiritus animales, ibi praesentes externis objectis sensibilibus, quaedam in mente perceptiones & cogitationes excitentur, & vicissim obortis in mente libereque excitatis volitionibus, animales Spiritus eo modo moveantur, aut verius (cum in perpetuo moto jam sint) determinentur, qui ad volitiones illas exequendas est necessarius». 5 Ivi, p. 185. 106 Ivi, pp. 181-182. 2
17 H. More, Zhe Immortality of the Soul, London 1662? (ed. by A. Jacob, Dordrecht 1987, II 11, pp.
140-145). 108 Brytorum animas esse substantias et quidem corporeas, ptaes. J. Ch. Sturmio, autor et resp. J. Schnapperus, Gienga Suevus, 2 Jun. 1683, Altdorffi, Literis H. Meyeri, p. 15. 10 Ivi, pp. 8-10; 13. | . : M0 Ivi, p. 13: «Niti hanc sententiam falso principio, quasi omnis materia, quaecunque demum sit, esset purum putum principium passivum & merae passionis radix».
350.
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potevano dipendere dagli spiriti animali, che erano materiali e in proposito si citava l'olandese Adrian Heerebordi!!. Sulla spiegazione avanzata dal dottorando, Sturm non si pronunciava, anche se l’ipotesi era stata sicuramente suggerita da lui, che conosceva la filosofia olandese e in particolare quell’orientamento eclettico che aveva cercato di conciliare il cartesianesimo con la tradizione aristotelica!!?. Anche in dissertazioni più tarde Sturm continuò a ribadire la differenza essenziale fra l’anima umana, immateriale e immortale, e quella degli animali, materiale!!. Nell’enunciare questa contrapposizione si affermava che la materia «non facesse
nulla»!!4. Tuttavia nella spiegazione delle azioni degli animali si tornava a parlare di un principio intrinseco di natura ignea, capace di penetrare nei corpi. Così la sensazione degli animali faceva pensare che la materia ‘non fosse «inerte», benché nell’uomo ci fosse la mente a dirigere l’anima sensitiva!!.
Dinamismo spirituale della sensazione: Leibniz Rispetto alla problematica del principio spirituale o materiale della sensazione e, più in generale, rispetto alla sensibilità è importante la posizione di Leibniz, non
così lontano dall’Ek/kz#&k!!°, Egli conosceva sia Sturm, sia Thomasius e se mostrò perplessità verso il secondo, ammirò il primo che, come lui, era stato a Lipsia discepolo di Weigel. Pensando alla creazione di una «società matematico-magnetica» era convinto che Sturm ne dovesse far parte per le sue osservazioni sulla deviazione magnetica. Del resto il professore di Altdorf aveva invitato i dotti del tempo a condurre sistematiche rilevazioni sul fenomeno. Inoltre aveva anche proposto una interessante semplificazione delle figure geometiche di Euclide, Archimede e altri in base ai principi cartesiani. Tuttavia a questo proposito Leibniz sentiva di possedere
' Ivi, p. 14: «Dicit enim expresse et sobrie: “Sensionis omnis non tantum organon, sed & primum principium esse spiritus animales, nec ullam aliam substantiam esse superaddendam, quae velut anima hisce spiritibus tanquam organis utatur. '? M. Albrecht, Ekkktik. Eine Begriffigeschichte mit Hinweisen auf die Philosophie- und Wissenschaftsgeschichte,
Stuttgart 1994, pp. 216-217, 222. 15 De animae humanae post mortem corporis aeternum superstitis ex lumine rationis etiam deducenda certitudine, sub praes. M.J.Ch. Sturmii, Jun. 1698, defendet J.G. Miillerus, H. Meyeri, spec. pp. 10-12; De Brutorum actionibus, praes. J. Ch. Sturmio, examini sistit D. Allgòwer, Ulma, Suevus, Maj, 1700, spec. pp. 8-10.
"4 De animae humanae post mortem corporis, cit., p. 9. "S De Brutorum actionibus, cit., pp. 9, 7.
»
!!° Sulla vicinanza di Leibniz al programma della filosofia eclettica ha insistito Ch. Mercer, Mechanizing Aristotle: Leibniz and reformed Philosophy, in M.A. Stewart (ed.), Studies in Seventeenth-Century European Philosophy, Oxford 1997, pp. 117-152, spec. pp. 132-139, 144-152.
