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Italian Pages 482 [469] Year 2006
L A VOLUME I
PITTURA
MEDIEVALE
A
ROMA CORPUS
LA PITTURA MEDIEVALE A ROMA 312-1431 CORPUS E ATLANTE
CORPUS Maria Andaloro - Serena Romano Ideazione e direzione scientifica
I Volume L'ORIZZONTE TARDOANTICO E LE NUOVE IMMAGINI
II Volume ROMA E BISANZIO
III Volume PRIMA E DOPO IL MILLE
IV Volume RIFORMA E TRADIZIONE
V Volume
lL D UECENTO E LA CULTURA GOTICA VI Volume APOGEO E FINE DEL MEDIOEVO
ATLANTE - PERCORSI VISIVI Maria Andaloro Ideazione e direzione scientifica
I Volume VATICANO, SUBURBIO, RIONE MONTI
II Volume RIONI TREVI, COLONNA, CAMPO MARzIO, PONTE, PARIO NE, REGOLA, PIGNA, CAMPITELLI, SANT' ANGELO
III Volume RIONI RIPA, TRASTEVERE, ESQUILINO, SALLUSTIANO, CELIO, SAN SABA
In copertina Testa di Pietro (affresco staccato) Basilica di San Paolo Fuori le Mura
MARIA A NDALORO
SERENA ROMANO
LA PITTURA MEDIEVALE A ROMA 312- 143 1 CORPUS E ATLANTE
PIANO DELL'OPERA
CORPUS Maria Andaloro - Serena Romano Ideazione e direzione scientifica
ATLANTE - PERCORSI VIS IVI Maria A ndaloro Ideazione e direzione scientifica
I Volume L'ORIZZONTE TARDOANTICO E LE NUOVE IMMAGINI
I Volume VATICANO, SUBURBIO , RIONE MONTI
II Volume ROMA E BISANZIO
II Volume RIONI TREVI, COLONNA, CAMPO MARzro, PONTE, PARIONE, REGOLA, PIGNA, C AMPITELLI, SANT' A NGELO
III Volume PRIMA E DOPO IL MILLE IV Volume RIFORMA E TRADIZIONE V Volume IL DUECENTO E LA CULTURA GOTICA VI Volume APOGEO E FINE DEL M EDIOEVO
III Volume RIONI RIPA , TRASTEVERE, ESQUILINO, SALLUSTIANO, CELIO, SAN SABA
U NIVERSITÀ DEGLl STUDI
U NIVERSITÉ
DELLA T USCIA - VITERBO
DE L AUSANNE
REGIONE LAZIO Assessorato alla Cultura, Spettacolo e Sport
Maria Andaloro
L'ORIZZONTE TARDOANTICO E LE NUOVE IMMAGINI 312-468 CORPUS VOLUME I
Il Jaca Book Il
© 2006 Editoriale] aca Book Maria Andaloro Serena Romano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana ottobre 2006
ISBN 88-16-60371-2 Progettazione, realizzazione grafica e assistenza redazionale a cura di Palombi & Partner via Timavo, 12 - 00195 Roma www.palombieditori.it Imernational distribution by Brepols Publishers, Begijnhof 67 , B-2300 Turnhout Te!: +32 14 44 80 30 - Fax: +32 14 42 89 19 [email protected] - www.brepols.net Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book - Servizio Lettori Via G. Frua 11, 20146 Milano, te!. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: [email protected], sito internet: www.jacabook.it
DIREZIONE SCIENTIFICA
Maria Andaloro
Collaboratori scientifici Giulia Bordi, Geraldine Leardi, Stefania Pennesi Redazione scientifica Giulia Bordi, Geraldine Leardi Edizione dei testi epigrafici Flavia De Rubeis Ricerche e consulenza per le fonti e la documentazione visiva Michele Benucci Ricerche per gli apparati iconografici Giulia Bordi Geraldine Leardi Stefania Pennesi Domenico Ventura Campagne fotografiche Gaetano Alfano Domenico Ventura Coordinamento Domenico Ventura Revisione bibliografica Cristina Ranucci
Testi Gaetano Alfano Maria Andaloro Fabrizio Biscanti Giulia Bordi Francesca Consoli Claudia Corneli Jéròme Croisier Lorenza de Maria Giorgio Filippi Raffaella Giuliani Geraldine Leardi Paolo Liverani Barbara Mazzei Maria Raffaella Menna Francesca Romana Moretti Stefania Pennesi Simone Piazza Paola Pogliani Cecilia Proverbio Cristina Ranucci Giuliana Solimine (G.S. ) Manuela Viscontini
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA - VITERBO
Dipartimento di Studi per la Conoscenza e la Valorizzazione dei Beni Storici e Artistici Maria Andaloro Giulia Bordi Geraldine Leardi Maria Raffaella Menna Stefania Pennesi Paola Pogliani Manuela Viscontini
I: orizzonte tardoantico e le nuove immagini è stato realizzato grazie al contributo dell'Assessorato alla Cultura, Spettacolo e Sport della Regione Lazio.
La ricerca ha avuto il sostegno finanziario dell'Università degli Studi della Tuscia e del Ministero dell'Università e della Ricerca, fondi PRlN 2002-2006, coordinatore scientifico nazionale Maria Andaloro. I.:orizzonte tardoantico e le nuove immagini costituisce il primo dei sei volumi dedicati al Corpus nell'ambito del progetto 'La pittura medievale a Roma 3121431. Corpus e Atlante' ed è compiuto in collaborazione con i Musei Vaticani e la Biblioteca Apostolica Vaticana e con il concorso del Ministero per i beni e le attività culturali - Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico del Lazio e Soprintendenza Archeologica di Ostia.
'
Maria Andaloro e Serena Romano desiderano ringraziare le istituzioni che, a vario titolo, hanno sostenuto la pubblicazione dei primi tre volumi del progetto: l'Assessorato alla Cultura della Regione Lazio, ]'Università degli Studi della Tuscia-Viterbo , l'Université de Lausanne, il Fonds National Suisse de la Recherche Scientifique e la Fondation Chuard-Schmid, l'American Academy in Rome, la British School at Rome, il Deutsches Archaeologisches lnstitut di Roma, la Biblioteca dell'Ecole Française de Rome, la Biblioteca e la Fototeca Hertziana di Roma, il Kunsthistorisches lnstitut di Firenze, la Biblioteca dell'Istituto Norvegese di Roma, la Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, l'Istituto Centrale per il Restauro, l'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, la Soprintendenza Archeologica di Roma, il Fondo per il Culto del Ministero degli Interni, il Museo dell'Alto Medioevo di Roma, il Museo Barracco di Roma; e coloro che all'interno delle istituzioni hanno offerto un fondamentale aiuto per attuare il progetto: per l'Università degli Studi della Tuscia Marco Mancini, Magnifico Rettore, Giovanni Cucullo, Direttore Amministrativo, Giuliano Bellezza , Direttore del Dipartimento di studi per la Conoscenza e la Valorizzazione dei Beni Storici e Artistici e Andrea Arcangeli, Segretario Amministrativo del Dipartimento di studi per la Conoscenza e la Valorizzazione dei Beni Storici e Artistici; per l'Université de Lausanne André Wyss, già Doyen de la Faculté des Lettres; per la Regione Lazio Maria Cecilia Mazzi, già Dirigente del Dipartimento Promozione Cultura, Spettacolo, Turismo e Sport, e Lorenza de Maria; per i Musei Vaticani Francesco Buranelli, Direttore Generale, Arnold Nesselrath , Direttore del Reparto per l'arte bizantina, medievale e moderna, Anna Maria de Strobel, Ispettore del Reparto per l'arte bizantina, medievale e moderna, Guido Comini, Direttore del Museo Storico della Biblioteca Vaticana, Giorgio Filippi, Assistente del reparto per la Raccolta Epigrafica, Maurizio De Luca, Capo restauratore del laboratorio di restauro, Rosanna Di Pinto, responsabile dell'Archivio Fotografico e Daniela Valei; per la Biblioteca Apostolica Vaticana Mons. Raffaele Farina, Prefetto, e Ambrogio Piazzoni, Vice Prefetto; per la Fabbrica di San Pietro Mons. Vittorio Lanzani, Delegato, e Pietro Zander; per la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra Fabrizio Biscanti, Segretario, e Barbara Mazzei, responsabile dell'Archivio Fotografico; per il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana Danilo Mazzoleni, Rettore, e Giorgio Nestori, Direttore della Biblioteca; per il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Luciano Marchetti, Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio; per l'Istituto Centrale per il Restauro Caterina Bon Valsassina, Direttrice, Massimo Bonelli, Laura D'Agostino, Giulia Tamanti, le restauratrici Elisabetta Anselmi e Carla D'Angelo e Caterina Pileggi, responsabile dell'Archivio fotografico; per la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed
etnoantropologico del Lazio Rossella Vodret, Soprintendente, Paolo Castellani, Isabella Del Frate, Andreina Draghi, Alia Englen , Barbara Fabjan, Graziella Frezza, Laura Gigli, e Giorgio Guarnieri e Angelo Sinibaldi dell'Archivio fotografico; per la Soprintendenza Archeologica di Ostia Anna Gallina Zevi già Soprintendente; per la Soprintendenza Archeologica di Roma Mariarosaria Barbera, Paola Di Manzano, Fedora Filippi, Rita Paris e la restauratrice Silvia Borghini; per la Soprintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma Antonella Galletto e Rossella Motta; per il Museo dell'Alto Medioevo di Roma Maria Stella Arena, Direttrice, e Anna Onnis; per il Museo Barracco di Roma Maresita Nota, Direttrice; per la Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte Stefania Murianni, Direttrice, e Luciano Arcadipane; per l'American Academy in Rome Christina Huemer, Direttrice della Biblioteca, e Paolo Brozzi, Tina Morra, Antonio Paladino; per la British School at Rome Valerie Scott , Direttrice della Biblioteca; per la Biblioteca Hertziana Christina Riebesell, Direttrice della Fototeca, Regine Schallert e Michael Schmitz; per l' Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione Anna Perugini; per l'Università di Roma 'La Sapienza', Facoltà di Ingegneria, Marco Carpiceci e Facoltà di Architettura "L. Quaroni" Marina Docci ; per l'Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata Francesco Pontoriero, Direttore, e Giovanni Marotti; i seguenti padri rettori e parroci delle basiliche e chiese romane: abate Jacques Brière e Pierluigi Caponera dell'Abbazia delle Tre Fontane, padre Giancarlo Guidolin di Santa Costanza e Sant'Agnese fuori le mura, padre Maurice Fearon e padre Paul Lawlor di San Clemente, padre Venanzio Di Matteo di San Crisogono, padre Pierluigi Girali di San Giovanni a Porta Latina, padre Bruno Mustacchio di San Lorenzo fuori le mura, suor Anna e suor Esther di Santa Maria in Via Lata, padre Evandro Correa dell'Archivio storico dell'Abbazia di San Paolo fuori le mura, padre Luigi Coluzzi di Santa P assera, padre Giuseppe Casetta di Santa Prassede, padre Gianfranco Basti e Mario Antonucci di Santa Pudenziana, suor Concetta Pilo di San Sisto Vecchio; don Eugenio Girardi del Vicariato di Roma; un grazie ancora a Walter Angelelli, Nathalie Blancardi, Adrien Burki, Peter Cornelius Claussen, Maria Paola Del Moro, Benedetto Di Fazio, Silvana Episcopo, Ivan Foletti, Mario Gramuglia, Sergio Guarino, Maya Haederli, Anita Margiotta, Christian Miche!, Alessio Monciatti, Daniela Mondini, Giulia Orofino, Enrico Parlato, Maria Donatella Raneri, Alessia Rovelli, Maria Cristina Tomassetti, Lucrezia Ungaro; e da ultimo, ma non certo per ultimi, coloro che dal primo momento, ormai molto tempo fa, hanno creduto nel progetto e l'hanno entusiasticamente sostenuto: Sante Bagnoli eJoshua Volpara diJaca Book; e coloro che hanno diviso con noi le fatiche della lunga estate del 2006 , Francesco e Cristina Palombi, Angela Pumelli, Francesco Sciannandrone, Leo Zampa e Domenico Piccari di Palombi Editori.
SOMMARIO
INTRODUZIONE
11
Maria Andaloro L'IRRUZIONE DELLE ' NUOVE' IMMAGI I
15
PARTE PRIMA D A COSTANTINO A INNOCENZO I LA PITTURA MONUMENTALE, FUNERARIA, PROFANA
Maria Andaloro D ALLA STATUA ALL'IMMAGINE DIPINTA
37
LA PITTURA MONUMENTALE SCHEDE 1. I mosaici
la. lb. le.
ld. l e.
lf. lg.
esistenti e perduti di Santa Costanza'''
Motivi ornamentali e scene di vendemmia sulla volta dell'ambulacro La decorazione della torretta Un frammento del rivestimento dei sottarchi. Il chrismon fra le stelle llfluvius argenteus, scene dell'Antico e del Nuovo Testamento nella cupola I.;opus sectile del tamburo La Traditio clavium nell'absidiola nord La Traditio legis nell'absidiola sud
2. I mosaici perduti di San Pietro in Vaticano di età costantiniana 2a. 2b.
La Traditio legis nell'abside Costantino offre il modello della basilica sull'arco trionfale
53 54 66 69 72
79 81 84
87 87 90
3. I ritratti clipeati a mosaico dal cimitero di Ciriaca presso San Lorenzo fuori le mura e conservati nei Musei Vaticani
92
4. Storie cristologiche della cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni
97
5. La decorazione absidale dell'oratorio del Monte della Giustizia
105
6. Scene di martirio nell'oratorio sotto la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo
108
7. La decorazione perduta dell'oratorio di San Pietro in Santa Pudenziana
111
8. Il mosaico absidale di Santa Pudenziana
114
7
L A PITTURA FUNERARIA S CHEDE
9. Il mosaico con Cristo-Helios nel sepolcro dei Giulii della necropoli vaticana
126
10. Storie di Patriarchi del cubicolo B nell'ipogeo di via Dino Compagni
131
11. Dipinti della catacomba dei Santi Marcellino e Pietro
136 136 138
1 la. La Vergine con due Magi nel cubicolo 69 llb. Tre scene di miracoli nel cubicolo 65 detto di Nicerus
12. Dipinti della catacomba anonima di via Anapo 12a. Scene di miracoli nel nicchione 14 12b. Storie vetero e neotestamentarie nel nicchione 8
143 143 145
13 . Storie veterotestamentarie nel cubicolo C dell'ipogeo di via Dino Compagni
149
14. I dipinti del cubicolo F detto di Sansone nell'ipogeo di via Dino Compagni
154
15 . Figura di donna con bambino nel Coemeterium Maius
158
16. Le pitture del cubicolo A nell'ipogeo di via Dino Compagni
160
17. Le figure di Veneranda e di santa Petronilla nell'arcosolio detto di Veneranda nella catacomba di Domitilla
163
18. Orfeo nell'arcosolio 79 della catacomba dei Santi Marcellino e Pietro
166
19. Le pitture del cubicolo 'di Leone' nella catacomba di Commodilla
168
20. Il mosaico con la Maiestas Domini, la Resurrezione di Lazzaro e i Tre fanciulli nella fornace della catacomba di Domitilla
175
21. Cristo e i dodici Apostoli nel cubicolo 'dei Pistores' nella catacomba di Domitilla
179
22 . Il mosaico con la storia di Giona sulle lastre di chiusura di un loculo del cimitero di Aproniano
181
23. I mosaici dell'arcosolio nelle catacombe di Sant'Ermete sulla via Salaria Vetus
182
24 . I mosaici dell'arcosolio nel secondo piano del cimitero di Priscilla
184
25 . Le pitture della volta nel cubicolo 'dei Santi' della catacomba dei Santi Marcellino e Pietro
188
26. La Traditio legis nell'arcosolio 'di Biator' della catacomba ad Decimum della via Latina
191
27. I dipinti della catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio 1'
194 194 196 199 202
27a. 27b. 27 c. 27d.
L'abbraccio di Pietro e Paolo sulla parete est della galleria F l2 L'arcosolio di Primenius et Severa sulla parete ovest della galleria Fl2 La Maiestas Domini dell'arcosolio di Campanus Cristo con Pietro e Paolo offerenti fra angeli nell'arcosolio di Paulus
Fabrizio Biscanti L A PITTURA DELLE CATACOMBE E L'ARTE PALEOCRISTIANA DELLE BASILICHE
207
Lorenza de Maria COMMITTENZA PRIVATA , COMMITTENZA COMUNITARIA E LE PITTURE DELLE CATACOMBE
8
215
L A PITTURA PROFANA
SCHEDE
28. I riquadri con figure simboliche, fregi floreali e finti sectilia dell'aula 'dell'orante' sotto la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo
224
29. Il servo e il padrone e altre scene di vita rustica nella Villa di Casal Morena
228
30. Le megalografie della cosiddetta Domus Faustae nell'area del Laterano
234
31 . La Dea Barberini
240
32 . I servi dapiferi da una domus del Celio
243
33. La decorazione ad opus sectile della basilica di Giunio Basso
247
34. Pitture e mosaici dell'ipogeo di via Livenza
253
35 . Le pitture dell'ipogeo di Trebio Giusto
259
36. La decorazione degli edifici di via del Mare sotto la chiesa di Sant'Andrea in Vincis
264 264 265 265
36a. L'orante della casa 'cristiana' 36b. La figura virile con mantello della casa 'cristiana' 36c. Perseo e Andromeda
37. Scene venatorie e marine nella domus sotto la Farnesina ai Baullari
268
38. La Dea Roma e le Province offerenti nell'edificio del vicus Iugarius
272
39. Sectzlia e mosaici dell'aula con esedra della domus fuori Porta Marina a Ostia
276
PARTE SECO DA
I
PAPI DEL QUINTO SECOLO EL' AVVENTO DEI GRANDI PROGRAMMI ICONOGRAFICI
SISTO
III (432-440)
SCHEDE
40. I mosaici e la decorazione ad opus sectile di Santa Sabina''' 40a. Mosaici della controfacciata: le due Ecclesiae, l'iscrizione dedicatoria, le perdute figure di Pietro e Paolo e i simboli dei quattro evangelisti 40b. La decorazione ad opus sectile della navata 40c. I ritratti clipeati dell 'arco absidale
41. I mosaici della basilica di Santa Maria Maggiore''' 4 l a. Storie dei patriarchi della navata centrale 1. Storie di Abramo 2. Storie di Isacco 3. Storie di Giacobbe 4. Storie di Mosè 5. Storie di Giosuè 41b. Storie dell'infanzia di Cristo sull'arco absidale 1. Annunciazione e Annuncio a Giuseppe; Presentazione al Tempio e Sogno di Giuseppe 2. Adorazione dei Magi;- Incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio 3. Strage degli Innocenti;- Scribi e Magi davanti ad Erode 4. Etimasia e le città gemmate di Gerusalemme e Betlemme 41c. Il tztulus dedicatorio sulla controfacciata e il mosaico della perduta abside
292
293 297 301 305 312 312 314 315 320 325 331 331 337 338 339 343
9
42 . I mosaici e la decorazione ad opus sectile nell'atrio del Battistero lateranense 42a. Il mosaico con l'Agnus Dei, le colombe e i girali d'acanto nell'abside orientale 42b. Il mosaico con pastori nell'abside occidentale 42c. La decorazione ad opus sectile
43. Il volto di Cristo della perduta abside di San Giovanni in Laterano
LEONE MAGNO
348 348
352 355 358
(440-461 ) E ILARO (461-468)
SCHEDE
44 . I mosaici e i dipinti murali esistenti e perduti di San Paolo fuori le mura 44a. I dipinti della controfacciata 44b. I dipinti della navata 1. Il ciclo vetero testamentario della parete sud e le storie apostoliche della parete nord 2. La serie dei ritratti papali 44c. Il mosaico dell'arco trionfale 1. Il busto di Cristo, i quattro simboli degli evangelistz; i ventiquattro Seniores e gli apostoli Pietro e Paolo 2. La testa di Pietro 3. La testa di angelo 44d. La decorazione a finti sectilia del presbiterio rialzato
366 368 372 372 379 395
395 403 406 408
45. I cicli vetero e neo testamentari della navata di San Pietro in Vaticano
411
46. L'Agnus Dei, i quattro simboli degli evangelisti e i ventiquattro Seniores nel mosaico della facciata di San Pietro in Vaticano
416
47 . I pannelli dipinti della cappella 'cristiana' nell'area dell'ospedale San Giovanni
419
48. I mosaici delle cappelle del Battistero lateranense 1' 48a. L'Agnus Dei della volta e i motivi fitomorfici 'a candelabra' della cappella di San Giovanni Evangelista 48b. L'Agnus Dei della volta e i quattro evangelisti della cappella di San Giovanni Battista 48c. La decorazione a mosaico e ad opus sectile dell'oratorio perduto della Santa Croce
425
425 429 432
APPARATI
Avvertenze per l'apparato delle iscrizioni Abbreviazioni Bibliografia Indice dei nomi Indice dei luoghi Indice delle illustrazioni
1 '
Tutte le schede del Corpus sono firmate alla fine del testo. Le schede contrassegnate da asterisco (nn. 1, 27, 40, 41, 48) sono da intendersi scritte in tutte le loro parti dall'autore che firma alla fine dell'ultimo testo.
10
439 439 440 471 475 477
INTRODUZIONE
Il titolo dell'opera La pittura medievale a Roma 312-1431 , come avviene talora con i titoli, può essere una coperta per certi versi troppo larga, per altri troppo corta. Nei riguardi del primo volume appare troppo corta. Lasciando il termine medievale da solo, s'è voluto spingere il pedale nella direzione della lunga durata, con lo sguardo al culmine della parabola della pittura a Roma fra IV e XV secolo, senza curarsi delle distinzioni, alcune delle quali necessarie e importanti. Si prova disagio a dire medievale e poi presentare il mosaico absidale di Santa Pudenziana o i mosaici della basilica di Santa Maria Maggiore, le decorazioni musive ed ad opus sectile dell'atrio e delle cappelle del Battistero lateranense, per tacere della totale improprietà della definizione per il mausoleo di Costantina, quel monumento con l'apparato di mosaici e sectilia, ritenuto meravigliosamente antico dal fervore e dalla sensibilità degli umanisti che, visitandolo, credevano di scoprire strutture e decorazioni classiche. Medievale, s'è detto, puntando a indicare il culmine del processo. Ma le radici da cui esso sgorgherà non sono ancora medievali. Non lo sarà del tutto la Roma bizantina, oggetto del II volume dell'opera, e non lo è affatto la pittura che incontriamo nel primo volume. Il titolo J; orizzonte tardo antico e le nuove immagini promette quello che il volume contiene. Quel tardo antico consente di afferrare la bussola e di orientarsi verso lo scarto temporale dal livello medievale del titolo generale. Il tardo antico è soglia epocale che continua a godere di fortuna allargata e crescente; investita da suggestioni metastoriche, traluce nella grana della contemporaneità in un affascinante gioco di proiezioni: si allunga nel presente del mondo e nel gioco fra Occidente e Oriente. Per i fatti dell'arte è categoria dal carattere fondativo; gli dà vita il nucleo originario della Kunstgeschichte, con la Scuola di Vienna, ed attraversa la riflessione del Novecento, come spina dorsale per la costruzione dell'identità e autonomia dell'intera storia dell'arte. Eppure i suoi confini cronologici non sono imbrigliabili, fra il III secolo, meno incerto, e una soglia bassa, oscillante dal VI all'VIII, che per noi, a Roma, coincide ragionevolmente con la fine del regno goto, con la morte di Teodorico, nell'avanzata prima metà del VI secolo. Della scoperta e definizione dell'arte nella tarda Antichità, Roma rappresenta il cuore. L'arco di Costantino, i ritratti scolpiti, le pitture di carattere pagano, la classe dei sarcofagi cristiani, i mosaici delle basiliche, i dipinti delle catacombe, il Tesoro dell'Esquilino con il grande cofano d'argento di Projecta, i codici miniati di soggetto classico e cristiano, i dittici d'avorio: questo e altro Roma ha prodotto nel campo figurativo nel IV e V secolo; questo e altro costituisce il suo volto nell'arte. La definizione di campo alla base dell'intera opera è la pittura. Perciò di pittura si tratterà anche nel primo volume. Ma nel contempo, si è voluto superare la separatezza dei filoni , della pittura monumentale, funeraria e profana, per consentire di cogliere il paesaggio intero della pittura, a Roma, nel corso del IV secolo. Quel IV secolo che da un punto di vista generale coincide con la sua 'conversione' . E perciò, per dargli voce, non c'era modo migliore che accostare le diverse immagini, dei pagani e dei cristiani, di carattere monumentale o funerario. Il processo è affascinante; coglierlo e captare al suo interno l'irruzione delle 'nuove' immagini è come stare sull'Etna e assistere da vicino alla colata di lava, lenta ma determinata e inarrestabile. Colta l'esigenza di mostrare il panorama pittorico nei suoi molteplici indirizzi, occorreva rendere compatibile il primo volume con la struttura dell'opera. Al criterio proprio del Corpus, che è quello della completezza, aderisce il settore della pittura monumentale cristiana, mentre la pittura funeraria, sempre di carattere cristiano, e la profana sono rappresentate non totalmente ma da un 'ampia selezione di dipinti, frutto di una scelta
11
rispondente a caratteri di esemplarità. Nel contempo, le selezioni sono state chiamate a condividere la stessa data d 'inizio adottata per il Corpus che è l'anno 312. Non senza qualche difficoltà ad accoglierla. Perché ciò significa prelevare i settori in un punto del IV secolo, che appare del tutto irrelato nei confronti del proprio percorso, e costringe a tralasciarne il tratto precedente - breve e vitale, per la pittura delle catacombe, che inizia nella prima metà del III secolo, più lungo per la pittura pagana - quel tratto che va oltre l'orizzonte cronologico che ci siamo dati e che si vuole scrutare analiticamente. Una volta accolta la necessità di modificare, limitatamente al primo volume, il piano del Corpus accogliendo accanto all'asse rappresentato dalla pittura cristiana di carattere monumentale una selezione nell'ambito del IV secolo della pittura funeraria e di quella profana, è stata cosa gradita condividere il progetto della sezione relativa alla pittura delle catacombe con Fabrizio Biscanti. Fabrizio Biscanti ha sovrainteso alla scelta dei dipinti, ha coordinato e curato l'organizzazione scientifica degli autori delle schede. Per tutto ciò e altro gli siamo profondamente grati. Il volume esplora due grandi stagioni pittoriche. La prima si estende nel IV secolo e coincide con l'irruzione delle 'nuove' immagini cristiane. Approdano nell'abside o sull'arco trionfale di San Pietro, potenti, semanticamente complesse; si compongono in nuclei, secondo la logica di strutture iconografiche già pervase da un senso sintattico intenso ma di respiro definito. È la Traditio Legis, è il Consesso apostolico attorno a Cristo, è la scena di dedica di Costantino sull'arco trionfale di San Pietro. Quando poi, sulle superfici della cupola di Santa Costanza, si fronteggiano scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, grande è lo spazio riservato alla meravigliosa rete dell'impaginazione a candelabre e al rilievo dato al fiume e al paesaggio nilotico. E sembra di essere a un passo dalla pittura di grande tradizione ellenistica, in una mescolanza affascinante di novità e tradizioni. La seconda stagione tocca il V secolo. Ruota attorno all'awento dei grandi cicli narrativi, del Vecchio e Nuovo Testamento, e di altri temi come quelli apocalittici; li misura mentre si dispongono sulle lunghe pareti delle basiliche, riempiendo ogni loro superficie; scopre i fili di regie sapienti, promosse da papi della personalità di Sisto III, Leone, Ilaro; quando si fondano iconografie, si definiscono in un gioco serrato e molteplice nuovi sistemi figurativi basati su assetti compositivi destinati a una tradizione viva per tutto il Medioevo, quando cresce la prospettiva della ricezione. Vengono le vertigini. Ecco i mosaici sistini di Santa Maria Maggiore, i mosaici e i sectilia di Santa Sabina, quelli dell'atrio del Battistero di San Giovanni in Laterano, tutti riconducibili a Sisto III; e poi i mosaici e gli affreschi in San Paolo fuori le mura e a San Pietro di Leone I; e ancora gli apparati con mosaici e opus sectile nei tre oratori - di San Giovanni Evangelista, del Battista, della Santa Croce - nell'ambito del complesso del Battistero lateranense, per la committenza di papa Ilaro. Mosaici, affreschi, sectilia, che sono tutti riconducibili a un arco di neppure quattro decenni, fra il 432 e il 468. È il tempo, questo, nel quale a Roma si concentra la più grandiosa invenzione di immagini dipinte declinate in 'storie' che l'ecumene cristiana delle origini abbia conosciuto. Nella maggior parte dei casi le pitture sono a mosaico. Alcune di esse sono note da fonti scritte, ma sono perdute, come i mosaici sistini di San Pietro in Vincoli; altre volte, pur distrutte, se ne conserva tuttavia memoria visiva attraverso le serie di disegni, disegni acquerellati, incisioni, che le hanno documentate, ed è il caso del complesso degli affreschi e dei mosaici di San Paolo fuori le mura. Nessuno può ignorare il vincolo dell'immagine dipinta, specie se antica e medievale, con il proprio contesto, quel vincolo che diventa anche di natura fisica , col muro, colla parete, quando si tratta di immagine dipinta ad affresco o a mosaico. A Roma quel vincolo segna un legame fra pitture, mosaici, tavole dipinte e basilica ed edificio di culto del tutto necessario; esso ha carattere fondativo e costitutivo. Attraversa la tarda Antichità e il Medioevo, l'oltrepassa.
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A rendere visibile quel vincolo, fra immagine dipinta e parete e invaso dell'edificio, è dedicato l'A tlante. Percorsi visivi. CAtlante è 'invenzione' al servizio della migliore visibilità di quel nesso: immagine-dipinto murale, immagine-mosaico e parete, e da qui con l'invaso spaziale del monumento, intendendo rendere il senso di una percezione precisa ma globale della pittura nel monumento, curando di recuperare quel nesso anche nel caso dei dipinti perduti ma documentati visivamente e di suggerirlo nelle condizioni ambientali più vicine possibile allo stato originario. Curandolo, tramite modalità di tipo tradizionale sulla base delle planimetrie dei monumenti e del corredo di documentazione visiva delle pitture disponibile e utile, oppure attraverso modalità più complesse, grazie alla messa a punto di un sistema imperniato su viste 3D. Nel primo volume dell'Atlante, monumenti e insiemi pittorici e musivi come quelli che insistono nell'articolato complesso lateranense, ricco di ben nove unità, dalla basilica al Battistero, alla Domus Faustae, ecc .. sono un esempio di Atlante secondo le mod alità del sistema sulle planimetrie e sulla documentazione visiva; mentre nove monumenti si giovano di percorsi visivi sulla scorta delle viste 3D; fra questi è gradito ricordare alcuni dei monumenti di maggior impatto nella prospettiva del I volume del Corpus I:orizzonte tardo antico e le 'nuove' immagini e che sono fra gli apici dell'Atlante: Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le mura , San Pietro in vaticano , Santa Costanza. Ognuno di loro è a suo modo un esempio-cardine per il recupero di quel nesso mosaicidipinti-murali-parete-assetto originario che è l'idea-guida dell'Atlante. Esempi-cardine e talora casi-limite. Perché si tratta di dipinti e monumenti perduti, come San Pietro e San Paolo, perché si mostrano visivamente insiemi musivi ricomposti, sulla base di documentazioni del perduto ed ecco Santa Costanza, oppure si propone quello che doveva essere con ogni probabilità l'assetto originario dell'articolazione della parete, del V secolo, così diversa rispetto all'attuale, ed è il caso dei mosaici sistini di Santa Maria Maggiore. Questi esempi mostrano come s'è inteso costruire l'Atlante, con una visione critica fondata sull'esigenza di rendere la latitudine del contesto del dipinto nella convinzione che sia possibile attivare le energie a disposizione fra dipinto e spazio, fra funzione del dipinto e sua ricezione, da parte del fedele di ieri e del pubblico di oggi. Quello stesso dipinto che nei volumi del Corpus riceve l'attenzione di uno sguardo critico affilato e la sua espressione tramite il passo analitico della scheda. Non si sottolineerà mai abbastanza il carattere duale del Corpus e dell'Atlante nei riguardi della pittura della tarda Antichità e del Medioevo a Roma , Corpus e Atlante da considerare quali strumenti che stringono sul dipinto murale, sul mosaico, sull'opus sectile, ecc. secondo due direzioni diverse ma che si integrano vicendevolmente, l'uno , il Corpus, radicato nel sistema di carattere 'storico' e adagiato sul passo diacronico; l'altro, l'Atlante, aperto di suo alla dimensione spaziale e particolarmente sensibile verso la funzione dell'immagine in contesto. Per afferrare il nesso reciproco fra Corpus e Atlante, si guardino le sopracoperte del primo volume dell'uno e dell'altro. Il volume dell'Atlante è fasciato dalla vista 3D relativa alla navata centrale di San Paolo fuori le mura, parete meridionale. Ciò che si offre allo sguardo del lettore di oggi è sì un simulacro della basilica e dei suoi apparati di immagini e storie, ma relativa a una visione che non s'era più vista dopo la distruzione della basilica in seguito all'incendio del 1823. Imponenti sono le figure dei profeti fra le finestre, vivide le scene del Vecchio Testamento nei due registri sotto i finestrati , continua la serie dei clipei con i ritratti papali che corre sopra gli archi. Ci sono tutti i volti dei papi, così come sono documentati dagli acquerelli barberiniani, tutti, tranne il primo, accanto alla parete dell'arco trionfale. Il clipeo è vuoto. A questo punto si guardi la sopraccoperta del primo volume del Corpus. Dal fondo emerge un volto. È quello di Pietro, che il pittore barberiniano non documentò e che noi non abbiamo potuto inserire nel clipeo nella vista 3D. Il volto di Pietro è colto in una foto rara di Giulia Bordi, scattata, dopo la pulitura della superficie
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pittorica compiuta nell'anno 2000. Un lampo, per un momento emerge l'immagine del quinto secolo, bruciante nella luce di quello sguardo magnetico che ti ghermisce e non ti abbandona. Il Corpus ha avuto una gestazione lunga e una realizzazione incalzante. La preistoria del progetto si confonde con il lavoro compiuto per l'Aggiornamento scientifico del I volume di Guglielmo Matthiae 1. Altre stazioni di awicinamento ad esso sono meno lontane e le ho condivise con Serena Romano. Penso alla preparazione della Mostra "Fragmenta picta "2 e al volume Arte e iconografia a Roma3 . E, però, il progetto non si sarebbe mai realizzato senza gli allievi con i quali giorno per giorno per tre anni, dal gennaio 2004 , abbiamo costruito il Corpus, come in un'officina medievale, ms1eme. Maria Andaloro
Il Corpus si fonda sulla sequenza diacronica, l'Atlante segue un criterio di ordine topografico. Lo scarto fra i due criteri implica che la corrispondenza tra le schede del Corpus e i monumenti dell'Atlante non potrà che essere parziale fino al compimento del piano dell'opera. Allo stato attuale, il nesso tra le schede del Corpus, volumi I e IV, e i monumenti dell'Atlante, volume I, quando esistente, è indicato dal rimando nella testatina a piè di pagina.
NOTE 1
Andaloro 1987. Fragmenta picta 1989. 3 Andaloro-Romano 2000.
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L'IRRUZIONE DELLE 'NUOVE' IMMAGINI MARIA A NDALORO
Una giornata di ottobre del 1764, Gibbon contemplava Roma dal Campidoglio. A portata di sguardo le rovine del foro, tutto attorno la città moderna [1] 1. Quella giornata fu fatale per l' autore2 e per il futuro degli studi. Da allora, oggetto di analisi e di racconto diverrà non solo la Roma classica e imperiale, ma quella del Decline and Fallo/ the Roman Empire, dal secolo degli Antonini alla caduta di Costantinopoli nel 14533. Non seguiremo Gibbone la pista della storia. Non racconteremo fatti ma vedremo e analizzeremo immagini, quelle immagini che crescono entro il volto di Roma a cominciare dal IV secolo. In una Roma che anche per lo strato che particolarmente ci interessa, quello della città delle origini cristiane e poi medievale, non possiamo immaginare inalterata dalla fine del Settecento a oggi. E per esempio, Gibbon avrebbe potuto visitare l'antica basilica di San Paolo fuori le mura4 , ancora rivestita ai suoi tempi dei dipinti murali e dei mosaici di papa Leone Magno5, mentre decidendo di recarci oggi a San Paolo troveremmo solo il simulacro dell'edificio antico, nelle forme della sua fredda ricostruzione ottocentesca, e perduti, come il monumento , sono i dipinti e i mosaici , assai danneggiati in seguito al rovinoso incendio divampato nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823 6 . Dall'altra, dove nel Foro romano ci accoglie Santa Maria Antigua, al suo posto, a dieci metri circa sopra il livello attuale del Foro, Gibbon vedeva la chiesa barocca di Santa M aria Liberatrice, distrutta nell 'anno 1900 per poter procedere agli scavi che avrebbero portato alla scoperta di Santa Maria Antiqua 7 . Mentre la città visitata da Gibbon è, inesorabilmente, diversa dall'attuale, la Roma tardo antica che fa da sfondo alla sua opera s'identifica con quello strato della città che è l'oggetto, il contenitore, lo scenario, il serbatoio delle immagini che ci interessano e il cui cammino inizia lì, agli inizi del IV secolo, quando si definisce la soglia da cui origina per l'immagine cristiana una parabola nuova e lunga che ha al suo attivo un ruolo fondativo ancora più importante, facendo essa da padre e madre alla costruzione dello sguardo moderno e contemporaneo. I sei volumi della Pittura medievale a Roma 312-1431, dedicati al Corpus, seguiranno diacronicamente il percorso che ha inizio da quella soglia, lungo tutto il segmento compreso fra la tarda Antichità e la fine del Medioevo, fra il 312 e il 1431. I volumi dell'Atlante. Percorsi visivi, si cureranno a loro volta di visualizzare ogni brano di pittura, figura , frammento , ciclo, affresco, mosaico, sectilia parietali, preoccupandosi di contestualizzarlo con precisione e efficacia nel suo ambito topografico e spaziale all'interno del monumento che l'accoglie, sulla base di planimetrie e di ricostruzioni 3 D . Il desiderio è di rendere visibile, monumento dopo monumento, il vigore dello straordinario palinsesto pittorico che è la Roma paleocristiana e medievale, ricostruendo il suo nesso topografico e spaziale in un'operazione intellettuale che prevede parallelamente lo smontaggio che di quel palinsesto se ne fa nel Corpus, disponendolo strato per strato lungo la linea diacronica, nel tempo della storia. Il primo volume del Corpus è dedicato al tratto iniziale del percorso, e cioè al IV e V secolo, fino al compimento del papato di Ilaro nel 468. Dopo qualche anno , nel 476, Roma accoglierà con distrazione la morte di Romolo Augustolo, e con essa la caduta, melanconica, dell'Impero romano d 'Occidente8 . Il 476 è data precisa quanto
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insignificante nell'economia dei processi di trasformazione delle strutture monumentali di Roma e delle sue immagini che qui interessano. Anno 312, battaglia di ponte Milvio, 468, morte di un papa. Nello scarto fra la natura dei due accadimenti che segnano l'inizio e la conclusione del primo volume, passa in controluce la 'conversione' della città9 . Tenendo a mente questo sfondo, l'obiettivo principe del volume è quello di comprendere la produzione pittorica proprio nella città in via di 'conversione', scandagliando ogni sua articolazione, perlustrando analiticamente il patrimonio di immagini originato lungo il confine della disgiunzione: dall'antichità alla post antichità, fra la Roma pagana e la Roma cristiana. Per farlo, occorre considerare il quadro generale della pittura così come si sviluppa nel corso del IV secolo, illustrandolo sulla base dei dipinti e mosaici che si sono conservati o di cui si ha memoria. Il quadro è dominato dall'incalzare della nuova pittura cristiana, di carattere monumentale e funerario, ma comprende anche il filone della pittura di tipo profano o di natura pagana. Perciò, diversamente dagli altri cinque, il primo volume comprende nella sua prima parte tre sezioni cronologicamente parallele. Nella prima si analizza la pittura monumentale, vale a dire i dipinti e i mosaici parietali destinati alle basiliche e agli edifici di culto [2, 3]; la seconda comprende una selezione della pittura funeraria cristiana [4, 5] ; la terza offre esempi di pittura profana e pagana [6, 7]. Delle tre sezioni, solo la prima risponde ai criteri di completezza propri del Corpus; diversamente, le altre due propongono una ricca ma parziale antologia di opere. Il passo analitico proprio del Corpus riprende nella seconda parte, dedicata al quinto secolo quando assistiamo all'avvento dei grandi programmi iconografici nelle basiliche antiche e nuove sotto l'ala di papi grandi come Sisto III, Leone Magno, Ilaro.
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Il piano generale dell'opera La pittura medievale a Roma 312-1431. Corpus e Atlante si rivolge alla Roma tardo antica e medievale, quella che smosse l'interesse di Gibbone che invece non fu 'vista' da Goethe, nel suo soggiorno romano, fra l'autunno del 1786 e la primavera successiva 10 , Goethe, attratto 'wilchelmaniamente' 11, dalla Roma classica, nella sua declinazione sia imperiale sia rinascimentale, ma indifferente anzi mal disposto verso la città medievale. Passano pochi anni e il sentimento di Roma è destinato a cambiare radicalmente. Agli inizi dell'Ottocento Chateaubriand verrà stregato proprio da quella Roma cristiana fino ad allora spesso negata e un personaggio come Jean Baptiste Seroux d ' Agincourt, da fan del mondo classico, si piegherà a impostare e realizzare il grandioso piano di documentazione sulle testimonianze artistiche del Medioevo in Italia, con al centro Roma 12 .
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I:immagine post antica e lo sguardo contemporaneo
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Per ogni tempo c'è uno sguardo. Uno sguardo che si costruisce ogni volta un nuovo livello, più o meno memore delle stratificazioni del passato. L'occhio ha una sua storia e ogni epoca un suo substrato ottico con le sue molteplici valorizzazioni mitiche, culturali, religiose o artistiche. L'occhio ha una sua educazione che gli viene dalle palestre che frequenta. In passato a nutrirlo era un'immagine 'pesante', ricca di significati, dotata di un quoziente spesso alto , e a suo modo consapevole, di artisticità. Oggil'occhio si misura con la 'civiltà dell'immagine', dove le immagini non sono icone, al modo antico, ma il più delle volte illusori simulacri che offrono soltanto la superficie delle cose 13, e dove si fa strada, è stato detto , un 'altra vittoria, tardiva, degli iconoclasti ottenuta non più distruggendo le immagini bensì moltiplicandone all 'infinito la produzione e disinteressandosi della loro verità estetica e del loro senso spirituale 14 . Al contempo il senso dell'immagine e il nostro rapporto sia ottico che spirituale con essa, con la sua 'visibilità' e con i suoi 'substrati invisibili' 15 , si sono modificati nel tempo, subendo le conseguenze delle molteplici e successive scoperte tecnologiche, subendo l'orgia visuale dei tempi massmediatici in un 'oscillazione tesa fra il potenziamento delle nostre possibilità visive ma anche il loro depotenziamento, per effetto di distrazione, superficialità, bulimia. L'educazione visiva 'alta' e 'bassa' delle nuove generazioni ha come riferimento il cinema, la pubblicità, ma anche altri media: la televisione e internet, innanzitutto, molto più dell'immagine densa che abita nelle chiese di Roma o dell'opera d'arte che troviamo nei musei del mondo. Ci occuperemo delle immagini antiche nelle chiese di Roma , a cominciare da questa domanda: quei mosaici, quei dipinti murali, quelle icone che stavano o si conservano ancora nelle basiliche, nelle chiese, negli oratori, negli edifici di culto ma anche nelle catacombe, che vi si sono accumulate nel corso della tarda Antichità e del Medioevo, fino a che punto sono immagini e insieme opere d'arte? In altre parole, immagini e opere d 'arte sono termini coincidenti e/ o intercambiabili? Per Belting l'era dell'immagine è distinta e precede l'età dell'arte, la quale s'instaura nel Rinascimento con la coscienza dell'arte, l'autonomia dell'artista, la conquista di sempre maggiori margini di
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autonomia, quando l'immagine esce dallo spazio sacro e sempre più è destinata al collezionismo artistico 16 . Accanto alla 'fine della storia dell'arte', evocata prima in forma interrogativa 17 poi in modo asseverativo 18 , l'insigne studioso di problematiche medievali e bizantine lancia un altro sasso nello stagno dell'esercizio della disciplina, facendovi centro. Dalla pubblicazione del suo Bzld und Kult, nel 1990 19 , davvero è come se esistesse solo un 'età dell'immagine prima dell'età dell'arte, anch 'essa oggi tramontata. La formula , l'età dell'immagine prima dell'età dell'arte2°, ha la felicità di uno slogan accolto con successo in una larga cerchia di ambiti culturali. Contemporaneamente, l'intellettuale Regis Debray, 'mediologo' per sua stessa definizione2 1 e dunque non proprio storico dell'arte, consegna un brillante vademecum per «una storia dello sguardo in occidente»22 attraverso i tempi segnati dalla presenza dell'idolo, la rappresentazione dell'opera d'arte, la simulazione dell'immagine digitale, dove, al di là delle tante divergenze di fondo con l'impostazione di Belting, è palese l'affinità, seppure d 'ordine macroscopico, imperniata sulla divergenza fra immagine e arte, divergenza che in Belting ha una sua precisa rilevanza diacronica, all'interno di un approccio ancora storico mentre essa appare dal taglio meno rigido, più elastico in Debray. « . .. che meraviglino o streghino, che siano manuali o meccaniche, fisse, animate, in bianco e nero a colori, mute, parlanti - è un fatto appurato da qualche decina di migliaia di anni che le immagini fanno agire e reagire. Alcune, chiamate 'opere d'arte' si offrono compiacenti alla contemplazione». E per questo scenario «la storia dell' 'arte' deve farsi da parte dinnanzi alla storia di ciò che l'ha resa possibile: lo sguardo che noi posiamo sulle cose che rappresentano altre cose»23 . Proprio «sulle cose che rappresentano altre cose», aveva indirizzato qualche anno prima la sua riflessione David Freedberg, studioso di provenienza sud africana e di formazione angloamericana. La sua riflessione si impernia sull'idea di un'immagine potente, radicata in uno statuto ontologico, che 'scandalosamente' ripesca le sue radici a Nicea24 , ma dove non c'è bisogno dell'arte. L'arte è spazzata via dal regno dell'immagine2 5 . Diversamente, Belting esprime ancora l'esigenza di costruzione di una storia dell'immagine che integri ma non sostituisca né incorpori la storia dell' arte26 , una storia dell'arte che continuerà ad avere una sua validità sia pur limitata a un fenomeno circoscritto storicamente e non più universale, secondo un'ottica diversa rispetto allo scenario offerto dal secolo XIX e dalla scuola di Vienna che aveva inteso imporre il modello di un'ars una, un'arte di tutti i tempi e di tutti i luoghi27 . Si torni alla domanda sulla possibilità di un 'immagine-opera d 'arte anche all 'interno di età differentemente orientate quanto al modo di concepire l'arte, rispetto al metro assunto nella modernità. In altri termini, si tratta di parteggiare per la visione che restringe «il concetto di arte ali'epoca che lo ha definito in senso moderno e che ha istituzionalizzato le arti del disegno» o per un concetto di arte che «va oltre le singole epoche per attraversarle tutte»28 . Belting e Debray non sono interessati da parte loro ai mutamenti semantici e concettuali della categoria che chiamiamo arte lungo i secoli, ma soltanto al suo significato moderno, quello che una volta affermatosi ha fatto sì che l'arte venisse intesa come arte tout court29. La chiarezza con cui si presenta la questione impone eguale misura nella risposta.Nell' impostarla, può essere utile allargare l'attenzione ad altri contesti e per esempio sbirciare nei recinti di altri campi disciplinari e in primis in quello contiguo della riflessione estetica, laddove sarebbe difficile negare l'esistenza di orientamenti di quella natura prima della comparsa dello statuto della disciplina teorica nota con quel nome, che in sé riceve il proprio battesimo molto tardi, in tempi sfasati persino rispetto alla 'era dell'arte' di modulazione beltingheriana. Perché, com'è noto, quel battesimo avviene solo nel 1750 con la pubblicazione dell'opera Aesthetica di Baumgarten 30 . Nella direzione del concetto di arte trasversale, si è in buona compagnia. Gadamer in anni vicini a noi perviene all'elaborazione di una vera e propria teoria estetica dove rivendica delle nozioni filosoficamente forti di arte e di opera d 'arte che manten~ono la loro legittimità anche nei confronti di contesti storici e culturali diversi dal nostro 3 1. E una teoria dell'arte, come quella di Cesare Brandi, che in tutte le articolazioni del suo sviluppo ne rivendica il fondamento nel riconoscimento dell'arte come realtà pura, come astanza, indipendentemente dalle periodizzazioni e dalle barriere culturali32 • Sono queste le prospettive che permettono di parlare ancora delle 'nuove' immagini, come segni J?Otenti di senso e contemporaneamente come luoghi possibili per le opere d'arte. E vero. I mosaici che abitano le basiliche cristiane, l'abside di Santa Pudenziana33 o le pareti di Santa Maria Maggiore34, i dipinti murali perduti di San Paolo fuori le mura o di San Pietro35 , i sectzlza, dalle mille lastrine di marmi, i più svariati, ancora conservati sui muri dell'atrio del Battistero lateranense3 6 [9] o in Santa Sabina37 [10], i pannelli con i giochi del circo e figure mitologiche che i visitatori possono ammirare nei Musei capitolini o al Museo di Palazzo Massimo a Roma ma che i fedeli antichi incontravano entrando nella loro chiesa di Sant' Andrea Catabarbara38 , le miniature del Virgilio vaticano [8] e del Virgilio romano39 , vere pitture in libri lussuosi, tutte queste opere erano espressione delle artes mechanicae40 . Esse non valevano tanto perché frutto di invenzione
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fol~ltAN 11 UNC\fU H Oil.T\hCl.::'\l('I. J\,.\ \ ~Lt:).! • CA.~"'.\,li tt:\.,.. tl',.1~>-!. l ' t1\lC.-UU...;~ .,fl.tl\t lStr O,.\ ti~ .,1.\l t()tJ u~c,\IJ ~ 1;; rk u N r Uh\1u~ , fil· l HJloi,.l-c}l~,\tt ?\l! "A H O.~l\.f\;.\2l ?lAN:l\.&M, )AHCf!..CllN \JlNt àJ ;\l CV 44c). Il fuoco fece crollare il tetto e l'intera parete nord della navata centrale. La Commissione speciale per la nédi/icazione della Basilica di San Paolo, il 26 marzo del 1825 , deliberò che l'intera basilica fosse demolita . I lavori durati per oltre trent'anni si conclusero il 10 dicembre 1854. La scoperta della chiesa, rimasta interrata nel Foro a seguito degli smottamenti causati dal terremoto dell'847 , si deve alla campagna di scavo diretta da Giacomo Boni nel 1900 (da ultimi Morganti 2004 ; Augenti 2004 ). Marotta 1993 , 610. Altri avvenimenti storici avevano avuto ben altra incidenza sulla vita della città. Epocale l'impatto dell'assedio di Roma e della presa della città nel 410 ad opera di Alarico(--> 8; Andaloro, Dalla statua all'immagine dipinta) e l'invasione del 455 da parte dei Vandali di Genserico. F raschetti 1999. Goethe soggiorna a Roma dall'ottobre 1786 al febbraio 1787 e, una seconda volta, dal giugno 1787 all'aprile 1788 (Fertonani 1983 , XLII-XLVI). Goethe 1829 [1983] ; Fertonani 1983 , XV-XVI; von Einem 1983, nota 2, 701-702. Seroux d'Agincourt 1823 ; Mondini 2005. F ranzini 1999, 11. Baudrillard 1977. F ranzini 1999, 7. Belting 1990 [200 1] , 9. Belting 1983. Belting chiarisce che cosa deve intendersi per fine: «ciò che oggi è alla fine o andrà a finire è il rigido canone con cui sono stati paragonati così a lungo contenuti e metodi della disciplina» (Belting 1995 , 200; Vargiu 2005 , 34). Non la morte ma «l'emancipazione dai modelli ereditari di presentazione storiografica dell 'arte volti a concepire l'arte» come «un sistema autonomo da valutare secondo criteri interni» e la sua storia innanzitutto come «storia dello stile» (Belting 1983 [1990] , XI-XII. In tempi assai recenti Salvatore Settis conclude l'articolo dal titolo Tutto cominciò con Plinio il Vecchio in La Repubblica, 18 agosto 2006 con queste osservazioni: «La storia dell'arte che oggi diamo per scontata, ha dunque una data di nascita. Sarà vero, giacché si parla di 'fine della storia dell'arte' (Hans Be!ting, Arthur Danto), che ha anche una data di scadenza, e proprio nel nostro tempo?». Il titolo originale Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst 1990 viene diversamente recepito a seconda delle traduzioni nelle varie lingue: in inglese Likeness and Presence. A History o/ the Image be/ore the Era o/Art, 1994; in francese Image et culte. Une histoire de l'art avant l'epoque de l'art, 1998; in italiano Il culto delle immagini. Storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, 2001. A History o/ the Image be/ore the Era o/ Art costituisce il sottotitolo nell'edizione in inglese. Regis Debray, Vie et mort de l'image, Paris 1992 [1999]. Alla mediologia dell'immagine, Debray riconosce «l'ambiguità di un percorso condotto all'incrocio di molteplici vie, la storia dell'arte, la storia delle tecniche e quella delle religioni» Debray 1992 [1999] , 17 , a cui si devono aggiungere filosofia , sociologia e storia delle idee, come si legge nella quarta di copertina. Si tratta del sottotitolo dell'opera Vie et mort de l'image 1992 [1999]. Debray 1992 [1999] , 16-17. David Freedberg, The Power o/ Images. Studies in the History and Theory o/ Response 1989 [1993]. A paradigma del paesaggio mosso, che sull'immagine e sulle possibilità dell'immagine come opera d'arte, s'è addensato negli ultimi 25 anni, ho preferito assumere anche ora, in questo studio, gli stessi ambiti di riflessioni, ad opera di Belting, Freedberg, Debray, che ho dichiarato nello studio del 1997 (Andaloro 1997) , aggiornandoli alla luce di Vargiu 2005. Belting 1995 , 168-169; Vargiu 2005, 45 . Belting 1990, 6. Sulla scuola di Vienna e i suoi esponenti di punta, s'avrà occasione di tornare in seguito. Wolf 2002 , XX, n. 23 ; Vargiu 2005 , 44 . Vargiu 2005 , 45. Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt a.cl . Oder 1750-1758. Vargiu 2005 , 49; Gadamer 1994, in Bonnet - Kopp-Schmid 1995 , 88-104 , 100-101 , 103-104. Il sistema teorico di Brandi comprende nella sua totalità una diramata riflessione sull'intera costellazione dei canali espressivi dell'arte: arti figurative, architettura, poesia, musica, sulla base di un modello investigativo che intreccia continuamente il livello della speculazione teorica e quello della lettura dell'opera d'arte. C. Brandi, Elicona I. Carmine o della pittura, Roma 1945; Id., Elicona III-N Arcadio o della Scultura.Eliante o dell'Architettura, Torino 1956; Id., Elicona II. Celso o della Poesia , Torino 1957 ; Id. , La teoria del restauro, Roma 1963 ; Id., Le due vie, Bari 1966; Id., Teoria generale della critica, Torino 1974. Esempio di 'letture' dell'opera d'arte alla luce del sistema teorico, ma svincolate dall'incalzare di una trattazione di tipo speculativo, si ha in C. Brandi, Il disegno della pittura italiana, Torino 1980; Id., Il disegno dell'architettura italiana, Torino 1985. Per il valore dell'applicabilità universale del sistema teorico, Cordaro 2001 , 133-143. --> 8.
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--+ 41. --+ 44 , 45 , 46. --+ 42c. --+ 40b. --+33. Wright 1996, 141-156. Wirth 1989, 11. Bruyne 1946, vol. I; Assunto 1961 , 31-92. Testo in Matthiae 1967 , 142, n. 2. Andaloro 1993 , 139-151. Tatarkiewicz 1976[1993], 161-162. «Quando impariamo l'arte della pittura , se il maestro ci fa vedere una bella immagine su un quadro, ciascuno di noi deve imitare nel suo dipinto la sua bellezza, in modo che tutti i quadri risultino belli così come è bello il modello che ci sta dinnanzi; allo stesso modo, giacché ciascuno è il pittore della propria vita , la volontà è l'esecutrice di questo lavoro, e i colori per realizzare le immagine sono le virtù, corriamo il rischio non piccolo di sfigurare l'imitazione della bellezza del prototipo e di produrre un volto senza forma , dipingendo con colori sporchi al posto dell'immagine del Signore quella del male. Dobbiamo invece, nella nostra imitazione della bellezza, usare per quanto si può puri i colori delle virtù mescolandoli tra loro ad arte, in modo da diventare immagine dell'immagine e da riprodurre la bellezza originaria attraverso un'imitazione il più possibile assidua: così fece Paolo, quando grazie alla sua vita virtuosa diventò imitatore di Cristo. Se poi occorre anche distinguere uno per uno i colori grazie ai quali si realizza l'imitazione dell'immagine, (possiamo affermare) che un colore è rappresentato dall' umiltà. Imparate da me, dice (il Signore), perché sono mite e umile di cuore. Un altro colore è rappresentato dalla magnanimità, che in così larga misura appare nell'immagine del Dio invisibile .... Tutto sopportò con mitezza e magnanimità colui che con il suo comportamento prescrive alla tua vita proprio quest' ultima virtù. Ugualmente si possono vedere tutte le altre virtù nell'immagine originaria di Dio: chi la guarda può abbellire in modo evidente il proprio aspetto e diventare anch 'egli un'immagine del Dio invisibile, delineata con la virtù della pazienza. Chi ha compreso che Cristo è la testa della chiesa deve aver chiaro che ogni testa ha la stessa natura e la stessa essenza del corpo che le è sottoposto e che tra le singole membra e il tutto c'è un unico rapporto che attraverso un solo atteggiamento produce l'armonia tra le parti e il tutto. Ciò che è estraneo al corpo è quindi del tutto estraneo alla testa. Per mezzo di questa constatazione il nostro ragionamento c'insegna che le singole membra debbono diventare quello che la testa è già per sua natura, in modo da accordarsi conesso. Noi che concorriamo a formare il corpo di Cristo, siamo le sue membra» (Gregorio di Nissa, Perfezione cristiana, ed. Simonetti-Prinzivalli 1996, 351-355 , in Tiberia 2003 , 32-33). Il riferimento è alla serie di tituli limitata agli esempi di Roma. La serie inizia col titulus del mosaico dei Santi Cosma e Damiano, già citato, segue quello di Santa Agnese, e gli altri dei mosaici absidali di Pasquale I. Per i testi, Matthiae, 1967 . Nel poemetto di Paolo Silenziaro è possibile anche intravedere territori di sensibilità estetica, contigui più all'orizzonte della nostra contemporaneità che all'era propriamente dell'arte, in particolare quelli della matericità e della ricezione, Fobelli 2005; Andaloro 2005c, XI-XII. Vargiu 2005 , 78-79 con il quadro storiografico di riferimento. Wolf2002a, II, 755-756. Andaloro 1976; per la ricorrenza del termine imago e degli altri limitatamente alla fonte del LP, alla esclusiva categoria dei tessuti, ma secondo una schedatura completa Andaloro 2003a. Vargiu 2005 , 186-192. La complessità dell 'epoca tardo antica è continuamente ribadita. Se ne fornisce un'idea attraverso due testimonianze: «La conoscenza dei monumenti dell'arte paleocristiana presuppone imprescindibilmente un sapere globale sul mondo coevo, non importa se cristiano, pagano o ebraico, sacro o profano. Così si è spalancato un vasto orizzonte, forse il più vasto che un'epoca abbia avuto nel nostro campo» (Deichmann 1983[1993] , 45 ); «I secoli di cui ci occupiamo presentano un quadro di sviluppo organico piuttosto chiaro. Mi riferisco all'insorgenza e alla prima elaborazione completa di un'arte di contenuto cristiano. Uno straordinario processo di crescita si trova compreso fra due precise pietre miliari, ancorché entrambe di carattere negativo: il tabù contro le immagini religiose che fu in vigore nella chiesa antica fino al III secolo, e la nuova proibizione di tali immagini nell'ottavo secolo bizantino» (Kitzinger 1977[1989] , 7). Tatarkiewicz 1976 [1993] , 238 . Russo 1997. Mondzain 1996 [2006] , 281-295 . Debray 1992 [1999] , 63. Ernst Kitzinger, The Cult o/ Images in the Age be/ore Iconoclasm, 1954 [ 1992] , 3. Debray 1992 [1999] , 63. Pamuk 2001. Andaloro, Bisanzio: lo statuto dell'immagine, relazione al convegno internazionale di studi «Medioevo mediterraneo: l'Occidente, Bisanzio e l'Islam dal tardoantico al XII secolo» a cura di A.C. Quintavalle, Parma 21-25 settembre 2004 , c. s.. Per la tematica specifica dell'immagine iconica, il rimando è ai saggi del II volume del Corpus. Intanto, si rimanda anche a Andaloro 2000a. A Roma, come altrove nell'ecumene cristiana, gli esemplari iconici noti non sono databili anteriormente al VI secolo. Si vuole rimarcare che questa soglia cronologica riguarda lo stato delle icone tuttora conservate, mentre una soglia notevolmente più alta è quella attestata dalle fonti, a cominciare da Eusebio, Lettera a Costanza, PG 20, 1545, in Mango 1960, 16-18. A Roma non conosciamo nessuna icona più antica del VI secolo, seppure qualche sorpresa potrebbe riservarla l'icona Salus Populi Romani, conservata nella basilica di Santa Maria Maggiore, qualora fosse possibile analizzarne l'impianto originario, scevro dalle ridipinture e rifacimenti che l'hanno sfigurata (Andaloro 2000c). È nota, tuttavia, la testimonianza di Teodoreto risalente al 449, sull'uso di appendere icone per strada, davanti alle botteghe (si veda Andaloro 2000a). È intenzione di Mathews misurarsi con questo tipo di problemi e riesaminare in particolare il capitolo della genesi dell'icona, contrapponendo alla tesi finora
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dominante, basata sulla linea della continuità fra l'icona cristiana e il ritratto imperiale la nuova tesi, secondo la quale le icone cristiane deriverebbero dalle immagini degli dei pagani (Mathews 1993 [2005], 91-104). 63 Andaloro 2000b , 98-103; inoltre in questo volume, Ead., Dalla stauta all'immagine dipinta. 64 Belting 1990 [2001]. 65--, 41. 66 Noti visivamente in base agli acquerelli del codice Barb. lat. 4406.----> 44b.1 67 Romano 2000, 133-173 . 68 Vargiu 2005 , 272 , i limiti sono da me condivisi, Belting 1990 [2001] , 24. 69 Fraschetti 2000, 11-30 ; Fraschetti 1999. 70 Nella impalcatura di Belting, anche il contemporaneo non può essere che era dell'immagine 71 Debray 1992 [1999]. 72 Corpus vedi Piano dell'opera, volumi II e III. 73 Andaloro 1997; Vedere l'invisibile. Nicea e lo statuto dell'immagine. 74 Rarissime le espressioni di sculture a tutto tondo. Fra queste la celebre statuetta di Cristo giovane seduto, conservato al Museo Nazionale delle Terme, la quale, tuttavia, seppure sia una scultura a tutto tondo, è probabile che in origine non fosse isolata, ma collegata alla parete di un sarcofago, Mathews 1993 [2005] , 69 fig . 96; Zanker 1995 [1997] , 326-327. 75 In questo volume, Andaloro, Dalla statua all'immagine dipinta. 76 Sul fenomeno della statua pagana si veda Lane Fox 1986 [1991] , 100-173 ; sulla elaborazione intellettuale da parte di greci e romani, Pucci 2003. 77 Corrisponde all'impostazione di Belting, secondo un approccio fun zionalista e storico «Un lavoro creativo diviene tanto più intelligibile se lo si situa nel contesto della sua funzione (tavola d'altare, quadro da collezione, monumento, ecc. ) e nella cornice della società di cui simboleggia gli ideali e le mentalità» Belting 1985,7 in Vargiu 2005, 144. 78 Confronta la sezione pittura funeraria. 79 Belting 1981 [1986] , 13 . 80 Baschet 1996. 'Immagine-opera' è variante della definizione 'immagine-oggetto', elaborata da Baschet, in base all'esigenza da parte dello studioso francese di riferirsi a un'immagine concreta, che si manifesta tramite la sua irrinunciabile matericità, connessa a un plesso di condizioni operative anche complesse che ne determinano il compimento. Si condivide l'opportunità di una formula che faccia perno sulla concretezza dell'immagine, dal momento che non si può ignorare come il fruitore di oggi abbia piuttosto familiarità con un plesso di immagini smaterializzate, dalla video art alle immagini televisive, piuttosto che esperienza di quelle antiche. Chiunque legga il Liber Ponti/ica lis o gli Atti del secondo Concilio di Nicea o altre fonti , come le Lettere di Adriano I a destinatari di Bisanzio o a Carlo Magno, comprende che imago si riferisce sempre a opere concrete. 81 Non lo sarà nemmeno il genere iconico, in quanto a Roma sulla funzione dell'opera di per sé mobile, prevarrà il suo legame con la propria basilica , con il proprio altare. 82 Un'idea già forte in: Andaloro-Romano 2000, 7-9. 83 Andaloro, Presentazione in A tlan te; Viscontini, Introduzione, ivi. 84 Augé 1992 (2002). 85 Andaloro 2003a. 86 Ead. , si veda in particolare la Schedatura, a cura di Giulia Bordi e Stefania Pennesi. 87 Andaloro 2000c, 413-415 ; ead ., 416-123. 88 La dimensione del contesto a Roma ha una tradizione di studi di tutto rispetto. Geneticamente affonda le sue radici nella qualità 'archeologica' stratigrafica della sua storia, dimensione che connota lo sguardo di molti: due nomi per tutti: Krautheimer 1980 [1981] e de Blaauw 1994. 89 Il concetto del 'restauro come critica', annunciato da Cesare Brandi nella sua opera teorica Carmine o della pittura (Brandi 1947 , 137-138), è il fondamento della sua Teoria del restauro 1963 [1977]. L'espressione 'critica in atto' è latitudine concettuale mutuata da Rosario Assunto il quale declina quel concetto secondo varie sfaccettature, che non includono tuttavia la sfera del restauro (Assunto 1961 , 127). 90 Vargiu 2005, 133. 9 l Andaloro 1989b, XVII. 92 Il riferimento è in particolare alla rivista A rt ]ournal che ha dedicato il numero del 1981 a dibattere da diversi punti di vista questo problema. 93 Titolo del saggio di Focillon risalente al 1934, all'interno del dibattito storico-critico attinente ali' orizzonte spalancato dal puro visibilismo della scuola di Vienna, del quale era ben nota la semplificazione offerta da Berenson tramite la coppia di categorie ottico-tattile. 94 Belting 1995 [2002]. 95 Andaloro 2005b , VII-XXIV. 96 Questa visione Kitzinger sente l'esigenza di esplicitarla nel sottotitolo della sua opera di sintesi sui fenomeni artistici fra tarda Antichità e Medioevo: Bizantine A rt in the making. Main lines o/ stylistic development in Mediterra nean Art. 3rdt-7th Century, basata su una serie di conferenze tenute presso l'Università di Cambridge nel trimestre nel 1974, pubblicata nel 1977, alla vigilia dell'inaugurazione della grande mostraAge o/Spirituality, tenutasi al Metropolitan Museum of Art di New York nell'inverno 1977-1978, Kitzinger, 1989, 1. 97 Si veda soprattutto, Belting 1990 [2001]. 98 Come esempio specifico, si rimanda all'analisi dell'icona con la Theotok os seduta in trono fra angeli e santi, custodita al Sinai; Kitzinger 1977 (2005 ), 119-120; Andaloro 1989b, XI. 99 Schapiro 1953 [1995]. 100 Riferimento implicito all'impostazione di Brandi nella sua opera Le due vie (Brandi 1966). 101 Carboni 2002 , 77-91 e il riferimento che se ne fa in Andaloro 2005b, XII. 102 Impostazione, com'è noto, centrale nella concezione di Riegl e dei padri della scuola di Vienna. Inoltre, Brandi 1980, 4-11. 103 Wickhoff 1895 ; Ajnalov 1900-1901 [1960]; Riegl 1901 [1953] ; Strzygowski 1901. 104 Riegl 1901 , 80-87. Da allora l'arco di Costantino è stata la pietra miliare su cui misurare la comprensione e/ o l'incomprensione nei riguardi della frontiera dell'arte tardo antica. Paladino dell'incomprensione, lo storico
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dell'arte Berenson 1952. Per una lettura 'moderna' , Liverani 2005. 105 Si pensi a Wickoff 1895 . 106 Riegl 1901. 107 Wickhoff 1895. 108 Ajnalov 1900-1901[1960] . 109 Ajnalov 1895. Nel suo primo viaggio in Italia, Ajnalov vi soggiorna per ben due anni, dal 1891 al 1893 (Fondo Ajnalov, 737.1-2 ; Fondo Kondakov, 115.1-4; Marcenaro 1993, 246-247 ; Mango 1960, IX) . 110 Il soggiorno romano di Riegl risulta documentato con larghezza di dati grazie alle relazioni stese da Riegl e ad altri documenti analizzati di recente da Bellanca (Bellanca, c.s .); si veda anche Scarrocchia 1995, 575. 111 Andaloro-Romano 2000. 112 Deichmann 1983 [1993]. 113 Andaloro-Romano 2000, 7-9 . Non si è a caccia di 'turisti eccellenti' , ma per indicare come Roma fosse attraente fra Otto e Novecento, si ricorda che nel marzo del 1902 soggiornava a Roma KarlJaspers (1883-1969), attratto, come la maggior parte dei visitatori colti, dallo strato classico, nei musei Vaticani « ... quasi ogni statua è una bellezza», e apprezza più «il gioioso spirito del primo Rinascimento» a Firenze che il barocco capitolino CT aspers 1902 [2006] , 31 ). 114 ----> 8. 115 Nibby, Roma nell'anno MDCCCXXXVIII, parte I moderna, Roma 1839, 678. Nibby tace la fonte. 1!6 Gerspach [1882] , 40. 117 Il dipinto con la Battaglia di Giosué con gli Amaliciti è conservato nel Museo statale dell'Ermitage a San Pietroburgo; il dipinto con la Battaglia di Giosué con gli Amoriti al Museo Puskin di Mosca. Mahon 1998a; Mahon 1998b, 40. 118 Ibidem. 119 Su indicazione di Deckers (197 6), si segnalano, in particolare, il sarcofago Ludovisi (Museo Nazionale Romano), e il sarcofago di Achille e Pentesilea (Musei Vaticani). 120 Quando, talora, non si giunge a pianificare il restauro di un mosaico, capita che comunque se ne adombri il ricordo se non altro del tema, delle linee compositive nella pittura che lo sostituisce. È ciò che avviene nell'abside di Santa Sabina dove il nuovo dipinto di Taddeo Zuccari nel sostituire il mosaico antico, ne memorizza con ogni probabilità il tema, il Cristo docente fra gli apostoli, conservandone il ricordo, metabolizzandolo (----> 40a). 121 ----> 41. 122 ----> 41. 123 _, 1. 124 Andaloro 2005b. 125 Andaloro, Dalla statua all'immagine dipinta, in questo volume. 126 Bernabò 2003 , 152-162; Mosai'que 2000, fig. 293 , 556 e 444. Finora il recupero del mosaico da parte degli artisti del Novecento non ha trovato la via maestra nella Roma paleocristiana e medievale ma nella Ravenna bizantina (Andaloro 1990); tuttavia non sono sondabili tutte le fonti visive che possono entrare nell'immaginario degli artisti. La sequenza fotografica che accosta il mosaico con Testa femminile di Gino Severini del 1958 (Parigi, collezione privata) alla serie dei volti delle ancelle accanto alla figlia del faraone nella scena dell'Adozione di Mosé si fonda non su rispondenze documentabili quanto su suggestioni e assonanze visive [22, 23].
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LA PITTURA MONUMENTALE
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All'affacciarsi del quarto secolo, il paesaggio urbano di Roma antica era al diapason del suo sviluppo. Colma, come un uovo, di edifici e strutture, la città si mostrava col volto plasmato nel corso di secoli e aggiornato per l'inserimento di nuovi monumenti - le terme di Diocleziano e quelle di Costantino, la basilica di Massenzio, l'arco di Costantino 1. Un popolo di statue ne invadeva gli spazi esterni ed interni. Statue di marmo, bianco ma anche colorato2 , con funzioni di culto, celebrative, semplicemente decorative, rappresentanti uomini e divinità, ora a grandezza naturale 3 ora più grandi del vero. Da qualche secolo, nei pressi del Colosseo svettava il colosso di Nerone, ma anche Costantino poteva contare su effigi di grandi proporzioni. Smembrata, sussiste ancora, a pezzi, quella marmorea destinata alla basilica già massenziana e poi costantiniana del Foro 4 [1]. La testa, potente e fredda, il piede destro e sinistro, il braccio e la mano destra che stringe un 'asta, sono visibili nel cortile del palazzo dei Conservatori, posti lungo le pareti: immani nature morte' . Nel Museo dei Conservatori si conserva una seconda testa colossale, sempre di Costantino, ma in bronzo, insieme ad una mano sinistra e al globo 6 . Nelle condizioni in cui si trovano oggi quelle teste, teste senza corpo, evocano persuasivamente la dimensione del ritratto nel mentre che si sottraggono al senso dell'essere statue. Rispetto al loro assetto originario, offrono la possibilità di una vista ravvicinata; guardandole, attivano percezioni sui generis, comunque alternative rispetto a quelle del mondo classico; seppure vicine, comunicano lontananza. Anche se in sé sono sculture a tutto tondo , figurativamente accolgono i germi di una diversa qualità dell'immagine, apparentabile ai principi propri della condizione bidimensionale e di una sostanziale frontalità 7 . Quando ai suoi bordi o fuori le mura, sorgono le basiliche cristiane di San Pietro, San Giovanni, San Lorenzo , della Santa Croce, ecc. 8 , a livello visuale Roma si presentava in questo modo: monumentale, piena di statue, di rilievi plastici fortemente aggettanti, comunque attraversata e dominata da caratteri fortemente tridimensionali. Le statue le potevi incontrare, girare loro attorno, stavano lì nel tuo stesso spazio esistenziale, ti potevi avvicinare ad esse fino a toccarle [2]. Non mancava nella Roma tardo antica la pittura. A parte la classe dei dipinti mobili, attestata dalle fonti, ma completamente perduta 9 , era fiorente la pratica della pittura murale. Che si espandeva sulle pareti degli ambienti di edifici privati, pubblici e di destinazione funeraria, con la funzione di rivestirle, ornandole; e talvolta svolgendo anche funzioni rappresentative e cultuali1°. Nonostante ciò, il genere-guida della Roma pagana rimane la scultura; sua espressione per eccellenza è la statua. In contrapposizione a questo scenario, da parte cristiana si procede cambiando direzione. Nelle grandiose basiliche costantiniane, e successivamente ovunque, negli edifici di culto, pubblici o di rappresentanza, farà il suo ingresso non la statua ma l'immagine bidimensionale: dipinta o a mosaico; quell'immagine che privilegerà gli spazi interni, che non troveremo mai all'esterno e solo raramente sulle facciate degli edifici sacri. La Traditio legis nell'abside di San Pietro, Costantino che offre il modello dell'edificio sull'arco trionfale della medesima basilica 11 [3 J, le storie dell'Antico e Nuovo Testamento raffigurate sulle pareti della cupola del mausoleo di Costanza 12 sono fra le prime immagini monumentali note. Note - grazie alla documentazione visiva che interessa molte di loro - ma perdute, esse sono costantemente a mosaico, a una data che tocca i decenni centrali del IV secolo. In precedenza, tuttavia, prima di entrare nelle basiliche e di assumere carattere monumentale, l'immagine cristiana era comparsa nello spazio delle catacombe. Risalgono a circa la metà del secolo precedente le scene che illustrano singoli episodi del Vecchio Testamento, relativi ad Abramo, Mosé, Giona, Noé e le scene del Nuovo Testamento tratte dai miracoli di Cristo nelle catacombe di San Callisto (cubicolo dei Sacramenti), di Pretestato (cubicolo della Coronatio), di Domitilla (Ipogeo dei Flavi) . Fra il 230 e il 240 fa la sua apparizione la figura della Vergine col Bambino nella catacomba di Priscilla 13 [ 4 J. Contemporaneamente, nella provincia della Siria, all'interno della domus ecclesia e del Battistero di Doura Europos, compaiono figure e scene evangeliche. L'anno è il 257 14 . Accade, dunque, che a Roma e a Doura Europos, nella capitale dell'impero e ai suoi confini estremi, in una remota località della frontiera orientale, si concretizzi quella possibilità di immagine, respinta fino ad allora, come un tabù, dal pensiero cristiano [5]. Solo con la 'conversione di Roma', all'indomani della battaglia di ponte Milvio (312) e la costruzione delle basiliche e degli edifici di culto cristiani,
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l'immagine monumentale prenderà corpo. Non prima degli anni Trenta-Quaranta del IV secola1 5 . Agli inizi del suo corso, la pittura occuperà esclusivamente l'interno degli edifici, fino a quando a metà del V secolo, con Leone Magno, non apparirà anche all'esterno, sulla facciata della basilica di San Pietro in Vaticano, che accoglierà quel mosaico di soggetto apocalittico, conservatosi fino al rinnovamento che ne dispose Gregorio IX nella prima metà del Duecento 16 . Per quel che ne sappiamo, l'ubicazione e l'esposizione dell'immagine sulla facciata rimane a Roma circoscritta all'esempio della basilica di San Pietro, senza che se ne abbia un seguito nei secoli immediatamente successivi, non venendo a configurarsi nei lineamenti di una tradizione che caratterizzi il progetto figurativo destinato all'edificio sacro nel suo insieme, come invece si verificherà per l'immagine nell'abside17 . Per la presenza dei mosaici in facciata occorrerà attendere un'altra stagione e la Roma del XII e XIII secolo 18• Tornando alle origini dell'immagine cristiana, è tersa la persuasione che nel frattempo molti passi sono stati compiuti rispetto ai primi due secoli del Cristianesimo, quando da parte cristiana al rumore delle immagini pagane si opponeva il silenzio, alla densità del popolo delle statue l'assenza 19 . Con l'ingresso dell'immagine, e dell 'immagine monumentale, il nuovo avanza sulla base dei contenuti ma anche e soprattutto maturando dei codici di comunicazione diversi, appropriati, distintivi, identificativi, secondo alcune delle linee illustrate nelle pagine del saggio L'irruzione delle 'nuove' immagini, condensabili nell'idea di un sistema-immagine la cui novità complessiva consiste nell 'intreccio di scelte che toccano la sfera dei contenuti e delle fun zioni, il grado di forte contestualizzazione, e una decisa connotazione in senso materico 20 . Ora s'insisterà, in particolare, sul cambiamento dei generi: la pittura invece della scultura, le immagini dipinte invece delle statue, l'elisione della funzione della statua di culto, l'importanza dell'immagine nell'abside, la scelta del genere musivo per rappresentarla. Sono questi i temi intorno ai quali si intende discorrere. Accompagnati dalla consapevolezza che la strada della diversità dell'immagine cristiana di timbro monumentale rispetto agli usi, alle predilezioni, ai canoni, alle strategie di quella pagana viene segnata decisamente, ma percorsa con discrezione e in tempi non brevi, che il processo di appropriazione specifica degli spazi sacri è preciso, esente da oscillazioni e sbandamenti, che si avvia senza ricorrere al muro contro muro, attivandosi con determinata moderazione per lo smantellamento delle strutture del sacro e dei suoi simboli di parte pagana.
« .. . le statue ... che divengano bellissimi ornamenti alla nostra patria»
L'intento è seguire l'irruzione delle 'nuove' immagini monumentali alla luce del duplice processo, di cristianizzazione e contemporaneamente di desacralizzazione della città pagana, in atto nel IV e V secolo. Il processo di cristianizzazione a livello di segni visivi si compie fondando ed erigendo la serie delle basiliche, costantiniane e post costantiniane, e guadagnando punti di forza nella costruzione del sistema-immagine mentre la desacralizzazione avviene lentamente, passo dopo passo. Secondo un moto 'a chiasmo' . Il primo è destinato a durare, l'altro a sparire. Per illustrare le dinamiche di questo processo, scelgo tre passaggi: all'altezza dell'Adventus di Costanzo II nel 357; attorno all'assedio e al sacco della città, nel 410; a partire dalla notizia di un restauro riguardo una statua di Minerva, compiuto nell'avanzato V secolo, ad una data, il 472473 , che si pone a cavallo fra il primo e il secondo volume del Corpus2 1 .
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La visita nella vecchia Roma di Costanzo II gode del reportage notissimo, redatto da Ammiano Marcellino22 . Fra gli elementi di fascino di quella pagina, indimenticabile è il «lungo piano» gettato sulla figura, postura, testa, volto dell'imperatore mentre percorre sul carro le vie della città« ... come se stesse per incutere terrore con la vista delle armi all'Eufrate e al Reno preceduto ai due lati dalle insegne, egli sedeva, solo, su un cocchio aureo, splendente di varie pietre preziose, il cui scintillio provocava un barbaglio di luci diverse ... Salutato con il nome di augusto da grida di gioia non restò impressionato all 'eco, simile a un tuono, dei monti e delle rive del fiume, ma appariva immobile né più né meno che nelle province. Infatti si piegava quando passava sotto le altissime porte, pur essendo assai piccolo di statura e, come se avesse il collo chiuso in una morsa, teneva lo sguardo sempre fisso davanti a sé e non volgeva il volto né a destra né a sinistra. Né muoveva il capo al sobbalzare delle ruote, né fu visto sputare oppure pulirsi o sfregarsi il naso o la bocca e nemmeno muovere una mano»23 . Tramite lo sguardo di Ammiano, figura postura testa volto, da espressione del vivere e del respirare, divengono tratti dell'immagine dell'imperatore, secondo quel processo di iconicizzazione che caratterizza la temperie figurativa tardo-antica. Forte nel dare forma all'immagine scolpita o dipinta2 4, ma anche a quella reale, esistente, che ne viene anch 'essa plasmata e intrisa. Di Costanzo ciò che si offre alla vista della plebs romana, passando per le vie della città e che Ammiano 'fotografa', comunicandocela, non è l'idea di Costanzo in carne e ossa ma l'immagine di un'immagine: l'icona dell'imperatore25 . La testa immota di Costanzo che avanza sul carro non doveva differenziarsi nella sua specifica conformazione da quelle in marmo o in bronzo di Costantino, ricordate ad apertura di queste pagine [6]. Il processo di formalizzazione in senso astrattizzante è carattere comune ali' effigie di Costantino ma anche ali' autopresentazione di Costanzo II. Investe l'immagine rappresentata e l'immagine reale, respirando insieme lo spirito dell'epoca, quello della tarda antichità, il suo Kunstwollen - per dirla con Riegl2 6 - nella qualità di flusso di tendenza di principi figurativi largamente condivisi, dallo scultore che scolpisce l'effigie di Costantino ai mosaicisti delle figure con l'Ecclesia ex circumcisione ed ex gentibus in Santa Sabina27 , dell'Adorazione dei Magi sull'arco absidale della basilica di Santa Maria Maggiore28 , o ancora all'artista che modellò la potente testa di Pietro sull'arco trionfale di San Paolo29 . E che convoglia nel suo alveo pure la disposizione a vederle e comprenderle quelle tendenze, da parte della plebs romana, pagana e cristiana, come da parte dei committenti, conquistando dunque non solo lo spazio della ideazione e produzione dell'arte, ma anche quello della sua fruizione3°. Tale processo, tuttavia, non appare di per sé elemento connaturato all'immagine cristiana delle origini, né nella declinazione espressa dalla pittura funeraria, né nei caratteri di quella monumentale. Intride piuttosto il genere del ritratto tardo antico, come mostrano le teste di Costantino ricordate più volte, e un certo filone della pittura pagana31 , specialmente di carattere aulico, rappresentata da dipinti come la Dea Barberini32 o quelli del Vicus Iugarius33 • Non siamo in grado di definire i modi stilistici dei perduti mosaici in San Pietro e dunque non sappiamo se fossero conformi, o non, al linguaggio astrattizzante, espresso con prepotenza dalle
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teste in marmo e bronzo di Costantino. Dall'altra, i mosaici conservati sulle volte dell'ambulacro del mausoleo di Costanza, appartenenti ad un edificio connotato in senso cristiano, si annunciano secondo la cifra impressionistica piuttosto che astrattizzante e in generale, guardando al corso della pittura cristiana delle origini, emerge come quella cifra, l' astrattizzante, si farà strada solo più tardi, nell'ambito del V secolo, a cominciare dal momento sistino, ma senza dominare la scena, piuttosto condividendola con il registro impressionistico, come avviene nella serie dei mosaici in Santa Maria Maggiore34 . Non diversamente, il carattere di megalografia che spesso è veicolo delle forme astrattizzanti, appare per prima connaturato ali'orizzonte di segno pagano, alle teste di Costantino più volte richiamate; è condiviso da pitture pagane come la cosiddetta Dea Barberini e dai dipinti della Domus Faustae3 5 ma non penetra nel cosmo delle prime immagini cristiane. Affiorerà più tardi, in brani di mosaici e pitture appartenenti alle imprese leoniane nella basilica di San Paola3 6 , ed esploderà con pienezza quasi iperrealistica alcuni decenni dopo, nelle figure del mosaico dell'abside della basilica dei Santi Cosma e Damiano (526-530) [7 -8]. Ed è esplosione felice. Ciò che il giro di questi ragionamenti presenta è lo scarto che esiste fra linea dell'immagine scolpita o dipinta di parte pagana, almeno nella sua direzione ufficiale, e linea dell 'immagine cristiano-monumentale. Le due linee, la prima spiccatamente governata da nervature di vocazione astrattizzante e dal principio della megalografia, la seconda disponibile a mescolare piuttosto i diversi registri, non sono parallele, ma procedono secondo ritmi temporalmente sfasati. Un punto di vista, questo, diverso rispetto al principio elaborato all'interno della prospettiva storiografica della prima metà del secolo scorso convergente piuttosto verso l'idea di omogeneità stilistica comune ali'arte pagana e all'arte cristiana37 , e invece favorevole a una visione mossa, articolata, «governata da un moto di flusso e riflusso»38 tesa a superare anche lo schieramento delle linee parallele, pagane e cristiane, attenta - com'è - a cogliere le dinamiche interne a ciascuna di loro e quelle ad esse comuni39 . Nell'economia di questo saggio, accanto alla resa indimenticabile dell'immagine-icona di sé che Costanzo rappresenta, conta anche un altro dato. Un fatto. Nell'Adventus di un imperatore del IV secolo a Roma , la visita alla Curia Senatus è d'obbligo40 . E lì, in quello spazio, dedicato alla politica ma anche impregnato di sacralità, Costanzo constata che sono tuttora attive l'ara e la statua di culto della dea della Vittoria. A lui, imperatore nato cristiano, al quale è familiare l'orizzonte di una città come Costantinopoli, dalle origini cristiane, senza retaggi pagani, il fatto appare inaudito; eccede il livello possibile della sua comprensione; la mescolanza di Roma pagana e Roma cristiana è ai suoi occhi scandalosa. Costanzo ordina la rimozione dell'ara. Ha inizio in questo modo la desacralizzazione dell'aula del Senato di Roma. E, tuttavia, non definitivamente 41 . Perché, per tutta la seconda metà del secolo, attorno all'ara e alla statua della Vittoria, si continueranno a fronteggiare la minoranza cristiana del Senato e la maggioranza pagana, si alterneranno gli interventi di Simmaco, Ambrogio, Prudenzio, che innestano, ogni volta, ora un'attivazione del culto, ora una sua disattivazione, fino alla definitiva chiusura nel 403. Tramite il destino altalenante della statua della dea della Vittoria, si vuole rappresentare la decadenza dell'immagine pagana, mentre in parallelo avanza la pittura monumentale di segno cristiano. Non è documentata alcuna visita di Costanzo alla basilica di San Pietro42 , ma non mancheranno di farlo gli imperatori che verranno a Roma successivamente. « .. . Là c'è Pietro in un sepolcro, là c'è Adriano in un tempio. Il tempio di Adriano, la tomba di Pietro. L'imperatore giunse. Vediamo dove sarà accorso, dove volle figgere le ginocchia: nel tempio dell'imperatore, o alla tomba del pescatore? Deposto il diadema, si batte il petto dove c'è il corpo del pescatore . ..» attesterà sant' Agostino, circa mezzo secolo dopo43 . L'imperatore Onorio, ad esempio, è a Roma nel 403. Visiterà la basilica di San Pietro, dove ormai stanno le nuove immagini, fra le quali senza ombra di dubbio la Traditio Legis nell'abside e la scena con Costantino nelle vesti di offerente davanti a Cristo e Pietro sull'arco trionfale44 . Nello stesso anno, nel 403 , l'ara e la statua della Vittoria vengono disattivate per sempre; il Campidoglio, il monte sacro del paganesimo45 , è ormai fuori di ogni rotta: della politica, del cerimoniale, del sacro. Cade in rovina. Nel 403 , ancora il 403 , Girolamo dalla lontana Palestina può esclamare in proposito: «Il Campidoglio dorato diviene sudicio per l'incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi tra i templi diroccati, accorre alle tombe dei martiri» 46 . Quel miscuglio che è la Roma del IV secolo, un insieme di città pagana e di prima città cristiana, comincia a spostare il proprio baricentro. Dal Campidoglio a San Pietro, «dai templi diroccati alle tombe dei martiri»; mentre la plebs romana diventa sempre più plebs Dei47 e il paesaggio urbano di Roma cambia; l' urbs antica diviene la civitas cristiana. Processi di questa portata ricevono un moto d'accelerazione negli anni cruciali dell'assedio e del sacco di Roma- e siamo al secondo passaggio- quando l'incertezza del destino di sé, come popolo romano , l'insicurezza della sorte propria e della città, che mai era stata minacciata dai tempi dell'incendio dei Galli, nel lontanissimo 390 a. C. , toccano il diapason, spingendo ambedue gli
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schieramenti, dei pagani e dei cristiani, a cercare ogni strategia in grado di ridare la sicurezza smarrita. Nel corso dell'assedio di Alarico e del sacco che ne seguì, si fronteggiano riti simili ma di segno opposto, la processione mancata del Senato nel 408 e la pia pompa del 41 O a San Pietro, quando folle di cristiani, ma anche di infiltrati pagani , trovano salvezza nei santuari cristiani, divenuti recinti sicuri mentre, fuori , la città è messa a ferro e fuoco 48 . La religione cristiana è vissuta come l'unica vera ancora di salvezza in un mondo che vacilla fin dalle fondamenta. Cristo è presente, è il conservator di una chiesa, quella di Pudente, come annunzierà nel mosaico absidale di quell'edificio, e dunque della città, dell'umanità tutta, nel presente ma anche nel futuro , nel tempo ma anche alla fine dei tempi, mentre nessuno può garantire alcuna salvezza e l'imperatore Onorio è lontano da Roma, sta a Ravenna e a Ravenna è papa Innocenzo49 . Roma 410: anno zero, buco nero della storia, perdita del futuro. Su questi scenari di desolazione apre il De czvitate Dei contra paganos di Agostino50 , si muovono Le storie contro i pagani di Orosio51 , s'espande il sentimento dolente di Girolamo attraverso le lettere spedite dalla Palestina. Ma quel messaggio non prende corpo solo nella densità drammatica dell'opera di Agostino, nel resoconto di Orosio, nello struggimento di Girolamo. Oltre che nelle parole, il messaggio s'incarna nelle immagini. Produce una maestosa sceneggiatura visiva, che transita nelle potenti figure del mosaico nell'abside di Santa Pudenziana [9-10] , convergenti verso Cristo seduto al centro della raffigurazione, davanti a un 'esedra dalle tegole scintillanti di bronzo, con alle spalle un cielo palpitante, striato di nuvole rosse e blu, solcato dalle quattro figure immense e alate dei viventi - l'angelo, il leone, il toro, l'aquila - attorno all'alta croce gemmata svettante da un'altura e che sfonda verso la vista ampia di un panorama urbano; che s'aggruma intorno al volumen retto da Cristo, mirando dritto alle parole: «Dominus conserva tor ecclesiae Pudentianae»52 . La maestosa sceneggiatura nella sistemazione originaria della chiesa era percepibile con più immediatezza rispetto all' attuale sistemazione controriformistica. Mai, in passato, a Cristo era stato dato quel titolo - conservator 53 - né mai in futuro esso sarà ripetuto , né a Roma , all'interno della catena delle raffigurazioni riservate all' abside54, né altrove, nei confini dell'ecumene cristiana. Il mosaico di Santa Pudenziana è il più antico mosaico absidale che si sia conservato a Roma55 . Lo ammiriamo per mille ragioni , gli studi su di esso si sono moltiplicati abbondanti nel tempo e tuttavia le parole inedite del volumen meritano ancora attenzione . Con esse Cristo proclama la salvezza della quale si fa garante56 , l' assicura, con sollecitudine, non in astratto ma incanalandola in concreto proprio sulla ecclesiae pudentianae57 , ancorandola al luogo nel quale il mosaico si mostra58 . Nell'economia generale della composizione il volumen occupa il centro; nell'orizzonte di senso, le parole Dominus conservator ne sono il cuore. Diventano il faro che rischiara il buio, l'ancora della salvezza in mezzo alla tempesta. Un'altra iscrizione alla base del mosaico, letta prima che andasse perduta, permette di agganciare l'opera agli anni del pontificato di Innocenzo I (402-417); da parte sua, l'iscrizione sulle pagine del volumen, la sua esegesi59 , il significato che ne scaturisce, trascinano il mosaico in mezzo al clima generato dalle vicende del sacco di Alarico, la eleggono gemello, in immagine, dell'orizzonte evocato dai primi cinque libri del De Civz"tate Dei, scritti entro il 415 60 , permettendo di circoscriverne l'esecuzione fra il 41 Oe il 41761 . Il clima e il senso ultimo del mosaico appaiono sempre più paralleli a quelli agostiniani, con una
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distinzione di fondo. Se il respiro del De Civitate Dei alita sulla raffigurazione nel suo insieme, awolgendola e intridendola nel profondo, è pur vero che singoli elementi e singoli nuclei figurativi - le quattro figure dei Viventi, che irrompono a Roma per la prima volta qui nel mosaico di Santa Pudenziana, il trono, le due figure femminili dietro Pietro e Paolo - sono concepiti secondo l'ordito dei pensieri di Girolamo, seguendo lo scacchiere delle esegesi da lui formulate6 2 . La densità affascinante del mosaico si dipana nella sua stratigrafia: intercettando il corso degli awenimenti storici coevi, sublimandone gli effetti sui cittadini e sui fedeli, su pagani e cristiani; assorbendo il flusso delle grandi costruzioni di pensiero e di senso che ne scaturirono. Il mosaico parte da qui, per impostare messaggi insieme di caratura particolare e di portata generale-ecumenica, per lanciare una parola di salvezza di latitudine specifica e concreta, la chiesa di Pudente, ma di spessore universale ad una curva di quel percorso a chiasmo che abbiamo individuato all'inizio, fra cristianizzazione e desacralizzazione, fra immagini pagane e immagini cristiano-monumentali. All'indomani del sacco del 410, le quotazioni cristiane crescono mentre crollano quelle pagane. Si realizzano mosaici come quelli di Santa Pudenziana e contemporaneamente si disattivano le funzioni di culto delle statue pagane63 . E giungiamo al terzo passaggio. Nell'avanzato V secolo, il prefetto urbano Anicius Acilius Aginatius Faustus prowede al restauro di una statua di Minerva, danneggiata a causa della caduta del tetto che la sovrastava nel corso di un incendio provocato da un «tumulto civile»64 . Secondo l'incastro dei dati, proposto dagli storici e qui accolto, il tumulto civile è identificabile con uno di quelli scoppiati nel 472; il 472-473 è l'anno della prefettura urbana di Anicius Acilius Aginatius Faustus e dunque del restauro del simulacro che dovrebbe identificarsi con quello di Minerva che si ergeva nell'Atrium Minervae, nel portico d 'ingresso della Curia verso il comizio in direzione del Foro romano 65 . Tutto ciò aiuta a comprendere la conclusione del percorso a chiasmo, delle due direzioni profondamente diverse sottese all'immagine cristiana e alla pagana e a focalizzare la centralità del V secolo all'interno di quel processo. Caratterizzato dalla profonda e capillare opera di cristianizzazione della città, a livello di strutture urbane, monumentali, a livello di fioritura eccezionale del sistemaimmagine, quel secolo, il quinto, vede la vittoria delle 'nuove' immagini sulle antiche, delle cristiane sulle pagane-profane secondo modalità che non sono necessariamente frutto di distruzioni e oblio. Il prefetto urbano, Anicius Acilius Aginatius Faustus- assai probabilmente un cristiano - fa restaurare un simulacro di Minerva, mentre le basiliche cristiane si mostrano al colmo della loro parabola costruttiva e decorativa, popolate di mosaici e dipinti, all'indomani del più grande allestimento di costruzione di immagini cristiane che abbia conosciuto l'intero orizzonte della tarda antichità66 . Passiamole rapidamente in rassegna, quelle imprese: le campagne promosse da Sisto III nella serie di edifici di nuova fondazione - Santa Sabina, Santa Maria Maggiore, Atrio biabsidato del Battistero lateranense - i vasti cantieri di Leone Magno miranti invece a qualificare figurativamente le grandi basiliche già esistenti - di certo San Pietro e San Paolo - lavorando a ristrutturare nel profondo i modelli iconografici, impostando le basi per la messa a punto di nuove macchine visuali per la presentazione delle immagini e delle scene67 ; gli interventi di papa Ilaro, infine, concentrati a ornare con mosaici ma anche con lastre marmoree e ad opus sectile la serie di cappelle di nuova fondazione disposte attorno al Battistero lateranense. Ma si torni al cuore della questione che si sta trattando, per chiedersi dove passi il punto della conciliazione delle due diverse tendenze, l'esigenza del fare immagini cristiane e l'attitudine al rispetto verso le testimonianze figurative pagane. Aiutano a trovarlo, quel punto, le parole di Prudenzio: «Lavate, senatori, i marmi insudiciati dallo spruzzo infetto. Sia lecito che le statue si innalzino pure, opere di grandi artisti; che divengano bellissimi ornamenti alla nostra patria» 68 •
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Prudenzio pronunziava quelle parole circa un secolo prima, in linea col piissimo Teodosio e secondo una tradizione che aveva il suo momento di inizio nel comportamento di Costantino, quando decise di adornare Costantinopoli di statue antiche e preziose, provenienti da celebri e vetusti santuari pagani69 . È questa la linea della Roma del V secolo a Roma. Se ne riassumano i punti salienti. La cristianizzazione di Roma avanza rispetto all'opera di desacralizzazione della parte pagana, secondo un movimento, s'è detto, a chiasmo. L'ara e la statua della dea della Vittoria vengono disattivate agli inizi del V secolo, ma questo atto non innesta, tuttavia, una campagna iconoclasta indiscriminata verso le immagini pagane. S'innesta, piuttosto, un processo sensibile a costruire possibilità di sopravvivenza alle immagini-statue di carattere pagano, nel solco di una riflessione che mira alla devitalizzazione di ciò che è essenziale per lo statuto dell 'immagine sacra e il suo riconoscimento. In questa ottica, non occorre distruggere materialmente la statua, è necessario privarla della sua funzione . Anicius Acilius Aginatius Faustus dichiara di aver provveduto al restauro di un simulacro di Minerva. Lo può dichiarare, ancor più se cristiano, perché le statue degli dei non sono più offensive. Ci sono; persistono ma non significano. Ornano. Viene riconosciuto loro il carattere di arte, l'essere testimonianza di grandi artisti, ma entrano nel recinto di ciò che non ha più funzione, vengono neutralizzate, desemantizzandole, togliendo loro ogni carica funzionale , vengono nella sostanza museificate: dichiarando la loro appartenenza al mondo del superfluo, sono divenute senza potere. Era il 472-473. Qualche anno dopo , l'aula di rappresentanza di una ricca domus , sulle pendici del Celio, già appartenuta a Giunio Basso, donata dal generale goto Valila a papa Simplicio (468-483 ), viene trasformata in chiesa. Unica aggiunta all'edificio sarà il corpo dell'abside e il suo mosaico, noto grazie al disegno che l'ha riprodotto prima della sua distruzione70 . Bene, questo mosaico raffigurante Cristo fra sei apostoli 71 , convive fino alla rovina della chiesa nell'avanzato Seicento insieme allo stupefacente manto ad opus sectile che foderava completamente le pareti dell'edificio [11-12]. Il mosaico del tempo di papa Simplicio (468-483) occupava l'abside, il fuoco dello spazio sacro, dove converge lo sguardo partecipe del fedele; altrove, oltre l'abside, si estendevano i pannelli ad opus sectile del secondo quarto del IV secolo, raffiguranti una miriade di figure, di motivi pescati nel repertorio dei soggetti mitologici: meduse, zoomachie, ninfe, personaggi della letteratura greca antica come H ylas delle Argo nautiche di Apollonia Rodio ma anche temi come le pompe circensi72 , che dicono di un mondo scintillante ma inattuale e superato. La coesistenza di registri opposti, a livello di temi, di soggetti, di stile, di gusto, di generi figurativi, l'uno a mosaico, l'altro ad opus sectile, ma soprattutto l'uno cristiano, l'altro pagano, può di per sé disorientare ma alla luce della visione già espressa da Prudenzio alcuni decenni prima, quella coesistenza diviene comprensibile. Per i cristiani dell 'avanzato V secolo, la straordinaria decorazione di Giunio Basso di fatto retrocedeva a fondale 'archeologico'. Il cerchio si chiude. Nel 472-473 si restaura la statua di Minerva; nello stesso giro di anni, nello spazio di un'aula nata con funzione laica e trasformata in chiesa, la decorazione preesistente, di carattere profano, non viene distrutta. Nel V secolo, il fedele si doveva sentire a proprio agio in basiliche come San Pietro, San Paolo, Santa Maria Maggiore dove un sistema articolato di immagini di segno cristiano lo accoglieva accompagnandolo lungo il percorso, dalla controfacciata, alle pareti della navata, all'abside, ma non doveva essere oltremodo sconcertato nell'aula già della domus di Giunio Basso ora chiesa di Sant'Andrea Catabarbara, dove H ylas convive con Cristo , la raffigurazione della Pompa circensis con la misurata parata di apostoli rappresentati ai lati di Cristo nel mosaico dell'abside.
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Dall'abside di Luxor all'abside di Santa Pudenziana
L'immagine cristiana a Roma appare saldamente ancorata all'abside, il posto più eminente dell'edificio sacro verso il quale converge in modo potente lo sguardo del fedele. L'abside in sé non è invenzione dell'architettura cristiana: edifici del mondo romano come terme, basiliche civili, aule di cerimonia, ne erano dotate. E anche i ninfei. D 'altra parte, l'abside di questo tipo di edifici non è di per sé luogo deputato ad accogliere raffigurazioni dipinte. Ne sono esenti, ad esempio, le absidi delle basiliche civili mentre ne sono dotate le terme e di frequente i ninfei, i cui rivestimenti spesso sono a mosaico. Il punto, tuttavia, non è rivendicare all'uno o all'altro mondo, il cristiano o il pagano, la primogenitura nell'adozione della pittura nell'abside, ma scovare se ci siano gradi d 'intenzionalità nel legare immagini e abside e nel captare le strategie visive inventate al fine di esaltarle. Due esempi si cureranno di illustrare convergenze e differenze fra i due diversi versanti. Il complesso termale ubicato a Salamina di Cipro comprende la sala sud dotata di tre absidi-nicchie, due delle quali conservano brani di mosaico [13]. Si indirizzi l'attenzione verso quella centrale,
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sull'apparato musivo, in particolare, perché più esteso e meglio leggibile nei suoi aspetti principali73 • La scena mitologica è di dubbia interpretazione; i brani più integri riguardano il festone di frutta alla base della calotta, e all'interno di essa le due figure ai lati, in atto di fuggire 74 . La composizione tiene conto della forma dell'abside e, tuttavia, essa manca sostanzialmente di centro; le figure seguono un moto prevalentemente centrifugo, svolgendo azioni e facendo gesti che sfuggono verso l'esterno [14]; se ne ricava l'impressione di un mosaico, parietale quanto al genere, ma che adotta uno schema compositivo ideato per la superficie piana di un pavimento piuttosto che per un'abside. Con lo sguardo nutrito da un tipo di composizione figurata diversamente orientata, come è quella ricorrente nelle absidi cristiane di Roma - dal paleocristiano al barocco - il decentramento delle immagini di Salamina colpisce e disorienta. Così come risulta estraneo alla nostra esperienza, l'uso, per così dire 'opaco', che può esprimere la figura nell'abside. Ne è esempio trasparente il caso del sacello del culto imperiale ricavato in un ambiente del tempio di Ammone a Luxor, trasformato in parte in castrum militare75 . L'insieme dei dipinti che si dipanano sulle pareti della sala è incentrato sulla celebrazione dei tetrarchi che sono raffigurati più volte: sulle pareti laterali in scene di processione [15-16], sulla parete di fondo in scene di udienze e, infine nell'abside. L'abside accoglie sulle superfici dell'emiciclo le quattro figure degli imperatori, i due Augusti, Diocleziano e Massimiano al centro, e ai lati i Cesari, rispettivamente Galerio e Costanzo [15-17, 20]. L'esecuzione di questa straordinaria testimonianza pittorica in terra egiziana risale con ogni probabilità all'anno 30076 . Non ci soffermeremo sull'assetto iconografico assai ricco che le pitture di Luxor presentano, né si discetterà sul loro apporto, ritenuto assai significativo77 , a proposito della tesi del travaso nell' ambito dell'iconografia cristiana di una forte impronta 'imperiale' 78 . Piuttosto si guarderà alle pitture in quanto agenti all'interno di una grande macchina visuale. Dal punto di vista scelto, il cuore della questione consiste nel considerare il rapporto immagineorganismo absidale-contesto. L'abside dipinta si apre sul lato sud dell 'aula. Tematicamente ospita figure assai importanti, i personaggi più rappresentativi della terra, gli imperatori [17, 20]. Eppure, passando dal livello
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meramente contenutistico a quello percettivo, occorre convenire che quelle figure mancano di risalto, visualmente non primeggiano. E ciò per due ragioni principali. Perché le effigi di Diocleziano e Massimiano affiancate da Galerio e Costanzo, non stanno nella calotta dell'abside dove campeggia l'aquila ad ali spiegate, ma nell'emiciclo, e dunque si trovano ad essere alla stessa altezza delle figure e delle scene raffigurate lungo le pareti attigue, anzi talora a una quota inferiore, e perché le figure e le scene che si sviluppano lungo le pareti non esibiscono una coerente direzionalità, e soprattutto non convergono in modo convincente verso l' abside79 . Fra pareti e abside non si profila alcun accordo intenzionale, il rapporto fisico è sottratto a ogni disegno che le coinvolga entrambe sul piano delle strategie compositive e visuali. Forte e intenzionale è invece il ruolo dell'abside, sempre dipinta, sempre con immagini, all'interno della basilica paleocristiana. L'abside diventa protagonista di una geniale crasi: fra una forma architettonica divenuta sommamente significativa - in quanto culmine dell'asse longitudinale che caratterizza l'edificio sacro, in quanto fuoco del percorso intensamente visivo del fedele e stazione ultima del suo sguardo - e le immagini che l'abitano. Immagini che prevedono nel loro assetto iconografico un asse, un fulcro, un centro, che s'identifica in massima parte con la figura di Cristo80 [18]. L'esigenza di un asse e di un punto focale all'interno della composizione destinata all'abside viene annunziata già dalla Traditio legis di San Pietro, per il suo sistema ternario convergente verso Cristo, e viene espressa compiutamente nel mosaico di Santa Pudenziana. Tuttavia, pur essendo punto di convergenza delle altre figure nell'abside, né in San Pietro, né in Santa Pudenziana, né altrove, Cristo colloquia con esse. Il suo sguardo non si muove lungo una traiettoria interna allo spazio dell'abside, ma ne oltrepassa i confini per disegnare una direzione diversa, entrare in contatto con l'oltre rispetto all'abside, in direzione della navata, incontrare lo sguardo dei credenti. Perciò la presenza dell'immagine nell'abside, in sé, e per i caratteri specifici che la connotano, assume a Roma i contorni di uno statuto forte, irrinunciabile, e questo dalla tarda Antichità a tutto il Medioevo e pure successivamente, nell'età della Controriforma e nella barocca. Non sappiamo quale fosse a Costantinopoli l'allestimento figurativo dell'abside nelle basiliche della prima stagione della sua storia architettonica: nella Santa Irene, nella Santa Sofia, e nel V secolo nei santuari dedicati alla Theotokos, la Chalcoprateia, le Blacherne ecc.; se e quale tipo di immagine accogliesse. I monumenti sono distrutti e tacciono le fonti 81. Per cogliere quel nesso, immagine-abside, occorre attendere la prima metà del VI secolo. Materiali raccolti nel corso degli scavi che hanno interessato i resti della basilica di San Polieucto, permettono di ritenere che la chiesa, eretta nel 524-527 per la committenza di Anicia Giuliana avesse l'abside rivestita di un mosaico, e che la raffigurazione contemplasse la presenza di figure su fondo oro82 . Diversamente, la calotta absidale della Santa Sofia di Giustiniano, consacrata nel 537 , era fulgente per la presenza di un mosaico, tutto d'oro, ma aniconico, tranne per la figura della croce al centro83 . Dell'originario tessuto di tessere d'oro del VI secolo sussistono larghi brani inglobati all'interno della redazione del mosaico più tardo 84 , di epoca post iconoclasta, tuttora superstite, raffigurante la Theotokos in trono col bambino sulle ginocchia85 [19]. Mosaici dalle stesure aniconiche e mosaici figurati sono due forme differenti, anzi divergenti. Ambedue prendono corpo nello stesso giro di decenni a Costantinopoli dove convivono, con naturalezza, dando prova che non s'era creata in precedenza una tradizione precisa e di carattere univoco a cui aderire. Fuori di Roma e Costantinopoli, il corpus delle pitture più antiche delle absidi, esistenti o
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documentate 86 , fa emergere come il fenomeno sia caratterizzato da un alto grado di diffusione, esteso com'è alle aree del mediterraneo orientale - l'Egitto, il Sinai, la Grecia, l'Asia Minore - e alle città dell'Italia, Milano, Ravenna, Fondi, Santa Maria Capua Vetere, Nola, Napoli, orientato tematicamente verso l'adozione di immagini a forte vocazione teofanica e/ o epifanica, per quanto poi siano molteplici le flessioni particolari in cui il soggetto viene iconograficamente, compositivamente, stilisticamente trattato. Alla fine dell'ideale periplo attorno alle absidi con pitture, e tornando a Roma , fra i caratteri che si confermano qualificanti l'assetto immagineabside, con una perentorietà che non ha confronti, continueremo a sottolineare la consapevolezza nella regia della macchina visiva; l'univocità tematica e il formarsi di una tradizione basata fortemente sul principio di continuità, con l'aggiunta di un quarto carattere. L'immagine nell'abside è a mosaico.
Il mosaico, genere-guida della pittura
Le immagini cristiane sono e devono apparire diverse rispetto alle pagane, precedenti o coeve. Dipinte e non scolpite, il loro riferimento è alla superficie e a una dimensione spaziale, dunque, altra rispetto all'ingombro tridimensionale comune alle cose esistenti e al volume della statua. Dell'esigenza di distinzione si fa carico la scelta che punta decisamente a prediligere la pittura, le raffigurazioni parietali e al suo interno il genere musivo. Si può ribattere che il mosaico parietale non è genere nuovo, essendo già ricorrente nel mondo ellenistico-romano. Ed' altra parte ribadire che diversamente dal mosaico pavimentale, che fu davvero il genere egemone in quel mondo87 , la sua diffusione fu nel suo insieme parca, occasionale, anarchica88 . Anche a Roma. Nella Domus A urea, dimora del lusso e dal gusto sfrenato, l'uso del mosaico è circoscritto alla sola figura di Ulisse che offre da bere al Ciclope nella sala ottagona89 ; a sorpresa è apparso nel contesto delle decorazioni parietali delle terme di Traiano scoperte di recente, dove a mosaico sono soggetti figurati e ad affresco la veduta di città 90 ; lo troviamo diffuso amabilmente in edifici legati all'acqua: nelle terme e nei ninfei; poteva ornare la parte inferiore di un soffitto ligneo (contignatio), come mostrano i frammenti con racemi su sfondo blu nella casa del IV secolo presso porta Marina a Ostia91 , o raggiungere le volte, e in questo caso a documentarlo è il raro mosaico del sepolcro dei Giulii nell'area vaticana, fra fine III e inizi IV, lungo il crinale fra mondo pagano e mondo cristiano 92 . Passano pochi decenni e da parte cristiana avviene il cambiamento di voltaggio. L'uso del mosaico parietale accoglie una nuova investitura. Dalla sua originaria dimensione ludica, decorativa, dall'essere rivestimento festoso , e per esempio, dei santuari dell'acqua, il mosaico diviene il genere rappresentativo della pittura monumentale cristiana, ma, ancora di più, forte elemento di identità all'interno dell'edificio di culto. L'investitura ha il sigillo dell'appartenenza: il mosaico diviene proprietà intima, intrinseca, duratura dell'immagine cristiana. Soprattutto a Roma dove, a cominciare dall'abside e dall'arco trionfale nella basilica di San Pietro in Vaticano 93 , viene ad assumere la funzione di transito per l'immagine teofanica destinata all'abside. E ciò perdura intenzionalmente nel corpo di tutte le basiliche di fondazione paleocristiana e poi medievale divenendone un segno di continuità e di riconoscibilità. Ciò che rende diverso il mosaico cristiano, si ripete, è l'intenzionalità che lo investe, onde farlo diventare linguaggio proprio, legandolo, in particolare a Roma, alla raffigurazione destinata alla conca absidale. Il mosaico come modo dell'espressione. Nodale, in questa prospettiva, è la svolta del IV secolo. Eppure, quando il mosaico appare nelle prime basiliche, sembra che nulla a livello macroscopico sia stato inventato o cambiato. Si adotta un genere, il cui uso ricorre da secoli94; riguardo alle scelte materiche gli assetti sono consolidati; la fa da p adrona l'uso della tessera di pasta vitrea; la predilezione per le superfici curve come per il colore blu dei fondi è già definita. Anche la messa a punto dei processi esecutivi può dirsi sostanzialmente compiuta. Un elemento di snodo fondamentale, incuneato fra piano dell'ideazione e piano della mosaicatura - qual è il sistema di stendere in funzione di guida il disegno preparatorio e le campiture cromatiche ad affresco sopra la malta di allettamento - ricorre già di norma nel mosaico di epoca imperiale e tardo imperiale - dalle terme di Salamina al sepolcro dei Giulii 95 . D'altra parte, non sempre e ovunque i primi mosaici parietali legati a contesti architettonici di timbro cristiano mostrano padronanza sicura delle strutture esecutive proprie di quel linguaggio. Non mancano qua e là elementi spia che dicono di una fase di rodaggio, e, per esempio, la persistenza di punti di sutura fra la flessione propria alla natura del pavimento musivo e di quello parietale. I mosaici delle volte dell'ambulacro del mausoleo di Costanza costituiscono il test più appropriato in questo senso, essi che condividono con il genere pavimentale la scelta dei motivi ornamentali, il taglio delle immagini, ma anche l'uso del fondo bianco composto di tessere di palombino [21-22]. La frizione passa attraverso lo sguardo del visitatore che trascorre sui campi mosaicati adagiati
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sulle volte, guardandoli dal basso in su invece che dall'alto in basso, come accade quando si cammina sopra i mosaici pavimentali. Siamo alla metà del IV secolo96 . Dopo qualche lustro, le absidiole sud e nord del mausoleo ospiteranno i mosaici con la Traditio legis e la Traditio clavium. Nella loro conformazione generale e nella qualità dei brani meno gravati dai pesanti restauri antichi, essi aprono su quel nucleo di cellule figurative - immagini, motivi, nessi iconografici - e di caratteri specifici che diventeranno patrimonio condiviso dei mosaici monumentali, a cominciare da quell'altezza cronologica, che è l'avanzato IV secolo97 . Da allora, e considerando quel prototipo perduto che dovette essere il mosaico in San Pietro, l'adozione del mosaico nell'abside diventerà un tratto distintivo della visualità manifesta nelle basiliche di Roma e ininterrottamente, dal IV fino alla fine del XIII secolo. Il genere musivo a Roma e in particolare la sua presenza nel luogo dell'abside, nella conca e sull'arco, ha origine alla confluenza di un fascio di fattori interagenti, fra i quali hanno la signoria due distinte dinamiche: la forza di una committenza alta di tipo omogeneo, connessa costantemente e in prevalenza, com'è, alla figura del papa, e l'attività radicata e continua nella città dei mosaicisti e delle maestranze idonee a elaborare tutte le fasi del processo esecutivo di cui abbisogna un mosaico parietale98 : dal reperimento e lavorazione dei materiali per le tessere di calcare e di pasta vitrea 99 al gesto della mosaicatura con il grappolo dei saperi rodati che essa comporta 100 . Sono queste le condizioni indispensabili per il radicarsi di quella linea per cui l'immagine nell'abside è a mosaico; e accade che questo essere a mosaico non sia di volta in volta frutto di una scelta singola e di un atto di adesione o meno alla tradizione, ma la messa in moto di un progetto che attinge a un pacchetto di scelte originarie e preordinate, a un nucleo di elementi indivisibili e imprescindibili che rispondono grosso modo a una logica di questo tipo: l'abside in una basilica deve accogliere l'immagine, la sua natura tematica è teofanica e cristologica, il suo medium 'mediale' è il mosaico. Non si creda, tuttavia, che il radicamento del genere musivo a Roma sia fenomeno esclusivo della città imperiale e papale. Si tratta invece di una scelta di fondo coniugata alla comparsa dell'immagine nell'ecumene cristiana, scelta che trova proprio a Roma il suo più antico caposaldo e che qui viene declinata secondo modi talora propri. Nella prima fase, al tempo della cristianizzazione delle città e dei territori dell'impero romano in ambito mediterraneo, ciò si verifica all'interno di una geografia dello sviluppo dell'arte cristiana in gran parte coincidente con quanto s'è detto a proposito della centralità dell'organismo-abside nell'edificio di culto cristiano. E, tuttavia, in questo largo orizzonte, il legame mosaico-abside è sì il carattere eminente ma non l'unico all 'interno dell'edificio sacro, dove spesso, a Salonicco, ad esempio, a Ravenna, a Milano, a Napoli e più tardi a Costantinopoli, vediamo l'uso del mosaico estendersi dal nucleo dell'abside alle altre superfici del resto dell'edificio, investendo cupole, sottarchi, pareti di navate 101 . Posto che il mosaico parietale di origine cristiana non è il pendant di quello profano antico e che non è nemmeno da ritenere una ramificazione di quello pavimentale, consideriamone lo statuto radicato in un plesso di caratteri guidati da scelte fortemente intenzionali. Il mosaico parietale cristiano si profila subito come genere aulico per eccellenza. Per il carattere esclusivo, essendo strutturale il suo legame con la cerchia di committenze forti e rappresentative -l'imperatore a Bisanzio, il papa a Roma e i vescovi in altre città dell'Occidente - per la preziosità dei suoi materiali che prevede il ricorso alla disponibilità di fondi consistenti, per i processi a monte della sua esecuzione per i quali occorre impegnare l'attività di una cerchia di artefici dalle competenze miste, dalla padronanza di saperi tecnologici raffinati 102 . Infine, il mosaico è la voce di un forte investimento simbolico. All'interno della mappa italiana e mediterranea del genere musivo, la Roma delle origini cristiane - s'è detto - rappresenta una stazione fondamentale. Nei termini del macro-fenomeno il suo corso è parallelo a quello di altri centri. Ma non a proposito delle articolazioni specifiche. Riguardo all'uso delle immagini e dei loro media all'interno dello spazio sacro, a Roma a metà del V secolo si assiste a una svolta. Mentre le imprese sistine all'opera per l'illustrazione figurativa di Santa Maria Maggiore 103 , di Santa Sabina, dell'atrio del Battistero lateranense 104 hanno fatto ricorso unicamente al genere musivo, qualsiasi fosse la natura dell'immagine da presentare, di tipo epifanico o narrativo, diversamente, le grandi campagne di Leone Magno a San Paolo e a San Pietro impongono una virata, adottando il principio della disgiunzione dei generi. A San Paolo, le immagini e le storie vetero e neo testamentarie della navata sono dipinte ad affresco; la rappresentazione apocalittica sull'arco trionfale a mosaico 105 [23]. Da questo momento in poi, la pittura monumentale a Roma praticherà quello che ho definito il principio della disgiunzione, restandovi fedele anche successivamente, fino alle impegnative campagne di una cappella, come quella papale del Sancta Sanctorum 106 , risalente a Niccolò III (1277-1280) , con i mosaici sulla volta della scarsella e la pittura ad affresco per le vele e le pareti del vano antistante 107 , o di Santa Maria Maggiore che nella grande impresa voluta da Niccolò IV prevede la presenza del mosaico nell'abside e della pittura murale sulle attigue pareti del transetto 108 . Pratica della disgiunzione, dunque, che
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viene applicata con coerenza senza possibilità di scambio fra i due generi. Non accade che nella stessa basilica l'immagine nell'abside sia ad affresco e le scene raffigurate sulle pareti della navata siano a mosaico 109 . Tutto ciò evoca il rispetto verso la tradizione che - si sa - nello sviluppo della pittura a Roma è forte . Il vincolo della tradizione è innegabile, purché non vi si individui l'ingresso al binario della ripetizione disimpegnata, quanto il principio della condivisione di un habitus concezionale prima ancora che progettuale, il riconoscervi un nesso che è nevralgico e originario. A Roma il principio della disgiunzione, concepito e messo in atto dalle imprese pittoriche orientate da Leone Magno, non segna semplicemente i contorni di una prassi; dichiara invece con autorità una distinzione interna all'immagine e fra i modi delle sue epifanie possibili. Alle immagini di natura teofanica e iconica è assegnato il medium aulico e simbolico del mosaico, alle immagini calate nel registro narrativo, alle immagini di storia, viene connessa la pratica della pittura murale. Nello scacchiere proprio delle formalizzazioni del linguaggio figurativo e visivo dell'arte romana, dell'arte tardo antica, dell 'arte bizantina delle origini, in quello scacchiere che accoglie la visione dei modes elaborata da Kitzinger o la concezione dei 'generi' messa a fuoco da Brendel1 10 , va a incastrarsi questa ulteriore tessera, basata sul nesso esclusivo fra specifico carattere dell'immagine e medium. Quando dopo il mille, nel corso del maturo Medioevo, riesplode l'altra grande stagione del mosaico sia in Italia che nei territori bizantini - si pensi al complesso musivo della basilica di San Marco a Venezia, ai mosaici della Sicilia normanna o alla serie dei cicli musivi a Chios, Dafni, Osios Lukas - a prevalere sarà il modello alternativo, quello che nella lunga durata continuerà a essere adottato a Costantinopoli, il modello che ricorre all'uso estensivo e indiscriminato del mosaico, nell'abside e sulle pareti, per raffigurare immagini iconiche e rappresentare scene di storia. Al confronto con la geografia del mosaico medievale, Roma si presenta rivestita dei suoi caratteri specifici. Come Costantinopoli, può sfoggiare la forza della continuità e diversamente, ma fedele a se stessa e al principio di disgiunzione, manifesta come punto di forza irrinunciabile il legame abside-immagine teofanica-mosaico. Roma sembra giocare un ruolo importante ma appartato nel giro delle stazioni che contano nell'ambito delle imprese musive. Eppure, nella fine degli anni Sessanta dell'XI secolo, nel bel mezzo dell'unica lunga latitanza del mosaico che la città del papa conosce, in un quadro ideologico denso e pieno di futuro , Desiderio, il grande abate di Montecassino riconoscerà il carattere profondamente identitaria che assume il mosaico a Roma , carattere che fa un tutt'uno con il recupero delle 'nuove' immagini delle origini cristiane 111 . Alla fine del percorso, attento ad avvistare le convergenze ma soprattutto i punti in cui si disgiungono i moti dell'immagine pagana e di quella cristiana - tramite la costruzione di senso e di funzioni dell'immagine cristiano-monumentale e la disattivazione di senso e di funzioni dell'immagine pagana - si registra questo aspetto. Da un punto di vista dei meccanismi visivi alla statua di culto pagana, tridimensionale, con una sua originaria ambiguità di fondo in quanto immersa nello stesso spazio di chi guarda, si oppone l'immagine cristiana, dipinta e ontologicamente bidimensionale. In questa direzione, l'opposizione maggiore sarà fra l'immagine teofanica di Cristo, nell'abside,
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e le statue degli dei, e poiché l'immagine nell'abside è a mosaico, ecco che la contrapposizione nello spirito, se non alla lettera, sarà fra la statua marmorea, bianca quando è bianca, e il mosaico cromaticamente acceso, scintillante, luminoso [24-25]. In pittura, il mosaico è il 'nuovo' genere-guida; la materia smaterializzata e la luminosità della superficie musiva conquistano una misura opposta rispetto a ciò che rappresenta il blocco misurabile della statua, il suo volume aggirabile; il mosaico oltrepassa e supera l'una e l'altra condizione, lavorando a fondo per riportare la profondità in superficie, procedendo a diafanizzare, addensando in maniera esplosiva la struttura del colore. Alla visione tattile succede la percezione ottica.
NOTE
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Krautheimer 1980 [1981] , 13-43 ; Meneghini-Santangeli Valenzani 2000, 45-48. I marmi colorati 2002 , in particolare Schneider 2002 , 83-105. 3 Tra queste, le statue a figura intera dei consoli ed i molti ritratti a mezzo busto esposti nel 2000 nella mostra A urea Roma al Palazzo delle Esposizioni di Roma (A urea Roma 2000, scheda 12, 432-433; scheda 13, 433-434; scheda 180, 537-538; scheda 181 , 538; scheda 187 ; scheda 236, 569). 4 La Rocca 2000, 24-25. 5 Per l'elenco in dettaglio dei frammenti superstiti pertinenti agli arti, ma anche al torace, si veda Parisi Presicce 2005 , 144-145. 6 Ensoli 2000, 71-81. 7 Eugenio La Rocca riferisce di piccole asimmetrie che tuttavia non intaccano la percezione globale di frontalità che la testa comunica (La Rocca 2000, 25 ). 8 Krautheimer 1980 [1981 ], 45-76. 9 L'argomento sarà affrontato nel secondo volume del Corpus, quando si tratterà dell'icona cristiana. I pochi pannelli conservati con figure di dei provengono in massima parte dai territori egiziani e dal Mediterraneo orientale. L'elenco completo dei dipinti mobili superstiti è in Mathews 1993 [2005], 93 , 210 nota 17 . 10 Per un quadro generale sulla pittura romana della tarda età imperiale: Baldassarre 2002a, 346-358; Salvadori 2002 , 358-382. 11 ---> 2a, 2b. 12 ---, 1. 13 Bisconti 2000s, I, 61-65. 14 Kraeling 1956. 15 La disparità di proposte riguarda la diversa datazione, in età costantiniana o damasiana (366-384), della Traditio legis e della scena con Costantino in San Pietro (Andaloro 2000b, 102; ---> 2a, 2b). Se si propende per la data costantiniana, occorre prendere atto che la diffusione del tema avviene, tuttavia, una generazione dopo, nel corso dell'avanzato IV secolo e successivamente. Rimane controversa l'affermazione del Liber Pontz/icalis che alla vita di papa Silvestro, riferisce della committenza costantiniana a proposito delle basiliche di San Giovanni e di San Pietro, utilizzando le parole «fecit autem et cameram basilicae ex trimma auri/ulgentem» (LP I, 176). In proposito Andaloro 2000a, 34-35 ; Liverani 2003 ; Biscanti 2005 , 181. 16 ---> 46. 17 Andaloro e Romano in Andaloro-Romano 2000, 93-132. 18 Fuori Roma, nella tarda Antichità, il fenomeno della decorazione musiva all'esterno dell'edificio sacro è attestato, seppure raramente. Esempio noto e ancora leggibile nella prima metà del secolo scorso è quello della cattedrale eufrasiana di Parenzo, che in origine era adorna di mosaici non solo in facciata ma anche sul timpano esterno, sopra l'abside (Molajoli 1940, 33 , figg. 33-35). Per la presenza a Roma dei mosaici all'esterno delle basiliche, si rimanda al IV volume del Corpus, Riforma e tradizione, relativamente a dipinti di San Bartolomeo all'isola, Santa Maria Nova, Santa Cecilia in Trastevere, San Giovanni in Laterano (---> 28, 33 , 34, 59, 62), per concludere col ricordo delle grandi imprese del XIII secolo, dal rinnovamento del mosaico della facciata di San Pietro da parte di Gregorio IX, ai mosaici in Santa Maria Maggiore (facciata e parte absidale), San Paolo fuori le mura, Santa Maria in Trastevere, Santa Maria dell'Aracoeli (Matthiae 1967, 355-390; Gandolfo 1988, 340-344, 335, 330-331, 336-337 ). 19 Sono note le posizioni contrarie all'uso delle immagini da parte dei primi Padri della Chiesa, fra i quali è Clemente Alessandrino, Strom., 16, 377. Sull'assenza di immagini e sulle motivazioni di fondo vedi Kitzinger 1954 [1992] , 9-10. 20 Maria Andaloro, L'Irruzione delle 'nuove' immagini in questo volume. 21 La trama e i dati di questo percorso si basano essenzialmente sugli studi di Augusto Fraschetti del 1995 , del 1999 e del 2000. 22 Ammiano Marcellino, Storie XVI, 10,1 e ss. 2
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La traduzione del passo è riportata da Eugenio La Rocca (La Rocca 2000, 1). Ad essa accosto una seconda traduzione, quella di Augusto Fraschetti, particolarmente icastica nel rendere la visione 'statuaria' di Costanzo, « . .. e in effetti [Costanzo II] chinava anche il corpo abbastanza basso al suo passaggio per alte porte e, come se il suo collo fosse stretto da una gogna, non girava il viso né a destra né a sinistra, come fosse una statua, e, mentre la ruota del carro si muoveva oscillando, guardava dritto davanti a lui e non sputava, non si detergeva né si stropicciava il naso né muoveva la mano» (Fraschetti 2005, 23 ). Nel campo della pittura si veda, ad esempio, la Dea Barberini (-> 31) . Il processo di iconizzazione dell'immagine reale non è fenomeno esclusivo del tardo antico ma è estensibile a quelle civiltà dove si accampa l'immagine, resa nella declinazione di radice astrattizzante come, per esempio, nella civiltà egiziana. Riegl 1901 [1959]. -> 40a. ->41b. Andaloro 1989a;-> 44c.2. Sul tema della ricezione e sul coinvolgimento del riguardante in contesti cristiani della tarda antichità -> 2b. Per una panoramica delle diverse inflessioni tipologiche e stilistiche della pittura pagana, cfr. schede-> da 28 a 39. -> 31. -> 38. -> 41. Per il duplice registro, Kitzinger 1977 [1989] , 79. Per la valutazione dell'uso del carattere impressionistico, così evidente nei riquadri delle navate, Brenk ne rivendica a ragione le radici nella tradizione romana, sulla base dei confronti con i mosaici del mausoleo di Costanza (Brenk 2000 [2005], 233-237 ). -> 30. Il riferimento è ancora alla testa di Pietro a mosaico, per cui vedi la nota 29 , e alla serie antica dei ritratti dei papi, per cui-> 44b.2. Per i ritratti di Pietro e Siricio, Andaloro 2000d , schede 104-105 , 230-231. De Wit 1938. Kitzinger 1977 [2005], 111. A proposito della disomogeneità e dei sottili fenomeni di differenziazione, Kitzinger 1977[1989], 41-42. La visita degli imperatori alla Curia Senatus è d'obbligo anche successivamente fino almeno ali'Adventus di Teoderico nell'anno 500. Per un serrato confronto fra l'Adventus di Costanzo e quello di Teoderico, Fraschetti 1999, 252-259. Fraschetti 1995 , 932-939. Ammiano non ne parla; tuttavia, il silenzio dello storico pagano in proposito non può essere considerato una prova (Fraschetti 2000, 23 ). Agostino, sermone Quando entrano i pagani, 26 (Fraschetti 1995 , 940). È probabile che il sermone abbia avuto spunto dali'Adventus a Roma di Onorio, avvenuto nel 403 (ibidem). -> 2a, 2b. È probabile che anche la basilica di San Paolo, ricostruita dai tre imperatori e per il completamento della quale l'apporto di Onorio fu assai significativo, sfoggiasse una decorazione musiva (Prudenzio, Peristephanon XII, 402/3). Pietri 1976, I, 429. Girolamo, Lettera 107, 1, 10-14 : «auratam squalet Capitolium, /uligine et aranearum telis amnia Romae tempia coperta sunt,movetur urbs sedibus sui set inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos.si non extorquet/idem prudentia, extorqueat saltim verecondia» (Fraschetti 1995 , 925 nota 6). Brown 1982. Fraschetti 1995, 923-932. -> 8. Opera originata nel clima dell'assedio e del sacco (Carena 1992, IX-XXXIV) . Le Storie contro i pagani, scritte su sollecitazione di Agostino, costituiscono il resoconto ricco - e di parte - del sacco ed una presa di posizione contro quei pagani che ritenevano che i mali presenti fossero dovuti all'abbandono della città da parte delle divinità pagane. -> 8. È dubbio se la frase debba intendersi proferita da Cristo: «Io, signore ... », oppure se sia da riferire a Cristo: «Tu che sei?» (Schlatter 1989). Andaloro-Romano 2000, 93-132. Il riferimento è ali' abside come organismo conclusivo dell'impianto basilicale. In questa direzione è da annotare la perdita del mosaico di San Pietro mentre interessano meno i precedenti costituiti dai mosaici nelle absidiole est ed ovest del mausoleo di Costanza (->lf, lg) . Schlatter 1989. Lo studio dimostra in modo inequivocabile l'attendibilità del titolo conservatore al contempo fornisce la trafila esemplificativa di radice imperiale che ne chiarisce l'estensione semantica. Ecclesia Pudentianae è intesa in primo luogo come edificio (Schlatter 1989, 155-165). Molto interessante è il legame con il luogo specifico, questo e non un altro, a dimostrazione che Cristo e il suo messaggio non si basano su astrazioni, ma su fatti, persone, luoghi concreti. Questo nesso ne richiama un altro, la funzione di restauratore dell'istituzione chiesa da parte di Francesco d'Assisi, che nella scena del Sogno di Innocenzo III si concretizza iconograficamente nella figura di Francesco che sorregge sull'omero la basilica cadente della basilica di San Giovanni in Laterano. La scena ha una sua centralità nell'impostazione del ciclo agiografico di Francesco. A Roma il Sogno di Innocenzo III spiccava, ali' esterno della basilica di Santa Maria d' Aracoeli, sulla superficie del cavetto del lato meridionale in suggestivo rapporto con la basilica di San Giovanni in Laterano, probabilmente per la committenza di Niccolò IV, primo papa francescano e restauratore della basilica di San Giovanni (Andaloro 1984). -> 8. A distanza di due decenni, la dedica di Sisto III X ystus episcopus plebi Dei, posta nel punto focale dell'arco absidale della basilica di Santa Maria Maggiore (-> 41 b) si muove in una dimensione universale, indicando nella plebs Dei tutti i cristiani, Kitzinger 1977 [1989] , 82; Brown 1982, 132. Schlatter 1989. I primi tre libri del De Civz'tate Dei furono pubblicati entro il settembre del 413. Il quarto e il quinto seguirono nei due anni successivi. L'opera fu completata prima del 427 (Carena 1992, XII-XIII) . Per una lettura del mosaico allargata a tutti i nuclei tematici che la comprendono-> 8.
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Schlatter 1992 ; Id. 1995a e 1995b. Il riferimento è alla disattivazione della statua della dea della Vittoria nell'Aula del Senato, avven uta nel 403. 64 CIL, VI 526 con 1664 (Fraschetti 1995, nota 21, 935 ). 65 Deduco il quadro generale e i singoli elementi da Fraschetti 1995, 932 -937. 66 Nell'ambito del V secolo, non mancano altri centri costruttori di immagini oltre Roma: la Ravenna di Galla Placidia e di Teodorico e nella parte orientale del Mediterraneo, Salonicco, ma soprattutto l'area dell'Egitto copto. Per un quadro generale si rinvia a Brenk 1977; Volbach-La Fontaine Dosogne 1968. 67 È assai significativo che nella serie di pitture esemplari menzionate da Adriano I nella lettera a Carlo Magno abbiano risalto quelle di San P aolo promosse da Leone Magno (MGH , Ep. V, 50); Andaloro 2005, 525-528. 68 Prudenzio, Contro Simmaco, I , 501-505 , «marmora tabenti respergine tincta lavate,/ o proceres'liceat statuas consistere puras,/ arti/icum magnorum opera; haec pulcherrima nostrael ornamenta /iant patriae nec decolor usus/ in vitium versae monumenta coinquinet». 69 Fraschetti 1995 , 935-936; Id . 1999, 290, nota 25 ; Dagron 1984. Per la costruzione della basilica di San Paolo, non sono stati impiegati materiali di spoglio perché la legislazione teodosiana valutava gli edifici pubblici antichi, alla stregua delle statue, quali ornamenta ed essi erano pertanto tu telati e non potevano essere demoliti per recuperare materiale da reimpiegare in nuove costruzioni (Brandenburg 2004, 118). 70 Waetzoldt 1964 fig. 15 . 71 Andaloro 2000b, 99. 72 ---> 33. 73 Sear 1977 , scheda 164, 140-141. 74 Il mosaico è frammentato; si conserva solo la parte inferiore delle figure; il soggetto è ritenuto da Sear l'uccisione delle Niobidi da parte di Apollo e Artemide, mentre per Lan cia si tratterebbe di H ylas e le ninfe (ibidem; Lancha 1983, II, 381-392). 75 La sala è ricavata all'interno del Tempio di Ammone, nella parte sud , fra la corte di Amenophis III e il santuario vero e proprio e faceva parte di una serie di ambienti ricavati all'interno di questa zona nel periodo dioclezianeo. In un primo tempo si pensò che gli affreschi appartenessero ad una fase cristiana dell'edificio; ma in seguito, la lettura delle iscrizioni (Lacau 1934; Monneret D e Villard 1953 ) ha permesso di comprendere che sono espressione dell'arte romano-imperiale. La serie di acquerelli eseguiti dall'egittologo J. G . Wilkinson alla fine del XIX secolo (O xford Griffith Institute, MS XXXI. 51-62 ) e il restauro dei dipinti eseguito negli anni Settanta hanno consentito di ricostruire il programma originario nel suo insieme (D eckers 1979; Kalavrezo u Maxeiner 1975 ; La Rocca 2000, 19-20). 76 Secondo l'ipotesi di Kalavrezou-Maxeiner, l'insieme della raffigurazione della sala celebrerebbe l'Adventus di Diocleziano in Egitto, dopo la repressione della rivolta del 296, che aveva portato a dichiarare imperatore Lucio Domizio Domiziano (Kalavrezou Maxeiner 1975 , 241 ). 77 Deckers 1979, 600-652 . 78 Capofila di questa impostazione è Grabar (Grabar 1936). La tesi vanta una fortuna storiografica 'pesante' nel corso del secolo scorso, intaccata, solo di recente, dalle letture anti tetiche di Mathews (Mathews 1983 [2005]) . Per il qu adro storiografico assai critico nei riguardi della tesi di Mathews, Russo 2005 , IX-L. 79 Kalavrezou Maxeiner 1975 , 244 -246. Si desidera ringraziare Maria Cristina Tomassetti per la disponibilità a pubblicare la foto dell'abside che documenta lo stato di conservazione delle pitture alla vigilia del restauro in corso. La campagna di restauro (nov.-dic. 2006) è condotta dall'American Research Center in Egypt (USAIDARCE) sotto la direzione di Michae]Johnes; responsabili dell'intervento sono i restauratori Luigi De Cesaris, Alberto Sucato e Maria Cristina Tomassetti. 80 Protagonista delle raffigurazioni nel IV e V secolo a Roma è Cristo, ad eccezione, forse, del mosaico dell'abside originaria della basilica di Santa Maria Maggiore, Andaloro 2000b , 99-100;---> 41c. 81 L'assenza di dati sulle immagini nell'abside cade all'interno di un quadro che a Costantinopoli continua a essere tuttora quasi vuoto per i secoli IV e V. Qualche testimonianza interessante proviene dalle fonti. Eusebio riferisce a proposito di un dipinto centrato sulla figura di Costantino (Bisconti 2005b , 182-183) e sappiamo della raffigurazione della famiglia dell'imperatore Leone I nell'abside delle Blacherne (Lazarev 1967 , 67). 82 \lel corso degli scavi che hanno interessato la chiesa sono stati rinvenuti dei frammenti di mosaico figurato, vedi H arrison 1986, 182-196. 83 Paolo Silenziario, Descrizione della Santa Sofia, vv. 491-508; traduzione di Maria Luigia Fobelli (Fobelli 2005 , 141 ). 84 Si tratta dei brani musivi conservati principalmente nella parte inferiore dell'abside, fra le finestre e nei sottoarchi delle stesse (Mango-Hawkins 1965, 136-137, fig. 150). 85 Sulla datazione controversa del mosaico, Andaloro 1994, 408. 86 Imprescindile strumento per la visione generale sul fenomeno è l'opera della Ihm sulle absidi (Belting-Ihm 1960, 132-135) 87 Per un quadro generale, si rimanda al volume La Mosaique 2000 e alle pubblicazioni dell'attività dell'AIEMA e dell' AISCOM. In questo panorama , la situazione del mosaico pavimentale a Roma è alquanto differente (Guidobaldi 2001 , 275-276). 88 La raccolta dei mosaici parietali d'epoca romana in Sear 1977. Il mosaico parietale d 'epoca romana deve fare i conti con i crolli e le massicce distruzioni degli edifici antichi. Proprio per questo, i nostri parametri per valutare la sua fortuna o altri caratteri passano attraverso il confronto con i dipinti murali superstiti. Sull'uso contrastato del mosaico, informano le fonti . Intorno al suo uso e, secondo i morigerati, al suo abuso in quanto il mosaico viene inteso come un genere di lusso, costoso, uno status symbol da non incoraggiare (Levi 1963 , 211). 89 Sear 1977 , scheda 61 , 90-9 1, tav. 35. 90 La Rocca 2000a, 57 -71. 91 Deichmann 1983 [1993 ], 284-285 ;---> 39. 92 ---> 9. 93 Per le dinamiche che s'innestano a Roma fra produzioni musive pavimentali e parietali, all'interno di un quadro generale che comprende anche le produzioni dei sectilia pavimentali e parietali, si veda Guidobaldi 2001 , 275-281. 94 E probabile che nel corso del III secolo l'uso del mosaico parietale abbia compreso l'esecuzione di scene figurate (Guidobaldi 2001 , 276). 63
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presenza delle campiture cromatiche ad affresco è snodo essenziale fra ideazione e momento della mosaicatura, in antico come per il mosaico medievale. Per le problematiche connesse, Andaloro 1986, 55-70; Ead. 1995 , 174-175; Ead. 2002. 96 È probabile che questa ambiguità percettiva non si estendesse al complesso dei mosaici perduti della cupola. La ricca serie di disegni che li riproducono(-> ld) getta luce sui nuclei tematici, sulla straordinaria inventiva del corredo compositivo, sul respiro arioso delle impaginazioni, elementi e caratteri di per sé differenti rispetto al repertorio tipico dei mosaici pavimentali. 97 L'abside del piccolo oratorio del Monte della Giustizia, della metà della metà del IV secolo (-> 5) è uno dei pochissimi esempi che attesta l'uso della pittura murale invece del mosaico per una raffigurazione absidale. Il suo caso rimane del tutto eccezionale nella catena delle absidi e giova a comprendere come il genere musivo a Roma sia una scelta originata dalla confluenza di un fascio di potenzialità che vede in campo la forza di una committenza, in primo luogo papale, che crea le condizione del radicarsi di una tradizione per cui l'immagine nell'abside a prescindere da tutto è a mosaico. 98 L'unico iato nella produzione di mosaici si registra fra la metà del IX e gli inizi del XII secolo, fra l'abside della basilica di San Marco e i mosaici di San Clemente (Rz/orma e tradizione, Corpus IV-> 32). 99 La conoscenza della tecnica di esecuzione e dei materiali usati nei mosaici di Roma è cresciuta grazie alle ricerche condotte in connessione con le campagne di restauri che hanno interessato molti mosaici negli ultimi decenni. Si segnalano, in particolare, i quadri analitici forniti da Marco Verità sulle paste vitree dei mosaici dei Santi Cosma e Damiano, di Santa Pudenziana (Verità 1991 , 75-78; Verità-Vallotto 2003 , 178-199) e i quadri analitici sulle malte da parte di Torraca (Ferragni et al. 1991 , 80-84) . 100 In proposito, si segnalano almeno due campi: le dinamiche interagenti fra il momento dell'esecuzione delle campiture cromatiche sulla malta d'allettamento e la mosaica tura; inoltre, la divisione del lavoro dei mosaicisti in base a competenze specifiche. Per le fasi del processo esecutivo del mosaico e le sue dinamiche, Andaloro 1986a, 55-70; Nordhagen 1997, 563-574; Andaloro 1995a, 167-169. 101 Nell'adozione del mosaico devono aver giocato un peso decisivo la funzione e la conformazione architettonica del monumento. Per decorare battisteri e strutture a pianta centrale, dotate di cupole, a Bisanzio ma anche a Roma, a Napoli e Ravenna si ricorre costantemente alla scelta del mosaico. 102 Vedi note 99 e 100. 103 Atlante I -> 27. 104 Atlante I -> 15. 105 La foto è relativa all'assetto attuale della basilica ricostruita dopo l'incendio del 1823 , Atlante I-> 8 106 Nella parabola dello sviluppo della pittura a Roma, prima degli esempi citati, si segnala il caso della basilica di Santa Prassede, decorata con mosaici, tranne le storie di martirio nel braccio sinistro del transetto (Atlante I_. 28) 107 Andaloro 1995a; Romano 1995 ; Atlante I-> 21 108 Atlante I-> 27. 109 Si è omesso di parlare dei mosaici eseguiti sulle facciate e sugli esterni delle basiliche. In proposito, occorre convenire che la serie comprende anche mosaici di tipo narrativo, com'è il caso dei riquadri con le storie della fondazione della basilica liberiana sulla facciata di Santa Maria Maggiore (Atlante I-> 27 ) o il grande mosaico con la Navicella di Giotto sulla volta del portico orientale dell'atrio della basilica di San Pietro (Atlante I-> 1). 110 Andaloro 1989b, X; Ead. 2005 , XXIII. 111 Serena Romano, Roma XI secolo in Corpus IV. Il recupero del valore identitaria del mosaico da parte di Desiderio e il suo assorbimento all'interno di un piano di rilancio ideologico avviene nonostante la deviazione 'costantinopolitana' anzi grazie ad essa. Com'è noto il Chronicon cassinense informa che volendo l'abate Desiderio impiegare il mosaico nella nuova basilica di San Benedetto a Montecassino «poiché da cinquecento anni e più i maestri occidentale avevano perso l'abilità di esercitare tali arti, e, grazie all'impegno di costui per ispirazione e aiuto divino, sono riusciti a recuperarla in questo nostro tempo, affinché essa in Italia non andasse perduta più a lungo, da uomo dotato di ogni prudenza fece in modo che un gran numero di giovani del monastero fossero accuratamente educati in quelle medesime tecniche» cerca i mosaicisti lì dove sono attivi , cioè a Costantinopoli (Cronaca di Montecassino 2001, 55-57; Andaloro 1995b, 52-53 ).
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DALLA STATUA ALL'IMMAGINE DIPINTA
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MOSAICI ESISTENTI E PERDUTI -; DI SANTA COSTANZA
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' " la. Motivi ornamentali e scene di vendemmia sulla volta dell'ambulacro
lii La dècorazione della torretta le. Un frammento del rivestimento dei sottarchi. ' . , Il chrismon fra le stelle ~ ~-ld~ .11 fluvius argenteus,-~ _. scene dell'Antico e ciel Nuovo Testamento·;-- nella cupol_!l = -_ · --
L'umanista Giovanni Rucellai, facendo visita a Santa Costanza nel 1450, definiva il rivestimento della cupola «il più vacho, grazioso et gentile musaicho non che di Roma, ma di tutto il mondo» (de Rossi 1899, 3 ). Entrando nel mausoleo di via Nomentana, oggi, di quel tessuto musivo, rifulgente di tessere vitree, d'oro ed' argento, non resta nulla: nel 1620 è stato sacrificato per far posto a un affresco con temi sacri consoni allo spirito della Controriforma. La stessa sorte è toccata al mosaico della torretta, concepito, verosimilmente, per esaltare il sottostante sarcofago di porfido. La decorazione musiva della volta dell'ambulacro, invece, si presenta
ai nostri occhi perfettamente integra. È l'effetto dell'abile restauro mimetico compiuto nell'800 da Vincenzo Camuccini, che ha interessato circa i due terzi della superficie dell'imbatte. Agli estremi dell'asse traverso dell'edificio, si conservano nella loro interezza, benché alterate, anche le due piccole calotte con le scene teofaniche. Se la situazione attuale offre una visione assai parziale dell'originario programma decorativo del mausoleo, fonti e disegni rinascimentali documentano, in maniera talvolta molto puntuale, ampia parte delle superfici perdute, consentendo di ricomporre il quadro d'insieme della ricca compagine musiva.
la. MOTIVI ORNAMENTALI E SCENE DI VENDEMMIA SULLA VOLTA DELL'AMBULACRO Metà circa del IV secolo
La volta a botte dell'ambulacro è rivestita da un mosaico suddiviso in scomparti trapezoidali ottenuti rispettando, approssimativamente, le direttrici radiali delle dodici coppie di colonne che sostengono la cupola centrale. Siccome il campo opposto a quello sopra l'ingresso è occupato dalla torretta, i registri del soffitto anulare sono undici anziché dodici. Ne deriva che il disegno dello scomparto sovrastante l'entrata è l'unico a non avere il suo corrispettivo dall'altra parte, visto che la serie di motivi ornamentali dei restanti dieci registri è costituita dal simmetrico sdoppiarsi di cinque diversi motivi ornamentali lungo l'asse che unisce l'ingresso dell'edificio alla nicchia quadrangolare di fronte. Una bordura formata da due nastri ondulati, al cui incrocio germoglia un trifoglio, incornicia su ogni lato tutti gli scomparti, ad eccezione della profilatura intorno alla base della torretta, consistente in una banda dorata percorsa da gemme alternamente ovali e rettangolari. Adeguandosi alla numerazione attribuita da Guglielmo Matthiae, che iniziava il computo dall'ingresso verso sinistra percorrendo l'ambulacro in senso orario (Matthiae 1967, 8-35) , l'abbinamento risulta il seguente: 2-11 , 3-10, 4-9, 5-8, 6-7. I campi 1, 2, 3, 5, 8, 10 e 11 riproducono motivi ad andamento geometrico [1-5, 10-11] , quelli corrispondenti ai numeri 4 e 9 raffigurano scene di vendemmia [6, 8], e la coppia 6 e 7 un tappeto di rami, volatili e vasellame [12, 14]. A tracciare i soggetti, su un fondo omogeneo di tessere di palombino bianco, concorre un'ampia gamma cromatica di tessere vitree.
Note critiche L'analisi dei mosaici che rivestono il soffitto dell'ambulacro non può prescindere dall'individuazione della funzione del contesto architettonico di appartenenza . Ambiente di passaggio per definizione, il deambulatorio del mausoleo di Santa Costanza è un corridoio anulare, uno spazio in penombra e di ridotte dimensioni atto ad esaltare la luce e l'ariosità dell'invaso centrale. Tenendo conto di questo rapporto di subalternità si comprende la ragione della distanza che separa la decorazione della volta dell'ambulacro da quella, perduta ma documentata da antichi disegni, della cupola centrale, ambedue frutto di un intervento realizzato contestualmente ali' edificazione del mausoleo. Le diversità riguardano, innanzitutto, il registro formale, che negli scomparti del deambulatorio tende quasi esclusivamente ali' ornamentazione, mentre nella superficie emisferica si apriva ai temi narrativi, con scene evangeliche, bibliche al di sopra di un paesaggio nilotico (ibidem, 8, 30). In questo senso, il programma
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decorativo delle volte di Santa Costanza obbedisce a un principio compositivo di tradizione romana, consistente, appunto , nel presentare rappresentazioni illusionistiche in corrispondenza degli spazi principali e repertori perlopiù aniconici in quelli secondari (Stern 1958, 205 ). Si tratta di una disparità che si riflette nel diverso contenuto semantico dei due rivestimenti musivi, dal momento che il fulcro tematico dell'intero programma decorativo si condensava nella serie di episodi neo e veterotestamentari della cupola, mentre fra i partiti geometrici e ornamentali dell' an1bulacro, il campionario di elementi zoo e fitomorfi, di eroti, nereidi e putti vendemmianti, presi in prestito dall'arte profana, serviva ad evocare, tutt'al più, la dimensione serena e feconda della vita ultraterrena garantita dalla fede cristiana. Venuto meno il legame di dipendenza del mosaico dell'ambulacro con il perduto rivestimento della cupola, è ancora possibile intercettare il moto interno, ad andamento circolare, che anima gli scomparti della volta del corridoio anulare. Varcata la soglia d'ingresso, infatti, a chi procede in senso rotatorio approssimandosi allo spazio della torretta, è dato apprezzare un cambiamento significativo nel programma ornamentale dei campi musivi, che da mere decorazioni geometriche vanno assumendo, con le due coppie di scene di genere, una densità figurativa assai maggiore, coincidente, per altro, con la fonte di luce che si irradia dalla torretta. È una spinta gravitazionale non casuale: il passaggio dall'ornamentale al figurativo allude al raggiungimento di uno spazio privilegiato, destinato ad ospitare il monumentale sarcofago di porfido incassato nella grande nicchia a sezione quadrangolare. Tornando al confronto fra il mosaico della cupola e quello dell'ambulacro, ulteriori divergenze sono state notate, in passato, nell'ambito della tecnica esecutiva tanto che, nonostante la perdita totale delle tessere della calotta centrale, che impedisce un vero e proprio confronto fra i due contesti, i due rivestimenti sono stati attribuiti all'impresa di due gruppi distinti di mosaicisti (Matthiae 1967, 9). Le stringenti e numerose analogie fra i motivi ornamentali degli scomparti dell' ambulacro e quelli dei pavimenti musivi tardoantichi, ha perfino dato adito a ritenere che gli esecutori del soffitto anulare appartenessero alla classe dei tessellarii, specialisti del mosaico pavimentale, mentre quelli della cupola fossero musivarii, awezzi cioè a mettere in opera il mosaico parietale, secondo una distinzione esplicitata nel codice Teodosiano (Bovini 1954, 12). Per quanto concerne l'ambulacro, è indubbio che gli artisti chiamati a rivestire la volta a botte abbiano attinto a piene mani dal serbatoio figurativo della produzione musiva dei pavimenti della tarda antichità,
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come una serie di stringenti somiglianze, soprattutto con gli esemplari nordafricani di III secolo, sta a dimostrare. Sulla base dell'esame particolareggiato dell'insieme di scomparti è possibile constatare fino a che punto siano stati ripresi non soltanto i singoli motivi ornamentali, dal repertorio animalistico alle figurine di danzatrici ed eroti, dai tralci di vite ai rami d'albero da frutto , ma anche l'assetto d'insieme delle composizioni, dalla rigida impostazione dei reticoli geometrici alla fluida impaginazione dei registri di gusto naturalistico. Anche l'elemento della cornice a doppio nastro incrociato che corre intorno agli undici riquadri trova il suo simile in un pavimento del sito tunisino di Oudna, databile alla seconda metà del III secolo (Balmelle et al. 1985 [2002], I, 119, tav. 69, c). D'altro canto, il fatto stesso che in tutta la superficie della volta dell'ambulacro campeggi un fondo bianco omogeneo composto da tessere di marmo, induce a credere che il cantiere operante all'interno del deambulatorio avesse, effettivamente, un'esperienza diretta nel campo delle tecniche dei pavimenti musivi. Non mera ispirazione dall'universo formale dei mosaici pavimentali (Stern 1958, 205), quindi, ma solida conoscenza della loro messa in opera, che però, com'è evidente, non è bastata a risolvere senza tentennamenti e malcelati compromessi i problemi incontrati nell'inserire all'interno di pannelli trapezoidali, dalla superficie concava, un campionario ornamentale tradizionalmente disposto su un piano (Matthiae 1967, 5-9). Spia di questo genere di difficoltà, almeno nei campi geometrici, è la mancanza di un criterio coerente nell'ampliare le dimensioni e il numero dell'ordine modulare degli elementi decorativi man mano che il registro si dilata approssimandosi alla circonferenza esterna del muro perimetrale. Non vale la pena indugiare, comunque, nell'esame dettagliato di questi espedienti dal momento che,
soprattutto nella reiterazione seriale dei disegni geometrici, i restauratori dell'800 hanno proceduto con disinvoltura a estesi rifacimenti. Giova, invece, riproporre un confronto con i mosaici pavimentali del grande complesso basilicale di Aquileia (Stern 1958, 207 ), attribuibili alla committenza del vescovo Teodoro e quindi riferibili ai primi decenni del IV secolo (Bertacchi 1980, 189-221, tav. 10), non solo perché vi ritroviamo la medesima cornice a doppio nastro incrociato, così come l'identica griglia geometrica a ottagoni, croci ed esagoni dello scomparto n. 1 della volta anulare, ma soprattutto per il fatto che anche qui è presente un campionario di motivi ornamentali, geometrici e figurati , ripartito in registri giustapposti, secondo un gusto estetico estraneo alla produzione dei pavimenti a mosaico dei secoli precedenti (Stern 1958, 207). D 'altra parte, l'individuazione dei nessi fra i mosaici della volta anulare e quelli dei pavimenti non autorizza a pensare che la scelta del trasferimento di motivi figurativi e saperi tecnici, dalla dimensione del piano di calpestio a quella del soffitto, sia stata compiuta esclusivamente all 'interno di Santa Costanza. In assenza di testimonianze superstiti coeve, appare utile un confronto con il mosaico del soffitto della chiesa pugliese di Santa Maria della Croce a Casaranello (Cecchelli 1922, I, 2-21, II, 50-56), tradizionalmente attribuito al V secolo, ma di recente posticipato al VI (Falla Castelfranchi 2004, 138, 161-175), che mostra l'analogo disporsi, nell'intera superficie della volta a botte, di intrecci, disegni geometrici e animali campiti su un fondo bianco inequivocabilmente tratti dai pavimenti musivi. Ad allontanare l'idea che il sistema decorativo della volta dell'ambulacro possa essere considerato un unicum, concorrono inoltre puntuali paralleli con alcune pitture delle catacombe del
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suburbio romano databili, non a caso, al IV secolo. L'esempio più efficace, già notato in passato, è rappresentato dall'intreccio di croci e ottagoni del primo scomparto, imitante un soffitto a lacunari, che ritroviamo senza variazioni di sorta nel rivestimento del cubicolo N delle catacombe di Via Latina (Tronzo 1986, 16, figg. 27-28). Il campionario figurativo degli scomparti 5 e 8, invece, nei volti umani con collare a petali lanceolati, incontra una precisa corrispondenza all'interno di una tomba del cimitero ipogeo romano dei Santi Marcellino e Pietro (Stern 1958, 201 , nota 244).
1. MOSAICO A OTTAGONI E CROCI (campo 1) [1] f
Motivo geometrico costituito da un reticolo ortogonale di ottagoni e croci equilatere tangenti che negli spazi di risulta dà origine a esagoni allungati. Al centro degli ottagoni, rimarcati al loro interno da una cornice di foglioline alternamente lanceolate e tripartite, si trovano fiori a quattro petali. Le croci sono ornate da una serie equidistante di piccoli dischi che corrono lungo l'asse dei quattro bracci. Gli esagoni sono percorsi longitudinalmente da due sagome fusiformi e trasversalmente da tre cerchietti. La tessitura originale non raggiunge un terzo del totale e corrisponde alla parte confinante con il colonnato (Matthiae 1967, tavola fuori testo, scomparto I).
Note critiche La matrice geometrica della composizione con ottagoni, croci ed esagoni incontra numerosi precedenti nei mosaici pavimentali di
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epoca romana, come dimostrano gli esempi di Pompei, segnalati da Henri Stern (Stern 1958, 194). L'opera musiva che più assomiglia allo scomparto di Santa Costanza, tuttavia, si conserva nel corridoio del criptoportico del Palazzo di Diocleziano a Spalato, per altro cronologicamente assai vicina alla versione del mausoleo della Nomentana e prodotta anch'essa all'interno di un edificio di ambito imperiale (ibidem, nota 200; Matthiae 1967, 11 ; Balmelle 1985 [2002] , I, 281 , tav. 180, b).Il confronto, sebbene appaia stringente, non autorizza a credere che gli esecutori del mosaico di Santa Costanza si siano ispirati direttamente a modelli pavimentali per decorare la volta dell 'ambulacro, dal momento che proprio in un contesto romano di IV secolo, il cubicolo N delle catacombe di Via Latina, si riscontra l'avvenuto trasferimento di questo disegno ornamentale dal piano di calpestio al soffitto (KotzscheBreitenbruch, 1976, 14). La vicinanza fra la volta dell'arcosolio del cubicolo ipogeo e lo scomparto del mausoleo, oltre tutto, va al di là della perfetta coincidenza nella disposizione e nelle proporzioni dei poligoni e si manifesta in una serie di corrispondenze fra le cornici e i motivi decorativi che in entrambi i casi sono stati impiegati per riempire le forme geometriche (Tronzo 1986, 16, figg. 27-28). Secondo Matthiae, ambedue gli esempi romani attesterebbero il diffondersi della prassi, in epoca tardo antica, di decorare le volte con un disegno imitante i soffitti a cassettoni (Matthiae 1967, 12 ). Il fatto che a Santa Costanza il motivo sia stato scelto per decorare il registro soprastante l'ingresso al mausoleo, inoltre, potrebbe non essere casuale dato che la luce proveniente dalla porta contribuisce ad esaltare l'effetto volumetrico della decorazione (ibidem).
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2. MOSAICO CON STELLE FORMANTI SAGOME ROMBOIDALI (campi 2 e 11 ) [2 , 3] Motivo geometrico costituito da un reticolo di stelle tangenti a quattro punte che negli spazi di risulta dà origine a quadrilateri romboidali. All'interno delle sagome stellari, semplici composizioni ornamentali, caratterizzate da dischetti, foglioline lanceolate, tripartite o cuoriformi, si alternano a quattro delfini che circondano un polipo. I rombi, anch 'essi decorati con lo stesso repertorio di forme ornamentali, sono profilati da una serie continua di dischetti alternati a sagome ovoidali. Tanto nello scomparto n. 2 che in quello n . 11 la tessitura originale si limita a meno di un terzo della superficie totale , corrispondente al tratto confinante con il colonnato e ad alcuni brani in aree più prossime al muro perimetrale (Matthiae 1967 , tavola fuori testo, scomparti II e XI).
Note critiche Dal punto di vista puramente geometrico, i due scomparti si avvicinano a un genere di ornamentazione assai diffuso nella produzione di pavimenti musivi d'età romana e della tarda antichità. Per questo in passato sono stati accostati da Stern e Matthiae ai mosaici pavimentali di Pompei, Tivoli, Ostia, Epidauro, Aquileia e Antiochia (Stern 1958, 195, note 205-206; Matthiae 1967, 13, note 23-24 ) . Gli esempi presi in considerazione, tuttavia, condividono con Santa Costanza soltanto la griglia di base e se ne differenziano per la predominanza delle campiture omogenee che creano un effetto visivo «a scacchiera» (Matthiae 1967 , 13 ). Rispetto
a questi casi, ben più vicina alla soluzione adottata nell'ambulacro del mausoleo romano risulta la trama figurativa del mosaico pavimentale di uno degli ambienti della casa dei mesi ad ElJem, in Tunisia, risalente agli inizi del III secolo (Foucher 1964, 28-29, tav. XXVIII; Balmelle et al. 1985 [2002], I, 289, tav. 184, c). La versione tunisina ha in comune con i riquadri del mausoleo della Nomentana non solo la griglia di base, ma anche la profilatura nera sul fondo bianco e talvolta pure il decoro all'interno delle stelle a quattro punte che a Santa Costanza, quando non è occupato dai quattro delfini, è similmente caratterizzato da un dischetto centrale e una quadruplice fila di piccole sagome disposte in senso radiale. Quanto al motivo dei delfini che inseguono il polipo, che incontra precedenti già in epoca ellenistica, va segnalata la sua presenza all'interno della decorazione del cubicolo della Spelunca magna della catacomba di Pretestato sulla via Appia, databile al III secolo (Wilpert 1903 , I, 502, II, tav. 49; Stern 1958, 195-196). Non è escluso che nei due contesti paleocristiani il tema rivestisse un significato simbolico, di vittoria del bene sul male o della fede sulle tentazioni, visto che per i cristiani dei primi secoli il delfino veniva associato alla figura di Cristo (de Rossi 1870, 49-85).
3. MOSAICO CON CERCHI ANNODATI FORMANTI OTTAGONI IRREGOLARI (campi 3 e 10) [4, 5] Motivo geometrico costituito da un reticolo di cerchi annodati, alternamente di maggiori e minori dimensioni, formanti, negli spazi di risulta, ottagoni dai lati arcuati. Entro questi ultimi,
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all'interno di una cornice decorata da una serie continua di calici tripartiti, sono raffigurati volatili di diversa specie, fra i quali si riconoscono colombe, anatre, cigni e falconi , ma si scorgono anche alcuni quadrupedi. All'interno dei cerchi maggiori trovano spazio piccole figure umane, perlopiù amori e psichi, recanti fiori , bastoni e frutta, mentre le circonferenze minori ospitano semplici fiori composti da quattro petali cuoriformi oppure dal profilo dentato. Sia nello scomparto n. 3 che in quello n. 10 la tessitura originale si limita a circa un quarto della superficie totale ed occupa quasi esclusivamente la parte confinante con il colonnato (Matthiae 1967, tavola fuori testo, scomparti III e X).
Note critiche Dal punto di vista compositivo, i due scomparti incontrano strette analogie nella produzione tardo-antica dei mosaici pavimentali del nord Africa. Questo tipo di intreccio, infatti, ha un preciso riscontro in Tunisia, ad El Jem, in pavimenti di III secolo (Stern 1958, 196; Dulière-Slim 1996, 56, tav. XXXII) e in Algeria, a Henchir Safia e ad Orléansville, in contesti risalenti al IV secolo (Lassus 1959, 337-339, fig . 96; Balmelle 1985 [2002] , I, 369, tav. 236, b).Anche il ricco apparato ornamentale, tanto quello animalistico degli ottagoni che quello antropomorfo delle circonferenze maggiori, incontra innumerevoli paralleli nel repertorio decorativo dei mosaici pavimentali. Lo stesso genere di figurazioni, tuttavia, nel IV secolo è presente pure all'interno di contesti pittorici di cimiteri ipogei (Stern 1958, 196-197),
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come è il caso, ad esempio, di un cubicolo della catacomba dei Santi Marcellino e Pietro (Wilpert 1903 , I , 512, III, tav. 217 ), che sulla volta accoglie volatili, eroti e personaggi femminili assai simili alle figure dei due scomparti dell 'ambulacro. Anche i motivi floreali dei cerchi minori, così come il decoro a calici tripartiti che profila gli ottagoni, ricorrono frequentemente negli spazi di risulta e in corrispondenza delle incorniciature dei soffitti degli ambienti catacombali (ibidem, II, tav. 45 , 1, III, tavv. 100, 161 , 172 ). Fra gli animali, particolare interesse suscita l'immagine del quadrupede - talvolta somigliante a un agnello talaltra più a un capriolo - che in entrambi i riquadri del mausoleo è dotato, in alcune versioni, di un bastone che spunta da dietro e termina in alto con una sagoma circolare. Piuttosto che associarlo ad un /labellum, come fece Stern (Stern 1958, 197-198), dando credito all'interpretazione fornita da Ugonio, o considerarlo un vaso per il latte (mulctra), attributo cristiano evocante il Buon Pastore, come sosteneva Matthiae condividendo l'ipotesi avanzata da de Rossi (de Rossi 1899, 15 ; Matthiae 1967, 16-17), risulta più verosimile l'identificazione con un tirso, elemento dioni?iaco consistente in una verga sormontata da un viluppo di edera in forma di pigna (Amadio 1986, 63 ). La stessa chiave di lettura, del resto , sembrerebbe applicabile per le simili immagini di quadrupede, con analoghi attributi, presenti nella decorazione di uno dei cubicoli delle catacombe di Via Latina, coeva al mosaico dell'ambulacro e accostabile ai due scomparti a rotae di Santa Costanza anche per via della presenza della medesima figura femminile che solleva un velo al di sopra della testa (ibidem).
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4. MOSAICO CON TRALCI DI VITE E SCENE DI VE DEMMIA
(campi 4 e 9) [6, 8] I due scomparti ospitano un repertorio formale evocante il tema della vendemmia. Da ciascuno degli angoli della coppia di riquadri scaturisce una pianta di vite che si ramifica fino ad occupare l'intero settore centrale con un tappeto di foglie e grappoli d'uva popolato da eroti e volatili. In corrispondenza del lato confinante con il muro perimetrale dell'ambulacro e di quello sovrastante il giro di colonne entrambi i pannelli presentano la scena del trasporto degli acini, sulla sinistra, e della spremitura dell'uva, sulla destra. L'episodio del trasporto è rappresentato da un carro trainato da una coppia di buoi e guidato da uno o due personaggi che impugnano le redini e incitano gli animali con il bastone. Lungo il lato del muro perimetrale dello scomparto n. 9 il carro è seguito da un uomo che sostiene sulle spalle un cesto d'uva. La scena della spremitura è ambientata all'interno di vasche rettangolari coperte da un tetto a due spioventi sorretto da quattro colonnine. In ciascuna delle quattro strutture i frutti della vendemmia vengono calpestati da tre personaggi vestiti soltanto di un perizoma, con in mano bastoni, uncinati o sinusoidi, e in un caso (scomparto 9, lato della finestra) un grappolo e una scodella. Il liquido pressato fuoriesce dalle vasche e confluisce in bacili rotondi per mezzo di tre bocchettoni a testa di leone. Al centro di entrambi gli scomparti, fra i girali di vite, è presente un personaggio a mezzo busto di controversa interpretazione. Rispetto agli scomparti a motivi geometrici, la coppia con le scene di vendemmia presenta una più alta percentuale di superficie musiva originaria, corrispondente a circa il 50% del totale nello
scomparto n . 4 [7] e a più del 70% in quello n. 9 [9] (Matthiae 1967, tavola fuori testo, scomparti IV e IX). Completamente rifatto appare il personaggio a mezzo busto del registro n. 4.
Note critiche Il tema dei putti vendemmianti fra i tralci di vite incontra innumerevoli precedenti nel repertorio figurativo dei mosaici pavimentali dei triclini della tarda antichità, ma anche puntuali paralleli nell'ambito funerario paleocristiano, sia all'interno dei programmi decorativi di complessi catacombali che fra i bassorilievi dei sarcofagi (Leonardi 1947, 80-101). In Tunisia, pavimenti musivi di III secolo d.C., come quelli del Museo del Bardo provenienti dalla casa dei Laberi a Oudna e dalla casa del Sileno ad ElJem, condividono con le due rappresentazioni dell'ambulacro del mausoleo romano il motivo del ramificarsi dell'albero della vite dai quattro angoli del riquadro e il particolare dei putti vendemmianti raffigurati tra i virgulti nell'atto di raccogliere l'uva con un bastone uncinato (Gaukler 1896, 208-209, tav. XXI; Foucher 1963, 23-30, tavv. XI-XII). A Roma, lo stesso soggetto adorna la volta di uno degli ambienti sottostanti la basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Al pari dei mosaici nordafricani, anche in questo caso si tratta di un contesto profano ascrivibile al III secolo, al quale occorre prestare attenzione anche per il fatto che costituisce un esempio precoce del trasferimento del tema dal piano di calpestio al soffitto. La medesima soluzione, del resto, viene adottata in ambito sepolcrale, come attestano il rivestimento in stucco della volta di uno dei cubicoli del cimitero ipogeo di Aproniano e la decorazione pittorica del
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soffitto della galleria d'entrata dell'ipogeo dei Flavi nelle catacombe di Domitilla (Guj 2000, 306). Rimanendo in ambito funerario , i due registri dell'ambulacro trovano un efficace parallelo tematico nel sarcofago di Costantina, in origine ubicato al di sotto della torretta del mausoleo, non tanto per i racemi di vite, che nei rilievi del monolite di porfido assumono la forma di ellenizzanti girali d 'acanto, quanto per la presenza delle scene del trasporto e della spremitura dell'uva. Putti che calpestano gli acini o trascinano i carri si ritrovano pure in altri sarcofaghi romani, come l'esemplare di Villa Corsini (Leclercq 1907, 1613 e fig. 383) e quelli custoditi nei Musei Vaticani di Giunio Basso (Di Tanna 2000, 307308) e dei Tre Pastori (Brandenburg 2004c, 1-34, 13 , fig. 14). La scena dei carri pieni d 'uva trainati dai buoi, a loro volta trascinati da un individuo che con una mano regge le redini e con l'altra impugna la frusta - a Santa Costanza ripetuta quattro volte alla base delle raffigurazioni - si incontra anche all'interno della decorazione pittorica di un arcosolio del Coemeterium Maius. Enigmatici restano a tutt'oggi i busti che campeggiano al centro dei due riquadri, privi di attributi o elementi utili al loro riconoscimento. Il totale rifacimento, da parte dei mosaicisti dell'Ottocento, del volto appartenente al personaggio dello scomparto n. 4 non fa che rendere ancor più arduo il tentativo di addivenire ad una identificazione (Matthiae 1967, 22). Del resto, già de Rossi, seguito da Stero, aveva rinunciato alla ricerca di personaggi storici o mitologici associabili alle due figure (de Rossi 1899, 8; Stero 1958, 200). Non trova riscontro, inoltre, nemmeno nell'incisione del Ciampini (Amadio 1986, 68-70, fig. 42 ), la testimonianza di Ugonio che sosteneva di .aver visto una bulla, l'amuleto di forma circolare in uso fra i giovani patrizi fino al
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IV secolo d.C., al collo del personaggio dello scomparto n. 9. Oltre tutto, il fatto che in antico il ciondolo venisse indossato non solo dagli adolescenti maschi ma anche, talvolta, dalle fanciulle non ancora sposate (Amorelli 1959, 222-223 ), non aiuta a chiarire se nel volto di questo medaglione debba riconoscersi un uomo oppure un personaggio femminile, come sembrerebbe a prima vista per i morbidi lineamenti. Malgrado l'assenza di elementi probanti, restano ancora in auge due proposte interpretative: da un lato l'ipotesi di Savio che nelle due figure riconosceva i busti della giovane Costantina e del suo primo marito Annibaliano, morto giovane nel 33 7 (Savio 19061907, 309-319, 366-375 , taw. I-II) dall'altra quella diJobst, accolta da Tronzo, che associava ai due ritratti l'immagine di Dioniso e Ariadne, sulla base dell'esempio del mosaico della volta di una delle case di Efeso, ospitante le due divinità riunite all'interno di un unico clipeo centrale circondato da tralci di vite carichi d'uva (Jobst 1976, 431-437; Tronzo 1986, 68).
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5. MOSAICO CON CERCHI TANGENTI RIEMPITI DA FIORI, VOLTI E PERSONAGGI A FIGURA INTERA (campi 5 e 8) [10, 11] Reticolo di cerchi tangenti al cui interno fiori a quattro petali intramezzati da altrettanti rametti di aghifoglie si alternano a soggetti umani, talvolta personaggi a figura intera, sia maschili che femminili, talaltra teste con collare dal profilo lanceolato. Nella maggior parte dei casi le circonferenze sono legate fra loro tramite un segmento rettangolare che sembra imitare un laccio. Soltanto nell'ottavo scomparto, ed esclusivamente in prossimità del bordo che segue il giro del colonnato,
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al posto delle teste troviamo panieri con frutta. Gli spazi di risulta, tra cerchio e cerchio, sono occupati da piccole croci verdastre che tagliano una sagoma romboidale rosa e verde lungo le sue diagonali. Il mosaico n. 8 appare rifatto quasi totalmente, mentre il corrispettivo conserva, nei due angoli adiacenti al campo n. 6, circa il 25 % della superficie (Matthiae 1967 , tavola fuori testo, scomparti V e VIII).
dei Santi Marcellino e Pietro, per non citare che un solo esempio fra quelli cronologicamente più prossimi ai mosaici di Santa Costanza (Wilpert 1903 , II, tav. 161; Deckers-Seeliger 1987, tav. 25 ).
Note critiche
Entrambi gli scomparti sono occupati da un tappeto di aghifoglie con tanto di pigne, di rami di alloro fiorito e diversi tipi di alberi da frutto , fra i quali si distinguono peri, meli, fichi, limoni, melograni e viti. Le specie vegetali sono intramezzate da un ricco campionario-cli volatili, che comprende colombi, pernici, fagiani, pavoni, upupe e falconi, mescolato a un assortimento di vasellame di lusso, caratterizzato da anfore, ciotole, catini, patere con manici, crateri, oinochoe, brocche, recipienti a forma di conchiglia e di corno. Pressoché totale è la perdita del tessuto musivo originario nello scomparto n. 7 [13]: sopravvivono soltanto minimi lacerti in corrispondenza dell'angolo compreso fra la finestra e il vano della torretta, oltre a un paio di frammenti in prossimità del colonnato. Nello scomparto n . 6, invece, la superficie integra equivale a circa due terzi [15]. Frutto del rifacimento ottocentesco è gran parte dell'area centrale (Matthiae 1967, tavola fuori testo, scomparti VI e VII).
Il disegno di base che contraddistingue questa coppia di scomparti non sembra trovare analogie nei repertori ornamentali dei mosaici pavimentali, a meno di non considerare soltanto la griglia di cerchi tangenti (Stern 1958, 201; Matthiae 1967 , 24-25; Balmelle 1985 [2002], 361 , tav. 231 , b) , in realtà troppo generica per risalire ad eventuali prototipi, o ci si voglia limitare alla ricerca di somiglianze nelle figure femminili e negli eroti, simili a quelli dei registri 3 e 10, o ancora soffermare su singoli dettagli, come i fiori a quattro petali, alternati ad altrettanti rametti di aghifoglie, che incontrano puntuali riscontri in pavimenti tardoantichi nordafricani (ibidem, 369, tav. 236, b , 383 , tav. 243 , h ).Lo schema di base trova invece un valido confronto nella decorazione in stucco di una tomba nei pressi della basilica di San Sebastiano sulla via Appia, di età antonina o forse più tarda (Wadsworth 1924, 64-68, tav. XIX, 1; Wirth 1968, tav. 28b) , dove in un reticolo ortogonale le circonferenze sono allacciate l'una ali' altra da un nastrino a rilievo. Significative, inoltre, sono le analogie con le pitture delle catacombe (Stern 1958, 201 ), soprattutto per via del particolare delle teste con i collari a petali lanceolati, che si incontra all'interno di numerosi contesti ipogei, come le catacombe
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6. MOSAICO CON RAMI DI ALBERI DA FRUTTO, VOLATILI E VASELLAME (campi 6 e 7) [12 , 14]
Note critiche Il motivo ornamentale di questi due scomparti trova strette analogie fra i mosaici pavimentali nordafricani d ei secoli III-IV
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d.C. Il pavimento musivo conservato al Museo del Bardo e proveniente dalla Casa della Voliera di Cartagine, ad esempio, è assai prossimo alla coppia di registri dell ' ambulacro per il libero dispiegarsi di rami d'albero da frutto d 'ogni specie sul fondo bianco omogeneo, benché se ne discosti per l'assenza del vasellame e la presenza di un flauto , di un bastone da pastore (pedum) e di numerosi quadrupedi che si mescolano al variegato campionario di volatili (Stern 1958, 202 ). Se il pannello tunisino sembra alludere alla vita pastorale, a Santa Costanza il nutrito apparato di stoviglie tra frutti e uccelli ha fatto pensare alla rappresentazione di offerte votive, dato il contesto funerario nel quale si trovano (Matthiae 1967 , 25 ), sebbene esso sembri suggerire, più che altro , l'avvenuta consumazione di un pranzo sontuoso all 'interno di un giardino lussureggiante (Stern 1958, 205; Matthiae 1967, 25 ). Lo si evince soprattutto dalle peculiarità delle forme del vasellame che nel loro ricco assortimento evocano un banchetto principesco. Nel recipiente a conchiglia è stato riconosciuto il genere delle absides; nelle brocche l'acquamanile e l' oinochoe, nel corno non uno strumento a fiato ma un contenitore per bere (Venturi 1901, 230). Basandosi sul disegno cinquecentesco della Kunstbibliothek di Berlino, che restituisce con meticolosa precisione parte dello scomparto n. 6 (Amadio 1986 , fig. 15 ), Henri Stern ha invece potuto dimostrare l'originaria presenza di uno strumento musicale a percussione, consistente in un semplice disco inserito in un bastone, accanto alla finestra che si apre all 'angolo del riquadro , nel punto dove oggi si vede una patèra con manico, frutto del fraintendimento dei restauratori della campagna diretta da Camuccini (Stern
195 8, 193 , 203) . In corrispondenza dell'altra finestra , inoltre, lo stesso disegno e quello settecentesco dell ' anonimo dell 'Albertina (Amadio 1986, fig. 52 ) forniscono la prova dell'esistenza di un coniglio ghermito da un falcone, particolare interamente perduto e rimpiazzato da una pernice appoggiata al ramo di un albero (Stern 1958, 193 ). Appaiono , infine, inconfondibilmente legate a un motivo convenzionale di antica tradizione, che trova riscontro a Pompei come a Villa Adriana (Stern 1958, 204) , le due colombe ai bordi di un ampio bacino colmo d'acqua al centro dello scomparto n. 7, sulle quali però non occorre soffermarsi dal momento che assai probabilmente sono frutto del restauro dell'800 (Matthiae 1967 , 7).
Interventi conservativi e restauri 1620: in occasione dei lavori di ripristino promossi dal cardinale Veralli, nel 1620, i mosaici dell'ambulacro furono oggetto di un primo intervento di restauro volto a risarcire le ampie lacune con integrazioni in stucco. Un 'idea delle estese perdite del tessuto musivo già nel XVI secolo ci viene offerta dal disegno di un anonimo conservato alla Kunstbibliothek di Berlino, che con un tratto di penna riproduce il limite della parte superstite del rivestimento dello scomparto n. 6, corrispondente a circa un terzo dell'intero registro (Amadio 1986, 42, fig . 15 ). Del resto , anche sulla base di quanto riportato dal Fulvio si evince che già nel primo Cinquecento i mosaici dovevano essere assai rovinati (Fulvio 1527, 6). Degli interventi seicenteschi dà invece menzione Antoine
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Desgodets, che proprio a proposito delle raffigurazioni dell'imbatte anulare non manca di denunciare gli estesi rifacimenti (Desgodets 1682, 63). 1836-1838: individuare le aree integrate nel '600 si rivela, oggi, un'impresa impossibile perché esse sono state asportate nel corso della campagna di restauro degli anni 1836-1838, diretta dal Camuccini. Il secondo intervento di restauro fu molto più esteso del precedente, dal momento che in questa occasione i mosaicisti non si limitarono ad intervenire sulle lacune ma operarono sull'intero tessuto musivo, procedendo alla sostituzione di tutte le aree del rivestimento che si presentavano ai loro occhi decoese o smagliate, con tessere in parte nuove - più grandi e regolari e in parte di riuso (Matthiae 1967, 401). Sulla base di un'osservazione capillare e ravvicinata, avvalendosi della ricca documentazione relativa alla campagna diretta da Camuccini, conservata all'Archivio di Stato di Roma e nota già a Giovan Battista de Rossi (de Rossi 1899, 7), Guglielmo Matthiae ebbe modo di fornire una mappatura di ciascuno scomparto dell'ambulacro tesa a circoscrivere le parti inalterate, che ammontano soltanto al 30% del totale della superficie musiva e coincidono il più delle volte con l'area confinante con il colonnato (Matthiae, 1967 , 400-404) .
Documentazione visiva La documentazione visiva della decorazione di Santa Costanza è stata raccolta e pubblicata da Adele Anna Amadio (Amadio 1986).
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campo 1 Anonimo, disegno (fine XV secolo), MBE, 28-II-12, f. 4v; attribuito a Jacopo Tatti detto il Sansovino, disegno (15 05-15 06), GDSU, arch. 1965 ; Pietro Santi Bartoli, acquerello (post 1658), GUL, n. 60, f. LXXVII; Francesco Bartoli, acquerello (primo quarto XVIII secolo), WEC, Eton IV (Bn 7), 92; Giovan Battista Piranesi, incisione (1756), Piranesi 1784, t. XVI, n. 705, tav. 21 ; de Rossi 1899, tav. II. campi 2 e 11 Sebastiano Serlio, incisione (1540), Serlio 1544, XXI; Pietro Santi Bartoli, acquerello (post 1658), GUL, n. 59, f. LXXVI; Francesco Bartoli, acquerello (primo quarto XVIII secolo), WEC, Eton IV (Bn 7), 91; Giovan Battista Piranesi, incisione (1756), Piranesi 1784, t. XVI, n. 705 , tav. 21; de Rossi 1899, tav. II. campi 3 e 10 Anonimo, disegno (fine XV secolo), MBE, 28-II-12, f. 4v; Sebastiano Serlio, incisione (1540), Serlio 1544, XXI; Pietro Santi Bartoli, acquerello (post 1658), GUL, n. 61, f. LXXVIII; Pompeo Ugonio, schizzo (fine XVI secolo), BCAF, Cl. I, 161, ff. 11031110; Ciampini 1693, tav. XXX; Francesco Bartoli, acquerello (primo quarto XVIII secolo), WEC, Eton IV (Bn 7) , 94 ; de Rossi 1899, tav. II. campi 4 e 9 Francisco de Ollanda, disegno (1538-1540), MBE, 28-I-20, f. 22r; anonimo, disegni a china (metà XVII secolo), GDSU, Arch. 7072,
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f. CIIr, 236 (dettagli dello scomparto n . 9), f. CXLVIII, 297 (dettagli dello scomparto n. 4); Pietro Santi Bartoli, acquerello (post 1658), GUL, n. 63 , f. LXXX; Francesco Bartoli, acquerello (primo quarto XVIII secolo), WEC, Eton IV (Bn 7), 89; Ciampini 1693 , tav. XXX; incisione in Isabelle 1855, tav. XXXVII; de Rossi 1899, tav. III. campi 5 e 8 Anonimo, disegno (fine XV secolo), MBE, 28-Il-12, f. 4v; Francisco de Ollanda, disegno (1538-1540), MBE, 28-1-20, f. 22r; Pietro Santi Bartoli, acquerello (post 1658), GUL, n. 62, f. LXXIX (dettaglio dello scomparto n. 8); anonimo, disegno (metà XVII secolo) , GDSU, Arch. 7068, f. XCVIIIr, 232 ; Francesco Bartoli, acquerello (primo quarto XVIII secolo), WEC, Eton IV (Bn 7), 94; Pompeo Ugonio, schizzo (fine XVI secolo) , BCAF, Cl. I, 161, ff. 1103-1110; de Rossi 1899, tav. III. campi 6 e 7 Attribuito a Hugues Sambin, disegno (1540-1548), KBB, 4151 , f. 74r (scomparto 6); Pietro Santi Bartoli, acquerello (post 1658), GUL, n. 71, f. XCI; anonimo, disegno (metà XVII secolo), GDSU, Arch. 7068,
f. XCVIIIr, 232; Francesco Bartoli, acquerello (primo quarto XVIII secolo), WEC, Eton IV (Bn 7), 90; anonimo, disegno (XVIII secolo), GSAW, n. 104 (scomparto 6); de Rossi 1899, tav. ill.
Fonti e descrizioni Fulvio 1527, 6; Pompeo Ugonio (1594), BCAF, Cl. I, 161 , f. 1105. Desgotets 1682, 63.