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351
un metodo superiore, basato sul calcolo infinitesimale!!7. Proprio a questo riguardo
si stabilì una frattura fra loro. Informato dell’interesse suscitato in Guglielmini dalla critica di Sturm alla sua
teoria della quadratura del cerchio!'8, Leibniz, che non se n'era accorto, reagì indi-
spettito!!. Ricevuto dall’Italia l'estratto delle parole di Sturm, vi vide l’espressione di una matematica ormai superata che giustapponeva numeri irrazionali a numeri razionali e, pur ammettendo di non essere stato forse troppo chiaro nell’esposizione
del principio infinitesimale'”, lamentò la mancanza di tatto in Sturm che avrebbe potuto prima comunicargli in privato le sue perplessità!”!. Leibniz ritorse dunque la critica coinvolgendo anche il parallelismo psicofisico proposto da quello. Riferendosi alla 7eosofia di Sturm biasimò i «pregiudizi cartesiani», in particolare il «sistema della causa occasionale». «La ragione speciale del mutamento (per es. nel nostro corpo) non va trovata in una causa generale (per es. nella volontà o nel decreto di produrre nel corpo ciò che vuole l’anima), ma nella costituzione delle creature stesse». Il concetto di infinitesimo e di differenziale poteva fornire una soluzione migliore: ogni particella era un mondo di innumere-
voli sostanze’”. Alla separazione Leibniz sostituiva la continuità. Egli era rimasto affascinato soprattutto dall’udito in cui la vibrazione di un corpo provocava altre vibrazioni in «corpi omotoni», dal mezzo dell’aria e dell’acqua fino all’orecchio. Un ruolo essenziale era giocato dall’infinitamente piccolo. Come poi dall’orecchio «l’espressione» si propagasse al cervello era una difficoltà «comune» agli altri sensi, che doveva essere spiegata in parte «dagli esperti di anatomia», in parte dai «metafisicyy>.
Su queste basi si comprendono meglio le posizioni assunte da Leibniz nei Nuovi saggi sul! intelletto umano. La sua difesa delle percezioni inavvertite che ci accompagnano sempre e che impediscono di tracciare una demarcazione netta fra veglia e sonno, ma anche fra vita e morte mira a unire indissolubilmente l’anima alla sensibilità, intesa come sua essenziale attività. La presenza in ogni percezione di percezioni infinitesimamente piccole fa sì che ci sia sempre un fondo di oscurità
117 Lettere di S. Scheffer, 12 (22) agosto 1681 e 20 (30) settembre 1681, SsuB III m, Berlin 1991, pp. 483, 501, 687 e Beilage alla lettera a Tschirnhaus, 17 ottobre 1684, SSuB III 1v, Berlin 1995, p. 179.
48 Lettera di R.Ch. von Bodenhausen, Firenze, 24 agosto 1692, SsuB III v, Berlin 2003, p. 378. 1° Lettera a von Bodenhausen, 25 settembre (5 ottobre) 1692, ivi, p. 402. din 120 Lettera a von Bodenhausen, 12 (22) luglio 1693, ivi, pp. 600, 604-606.
12! Per questa osservazione, prima avanzata da altri e poi recepita dallo stesso Leibniz, cfr. lettera di von
Bodenhausen, Firenze, 5 settembre 1693, ivi, p. 623 e lettere a A. Vagetius, 27 dicembre 1693 (6 gennaio
1694) e al comune maestro Weigel del 10 (20) maggio 1694, SsuB III vi, Berlin 2004, pp. 14, 94.
122 SsuB III vi, pp. 94-95.
:
13 Lettera a G. Ch. Schelhammer, febbraio/marzo 1681, SSuB III m, pp. 355-357.
L’'umanesimo scientifico dal Rinascimento all'Illuminismo \ in cui «il presente è pieno dell’avvenire e carico del passato»! Come dunque il mutamento è spiegato a partire dall’infinitesimamente piccolo, così è anche dell'armonia. Riprendendo la polemica con Sturm Leibniz lamentava che i cartesiani 352
avessero stabilito fra le percezioni e i loro oggetti una connessione arbitraria, «poco
degna della saggezza dell’autore di tutte Je cose ». Viceversa le «parti insensibili delle nostre percezioni sensibili» permettevano di stabilire fra le percezioni e i movimenti dei corpi un rapporto «essenziale» in termini di proporzioni, come fra l’ellissi o la parabola e il cerchio! Su questa base Leibniz ribadiva la continuità della natura e affermava che non c'era corpo senza anima, né anima senza corpo. In tal senso lamentava che si fosse abbandonata per gli angeli l’idea che avessero corpi sottili e se ne fossero fatte delle intelligenze separate. «Le anime e gli spiriti creati» non erano «mai privi di organi e mai senza sentimenti»!°. Nello stesso tempo però attribuiva anche agli animali un’anima immateriale e quindi immortale. Infatti la materia era tanto poco capace di produrre «sentimento» quanto ragione'””. Anziché a Sturm, Leibniz si avvicinava a Thomasius, benché fosse lontano nel metodo filosofico. Pur assegnando un ruolo
fondamentale alla matematica e all’esperimento, egli condivideva l'apprezzamento per quelli che, come Cardano, Campanella, Conway, Van Helmont, More, avevano
visto la percezione in tutte le cose. Piuttosto occorreva spiegare in modo razionale
le intuizioni che quelli avevano espresso in modo mistico". Allo scopo l’infinitesimamente piccolo poteva suggerire una corrispondenza fra i punti del movimento e quelli della percezione. Tale corrispondenza che si mostrava
4 G.W. Leibniz, Nouveaux Essais, SsuB VI vi, Berlin 1962, pp. 54-55 (tr. it. M. Mugnai e E. Pasini: Id., Scritti Filosofici, II, Torino 2000, pp. 27-28). Per la funzione delle percezioni inavvertite che, all’interno del dinamismo leibniziano, rendono superflua la trasmissione degli spiriti animali e degli urti meccanici,
cfr. E. Pasini, Corpo e funzioni cognitive in Leibniz, Milano 1996, pp. 124-130, 132, 140-141. '® Leibniz, Nouveaux Essais, cit. pp. 56, 131-132 (tr. it: pp. 29, 106). Per la sostituzione del rapporto «fisico» fra anima e corpo col rapporto «ideale», cfr. Y. Belaval, Leibniz critique de Descartes, Paris 1960,
pp. 484-488. ' Leibniz, Nouveaux Essais, cit., p. 212, anche pp. 58-59 (tr. it: p. 189, anche pp. 31-32). Per la coerenza di questa idea con il sistema di Leibniz, cfr. H. Busche, Mind and body in the young Leibniz, in M. Carrara, A. Nunziante, G. Tomasi, (eds.) Individuals, Minds and Bodies: Themes from Leibniz, Stuttgart
2004, pp. 141-158, spec. pp. 157-158. Per il legame fra continuità e percezioni inavvertite, cfr. D.A. Anapolitanos, Leibniz; representation, continuity and the spatiotemporal, Dordrecht 1999, pp. 27-49. ' Leibniz, Nouveaux Essais, cit., p. 65 (tr. it: p. 39). Per la riconduzione della percezione all’identità del soggetto e all’immaterialità dell'anima, cfr. N. Jolley, Perception and immateriality in the «Nouveaux Essais», in R.S. Woolhouse (ed.), Critical Assessments, IV, London and New York 1994, pp. 228-244, spec. pp. 240-242.
Leibniz, Nouveaux Essais, cit., p. 72 (tr. it: pp. 47-48). Per l’influenza del platonismo sull’epistemologia di Leibniz e proprio in relazione alla sensibilità e alla continuità, cfr. Mercer, Leibniz’s Metaphysics.
Its Origins and Development, Cambridge 2001, pp. 174-178, 243-244, 248-250, 292-293, 322, 330, 334, 354-356, 374, 394, 397-398, 403, 426, 455.
Tra misticismo e scienza: l’uomo e la sua ‘sensibilità’ nell'Eklektik
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emblematicamente nell’udito portava Leibniz a correggere la figura della camera oscura che Sturm aveva illustrato. Era meglio pensare che la tela su cui si rifletteva l’oggetto fosse «diversificata» in pieghe, fosse tesa ed elastica, capace di reagire e di vibrare, come una corda al suono". Al di sopra delle immagini sensoriali Leibniz poneva le idee esatte, come affermava rispetto al caso del cieco nato proposto a Locke da Molineux e destinato a diventare celebre nel Settecento, fino a Condillac!*, Tuttavia era fermo nell’insistere sul fatto che la sensazione fosse attiva, in un senso ben più marcato rispetto a quello riconosciuto dai cartesiani. Si può dunque dire che Sturm e Leibniz abbiano contribuito a mettere al centro delle riflessioni in Germania la sensibilità nella sua funzione conoscitiva. Se il primo ha nettamente criticato una sua applicazione in senso mistico, il secondo grazie a un modello matematico più flessibile ha mostrato maggior apertura a intuizioni presenti nelle correnti mistiche. Essi, avendo scritto in latino o in francese non usarono mai il termine Sinnlichkeit*, anche se le loro riflessioni confluirono in quel concetto introdotto da Thomasius
con rilevanti implicazioni morali. Nell’affermazione dell’attivita e spiritualità della sensibilità si può vedere fra Leibniz e Thomasius una vicinanza che tuttavia scom-
pare in relazione alla ragione. Mentre infatti il primo è convinto di poter imbrigliare il misticismo della sensibilità universale tramite strumenti razionali, il secondo ne
avverte maggiormente la forza eversiva.