Bibliografia Miintz 1875 , 224-230, 273-284; de Rossi 1899, 1-18; Venturi 1901, 230;Jubaru 1904, 457-468; Savio 1906-1907 , 309-319, 366-375 ; Michel 1911; Wilpert 1916, I, 310-321; Cecchelli 1922, II, 50; Prandi 1942-1943 , 294-295; Bovini 1954, 12; Stern 1958, 159-218; Matthiae 1965 [1987] , 32-41; Matthiae 1967 , 8-35; Oakeshott 1967 , 62-64 ; Vichi 1973 , 61-64; Kotzsche-Breitenbruch 1976, 14; Jobst 1976, 431-437; Polacco 1985 , 105-134; Amadio 1986, 6370; Tronzo 1986, 16, figg . 27-28; Andaloro 1987, 225-226; Monti 1991 , 43-50; Mackie 2003 , 151-153 ; Brandenburg 2004c, 82-84 ; Stanley 2004 , 125, 133-135 .
lb. LA DECORAZIONE DELLA TORRETTA Metà circa del IV secolo
Le uniche attestazioni grafiche del perduto rivestimento musivo della torretta [16] consistono in un dettaglio della sezione del mausoleo riprodotta nel disegno della Kunstbibliothek di Berlino, attribuito a Hugues Sambin [17], e in uno schizzo di Ugonio [18] (Amadio 1986, 41 , 52-53 ). Il disegno berlinese restituisce la metà sinistra della decorazione della parete occidentale, contenente un agnello nimbato affiancato da due gruppi di vasi, tre su ciascun lato, e al di sopra un edificio scandito da quattro ordini di finestre annesso a un corpo parallelepipedo con tetto a due spioventi, dietro al quale sembra potersi riconoscere l'abbozzo di una cupola. Con tratto assai più sommario, Ugonio allude al medesimo soggetto: un Agnus Dei col muso rivolto verso sinistra, anziché a destra come nel caso della copia di Sambin, è sovrastato da un muro merlato provvisto di un ' apertura centrale ad arco e forse un'abitazione sull'estrema destra; al di sotto, al posto dei vasi in fila, è disegnata la sagoma di un agnello, di dimensioni minori rispetto a quello con l'aureola. Ulteriori informazioni si ricavano dalle annotazioni riportate dall'antiquario bresciano, a proposito di questo soggetto e dei temi che figuravano in corrispondenza delle pareti nord e sud: alla base della scena sopradescritta, Ugonio riconosce un numero indefinito di «pecorelle»; sulla parete sud, al di sopra della nicchia, distingue un Cristo seduto fra apostoli sovrastati da candelabri e palmizi; sulla parete sud, invece, vede una serie di figure sedute affiancate da due donne, una per lato, ritratte in piedi con vesti candide (Miintz 1878a, 362, 367). Non abbiamo nessuna notizia circa i mosaici della parete est e della volta a crociera.
Note critiche Del mosaico della torretta non resta nulla, a parte le due cornici in tessere d'oro nel margine inferiore delle pareti laterali in comune
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con gli adiacenti campi dell 'ambulacro , certamente molto restaurate e tuttavia autentiche nel loro motivo ornamentale gemmato, come attesta il disegno di Hugues Sambin conservato alla Kunstbibliothek di Berlino, riproducente il mosaico del sesto scomparto. Sulla base di un altro disegno di Sambin [17] e del commento di Ugonio, corredato da uno schizzo a penna [18], sono state avanzate numerose proposte di lettura per tentare l'identificazione dei temi perduti. Lo stesso antiquario aveva espresso alcune considerazioni in merito, accostando al consesso apostolico del mosaico absidale di Santa Pudenziana il gruppo di figure sedute che aveva notato in corrispondenza della parete sud e riconoscendo la Gerusalemme celeste nell'abitato sopra l'Agnus Dei della parete ovest, «secondo l'apocalisse di Giovanni» (Miintz 1878a, 367 ). Sulla stessa scia si colloca l'opinione di de Rossi che interpretava questa scena, convinto dell'attend ibilità del disegno di Berlino , come raffigurazione del «tempio gerosolimitano» con «i vasi sacri», secondo una versione iconografica attestata, però , soltanto in ambito giudaico (de Rossi 1899, 12). L'interpretazione non convinse Wilpert, limitatosi a definire la presenza del vasellame nella copia berlinese frutto di un equivoco dopo aver rinunciato a decifrare il soggetto per la scarsità dei dati a disposizione (Wilpert 1916, I, 312 ). Una lettura diversa, in seguito, è stata suggerita da Stem, che nella serie di vasi del disegno di Berlino ha visto la prova evidente della rappresentazione del miracolo delle Nozze di Cana, tema ricorrente nei cicli cristologici dell'arte paleocristiana (Stem 1958, 208; Del Moro 2000, 232-234). La presenza dell'Agnus Dei al posto dell'abituale figura in sembianze umane del Cristo poteva trovare una giustificazione, secondo la tesi dello studioso francese, nei rilievi del celebre sarcofago di Giunio Basso, opera coeva ai mosaici di Santa Costanza, che negli spazi di risulta fra i due registri della fronte ospita una serie di agnelli protagonisti di episodi neo
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e veterotestamentari al posto di figure in fattezze umane (Stern 1958, 208; Struthers Malbon 1990, 72-90, figg. 17-28). All'ipotesi di Stern, condivisa da chi ha dedicato uno studio monografico al tema evangelico delle Nozze di Cana (Moreira Azevedo 1986, 209210), di recente è stata preferita la linea interpretativa di quanti avevano creduto a Ugonio, confidando nella presenza di un gruppo di agnelli e non dei sei vasi disegnati nella copia di Berlino: secondo Alejandro Recio Veganzones la scena rappresentava l'Agnus Dei fra gli apostoli-agnelli con le città di Betlemme e Gerusalemme sullo sfondo (Recio Veganzones 1987 , 454) , tema che, come è noto, entrerà a far parte delle teofanie absidali disponendosi orizzontalmente alla base di esse in un ordine rigidamente simmetrico. Proprio in virtù della fortuna iconografica di questo soggetto, l'ipotesi è da considerarsi verosimile. Ciononostante, l'accuratezza di entrambi i disegni del Sambin, la meticolosità con la quale, nel riprodurre le forme architettoniche e ornamentali, vengono riportati perfino i minimi dettagli - come ad esempio l'opus sectile, documentato con tanto di sigle per indicare la diversa natura dei marmi - ci spinge a dare maggior credito all'interpretazione di Stern. Occorre tener conto, inoltre, che Ugonio lamenta la difficoltà nel riconoscere i soggetti per il venir meno della luce all 'interno dell'invaso («focus namque est obscurior», Miintz 1878a, 362). Anche l'ubicazione della scena contribuisce ad orientarsi a favore dell'episodio delle Nozze di Cana: nel mosaico della parete di fronte, di cui non abbiamo notizia alcuna, potrebbe aver preso posto il tema della Moltiplicazione dei pani e dei pesci, dal momento che i due miracoli compaiono frequentemente appaiati (Del Moro 2000, 233 ). Per l'interpretazione dei soggetti delle altre due pareti, in assenza di riscontri grafici, non possiamo che affidarci alle note di Ugonio. L'immagine del Cristo seduto fra gli apostoli, che l'antiquario bresciano aveva visto sulla parete soprastante la nicchia e aveva accostato al tema dell 'abside di Santa Pudenziana, si incontra anche nel mosaico di Sant' Aquilino a Milano, sempre degli inizi del V secolo (Bisconti 2000c, 73-75). Quanto al gruppo di figure in piedi, sulla parete di fronte, il riferimento appare troppo generico per tentare di risalire a un'identificazione. Condivisibile, tuttavia, è la proposta di associare le due donne individuate ai lati della scena con l' Ecclesia ex gentibus e l'Ecclesia ex circumcisione, alla stregua delle effigi musive sulla controfacciata di Santa Sabina (- 40a). Ultimamente è stata avanzata l'ipotesi, già adombrata da Matthiae, di un'attribuzione del perduto mosaico della torretta a un intervento duecentesco (Matthiae 1967, 29; Monciatti 2001-2002, 36). L'idea
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prende le mosse, in primo luogo, dalla notizia tramandata da fonti cinque-seicentesche (Fauno 1592, 216r-216v; Ciacconio 1678, col. 137) e desunta da un'epigrafe un tempo murata all'interno dell'ambulacro (Miintz 1878a, 358; Frutaz 1960, 275, fig. 72), secondo la quale nel 1256 papa Alessandro IV adibì il mausoleo a luogo di culto e contestualmente consacrò un altare per la celebrazione della messa. La nuova proposta di datazione trae supporto, fra l'altro , dalla testimonianza di Ugonio che, nell'esaminare la decorazione della parete dell'ambulacro, segnalava la presenza di pannelli pittorici con episodi agiografici, fra i quali quello di Pietro e Paolo con Simon Mago e un san Francesco con le stimmate, ovviamente non databili, per via della presenza del santo assisiate, ad epoca anteriore al XIII secolo inoltrato e perciò verosimilmente riferibili all'iniziativa di recupero del monumento promossa da Alessandro IV (Miintz 1878a, 360; de Rossi 1899, 9; Cerrati 1914 , 17-18). Avvalendosi di questi dati, pressoché incontrovertibili, l'assegnazione del mosaico alla metà del Duecento viene giustificata tirando in ballo la presenza di finestre tamponate al di sotto del rivestimento musivo della torretta, sebbene la loro chiusura sia avvenuta verosimilmente in epoca tardo-antica, come già sostenuto in passato (Stern 1958, 206). L'intervento di occlusione, infatti, può agevolmente legarsi alle modifiche apportate nel periodo appena successivo all'edificazione del mausoleo ma precedente la decorazione dell'interno, lasso di tempo durante il quale si decise di ridurre a monofore i finestroni del tamburo, secondo quanto sostenuto da De Angelis d'Ossat che seguì il restauro del 1939 (De Angelis d'Ossat 1940, 44 ). Dalla stessa iniziativa deriva, inoltre, la decisione di murare del tutto la finestra ubicata tra il tamburo e la torretta (Prandi 1942-1943 , 298) . Anche il soggetto contenuto nel disegno dell'anonimo di Berlino ha dato adito a ritenere il mosaico opera duecentesca, giacché nelle architetture dietro l'Agnus Dei sono stati riconosciuti «edifici loggiati» simili a quelli dei palazzi romani del XIII secolo (Monciatti 2001-2002, 36). Tuttavia, esempi come il sarcofago con scene petrine e cristologiche del Museo Laterano (inv. 17 4) dimostrano fino a che punto gli sfondi architettonici tardoantichi possano raggiungere aspetti volumetrici e esiti formali simili a quelli riprodotti nella copia berlinese (Deichmann 1967, 274-277 , tav. 106). In particolare l'episodio del Noli me tangere, sul lato sinistro del manufatto marmoreo, è ambientato all'esterno di un nucleo urbano che incontra strette analogie con il complesso di edifici della copia berlinese, nell'abitazione con tetto a due spioventi e ampia porta centrale ma anche nella retrostante struttura a cupola (ibidem, tav. 106, fig.
677, 3). A parte la mancanza di dati probanti, comunque, è difficile immaginare che, insieme ai santi dipinti ad altezza d'uomo lungo l'ambulacro, frutto di un intervento di modesta entità, sia stata realizzata un'elaborata opera musiva a più di dieci metri da terra, all'interno di uno spazio destinato ad avere una visibilità assai limitata, senza per altro avvertire l'esigenza di mettere mano ai mosaici della cupola e dell'imbatte anulare, verosimilmente già lacunosi dopo secoli di abbandono. Riteniamo, quindi, che non ci siano adeguate motivazioni per non ritenere tardoantico il mosaico della torretta. Quest'ultima, in asse con l'ingresso del mausoleo e in rottura con la volta a botte dell 'ambulacro, sembra tradire l'intenzione, maturata in corso d'opera, di creare uno spazio privilegiato, allo scopo di esaltare la grande nicchia sottostante, verosimilmente destinata ad ospitare il sarcofago di porfido.
l'intervento seicentesco, sono emerse tracce della malta con i segni di allettamento delle tessere (Matthiae 1967, 28).
Interventi conservativi e restauri
Bibliografia
1620: anche se lacunosa, la decorazione musiva della torretta si conservò fino al 1620, allorquando il cardinale Veralli ne ordinò la rimozione e la sostituzione con un dipinto murale. 1939: il dipinto murale seicentesco fu documentato da Wilpert e asportato, a sua volta, in occasione del ripristino del 1939 (Wilpert 1916,I, 311 , fig . 97 ; De Angelis d'Ossat 1940). Eliminato
Miintz 1878a, 360-362, 367; de Rossi 1899, 12-13; Wilpert 1916, I, 310-312; Prandi 1942-1943, 288, 297-300; Stern 1958, 206-208; Matthiae 1967, 28-29; Amadio 1986, 52-53; Moreira Azevedo 1986, I, 209-210 , II, 126-127; Redo Veganzones 1987 , 454 ; Struthers Malbon 1990, 73-74, 195; Mackie 1997, 400-401 ; Del Moro 2000a, 232-234; Monciatti 2001-2002 , 36-37 .
Documentazione visiva La documentazione visiva della decorazione di Santa Costanza è stata raccolta e pubblicata da Adele Anna Amadio (Amadio 1986). Attribuito a Hugues Sambin, disegno (1520-1601), BKK, 4151 , f. 73r; Pompeo Ugonio, schizzo (1594), BCAF, Cl. I, 161, ff. 1103-1110.
Fonti e descrizioni Pompeo Ugonio (1594), BCAF, Cl. I, 161, 1103-1110.
le. UN FRAMMENTO DEL RIVESTIMENTO DEI SOTTARCHI. IL CHRISMON FRA LE STELLE Metà circa del IV secolo
Da un frammento in situ, da un disegno di Hugues Sambin alla Kunstbibliothek di Berlino [25] e dalla testimonianza di Ugonio si risale ali' originaria decorazione musiva degli intradossi di due delle nicchie che si aprono lungo il perimetro dell'ambulacro come ci mostra un disegno di Francisco de Ollanda [19]. Quella di fronte all'ingresso conserva due brani di mosaico con un reticolo regolare di stelle nere a otto punte su un fondo bianco omogeneo [20]. In corrispondenza della sommità dell'arco, la coppia di lacerti conserva i resti di un clipeo, costituito da un doppio filare di tessere, rosse e nere, che aveva al suo interno un chrismon in oro, come attesta la sopravvivenza di alcune tracce della Chi e della Rho, interamente restituite nel disegno di de Rossi (de Rossi 1899, 11). Uno schizzo di Ugonio riproduce il sottarco della seconda nicchia a destra della porta con il medesimo motivo ornamentale, privo però del monogramma di Cristo [21]. A cornice del cielo stellato, l'antiquario bresciano disegna un doppio nastro intrecciato simile a quello che profila i campi del mosaico dell'imbatte anulare (Miintz 1878a, 360). Del rivestimento della nicchia a destra, oggi, non resta traccia alcuna.
Note critiche Con un disegno che non lascia spazio al dubbio, Ugonio riproduce ciò che aveva visto all'interno della seconda nicchia a destra della porta: «minutis tessellis albis compactis dispersae sunt stellulae nigricantes» e aggiunge «Omnes hae abstdes, vulgo nicchiae, antiquitus
musivo depictae /uerunt. [ ... ] Talis simplicissimus ornatus est etiam in prima parte /ornicis interioris porticus circumeuntis columnas» (Miintz 1878a, 360). Assai probabilmente, quindi, almeno gli intradossi della serie di nicchie quadrangolari e l'imbatte del portico
esterno erano rivestiti di un bianco tessuto musivo ornato di stelle. I brani musivi del nicchione centrale con le tracce del chrismon , ma anche le maggiori dimensioni del vano rispetto alle altre nicchie e la posizione in asse con l'ingresso, autorizzano a credere che questo fosse lo spazio destinato a ricevere, fin dall'origine, il sarcofago imperiale, come risulta nelle copie rinascimentali (Amadio 1986, figg . 6, 14, 19, 20). Infatti, sebbene la decorazione aniconica dell'intradosso appaia estremamente semplice rispetto ai motivi ornamentali dell'imbatte anulare e del perduto rivestimento della cupola, essa è gravida di contenuti simbolici: nel monogramma d'oro è riconoscibile il caeleste signum Dei che «racchiude visivamente il nome e la croce di Cristo» ed esprime, quindi, un messaggio di salvezza universale, di immortalità, amplificato dalla presenza degli astri, che a loro volta conferiscono al chrismon una «connotazione astrale e luminosa», tipica del culto costantiniano nei confronti del Cristo-Elios (Cavalcanti 2005, 47 -4 9). Nel panegirico che nel 355 Eusebio di Cesarea pronunciò per Costantino troviamo, d'altronde, un vero e proprio inno al segno salvifico, emblema di Cristo ma anche dello stesso imperatore, proiettato al centro dell'universo: «[In quel regno] il sole non è l'unico sole, ma schiere di stelle luminose esultano intorno al sovrano imperatore di tutte le cose» (Heikel 1902, 211; Cavalcanti 2005 , 49). Quanto alla funzione delle restanti nicchie, non potendo dare credibilità alla proposta del Panvinio, propenso ad immaginarle piene di statue (de Rossi 1899, 11) , davvero inconciliabili con il contesto paleocristiano, e dovendo scartare pure la fantasiosa incisione dell'Isabelle, raffigurante grandi vasi al loro interno (Isabelle 1855, tav. XXXV) , va tenuta in debito conto l'ipotesi di de Rossi, che le riteneva idonee ad ospitare candelabri marmorei, la cui esistenza nel mausoleo è sicura, dal momento che sei esemplari vennero visti da
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Ciampini e due di essi, documentati accanto ali'altare al centro del mausoleo nelle stampe settecentesche, furono trasportati in Vaticano nel 1772 per volere di Clemente XIV (de Rossi 1899, 11 ; Frutaz 1960, 117, fig. 37; Amadio 1986, 68, 86, figg. 41 , 53-61 , 63 ).
Interventi conservativi e restauri 1620: fino a quando non li notò Mariano Armellini, i due frammenti musivi del cielo stellato sulla volta della nicchia di fronte all'ingresso si mimetizzavano nell'intonaco di restauro che riprendeva il medesimo soggetto a tempera (Marucchi 1880, 6162). L'intervento integrativo, successivamente eliminato, è stato attribuito dal Frutaz alla campagna diretta da Camuccini negli anni '40 del XIX secolo (Frutaz 1960, 115-116) e da de Rossi ai lavori di abbellimento promossi dal cardinale Veralli nel 1620 (de Rossi 1899, 11 ). Il fatto che i restauratori del XVII secolo abbiano colmato le lacune del mosaico dell 'ambulacro e delle due absidiole con stucco policromo, induce a credere che siano stati loro, con analogo procedimento, a risarcire il rivestimento dell 'intradosso della nicchia. 1939: verosimilmente fu in occasione del restauro del 1939 che lo strato di malta venne asportato allo scopo di mettere in luce la sottostante tessitura muraria (Frutaz 1960, 115-116).
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Fonti e descrizioni Pompeo Ugonio (1594), BCAF, Cl. I, 161 , ff. 1103-1110.
Bibliografia Documentazione visiva Pompeo Ugonio, schizzo (1594), BCAF, Cl. I, 161 , ff. 1103-1110; de Rossi 1899.
Miintz 1878a, 359-360; Marucchi 1880, 61-62 ; de Rossi 1899, 1112; Wilpert 1916, I, 292 , fig. 88; Frutaz 1960, 115-116; Stanley 2004 , 125, fig. 18; Biscanti 2005b, 178.
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ld. IL FLUVIUS ARGENTEUS , SCENE DELL'ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO NELLA CUPOLA Metà circa del IV secolo
L'orientamento radiale delle dodici coppie di colonne interposte fra l'invaso centrale e l'ambulacro del mausoleo di Santa Costanza, oltre ad avere suggerito la divisione in campi trapezoidali del mosaico della volta anulare, deve avere fornito le linee guida per impostare la grandiosa decorazione musiva della cupola. La calotta emisferica, infatti, era ripartita da dodici candelabri fitomorfi disposti a raggiera, dalla circonferenza di base convergenti in alto, intorno a un oculo centrale profilato da una cornice a ovuli, forse occluso ab origine. In corrispondenza della fascia inferiore, appena al di sopra del giro di finestre del tamburo, il mosaico ospitava un paesaggio marino popolato da cigni, anatre, polipi, pesci e da uno stuolo di eroti raffigurati nell'atto di pescare con reti e tridenti su zattere e navigli o dagli scogli. Al centro di dodici isolette rocciose si ergevano i grandi fusti fogliati, affiancati, alla base, da una coppia simmetrica di felini. In corrispondenza di un terzo e dei due terzi della loro altezza, i candelabri si ramificavano in girali simmetrici che, congiungendosi, fungevano da cornice a ventiquattro scene figurate suddivise in due registri sovrapposti. Nel primo ordine vi erano episodi dell'Antico Testamento di cui conosciamo per la maggior parte i soggetti: Mosé che /a sgorgare la /onte nel deserto, il Sacrificio di Elia, la Storia di Tobia, Susanna e i vecchioni, il Sacrificio di Abele e Caino, Lot che riceve gli angeli a Sodoma e altre tre scene di difficile interpretazione. In corrispondenza dell'ordine superiore doveva figurare un ciclo evangelico. In questo caso, però, l'unico episodio identificato è il Miracolo del centurione. Elementi ornamentali antropomorfi e zoomorfi impreziosivano ciascun candelabro. Lungo il primo tratto del fusto era inserita una cariatide, mentre dalla parte superiore germogliava una triade di personaggi in scala minore, anche in questo caso, probabilmente, d'aspetto femminile. Coppie speculari di delfini uniti per la coda si dipartivano dalle ramificazioni orizzontali di entrambi i registri. Le tinte ad acquerello della copia di Francisco de Ollanda all'Escorial (Tarmo y Monz6 1940, 124-131, tav. 28) [22] costituiscono l'unica documentazione grafica in nostro possesso per tentare di risalire ai colori del tessuto musivo, composto in prevalenza da tessere vitree, a differenza dell'ambulacro, dove predomina il marmo palombino del fondo bianco. Come risulta dalla copia dell'artista portoghese, le varietà cromatiche erano essenzialmente quelle appartenenti alla gamma del blu e del verde, la prima impiegata per il cielo e per le acque, la seconda utilizzata per il prato della riviera. I candelabri, come racconta Ugonio, erano d'oro (Miintz 1878a, 365) e infatti nella copia acquerellata le foglie d'acanto sono messe in risalto da pennellate ocra. È assai probabile, inoltre, che i flutti del paesaggio marino fossero lumeggiati da filari d'argento, visto l'esplicito riferimento, sempre nel testo di Ugonio, al fiume argentato: «Circuit autem in gyrum pictura ad ornamentum con/icta, ut videre est, /luvius enim argenteus excurrit» (ibidem).
Note critiche Il rivestimento musivo della cupola venne distrutto nel 1620, quando l'edificio fu riadibito a luogo di culto cristiano per iniziativa del cardinale Fabrizio Veralli (Matthiae 1967, 4). L'originario assetto ornamentale è documentato da numerose copie rinascimentali (Amadio 1986, 19-82), alle quali vanno aggiunte le annotazioni dell'antiquario Pompeo Ugonio, recatosi nel mausoleo in più
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occasioni, due volte nel 1594 e poi nel 1608 (Stern 1958, 168-169). A un primo sguardo, il materiale grafico di cui disponiamo permette di farsi un 'idea esauriente dell 'impianto compositivo della decorazione musiva e dei singoli temi figurativi che essa ospitava al suo interno. Prima di addentrarsi nell'esame dei singoli soggetti va detto, tuttavia, che alcuni disegni cinque e seicenteschi restituiscono una versione iconografica del mosaico non conforme alla situazione originaria poiché introducono motivi figurativi frutto di invenzione. Innanzitutto, perciò, occorre far luce sull'equivoco ingenerato da questa serie di copie (Amadio 1986, figg. 11 , 28, 30, 43-44 , 51 , 57 ). Fino agli anni '70 dell'800 la decorazione della cupola era nota grazie a incisioni tratte da un acquerello di Pietro Santi Bartoli (163 5-17 00) [23] , copista che, per risalire all'assetto figurativo del mosaico del mausoleo , perduto già da alcuni decenni, aveva utilizzato l'acquerello conservato all'Escorial (Ciampini 1699, 1; Amadio 1986, 54-56, 58) [22]. Si deve a Raffaele Garrucci, in Spagna nel 1868 per lo studio dei sarcofagi paleocristiani, il merito di avere rinvenuto l'esemplare escorialense. Lo studioso scoprì la copia fra quelle contenute nell'album di viaggio di Francisco de Ollanda, artista portoghese giunto a Roma negli anni 1538-1540 per riprodurre dal vero le forme classiche dei monumenti antichi (Garrucci 1877, 6-8). Al di sopra dello spazio riservato a una meticolosa riproduzione del sarcofago di Costantina, l'Ollanda aveva disegnato a china, e ripassato ad acquerello, un segmento rettangolare del mosaico della cupola, circa un quarto del settore inferiore, includente un tratto della scena marina, con eroti, navigli e fauna acquatica, la metà di tre candelabri e quattro delle dodici scene bibliche inserite fra i racemi vegetali. Oltre alla copia del pittore portoghese, Garrucci rinvenne il disegno di un anonimo della fine del Quattrocento, oggi all'Escorial (ibidem, 7 -8; Amadio 1986, 21 , fig. 2) [24], in seguito attribuito alla scuola del Ghirlandaio (Egger 1906, 11 ), ma di recente assegnato alla cerchia di Giuliano da Sangallo (Nesselrath 1996, 185). Esaminando i due esemplari dell'Escorial, lo studioso non ebbe difficoltà a dimostrare che la riproduzione di Santi Bartoli [23] , modello per numerose altre versioni [26] , fra le quali l'incisione pubblicata da Ciampini (Ciampini 1699, tav. 1), non poteva considerarsi attendibile (Garrucci 1877 , 6-10). Al posto delle scene narrative del registro superiore, infatti, il disegno del Bartoli presenta una serie di riquadri con satiri e menadi danzanti che non ha alcuna attinenza con lo schema compositivo reale ed è quindi frutto della sua fantasia (de Rossi 1899, 13; Stern 1958, 185-186; Amadio 1986, 38, 58). Lo stesso può dirsi per la decorazione ad ombrello che il copista inserisce al centro della cupola, dal momento che un disegno della Kunstbibliothek di Berlino attribuito a Hugues Sambin (Amadio 1986, 41, fig. 14) [25] riproduce al suo posto, con minuziosa precisione, una rientranza circolare con tanto di cornice ad ovuli in marmo o in stucco (Stern 1958, 186). Il dettaglio trova riscontro nella situazione attuale: facendo riemergere parte della muratura di supporto a seguito della parziale asportazione dell'intonaco seicentesco, il restauro del 1939 ha messo in luce, al centro della cupola, un disco in sottosquadro che interrompe il regolare andamento dei laterizi (De Angelis d 'Ossat 1940, 45). A tale proposito, giova considerare la presenza di una profilatura molto simile a quella del disegno di Sambin nel rivestimento della volta del più tardo battistero degli Ortodossi a Ravenna, dove però il
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motivo ornamentale non è in rilievo bensì inserito nella tessitura musiva, ad incorniciare la scena del Battesimo di Cristo. Il caso ravennate, risalente alla metà circa del V secolo, sembrerebbe rappresentare un residuo, all'interno della dimensione figurativa, dell'ormai desueto impluvium, vuoto circolare sulla sommità della cupola frequente nell'architettura a pianta centrale di epoca romana, che trova nell'oculo del Pantheon l'esempio più celebre (Lucchini 1996, 111-113 ). Al modello del pronao del tempio adrianeo, del resto, si rifanno i portici timpanati all'ingresso dei mausolei di Massenzio sulla via Appia e di Tor de' Schiavi sulla via Prenestina (Rasch 1993 , 11, 44 , 48-55 , 86; Brandenburg 2004c, 73-74). Quest'ultimo, inoltre, ha una cupola con quattro aperture circolari, equidistanti e disposte a metà altezza della volta (Rasch 1993, 91-92). La documentazione dell'esistenza della cornice ad ovuli sulla sommità della calotta di Santa Costanza e il cerchio in sottosquadro, venuto alla luce nello spazio corrispondente, sembrano dunque rievocare l'oculo romano, sebbene non sia dato sapere se in origine il disco circolare fosse aperto oppure no. Non è escluso, a nostro avviso, che inizialmente si trattasse di un vero impluvium e che al momento della messa in opera del rivestimento musivo sia subentrata la decisione di chiuderlo. D 'altra parte, al lasso di tempo che intercorre tra l'edificazione del sepolcro imperiale e la sua decorazione, sono stati attribuiti due significativi pentimenti: I.a chiusura delle finestre della torretta e la parziale occlusione, con muratura in opus mixtum, del giro di finestroni
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del tamburo (De Angelis d 'Ossat 1940, 44 ; Prandi 1942-1943, 288, 298; Stern 1958, 206). Tornando alla copia di Santi Bartoli [23], l'individuazione delle fantasiose aggiunte nel registro superiore, evidenti al confronto con il disegno dell'anonimo dell'Escorial [24], con quelli di Francesco di Giorgio Martini a Torino e di Antonio da Sangallo agli Uffizi (Amadio 1986, 19, 25 , figg. 1, 5) , ci consentono di procedere nell'analisi dei singoli temi figurativi, iniziando dall'esame delle rappresentazioni a carattere sacro tra i racemi d 'acanto e proseguendo con i soggetti profani che popolavano il paesaggio marino. Per quanto riguarda il ciclo veterotestamentario, in corrispondenza del registro inferiore abbiamo elementi sufficienti per il riconoscimento di sei scene, ma disponiamo di alcuni dati che autorizzano ad avanzare ipotesi plausibili anche su altri tre soggetti. In totale, quindi, risultano identificabili nove episodi biblici su dodici. Del registro superiore, invece, i dati in nostro possesso permettono di fornire proposte interpretative soltanto in riferimento ad una scena. Nell'episodio parzialmente riprodotto all'estrema sinistra dell'acquerello di Francisco de Ollanda [22], già Ugonio aveva riconosciuto, seppure dubitativamente, la storia di Tobia (Miintz 1878a, 366). In effetti, l'uomo sulla destra è senz'altro identificabile con suo figlio, Tobiolo, intento ad estrarre dal pesce le viscere che permetteranno di restituire la vista al padre (Tb 6, 1-9). Secondo una recente rilettura della scena, il personaggio alle sue spalle, che
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sembra sostenere un vaso sulla testa, sarebbe da identificare con la personificazione del Tigri (Perraymond 1988, 150) . Nel campo seguente, sulla destra , la copia acquerellata riproduce una figura, seduta ali' esterno di un edificio, che sembra interloquire con due persone ritratte in piedi. L'ipotesi di Henri Stern, di riconoscere Lot nell'individuo assiso e i due angeli giunti a fargli visita a Sodoma nella coppia di uomini accanto (Gen 19, 2-4), risulta plausibile, tanto più che la versione di Santa Costanza non è da considerarsi un unicum iconografico dell'età paleocristiana (Stern 1958, 176177), visto che lo stesso episodio è presente fra le miniature della Genesi Cotton, databili entro la fine del V secolo (WeitzmannKessler 1986, 81, fig . 222 , tav. VII, 21 ). Il campo successivo riassume, assai verosimilmente, la storia di Susanna e i vecchioni (Dn 13, 1-64), già individuata da Ugonio (Miintz 1878a, 366) [28]. In linea con una tradizione iconografica che trova riscontro in alcuni sarcofagi e in pitture catacombali di III e IV secolo (Stern 1958, 169-171, figg. 4-10), la giovane donna, velata, è ritratta in piedi con un libro aperto. A destra gli anziani le volgono le spalle allontanandosi e sul fondo , in cima ad una gradinata, Daniele pronuncia la condanna seduto in cattedra . All'estrema destra dell'acquerello di Francisco de Ollanda [22], si scorge gran parte della scena successiva, con due individui disposti ai lati di una figura seduta e raffigurati nell'atto di offrire doni a quest'ultima. Il personaggio di destra porge un agnello, quello di sinistra, anacronisticamente, uno strumento a corda simile ad un violino. È chiaro che si tratta di un fraintendimento del pittore portoghese, come per altro ebbe modo di notare il Winckelmann (Winckelmann 1783-1784, I, XXXI; Amadio 1986, 83) . Senza dubbio nella scena va riconosciuto l'episodio dell'offerta di Caino e Abele (Gen 4, 3-5). Ciò che all'Ollanda sembrò uno strumento musicale doveva essere in realtà un fascio di spighe di grano, come annotò Ugonio, che però, in questo caso, non riuscì ad identificare la scena (Miintz 1878a, 366). Altri due episodi biblici sono stati individuati grazie al disegno dell'anonimo dell'Escorial [24] che corrisponde alla descrizione dell' antiquario bresciano. Nella scena di sinistra è raffigurato un gruppo di personaggi intorno ad un altare sul quale
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brucia un toro. L'episodio, riprodotto in uno schizzo e ben compreso da Ugonio (ibidem, 365) [27] , allude al sacrificio di Elia che, dopo aver immolato il bovino sull'altare, implora Dio di inviare il fuoco celeste per confondere i sacerdoti di Baal (1 Re 18, 21-36). L'evento è insolito nell'iconografia cristiana dei primi secoli ma presente, tuttavia, all'interno del ciclo veterotestamentario della sinagoga di Dura Europos (Stern 1958, 173-175 ; Hachlili 1998, 149-150, tav. III, 23-24 ). La scena successiva, così come è stata riprodotta nel disegno dell 'Escorial, non è di facile interpretazione. Al suo interno sono rappresentati quattro uomini togati [24]. Quello all'estrema destra sembra essere intento a legare il personaggio che gli sta accanto, ritratto con la mano sinistra dietro la schiena, circostanza che aveva indotto Stern ad adombrare l'ipotesi che si trattasse dell 'arresto di Geremia (Ger 37, 14-21 , Stern 1958, 179, nota 96). Il commento di Ugonio ci permette di acquisire importanti informazioni su altri tre episodi del medesimo registro. In una di esse l'erudito scorgeva Mosé che fa sgorgare l'acqua nel deserto [27] dopo aver percosso la roccia con la verga (Esodo, 17, 6; Miintz 1878a, 367), soggetto assai frequente nell'arte paleocristiana, raffigurato spesso sia sui sarcofagi che nei dipinti delle catacombe del suburbio romano (Utro 2000, 225) . In un'altra scena Ugonio distingueva uomini intenti a segare fasci di legname, pertanto è probabile che essa raffigurasse Noé che costruisce l'arca (Miintz 1878a, 365; Stern 1958, 179). Troppo generica perché possa dare adito a riflessioni interpretative, infine, appare la
descrizione di un altro episodio con uomo seduto che riceve un libro dalla mano di un individuo astante (ibidem). Quanto al ciclo cristologico, l'unica scena di cui rimane traccia documentaria è quella abbozzata nel disegno dell 'anonimo dell'Escorial [24] e riportata in uno schizzo sommario da Ugonio [29]. Il campo è occupato da un personaggio centrale, nimbato, che dà le spalle a un uomo in secondo piano con tunica corta e solleva la mano destra nell'atto di interagire con l'individuo raffigurato sulla sinistra. Quest'ultimo sembra avere le mani nascoste sotto la veste, in segno di rispetto. Wilpert e Stern hanno riconosciuto in questa scena l'episodio del Miracolo del centurione (Wilpert 1916, I, 308; Stern 1958, 180). L'individuo di sinistra sarebbe da identificare con il soldato di Cafarnao, raffigurato mentre esce da casa e va incontro a Cristo che gli annuncia la guarigione del servo (Mt 8, 5-13; Nieddu 2000, 149-150). Per le scene passate in rassegna è possibile stabilire, grazie ai dati desumibili dai disegni e dagli appunti di Ugonio, se non l'esatta ubicazione, quanto meno l'ordine di successione. L'antiquario, infatti, identificava Il sacrz/icio di Elia «in primu arcu», corrispondente, forse, alla zona che coincide con l'ingresso (Miintz 1878a, 365; Stern 1958, 180). Accanto, procedendo verso destra, era la scena del prigioniero, sovrastata dal Miracolo del centurione, poi la Costruzione del!' arca di Noé, quindi due scene perdute, seguite dall'episodio non identificato con l'uomo seduto che regge un libro, ancora oltre Tobiolo e il pesce, Lot a Sodoma , Susanna e i
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vecchioni, Caino e Abele e infine Mosé che fa sgorgare la sorgente. Un'idea piuttosto precisa del dispiegarsi del sottostante paesaggio acquatico viene offerta dalle due copie dell'Escorial [22 , 24] e dal disegno di Antonio da Sangallo degli Uffizi (Stern 1958, 166-169, figg. 1-3). Nella riproduzione dell'artista portoghese sono raffigurate quattro piccole imbarcazioni, due copiate integralmente e le restanti in modo parziale perché fuoriuscenti dai margini del foglio. Quella all 'estrema destra ha una vela quadrata, la seconda a sinistra, invece, presenta le forme di una zattera. Sopra i navigli sono coppie di piccoli geni alati che impugnano un tridente o si apprestano a tendere le reti per catturare i pesci. Altre figurine di eroti gettano l'amo dalle isole rocciose che fungono da base per i candelabri. Tra i flutti e lungo la riva nuotano pesci, polipi e uccelli acquatici,
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anatre, gru e cigni. In corrispondenza dell'angolo destro del disegno si scorge una palizzata che allude a uno dei sistemi messi a punto dai romani per la pesca marina e trova riscontro nel celebre mosaico nilotico di Palestrina (ibidem, 189; Meyboom 1995 ). Nel disegno dell'anonimo dell'Escorial i soggetti si ripetono in modo analogo alla sequenza riportata dal de Ollanda. Ulteriori dati, invece, si ricavano dalla testimonianza di Ugonio, che nel tratto di mosaico sopra l'altare, dirimpetto ali'entrata, aveva visto una barca, guidata da un individuo al timone, con due personaggi seduti a prua «quasi habitu sacro in duti» (Mi.intz 1878a, 365 ; Stern 1958, 190). L'indicazione fornita dall'antiquario è stata variamente interpretata: de Rossi e Wilpert hanno riconosciuto nell'imbarcazione con le figure assise la «nave mistica» che conduce nell'aldilà (de Rossi
1899, 15; Wilpert 1916, I, 302-303 ), mentre Stern ha respinto ogni lettura in chiave cristiana, per l'assenza di espliciti richiami alla dimensione religiosa, invece manifesti, nelle sembianze della colomba e nel chrismon, ogni qual volta il tema compare in ambienti paleocristiani (Stern 1958, 190-191 ). Il b attello di Santa Costanza descritto da Ugonio, a detta di Stern, doveva essere simile a quello che sovente si trova riprodotto su sarcofagi romani di III e IV secolo d.C. , dove scene marine hanno come protagonisti non solo i soliti genietti alati ma anche individui umani, simboleggianti i defunti stessi che partecipano ai piaceri della pesca e della navigazione: non è da escludere, per questo, che la coppia di personaggi adulti, effigiata nell'imbarcazione alla base della cupola di Santa Costanza, alludesse proprio a Costantina e al suo sposo (ibidem, 191 ). Mediante un nutrito numero di confronti con opere greco-romane, sempre Stern ha potuto dimostrare, ad abudantiam, fino a che punto i mosaicisti di Santa Costanza si siano avvalsi del repertorio formale dell'arte pagana nel raffigurare il p aesaggio marino e i grandi candelabri, inclusi gli animali, le cariatidi e le triadi di personaggi femminili che fuoriescono dai racemi acantiformi (Stern 1958, 186-190). Al di là della varietà dei motivi ornamentali, tuttavia, sorprende l'abilità del cantiere musivo nel realizzare un programma figurativo che non poteva avvalersi di una tradizione consolidata, poiché si prefiggeva di integrare, entro un impianto decorativo di tradizione classica, un campionario iconografico a carattere sacro, del quale certamente non dovevano esistere numerosi precedenti monumentali, soprattutto nella complessa disposizione che impone una superficie concava. La decorazione della cupola di Santa Costanza è stata paragonata al mosaico della volta del mausoleo di Centcelles, presso Tarragona, anch'esso di committenza di un membro della famiglia di Costantino (ibidem, 183-184; Schlunk 1988). Se il caso spagnolo sul piano figurativo è accostabile alla decorazione della Nomentana per la presenza di episodi biblici disposti in circolo e il continuum del tema che si dispiega alla base, raffigurante, in questo caso, scene di caccia con uomini a cavallo , dal punto di vista delle modalità tecnico -esecutive fra le due opere si interpone una differenza sostanziale: le tessere lapidee dai colori pastello che compongono il mosaico di Centcelles sono indice di un cantiere avvezzo all'arte del rivestimento pavimentale, diversamente da quelle vitree della cupola di Santa Costanza, in parte rivestite da foglie d'oro e d'argento , inverosimili per un piano di calpestio. Gli esiti formali del mosaico della Nomentana sono assai più vicini ai risultati raggiunti all 'interno della cupola del citato battistero degli Ortodossi a Ravenna . Lo rivela la simile distribuzione a ruota dei candelabri d'oro, ma anche la scelta cromatica delle tessere, simile nella predominanza dei toni azzurri e verdi, come attestano i colori dell'acquerello di Francisco de Ollanda [22] . Sennonché, l'impianto figurativo del mosaico ravennate, coerentemente alla sua datazione più tarda, appare spogliato della moltitudine di forme e figure ellenizzanti che nella calotta di Santa Costanza strabordano ovunque, quasi a tacitare un senso di horror vacui. Proprio la distanza del rivestimento della cupola romana dalla tradizione dei mosaici pavimentali invita a ricercare eventuali nessi con la coeva decorazione parietale, giacché è possibile ipotizzare che il paesaggio marino figurasse alla base dei temi absidali di talune basiliche romane di età paleocristiana. Non possiamo sapere con certezza se il tema facesse parte della decorazione di V secolo dell'abside di San Giovanni in Laterano, anche se autorizzano a supporlo la sµa presenza nel mosaico di Jacopo Torriti, che ha sostituito il rivestimento tardoantico sul finire del '200 ad eccezione
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del volto di Cristo inserito nella nuova tessitura musiva (--> 43 ), e l'allusione a una moltitudine di pesci e altre specie di animali «inter chorum et altare» nel Lzher de Ecclesz'a Lateranensi, risalente al 1169 (Monciatti 2001-2002, 35). Ancor più arduo è stabilire se il paesaggio acquatico comparisse alla base del mosaico dell'abside di Santa Maria Maggiore, realizzato al tempo di Sisto III (432-440), visto che in questo caso possiamo basarci soltanto sulla constatazione che nel rivestimento della nuova abside tardoduecentesca anche qui, e sempre per mano di Torriti, è stato inserito il tema della fauna marina (--> 41c; vedi Menna 1991 , 236-251 ). Certa, invece, è la presenza delle scene acquatiche, con eroti che pescano dalle imbarcazioni o dagli scogli, nel cilindro absidale dell'oratorio del Monte della Giustizia, perduto, ma descritto e documentato graficamente da de Rossi, che ne aveva proposto una datazione al IV secolo, a tutt'oggi condivisibile (--> 5 ). Diversamente dalla posizione assunta da Stem, deciso a non assegnare al soggetto marino alcuna valenza cristiana (Stern 1958, 190-191 ), proprio la presenza del paesaggio acquatico all'interno di uno spazio ad alto contenuto sacrale, quale è quello della conca absidale (Andaloro-Romano 2000, 94), autorizza a credere che il brulicante universo del fluvius argent eus facesse parte di un programma iconografico unitario e coerente, volto a rappresentare il cammino dell'umanità verso la salvezza eterna, prefigurata dagli episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. L'illustrazione del programma divino per la redenzione dell'uomo, che nelle basiliche paleocristiane si dispiegava lungo le pareti laterali della navata convergendo nella teofania absidale, a Santa Costanza veniva riassunto all'interno di uno spazio geometricamente perfetto, una volta emisferica, specchio dell'armonia dell'universo secondo la visione cosmogonica dell'epoca (Biscanti 2005b , 177 ). L'inserimento delle scene neo e veterotestamentarie entro uno schema concentrico aveva imposto la rinuncia alla sequenza narrativa, a tutto vantaggio del loro valore di exempla della salvazione umana, certamente appropriato alla funzione funeraria dell'ambiente. Considerato che il motivo a ombrello nella copia del Bartoli e nell'incisione pubblicata da Bellori (Doc. vis.) [26], è del tutto inventato, al centro della cupola possiamo ipotizzare l'esistenza di un'immagine teofanica, fulcro dell'intera rappresentazione, senza tuttavia escludere la possibilità che la profilatura ad ovuli incorniciasse un oculo aperto, un disco di cielo nel quale potrebbe ravvisarsi l'immagine simbolica del Cristo- Eùos (Hautecoeur 1954, 177-198, 218-227 ).
Interventi conservativi e restauri Fine XVI secolo: circa lo stato di lacunosità del mosaico alla fine del '500, alcune informazioni si ricavano da Ugonio che, nel descrivere una ad una le scene veterotestamentarie del primo registro , riferendosi ai tre campi a destra dell 'episodio della costruzione dell'arca di Noé, denunciava il distacco del rivestimento
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musivo (Miintz 1875, 365-367). Il fatto che l'erudito abbia rinunciato a procedere alla descrizione delle scene del registro superiore lascia supporre, inoltre, che l'area centrale si presentasse in condizioni particolarmente lacunose. 1620: a questa data il cardinale Fabrizio Veralli, nell'ambito di una serie di lavori di restauro promossi per la riconsacrazione dell'edifico a luogo di culto, procedette alla rimozione totale del rivestimento musivo e alla stesura di un dipinto raffigurante le leggendarie storie di santa Costanza, in parte eliminato nel 1939 12er riportare alla luce la muratura sottostante (Matthiae 1967 , 4 ). E probabile che la scelta di asportare il tessuto musivo della cupola, compiuta in pieno clima controriformista, sia stata dettata più dall'avversione alle forme ellenizzanti in un luogo ritenuto a lungo il tempio di Bacco che dallo stato frammentario della tessitura musiva (Ibidem). Contestualmente alla sostituzione dell'originario rivestimento della cupola, d ' altra parte, si intervenne con integrazioni a stucco per risarcire le lacune dei mosaici della volta dell'ambulacro e delle due absidiole.
Documentazione visiva La documentazione visiva della decorazione di Santa Costanza è stata raccolta e pubblicata da Adele Anna Amadio (Amadio 1986). Francisco de Ollanda, acquerello (153 8-1540), MBE, 28-1-20, f. 27v; anonimo, cerchia di Giuliano da Sangallo, disegno (fine XV secolo), MBE, 28-II-12 , f. 4v; anonimo, disegni (XVI secolo), BMV, Ital. IV, 149, ff. 8r-8v; attribuito a Hugues Sambin, disegno (1520-1601 ), KBB , 4151 , f. 73r; anonimo italiano, disegno (XVI secolo), KBB, OZ 109, f. 8; Pietro Santi Bartoli, acquerelli (16351700), GUL, nn. 64-65 , ff. LXXXI, LXXXIII; WEC, Baddeley Codex, CV, 49; WRL, A 22 , f. 9576; Francesco Bartoli, acquerello (1675 -1730), Holkham Hall, I , 52 , 49 ; Pietro Santi Bartoli, incisione (Bellori 1791 , tav. II) ; Ciampini 1699, tav. I; Pompeo Ugonio, schizzi (1594), BCAF, 161 , ff. 1103-1110.
Fonti e descrizioni Pompeo Ugonio (1594), BCAF, Cl. I , 161 , ff. 1103-1110.
Bibliografia Ciampini 1699, tav. 1; Garrucci 1877, 6-10, tav. 204 , 4 ; Miintz 1878a, 353-3 67; de Rossi 1899, 15-17; Schmarsow 1904, 2-7; Egger 1906, 11 ; Wilpert 1916, I, 298-310; Tarmo y Monz6 1940, 124131 , tav. 28; Lehmann 1945 , 12-13 ; Stern 1958, 159-218; Matthiae 1967, 4; Amadio 1986, 19-59, 67-72 , 76, 81 -83 ; Perraymond 1988, 150; Nesselrath 1996, 185; Mackie 1997, 404-405 ; Monciatti 20012002 , 34-36; Mackie 2003 , 154-156; Brandenburg 2004c, 85-86; Stanley 2004, 135; Biscanti 2005b, 177-178.
le. L'OPUS SECTILE DEL TAMBURO Metà circa del IV secolo
La perduta decorazione in opus sectile del tamburo è documentata dalla breve descrizione di Pompeo Ugonio (Miintz 1878a, 366) e da alcuni disegni rinascimentali (Amadio 1986, 24, 39, 41) [30, 31] . Le visualizzazioni grafiche restituiscono un parato marmoreo che rispettava, verticalmente, la divisione in dodici sezioni scandita dalla disposizione radiale delle coppie di colonne e si articolava, orizzontalmente, in tre registri. Nel primo livello, la zona soprastante ciascun capitello era ornata da un motivo rettangolare disposto in verticale che all'interno presentava sagome a forma di losanga o dal profilo ondulato. La copia berlinese riporta il medesimo ordine compositivo anche in coincidenza della superficie superstite soprastante gli archi [25]. Al di sopra di un doppio giro di modanature marmoree, presumibilmente lisce, il settore centrale ripeteva la ripartizione in campi rettangolari. Per questi ultimi è possibile risalire allo schema di base, costituito da cornici, ad andamento sia geometrico che curvilineo, e rombi o profilature lobate ospitanti al loro interno due o quattro listelli cuneiformi, a mo' di croce, con la punta rivolta verso un disco centrale. Dall'osservazione dell ' assetto architettonico del tamburo e da un disegno della Marciana [30] si evince che la larghezza dei rettangoli non doveva risultare uniforme, come riportato nelle copie di Berlino e dell'Escorial [31], bensì variare alternamente a seconda dell'allineamento con gli ampi vani delle finestre e gli interposti setti murari. Finte colonne, con capitelli acantiformi e lesene realizzate ora mediante listelli tripartiti ora con motivi a rinceaux , si trovavano in corrispondenza dei lati lunghi dei riquadri. Sopra e sotto, invece, passava un nastro caratterizzato da un 'alternanza di formelle quadrate e rettangolari, le prime costituite da sagome romboidali e scudi incrociati in diagonale, le seconde da pelte e losanghe con un disco al centro. Fra il secondo e il terzo registro correva un fascio di modanature, lisce e ad ovuli, e nel mezzo un elaborato fregio imitante una serie continua di archetti pensili, sorretti da mensole con foglie di acanto, decorati con cantari, coppe, e di nuovo pelte o scudi incrociati. Nell'ordine superiore, che inglobava il finestrato , un motivo prospettico emulante le travi di un tetto dava l'illusione di un loggiato. Più in basso, tra una finestra e l'altra, al centro di una coppia di alte lesene, era stato impiegato ancora una volta un pannello rettangolare disposto verticalmente, in questo caso sopra uno zoccolo contenente un motivo a losanga. Grazie alla copia di Francisco de Ollanda [22], infine, possiamo risalire al coronamento dell'opus sectzle: nel margine inferiore sinistro della riproduzione del paesaggio marino della cupola si scorge parte di una profilatura ad ovuli sovrastata da un fregio con coppie di S affrontate, al centro delle quali si sviluppava un motivo gigliato (- ld) (Stern 1958, 209).
esplicite, cozme il «giallo», verosimilmente alludente al marmo tunisino delle cave di Chemtou, il cosiddetto giallo antico (Gnoli 1971, 139-141 , fig. 123 ). Ci sono anche numerose M ed una Q non facilmente identificabili. Probabilmente, un esame ravvicinato del disegno del Sambin consentirebbe di documentare, mediante un grafico, l'originaria policromia del rivestimento marmoreo. Quanto all'assetto decorativo, le versioni di Berlino, dell'Escorial e della Marciana, hanno fornito dati sufficienti a stabilire un serrato confronto con altri casi di opus sectile della tarda antichità, mentre altre copie rinascimentali, fra le quali l'esemplare sangallesco degli Uffizi, nella raffigurazione di statue a grandezza d'uomo in corrispondenza dell'ordine del finestrato, non risultano convincenti (Stern 1958, 208-211; Amadio 1986, 20, 24-25 , 48-50). Appare chiaro, d'altra parte, che lo schema a tre registri del tamburo di Santa Costanza deriva da un modello concepito per rivestire una parete priva di arcate nel registro inferiore. Lo si deduce sempre dalla sezione della copia di Berlino che documenta una brusca interruzione dei partiti geometrici in corrispondenza delle ghiere degli archi del colonnato (Stern 1958, 210). Significativamente la decorazione di Santa Costanza risulta assai prossima a numerosi contesti di IV secolo. Fra gli esempi che più si avvicinano all'impianto scenotecnica delle crustae del mausoleo costantiniano, si impone il rivestimento della basilica di Giunio Basso, risalente al 331 circa, documentato da copie rinascimentali - non del tutto attendibili - e alcuni frammenti superstiti di
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Note critiche Benché parziale, il disegno cinquecentesco della Staatbibliotek di Berlino, attribuito alla mano di Hugues Sambin (Berckenhagen 1970, 26, 28) , sorprende per la precisione con la quale vengono riportati i motivi decorativi dei sectilia, le misure di alcune lastre e, mediante un gran numero di sigle, le diverse tipologie di marmi [25]. Alcune abbreviazioni sono riconoscibili, come la P e la S, che con ogni probabilità indicavano rispettivamente la presenza del porfido e del serpentino. Altre indicazioni sono addirittura
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palatina, più o meno coeva, facenti parte del complesso imperiale di Treviri. Lo rivela il riscontro di pannelli con decoro a losanga, dei motivi a pelta e dei capitelli a coronamento delle lesene realizzati a rilievo (Krencker 1929, 310-313 ; Kelly 1986, 208-210). Quest'ultimo dettaglio costituisce un indizio a favore dell'ipotesi sull'uso di elementi fogliati in aggetto anche nel parato marmoreo di Santa Costanza. Un'ultima considerazione, a proposito del campionario di forme che caratterizza le tarsie marmoree del mausoleo della Nomentana, meritano i fregi a rinceaux, riprodotti nella copia berlinese ad ornamento delle lesene dell 'ordine mediano. Simili motivi decorativi ricorrono nel rivestimento dell'aula tricliniare di Porta Marina ad Ostia (Becatti 1969, 8184 , tavv. LVII-LVIII;-+ 39) e della domus delle Sette Sale sul colle Oppio (Bianchi 2002, 466, fig. 17), entrambi riferibili alla seconda metà del IV secolo. Importante, infine, è la testimonianza di Ugonio, grazie alla quale veniamo a sapere che i sottarchi fra gli intercolunni erano rivestiti da «incrustaturae ex laminis lapidis venati albi» e che in un punto del tamburo, secondo Wilpert coincidente con la zona soprastante l'abside sinistra, l'opus sectile ospitava il monogramma di Cristo, «incrustatum hoc signum vario lapide» (Miintz 1878a, 366; Wilpert 1916, I, 285 ).
Interventi conservativi e restauri 1620: a questa data il rivestimento marmoreo venne distrutto in occasione dell'intervento di ammodernamento dell'edificio voluto dal cardinale Fabrizio Veralli (Matthiae 1967 , 4) . 1939: intervento di restauro nel corso del quale, eliminando gran parte dell'intonaco seicentesco che rivestiva l'invaso centrale del mausoleo, fra i laterizi della tessitura muraria venne alla luce 44a) e nel mosaico sulla facciata di San Pietro (->45 ), ma l'ordine con cuile quattro figure sono disposte non è il medesimo, segno del loro carattere in /ieri, non ancora normalizzato, in un quadro di corrispondenze con le fonti bibliche ed esegetiche pervaso di grande fluidità. In Santa Pudenziana la sequenza si dispone nel seguente ordine: angelo, leone, toro, aquila mentre a Santa Sabina esso prevede: toro, leone, aquila, angelo. L'ordine è diverso nei due casi ed entrambi si discostano dall'assetto presente nell'Apocalisse - leone, toro, uomo, l'aquila. All'origine dell'ordine adottato a Santa Pudenziana si profila perciò come punto di partenza non il testo apocalittico, che pure nel 405 viene inserito nel canone di Innocenzo I (DACL, VII, I, 1835; Matthiae 1967, 57-58), ma Ezechiele 1, 10 e la corrispondenza con l'ordine dei vangeli nella Vulgata (Matthiae 1967, 57 -58) . La concentrazione sulla trafila esegetica costituita da Ezechiele 1, 1, Origene, Girolamo (Schlatter 1992), rispecchiata nel collegamento con la serie dei viventi e con la sua sequenza, porta acqua al mulino della centralità dell'esperienza di Girolamo, nella costruzione tematica del mosaico, e permette di concludere che alla visione geronimiana in Santa Pudenziana si contrapporrebbe quella agostiniana in Santa Sabina (Matthiae 1967, 78). Il poderoso scenario urbano che si profila alle spalle dell'esedra non ha confronti nell'ambito della pittura monumentale a Roma del IV e V secolo [8-9]. Anche se negli stessi anni l'attenzione al paesaggio e agli sfondi con architetture non manca. Segna, in forme classiche, le miniature del Virgilio vaticano e la classe degli avori; tocca ~lcune serie di sarcofagi fra i quali piace ricordare il
sarcofago 174 in San Pietro in Vaticano, dotato di sfondi architettonici particolarmente assonanti con quelli del mosaico. Omessa nel disegno di Ciacconio, la città rappresentata gode di un filo esegetico riconducibile a tre diverse posizioni. La prima riconosce nello scenario urbano la porzione di Roma che si estende sull'Esquilino, attorno al vicus patricius (de Rossi 1899); la seconda ne indica il modello nella Gerusalemme storica e si azzarda a proporre dei confronti coi monumenti costantiniani, oggi perduti, sulla base del mosaico pavimentale di Madaba (Grisar 1899, 564576; Matthiae 1967, 55-76); la terza intravede nelle strutture della città mosaicata le simboliche raffigurazioni della Gerusalemme celeste. È da segnalare che di recente vanno prendendo piede interpretazioni meno contrapposte e più elastiche. La città sarebbe il riflesso della visione del tempio, l"aedi/icium civitatis', secondo Ezechiele (Ez 40-2 , 5-6, 40, 16) e il commento di Girolamo (CCSL 75,549, 1-25), dalla magnificenza superiore alle opere di Salomone e di Zorobabel, ma bisognoso di restauro. Se non che la visione, ed ecco l'elemento di mediazione, prenderebbe le forme di una città dai lineamenti noti, com'è quella che si coglie leggendo il commento di Girolamo alla visione di Ezechiele, laddove si descrive il tempio e accade che la descrizione assuma un tocco di attualità, potendovi riconoscere molti elementi dell'edilizia familiari a Girolamo, come le porte clatratae, che compaiono anche nell'esedra della città raffigurata, insieme alle altre forme tipiche dell'architettura imperiale e tardo imperiale (Schlatter 1995, 64-81). Come per il tema della città, anche per il nucleo delle due matrone [10-11], il processo di identificazione e comprensione ha visto una partenza realistica, quando si riconoscevano in esse le effigi delle sante Pudenziana e Prassede, e poi lo svolgimento di un percorso consapevole della polisemicità intrinseca che le connota,
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fino a concepirle non tanto e solo come delle personificazioni ma delle significative valenze (Goffredo 2002, 1949-1962) . Il tema che ha radici e sviluppi squisitamente romani è incerto se compaia per la prima volta in Santa Pudenziana o se possa riconoscersene l'antecedente nelle figure perdute, piccole e avvolte di bianco, descritte da Pompeo Ugonio in Santa Costanza(-+ ld). Nella 'lettura al femminile' del percorso iconografico della prima arte cristiana, figure come queste di Santa Pudenziana, sono tessere significative (Calcagnini 2002, 1925) e fruttuosi appaiono gli approfondimenti nella direzione della ricerca dei precedenti in figure del mondo pagano, come le Vittorie o le personificazione delle due Rame sui bassorilievi della colonna di Arcadio. Ciò che rimane problematico è il riconoscimento della loro identità, ma soprattutto non è univocamente definita l'area semantica che esprimono. In questa direzione è divenuto inevitabile chiedersi quale sia il rapporto con le figure delle due Ecclesiae, ex circoncisione ed ex gentibus nel mosaico di controfacciata in Santa Sabina(-+ 40a), rapporto che si è esplicitato in termini di identità, estraneità, e vari gradi di differenza e che oggi si alimenta di una tematica ampia qual è quella sull'immagine-immagini della Ecclesia bipartita, ossia delle due comunità che concorrono a formare la chiesa universale, con un sottofondo di alto significato politico relativo alla conciliazione fra comunità giudaica e comunità cristiana, che a Santa Pudenziana ingloba il concetto di Victoria Christi, con le
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figure come Vittorie (Goffredo 2002, 1949-1962). Rispetto a una galassia di interpretazioni come quelle evocate, varie ma legate insieme da un filo conduttore comune, si staglia la posizione di chi esplicita il significato delle due matrone alla luce dell'interpretazione di Girolamo nei riguardi della visione di Ezechiele (Schlatter 1995 , 64-81 ). Alla luce delle mappe tematiche e dei percorsi storiografici che le hanno attraversato , si può meglio apprezzare il carattere pluralistico e stratificato che è connaturale alla raffigurazione dell'abside di Santa Pudenziana e valutare la rete esegetica che l'avviluppa. Gli impianti interpretativi di carattere generale, anche quelli messi a punto di recente, dicono della loro sostanziale irriducibilità a un orizzonte che li possa comprendere tutti; emerge in essi una natura di carattere talora oppositiva; guardando globalmente alla storia degli studi, spiccano la sua mole e la sua articolazione, e l'affiorarvi nel tempo di temi antichi, spesso già trattati, ma usciti fuori dal cono dell'attenzione, e dimenticati. Emblematici di questo quadro, in generale, appaiono, ad esempio, gli impianti diversi maturati negli ultimi tre lustri da studiosi come Schlatter (Schlatter 1989, 155-165; Id. 1992, 276-295 ; Id. 1995a, 64-81; Id. 1995b, 1-25) e Steen (Steen 1999, 85-113; Id. 2002, 1939-1948). Il primo costruisce un blocco interpretativo dall'ossatura profondamente 'biblica', fondato sulle visioni di Ezechiele, filtrato da Girolamo, capace di guardare con fiducia
allo scorrimento e rispecchiamento fra tempi diversi, quelli della visione di Ezechiele e quelli del tempo proprio del mosaico mentre avanza la corrispondenza fra i restauri del tempio della città nella visione di Ezechiele e la conservazione assicurata dal «conservator ecclesiae pudentianae», lambendo la data fatidica per Roma, l'anno 410, e il trauma del sacco di Alarico. Dietro il mosaico si profilerebbero la mente e la sapienza di Girolamo, spinto dai circoli romani a tradurre le 14 omelie di Origene su Ezechiele, opera apparsa nel 380 e a continuare con il commentario su tutto Ezechiele, iniziato nel 410 quando la città viene saccheggiata e completato nel 414, a ridosso degli anni in cui viene fatto il mosaico, prima del 417 (Schlatter 1989, 155-165; Id. 1992; Id. 1995a, 6481; Id. 1995b, 1-25 ). Il secondo studioso, da parte sua, articola un impianto esegetico dove centrali sono invece l'idea di docenza e il rapporto con la liturgia. Facendo leva sulle quattro figure dei viventi, gli apostoli e le due matrone, Cristo proclama la parola sulla terra ai gentili e ai giudei, come docente filosofo , filosofo secondo la tradizione pagana e maestro, secondo la tradizione liturgica ebraica (Steen 1999, 96; Id. 2002, 1939-1948). Nella divergenza assoluta fra le due visioni generali, s'intravede un lato in comune, la capacità di annettere all'interno delle linee esegetiche il versante della fruizione , tentando di esplicitare i nessi immaginabili fra la comunità della chiesa pudenziana e l'apparire del mosaico, sullo sfondo della partecipazione dei fedeli alla liturgia e della loro esperienza in qualità di cittadini di Roma che patiscono gli eventi storici del momento. Quali eventi? Quelli traumatici del sacco di Roma , anno 410, nel clima post 'Torri gemelle' della tarda antichità. Allora, quando matura la svolta epocale che alimenta espressioni di pensiero complesso come il De Civz'tate Dei di Agostino e le opere di Girolamo, che suggerisce la coscienziosa opera di testimonianza storica di Orosio. Allora esplode in immagine il grandioso mosaico di Santa Pudenziana, da considerare quale figura parallela, partecipe della stessa gemmazione, dei grandi testi nominati prima (vedi Dalla statua all'immagine dipinta, 41-46). Strutturale nel mosaico è la tessitura fra dimensioni opposte: fra latitudine eterna e quella attuale, fra dimensione dell'universale e quella del particolare, fra il lontano e il vicino , in una dilatazione e avvicinamento del tutto inedita e secondo percorsi dagli aspetti talora sfuggenti. In questa trama, cresce la consapevolezza che il punto di partenza per l'elaborazione dei contenuti del mosaico sia il sacco di Roma nell'anno 410, 'l'avvenimento apocalittico', che, nella ricostruzione di Tiberia, verrebbe a legarsi alla ricorrenza del primo centenario della battaglia di ponte Milvio (312 ), vale a dire alla vittoria di Costantino su Massenzio, e ali' origine del «nuovo impero romano nel segno della croce di Cristo» (Tiberia 2003 , 79). La data del mosaico sarebbe dunque il 412. E cresce in quella che ci appare il versante del mosaico, nella direzione attualizzante, particolare, radicata nel concreto, un 'attenzione che si esprime anche al di fuori della cerchia degli studi accademici, come dimostra la proposta di riconoscere nei volti del gruppo degli apostoli di destra, frutto del restauro di Camuccini, i ritratti attualizzanti di personaggi dell'epoca di Enrico Gaetani, quali il papa Paolo III Farnese, di Pier Luigi Farnese e di Giulia Farnese (Rosini 2006). Ancorabile agli anni 410-417 , il mosaico si manifesta secondo strutture figurative che, unanimemente, sono ritenute espressione degli orientamenti culturali di stampo teodosiano. A incarnare quelle strutture in immagini è un artista eccelso. Kitzinger ci guida nella comprensione profonda della 'rappresentazione dello spazio', non illusionis_tico, ma coerente, con radici antiche (Kitzinger 1989, 49-51 ). Piace ora seguire rapidamente la parabola compiuta
dall'artista, fra ideazione ed esecuzione. Suo punto di partenza è la parola, la parola delle fonti letterarie, bibliche e patristiche, fino ad allora sigillata nei confini della scrittura e dell'ascolto, parola accolta per la mediazione di circoli intellettuali romani, con ogni probabilità vicini alle posizioni di san Girolamo, dei quali i presbiteri della comunità ecclesiale del titolo di Pudente, Massimo, Ilicio e Leopardo, possono rappresentare i tramiti immediati. Per far 'vedere' quella teofania, l'artista fu capace di inventare immagini inedite, sul passo di una sintassi poderosa. Con lui, il pictor imaginarius, lavorano i maestri musivari investiti del compito di rendere a mosaico le nuove immagini. Ciò che si origina è un mosaico, dalla estensione espressiva vasta per il tramite di una declinazione della chiesa di Pudente particolarmente flessibile. Ne sono testimoni i brani originali, nei quali è mirabile la sottigliezza della tessitura, si veda il cielo [ 12] , vibrante e vellutato , reso mediante mille sfumature, e, ali' opposto, la forza di certi trattamenti abbreviati, ma poderosi, come i piani dei volti degli apostoli, i profili sintetici, il trattamento dei panneggi ora lanosi ora intessuti di luce [13-15]. Le ambiguità di una resa musiva di passaggio fra struttura pavimentale e struttura parietale come poteva accadere nei mosaici dell'ambulacro di Santa Costanza (-la) - sono superate all'interno di una visione nitida dei mezzi espressivi propri del mosaico parietale, visione destinata a improntare felicemente l'intera produzione dei mosaici medievali a Roma.
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Interventi conservativi e restauri Adriano I (772-795): secondo la testimonianza di Onofrio Panvinio e Pompeo Ugonio (BAV, Vat. lat. 6780, ff. 63-67; Ugonio 1588, 164), al culmine dell'intradosso dell'arco absidale era visibile il monogramma di papa Adriano I. In accordo con un passo del Liber Pontzficalis alla vita del pontefice (LP I, 508), la presenza del monogramma potrebbe riferirsi ad un intervento di restauro esteso anche al mosaico absidale (Bauer 2003, 191). 1588 ca.: intervento di restauro promosso dal cardinale Enrico Gaetani (1585-1588) , ricordato da Onofrio Panvinio (BAV, Vat. lat. 6780, ff. 63-67) e Pompeo Ugonio (Ugonio 1588, 160-166) e testimoniato da un'iscrizione inserita sulla cornice alla base del catino absidale, annotata nel disegno acquerellato di Alfonso Ciacconio del 1595 circa (BAV, Vat. lat. 5407, f. 154; Eclissi, WRL, 9058), e visibile sino all'inizio del XVIII secolo: Henricus Caetanus tt.s. Pudentianael presbyter car(dinalis) s. r.e./cameriarius ecclesiam vetustatel collabentem restituit exornavit/ M. D. L. XXXVIII. Dal disegno di Ciacconio si desume che i lavori comportarono la perdita della parte inferiore delle figure, che venne ricoperta da una cornice, aperta al centro, in corrispondenza dell'Agnus e delle pedane degli sgabelli di Pietro e Paolo, corredate dei rispettivi tituli. Anche l'arco absidale con il monogramma di papa Adriano I dovette essere distrutto insieme ai due apostoli, posti alle estremità del mosaico. Il tessuto musivo fu ampiamente integrato ad intonaco dipinto graffito (de Rossi 1867, 28-30; Matthiae 1967, 407 ). La
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documentazione relativa all'intervento non ci è nota, ma dai preventivi di spesa e dalle note di pagamento relative al restauro ottocentesco (de Rossi 1867; Monaco 2005-2006, 95-105; ARFSP, Arm. 64, cc. 132-147) si evince che vennero completamente rifatti ad intonaco: il busto e le mani delle prime tre figure a sinistra e la porzione di architetture adiacente; l'intera figura del toro e il pezzo di cielo adiacente; il gruppo composto da sei figure a destra. XVII secolo: nel 1711 , in occasione del rinnovamento dell'altare maggiore per volere del cardinale Giovanni Maria Gabrielli, fu risarcita con intonaco dipinto, secondo de Rossi, una grande lacuna che comprendeva il libro di Paolo e parte della veste dell 'apostolo a lui vicino e lacune più piccole non localizzate da de Rossi (de Rossi 1867, 28 , 29). A questo intervento è da riferire anche l'eliminazione dell'Agn us e delle iscrizioni che ricordavano l'intervento Gaetani. 1801-1814: interventi conservativi negli anni in cui era titolare della chiesa il cardinale Lorenzo Litta (1801-1814), con l'inserimento di numerose grappe a 'L' in rame che sono state ritrovate intatte nel restauro 2001-2002 (Tiberia 2003, 132, figg. 115-117). 15 luglio 1831-21 febbraio 1832: nel 1829, il mosaico «era in pessime condizioni ed esigeva totale riparazione» (de Rossi 1867, 28); Vincenzo Camuccini, Ispettore delle Pubbliche Pitture e direttore dello Studio Vaticano del Mosaico, viene incaricato di redigere una relazione sullo stato di conservazione del mosaico, accompagnata da un preventivo di spesa (Matthiae 1967, 406-
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407; de Rossi 1867 , 28). I documenti, consultati da de Rossi e Matthiae nella redazione conservata presso l'Archivio di Stato di Roma, risultano smarriti mentre sono stati recuperati quelli all'Archivio della Reverenda Fabbrica di San Pietro (Monaco 2005 -2006, 53 -58). Attraverso i preventivi di spesa e le note di pagamento corrispondenti ai lavori, è stato possibile quindi tracciare la mappa pr:ecisa dei rifacimenti compiuti e ricostruire la loro sequenza.
Il preventivo di spesa del 22 agosto 1829 (ARFSP, Arm. 64 , A2, 132-135 ; Monaco III-X) e la relazione di Camuccini sullo stato di conservazione del mosaico datata 3 ottobre 1829 (de Rossi 1867, 28) prevedono una spesa di oltre millecinquecento scudi per il rifacimento a mosaico dei diversi «rappezzi di intonaco dipinto e graffito», precisamente elencati nelle note mensili di pagamento dei mosaicisti (de Rossi 1867, 28; Matthiae 1967, 407; Monaco 2005-2006, XII-XXXII)
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grasse mediante pulitura con olio di tartaro (Castracane 2005 , 47 ). 1960-1964: Vanmaele ricorda un intervento, non meglio specificato, eseguito durante i lavori condotti dalla Soprintendenza nella chiesa e nel sottosuolo (Vanmaele 1965 ). 2001 -2002 : restauro condotto dalla Soprintendenza, Speciale per il polo museale di Roma, diretto da Vitaliano Tiberia ed eseguito dalla Ditta Susanna Sarmati. Il piano d'intervento e la sua esecuzione hanno dovuto fronteggiare i danni dovuti all'infiltrazione d'acqua negli strati preparatori del mosaico: forti deformazioni, il distacco delle malte, in particolare in prossimità della sua estremità sinistra, e la caduta di molte tessere (Tiberia 2003 , 144-145 ); e i problemi delle tessere, profondamente alterate da un fenomeno di lisciviazione e corrosione in prossimità delle fratture tessere (ibidem, 127 ) e coperte da un composto eterogeneo di polveri, agenti inquinanti, vecchi fissativi alterati e ridipinture a tempera (ibidem, 146) [17] .
Documentazione visiva Alfonso Ciacconio (1595 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, f. 154; Pompeo Ugonio (1580 ca. ), BAV, Barb. lat. 2160, f. 125v; BAV, Barb. lat. 4423 (1672 ), ff. 63v-64r; Antonio Eclissi (1634), WRL 9058, 9196.
Fonti e descrizioni Onofrio Panvinio (1570), BAV, Vat. lat. 6780, ff. 63 -66; Pompeo Ugonio (1580 ca. ), BAV, Barb. lat. 2160, ff. 125v; Ugonio 1588, 160-164;Joseph Marie Suarès (XVII secolo), BAV, Barb. lat. 3084 , ff. 156-172
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Il restauro iniziò il 15 luglio 1831 sotto la direzione di Camuccini e si concluse il 21 febbraio 1832. Ad eseguirlo, furono i mosaicisti Nicola Roccheggiani, Gaetano Ruspi, Carlo Gavelli, Gabriele Toscani, Filippo Marini, Francesco Fantuzzi, Frane Chek (ARFSP, Arm . 64 , A2 , ff. 136-141 , 146-147; Monaco 2005 -2006, XIIXXXII). Le numerose lacune vennero colmate con tessere musive di nuova fattura (de Rossi 1867 , 28; Matthiae 1967 , 407) [16] e le integrazioni cinquecentesche, dopo essere state copiate su cartoni a grandezza reale, furono rimosse e sostituite anch'esse con tessere (Matthiae 1967, 407). Le analisi sulle superfici musive condotte nel restauro 2001-2002 assicurano la corrispondenza fra documenti e interventi, con qualche piccolo scarto. 1937-1938: la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Lazio incaricò il restauratore Alfredo Casagrande Stano (Matthiae 193 7 1938, 418-424; 1971 , 95-113; Castracane 2005 , 41-52) del restauro del mosaico. Egli provvide al consolidamento delle superfici musive (Matthiae 1937-1938, 418) e, dopo la sua morte (31 marzo 1937 ), sarà il restauratore Fulvio Vettraino a completare l'intervento, rimuovendo la rimozione di depositi superficiali di polvere e sostanze
Bibliografia Nibby 1838, II, 677-678; de Rossi 1867, 49-60; Lefort 1874, 96100; Gerspach 1882 , 40; Costarosa 1895 , 58-67 ; de Rossi 1899, tav. X recto; Grisar 1899, 564-576; Cré 1901 , 49-76; Koheler 1931 , 167-179; Matthiae 1937 -1938, 418-425 ; Montini 1959; Ihm 1960, 12-15; Van der Meer 1965; Matthiae 1965 [1987] , 38-39; Matthiae 1967, 55-76; Oakeshott 1967, 48-50; Dassmann 1970, 67-81; CBCR 1971 , III, 303-304 ; Bovini 1971 , 95-113 ; Christe 1971 , 31-42; Christe 1972, 247-260; Christe 1974, 61-72; Kitzinger 1977 [2005] , 46-47 ; Grabar 1980, 72-73 ; Andaloro 1987 , 226-227 ; Casartelli Novelli 1987, 126-145; Hellemo 1989, 41-63 ; Schlatter 1989, 155165; Feld 1992, 253 -262 ; Schlatter 1992, 276-295; Schlatter 1995a, 64-81 ; Schlatter 1995b, 1-25; Mathews 1993 [2005], 55-61 ; Schlatter 1995 , 64-81 ; Steen 1999, 85-113 ; Wisskirchen 1999, 178192; Andaloro 2000b, 98; Calcagnini 2002 , 1919-1938; Goffredo 2002, 1949-1962; Mazzei 2002, 1894-1903 ; Steen 2002, 19391948; Bauer 2003; Tiberia 2003; Castracane 2005 ; Monaco 2005 2006; Rosini 2006.
Maria Andaloro
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LA PITTURA FUNERARIA
9. IL MOSAICO CON CRISTO-HELIOS NEL SEPOLCRO DEI GIULII NELLA NECROPOLI VATICANA Primi decenni del IV secolo
Al centro della volta del sepolcro, sul fondo oro, si staglia l'immagine di Helios all'interno di un medaglione ottagonale il cui perimetro è indicato da steli vegetali [1]. Questi fanno parte integrante del motivo a tralci vitinei che dai quattro angoli della volta si svolge su tutta la superficie della crociera, sottolineando la struttura architettonica e scendendo anche nelle lunette delle pareti. Il mosaico è stato mutilato nella zona sinistra dall'apertura di un foro nella volta riferibile agli anni della scoperta (1574 ). Helios, giovanile e imberbe, conduce la quadriga, della quale rimangono solo i due cavalli bianchi a destra e una ruota del carro; ha il volto circondato da un'aureola radiata ed è vestito di una tunica stretta in vita e di un pallio che la corsa del carro fa svolazzare al di sopra della spalla. La mano destra sostiene il globo, mentre la sinistra, oggi perduta, doveva essere rivolta con il palmo verso lo spettatore. Il volto, leggermente girato a destra, ha lo sguardo verso l'alto. Alla frontalità di Helios si contrappone la rappresentazione di profilo dei due cavalli rampanti. La decorazione musiva proseguiva nella parte superiore delle pareti senza soluzione di continuità. Le tessere del mosaico sono cadute completamente, ma restano ben leggibili, come in ampie zone della volta con il tralcio vitineo, il disegno preparatorio e le campiture cromatiche sulla malta di allettamento, che mostrano nitidamente l'impronta delle singole tessere. La campitura ad affresco ha un colore rosato, mentre il disegno preparatorio varia dal grigio chiaro al grigio scuro. I tralci vitinei delimitano, al centro di ciascuna parete, lo spazio riservato alla raffigurazione di temi isolati di connotazione cristiana: la figura del pescatore sulla parete di fondo [2], il crioforo sulla parete occidentale e l'episodio di Giona gettato in mare, in pasto al mostro marino, sulla parete orientale [3]. Il pescatore, vestito di una breve tunica che lascia scoperta una spalla (exomis) è raffigurato a destra, in piedi sulla riva, mentre sostiene la canna da pesca con la mano destra inclinando leggermente il corpo per tirare fuori dall'acqua il pesce che ha appena abboccato, mentre un altro pesce, che sta scappando, completa la composizione sul lato a sinistra. Sulla parete orientale l'episodio di Giona vede al centro due figure di marinai sulla barca, con le braccia alzate in segno di stupore, mentre assistono impotenti al momento in cui il pistrice, raffigurato come di consueto secondo l'aspetto di drago marino, ingoia Giona nelle sue fauci . Sulla parete occidentale, molto danneggiata, si riconoscono il capo e parte delle spalle della figura del Buon Pastore, identificabile per la pecora posata sulle spalle e la presenza di un altro ovino in basso a sinistra. Il registro inferiore delle pareti è decorato da pitture ad affresco che presentano motivi geometrici: su ciascun lato, sul fondo bianco dell'intonaco, sono campiti due stretti rettangoli ai lati di un rombo con un cerchio all'interno.
Note critiche Il sepolcro, noto come mausoleo M, si trova nel settore occidentale della necropoli vaticana, posta sotto alla basilica di San Pietro (Apollonj Ghetti et al. 1951 , 40; Liverani 1999b, 141). Ricavato fra i mausolei N e L, dei quali utilizza le pareti laterali, è stato edificato per ultimo, nei primi anni del III secolo. La prima segnalazione dei mosaici si deve al canonico della basilica vaticana Tiberio Alfarano, che nel 1574, nel corso di alcuni lavori per la realizzazione di un piccolo portico davanti all'altare maggiore
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dell'antica San Pietro, annota di aver rinvenuto una sepoltura con una decorazione «tutta di mosaico antiquo con figure che parevano cavalli» (Alfarano 1574 [1914] , 168). D a allora non se ne ha più alcuna notizia fino alle esplorazioni sistematiche della necropoli negli anni Quaranta del Novecento. In questa occasione sono state messe in luce l'intera struttura del sepolcro e l'insieme della decorazione (Apollonj Ghetti et al. 1951, 40). Il mausoleo, composto da una camera quadrangolare (lunghezza 1,98 metri; larghezza 1,63 metri; altezza 2 metri), ha avuto due distinte fasi. Ad una prima fase pagana, attestata dal titulus segnalato dall' Alfarano con la dedica a Iulius Tarpeanus (Alfarano 1574 [1914], 154) e dalla presenza sulla parete di fondo di una nicchia con urne cinerarie, è seguita una fase cristiana con sepolture ad inumazione (Apollonj Ghetti et al. 1951, 40). A questo momento è da riferire la decorazione musiva, che è stata collocata fra gli anni centrali del III secolo e il secondo decennio del IV, quando l'inizio dei lavori per la costruzione della basilica costantiniana comportò l'interramento di tutta l'area della necropoli e ne interruppe l'uso (317-322) (Liverani 1999b, 144; Gualandi 2000, 395 ). La decorazione costituisce una delle prime, se non la più antica, testimonianza di mosaico parietale di soggetto cristiano (Andaloro 1987, 239; Bisconti-Mazzoleni 1995, 821 -827) e propone aspetti problematici intorno ai quali la discussione è ancora aperta: il primo riguarda il significato del programma, il secondo la datazione. Relativamente all'iconografia, l'aspetto più singolare è costituito dalla presenza sulla volta della raffigurazione del dio H elios, fulcro dell'intero programma, che di per sé non ha alcuna connotazione specificatamente cristiana. Tutti gli elementi che lo caratterizzano - il nimbo radiato , il globo , la quadriga - appartengono all'iconografia della divinità pagana che ha una lunga ed ininterrotta tradizione dal mondo greco al mondo romano. A Roma il culto solare ha avuto particolare fortuna e ampia popolarità a partire dal III secolo. Dopo l'iniziativa dell'imperatore Eliogabalo (218-222 ) che, a seguito delle sue campagne in Oriente, impone la devozione per la divinità siriana Elagabal, Aureliano (270-275) promuove il culto solare soprattutto in virtù del suo carattere sincretico, funzionale a rafforzare la coesione spirituale all'interno della società romana (Kantorowicz 1963a, 143-145; Halsberghe 1976, 136). Su questa linea si muove anche Costantino nei primi anni del suo impero, tanto da far coniare solidi recanti sul diritto il suo busto appaiato con quello di Sol (Borié-Brescovié 2005, 23 7-23 8, scheda 55). Poco più tardi l'immagine della divinità solare sulla quadriga viene scolpita nel medaglione sul lato orientale dell 'arco di Costantino, allusione, insieme all'immagine della Luna nel tondo sul lato opposto, al potere dell'imperatore sugli elementi naturali (Age o/ Spirituality 1979, scheda n. 58; Liverani 2005c, 67), e in seguito sul verso delle monete, rappresentazione dell 'apoteosi dell'imperatore (33 7-340) (Amandry 2005 , 238, scheda 57). La valutazione del livello di cristianizzazione dell'iconografia nel sepolcro dei Giulii ha tenuto conto di questo quadro di riferimento, giungendo a considerazioni diverse. Accanto a chi ha sostenuto con certezza il significato cristiano (Apollonj Ghetti et al. 1951 , 40; Perler 1953 ; Murray 1981 , 64-97) , altri sono giunti a negarlo del tutto (Griffits 1956-1957, 140-142; Testini 1979, 438-439) , o ad esprimere dei dubbi (Klauser 1956, 38; Id. 1967, 107-109). In un primo tempo è stata individuata nell'iconografia del Sol Salutis una generica allusione cristologica, sulla scia degli studi di
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Dolger (Dolger 1920; Kirschbaum 1924, 31-39). In seguito sono prevalse interpretazioni che hanno cercato di ricondurre ad un programma specificatamente cristiano tutti gli elementi del sepolcro sulla base di complesse e sofisticate letture. Perler identificava in Helios Cristo nel momento della Resurrezione, mentre trionfa sulla morte risorgendo dall'Ade e leggeva l'intero programma come allegoria dei sacramenti, incentrata intorno al mistero battesimale della Pasqua (Perler 1953 ). In quest'ottica riconduceva ogni singolo elemento ad un preciso significato cristiano: interpretava i raggi dell'aureola come riferimento ai bracci della
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croce, il pescatore sulla parete di fondo come raffigurazione del Battesimo, inizio del percorso di salvazione dell'umanità, all'interno del quale Giona gettato dal pistrice, sulla parete orientale, e il Buon Pastore, sulla parete d'ingresso, costituivano il riferimento ad altre tappe. De Bruyne, invece, sottolineando le forzature di una simile interpretazione delle scene e richiamando all'aderenza al testo figurativo , leggeva nella figura di Helios Cristo già glorificato che indica la salvezza eterna (De Bruyne 1953, 283-285). In seguito Murray, sulla base dei testi patristici e in particolare del Protrepticus di Clemente Alessandrino (Murray 1981 , 64-97 ),
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ha proposto di vedere nel programma la celebrazione della superiorità di Cristo sulle divinità pagane, in particolare su Dioniso, al quale vi sarebbe una chiara allusione attraverso la vite, e sullo stesso Helios. Ogni singolo elemento avrebbe un preciso significato simbolico; ad esempio l' assenza di grappoli nel tralcio di vite starebbe ad indicare la diversità fra i misteri dionisiaci, falsa religione, e la fede cristiana. Accanto a queste letture indirizzate a cercare significati chiari e univoci si è avviata una riflessione che, sulla linea inaugurata da Klauser, considera le immagini del sepolcro dei Giulii il prodotto
di un momento ancora 'sperimentale' (Klauser 1956, 38; Id. 1967, 107-109) , negli anni in cui si è solo all'inizio dell'elaborazione di coerenti programmi figurativi cristiani e non si è ancora svincolati del tutto da una sorta di sincretismo, 'ponte' fra la religiosità pagana e quella cristiana (Klauser 1956, 38). Non vi è dubbio che nel sepolcro sia solo il contesto - ossia l'insieme degli elementi pescatore, Giona, Buon Pastore, tralcio vitineo - ad offrire la chiave di lettura del significato della figura di Helios e che solo l'episodio di Giona ne provi, senza margini di dubbio, la cristianità (Klauser 1967, 38; de Maria 2000b, 387 ).
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D'altro canto i testi del Vecchio e del Nuovo Testamento offrivano molteplici spunti per identificare Cristo come «sole di giustizia» (Ml 3, 20), «vera luce che guida gli uomini verso la salvezza» (Is 9, 2; Mt 4, 16; Mt 5, 45), «luce che allontana le tenebre» (2 Cor 4, 5-6). Clemente Alessandrino, nella sua concezione escatologica, giunge a far cenno alla quadriga in relazione all'ingresso trionfale della cristianità in cielo (Protrepticus, XII, 121, 1). La decorazione del sepolcro dei Giulii è il prodotto di una committenza colta, di elevato livello sociale, che si muove in un orizzonte figurativo eterogeneo, caratterizzato dall'apprezzamento dei modelli della cultura classica, ma anche da una loro utilizzazione in chiave simbolica che va caricandosi di significati cristiani (de Maria 2000b, 389). Siamo di fronte ad una serie di immagini non solo il Cristo Helios, ma anche il crioforo e il pescatore - che traggono la loro origine dalla cosmologia pagana, dove indicano gli elementi naturali. Solo la loro giustapposizione dà ad esse una connotazione in chiave cristiana. È la stessa concezione che informa le raffigurazioni su una serie di sarcofagi di produzione romana detti 'paradisiaci', databili a partire dalla metà del III secolo, come il sarcofago di Basilea, di La Gayolle, di Santa Maria Antigua, di Velletri, nei quali la figura del filosofo, del crioforo, dell'orante, di Giona, del pescatore, si situano in paesaggi naturali (Age o/ Spirituality 1979, figg. 369-371). Ed è una concezione che perdura fino al IV secolo e viene rispecchiata dal programma del pavimento musivo della cattedrale di Aquileia, dove la storia di Giona e la figura del Buon Pastore sono calati ancora in un contesto paradisiaco (Biscanti 2000c, 23). In questa linea, contrassegnata da un margine di indefinitezza, si pone anche l'immagine del Cristo-Helios. Ritroviamo un'iconografia simile nella cripta del Tricliniarca nella catacomba dei Santi Marcellino e Pietro, abbinata alle storie di Giona disposte sulle pareti, in un nesso analogo a quanto avviene nel sepolcro dei Giulii. In questo caso, secondo alcuni la figura sulla quadriga rappresenta Helios (Dorigo 1966, 111, fig . 80), secondo altri invece il profeta Elia (Deckers et al. 1987, 267), come accade più tardi nel cubicolo B di Via Latina o nel mosaico del Sacello di Sant' Aquilino a Milano. La datazione dei mosaici del sepolcro dei Giulii non può andare, come si è già detto, oltre l'inizio dei lavori per la fondazione della basilica costantiniana. Ma, anticipando questo termine, le proposte sono varie e partono da considerazioni diverse a proposito dell 'elaborazione del programma figurativo e degli elementi stilistici. Le datazioni suggerite oscillano nell'arco compreso fra il quarto decennio del III secolo (Testini 1966, 308), la metà del III secolo (Dorigo 1966, 111; Sear 1977 , 127-128; Biscanti 1994, 53 -54; de Maria 2000b, 387) , la seconda metà del III (Cecchelli 1952, 210, nota 235) , con una preferenza agli anni 270-280 (Broccoli 1980, 200) , la fine del III secolo (Bovini 1971, 6-7) e, infine, un'indicazione all'epoca precostantiniana, fra fine III e l'inizio del IV (Klauser 1956, 36; Age o/ Spirituality 1979, 523; Brandenburg 2004c, 95). Se il carattere ancora sperimentale del programma indirizza a sostenere una datazione alta, gli elementi stilistici, che presentano una resa sintetica ed essenziale delle figure , quale si afferma nel
IV secolo, orientano verso una probabile collocazione in epoca precostantiniana o ai primi anni dell'impero di Costantino. Alcune soluzioni simili sono proposte nei mosaici del Mausoleo di Costantina, edificio a destinazione funeraria, al pari del sepolcro dei Giulii. Già il Galassi segnalava come nei mosaici delle volte dell'ambulacro il tralcio di vite contorni lo spazio nel quale sono posti i ritratti in un modo che appare geneticamente legato al sepolcro (Galassi 1953 , II, 345). Ma nel Mausoleo di Costantina è da segnalare anche la compresenza di elementi vitinei nei mosaici delle volte dell'ambulacro, elementi fluviali nella cupola centrale, e dell'oculo, aperto al centro della volta, che potrebbe essere in relazione all'elemento simbolico della luce solare (- la, ld). Un aspetto che rende il mosaico del sepolcro dei Giulii di particolare interesse è la presenza in ampie zone di campiture cromatiche e del disegno preparatorio, che dopo la pulitura, eseguita durante il restauro svolto fra il 1998-1999, sono leggibili con particolare chiarezza. Questi documentano una prassi esecutiva comune durante l'arco di tutto il medioevo che è stato possibile accertare su una serie di altri casi, dai mosaici delle catacombe (Giuliani 1997, 791798), ai mosaici parietali di epoche successive (Andaloro 1987, 5570; Pogliani 2002). Il disegno preparatorio è estremamente preciso e dettagliato anche nell'indicazione delle tonalità di colore (verde chiaro-verde scuro) per le foglie della vite e del tralcio. Il mosaico si distingue per le dimensioni estremamente ridotte delle tessere, circa 8 millimetri per lato, scelta che potrebbe anche derivare, dato lo spazio angusto del sepolcro, dal punto di vista ravvicinato dal quale è visibile la decorazione della volta (Dorigo 1966, 114).
Interventi conservativi e restauri 1998-1999: l'intera decorazione musiva e pittorica del sepolcro è stata restaurata nel corso della campagna di lavori di risanamento ambientale e valorizzazione della necropoli vaticana promossi dalla Fabbrica di San Pietro (Zander 1999).
Fonti e descrizioni Alfarano 1574 [1914] , 154, 168.
Bibliografia Apollonj Ghetti et al. 1951 , 32-42 , tavv. X-XII; Galassi 1953 , II, 345; Marrou 1953, 3305; Perler 1953; Bruyne 1955, 283-285; Klauser 1956, 107-109, tavv. 7-9; Toynbee-Ward Perkins 1956, 72-74 , 116-117; Griffits 1956-1957, 140-142; Kautorovicz 1963a, 163-165; Matthiae 1965 [1987], 34; Dorigo 1966, 110-114, fig. 79; Testini 1966, 308, fig. 196; Klauser 1967 , 102-103; Matthiae 1967, 21 ; Oakeshott 1967 , 59-60; Bovini 1971, 6-7 ; Kirschbaum 1974, 31-39; Sear 1977 , 127-128, tav. 53 ; Age o/ Spirituality 1979, nn. 467 , 522-523 ; Testini 1979, 438-439; Broccoli 1980, 74-75; Giordani 1981 , 71-90; Murray 1981 , 64-97; Andaloro 1987, 239240; Biscanti 1994 , 52-53; Bisconti-Mazzoleni 1995, 821-827; Bizzarro 1999, 26-37 ; Liverani 1999b, 141 ; Zander 1999, 75-77 ; Biscanti 2000c, 156-158; de Maria 2000b, 385-396; Gualandi 2000, 395; Brandenburg 2004c, 94-95, fig. 45 ; Zander 2002 , 50-51.