Perplessità e conseguenze a partire da Budde Una consapevolezza dei pericoli, a cui portava il misticismo della Sinz/chkett, ma
anche delle difficoltà di un meccanicismo di derivazione cartesiana fu espressa da un più giovane collega e amico di Thomasius, Johann Franz Budde (1667-1729). Conformemente al programma eclettico cui pure dichiarò di aderire'?. egli mostrò apprezzamento sia per Sturm, sia per Thomasius. Del primo dichiarò di apprezza-
129 Leibniz, Nouveaux Essais, cit., pp. 144-145 (tr. it: pp. 119-120). Cfr. in proposito, G. Lebrun, La notion de «ressemblance» de Descartes a Leibniz, in Sinnlichkeit und Verstand in der deutschen und franzüsischen Philosophie von Descartes bis Hegel, Hrsg. H. Wagner, Bonn 1976, pp. 39-58, spec. pp. 45-49.
130 Leibniz, Nouveaux Essais, cit., p. 137 (tr. it: p. 112). Per l’aspetto attivo della sensazione e la
superiorità dell’intelletto, cfr. Mugnai, Phänomene und Aussenwelt in der Leibnizschen Erkenntnistheorie, in: Wissenschaft und Gestaltung. Internationales Symposion zum 350. Geburtstag von G.W. Leibniz, Hrsg. K. Nowak und H. Poser, Hildesheim 1999, pp. 145-155, spec. pp. 145-146, 150-152, 154. 51 Per Pesigenza, avvertita anche da Leibniz, di creare in tedesco una terminologia filosofica, cfr. von Wille, Lessico filosofico della Friibaufklirang, cit., pp.XXII-XXVII. poso Institutionum Philosophiae Eclecticae, t. IL, Halae 117248) BALE. EM (a UR lectori benevolo, in Xd., Gesammelte Schriften, II, Hrsg. W. Sparn, Hildesheim 2004, pp. n.n.: «eclectico plane
more sentiendi libertatem ubique intemeratam conservaverim».
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L’umanesimo scientifico dal Rinascimento all Illuminismo \ x
re il metodo sperimentale!, ma prese le distanze dal meccanicismo in nome del vitalismo che aveva esaltato il dinamismo degli spiriti sui corpi. Tuttavia questo correva pure seri rischi per la sua affinità con l’empia dottrina di Spinoza!*. In proposito egli accennò a Thomasius e, richiamando la critica di Sturm, espresse le
sue perplessità verso una teoria che pretendeva di spiegare con uno stesso principio non solo fenomeni fisici, ma anche le passioni'”. Concludeva così che ogni teoria presentava vantaggi e svantaggi e occorreva giungere a una sintesi fra la filosofia moderna, volta soprattutto agli esperimenti e alla materia, e quella antica, più attenta allo spirito! In verità con Locke si era cominciato a registrare qualche progresso rispetto alla mente umana, ma ci si muoveva ancora attraverso congetture!” Sulla scorta di Sturm Budde ricordava che non bisognava attribuire agli oggetti esterni ciò che si percepiva col cervello poiché tale contenuto era assolutamente diverso dal moto impresso agli organi. A proposito della vista richiamava la camera oscura, ma insisteva sull’elasticità del cristallino. Scorgeva infine nel tatto qualcosa di
fondamentale, in qualche modo presente negli altri sensi! Se queste osservazioni permettono di registrare la rapida diffusione dei temi e delle problematiche legate alla sensibilità, l’incertezza che domina il quadro generale è evidente. Fra quelli che avevano delineato il dualismo fra anima e corpo, ricomposto attraverso il decreto arbitrario di Dio, e quelli che avevano diviso l’uomo in tre parti, come corpo, anima
e spirito intendendo l’anima come sfera materiale sottoposta allo spirito!, Budde non prendeva una posizione definitiva. I primi spiegavano meglio il pensiero della riflessione, i secondi le percezioni itriflesse e imovimenti involontari, presenti anche
negli animali!*. Bisognava dunque ammettere che nessun mortale può conoscere con certezza «le essenze delle cose», né «i principi dell’operare»!*!. L’insistenza sui limiti della ragione poteva aprire la via sia al sentimento della fede, sia all’indagine critica della sensibilità. Queste direzioni non rimarranno senza influenza. È curioso che Jacobi nel riprendere un passo dell’ /nquiry concerning Human UnderstandingdiHume secondo il quale l’idea della forza verrebbe in noi dal fatto che proviamo una resistenza e siamo costretti a esercitare una forza contraria insista sul sentimento, un termine presente nell’originale, ma enfatizzato dal pensatore tedesco
19) Ivi, p. 18. ™ Ivi, pp. 304-305. 155 Ivi, pp. 305-308, 310, 311, 312, 313.