Marza Raffaella Menna
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SEPOLCRO DEI GIULII NELLA NECROPOLI VATICANA
10. STORIE DI PATRIARCHI DEL CUBICOLO B NELL'IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI Metà del IV secolo Posto al temine della galleria principale dell'ipogeo, il cubicolo B si presenta subito in forme particolarmente singolari, preannunciato da un prospetto monumentale costituito da un timpano triangolare su due colonne che inquadrano un andito d'ingresso arcuato; le pareti del vano di accesso sono decorate con due riquadri per lato, campiti, quello superiore, da due eroti alati, quello inferiore, da un cantaro. La pianta sostanzialmente quadrangolare dell'ambiente è articolata da quattro colonne angolari dipinte a marmoridea (breccia rossa) , da cui si dipartono i costoloni della volta a crociera, che si congiungono in un disco centrale, il tutto decorato in stucco con motivi vegetali. Le pareti culminano in un timpano triangolare con cornice decorata a stucco con volute, sorretto da tre mensole decorate anch'esse con analogo motivo in stucco; la parete sudoccidentale è perforata da un ampio arco che immette nel cubicolo adiacente C, mentre le due pareti laterali accolgono arcosoli doppi [1, 2]. La decorazione ad affresco si dispiega sull'intera superficie parietale, anche se fortemente compromessa da un precario stato conservativo. Sulla volta, all'interno degli spicchi della crociera, si profilavano
quattro campi trapezoidali marcati in rosso, che inquadravano altrettante figurazioni (Ferma 1960b): rimangono, parzialmente visibili, il riquadro anteriore in cui è stata riconosciuta la scena di Rahab che mette in salvo gli esploratori (Gs 2, 15) , resa con un personaggio femminile che, affacciandosi ad una finestra, cala con una corda un grande cesto da cui sporgono i busti di due personaggi virili; il riquadro sudoccidentale, che ospita la scena di Assalonne pendente dalla quercia (2 Re 18, 9), ovvero un personaggio virile in clamide e scudo umbonato a stella sospeso al ramo di un albero tramite una corda e, sulla destra, un cavallo con sella vuota che si allontana; nel riquadro posteriore si distingue esclusivamente una figura femminile stante con resti di un personaggio virile che le prende la mano, mentre, nel riquadro nordorientale, si può intuire la scena della Lotta tra Sansone ed il leone nemeo (Gdc 14, 5-9), in quanto restano i piedi di un personaggio affrontati alle zampe posteriori ed alla coda di un felino. La parete dell'ingresso è suddivisa in due settori per lato [3 , 4]: nei due rettangoli inferiori si trova un cantaro da cui zampilla l'acqua e due palme ricurve verso il centro da cui pendono frutti rossi; nel
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rettangolo soprastante del lato a nord, un possente personaggio virile stante, abbigliato con lorica, calzari, cingolo e clamide, sostiene con la sinistra una lunga spada alla cui estremità si trovano infilzati due corpi, uno maschile e l'altro femminile , in tunica; alla destra del personaggio e da lui indicata, si trova una struttura trapezoidale dipinta in rosso, identificata come il letto insanguinato in cui giacevano Cozbi e Zamri prima di essere colpiti da Finees, secondo il passo veterotestamentario tratto dal libro dei Numeri 25, 6-8 (Ferma 1957 1958, 1959-1960) . Sul lato opposto, in un analogo riquadro , è raffigurato un giovane stante, seminudo ma con ampio copricapo, volto verso sinistra, che con la destra tiene sollevato un grosso pesce, mentre con la sinistra sostiene un cesto, identificato con il personaggio biblico di Tobiolo, secondo Tb 6, 2-4. La fronte esterna della parete sudoccidentale [1] conserva, nel triangolo interno del timpano, un grosso volatile di colore rosso scuro inserito in un paesaggio campestre; altre due raffigurazioni zoomorfe sono dipinte nello spazio tra le mensole del timpano , mentre due vittorie alate si librano ai lati dell'arcosolio ed al di sotto di quest'ultime si profilano, da un lato e dall'altro, due palme dattilifere, il tutto reso in vari toni di rosso; sul parapetto dell'arcosolio si dispone, invece, una più articolata scena campestre, con tre pecore ed una capra e, nel centro, un albero con accanto un vaso.
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L'intradosso più esterno dell 'arcosolio doppio è suddiviso in quattro settori: nel primo settore in alto a sinistra è raffigurata la scena dell'Incontro di Giuseppe, abbigliato con tunica clavata e àlto copricapo, seduto su di un trono su alto podio, con i suoi fratelli, raffigurati come un gruppo di personaggi in abito da viaggio, resi in modulo minore, il tutto ambientato in un palmizio che connota la terra d 'Egitto (Gen 42 , 6-8 ). Nel riquadro sottostante, un personaggio femminile , completamente avvolto nella palla e assiso in un canneto, osserva tre figure femminili, rese in modulo minore e di cui la prima riccamente abbigliata con una tunica ricamata, che si avvicinano alla sponda di un fiume in cui galleggia una cesta che contiene un bambino, secondo una composizione che rimanda all'episodio biblico di Mosè salvato dalle acque (Es 2, 1-6). Nel settore di destra, in alto , si vede la scena della Cacciata di Adamo ed Eva dell'Eden (Gen 3, 21-23): grandi alberi si profilano alle spalle di un personaggio virile stante, abbigliato in tunica e pallio, barbato e dalle fattez ze di uomo anziano, che sospinge con la destra, attraverso un arco realizzato in possente muratura di conci lapidei, due personaggi, abbigliati con pelli animali. Nel settore inferiore, ancora i protoparenti, nel medesimo abbigliamento, che mestamente si portano la mano destra al mento , mentre siedono su uno sperone roccioso; al loro
fianco, in una ambientazione campestre, avanzano Abele, abbigliato in tunica e pallio, con un ovino tra le braccia e Caino, in tunica corta e mantello che pende dal braccio, con un fascio di spighe tra le mani (Gen 4 , 3-4) . L'imboccatura esterna dell'arcosolio più interno è decorata lungo l'arco con un motivo a ghirlande stilizzate in colore rosso ; l'intradosso dell 'arco è organizzato in due bassi riquadri nei piedritti, in cui sono raffigurati dei volatili in un paesaggio campestre, e in due riquadri di maggiori dimensioni che ospitano, quello di sinistra, la scena di Sansone che libera le volpi nei campi dei Filistei (Gdc 15 , 4-5 ), con l'eroe reso come un personaggio barbato, in tunica e pallio, che con la destra incita tre volpi lanciate in corsa, mentre sulla destra si vede la gabbia in cui erano custodite; nel riquadro di destra, la scena di Lot, in tunica e pallio, barbato e anziano , che tiene per mano , con la sinistra, una fanciulla in dalmatica, mentre una seconda figura femminile , in dalmatica rossa , si trova alla sua destra , con il capo rivolto verso sinistra, dove, sul fondo , a destra, si vedono le mura urbiche di Sodoma avvolte dalle fiamme (Gen 29 , 15-26). La lunetta di fondo è occupata da una scena resa in prospettiva a volo d 'uccello: sulla destra si erge il blocco compatto di una città racchiusa tra possenti mura, lambita, in basso, da un fiume in cui nuotano numerosi pesci; dalla sinistra giungono tre carri a due ruote trainati da una coppia di buoi, che trasportano in tutto sette personaggi, con cui sono compendiate le sette tribù di Israele, guidate da Giacobbe, al loro arrivo in Egitto (Gen 46, 5-27 ). Il fronte esterno della parete nord orientale [2] replica sostanzialmente la decorazione della parete di fronte , con la sola variante per il parapetto dell'arcosolio dove rimangono soltanto, a causa della perdita di gran parte della superficie decorata, due bovini accosciati a terra. L'intradosso dell'arcosolio esterno è organizzato in quattro settori: nel riquadro in alto a sinistra sono raffigurati i due Sogni di Giuseppe (Gen 3 7, 5-10); nella zona inferiore del riquadro , il personaggio principale è replicato specularmente, disteso su di un letto in aperta campagna, con gli occhi aperti; al di sopra, a sinistra, si vedono le personificazioni a mezzo busto della Luna e del Sole, a destra, si trovano nove covoni, di cui soltanto tre ritti. Nel settore sottostante, un uomo anziano, barbato e in tunica e pallio, giace coricato su di un letto, mentre incrocia le braccia imponendole sui capi di due fanciulli, in tunica e pallio, che discutono tra di loro, secondo la raffigurazione della Benedizione impartita da Giacobbe ai due figli di Giuseppe, E/ raim e Manasse (Gen 48). Sul lato destro, in alto, si svolge la Visione di Mambre (Gen 18, 1-8): Abramo, anziano, barbato e in tunica e pallio, è assiso su uno sperone roccioso e tiene il braccio destro sollevato nel gesto della parola; accanto a lui pascola un ovino, mentre, su un ripiano leggermente elevato, si dispongono tre personaggi giovanili in tunica e pallio che sembrano rivolgergli un discorso. Nel riquadro sottostante, separato da una cornice con un tralcio fiorito, si svolge la scena della Visione di Bethel (Gen 28, 10-13 ). Giacobbe, semirecubente, avvolto nel pallio e poggiato ad uno sperone roccioso, volge il capo verso due personaggi giovanili, in tunica e pallio, che percorrono una scala, la cui sommità si perde tra le nuvole. Il fronte dell 'arcosolio interno è contornato, lungo il margine dell'arco, da un kymation e da due volatili affrontati__ad un vaso su esile piedistallo, nel parapetto. I piedritti dell'intradosso sono decorati con due scene bucoliche composte da alcuni volatili immersi nella vegetazione, mentre il sottarco è decorato con due ulteriori scene veterotestamentarie: a sinistra il profeta Balaam incita con un bastone la sua cavalcatura che si è bloccata alla vista di un personaggio, barbato e in tunica e pallio, che gli si pone di fronte brandendo una spada (Nm 22, 21-23 ); nel riquadro a destra,
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in un paesaggio campestre, Isacco giace sul suo letto e più in basso si vede, a sinistra, Giacobbe, in tunica e p allio, che stringe tra le braccia un capretto, a destra, Esaù, in tunica succinta, alicula e gambali, che si allontana stringendo tra le mani un arco e un bastone (Gen 27, 1-22 ). Nella lunetta di fondo si svolge una scena piuttosto articolata: in una ambientazione campestre, un personaggio in tunica corta e discinta siede su una roccia con accanto un aratro e due buoi; sulla sinistra, in prossimità di un alto sperone roccioso da cui sgorga dell 'acqua , si trova un personaggio virile dalle fattezze di uomo anziano , vestito di pelli, che tiene il capo e le braccia sollevate verso l'alto dove si scorge un uomo, in tunica e pallio, seduto su di una quadriga , che gli porge con la mano destra un mantello (2 Re 2, 9-14 ). La parete di fondo, attraverso cui si accede al cubicolo adiacente, presenta sulla fronte la medesima decorazione con vittorie alate e palme fruttifere presente sulle altre due pareti, mentre, nello spazio triangolare del timpano , rimangono scarse tracce di una pittura interpretata come Noè nel!'arca (Gen 8, 13 ).
Note critiche Sin dal momento della scoperta dell'ipogeo, avvenuta alla metà degli anni '50 del Novecento, l'aspetto che maggiormente ha stimolato la discussione scientifica riguardo al programma decorativo del cubicolo B è stato non tanto l'indiscussa interpretazione delle scene fornita da Ferma nell' editio princeps del monumento (Ferma 1960b), quanto , piuttosto, il notevole ampliamento del repertorio iconografico che qui si registra, con una esclusiva preferenza per i temi veterotestamentari. La ricerca di una spiegazione plausibile al fenomeno dell'introduzione di un numero così ampio di nuove scene tratte principalmente dai Libri della Genesi, Numeri, 2 Re e Giudici ha portato, sin da subito, gli studiosi ad orientarsi verso una committenza di area
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giudeo-cristiana (Nordstron 1959; Cagiano de Azevedo 1972; Stemberger 197 4; Conde Guerri 1994) e ad individuare nella scelta delle immagini una logica unitaria dimostrando, di volta in volta, o un intento ciclico-narrativo che evidenziasse la preferenza per la casa di Giacobbe, o un più generale discorso sulla misericordia divina rivolta verso il giusto e di giustizia verso gli empi. Il secondo aspetto indagato, parzialmente collegato con la tipologia della committenza, ha riguardato l'individuazione delle fonti da cui gli artz/ices hanno tratto i modelli iconografici delle nuove scene, che si presentano già perfettamente mature dal punto di vista compositivo. Il ricorso ad ipotetiche Bibbie miniate o a testi illustrati di area rabbinica è quindi sembrata la soluzione più convincente (Weitzmann 1975), così come è stato proposto, ad esempio, anche dallo stesso padre Ferma per l'interpretazione della scena dello Zelo di Finees (Ferma 1957-1958, 1959-1960). Il richiamo a fonti miniate, comunque, non può che rimanere valido soltanto in via di ipotesi, non avendo la possibilità di proporre confronti se non con esempi molto lontani sia dal punto di vista cronologico sia riguardo alla resa delle scene stesse. È pur vero, però, che alcune scene, in particolare gli episodi realizzati nelle lunette di fondo dei due arcosoli, presentano caratteri particolari quali, ad esempio, le descrittive connotazioni ambientali, che risultano piuttosto anomale rispetto alla essenzialità costitutiva delle composizioni più tipiche dell'arte catacombale. Ipotesi alternative sono impostate sul confronto con altre classi artistiche, quali la scultura e la decorazione degli edifici di culto del sopratterra, all'interno delle quali è più immediato il riscontro almeno per un certo numero di scene: sulle fronti dei sarcofagi, prevalentemente della fine del IV secolo, si ritrovano le scene della Cacciata dall'Eden, della Fuga di Lot da Sodoma, della Visione di Bethel, della Benedizione di E/raim e Manasse, del Passaggio del Mar Rosso, della Colonna di/uoco , della Consegna della legge e di Balaam fermato dall'angelo, anche se nella resa di questi soggetti si possono osservare alcune varianti determinate o da fenomeni di adattamento al differente mezzo espressivo o da una diversa fonte d'ispirazione; nell'arte monumentale vengono trattati gli episodi di Rahab, della Visione di Mambre, della Cena di Isacco, dei Sogni di Giuseppe e quello dei fratelli, dell'Arrivo in Egitto, di Mosè salvato dalle acque, di Sansone che strozza il leone e quello delle Volpi nei campi dei Filistei, di Assalonne, di Adamo ed Eva mesti con l'offerta di Abele e Caino, soggetti dipinti in edifici della fine del IV secolo e del principio del V, come si apprende anche, per ciò che non è giunto sino a noi, dal Dittochaeon di Prudenzio, dai Tituli historiarum di Ambrogio e dalle descrizioni di Paolino di Nola (Pillinger 1980; Ruggiero 1990). Anche in questo caso, quindi, lo scoglio principale
è costituito dalla cronologia relativa delle differenti testimonianze, che non permette di istituire discendenze dirette, se si mantiene per l'ipogeo di via Dino Compagni una datazione prevalentemente fissata, al massimo, alla metà del secolo IV (Ferrua 1960b; Kollwitz 1969; Schumacher 1971). La tendenza più recente, però, segnala un avanzamento del termine ultimo per la realizzazione delle pitture del complesso ipogeo, avvicinandole sensibilmente alle manifestazioni dell'arte del periodo teodosiano, epoca in cui si registra sia un arricchimento del repertorio iconografico per quanto attiene la plastica funeraria, sia la formazione dei primi complessi decorativi delle aule di culto che prevedono un ampio impiego delle storie della Bibbia (Biscanti 2003b). L'aggancio del programma figurativo del cubicolo B al fecondo periodo teodosiano (Bianchi Bandinelli 197 O; Kitzinger 197 6) permetterebbe di smorzare lievemente la potente innovazione attribuita a questo monumento pittorico, che, per altri versi, risente ancora della più consueta tradizione pittorica catacombale, soprattutto se osservato dal punto di vista della logica distributiva delle scene relative al racconto biblico, in quanto si mantiene vivo il criterio della giustapposizione, della frammentarietà e della non consequenzialità delle storie dei Patriarchi, che diverrà canonico soltanto con i primi programmi coevi o appena successivi delle grandi basiliche.
Interventi conservativi e restauri 1996: il cubicolo B dell'ipogeo di via Dino Compagni è stato sottoposto ad un integrale intervento di conservazione, che ha riguardato, principalmente, il consolidamento dei distacchi del supporto pittorico ed una delicata quanto ardua azione di pulitura delle superfici intonacate, offuscate da una, parzialmente irreversibile, concrezione carbonatica di colore scuro. La relazione tecnica dell'intervento di restauro è conservata presso gli APCAS.
Documentazione visiva Campagne fotografiche realizzate nel 1956 e nel 1996, conservate presso gli APCAS.
Bibliografia Ferma 1957-1958, 1959-1960; Nordstron 1959; Ferma 1960b; Kollwitz 1969; Bianchi Bandinelli 1970; Cagiano de Azevedo 1972; Stemberger 1974; Weitzmann 1975; Kitzinger 1976; Pillinger 1980; Ruggiero 1990; Conde Guerri 1994; Bisconti 2003b.
Barbara Mazzei
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11. DIPINTI DELLA CATACOMBA DEI SANTI MARCELLINO E PIETRO
1 la. LA VERGINE CON DUE MAGI NEL CUBICOLO 69 Prima metà del IV secolo
La decorazione pittorica della lunetta è divisa da due bande rosse verticali in tre parti [1]: in quella centrale è campita la scena principale con la Madonna tra i due magi che recano i doni, mentre le due porzioni laterali, più piccole e asimmetriche, sono vuote, ornate da motivi di colore verde a forma di "T" - «T-/ormiges Gebilde» - che nella loro angolosa irregolarità sembrano eludere la rigida geometria tripartita della composizione (Deckers et al. 1987, 325; Dorsch-Seeliger 2000, 132-133). Questi elementi si ritrovano anche nella porzione di parete sovrastante l'arcosolio, accanto alla raffigurazione di Noè nell'Arca e a quella del Miracolo
della /onte. Al centro della lunetta Maria siede sulla cattedra in posizione semifrontale, voltata verso la sua destra: indossa un'ampia tunica clavata bianca, lunga fino alle caviglie; i capelli ricci sono raccolti dietro la nuca e ornati da un nastro, visibile tra le pieghe del velo che ricade, a sbuffo, dietro le spalle. La Vergine tiene in grembo il Bambino, di minuscole proporzioni, reggendolo con il braccio sinistro e assicurandolo al petto con la mano destra. Il Figlio dirige lo sguardo nella medesima direzione della madre, verso il mago che si fa loro incontro, sulla sinistra della lunetta, mentre dalla parte opposta e speculare si avvicina il secondo dei due magi, la cui figura si è conservata solo dalla cinta in su, mentre la parte bassa è completamente perduta a causa della caduta di una grande porzione di intonaco. I magi calzano il berretto frigio e indossano il costume persiano, con tunica manicata cinta alla vita, corto mantello e i tipici calzoni, gli anaxyrides; reggono sulle mani due grandi piatti di forma ovale. Le figure si stagliano su uno sfondo neutro e poggiano sopra una striscia di prato verde di poco inclinata sulla sinistra, a simulare un lieve pendio del suolo.
Note critiche Nello schema iconografico tradizionale dell'Adorazione dei magi le figure dei magi sono quattro o, più frequentemente , tre; la Vergine, seduta con il Bambino, è raffigurata il più delle volte non al centro, ma sul lato destro , come sulla volta del cubicolo A nella catacomba di Via Latina (--> 16), e nel sottarco di un cubicolo del Coemeterium Maius (Nes tori 1975 [1993], 34 n. 12; Ferrua 1990, 41) . Tre sono i magi nel mosaico dell 'arco trionfale di Santa Maria Maggiore, primo 'luogo' dello sviluppo del tema dell'Adorazione in ambito monumentale, dove le figure non sono di profilo, come di consueto, ma si dispongono due alla sinistra di Maria, mentre la terza, sul lato opposto, indica la stella, in una traduzione sincretica di tematiche cristologiche (--> 41b .2) . La raffigurazione di due soli magi è eccezionale e in ambito cimiteriale ricorre solo nella catacomba dei Santi Marcellino e Pietro. Qui, nel cubicolo 17 , l'Adorazione (N es tori 1975 [1993], 35 n. 17 ) è dipinta in un riquadro laterale della volta e seguita dall'A nnunciazione, dalla Profezia (con due magi che indicano la stella) e dal Battesimo, mentre al centro è rappresentato il Collegio apostolico (Biscanti 2002 , 87). Secondo Wilpert, l'Adorazione del cubicolo 17 e quella del cubicolo 69, sarebbero riconducibili ali' attività di un medesimo pictor, poiché
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«le figure si assomigliano perfettamente, però la disposizione ne è differente»: infatti, nella prima, Maria e il Figlio sono raffigurati di profilo all'estremità del riquadro, mentre nella seconda la Vergine è frontale (Wilpert 1891a, tavv. I-IV; Id. 1903 , 178 ). L'altra scena di Adorazione con due figure di magi è campita al centro della volta del cubicolo dell 'Epifania, dove nei riquadri laterali corrono le storie di Giona e dei miracoli di Cristo (Nestori 1975 [1993 ] , 54 n. 34 ). La pittura, pur presentando un grado di consunzione tale da renderne difficoltosa, ad oggi, la lettura, sembra mostrare, in alcuni dettagli, una certa affinità con la scena del cubicolo 69: nella posizione del mago all'estrema destra, raffigurato con la gamba in avanti nel movimento del passo, nel modo in cui Maria tiene in grembo il Bambino - che anche qui è più piccolo rispetto alle altre figure - e, in particolare, in quella identica «attitudine della Madonna a stare seduta con il piede destro avanzato», già notata da Kirsch (Kirsch 193 3, 19-20). Anche nel cubicolo dell'Epifania, come nel cubicolo 17, la Vergine e il Figlio sono raffigurati di profilo sulla destra e non al centro della composizione; unica ed eccezionale la collocazione della scena nello spazio centrale della volta. Nell'Adorazione del cubicolo 69, la scelta di raffigurare due soli magi deriverebbe, secondo alcuni studiosi, dalla forma stessa della lunetta. Lo spazio a disposizione ne avrebbe determinato l'impianto compositivo ed il relativo 'taglio' delle due figure (Wilpert 1903 , 17 6; Leclercq 1931, 996) . Tuttavia tale tesi non sembra convincente, considerando che l'Adorazione non occupa per intero lo spazio della lunetta, dal momento che lascia 'figurativamente' vuoti i due campi laterali. Le figure , nella loro imponenza, abitano lo spazio della lunetta in modo esclusivo e totale, e quasi in una sferzata realistica sembrano sporgere al di là della superficie, come si nota nel particolare del mantello del mago di sinistra, che dando il senso dell'incedere della figura , si apre, ed il suo lembo va a sfiorare la banda rossa che incornicia la scena. Alle tre scene con l'Adorazione dei magi nei Santi Marcellino e Pietro è stato destinato uno spazio strategico: la volta o la lunetta dell'arcosolio principale del cubicolo, a testimoniare l'importanza che questa iconografia assume nei primi decenni del IV secolo. Nessun attributo imperiale connota la figura della Vergine e del Bambino, raffigurato in grembo alla Madre in atteggiamento infantile, e affatto ieratico . E tuttavia la scelta dell 'Adorazione come momento privilegiato dell'In/antia Salvatoris sembra sottesa al riconoscimento di Cristo come nuova divinità, in veste di «supermagician» piuttosto che di «emperor» (Mathews 1993, 85), cui spettano poteri sovrannaturali e supremi, in accordo con la visione di Origene, quando improvvisamente «si manifestò la falsità della magia e si spezzarono tutti i poteri» (Origene, Contra Celso, I, 60). Lo stile che caratterizza le figure è molto sciolto, a tratti quasi 'acquerellato' nella velocità del tocco pittorico: «Le superfici e i colori hanno perso la loro compatte'zza, loro riempiono a forma di macchia i liberi profili delle figure» (Kollowitz 1969, 61). Il volto della Vergine è costruito con linee essenziali che ne ritagliano i contorni marcati e semplici; la dimensione realistica , nella definizione dei dettagli, sembra coniugarsi sapientemente con un
incipit astratto, ben riassunto in quei brevi e rapidi tratti che ne definiscono i lineamenti. Il carattere di queste pitture è affine a quello delle scene dipinte nell'arcosolio del cubicolo di Nicerus (- llb), nello stile, nella resa plastica delle figure e nell'elaborazione di uno schema compositivo molto simile, caratterizzato dall'elegante suddivisione delle raffigurazioni entro cornici rosse, su fondo bianco, dove si dispongono i motivi geometrici verdi, che riempiono, ornandolo, lo spazio pittorico. Anche per il programma iconografico, il rimando è alle pitture del cubicolo di Nicerus, per l'accostamento di una scena del Vecchio Testamento a tre del Nuovo nella parete sovrastante l'arcosolio; per entrambe le decorazioni pittoriche è stata proposta una cronologia che si colloca tra il primo e il secondo quarto del IV secolo (Deckers et al. 1987, 328; Zimmermann 2002 , 215 ).
Documentazione visiva Garrucci 1873-1881 , III, tav. 58, 2; Henry Parker, fotografia (1870), Fototeca Unione: n. 2116; Wilpert 1891a, tavv. III, IV, V; Id. 1903, tav. 60.
Bibliografia Wilpert 1891a, 2, 6, 21 , 24; Wilpert 1903 , 177-178; Keher 1909, 11 -1 8, tav. 1; Kirsch 1932, 20; Leclercq 1931 , 996; Vezin 1950, 41-48; De Bruyne 1969, 159-214; Kollowitz 1969, 59-62; Thi.immel 1969, 62; Petrassi 1971 , 16-2 1; Nestori 1975 [1993], 61-63; Deckers 1983 , 26-36; Deckers et al. 1987, 324-329; Guyon 1987, 80; Scorza Barcellona 1988, 2065-2068; Février 1989, 120-123; Deckers 1992, 217-238; Dorsch-Seeliger 2000, 132-133; Massara 2000b, 205-211 ; Zimmermann 2002 , 215.
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llb . TRE SCENE DI MIRACOLI NEL CUBICOLO 65 DETTO DI NICERUS Prima metà del IV secolo
Tre scene di miracolo, che hanno come protagonista una figura femminile , caratterizzano l'arcosolio di fronte all 'ingresso del cubicolo detto 'di Nicerus' (Nestori 1975 [1993] , 60 n. 65 ). Nella lunetta è rappresentata la G uarigione del!' em orroissa [2], nel sottarco, a destra, la scena della Samaritana al pozzo, a sinistra, quella della Mulier inclinata mentre al centro campeggia una figura di orante velata. La scena dell'emorroissa [3] è campita entro una cornice rossa su un fondo bianco, ali' esterno del riquadro corrono, senza alcun ordine preciso e in funzione esclusivamente decorativa, delle brevi linee ,di colore verde, ora rette, ora curve a forma di angolo acuto, così çome si vedono anche nell'arcosolio 69 (- lla), ma rispetto a queste, sono distribuite sulla superficie in modo meno asimmetrico ed irregolare. Ai lati sono dipinti due identici motivi composti da t'ralci sottili che si dipartono da una sfera blu contornata di rosso, sulla quale spicca il pavone che fa la ruota. Cristo incede verso'·destra in direzione opposta rispetto alla figura femminile; è abbigli~to con tunica clavata e pallio ed ha un aspetto giovanile, come iielle altre due scene del sottarco. Ai suoi piedi è inginocchiata la figura dell'emorroissa, che indossa la dalmatica ed ha il capo coperto dal lungo velo che, nel ricadere, le cela la mano sinistra portata al viso; la donna trattiene, sulla punta delle dita della mano destra, un sottilissimo lembo di stoffa, che pare si stia sfilando dalla veste di Cristo. Le figure
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poggiano su una fascia di terreno ocra, sul quale si stendono le brevi ombre dei loro corpi. Nella scena della Sama ritana al pozzo [ 4], Cristo siede su una roccia, appoggiandosi ad essa con la mano sinistra tesa; è in posizione semifrontale, indossa una tunica con maniche lunghe ed un pallio che ricade sulle gambe; si rivolge alla donna tendendole la mano destra. La samaritana, in piedi, veste una tunica ampia; il suo corpo è rappresentato di profilo, inarcato sul dorso, mentre il volto di tre quarti esprime un 'intensa sofferenza, sottolineata dall'andamento all'ingiù delle sopracciglia. La donna protende il braccio destro verso Cristo, reggendo con la punta delle dita un filo, ovvero la fune del secchio. Il volto di Cristo è reso con dettagli fisionomici realistici, quali il naso a punta, la fossetta scura sotto la bocca semichiusa e il rosso accentuato della gota; diversamente, i tratti della samaritana sono semplificati ma intensi, gli occhi sotto le sopracciglia inarcate formano due triangoli tra loro simmetrici, che indirizzano lo sguardo in alto e rendono l'espressione supplice. Nella scena della M ulier inclinata [5] , Cristo posa il piede sinistro su una roccia, trattiene il pallio con la mano sinistra avvolta nella tunica, e posa la sua mano destra sul capo della donna, sfiorandole la fronte, nel gesto simbolico dell'impositio manum . La donna, vestita con una tunica clavata, si china con il petto leggermente in avanti, tenendo le braccia rigide e tese lungo il ventre, in posizione innaturale, come obbligata in un movimento bloccato .
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Note critiche La chiave di lettura della scena principale, interpretata senza incertezze come il miracolo della Guarigione del!' emorroissa , è fornita esplicitamente dal gesto che fa la donna di toccare il lembo del pallio di Cristo (Perraymond 1986, 148; Ead. 2000, 171-173) . La scena traduce alla lettera l'episodio di Marco (Mc 5, 25-29) , secondo il quale Cristo, sentendosi toccare il mantello, si volta per guardarsi intorno e subito dopo guarisce l'emorroissa, alla quale è sufficiente il minimo contatto per essere guarita. Nella raffigurazione non si fa riferimento alcuno alla malattia della donna - diversamente da quanto avviene in quella della Mulier inclinata - e Cristo non le impone le mani sul capo, come si vede, invece, nella medesima iconografia scolpita su un frammento di sarcofago a San Callisto (Mathews 1999, 63 ). La rappresentazione di questo tema è piuttosto rara e nella pittura cimiteriale romana compare, forse , per la prima volta nel III secolo, nella controversa scena del cubicolo della Coro natio a Pretestato (N es tori 197 5 [1993] , 91 n. 3), interpretata anche come l'episodio dell'A ndata verso Emmaus (Biscanti 1991 , 83-98), e in altri contesti tutti all 'interno degli spazi della catacomba dei Santi Marcellino e Pietro (Nestori 1975 [1993], 52 n. 17 , 53 n. 28, 62 n. 71) . Nell'episodio della Samaritana al pozzo (Gv 4, 4-42 ) il 'dialogo' tra le due figure sembra figurativamente 'silenzioso', per la posizione rigidamente stante della donna e per l'atteggiamento di Cristo, che se da un lato le tende la mano, dall'altra reclina indietro la
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schiena, accentuando la distanza fisica tra loro e stabilendo una certa gerarchia, ribadita dalla cifra molto più semplificata con cui è reso il volto della donna. Questo tema è accolto nel repertorio figurativo paleocristiano piuttosto precocemente, anche se non è tra quelli più diffusi (Goffredo 2000, 275-276). Appare nella prima metà del III secolo nelle pitture del battistero di Dura Europos e, in ambito cimiteriale, si trova raffigurato per la prima volta insieme alla 'dubbia ' scena dell 'emorroissa, nel cubicolo della Coronatio a Pretestato. Tra le raffigurazioni più significative di questo soggetto si segnalano le pitture del cubicolo 'di Sansone' nella catacomba di Via Dino Compagni (- 14), e della Cappella dei Sacramenti di San Callisto (Nestori 1975 [1993] , 106 n. 22 ), mentre nello stesso cimitero dei Santi Marcellino e Pietro, proprio come nel cubicolo di Nicerus, la scena è rappresentata insieme a quella dell'emorroissa (ibidem, 52 n. 17 , 62 n. 71 ). Il miracolo della M ulier inclinata costituisce un vero e proprio unicum nel p anorama cimiteriale romano (Josi 1918-1919, 80). Traduce in pittura l'episodio narrato dal Vangelo di Luca: Cristo nella sinagoga guarisce la «mulier quae habebat spiritum in/irmitatis annis decem et octo et erat inclinata» (Le 13 , 10-13 ). La scena rappresenta l'attimo appena precedente il miracolo, quando Cristo le si rivolge dicendo «mulier dim issa est ab in/ irmitate tua» , operando la guarigione attraverso il gesto dell' impositio manum (De Bruyne 1943 , 140-143 ). L'interpretazione della scena in chiave battesimale, proposta dubitativamente da Deckers , si fonda
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sull'ipotesi della presenza dell'acqua, che sarebbe 'citata' dalla fascia verde del suolo su cui poggiano le figure (Deckers et al. 1987, 315). Questa lettura non sembra, però, plausibile perché «la presenza dell'ombra che si disegna sul terreno esclude la possibilità che la figura sia immersa nell' acqua, secondo l'iconografia tradizionale del battesimo, che tra l'altro vede i fedeli quasi sempre nudi (. .. )» (de Maria 1992 , 145). Nel ribadire il carattere raro dell 'episodio della Mulier inclinata, la de Maria ritiene che la sua scarsa fortuna potrebbe essere dipesa dalla difficoltà di tradurre in immagine una scena di miracolo, in cui l'unico elemento di riconoscibilità è affidato alla resa, tecnicamente problematica, dell'atteggiamento inclinato della donna, riassunto qui nel movimento quasi bloccato del corpo e nella rigida tensione delle braccia (ibidem, 148-149). Sembra verosimile ricondurre la scena della lunetta e quelle del sottarco alla realizzazione di un unico programma. Kirsch per primo avanzò la tesi che la presenza di tre scene neotestamentarie, tutte riferibili a donne , fosse motivata dalla precisa volontà di dedicare la decorazione del cubicolo alla memoria della defunta destinataria della sepoltura (Kirsch 1930, 210-214). Da parte sua Ferrua giunse a collegare il programma a 'Nicerus', nome che, attestato come femminile, ricorre nel graffito della parete sinistra: «Nicerus bibat in Chr(isto) Primosus te amat» (Ferrua 1975, n. 16371 ; Id. 1970, 63; ICUR-NS, VI 16371). Il graffito, di piccole dimensioni e dal carattere di per sé estemporaneo, assume qui
una valenza quasi ossimorica rispetto alle pitture alle quali è probabilmente collegato (Ferrua 1970, 63 ), pitture auliche sia per le scelte iconografiche, consapevoli ed elaborate, sia per la qualità dello stile. Invita a sostenere questa lettura la presenza di due figure dipinte sulla fronte interna della parete di ingresso del cubicolo, nelle quali si è propensi a riconoscere i ritratti dei due coniugi proprietari del sepolcro [6], i quali si rivolgono verso l'arcosolio, con le braccia levate in alto, nel gesto della preghiera (J osi 1918-1919, 83). La posizione strategica all'ingresso del cubicolo, la definizione vivace e realistica della raffigurazione, l'atteggiamento dei due personaggi, sottolineano il nesso tra i ritratti e la decorazione del cubicolo, ed è forte la suggestione di riconoscere nella donna proprio Nicerus, per la quale sarebbe stata concepita l'intera decorazione dell 'arcosolio , tutta ' al femminile ' (Ferrua 1970, 63; de Maria 1992, 149).
Interventi conservativi e restauri 2000: il cubicolo 'di Nicerus' e le sue pitture vennero alla luce nel 1914 durante lo scavo condotto nella Regione I da Enrico Josi per conto del PIAC e pubblicati un lustro più tardi nel contributo Scoperte nel cimitero dei Santi Marcellino e Pietro sulla Via Labicana (Tosi 1918-1919, 79-85). Dal gennaio al giugno del 2000 le pitture sono state oggetto di un intervento di restauro, necessario a causa del loro cattivo stato di conservazione, per i difetti di adesione
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delle malte, soprattutto nella zona della volta, e per le lacune e le cadute di alcuni brani di intonaco. In occasione dell'intervento, curato dal PIAC con la direzione di Raffaella Giuliani, si è proceduto anche ali' analisi della tecnica esecutiva delle pitture, che risultano preparate su malta di terra tufacea e calce, ed eseguite 'a fresco '. La pittura è stata stesa di getto, come confermano i numerosi segni delle colature del colore. La tavolozza impiegata è molto semplice: predominano la terra rossa, il morellone (terra rossa e nero), il verde (terra verde), il giallo (terra d'ombra) , il bianco di calce e l'azzurro (con terra verde e fritta ); i pigmenti sono stati stesi quasi puri, senza mescolanze (comunicazione orale della dott.ssa Raffaella Giuliani; cfr. APCAS, Relazione dei Restauri nel cubicolo 65 nella Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro a cura della Pontificia Commissione di Archeologia Cristiana, gennaiogiugno 2000) .
Documentazione visiva Wilpert 1916, III, fig . 379; Josi 1918-1919, fig. 82.
Bibliograf ia Josi 1918-1919, 79-85 ; Kirsch 1930, 210-214; De Bmyne 1943 , 140-143 ; Ferma 1970, 7-83 ; Ferma 1975, n. 16371 ; Nestori 1975 [1993 ], 60 n. 65 ; Perraymond 1986, 147-174 ; Deckers et al. 1987 , 312-318; de Maria 1992, 145; Goffredo 2000, 275-276; Perraymond 2000, 171-173 .
Claudia Corneli
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12. DIPINTI DELLA CATACOMBA ANONIMA DI VIA ANAPO
12a. SCENE DI MIRACOLI NEL NICCHION E 14 Primo-secondo decennio del IV secolo
La catacomba anonima di via Anapo è caratterizzata da grandi ambienti sepolcrali, definiti da Bosio «monumenti arcuati» e da Josi «sacella», dei quali non si trovano esempi in nessun altro cimitero. I nicchioni si aprono , uno di seguito ali' altro, creando quasi l'impressione di una galleria espositiva ricavata nel tufo , in una coesistenza straordinaria di ambienti con pitture di qualità, per lo stile e l'accuratezza del programma iconografico; alcuni sono addirittura privi di intonaco o decorati da conchiglie bordate in rosso inserite direttamente nelle pareti (Fasola 1985, 329). Sulla volta del nicchiane [1] è campita la scena di Noè nell'arca con la colomba che reca due rami di ulivo; la figura del patriarca è disposta di profilo, anziché frontale come di consueto. La parete di fondo presenta, al centro, una piccola apertura a nicchia decorata con rose rosse, a destra è raffigurato il Buon Pastore, tra due ovini definiti piuttosto ingenuamente, soprattutto quello a sinistra che ha le orecchie 'a punta' e il muso allungato. Chiudono la scena, come una sorta di quinta teatrale, due alberi tratteggiati con rapidi tocchi di colore verde, che rimandano all'immagine dipinta nel cubicolo della Velatio (J osi 1928, 172). Sul lato sinistro della parete è dipinta la scena della Resurrezione di Lazzaro. Cristo è rappresentato di aspetto giovanile, con capelli corti e senza barba, indossa una tunica corta e il pallio, su cui compare la lettera 'Z'. È ritratto di profilo, mentre incede verso l'edicola, leggermente inclinata, di Lazzaro, il quale si volge dal lato opposto, mentre dalle
bende insolitamente traspaiono i lineamenti abbozzati del volto. La decorazione prosegue nel piedritto sinistro del nicchiane, dove sono rappresentati, da destra a sinistra, gli episodi del Miracolo della fo nte e della Moltiplicazione dei pani. Nella prima scena, la figura di Mosè è di profilo, mentre avanza verso destra, tenendo in mano la virga con cui batte la roccia, dalla quale scaturisce lo zampillo dell'acqua; indossa una tunica corta e trattiene il pallio con la mano sinistra. Il volto è quasi completamente perduto; un 'altra lacuna interessa anche la parte centrale della tunica. La figura poggia su una larga fascia rossa di terreno, sulla quale si proiettano le ombre delle gambe. Mosè è rappresentato di aspetto giovane e imberbe, come la figura di Cristo nelle due pitture accanto; sul pallio si intravede la lettera 'I', seminascosta dal lembo di staffa. Nel miracolo della Moltiplicazione dei pani [2] la figura di Cristo è simile a quella della scena di Lazzaro sulla parete di fondo , ad eccezione dei capelli, lunghi fino alle spalle; con la mano sinistra trattiene il pallio, che lascia intravedere le gambe, la sinistra in avanti e la destra all'indietro, nel momento del passo; come nella scena di Lazzaro, sulla fimbria compare la lettera 'Z' . Tiene, con il braccio destro proteso, la virga taumaturgica, accennata da un 'unica, larga pennellata di colore rosso , sospesa sulle cinque ceste dei pani disposte in fila sulla fascia di terreno, resa nella tonalità del verde sfumato; dietro sono rappresentate altre due
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ceste più piccole rispetto alle altre, evidentemente per l'esiguità dello spazio a disposizione. Le ceste sono caratterizzate dall'intreccio delle pareti reso con linee rosse tratteggiate in senso orizzontale, da cui escono dei fiori abbozzati con rapide pennellate di colore rosso e blu. Pannelli a finte crustae marmoree chiudono la decorazione del nicchiane, nella zona inferiore.
Note critiche L'episodio della Moltiplicazione dei pani e dei pesci viene rappresentato molto frequentemente nella pittura cimiteriale, in ragione del suo evidente significato eucaristico (Mazzei 2000, 220221 ), reso esplicito nel testo di Luca: «Egli prese i cinque pani ed i due pesci e levati gli occhi al cielo li benedisse, li spezzò e li diede ai suoi discepoli» (Le 9, 16). Per il suo significato la scena è simbolicamente connessa a quella di Mosè che percuote la roccia dell'Oreb, secondo l'interpretazione di Paolo, che assimila Cristo alla roccia dalla quale bevvero gli Israeliti (Nieddu 2000, 216-219). La seconda scena, la Resurrezione di Lazzaro, è raffigurata secondo lo schema canonico con Cristo che compie il miracolo per mezzo della virga taumaturgica, che, come strumento di prodigio, diventa simbolo della mano di Dio (Utro 2000, 300-302). Nella Bibbia la virga è un attributo della figura di Mosè (Es 17), e nei primi secoli dell'iconografia cristiana la virga è associata alla figura di Cristo, nelle scene dei miracoli, con la precisa intenzione di rappresentare Cristo quale «nuovo Mosè», istituendo una continuità a livello di immagine tra Vecchio e Nuovo Testamento
(- 12b). L'identificazione concettuale tra la figura di Mosè e quella di Cristo è ribadita, oltre che dal messaggio iconografico, anche dalla presenza della lettera 'I', che è l'iniziale del nome greco e latino di Gesù (Quacquarelli 1986, 16), che qui compare sul pallio di Mosè. Nelle tre scene, le figure di Cristo e di Mosè sono slanciate e definite in modo naturalistico, come nel particolare anatomico delle gambe e delle braccia che si intravedono sotto le ampie pieghe del panneggio che le accoglie. Sono simili tra loro, rappresentate con fisionomie affini senza particolari caratterizzazioni tipologiche. Mosè, ad esempio, è riconoscibile solamente in base alla scena che lo accoglie. La figura del Buon Pastore sulla parete di fondo del nicchiane conferma la lettura cristologica dell'intero programma, databile, sia per lo stile delle pitture che per la presenza delle gammadie, ai primi decenni del IV secolo.
Documentazione visiva BAV, Vat. lat. 5409, f. 9, 11; BAV, Vat. lat. 10545, f. 187 ; Bosio 1650 [1998], 515-516; Bottari 1737-1754, III, tavv. CLXIV-CLXV; Garrucci 1873 , tav. 70; Wilpert 1891b, tavv. I , 1, II, 1.
Bibliografia Josi 1928, 169-178; Fasola 1985, 329; Quacquarelli 1986, 16-17; Deckers et al. 1992, 84-90; Nestori 1993, 20 n. 14.
12b. STORIE VETERO E NEOTESTAMENTARIE NEL NICCHIONE 8 Prima ~età del IV secolo
Il nicchiane numero 8 presenta sulla fronte esterna dell'arco grandi festoni rossi di petali di rose e alla base due colonnine ricavate nel tufo, ricoperte da un sottile strato di intonaco ornato da motivi neri 'a pelte' [3]. Nella parete di fondo sono stati inseriti quattro loculi. La decorazione pittorica, che in origine ricopriva interamente gli spazi inter loculos, oggi è in gran parte perduta a causa delle numerose lacune e delle cadute di intonaco che interessano l'intera superficie. Nella parte superiore sono ancora visibili i due putti alati sui fianchi dell'apertura del primo loculo, che per le ridotte dimensioni si è pensato fosse destinato alla sepoltura di un bambino (Josi 1928, 191 ). Sopra il secondo loculo, al centro, è dipinto un vaso ansato colmo di fiori e un volatile tra fiori sparsi su fondo bianco, di elegante fattura; lo spazio sottostante, tra il secondo e il terzo loculo, è decorato da una serie di ghirlande di fiori rossi. Ali' altezza del quarto loculo, il più grande, è dipinta una scena di caccia, che si sviluppa da destra a sinistra, raffigurante un cane che insegue un cinghiale, un cervo ed un 'antilope, mentre sullo sfondo campestre si intravede la figura di un cacciatore, che è stata interpretata come la rappresentazione del defunto (Biscanti 1994, 57) . Il sottarco è interamente decorato e diviso in tre riquadri; ai lati, in basso, sono due scene ispirate alla vita di Giona, che corrono, in senso longitudinale, entro cornici di forma rettangolare; a sinistra Giona è rigettato dal draco marinus a tre code, ha il corpo nudo e fuoriesce, qu~si per intero, dalle sue fauci ; a destra Giona triste, fa il gesto di toccarsi il mento con l'indice della mano sinistra mentre
siede sotto la caratteristica pergola, da cui pendono le piante di zucca. Nella grande area centrale del sottarco è dipinta la scena del Consesso degli apostoli, distribuiti simmetricamente ai lati di Cristo e disposti su due file sovrapposte [4]. Al centro Cristo docente, di proporzioni maggiori rispetto a quelle dei discepoli, tiene la mano destra levata all'altezza del petto nel gesto della parola; ha aspetto giovanile, con capelli corti e senza barba, ed è abbigliato con tunica clavata e pallio, sulla cui fimbria si intravede la lettera 'I'. I volti degli apostoli, ben caratterizzati, sono rivolti verso la figura centrale; anche sul loro pallio, come in quello del Docente, è visibile la gamma dia 'I', ad eccezione del secondo apostolo a sinistra che vi reca una croce greca (J osi 1928, 193 ). Nel riquadro superiore del piedritto sinistro è dipinta una grande figura di donna orante, velata, con un'ampia dalmatica clavata di colore rosso; ha enormi mani rivolte verso l'alto, in preghiera; nel pannello inferiore ricorre la scena dei Tre fanciulli di Babilonia, particolarmente lacunosa. Nel riquadro superiore del piedritto destro è dipinto Daniele nella /ossa dei leoni. La fossa , accennata da una linea circolare di colore verde, dalle tonalità quasi acquerellate, accoglie la parte più densa della rappresentazione èol profeta, nudo e orante, circuito dai due felini, dalle fauci spalancate in atteggiamento aggressivo [5] . Nel riquadro sottostante è rappresentato il Sacrificio di Isacco [6]. Al centro, la monumentale figura di Abramo, di aspetto senile con barba e capelli bianchi, indossa tunica clavata, pallio e sandali; con la destra brandisce il coltello, mentre tiene per mano il figlio Isacco,
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di proporzioni minori. A sinistra l'ariete appoggia il muso sul fianco destro del patriarca. Una grande lacuna interessa questa zona. Dietro l'animale - simbolo del sacrificio - si intravedono le fiamme ardenti della pira, che ha la forma di un'ara pagana, come in alcuni esempi di plastica funeraria dello stesso periodo (Speyart Van Woerden 1961, 223 ). Le figure posano su un lembo di terreno reso con delle larghe, rapide pennellate di colore verde , su cui si proiettano le ombre.
Note critiche Nella scena dei Tre fanciulli nella fornace i corpi sono rappresentati per metà immersi nelle fiamme , come se stessero per consumarsi lentamente in esse. L'immagine traduce alla lettera il secondo momento narrato nel testo biblico (Dn 3, 21-24 ), quando «viri illi
vincti cum braccis suis et tiaris et calceamentis et vestibus missi sunt in medium fornacis ignis ardentis», successivo a quello in cui, sempre secondo il passo, i tre fanciulli «ambulavant in medio /lammae laudantes deum et benedicentes Domino» (Josi 1928, 203). La figura del personaggio che attizza il fuoco oggi non è più visibile a causa della lacune che interessano gran parte del riquadro, ma compare nelle copie delle pitture eseguite sia da Ciacconio (Wilpert 1891b, tav. III,1; BAV, Vat. lat. 5409, f. 13 ), che da De Winghe (ibidem, tav. VII; BVR, G 6 f. 11 ). Il tema di Daniele si lega saldamente a quello dei Tre Fanciulli nella fornace per il medesimo messaggio salvifico: i personaggi, in entrambe le scene, assurgono a simbolo del sacrificio della fede che porta alla salvezza. Come Daniele viene condannato ad bestias (Dn 6,11-25; 14, 31-42) , per il rifiuto di aderire ai culti idolatrici babilonesi, così Anania, Azaria e Misael, rifiutandosi di adorare l'idolo davanti a Nabucodonosor, sono condannati prima alla pena del vivicomburium, ossia al supplizio del fuoco , e poi salvati dall'intervento dell'angelo del Signore (Dn 3, 16-24). Ad uno stesso messaggio di salvazione si collega il Sacrz/icio di
Isacco, che qui è tradotto in una pittura dalla forte valenza simbolica [4] . La sproporzione tra la figura di Abramo e quella del figlio , sembra fornire l'espediente narrativo che rende alla scena l'effetto di una 'corta moviola'. Isacco è più piccolo rispetto al padre così da dare l'impressione di stare in secondo piano, di sopraggiungere dal fondo , in una traduzione 'di compromesso' della scena (Speyart Van Woerden 1961 , 222 ). Quest'ultima riassume due momenti distinti del racconto testamentario: quello in cui Isacco sta arrivando con la fascina della legna per accendere il fuoco e quello, successivo, in cui è già inginocchiato ai piedi del padre, che sta per colpirlo. Nella vistosa e simbolica curva del braccio di Abramo si concentra tutta la climax drammatica della raffigurazione, in quell'attimo figurativo in cui la lama va a tangere la cornice superiore del riquadro. Come notava Josi, nella copia di Ciacconio il coltello è diventato una 'scimitarra' e l'ariete si è tramutato in agnello (Josi 1928, 201 ), ma questa infedeltà nei particolari descrittivi sembra mostrare una comprensione profonda della cifra simbolica della pittura. Il copista riproduce perfettamente il gesto compiuto da Abramo, colto in tutta la valenza espressionistica e sintetica della curva del braccio che brandisce il coltello, raffigurato da Ciacconio di grandi dimensioni, come 'luogo ' drammatico della rappresentazione. La raffigurazione di Cristo docente tra i dodici apostoli nel sottarco [2], è caratterizzata da un forte senso pittorico ed impressionistico, nel modo rapido ma efficace di definire ciascuna figura. Il volto del Cristo aderisce ad un tipo diverso rispetto a quello con i capelli lunghi e la barba, che comparirà nel cubicolo di Leone a Commodilla (- 19) e, successivamente, sulla volta dei Santi Marcellino e Pietro (- 25 ). Le figure degli apostoli sono caratterizzate in senso fisionomico, quasi 'ritrattistico', non solo nella definizione particolareggiata dei lineamenti del viso, ma soprattutto nell'intento accurato di diversificare l'espressione facciale, in un'indagine tutta psicologica sottesa all'atteggiamento di ciascun apostolo, come nel caso del penultimo a destra, che
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con aria corrucciata si rivolge dalla parte opposta rispetto a Cristo. Nel Consesso apostolico il carattere è sperimentale, i volti degli apostoli, come quello di Cristo, cominciano a configurarsi, in questa prima fase, secondo una fisionomia di «ricostruzione» che attinge specialmente al tipo del filosofo (Biscanti 2000a, 156-157). La scena, esplicitando una versione non caratterizzata in senso tipologico delle figure di Cristo e degli apostoli, si rifà all'immagine del Consesso dei/iloso/i, rappresentata anche a via Latina, dove un gruppo di giovani discepoli, disposti su due file sovrapposte, si stringono intorno alla figura centrale del maestro, di aspetto più maturo e con barba (Ferrua 1960 [1990], 102-103; Nestori 1993 , 18 n. 8; Matthew 1999, 111 ; Biscanti 2002c, 48) . In un mosaico eseguito qualche anno più tardi ad Apamea (Siria, post 355 ), i sei philosophoi sono seduti intorno a Socrate; qui tutte le figure hanno aspetto maturo, con folta barba e capelli scriminati lunghi fino alle spalle (Andaloro 2000c, 413-415 ; Zanker 2000, 408). La coesistenza di tre temi veterotestamentari con la raffigurazione del Cristo docente tra gli apostoli, nasce dalla precisa tendenza della prima metà del IV secolo, a ribadire il significato di continuità tra Vecchio e Nuovo Testamento, e in conseguenza di ciò gli arti/ices «pongono un'attenzione maggiore all'ordinare le scene ispirate ai Testamenti, affinché attraverso la loro disposizione si arguisse il messaggio cristocentrico che si voleva comunicare» (Biscanti 1982, 731 ). È proprio in questo periodo di controversie dottrinali, incentrate sulla doppia natura di Cristo, che la rappresentazione del Consesso apostolico, che qui occupa una posizione privilegiata e strategica nel sottarco, diventa immagine simbolica di una Chiesa unita e coesa (Testini 1963, 240; vedi il saggio di Fabrizio Biscanti in questo volume).
Interventi conservativi e restauri 1989-1990: la relazione dell'ultimo intervento di restauro, condotto tra il 1989 ed il 1990 dalla PCAS , fornisce dati sullo stato di conservazione piuttosto precario delle pitture a causa dell'alta percentuale di umidità nella catacomba e sul tipo di tecnica di esecuzione esaminata. Le stesure pittoriche sono campite su uno strato di intonaco sottilissimo, composto da calce e polvere di marmo, senza arriccio. In occasione del restauro i bordi di alcune aree, interessate dalla caduta del colore, sono state stuccate, come la parte centrale della figura di Abramo e il volto di Daniele (Mangia Bonella 1992, 61-63 ).
Documentazione visiva BVR, G 6 f. 11; BNF,/onds Latin 8957-8958; BAV, Vat. lat. 5409, f. 13; BAV, Vat. lat. 10545 , f. 188; Bosio 1650 [1998] , tavv. 523524; Aringhi 1651 , tavv. 2, 277 , 279; Bottari 1737-1754, III, tav. CLXVIII-CLXIX; Garrucci 1872, tav. 71; Wilpert 1891b, tavv. V-VII.
Bibliografia Josi 1928, 191 -204; Ferrua 1990, 102-103; Speyart Van Woerden 1961 , 222-223 ; Testini 1963 , 240; Biscanti 1982 , 731-740; Fasola 1985, 329-343 ; Deckers et al. 1992 , 54-61; Fiocchi Nicalai 1992, 7; Mangia Bonella 1992, 61 -63 ; Nestori 1993 , 18 n . 8; Biscanti 1994, 57; Matthew 1999, 111; Biscanti 2000a, 156-157 ; Mazzei 2000b, 177.
Claudia Corneli
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13. STORIE VETEROTESTAMENTARIE NEL CUBICOLO C DELL'IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI Metà del IV secolo Il cubicolo C dell'ipogeo di via Dino Compagni, dal punto di vista dell'articolazione degli spazi, si presenta come un prolungamento del cubicolo B, al quale è collegato attraverso un ampio arco, probabilmente sbarrato parzialmente da una transenna in marmo. L'ambiente è costituito da uno spazio rettangolare, coperto con volta a botte, ai cui lati si aprono due nicchie alte e poco profonde, mentre la parete di fondo ospita un ampio arcosolio a calotta, con piccola nicchia nella lunetta, ed il cui parapetto è realizzato ad imitazione della fronte di un sarcofago a strigili con tabella anepigrafe [1]. La decorazione ad affresco prosegue, senza soluzione di continuità, dal cubicolo antistante andando ad interessare i piedritti dell' arcane di passaggio, dove, in due riquadri sovrapposti si trovano, a sinistra, una fontana da cui zampilla dell'acqua e, sopra, un personaggio virile stante, in tunica clavata e pallio, che tiene poggiato sul fianco destro un rotolo chiuso; a destra, un cantaro nel settore inferiore, e, sopra, Mosè, visto di tre quarti, con barba candida e abbigliato in tunica e pallio, che con una virga tenuta nella mano destra, fa scaturire l'acqua da una parete rocciosa (Es 17, 5-6) ; nell'intradosso, in prossimità dell'imposta dell'arco, su entrambi i lati, un erote
alato con pallio svolazzante che tiene un vaso ricolmo di fiori. La volta dello spazio prospiciente l'arcosolio di fondo è decorata con un riquadro centrale, purtroppo percorso da un'ampia fenditura; nell'interno vi è stata riconosciuta l'immagine del Cristo docente in cattedra, atteggiato nel gesto della parola, con un libro aperto posato su di uno sgabello, a sinistra, ed una cista di rotoli a destra (Ferrua 1960b). Intorno al riquadro centrale gira una fascia, al centro della quale, su ogni lato, è raffigurato un pavone che fa la ruota racchiuso in una ghirlanda a volute, mentre, ad ogni spigolo, eroti alati e con pallio svolazzante trattengono una ghirlanda per mano, sostenuta, sul lato opposto, da un grosso volatile variopinto. La nicchia della parete sinistra [2] è decorata, nello spazio mistilineo di risulta tra la volta e l'arco, con due uccelli in volo; l'intradosso è percorso da una ghirlanda floreale, che si diparte da due coppe poste alla base dell'arco e sostenuta verso il centro da due eroti alati che recano in mano altri rami fioriti. Il fondo della nicchia è interessato da un ampio campo lunettato entro cui si vede, sulla sinistra, una folta folla di personaggi, abbigliati in tunica corta e paenula rigirata sulle spalle, che segue un personaggio virile, in
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tunica e pallio, di dimensioni maggiorate, che si dirige, con il braccio destro sollevato, munito di virga, verso un edificio timpanato, corredato da due colonne sulla fronte e posto alla sommità di una scalinata; si tratta di una delle scene più discusse di tutto il complesso decorativo per la cui identificazione si rimanda alle Note critiche. Nella parte superiore della lunetta trovano posto due ulteriori raffigurazioni, rese essenzialmente in bicromia e in modulo minore: a sinistra, un personaggio palliato e seminginocchiato alle falde di uno sperone roccioso, protende il braccio destro verso l'alto, secondo uno schema che potrebbe rimandare all'episodio della Consegna della Legge a Mosè (Es 24 , 12-18); più a destra, una colonna, alla cui sommità si vedono delle pennellate azzurre, è posta leggermente sollevata e disassata verso sinistra rispetto alla propria base, rappresentando, probabilmente, la Colonna dif uoco che guidò gli Israeliti attraverso il deserto (Es 13, 21-22). Nel riquadro del piedritto di sinistra prosegue parte della scena raffigurata nella lunetta per cui vi si trova un'ulteriore massa di personaggi in abito da viaggio; nel riquadro di destra, invece, si dispone su due registri la scena del Sacrificio di Abramo (Gen 22 , 1-14): in alto si trova la figura del Patriarca, in tunica e pallio, leggermente volto verso destra, ma con il capo verso sinistra ed il braccio destro munito di pugnale sollevato e bloccato in alto; ai suoi piedi si vede la figura inginocchiata con le mani legate dietro la schiena di Isacco, mentre alle sue spalle arde la pira posta sopra ad un altare al cui fianco si trova un ovino; nel registro sottostante sono raffigurati il servo di Abramo, in tunica corta, e l'asino, nella resa del quale si possono notare alcuni pentimenti in merito alle dimensioni delle zampe. La fascia inferiore sia dei piedritti sia della lunetta è semplicemente intonacata di bianco, ma riquadrata da fasce rosse. L'arco che precede l'imboccatura dell'arcosolio è decorato esternamente con una serie di festoni floreali e fili perlinati lungo il margine superiore e con un motivo a kymation lungo quello inferiore; il piedritto di sinistra ospita, nel riquadro superiore, un personaggio virile, barbato, abbigliato in tunica esigua e discinta, seduto su delle rocce, con una serie di macchie bianche e marroni che si dispiegano sugli arti inferiori; alle sue spalle sopraggiunge una donna, abbigliata in tunica cinta al petto, che sostiene nella mano destra un bastoncino alla cui estremità è infilzato un oggetto rotondo , secondo il racconto del Libro di Giobbe (Gb 2, 7-10). Il riquadro sottostante è stato lasciato bianco. Sul lato opposto, in alto, la raffigurazione di Mosè che si scioglie i calzari (Es 3, 16): il patriarca è raffigurato giovane, imberbe, abbigliato in tunica e pallio, con la gamba destra piegata, poggiata ad una roccia; tra le mani stringe i lacci del calzare, mentre tiene il busto ritto e la testa rivolta verso destra. Anche su questo lato il riquadro sottostante è vuoto. La semicalotta dell'arcosolio ha, al centro, un festone di petali di rosa circolare al cui interno si trova un personaggio giovanile in tunica corta e mantellina, leggermente flesso in avanti e poggiato al pedum stretto nella mano sinistra, mentre il braccio destro è allungato verso sinistra e sostiene una sirinx; alla sua destra un montone e alla sua sinistra una pecora che volgono il muso verso il pastore. Dal festone circolare si dipartono numerose ghirlande e festoni pendenti, oltre a fiori sparsi e vasi fioriti che si dispiegano sull'intera superficie voltata; verso il margine sinistro della calotta un festone di fiori rossi circoscrive un campo lunettato al cui interno è raffigurato il momento della storia del profeta Giona in cui viene rigettato dal pistrice (Gn 2,11), così come, sulla destra, si trova un analogo campo lunettato con il profeta nudo, disteso al di sotto di una pergola di cucurbite (Gn 4, 5-11) . La lunetta di fondo è approfondita da una nicchia arcuata con un fiore ad otto
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petali dipinto sui due lati dell'intradosso ed un pavone che fa la ruota circondato da un girale nella parete di fondo; alla sinistra della nicchia sono raffigurati Adamo ed Eva, nudi, che si coprono l'inguine con una mano e con l'altra si indicano l'uno l'altro, posti ai lati di un albero sul cui tronco si attorciglia un serpente (Gen 3 ); alla destra della nicchia, invece, è raffigurata una donna in dalmatica e capo velato, nel gesto dell' expansis manibus. Sulla parete destra si apre un nicchiane analogo a quello presente sulla parete di fronte [3]. Nello spazio tra l'attacco della volta del cubicolo e l'imboccatura dell'arco sono raffigurati due uccelli in volo, mentre, nell'intradosso dell'arco, da due cantari ricolmi di frutti si dipartono dei mazzi di spighe legati da ghirlande, che si incontrano al centro intorno alla testa di un erote. Il lunettone di fondo è interamente occupato, così come i due piedritti laterali, dalla concitata raffigurazione del Passaggio del Mar Rosso (Es 14, 15-31). Sulla sinistra si affolla l'esercito egiziano armato di scudi e lance, con i cavalli lanciati in corsa; alla testa dell'esercito si vede la quadriga del Faraone che, lambendo oramai la riva, è colta proprio nel momento in cui sta per cadere in acqua; sulla sponda opposta si ammassano gli Israeliti, abbigliati, come nella scena di fronte , in abiti da viaggio; sulla riva si erge la figura maggiorata di Mosè che, in tunica e pallio e aspetto giovanile, punta la virga virtutis verso i flutti , resi con una serie di pennellate orizzontali azzurre e verdi.
Note critiche Per quanto attiene la decorazione del cubicolo C di via Dino Compagni, la critica si è concentrata principalmente sulla decodifica della scena eseguita nel lunettone della nicchia della parete sinistra, non trovando soddisfacente l'interpretazione proposta dal padre Ferrua, nell' editio princeps del monumento (Ferma 1960b), che prevedeva una versione 'anomala' della diffusa scena della Resurrezione di Lazzaro, successivamente 'corretta' nella replica eseguita nel cubicolo O del medesimo ipogeo. Come è stato osservato dai successivi ermeneuti, rispetto allo schema canonico adottato per l'episodio di Lazzaro, tanto spesso riprodotto nel repertorio catacombale, la composizione del cubicolo C registra la presenza di un numero eccessivo di testimoni che assistettero all'evento miracoloso, ma, soprattutto, si nota l'omissione della mummia di Lazzaro, solitamente inquadrata nello specchio della porta del tempietto funerario , senza dimenticare l'incongruità della compresenza delle raffigurazioni della Colonna di fuoco e della Consegna della Legge a Mosè, eseguite nel medesimo riquadro. Soprattutto la presenza di questi due ultimi elementi ha suggerito a Grabar di individuare nella scena principale un episodio mosaico (Grabar 1960), riconoscendo nell'edificio indicato dal personaggio che si pone in testa al corteo, munito di virga, identificato con lo stesso Mosè, il santuario costruito dagli Ebrei a seguito della visione sul Sinai e, conseguentemente, nel cubicolo O, di identificare il personaggio che appare sulla porta dell'edificio non con la mummia di Lazzaro, ma con Aronne o con un altro sacerdote del Tempio. Aperta la strada sul versante mosaico della scena, altri studiosi si sono cimentati nel proporre versioni alternative, come, ad esempio, Cagiano de Azevedo (Cagiano de Azevedo 1961-1962). Per l'autore, l'edificio simboleggerebbe la Terra Promessa, ovvero il sepolcro vuoto di Cristo, volendo con ciò assegnare ali' episodio dell'Esodo un valore messianico insito nel richiamo alla Gerusalemme celeste. L'idea scaturisce dal confronto con le pitture del mausoleo dell'Esodo a El-Bagawat, dove la Terra Promessa sarebbe stata rappresentata nella forma che ha assunto la chiesa del Santo Sepolcro nella versione postcostantiniana. Il collegamento
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all'ambiente copto ed alla comunità giudeo-cristiana di Alessandria viene riproposto dal Cagiano de Azevedo anche in seguito (Cagiano de Azevedo 1972), quando suggerisce uno stretto rapporto tra le pitture della Sinagoga di Dura Europos ed il ciclo decorativo dei due cubicoli B e C di via Dino Compagni, entrambi monumenti tributari, quanto ad ispirazione, di testi illustrati destinati ad ebrei; in particolare, per quel che riguarda il cubicolo C, l'autore, rafforzando l'ipotesi precedentemente suggerita, intravide l'esistenza di un contrappunto tra Antico e Nuovo Testamento nelle scene selezionate per la decorazione del cubicolo, riconoscendo nel personaggio con rotolo raffigurato nel piedritto a sinistra dell' arcone di accesso, il Cristo contrapposto al Mosè che batte la rupe, raffigurato sul piedritto di fronte, o il Cristo della volta, caratterizzato come maestro, sacerdote, legislatore e giudice, con il Mosè dell'episodio del Sinai, o, ancora, il Mosè del Passaggio del Mar Rosso posto a confronto con il Cristo che guida il popolo verso la Terra Promessa, rappresentati nelle due lunette contrapposte. Un ritorno ad una più schietta ispirazione veterotestamentaria del programma iconografico del cubicolo C è stata suggerita da William Tronzo, secondo il quale nel cubicolo si sviluppa un vero e proprio programma di salvezza, limitatamente, però , alla sola zona prospiciente l'arcosolio, 'separato' dal resto dell'ambiente tramite
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gli oggetti che pendevano dalla trave marmorea infissa all'imboccatura dell'arco (Tronzo 1986). Secondo lo studioso americano, la scena della lunetta di sinistra non può ritenersi una Resurrezione di Lazzaro per le ragioni già espresse, e neppure la costruzione del tempio comandata a Mosè sul Sinai, secondo la teoria di Grabar, perché con ciò rimangono, comunque, irrisolte la presenza della virga tra le mani del personaggio e la Colonna di fuoco, né, tantomeno, può essere presa in considerazione l'ipotesi di Cagiano de Azevedo, perché Mosè non giunse mai alla Terra Promessa. La scena può essere compresa soltanto se la si considera nel suo contesto, che diviene narrativo e cronologicamente corretto se lo si legge in senso orario, come fosse un 'fregio interrotto', partendo dall'episodio di Mosè che si scioglie i calzari prima di entrare nel roveto ardente, momento in cui riceve l'ordine da Dio di liberare gli Israeliti (Mosè è qui raffigurato giovane); segue il Passaggio del Mar Rosso e l'episodio di Mosè che batte la rupe (ove Mosè assume le fattezze di uomo anziano), in cui Dio gli toglie la possibilità di raggiungere la Terra Promessa perché ha perso la fede: questa la sequenza per la parete destra. Applicando la stessa logica per la parete sinistra, Mosè non può essere considerato il protagonista delle scene qui riprodotte, ma è più pregnante riconoscervi la Missione di Giosuè: il giovane personaggio con il rotolo è Giosuè, a cui è stato affidato da Dio l'ordine impartito a
Mosè, quindi, la scena nella lunetta sarebbe la missione di Giosuè, che conduce gli Israeliti alla Terra Promessa. Il lato destro della nicchia è occupato dal Sacrificio di Isacco: non si tratta di una cesura, ma, come già richiamato dalla Schubert in base alla letteratura giudaica (Schubert 1974), il luogo del sacrificio e quello ove venne costruito il Tempio di Salomone coincidono; del resto, anche nella Sinagoga di Dura Europos, accanto al Tempio con la Torah, si vede la scena del Sacrificio. Per le due vignette soprastanti, quella della Consegna della Legge e quella della Colonna di/uoco , William Tronzo fa notare che sono dipinte in monocromo, forse per evidenziare la distanza tra questi due momenti e la scena del Tempio, come se questi episodi si trovassero in un'altra dimensione. Le scenette fungono da 'memoria' della promessa di Dio a Mosè, che è stata rinnovata a Giosuè. In tutte le testimonianze iconografiche successive, a partire da Santa Maria Maggiore dove Giosuè è abbigliato come militare, non si trova mai nulla di comparabile; però nella letteratura cristiana coeva, Giosuè è visto come precursore di Cristo e il suo ingresso nella Terra Promessa come prefigurazione della salvezza (Agostino, Origene), il tutto coordinato dal Cristo giudice nella volta. Nel 1971 era stata espressa, da Dina Dalla Barba Brusin (Dalla Barba Brusin 1971) , un'altra ipotesi tratta dal libro dell'Esodo, ripresa e puntualizzata, in tempi più recenti, da Roberto Giordani (Giordani 1994b). Si tratterebbe de 'il momento del recupero della salma di Giuseppe', secondo Es 13 , 19: «Mosè prese le ossa di Giuseppe con sé, perché aveva fatto giurare ai figli di Israele così: Dio vi visiterà; farete allora salire le mie ossa qui con voi» (vedi anche Gen 50, 23 e Gen 24, 32). Anche per questa interpretazione resterebbe il problema della virga recata in mano dal presunto Mosè, attributo assolutamente incongruo in tale frangente , ma per superare tale difficoltà, Giordani suggerisce di invocare l'incertezza del pittore chiamato a rappresentare una scena del tutto nuova nel repertorio della pittura cimiteriale; del resto, nelle altre due scene dello stesso cubicolo, Mosè è giustamente munito del medesimo attributo (Miracolo della rupe e Passaggio del mar Rosso) , inoltre, come risulta esplicitamente dal testo scritturistico (Es 4, 2), un bastone pastorale doveva far parte del corredo abituale di Mosè, 'segno' attraverso il quale si manifesta la potenza di Jahweh. Nella scelta di un tema tanto
inusuale si sarebbe manifestata la volontà del committente, colui il quale, in riferimento ad un determinato sistema di idee, chiede all'artista di trasporre quegli stessi concetti in immagini, secondo i canoni che una lunga tradizione iconografica è venuta codificando e che non dovevano subire variazioni allo scopo di rendersi sempre immediatamente e sicuramente intelligibili. Quanto al modo di procedere dell'artista, questi si basa su una tradizione artigiana, impostata su un certo numero di 'cartoni' o modelli, che costituivano il 'repertorio dell'artista'; si doveva trattare di schizzi copiati per lo più da altri monumenti e che riproducevano specifici episodi o anche figure isolate da utilizzare all'occorrenza. A conclusione di questa lunga panoramica su uno dei più controversi soggetti di tutto l'ipogeo di via Dino Compagni, si può giustamente recuperare quanto osservato da William Tronzo a conclusione del suo studio: attraverso le pitture dell'ipogeo di via Latina si osserva un cambiamento nella comunità cristiana, determinato dalle nuove condizioni stabilitesi nel IV secolo quando la «ristretta e stabile» comunità precostantiniana si allarga a comprendere un più vasto ecumene nel periodo postcostantiniano; da un lato si osserva un richiamo alle più solide e vetuste tradizioni per consolidare la propria cristianità, dall'altro si interrompe, complicandolo con nuovi apporti, il naturale sviluppo dell'arte cristiana, nella quale si innestano nuove, ma antiche, tradizioni.
Interventi conservativi e restauri 1996: il cubicolo C dell'ipogeo di via Dino Compagni è stato sottoposto ad un integrale intervento di conservazione, che ha riguardato, principalmente, il consolidamento dei distacchi del supporto pittorico ed una delicata quanto ardua azione di pulitura delle superfici intonacate, offuscate da una, parzialmente irreversibile, concrezione carbonatica di colore scuro. La relazione tecnica dell'intervento di restauro è conservata presso gli APCAS.
Bibliografia Ferrua 1990; Grabar 1960; Cagiano de Azevedo 1961-1962; Dalla Barba Brusin 1971; Cagiano de Azevedo 1972; Schubert 1974; Tronzo 1986; Giordani 1994b.
Barbara Mazzei
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14. I DIPINTI DEL CUBICOLO F DETTO DI SANSONE NELL'IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI Terzo quarto del IV secolo
All'elegante camera sepolcrale si accede dal vestibolo D, ambiente di disimpegno posto al centro dell'ipogeo, creato lungo un'arteria che si dirama dalla galleria principale e quindi pertinente ad una fase secondaria di escavazione (Camiruaga et al. 1994). Al centro della parete sud-ovest del vano D si apre un andito d'ingresso, la cui parete sinistra è decorata con specchiature a finto marmo, mentre la corrispondente parete destra, nonché parte della volta a botte soprastante, sono state risarcite con una cortina di mattoni; nell'intradosso dell'arco rimangono solo pochi lacerti d'intonaco decorati a riquadri. Discendendo due gradini ci si immette nello spazio circolare, leggermente allungato, del cubicolo. Il perimetro ellittico dell'ambiente funerario è articolato in sei settori, evidenziati da altrettante semicolonne poggianti su alti plinti, intonacate e dipinte a marmoridea, che imita, a due a due, il marmo rosso, il cipollino e la breccia gialla, e coronate da capitelli la cui decorazione riproduce, piuttosto schematicamente, il tipo corinzio. Al di sopra dei capitelli delle colonne, alternati a mensole decorate su ogni faccia con foglie d'acanto, in rosso cupo, corre un cornicione, sporgente dal filo delle pareti e decorato con un tralcio continuo a volute, sul quale si doveva impostare la copertura voltata dell'ambiente, oggi perduta a causa di una frana (Ferrua 1960b). Nel settore di parete posto ad ovest, si apre il primo dei tre arcosoli presenti nel cubicolo [1]. La fronte esterna della sepoltura è decorata, nella parte superiore, con due riquadri inseriti nello spazio ricavato tra i capitelli e la mensola: in quello a sinistra è dipinto un volatile posato su un ramo che becca tre sgargianti pomi rossi, dall'alto pende un festoncino di fiori rossi; in quello a destra si vede un uccello in volo tra schematici girali. Al di sotto di questa prima fascia decorativa è individuato, con linee rosse filettate a cui si agganciano festoni floreali, un riquadro che circonda la bocca arcuata dell'arcosolio; all'interno si vede un erote nudo, alato, che sta tirando con una cordicella fiorita un uccello, seguito da un secondo volatile e da una cesta di fiori sulla quale è sospesa, forse , una coppa. Il parapetto dell'arcosolio è occupato da un grande riquadro in cui si svolge una scena campestre con due bovini affrontati che si abbeverano ad una fontana . L'intradosso dell'arco della sepoltura è decorato a cassettoni nei quali sono inseriti fiori stilizz ati; al centro del sottarco tre cerchi concentrici ad una corona di fiori a petali fiammeggianti individuano un busto femminile decorativo da cui si dipartono stilizzate volute vegetali. La lunetta di fondo accoglie una figura femminile, abbigliata con tunica clavata piuttosto corta, cinta al petto e dotata di maniche piuttosto ampie, che sostiene con la mano sinistra una corda a cui è appesa un 'anfora, mentre con la mano destra sembra indicare il pozzo, posto nel centro della scena e di cui è reso piuttosto dettagliatamente il meccanismo per il prelevamento dell'acqua; sull'altro lato del pozzo, un personaggio virile stante, di fattezze giovanili, in tunica clavata e pallio, leggermente sbilanciato in avanti, è atteggiato, con ampiezza di movimenti, nel gesto della parola. Nella scena si è riconosciuto il dialogo di Cristo con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4, 5-8). Sulla superficie parietale, leggermente incurvata, del settore successivo si dispiega, a tutta altezza sino all'imposta della mensola, la rappresentazione di un personaggio virile visto di spalle [2] che, al culmine di una serie di gradini, sta passando attraverso il
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battente semiaperto di una porta, al di là del quale si intravede un tendaggio raccolto su un lato, peraltro quasi totalmente svanito. Anche questa parete è coronata in alto dalla fascia individuata tra i due capitelli e la mensola, qui si trovano un capriolo con un tirso tra volute ed un cesto di fiori. La terza porzione di parete si trova a nord-est, in asse con l'entrata, ed ospita una sepoltura ad arcosolio che risulta leggermente maggiorata nelle dimensioni rispetto alle altre due strutture funerarie presenti nel cubicolo [3] . In conseguenza della maggiore ampiezza attribuita alla parte arcuata della sepoltura, la porzione superiore della fronte esterna ospita esclusivamente i due riquadri che si trovano al di sotto del cornicione, i quali assumono forma trapezoidale, con lato ricurvo lungo il perimetro dell'arco; vi sono raffigurati due pavoni disposti simmetricamente, rispettivamente affrontanti, quello di sinistra, ad un cesto rovesciato pieno di fiori e di frutti , quello di destra, ad una grande coppa ricolma di fiori. In basso, sul parapetto dell'arcosolio, un unico grande riquadro con una scena bucolica: un pastore vestito con tunica corta manicata e alicula , poggiandosi ad un bastone, si tira dietro una grossa pecora legata ad una cordicella; di fronte a lui una seconda pecora è accovacciata nell'erba e dall'albero posto alla destra della scena pende una sirinx. L'intradosso dell'arco è decorato con una serie di riquadri in cui sono inseriti fiori stilizzati o fantastici, singoli o in composizione con raffigurazioni zoomorfe, che si alternano a tre cerchi entro cui sono raffigurati degli eroti intenti a varie attività agricole. Nella lunetta di fondo , al centro dello spazio decorativo, si erge un personaggio virile, in tunica e pallio, che brandisce una mascella equina; sulla sinistra della scena si vede un gruppo di personaggi, alcuni dei quali accennano alla fuga , altri mostrano le ferite che sono state loro inflitte, altri giacciono in terra nel proprio sangue; la porzione destra della scena è invece occupata da un edificio rettangolare, posto su un alto podio, a cui si accede tramite una scalinata; la fronte è fiancheggiata da due colonne tra le quali pende un tendaggio raccolto su un lato, mentre sul fianco dell'edificio si aprono due finestre. La chiave di lettura fornita dalla mascella d 'asino sostenuta dal personaggio centrale ha permesso l'identificazione del soggetto con l'episodio biblico di Sansone che uccide i Filistei (Gdc 15, 14-16). Il seguente settore di parete presenta una raffigurazione analoga a quella già descritta sulla parete nord. Nello spiraglio tra le due ante di una porta, posta in cima a quattro gradini, si intravedono due personaggi, raffigurati di prospetto, abbigliati in tunica e pallio, che incedono attraverso l'apertura; alle loro spalle si distingue un panneggio che pende dall'alto. In alto, alla sinistra della mensola, un riquadro in cui è dipinto un caprone tra alberi e, alla destra, un riquadro simile con un cesto di fiori poggiato su volute stilizzate. L'ultimo settore di parete ha perso la colonna terminale, quella verso il vano d'ingresso , e la porzione di destra del fasciane superiore, il tutto risarcito con una cortina di mattoni. Parzialmente integri risultano invece i due riquadri posti nella porzione superiore della parete in cui, in quello di sinistra, si vedono due uccelli, posti su piedistalli, che beccano il contenuto fuoriuscente da una colma fruttiera, in quello di destra, un grosso uccello becca un cespo fiorito; festoni floreali decorano la parte superiore di entrambi i riquadri. La decorazione sottostante si colloca attorno al profilo arcuato dell'ultimo arcosolio: nel riquadro delimitato da strisce rosse e decorato con festoni di fiori, un erote in volo,
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Note critiche Nell' editio princeps redatta da Antonio Ferrua pochi anni dopo la
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sulla sinistra, sorregge una ghirlanda, mentre un secondo erote alato, sulla destra, reca un cesto colmo di fiori. Sul parapetto dell'arcosolio, in un rigoglioso paesaggio campestre, due cervi si avvicinano ad un grosso cantaro da cui zampilla dell ' acqua. L'intradosso dell'arco è tappezzato da quindici riquadri in cui si alternano fiori stilizzati, un calice colmo di fiori e raffigurazioni zoomorfe; nel riquadro centrale trova posto un busto ornamentale virile poggiato su fronde verdi. Nella lunetta di fondo si vede un personaggio maschile raffigurato di tre quarti, con lo sguardo rivolto verso l'osservatore, che cavalca un'asina mentre tiene il braccio destro sollevato; di fronte a lui, in semiprospetto, con la gamba destra in avanti, si pone la figura stante di un secondo personaggio virile, barbato e vestito in tunica e pallio, anch'esso con lo sguardo rivolto all'osservatore, che tiene il braccio destro sollevato brandendo una sorta di pugnale; alberi e cespugli verdeggianti fanno da sfondo alla scena che raffigura l'episodio veterotestamentario del profeta Balaam fermato dall'angelo (Nm 22, 21-23). La decorazione pittorica del cubicolo è stata realizzata con tecnica ad affresco, stendendo i pigmenti naturali - tra i quali si sono potuti riconoscere la terra verde, l'ematite, l'ocra rossa e il nero di carbone - privi di legante direttamente sull'intonaco ancora fresco; l'intonaco a supporto delle pitture, di colore bianco-avorio, risulta dalla sovrapposizione di tre strati di materiale che si differenziano sia per composizione sia per spessore (BiscontiMazzei 1999) .
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scoperta dell'ipogeo, awenuta nel 1956, il complesso decorativo del cubicolo F sembra non presentare particolari problemi interpretativi, soprattutto per quel che riguarda le principali scene conservate nelle lunette degli arcosoli, mentre vengono descritti asetticamente come «personaggi che entrano o escono dal cubicolo» le scene che si dispiegano sulle pareti laterali nord ed est (Ferrua 1960b). La limpida e scarna interpretazione del primo editore ha però stimolato l'approfondimento di alcune tematiche come, ad esempio, l'introduzione, nella seconda metà del IV secolo, della figura di Sansone nel repertorio della pittura catacombale. Sintomatico, a tale proposito, risulta il confronto con la coeva esegesi patristica, che vede autori quali Ambrogio (Exp. In Ps. 118, 11, 29 = BA 9, 480-481; De Spir. Sanct. 2, 1 = BA 16, 166; ibidem 2, 4-15 = BA 16, 168-176; Ep. 62, 8-34 = BA 20, 150-164), Girolamo (Ep. 73 , 3 = CSEL 55 , 15; Comm. In E2 . 4 = PL 25, 110) ed Agostino (De Civ. Dei 1, 21 = NBA5 , 1, 62 ; Enar. In Ps. 88, 10 = NBA27 , 66; ibidem 80, 11 = NBA 26, 1128) evidenziare l'aspetto prefigurativo della figura di Sansone e delle sue gesta con il Cristo e la storia della redenzione (Perraymond 1998a). L'accento posto, in questo caso, sulla valenza prefigurativa di Sansone, potrebbe giustificare l'evidente infrazione, sin qui ampiamente evitata nella pittura funeraria romana, alla «legge della non violenza», rawisabile nella megalografica composizione della scena dell'Ecadio dei Filistei, di chiara ispirazione alternativa rispetto al repertorio tradizionale catacombale, ma tutta romana nell'impiego del linguaggio figurativo megalografico. Una ipotesi differente sull'interpretazione del complesso decorativo è stata formulata da Elena Conde Guerri che, sulla base di un testo apocrifo dell'Antico Testamento di area giudaica, nel quale si pone l'accento sulla fedeltà all'Alleanza da parte del popolo di Israele e dove si attribuisce alla figura di Sansone il ruolo di simbolo della volontà di Dio, intuisce la presenza di una sorta di ciclo narrativo che lega tutte le scene. Su tali presupposti, le due scene di ingresso vengono interpretate come due distinti momenti del passo biblico in cui Sansone distrugge le porte di Gaza (Gdc 16, 2) e come due rappresentazioni del concetto della preferenza accordata al popolo eletto viene letta la scena di Balaam e quella della Samaritana, che, quindi, viene riconsiderata come l'Incontro del servo di Abramo con Rebecca, la prescelta moglie di Isacco (Gen 24, 15-22 ). Il ricorso a fonti d 'ispirazione atipiche per giustificare le novità iconografiche presenti in tutto l'ipogeo non è funzionale soltanto alla decodifica della valenza semantica degli episodi, ma serve anche per trovare una giustificazione al parallelo processo di arricchimento del patrimonio figurativo funerario, che si concretizza nell'acquisizione di scene nuove, già perfettamente mature dal punto di vista compositivo. Per quanto riguarda specificatamente il ciclo di Sansone, l'ispirazione iconografica è stata, ad esempio, rawisata in alcuni prototipi di area microasiatica o alessandrina (Kenfield 1975) , la stessa della quale sono tributari, del resto, anche altri elementi rawisabili nella concezione stessa del cubicolo, a partire dallo sviluppo strutturale dell'ambiente, concepito come una cappella funeraria di tipo familiare , tipologia diffusa in ambito orientale e ripresa in età costantiniana, per passare ai quadretti zoomorfi e cosmico-dionisiaci afferenti alla più consolidata tradizione di matrice ellenistica, sino al recupero del tema della falsa porta, ideato in ambito funerario ellenistico e specificatamente alessandrino per rappresentare il varco tra mondo e oltremondo (Goffredo 1998), senza che per quest'ultimo tema sia necessario giungere all'interpretazione, come è stato proposto da Shigeru Tsuji, della prima rappresentazione della resurrezione dei morti (Tsuji 1979). Il complesso decorativo del cubicolo F si presenta dunque come
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un testimone monumentale di quel momento di passaggio che da un lato recupera le più lontane e correnti soluzioni dell'arte funeraria del passato, ma dall'altro si apre all'introduzione dei più recenti temi iconografici sperimentati negli apparati decorativi degli edifici di culto del sopratterra e diffusi, probabilmente, tramite l'illustrazione dei codici miniati, raccogliendo i suggerimenti provenienti dal fecondo ambito orientale, ma traducendoli nelle forme espressive tipiche dell'arte tardo romana , specialmente ravvisabili nei volti dei personaggi, perfettamente ovali, con occhi maggiorati e marcati di scuro, pupille fisse , capelli corti e disposti a corona, caratteristiche che ci portano verso il termine estremo della forchetta cronologica individuata per la vita dell 'ipogeo, ovvero verso gli anni '70 del IV secolo (Bisconti-Mazzei 1999).
recente intervento si sono potuti ricollocare alcuni frammenti di intonaco pertinenti la decorazione, mentre altri frammenti già ricollocati in posizione scorretta e soprattutto aggrediti da un diffuso attacco biologico, sono stati disinfestati e correttamente riposizionati. Infine, durante l'attenta e delicata azione di pulitura delle superfici affrescate, offuscate da depositi di varia natura, è stato possibile rintracciare il disegno preparatorio della scena del secondo settore parietale, che prevedeva la realizzazione di una figura stante vista di prospetto, disegno che è stato poi modificato in fase di esecuzione. La relazione dell'intervento conservativo operato nel cubicolo F dell'ipogeo di via Dino Compagni è conservato presso gli APCAS.
Documentazione visiva Interventi conservativi e restauri 1997: il cubicolo è stato sottoposto ad un integrale intervento conservativo, volto, principalmente, al risanamento di alcuni problemi di ordine statico e all'eliminazione di alcuni materiali non idonei ad una corretta conservazione delle superfici dipinte, impiegati in un precedente intervento eseguito subito a ridosso della riscoperta dell'ipogeo, ovvero negli anni '50 del Novecento. Nel corso del
Campagne fotografiche realizzate nel 1956 e nel 1996, conservate presso gli APCAS.
Bibliografia Ferma 1960b; Kenfield 1975 ; Tsuji 1979; Camiruaga et al. 1994; Conde Guerri 1994; Goffredo 1998; Perraymond 1998a; BiscontiMazzei 1999.
Barbara Mazzei
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15. FIGURA DI DONNA CON BAMBINO NEL COEMETERIUM MAIUS Secondo quarto del IV secolo
Al centro della lunetta campeggia, in posizione frontale, la figura di una donna rappresentata a mezzo busto, con le braccia espanse in atteggiamento orante, la quale tiene davanti a sé, all'altezza del petto, il figlio [1]. Indossa una dalmatica ocra a larghe maniche, ornata di bande di stoffa color porpora e azzurro scuro; il velo che le copre il capo, nelle trasparenze, sfiora il tono del turchino. Ha grandi occhi scuri, quasi spalancati, incorniciati dalla grande linea dell'arcata sopraccigliare, che insieme alle zone d 'ombra con cui sono definite le palpebre, contribuisce a dare risalto, in un gioco di chiari e di scuri, al bianco della sclera, attribuendo intensità allo sguardo. I lineamenti sono definiti in modo marcato: il setto nasale piuttosto largo e leggermente schiacciato, le labbra sottili chiuse come in un sorriso abbozzato e una fossetta sul mento. La donna ha i capelli scriminati al centro della fronte e raccolti in una treccia ali'altezza della nuca, acconciati secondo una pettinatura in voga in epoca costantiniana. La figura indossa vistosi orecchini di perle e una collana dalla fattura molto particolare, in cui sono infilate delle perle, alternate a pietre rettangolari, dai toni grigiastri e dalla superficie riflettente, simili, forse , a cristalli di rocca. Il volto del bambino ha grandi occhi, le sopracciglia aggrottate come nell'espressione di una smorfia, lo sguardo è rivolto in alto a sinistra. L'orecchio destro è caratterizzato da un padiglione quasi
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'a sventola' , e i capelli corti, con frangia , che incorniciano il volto, sono definiti dettagliatamente. Il gruppo esorbita, spezzandolo, lo spazio della lunetta, ali' altezza del capo della donna e in basso, dove i busti sono raffigurati davanti alla cornice. Una grande lacuna interessa la zona inferiore destra delle figure, ai cui lati sono disposti simmetricamente due grandi monogrammi cristologici, quello a destra è leggermente più grande e marcato dell'altro.
Note critiche L'interpretazione tradizionale delle due figure come la Vergine e il Bambino risale al Bosio, il quale, avendo potuto vedere il dipinto, da subito fu convinto che si trattasse «della gloriosissima Vergine in atto di orare con il Signore in seno» (Bosio 1650, 147). Il primo studioso che propose una diversa lettura del gruppo fu Bottari, che alla metà del XVIII secolo, sosteneva che «certamente non è punto inverosimile che questa donna rappresenti chi fece fare le pitture, e che il bambino che ha davanti rappresenti il suo figliolo, [. ..] che ella offriva al Signore perchè essendogli morto ella lo avesse fatto quivi seppellire», e aggiungeva «attorno al collo vi è un giro,
come un collare di varie pietre, fatto credo io per denotare la nobiltà di quella donna. Che le nobili donne romane usassero tali abbigliamenti è manifesto per infinite testimonianze di vari autori» (Bottari 1737-1754, III, 83). L'interpretazione del Bottari rimase isolata. Circa un secolo più tardi, Marchi descriveva la scena come la raffigurazione della «divina Madre in mezza figura seduta» (Marchi 1844, 157) e Giovan Battista de Rossi inseriva la pittura nella sua raccolta Images de la T S. Vz"erge choisies dans !es catacombes de Rom e (de Rossi 1863 ). La svista di Marchi, che descrive la donna assisa, sembrerebbe derivare da quella straordinaria e totale libertà dell 'immagine di sciogliere il legame con la cornice, dando l'impressione di proseguire al di sotto della lunetta. Pur sostenendo la lettura tradizionale, Marchi non manca, pertanto, di denunciare la 'presenza' straordinariamente umana dell'immagine, cogliendone il carattere tutto immanente: «la figura nel suo solo atto di pregare dichiara che il suo prototipo è una creatura, non una divinità. Chiunque la guardi non dico che possa essere tentato di idolatria ... ma col suo occhio rimane appieno istruito su ciò che muoveva la Chiesa a rappresentare cotali immagini» (Marchi 1844, 157 ). La pittura fu riscoperta daJoseph Wilpert alla fine dell'Ottocento. Lo studioso, secondo quanto riferisce Marucchi, «dopo aver lavato bene la pittura dalle molte macchie che la deturpavano aveva riconosciuto con sua grande meraviglia che la figura del Re giudeo si era improvvisamente cambiata in quella della beata Vergine con il fanciullo Gesù in seno» (Marucchi 1903 , 7). In una prima lettura dei dipinti , Wilpert dichiara che nella raffigurazione della donna orante con il figlio non sia possibile riconoscere alcun 'segnale' iconografico che la riferisca alla sacra rappresentazione della Vergine e del Bambino (Wilpert 1891a, 48), ma qualche anno più tardi lo studioso rivedrà questa sua prima interpretazione, dichiarando di avere riscoperto «la più bella immagine della Madonna trasmessaci dall 'Antichità» (Id. 1901 , 36). Ancora alla metà del Novecento, Fasola descrive la scena come la rappresentazione della «Madonna orans», nel suo saggio che titola proprio Topographische Argumente zur Datierung der Madonna orans 1956, im Coemeterium Maius (Fasola 195 6b, 13 7 -14 7). Partendo dall'indagine topografica, lo studioso propone per la pittura una datazione ad epoca tardocostantiniana, sulla base della pertinenza del cubicolo a quella parte più profonda del cimitero che fu scavata entro il 336, come attesta la data affissa sulla chiusura di un loculo (ibidem, 144).
Anche lo stile sembra ricondurre la pittura alla stessa epoca, grazie all'uso di definire con linee scure i contorni delle figure , alla resa corpulenta, quasi monumentale dei corpi, e ad alcuni particolari, come quello dell'acconciatura della donna dalla tipica fattura turrita e dagli sbuffi laterali, che appare in alcuni esempi di ritrattistica ufficiale dello stesso periodo, ad esempio nel ritratto dei due coniugi nel sarcofago siracusano di Adelfia, datato al periodo appena successivo alla pace della Chiesa (Sgarlata 1998, 123). Per la «voce umana» della raffigurazione, già «ascoltata» da Marchi e suggerita dai volti che si fanno «realmente» ritratti, nel particolare dei lineamenti marcati delle figure , nella smorfia tutta infantile, nella grande orecchia 'a sventola' , e in quella precisa volontà di immortalare lo status sociale della donna attraverso i dettagli dell'acconciatura e dei gioielli, sembra che sia l'immagine stessa a suggerirci la sua vera appartenenza, il suo 'doppio' , individuabile forse nell 'immagine della donna sepolta nell 'arcosolio ed 'immortalata' insieme al proprio figlio. A questo proposito, nell'interpretazione dell'immagine in chiave commemorativa, piuttosto che evocativa, sembra di poter cogliere la suggestione delle parole di san Paolo: «Voglio che gli uomini e le donne preghino alzando le mani al cielo, e queste ultime che lo facciano con abiti decenti, ornandosi di pudore e non di ornamenti d'oro e di trame di perle» (I Cor 11 , 12-15). Sembra dunque difficile non avvertire il carattere tutto terreno, quasi narrativo, nella figura della donna dai grandi occhi, simile in tutto alle maestose figure femminili di oranti campite nel Cimitero dei Giordani, ma meno patetica rispetto ad esse, e più veristica in questa sua essenza di autentica 'immagine-ritratto '.
Documentazione visiva Bosio 1650, fig . a p. 471 ; Bottari 1737-1754, III, fig. 83 ; Wilpert 1903 , tavv. 163,1 , 207 , 208,209; Henry Parker, fotografie (18641865), n. 627 A, (1868-1869) n. 1598.
Bibliografia Marchi 1844, 157; Wilpert 1891a, 48; Wilpert 1901 , 36; Marucchi 1903 , 7; Wilpert 1903 , 7, 193-197 ; Bovini 1949, 228, nota 246; Fasola 1956b, 144; Nestori 1993 , 36 n. 22 ; Sgarlata 1998, 123 .
Claudia Corneli
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16. LE PITTURE DEL CUBICOLO A NELL'IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI Seconda metà del IV secolo
Scoperto nella grande campagna di scavo degli anni centrali del secolo scorso da Antonio Ferma, il cubicolo fu uno degli ultimi ambienti dell'ipogeo di via Dino Compagni a venire alla luce, nel gennaio del 1956, allorquando, proprio in corrispondenza del primo tratto dell'ipogeo, presso l'antica scala di accesso, si individuò un cubicolo a pianta quadrata con tre arcosoli nelle pareti completamente decorate ad affresco, anche se molto rovinate per le ripetute infiltrazioni idriche antiche e moderne e per le manomissioni degli ambienti ipogei dovute alla costruzione del palazzo soprastante (Ferma 1990, 15-16). Il cubicolo si apriva dinanzi ad un ambiente speculare (A 1) indagato dal Ferma in quel tempo, ma completamente privo di pitture ed oggi obliterato. Il vano del cubicolo A è alto metri 2,48 per metri 2 di lato e propone la tipologia del cubicolo prismatico, con tre profondi arcosoli alle pareti, quasi per emulare i mausolei triconchi. La profondità dei tre arcosoli, la caratteristica volta a crociera e le peculiarità pittoriche ci accompagnano verso la seconda metà del secolo IV, in perfetta coerenza con la produzione dei cubicoli più 'maturi' delle catacombe romane e, segnatamente, delle regioni tarde del cimitero di Domitilla, delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro e di San Callisto, ma anche della catacomba di via Latina 135 (BiscontiDel Moro 1999, 11-94). La semplicità della struttura architettonica, il programma decorativo, le peculiarità stilistiche, la successione delle fasi che denunciano uno scavo e, comunque, una decorazione tarda del cubicolo, rispetto all'evoluzione dell'ipogeo, ci suggeriscono che l'ambiente sia stato uno degli ultimi ad essere concepito e dipinto (Biscanti 2003b). La struttura dell'impianto segue, abbastanza fedelmente, quello delle domus romane, che comporta uno zoccolo, un fregio ed una volta, con un crescendo che dal pavimento giunge allo zenit dell'ambiente. Le pareti e la volta sono suddivisi da ampi riquadri per mezzo di larghe fasce rosso mattone rifinite da altre fasce verdi o da filettature ancora rosse. La trama lineare crea l'idea di una quadreria , ovvero di grandi cornici campite da figure e scene secondo il sistema illusivo della pittura architettonica, così come
si propone nella tarda antichità, sintetizzando, in maniera estrema, l'antica decorazione parietale della pittura vesuviana. Nei piedritti del piccolo vano di ingresso si riconoscono solo, rispettivamente a destra e a sinistra, la sagoma di una figura virile stante e quella di un uomo nudo e seduto, mentre nella porzione inferiore si scorge un quadrupede e, più in basso, un cetaceo di colore verde scuro. La parete di ingresso è organizzata in quattro grandi pannelli figurati, disposti specularmente, in coppia, ai lati della porta [1]. A sinistra, in alto, si riconosce l'episodio del profeta Daniele nudo e orante tra due leoni; in basso, un uomo seduto al suolo e vestito di tunica clavata, mentre sostiene recipienti fittili, per alludere all'episodio biblico dell'ubriachezza di Noè; a destra, in alto, i proto parenti nudi e stanti sono disposti ai lati dell'albero della vita, attorno a cui è attorcigliato il serpente; in basso rimane la sagoma di un felino disposto di profilo, verso sinistra. Nella parete nord-orientale [2] , partendo dal basso, si riconoscono due placche con scenette di ispirazione ellenistica: a sinistra due genietti giocano con delle quaglie dinanzi ad una piccola erma; a destra una quaglia ed un pavone sono disposti 'faccia a faccia'. Ai lati dell'arcosolio sopra a campi mistilinei campiti da cesti fioriti, si snodano due quadri ispirati al ciclo di Giona: a sinistra, il profeta viene gettato in mare; a destra, il pistrice lo rigetta. Nella lunetta dell'arcosolio, estremamente evanide, rimane la scena che rievoca la Cena di Isacco, con il patriarca disteso verso sinistra su un letto tricliniare, mentre riceve le vivande recate da Giacobbe, accompagnato da Rebecca; sullo sfondo, si riconosce anche la sagoma di Esaù che ritorna dalla caccia. Nell'intradosso si snodano serti floreali e coppie di uccelli acquatici. La parete sud-orientale è organizzata in un ampio pannello che occupa tutto lo spazio del soprarco dove si snoda un maestoso Collegio apostolico [3] . Sotto si innestano i due quadretti mistilinei con fiori esplosi. In basso, i due consunti pannelli ispirati alla tradizione ellenistica mostrano, a sinistra, due eroti alati ai lati di un trofeo vegetale, a destra una coppia di ovini disposti simmetricamente. Nella lunetta di fondo, nonostante l'apertura di un loculo che rovina l'affresco, si riconosce l'episodio di Susanna
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tra i vecchioni. Nell'intradosso, si dispongono coppie di ovini e serti floreali. La parete sud-occidentale [4] presenta, in basso due pannelli ellenistici: a sinistra una coppia di colombe; a destra una coppia di cavalli alati. A mezza altezza due riquadri accolgono due cesti fioriti, mentre, in alto, si svolgono altre due scene ispirate alla storia di Giona: a sinistra il profeta pensoso, a destra disteso sotto la pergola. Nella lunetta dell'arcosolio rimangono solo due ovini, mentre nell'intradosso, da sinistra verso destra, si sviluppano tre scene: Mosè che parla agli Israeliti, i Giovani di Babilonia condannati al vivicomburium, Mosè-Pietro che effettua il miracolo della fonte . Nella volta [5], organizzata in riquadri geometrici, si scorge, al centro, la figura del Buon Pastore. Il quadro, in corrispondenza dell'ingresso, pur molto rovinato sembra riferirsi all'episodio delle Acque Amare, così come è ricordato dagli scritti apocrifi dell'In/antia Salvatoris. Nel quadro opposto è la scena dell'Annunciazione, mentre nel riquadro destro è l'Adorazione dei Magi e, a sinistra, tutto è andato perduto per la caduta dell'intonaco. Tutto il complesso pittorico è eseguito secondo una pittura massiva, rappresentata da grandi zone di colore giustapposte, con poche sfumature ed una gamma cromatica che tocca specialmente la gradazione delle terre.
Iscrizioni Tre iscrizioni sono state rinvenute durante gli scavi del cubicolo A: 1 - D(is) M(anibus)Aur(elio) Attician[o] I d(e)p(osito) III kal(endas) dece[mbrisJ
Ferma 1990, 133-134. 2 - D(is) M(anibus) Libertio d(eposito) non(is) oct(obris)
Ibidem .
3 - [Ae]lio Teren[tio] [qui vixit an]n(os) V be[ne] I [merenti] in p[ace] ICUR-NS, VI 15673.
Note critiche Il progetto decorativo del cubicolo A mostra un impianto eclettico, perfettamente coerente con la cultura figurativa della seconda
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metà del IV secolo, quando il vecchio repertorio funerario , collaudato nel frangente costantiniano, comincia ad evolversi e a intrattenere importanti rapporti con l'arte monumentale in formazione. Tutto il programma figurativo si muove dal maestoso Collegio apostolico che, pur nato nell'età tetrarchica (Testini 1963) trova, nell'ultimo scorcio del IV secolo, la sua ragione fondante di tipo politico religioso e dottrinale, ossia una coerente risposta alle eccezioni rivolte alla Chiesa ortodossa dal pensiero ariano (Biscanti 2000d). Il manifesto politico-religioso del Collegio apostolico è anche perno delle due narrazioni testamentarie che, nel Buon Pastore della volta e nel Cristo maestro del collegio trovano ragione e sostanza. È per questo che le due economie testamentarie si sviluppano in due registri ben separati ma contigui, proprio per sottolineare - secondo il pensiero patristico del tempo - che il Vecchio Testamento confluisce nel Nuovo e che il Nuovo prende forza dal Vecchio. La scelta dei temi sviluppa un ventaglio molto ampio: così, del Vecchio testamento, vengono scelti episodi canonici (Giona, Protoparenti, Daniele, Giovani ebrei, Susanna, Miracolo della /onte) ed altri raramente diffusi (Noè ubriaco, Cena d'Isacco, Mosè e gli israeliti) dimostrando come i prototipi iconografici vadano presumibilmente ricercati nelle bibbie miniate e come si annuncino i cicli dei grandi complessi basilicali (Kotzsche Breitenbruch 1976). Nella volta, per quanto rimane, dopo i recenti restauri, si ricono-
scono scene esclusivamente neotestamentarie, ispirate all'In/antia Salvatoris e forse agli scritti apocrifi (Massara 2000a). Il complesso figurativo, da collocare nell'ultimo scorcio del IV secolo, emula i grandi scenari decorativi degli edifici di culto, annunciando esperienze anche più tarde e complesse, come quello di Santa Maria Maggiore (Bisconti-Nestori 2000).
Interventi conservativi e restauri 1994: un sistematico intervento di restauro è stato effettuato tra il luglio e il dicembre 1994, a cura della ditta Tecnicon-Restauro Opere d'Arte ed Edifici Monumentali, coordinata da Paola Conti, con il controllo di Fabrizio Biscanti. Furono rimossi i 'restauri' degli anni '50 e si alleggerì la patina nera che copriva un po' tutta la superficie dipinta, anche con l'ausilio della microsabbiatrice. Si sistemarono i distacchi, si eseguirono consolidamenti profondi e superficiali. Si sistemò una porzione della volta caduta. Si eseguirono dei ritocchi per equilibrare le diffuse lacune (APCAS, prot. n. 479/ 94).
Bibliografia Testini 1963; ICUR-NS , VI 15673; Kotzsche Breitenbruch 1976; Ferma 1990; Biscanti-Del Moro 1999; Biscanti 2000d; BiscontiNestori 2000; Massara 2000a; Biscanti 2003b.
Fabrizio Biscanti
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IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI
17. LE FIGURE DI VENERANDA E DI SANTA PETRONILLA NELL'ARCOSOLIO DETTO DI VENERANDA NELLA CATACOMBA DI DOMITILLA Seconda metà del IV secolo
La lunetta dell'arcosolio si presenta solo parzialmente dipinta. Le pitture interessano la parte destra della lunetta, il sottarco, la fronte dell'arcosolio, con un motivo a ghirlanda, e il pilastrino scavato nel tufo all'estrema sinistra, con un cero [1]. Il settore di sinistra è invece occupato dai frammenti , ricomposti e ricollocati grosso modo nella posizione originaria, di una lastra di marmo incisa con un 'iscrizione funeraria che riporta il nome della defunta Karisia, ivi deposta (de Rossi 1875, 15-16; Marucchi 1909, 242 ). Nella lunetta dell'arcosolio è rappresentata una figura femminile che il gesto dell' expansis manibus identifica come defunta in atteggiamento di orante. Indossa una sottotunica e una lunga dalmatica di colore ocra con ampie maniche. Un'iscrizione dipinta in lettere rosse alla destra della defunta ne indica il nome, Veneranda, e la data della sua deposizione (Iscr. 1) . Nella copia realizzata da de Rossi Veneranda è rappresentata come una donna di giovane età, sebbene nelle copie successive, che dipendono tutte dalla prima, è raffigurata anziana ed è quindi invalsa la consuetudine di definirla come matrona (Wilpert 1903, 428). Ha il capo ricoperto da una cuffia bianca con merletti, dalla quale fuoriescono piccole ciocche di capelli, e un velo con frange ed orbicoli che le cade sulle spalle (de Rossi 1875 , 17; Wilpert 1903 , 428) , come è meglio visibile nella copia di de Rossi, e nella tavola Wilpert-Tabanelli (de Rossi 1875, tav. I; Wilpert 1903 , tav. 213) . Il copricapo è stato interpretato come un'acconciatura a turbante, con trecce disposte a banda intorno alla testa e ciocche ondulate sopra la fronte (Giuliani 1994, 83-84). La defunta è accompagnata da una giovane donna che indossa tunica talare, dalmatica più corta e palla. Il modo in cui è piegata la palla, a formare una fascia (Wilpert 1903, 428 ), e l'acconciatura, in voga nella casa imperiale nel III e nel IV secolo (Giuliani 1994, 83 ), rivelano la nobiltà della sua nascita. L'iscrizione dipinta a sinistra e destra della figura la identifica come la martire Petronilla (Iscr. 2). Il suo braccio destro è appoggiato sulle spalle di Veneranda in un gesto di introduzione, il sinistro è steso e abbassato ad indicare sulla destra uno scrinium pieno di rotoli; più in alto è raffigurato un codice aperto e munito di lungo nastro sciolto. Entrambi alludono alle Sacre Scritture con le verità di fede osservate in vita dalla defunta Veneranda, introdotta nella beatitudine celeste, cui allude il cespo di fiori stilizzati che completa la scena sulla sinistra e che richiama, in maniera sintetica, un habitat paradisiaco.
Iscrizioni Iscrizioni esegetiche su campo di ripiego , in maiuscola di base capitale libraria, a caratteri rossi su fondo bianco, allineate irregolarmente ai fianchi delle figure femminili, con apicatura accentuata sulle lettere (ICUR-NS, III 6963 ). 1 - Veneran/da dep(osita) I VII idus ia/nuari/as 2 - Petra/nella I mart.(yr)
Note critiche L'arcosolio del cubicolo di Veneranda servì a tre sepolcri diversi. In una prima fase si utilizzò il solium , come di consueto, e i loculi
interni. In un secondo momento, la nicchia dell'arcosolio fu chiusa con una muratura di tufelli e mattoni per ospitare un'altra sepoltura che andò ad occupare la mensa: vi fu inserita la lapide con l'iscrizione che riporta il nome della defunta Karisia e ché de Rossi ha potuto datare all'anno 356 (de Rossi 1875 , 15-16). Una pratica diffusa nelle catacombe determinata dalla necessità di sfruttare al massimo lo spazio per le sepolture. Un esempio coevo è offerto dall'arcosolio murato con iscrizione e Maiestas Domini nella catacomba della ex Vigna Chiaraviglio (-. 27_c). La decorazione pittorica dell'arcosolio appartiene all'ultima fase di utilizzo dello spazio sepolcrale, quando fu addossata al parapetto un'arca in muratura destinata alla deposizione della defunta Veneranda: la stesura dell 'intonaco dipinto , infatti, arriva a lambire la mensa di quest'arca (Giuliani 1994, 65). Che la pittura sia stata realizzata dopo l'iscrizione riferibile al 356 è confermato dal fatto che, al momento della scoperta, le fasce rosse, che incorniciano il dipinto, proseguivano ai margini della lapide stessa (de Rossi 1875, 16; Wilpert 1903 , 428) . Ciononostante, alcuni studiosi hanno pensato per errore che in origine la pittura occupasse interamente lo spazio della lunetta e che, al posto dell'iscrizione, vi fosse la parte, poi caduta, dell'intonaco dipinto (Testini 1966, 296;Jagherschmidt 1966, 169). D 'altronde, la preesistenza della lapide al momento della decorazione dell'arcosolio è stata recentemente confermata dal restauro che ha permesso di osservare come, in prossimità del margine destro della lastra, l'intonaco dipinto prosegua in corrispondenza dello spessore della muratura e quindi la pittura non solo lo presuppone, ma rispetta la lapide con l'iscrizione, incorniciandola su tre lati (Giuliani 1994, 74-76, 79). La data del 356, alla quale è stata assegnata l'epigrafe, costituisce dunque un sicuro terminus post quem per la cronologia delle pitture dell'arcosolio. Per esse de Rossi suggerì, in prima analisi, una datazione alla fine del secolo IV o alla prima metà del V (de Rossi 1874, 124), main un secondo momento, sulla base dei dati forniti dall'iscrizione, si espresse a favore di una collocazione di poco posteriore al 356 (de Rossi 1875 , 17) e più genericamente, su base stilistica, alla seconda metà del IV secolo (ibidem, 18). Con lui si allineò Wilpert che suggerì «l'anno 357 o poco dopo» (Wilpert 1903 , 428). Più di recente, Pergola ha proposto di avanzare la datazione alla metà del V secolo, o almeno ai primi decenni dello stesso, sulla scorta dell'analisi topografica della regione della catacomba dietro l'abside della basilica e della successione delle sepolture all'interno del cubicolo (Pergola 1992, 629). Dopo il restauro, la cronologia è stata circoscritta alla seconda metà avanzata, o forse anche alla fine, del IV secolo, a seguito di osservazioni di tipo tecnico, che riguardano la successione delle ultime due fasi dell'arcosolio, e di riflessioni in merito alle scelte adottate sul piano stilistico (Giuliani 1994, 83-86). L'importanza della decorazione pittorica dell'arcosolio investe tanto il piano archeologico-topografico, quanto quello liturgico e dogmatico. La pittura attesta come fosse già vivo, nella seconda metà del IV secolo, il culto per la martire Petronilla. L'immagine è la più antica testimonianza nota e il suo ritratto è, nel contempo, un riflesso della promozione del culto dei martiri in età damasiana che contribuì notevolmente ad accrescere il fenomeno delle sepolture ad sanctos (Fiocchi Nicolai 2001, 52). Questa pittura è inoltre un 'espressione visiva, particolarmente eloquente, dell'intercessione dei santi a favore dei defunti in qualità di patroni.
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È probabile che la tomba di Petronilla fosse collocata a poca distanza da questo cubicolo (de Rossi 1874, 124; Marucchi 1909, 244). Il suo sarcofago, secondo una tesi suggestiva di de Rossi, si trovava forse nella nicchia dipinta ubicata nella parte settentrionale dell'abside (de Rossi 1878, 133) . Nella passio dei santi Nereo e Achilleo, redatta tra il V e il VI secolo, Petronilla è associata ai due martiri ed è identificata con la figlia di san Pietro, morta sotto Domiziano, ma senza subire il martirio (AASS, Mai, III, 10-11; VII, 413-415 ). Le sue spoglie, sepolte nel cimitero di Domitilla insieme a quelle dei martiri Nereo e Achilleo, sarebbero rimaste lì fino alla metà dell'VIII secolo, quando il pontefice Paolo I (757767) le trasferì in Vaticano insieme al sarcofago che le conteneva (Amore 1968, 514-517). La passio è un racconto leggendario, senza alcun valore storico: l'analisi delle fonti archeologiche e agiografiche smentisce il legame di Petronilla con l'apostolo Pietro e non ci sono notizie certe sulla sua vita e sulla data della sua morte; tuttavia, è certo che fu sepolta nel cimitero di Domitilla e non si può escludere che ella fosse martire, dal momento che, senza dubbio, godette di una grande venerazione (ibidem, 514-515). Recentemente, però, è stata avanzata anche l'ipotesi di identificare in Petronilla una donatrice-evergete che avrebbe contribuito in modo significativo al finanziamento della costruzione della basilica e per questo vi avrebbe ottenuto un'inumazione privilegiata. Dalla suggestione
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legata a questa sua particolare sepoltura e alla sua figura di donna devota, si sarebbe presto diffusa la leggenda che ne fece una martire, della quale la pittura nell'arcosolio di Veneranda sarebbe una testimonianza concreta, generando così un 'attrazione cultuale supplementare nella catacomba di Domitilla, che si sarebbe aggiunta alla venerazione dei due soldati martiri, Nereo e Achilleo. La successiva redazione della passio avrebbe quindi sancito e sistematizzato uno stato di fatto (Pergola 1992, 63 3). La presenza nella basilica delle spoglie dei martiri e della tomba di Petronilla è senza dubbio all'origine dello sviluppo di un'ampia regione costituita da gallerie nelle quali si aprono numerosi cubicoli, con la creazione di un vero e proprio retro sanctos, secondo un'espressione ripetuta in alcune formule epigrafiche dell'epoca (de Rossi 1874, 123 ; Marucchi 1909, 244-245) . Qui i defunti, sepolti in prossimità dei martiri, possono usufruire della loro intercessione per garantirsi il paradiso. Tali sepolture 'privilegiate' sono legate per lo più ad una committenza facoltosa. Il culto dei santi, a partire dall'età di papa Damaso (366-384) , è, infatti, gestito da poche famiglie benestanti che stabiliscono un rapporto particolare, intimo e confidenziale, con i martiri e le loro sepolture (Biscanti 1995b, 555 ) e questo fenomeno ha un immediato riflesso sul piano iconografico. Nella seconda metà del IV secolo, si afferma un nuovo filone agiografico-cultuale che inserisce santi e martiri nell'ambito
della pittura funeraria, nello stesso momento in cui questa accoglie i grandi temi teofanici propri delle absidi monumentali e li inserisce nel contesto di queste iconografie di 'introduzione patronale' (Biscanti 1998c, 51 -53; - 27) . Nella pittura delle catacombe si conservano poche altre rappresentazioni che mostrano il defunto accompagnato da uno o due santi ed esse risalgono tutte alla seconda metà del IV s~colo (Wilpert 1903, tavv. 219, 2, 241, 243, 2, 249, 1). Esse sarebbero la trasposizione figurativa di quella numerosa serie di iscrizioni sepolcrali nelle quali si augura ai defunti la vita, la pace con i santi oppure si prega perchè i santi accolgano le anime dei defunti e le introducano alla beatitudine celeste (ibidem, 426427) . Sul piano iconografico, rispetto alla formula del cosiddetto 'Giudizio particolare', in cui si decide la sorte dell'anima prima della vita oltre il sepolcro e che comprende il Cristo giudice, il defunto nel gesto dell' expansis manibus e i santi che intercedono per lui quali «advocati apud Deum et Christum» (ibidem, 360-383 ), come nel caso dell'arcosolio del cimitero di Ermete (Wilpert 1903 a, tav. 247) , nelle raffigurazioni di introduzione in paradiso, soprattutto in quella di Veneranda e Petronilla, si è compiuto idealmente un ulteriore passaggio, per cui la defunta è già partecipe della beatitudine celeste, come attesta la presenza della santa. Tra martiri e defunti si stabilisce così un rapporto inter pares, che qualifica i primi come patroni e intercessori (Biscanti 1995b, 555 ), rapporto confermato dalle identiche proporzioni delle due immagini femminili, che è un'eccezionale deroga al definirsi, in questa stagione figurativa, del modulo proporzionale delle figure su valori gerarchici (Biscanti 1998a, 139). Questo fenomeno tocca il suo apice agli inizi del V secolo nella decorazione della volta del cubicolo detto 'dei Santi' nel cimitero dei Santi Marcellino e Pietro, dove i quattro martiri più venerati nella catacomba, Tiburzio, Gorgonia, Pietro e Marcellino , sono associati ai principi degli apostoli in una composizione piramidale che presenta il Cristo al vertice e sviluppa una vera e propria catena di patroni che vede qui, figurativamente soctintesa, la presenza dei defunti deposti nel cubicolo (- 25 ). Sul piano stilistico le figure di Veneranda e Petronilla mostrano un impianto vigoroso e saldo, reso anche attraverso la volumetria dei panneggi e l'impiego di lumeggiature nei volti, in corrispondenza della fronte, del naso e della bocca. Il volto di Petronilla presenta un'espressione immobile ed una resa quasi stereometrica. Come nota Testini, da un lato, le figure della defunta e della santa sono espressione del consolidamento dei valori plastici che si avverte nella pittura del tempo di Valentiniano I (364-375 ), dall'altro, la resa dei tratti fisionomici rivela l'influsso, sull'espressionismo di matrice tetrarchica, del classicismo retrospettivo della metà del secolo°(Testini 1966, 296, 302). In tal senso lo stile delle figure di Veneranda e Petronilla esprime bene, nei suoi caratteri peculiari,
la dialettica tra la tradizione espressionistica e il classicismo di revival, i due poli del linguaggio stilistico della metà del IV secolo che si affermeranno di nuovo , in parallelo, in età teodosiana e onoriana (si veda Biscanti 1998a, 138-140). La decorazione dell'arcosolio di Veneranda, sul piano compositivo, è espressione di quel fenomeno di semplificazione dei contesti figurativi che si afferma a partire dalla seconda metà del IV secolo. A scenari aperti di derivazione ellenistica, si sostituisce, progressivamente, un'organizzazione misurata e geometrica della composizione e delle figure, con la contrazione dei soggetti iconografici, per agevolare la lettura e cogliere immediatamente il-significato della scena: un cespo di fiori ad indicare il Paradiso, i rotuli e il codice con i sigilli sciolti ad alludere, rispettivamente, alla legge divina, osservata in vita dalla defunta, e alla Verità rivelata post mortem (Biscanti 1998a, 138-139) .
Interventi conservativi e restauri
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1993: le pitture dell'arcosolio sono state oggetto di un intervento di restauro nel periodo febbraio-marzo 1993 , a cura della PCAS. L'intervento si è reso opportuno in considerazione del grave stato di conservazione delle pitture, che si presentavano scarsamente leggibili a causa di efflorescenze biancastre di sali e di patine di microrganismi, che avevano causato in alcuni punti estese patine nerastre che disturbavano la lettura del testo pittorico. L'intervento di restauro ha comportato le seguenti operazioni di consolidamento, pulitura e integrazioni: consolidamento dei sollevamenti e distacchi della pellicola pittorica; pulitura della superficie e rimozione di terra e microrganismi, rimozione delle antiche stuccature cementizie e ripristino di nuove stuccature; reintegrazione pittorica con pigmenti opportuni (Giuliani 1994, 67-73).
Documentazione visiva de Rossi 1875, tav. I; tavola cromolitografica di de Rossi in Marucchi 1909, fig. 129, tav. XXXVI.
Bibliografia de Rossi 1874, 123-124; de Rossi 1875 , 15-18, 36-37; tav. I ; de Rossi 1878, 133; Wilpert 1903 , 360-383 , 426-428, tavv. 213 , 219, 2, 241 , 243, 2,249, 1; Marucchi 1909, 242-245; Testini 1966, 296, 302; Jagherschmidt 1966, 169; Amore 1968, 514-517 ; Pergola 1992, 629, 633 ; Giuliani 1994, 67-73, 75-76, 83-86; Biscanti 1995b, 555 ; Biscanti 1998a, 139-140; Biscanti 1998c, 51-53; Biscanti 2002a, 8-10; Fiocchi Nicolai 2001 , 52 . Stefania Pennesi
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18. ORFEO NELL'ARCOSOLIO 79 DELLA CATACOMBA DEI SANTI MARCELLINO E PIETRO Seconda metà del IV secolo
Al centro della lunetta Orfeo è rappresentato giovane ed imberbe, seduto in posizione semi frontale e rivolto di poco a sinistra, mentre solleva lo sguardo indirizzandolo fuori dal riquadro, e le sue braccia si allargano lungo i fianchi: la mano destra impugna il plettro, mentre la sinistra, che si intravede dietro le corde della lira, ha il palmo rivolto verso l'esterno [1]. Indossa una tunica azzurra , lumeggiata di rosso e ocra, con maniche strette fino ai polsi e chiusa sulla parte anteriore da una banda di stoffa di colore bruno con piccoli tondi bianchi simili a perle; calza il berretto frigio , ornato da un giro di perle, dal quale spuntano, lungo la nuca, i riccioli dei capelli. La spalla destra è ornata di un orbiculus perlinato e sopra, appuntata da una spilla, anch 'essa di perle bianche, è annodata la clamide, che ricadendo dietro la schiena, si raccoglie sulle ginocchia incrociate. Ai lati della figura sono dipinte tre piante, disposte in modo asimmetrico e su due livelli sbalzati: sul piano più esterno a sinistra è un arbusto con foglie piccole e sparse, tra le quali è appollaiato un volatile che guarda Orfeo; sul lato opposto, un'altra pianta, caratterizzata nel fusto da escrescenze legnose, simili ai rami potati del pino, e da un reticolo di linee, che simulano le placche del fusto di una palma. Tra le fronde , dalle sottili foglie ascendenti, si scorge un secondo uccello, che dispiega le ali tendendosi verso l'alto, come per spiccare il volo. Sull'estremità destra, infine, è un cespuglio, con foglie estremamente stilizzate. La figura di Orfeo è conservata dalle ginocchia in su, mentre la parte inferiore è perduta a causa dell'apertura di un loculo che, in epoca posteriore ha tagliato tutta la parte bassa della lunetta. Il sottarco è ornato da dodici grandi quadrati con fioroni, raccordati
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agli angoli da cerchi legati fra loro da bande rosse: ognuno di essi è ornato da un fiore quadripetalo, inserito in un cerchio dentato. Nel soprarco, da sinistra a destra, una sequenza di scene bibliche e cristologiche comprende il Miracolo della fo nte, accanto ad un portale classico, semiaperto, tra due colonne; Daniele tra due leoni, scena mutila in tutta la parte superiore a causa dell'apertura di un secondo loculo (Ferrua 1968, 75). Infine la Resurrezione di Lazzaro, col Cristo dal volto giovane, i capelli corti e ricciuti e il segno del cristogramma, ben in mostra sul lembo del pallio.
Note critiche La rappresentazione di Orfeo ha trovato larga diffusione nella cultura figurativa di epoca romana, in particolare nei mosaici pavimentali e in contesti funerari , dove il cantore trace è rappresentato mentre suona la lira tra animali e indossa abiti orientali (Bis conti 1988, 431 ). A partire dal III secolo , la sua figura è assimilata a quella di Cristo. Clemente Alessandrino paragona Orfeo, incantatore di animali, al Logos di Dio, capace di ammansire le bestie feroci (Protr. 1,3; Stern 1979, 2; Biscanti 1988, 431 ; Id. 2000q, 237 ), mentre Eusebio di Cesarea, nella Laudatio Costantini, afferma che Cristo «come l'Orfeo dei greci, riuscì a dominare non tanto gli animali privi di ragione ma addirittura le creature umane dotate di un 'anima intelligente ... Egli fece di più, costruì uno strumento con le sue stesse mani, l'uomo, e con la musica di questo strumento affascinò ed ammansì i costumi dei barbari e dei greci, dominando i loro istinti più brutali e feroci» (Laud. Cast. 14; si veda inoltre il saggio di Lorenza
de Maria in questo volume) . Nella pittura cimiteriale l'immagine
fa la sua comparsa in un cubicolo di Callisto datato alla seconda metà del III secolo (Nestori 1975 [1993] , 104 n . 9), dove Orfeo è rappresentato mentre suona la lira tra due ovini: la scena è campita nello spazio strategico della volta, a testimoniare l'importanza assunta dalla figura come simbolo di Cristo. Anche nella scena dipinta nel cubicolo 64 (Nestori 1975 [1993] , 60 n. 64), nella catacomba dei Santi Marcellino e Pietro , Orfeo è raffigurato sulla sommità della parete di ingresso , quasi «a sovrintendere a quattro episodi biblici, alternati in forma chiastica, per significare che il Cristo serve a riunire le due economie testamentarie [ ...] come risposta ortodossa alle controversie cristologiche che travagliarono la Chiesa di Roma durante il IV secolo» (Biscanti 2000r, 3 63). In quest 'ultima scena Orfeo è rappresentato mentre suona la lira, invece nella scena dell'arcosolio 79 la figura , pur essendo rappresentata come di consueto, assisa e con gli strumenti musicali, non compie, de f acto, il gesto di suonare: le sue braccia si aprono lungo i fianchi in un senso quasi simbolico e per nulla narrativo. I grandi occhi a mandorla spalancati dirigono lo sguardo verso l'alto, in un punto che non ha riferimenti precisi con il resto della scena, come per attingere ad una dimensione altra rispetto ad essa, e trascendente. Alla sua sinistra si intravede la pianta della palma (Stern 197 4, 2-3) o del pino (Deckers et al. 1987, 349), su cui sta il volatile ad ali spiegate. Se la palma e la fenice sono strettamente unite in quanto simbolo di rigenerazione e di salvazione, definite entrambe, presso i greci, con lo stesso nome di phoenix (Biscanti 1979, 30) , e se qui la forma dell'albero evoca quella della palma (pur se non la riproduce fedelmente) , tuttavia non sembra che il volatile abbia l'aspetto della fenice, dal momento che non è raffigurato con gli attributi tipici dell'uccello mitico, come il nimbo, i raggi e soprattutto la
curva del collo ad 'esse' (Biscanti 1981a, 47) . Alcuni particolari, quali il becco adunco, le zampe dai rigidi e nervosi artigli, il piumaggio grigio delle ali reso con tratti fitti e marcati, la identificano piuttosto come aquila (Stern 1974, 1; Murray 1981, 39; Biscanti 2000r, 363 ). L'immagine dell'aquila, posta di profilo ad ali spiegate, ha riferimenti nella monetazione coeva di IV secolo, di conio imperiale (moneta n. 114 , Bruun 1966). Sempre a proposito dell'aquila giova ricordare che a Dura Europos, nel III secolo, essa è rappresentata insieme alla figura di Re David, alla quale è assimilata talvolta l'iconografia del cantore trace (Biscanti 1988), così da apparire meno casuale la sua presenza accanto ad Orfeo, nella raffigurazione dell'arcosolio in questione. Come ha sottolineato Biscanti, il tipo di partitura architettonica dell'intera parete costituisce un eccezionale esempio del perdurare dello «stile architettonico» in un contesto pittorico che, per ragioni stilistiche e iconografiche (ad esempio la presenza del monogramma sul pallio di Cristo), accoglie oggi una proposta cronologica circoscrivibile all'ultimo decennio del IV secolo (Biscanti 1994b, 32), piuttosto che quella più tradizionale stretta tra il 310 ed il 330 (Stern 1974, 3).
Documentazione visiva Ferma 1958, tav. 16b.
Bibliografia Ferma 1958a, 55; Ferma 1968, 71; Stern 1974, 1-5; Biscanti 1981c, 1350-1351; Murray 1981b, 39; Biscanti 1982, 731-744; Stiitzer 1983, 46; Deckers et. al. 1987, 348-350; Biscanti 1988, 429-436; Biscanti 1994b, 32; Biscanti 2000q, 236-237. Claudia Corneli
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19. LE PITTURE DEL CUBICOLO 'DI LEONE' NELLA CATACOMBA DI COMMODILLA 375-380
Il monumentale cubicolo dell' o//icialis Annonae Leone fu fortuitamente scoperto, durante lavori edilizi, a sud-est rispetto alla catacomba di Commodilla nel corso del 1953 e fu immediatamente fatto oggetto, insieme alla regione periferica cui appartiene, di indagini dirette da padre Ferrua nel corso dei due anni successivi. Al monumento si accede attraverso un ampio arco di ingresso con apertura pari all'ampiezza delle pareti, le cui parti strutturali sono sottolineate da una triplice fascia articolata nei colori rosso, verdeazzurro e bruno. Esso risulta straordinariamente affrescato con una teoria di dodici colombe (sei per lato) disposte di profilo ai lati di una colomba centrale, assisa sul monte paradisiaco, nimbata e con il capo visto di prospetto. Poco più in basso si dispongono, agli estremi dell'arco, due pecore divise dalla precedente teoria solamente da una sottile linea di colore verde-azzurro, le quali sono da mettere in relazione alle figure dei santi eponimi Felice e Adautto che compaiono sui piedritti dell'arco [1] . I due martiri, che si distinguono nelle fattezze giovanili di Adautto (a destra) e senili di Felice (a sinistra), sono rappresentati rivolti verso l'ingresso del cubicolo con una corona levata nella mano destra, mentre con la sinistra reggono il lembo del pallio indossato sopra la tunica clavata. L'intradosso dell'arco è occupato da una ghirlanda vegetale all'interno della quale si dispongono numerosi gruppi di tre pomi rossi, mentre sul pilastro destro venne ricavata una scena di genere bucolico composta da due ovini al pascolo all'ombra di un albero frondoso. Molto ricca appare la decorazione della volta [2, 3] , particolare nella sua articolazione a crociera molto appiattita, composta da un cassettonato nel quale, all'interno dei riquadri ottenuti attraverso la definizione di spesse linee rosse, si ricavarono stelle a otto punte con puntini ai vertici. In un momento di poco successivo venne operata una correzione, per così dire, in corso d 'opera, con la scialbatura approssimativa di nove riquadri centrali per ottenere lo spazio nel quale inserire il monumentale busto di Cristo. Questi si presenta secondo una formulazione matura, in tunica clavata con capelli mossi lunghi fino alle spalle e una folta barba, mentre il capo, circondato da un nimbo ottenuto con una doppia linea rossa e azzurra, risulta affiancato dalle lettere apocalittiche a e ro [3]. La parete a destra dell'ingresso si articola in un arcosolio basso ma di ampie dimensioni, anch'esso completamente affrescato con riquadri che si aprono sulla superficie campita a spesse fasce rosse. La struttura dell'arco viene sottolineata da un motivo floreale (fiordalisi) racchiuso in un campo bianco affiancato, come di consueto, da più fasce di spessore e colore diversi (azzurro, rosso e bruno), e l'impianto puramente decorativo si riscontra anche nella volta in cui si nota un articolato sistema a pelte convergenti verso lo zenit. La lunetta [4] è occupata dalla scena del Ter negabis, svolta all'interno di un'ambientazione urbana, suggerita più che descritta, da linee di colore azzurro che disegnano un arco affiancato a tetti o a mura rettilinee. In primo piano, a sinistra, Pietro appare rappresentato stante con i consueti caratteri fisionomici mentre ascolta, con atteggiamento mesto , la predizione di Cristo, qui rappresentato nimbato e con capelli lunghi anche se imberbe. L'interpretazione della scena è affidata all'elemento centrale, costituito dall'alta colonna sulla quale è raffigurato il gallo, ed al gesto compiuto da Cristo che, con il braccio levato, indica con la mano destra il numero tre. All'estrema destra, figura un personaggio maschile nimbato e dai capelli corti, vestito, come gli altri protagonisti, in tunica e pallio, identificabile probabilmente con
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un apostolo che assiste alla scena. Gli intradossi destro e sinistro sono campiti con riquadri bianchi all'interno dei quali si inseriscono due figure giovanili e nimbate, anch'esse vestite di tunica clavata e pallio, per le quali l'assenza di qualsiasi elemento identificativo più preciso ha fatto avanzare diverse ipotesi interpretative. A sinistra rispetto all'ingresso si apre un secondo arcosolio che presenta una struttura decorativa molto simile a quella della parete affrontata. L'apertura dell'arco è sottolineata, anche qui, da una fascia decorata con elementi vegetali (fiordalisi) , che in questo caso, a causa della minore profondità dell'arcosolio stesso, si ripete nell'intradosso senza lasciare spazio a più ampi motivi figurativi. La lunetta è decorata , in perfetto pendant rispetto alla scena del Ter negabis, ancora con un episodio del ciclo petrina. Su di uno sfondo che accenna con semplici linee azzurre un contesto urbano, campeggia, quasi al centro del campo figurativo , la figura di Pietro dai caratteristici tratti somatici vestito di tunica e pallio, colto di tre quarti verso destra. L'apostolo, con il braccio levato e la virga virtutis in mano, fa sgorgare l'acqua da una roccia di colore scuro posta all'estrema destra, alla quale si accostano i due carcerieri perfettamente identificati dal copricapo pannonico. La sepoltura più monumentale, per posizione ma anche dal punto di vista decorativo , risulta l'arcosolio di fondo , cui era riservata, con tutta probabilità, la deposizione dell ' o//icialis Annonae Leone menzionato nel titulus [2] . Esclusa la volta, all'interno della quale si dispone un motivo decorativo a cerchi e poligoni irregolari riempiti da fiori composti da punti accostati, la lunetta e l'intradosso appaiono completamente occupati da rappresentazioni di carattere figurativo piuttosto complesse. All 'interno della lunetta , entro fasce concentriche rosse e azzurre, si dispone il motivo principale a spiccato carattere teofanico. La cornice è ancora costituita da uno sfondo urbano, appena delineato in azzurro, di fronte al quale si colloca una scena di Maiestas Domini con il Cristo centrale affiancato dai martiri eponimi, come testimoniano le seppur ormai molto evanidi didascalie. La figura di Cristo si presenta in posizione frontale con proporzioni solo leggermente maggiorate, e risulta ben riconoscibile grazie all'ampio nimbo azzurro , che avvolge il capo caratterizzato da fluenti capelli scuri, e al codice aperto retto nella mano sinistra alla quale si contrappone la destra portata all'altezza del petto. Ai suoi lati si dispongono Felice, a destra, e Adautto, a sinistra, in posizione perfettamente chiasmica rispetto all' arcane di ingresso , ed anche in questo caso pienamente caratterizzati dai tratti cui si associano le didascalie dei nomi. Il loro atteggiamento risulta convergente verso il centro della composizione e si articola nel gesto dell' acclamatio della mano destra, mentre la sinistra è portata a trattenere il pallio. A questa rappresentazione cristocentrica della lunetta, fanno da contrappunto le numerose scene affrescate nell'intradosso, le cui pareti destra e sinistra appaiono come superfici piuttosto complesse, articolate con una nicchia per lato. Qui la decorazione si spinge alle potenzialità massime, arricchendo la parete di veri e propri pinakes giustapposti, tanto che la lettura e la comprensione di tali raffigurazioni, a volte quasi miniaturistiche, non risulta sempre agevole. A sinistra rispetto alla lunetta, verso l'esterno, il pannello superiore, molto rovinato, presenta due personaggi maschili affrontati rispetto ad una cista di rotuli centrale, sovrastata da un cielo ricco di nubi apocalittiche di colore rosso, tra le quali si può scorgere la mano
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divina. Immediatamente al di sotto, sempre in direzione dell'apertura dell'arcosolio, si apre una nicchia arcuata, anch'essa completamente affrescata in tutti i suoi elementi. La volta presenta uno staurogramma centrale con lettere apocalittiche affiancato (a sinistra) da una colomba e (a destra) dalla silhouette di Daniele fra i leoni. All'interno della lunetta, invece, la scena della Moltiplicazione dei pani venne rappresentata con una sostituzione zoomorfa, ovvero, un ovino (sulla sinistra) rivolto di profilo verso destra, con una virga virtutis sollevata in direzione di sette ceste di pane [5]. Nell'ultimo riquadro in basso, lo stesso linguaggio venne utilizzato per rendere una Maiestas Domini nella quale a Cristo si sostituisce un agnello di prospetto e nimbato, affiancato da altri due ovini rappresentati di profilo convergenti verso l'Agnus Dei. La parte destra dell'intradosso sinistro appare interamente occupata da due pannelli rettangolari allungati sovrapposti, in cui si collocano esclusivamente due figure intere. Quello superiore presenta un personaggio maschile posto di tre quarti verso sinistra abbigliato, come di consueto, in tunica clavata e pallio, ma né il nimbo, né lo strumento che, forse, appare nella mano destra possono aiutare a chiarirne fino in fondo l'identificazione. Il pannello inferiore presenta una figura femminile orante nimbata, rappresentata frontalmente, ai piedi della quale si dispone un agnello di profilo. Se possibile ancora meno agevole risulta la decorazione della parete destra dell'intradosso, composta da due riquadri e una nicchia. Il pannello sviluppato in senso verticale in alto a sinistra risulta ripartito in due settori da una linea orizzontale, al di sopra della quale si colloca il busto di Cristo nimbato e attorniato da nubi rosse, mentre con la mano sinistra sembra mostrare qualcosa. La destra è invece protesa verso il personaggio sottostante, il quale appare con il capo sollevato verso l'alto e il braccio destro ugualmente alzato, secondo un atteggiamento che indica un colloquio fra le due figure , ma lascia aperte molte interpretazioni a riguardo. Il campo inferiore presenta problemi interpretativi ancora maggiori, in primo luogo anche in virtù del non eccellente stato di conservazione. Da destra a sinistra, due cursores, simbolo dunque dell'eminente stato del protagonista, precedono una quadriga di cavalli bianchi guidata da un cocchiere e sulla quale siede, in posizione fortemente rilevante, un personaggio nimbato con la mano destra alzata probabilmente nel gesto dell' adlocutio. La scena è conclusa a sinistra da un personaggio con un lungo bastone curvo in mano, il quale chiude questa sorta di corteo la cui interpretazione non è ancora univocamente condivisa. All'interno della nicchia soprastante, le intere pareti sono state campite con un motivo floreale che riproduce un giardino di rose rosse, sovrastato, nella volta, da uno staurogramma accompagnato dalle lettere apocalittiche a e ro.
Iscrizioni 1 - Sull'arco di ingresso, ai lati dell'apertura, iscrizioni esegetiche in campo di ripiego, in maiuscola di base capitale libraria, a caratteri rossi su fondo bianco, con buon allineamento, recanti apicatura alle estremità (ICUR-NS, II 8645). Adautus Felix 2 - Sull'arco di ingresso, iscrizione dedicatoria in specchio di
corredo, a caratteri bianchi su fondo rosso, in maiuscola di base capitale libraria ben allineata, con apicatura evidente alle estremità. Leo officialis ann(onae) si[bi] I vivo fecit cubuculum in cem(eterio) I [A]dauti et Feli[c]is
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3 - Arcosolio di fondo , intradosso di sinistra, iscrizione votiva, monogramma cristologico con le lettere apocalittiche a e ro in rosso su fondo bianco. Si nota la Q in forma minuscola. 4 - Arcosolio di fondo, intradosso di destra , iscrizione votiva, monogramma cristologico con le lettere apocalittiche a e ro in rosso su fondo bianco . 5 - Nella volta, a destra e a sinistra del Cristo, in campo di ripiego, le lettere apocalittiche a e ro in rosso. Si nota la Q nella forma minuscola.-
Note critiche La decorazione dell'intero cubicolo, che risulta eseguita in un unico momento, come testimoniano la coerenza dei motivi decorativi di raccordo e l'uniformità dello stile pittorico, si configura come uno dei momenti più complessi e maturi dell'arte paleocristiana, una vera e propria summa dei motivi elaborati nel corso di un secolo e mezzo di 'evoluzione'. Innanzitutto, è da notare la scansione delle pareti e della volta, concepite come superfici pittoriche tout-court di cui si cerca di sfruttare appieno le potenzialità, sottolineando solamente in alcuni casi, per così dire, canonici (la ghiera e i sottarchi degli arcosoli) la funzione strutturalmente rilevante. Si è ormai molto lontani dalla partizione in registri sovrapposti o in campi che aveva contraddistinto le prime manifestazioni pittoriche delle catacombe, così come ormai superata appare l'inserzione di motivi decorativi o figurati all'interno di ariosi spazi appena conchiusi da agili linee rosso-verdi. Le scene si articolano in pinakes giustapposti, sottolineati da cornici concentriche di colori diversi, mentre la parete appare dominata da una vistosa tinta rossa che esclude qualsiasi sfumatura intermedia, proprio come accade nelle più tarde manifestazioni cimiteriali quali, ad esempio, via Dino Compagni, Gordiano ed Epimaco o l'ipogeo di Grottaferrata (- 26). Nel caso del cubicolo di Leone ci si trova di fronte ad affreschi sicuramente non corsivi nella realizzazione, tuttavia attenti alla definizione dei personaggi, non solamente nell'espressione dei tratti somatici (si vedano Felice e Adautto), ma anche nella sottile differenziazione delle tinte del vestiario, cui si presta una gamma cromatica piuttosto complessa che comprende le sfumature del rosso e del bruno, ma anche il giallo, il verde, l'azzurro e il rosa vivo per gli incarnati. La complessità dei temi si manifesta già dal monumentale ingresso, nel quale i due santi eponimi offrono corone elevate verso la teoria di colombe conclusa da due ovini. Dunque, il programma decorativo si apre proprio all'insegna dei martiri venerati all'interno della catacomba, secondo lo schema dei santi portacorona, che trova, proprio in questo periodo, le sue prime formulazioni. La soluzione iconografica, desunta dall'imponente rituale dell'omaggio offerto all'imperatore, si rintraccia in alcuni monumenti pertinenti alla medesima congerie culturale, dalla catacomba di Gordiano ed Epimaco (Testini 1963, 255-256), all'ex Vigna Chiaraviglio (-27ad), fino ad arrivare alla rappresentazione di Lorenzo e Gennaro nella catacomba di Napoli (Fasola 1975 , tavv. 6, 97, fig. 69) e al battistero di San Giovanni in Fonte sempre a Napoli (Maier 1964, tav. 6). Tutti gli esempi citati propongono una tipologia con caratteristiche piuttosto simili, che coinvolgono di volta in volta personaggi diversi, da Pietro e Paolo a generici apostoli, i quali recano corone reali o dorate ad imitazione di queste ultime, simbolo, allo stesso tempo, dell'offerta reverenziale a Cristo e del martirio subito. In particolare è nella Ravenna del V secolo che il tema trova ampia diffusione, sviluppando la ripetizione del modulo fino alla creazione di vere e proprie processioni di santi, presenti sulle volte
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del battistero degli Ortodossi prima, e degli Ariani poi. L'accento posto nel monumento in analisi proprio sull'aspetto martiriale, in quanto vittoria sulla morte terrena, si inserisce perfettamente nell'ambito culturale in cui gli affreschi del cubicolo vennero realizzati, ovvero il pontificato di papa Damaso (366-384), la cui attività di promozione verso il culto dei martiri non si espresse solo a livello di committenza ecclesiastica, ma lasciò traccia anche nelle scelte private. Il clima trionfalistico, di cui l'immagine dei due santi portacorona risulta permeata, bene si evince anche nell'epigramma damasiano dedicato a Felice e Adautto (Ferrua 1942, 98-101), che, con le sue immagini fortemente suggestive, dovette influenzare lo spirito della decorazione (Paleani 1986, 369-387). Tale eco culturale si riflette anche sulla ghiera dell'arco immediatamente soprastante, nella quale si articola la scelta iconografica forse più suggestiva dell'intero programma, nonostante lo stato di conservazione non risulti eccellente. In un'efficace sostituzione zoomorfa, Cristo viene rappresentato, al centro della composizione, come una colomba nimbata posta sul monte paradisiaco dal quale sgorgano i quattro fiumi del Paradiso, mentre lo affiancano altre sei colombe per lato, manifestamente allusive agli apostoli, e due ovini chiudono la teoria. Il meccanismo secondo il quale ai protagonisti biblici vengono sostituiti rappresentanti del mondo animale che ne esaltino particolari aspetti o virtù, nasce e ottiene un successo sempre maggiore proprio nel IV secolo, trovando un amplissimo utilizzo sia in contesti sepolcrali che soprattutto basilicali. Il processo di formazione di questo tipo di simbolismo zoomorfo (Testini 1985, 1107-1168) affonda le proprie radici all'interno di una concezione che trova la più compiuta formulazione nel Physiologus, datato tra II e IV secolo, in cui è rintracciabile l'origine di una concezione che attribuisce determinate caratteristiche morali agli animali, sfruttate e svµuppate in seguito dai padri della Chiesa secondo un procedimento astrattivo sempre maggiore. Con l'approfondimento
della speculazione teologica, dunque, il richiamo ai simboli diviene più preciso e codificato, fino da arrivare ad un repertorio articolato contrassegnato da un alto grado di standardizzazione. È probabile che le prime attuazioni teologicamente complesse siano applicate all'interno di edifici religiosi, come sembrerebbe indicare il passo del Liber Ponti/icalis (LP I, 17 4) in cui viene menzionato l'agnello d'oro, evidente simbolo cristologico, donato da Costantino al battistero lateranense. Per quanto riguarda la teoria di colombe, è interessante rivolgersi alla decorazione della basilica di Cimitile secondo la descrizione riportata nei versi di Paolino da Nola (CSEL-29, 285-286) . Qui, sullo scorcio del IV secolo, gli apostoli sono rappresentati proprio sottoforma di una teoria di dodici colombe svolta intorno ad una corona centrale . Il parallelismo appare immediato anche in documenti più tardi, come il battistero di Albenga, nel quale si riscontra la medesima organizzazione del soggetto, o le mense d'altare conservate a Marsiglia ed a Aix-en-Provence (Marcenaro 1993 , 160-165), esempi che testimoniano come il tema abbia conosciuto una fiorente diffusione adattandosi a supporti e schemi differenti. Inoltre, è doveroso notare come l'immagine della colomba sulla sommità del monte paradisiaco proponga una variante della rappresentazione dell'Agnus Dei nimbato presente quasi come una costante nei catini absidali sullo scorcio del IV secolo (con riferimento al passo di Ap 14, 1), segno dell'ormai avvenuto passaggio della tematica apocalittico-teofanica anche all 'interno dei contesti cimiteriali proprio sulla scorta delle decorazioni basilicali. Tale identificazione agnello-Cristo del resto risulta esplicitata in due occasioni proprio all'interno dell'arcosolio di fondo del cubicolo 'di Leone' , una prima volta affiancato da due ovini ed una seconda nella scena della Moltiplicazione dei pani raffigurate nell'intradosso di sinistra. Entrambe presentano precisi confronti, tuttavia vi sono alcuni aspetti, almeno per il gruppo
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ternario , ancora poco chiari. Infatti, se nessun problema pone l'agnello centrale nimbato, sono state proposte diverse interpretazioni per i due ovini laterali (Ferma 1958, 3 7), assimilati a Pietro e Paolo oppure a due fedeli , come ipotizzato anche per l'analogo affresco presente nel cimitero di Panfilo (anteriore al 348, che sembra essere il primo esempio attestato, vediJosi 1926, 188), o ancora ai martiri Felice e Adautto. Quest'ultima lettura appare suggerita dalla presenza dei due ovini ai lati della decorazione dell'ingresso, i quali sono univocamente identificati con i santi eponimi che figurano nei piedritti sottostanti accompagnati dalla relativa iscrizione esplicativa. Interessante appare anche la Moltiplicazione dei pani presentata nella lunetta, per la quale il riferimento più preciso è sicuramente il sarcofago di Giunio Basso del 359 (Bovini-Brandenburg 1967, n . 680, tavv. 104-105), in cui gli spazi di risulta tra gli archi del registro inferiore appaiono campiti da analoghe vignette zoomorfe, fra le quali si riscontra una scena identica. La committenza elevatissima dell'opera scultorea, così come della decorazione pittorica del cubicolo analizzato , invitano a riflettere sul profondo grado di astrazione che sottende a questo tipo di trasposizione simbolica, dietro la quale si colloca la più alta riflessione dei padri della Chiesa (Testini 1985). Anche le pareti laterali, apparentemente interessate da scene di lunga tradizione iconografica, sono permeate dello stesso aulico sistema dottrinario. All'interno delle lunette dei due arcosoli affrontati si svolgono, come si è detto, i temi tratti dal ciclo petrina, ed in particolare due degli episodi risalenti già alla prima redazione, che subì, nell'arco di tutto il IV secolo continui arricchimenti (Sotomayor 1962; Biscanti 2003d). Pietro, come noto , è una delle figure maggiormente amate dall'arte paleocristiana, presente sin dagli affreschi della domus Ecclesiae di Dura Europos ed in seguito apparso agli esordi del IV secolo già con un primo tentativo di realizzare episodi fra loro collegati sul sarcofago di Giona (Biscanti 2000g). Tuttavia, il Miracolo della fonte e il Ter negabis illustrati lungo l'asse
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trasversale del cubicolo sembrano illustrare una visione più complessa del semplice riferimento al successore in terra di Cristo. Un'ulteriore annotazione sull'arcosolio destro, di cui risulta ancora piuttosto incerta la comprensione dei due personaggi nimbati rappresentati nell'intradosso destro e sinistro, interpretati come due santi generici o identificati nei martiri della catacomba. Tuttavia, se la seconda ipotesi (Ferma 1958, 21-23) non convince a causa della genericità dei tratti somatici in confronto alle altre immagini di Felice e Adautto, la prima (Deckers et al. 1994, 101 -102) non permette una precisa identificazione a causa della genericità dei due personaggi, che farebbero piuttosto pensare ad apostoli, come quello inserito nella lunetta a lato di Cristo, e rappresentati lateralmente secondo il medesimo meccanismo che si trova nel cubicolo O dell'ipogeo di via Dino Compagni (Ferma 1990, 122, fig. 135). Essi comunque non inficiano la lettura congiunta, come si vedrà, delle due scene petrine volutamente affrontate. Innanzitutto, l'ambientazione in cui si svolgono entrambi gli episodi delinea in modo appena accennato, ma evidente, quelle città ultraterrene che, nate come generico riferimento ad un habitat paradisiaco urbano già in ambito pagano (Bis conti 1989), vengono reinterpretate nell'inoltrato IV secolo come quinta per i sarcofagi «a porte di città», e proprio di fronte ad esse si svolgono i maestosi Collegia apostolici o le scene di Traditio legis dominati dall'imponente figura di Cristo (Biscanti 1996). Questo tipo di ambientazione, nel caso del cubicolo 'di Leone', ma anche nelle comparabili immagini della Moltiplicazione dei pani dell'ipogeo di via Latina (Ferma 1990, 130, fig. 145) o dei santi Gennaro e Pietro all'interno della catacomba di Napoli (Fasola 1975 , 83 , tav. VI b ), travalicano in qualche modo il significato di Civitas celeste, per indicare un universo temporale e cronologico eterno (Biscanti 1989, 1317-1318), calando le scene in primo piano in coordinate completamente slegate da un contesto narrativo. E proprio tale sospensione aiuta ad inserire il ridotto ciclo petrina nell'ambito culturale all'interno del quale venne formulato, ma anche reinterpretato. Infatti, il momento, in sé piuttosto drammatico, del tradimento dell'apostolo nacque all'alba della persecuzione dioclezianea in relazione alla problematica posta dai lapsi, divenendo presto, quasi paradossalmente, l'affermazione di un triplice atto di fede nei confronti della potenza divina, la quale, sola, permette la salvezza attraverso la misericordia (Sotomayor 1962, 49-55). Tale visione permane per molta parte del IV secolo, in cui la posizione nei confronti dei lapsi subisce varie oscillazioni a seconda della dimensione cronologica e geografica, come dimostrano l'attenzione dei padri della Chiesa e i canoni dei concili dedicati a quest' argoipento (Giordani 1986, 292 -297 ). Alla luce di tali osservazioni l'abbinamento con il miracolo della fonte , che fa da contralto rispetto alla raffigurazione del Ter negabis, risulta perfettamente comprensibile nella misura in cui la chiave di lettura battesimale di quest'episodio indica il mezzo concreto di salvezza. Un intenso gioco di richiami e citazioni, tanto più rilevanti in quanto formulati nel periodo del pontificato di Damaso, la cui attenzione si rivolge anche ali'esaltazione del martirio subito durante la più recente persecuzione dioclezianea (Paleani 1986, 384-387 ). Da un lato , dunque, martirio e vittoria sulla morte attraverso il sangue, visto come esempio supremo di sacrificio a Cristo, dall'altro possibilità di redenzione attraverso la comunità cristiana ed il battesimo, da parte del fedele che confida nella misericordia divina. Se dunque l'asse trasversale si configura come l'introduzione del fedele alla perfezione cui poter aspirare , l'asse longitudinale, articolato in ingresso, volta ed arcosolio maggiore, sembra quasi riservato ali'esaltazione dei martiri in Cristo e alla celebrazione di Cristo stesso, primo e vero martire. I riferimenti dotti, infatti, risultano evidentissimi proprio all'interno della decorazione del
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sepolcro di fondo , introdotta dalla monumentale figura di Cristo presente nella seconda redazione della volta, fulcro centripeto che sovrasta ed unisce allo stesso tempo tutta la decorazione, causa e fine di tutto, come sottolineano le lettere apocalittiche. Il volto (Warland 1986, 24-31 ) richiama una concezione sicuramente matura, di stampo teofanico ed apocalittico, la cui diffusione si può notare all'interno dei contesti cimiteriali del maturo IV secolo, così come negli edifici basilicali di cui si conservano purtroppo solo labili tracce. La complessità tematica e compositiva raggiunge i livelli più elevati all'interno dell'arcosolio in cui doveva prendere posto, come suggeriscono la monumentalità e la posizione in asse con l'ingresso, la sepoltura dell' officialis Annonae. La lunetta di fondo accoglie, proprio come l'arco d'ingresso, l'immagine dei due santi eponimi, colti questa volta, nell'atto dell' acclamatio ai lati di un Cristo giovanile che mostra nella mano destra il codice aperto. Felice e Adautto sostituiscono in questo caso le figure dei Principes apostolorum che affiancano Cristo nelle scene di Maiestas Domini, e, conformemente alla consueta formula rappresentativa, compiono il gesto che designa l'omaggio rivolto ali' autorità divina ricalcando, ancora una volta, il cerimoniale della corte imperiale. Analogamente a quanto si rintraccia all'interno delle lunette degli arcosoli laterali, non vi è alcun tipo di ambientazione reale, ma la scena viene collocata di fronte ad un riferimento urbano generico, in cui è possibile rintracciare un confronto nei sarcofagi «a porte di città» che proprio sullo scorcio del IV secolo presentano le medesime ambientazioni teofaniche. Lo schema appare identico a quello che si ritrova nell'intradosso sinistro, il cui pannello superiore presenta una capsa di rotuli, la vera legge, verso cui acclamano due personaggi laterali. Il confronto fra questo e l'affresco presente all'interno della basilichetta ipogea (Deckers et al. 1994 , 75 ), che presenta un cristogramma al posto della mano divina, non sembra porre dubbi sull'identificazione dei due acclamanti, riconoscibili, dunque, nei due martiri della catacomba (Paleani 1986, 370-380). Per la terza
volta si ripete, quindi, il medesimo sistema espressivo, seppure attraverso immagini diversificate, con Felice e Adautto rappresentati in atto di rendere omaggio a Cristo. Molto interessanti risultano anche i due pannelli sviluppati in senso verticale pertinenti sempre alla parte destra dell'arcosolio. L'inferiore presenta la raffigurazione di sant'Agnese nelle sembianze di una fanciulla in atteggiamento orante, la cui identificazione è offerta, per la prima volta all'interno dell'arte figurativa paleocristiana, da un agnello che le si affianca a destra. Sicuramente più problematico, anche in seguito allo stato di conservazione, il riquadro superiore, per la cui lettura è stata proposta l'ipotesi secondo la quale vi sarebbe raffigurato un generico santo, come sembrerebbe indicare l'età avanzata (Ferrua 1958, 3233), forse con virga taumaturgica in mano. Permane tuttavia il dubbio che possa trattarsi di una versione di Cristo secondo quanto indicherebbe lo staurogramma apocalittico apposto al di sopra del capo, mentre sarebbe da rifiutare l'effettiva esistenza di uno strumento nella mano destra in cui è da riconoscere un semplice schizzo involontario di colore (da Deckers et al. 1994, 96). Tuttavia i problemi più rilevanti sono posti dalla parte destra dell'intradosso, per la quale non si è ancora giunti ad escludere completamente alcuna delle interpretazioni proposte nel corso degli anni. Innanzitutto, non vi sono elementi che aiutino a comprendere se la lettura corretta possa seguire ad un'associazione dei due pannelli, o piuttosto se questi debbano essere disgiunti fra loro in episodi del tutto autonomi. Sicuramente il riquadro bipartito mostra una teofania, o più precisamente, considerata la gestualità di entrambe le figure, un colloquio fra un personaggio biblico e Dio o Cristo, secondo un modulo rappresentativo che verrà utilizzato anche nella navata di Santa Maria Maggiore nella visione di Melchisedek (- 41a). Ferrua interpretò tale visione come l'apparizione di san Pietro aJ oppe (Ferrua 1958, 31) narrata negli Atti degli Apostoli (At 10, 9-16), distinguendo nettamente, dunque, questa dalla seconda scena rappresentata, che, secondo lo studioso
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rappresenta invece l'incontro fra Filippo e l'eunuco della regina Candace sulla via per Gaza (At 8, 26-39). Dunque, i cursores rappresenterebbero la dignità dell'uomo di corte, raffigurato stranamente nimbato, sopra il carro, mentre Filippo sarebbe il personaggio che sopraggiunge a sinistra con il bastone; secondo Ferma, sarebbe anche possibile intravedere sull'estrema destra della composizione il lago all'interno del quale viene battezzato l'eunuco. A questa lettura, già molto articolata, si aggiunse l'interpretazione formulata da Recio Veganzones (Recio Veganzones 1986), il quale mette in relazione fra loro le due scene associandovi anche la rappresentazione del roseto affrescato nella nicchia. La decodificazione dell'episodio viene inoltre messa in relazione con il carme composto da Damaso in onore di Paolo (Ferma 1942, 8187) secondo l'episodio tratto dalla seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 12, 2-4), in cui viene narrato il rapimento di Paolo in Paradiso e le rivelazioni avute da Dio. Il primo momento dell'episodio, il raptus Petri, sarebbe da riconoscere nella scena di viaggio, all'interno della quale Cristo è identificato con la figura nimbata, e Pietro con il personaggio a sinistra del carro. A questo seguirebbe la rivelazione vera e propria, da riconoscere nel pannello teofanico, al quale si accosterebbe la rappresentazione del Paradiso come un giardino di rose, associando una forma espressiva dell'habitat edenico di matrice classica al simbolo dello staurogramma presente nella piccola volta. Secondo questa interpretazione il carme damasiano, la cui autenticità sembra ora uniformemente accettata, risulterebbe la principale fonte di ispirazione per dare spazio anche alla figura di Paolo, mettendo in risalto la missione affidata all'apostolo direttamente dalla rivelazione divina. L'esaltazione della figura paolina sarebbe, dunque, affidata ad un contesto eminentemente teofanico, vale a dire proprio l'ambito messo maggiormente in risalto dai versi che ne celebrano il ruolo e il martirio. Ancora una lettura congiunta propone la Guj, anche se le due scene non sarebbero da riferire ad un unico episodio, ma a due momenti disgiunti della vicenda paolina (Guj 2000a). Il primo è costituito dalla visione avuta da Paolo sulla via di Damasco, che segna il momento preciso della conversione, cui farebbe da contrappunto la vicenda espressa nel pannello con scena di viaggio, riferibile agli ultimi momenti della vita dell'Apostolus gentium. Si tratterebbe dell'incontro, avvenuto sulla via Appia, fra Paolo, in fuga da Roma dopo il suo arresto, e Cristo, in conseguenza del quale l'apostolo farà rientro in città per subire il martirio. L'episodio, descritto all'interno della letteratura apocrifa (Atti di Pietro 35, 1-2), sarebbe raffigurato secondo una formula molto particolare, in cui Paolo è
collocato a sinistra della composizione, con il bastone da pellegrino in mano, mentre Cristo è identificato con il personaggio nimbato sul carro, la cui autorità viene segnalata attraverso i due cursores. Accanto a tali interpretazioni, come si è visto, profondamente diverse e per ciascuna delle quali permangono dubbi, ve ne sono altre più tradizionali, come la rappresentazione di Giuseppe soprintendente del faraone (Redo Veganzones 1986, 340), oppure una generica scena di ultimo viaggio, secondo i moduli già osservati da Wilpert per altre simili composizioni (Wilpert 1925). In questo caso il defunto si configura come protagonista, rappresentato nimbato sul carro, ma bisogna notare lo spazio senz'altro ridotto dedicato al tema e la non precisa caratterizzazione, a quanto è dato vedere, dei tratti somatici. Appare comunque piuttosto arduo azzardare altre ipotesi e, allo stato attuale degli studi, solamente la presenza di confronti più precisi potrà suggerire novità in proposito. Come si è cercato di mettere in luce, dunque, il programma decorativo del cubicolo 'di Leone' comprende un vero e proprio repertorio di iconografia cristiana, dai temi che hanno visto la propria nascita agli esordi dell'arte cimiteriale (si veda Daniele fra i leoni), a motivi di lunga gestazione reinterpretati alla luce di rinnovati dibattiti (come nel caso del ciclo petrina) , fino alla comparsa di nuove idee figurative la cui diffusione è inaugurata in questo periodo (così accade per i santi portacorona o la sostituzione zoomorfa di scene già note). Non si può non riflettere sulla committenza altissima, dal punto di vista sicuramente economico, come conferma il rango del proprietario che volle inserire in una regione periferica della catacomba di Commodilla la celebrazione dei due martiri eponimi, ma anche sotto il profilo teologico, così come emerge dalla scelta dei temi e dalla loro disposizione. La prima, come ormai assodato per i documenti più tardi dell'arte funeraria , risente sicuramente di quel fenomeno di riflusso dei temi che riconduce dagli edifici di culto, verso i quali le immagini approdano almeno dalla seconda metà del IV secolo, verso le espressioni sepolcrali, ricalcando motivi dalla spiccata ispirazione teofanica ed apocalittica. A questo si affianca una disposizione che privilegia due assi principali, con l'espressione di concetti formulati durante il corso del IV secolo, ed in particolare espressi nel modo più compiuto sotto il pontificato di Damaso. Così, dall'ingresso, attraverso il busto apocalittico presente sulla volta, si giunge al complesso arcosolio di fondo, in cui l'espressione della gloria e della potenza divina si esplica attraverso l'esaltazione del concetto della santità e del martirio rigidamente gerarchizzato in dipendenza della figura unificante di Cristo. A questo filo conduttore si affianca l'asse trasversale, costituito dai due poli del ciclo petrina, in cui l'accento viene posto sulla professione di fede, espressa dall'episodio del Ter negabis, accompagnata e supportata dal battesimo. Da una parte, l'esempio straordinario dei martiri, dall'altra, la speranza ed il percorso del fedele, questi i concetti teologicamente complessi che pervadono l'esperienza figurativa del cubicolo 'di Leone'. È pertanto innegabile che le linee guida che sottendono ad una formulazione così complessa debbano essere rintracciate nell'ambito culturalmente molto vicino alle più alte riflessioni teologico-dottrinali del tempo, facendo rimpiangere, ancora una volta, la perdita di quelle decorazioni basilicali che dovevano rappresentare la più organica espressione di un 'interà epoca.
Bibliografia Ferma 1958; Paleani 1986; Redo Veganzones 1986; Warland 1986, 24-31 ; Deckers et al. 1994, 89-104; Guj 2000c. Cecilia Proverbio
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CATACOMBA DI COMMODILLA
20. IL MOSAICO CON LA MAIESTAS DOMINI, LA RESURREZIONE DI LAZZARO E I TRE FANCIULLI NELLA FORNACE DELLA CATACOMBA DI DOMITILLA Papa Damaso (366-384)
Il mosaico della catacomba di Domitilla riveste la lunetta, la volta e la fronte esterna della sepoltura aperta nella parete orientale dello scalone nella galleria H 12 [1]. La lunetta accoglie la raffigurazione della Maiestas Domini; nella volta, sul medesimo fondo bruno, si susseguono tre scene: la Resurrezione di Lazzaro, i Tre fanciulli nella fornace e una terza, difficilmente riconoscibile per la caduta di gran parte delle tessere, già identificata da Ferrua come il Sacrificio di Isacco (Ferrua 1960-1961 , 221 ). Al centro della lunetta Cristo siede in trono fra i due principi degli apostoli, dinanzi ad una capsa di volumi, di colore giallo vivo, con il coperchio aperto e appoggiato a destra. Dal viso giovane e imberbe, ha i capelli lunghi scuri; indossa una tunica e un pallium di colore bianco; porta sandali neri ai piedi; volge leggermente la testa verso Pietro; la mano destra è alzata nel gesto oratorio mentre con la sinistra, adagiata sul grembo, tiene un rotolo. Una grande mandorla, realizzata con tessere di pasta vitrea color verde chiaro, avvolge la figura . Pietro e Paolo sono seduti, leggermente più in basso rispetto a Cristo su un sedile con alto schienale e quattro gambe arcuate, secondo il tipo della sella curulis. Pietro, con capelli e barba corti di colore scuro, indossa una tunica, un pallium e sandali di colore nero. La mano destra è alzata in segno di acclamazione mentre la sinistra tiene un rotulo. La figura di Paolo è interessata da un'ampia lacuna nella parte superiore; della testa rimangono la folta barba scura, il collo, l'orecchio destro e una porzione della bocca. Come Pietro, anch 'egli acclama Cristo con la mano destra alzata e tiene un rotolo di colore rosso con la sinistra.
La decorazione della volta dell 'arcosolium è separata da quella della lunetta da una cornice realizzata con tre filari di tessere: uno bianco e due rossi. Nella parte centrale corre un'iscrizione realizzata con tessere turchesi ad eccezione della lettera 'Q' eseguita, invece, con tessere blu scuro, su fondo bruno User. 1). Nella porzione sinistra della volta, la scena della Resurrezione di Lazzaro [2], ambientata in un paesaggio con arbusti verdi, presenta Cristo, raffigurato secondo il tipo apollineo, con il nimbo discoide, i capelli lunghi che ricadono sulle spalle; indossa una tunica e un pallium, ornato sul bordo con la lettera 'T', che sorregge con la mano sinistra; con la destra, invece, tende la virga verso Lazzaro. La figura, avvolta nelle bende, appare nel vano dell'arco d'ingresso dell'edicola sepolcrale, chiusa da un tetto a doppio spiovente e a cui si accede attraverso alti gradini. La tipologia della tomba di Lazzaro , con l'ingresso ad arco , non trova paralleli nelle raffigurazioni pittoriche o scultoree di età paleocristiana conservate a Roma , nelle quali l'edicola richiama, piuttosto , il modello monumentale degli edifici funerari romani a tempio con l'ingresso contrassegnato da un 'apertura rettangolare (Ramieri 1997a, 352357 ). L'ingresso ad arco, sorretto da colonne con capitelli corinzi al di sopra di un alto podio, ricorre invece su due sarcofagi ravennati, conservati a San Vitale e al Museo Nazionale, entrambi datati all'inizio del V secolo (ibidem, 362-363 , figg. 19-20) Nel pannello centrale, i tre fanciulli sono rappresentati in piedi, in atteggiamento orante, con i piedi immersi nella fornace dalla
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quale fuoriescono le fiamme rosse e arancio [3]; calzano un berretto frigio ed indossano calzoni color verde turchese, tuniche policrome, giallo, turchese e rosso, ornate da largo clavo e strette in vita da una cintura nera con una riga centrale dorata. La figura aureolata che si intravede in secondo piano, fra il primo e il secondo fanciullo a sinistra, dal viso giovane e imberbe, i capelli lunghi e scuri, lo sguardo volto verso l'osservatore, vestito con una tunica chiara con clavo giallo, è stato identificato come l'angelo che assiste i tre fanciulli (Ferrua 1960-1961, 220). La terza scena è quasi completamente perduta, ad eccezione di alcuni brani: di una figura si riconoscono la porzione sinistra della testa con capelli scuri, il contorno dell'aureola e le pieghe del panneggio della veste, con pallium decorato con il segno .1 [ 4]; nella parte inferiore si distingue, inoltre, il profilo di un piede e dei filari di tessere dall'andamento circolare di colore verde e giallo. Il fronte esterno dell'arcosolio era anch 'esso decorato a mosaico. Marangoni indicava la presenza di figure (Marangoni 1747, 167168), ma l'analisi rawicinata compiuta di recente ha consentito di individuarvi una cornice bianca e un festone con foglie verdi e frutti rossi, assai probabilmente melograni.
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Iscrizioni 1 - Iscrizione esegetica su specchio di corredo, in maiuscola di base capitale, a tessere azzurre su fondo blu, dal modulo rettangolare con lettere apicate e ben allineate. La lettera 'Q' è blu.
Qui filius diceris et pater inveniris
Note critiche Il mosaico venne visto per la prima volta da Marangoni nel 1742 quando, nell'area retrosanctos prospiciente la basilica dei Santi Nereo ed Achilleo, raggiunse la scala che conduceva al primo piano della catacomba di Domitilla, che ritenne erroneamente di Callisto. Della scoperta Marangoni diede notizia in due scritti (Marangoni 17 44; Id. 1747), ma i disegni «di tutte le immagini che adornano questo
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sepolcro», che fece eseguire perché venissero inclusi da Giovanni Gaetano Bottari nella nuova edizione della Roma sotterranea di Bosio (Marangoni 1747, 168), non furono mai pubblicati e sono perduti. Anche del mosaico si persero ben presto le tracce a causa di una frana che obliterò la galleria e ostruì l'accesso -di quel settore della catacomba. Solo nel 1960, in occasione di alcuni lavori di livellamento e sistemazione del terreno sopra la parte centrale della catacomba, Ferrua ritrovò la grande scala che scendeva al suo interno sulle cui pareti si aprivano imponenti arcosolia, uno dei quali, il terzo del lato orientale, mostrava la decorazione musiva descritta da Marangoni (Ferrua 1960-1961, 209-216). L'arcosolio è costruito in tufelli e le sue pareti accolgono un primo strato di intonaco sul quale è stesa la malta d'allettamento , dipinta con campiture cromatiche di diversi colori, nella quale sono inserite tessere in prevalenza di pasta vitrea , ma anche di materiale lapideo e dorate. Riguardo alla cronologia del mosaico, la proposta di assegnarlo agli anni del pontificato di Damaso (366-384; Ferrua 1960-1961, 224) è la più convincente rispetto allo slittamento verso la prima metà del V secolo sostenuto anche di recente (Cecchelli 1944, 196; Cuppo Csaki 1999, 791 ). Le osservazioni condotte da Ferrua e da Pergola sul contesto archeologico giovano a definire i termini cronologici entro i quali collocare la sepoltura decorata a mosaico (Ferrua 1960a, 173-186; Pergola 1979, 313-335 ). Quest'ultima si trova all'interno della vasta area retrosanctos a sud della basilica di Nereo e Achilleo, la cui edificazione si fa risalire al IV secolo e più precisamente agli anni di papa Damaso (Pergola 1986, 211-218). Allo stesso pontificato, sulla base dell'analisi dello sviluppo topografico della catacomba, è ascritta la realizzazione della scala con gli arcosoli che, evidentemente, aveva lo scopo di facilitare l'accesso alla basilica (Ferrua 1960-1961 , 224 ; Pergola 1979, 323 ). Inoltre, a sostegno di questa datazione convergono tutti gli elementi che permettono la lettura in chiave storico-iconografica dell'iscrizione e del mosaico dell'arcosolio. Al momento del rinvenimento negli anni Sessanta il mosaico presentava ampie lacune e nel tessuto e negli strati di malta nella lunetta, nel sottarco e nella parete esterna dell'arcosolio (Ferrua 1960-1961 , 223) . Benché frammentario , il mosaico di Domitilla, scoperto nel '700 e riscoperto nel 1960, è un monumento figurativo di particolare valore, soprattutto per la scena con la Maiestas Domini, e ancora di più per l'iscrizione che la sovrasta. Nella raffigurazione con Cristo, solennemente seduto fra i principi degli apostoli, convergono il tema del Cristo magister e la scena del Concilio apostolico. L'iconografia di Cristo richiama, infatti, quella del Cristo-maestro, alla quale è da riferire, nella prima metà del IV secolo, un gruppo omogeneo di esempi nei quali egli è raffigurato sul trono del suo magistero con la mano destra alzata nel gesto dell'adlocutio, davanti alla cista semiaperta contenente i volumi, simbolo della dottrina (Testini 1963 , 251, figg. 26-28) . D 'altra parte il tema del Cristo magister fra Pietro e Paolo può essere considerato anche come l'imago brevis della rappresentazione di Cristo con il collegio apostolico dove il Maestro, in trono con la destra levata nel gesto oratorio, siede fra i discepoli (Testini 1963 , 252; Id. 1968a, 122-128). Questa scena non costituisce un tema nuovo per la pittura cimiteriale. Nel IV secolo lo schema dei tre personaggi presentava, quale unica variante, la posizione eretta o seduta dei due apostoli (Testini 1963, 254 ). In piedi, ai lati del Cristo in trono, i principi degli apostoli sono presenti, ad esempio, nella lunetta dell' arcosolio nel vano I dell'ipogeo di via Dino Compagni datato tra il 350-360 (Ferrua 1990, 98-101; Tronzo 1986, 16-17), e sul soffitto del cubicolo detto 'dei Santi' nella catacomba dei santi Marcellino e Pietro (fine IV-inizio V secolo; - 25). Nel mosaico di Domitilla, invece, Pietro e Paolo sono seduti ai lati di
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Cristo secondo uno schema che, dal punto di vista compositivo, rimanda alle pitture dell'arcosolio di Zosimato nel cimitero di Ciriaca della metà IV secolo (Wilpert 1903a, tav. 205) e ancor più precisamente al Collegio apostoltco raffigurato nell'affresco nella cripta dei Pistores della catacomba di Domitilla (-. 21 ). Elemento nuovo nel nostro mosaico è la mandorla che circonda la figura di Cristo, attraverso la quale la scena viene ad arricchirsi della valenza simbolica della Maiestas Domini, dove però Cristo ha il gesto e l'atteggiamento del maestro e Pietro e Paolo, anch 'essi seduti e colti in gesti acclamanti e oratori, rappresentano di fatto il collegio apostolico al completo. L'ampio disco realizzato con tessere verde chiaro costituisce, oltre che un unicum per la seconda metà del IV secolo, il più antico esempio della mandorla di luce simbolo visivo della trascendenza divina. Solo dopo più di mezzo secolo, questo espediente figurativo ritornerà nei mosaici sistini di Santa Maria Maggiore, in due riquadri della navata raffiguranti la Visione di Mambre e il tentativo di Lapidazione di Mosè(-> 4 la), e nella cosiddetta scena di Trionfo sulla porta lignea di Santa Sabina, datata agli anni fra i pontificati di Celestino (422 -432 ) e di Sisto III (432-440; de Maria 2002 , 1697-1699). Indubbiamente, anche a Domitilla la sfera verde chiaro mira ad esaltare il ruolo della figura di Cristo. Da un lato essa richiama, come è stato sottolineato da Giordani, la nube luminosa della cosiddetta shekinah veterotestamentaria (Giordani 1978, 242); dall'altra, anticipa la rappresentazione della volta di cristallo che avvolge la figura di Cristo, calando la rappresentazione in una situazione visionaria che allude all'epifania del Logos in riferimento all'Apocalisse (Skubiszewski 1994, 501-502). Un altro elemento significativo per la lettura del mosaico di
Domitilla è rappresentato dall'iscrizione che corre tra la volta e la lunetta (Iscr. 1). Prima della riscoperta nel 1960 l'iscrizione, sulla base dell'errata trascrizione fornita da Marangoni (Marangoni 1747, 167-168), e dell'inserimento di et fra qui e/ilius (ICUR-NS, III 8604), è stata ritenuta espressione dell'eresia modalistica monarchiana, eresia che nella seconda metà del IV secolo aveva ancora degli adepti a Roma, suscitando molteplici dibattiti riguardo al senso che convenisse darle (de Rossi 1866, 86, 95 ; Marucchi 1909, 60; Schultze 1927, 513; Cecchelli 1944, 196). Nel 1960 fu chiarito, invece, che il monumento si trovava sullo scalone della catacomba di Domitilla, e non in un ipogeo privato, identificandone l'appartenenza ad un'area gestita dalla Chiesa romana (Ferrua 1960-1961, 224). D 'altra parte, anche i soggetti raffigurati nel mosaico non presentano elementi di carattere eretico e dunque l'iscrizione deve essere letta ed interpretata in senso ortodosso (Ferrua 1960-1961, 224; Pergola 1990a, 103-112). In seguito al rinvenimento e alla corretta lettura dell 'iscrizione (Ferrua 1960-1961, 219), il testo è stato prevalentemente spiegato come un'affermazione della consustanzialità del Figlio al Padre, quale risposta ortodossa alle controversie cristologiche sorte in seguito alla diffusione dell'arianesimo. Giordani (Giordani 1978, 246-249), seguendo l'iniziale interpretazione di Ferrua (Ferrua 19601961 , 224; Id. 1991 , 24-26), interpretò il testo dell'iscrizione in chiave antiariana con un puntuale riferimento alla scena raffigurata nella lunetta. L'immagine della Maiestas Domini, che per eccellenza rappresenta la trascendenza divina, era nata, infatti, proprio in relazione alle controversie cristologiche sorte nel IV secolo e protrattesi nel V Essa proponeva gli argomenti dell'ortodossia diretti contro le eresie che negavano, appunto, la consustanzialità del Figlio
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e del Padre, in particolare contro l'arianesimo (Skubiszewski 1994, 501-502) . Nella catacomba di Domitilla, assai probabilmente, la sfera che circonda Cristo intende proprio sottolineare la sua divinità secondo la metafora della luce alla quale era ricorso il concilio di Nicea (325) nella sua condanna di Ario (Mathews 2005, 66). Un'analisi recente del testo epigrafico (Perrin 2001) , affrontata attraverso la lettura di testi patristici e di documenti del IV e V secolo, ha messo in evidenza nuovi ed interessanti aspetti. Secondo Perrin, il termine pater non può essere letto in senso trinitario, come sostiene Cuppo Csaki (Cuppo Csaki 1999, 783-788) , ma conviene vedervi un semplice appellativo di Cristo, un epiteto legato ad un'azione o a una funzione da lui esercitata (Perrin 2001, 502-506). In particolare, come messo in luce da Ferrua (Ferrua 1991 , 26), sarebbe utilizzato a significare che il Cristo è creatore e redentore ed attraverso il suo potere e la sua azione salvifica viene espressa la sua paternità (Ferma 1991, 26): «Tu che sei chiamato figlio e che si scopre essere padre» (Perrin 2001, 513-518). Il potere salvifico di Cristo è sottolineato dallo stretto legame fra l'iscrizione e le altre scene sulla volta. Nei Tre fanciulli nella fornace si trova un personaggio nimbato che, come già detto, è l'Angelo di Dio che protegge Sàdrach, Mesàch e Abdènego dalle fiamme. Quello che colpisce è la stretta somiglianza fra questo personaggio e il Cristo della Resurrezione di Lazzaro: stesso viso imberbe girato verso destra, stessa capigliatura che ricade sulle spalle, stesso colore del nimbo, medesimo abbigliamento composto da tunica bianca e pallio. Egli, infatti, è identificato proprio con il Figlio di Dio (Perrin 2001, 517), come il mediatore fra Dio e gli uomini che interviene in suo nome offrendo loro la salvezza (Estivill 1994, 102-103; Biscanti 2005b, 176). Inoltre, in quanto nunzio, l'Angelo
di Dio possiede l'attributo del nimbo proprio per sottolineare il potere divino del suo signore (Ahlqvist 2001 , 221-222). Il tema della salvezza e della speranza è rintracciabile anche nella Resurrezione di Lazzaro, uno dei soggetti iconografici maggiormente diffusi nella pittura cimiteriale. Il miracolo è, infatti, adatto a dimostrare, in modo immediato, il potere di Cristo sulla morte e la certezza della resurrezione; Lazzaro, inoltre, si presta ad essere riconosciuto come il defunto che nel sepolcro attende la resurrezione per mezzo di Cristo (Wilpert 1903, 40; Guj 2000a, 202). L'identificazione dell'ultima scena, raffigurata sulla porzione destra dell'archivolto dell'arcosolio, è resa complicata dal cattivo stato di conservazione in cui versa il mosaico. Marangoni, che ne segnalava il carattere profondamente mutilo, era indotto a vedervi il Miracolo della /onte compiuto da Mosè nel deserto (Marangoni 1744, 144). Ferrua, invece, propone di identificarvi l'episodio del Sacrificio di Isacco, riconoscendo nel gruppo di tessere color rosa collocate sopra la parola inveniris dell'iscrizione la mano di Dio (Ferrua 1960-1961, 221 ) che, discostandosi dal testo biblico, interviene a fermare Abramo in sostituzione dell'Angelo del Signore come ricorre in molte versioni della scena nella pittura cimiteriale (Mazzei 2000a, 93 ). Entrambe le scene rappresentano temi ben noti alla pittura cimiteriale. Tuttavia gli studiosi, tra le due proposte, hanno preferito condividere quella di Ferrua, vedendo nel Sacrificio di Isacco un 'ulteriore raffigurazione dell'intervento salvifico di Cristo (Pani 1989, 179; Bisconti 1996b). Il mosaico di Domitilla è certamente esemplare fra quelli delle catacombe romane. Non solo si propone come una testimonianza saliente dell'itinerario iconografico ed iconologico della più matura arte cristiana in ambito funerario (Bisconti 2001b, 522), ma fra tutti è anche il più impegnativo dal punto di vista cromatico e materico (- 23; - 24 ). Composto in prevalenza da tessere di pasta vitrea, presenta una particolare gamma cromatica basata sui toni brillanti del verde smeraldo, verde brillante e turchese smorzati dalla tonalità bruno scuro del fondo delle scene dell'arco. Lo sfavillio del giallo, rosso e turchese delle vesti dei tre giovani nella fornace si spegne nelle vesti di Cristo e degli apostoli, dove però l'inserimento di tessere d'oro, oggi dall'aspetto assai consumato, fra i filari bianchi e porpora creava vibranti punti di luce. Anche il trono di Cristo è profilato in oro, mentre tessere di materiale lapideo ricorrono nei sedili degli apostoli. Con tessere lapidee è realizzata anche la tunica del primo giovane a sinistra nell'arco ed anche l'incarnato dei piedi di tutti i personaggi, al contrario dei volti resi, invece, solo con paste vitree.
Fonti e descrizioni Marangoni 1744, 461-462; Id. 1747, 167-168.
Bibliografia de Rossi 1866, 86-99; Miintz 1893 , 67-70; Mamcchi 1909, I, 58, 60; Diehl 1925-1931, I, n. 1639; Schultze 1927,513-516; Leclercq 1935a, 78-87; Cecchelli 1944, 194-197, 205; Voelkl 1960, 114-117; Ferma 1960-1961, 209-224; Sotomayor 1962, 94-95; Testini 1962, 445; Testini 1963,230-300; Testini 1966, 307-309; Testini 1968a, 126; Testini 1969a, 65-66; Bovini 1971, 77-78; Cadetti 1975, 42-43, 148; Simonetti 1975, 101; Sear 1977, 135-138; Giordani 1978, 238-250; Giordani 1981, 8081; Ferma 1991,24-26; Estivill 1994, 100-103; Giuliani 1997, 9; Bisconti 1998, 74-75 ; Cuppo Csaki 1999, 777-793; Bisconti 2001b, 517-528; Perrin 2001 , 481-518; Bisconti 2005b, 176; Fasola s.d., 77.
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21. CRISTO E I DODICI APOSTOLI NEL CUBICOLO 'DEI PISTORES' NELLA CATACOMBA DI DOMITILLA Fine del IV secolo
Cristo, dal volto giovanile e imberbe, siede su un trono con spalliera, posto sopra un alto podio. È vestito di tunica clavata e pallio ed h a la mano destra atteggiata nel gesto dell'oratore. Davanti al trono, in primo piano, è collocata una capsa colma di rotoli; ai lati sono gli apostoli, sei per parte, in gruppi compatti e serrati; di essi, dieci sono in piedi mentre i due in primo piano, identificabili con Pietro e Paolo, sono seduti su una sella plicatilis. La scena è ambientata in uno spazio ali' aperto, come suggeriscono la campitura verde del piano di posa e l'azzurro del fondo . Al di sotto dell'abside si svolgono alcune scene relative al trasporto del frumento e ali'attività dei pistores, ovvero dei fornai (trasporto, scarico, vendita del frumento , panificazione).