136 Ivi, pp. 314, 316, 30-31. 197 Ivi, pp. 15, 29. 158 Ivi, pp. 82-84.
159 Ivi, pp. 107-110. 140 Ivi, pp. 110-113.
141 Ivi, pp. 115-116, 126-128.
è
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ed equiparato alla fede!*’. Pare qui di ritrovare quell’esperienza della pressione sul dito alla quale si rifaceva Thomasius contrapponendosi agli esperimenti scientifici. La coloritura soggettiva del termine Stnnlichkeit giocherà un ruolo nella letteratura. Lessing parlerà di «calore e sensibilità dell’espressione»!#, Le varie accezioni del termine avranno importanza per tutto il Settecento, come le tesi presentate a Dorsch verso la fine del secolo dimostrano. In esse, accanto a Condillac, emerge il riferimento a Reinhold'*. Questi, fino al termine della sua rifles-
sione, dedicherà grande attenzione al nesso fra sensibilità e intelletto ricollegandosi a quelle riflessioni sulla psicologia della sensazione, della percezione e dei sentimenti che si erano aperte con Leibniz e con PERK. Egli vedrà nel criticismo kantiano la possibilità di andare oltre il dilemma di un principio materiale o spirituale della sensibilità, qual era stato avvertito al tempo dell’ Ekkktik e nel periodo successivo dell’illuminismo tedesco. Si doveva esaminare la facoltà come tale prescindendo da
un presunto soggetto o sostanza! Essa era sì caratterizzata dalla ricettività, ma implicava anche un'attività rappresentativa che rimaneva alla base dell’intelletto!‘, Se l’unità della rappresentazione si esprimeva nella lingua, questa era possibile grazie alla sensibilità! Al di là delle critiche ai leibniziani, è difficile contestare il fatto
che, dopo un secolo e dopo la frattura del criticismo kantiano, fossero ancora vivi spunti, intuizioni e problemi che avevano caratterizzato l’Eklektk e l'introduzione della Sinn/ichkeit nella filosofia tedesca.
2 Jacobi, David Hume, cit., p. 55: «Wie sie wissen, gesteht Hume selbst, in eben dieser Abhandlung, daB wir die Vorstellung von Kraft allein aus dem Gefühl unserer eigenen Kraft haben, und zwar aus dem Gefühl ihres Gebrauchs um einen Widerstand zu überwinden. Das Gefühl einer Kraft und die Wahrnehmung des Erfolgs ihrer Anwendung, gibt er also zu», cfr. D. Hume, An Inquiry concerning Human Understanding, sect. VII, 1, in Id., The Philosophical Works, ed. by Th.H. Green and Th.H. Grose, IV, London 1882, repr. Aalen 1992, p. 56: «It may be pretended, that the resistance which we meet
with in bodies, obliging us frequently to exert our force, and call up our power, this gives us the idea of force and power). 14 G.E. Lessing, Uber eine zeitige Aufgabe, in Philosophische Schriften, Werke, XX, Hrsg. J. Petersen und W. von Olshausen, Hildesheim 1970, p. 149.
14 Theorie der äuffern Sinnlichkeit, cit., pp. 60, 97.
145 KL, Reinhold, Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermigens, Prag-Jena, WidtmannMauke, 1789, pp. 175-178, 180-181, 196-199, 204-205, 212-213, 270, 286-287, 279, 291, 329, 339-340, 352-355, 429 (tr. it. F. Fabbianelli, Firenze 2006: pp. 116-117, 118, 127-129, 132, 136, 165, 170, 173-174, 176, 197, 202-203, 209-210, 248-249). 146 Ivi, pp. 226-227, 263-264, 271, 279, 301, (tr. it: pp. 143, 162, 166, 170, 181).
147 Reinhold, Das menschliche Erkenntnisvermigen aus dem Gesichtspunkte des durch die Wortsprache vermittelten
Zusammenhangs zwischen der Sinnlichkeit und dem Denkvermigen, Kiel, acad. Buchhandlung, 1816, pp, 19,
21, 57, 59.
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