Note critiche Il cubicolo «dei Pistores» o «dei Grandi Apostoli» (Wilpert 1887 , 20; Pergola 1990b, 168) è ubicato nel primo livello della catacomba di Domitilla ed è il più vasto ed articolato dell 'intero ipogeo (Nestori 1975 [2003 ] , 129). Si tratta infatti di uno spazio ottagonale nel quale si aprono sulle pareti est ed ovest due absidi, sotto alle quali vi sono due arcosolii. La decorazione, segnalata per la prima volta da Antonio Bosio (Bosio 1632, 227 ), è stata pubblicata da Wilpert (Wilpert 1887 , 20-30; Id. 1903, 485-487, tav. 93). La composizione di Cristo fra gli apostoli, con le sottostanti scene dei frumentari sopra indicate, si trova nell'abside est [l] ; ad essa corrisponde, nell'abside ovest, la figura monumentale del Buon Pastore accompagnata, al di sotto, da altre scene delle attività dei fornai (immagazzinamento del frumento , produzione e vendita del pane; Pergola 1990b, 170-190; Biscanti 2000d, 120-125). All'interno degli arcosolii, che si inseriscono in una fascia decorativa dipinta a finti marmi, sono raffigurate le storie di Giona. Il cubicolo è celebre da una parte per l'ampia e dettagliata rappresentazione delle diverse fasi di lavoro dei frumentari e dei pistores (dal trasporto del frumento fino alla commercializzazione del pane), che ne fanno una delle più significative testimonianze di raffigurazione di mestieri (Biscanti 2000d, 191-192), dçl]J'altra perché accoglie nell'abside orientale - ed è questo l'aspetto che più interessa in questa sede - una composizione particolarmente maestosa di Cristo fra gli apostoli, dalla quale è derivato al cubicolo il nome di «cripta dei Grandi Apostoli» (Wilpert 1887 , 20) [2]. La scena è caratterizzata da un impianto solenne e grandioso, che secondo Testini potrebbe indicare una derivazione da modelli monumentali (Testini 1963 , 247 ); si distingue, inoltre, per le nuove soluzioni iconografiche che vengono proposte. Generalmente gli apostoli ai lati di Cristo sono raffigurati in pose simili: o tutti seduti o tutti in piedi. Se il primo tipo di composizione, del quale si hanno numerosi esempi nella pittura delle catacombeDomitilla (- 20); via Latina; via Anapo, nicchiane 8 (- 12b) - trae origine dal consesso filosofico del mondo pagano (Mathews 1993 [2005], 60) , il secondo riprende gli schemi del cerimoniale imperiale. Una consuetudine introdotta a Roma a partire dal II secolo non concedeva a nessuno di sedersi al cospetto dell'imperatore e i rilievi dell'arco di Galerio a Salonicco e dell'arco di Costantino a Roma, come altre operé, rispecchiano questo protocollo; i dignitari accanto all'imperator~, seduto sul trono, sono sempre rigorosamente in piedi e disposti con accentuata simmetria (A ge o/Spirituality 1979, 61, fig.
10, n. 58). Immagini del consesso apostolico stante sono diffuse sui rilievi dei sarcofagi (sarcofago con gli Apostoli del Museo Nazionale di Madrid; sarcofago di Probo con Cristo e gli apostoli nelle Grotte Vaticane, ibidem, 515 , fig. 71 ), ma erano presenti anche in contesti monumentali, come nei mosaici perduti delle absidi di Sant'Andrea in Catabarbara o di Sant'Agata dei Goti (Testini 1963, 280; Biscanti 2000p, 456). In alcuni casi può anche accadere che l'iconografia degli 'Apostoli in piedi' e quella degli 'Apostoli seduti' siano accostate fra loro all'interno di una stessa opera, come nel sarcofago di Stilicone a Milano (Brandenburg 1987, 80-129; Biscanti 2000p, 455), indicando una sorta di equivalenza o, per lo meno, di non contraddittorietà fra le due composizioni. All'interno di questo quadro, le pitture del cubicolo 'dei Pistores' hanno la particolarità di presentare, nell'ambito della stessa scena, dieci apostoli in piedi e Pietro e Paolo seduti in primo piano. Inoltre, Cristo è sì in veste di magister, come indica senza ombra di dubbio la capsa con i rotoli ai suoi piedi, ma è isolato dagli apostoli; se ne vuole sottolineare l'auctoritas, più che la vicinanza ai discepoli. La compattezza dei due gruppi intende comunicare il principio dell'unione e della solidarietà e, sullo sfondo delle difficili vicende di quegli anni, segnati da numerose eresie, prima fra tutte l'arianesimo, il riferimento evidente è alla coesione ideologica della Chiesa (Biscanti 2000p , 455; Id. 2000g, 43 ).
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La scelta di raffigurare seduti solo i due principi degli apostoli segnala l'intenzione di voler distinguere il loro status rispetto a quello degli altri (Testini 1963, 249-250; Bisconti2000p, 455 ). Pietro e Paolo sono gli unici che interloquiscono con Cristo, come indicano i gesti delle mani, e siedono, non su un trono, ma su una sella plicatzlis, riservata nella Roma pagana ai funzionari che esercitavano l'autorità civile, particolare che trova confronto solo nella pisside eburnea custodita a Berlino (Staatliche Museen) (Testini 1963 , 249-250). La presenza di questo seggio acquista un rilievo significativo se letta alla luce della concezione sui principi degli apostoli che si afferma in quegli anni; Pietro e Paolo sono considerati «vicarii», «senatores mundi», Pietro è menzionato come colui che esercita l'autorità nel «consulatu /idei»; sono dunque i preposti al governo e all'amministrazione della Chiesa, secondo una scala gerarchica che li vede a diretto contatto con Cristo e distinti dagli altri (Testini 1963, 252). Il motivo dei due gruppi di apostoli con a capo rispettivamente Pietro e Paolo lascia trapelare, inoltre, l'affiorare di due polarità all'interno della Chiesa, espresse poco più tardi nelle figure dell' Ecclesia ex gentibus e dell' Ecclesia ex circumcisione nei mosaici dell'abside di Santa Pudenziana (- 8) e della controfacciata di Santa Sabina (- 40a; Biscanti 2000p, 456; Id. 2000c, 43). Nelle pitture del cubicolo 'deiPistores' siamo, dunque, di fronte alla messa a punto ed elaborazione di nuove immagini, all'interno di quelle già esistenti, che saranno sviluppate e si affermeranno nelle decorazioni absidali del V secolo (Pietri 1976, 1575-1579). È la stessa
esigenza che spinge a mettere a punto «immagini brevi», riducendo il concilio apostolico nel numero dei componenti (catacomba di Dino Compagni o nel Coemiterium Maius) e che porta nel corso del IV secolo a concepire temi nuovi, come la Traditio legis (- lg). Le pitture, oggi per buona parte coperte da uno strato superficiale di colore nerastro, sono caratterizzate da una gamma cromatica ristretta ai colori ocra, rosso e bruno. La costruzione plastica anche se semplificata delle figure , l'impianto monumentale della scena, il senso delle proporzioni e dell'equilibrio permettono di considerarle una delle testimonianze più significative dell' «ondata di classicismo» che interessa la pittura delle catacombe verso la fine del IV secolo (Matthiae 1965 [1987], 28 ); datazione confortata dal carattere sperimentale dell'iconografia, antecedente delle soluzioni innovative del V secolo (Testini 1963, 249; Biscanti 1998a, 87).
Fonti e descrizioni Bosio 1632, 227.
Bibliografia Wilpert 1887, 26, 30; Wilpert 1909, 485-487, tav. 193 ; Testini 1963, 249-250, 274; Matthiae 1965 [1987], 28, fig .17; Testini 1966, 150; Nestori 1975 [2003 ], 193; Pietri 1976, 1575-1579; Pergola 1990b, 172-173; Biscanti 1998a, 87, figg. 95-96; Biscanti 2000p, 455-456; Biscanti 2000d, 191-192; Dorsch-Seeliger 2000, 102.
Maria Raffaella Menna
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C ATACOMBA DI DOMITILLA
22. IL MOSAICO CON LA STORIA DI GIONA SULLE LASTRE DI CHIUSURA DI UN LOCULO DEL CIMITERO DI APRONIANO Ultimi decenni del IV secolo
Sulla chiusura di un loculo del cimitero di Aproniano, sulla via Latina, compare la storia di Giona rappresentata a mosaico (de Maria 2001 , 141-152) [1]. La singolare decorazione è suddivisa su due lastre fittili, ora conservate ai Musei Vaticani (inv. n . 31598), che ne costituiscono il supporto, alte circa 20 centimetri per una larghezza di 40 ed uno spessore variabile fra i 3 e i 4,5 centimetri, coperte da un sottile strato di malta. Il tessuto musivo è composto da tessere di diversa misura, ma di dimensioni che non superano mai il centimetro, in prevalenza di materiale litico, con qualche inserimento di elementi in pasta vitrea, eccezionalmente dorati e di tessere fittili. La decorazione è concepita in maniera ciclica ed esordisce nella prima lastra con l'episodio di Giona gettato dalla nave, secondo la più consueta iconografia che vede un marinaio mentre si sporge da una semplice imbarcazione, provvista di sartie, per gettare il profeta nudo nelle fauci del mostro marino, che si dispiega in ampie volute nel mare tratteggiato da onde parallele in verdeazzurro su intenso fondo blu. La raffigurazione procede nella seconda lastra con la scena di Giona rigettato dal pistrice e si conclude con l'immagine del profeta adagiato in riposo, sotto la pergola, nell'atteggiamento tipico di Endimione dormiente (Sichtermann 1983 , 245) .
di lunga durata che valicherà il secolo per interessare le ben più impegnative espressioni monumentali nell'arte delle basiliche. È significativo poter constatare che la chiusura mosaicata di Aproniano sviluppi uno dei temi più precoci, fortunati e dinamici dell'arte paleocristiana (Speigl 1978, 1-15; Sichtermann 1983 , 241 -248). La storia, che compare già negli affreschi dei cubicoli dei Sacramenti a San Callisto (Biscanti 1996d, 13-26), si propone immediatamente come un ciclo articolato ed emblematico della salvezza proiettata nella dimensione veterotestamentaria. L'episodio biblico godette di grande fortuna sia nella pittura cimiteriale che nella plastica funeraria, dove troverà il culmine nel cosiddetto sarcofago di Giona dei Musei Vaticani (Bovini-Brandenburg 1967, I, 35), per approdare nelle decorazioni degli edifici di culto, con particolare riguardo ai pavimenti musivi (Rinaldi 1975), nella piccola statuaria (Kitzinger 1978, I, 657) e nelle arti minori (Dresken Weiland 1991, 336-337). Nonostante questa ampia fortuna proiettata nei secoli, il tema di Giona mantiene intatto il suo significato specialmente funerario , che ne motiva la scelta per le lastre di Aproniano. Nel corso del IV secolo tale tema riscosse tanto successo, al punto che i fedeli, durante le letture liturgiche, erano ben attenti al fatto che la storia venisse ricordata correttamente in tutti i particolari, affinché la dinamica dell'azione non fosse inquinata con varianti di lettura che ne allontanassero le corrispondenze simboliche che affiancavano la figura di Giona a quella del Cristo risorto (Mazzoleni 2000, 191-193 ).
Note critiche L'intero mosaico mostra un trattamento vivace, estremamente dinamico, sia nella gamma cromatica, che alterna la brillantezza delle paste vitree alla pacatezza degli elementi fittili e litici, sia nelle peculiarità stilistiche che mostrano un disegno impressionistico, giocato nella giustapposizione di aree di colore e nella definizione in rosso mattone e in toni molto scuri delle immagini. Gli schemi iconografici, la tessitura irregolare, la mobilità cromatica e lo stile compendiario avvicinano il nostro mosaico agli altri, rari, monumenti musivi delle catacombe romane, partecipando anche delle stesse valutazioni cronologiche che interessano l'ultimo trentennio del IV secolo. La cultura artistica tutta disegnativa e improntata alla più prevedibile soluzione impressionista delle immagini, recuperando modi e schemi della più corrente pittura ipogea, si propone come una manifestazione
Interventi conservativi e restauri 2005: intervento di pulitura effettuato dal laboratorio per il restauro dei mosaici dei Musei Vaticani, che ha riportato in luce la vivace policromia della superficie musiva, liberandola da uno spesso strato di incrostazioni calcaree e di vernici alterate che ne rendevano difficile la lettura (Utro 2005, 302) .
Bibliografia Bovini-Brandenburg 1967, I, 35 ; Rinaldi 1975 ; Kitzinger 1978, I, 657; Speigl 1978, 1-15; Sichtermann 1983 , 241-248; Dresken Weiland 1991, 336-337; Biscanti 1996d, 13-26; Mazzoleni 2000, 191-193; de Maria 2001 , 141-152; Utro 2005, 302.
Lorenza de Maria
CIMITERO DI APRON IANO
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23 . I MOSAICI DELL'ARCOSOLIO NELLE CATACOMBE DI SANT'ERMETE SULLA VIA SALARIA VETUS Seconda metà del IV secolo
L'arcosolio si trova nelle catacombe romane di Sant'Ermete (o di Bassilla) sulla via Salaria Vetus ed è situato lungo la scala originaria di accesso alla cripta dei santi martiri Proto e Giacinto. Lo stato di conservazione del mosaico è pessimo; dell'originale decorazione si conservano solo miseri avanzi della lunetta di fondo (porzione sommitale sinistra) e del sottarco sinistro [1]. La decorazione musiva, in brillanti tessere vitree con l'eccezione di poche marmoree, è inquadrata da motivi vegetali stilizzati. La lunetta di fondo è incorniciata, lungo la curvatura, da un motivo ad intreccio con palmette verdi su fondo ocra gialla, identico a quello che suddivide i tappeti musivi della volta anulare del mausoleo di Santa Costanza (-. la), mentre motivi lanceolati in verde chiaro su fondo rosso scuro dividono il sottarco in otto pannelli quadrati, quattro per parte. Di questi se ne conservano solo tre interni, mentre dei due esterni a sinistra si intravede il margine, e degli altri tre non resta nulla. Riguardo ai soggetti attualmente individuabili nella lunetta, in cui fu ricavato anche un loculo, si distingue bene a sinistra una testa maschile barbata con folta capigliatura, dall'incarnato scuro, e si riconoscono , poi, le sommità di altre due teste, una al centro e una a destra [2]. Passando in rassegna i pannelli della volta, da sinistra si distinguono solo pochi resti del riquadro inferiore esterno, che il disegnatore
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della tavola del de Rossi interpretò come elementi di un motivo floreale, ma che nel commento alla tavola il grande archeologo lesse, forse più giustamente, come parte di un busto di orante (la mano sinistra ed il lembo di un velo bianco), secondo una iconografia di defunta che trova parecchi confronti nell'arte cimiteriale (de Rossi 1899; Leclercq 1925, 2334; Giuliani 2001 , 158). Il riquadro inferiore più interno mostra Daniele, in colore cinereo, orante fra i leoni, mentre il riquadro superiore interno presenta la figura nimbata di Cristo, abbigliata in tunica e pallio, che leva il braccio destro in alto verso sinistra ed opera la resurrezione di Lazzaro, la cui figura è scomparsa, mentre si individua bene l'alto podio a gradini del sepolcro (e non la mummia di Lazzaro, come appare nella tavola di Marchi), nonché, ai piedi di esso, la figurina inginocchiata di Marta, in verde acido e rosso (Giuliani 2001 , 159). Del sottarco destro si conservano solo resti del pannello interno superiore, in cui si distingue un personaggio in tunica corta, con il braccio destro levato verso l'alto, variamente interpretato dagli studiosi del passato.
Note critiche Il primo studioso che prese in esame questo singolare monumento musivo fuJean-Baptiste Seroux d'Agincourt, il quale, verso il 1780, ne eseguì dei disegni oggi conservati tra i manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana. Ali'epoca, si trattava del documento musivo catacombale meglio conservato, non essendo più visibile il celebre arcosolio mosaicato dello scalone delle catacombe di Domitilla, scoperto nel 17 42 dal Marangoni ma ben presto obliterato sotto una frana (Ferrua 1960-1961 , 209-210; Cuppo Csaki 1999). Per questo motivo, l'opera interessò i principali cultori di antichità cristiane (per la storia degli studi vedi Giuliani 2001 , 153-155), tra i quali merita una speciale menzione il gesuita Giuseppe Marchi (Marchi 1844, 237 ). Giovanni Battista de Rossi propose per la prima volta la datazione del mosaico in fase con la pratica funeraria nelle catacombe (de Rossi 1894, 27-28); altri studiosi, invece, avanzarono una datazione al finire del V-inizi del VI secolo, in rapporto con una presunta attività di papa Simmaco (498-514) svolta nel cimitero di Sant'Ermete (Marchi 1844, 247; Lefort 1885 ; Miintz 1893 ), in favore delle tombe venerate di Proto e Giacinto, secondo quanto riferisce il Lzber Ponti/icalis (LP I, 261 , 266; Cecchelli 2002). I già citati disegni di Seroux d' Agincourt sono quanto mai preziosi per lo studio del monumento, in quanto a quel tempo l'arcosolio - pur assai lacunoso - presentava ancora, in corrispondenza dei margini, alcune porzioni della partitura decorativa in seguito perdute (Giuliani 2001, 157-161). Per quanto riguarda la lunetta di fondo, nel disegno a china Vat. lat. 9849, f. 25r, oltre alla testa maschile barbata di sinistra , che si conserva tuttora, viene rappresentato, al centro, un grazioso e giovane volto femminile , con capelli raccolti e ricadenti in morbidi riccioli. Della lunetta, d'Agincourt riproduce anche la lastra di chiusura del loculo, su cui si intravedono alcune lettere (greche? ) dell'epitaffio, oggi non distinguibili [3]. Dalla distribuzione dei volti nella lunetta, come appaiono sia nel disegno sia dall'osservazione diretta dei brani conservati, si ha l'impressione che la decorazione sia stata eseguita quando era già stato ricavato il loculo; infatti, essi vanno quasi a schiacciarsi contro il fregio a palmette curvilineo, dato lo spazio limitato fra quest'ultimo ed il loculo a loro disposizione. Non si dispone di elementi sicuri per identificare i tre personaggi.
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Si può ipotizzare che la giovane, ritratta al centro dal d' Agincourt, fosse la defunta dell'arcosolio, accompagnata dai martiri Proto e Giacinto, oppure da altri defunti, forse i genitori (Leclercq 1934, 84). Alla luce di questa seconda ipotesi, si potrebbe ricostruire la vicenda dell 'arcosolio nel modo seguente: inizialmente furono deposti due defunti nella grande arca (non vi sono motivi sufficienti per escludere, come fanno de Rossi ed altri, che l'arca fosse bisoma); successivamente, nella lunetta di fondo fu ricavato il loculo per la terza deposizione, quella della giovinetta; fu quindi eseguita la decorazione musiva con i tre ritratti, dei quali, quello conservato, dall'espressione aggrottata e dagli occhi spalancati , sembra rispondere ad un modello del tutto realistico, piuttosto che all'immagine idealizzata di un martire. L'altro riquadro che acquista luce dall'esame dei disegni del d' Agincourt è quello interno superiore destro. Ad esso lo studioso ha dedicato due schizzi, uno nel già menzionato Vat. lat. 9849, f. 25r, ed un altro, più dettagliato, nel Vat. lat. 9841 , f. 38r [4]. In entrambi appare chiara, nel personaggio col braccio sollevato, l'identificazione con Abramo che si accinge a compiere il sacrificio di Isacco, piuttosto che con la scena del paralitico o con uno dei Magi dell'Epifania, come vogliono gli studiosi del passato (Giuliani 2001 , 159-160). La datazione dell'arcosolio alla seconda metà del IV secolo, comune del resto alla maggior parte delle testimonianze musive cimiteriali, è confermabile in base al vivace impressionismo dei ritratti della lunetta, allo stile plastico delle figurazioni dei riquadri , che scaturisce dall'arte propriamente cimiteriale (si confronti la figura più conservata, quella di Daniele, in tutto simile alle corrispondenti declinazioni pittoriche del repertorio catacombale), oltre che da considerazioni di ordine topografico. La regione di Proto e Giacinto, infatti, gravata da dissesti statici, fu interessata da cospicue sistemazioni in età damasiana, testimoniate anche da un'iscrizione filocaliana (ICUR-NS, X 26668) , e successivamente, ad opera dei presbiteri Teodoro e Leopardo (ICUR-NS , X 26672 , 26673 ). Pertanto, è certo che l'area ricevette un grande impulso, per volontà delle gerarchie ecclesiastiche, nella seconda metà del IV secolo. In concomitanza con tale intervento in favore delle memorie martiriali, si attua la monumentalizzazione dell'arcosolio, già esistente, mediante la sua smagliante decorazione musiva ,
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dovuta a qualche abbiente privato desideroso di essere deposto ad sanctos, accogliendo l'iniziativa papale in favore di un rilancio della devozione ai martiri (Spera 1994, 122 ).
Interventi conservativi e restauri Fine del XIX secolo: in epoca imprecisata, ma con tutta probabilità alla fine del XIX secolo, in concomitanza dei lavori di Armellini e Bonavenia nella regione, furono eseguite delle pesanti stuccature, per fissare alla meglio i bordi dei lacerti musivi, con malta ricca di pozzolana, ad imitare il supporto tufaceo.
Documentazione visiva Jean Baptiste Seroux d'Agincourt, Vat. lat. 9841 , f. 38r: il foglio mostra, oltre alla scena del Sacrificio di Isacco, anche due teste in mosaico - una maschile e l'altra femminile - riferite alla catacomba di Sant'Ermete, pubblicate poi da Seroux d' Agincourt nell'opera Storia dell'arte col mezzo dei monumenti della sua decadenza nel IV sec./ino al suo risorgimento nel XVI, Milano 1825, vol. VI, 24, tav. XIII, ai nn. 18 e 24. Nonostante questa precisa sequenza non è possibile attribuirle con certezza all'arcosolio in esame (come invece fanno de Rossi e Leclercq), in quanto nella Storia dell'arte sono definite «teste d'incognito in tessere bianche e nere», e ciò farebbe escludere un loro rapporto con l'arcosolio, in brillanti e colorate tessere vitree. Seroux d'Agincourt, Vat. lat. 9849, f. 25r; Marchi 1844, tav. XLVII; Perret, 1851-1855 , III, tav. XXXVI; Garrucci, 1877, IV, tav. 204,1; de Rossi 1899, tav. IX, 4.
Bibliografia Marchi 1844, 257 , tav. XLVII; Lefort 1885 , 91 , n. 125 ; Armellini 1893 , 189; Miintz 1893 , 78-83; de Rossi 1894, 27-28; Bonavenia 1898; de Rossi 1899, commento alla tav. IX, 4; Leclercq 1925 , 2331 -2334 , fig. 5696; Leclercq 1934, 83-85; Ferrua 1960-1961; Testini 1966, 308; Spera 1994 ; Giuliani 1997 , 9; Fiocchi Nicolai et al. 1998, 73 ; Cuppo Csaki 1999; Giuliani 2001 ; Cecchelli 2002. Raffaella Giuliani
CATACOMBE DI SAN T' ERM ETE
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24. I MOSAICI DELL'ARCOSOLIO NEL SECONDO PIANO DEL CIMITERO DI PRISCILLA Seconda metà del IV secolo
L'arcosolio venne alla luce durante gli scavi di Giovanni Battista de Rossi al secondo piano delle catacombe di Priscilla, nell'estremità occidentale della galleria direttrice della regione, ove si attestò l'escavazione ottocentesca (APCAS, Giornale degli Scavi, 9, 18851886, 26a, n. 51; de Rossi 1887 , 7-16) . La decorazione musiva, che in origine si estendeva sulla fronte esterna (eccetto che sul parapetto dell'arca, rivestito di intonaco bianco), sulla volta, inquadrata da un motivo geometrico a rombi alternati a cerchi, e sulla lunetta di fondo, si presenta in pessimo stato di conservazione, danneggiata in epoca imprecisata ad opera di ignoti, come dimostrano i numerosi colpi di piccone rimasti sulla superficie decorata, quasi ovunque priva delle originarie tessere musive, in pasta vitrea o lapidee [1]. In occasione della scoperta, Joseph Wilpert eseguì un disegno fortemente interpretativo della volta dell'arcosolio, che de Rossi accolse senza riserve nella pubblicazione del monumento (de Rossi 1887, tavv. I-II) [3]. La sepoltura doveva essere destinata ad una donna, raffigurata in atteggiamento di orante sulla sommità della volta [4] ; nel sottarco sinistro si individua la scena dell'Epifanza, in quello destro una scena multipla, di difficile lettura, a causa del pessimo stato di conservazione. Letteralmente devastata dalla violenza del piccone è anche la lunetta di fondo , allo stato attuale illeggibile, come pure la fronte esterna dell'arcosolio.
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Iscrizioni 1 - Iscrizione, del tipo cosiddetto 'a nastro', eseguita sulla malta ancora fresca di chiusura della mensa dell'arcosolio. Lunghezza campo scrittorio 60 centimetri, altezza lettere 4,517 , 5 centimetri. Grafia capitale fortemente atipica [2].
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,/l lì'fpwf 16) , il discorso è anche più complesso e più teso verso le soluzioni decorative degli edifici di culto più maturi. Qui, infatti, il solenne Collegio apostolico diviene il ganglio vitale di un progetto iconografico, che vede, nella volta un ciclo tutto ispirato all'In/antia Salvatoris, declinato presumibilmente anche in senso apocrifo, e nelle pareti e negli arcosoli un ricchissimo repertorio veterotestamentario, producendo quella coesistenza e quella convergenza tra le economie testamentarie, che sarà caratteristica degli edifici di culto cristiani più definiti, come ci assicurano i tituli historiarum prudenziani e ambrosiani3 8 e come dimostra, per il tempo a venire, lo scenario musivo di Santa Maria Maggiore(---+ 41). Proprio controllando l'evoluzione della pittura cimiteriale romana si assiste - come si diceva - a quella naturale reductio figurativa , che seleziona il ' cuore' del Collegio apostolico, facendolo assurgere immediatamente ad immagine simbolica, con evidente vocazione verso l'orbita teofanica. Talora l'abbreviazione è drastica, sino ad isolare il solo Cristo maestro come nel cubicolo 'del Docente' nel complesso dei Santi Marcellino e Pietro; talora la Maiestas Domini prevede ancora il Cristo tra due santi, come succede in un arcosolio del cimitero Maggiore. Ma la riduzione più significativa, che mette in relazione il Cristo con Pietro, attraverso la trasmissione
LA PITTURA DELLE CATACOMBE EL' ARTE PALEOCRISTIANA DELLE BASILICHE
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della legge, per parlarci del primato petrina della Chiesa di Roma, è rappresentata sicuramente dalla scena della Traditio legis, che noi conosciamo quasi esclusivamente dalle repliche dell'arte funeraria e devozionale, ma che trovava la sua prima impostazione - come oramai pare assodato - nell'abside del primo San Pietro in Vaticano (- 2a). L'absidiola di Santa Costanza (- lg), la lastra di Anagni 39 , un vetro dorato dei Musei Vaticani40 , la capsella di Samagher41 , un sarcofago di San Sebastiano42 [7] ed altri sarcofagi di Roma43 e dell' orbis, il reliquiario argenteo di Salonicco44 rappresentano il tema che, in assoluto, avrà più fortuna nella civiltà figurativa cristiana applicata alle sedi privilegiate degli edifici di culto 45 . Ma il tema scende anche in catacomba, piuttosto precocemente, a cominciare da un documento oramai ingiudicabile, nel cubicolo 'di Orfeo' a Priscilla46 e concludendo con la dettagliata rappresentazione della lunetta dell'arcosolio 'di Biator' nella catacomba ad Decimum di Grottaferrata (- 26). Con questo ultimo documento si varcano le soglie del V secolo e, mentre la produzione pittorica delle catacombe si dirada sino a scomparire, simultaneamente alla 'fine' delle catacombe in quanto sedi funerarie, le relazioni tra questa produzione e l'arte monumentale si infittiscono e le pur rare 'copie' catacombali divengono sempre più preziose. Gli affreschi già noti e quelli appena riscoperti nel cimitero dell'ex Vigna Chiaraviglio, in questo senso, sono sicuramente i più significativi. Così, la Maiestas Domini dell'arcosolio di Campanus (- 27c) e l'Abbraccio tra Pietro e Paolo del cosiddetto 'finarello' (- 47a) ci parlano di manifesti figurativi di una politica religiosa, che mette in prima linea la Concordia apostolorum e deve aver trovato le sue prime espressioni proprio nell'adiacente memoria apostolorum di San Sebastiano, forse proprio in una sede privilegiata della basilica circiforme47 . Così, il programma figurativo dell'arcosolio di Paulus (- 27d), con gli angeli provvisti di didascalie, può alludere a quel famigerato eppure discusso /astigium argenteum, che si ergeva al centro della basilica lateranense. Quando si spegne la grande stagione funeraria dell'arte delle catacombe se ne avvia - come è ben noto - una tutta devozionale, in perfetta sintonia con la curva dell'utilizzazione e della frequentazione di questi suggestivi cimiteri ipogei. Il crepuscolo dell'uso funerario non fu traumatico, ma si innescò proprio quando lo sfruttamento sepolcrale aveva raggiunto l'acme in quanto al numero delle deposizioni e in quanto alla concentrazione delle stesse, in corrispondenza delle tombe venerate. Proprio quest'ultimo fenomeno, definito convenzionalmente ed appropriatamente retrosanctos, innescato da una tensione devozionale costituzionale nella coscienza e nella civiltà paleocristiana, ma potenziata dalla politica e dalla strategia religiosa di papa Damaso48 , rappresenta un gesto significativo della mutazione della funzione primaria delle catacombe, che si tramutano da semplici cimiteri a santuari, a luoghi del pellegrinaggio. Se, dunque , nell'ultimo frangente del IV secolo e agli esordi del seguente, le catacombe sono ancora, di fatto, cimiteri, ma si propongono simultaneamente anche come sedi della devozione, la produzione pittorica esprime coerentemente queste due essenze, per cui, all'arte augurale, di tipologia eminentemente biblica, quella, cioè, collaudata da oltre un secolo di esperienze, si affianca un'arte agiografica tutta nuova, che intende mettere in codice iconografico l'immaginario martiriale, già declinato in senso apoteotico e propriamente iconico [8]. A questo ultimo riguardo, vorrei precisare che sino a questo momento, fino ed oltre l'età damasiana - come ho avuto modo di precisare49 - non si rileva, nella pur ricca produzione pittorica catacombale, un'iconografia martiriale, specialmente nel senso passionale del termine. Questa 'assenza' sembra contrastare con la voce dei padri della Chiesa e, più in generale, delle fonti documentarie che,
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invece, fanno cenno, sin dall'età costantiniana e, specialmente, dal momento teodosiano a veri e propri cicli martiriali. Tale 'vuoto' è stato motivato con un'espressa censura di un'arte costituzionalmente gaia e contraria ad evocare momenti violenti e passionali. Ma forse la ragione non è solo questa. Dobbiamo, sempre, ricordare che la prima arte delle catacombe ha una larghissima componente soterica ed è, anche, un 'arte retrospettiva, che guarda più volentieri agli exempla salvifici del passato remoto che ai fatti contemporanei. Mac è di più: così come abbiamo spiegato i motivi per cui è difficile indovinare i tratti catechetici in un'arte che si era conformata al linguaggio propriamente funerario , adatto a formulare gli auguri di pace e felicità ai defunti a cui, in primo luogo, erano dedicate le decorazioni, nello stesso modo è difficile intercettare le storie dei martiri, che dovettero dispiegarsi nei santuari del sopratterra, così come dovette succedere già nelle basiliche dei principi degli apostoli. I sarcofagi di passione che, nella seconda metà del IV secolo, introducono, per la prima volta, le scene passionali del Cristo, di Pietro e di Paolo costituiscono dei formidabili testimoni di questi cicli perduti50 . Se, dunque, la più antica arte delle catacombe non è, in prima battuta, né catechetica, né agiografica, per il fatto che la catechesi si praticava negli edifici di culto e la devozione di svolgeva nei santuari,
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quando le catacombe diventano esse stesse santuari, o meglio, quando le tombe dei martiri vengono monumentalizzate, sino a diventare nuclei di basiliche ipogee e semipogee, ecco che si innesca un meccanismo iconografico che produce le prime immagini dei martiri venerati, che divengono e si eropongono subito come icone del patronato nei confronti di alcuni defunti s'elezionati ed eccellenti. E questo il caso del cubicolo dell'ufficiale dell'Annona Leone in Commodilla, dove le figure di Felice e Adautto sono inserite in un programma estremamente complesso e misto, tipico dei monumenti di svolta(-> 19). Qui le storie testamentarie, il simbolismo zoomorfo, il nuovo immaginario apocalittico si congiungono alle figure trionfanti dei santi eponimi, che fungono da custodi rassicuranti della tomba dell'illustre defunto. Nello stesso modo, nella volta di un monumentale cubicolo del cimitero dei Santi Marcellino e Pietro, non lontano dalla basilichetta dei martiri, si dispiega un vero e proprio programma absidale, organizzato in due registri(-> 25) . Ambientato ancora in un paradiso fiorito , di ascendenza protocristiana, appena sfiorato da un'incipiente lingua apocalittica, uno stuolo di santi, proprio gli eponimi del cimitero (Marcellino, Pietro, Tiburzio, Gorgonia) acclama il gruppo Cristo-PietroPaolo situati in un habitat virtuale, secondo un'organizzazione piramidale estratta proprio dalle strutture absidali. Qui, l'ascendenza da una decorazione monumentale sembra indiscutibile e la relazione tra l'ultima arte delle catacombe e la più antica decorazione degli edifici di culto appare intima, interattiva, reciproca, richiamando non tanto e non solo un progetto decorativo, che poteva dispiegarsi proprio nella basilica circiforme del sopratterra, ma suggerendo una tipologia strutturale coerente per ogni piano iconografico monumentale del tempo, riferibile ai complessi decorativi conservati e perduti. Studiata da questo punto di osservazione e nelle sue più mature manifestazioni, l'arte delle catacombe si propone come un interessante documento per la restituzione dei più complessi scenari musivi delle basiliche romane, intesi non solo nei nuclei absidali, considerandone anche la lunga prospettiva, talché l'Introduzione di Veneranda in Domitilla (-> 17) sembra proiettarsi verso le monumentali introduzioni dei Santi Cosma e Damiano, ma anche nelle sequenze bibliche, come ci suggeriscono quelle serrate e dettagliate dei cubicoli B-C dell'ipogeo di via Dino Compagni (-> 10, 13), che paiono anticipare i quadri della navata centrale di Santa Maria Maggiore(-> 41) ma che, in realtà, pur seguendo gli excerpta e i prontuari biblici miniati, ci parlano di monumenti coevi perduti, di anelli di una catena mancanti, di pagine di storia dell'arte strappate, di zone d'ombra, che l'arte delle catacombe, con le sue vivaci e ingenue 'fotocopie', illumina, restituendo un mondo iconografico altrimenti destinato ad essere consegnato unicamente alle ipotesi ricostruttive degli iconografi e degli storici dell'arte.
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NOTE
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Cantino Wataghin 2001. Wilpert 1938. 3 Bisconti 2000m. 4 Fiocchi Nicalai 1991. 5 Wilpert 1903. 6 Vedi supra alla nota 1. 7 Klauser 1958. 8 Biscanti 2000c. 9 Biscanti 1994. 10 Ibidem. 11 Biscanti 2004a. 12 Biscanti 1998a. 13 Biscanti 2004 b . 14 Bisconti c.s . 15 Biscanti 2000n. !6 Vedi supra alla nota 1. 17 Ibidem. 2
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Cadetti 1989 . Fiocchi Nicalai 2003. 2 0 Pani Ermini 1969. 21 Tolotti 1970 . 22 Ibidem . 23 Recio Veganzones 1980. 24 Wilpert 1895. 25 Février 1978. 26 Biscanti 20000. 27 De Bruyne 1970. 28 Vedi supra alla nota 21. 29 Strzygowski 1901. 30 Biscanti 1996e. 31 Menis 1982. 32 Biscanti 2001-2002. 33 Biscanti 2005 b. 34 Vedi supra alla nota 30.
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Testini 1963. Biscanti 2000 p. Bisconti 1996 c. Pillinger 1980. Testini 1973-1974. Vedi supra alla nota 32. Guarducci 1978. Canetri 2004. Bisconti 2003 d. Panayotidi-Grabar 1975. Andaloro-Romano 2000. Warburg 2004. Bisconti 2000-2001. Cadetti 2000 . Bisconti 1995. Vedi supra alla nota 43.
COMMITTENZA PRIVATA, COMMITTENZA COMUNITARIA E LE PITTURE DELLE CATACOMBE LORENZA DE MARIA
Le origini delle catacombe cristiane, in quanto luoghi della sepoltura comunitaria, conoscono un laborioso processo di gestazione, dove il ruolo della committenza privata si alterna e si congiunge con quello della commitenza comunitaria, dando luogo a fenomeni complessi, sia a livello 12ropriamente topografico, sia architettonico che, infine, a livello decorativo 1. E noto, infatti, che i nuclei da cui hanno preso origine queste originali «città della morte» sotterranee, propongono, nella maggior parte dei casi, una committenza privata, talora da identificare con una famiglia, come nel caso dei Flavi a Domitilla o degli Acili a Priscilla, talora da riconoscere in un singolo evergete, proprietario di un praedium in cui è scavata la catacomba e promotore della nascita di un singolo cimitero, come succede con le catacombe di Domitilla, Priscilla, Pretestato, Bassilla2 . Per il periodo delle origini, da collocare nel corso del III secolo, è abbastanza semplice riconoscere i cubicoli o gli ipogei privati da cui si irradiano le catacombe comunitarie. L'ipogeo dei Flavi ed il cubicolo di Ampliato in Domitilla si qualificano proprio come ambienti 'pagani' poi cristianizzati ed inglobati nella grande maglia cimiteriale ipogea, dal momento costantiniano in poi.
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Altri monumenti, come l'ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, ancora della prima metà del III secolo, pur mostrando una tendenza verso le nuove religioni provenienti dall'Oriente, non denuncia una vera e propria aderenza al Cristianesimo, né viene mai inglobato in una rete cimiteriale di tipo comunitario, anche per la sua localizzazione, all'interno della cinta muraria aurelianea [1]. Nel momento delle origini si possono individuare, già dalla fine del II secolo e, in particolare, dal tempo in cui papa Zefirino (199-217) incaricò Callisto, allora diacono, di sovrintendere al cimitero della via Appia, alcune aree comunitarie: prima fra tutte proprio l'area I di San Callisto, che rappresenta un po' il cuore dell 'intero comprensorio della via Appia. Qui, in un praedium di piccole dimensioni, due scale parallele proseguono in altrettante gallerie, raccordate da diverticoli traversi e provviste di cubicoli decorati ad affresco, secondo programmi ancora molto estemporanei, ma sicuramente e totalmente cristiani3 . Il ruolo del privato e quello della comunità, dunque , in questi primi momenti, che vedono le origini delle catacombe, appaiono presenti, distinguibili, promotori di programmi decorativi diversi. Più difficile risulta dare un volto a queste due realtà, che operano simultaneamente e che contribuiscono alla creazione del monumento 'catacomba', così come si definisce dal momento costantiniano in poi, quando cioè questi 'cimiteri ipogei' acquisiscono una fisionomia più unitaria, tipologie funerarie più peculiari, programmi decorativi meglio giudicabili. Abbiamo già detto che si profilano all'orizzonte della 'committenza catacombale' dei singoli e delle famiglie , appartenenti alle classi medio-alte della società tardo antica, da identificare come la committenza propriamente privata, ma abbiamo anche detto che gli uni e gli altri possono anche proporsi sotto la forma di evergeti e, dunque, come promotori delle catacombe comunitarie; si è detto infine, parlando dell'area I callistiana, che, al di là della committenza comunitaria, si può riconoscere la gerarchia ecclesiastica, vista nelle sue più alte cariche, se lo stesso pontefice si preoccupa di affidare al più vicino dei suoi diaconi la gestione del cimitero della Chiesa di Roma. Se, dal momento delle origini, ci inoltriamo nel periodo della tolleranza e, dunque, nel tempo dei Costantinidi ed oltre, sino al traguardo del secolo IV ed, ancora, nei primi anni del seguente, quando le catacombe romane interruppero bruscamente il loro ruolo funerario, sia per le invasioni barbariche sia per una generale ridefinizione topografica dell'Urbe, la distinzione dei ruoli diviene problematica. A questo riguardo vorrei subito precisare che lo studio delle catacombe, per tanto tempo, ha sofferto di gravi luoghi comuni, a cominciare dalla funzione che, ora, sappiamo solo funeraria e, al limite, rituale. Si è detto e si dice, poi, che le catacombe rappresentano una grande rivoluzione nella tipologia funeraria tardo antica, non solo per lo 'specifico ipogeo', già caro alle culture italiche ed alle civiltà orientali, ma per quel 'senso comunitario' che abbraccia la societas ch ristiana e che guarda ai fedeli come ad un mondo di eguali. Si diceva che queste peculiarità, effettivamente riscontrabili nelle catacombe cristiane ormai definite, articolate e complesse, hanno provocato alcuni luoghi comuni, che, almeno per certi risvolti, devono essere corretti. Quando si pensa, infatti, al mondo delle catacombe si fa subito
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riferimento alle interminabili gallerie costellate di loculi tutti uguali e, per di più, spogliati delle chiusure ed anche dei resti dei defunti [2]. Questa sorta di oscuro e vuoto alveare non rende merito alla complessità, ali' articolazione ed alla decorazione delle catacombe. Esso non è altro che l'esito estremo delle spoliazioni dei 'barbari' d'ogni tempo, a cominciare da quelli delle invasioni storiche, prima fra tutte quella che si concluse con il sacco di Roma del 410. Da quel tempo le catacombe divennero delle comode cave di materiale e le chiusure dei loculi, ma anche i sarcofagi marmorei e tutti quegli arredi, sia pure sobri, sistemati attorno alle tombe dei martiri divennero appetibili, furono facile preda dei cavatori e di coloro che ritennero tali materiali utili prodotti per le calcare. Tali spoliazioni continuarono nel tempo , sino ali' epoca della Controriforma, quando si innescò quel deleterio «traffico dei corpi santi» che svuotò sistematicamente le catacombe di arredi e di reliquie4 . Quell'oscuro ed inquietante labirinto ipogeo, sia pure rischiarato dal flebile lume delle lucerne, al tempo dei primi fruitori, doveva apparire molto più gaio, anche se arredi e decorazioni risultavano poveri e sobri. I loculi erano chiusi da frammenti di marmo e di tegole; le iscrizioni erano semplicissime, ridotte spesso ai soli nomina singula; il decoro era affidato a materiali minimi e poveri: bambole in avorio, monete, marmi colorati, vetri, conchiglie [4]. Eppure questi piccoli espedienti servivano a sollevare la tomba dall'anonimato e a rompere quella legge dell'uguaglianza 'predicata' dalla nuova religione, ma subito infranta dalla mentalità romana ancora intrisa di quella tendenza autorappresentativa che connota i secoli della tarda antichità5 . Questi piccoli conflitti sono ancora più evidenti se abbandoniamo le gallerie completamente interessate da loculi e ci soffermiamo a considerare le tipologie funerarie più complesse, costituite da nicchioni, arcosoli e cubicoli. Tutti questi monumenti più ricchi e volitivi rappresentano, di fatto, delle sepolture privilegiate, che emergono dall'anonimato del sistema loculare e che propongono interventi complessi, non solo per quanto riguarda l' «architettura negativa», ma anche per ciò che concerne la decorazione. Ed anzi, l'esponente decorativo rappresenta già un motivo di privilegio che sfugge alle regole ed alla dinamica della committenza comunitaria, per interessare la sfera del privato. La Chiesa e la comunità assicurano al fedele una sepoltura degna e semplice, un loculo, una/orma, il più sobrio dei funerali. Alla famiglia spettano il corredo e l'arredo, talora risolti con la complicità dei /ossores che, spesso, assunsero il ruolo di veri e propri 'venditori di tombe', ma che talora dovettero anche rivestire i panni dei decoratori e degli 'inventori' delle sepolture più sofisticate6. Ecco, dunque, che il mondo della committenza si articola nella stessa maniera in cui si complica il ruolo degli arti/ices, degli scavatori, degli scultori, dei lapicidi, dei pittori. La comunità consegna il luogo della sepoltura, tra l'altro gratuito solo per gli indigenti, più spesso venduto a caro prezzo, come suggeriscono le epigrafi nel cui testo si leggono riferimenti alla compravendita, che rivelano i fossori COII\e primi attori di questa attività sempre più estesa. Dopo la consegna del luogo della sepoltura, appannaggio della comunità, rappresentata, appunto,
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daifossores, il testimone passava al privato, alla famiglia, al gruppo, che si impegnava nell'eventuale decorazione della tomba, o con l'acquisto di un sarcofago da sistemare in un nicchione o in un cubicolo, o con un trattamento propriamente pittorico. Non è escluso che anche questi passaggi fossero direttamente gestiti dai/ossores, che si rendevano mediatori tra la committenza privata e le botteghe degli arti/ices. È sicuro che i/ossores seguissero in prima persona lo scavo e l'allestimento degli arcosoli e dei cubicoli sino al momento appena precedente alla decorazione, quando non intervenivano, addirittura, nella preparazione dell'intonaco e nella sbiancatura. Il confine tra i ruoli della committenza privata e di quella comunitaria è assai più labile di quanto si possa ritenere e di quanto si sia ritenuto in passato, quando si è pensato alla genesi ed ali' evoluzione delle catacombe ragionando per categorie nette e definite. Ora sappiamo che i fossori dovettero assumere una funzione di trait d'union tra le due aree di committenza e che, pur facendo parte della sfera comunitaria, interagirono con quella privata, senza contare i rapporti che essi dovettero intrattenere con le maestranze esterne. Per tutti questi motivi, la figura del fossore, per troppo tempo considerato un astuto ed arricchito cavatore di tufo, va riconsiderata, illuminandone il ruolo polifunzionale e centrale, che dovette raggiungere anche livelli di rappresentanza e perizia, quando insorge il sospetto che alcuni dei/ossores più rifiniti possano aver anche agito nell'attività specializzata della decorazione7 [3 J. Sicuramente i personaggi preposti alla gestione delle catacombe dovettero assistere agli 'aggiustamenti' delle decorazioni tradizionali, consuetamente riservate ai monumenti funerari, ma anche a quelli domestici e civili. Dalla tradizione decorativa profana venne desunto, ad esempio, l'uso del trattamento musivo, riservato anche al semplice loculo, come nel caso di un mosaico steso sulle lastre di chiusura di un loculo, appunto, nella catacomba di Aproniano con la rappresentazione dell'amatissima Storia di Giona (- 22). Rari gli arcosoli mosaicati con scene bibliche (- 23, 24 ) o già con composizioni teofaniche (- 20), mentre la tecnica musiva è completamente assente nei cubicoli. Anche se altre tracce di mosaico sono disperse un po' in tutte le catacombe romane e se composizioni musive più complesse appaiono, più tardi, nelle catacombe napoletane, la tecnica musiva, come quella ancora più rara dello stucco, non ebbe fortuna per motivi esclusivamente conservativi. La maggior parte di questi 'mosaici ipogei' soffrì per distacchi più o meno gravi già al tempo o subito dopo l'allestimento, in quanto i supporti umidi non trattennero le tessere. L'alto tasso di umidità influenzò anche la tecnica pittorica che, per l'occasione, come si diceva, fu
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'aggiustata', rispetto alla consuetudine dell'affresco romano. In poche parole, l'affresco catacombale
fu steso su un intonaco ancora umido e già dealbato, usando colori uniti alla calce in un unico momento, dando luogo ad un 'mezzo fresco' , che non si risolve in una carbonatazione completa, ma che si svolge attraverso un processo lento. Questi accorgimenti tecnici dovettero impegnare proprio le maestranze, ma dovettero coinvolgere anche chi gestiva, nell'immediato e nel tempo, l'allestimento delle sepolture riproponendo la distinzione, ma anche la combinazione, dei ruoli che mettono in contatto maestranze esterne, gestori locali, committenza privata e sovrintendenza comunitaria8 . Tutte queste realtà appaiono vive e presenti quando osserviamo il panorama pittorico catacombale di Roma più maturo, a cominciare proprio dal tempo dei Costantinidi9 . Un esempio eloquente può essere rappresentato dal cubicolo dei due banchetti, nel cimitero dei Santi Marcellino e Pietro, ascrivibile proprio alla prima età costantiniana. Se 'smontiamo' il programma decorativo, non sarà difficile individuare gli apporti di tutti coloro che contribuirono alla realizzazione del cubicolo: dal fossore che pensò alla tipologia del cubicolo stesso, provvisto di arcosoli sul fondo e a sinistra; al pictor parietarius depositario della tradizione decorativa di apparato; al pidor imaginarius più originale o più ispirato da una committenza volitiva, forse mista, dove la componente privata e quella comunitaria sembrano interagire10 . Sfogliando il ricco e stratificato repertorio della decorazione pittorica del cubicolo dei due banchetti si intercetta, innanzi tutto, un sostrato di fondo ornamentale, tutto festoni floreali, pelte, ovuli, fiori s.t:ilizzati, che nella parete destra giunge alla tematizzazione, coprendo tutto lo spazio a disposizione. È chiaro che questa componente qualifica subito l' équipe dei pittori come un gruppo estremamente esperto, con un bagaglio decorativo ispirato alla tradizione, eppure aggiornato, abituato a dipingere le domus e le ville di una committenza assai simile se non identica a quella che aveva ordinato il cubicolo del cimitero dei Santi Marcellino e Pietro. Anche le generiche teste ornamentali, i genietti alati e gli uccelli in volo, che appaiono negli spazi di risulta della volta, provengono dal repertorio classico, di ispirazione cosmica e stagionale, che non si esaurisce mai nell'arte tardo antica, neppure in questi monumenti così compromessi con un progetto decorativo dichiaratamente cristiano. E poi, come è stato rilevato, i temi del tempo, dello spazio, del cosmo e delle stagioni che trascorrono inesorabili, alludono, in questo frangente e in questi contesti, al tema della palingenesi, della rigenerazione ciclica e, in ultima battuta, della resurrezione. Se passiamo 9ai motivi di genere a quelli propriamente iconici, attrae subito l'attenzione la maestosa volta interessata da un grande cerchio, che include una teoria di otto lunette campite dalle più
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prevedibili scenette bibliche alternate tra l'ispirazione neotestamentaria (Guarigione del paralitico, Moltiplicazione dei pani, Battesimo di Gesù, Resurrezione di Lazzaro) e quella veterotestamentaria (Daniele tra i leoni, Noè nell'arca, Giobbe dolente, Miracolo della fo nte), mentre l'immagine del Buon Pastore funge da centro e da motore di questa sequenza biblica infinita [5]. La committenza comunitaria o, ancor meglio, la supervisione ecclesiastica qui sembra farsi riconoscere 0, comunque, l'invenzione delle singole scene proviene proprio dal linguaggio comunitario, ideato sin dalle prime manifestazioni dell'arte cristiana e qui moltiplicato all'infinito, come succede, negli stessi anni, negli ateliers che producono i sarcofagi a fregio continuo. Quando scendiamo a considerare le pareti e se non ci soffermiamo sulle esercitazioni decorative del pictor parietarius a cui abbiamo già accennato, dobbiamo riflettere sulla rappresentazione dei due banchetti, tanto singolari quanto stimolanti per una lettura globale del progetto iconografico, che trova nella coppia dei coniugi oranti, sistemati ai lati dell'arcosolio di fondo , l'esponente autorappresentativo più alto. I due banchetti ed i due oranti ci parlano della 'componente privata' del programma decorativo. I ritratti dei due coniugi, sontuosamente vestiti e solennemente atteggiati, 'targano' il cubicolo e lasciano riconoscere i volti dei proprietari della camera funeraria. I due banchetti ci dicono qualcosa di più. I commensali sono tutti uomini ed alcuni di loro mostrano i tipi inconfondibili del ritratto, descrivendo un gruppo familiare o, forse, una rappresentanza di una corporazione, comunque una selezione di persone che possono essere sepolte nel cubicolo, che propone un potenziale sepolcrale elevato, con la predisposizione di loculi mai utilizzati. La lettura delle scene di banchetto sembra ora risolta, riferendo questi conviti, specialmente quelli dipinti nelle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, al rito funerario del re/rigerium, che sospende queste agapi simboliche tra mondo terreno e vita nell'aldilà, come suggeriscono i nomi (Agape, Irene) delle inservienti che appaiono in queste due rappresentazioni 11 . E allora la committenza del cubicolo dei due banchetti del cimitero dei Santi Marcellino e Pietro si articola ancora di più. Alla 'sovrintendenza' ecclesiastica si affianca un gruppo che, autorappresentando i capofamiglia, non rinuncia a ricordare l'intero gruppo dei trapassati, proiettati in un virtuale aldilà. La definizione della committenza delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro appare ancora più sfuggente e complessa quando consideriamo l' arcosolio 'di Orfeo', riferibile agli ultimi anni del secolo IV e, dunque, all'ultimo periodo dello sfruttamento della catacomba (--+ 18). Qui, il programma decorativo raggiunge livelli estremamente sofisticati, suggerendo un progetto pensato da una committenza privata esigente ed anche memore della tradizione figurativa del passato se, nella postazione privilegiata dell'arcosolio, ossia nella lunetta, vuole dipinto il mito mai dimenticato di Orfeo citaredo attorniato dagli animali 12 . La scelta appare ancora più audace se pensiamo alla cronologia avanzata del dipinto , quando il repertorio della pittura delle catacombe è tutto 'convertito' al Cristianesimo, come dimostrano le scene della Resurrezione di Lazzaro e del Miracolo della fonte che, comunque, appaiono nella fronte dell'arcosolio, dimostrando come la più elevata utenza delle catacombe comunitarie dei Santi Marcellino e Pietro, pur aderendo alle tendenze dell'iconografia biblica, in voga nel più maturo momento dello sfruttamento del cimitero, non dimentica la storia figurativa del passato remoto , anche se questa 'memoria ' va inquadrata nella 'risemantizzazione' dei miti classici e, in questo caso, nell'identificazione del Cristo-Logos con l'eroe citaredo 13 . Per quanto ci riguarda, è interessante indagare gli aspetti di questa committenza dalla cultura 'mista' , da identificare, con tutta probabilità, o con la più alta gerarchia della Chiesa e, dunque, con i presbiteri, i diaconi e con i preposti alla 'gestione' del complesso catacombale, o con un livello sociale dal potenziale economico estremamente elevato, tale da infrangere la barriera dell'uguaglianza dei sepolcri e la legge della sobrietà della decorazione. In ambedue i casi, il ruolo del privato e del comunitario coesistono e, se, da un lato, l'iconografia più corrente selezionata dai 'gestori' dei cimiteri comunitari si diffonde e si ripete secondo schemi e strutture ben collaudate, nei progetti decorativi filtrano anche le esigenze del privato che, spesso, propongono scene rare ed attinte alla miniera di un passato figurativo , che si ricarica di nuove valenze semantiche 14 [6]. Se, nella maggior parte dei casi, la committenza delle tombe dei cimiteri cristiani di Roma rimane anonima, con qualche rarissima eccezione, come quella rappresentata dal cubicolo 'di Leone' nella catacomba di Commodilla (--+ 19), in altri casi la committenza è ben definibile nelle sue coordinate e nei suoi dati essenziali, senza giungere però a dare un nome e un cognome al committente del monumento. È questo il caso del cubicolo 'dei Pistores' in Domitilla (--+ 21) che, proponendosi come il sepolcro di un gruppo familiare o di un'associazione corporativa che faceva capo alle infinite attività dell'Annona, non ci ha lasciato alcun nome di proprietari 15 . Eppure, la monumentalità del cubicolo, la pretenziosità del programma decorativo, l'articolazione e la complessità iconografica del progetto stesso tradiscono una committenza alta che, pur inserendosi in un'area totalmente comunitaria del complesso, non rinuncia all' autorappresentazione privata della famiglia o del gruppo.
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Il tema professionale dell'attività dei panificatori rappresentata nei vari momenti, dall'arrivo del grano all'Emporium alla macinazione [7] , si snoda in un ciclo monumentale che si interrompe, paradossalmente, per dare spazio, nelle due calotte absidali e, dunque, nelle due postazioni privilegiate, ad una ben organizzata Maiestas Domini, con il Cristo attorniato dagli apostoli, e ad un'originale rappresentazione del Buon Pastore tra le stagioni, mentre nelle calotte degli arcosoli si distende il vecchio Ciclo di Giona e, nello spazio di fondo, un pistor viene raffigurato in un solenne ritratto. Dunque, qui l'incontro delle due materie figurative -l'una ispirata al vecchio filone popolare delle scene di mestiere, l'altra calata nella più corrente iconografia biblica - dà luogo ad un programma decorativo coerente ed armonico nel suo insieme, perfettamente conforme alla complessa architettura negativa che connota il cubicolo, ma mette a nudo il conflitto sotteso a tutta 'l'arte delle catacombe', dove la sovrintendenza 'ecclesiastica' della gerarchia comunitaria si misura con le esigenze delle famiglie e dei gruppi e, dunque, con i 'desiderata' decorativi dei privati. Questo conflitto, che non assurgerà mai al livello di scontro, ma che, anzi, darà luogo ad omogenee e concordi esperienze figurative complesse, rappresenta uno dei tanti aspetti 'rivoluzionari' dell'arte catacombale che, troppo spesso, è collocata in un 'angolo' dell'esperienza figurativa tardo antica e che, invece, considerata in tutti i suoi aspetti, rivela gli snodi e l'evoluzione di un linguaggio iconografico in movimento, in mutazione, in diversificazione. Anche per questo motivo, la pittura catacombale romana può essere considerata come un 'esperienza nodale e significativa per chi guarda al tardo antico come al ponte solido, non di rapido e malfermo passaggio, tra la cultura classica e quella medioevale, come vivo e fervido laboratorio degli esperimenti figurativi che suggeriscono svolte e percorsi artistici originali e rivoluzionari, di pari passo con i nuovi orizzonti della cultura e della civiltà di un 'era nuova che si colloca subito al di là dell' 'arte delle catacombe' 16 .
NOTE
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Fiocchi Nicolai 2000, 341-362. Fiocchi Nicolai 1998, 9-69. Fiocchi Nicolai 2001 , 15 -32. de Maria c.s. Bisconti 1997a, 173-179. Conde Guerri 1979.
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Minasi 2000, 182 -184. Mazzei 2004, 38-48. Bisconti 2005b, 175 -187. Bisconti 1998c, 33-53 . Février 1977, 29-45. Bisconti 1988, 429-436 .
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Bisconti 2000a , 236-23 7. Bisconti 1994 a, 23-66. Pergola 1990b, 167 -184. Bisconti c.s.
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LA PITTURA PROFANA
28. I RIQUADRI CON FIGURE SIMBOLICHE, FREGI FLOREALI E FINTI SECTILIA DELL'AULA 'DELL'ORANTE' SOTTO LA CHIESA DEI SANTI GIOVANNI E PAOLO Fine III-inizi del IV secolo
La decorazione interessa le pareti di un ambiente che fa parte di un complesso edilizio sorto nel III secolo d.C., inizialmente adibito a scopi commerciali e successivamente adattato ad uso abitativo, e che si presenta con una planimetria irregolare ed un sistema di copertura non chiaramente ricostruibile, forse indici di modifiche strutturali apportate alla stanza in coincidenza con il cambiamento di destinazione. Nonostante la perdita della metà inferiore dello zoccolo delle pareti occidentale e orientale e di tutta la zona centrale della volta ed i guasti subiti dall'ornamentazione originaria delle pareti meridionale e settentrionale, dovuti all'apertura di due varchi monumentali, significativa è la percentuale d'intonaco dipinto conservatisi; tale da consentire la lettura sia dell'impianto organizzativo che delle singole figurazioni superstiti. La superficie decorata appare organizzata in registri [1 , 2]. La zona inferiore, che secondo Margherita Cecchelli Trinci in origine doveva prevedere una zoccolatura bianca conclusa da una cornice rosso granato (Cecchelli Trinci 1978, 554), presenta un basamento a finte lastre di porfido ed alabastro alternate, inquadrate da cornici a listelli colorati e collegate da un sistema a fasce di colore rosso nei cui spazi di risulta sono elementi rettangolari che richiamano il marmo numidico; i pannelli stanno ai lati di un grande riquadro nel quale è sviluppato il motivo della stella a otto punte inscritta in un cerchio a sua volta inserito in un
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AULA ' DELL' ORANTE ' SOTTO I SANTI GIOVANNI E PAOLO
quadrato. Sopra ogni unità è un timpano campito da un tondo ed emergente da uno sfondo in finta opera isodoma costituita da formelle imitanti il marmo numidico. Il registro sovrastante è interessato da un fregio continuo dove ricchi racemi si dipartono da un cespo d'acanto. Nella zona superiore è dipinta una serie di ampi riquadri di forma rettangolare, che - là dove consentito dall'irregolare sviluppo della copertura della stanza - si uniformano alla cadenza dei riquadri del primo registro . Nel lato meridionale, dove si trova uno dei due passaggi che permettono la comunicazione con gli altri ambienti della domus, si conservano due pannelli: il primo, gravemente danneggiato, mantiene soltanto qualche rara traccia di colore; il secondo, pressoché integro, è decorato con la figura femminile orante che ha dato il nome alla sala [2 , 4]. Nella parete adiacente, orientale, l'interno dei due pannelli che rivestono il tratto iniziale del muro è affrescato con mostri marini fantastici pendenti da supporti semirigidi nastriformi, forse oscilla; nella superficie limitrofa, dove attacca la copertura a volta, si sviluppano tre pannelli in cui sono un ramoscello di vite, una pittura floreale generica ed una maschera grottesca di Sileno coronato di un serto vegetale, dotata di nimbo [2]. L'impianto della figurazione del terzo registro sul lato settentrionale, dov'è l'arco che consente l'accesso al ninfeo, è documentato dalle cornici di due pannelli,
il primo dei quali è campito con un animale fantastico pendente. Infine, nel terzo registro della parete occidentale [1] sono raffigurati un ramo fiorito , una maschera teatrale tragica circondata da un'esplosione floreale [3], un motivo ornamentale vegetale ed una seconda maschera di Sileno simile alla prima che emerge da ramoscelli di olivo recanti frutti [5]. La copertura della stanza, parzialmente a volta, appare interessata da grandi pannelli disposti con andamento radiale e solidali col supporto murario, giunti a noi in numero di quattro e tutti gravemente mutilati. Si tratta della rappresentazione di coppie di capri e di ovini affrontati, alternati a figure virili stanti, ritratte nell'atto di mostrare il testo contenuto in un codice aperto o in un rotulo svolto [1, 2].
Note critiche La decorazione venne scoperta dal padre passionista Germano di San Stanislao, nel corso delle prime ricognizioni condotte nell'area sottostante la basilica dei Santi Giovanni e Paolo; le pitture erano occultate da uno strato di scialbo, successivamente rimosso (Ranucci c.s.). La ricchezza e complessità dell'apparato ornamentale indussero il su o scopritore ad identificare l' ambiente con la stanza più importante di un 'abitazione esemplata sui precetti vitruviani e di stampo pompeiano, il tablinum , mentre l'interpretazione dei singoli soggetti rappresentati fu all'inizio profondamente condizionata dalla tradizione che riteneva questi locali attinenti alla casa dei due martiri Giovanni e Paolo; tradizione che sembrò a Germ ano di San Stanislao confermata dai rinvenimenti stessi. In effetti , la presenza dell'immagine femminile nella posa expansis manibus [4], generalmente riconosciuta come espressione di preghiera, ne sembrò
la prova inconfutabile e spinse ad un a lettura in chiave cristiana delle restanti figurazioni. Così, ad esempio, il personaggio maschile ritratto nel pannello centrale di destra e di sinistra della volta venne interpretato come Mosè ed in particolare il riquadro sul lato orientale [2], dove la figura è rappresentata nell'atto di srotolare un rotulo , sembrò alludere all'episodio di Mosè che sul sacro monte Oreb si toglie i calzari (Allard 1907, 37-38). Successivamente, Germano di San Stanislao corresse questa lettura ed avanzò l'ipotesi che si trattasse di due apostoli (Germano di S. Stanislao 1894, 114-118). Il padre passionista propose anche una ricostruzione del sistema di partizione della volta, ispirandosi a quello ricorrente in alcuni cubicoli delle catacombe: un grande cerchio con un tondo più piccolo inscritto al centro, da cui si dipartono dei raggi che vanno a forma re dodici pannelli di grandezza omogenea (ibidem, 98, fig. 10). Per analogia con le tematiche ricorrenti in ambito funerario, egli immaginò all'interno del clipeo centrale, Cristo sotto forma di Buon Pastore e, nei riquadri , sei apostoli alternati a figurazioni simboliche sempre di tenore cristiano (ibidem, 118). Anche le restanti immagini vennero intese come scene simboliche e caricate di significati allusivi alla dottrina cristiana. Nella sua accezione più ampia e salvo alcune precisazioni variamente avanzate dagli autori successivi, la lettura esegetica di padre Germano di San Stanislao venne generalmente accolta (Leclercq 1910, 2847 ; Wilpert 1916, II, 635; Ortolani [1925] , 49-50; CBCR 1937, I, 281 ; Colini 1944, 178; Cecchelli Trinci 1978, 553 ). Si deve, in effetti, solo ad Harald Mielsch (Mielsch 1978, 158-162) la sua prima sistematica confutazione. Lo studioso precisa in primo luogo che le figure maschili stanti ritratte con codici e rotuli possono assimilarsi a generici filosofi piuttosto che ad apostoli, mentre l'orante appartiene
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ad un ambiro simbolico più vasto, non necessariamente cristiano; propone, inoltre, d'interpretare le maschere teatrali come immagini allusive alle stagioni e cioè alla primavera, all'estate e all'inverno; ed il ramo di uva nel piccolo pannello di risulta ali' attacco della volta sul lato orientale come una rappresentazione sintetica dell'autunno, resasi necessaria in questa forma a causa della mancanza di spazio. Lo studioso sottolinea come lo stesso schema decorativo della copertura ricorra anche in ambiti non funerari, eliminando così ogni parallelo con i monumenti cristiani coevi. Nega decisamente qualsiasi valore cristiano alle pitture e qualsiasi destinazione del luogo a scopi liturgici, Beat Brenk (Brenk 1995 , 180-188; Id. 2000, 156-158) , secondo il quale le allusioni religiose insite nei soggetti affrescati nella presente stanza ed in quella vicina, dove compaiono -menadi danzanti ed una rappresentazione del Bue Api, testimonierebbero piuttosto degli ampi interessi eticofilosofici del committente, «homo religiosus di ceto elevato». Più di recente, tuttavia, e comunque dubitativamente, si è tornati a sottolineare come il linguaggio figurativo complessivo espresso nell'aula dell'Orante non sia estraneo ad un sistema d'immagini simboliche che, tratto da un vocabolario filosofico e religioso, sembra a sua volta costituire il retroterra e le fondamenta del repertorio iconografico cristiano (Biscanti 2000i, 184). Per quanto riguarda la decorazione della zona inferiore a lastre e tarsie marmoree, Margherita Cecchelli Trinci propone di considerarla un ammodernamento di un originario paramento imitante l'opus isodomum (Cecchelli Trinci 1978, 551-562), ipotesi
variamente accolta (Mielsch 1978; Brenk 1995; Falzone 2002, 172; Ranucci c.s. ). Infine, riguardo alla collocazione cronologica del complesso pittorico, già datato attorno alla metà (Colini 1944, 17 6-180; Borda 1958, 133; Cecchelli Trinci 1978, 560) o alla fine del III secolo (Prandi 1953, 123 ), oppure variamente ricondotto all'interno del IV secolo (Wilpert 1916, II, 633-635; CBCR 1937 , I, 297 ; Testini 1966, 257 ; Becatti 1969, 130; Brenk 1977, 135; Andaloro 1987 , 222; Brandenburg 2004c, 158), questa è stata circoscritta da Mielsch agli anni 280-320 sulla base del tipo d 'acconciatura mostrato dall'orante, una scriminatura larga in parte fluente sulle spalle in parte ripresa sul capo che comparirebbe nei ritratti femminili in età tardo tetrarchica e protocostantiniana (Mielsch 197 8, 162-163).
Interventi conservativi e restauri 1955: restauro complessivo, eseguito dall'Istituto Centrale per il Restauro , dell 'apparato decorativo dell'edificio sottostante la basilica , gravemente deteriorato dall 'umidità e da ridipinture e sigillature di cemento, da attribuirsi probabilmente ad una qualche azione conservativa risalente al periodo immediatamente successivo la scoperta degli affreschi (Borrelli Vlad 1956-1957 ). 1999: restauro degli apparati decorativi, sotto la direzione della Soprintendenza Archeologica di Roma , eseguito dalla Ditta Aurelia s.r.l.
Bibliografia Germano di S. Stanislao 1894; Leclercq 1910, 2832-2870; Wilpert 1916, II, 632-636; Ortolani [1925]; Gasdia 1937 ; Colini 1944, 164-195; CBCR 1937, I, 265-300; Lugli 1946, 378; Prandi 1953 , 123; Borda 1958, 133; Matthiae 1962 , 21-24; Matthiae 1965 [1987] , 68-69; Testini 1966, 257 ; Becatti 1969, 130; Brandenburg 1977, 135-136; Mielsch 1978, 158-163; Cecchelli Trinci 1978, 551-562; Kelly 1986, 258-260; Andaloro 1987 , 222 ; Brenk 1995 , 169-206; Biscanti 1998c, 42, fig. 15; Biscanti 2000i, 184-190; Brenk 2000, 156-158; Mielsch 2001; Falzone 2002 , 171-174 ; Brandenburg 2004c, 155-162; De Vos-Andreoli c.s.; Ranucci c.s . Cristina Ranucci
AULA 'DELL'ORANTE ' SOTTO I SAN TI GIOVANN I E PAO LO
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29. IL SERVO E IL PADRONE E ALTRE SCENE DI VITA RUSTICA NELLA VILLA DI CASAL MORENA Inizi del IV secolo
Nel 1929, al IX miglio della via Latina (attuale Anagnina), presso Casal Morena in località Ciampino, fu messa in luce una grande villa suburbana a seguito di uno sterro effettuato dai proprietari del casale moderno. L'edificio occupa un'area rettangolare di 120x30 metri, organizzata in 3 settori indipendenti. A nord , nell'angolo prospiciente la via Latina, sono situati cinque ambienti relativi, con ogni probabilità, alla pars rustica del complesso; l'ambiente 1, di forma trapezoidale, ha restituito affreschi con scene di vita rustica. Il settore centrale, caratterizzato da ambienti funzionali e diviso in due longitudinalmente, ha una parte scoperta ad est dove è stata trovata una serie di vasche intercomunicanti, con funzione ipotetica di peschiera o per la spremitura dell'uva, ed una parte coperta ad ovest in cui è presente un criptoportico a tre lati intorno ad un giardino o cortile scoperto. L'area residenziale, o pars dominica, è concentrata nel blocco meridionale, raccolto intorno ad un giardino con loggiato, comprendente un complesso termale dotato di stanze riscaldate, con pre/urnia e suspensurae, pavimentate con mosaici in bianco e nero (De Rossi 1979). Il ciclo pittorico della corte trapezoidale della pars rustica (ambiente 1, perimetro di 45 metri, altezza 3 ,50 metri) è andato completamente perduto a causa dell'esposizione alle intemperie e della mancanza di interventi conservativi. Già nel 1979 De Rossi, durante un sopralluogo al complesso, ne notò la quasi completa sparizione. Il giornale di scavo e la documentazione fotografica relativi ai ritrovamenti del 1929 (conservati nell'Archivio della Soprintendenza Archeologica di Roma) sono stati parzialmente pubblicati da De Rossi nel 1979. Nel 1929 ad essere staccati e trasportati al Museo Nazionale Romano furono solo due pannelli, che si salvarono così dalla distruzione. I pannelli sono molto restaurati e le figure superstiti presentano numerose integrazioni.
Servo e padrone Pannello dalla parete nord-ovest della corte [l] Il pannello (altezza 186 centimetri, larghezza 161 centimetri) è conservato nella sede di Palazzo Massimo alle Terme (inv. 426939), nella sala delle megalografie tardoantiche. Due personaggi maschili, a grandezza quasi naturale, si stagliano su fondo neutro. A sinistra, nella figura molto frammentaria priva del volto è probabilmente da vedere un domestico, vestito con una tunica corta e a piedi scalzi, piegato in avanti nell'atto di porgere una coppa con la mano destra, mentre con la sinistra tiene per l'ansa un'anfora, poggiata sulla parte inferiore del suo corpo. A destra, in primo piano, riceve la coppa un uomo dal viso autorevole, ben delineato, incorniciato da una folta chioma nera ricciuta; il volto è animato da profondi occhi neri, sottolineati da linee di contorno color seppia. L'uomo, probabilmente il dominus, è vestito con una tunichetta sopra la quale porta una lacerna ocra con profili color porpora (clavium), lunga sotto il ginocchio e fermata da una spilla sulla spalla sinistra; indossa calzari neri, alti alla caviglia, chiusi da lacci. Il padrone con la mano destra stesa riceve la coppa di vino, mentre con la sinistra si appoggia ad un sottile bastone di legno, il baculum. La scena è spazialmente organizzata nel tentativo di creare una prospettiva; le due figure sono, infatti, presentate su due livelli diversi, il padrone in prli!lo piano, il domestico si presuppone arretrato.
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Il confronto fra il pannello e la fotografia del dipinto in situ mostra che il pannello, oggi esposto al Museo, dovette subire la perdita della superficie pittorica lungo le aree perimetrali in conseguenza del distacco: i bordi risultano in più punti sfrangiati e frammentari, in particolare;-la testa della figura di sinistra è andata perduta [1 , 7].
Figura fem minile Pannello dalla parete nord-est della corte [2] Il pannello è esposto nel museo dal 2005 accanto al precedente (altezza 160 centimetri, larghezza 95 centimetri ca.). La figura femminile frontale, in piedi, ha il volto non più leggibile e il capo coperto da un velo trasparente che arriva sino alle spalle; il velo è tenuto sulla fronte da una coroncina vegetale. Indossa una lunga veste diritta di colore verde oliva che lascia scoperte le braccia e giunge fino ai piedi; dall'orlo della veste spunta solo la punta del piede destro , leggermente avanzato rispetto all'altro. Una fascia trasversale di colore arancio attraversa il petto e si allaccia in vita. Il braccio sinistro è piegato in fuori a tenere un'alta lancia che ha due piccoli globi nell'estremità inferiore, mentre il braccio destro è proteso in avanti, all'altezza del bacino, e la mano porge una foglia, forse di vite, disegnata da contorni marroni e venature interne delineate da tratti verdi. La sagoma del personaggio si ritaglia sul fondo neutro di colore beige carico, quasi marrone, tramite l'utilizzo di contorni netti e lineari. Ad esempio, le braccia sono sottolineate da linee di contorno verde oliva dello stesso colore della veste. Gran parte del dipinto sembra aver perso la pellicola pittorica e conservarsi allo stato di disegno preparatorio. La figura sembra potersi interpretare come personificazione dell'autunno (Santolini Giordani 1998; didascalia esposta accanto al pannello al Museo Nazionale Romano ). La documentazione più completa delle pitture della corte rustica è fornita dalle foto in bianco e nero scattate nel 1929, al momento della messa in luce dell'ambiente (De Rossi 1979) [3 , 12]. La decorazion e pittorica, riferibile all'ultima fase di vita del complesso, era organizzata sulle pareti dell'ambiente su due registri. Il superiore, poco leggibile anche al momento della scoperta, ritraeva tralci di vite con grappoli d'uva; quello inferiore, maggiormente conservato, era occupato da diverse scene relative alla produzione del vino con rappresentazione dei famigli del fondo agricolo occupati nelle varie fasi del lavoro. La parete nord-ovest dell'ambiente trapezoidale (lunghezza 15 metri, altezza conservata 3,50 metri) era rivestita per un 'altezza di 2 metri da intonaco di cocciopesto (spessore 3-4 centimetri). Il registro inferiore era diviso in sei ampi riquadri in cui erano riprodotti, partendo da sud, altrettanti dolii, grandi contenitori ceramici per la conservazione dell'olio o del vino, con il loro coperchio [3]. I riquadri erano delineati da alte fasce ocra (di larghezze differenti: 50 centimetri quelle di base, 28 centimetri quelle della sommità, e circa 30 centimetri quelle ai lati del riquadro), vivacizzate da drappi di colore rosso. I vasi erano raffigurati a grandezza naturale (altezze variabili tra 1,40 e 1,65 metri e larghezze comprese tra 1,65 e 1,85 metri), erano tutti di colore rosso e presentavano il coperchio, operculum, del medesimo colore, con relativa presa centrale ad ansa semicircolare. I
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contenitori erano riprodotti in una particolare prospettiva in modo da mostrare tutto il coperchio [4]. L'estremità nord della parete era occupata da un lungo riquadro con due figure virili affrontate, una con un bastone in mano, l'altra con un 'anfora. Il pannello è ora esposto al Museo Nazionale Romano [1 , 7]. Il registro superiore di questa parete presentava pitture frammentarie , delle quali non si possiede alcuna documentazione fotografica, ma unicamente le testimonianze offerte dalle descrizioni del giornale di scavo. Vi si scorgevano partendo da sud: tralci di vite, un grande cesto di vimini rovesciato da cui escono grappoli d'uva, e un pannello con due figure, una femminile e una maschile, alte 70 centimetri. L'uomo era raffigurato in piedi nell'atto di sollevare una scala a pioli, la donna , posta ad una certa distanza, nell'atto di bere da un boccale. Al centro dell'ambiente era situato un pilastro in laterizio (conservato per un'altezza di 2 metri), che aveva probabilmente la funzione di sostenerne la copertura. Tale pilastro poggiava su un basamento ottagonale con lati concavi: su ognuna delle facce di quest'ultimo era dipinto, su fondo celeste, un grosso dolio con relativo operculum, di colore rosso pallido; gli 8 dolii, alti circa 93 centimetri, erano inseriti entro riquadri definiti da una fascia nera larga 5 centimetri. Nel 1979 non rimaneva che il debole contorno di uno solo di essi e di alcuni tratti del riquadro (De Rossi 1979, 105 ). Le quattro facciate in alzato del pilastro erano anch 'esse dipinte, ma già nel 1929 nessuna era conservata per intero. Il motivo ricorrente su tutti i lati era, molto probabilmente, una figura posta su di un piedistallo o altare [6]. Il lato più leggibile del pilastro era, ancora nel 1979, quello a nord-est: si notava un basamento di colore ocra arancio, sopra il quale stava un personaggio femminile nell'atto di accennare un passo di danza [5] . Secondo De Rossi la danzatrice era ritratta quasi certamente come una menade (ibidem, 107 ). La parete nord-est (lunghezza 8 metri ca.) conservava nel registro inferiore estese tracce di decorazione pittorica [3]. Dalle fotografie si riconoscono una serie di figure stanti di grandi dimensioni inserite entro riquadri a sfondo neutro . Partendo da nord , si svolgevano le seguenti scene:
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- Un uomo inginocchiato a piedi scalzi nell 'atto di versare un liquido da un 'anfora posta davanti a sé . Di fronte a quella inginocchiata, una figura virile in piedi avvolta da un ampio mantello lungo fino al ginocchio, reca forse tra le braccia un recipiente [8]. - Un personaggio, mal conservato, riprodotto nell 'atto di salire una corta scala appoggiata ad una pianta [9]. - Una figura , forse femminile , rappresentata in piedi, frontale , vestita di una tunica lunga fino ai piedi, che De Rossi descrive come ocra chiaro, mentre nel pannello oggi è verde oliva [2 , 10]. Il pannello fu staccato e trasportato nel 1929 nei depositi del Museo Nazionale Romano e alla fine del 2005 è stato esposto nel museo accanto all'altro pannello superstite. La decorazione pittorica della parete orientale del vano (lunghezza 7 ,50 metri) era parzialmente leggibile, nel 1929, a livello del registro inferiore, ed è docun1entata da una sola fotografia in cui si riconosce un gruppo di tre figure che sembrano accucciate al lavoro intorno ad un grande cesto, o ancora un dolio per la conservazione del vino. Purtroppo lo stato di conservazione di questa scena era, già allora, molto precario; la pittura aveva perso completamente lo strato superficiale tanto che nella foto si scorgono solo vagamente le sagome scure dei tre personaggi [11]. Infine, la parete meridionale (lunghezza 15 metri ca.) conservava nel registro superiore (altezza 1,50 metri) una decorazione a motivi vegetali di colore verde su sfondo giallo, tra i quali si distinguevano tralci di vite. In una nicchia nell 'estremità sud della parete era collocata una piccola fontana, la copertura a botte della nicchia era decorata in stucco a valva di conchiglia di colore celeste. Il registro inferiore (altezza 2 metri ca. ) presentava da est i seguenti pannelli: un mascherone tipo gorgoneion entro un riquadro dipinto, con corona di tralci intorno alla fronte e serpentelli che pendono dal capo, documentato esclusivamente dalla descrizione riportata dal giornale di scavo; altri quattro riquadri, in cui erano rappresentati altrettanti grandi contenitori di ceramica. Inoltre, uno dei pannelli era suddiviso orizzontalmente mediante una fascia a rappresentare probabilmente il ripiano di una credenza, che conteneva un imbuto, un vaso, un cesto ed altri strumenti utili per la lavorazione del vino o dell 'olio [12]. Quest'ultimo pannello era mutilo nella parte centrale a causa di una breccia nella muratura cui aderiva.
Note critiche I pannelli conservati e la documentazione relativa agli affreschi perduti immortalano brevi istantanee di vita di una residenza agricola tardoantica. Assistiamo alla mescita del vino, a seguito della vendemmia e della vinificazione dall'uva della tenuta di proprietà, il do minus assaggia il vino che il fattore, o un servo dell'azienda, gli porge; il processo produttivo è giunto al termine e si può godere dei frutti della terra. Il primo pannello, dove i due uomini, uno di fronte all'altro, uniti dal passaggio della coppa di vino, sono tuttavia distanti, sistemati su piani spaziali diversi, presenta il tentativo di creare una prospettiva che risulta falsa e non riuscita. Inoltre, il volto del padrone, seppur rivolto verso il domestico, ha gli occhi assorti in una serietà che non trova rispondenza nella semplice azione quotidiana . Lo sfondo astratto non contribuisce a dare verosimiglianza ali' azione. Le figure sono prive di rilievo plastico, assolutamente bidimensionali, con gli arti distinti dal fondo solo grazie al colore e alle marcate linee di contorno. La scena, pur rappresentando un'azione, è statica, il movimento del personaggio di destra è fuori sincrono, la posizione delle gambe non trova rispondenza nell'atteggiamento del busto.
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La composizione è animata esclusivamente dal viso del dominus, un vero e proprio ritratto nella migliore tradizione della pittura romana, una rappresentazione molto realistica con gli occhi profondi e vicini, il grande naso importante, le piccole orecchie, le labbra serrate e il mento prominente caratterizzato da una fossetta. L'altro frammento con figura femminile in posizione rigidamente frontale, che sembra potersi interpretare unicamente come personificazione dell 'autunno, stagione in cui si effettua la vendemmia, ha parimenti una resa bidimensionale, in cui predomina una forte sensazione di astrazione e semplificazione certo maggiorata dalla perdita della superficie pittorica. L'acconciatura che notiamo sul capo, una specie di coroncina di elementi vegetali, è simile a quella dell'estate nel mosaico con busti di stagioni dell'aula teodoriana meridionale di Aquileia (Cuscito 1978, fig. 12). Inseriamo i pannelli nel loro contesto originario: una corte trapezoidale che aveva le pareti completamente dipinte con un pilastro al centro, anche questo decorato con pitture, che fungeva da sostegno di una copertura temporanea, forse in legno. L'ambiente doveva presentarsi come una sorta di cortile scoperto o parzialmente coperto, non di transito, ma di raccolta e di sosta, adatto in particolar modo ai mesi estivi e primaverili e collocato nella pars rustica di una villa agricola suburbana, in piena attività nel IV secolo, che produceva vino per il mercato di Roma (Tchernia 1986). La villa doveva appartenere ad un ricco esponente della classe al potere, se poteva permettersi di affrescare addirittura gli ambienti destinati alla servitù. Del resto sappiamo che sin dal XVIII secolo l'area fu sottoposta ad intensi , anche se non sistematici, scavi, che portarono al rinvenimento di importanti reperti. Nel 1740 la famiglia Ciampini mise in luce numerose statue (Lanciani 1884), nel 1769 il proprietario Stefano Giraud vi trovò un gruppo marmoreo di Bacco e Fauno, ora nei Musei Vaticani, busti di marmo e numerosi frammenti scultorei (Paribeni 1926). Il cortile, a giudicare dalle descrizioni conservate nel giornale di scavo - la documentazione fotografica, purtroppo, è tutta in bianco e nero - doveva essere un tripudio di colori, la fascia superiore della parete era occupata da tralci vitinei verdi cçm grappoli d'uva matura gialli e rossi, il tutto su uno sfondo ocra carico. Nel registro inferiore, invece, protagonisti della scena erano i grandi contenitori usati per la conservazione del vino, i dolii ceramici, rappresentati a grandezza naturale su di uno sfondo colorato, a volte celeste. Insieme ai contenitori, che occupano gran parte dello spazio, troviamo i lavoratori della tenuta agricola affaccendati in varie mansioni produttive, che documentano il sistema e le fasi di lavorazione in un vigneto di grandi proporzioni. Forse si può anche pensare ad una re-interpretazione delle classiche figure dei calendari dei mesi, alternate alle personificazioni delle stagioni e ad una prefigurazione delle rappresentazioni dei mestieri medievali. Il ciclo pittorico di Casal Morena, con i suoi personaggi grandi quasi al vero, è un documento importante dell'impostazione realistica dell'arte, di quella tradizione decorativa che dal III secolo utilizza temi iconografici legati alla vita rurale e quotidiana. Ritroviamo nei nostri affreschi una lontana eco dei mosaici africani dei «lavori campestri», datati tra la seconda metà del III e i primi del IV secolo, che furono trovati a Caesarea Augusta (Cherchell), documento di altissima qualità formale, del quale soprattutto il tema narrativo legato all'aratura, alla semina e alla vendemmia è destinato ad «esercitare la propria influenza iconografica fino al V e al VI secolo» (Bianchi Bandinelli 1988, 259, figg. 237-238). In particolare, il raccoglitore che scende da una scala appoggiata ad una pergola d'uva sembra preso ad esempio per l'analoga scena, oggi perduta, documentata nella corte di Casal Morena. Certamente le pitture della villa rustica della via Latina si allontanano
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stilisticamente dai modelli di ispirazione classica e si inscrivono appieno nel gruppo definito dalla De Vos «ciclo dei latifondi» (Ling 1991, 197; De Vos 1993; Pittura romana 2002; - 32). Queste pitture, datate agli inizi del IV secolo e riferibili all'ultima fase di yita del complesso edilizio di Casal Morena (De Rossi 1979; Tchernia 1986; Santolini Giordani 1998), sono da considerarsi un documento storico anche per la ricostruzione della cultura materiale dell'epoca, mentre dal punto di vista stilistico presentano un linguaggio molto semplificato e di qualità popolare, che trova puntuali confronti in ambito romano , nelle pitture coeve delle case ostiensi (Becatti 1946, 38) e anche nella decorazione dell'ipogeo funerario di Trebio Giusto localizzato sulla via Latina (- 35) .
Interventi conservativi e restauri 1998 ca. : i pannelli conservati nel Museo Nazionale Romano, sede di Palazzo Massimo, nella sala delle megalografie tardoantiche, sono stati sottoposti a restauro conservativo in occasione dell'apertura del museo nel 1998, con sostituzione dell'originario supporto in gesso con un altro più leggero. Il pannello con servo e padrone presenta numerose ed estese integrazioni delle lacune pittoriche effettuate ad acquerello con la tecnica del 'rigatino'. La figura di sinistra è integrata in tutta la metà inferiore, l'area della veste e le gambe sono quasi completamente ricostruite. La figura di destra presenta analoghe integrazioni nella parte bassa e la ricostruzione pressoché totale dell'anfora. Anche le giunture e le stuccature dei frammenti del
pannello hanno dei completamenti ad acquerello del fondo neutro. L'altro frammento con figura femminile ha gran parte della superficie pittorica integrata e ricolorata tramite puntinato ad acquerello. Le informazioni sul restauro si devono alla cortese disponibilità di Silvia Borghini, restauratrice della SAR, che qui s1 nngrazia.
Documentazione visiva 1929: la documentazione del ciclo perduto è affidata ad una serie di scatti in bianco e nero realizzati nel 1929, al momento dello sterro della villa, e conservati assieme al giornale di scavo nell'Archivio della Soprintendenza Archeologica di Roma. Parte della documentazione fotografica, relativa ai ritrovamenti effettuati nel 1929 ed in particolare ai pannelli dipinti con le scene di vita rustica, fu pubblicata da De Rossi nel 1979 ed è la stessa che qui si riproduce.
Fonti e descrizioni Giornale di scavo dei ritrovamenti del 1929, Archivio SAR, pubblicato in De Rossi 1979.
Bibliografia Cuscito 1978; De Rossi 1979; Tchernia 1986; Bianchi Bandinelli 1988, 252-259; Santolini Giordani 1998, 291, fig. 65; Sapelli 1998, 52 ; Pittura romana 2002, 359, fig. 361. Francesca Consoli
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30. LE MEGALOGRAFIE DELLA COSIDDETTA DOMUS FAUSTAE NELL'AREA DEL LATERANO Primo quarto del IV secolo
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La decorazione pittorica appartiene ad un vasto corridoio porticato, che sul lato meridionale presenta una struttura articolata da finestre ed esedra e sul lato antistante una muratura continua. Il corridoio era pertinente ad una lussuosa dimora del IV secolo d.C., impostata su strutture residenziali di epoca precedente, rinvenuta negli anni Sessanta del Novecento in occasione della costruzione della sede dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS ) in via dell'Amba Aradam a Roma. Della domus tardoantica non sono state individuate altre emergenze e sulla base di elementi, peraltro molto controversi, Valnea Santa Maria Scrinari ha voluto identificare le strutture con la residenza privata romana della moglie dell'imperatore Costantino, Fausta. Al momento della scoperta, venne in luce una lunga parete (27 metri ca.) con orientamento est-ovest, rivestita da un lussuoso apparato decorativo: un'alta zoccolatura, costituita da specchiature rettangolari di marmo bianco riquadrate da listelli di porfido rosso, che rivestiva la parete per circa due metri a partire dalla quota pavimentale, e un affresco continuo per un 'altezza complessiva di due metri. L'intera parete di fondo del corridoio porticato doveva in origine avere un'altezza approssimativa di 7 metri, mentre la larghezza dell'ambiente è di 5 metri nel corridoio, fino a raddoppiare nell'area dell 'esedra. L'affresco presentava a partire dal basso una fascia continua di colore rosso (altezza 25 centimetri) con funzione di trait d'union tra il rivestimento marmoreo e la parte figurata superiore; un terreno di fondo grigio scuro neutro (altezza 25 centimetri) sul quale tutte le figure poggiano i piedi; una serie di figure stanti di grandezza quasi al vero, di cui almeno cinque sicuramente riconoscibili ancora oggi. Il corteo di personaggi veniva aperto ad ovest da una coppia di cavalli marini, continuava con almeno cinque personaggi, maestosi corpi rivolti verso il visitatore, dei quali due donne e tre figure maschili, e proseguiva verso est oltre il limite dello scavo, sotto l'attuale via dei Laterani, in un'area mai indagata fino ad oggi (alcuni frammenti di intonaco dipinto ancora aderiscono alla muratura nell 'ultimo tratto visibile prima delle fondazioni dell'edificio moderno). Il fondo dell'affresco è di un omogeneo colore avorio, senza traccia di architetture o altre ambientazioni di contesto; gli unici elementi utilizzati con la funzione di scandire lo spazio tra un personaggio e l'altro sono delle lance militari o alabarde infisse nel terreno, ancora visibili nei pannelli meglio conservati. La parete antistante quella affrescata è aperta da una serie di ampie finestre rettangolari, otto quelle rinvenute (larghezza 1,80 metri ca.), e si articola verso il limite est dello scavo con un'esedra, di cui è stata messa in luce circa la metà dell'originaria struttura semicircolare. Al centro dell'esedra fu individuato un basamento ellittico, sul quale originariamente poteva stare un gruppo statuario. Tale basamento è stato identificato dalla Scrinari, con ragioni discutibili, con quello su cui in origine stava la lupa capitolina, che si sa proveniente dall'area lateranense (Scrinari 1991, 98-99, fig. 69; Liverani 1995 , 98). La base del muro meridionale, per un'altezza di circa 1,25 metri che corrisponde al piano dei parapetti delle finestre, era rivestita da lastre di marmo bianco, rettangolari, bordate da una riga rossa
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dipinta, ad imitazione della riquadratura in listelli di porfido della parete antistante. Anche il basamento al centro dell'esedra presenta analoghi rivestimenti marmorei. L'ambiente, con le grandi finestre sul lato meridionale dell'edificio, doveva essere molto accogliente e tranquillo, pervaso di luce e calore, aperto verso l'area verde del giardino adiacente. L'impostazione architettonica è molto simile a quella delle ville tardo-antiche suburbane, quali, ad esempio, le tarde case ostiensi descritte dal Becatti (Becatti 1953 ); purtroppo, però, l'estensione complessiva dell'edificio di via dell'Amba Aradam rimane ignota. Attualmente, lo stato di conservazione delle pitture è molto compromesso; tutte le figure vennero rinvenute prive dei volti, a causa del crollo della parte alta del muro cui originariamente aderivano; è andata, inoltre, persa la pellicola superficiale dell'affresco a causa dell'azione del fuoco , i cui effetti interessano la parte bassa delle figure e in alcuni casi anche l'area del collo e delle spalle. Subito dopo la scoperta venne effettuata la ripulitura dallo strato di macerie, carboni e cenere che era quasi fuso con la pellicola pittorica e aveva causato la perdita irreparabile della leggibilità e dei colori dell'originaria composizione, che appaiono per molti tratti combusti. L'incendio, evento che causò l'abbandono definitivo dell 'ambiente, sembra da assegnarsi almeno ipoteticamente ad epoca alto-medievale, al VI-VII secolo, sulla base dei materiali ceramici trovati negli strati a contatto del livello pavimentale, stando alle descrizioni e ai disegni della Scrinari (Scrinari 1991 , 100-112). Dopo il rinvenimento, a causa della costruzione del nuovo edificio che si stava realizzando e delle pessime condizioni di conservazione, fu deciso dalla Soprintendenza alle Antichità di Roma il distacco dalla muratura della decorazione dipinta, che fu suddivisa in sei pannelli. Attualmente quattro dei pannelli più leggibili sono esposti nel Museo Nazionale Romano, sede di Palazzo Massimo alle Terme, e i restanti due sono ancora visibili, anche se molto frammentari, nei sotterranei della sede dell'INPS di via dell'Amba Aradam, dove si è provveduto ali'allestimento e alla musealizzazione delle strutture archeologiche. Passiamo alla descrizione dei singoli pannelli partendo da ovest, dove aveva inizio la decorazione. Pannello I (Museo Nazionale Romano) [1]: Coppia di ippocampi e delfini guizzanti in mare tratti a riva da un auriga, che con la mano destra regge le redini degli animali e nella sinistra ha un bastone o asta (Scrinari 1991, fig. 106; Sapelli 1998b, n. 27 , fig. a pagina 55 ) . Pannello II (sotterranei dell'INPS ) [2]: Attualmente, chi guarda il pannello, scorge sulla destra parte del braccio di una frammentaria figura maschile recante nella mano destra un 'asta inclinata (altezza conservata 1,12 metri) . Al momento della scoperta, la Scrinari volle individuare sulla sinistra della composizione due figure , pur se molto frammentarie, la sagoma di un bambino e quella di un uomo in atto di sorreggerlo appoggiandosi ad un'asta, ora non più leggibili (Scrinari 1991 , figg . 107-109). La Scrinari propose di cogliere nella scena la narrazione di un approdo, riconoscendo in essa le parti estreme di un battello. I due personaggi, oggi svaniti, furono interpretati come Crispo (Scrinari 1991 ), oppure Candidiano, figlio illegittimo dell'imperatore Galerio ed erede designato (Guarducci 1986).
Pannello III (sotterranei dell'INPS) [3]: Elemento divisorio verticale (di cui rimane il solo tratto inferiore, una sorta di asta piantata nel suolo) e, di seguito, figura femminile , conservata solo dalla vita in giù, vestita di un lungo chitone che arriva fino a terra (altezza conservata 1,09 metri). La figura sembra lievemente inclinata verso la sua sinistra, dove si riconosce un oggetto, forse una pentola in metallo. Secondo la Scrinari il paiolo in colore nerastro che si riconosce nell 'angolo destro del pannello sarebbe l'impronta di una suppellettile metallica incandescente che si trovava a contatto con la pittura al momento dell'incendio che segnò la fine del complesso (Scrinari 1991 , 101 , fig. 111 ). Il pannello è oggi molto meno leggibile di come appariva nelle foto eseguite in occasione della scoperta (Scrinari 1967 ; Ead. 1991 , fig . 111 ). Nel personaggio si volle riconoscere Fausta, moglie di Costantino I (Scrinari 1991 ), oppure Galeria Valeria, moglie di Galerio e figlia di Diocleziano (Guarducci 1986). P_annello IV (Museo Nazionale Romano) [4]: Figura maschile abbigliata di corta tunica sopra il ginocchio e corazza (altezza conservata 1,41 metri). A tracolla porta il balteo che tiene l'elsa della spada, il braccio sinistro è piegato e raccoglie la clamide purpurea, la mano sinistra tocca l'impugnatura della spada mentre il braccio destro , perduto, doveva tenere un 'asta. I piedi indossano bassi calzari in cuoio (Scrinari 1991 , fig . 112 ; Sapelli 1998b, 54 ). Il personaggio è stato interpretato come Costantino con ai piedi il drago (Scrinari 1991 ), oppure Galerio il Cesare d'Oriente (Guarducci 1986). Pannello V (Museo Nazionale Romano) [5]:
Il pannello si apre a sinistra con un 'alta lancia munita di elsa semicircolare con fun zione di paramano. La lancia è seguita da una figura femminile ammantata (altezza conservata 1,32 metri), volta verso la sua destra dove protende il braccio che reca una p atera, mentre la mano sinistra, perduta, doveva sostenere una sottile asta visibile guardando il pannello a destra. Il manto purpureo scende ai lati del corpo con un pesante e morbido panneggio che copre le spalle, le braccia e arriva sino ai piedi (Scrinari 1991 , fig. 113; Sapelli 1998b, 55 ). Nella figura si è voluto riconoscere Augusta, madre di Teodora (Scrinari 1991 ), oppure Prisca, moglie di Diocleziano (Guarducci 1986).
Pannello VI (Museo Nazionale Romano) [6] , in origine in asse con l'esedra: Figura virile abbigliata con tunica e toga, che con la mano destra espone una statuetta di genio o lare, oppure vittoria, mentre con la sinistra tiene un 'asta (altezza conservata 1,54 metri). È questa l'unica figura di cui si sia conservato il collo e la parte inferiore del volto sbarbato (Scrinari 1991, fig. 114; Sa pelli 1998b, 55 ). Il personaggio è stato identificato con Costanzo Cloro (Scrinari 1991), oppure con l'imperatore Diocleziano, togato e con la statuetta della Felicita s nella mano destra (Guarducci 1986).
Iscrizioni Della domus tardoantica non sono state individuate altre emergenze. La scopritrice del complesso Valnea Santa Maria Scrinari, anche in base alla lettura, peraltro molto controversa, delle iscrizioni che accompagnavano i dipinti, ha voluto vedere la prova definitiva per identificare l'abitazione con la residenza privata romana della moglie dell 'imperatore Costantino, Fausta, di cui esistono testimonianze nelle fonti. Nella fascia rossa che costituisce la base della zona figurata e il raccordo con la zoccolatura marmorea, vi sarebbero tracce di un'epigrafe sovradipinta in lettere bianche, estesa su almeno tre righe, tirata a squadra sull'intonaco. La Scrinari ne ha proposto una lettura, sull'onda di integrazioni molto spinte che identificano una serie di nomi della famiglia imperiale di Costantino I; tale trascrizione è stata usata come conferma del riconoscimento dei singoli personaggi affrescati (Scrinari 1991 , 162-173 ). La Guarducci, dopo un sopralluogo compiuto in un'epoca molto vicina alla scoperta e un 'analisi accurata dell'iscrizione e del supporto, si espresse negando risolutamente la lettura datane (Guarducci 1972; Ead. 1986). Allo stato attuale, comunque, tracce esigue di poche lettere non consentono di dare un giudizio in proposito (Sapelli 1998b, 54), e gli studiosi che si sono occupati successivamente dell'opera concordano nella sostanza con quanto espresso dalla Guarducci e non con la lettura della Scrinari (Volkl 1971 ; Mielsch 1978; Liverani 1988, 910) . Infine, si sottolinea che la lunga trascrizione dell'iscrizione proposta
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dalla Scrinari appare quanto mai improbabile sia per la sintassi grammaticale, sia soprattutto per l'aspetto paleografico: il disordine della composizione e il ductus delle singole lettere, spesso di altezze diverse e non perfettamente allineate, sembrano poco confacenti con la committenza alta di cui parlano i dipinti e la struttura tutta. Inoltre, l'indagine condotta in preparazione di queste schede sugli affreschi e ricorrendo anche all'uso della luce di Wood, pur tenuto conto dello stato di conservazione degli affreschi stessi, non ha rivelato la presenza significativa di lettere o di tracce di lettere, se non alcune 'ombre' raramente collegabili alle trascrizioni a suo tempo proposte dalla Scrinari (Scrinari 1991, 162-173). Né è possibile fare riferimento alla documentazione fotografica offerta dalla Scrinari, per sua ammissione ritocatta ai fini di una maggiore leggibilità delle iscrizioni medesime [3].
Note critiche La questione topografica e l'identificazione della struttura hanno molto influito sulla storia degli studi e hanno condizionato fortemente l'interpretazione dei pannelli con il ciclo delle megalografie tardoantiche. La tradizione antiquaria ha sempre assegnato all'area posta ad ovest della basilica lateranense verso valle, oltre l'abside, il battistero e l'edificio termale di III secolo, il palazzo imperiale designato Atrium Faustae Augustae o domus Faustae Costantini, come documentano i rilievi e le numerose ricostruzioni grafiche del Cinquecento che ci forniscono delle planimetrie; queste planimetrie, per quanto pervase dall'immaginario geometrico costruttivo della loro epoca, restituiscono una fotografia attendibile delle affollate rovine presenti nell'area celimontana prima delle sistemazioni monumentali iniziate con l'opera di Sisto V, nel 1586 (Bufalini 1551; Pirro Ligorio 1561; Du Pérac 1574; Mario Canaro 1579). La domus Faustae, affiancata dalla residenza dei Laterani, viene
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sostanzialmente rappresentata nei disegni cinque-seicenteschi, con alcune varianti e in un 'ottica ricostruttiva, come un grande quadriportico organizzato su più livelli loggiati. Esattamente analoga è la ricostruzione proposta dalla scopritrice del corridoio con esedra, che interpreta le strutture rinvenute come il braccio occidentale di un portico quadrangolare, che doveva essere completato con costruzioni simili sugli altri lati dove l'indagine archeologica non si è spinta (Scrinari 1965 , 42 , fig. 67) . La questione topografica, basata in sostanza sull'interpretazione ipotetica di strutture archeologiche, è strettamente interrelata e dipendente dalle notizie fornite dalle fonti storiche che, se ben lette, possono fornire un nome agli edifici. In questo senso, la vicenda interpretativa della do mus Faustae come struttura archeologica dipende direttamente dal racconto del vescovo Optato di Milevi, che, a proposito del sinodo dell'anno 313 indetto da papa Milziade, scrisse «convenerunt in domum Faustae in Laterano» (Nash 1976; Pelliccioni 1976; Liverani 1995). I.:interpretazione tradizionale di questo passo ha voluto identificare la Fausta nominata con Flavia Maxima Fausta, sorella dell'imperatore Massimiano, divenuta imperatrice a seguito del matrimonio con Costantino, perché si è collegata questa notizia alla leggenda della donazione di un palazzo lateranense, da parte del primo imperatore cristiano, al papa. Il palazzo sarebbe stato il primo nucleo del medievale Patriarchio lateranense, sede della corte pontificia. Oggi sappiamo che la famosa donazione di Costantino è un falso creato con il documento Constitum Constantini, dell'VIII secolo, posto a fondamento e giustificazione dell'attribuzione di potestà temporale al papa. Del resto, nel Liber Ponti/icalis non si fa alcuna menzione di una donazione di tale importanza. A ciò va aggiunto che le notizie storiche informano che Fausta fu portata lontano da Roma all'età di cinque anni per non farvi più ritorno. È sembrato dunque improbabile a molti studiosi che esistesse a Roma una casa a suo nome (Volkl 1971; Nash 1976; Liverani 1988; Id. 1995; Id. 1999a; contra Guarducci 1986).
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Bisogna, infine, considerare che le strutture archeologiche rinvenute si trovano quasi trecento metri ad ovest della b asilica, dietro l'abside, su un terrazzamento ad un livello molto più basso di quello dell'edificio di culto, in un'area molto lontana da quella in cui effettivamente sappiamo essersi sviluppata la sede medievale della corte pontificia (Liverani 1988; Id. 1990; Id. 1995 ; Id. 2004). Sulla base di tutti questi elementi, gli studiosi concordano che, individuare nelle strutture trovate sotto via dell'Amba Aradam la dimora imperiale, sia un 'ipotesi destinata a rimanere priva di riscontri, e che sia quindi più prudente ritenere queste strutture pertinenti ad una delle ricche residen ze tardo-antiche, di cui conosciamo l'esistenza sul Celio e nell'area lateranense (Liverani 1988, 906; Id. 1995 ; Sapelli 1998b). Utilizzando e rileggendo il passo di Optato di Milevi è stato anche ipotizzato che la domus Faustae fosse di proprietà degli Anicii Fausti, intitolata ad una Anicia Fausta, esponente femminile della gens A nicia, potente famiglia cristiana di origine africana direttamente coinvolta nelle vicende connesse allo scisma donatista, all'origine del concilio del 313 (De Spirito 1996; Liverani 1995 ; Id. 1999a, 525 ). Il riconoscimento dei personaggi presenti ha rappresentato una vexata quaestio finora non risolta e dipendente dall'interpretazione delle strutture archeologiche. Nella sua prima pubblicazione, la Scrinari propose di riconoscere in via ipotetica le pitture appena scoperte come ritratti di personaggi notevoli della famiglia di Costantino imperatore, non tralasciando di considerare altre eventualità tra le quali quella d 'identificare nella sfilata di personaggi una serie di personificazioni simboliche, ad esempio la Providentia, la Virtus, la Pietas, la Caritas, oppure figure del pantheon delle divinità pagane. Nel 1991 la prima ipotesi diventa, con la pubblicazione dell'opera Il Laterano imperiale, una certezza storica probabilmente basata sulla dubbia lettura delle iscriziopi che accompagnano gli affreschi (vedi supra) e sulla tradizione antiquaria-topografica dell'area (Scrinari 1991 ).
L'identificazione delle figure come membri della famiglia imperiale venne ulteriormente definita dalla Guarducci, che volle riconoscere in quelle conservate i più insigni personaggi imperiali d'Oriente, a partire da Diocleziano, mentre nel lato ovest, mancante del portico, sarebbero stati fissati i ritratti dei Cesari d 'Occidente (Guarducci 1988, 3 ); allo stesso modo la scena con animali marini presenti sul limite.est del ciclo e la scena analoga che, per simmetria, doveva chiuderlo sul lato opposto, sarebbero un 'allusione all' uterque Oceanus che circondava le terre su cui regnavano i tetrarchi d 'Oriente e d'Occidente (Guarducci 1988, 4). Studiosi più cauti, basandosi maggiormente su considerazioni di carattere stilistico, hanno voluto riconoscere nella decorazione pittorica un 'assemblea di divinità (Mielsch 1978; Liverani 1988; Ling 1991 , 195 ; Sapelli 1998b, 54; Liverani 1999a). Dal punto di vista stilistico la decorazione pittorica qui in esame si inscrive sicuramente nel panorama del rinnovato classicismo dell'arte costantiniana. L'arte del IV secolo è caratterizzata da due aspetti complementari: l' arte aulica, di corte, che utilizza un linguaggio classico, molto ancorato alla tradizione, e una nuova concezione figurativa , molto semplificata, che dà inizio ad una vera rivoluzione della composizione artistica (Bianchi Bandinelli 1988; Ling 1991 , 194-196). La comunicazione del messaggio è la finalità principale dell'arte costantiniana: l'esibizione del regno conquistato con la forza e per ispirazione della divinità e la 'santificazione' della propria discendenza vengono attuate attraverso il recupero dei modi artistici degli anni centrali dell'impero, periodo in cui l'auctoritas dell'unico imperatore e il futuro della sua dinastia non venivano messe in discussione. Il trionfalismo e l' autocelebrazione della dinastia al potere si espresse, ad esempio, nel grande quadro ad encausto che raffigurava Costantino con i suoi discendenti all 'ingresso della residenza imperiale di Costantinopoli, solenne composizione con figure di proporzioni esagerate, ora perduta ma documentata dall'ampia descrizione datane da Eusebio di Cesarea (Biscanti 2005a, 182);
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ma si espresse soprattutto nella statuaria, di cui si conservano i grandi colossi - una delle manifestazioni più eclatanti del processo di divinizzazione della persona dell'imperatore secondo modelli orientali (Bianchi Bandinelli 1988, 32, 80-85 ) - e gli splendidi ritratti marmorei dei Costantinidi, che testimoniano un forte richiamo alla forma , alla corporeità e ali' eleganza della stagione artistica del passato (Parisi Presicce 2005 ), secondo uno stile che è stato definito «neo-classico» (Bianchi Bandinelli 1988) o «nuovo classicismo» (Sena Chiesa 2005 , 132 ). La pittura è caratterizzata dal recupero delle proporzioni e del linguaggio classico, anche se l'astrattezza dello stile tetrarchico ha un 'eco nell 'impostazione della composizione. Le figure sono frontali, schierate in modo rigido secondo uno schema simmetrico, immobili su uno sfondo di impressionante e irrealistica solitudine, privo di qualsiasi ambientazione architettonica o paesaggistica, si stagliano in uno spazio 'fantasmatico', «evocativo di mondi quasi 'pierfrancescani'» (Andaloro 1987 , 241 ), che ricorda molto da vicino gli sfondi neutri della pittura catacombale. L'u nico collegamento con la realtà è costituito da una sottile fascia bruna che fa da terreno, sulla quale tutti i personaggi poggiano i piedi. I corpi mantengono una forte fisicità e sono definiti da un uso accurato del chiaroscuro, riconoscibile nonostante il pessimo stato di conservazione, ma il disegno delle parti nude delle figure , ad esempio le gambe dei personaggi maschili, risulta sostanzialmente privo di definizione anatomica . Gli animali marini del primo pannello sono l'elemento più dinamico della composizione, anche se ripropongono modelli decorativi ben noti nell'arte dei secoli precedenti e con probabilità sono ricalcati dai cartoni-modello presenti in tutte le botteghe artistiche. Il ductus pittorico è ancorato a stilemi classici, le pennellate sono larghe, corpose, dinamiche soprattutto nella definizione del pelo degli animali, ma si nota il limite netto del contorno marcato, forse reso ancor più evidente dalla perdita degli strati pittorici di finitura. La cura dei panneggi è di buon livello anche se risulta sostanzialmente stereotipata, di gusto manieristico. L'impressione generale è quella di trovarsi in una loggia abitata da una serie di personaggi che, con la loro imponenza, dovevano
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incutere profondo rispetto e ammirazione al visitatore dell'ambiente. Bisogna considerare che tutte le figure sono alte quasi al vero, iconograficamente ispirate probabilmente alla statuaria imperiale dell'epoca (Moormann 1988), ed inoltre la posizione alta sulla parete doveva porle in posizione preminente e realmente autorevole. La mancanza dei volti, quindi di eventuali ritratti che paragonati alla statuaria avrebbero permesso attribuzioni più puntuali, induce a lasciare aperte entrambe le possibilità interpretative tradizionali: un corteo di divinità classiche o un possibile larario di personaggi della famiglia imperiale che in epoca tardoantica assumono caratteristiche divinizzate. L'aspetto compositivo di scenografie con figure a grandezza naturale è pure caratteristico del periodo tardoantico (Biscanti 2005a, 182). I nostri pannelli possono definirsi megalografie , tornate in voga dall 'epoca severiana (si ricordino a titolo d 'esempio i servitori della Schola Praeconum di via dei Cerchi, vedi Romana pictura 1998, fig. 20). Nei casi conosciuti di III secolo le megalografie rappresentano semplici scene di vita quotidiana o più raramente figure mitologiche (De Vos 1993 , 87). Alla fine del III e con il IV secolo si affermano decorazioni murali ad ampia scala di grandezza con soggetti cerimoniali e documentari; tra queste è la camera del culto imperiale fatta impiantare da Diocleziano nella fortezza costruita, circa nel 300, nell'antico tempio egizio di Luxor, dove sulle pareti laterali si svolge una processione di soldati a grandezza naturale e nella parete di fondo campeggiano i Tetrarchi ad una dimensione doppia del normale, i due Augusti più alti dei due Cesari (Bianchi Bandinelli 1988, 291 , fig . 266; Ling 1991, 193 ). I nostri pannelli, nonostante il loro pessimo stato di conservazione e la scarsa leggibilità, rappresentano fino ad oggi un unicum nel panorama dell'arte tardo-antica di Roma, a causa della rarità di testimonianze pittoriche di IV secolo di soggetto profano; «la perdita pressoché totale della pittura» (Bianchi Bandinelli 1988, X) è dovuta sia alla scarsità numerica dei rinvenimenti, se si esclude la pittura dell 'arte cimiteriale, sia anche alla moda vigente che predilige altro tipo di decorazioni, come ad esempio l'opus sectile e 1 mosa1c1. Se confrontiamo l'impostazione spaziale dei pannelli dell'Amba
stata molto discussa e oscilla tra i primi anni e il secondo quarto del IV secolo. La Guarducci li ritiene pertinenti all'età massenziana, e li data al 303 , in occasione dei festeggiamenti che accompagnarono la venuta di Diocleziano a Roma (Guarducci 1986; Ead. 1988), mentre la Scrinari li assegna agli anni 321-325 (Scrinari 1991 ). La datazione più tarda, secondo quarto del IV secolo, è proposta da chi li interpreta come divinità e li vuole mettere in relazione col pannello della Dea Barberini (Mielsch 1978; Liverani 1995, 98) . A prescindere dalle questioni interpretative, si ritiene che i pannelli siano da attribuire ad età costantiniana sulla base di considerazioni di ordine stilistico. In questi affreschi si rilevano, infatti, aspetti peculiari dell'arte della corte costantiniana, quali il carattere aulico e il recupero di modalità classicistiche, che si accompagnano ali'estrema semplificazione della composizione spaziale, alla ricerca non più della mimesis, bensì della comunicazione di un messaggio politico ben preciso. Le megalografie della cosiddetta domus Faustae sono frutto di quell'arte che muove qui i suoi primi passi, diventando espressione di un mondo 'altro' che troverà la sua piena maturazione nella cultura artistica cristiana.
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Aradam con uno dei pochi documenti di pittura di età costantiniana - la decorazione dell 'aula imperiale di Treviri - notiamo chiaramente come a Treviri, oltre al recupero di forme e volumi classici, si arriva a riproporre una creazione illusionistica dello spazio che risale addirittura al II secolo (alla prima fase del II stile pompeiano, vedi Mielsch 1978; BianchiBandinelli 1988, 177; Ling 1991 , 195-196; Sapelli 1998b; Pittura romana 2002 , 368-369), mentre nei pannelli romani lo spazio è semplicemente assente, forse volutamente. Gli altri documenti pittorici datati al IV secolo, relativi a strutture abitative romane, appaiono molto lontani dai nostri pannelli: i ritratti di servitori che portano bevande e cibi da una domus signorile del Celio (- 32) e dalla villa rustica di Casal Morena (- 29) o gli acquerelli che documentano un corteo di personaggi femminili recanti offerte alla Dea Roma nell'edificio del Vicus Iugarius (- 38). L'unico confronto pertinente dal punto di vista stilistico ed iconografico è quello con il dipinto della cosiddetta Dea Barberini, ora conservato al Museo Nazionale Romano accanto ai pannelli in questione (- 31 ). La Dea Barberini, così chiamata sulla base di considerazioni stilistiche ed a causa della vicinanza del luogo di rinvenimento (da notare l'originaria mancanza del volto, evidentemente caduto insieme alla parete cui aderiva come nel caso di via dell'Amba Aradam), potrebbe essere pertinente allo stesso complesso monumentale da cui provengono i nostri pannelli: una vasta dimora tardoantica legata alla corte dell'imperatore o alla classe senatoriale dei grandi proprietari di latifondi, come ipotizza la gran parte degli studiosi che si sono occupati dell'argomento (Ling 1991; Sapelli 1998b; Liverani 1999a). La datazione degli affreschi, ora suddivisi nei pannelli descritti, è
1962-1965: le pitture appena scoperte vennero distaccate dalla parete alla quale aderivano e divise in sei pannelli, armati da rete metallica allettata in uno strato di gesso che ha costituito il fondo di ciò che restava dell'affresco originario (Scrinari 1991, 136, nota 2). Nel restauro degli anni Sessanta si è proceduto ad integrare estesamente le lacune, anche medio-grandi e grandi, utilizzando la tecnica del 'rigatino' ad acquerello. In particolare, la figura femminile con patera nella mano destra, conservata nel Museo Nazionale Romano, presenta un'integrazione molto estesa che interessa tutta la parte centrale del vestito; nel pannello con cavalli marini è molto visibile la stuccatura verticale, pure integrata 'a rigatino'. Ante 1998: in occasione dell 'apertura della sede del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo alle Terme, quattro dei sei pannelli, quelli più leggibili, furono prelevati dai sotterranei dell'INPS e portati al museo per esporli. Questi pannelli vennero sottoposti ad un nuovo intervento conservativo, che ha comportato la ripulitura della superficie pittorica e la sostituzione del vecchio supporto in gesso con altro più leggero, completo di una struttura di nido d'ape d'alluminio riempita di vetroresina e ricoperta di malta sabbiosa. I pannelli IV, V e VI vennero montati insieme su un unico supporto, ripristinando, almeno parzialmente, l'assetto originario del ciclo.
Bibliografia Cagiano de Azevedo 1954; Scrinari 1965; Vi::ilkl 1971 ; Guarducci 1972; Pelliccioni 1976; Sear 1977; Mielsch 1978; Guarducci 1986; Andaloro 1987 , 241 ; Bianchi Bandinelli 1988; Guarducci 1988; Moormann 1988; Ling 1991 , 194-197 ; Scrinari 1991 , 136-161 , figg. 106-115 ; Sapelli 1998b, 54-55; Pittura romana 2002 , 358383 ; Biscanti 2005a; Parisi Presicce 2005.
Francesca Consoli
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31. LA DEA BARBERINI Primo quarto del IV secolo
L'affresco rappresenta una figura femminile seduta su un trono in posizione frontale [l]. Indossa una sottoveste bianca molto sottile, un colobium, tunica di broccato a fasce violacee decorate da girali vegetali bianchi, e un mantello purpureo pendente dalla spalla sinistra. Il braccio sinistro, attorno al quale è arrotolato il mantello, regge una lancia inclinata e nella mano destra stesa la statuetta di una Vittoria alata, recante un globo e un vessillo. Il viso e il collo sono impreziositi da monili d'oro, orecchini a pendenti e una collana. Sulle spalle della donna in trono sono sedute due figurine alate: a destra una figura femminile, vestita di lunga tunica, forse una psiche; a sinistra l'altra, molto rovinata e acefala, è difficilmente identificabile. Altre figure allegoriche di piccole dimensioni sono sui braccioli del trono: a sinistra un personaggio maschile semi-sdraiato su un cigno, a destra una figura di donna di tre quarti in analoga posizione. Il trono è monumentale, con alto schienale; le paraste che sorreggono i braccioli sono decorate da elementi vegetali in foglia dorata e inserzioni di pietre preziose colorate. Sono frutto del restauro del XVII secolo: il volto (dall'altezza degli occhi), il capo (integrato con un elmo dorato e piumato), lo scudo presente alla sinistra del trono , i piedi della figura con plinto e sandali, ed infine il basamento su cui poggia il trono con l'iscrizione virtus-honor-imperium. Il dipinto fu ritrovato nell'aprile del 1655 durante uno scavo condotto nei pressi del Battistero lateranense, nello stesso periodo dei lavori di ristrutturazione che interessarono la basilica di San Giovanni ad opera di Borromini. Colini ipotizza che la scoperta awenne a seguito di «demolizioni delle fabbriche medievali connesse alla basilica ed esistenti presso il battistero» (Colini 1944, 353). Notizie vaghe e succinte della scoperta sono tramandate dall'anonimo compilatore del codice Barb. lat. 1926 e da Cassiano dal Pozzo, che racconta il rinvenimento di una stanza dipinta con l'effigie di Roma trionfante, tanto splendida da indurre il cardinale Francesco Barberini a far tagliare il muro su cui la pittura aderiva e far trasportare il frammento nella sua dimora alle Quattro Fontane, dove fu collocato nel giardino per parecchi anni (Cagiano de Azevedo 1954, 108). Purtroppo le fonti non precisano né il luogo esatto del rinvenimento né la tipologia della struttura cui la pittura apparteneva. Le conoscenze attuali relative alla topografia lateranense localizzano al disotto del Battistero una ricca abitazione fondata al principio del III secolo e ad ovest di esso, attraversata la via Tuscolana antica, un isolato occupato da strutture termali di epoca severiana (Colini 1944, 334-339, 359-361; Liverani 1999a). Entrambi i nuclei edilizi sarebbero pertinenti ad una vasta dimora privata di proprietà imperiale estesa sui due lati della consolare (Liverani 1988, 907). Il pannello (altezza 177 centimetri, larghezza 187 centimetri) è entrato a far parte delle collezioni del Museo Nazionale Romano nel 193 5 , a seguito della donazione effettuata dalla principessa Barberini allo Stato Italiano, ed è attualmente conservato nel Palazzo Massimo alle Terme (inv. 124.506).
Note critiche La figura è tradizionalmente identificata come Dea Roma, grazie soprattutto agli attributi militari (scudo ed elmo) che oggi però
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sappiamo essere frutto di un'integrazione seicentesca. Cagiano de Azevedo , che pubblicò nel 1954 un esauriente studio sul pannello, volle riconoscervi una rappresentazione di Venere sulla base della leggiadria delle vesti e dell'eleganza dei monili ed in particolare dell'identificazione delle figurine che accompagnano la dea: quella seduta sulla spalla destra sarebbe Psiche e l'altra Amore, mentre il personaggio maschile seduto sul bracciolo sinistro sarebbe H yakin thos che cavalca il cigno e l'analogo personaggio femminile, seduto a destra, Aura seminuda (Cagiano de Azevedo 1954, 120-121 ). L'identificazione del prototipo è incerta; si discute ancora se considerare la divinità Venere o Roma. Tuttavia, gli studiosi che più recentemente si sono occupati della Roma Barberini, propendono per l'interpretazione di Cagiano de Azevedo come Venere (Ling 1991 , 195; Sapelli 2005, 304 ). La notevole plasticità della composizione e la forte fisicità hanno convinto tutti i commentatori a considerare il pannello derivante da un modello statuario . Moorman ha avuto il merito di identificarlo con la dispersa statua di culto della Dea Roma esposta nel Tempio di Venere e Roma sulla Velia, tempio di fondazione adrianea fatto ricostruire da Massenzio dopo l' incendio del 307 e dedicato da Costantino nel 314 . Sulla base di questo collegamento, la copia dipinta andrebbe datata tra il 312 e il 314, vale a dire dopo l'arrivo di Costantino a Roma e prima del «trapasso della casa di Fausta all'episcopato romano» (Moorman 1988, 230). Si suppone che le statue di divinità nel Tempio della Velia fossero due, come due erano le celle del culto, ma entrambe sono andate perdute. In questo contesto, tuttavia, giova ricordare che, durante gli scavi di epoca fascista , nella cella dedicata a Roma furono rinvenuti frammenti di porfido (Munoz 1935) che ricondurrebbero ad una statua monumentale di circa 4 metri di altezza; la cella dedicata a Venere è conservata solo in fondazione , e non si hanno notizie, copie o frammenti della statua di culto relativa alla fase tarda del tempio (Vermuele 1987). Statue ritenute della Dea Roma sono quelle di Villa Medici e del Palazzo dei Conservatori. Quest'ultima ha un 'impostazione molto arcaica ed è dotata di attributi militari. Era infatti, originariamente, una Cerere del IV secolo a.C., divenuta nel Cinquecento e per volontà del cardinale Cesi- con l'aggiunta della testa e delle braccia - una Dea Roma tradizionale e iconograficamente impeccabile, tanto da essere scelta da papa Clemente XI per essere esposta nella rinnovata piazza capitolina (Armellini 1843 , 1, tav. I; De Felice 1982). La Dea Roma di Villa Medici (altezza 3,60 metri), trovata sul Monte Cavallo, venne donata alla fine del XVI secolo dal papa Gregorio XIII al cardinale de' Medici; è stata datata e riferita al tipo di statua di culto di epoca adrianea (Cagiano de Azevedo 1951 ; Vermuele 1959, 107), ma è possibile che sia anche più tarda, come i tratti del volto e i grandi occhi infossati lasciano supporre. È perduta invece la statua della Dea Roma custodita nella basilica di Massenzio, comunque conosciuta e ricostruita sulla base delle testimonianze numismatiche. Dal confronto emerge che il tipo, l'impostazione generale della statua massenziana, era molto simile a quella del pannello dipinto (Vermuele 1959, 4549, 107 , tav. IV.12-15). Altre immagini della Dea Roma con iconografia analoga si trovano
in forma di statuette, su contorniati (Mellor 1981), e nel calendario di Filocalo per l'anno 354, dove il disegno dell'immagine di Roma in trono , con elmo con pennacchio e globo, tradisce un gusto barocco, proprio dell 'epoca a cui appartengono i codici che tramandano il Calendario del 354 (Stern 1953 ; Salzman 1990). Le immagini della Dea Venere nel periodo tardo imperiale sono molto scarse. Si è persino dubitato, probabilmente a ragione, che Massenzio ricostruendo il tempio sulla Velia avesse commissionato una nuova statua di Venus felix (Vermuele 1987 , 66-67 ). E , comunque, la statua di Venere è ricostruibile idealmente, anche in questo caso, in base alla monetazione e, cosa interessante, presenta un'impostazione molto simile a quella di Roma: è vestita con lunga tunica, seduta su un trono monumentale e regge un cupido nella mano destra stesa, e uno scettro verticale nella sinistra (sesterzio di Giulia Mamea - 224 d.C. , vedi Vermuele 1987 , fig. 49). Roma e Venere sono due divinità femminili, speculari, che celebrano il culto imperiale dandosi le spalle nelle due celle gemelle, con absidi affrontate, del Templum Urbis . Le proposte di restituzione del tempio e degli arredi interni nei disegni ottocenteschi sono esemplari in tal senso (Frammenti di Roma antica 1988, fig . 38). Non dimentichiamo che la rappresentazione di una divinità o personificazione con figura femminile seduta in trono era molto diffusa in età imperiale (da Cibele-Magna Mater, a Vesta, Concordia, Salus, Pietas), e che l'iconografia di Roma, nella capitale dell'Impero, è stata sempre associata a quella di Venere in quanto progenitrice della stirpe di Enea, il quale, secondo la leggenda, fondò la città. Del resto fu appunto per glorificare il culto imperiale che Massenzio decise il restauro del tempio sulla Velia. Tornando alla Dea Barberini, dal punto di vista iconografico siamo di fronte ad una divinità trionfante e si è propensi a ritenerla, in accordo con l'interpretazione tradizionale, la personificazione di Roma cui gli imperatori e le province dovevano tributare rispetto e doni. È questo uno schema ben noto , che vede numerose testimonianze a Roma: nell 'aula dedicata al culto imperiale del Vicus Iugarius (--> 38), nell'emblema a mosaico dal soffitto di un ninfeo rinvenuto in località Lucchina (Santolini Giordani 1993), sulla cassetta di Pecs (Croazia), nei rilievi degli archi di Costantino e di Giano al Foro Boario, nella monetazione e nelle arti minori (Vermuele 1959, 107 ). La provenienza dell'affresco è destinata, si teme, a rimanere ignota. Cagiano de Azevedo era convinto che il dipinto fosse pertinente ad un ambiente della casa di Fausta al Laterano (--> 30), nota solo per via delle fonti , e questa ipotesi è stata condivisa anche da studiosi più recenti (Moormann 1988; Pittura romana 2002 , 366; Sapelli 2005 , 304 ). Come ha giustamente sottolineato Liverani, la distanza, in linea d'aria, tra le strutture riconosciute ipoteticamente come domus Faustae e il Battistero, è di 300 metri circa, dei quali attualmente non conosciamo la topografia antica (Liverani 1988, 912) ; pertanto , l'appartenenza alla medesima dimora della decorazione pittorica del corridoio finestrato di via dell 'Amba Aradam e dell'affresco con la Dea seduta è destinata a restare una suggestione, per quanto interessante. D 'altra parte l'analisi stilistica accosta i due documenti pittorici. Elementi comuni, quali la valenza plastica , la resa del colore, la compostezza e l'eleganza del modellato, ma anche la particolare coincidenza della mancanza del volto della dea e persino le macchie di nero fumo che interessano la zona destra inferiore del dipinto , sono tali da avvicinare la Dea Barberini e i pannelli trovati a via dell'Amba Aradam (--> 30), sotto la sede INPS, e ipoteticamente considerati pertinenti ad un corridoio della casa di Fausta, moglie di Costantino. . La Dea è rappresentata immota, frontale, ieratica, statuaria, in
assen za di spazio , su un fondale bianco privo di qualsiasi connotazione, che sembra effettivamente lo stesso delle megalografie della domus Faustae. Da un punto di vista formale è fuori di dubbio che questo documento pittorico appartenga ali ' arte aulica della corte imperiale di età costantiniana.
Interventi conservativi e restauri XVII secolo, post 165 5: in seguito alla rovina dell ' affresco , causata dalla conservazione all'aperto nel giardino di Palazzo Barberini, vennero ridisegnate ad olio molte parti mancanti o lacunose. L'integrazione riguardò in particolare tutte le zone di contorno, andate perdute probabilmente già durante il distacco dell'affresco . Risultano completamente rifatti la testa, con l'apposizione dell'elmo piumato, i piedi, il basamento del trono; sul lato sinistro la lancia fu trasformata in scettro e aggiunto lo scudo. La figura assunse così inequivocabilmente gli attribuiti tradizionali della Dea Roma secondo l'iconografia molto diffusa nel tardo impero . Inoltre, il «pittore barberiniano» aveva «rinfrescato» ad olio tutta la figura adoperando una gamma cromatica di colori simili ali'originale, con lo scopo di dare un aspetto smagliante alla pittura (Cagiano de Azevedo 1954) . 193 5: in occasione del trasferimento del pannello al Museo N azionale Romano, Tito Venturini Papari operò il distacco dell'affresco dall'originaria muratura cui ancora aderiva e lo sostituì con un supporto di gesso retinato sostenuto da telaio. Come rivelò l'intervento dell'ICR degli anni Cinquanta, Papari eseguì estesi ritocchi a tempera, in particolare sulle figurette allegoriche, che furono alterate (ibidem ). Ante 1954: a seguito dell'interessamento del dott. Paribeni, l'ICR effettuò un intervento volto ad eliminare le ridipinture e i ritocchi precedenti, realizzati ad olio e in una seconda fase a tempera, che avevano mutato l'aspetto originario della figura . La fotografia acquerellata Wilpert-Tabanelli (Wilpert 1916, IV, tav. 125 ) [2] e le foto dell'ICR, documentano lo stato in cui si presentava l'affresco prima di questo intervento. A seguito delle sofisticate indagini
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sulle stratificazioni del dipinto, si comprese quale fosse l'estensione della parte originaria, che venne 'liberata' dalle integrazioni e ridipinture successive, e quale fosse la parte creata completamente nel Seicento per aderire all'iconografia tradizionale della divinità imperiale. In conformità con le istanze di carattere estetico e storico, teorizzate in quegli anni da Cesare Brandi, i restauratori decisero di evidenziare la cesura tra l'affresco originario e l'integrazione seicentesca, che si decise di mantenere. In tal modo, si evitò di mutilare la figura e, contemporaneamente, furono conservate le integrazioni ormai storicizzate con cui il dipinto era conosciuto e apprezzato (Cagiano de Azevedo 1954). Ante 1998: in occasione dell'apertura della sede del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo alle Terme, il pannello fu ripulito e il supporto in gesso venne sostituito con altro più leggero, con struttura in nido d'ape d'alluminio riempita di vetroresina areolam.
Documentazione visiva La Chausse 17 41 , frontespizio , 105 ; La Chausse 17 46, II, VI, tav. XVIII, 93; Wilpert 1916, IV, tav. 125.
Fonti e descrizioni La Chausse 17 41 , frontespizio, 105; La Chausse 17 46, II, VI, tav. XVIII, 93.
Bibliografia Armellini 1843 ; Wilpert 1916, IV, tav. 125; Car-i:mo de Azevedo 1951, 89-90, n. 141, tav. XL. 75; Cagiano de Azevedo 1954; Stern 1953, tavv. II. 1, XXVII. 1-3; Vermuele 1959; Mielsch 1978, 175177, tavv. 92 , 2-93 , l ; Pace 1979, 148, nota 87; Mellor 1981; De Felice 1982; Vermuele 1987; Moormann 1988, 230 , n . 312 ; Salzman 1990, fig . 2; Ling 1991, 195 , fig. 213; De Vas 1993 , 6991; Santolini Giordani 1993; Di Filippo Balestrazzi 1997; Romana
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pictura 1998, 73-97 ; Sapelli 1998a, 52-53; Sapelli 1998c, 291-292 , fig . 66; Sa pelli 2000a, n. 3, 428-429; Pittura romana 2002 , 358383; Sapelli 2005 , 304-305.
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32 . I SERVI DAPIFERI DA UNA DOMUS DEL CELIO Prima metà del IV secolo
Nel 1780, sulle pareti di una vasta loggia venuta in luce nella vigna accanto al Venerando Ospedale di San Giovanni in Laterano, nell'area dove sorgerà l'ospedale moderno , fu scoperta una decorazione ad affresco che ritraeva una processione di figure maschili recanti cibi e bevande. Il ritrovamento fu documentato d alla pubblicazione di Cassini e dalle incisioni dell 'architetto Camporesi, che riprodusse sette figure all'interno di riquadri: sei servitori con vassoi imbanditi e un coppiere (Cassini 17 83 , figg. I-VII). Vennero staccati dalla muratura cui aderivano solo tre pannelli, due per intero ed uno parzialmente. Papa Pio VI (17751799) li donò al cardinale Pallotta, pro-tesoriere della Santa Sede; subito dopo il 1861 essi, in seguito alla permuta di oggetti di arredo per le nuove sedi ministeriali, entrarono a far parte delle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove tuttora sono esposti in uno stato di conservazione alquanto compromesso ; hanno uri.a superficie lacunosa ed evanescente, probabilmente a causa dell'esposizione alle intemperie. L'incisione di Camporesi [1] mostra l'ambiente in corso di scavo, con gli affreschi appena scoperti e il Patriarchio Lateranense con la Loggia delle Benedizioni sullo sfondo (ibidem, XIX). L'ambiente è pressoché quadrato , orientato in senso est-ovest secondo la visuale scelta dal disegnatore; sono visibili due pareti per soF due terzi delle loro superfici e quattro pannelli figurati. Tuttavia, dato lo scorcio , si può ipotizzare che su ciascuna parete i riquadri
affrescati fossero tre. Essi sono delimitati da una spessa cornice, separati da candelabri vegetali della stessa altezza dei riquadri e collegati in alto e in basso da ghirlande orizzontali. _Lo sfondo in cui si 'muovono' le figure è spazialmente neutro , ~ on caratterizzato da elementi architettonici o decorativi. In basso, i piedi dei servitori poggiano su una fascia erbosa. L'originaria successione dei pannelli sulle pareti è testimoniata dalle riproduzioni settecentesche, in cui viene indicato come primo della sequenza il riquadro sul lato est dell 'ambiente. I sette pannelli, tre esistenti e quattro perduti, vengono qui presentati secondo la successione data dal Cassini. Primo pannello, perduto (Cassini 1783 , fig . I) [2] Figura stante che incede verso sinistra. Tra le braccia sostiene un vassoio con uova o, secondo Cassini: «un gran pasticcio di carne [ .. . ]la sua figura ed il colore sono così decisi, che è tal quale sono i nostri oggidì e non resta quindi spazio a verun equivoco» (ibidem, fig. VIII). Il volto è sbarbato, con una lunga chioma sulle spalle. Secondo pannello, perduto (ibidem , fig. II) [3] Figura stante che incede verso sinistra. Tra le braccia reca un cinghialetto o maialino e due coppette per il condimento poste ai lati del vassoip-.. J] volto , rivolto verso sinistra, è sbarbato con ' I un' acconciatura corta. Ter,io pannello, Giovane con spighe di grano (inv. 84286, altezza 48 centimetri, larghezza 65 centimetri; Cassini 1783 , fig. III) [5] Rimane solo il volto giovanile dalla lunga capigliatura fulva , girato leggermente verso sinistra; inoltre, il vassoio ricolmo di spighe di grano, pagnottine, focacce e panini, e un cratere al centro. L'incisione di Camporesi documenta l'intera figura, vestita di lunga tunica e manto , che incede verso sinistra con il piede sinistro poggiato a terra e il destro sollevato [6]. Quarto pannello, perduto (ibidem, fig. IV) [4] Figura stante che incede verso destra. Tra le braccia reca un vassoio con volatile da cortile e quattro altri oggetti, becchi d 'oca o funghi. Il volto, rivolto verso sinistra, è sbarbato e con capelli corti. Quinto pannello, perduto (ibidem, fig. V) [7] Figura stante quasi piegata verso destra, porta un vassoio con sette ravanelli disposti a raggiera intorno ad una coppetta centrale. Il volto giovanile, con corta chioma, è inclinato verso destra. Sesto pannello, Uomo con vassoio di frutta (inv. 84285, altezza 113 centimetri, larghezza 74 centimetri; ibidem, fig. VI) [10] Figura maschile stante, girata di tre quarti, che incede verso sinistra. Tiene tra le braccia un grande vassoio metallico pieno di frutta: melograni, arance, pere; alla frutta sono ancora attaccate le foglie (nelle schede di Sampaolo 1998 e Sapelli 2000b sul vassoio vengono identificate delle focacce). Il volto è giovanile, guarda verso sinistra, ha chiari capelli corti, tenuti fermi da un nastrino sulla fronte. Indossa una lunga tunica e un manto decorato sulle spalle da ornamenti circolari applicati, orbiculi. Il piede sinistro aderisce al terreno , la gamba destra è piegata e il piede tocca terra solo con la punta. La figura calza dei sandali legati alla caviglia. L'incisione
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settecentesca corrisponde appieno al pannello conservato[8]. Settimo pannello, Coppiere (inv. 84284, altezza 113 centimetri, larghezza 74 centimetri; Cassini 1783, fig. VII) [11] Figura maschile stante, in posizione frontale. Il braccio destro alzato offre una coppa, mentre il sinistro è steso lungo il corpo. Il volto è sbarbato , giovanile, con una lunga e fulva chioma riccioluta, fissata sulla fronte da un nastro. Indossa una lunga tunica che arriva ai polpacci, decorata, lungo l'orlo del collo, del petto, dei polsini e sulle spalle, da orbiculi e clavi di colore oro e porpora. Ai piedi calza sottili sandali legati alla caviglia. Sulla sinistra del coppiere sta un mobile coperto da una tovaglia con due bottiglie metalliche ad ampie anse. L'incisione in Cassini è fedele alla decorazione così descritta [9]. I quattro riquadri perduti, nelle incisioni del 1783 presentano
tutte le figure abbigliate allo stesso modo (ibidem, figg. I, II, IV, V). Sulla tunica, lunga quasi fino alla caviglia, di colore chiaro con piccole decorazioni tonde applicate lateralmente all'altezza dei polpacci, vestono un manto leggero , «che sembra di colore inclinante al violetto» (ibidem, fig. VI), decorato sulle spalle da orbiculi applicati. I piedi calzano eleganti sandali aperti, legati alla caviglia, identici a quelli documentati nei pannelli conservati.
Note critiche L'ambiente decorato con queste pitture era probabilmente un atrio, il tablinum di una domus, ambiente di rappresentanza che serviva da triclinio per accogliere gli ospiti. Purtroppo, però, le note prese al momento del ritrovamento non danno notizie puntuali sull'ubicazione della stanza, né tanto meno sull'esistenza di altri ambienti relativi alla stessa abitazione.
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Nella piena età imperiale l'area corrispondeva topograficamente agli horti di Domitia Lucilla, madre di Marco Aurelio, vissuta agli inizi del II secolo d.C. (Liverani 1988, 892-894; Scrinari 1991), ed era caratterizzata da strutture abitative della ricca aristocrazia al potere. Successivamente, nella fase tardoantica dell'area, l'unico monumento con il quale l'atrio potrebbe stabilire rapporti topografici è la Statio Patrimonzi, sulla quale s'imposterà in seguito la cappella ' cristiana' (---+ 4) , situata sotto l'ala Mazzoniana dell'ospedale San Giovanni. La decorazione dell'ambiente doveva essere in origine più ampia e comprendere un maggior numero di pannelli; se consideriamo poi la disposizione delle figure, alcune delle quali incedono verso destra e altre verso sinistra, il corteo di servitori doveva convergere idealmente verso il padrone o i domini della casa, verosimilmente ritratti sulla parete di fondo , nell'atto di ricevere i cibi per un lauto banchetto. L'abbigliamento dei servitori, caratterizzato com 'è da elementi uniformi, può quasi considerarsi una divisa. Esso trova confronti molto puntuali nelle vesti di numerosi personaggi ricorrenti nel mosaico pavimentale di alcuni ambienti della villa tardoantica di Piazza Armerina in Sicilia (Gentili 1999, 36 fig. 2, 43 fig. 1, 51 fig . 2, 53 fig . 3, 55 fig. 5, 151 fig. 2), ma anche nei giovani servi raffigurati nella tomba di Aelia Arisuth, in Tripolitania, databile alla seconda metà del IV secolo (Bianchi Bandinelli 1970, 96, figg. 86-87). Una veste analoga, con decorazioni applicate sul petto, sulle spalle e intorno ai polsi, è indossata anche dal personaggio di sinistra raffigurato sulla barca della Storia di Giona, nel mosaico pavimentale dell'Aula sud di Aquileia, e da un altro personaggio che offre pane da un cesto, nello stesso contesto (Cecchelli 1933 , tav. XLII; Menis 1965, tavv. 49,59). Testimonianze più tarde dello stesso tipo di abito si hanno nel codice del Virgilio Vaticano, dove i domestici che servono da bere, nella miniatura con Didone a mensa tra personaggi troiani, ne indossano di simili (BAV, Vat. lat. 3225 , f. 14; Bartoli 1782, 14, tav. XXXIII; Cassini 1783, fig. VII). Nel IV secolo si assiste ad un generale rinnovamento nel campo della pittura, partecipe della koiné culturale mediterranea, e l'Africa è ritenuta la regione più influente nell'elaborare iconografie innovative e modalità esecutive nuove. Il cambiamento dei modi di vestire, il diffondersi dei grandi ornamenti circolari intessuti a colori e applicati sulle vesti, «regolati da apposite disposizioni, e inizialmente originari dell'Egitto, servono a innovare e unificare le iconografie» (Bianchi Bandinelli 1970, 96). Il rinnovamento comporta anche la fortuna delle megalografie, o «pitture a grandi figure», come le definisce Becatti (Becatti 1948), forse di origine africana (Ling 1991 ; De Vos 1993 ). I nostri pannelli appartengono a questa tipologia, della quale rappresentano l'approccio narrativo d'ispirazione realistica, legato alla vita quotidiana, lontano dall'arte aulica della corte imperiale di cui abbiamo testimonianza, ad esempio, nelle pitture della cosiddetta domus Faustae al Laterano(---+ 30) . Il tema dei domestici che incedono portando suppellettili legate alla mensa ha avuto molta diffusione. In ambito romano se ne segue l'evoluzione a partire dalle pitture severiane della domus Praeconum in via dei Cerchi, in cui è ancora presente una realistica ambientazione architettonica, fino ai servi del Celio di IV secolo, in cui le figure si stagliano isolate entro riquadri con fondale neutro. Altri esempi databili agli inizi del IV secolo sono i coloni che portano frutti al loro padrone nella casa del Ninfeo ad Ostia (Becatti 1948, figg . 37-40),
il servo che versa il vino nella Villa di Casal Morena (---+ 29), le rappresentazioni di caccia della casa della Farnesina ai Baullari (---+ 3 7) e, in Asia Minore, i dapiferi della casa sopra il pritaneo di Efeso, della quale sono stati pubblicati due pannelli: un servitore che porta un vassoio carico di fichi e un altro che offre un calice di vino (Jobst 1985, tav. VII). In ambito funerario , il rapporto servo-padrone è attestato, a Roma, da dipinti datati sempre al IV secolo , in sepolture di facoltosi individui come la tomba di Trebio Giusto sulla via Latina (---+ 35 ) o la catacomba dei Santi Marcellino e Pietro, dove è nota una figura di servo dapifero simile a quelli del Celio (Wilpert 1916, IV, tav. XCV, n. 1; Becatti 1948, 208). Nella provincia imperiale si ricordano la camera funebre di Silistra, nell'odierna Bulgaria (metà del IV secolo), in cui processioni di servitori recano doni ai padroni raffigurati nel riquadro centrale (Bianchi Bandinelli 1970, figg. 306-308; Pittura romana 2002 , 365 ), e la già citata tomba di Aelia Arisuth in Tripolitania (seconda metà del IV secolo; Bianchi Bandinelli 1970, figg. 87 , 242 -243 ; Pittura romana 2002, 366). Sul piano più ampio dell'interpretazione, i pannelli con i servi dapiferi s'inscrivono appieno nel «ciclo dei latifondi», secondo una definizione della De Vos, la quale analizza la decorazione di domus e ville extra-urbane tardoantiche in cui predomina il tema dell'auto-celebrazione del padrone, dei piaceri e frutti della terra e «del sistema feudale» (De Vos 1993 , 89; Grassigli 2001 ). Il «ciclo dei latifondi», che meno di frequente è attestato in pittura, è invece assai ricorrente sui mosaici pavimentali, specie nell'Africa del nord (i mosaici delle ville conservati al Museo del Bardo a Tunisi, vedi Bianchi Bandinelli 1970, figg . 206-208), e sui manufatti d'argento (Ling 1991 , 197 ; De Vos 1993 , 89-90). Sotto il profilo dello stile e dell'esecuzione, la pittura dei pannelli del Celio è caratterizzata da pennellate larghe, veloci e dinamiche, sottolineate da pesanti linee scure e da contorni marcati. Nonostante il pessimo stato di conservazione, si coglie il processo di dissoluzione del chiaro-scuro e dello sfumato pittorico classico e il passaggio ad un linguaggio nuovo. La corporeità passa in secondo piano, le vesti sembrano vuote, appese su figure immateriali, i volti sono privi di espressione, assenti. L'ambientazione spaziale è scomparsa, solo una sottile strisciolina di terreno tiene ancorate le figure al suolo, pur essendo il tema narrativo molto legato alla realtà quotidiana. La maggior parte degli studiosi è concorde nell'assegnare i pannelli alla prima metà del IV secolo, taluni altri al primo quarto del secolo (Sapelli 2000b; Sampaolo 2005 ).
Documentazione visiva Cassini 1783 , XIX, figg . I-VII.
Fonti e descrizioni Cassini 17 83.
Bibliografia Wilpert 1916, IV, tav. XCV, n. 1; Cecchelli 1933 , tavv. XLII, XLIIIb; Becatti 1948; Pietrangeli 1958, 23-28, fig. 4; Menis 1965 ; Bianchi Bandinelli 1970;Jobst 1985; Liverani 1988, 892-894 ; Ling 1991, 194-197 ; Scrinari 1991 , 159-160, figg. 117 -123; De Vos 1993 , 8990; Sampaolo 1998; Gentili 1999, III; Sapelli 2000b ; Grassigli 2001; Pittura romana 2002 , 366-382; Sampaolo 2005.
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33. LA DECORAZIONE AD OPUS SECTILE DELLA BASILICA DI GIUNIO BASSO Secondo quarto del IV secolo
L'uso di decorare le pareti interne degli edifici con crustae in materiale prezioso si attesta a Roma dal I secolo a.C. , ma la sua tradizione è molto più antica e risale ad epoche e civiltà remote come quella minoico-micenea, che offre testimonianze del II millennio a.C. (Guidobaldi 1989, 61-62 ). Il primo caso noto, a Roma, è la domus celimontana di Mamurra. La storia romana di questa tecnica, diversamente definita ad opus sectile, a commesso marmoreo, a tarsia, ad incrostazione (per la terminologia e la sua evoluzione Guido baldi 2003 , 54 ), che al contrario del suo equivalente pavimentale fa impiego di vetri, pietre dure , madreperle e altri materiali semipreziosi, in termini molto sommari prevede uno sviluppo ampio in età pre-imperiale, con parati sempre più sontuosi e complessi nel disegno, per subire un arresto nei primi secoli dell'impero e tornare infine ad una bellissima fioritura nei secoli IV-V, prima di essere esportata in altre città mediterranee, da Ravenna a Costantinopoli a Parenzo (Guidobaldi 2003, 62-63 ). La basilica di Giunio Basso, situata sul mons Cispius a nord-ovest dell'Esquilino, era decorata da crustae di marmi policromi e paste vitree, perdute con l'eccezione di quattro p annelli figurati. Due di essi sono oggi esposti al Palazzo dei Conservatori (Musei Capitolini) [3 , 4] ; hanno forma rettangolare e accolgono soggetti venatori composti in modo speculare: una tigre, volta a sinistra in un caso e a destra nell'altro, che assale un giovane toro. I fondi sono in serpentino verde scuro e una delle due scene ha luogo su un terreno in raro broccatello di Tolosa; sui manti di tigri e vitelli si alternano il giallo antico, il serpentino, il palombino. Gli altri due pannelli, rettangolari anch'essi, sono conservati nel Museo di Palazzo Massimo alle Terme [l , 2]. Il primo illustra, su un campo semicircolare, il mito del R atto di Hylas tratto dalla spedizione degli Argonauti e narrato negli Idilli di Teocrito e nelle A rgonautiche di Apollonia Rodio (Sestieri 1967, 5). Al centro della scena è il giovane Hylas, vestito del solo mantello, presso una fonte per attingere acqua; viene ghermito da due ninfe, a sinistra e a destra, accompagnate da una terza all'estremità destra del campo; tutta la scena si svolge su un fondo omogeneo color verde scuro. Il fondo si prolunga verso il basso in un drappo che all'origine doveva aprirsi in sedici pieghe (WRL 19225 ), oggi ridotte a sei, e che è profilato da un fregio con soggetti isiaci, un velum alexandrinum [5]. Straordinaria la ricchezza dei materiali impiegati : tra i marmi il giallo antico , l' alabastro fiorito e il palombino oltre al serpentino del fondo ; la brocca di H ylas e i bracciali delle ninfe sono in madreperla e tutto il resto è in paste vitree policrome. Il secondo pannello ospita un'iconografia controversa, disparatamente interpretata come Diana in trionfo, ritenendo la basilica un Tempio di Diana (Ugonio, Barb. lat. 2160, f.130 ), un processus consularis (de Rossi 1871 , 47; Shepherd 1984, 57 ), una Quadriga (Cagiano de Azevedo 1967-1968, 162 ) o più verosimilmente una Pompa circensis sovrintesa dal console. Becatti legge nella Pompa il trionfo simbolico sulla morte mentre Enking ritiene che il patrono di giochi sia Valila, il goto che donò l'edificio a papa Simplicio (Enking 1964, 31 ). Il magistrato è in proscenio sulla biga, vestito di una toga picta cerimoniale, col braccio destro alzato in un gesto improprio cqnferitogli da un restauro seicentesco; egli è affiancato da due cavalieri per lato, arretrati in secondo piano, abbigliati con
tuniche corte dei colori delle fazioni circensi - da sinistra rossa, azzurra, verde scuro, bianco-verde chiaro - che tengono in mano strumenti simili a mazze, anche interpretate come palme, trombe e corni dell 'abbondanza (Nesbitt 1880, 274; Cecchelli 1951 , 668; Becatti 1969, 198; Shepherd 1984, 56). Un disegno di Ciampini illustra la presenza di figure , ai lati del personaggio centrale e sotto i cavalieri, perdute nel corso di un restauro del XVIII secolo (Int. cons.) [6]. La scena, come la precedente, alloggia su un fondo verde scuro in serpentino ed è analogamente composta da materiali di pregio: giallo antico e palombino su incarnati e cavalli, madreperla nei finimenti , paste vitree policrome tra cui risalta quella incolore con foglia dorata sulla toga del console. I quattro pannelli erano ubicati sulle pareti laterali dell'aula, secondo
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un ordine e una composizione che, nonostante l'abbondante documentazione degli alzati e delle tarsie affidata a disegni e acquerelli eseguiti fra XV e XVII secolo, non è stato possibile restituire in maniera soddisfacente: «the /unction o/ the Esquiline basilica and the import o/ its decorative scheme are stili unclear» (Whitehouse 2001 , 138). La combinazione dei dati architettonici e decorativi emersi dai principali disegni degli alzati, cioè quello di Giuliano da Sangallo (Barb. lat. 4424, f. 31, ante 1494 ) [7], la copia da Sangallo di Pietro Santi Bartoli nel Codex Vittoria (WRL 9064) , il disegno ex-dal Pozzo e oggi in una collezione privata romana CXVII secolo, Whitehouse 2001, 141-142) [8] , l'incisione di Ciampini (Ciampini 1690, tav. XXI) e il prospetto ricostruttivo della Martin a seguito degli scavi del 1930-1932 [9], non ha riconfigurato pienamente l'assetto scenotecnica delle pareti, a causa di incongruenze e di interpretazioni svianti. Le osservazioni di Hiilsen riguardo alla solo parziale affidabilità del disegno di Sangallo sono, a questo proposito, molto significative (Hiilsen 1927 , 6063). Inoltre al Corpus dal Pozzo appartengono acquerelli che illustrano soggetti del tutto nuovi rispetto a quelli conservati, oppure varianti di quelli già conosciuti: un centauro alato (WRL 11482), dei tripodi apollinei (WRL, 9031 /9032) [10] , una zoomachia con tigre e antilope (WRL 11482), che troviamo anche in Ciacconio [11], oltre al pannello di Hylas accanto ad un tripode (WRL 19225). La relazione delle tarsie sopravvissute e di quelle documentate negli acquerelli dal Pozzo con le pareti è suggerita dai disegni sopra menzionati e rafforza le poche conclusioni probanti sull'organismo decorativo nel suo complesso. La decorazione constava di tre registri dal soffitto all'imposta delle grandi finestre ad arco e di un fregio a modiglioni; nessuna sicurezza invece sulla composizione della zona inferiore, resa nei disegni in modi contraddittori, come il confronto tra Ciampini e l'anonimo ex-dal Pozzo, entrambi del XVII secolo, dimostra. Il primo registro dall'alto alternava teste di Medusa a riquadri modanati, nel secondo erano zoomachie e centauri alati, come si riscontra anche nell'aula ostiense fuori Porta Marina, (-+ 39), nel terzo eroti in volo o scene tra cui Hylas e la Pompa circensis, sostenute in basso dai vela alexandrina e affiancate o meno dai tripodi delfici. Questa configurazione è proposta nel disegno della Martin e si basa sui rapporti proporzionali tra pannelli superstiti, su copie storiche e dati archeologici.
Note critiche L'incuria e l'abbandono che hanno comportato la progressiva scomparsa della basilica di Giunio Basso fra XVII e XX secolo, hanno altresì reso difficile comprendere l'origine e la funzione
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dell'edificio oltre che il programma di decorazione dell'interno. L'abside si arricchì di un mosaico con Cristo e sei apostoli- perduto ma documentato da disegni seicenteschi- quando la basilica venne donata dal generale goto Valila, che nel 476 risultava essere il proprietario, al papa Simplicio (468-483 ), donazione che ne comportò la trasformazione in luogo di culto cristiano. L'aula, absidata e di pianta longitudinale con un atrio a forcipe, era già in rovina nel 1686, quando Ciampini ne ebbe visione diretta; i suoi ruderi riemersero brevemente con lo scavo del 1930-1932, condotto durante l'edificazione del Pontificio Istituto Orientale in corrispondenza dell'attuale via Napoleone III, per essere distrutti subito dopo , con l'urbanizzazione dell'area (Lugli-Ashby 1932, 221-222, 228-241 ; CBCR 1937, I, 62 ). Ritenuta una basilica pagana (de Rossi 1871, 8), civile (Marucchi 1893 , 93 ), di identità religiosoculturale mista (Lugli-Ashby 1932 , 224 ), una schola domestica (CBCR 1937, I, 62 ), una schola neopitagorica (Becatti 1969, 204211 ), la biblioteca del console fondatore (Enking 1964, 6), e assimilata nell'architettura alla Curia Senatus (Cagiano de Azevedo 1970b, 226), essa appare piuttosto l'aula di rappresentanza di una sontuosa domus patrizia che offre, pur non sussistendo dati probanti definitivi, confronti tipologici e peculiarità architettoniche comuni alle domus delle Sette Sale, di Cilonis (poi Santa Balbina) e di Santa Susanna (Guidobaldi 1986, 184). La basilica fu decorata su committenza di un aristocratico - indicato nell'iscrizione lapidea di fondazione , situata nell'abside e nota a partire dalla prima trascrizione in un codice senese (Cod. Senes. K. X. 135 , 139 in de Rossi 1871 , 27) - che fu il consul ordinarius dell 'anno 331 piuttosto che quello del 317 , come appare più probabile in conclusione della travagliata vicenda della sua identificazione, che ha combinato ricerche prosopografiche, dati archeologici e architettonici e il rinvenimento di un 'epigrafe statuaria nella villa dei Bassi sulla Flaminia. La sua decorazione consisteva, come descritto, in una pregiata veste in crustae lapidee, vetri e madreperla che ne foderava le pareti ma forse anche la controfacciata e la parete absidale (de Rossi 1871, 10), componendo temi e scene figurate di ispirazione eterogenea , con settori architettonici e partiti ornamentali. L'esecuzione di intere unità con paste vitree, come la balza con soggetti egizi, situa queste tarsie su un confine affascinante, lo stesso dei sectilia parietali completamente vitrei in un edificio nell 'Iseo di Kenkhreai, a Corinto (Ibrahim et al. 1976) ; si tratta di una frontiera condivisa dalle due tecniche dell 'opus sectile e del mosaico parietale e le opere sono i luoghi di una suggestiva mescolanza, di una condivisione transitoria che cade nel tempo più giusto, la tarda antichità, confine essa stessa.
Dei quattro pannelli superstiti, le due zoomachie hanno una storia meno tormentata. Passate nella chiesa attigua di Sant' Antonio entro il XVII secolo, raggiunsero il Museo Capitolino nel 1893, forse in seguito alle leggi post-unitarie di soppressione delle corporazioni religiose, e da qui il Palazzo dei Conservatori nel 1903, dove aµcora oggi sono esposte. Pur soggette a restauri e integrazioni, esse restano intatte nelle dimensioni e nella forma quadrangolare dei campi. Ben più faticoso il destino del Ratto di Hylas e della Pompa circensis. Acquistati dal cardinale Camilla Massimo (1620-1677) e conservati nella «stanza ultima dè musaici» di Palazzo Massimo alle Quattro Fontane (Camilla Massimo 1996, 76-79) , i due sectilia seguirono la fortuna e i passaggi di proprietà dell'edificio, dal 1679 Nerli, poi Albani e infine del Drago. In seguito essi furono esportati clandestinamente in Svizzera ed infine recuperati a Lugano nel 1958 dall'allora Ministro della Pubblica Istruzione Rodolfo Siviera (Conti 1982, 93); riguadagnati allo Stato ed espropriati per pubblica utilità, furono trasferiti a Firenze nel Palazzo della Signoria fino al 1987 per giungere infine nella loro sede attuale, il Museo di Palazzo Massimo alle Terme a Roma. Le vicende delle due tarsie prima dell'esproprio statale sono raccolte in un fascicolo prodotto da Eugenio Sestieri, cui la principessa Flaminia Balestra del Drago aveva affidato la stima delle due opere e in cui si propone una controfferta alla commissione di valutazione del Ministero della Pubblica Istruzione, della quale
erano membri anche Giovanni Becatti e Roberto Paribeni (Sestieri 1967). La fortuna critica di queste incrustationes, le copie e i pellegrinaggi da una proprietà all'altra, hanno rappresentato l'unica risorsa per tentare di comprenderne non solo l'organizzazione architettonica ma anche l'eventuale conformità ad un programma e ad un senso univoco e dominante imposto dalla committenza. Acquisita l'arbitrarietà di molte parti del disegno sangallesco (Hiilsen 1927 , 60-63) ed escluso pertanto che qui si rappresentassero le Storie di Marco A ntonio (Ciampini 1690, 52-57) o i Fasti di Costantino (de Rossi 1871, 49-54; Marucchi 1893, 99), l'insieme accomuna brani del mondo classico e del mito come la scena di Hylas , la Pompa circensis, la sequenza di teste di Medusa nel registro più alto, o i tripodi delfici, con zoomachie, comuni ai più tardi esemplari di Porta Marina, e con le figurine isiache sulle baÌze dei finti drappi tra i finestroni; l'insieme è irregimentato da un sistema di lesene, mensole e pannelli geometrici, sempre lapidei. Non si affacciano qui, come sarà nella più tarda aula ostiense, probabili soggetti cristiani. Siamo in un dominio ancora pienamente intriso di cultura antica, a tratti ellenizzante - il pannello di Hylas - e altrove proiettata al futuro dissolversi di quella integrità della forma greco-romana, come nella Pompa circensis. La presenza di questi due soggetti, uno del mito e l'altro del mondo contemporaneo, nel medesimo contesto e forse sulla stessa parete, richiama la lezione di Ernst Kitzinger sulla «modulazione della forma» in
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rapporto al contenuto quale tratto della cultura artistica alla fine del mondo antico. Egli rileva, su un sarcofago attico della metà del III secolo ai Musei Capitolini , un «freddo classicismo accademico» nelle storie di Achille sui lati, che muta in un disegno angoloso, proprio alla ritrattistica del tempo, sui volti dei coniugi sepolti (Kitzinger 1977 [1989] , 25 ). Le tarsie di Giunio Basso estendono questa convenzione al velum alexandrinum e alla balza con fregio egizio, ad esempio, vettori di un gusto presente a Roma già dal II-III secolo, e sia il mosaico pavimentale con figure isiache nel complesso della villa di Livia a Prima Porta che la diffusione dei tappeti alessandrini lo ricordano (Marucchi 1892; Enking 1964, 32 ). Ammettendo l'importanza della lettura neo-pitagorica di Becatti, che costituisce un approccio interpretativo molto raffinato e il solo sforzo di ordinare l'eterogeneità dei temi di Giunio Basso in un pensiero elevato ed organico, sembra piuttosto opportuno affermare che le tarsie dell'aula esquilina, legate alla sua fondazione quindi databili al secondo quarto del IV secolo (Becatti 1969, 185 contra Cagiano de Azevedo 1968-1969, 156-157 ), si manifestano con una dominante antica, estetica e di contenuto. Esse testimoniano la pienezza con cui il patriziato romano è immerso nella cultura antica e quanto questa sia ancora l'unico versante di ispirazione ed espressione, un versante indenne e non vacillante, che nella decorazione dell'aula ostiense, posteriore di oltre mezzo secolo, lascerà timidamente il passo a nuovi contenuti.
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Interventi conservativi e restauri ante XVII secolo : Shepherd accenna genericamente ad un intervento seicentesco sui pannelli di Hylas e della Pompa circensis (Shepherd 1984, 54). 1622: Grimaldi denuncia uno stato di rovina avanzata e la presenza in situ di soli pannelli con zoomachie «badie cernitur testudo, et equus a leone discerptum»; sottolinea inoltre la pratica perniciosa di distruggere le tarsie per rimuoverne le colle «mixturae glutinum», da parte dei francesi dell 'adiacente convento di Sant'Antonio, convinti che queste avessero proprietà terapeutiche per le febbri (Grimaldi, BAV, Vat. lat. 6437, f. 36v). XVIII secolo: si menziona un restauro settecentesco ai due pannelli di Hylas e della Pompa circensis, responsabile di rifacimenti dei fondi e della rimozione della Pompa circensis dal suo originale allettamento, operazione che gli avrebbe attribuito l'attuale forma quadrangolare e trasformato l'iconografia da una supposta Quadriga in un corteo consolare (Cagiano de Azevedo 1967 -1968, 162; Shepherd 1984, 54). 1959-1960: l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze restaura i due pannelli con Hylas e la Pompa circensis dopo il loro recupero a Lugano nel 1958. Il restauro , a cura dell'architetto Pampaloni e del signor Biliotti, procede allo smontaggio di entrambi i supporti,
alla rimozione degli strati di resine e al consolidamento; i pezzi decoesi vengono ricomposti, le parti lacunose integrate con elementi nuovi, gli interstizi stuccati e la superficie pulita . Si provvede quindi a riallettare le crustae sui supporti di lavagna con resine a caldo e su uno strato ulteriore di resina che include frammenti di marmo e terracotta per omogeneizzare lo spessore; al pannello di Hylas viene inoltre applicata una cornice d'ottone (A rcheologia a Roma 1990, 150) . Contestualmente emergono dati su materiali e tecnica esecutiva: molte tessere dorate nella toga del console della Pompa circensis, largo uso di paste vitree del tipo 'millefiori ' e di ceramica policroma, una diffusa presenza di materiale di reimpiego (Cagiano de Azevedo 1967-1968, 161 ). Dell'intervento restano un referto con l'elenco dei prodotti impiegati, alcuni rilievi e la documentazione fotografica della fase di rimozione dei supporti (Basile 1992, 239). 1989-1990: la Soprintendenza Archeologica di Roma esegue un nuovo restauro sui pannelli di Hylas e della Pompa circensis (responsabile Rita Paris, restauratrice Antonella Basile), preceduto da verifica di materiali costitutivi e stato di conservazione. L'intervento, che muove da una revisione critica dei restauri più antichi, soprattutto quello dell'Opificio, prevede la pulitura del materiale protettivo steso a caldo nel 1959, la lucidatura con cere
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microcristalline e la sostituzione del supporto in lavagna al pannello della Pompa circensis con l' applicazione di una superficie in plexiglas che consenta la visione del retro (Basile 1992, 239-241).
Pompa circensis; Pietro Santi Bartoli, incisione, Pompa circensis (in Caylus 1757, tav. XXX); Lugli-Ashby 1932 , fig . 16.
Documentazione visiva
Pompeo Ugonio (1580 ca.), BAV, Barb . lat. 2160, f. 130; Alfonso Ciacconio (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407 , ff. 189-193; Giacomo Grimaldi (1622), BAV, Vat. lat. 6437, f. 36; Ciampini 1690, I, 5265; Ficoroni 1744, 111 ; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, 215-219; Onofrio Panvinio (1570), BAV, Vat. lat. 6780, f. 63v; Giovanni Antonio Bruzio (XVII secolo), BAV, Vat. lat. 11875, ff. 177-192.
Fonti e descrizioni Giuliano da Sangallo, disegno (ante 1494), BAV, Barb. lat. 4424,
f. 31 v (antica); 33v (moderna), prospetto della metà di una parete laterale; Alfonso Ciacconio, disegni acquerellati (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407 , ff. 98-100; Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1630), BAV, Barb. lat. 4402, ff. 32, 33r, Hylas, Pompa circensis; Codex Vittoria, disegno, WRL 9604, prospetto della metà di una parete laterale; Ciampini 1690, I, tavv. XXI-XXIV, incisioni, prospetto della metà di una parete laterale, Ratto di Hylas , Pompa circensis, zoomachie, centauro alato; Benedetto Mellini (ante 1667) , BAV, Vat. lat. 11905, ff. 298r- 302v (antica); 215r-219v (moderna); Museo cartaceo di Cassiano dal Pozzo, disegni acquerellati (1630-1640 ca.): WRL 19225, tripode delfico , Hylas; WRL 19224, Pompa circensis con velum; WRL 9605, Pompa circensis con velum; WRL 9030, balza con soggetti isiaci sotto Hylas; Antonio Eclissi, WRL 9031 , tripode delfico; WRL 9032, tripode delfico; WRL 9674, tripode delfico; WRL 11480, tigre che assale un bue; WRL 11481, centauro alato; WRL 11482, tigre che assale un'antilope; ex-Portfolio 5, f. 60, WRL 19267, prospetto parete di Giuliano da Sangallo; GDSU, Architettura CXXVI, 7095 e CXLVII, 7121 , Pompa circensis e Hylas; Raymond Lafage, disegni, (vedi Camilla Massimo 1996, tavv. XX, XXVII), Hylas,
Bibliografia de Rossi 1871 , 5-18, 47-60; Garrucci 1877, 16, tav. 210; Nesbitt 1880, 267-296; Marucchi 1893 , 96-100; de Rossi 1899; Wilpert 1916, I , figg. 33-41 ; Hiilsen 1927 , 53-67; Lugli-Ashby 1932 , 244255; CBCR 1937 , I , 63; Cecchelli 1951 , 663-670; Bertelli 1960, 928; Enking 1964, 19-33; Dorigo 1966, 152-153; Sestieri 1967; Cagiano deAzevedo 1967-1968, 151-170; Becatti 1969, 181-215 ; Conti 1982, 93; Shepherd 1984, 53-57; Kelly 1986, 248-252; Borrelli Vlad 1987, 90; Archeologia a Roma 1990, 147-150; Basile 1992, 239-245; Camilla Massimo 1996, 76-79; Elsner 1998, 192-193; Rausa 2000; Sapelli 2000b, 139, 534-536; Whitehouse 2001, 74 , 138-165; Ortolani 2002 , 36-37; Pittura romana 2002, 381-382; Brandenburg 2004c, 218-219. Geraldine Leardi
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34. PITTURE E MOSAICI DELL'IPOGEO DI VIA LIVENZA Metà del IV secolo
Entrando nel cuore dell'ipogeo, ciò che immediatamente si nota sono gli affreschi della parete nord [1]. La parete, a forma di mezzaluna, è sovrastata da un arco e ospita una nicchia decorata con pitture che imitano lastre di marmo numidico. La calotta è invece occupata da una scena bucolica, un topos della pittura antica: la composizione si sviluppa attorno ad una fontana costituita da un bacino quadrangolare, al centro del quale si erge un cantaro da dove sgorga l'acqua. Ai lati della fontana, sul prato fiorito, sono raffigurati due uccelli, un terzo si posa sul cantaro mentre un quarto si avvicina alla fonte volando. A sinistra della nicchia è ritratta una giovane donna protesa in avanti come se di colpo avesse interrotto la sua corsa, dietro di lei fuggono una cerbiatta e un cervo [2]. La scena si svolge in un sottobosco appena illuminato dai chiarori dell'alba. La donna indossa un corto chiton color porpora e un himation ocra (probabilmente da interpretare come oro) e calza dei coturni; porta una corona d'alloro, un diadema dai riflessi dorati , orecchini e una collana. La sua identificazione è chiara: si tratta di Diana cacciatrice, / erarum
domitrix. A destra della nicchia una figura femminile in piedi, in leggero contrapposto, tende la mano verso il muso di un cerbiatto [3]. Si tratta ancora di Diana, questa volta rappresentata non più come cacciatrice bensì come/amula Dianae. Questa interpretazione appare logica dato che le due fanciulle sono vestite esattamente allo stesso modo e portano gli stessi gioielli, con la sola differenza che la seconda figura al posto della corona d'alloro ha fra i capelli un semplice nastro. Nella mano sinistra, questa tiene un arco appoggiato sopra ad un oggetto di cui si intravede soltanto la parte superiore di forma circolare, probabilmente un altare cilindrico. La decorazione a fresco si estende sulle pareti laterali, simulando motivi ornamentali in opus sectile; il più interessante è una rata dal bordo ondulato costituita da finte incrostazioni di porfido, marmo blu, bianco e giallo su sfondo giallo antico. Il motivo si ripete ai lati del bacino, sulla parte inferiore dell'intradosso dell'arco ribassato [1] e sopra ad un cornicione in marmo di spoglio incastonato sulla piccola parete orientale, tra il muro nord e l'arco ribassato che scavalca il bacino. Si tratta di un motivo, definito anche 'a spiromeandro', ricorrente nella decorazione romana ad opus sectile di IV e V secolo, che troviamo sulle pareti della domus fuori Porta Marina ad Ostia (-+ 39), di fine IV secolo, e in più tarde decorazioni di contesti sacri, come il Battistero lateranense (-+ 42c) e la basilica di Santa Sabina(-+ 40b), entrambe assegnate al tempo di Sisto III (432-440). Le pitture murali si sviluppano, senza interruzioni, sulla parte inferiore dell'arco e della parete occidentale che unisce l'arco ribassato al grande arco centrale [4]. In questa zona si distinguono putti che pescano, remano su una barca, nuotano o ancora stanno a cavalcioni di un'anatra; la scena è arricchita dalla presenza di numerosi uccelli acquatici. Probabilmente una rappresentazione simile faceva da pendant sullo zoccolo della piccola parete orientale, dall'altra parte del bacino, dove resta solo parte del bordo superiore rosso e qualche traccia del blu scuro del fondo , ormai virato al nero. Su queste stesse pareti, sopra allo zoccolo decorato con gli affreschi, si riscontrano frammenti di mosaico con tessere in pasta vitrea, molto danneggiati [5]. I frammenti sono essenzialmente su parte
del muro ovest e nell'angolo nord del muro est. Quel che resta dei mosaici ha comunque permesso aJoseph Wilpert (Wilpert 19231924) una ricostruzione iconografica della scena. Sulla sinistra è raffigurato un personaggio inginocchiato con tunica pectoralis e mantello rosso; davanti a lui alcune rocce da cui sgorga dell'acqua. Alle sue spalle un uomo in piedi vestito con tunica clavata, pallium e sandali. Secondo Wilpert la figura in ginocchio è un soldato e, alle sue spalle, vestito come un filosofo, san Pietro novello Mosè fa sgorgare l'acqua dalle rocce. Un attento esame delle impronte delle tessere ancora leggibili sulla malta di allettamento, permette di ipotizzare che un secondo soldato, vestito di rosso, fosse ritratto in secondo piano, in piedi e leggermente inclinato verso la fonte. I mosaici erano incorniciati da una greca iridata, in parte ancora visibile. Ricordiamo infine che sulla parte occidentale dell'arco si conserva un frammento a mosaico dove si distingue un piede che calza un sandalo. La posizione del piede fa pensare che la figura fosse rappresentata in piedi, rivolta verso la parte centrale dell'arco. La malta di allettamento è tuttora visibile su ampie zone dell'arco e anche qui, grazie alle impronte delle tessere, è possibile ipotizzare il soggetto del mosaico che, in questo punto, sembrerebbe un'iscrizione di almeno quattro righe, posta al centro dell'arco [6] . I resti di pigmentazione fanno ritenere che si trattasse di un'iscrizione a caratteri d'oro su fondo blu.
Iscrizioni Lo stato di conservazione del mosaico non consente una interpretazione critica del testo su di esso realizzato. Dalle impronte delle tessere è ipotizabile una iscrizione in maiuscolo eseguita, probabilmente, all'interno di uno specchio di corredo riquadrato da rettrici superiori e inferiori.
Note critiche L'ipogeo di via Livenza, scoperto nel 1923 durante lo scavo per la costruzione di un immobile tuttora esistente, è un edificio a pianta cruciforme (2lx7 metri) il cui pavimento si trova ad un livello di nove metri sotto alla Salaria Vetus . La funzione di questo luogo resta ancora oggi enigmatica. Secondo Wilpert, l'ipogeo era un battistero cristiano (Wilpert 1923-1924) mentre per Paribeni si trattava del luogo di culto della setta dei baptai (Pari beni 1923). Con molta prudenza, Cecchelli lo descrive quale edificio religioso di una setta sincretistica non meglio identificata (Cecchelli 1944). Borda e Usai si sono limitati a segnalare che l'ipogeo era un ninfeo (Borda 1958; Usai 1972 ). Le teorie di Wilpert e Paribeni sono state definitivamente accantonate dalla critica mentre quella di Cecchelli, seppur plausibile, resta troppo vaga. Le constatazioni di Borda e Usai non possono che essere accettate visto che l'edificio, come ogni stanza o aula contenente una fontana, può essere definito un ninfeo; ma l'informazione resta puramente descrittiva e non aiuta a comprenderne la funzione . Le nostre recenti ricerche su planimetria ed alzati del monumento, realizzate in collaborazione con Samuel Crettenand, hanno permesso di ipotizzare che originariamente l'edificio dovesse presentarsi come una sorta di basilica semi-ipogea.
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L'iconografia degli affreschi di via Livenza trova le sue radici nel repertorio ellenistico. La Diana di sinistra deriva dalla tipologia iconografica detta 'Versailles-Leptis Magna'. Si tratta di un gruppo scultoreo della metà del IV secolo a.C. rappresentante la dea vestita con chiton, himation e coturni, colta nel movimento della corsa, la testa rivolta verso destra, che con la mano destra prende una freccia e con la sinistra tiene l'arco. Un cervo o un cane corre nella stessa direzione della dea. Tale iconografia, molto movimentata, fu particolarmente apprezzata in tutto l'Impero a partire dal II secolo d.C. Se ne conoscono numerose copie e varianti sia scultoree, come il gruppo conservato a Leptis-Magna (LIMC, Diana, n. 27 ), che pittoriche come ad esempio un emblema del III secolo al Museo del Bardo (LIMC, Diana, n. 154). Rispetto al modello, l'affresco di via Livenza presenta alcune variazioni: Diana non si volta all'indietro ma guarda davanti a sé, verso il cervo che fugge, e sulla sinistra è stata aggiunta la cerbiatta che fa da pendant al cervo. Questa maniera di rappresentare la dea fra due animali simmetricamente disposti ai suoi fianchi rinvia all'antico tipo della potnz'a theron, risalente all'inizio dell'VIII secolo a.C. Secondo Lilly Kahil (LIMC, Artemis, nn. 739-40) simile tipo iconografico sopravvive in epoca romana grazie ali' assimilazione con Artemide agrotera. Oltre al diadema a punte, il pittore aggiunge una corona d'alloro, attributo tipico della Diana Nemorensis. Il color porpora del chiton trova numerosi riscontri nell'iconografia dei Letoidi: negli scritti di Claudiano si evoca l'episodio di Leto che regala abiti color porpora ad Artemide e Apollo dopo l'assassinio di Phyton (Claudiano, Panegyricus dictus Probino et Olybrio consulibus, 183-191). Tracce di pigmenti rossi sono state ritrovate sugli abiti di Artemide del gruppo scultoreo di Artemide e Ifigenia risalente alla seconda metà del II d.C. conservato ai Musei Capitolini (inv. 9778) . La Diana rappresentata sulla destra si ispira al tipo di Diana Laphrz'a, che la ritrae con chiton corto e himation ricadente sulla spalla sinistra (LIMC, Artémis, n. 191 ). Un nastro trattiene la sua capigliatura e ai piedi porta i coturni. Con la mano sinistra tiene l'arco appoggiato ad un piccolo altare, alla sua destra spesso si trova un cane che rivolge lo sguardo verso di lei. Questa iconografia si riscontra, ad esempio, in un bassorilievo del I secolo d .C. presso i Musei Vaticani (LIMC, Diana, n. 135). È però ripresa in maniera più precisa dalle monete di Patrasso (LIMC, Artémis, n. 191) e da una serie di lampade a olio del II secolo provenienti da Corinto (LIMC, Diana, n. 123 ). La Diana di via Livenza si discosta leggermente dal tipo della Laphrz'a per la sostituzione del cane con la cerbiatta e del nastro con il diadema. Anche le scene acquatiche hanno origine nel repertorio iconografico ellenistico. Come le scene di caccia composte dall'accostamento di diversi elementi, anche quelle acquatiche o bucoliche tornano in voga in tutta l'ecumene nel corso dei secoli III e IV d.C. Originariamente tali composizioni dovevano celebrare la serenità di una vita semplice ma il loro carattere indefinito si prestò a molteplici interpretazioni e furono quindi impiegate nei contesti più diversi. Le troviamo quindi in contesti funerari (frammento di sarcofago, Museo della catacomba di Pretestato), mitologici (affresco della domus sotto la basilica dei Santi Giovanni e Paolo), religiosi (mosaico della basilica di Teodoro ad Aquileia) e anche imperiali come nel caso delle scene di caccia nel mosaico della Grande Caccia di Piazza Armerina. La scena rappresentata nel frammento di mosaico di via Livenza è conforme all'iconografia del Miracolo della /onte di san Pietro così come appare sui sarcofagi di quest'epoca. In effetti la versione a due personaggi proposta da Wilpert è rara, mentre quella che riunisce due apostoli e due soldati, uno in ginocchio l'altro in piedi, è largamente diffusa (Deichmann 1967, nn. 6, 11, 17, 20, 22, 23 , 39, 42 , 43 , 44,52,67,85 , 86,369,621,665,919, 1007).
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La datazione dell'edificio e della sua decorazione verso la metà del
IV secolo si fonda su dati materiali concreti e sull'analisi stilistica degli affreschi. Una prima importante indicazione cronologica è fornita dal tipo di muratura utilizzato per le pareti dell'edificio. Si tratta di un opus vittatum mixtum di tipo A che appare a Roma solo a partire dal III secolo, diffondendosi nel corso del secolo successivo. Questo apparato murario si trova ad esempio nei rivestimenti delle murature del circo di Massenzio, della tomba di Valerius Romulus figlio di Massenzio morto nel 309, nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme (IV secolo ca.; CBCR 1937 , I, 165-195 ), di Santa Pudenziana (384-399; CBCR 1967, III, 276-302), di Santa Balbina (verso370; CBCR 1937, I, 82-92) e di San Clemente (390 ca.; CBCR 1937, I, 117-136). Anche i resti del palazzo degliAnicii, recentemente portati alla luce nei giardini di Villa Medici, sono costituiti da opus vittatum mixtum. Il palazzo è attribuito alla fine del IV secolo (Briose et al. 2000, 113-115). L'esame dello spessore dei letti di malta dell'ipogeo (in media 3,3 centimetri), che può essere confrontato con i casi di Santa Croce in Gerusalemme (3 centimetri), Santa Balbina (3,1 centimetri), Santa Pudenziana (3-3,5 centimetri), e San Clemente (3,2 centimetri), conduce ad una datazione di poco anteriore alla metà del secolo (Usai 1972, 408). Un'altra valida indicazione cronologica è fornita dai due sigilli Claudiana (CIL, XV 1563 b ) e Cald (CIL, XV 896) apposti sulle bipedae di terracotta inserite nel pavimento del bacino dell'ipogeo. Queste due 'mattonelle' furono prodotte dalla bottega Claudiana di Roma non prin1a del 313 , verosimilmente solo a partire dal secondo quarto del IV secolo; ci forniscono quindi un terminus post quem valido per la costruzione dell'ipogeo di via Livenza. Il valore di questo terminus può essere attenuato poiché le 'mattonelle' avrebbero potuto essere inserite più tardi nel pavimento, forse per riparare il fondo del bacino, ma si tratta di un'ipotesi improbabile. Il bacino, infatti, è stato concepito espressamente per non essere accessibile, se non per semplici lavori di manutenzione. L'esame stilistico dei dipinti non è semplice, dati gli scarsi esempi conservati di pitture qualitativamente comparabili conservati. Ciò che colpisce è la maniera naturalistica, il tratto rapido , in netto contrasto con la pittura di epoca costantiniana esemplata dalla Dea Barberini (- 31) o dagli affreschi sul soffitto dell' oecus del palazzo imperiale di Treviri. In questi casi si fa ampio uso dello sfumato per dare corpo alle figure. Anche a via Livenza l'artista utilizza un cromatismo di tipo tonale ma solo negli strati pittorici che costruiscono l'immagine. Il principale artificio plastico è costituito dall'uso abbondante di lumeggiature e dalla costruzione dei volumi per sovrapposizione di colori contrastanti, tecnica applicata in modo esemplare sul volto della Diana cacciatrice e nelle scene acquatiche. Secondo Mielsch, tale maniera 'impressionista' discende direttamente dalla pittura di epoca severiana (Mielsch 1978, 179-191). Nel disegno sono però evidenti alcuni tratti d'origine costantiniana, come l'arrotondamento dei contorni del volto e delle braccia, le proporzioni leggermente massicce delle membra , caratteristica evidente nella Diana a riposo, le cui grosse braccia sono maldestramente collegate al tronco e restano rigide come quelle di un fantoccio . Lo spazio è costruito come se le figure si muovessero su un palcoscenico, con una scenografia composta da alberi e arbusti che spuntano da una sorta di nebbia, evitando in questo modo che si crei l'impressione di piani successivi semplicemente sovrapposti. In primo piano la vegetazione è disposta in modo da riempire gli spazi vuoti. Questa concezione spaziale si ritrova nella decorazione pittorica di una domus rinvenuta sotto la Farnesina ai Baullari (-
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37) databile alla seconda metà del IV secolo. Una forte parentela stilistica accomuna l'anatra della domus Farnesina alle colombe e agli uccelli acquatici di via Livenza: in entrambi i casi i volumi sono costruiti con una tecnica 'impressionista'; tuttavia la tavolozza delle sfumature del Museo Barracco è meno estesa, meno contrastante rispetto a quella di via Livenza. Nella scena marina una sottile fascia azzurra sottolinea la parte immersa della barca accentuandone il realismo, stratagemma che ritroviamo nelle scene acquatiche del nostro ipogeo. Nel frammento di una scena di caccia il pittore della Farnesina, molto sensibile ali'horror vacui come il suo collega di via Livenza, traccia con piccoli tocchi rapidi una moltitudine di cespugli che situa dove può tra le zampe degli animali. La maniera 'impressionista' ricca di lumeggiature, caratteristica di via Livenza, si ritrova anche nell' arcosolium di Vibia, datato alla seconda metà del IV secolo (Ferrua 1971, 7-62; Mielsch 1978, 187) e in quello 'di Veneranda' e Petronilla, nella catacomba di Domitilla, datato poco dopo la metà del secolo (Fiocchi Nicolai et al. 1998, 129;----> 17), nelle pitture del cubiculus detto 'delle pecorelle' della catacomba di Callisto, anch'esse attribuite alla metà del secolo. Il confronto con la rappresentazione del Buon Pastore del cubicolo è particolarmente interessante perché riprende sia lo stile 'a macchie' che le soluzioni spaziali e prospettiche di via Livenza. La composizione è costruita in maniera simmetrica come nel pannello della Diana cacciatrice, e vi si ritrova il medesimo horror vacui. Le pitture di via Livenza trovano dunque numerosi confronti con opere realizzate verso la metà del IV secolo, permettendoci di azzardare una datazione verso il 350, corroborata dai dati forniti dall'analisi della muratura. Lo stato estremamente frammentario dei mosaici non permette di
formulare ipotesi convincenti sulla loro datazione. Osservando il frammento di mantello color porpora del personaggio inginocchiato, sembrerebbe che la stessa maniera 'impressionistica' degli affreschi abbia guidato la mano del pictor musivarius. Le variazioni di luce sulle pieghe del drappeggio sono espresse da zone bianche corrispondenti alle lumeggiature degli affreschi, mentre strisce arancioni molto luminose e zone brune indicano le ombre. Lo sfumato è costruito per accostamento di colori contrastanti e si distanzia dalla tecnica puramente tonale del periodo costantiniano. Questa caratteristica fa pensare che i mosaici siano stati realizzati nello stesso torno di anni degli affreschi.
Interventi conservativi e restauri 1990 ca.: la rottura di una canalizzazione del soprastante edificio ha comportato la verifica dello stato di conservazione degli affreschi e la loro conseguente pulitura.
Fonti e descrizioni SAR, Archivio Storico, Giornali di Scavo, val. 8, 3972-3973 .
Bibliografia Paribeni 1923a, 380-396; Paribeni 1924, 45-52; Wilpert 1923, 5782; Ducati 1938, 366; Cecchelli 1944, 201-208; Rumpf 1957, 23-24; Borda 1958, 353; s.a. 1964, II-C, nn. 50-51 ; Dorigo 1966, 210-212; Levi 1971 , I , 565; Usai 1972, 363 -412; Coarelli 1974 [2002], 250251; Mielsch 1978, 179-191 ; Della Portella 1999, 206-211.
Jérome Croisier
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35. LE PITTURE DELL'IPOGEO DI TREBIO GIUSTO Metà del IV secolo
L'ipogeo fu scoperto nel 1909, in corrispondenza dell'attuale via Mantellini, al secondo miglio della via Latina (Kanzler 1911). Il monumento fu , poi, obliterato e ispezionato solo negli anni '70 del secolo scorso (Petrassi 197 6), per essere infine recuperato dalla Soprintendenza Archeologica di Roma (L'ipogeo di Trebio Giusto 2004). La camera sepolcrale, oggi completamente restaurata, è interessata da una decorazione ad affresco, che si distende nelle pareti e nella volta a botte dell'ambiente, dalla pianta perfettamente quadrata. Al centro della volta, completamente dealbata, si sistema un clipeo, definito da una doppia linea e da un kymathion di colore rosso, verso cui si muovono motivi decorativi in verde di tipo vegetale con organizzazione a cespuglio [l]. Il clipeo è campito dalla figura di un pastore con corta tunica cinta sotto ai fianchi, la siringa nella mano destra e il pedum nella sinistra; veste un 'alicula di color ocra scuro e calza i calcei stretti dalle /ascie crurales; ai suoi lati si dispongono, in organizzazione simmetrica, due arbusti ed una coppia di ovini. La parete di fondo è interessata da tre grandi figurazioni disposte in maniera assiale e, segnatamente, una nella lunetta dell'unico arcosolio, che si apre al centro, una nel soprarco ed una nello zoccolo [2]. Nella lunetta si scorge l'immagine di un personaggio seduto su uno scranno con un codex aperto tra le mani, di cui sono evidenziati i sigilli sciolti. L'uomo è vestito di lunga tunica color ocra, decorata da quattro grandi orbiculi in corrispondenza degli orli e delle spalle, mentre una doppia clavatura segna il bordo delle maniche. Tutti questi elementi sono resi in colore bruno. Il volto del personaggio è incorniciato da una corta capigliatura aderente al capo e piuttosto mqssa; una corta peluria interessa le tempie e l'ovale del viso; le orecchie sono sporgenti e i tratti interni del viso sono sottolineati da lumeggiature di color bianco deciso, aggiunte in parte, come sovraccolore. Intorno alla figura si dispongono, in maniera geometrica e illusionistica, sette strumenti pertinenti all'attività dello scriba o dell'uomo di cultura; a sinistra, si riconoscono una capsa parallelepipeda per codici con cinghia sciolta, un codex aperto con i sigilli sciolti, una theca per gli stili appesa ad un chiodo, una doppia tabula inscripta con profilatura e tre piccoli orbicoli; a destra, si dispongono una theca appesa, una cista aperta colma di rotoli, un codex aperto. Tutti questi elementi sono resi in ocra, con sottolineature e caratterizzazioni in rosso e nero. La figurazione si svolge nella parte alta della lunetta, per lasciare spazio, in basso, ad un loculo definito da una linea rossa. In corrispondenza dell'arco della lunetta si svolge il testo funerario relativo al defunto Trebius Iustus User. 1). L'intradosso è interessato da un motivo a festoni incrociati e fiori esplosi. L'arcosolio è definito da una fascia rossa, mentre ai lati sono disposti due pannelli rettangolari, sempre disegnati in rosso. Nella zona superiore, si sviluppa una megalografia costituita da tre personaggi, dei quali quello centrale maschile è seduto su uno strano sedile senza la parte inferiore, ma provvisto di suppedaneo con quattro elementi di appoggio. Il personaggio veste una tunica bianca lunga sino al ginocchio con grandi segmenta, orbicoli e bordo dalla decorazione interna di colore scuro. Il viso mostra molte analogie con quello dello scriba, anche se si scorgono meglio gli occhi maggiorati, con pupille scure, piccole e fisse, il naso e le sopracciglia resi con segni netti e scuri, lumeggiature chiare sulla fronte e sulle guance. Ai due lati, un uomo e Lina donna , forse i genitori di Trebio,
sostengono per le quattro estremità una tovaglia bianca con i bordi decorati da grandi applicazioni nere e con sfrangiatura di colore scuro; ai quattro angoli altrettanti orbicoli scuri presentano una decorazione interna chiara. Al centro, in colore rosso vivace, alcuni oggetti preziosi sono offerti al defunto; da sinistra verso destra si riconoscono: due armille lisce, un grande anello con il castone circolare, costolato e decorazione a sigillo, un piccolo vaso biansato con base a calice ed alcune monete. A sinistra, la figura femminile veste una lunga ed ampia dalmatica di color ocra intenso, con ampie bande longitudinali color porpora provviste di decorazione interna. La donna presenta un capo piccolo e sproporzionato rispetto al corpo, un volto anonimo ed un'acconciatura che comporta capelli mossi, di media lunghezza, non raccolti. Il personaggio posto a sinistra veste una corta tunica chiara con segmenta e manto corto di color ocra scuro. Il volto dell'uomo, con corta barba, acconciatura aderente al capo, ovale regolare, rientra nella fisiognomica di famiglia e lascia individuare nel personaggio il padre di Trebius. Nello zoccolo, si sviluppa una teoria di personaggi in posizione frontale, dei quali il centrale presenta le caratteristiche fisionomiche del personaggio intronizzato e dello scriba. Ai lati del protagonista si dispongono cinque uomini: due a sinistra e tre a destra. Tutti vestono corte tuniche esomidi o manicate, tipiche dei lavoratori della campagna, ma con clavature multiple longitudinali e ai polsi. Ai loro piedi sono situati quattro grandi cesti colmi di verdura, mentre in mano hanno attrezzi agricoli. Il personaggio centrale si atteggia ad impartire ordini e veste una tunica ocra più lunga e manicata percorsa da vari clavi scuri, con orbicoli decorati. Il volto - come si è detto - è simile a quello degli altri protagonisti delle altre due scene, ma è meglio giudicabile: l'ovale è regolare, la barba rada e appena mossa, il naso dritto , le orecchie sporgenti, gli occhi grandi e fissi, i capelli corti e appena mossi. I villici propongono fisionomie anonime e tratti interni calligrafici. Con la mano destra Trebio Giusto indica o controlla i prodotti, portando il braccio ali' altezza della vita, mentre sul suo capo, in lettere scure, appare l'augurio di pace e il suo nomignolo: Asellae piae z(eses) (ICUR-NS, VI 15845); altre iscrizioni, che dovevano riferire i nomi dei singoli contadini, sono state cancellate, forse in antico, ma ancora si legge, su uno di essi [Vallerius (ibidem). Nello spazio inferiore della parete sinistra, sopra ad una fila di tre loculi, si sviluppa una complessa scena di costruzione, con cinque muratori al lavoro, sistemati attorno ad una impalcatura, che serve per innalzare un muro [3] . Un muratore sale su una scala e porta, sulla spalla sinistra, un recipiente pieno di malte, da cui esce uno strumento, forse una cazzuola; un secondo che, come tutti, veste una tunichetta cinta con doppio clavio scuro, pare barbato e sistemato su un'impalcatura, mentre stende la malta su di una fila di mattoni; un terzo operario replica l'operazione da dietro il muro, con lo stesso arnese; a terra, un muratore si avvicina ad una scala, portando sulla spalla sinistra un secchio colmo di mattoni; un altro personaggio, a destra, con una sorta di zappa, muove la terra, mentre a terra si intravede un grande recipiente con manici e piedi, forse per preparare la malta. Sullo sfondo, in sottotono, si scorge la sagoma di una villa in costruzione. Nella parete destra due personaggi, di grandi proporzioni, in tuniche corte cinte, si dirìgono uno verso l'altro [4]. Quello di sinistra indossa anche un'alicula di colore bruno con frangia rada e corta e tiene, nella mano sinistra, a mo ' di bastone, una virga
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per misurare e progettare, ossia un multiplo di piede romano , strumento che designa solitamente un architetto. Il personaggio è barbato e presenta acconciatura e particolarità fisiognomiche assai simili a quelle di Trebius senior, rappresentato nella scena di offerta. L'altro personaggio, da identificare con il muratore situato nell'impalcatura, indossa una tunichetta clavata da lavoro, mentre con la mano destra solleva un piede romano. Si legge, in lettere scure, la subscriptio: Generosus magister. Sullo sfondo si riconosce la sagoma della villa rustica in un ambiente ameno.
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I due lati della parete di ingresso sono decorati con scene simili: in quella di sinistra, un asino trasporta mattoni su un basto triangolare sistemato su una base rettangolare. L'animale è condotto da un personaggio in tunichetta cinta e orbicolata e alicula provvista di frangia , con una corta frusta nella mano sinistra, definito dalla didascalia, oggi evanida, ma forse riferibile ad un Fortunatus, mentre l'animale propone la scritta Leporius (ICUR-NS, VI 15847). A poca distanza dal carico, si nota una corona sormontata da un ramo di palma. Segni rosati diagonali vogliono rendere la
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marmoridea, forse concepita prima di realizzare il vivace quadretto. Nell'altra figurazione troviamo le stesse peculiarità iconografiche, con queste varianti: è assente la corona con palma, il personaggio è qui barbato, la tunichetta non presenta orbiculi, ma sei clavature di colore ocra, indossa calzature sino al ginocchio. Nella zona inferiore è rappresentata una donna, che veste una tunica manicata da lavoro, cinta sotto al petto, con le mani levate, nell'atto di sostenere un ramoscello [5]. Sulla parete d 'ingresso sono presenti due personaggi di grandi dimensioni, che portano grandi cesti di erbaggi, muovendosi verso il centro, su uno sfondo ameno. Quello di sinistra indossa una tunica esomide clavata e orbicolata e tiene tra le braccia una sorta di cornucopia. Quello di destra, in tunichetta bianca con linee decorative in nero, ha sulle spalle un pesante cesto parallelepipedo di vimini colmo di verdura. Nei piedritti dell'arco di accesso, due canefori, posati su una losanga profilata, danno avvio ad un pesante racemo.
Iscrizioni 1- Trebius lustus et Horonatia Saeverina filio maerenti fecerunt I
Trebio fusto signo Ase/lus I qui vixit annos XXI I meses VJIIJ diis
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ICUR-NS, VI 15844 2 - Asellae piae z(eses)
ICUR-NS, VI 15845 3 - [Val]erius
ICUR-NS, VI 15845 4 - Generosus magister ICUR-NS , VI 15846 5 - Leporius ICUR-NS, VI 15847
Note critiche Il Marucchi ritenne l'ipogeo proprietà di una setta gnostica (Marucchi 1911); in seguito, pur ridimensionando le sue posizioni, volle riferirlo ad una setta con usi sincretistici e, specialmente, di tipo egizio (Marucchi 1913 ; Id. 1917), mentre il Wilpert (Wilpert 1913 ) e il Kirsch (Kirsch 1912) corressero questa teoria, senza però allontanarsi del tutto dall'idea della componente eretica; infine, il Cecchelli (Cecchelli 1944, 135-146), più attendibilmente, escluse la componente eretica. Questo dibattito, oggi, non ha più ragione di essere, in quanto l'uso di rappresentare situazioni della vita quotidiana del defunto , con riguardo speciale alle attività, che lo avevano reso amabile nell'ambito del nucleo familiare, non è raro nella concezione figurativa funeraria di piena età costantiniana (Kollwitz 1969). Nei vari quadri, non sarà difficile riconoscere l'intenzione di tradurre in figura le varie attitudini del giovane Trebio, nell'ambito delle attività del padre e il contributo che egli recava alla conduzione economica della famiglia. Il senso angustamente familiare, che informa , in maniera nostalgica, la composizione del gruppo, attraverso le çl.idascalie, che definiscono per nome uomini e animali, si respira nell'intero programma decorativo.
Le scene dipinte nella parete di fondo servono a fornire un immaginario fortemente autorappresentativo del defunto , ora protagonista della scena di offerta, ora raffinato produttore di cultura, ora energico sovrintendente delle attività agricole. A quest'ultimo riguardo, le altre scene 'fotografano' le fasi salienti della costruzione della villa rustica e le attività che vi si svolgevano, dichiarando un'iconografia professionale o, ancor meglio, attitudinale. La visione complessiva del programma decorativo esprime una intenzione semantica complessa, dove, appunto, si supera la mera intenzione professionale alla ricerca di un più sofisticato livello attitudinale e di una celebrazione della famiglia, delle sue attività e delle ricchezze, che da essa erano provenienti. Relativamente alla cronologia dell'ipogeo, anche alla luce delle più recenti edizioni (Casalone 1962; Petrassi 1976; Weitzmann 1979, 276-278; Biscanti 2004c), non è difficile collocare il tutto nel pieno IV secolo e, segnatamente, negli anni '50, quando tutti i caratteri dell'arte costantiniana si definiscono, senza, comunque, poter rintracciare in ogni figurazione la coerenza formale e l'armonia compositiva dello 'stile bello'. D'altra parte, la scelta megalografica delle rappresentazioni non lascia apprezzare lo studio delle proporzioni e dei volumi. L'arte popolare degli anni centrali del secolo è, comunque, ravvisabile nelle scenette di trasporto, in quella di costruzione, nel ritorno dalla campagna, mentre altri tratti tipici della cultura figurativa costantiniana si riconoscono un po' in tutte le scene, primi tra tutti i forti e potenti volumi anatomici di tradizione e invenzione romana, il trattamento delle grandi superfici, l'aura simbolica che informa il gruppo ternario dell'offerta, la concezione illusiva, direi irreale, che connota la scena di Trebio-scriba, !"ellenismo di ritorno' che attraversa le scene agricole e l'emblema pastorale, la vena popolare, che anima le scene di costruzione e trasporto.
Interventi conservativi e restauri 1996: il complesso pittorico è stato restaurato dalla G . B. Art e Giovanna Mangia Bonella sotto la direzione di Elio Paparatti (Paparatti 2004) .
Bibliografia Kanzler 1911; Marucchi 1911; Kirsch 1912; Marucchi 1913b; Wilpert 1913; Marucchi 1917 ; Cecchelli 1944; Casalone 1962 ; Kollwitz 1969; Petrassi 1976; Weitzmann 1979; Biscanti 2004c; Paparatti 2004; L'ipogeo di Trebio Giusto 2004. Fabrizio Biscanti
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36. LA DECORAZIONE DEGLI EDIFICI DI VIA DEL MARE SOTTO LA CHIESA DI SANT' ANDREA IN VINCIS
Nel 1929, nell'area di fronte al Teatro di Marcello, i lavori di isolamento del lato occidentale del Colle Capitolino comportarono la demolizione di fabbricati storici per far posto ali' ampia via del Mare. Sotto la cinquecentesca chiesa di Sant' Andrea in Vincis fu messo in luce un isolato di edifici caratterizzato da varie fasi costruttive di età imperiale. Tali edifici occupavano uno spazio triangolare tra il colle, la via Montanara - ossia l'antico vicus Iuga rius che saliva al Campidoglio - e l'ortogonale via Tor de' Specchi, che in età fascista prese il nome di via del Mare e che oggi è la via del Teatro di Marcello. Gli edifici non furono esplorati completamente, ma Colini riconobbe nelle strutture due complessi principali, forse in rapporto funzionale tra loro, entrambi pertinenti all'ultima fase costruttiva, ascrivibile al IV secolo. Dalla documentazione del 1930 non emerge chiaramente se gli edifici ai piedi del Colle Capitolino avessero una destinazione pubblica, o se, come appare più convincente, si trattasse di una vasta dimora privata dotata di balneum con ambienti riscaldati (Colini 1930a), decorata da un ciclo di pitture eseguite in due fasi differenti. Della domus furono messi in luce alcuni vani articolati intorno ad un atrio rettangolare; una stanza del settore est era decorata con una figura di orante [1, a sinistra] , da cui la denominazione casa 'cristiana' assegnata ali'edificio dagli scopritori e dai loro contemporanei. Nella stanza adiacente emersero i resti di un palinsesto pittorico, ancora
36a. L'ORANTE DELLA CASA 'CRISTIANA' Prima metà del IV secolo
Nella stanza quadrangolare del settore orientale della casa ' cristiana' , corrispondente all 'ambiente I indicato nella pianta di Colini, sotto uno strato di scialbo (Calci 2000 ), emerse un dipinto molto frammentario rappresentante una figura femminile [1 , a sinistra] , vestita di una bianca dalmatica clavata, col braccio sinistro, l'unico conservato, aperto nella posizione expansis manibus, quindi nell'atteggiamento dell'orante. La figura era inserita in un riquadro rettangolare dal fondo bianco, su una parete divisa da scomparti geometrici rosso-verdi (Colini 1930a). La foto di scorcio che documenta il lacerto non costituisce un valido aiuto alla lettura di ulteriori dettagli. Accanto all'orante Colini identificò anche un cristogramma (ibidem, nota 1, fig. 45 , tav. LXXXII.2; Martorelli 1998, 577) .
Note critiche La fase decorativa più antica della domus , è caratterizzata dalla presenza dell'orante, figura molto diffusa in ambito romano e felicemente confrontabile con l'orante raffigurata in una stanza della domus sotto la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (- 28 ). I confronti iconografici e la tipologia della decorazione con motivi geometrici rosso-verdi fanno ipotizzare una datazione entro la prima metà del IV secolo (Ottaviani 1993a; Martorelli 1998, 580583 ). Taluni hanno identificato, nell'ambiente I, l'oratorio privato della famiglia cui apparteneva la casa (Martorelli 1998; Cerrito
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oggi in situ, che nello strato più recente rappresenta una figura virile vestita con un mantello [2]. A destra di tale personaggio sono resti pittorici dello strato precedente, oggi quasi invisibili, nei quali si scorgevano le teste di due figure di dimensioni minori, stilisticamente assegnabili alla medesima fase dell'orante (ibidem , 64 ) [2, a destra in basso]. Adiacente alla casa 'cristiana' fu scoperto il lato settentrionale di un grande edificio, anch'esso decorato con pitture e interpretato come balneum (Muiioz 1930, fig . 48). L'impianto termale era articolato in una serie di ambienti. Il più grande di essi conservava un pavimento a mosaico (Colini 1930a, taw. LXXXVIII-LXXXIX) mentre l'ampio vano contiguo, suddiviso da due arcani nella parete di fondo (Muiioz 1930, fig. 48), presentava nella nicchia centrale la scena della liberazione di Andromeda da parte di Perseo [3 , 5] e nella nicchia vicina i frammenti delle gambe di una figura seduta (Colini 1930a, 75 ). Secondo la ricostruzione degli scopritori, l'ambiente comprendeva altre tre piccole absidi sotto la lunetta centrale, anch 'esse decorate con scene figurate , perdute ma documentate da un acquerello [6], e un'ampia vasca rettangolare rivestita di cocciopesto. Nelle altre stanze del complesso si rinvennero vasche e cisterne, strutture che portarono a identificare la funzione termale dell'edificio, da mettere in rapporto con l'adiacente domus.
2002, 406), ma è opportuno ricordare che la figura di orante nell'arte romana era spesso utilizzata come personificazione della pietas (Ottaviani 1993, 50 nota 21; Cerrito 2002, 409). L'isolamento della figura ha indotto a ritenerla declinata secondo un significato
cristiano (Bisconti 1980) ma la presenza nello stesso edificio, seppure in un ambiente diverso, di pitture a soggetto mitologico, lasciano dubbiosi sull'interpretazione iconografica dell'orante e sulla funzione cristiana dell'ambiente.
36b. LA FIGURA VIRILE CON MANTELLO DELLA CASA 'CRISTIANA' Seconda metà del IV secolo
Nell'ambiente attiguo alla stanza dell'orante (ambiente H della domus), attualmente accessibile attraverso un tombino di via del Teatro di Marcello (Calci 2000), è ancora oggi visibile una figura virile di profilo rivolta a destra, vestita con un mantello allacciato sul petto, dal torace verosimilmente nudo , reso con una certa definizione anatomica dei muscoli [2]. il volto sbarbato è delineato da tratti essenziali neri, la bocca è ottenuta da un'unica riga rivolta all'ingiù; i capelli sono ricci e corti. La mano destra è alzata con l'indice puntato, mentre la sinistra regge un oggetto a forma di arco; la gamba sinistra è piegata nell'atto del movimento, lo sfondo è neutro e chiaro. Una vasta lacuna interessa la parte bassa della decorazione.
Note critiche il pannello con figura virile appartiene alla seconda fase pittorica della casa 'cristiana'. La figura faceva parte, senz'altro, di un ciclo narrativo più vasto oggi perduto. Essa è colta nell'atto si salire, forse su di un piccolo carro; l'inclinazione del mantello, sebbene resa con una certa rigidità, vuole suggerire forse questo movimento. Stilisticamente, la pittura caratterizzata da contorni molto marcati, dalla mancanza di chiaroscuro, dall 'effetto bidimensionale dell'insieme, meglio documentata nelle foto in bianco e nero del 1930, è cronologicamente collocabile nell 'avanzato IV secolo e appartiene alla stessa fase decorativa della scena con Perseo e Andromeda, dipinta sulla lunetta dell'attiguo balneum.
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36c. PERSEO E ANDROMEDA Seconda metà del IV secolo
Di tutta la decorazione del complesso di edifici in via del Mare fu 'salvata' la sola lunetta col mito di Perseo, staccata e depositata nell'Antiquarium Comunale (inv. 4478 , altezza 132 centimetri, lunghezza 221 centimetri) [4]. Andromeda, figlia del re di Etiopia Cefeo, che per placare le ire di Poseidone aveva accettato di sacrificare la giovane incatenandola ad una roccia in riva al mare in preda a mostri marini, è dipinta in piedi sulla sinistra. Vestita solo di un drappo bruno, che la copre dai fianchi in giù, indossa numerosi bracciali e una vistosa collana; alle sue spalle è tratteggiata la roccia sulla quale restano ancorate le catene, ai suoi piedi un cesto di vimini e la testa del mostro che la teneva prigioniera, esanime. La donna è rivolta a sinistra verso il suo salvato.re; con la mano destra si tiene la veste in vita mentre tutto il braccio sinistro è proteso verso Perseo. Le lacune che
interessano la parte inferiore dell'affresco rendono poco leggibile la testa del mostro e la caduta d'intonaco nella zona centrale compromette a sua volta la lettura del volto di Andromeda. Sulla destra è rappresentato Perseo, dal volto triangolare e dai grandi occhi circolari. I suoi lineamenti sono disegnati con pennellate larghe e scure. Indossa il berretto frigio , che ne indica l'origine orientale, legata alla città di Argo; sopra il busto scoperto ha un mantello che copre la spalla sinistra, fermato da una fibbia su quella destra; una tunica bruna è allacciata sui fianchi. La mano sinistra impugna la falce e contemporaneamente la testa di Medusa, appena visibile a causa del cattivo stato di conservazione, mentre con la destra sostiene il braccio di Andromeda; la gamba destra è piegata per appoggiarsi sulla roccia e avvicinarsi alla giovane prigioniera. Le due figure disposte in posizione quasi frontale,
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sono rivolte l'una verso l'altra; innaturale appare soprattutto la posa di Perseo, che dovrebbe comunicare l'atto dinamico di liberare la fanciulla , e sembra al contrario seduto e statico. I piedi poggiano su una fascia di terreno scuro, ben visibile nelle foto del 1929 [3] ma oggi quasi scomparsa, per un 'estesa lacuna lungo il margine inferiore. Lo sfondo è animato sul lato sinistro dalla presenza della roccia, rappresentata con ampi segni circolari di colore rosso scuro, che nella loro astrattezza sembrano rimandare ad una soffice nuvola piuttosto che ad una parete di pietra. La lunetta è chiusa da una cornice a due fasce accostate , di colore rosso scuro e nero [4]. Nel sottarco della lunetta tre strati di intonaco sovrapposti documentano le principali fasi di vita del complesso: lo strato più esterno, coevo all'affresco della lunetta, si conserva nell'intradosso dell 'arco ed è decorato in stucco con un motivo a squame incise di colore rosso; il secondo si estende nella parte centrale, dove su uno sfondo chiaro, è una testa di medusa associata a pavoni; lo strato più interno presenta dei riquadri policromi con rosette (Colini 193 Oa; Mielsch 197 6a).
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nell'atto di suonare la lira (Pittura romana 2002 , 378-379;---> 18). Il pannello appartiene formalmente alla stessa matrice di quelle pitture, provenienti dal vicino ninfeo del Vicus Iugarius, che documentano la vitalità di un altro soggetto iconografico pagano quale la Dea Roma con le province offerenti (---> 38).
Interventi conservativi e restauri La documentazione grafica e fotografica della lunetta con Perseo ed Andromeda, eseguita al momento della scoperta, mostra la parte inferiore dell'affresco in situ già molto rovinata ma ancora visibile [3]. Durante lo stacco, andò parzialmente distrutta , a partire dall'altezza dei fianchi dei due personaggi mitologici e la superficie pittorica fu integrata con la tecnica del puntinato ad acquerello. Diversamente, la lacuna che invade anche il volto di Andromeda era già presente al momento della scoperta.
Note critiche La fase decorativa riferibile alla seconda metà del IV secolo è ben rappresentata dalla decorazione a tema mitologico, tradizionale riproposizione di un soggetto antico e consolidato, che testimonia la tenacia di un modello iconografico, a questa data prossimo alla scomparsa. La lunetta con Perseo e Andromeda è stata definita «l'ultima decorazione a carattere pagano conosciuta nell'antica capitale imperiale» (Ling 1991, 196). Stilisticamente la rappresentazione appare schematica, con un limitato e ingenuo uso del chiaroscuro; contorni nerÌ, pesanti e marcati, delineano le figure, che appaiono prive di volume. Inoltre, l'artefice dell'affresco sembra aver parzialmente confuso l'iconografia di Perseo con quella di Orfeo, che in epoca tardoantica ebbe maggiore fortuna , poiché il suo mito era legato al mondo degli inferi, e veni'{a rappresentato seduto con il cappello frigio sul capo, come nell'arcosolio della Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro,
Documentazione visiva Maria Barasso, acquerello (1929), Ricostruzione del!' ambiente del balneum con vasca e parete di/onda occupata dalla nicchia dipinta con la liberazione di A ndromeda (vedi frontespizio in Mufioz 1930); fotografie (1929) , AFC, Album Demolizioni per la Vzi:z del Mare, 5.1 (vedi Mufioz 1930, tavv. LXXXI.2 , LXXXII.2, XCIV, XCV).
Bibliografia Colini 1930a; Mufioz 1930; Mielsch 1976; Biscanti 1980; Ling 1991, 196-197, fig. 214; Ottaviani 1993a; Martorelli 1998; Salvetti 1998; Salvetti 2000; Calci 2000; Pittura romana 2002 ; Cerrito 2002.
Francesca Consoli
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37. SCENE VENATORIE E MARINE NELLA DOMUS SOTTO LA FARNESINA AI BAULLARI Seconda metà del IV secolo
Il palazzetto della Farnesina ai Baullari fu acquisito dal Comune di Roma con l'apertura di Corso Vittorio e restaurato dall'architetto Enrico Guj, che durante lo sterro davanti all'ingresso, nel 1899, rinvenne delle strutture romane quattro metri sotto il piano stradale (Gatti 1899, 257; Tomassetti 1900, 333). Parte delle murature, forse pertinenti ad una domus, apriva su un ambiente porticato, un peristilio, dove emersero brani di dipinti sulle superfici interne di due intercolumni dei lati sud e ovest [5, 6]. Queste pitture, che ottennero una prima forma di musealizzazione nella 'cripta' fatta edificare da Guj per accogliere i reperti dello scavo, sopravvivono in soli quattro frammenti, staccati nel 1973 a causa dell'umidità, sottoposti ad un restauro e infine esposti nella sala didattica del Museo Barracco a partire dal 1991 (Mielsch 1976a, 49; Cimino-Le Pera 1995). Oggi essi sono confinati in un ambiente di servizio, in attesa di collocazione consona al termine del restauro del museo. I quattro frammenti hanno dimensioni e soggetti diversi ma sono tutti incorniciati da una larga fascia rossa con un sottile doppio profilo nero e bianco: il più grande (2,06x0,99 metri) proviene dal lato sud del cortile, ha una lacuna in basso a sinistra ed è mutilo della zona centrale e di quella superiore; illustra un paesaggio acquatico con al centro due barche, sulle quali si trovano sei eroti impegnati in attività ricreative e in basso a destra, in primo piano, due grandi pesci e una biscia d'acqua. Dei quattro putti sulla barca di sinistra, due sono sdraiati a poppa, uno è in piedi al centro e sembra suonare uno strumento e uno è a prua che danza; sulla barca di destra, un putto rema e l'altro tiene un oggetto di forma piatta [1]; il secondo frammento , proveniente dalla transenna adiacente a quella da cui viene il primo, si sviluppa in verticale (0,65x0,50 metri) ed è lacunoso nella parte superiore e lungo le
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fasce di contorno; si tratta di un quadretto palustre, con un 'anatra fra sottili filamenti di piante acquatiche che tiene una biscia nel becco [2]; gli altri due, ubicati all'origine sul lato ovest del peristilio, sono una scena di caccia alla tigre, mancante della porzione centrale e di quasi tutta quella destra [3], e una di caccia al cervo, che ha perduto urra porzione al centro e parte della zona alta [4]. Nella prima caccia si distingue un cavallo, in origine montato da un cavaliere oggi quasi scomparso, che insegue una fiera, riconoscibile dalla lunga coda e da forma e posa delle zampe posteriori, oblunghe e artigliate; nella seconda si vedono la metà inferiore di un cavallo al galoppo e staffe e gambe di un cacciatore che insegue un cervo in fuga , frammentario ma riconoscibile. Queste scene misurano circa metri 1,70xl ,00 e la loro altezza corrisponde a quella originaria dei due pannelli del lato sud. I dipinti si presentano estesamente integrati 'a rigatino', soprattutto quelli provenienti dal lato sud, mentre la superficie delle scene di caccia ha perduto molta pellicola pittorica e appare abrasa; tutte le superfici sono scabre, forse a causa dello stacco del 1973 , con macchie biancastre dovute probabilmente all'umidità e all'applicazione di protettivi nel corso dei restauri subiti.
Note critiche La planimetria e le fasi edilizie del complesso archeologico sotto il Museo Barracco sono state definitivamente precisate solo dopo il 1989, quando la Soprintendenza Archeologica di Roma promosse un restauro e un rilievo e si poté stabilire che le pitture nello spazio porticato appartenevano alle murature della seconda fase, databile al pontificato di papa Damaso (366-384; CiminoLe Pera 1995 , 98, 100).
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I soggetti acquatici del lato sud si inscrivono nella tradizione ellenistica del paesaggio marino e palustre, che si collega a sua volta agli ambienti nilotici di ascendenza alessandrina. Questo tema ha avuto ampia diffusione geografica, sviluppo cronologico e applicazione in opere di qualità e tecnica diverse e si esprime perlopiù attraverso quadri di genere dal profilo compositivo variabile, che quindi accolgono eroti gioiosi, adulti senza veli, animali e piante lacustri, pesci verosimiglianti o fantastici, imbarcazioni da pesca, battelli di gala o speroni rocciosi, panorami ameni e bucolici in misure e rapporti differenti. Tali apparati ricreativi sono prediletti per abbellire superfici di fontane, ninfei, terme all'aperto, cortili e peristili di case e si datano a partire dal I secolo d.C. Lo ricordano i mosaici tunisini sulle fontane della Maison de la Cascade ad Utica e di una domus cartaginese presso l'Odeon, entrambi di II secolo, con pesci e pescatori, anatre e vegetazione (Sear 1977, 71 , 77); oppure i mosaici pompeiani di I secolo sulle fontane della casa dell 'O rso e della Fontana alle colonne, in cui la Venere o la figura virile in proscenio sono circondati da uccelli e creature marine in formazione sparsa (Sear 1977, 163 , 166) ; sempre a Pompei, alla tradizione del paesaggio marino appartengono i dipinti nel ninfeo della Casa del Centenario, dove la fascia mediana delle pareti è un lungo corso d'acqua abitato (Pittura romana 2002 , 239-240). Roma offre testimonianze dall'età Severiana al IV secolo. Alla prima si assegnano i dipinti dalla lunetta nel!' ex giardino zoologico, con anatre molto somiglianti a quella dei Baullari: una delle anatre sembra portare anch'essa un serpentello nel becco (Romana Pictura 1998, 176, 290-291); al II secolo avanzato si data la scena marina con figure nude su barche e varietà di pesci dagli ambienti del porto fluviale di San Paolo presso Pietra Papa, ora al Museo Nazionale Romano (Romana Pictura 1998, 160, 285 ); della seconda
metà del III secolo sono gli eroti su barche che circondano il Ratto di Proserpina (o Venere marina), nel cortile ninfeo della domus sotto i Santi Giovanni e Paolo. È interessante la concentrazione di dipinti e mosaici a tema marino-palustre intorno alla metà del IV secolo, come le decorazioni sulla cupola di Santa Costanza (1d), sulla parete absidale dell'oratorio del Monte della Giustizia (- 5) e sullo zoccolo della parete occidentale dell'ipogeo di via Livenza (- 34) . L'ultima, in particolare, deve ritenersi il termine di confronto più prossimo e utile per contestualizzare i dipinti della Farnesina ai Baullari nel panorama pittorico, profano e tardoantico a Roma. In comune sono i soggetti, eroti in ambiente marino e anatre, seppure a via Livenza lavorati con una libertà di tratto e un gioco luministico più spinti, e in comune è anche la loro destinazione legata ad una superficie di risulta. È questo un aspetto determinante per inquadrare tale tipologia di immagini, quasi sempre destinata a posizioni di contorno, di puro ornamento, che abbellisce architetture 'acquatiche' e ha una funzione illusoria e ricreativa, di richiamo ad una dimensione contemporaneamente naturale e mitologica, simile nella finalità alle pitture da giardino che troviamo nelle case romane a partire dal III stile pompeiano (Romana Pictura 1998, 275 ). Questo tema ha poi una straordinaria duttilità d'impiego. Esso si affaccia su sarcofagi, come l'esempio con eroti e Psychai su barche al Museo Nazionale Romano (III secolo), su metalli, come la coppa argentea nel Civico Museo Archeologico di Milano (fine II-prima metà III secolo) o su tessuti, come il panno copto da Antinoe con fanciulli su barche che giocano tra foglie acquatiche (V secolo), oggi al Louvre, a proposito del quale Bianchi Bandinelli afferma che «il motivo decorativo delle foglie e delle anatre, i riflessi dell'acqua , sono ancora ( ... ) nella linea di derivazione da un modello ellenistico» (Bianchi Bandinelli 1978, 74). Anche i due pannelli con episodi di caccia sono propaggini di una tradizione antica, estesa e comune a civiltà artistiche distanti, ma che ebbe grande diffusione nel momento tardoantico romano . Come gli ambienti nilotici, le scene venatorie sono composizioni di elementi variabili e si prestano a decorare materiali diversi: un sarcofago ai Musei Capitolini (seconda metà del IV secolo), un vaso in vetro al Corning Museum of Glass di New York (inizi del IV secolo), una brocca in bronzo al Museo Archeologico di Berlino (seconda metà del IV secolo), tutti esposti nel 2000 alla mostra Aurea Roma (Aurea Roma 2000, 628-631 ), attestano l" elasticità' di questi soggetti e confermano, per le cacce della Farnesina ai Baullari, quanto già detto dei riquadri marino-palustri, che hanno una funzione esornativa e rigenerante. La caccia al cervo fu a lungo ritenuta un raro episodio circense, un desultor che fa correre dei cavalli (Marucchi 1900, 417; Tomassetti 1900, 334; Royo 1984 , 901), convinzione che ha trainato l'identificazione dell'edificio, data anche la sua posizione topografica prossima al circo agonale, quale porzione dello stabulum quattuor /actionum, ovvero il ricovero degli aurighi delle quattro fazioni circensi, ulteriormente confermata dalla presunta affinità di questa scena col mosaico con cavalieri nei sotterranei del vicino Palazzo Farnese (Royo 1984, 901). Fu Mielsch a individuare per primo le tracce di una rete nel!' angolo superiore destro del riquadro e, grazie al confronto col mosaico della Grande Caccia a Piazza Armerina, riconoscervi un cervo inseguito e prossimo alla cattura (Mielsch 1976a, 51; Cimino-Le Pera 1995, 111). Se assegnare le murature agli anni damasiani ha un fondamento archeologico, è opportuno ampliare la cronologia delle pitture alla seconda metà del IV secolo, poiché non è possibile stabilire se esse fossero in fase con l'architettura e perché si presentano leggermente più mature rispetto a quelle pur vicinissime di via Livenza.
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Interventi conservativi e restauri
Bibliografia
1949: vengono stanziate lire 11.000 a beneficio del restauratore Ernesto Auriemma per intervenire sui dipinti della domus (Delibera comunale del 1949, ASC pr. b. 240, in Cimino-Le Pera 1995, 101 ). 197 3: i quattro frammenti di affresco vengono staccati dalle superfici degli intercolumni e riallettati su un supporto in materiale misto di circa 3 centimetri di spessore e su un nuovo strato di intonaco, quindi restaurati da Daniela Fabro (Mielsch 1976a, 49).
Gatti 1899, 257-258; Marucchi 1900, 417-418; Tomassetti 1900, 333 -334; Pietrangeli 1960, 29; Borda 1973 , 345 ; Mielsch 1976a, 49-52 ; Mielsch 1978, 182-184; Royo 1984, 301 ; Colini 1985 , 375 ; Cimino-Le Pera 1995 , 101-113 ; Pittura Romana 2002 , 372. Geraldine Leardi
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38. LA DEA ROMA E LE PROVINCE OFFERENTI NELL'EDIFICIO DEL VICUS IUGARIUS Seconda metà del IV secolo
La 'liberazione' della rupe capitolina, iniziata negli anni Venti del Novecento sul lato meridionale del colle, venne completata nel 1943 con la distruzione degli edifici preesistenti e l'apertura di un nuovo asse stradale tra la piazza e la via della Consolazione. In quel contesto, sul retro della chiesa di Santa Maria della Consolazione, furono scoperti i tre lati di una sala con una nicchia absidata nella parete di fondo e una profonda vasca originariamente rivestita di lastre marmoree. L'ambiente faceva parte di un più ampio edificio a carattere abitativo del quale non si conosce l'articolazione complessiva; aveva, in origine, funzione di ninfeo, mentre nell'ultima fase di vita fu sottoposto a dei piccoli rifacimenti strutturali che lo trasformarono in una semplice aula rettangolare (Colini 1980-1984). Nel 1943 l'edificio si presentava privo di copertura e della facciata, ma si conservava la decorazione della nicchia absidata del fondo, della parete di sinistra e dei sottarchi; in origine l'aula doveva essere completamente affrescata. Dell'edificio e della decorazione al momento della scoperta esistono delle fotografie e la documentazione grafica - piante e acquerelli - del pittore Luigi Cartocci, tutto pubblicato solo nel 1982 (ibidem) [l]. Sulla base di questi documenti è oggi possibile fare una descrizione di quanto emerso nel 1943 e in seguito andato quasi totalmente perduto . La parete di sinistra (larghezza 2,60 metri, altezza 2,20 metri) conservava un'ampia decorazione [2, 3], che risulta completamente perduta. Entro una larga cornice a fasce policrome, due monumentali figure femminili, più grandi del vero e stanti di profilo, incedevano verso la loro sinistra, abbigliate con colorate vesti svolazzanti, ricadenti fino ai piedi. Esse recavano oggetti sulle mani, velate dallo stesso mantello che indossavano. Lo sfondo era bianco, il terreno su cui le figure poggiavano i piedi scalzi di un verde
chiaro e dal terreno si innalzavano rigogliosi cespugli. Entrambi i personaggi si conservavano solo dalla vita in giù ed erano privi del volto già al momento della scoperta. Grazie all'acquerello del 1943 è possibile apprezzare l'abbigliamento della figura di sinistra, conservata meglio dell'altra. Esso consisteva in un 'aderente tunica di colore bianco costellata da motivi floreali azzurri e una fascia di stoffa applicata con un ricamo a tralci vegetali adornava il centro della veste; sopra la tunica era un ampio pallio decorato da motivi di colore rosso e azzurro, svolazzante dietro il corpo e che copriva anche braccia e mani. Le mani velate sorreggevano un oggetto discoidale bianco con un cerchio azzurro al centro, nel quale Colini riconobbe una corona d'alloro impreziosita da una pietra. L'altra figura, sempre con le mani velate dal manto, porgeva un globo azzurro (Colini 1980-1984, 9-10, tav. Ila; Del Moro 2000a, n. 7). La parete destra non conservava alcuna decorazione, eccetto una parte della cornice a fasce policrome forse pertinente ad un riquadro . I sottarchi e i pilastri angolari dell'aula erano decorati da un motivo geometrico ripetitivo entro una fascia rossa che definiva il riquadro. Il confronto tra la foto [4] e l'acquerello [5] permette di notare una leggera licenza presa dal pittore nel riprodurre il motivo: all'interno di un intreccio di linee gialle che disegnano rombi , animati da quattro punti verdi nelle intersezioni, stanno due cerchi concentrici rossi con una sorta di motivo a 'X' al centro, mentre nell 'acquerello si notano punti policromi (Colini 1980-1984, 11, tav. IIb; Del Moro 2000a, n. 8). Quanto all'imponente decorazione venuta in luce sulla parete absidata del ninfeo (larghezza 2,60 metri, altezza 2 ,20 metri), di essa si conserva unicamente un piccolo frammento con la testa della Dea Roma, oggi nell'Antzquarium Comunale [8].
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Dalla foto [6] e dall'acquerello del 1943 [7] emerge chiaramente come lo stato di conservazione della pittura fosse già precario. Molto più della metà del riquadro , bordato anche qui da una larga fascia policroma, appariva perduto; ma, sotto un doppio festone rosso e azzurro su sfondo bianco, al centro era visibile una testa femminile coperta da un elmo dorato con pennacchio, circondata da un nimbo azzurro; del corpo sopravvivevano la spalla e l'avambraccio destro ornato da due bracciali e parte della mano sinistra alzata a tenere probabilmente la statuetta di una Vittoria. Alla destra della figura femminile si vedeva un frammento di volto di dimensioni assai ridotte rispetto all'altro, col capo parzialmente cinto da una corona di alloro ornata di gemme, anch'esso munito di nimbo azzurro e con gli occhi rivolti verso l'altra figura . Il volto femminile aveva lineamenti caratterizzati da larghe pennellate scure, grandi e profondi occhi tondi e un importante naso dal profilo classico (Colini 1980-1984 , 8-9 , tav. I; Del Moro 2000a, n. 9). La storiografia riconobbe concordemente, nel volto femminile , la raffigurazione della D ea Roma e, nell 'altra, la testa di un imperatore; inoltre, le due figure che sfilavano sulla parete sinistra dell'ambiente furono identificate , seguendo l'iconografia tradizionale, come le province offerenti (Colini 1945-1946; Cagiano de Azevedo 1954 ; Stern 1953; Colini 1980-1984). La posizione' del volto della Dea Roma sulla parete, leggermente
decentrata verso destra, e l'altezza maggiore rispetto alla figura maschile, hanno permesso di ricostruire l'originaria composizione della scena. La Dea Roma, stante o seduta su un trono con alta pedana, aveva al fianco destro un imperatore e probabilmente esponeva nella mano sinistra una statuetta di Vittoria (Colini 19801984 , 15-16). Questa ricostruzione, basata sulla tradizionale iconografia della capitale imperiale, seppur verosimile, è tuttavia destinata a rimanere priva di conferma. Al momento della scoperta gli affreschi erano nascosti da un velo di calce, che ne aveva preservato intatta la superficie pittorica. Sotto questa scialbatura, subito rimossa, emerse con sorpresa una decorazione dai colori molto vivaci; appariva chiaro che le pitture erano rimaste visibili ed esposte alle intemperie solo per un breve lasso di tempo. Secondo Colini, la decorazione, che era espressione della cultura pagana, sarebbe stata obliterata per ragioni ideologiche, presumibilmente sotto il regno di Teodosio (ibidem ). Di tutto il ciclo riportato alla luce fu staccata solamente la piccola porzione di intonaco conservata sulla parete di fondo, in seguito trasferita all'A ntiquarium Comunale [8]. Il brano, montato su un pannello (inv. 32395), è oggi di dimensioni assai ridotte (altezza 63 centimetri, larghezza 93 centimetri) rispetto a come appariva nel 1943 . Sotto ad un frammentario festone rosso , si vede la testa elmata entro un grande nimbo azzurro; il volto è privo delle pupille
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degli occhi e della bocca, mentre del naso restano soltanto alcune tracce. Nel complesso la superficie pittorica appare assai depauperata.
Note critiche La decorazione pittorica sopra descritta ha permesso di ipotizzare che l'aula fosse un «piccolo santuario dedicato alla Dea Roma» e al culto imperiale (ibidem). Le dimensioni complessive delle pareti lunghe della sala lasciano intuire che il corteo di figure offerenti, ritratto sulla parete sinistra,
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fosse in origine composto di quattro personaggi (nel 1943 se ne vedevano solo due) e che un analogo corteo fosse dispiegato, specularmente, anche sulla parete destra, dove la pittura era già perduta. Nel complesso le figure offerenti potevano, quindi, essere otto (Colini 1980-1984, 20). In esse, secondo l'iconografia tradizionale, sono state riconosciute le rappresentazioni di altrettante città, tra le quali s'identifica senz'altro Costantinopoli, la prima, recante il simbolo imperiale del globo (Stern 1954). Le province, urbes nobiles che incedono in corteo secondo un ordine gerarchico, offrono doni simbolici alla Dea Ro ma e all'imperatore al suo fianco . Questi, pur 'divinizzato' alla maniera orientale, è comunque un mortale ed il linguaggio formale tardoantico visualizza la sua umanità assegnandogli una statura notevolmente inferiore a quella della dea [7]. In età tardoantica, l'iconografia della Dea Roma deriva dalla perduta statua di culto del tempio della Velia fatto restaurare da Massenzio. La sua espressione più aulica, in pittura, è quella del pannello della Dea Barberini (-+ 31) mentre per le province offerenti bisogna guardare alla cassetta di Pecs, alle illustrazioni del cronografo romano del 354 di Furio Dioniso Filocalo - note attraverso le copie del XVI-XVII secolo - e ai rilievi sulla base della colonna di Arcadio a Costantinopoli (Stern 1954). Questi dipinti, databili alla seconda metà del IV secolo, sono forse l'ultimo esempio, a noi noto, della pittura di tema e cultura pagana. Il loro stile è oggi valutabile sia attraverso il frammento conservato che, in modo parziale, sulla base degli acquerelli e ci appare complessivamente poco realistico, più disegnativo che pittorico; fatta eccezione per il volto della dea , connotato da un certo plasticismo , le figure risultano bidimensionali e dai contorni marcati. Per quanto riguarda la resa del paesaggio naturale, invece, le pitture del vicus Iugarius ricordano da vicino i pannelli della domus del ninfeo di Ostia (Becatti 1953 , 37-40, fig. 39) mentre per l'uso del colore e dei forti contorni sono in parte assimilabili alla decorazione a carattere mitologico del vicino edificio sulla via del Mare (-+ 36c). Becatti ha opportunamente notato che la decorazione delle sale di queste residenze tardoantiche svela un «senso tutto nuovo ed esuberante del colore e dell'ornamento» (Becatti 1953 , 206;-+ 39). Dal punto di vista compositivo siamo ancora una volta di fronte a pitture realizzate nel modulo della 'megalografia', secondo quel gusto che caratterizza la decorazione parietale del IV secolo e che abbiamo incontrato in altri esemplari romani (-+ 29, 30, 31 , 32 , 36c). La scoperta del sacello dedicato al culto imperiale ha giocato un ruolo importante nella comprensione dei rapporti tra iconografia di radice romana e bizantina e della genesi di iconografie utilizzate nella decorazione musiva paleocristiana (Colini 1945-1946; Becatti 1953 , 209; Grabar 1967 , 220) . La teoria di figure che incedono con le mani velate, recando l'una il globo e l'altra una corona, richiama alla mente, ad esempio, il corteo delle vergini in Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna (560 ca.); la realizzazione dei rigogliosi arbusti prefigura i tanti paesaggi paradisiaci rappresentati nelle calotte absidali delle basiliche cristiane; la stessa presenza del nimbo , che incornicia sia la testa della dea che quella dell'imperatore, sembra un 'anticipazione di quello che sarà il futuro impiego di questo elemento nell'arte cristiana. Significativa, in questo senso, è anche la somiglianza che si può riscontrare tra la corona di alloro con gemma azzurra, offerta da una delle province alla Dea Roma, con l'analoga corona, sorretta con le mani velate, dal san Teodoro nel mosaico absidale dei Santi Cosma e Damiano (526-530).
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Documentazione visiva
Bibliografia
Le scoperte avvenute nel 1943 furono documentate da una serie di disegni, planimetrie ed acquerelli eseguiti, contestualmente alla scoperta, dal pittore Luigi Cartocci e attualmente conservati ali' Archivio Disegni della Sovrintendenza Comunale di Roma (inv. 2408-2414). Gli acquerelli sono stati pubblicati per la prima volta da Colini (Colini 1980-1984) e riproposti recentemente in occasione della mostra Aurea Roma (Del Moro 2000a).
Colini 1945-1946; Becatti 1953; Cagiano de Azevedo 1954; Stern 1954; Grabar 1967; Colini 1980-1984; Del Moro 2000a.
Francesca Consoli
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39. SECTILIA E MOSAICI DELL'AULA CON ESEDRA DELLA DOMUS FUORI PORTA MARINA A OSTIA 388-395
L'edificio fuori Porta Marina ad Ostia, che include l'aula con esedra decorata ad opus sectile, era situato ali' estremità occidentale del decumanus maxim us della città ed emerse nel corso di uno scavo condotto in quell'area nel 1959 sotto la direzione di Giovanni Becatti. A lui si deve la poderosa monografia Edz/zcio con opus sectile/uori Porta Marina, sesto volume della serie Scavi di Ostia pubblicato nel 1969, che costituisce la piattaforma dalla quale ha mosso ogni futura riflessione sulle tarsie. L'ambiente denominato 'aula con esedra' aveva un corpo quasi quadrangolare introdotto da un 'ampia trifora, culminante a nord in un nicchione a fondo piatto ed era confinante con quattro vani di servizio. Le tarsie occupavano tutti gli alzati, sia i due laterali dell'aula che i tre dell'esedra, e furono rinvenute in condizione estremamente frammentaria sotto il primo strato di terra di riempimento e detriti, coperte dalle murature crollate delle pareti laterali (Becatti 1969, 12-21). L'arrestarsi della decorazione parietale a 2,5 metri dal piano di calpestio e la mancata messa in opera delle formelle pavimentali, nonostante il rinvenimento dei materiali lapidei per la posa e di una formella connessa, è stata valutata archeologicamente quale conseguenza di un crollo o di una distruzione improvvisa dell'ambiente, che ha impedito la chiusura della fase decorativa. Il certosino lavoro di ricomposizione e restauro condotto nei sette anni successivi (Int. cons.) ha consentito una restituzione quasi integrale delle crustae e configurato la magnificenza di questo ms1eme. Le pareti dell'aula presentano una decorazione quasi speculare, su tre registri separati da cornici ed oggi è possibile descriverle nella loro organicità ed articolazione complessiva grazie all'allestimento in corso nella sezione dedicata al Museo dell'Alto Medioevo di Roma, curato dalla direttrice Maria Stella Arena, in conclusione del restauro, a cura di Anna Maria Carruba [1]. Nel registro più alto, rimasto molto lacunoso dopo il riassemblaggio,
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si succedono pannelli con specchiature e rotae dentate o a profilo misto e sulla parete sinistra si trova un riquadro composto da cerchi chiari su fondo scuro nella parte superiore e da due motivi cuoriformi contrapposti in quella inferiore; questo riquadro è il frutto, forse, di una restituzione arbitraria; nel registro intermedio, come il superiore conservato più estesamente sulla parete destra, due campi con leoni che assalgono cervidi, a destra, [1-3] e un terzo con tigre che assale un 'antilope, a sinistra, [4, 5] divisi da una specchiatura [1, 6] e affiancati alle estremità da piccole architetture in prospettiva simili a tripodi [7]; il settore più basso, separato dal precedente da una sontuosa cornice a girali [8] e da una lista più sottile con figure geometriche, accoglie un apparato di tipo 'architettonico' con lesene e ancora specchiature, sovrastato da una fascia con rombi e pelte inscritte in campi quadrangolari secondo un 'alternanza simmetrica [9, 10]. In questo settore, al centro di una delle lesene sulla parete destra, è ritratto un giovane imberbe vestito di tunica clamidata entro un clipeo e, nella soprastante fascia con rombi e pelte, è il solenne busto di figura virile barbata e nimbata che rappresenta il principale e più controverso elemento dell'intera decorazione, come vedremo più avanti, stagliato su un omogeneo fondo purpureo rettangolare, nel gesto dell'allocuzione [ 11]. Si tratta delle uniche due figure umane dell'intera decorazione, catalizzatori di interrogativi per storici e archeologi e primi indicatori del versante culturale di appartenenza del loro facoltoso committente. L'opus sectile ricopre anche i tre alzati dell'esedra a nord e la fronte delle due testate dell'aula. Sulle strette superfici verticali sono larghe lesene con girali del tipo inhabited scroll, popolati da ghiande, chiocciole e farfalle [15] , culminanti in capitelli di ispirazione ionica [12 , 14], mentre le tre pareti dell'esedra esibiscono in basso un parato 'a scacchiera' e sopra un loggiato in opus reticulatum [13] interrotto da finte aperture coi profili in laterizio simulato.
La sommità delle tre pareti era percorsa da una fascia in pavonazzetto. Dal soffitto dell 'esedra provengono i frammenti musivi rinvenuti in corrispondenza del suo piano di calpestio, durante lo scavo; essi presentano un motivo ad esili tralci, probabilmente vitinei, eseguiti in tessere dorate su un disomogeneo fondo azzurro-verde [16]. La decorazione ostiense si avvale della cosiddetta 'quadricromia neroniana' (porfido rosso, serpentino, giallo antico, marmo bianco) per ottenere i contrasti che animano le superfici, ma le varietà di marmo presenti sono decine, tra cui il broccatello di Tolosa (in comune con le tarsie di Giunio Basso, - 33 ), diversi alabastri, nero e bigio antico. Il giallo antico è spesso trattato con passaggi
di fiamma per ottenere sfumature e mezzi toni, come sul volto della figura barbata o sui corpi dei leoni e l'effetto luminescente è assicurato da sottili liste in terracotta e paste vitree. Negli occhi dei leoni è tutto lo splendore di queste crustae: in pochi centimetri quadrati si compongono palombino, rosso antico, pasta vitrea rossa e ardesia.
Note critiche La struttura decorativa dell'aula con esedra e la sua sfarzosa eterogeneità corrispondono alla bellissima fioritura che la tecnica del!' op us se etile attraversa nei secoli IV e V (- 3 3 ). La sua
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datazione è indirizzata dalla tipologia dell'edificio - propria alle domus ostiensi della seconda metà del IV secolo - dalla stratigrafia e da elementi numismatici verso l'ultimo decennio del IV secolo, nello specifico 388-395 (Becatti 1969, 67-71) , quando il cantiere cessò i lavori a causa di un crollo che lasciò incompiute le pareti dell'aula e il rivestimento pavimentale, svelando inoltre il procedere della messa in opera dall'alto verso il basso (Guidobaldi 2000b, 251). La funzione dell'aula deve essere interpretata in rapporto a quella dell'edificio, variamente ritenuto la monumentale proprietà di un collegium (Becatti 1969, 65), una villa suburbana marina (Frazer 1971, 319), o una domus. Confronti architettonici con le domus ostiensi di Amore e Psiche, del Protiro, della Fortuna Annonaria e le forti attinenze con i programmi decorativi delle domus romane delle Sette Sale e di Giunio Basso o della lontana Gabia la Grande a Granada in Spagna, hanno portato a concludere che l'aula con
esedra fosse l'ambiente di rappresentanza di una facoltosa domus tardoantica (Guidobaldi 2000b, 258-262). I suoi temi e motivi ornamentali discendono dai repertqri dell'antichità classica: i fregi a girali 'abitati', le pannellature a riquadri e lesene, le belve che assalgono prede, in geòerale. l'impalcatura scenica delle superfici, appartengono ad una tradizione riconoscibile che ben si coniuga con la committenza patrizia e trovano conferme e strette relazioni con gli arredi delle domus citate. Quella di Giunio Basso fra tutte, che assicura una quasi sovrapponibilità a proposito dei pannelli con tigri che assalgono vitelli, ma anche forti similitudini con il fregio a pelte e soprattutto nella composizione delle pareti, come il riscontro con disegni antichi degli alzati dell'aula romana dimostra, per primo il disegno di Giuliano da Sangallo (- 33). È invece sfuggito ad un'immediata identificazione, e ancora oggi oscilla tra posizioni discordi, il senso delle due figure umane sulla
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parete destra, il busto virile nimbato e il fanciullo imberbe. Al loro riconoscimento si connette l'identità dell'aula, la sua eventuale connotazione religiosa. Becatti ritenne la prima figura un Cristo docente e la seconda un «giovanetto benemerito» del collegio che qui si riuniva, secondo la convinzione che l'edificio fosse sede di un coflegium, convogliando in una lettura cristiana tutto il programma e trainando parte degli studi successivi (Becatti 1969, 161-178). A questa visione altri hanno opposto un indirizzo più 'laico', sostenuto dalla radice ideologica degli studi sull'antico classico e mediterraneo, inclini quindi ad interpretare i due busti come quelli di un maestro filosofo e di un giovane discepolo. Già
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Frazer, nella sua recensione del 1971 al volume di Becatti, aveva suggerito cautela e mostrato scetticismo a considerare l'aula una sede collegiale e la figura barbata un Cristo docente. Nell'ultimo decennio questo pensiero si è evoluto fino a riconoscere nell'aula una scuola privata, luogo d'insegnamento di un filosofo carismatico, un theios aner (Zanker 1997, 352-353 ; Brenk 1998, 530-531 ). I sapienti antichi in paste vitree nel porto di Kenchreai, soprattutto Omero che ricorda moltissimo il nostro busto virile (Ibrahim et al. 197 6), ma anche i ritratti scolpiti di filosofi e dei loro discepoli in una domus tardoantica di Aphrodisias o i frammenti di chiome in rosso antico dalla domus delle Sette Sale (Bianchi et al. 2002;
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Arena 2005 , 13-15 ), hanno rafforzato lo schieramento 'filosofico' a discapito di quello 'cristiano'. Appare forse più consono, da «cristiani storici», riconoscervi lo stato embrionale di un'iconografia di Cristo , che avrebbe p reso forza e si sarebbe arricchita e ulteriormente formalizzata nel secolo successivo, un avanguardia al confine di filosofia antica e filosofia cristiana, partecipe delle sfumature e sovrapposizioni tra le due filosofie (Andaloro 2000b, 413-414 ). Grazie a questa presenza si allinea, l'aula di Porta Marina, ai contesti di IV secolo come il Mausoleo di Santa Costanza (----> 1) che accostano sincreticamente cristiano e pagano, tappe di un processo dt definizione delle immagini cristiane ancora in pieno sviluppo. Le tarsie devono la loro esistenza al crollo dell'aula, che le ha sepolte e quindi preservate, e che ne riduce la storia effettiva ai decenni dopo la scoperta. Opere al contrario rimaste in situ, come le crustae di Giunio Basso, hanno subito perdite quasi definitive. La vicenda della loro conoscenza e comprensione non si è svolta attraverso lo studio di documenti visivi, fonti e testimonianze. Assumono invece speciale rilievo le occasioni espositive, alla mostra A urea Roma che si tenne nell'anno 2000 al Palazzo delle Esposizioni a Roma, e quella attuale al Museo dell'Alto Medioevo. La prima ha presentato parte delle tarsie dopo una fase di restauro, nella sezione La vita nell'Urbe, e l'assetto dell'insieme emerse con successo. Ma il contenitore 'architettonico' messo a punto per l'occasione, o anche il percorso della mostra, non consentivano di ricreare l'ambiente così com'era in origine, nella sua unità e purezza, e gli alzati artificiali con le tarsie furono sistemati in un percorso eterogeneo che contestualmente ospitava, ad esempio, il sarcofago 'a porte di città' del Louvre o la mensa con scene della vita di Achille dei Musei Capitolini. È nell 'esposizione presente al Museo dell 'Alto Medioevo, concepita come semipermanente, che l'opus sectile di Porta Marina si riattua appieno: un'armatura che simula quella autentica offre un 'impressione di totalità e compattezza, e l'allestimento è in una sezione dedicata, che esclude l'interferenza di opere estranee e mira ad immergere la visione in un 'evocazione illusiva del contesto antico. Riguardo ai frammenti musivi dal soffitto dell 'esedra, la loro imminente esposizione nel Museo dell'Alto Medioevo dopo una giacenza di quasi mezzo secolo nei depositi ostiensi, ed il recente restauro , consentono conclusioni più affidabili che in passato. Lontani dall'eventualità di una ricomposizione perché pochi e incoerenti, le analisi chimico-fisiche ne hanno identificato i materiali (paste vitree, calcare, foglia d 'oro, vetro) e la pulitura condotta durante l'intervento conservativo del 1999-2003 (Int. cons.) ha fatto affiorare il disegno con più chiarezza , al punto che, ad un'osservazione ravvicinata, si può ipotizzare l'imitazione di un pergolato con pampini e viti (Arena 2005 , 22-23 ; Carruba in Arena 2005, 42-52). Ciò porrebbe il soffitto ostiense in accordo con la destina zione dello spazio a triclinio , confermerebbe l'opus reticulatum come loggiato e traccerebbe un nesso attraente e segnaletico coi mosaici a soggetto affine nel deambulacro del mausoleo di Santa Costanza, databili alla metà del IV secolo. La sovrapponibilità di interi settori delle tarsie ostiensi con quelle di Giunio Basso e in misura più contenuta con quelle delle Sette Sale, le rotae uncinate che rammentano i profili dei cosiddetti flabella in Santa Sabina (----> 40b) e dei dischi nell'atrio del Battistero lateranense (----> 42c) e nell'ipogeo di via Livenza (--+ 34), l'analogia di soggetti col mausoleo sulla Nomentana e altri raccordi possibili con contesti romani chiudono ancora una volta il discorso sulla qualità specifica del momento tardoantico, l'essere un crinale e quindi ammettere il travaso di temi e tecniche fra opere di identità culturale diversa.
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Interventi conservativi e restauri 1959-1966: il restauro delle tarsie si awiò alla conclusione dello scavo, nel novembre 1959, e si concluse nell'agosto del 1966. Fu eseguito dal mosaicista Luigi Bracale, assistito da Luciano Braccini, e si awalse di rilievi e disegni di Maria A. Ricciardi. L'intervento comportò le seguenti principali operazioni: selezione dei frammenti sulla base di qualità, colore e sagoma, nel rispetto di stratigrafia e area di rinvenimento; creazione delle formelle pavimentali secondo l'unico esempio connesso trovato in situ; ricomposizione dei campi parietali dell'aula a partire dalle specchiature inferiori e dell 'esedra a partire dalla zona bassa ' a scacchiera'; consolidamento dei frammenti di mosaico del soffitto. Gli assemblaggi furono fatti esclusivamente con pezzi di scavo e quando un frammento non era pertinente con sicurezza ma analogo per funzione , il suo inserimento era circoscritto da una sottile lista in metallo. Le parti ricomposte, lavorate in piano, furono quindi allettate su cemento (Becatti 1969, 38-41).
1999 ca.-2003 : l'esposizione alla mostra A urea Roma e al Museo dell'Alto Medioevo sono state affiancate da un restauro della Soprintendenza Archeologica di Ostia a cura di Anna Maria Carruba, che ha mosso da una revisione critica dell'intervento degli anni '60. L'obiettivo di assicurare la leggibilità dell'insieme si è raggiunto attraverso tre tappe: pulitura delle superfici; consolidamento o rinnovo delle malte di allettamento e messa a punto di nuovi sistemi di ancoraggio ai supporti; ritocchi con spugnature di pittura acrilica (Arena 2005 e Carruba in Arena 2005 ).
Bibliografia Romanelli 1962; Sestieri 1967 , 15-17; Becatti 1968-1969; Becatti 1969; Bordenache 1970; Frazer 1971 ; Floriani Squarciapino 1979, 22-23 ; Kelly 1986, 225-226; Zanker 1997, 352-356; Brenk 1998, 523-53 3; Andaloro 2000b, 413; Guidobaldi 2000b, 251 -262; Zanker 2000, 410-411; Arena 2005. Geraldine Leardi
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PARTE SECONDA
e l'avvento dei gr.andi J]rogrammi iconografici
SISTO
III
40. I MOSAICI E LA DECORAZIONE AD OPUS SECTILE DI SANTA SABINA
40a. MOSAICI DELLA CONTROFACCIATA: LE DUE ECLESIAE, L'ISCRIZIONE DEDICATORIA, LE PERDUTE FIGURE DI PIETRO E PAOLO E I SIMBOLI DEI QUATTRO EVANGELISTI
Papa Sisto III (432-440)
La basilica di Santa Sabina fu fondata dal presbitero Pietro d'Illiria al tempo di papa Celestino I (422-432), come afferma l'iscrizione musiva in controfacciata. Per un insieme di ragioni che vedremo più avanti la sua decorazione si deve al pontefice Sisto III (432-440; LP I , 235) e fu realizzata secondo un progetto unitario che assai probabilmente sviluppò, in luoghi e superfici deputate , la sostanza di un programma altamente intellettuale. La Chiesa di Sisto III è al crocevia di accadimenti cruciali per la cultura religiosa e politica tardoantica: Roma aveva subito nel 410 il sacco di Alarico; nel 430 era morto Agostino d'Ippona; nel 431 si tenne ad Efeso il Concilio - convocato dall'imperatore Teodosio I - dove, attraverso le parole del patriarca Cirillo contro l'apostasia del vescovo Nestorio sulla doppia natura di Cristo e in conseguenza della disputa sulla Divina Maternità della Vergine, si difende il primato della Sede Apostolica e si afferma con forza l'autorità del pontefice nelle materie dottrinali e disciplinari (---+ 48a). La concomitanza di questi eventi in un arco cronologico
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relativamente breve innesca un processo di difesa ed esaltazione della Chiesa, da parte di presbiteri e vescovi, che sigla il clima spirituale romano dei pontificati di Celestino I e Sisto III e informa i progetti decorativi delle basiliche, i loro fondamenti concettuali (Darsy 1961 , 96; Krautheimer 1987-1988, 185, 187; Brenk 2002, 1010-1018). Nella basilica aventina si mette in atto un manifesto visivo esigente che, a partire dalle formelle della porta lignea , att raverso il mosaico in controfacciata e quelli perduti su pareti della navata centrale, arco e catino absidali, nonché l'opus sectile su pennacchi e parte inferiore delle pareti, illustra la storia di Cristo e della Chiesa cristiana delle origini. Debitore alla Ctvitas Dei di Agostino (Brenk 2002 , 1013 ), il programma di Santa Sabina è tra le prime attestazioni monumentali - insieme a quello in Santa Maria Maggiore, anch'esso sistino - di politica della religione, un luogo che converte la sua identità ancora profondamente classica nella motrice del nuovo pensiero.
La controfacciata della basilica è dominata da un grande campo musivo rettangolare (3 ,10x13 ,30 metri circa) composto da tre sezioni: un'epigrafe su sette righe al centro, due pannelli con figure di donne ai lati e una cornice con motivo a doppio meandro [1]. L'epigrafe è un 'iscrizione dedicatoria (Iscr. 1), presenza non comune nelle architetture paleocristiane, attestata anche sulle antiche controfacciate di Santa Maria Maggiore e San Pietro in Vincoli, successivamente andate perdute (Cecchelli 1958, 38, 40; Oakeshott 1967, 89; Bovini 1971, 144; Andaloro 1987, 227). Sui pannelli laterali si trovano due figure femminili, personificazioni di Giudei e Pagani che si unirono nel Cristianesimo [2, 3], ai loro piedi sono le iscrizioni esegetiche Eclesia ex circumcisione (Iscr. 2) , a sinistra, ed Eclesia ex gentibus (Iscr. 3), a destra. Abbigliate con tuniche purpuree e sottovesti bianche, le teste coperte da un pallio, a sinistra, e da una cuffia, a destra, entrambe tengono in mano un codice aperto, rispettivamente il Nuovo e l'Antico Testamento, e accennano il gesto dell'eloquio; in postura stante e quasi frontale, convergono lievemente
verso il centro del campo. La cornice che circonda iscrizione e pannelli ha al suo interno un motivo a meandri simmetrici, verdi su fondo oro, ed il suo regolo inferiore è un'integrazione a pittura che deve probabilmente datarsi alla fine dell'Ottocento, se Garrucci disegnava, ante 1877, l'intero campo musivo senza questa sezione [4], che invece compare nella foto Anderson del 1890 circa [5]. Il mosaico proseguiva sulla zona superiore della controfacciata ma questa porzione architettonica andò distrutta, forse nel XVI secolo, per essere ripristinata da Mufioz nel 1914-1919; è tuttavia possibile descrivere il mosaico perduto grazie ad un'incisione di Ciampini (Ciampini 1690, tav. LVIII) [6]. Esso occupava le estremità destra e sinistra della parete ed i quattro pennacchi della pentafora che doveva aprirsi sulla facciata prima della distruzione cinquecentesca. Sopra le due Ecclesiae erano san Pietro, a sinistra, e san Paolo, a destra, e nei quattro pennacchi i simboli evangelici, da sinistra toro, leone, aquila e angelo ; sopra Pietro una mano , forse dell'Eterno, porgeva un codice.
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d'Illiria, Pietro, uomo ben degno di portare tale nome, perché dalla nascita nutrito nell'aula di Cristo. Ricco per i poveri, povero per sé stesso. Il quale fuggendo i beni della vita presente ha bene meritato sperare di ricevere la vita futura». (Ignesti 2005, 57) 2- Ai piedi della figura femminile di sinistra, su campo di ripiego, iscrizione esegetica a caratteri neri su fondo oro. Eclesia ex cir/cumcisione
3- Ai piedi della figura femminile di destra, su campo di ripiego, iscrizione esegetica a caratteri neri su fondo oro. Eclesia ex I gentibus
Note critiche
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Iscrizioni 1- Iscrizione dedicatoria su specchio di corredo, in capitale epigrafica dal modulo regolare, perfettamente allineata all'interno delle rettrici evidenziate in nero, a caratteri oro su fondo blu recanti apicatura curvilinea alle estremità. Culmen apostolicum cum Caelestinus haberet I primus et in toto fulgeret episcopus orbe, I haec, quae miraris, fundavit presbyter Urbis I Illyrica de gente Petrus, vir nomine tanto I dignus ab exortu Christi nutritus in aula. I Pauperibus locuples sibi pauper qui bona vitae I praesentis fugiens, meruit sperare futuram .
«Quando Celestino occupava il più alto grado della dignità apostolica e rifulgeva nel mondo intero come il primo dei vescovi questa meraviglia è stata creata da un prete di Roma, oriundo
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L'epigrafe indica il presbyter urbis Pietro d'Illiria quale fondatore della basilica al tempo di papa Celestino I (422-432). La presenza molto rara di un dato cronologico puntuale, tanto più legittimo perché incluso nella dedica dell 'edificio, ha spesso indotto ad accomunare edificazione e decorazione ed il mosaico in controfacciata è stato ripetutamente assegnato a quegli stessi anni (Munoz 1919, 12; Darsy 1961, 95-99; Matthiae 1965 [1987], 40; Schlatter 1995, 4; Steen 2002, 1943 ). Tuttavia nel Liber Pontz/icalis si legge, alla vita di papa Sisto III (432-440), che Pietro /ecit la basilica, e poiché il verbo è usualmente impiegato, nella stessa fonte, per indicare la costruzione ma non la fase di abbellimento di un edificio, si desume che la conclusione dei lavori, ovvero la decorazione, sia avvenuta negli anni subito successivi del pontificato sistino (LP I, 235), datazione già avanzata da molti (Garrucci 1877, 16; Berthier 1910, 255; Cecchelli 1958, 38; Bovini 1963, 68; Krautheimer 1987-1988, 171; Brandenburg 2004c, 167). Non è improbabile, del resto, che il committente del mosaico abbia voluto ricordare la figura e il ruolo dell'Illirico nel luogo in cui si sigilla la memoria della fondazione, ovvero nell'iscrizione di controfacciata. La lettura iconografica e il significato di quanto resta del mosaico in controfacciata devono contemplare anche la parte superiore della stessa decorazione, perduta e nota attraverso l'incisione di Ciampini. Le due Ecclesiae erano rappresentate in asse con Pietro (Ecclesia ex circumcisione) e Paolo (Ecclesia ex gentibus), a loro volta separati dalle cinque finestre e dai simboli evangelici nei pennacchi. Le Ecclesiae, suggerisce Schlatter, non visualizzano la separazione tra Ebrei e Cristiani quanto piuttosto la nozione veterotestamentaria di Synagoga et Ecclesia, che se da un lato esprime la bipartizione storica del popolo ebraico, dall'altro prelude al suo stesso compimento neotestamentario nel principio della Ecclesia quae est mater omnium nostrum (Gal 4, 26 in Schlatter 1995, 22) . Pietro e Paolo diffusero la legge evangelica presso le antiche comunità religiose degli Ebrei e dei Pagani, confluite nella fondazione della Chiesa cristiana, della quale furono testimoni e primi artefici. Essi insegnano il Verbo, lo stesso che i padri studiano tra II e IV secolo in quei percorsi di definizione teologica della materia evangelica ai quali dobbiamo i cardini dottrinali delle iconografie più antiche, delle prime decorazioni sacre. La comparsa dei simboli apocalittici in Santa Sabina, preceduta dal mosaico absidale di Santa Pudenziana (-> 8), procede dal dibattito sulle creature delle profezie di Ezechiele (Ez 1, 4-27; 10, 1-22) e di Giovanni (Ap 4, 6-9), dal quale emerge che esse sono legate ai Vangeli e al Verbo divino e rappresentano la glorificazione di Dio in cielo. I contenuti della disputa trovano una sistemazione tra
Il e IV secolo attraverso Ireneo, Ippolito, Vittorino e poi Girolamo e Agostino (Steen 2002, 1947). Ireneo e Ippolito associano diversamente gli evangelisti ai loro simboli: Ireneo appaia il toro a Luca, il leone a Marco, l'aquila a Giovanni e l'angelo a Matteo mentre Ippolito indica le coppie toro/ Luca, leone/ Matteo , aquila/Giovanni, angelo/ Marco. Le due diverse posizioni furono in seguito accolte rispettivamente da Girolamo e Agostino. La successione delle creature evangeliche in Santa Sabina, cioè toro , leone, aquila e angelo da sinistra a destra, non è quella di Ezechiele, né di Giovanni (Berthier 1910, 262-263 ), ed è diversa dalle sequenze in Santa Maria Maggiore, toro , angelo, leone, aquila, basata sulla profezia di Ezechiele, e in Santa Pudenziana, cioè angelo, leone, toro , aquila, fondata sul commento di Girolamo ad Ezechiele. Volendo accettare, come suggerisce Matthiae, l'identificazione proposta da Ippolito e poi accolta da Agostino, il mosaico di Santa Sabina sarebbe una «affermazione di agostinismo» (Matthiae 1967, 78; Andaloro 1987, 227) di grande interesse in un secolo di «teologizzazione e intellettualizzazione dei programmi decorativi» (Brenk 2002 , 1018). La decorazione a mosaico molto probabilmente proseguiva sulle pareti della navata, forse con i cicli dell'Antico e del Nuovo Testamento: Ciampini afferma che fino al 1683 erano visibili lacerti di mosaici sulle pareti della navata presso la controfacciata, andati distrutti nel corso del restauro che il cardinale titolare Thomas di Norfolk volle far eseguire sullo stesso mosaico di controfacciata, nel 1683 (Ciarnpini 1690, 188; CBCR 1976, IV, 74) . Inoltre Antonio Mufioz, che diresse due campagne di restauro dell'edificio e degli arredi di Santa Sabina (1914-1919; 1936), afferma che la superficie delle pareti della navata arretra di 10 cm rispetto all'appiombo dell'opus sectile, per accogliere verosimilmente il letto di un rivestimento musivo; dichiara anche che il mosaico, dal pannello in controfacciata, proseguiva sulle pareti della navata, poiché «l'altezza della fascia di musaico corrisponde perfettamente alla distanza che intercorre tra l'opus sectile e le soglie delle finestre» (Mufioz 1938, 29; vedi anche Cecchelli 1958, 38) . A queste due testimonianze si aggiunga il confronto con un'altra commissione sistina, i mosaici di Santa Maria Maggiore. I principi degli apostoli accanto ai simboli evangelici, sull'arco, e l'iscrizione dedicatoria (perduta ma ancora leggibile nel XVI secolo ; -> 41c), in controfacciata, si coniugano nella basilica esquilina alle storie dei patriarchi sulle pareti della navata e a quelle dell'infanzia di Cristo sull'arco(-> 41a, b), sono quindi parti funzionali di un solo impianto concettuale. Data l'impronta sistina comune alle due basiliche, si può dedurre che a Santa Sabina, dove l'insieme decorativo antico sopravvive solo in minima parte, i mosaici su controfacciata e pareti della navata centrale avrebbero trovato il loro compimento tematico in quelli sull'arco (-> 40c) e nell'abside. Il catino absidale ospita oggi un dipinto di Taddeo Zuccari con Cristo assiso su un monte circondato da figure maschili e femminili disposte e atteggiate liberamente e con i fiumi simbolici in basso, datato al 1560 circa, che verosimilmente interpreta una composizione paleocristiana (Salmi 1914, 5). A questo punto, l'unità della Chiesa cristiana allusa dalle Ecclesz'ae, contenuta nei Vangeli, predicata da Pietro e Paolo e narrata nei cicli, si sarebbe sublimata nel consesso paradisiaco dell 'abside. Nella prospettiva più ampia aperta dall'esistenza di un impianto decorativo dalla facciata ali' abside, il mosaico superstite si sottrae al confino della sua 'solitudine' architettonica e semantica e si rivela nella sua funzione specifica all'interno del complesso organismo concettuale quale doveva essere il programma di Santa Sabina nel V secolo. Il mosaico visualizzava ~lfl\VITSPEMREFVTVRAM - ·.
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colore verde salvia, analogo, nell'affresco di Zuccari, a quello del terreno sotto i piedi delle figure sul proscenio. Lo strato preparatorio dell'affresco cinquecentesco ha inglobato, nello stendersi sulla superficie della calotta, le tessere del mosaico antico, oggi ancora visibili dietro i frammenti rinvenuti. Nella preparazione di ciascuno di essi è incorporata almeno una tessera musiva in pasta vitrea di colore verde oltremare e si distinguono inoltre le tracce di altre tessere, perdute. Nella stessa scatola si trovano anche tre decine di tessere, molto diverse tra loro per dimensioni, forme, spessori, porosità e compattezza delle paste. La seconda scatola contiene circa venti frammenti d'intonaco dipinto analoghi ai precedenti ma nessuna tessera, solo le tracce lasciate sul retro dello strato preparatorio. Questi materiali offrono una serie di conferme: che la tecnica esecutiva della decorazione absidale antica fosse il mosaico; che questo sopravvisse, anche in cattive condizioni, fino al Cinquecento e che esiste una corrispondenza cromati.ca fra le parti di affresco staccate per il sondaggio e le tessere rinvenute al di sotto.
Interventi conservativi e restauri 1683: Ciampini riferisce di un restauro al mosaico su commissione del cardinale titolare Thomas di Norfolk (Ciampini 1690, 188). 1830: ad un restauro della Scuola Vaticana del Mosaico Matthiae assegna le reintegrazioni a mosaico che si osservano su iscrizione e cornice, parte inferiore del pannello con l' Ecclesia ex circumcisione e ampie zòne dell'altra figura, cioè il fondo a sinistra del corpo fino alla vita e parti confinanti di testa, spalle e braccio oltre a diversi punti del libro e della veste (Matthiae 1967, 408). Fine XIX secolo: il regolo inferiore della cornice viene completamente integrato a pittura. Matthiae attribuisce ai restauri di Sisto V (1585-1590) «completamenti» a pittura del mosaico, senza però indicare quali né dove (Matthiae 1967 , 408); Garrucci disegna il mosaico ante 1877 omettendo il regolo inferiore della cornice che forse non vedeva (Garrucci 1877, tav. 21 O); si dà notizia di una pulitura del mosaico su commissione del Ministero della Pubblica Istruzione nel 1890 (Baldoria 1890, 409-410) senza accennare a zone mutile o lacunose né ad operazioni più radicali e padre Berthier non rileva che lievi ritocchi (Berthier 191 O, 254 ); una foto Anderson del 1890 circa dimostra che in quegli anni l'integrazione già esisteva [5] . Da tutto ciò si deduce che l'integrazione a pittura sia stata eseguita nell ' arco di tempo compreso fra la pubblicazione del disegno di Garrucci e la foto Anderson, quindi nell'ottavo decennio dell'Ottocento. 1999: l'Istituto Centrale per il Restauro ha sottoposto il mosaico a pulitura e consolidamento e l'intervento ha comportato
interessanti scoperte sui materiali impiegati nei restauri pregressi; è emersa, in particolare, la forte componente gessosa degli strati preparatori delle integrazioni a mosaico delle lacune.
Documentazione visiva Ciampini 1690, tav. XLVIII; Garrucci 1877, tav. 210; Anderson, fotografia , 1890 ca. (Archivio Alinari, Anderson 4000).
Fonti e descrizioni Ciampini 1690, 186-195; Ugonio 1588, 8-9; Crescimbeni 1715 , 373-374.
Bibliografia Garrucci 1877, 16, tav. 210; Baldoria 1890, 409-410; de Rossi 1899, 48; Berthier 1910, 254-255, 262-263; Salmi 1914, 5; Mufioz 1919, 12, 26-27; Van Berchem-Clouzot 1924, 79, 82 ; Toesca 1927, 178; Venturi 1927, 17; Muiioz 1938, 26-27 , 29; Cecchelli 1958, 38, 40; Darsy 1961, 96; Bovini 1963, 67-69; Matthiae 1965 [1987], 40; Matthiae 1967, 78,408; Oakeshott 1967, 89; Bovini 1971, 144; CBCR 1976, IV, 87, 91 ; Andaloro 1987, 227 ; Krautheimer 1987-1988, 171 , 185, 187; Schlatter 1995, 4-5, 22; De Rubeis 2000, 105; Brenk2002, 1010-1018; de Maria 2002, 1699; Steen2002, 1943-1944, 1946-1948; Pace 2004, 216; Brandenburg 2004c, 167, 169, 175; Ignesti 2005.
40b. LA DECORAZIONE AD OPUS SECTILE DELLA NAVATA
Lungo le pareti della navata centrale corre una decorazione ad
opus sectile (alta 2,60 metri) articolata in tre parti: nei pennacchi sono pannelli verticali con dischi profilati che poggiano su basi quadrangolari, sovrastati da una croce e da due motivi a meandro; intorno ai pannelli è una finta cortina ad opus quadratum e sopra ancora una cornice che alterna figure geometriche [7 , 8] . Il ripetersi di queste unità lungo i due colonnati si interrompe sui pennacchi settimo e ottavo della parete destra e ottavo a sinistra dalla controfacciata , dove al disco si sostituisce un elemento tipo Jlabellum, composto da un ovale cinto da uno spiromeandro e sostenuto anch'esso da un'asta che poggia su un elemento cubico [9]. L'opus sectile è impiegato secondo la cosiddetta 'quadricromia neroniana ', qui espressa da porfido rosso, serpentino, giallo e rosso antico, pavonazzetto, palombino. L'alternanza dei marmi colorati non sembra governata da una regola precisa quanto da principi estetici che esaltano il contrasto e sfruttano le qualità intrinseche della materia: dischi e cosiddettiflabella avvicendano senza eccezioni il porfido al serpentino; nell'opus quadratum i mattoni sono bianchi e i loro profili scuri; i quadrati della cornice sono sempre bianchi.
Note critiche I sectilia nella navata centrale in Santa Sabina sono quanto resta di una decorazione anticamente estesa al nartece e alla parete absidale: «Esso portico ritiene i vestigi della incrostatura antica nei muri simile a quella che dentro la chiesa veggiamo» (Ugonio 1588, 8); e ancora: «così nel portico maggiore, come per i muri della nave di mezzo sopra le colonne si veggono incrostature di
varie pietre artificiosamente conteste» (BAV, Vat. lat. 9167, f. 258r). La perdita delle tarsie di abside e nartece deve essere cominciata anticamente se in una porzione di pavimento a destra dell'ingresso principale, databile fra VII e VIII secolo (Guiglia-Guidobaldi 1983, 509 n. 898) , sono reimpiegati frammenti di opus sectile provenienti dalla basilica paleocristiana (Rubbino 2002, 56). Durante gli interventi del 1936, diretti da Mufioz, si è provveduto alla restituzione delle tarsie absidali [10] in base alla relazione che Domenico Fontana, architetto del cantiere di Sisto V negli anni 1586-1587 , stese in occasione della loro demolizione, e che confluisce nel Libro di tutta la spesa fatta da N.S. Papa Sisto V a S. Sabina (Mufioz 1919, 13-14; Id. 1938, 18; CBCR 1976, IV, 78, 87) . Questo ripristino, fondato su una testimonianza documentaria, ripete l'operazione che Mufioz condusse nella campagna del 19141919 sulla fronte dell ' arco absidale, cioè realizzare a pittura un'incisione di Ciampini che illustrava il perduto mosaico(---> 40c). I due ripristini rispondono al comune obiettivo di reintegrare apparati e rivestimenti al loro aspetto e alla loro funzione primitivi. In confronto ad altri casi romani di opus sectile parietale, sia di IV che di V secolo - tra i primi quelli perduti nel tamburo di Santa Costanza(---> le), quelli dall'antica basilica di Giunio Basso (---> 33) e dalla domus fuori Porta Marina ad Ostia (---> 39); tra i secondi le tarsie nell 'atrio del Battistero lateranense (---> 42c) e quelle dal distrutto oratorio della Santa Croce nello stesso battistero (---> 48c) - i commessi nei pennacchi di Santa Sabina sono da considerarsi un unicum, perché alloggiano sulle pareti del corpo principale di una basilica cristiana, nel loro intero sviluppo dalla controfacciata all'abside (Rickert 1998, 263-264) . Inoltre, rispetto ad esempi contemporanei come le crustae del
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Battistero lateranense, che esprimono con candelabre, girali e specchiature una dimensione prevalentemente ornamentale e geometrica, l'opus sectile di Santa Sabina, come vedremo più avanti, avanza verso un significato simbolico. Si aggiunga che l'insistenza sull'unico elemento figurativo disco-asta-base, cioè su un modulo che scandisce paratatticamente il cammino verso il presbiterio, è una formula di assoluta novità. L'identificazione dei suddetti elementi ha oscillato in particolare tra due ipotesi: che si trattasse di oggetti liturgici come patene, calici o lampade (Becatti 1969, 166; Cagiano de Azevedo 1970b, 233) oppure che fossero vexilla (Berthier 1910, 269), insignia militari (Darsy 1961, 103 ) e stemmi (Kelly 1986, 263), allusivi alla vittoria di Cristo rappresentato nell'abside, se l'affresco cinquecentesco riproduce un'iconografia paleocristiana (Salmi 1914, 5-10). Sono più recenti le proposte di cercarne l'origine in ambito funerario (Rubbino 2002, 37) o di considerarli sfere coronate da croci, ovvero repliche del simbolo imperiale ricorrente
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su dittici eburnei paleocristiani - come le due valve di dittici con l'imperatrice Ariadne conservate al Museo del Bargello e al Kunsthistorisches Museum di Vienna - a Santa Sabina eventualmente allusive al potere di Cristo (Rickert 1998, 269). Se fossero richiami visuali agli arredi sacri, oppure a sarcofagi e steli, sarebbero astratti dal loro ambiente concettuale e il loro significato si scinderebbe dal programma della basilica, coerentemente concepito per accogliere, nei luoghi deputati, i precetti 'miliari' della Chiesa trionfante. Tali elementi rivelano invece una relazione sorprendentemente puntuale con alcune insegne che i magistri militum dell' eserciro imperiale recavano sugli scudi o sugli stendardi in battaglia, raffigurate nella Notitia Dignitatum, che si data a fine IV-prima metà del V secolo ed è a noi nota per mezzo di copie (Notizia Dignitatum 1876; Clemente 1968; Berger 1981) [11, 12]. Nell'insieme degli stemmi che identificano le cariche civili e militari del tardo impero raccolte nella Notitia Dignitatum, si rintraccia una forte somiglianza fra il sistema disco-asta-base nell'opus sectile
di Santa Sabina e lo stemma dei Tertii Theodosiani [ 11] , il reparto delle truppe comitatenses assegnate a fine IV secolo al magister praesentalis I (Clemente 1968, 11; vedi anche Rubbino 2002 , 17 , nota 42 ), mentre i cosiddetti/labella ricordano da presso l'insegna degli Equites Dalmatae (Darsy 1961, 103). Non esiste un 'sentiero' che conduca direttamente dagli stemmi dei comitatenses alle crustae in Santa Sabina. L'odierna via di Santa Sabina, presso cui sorge la basilica aventina, sarebbe secondo gli archeologi il tratto finale dell'antico vicus Armilustri e l'Armilustrium fu, in tempi romani arcaici, sia la solennità religiosa che si teneva annualmente per ringraziare gli dei delle vittorie e forse per purificare le armi, sia il luogo in cui questa si svolgeva (Merlin 1906, 65-66; Gallavotti-Montini 1984, 47-48). Il sito dell'Armilustrium, non ancora individuato con precisione dagli scavi ma presumibilmente situato nell'area compresa fra le chiese di Sant' Alessio e di Santa Maria del Priorato, offre una prossimità con Santa Sabina tale da far immaginare un 'transito' di stemmi e insegne, nonché del loro
carico simbolico, dagli scudi dei soldati ai pennacchi della chiesa. Il rito e la fun zione del luogo si estinsero, in realtà, prima del momento tardo imperiale, se già Varrone ne parla al passato remoto (Andreussi 1993 , 126), quindi le tarsie non possono in alcun modo derivare dalla familiarità dei loro esecutori con le armi esposte in quelle occasioni; ma il sito, come tracce archeologiche lasciano supporre, può aver trattenuto testimonianze - rilievi, iscrizioni, graffiti - in un certo senso la memoria di quella destinazione remota (Darsy 1968, 31; Andreussi 1993, 126) e il 'recinto ' in marmi e stucchi che il Piranesi ha realizzato per confinare la piazza dei Cavalieri di Malta, che espone «fastigi di pace e di guerra», attesta il protrarsi di questa memoria ancora fino al XVIII secolo (GallavottiMontini 1984, 47-52, figg. 13-14). Alla suggestione si affianca un fatto concreto. Il sistema decorativo della basilica è concepito per esprimere, mediante un 'articolazione di contenuti che parte dalle formelle della porta lignea, attraversa il mosaico in controfacciata e quelli perduti su pareti e arco per
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ritenuti sia antichi ventagli rituali, appunto i flabella (Berthier 1910, 269; Rubbino 2002, 37), sia stemmi militari (Darsy 1961, 103), sono affini al motivo con rata porfiretica e cornice a spiromeandro sulle pareti speculari nord-ovest e sud-est del Battistero neoniano di Ravenna e soprattutto quasi identica è la soprastante cornice a figure geometriche alternate. La decorazione delle pareti del Battistero, che come in Santa Sabina prevede mosaici sopra e opus sectile sotto, si data quasi unanimemente al 458, da un passo del protostorico Andrea Agnello alla vita del vescovo Neone (449-475 circa; Ghezzo 1962, 7; Bovini 1974, 89; Novara 2000, 362) e, nonostante il pesante restauro di fine Ottocento, essa mantiene intatta la sua/acies antica (Deichmann 1974; Bertelli 1990; Novara 2000, 363). Le tarsie neoniane sono a loro volta molto vicine all'opus sectile nell'atrio del Battistero lateranense, datate a Sisto III (- 42c), nel tono aulico e classico che complessivamente ispira la loro composizione, e in dettagli comuni ad entrambi quale, ad esempio, l'aprirsi dello spiromeandro in una rosa di girali. r..; opus sectile di Santa Sabina, pur carico di un valore simbolico che lo lega fortemente al programma cristiano nel suo insieme e forse più austero e asciutto nel disegno, mostra al contempo, e in particolare attraverso gli elementi in comune con le tarsie dei battisteri ravennate e lateranense, un'ascendenza antica e classica. Le cornici a spiromeandro deiflabella sono segnali di questo spirito: lo spiromeandro è un modulo ornamentale classico che a Roma troviamo già alla metà del IV secolo nel finto opus sectile alla base dell 'arco nell'ipogeo di via Livenza (- 34), richiamato nelle rotae dentate sulle pareti della domus fuori Porta Marina a fine IV (- 39), e si affaccia sulle tarsie dei già ricordati battisteri come testimone riconoscibile, una sorta di )Jlarchio di antichità. Ciò chiude l'analisi su un dato importante: nel tempo di teologizzazione dei programmi e affermazione della Chiesa romana la matrice classica e imperiale di architetture e apparati è ancora un trait d'union di grande vitalità. 10
compiersi infine nel catino dell'abside (- 40a), l'assioma dell'unica Chiesa in terra, quella apostolica e romana del trionfo di Cristo, e l'opus sectile vi si allinea perfettamente. L'uso di simboli militari che prolungano in astratto l'altezza delle colonne e ne accentuano la funzione di sostegno, il loro schieramento paratattico lungo la navata, costituiscono una sorta di 'basso continuo', un supporto ritmico non narrativo al racconto che prende posto sulle altre superfici; sono le insegne ideali di una parata trionfale, gli stendardi schierati per l'adventus cristiano. Le tarsie sono parte integrante del piano di decorazione della basilica, che si data al tempo di Sisto III. Se è vero che «i mosaici e la porta di legno manifestano esigenze escatologiche, romane e vescovili» (Brenk 2002, 1O11), l'opus sectile offre anche un aggancio con Ravenna, ancora capitale dell'Impero d'Occidente durante l'abbellimento di Santa Sabina. I suoi cosiddettiflabella, i tre elementi di controversa identificazione
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Interventi conservativi e restauri Sisto V (1585-1590) : restauri che comportano la demolizione delle crustae nell 'abside e il loro parziale reimpiego nel pavimento absidale (Mufioz 1919, 13; Id. 1938, 50; CBCR 1976, IV, 73). 1836: Camuccini eseguì restauri ali' affresco di Zuccari nell'abside, al mosaico di controfacciata e ali' opus sectile nella navata (Darsy 1961 , 48) . 1914-1919: Merlin si esprime, nel 1906, sullo stato di conservazione dell'opus sectile in questi termini: «on peut encore se rendre compte de l' e/Jet que produisait cette marqueterie de marbre, car il en a survécu des /ragments au-dessus des arcades de la grande ne/>> (Merlin 1906, 435-436). Si suppone pertanto che, nel corso della prima campagna di restauri diretta da Mufioz, il consolidamento di murature e intonaci, la riapertura delle finestre della navata centrale e la restituzione delle tarsie absidali abbiano comportato un intervento manutentivo su quelle della navata.
nartece interno e che le crustae verso la controfacciata nonché il regolo inferiore del mosaico, siano andati perduti con la sua edificazione e reintegrati successivamente a pittura (Mufioz 1919, 26-27). Poiché non si fa menzione di un restauro sostitutivo nei documenti e nelle fonti citate, si riportano gli interventi nel corso dei quali questo possa essere avvenuto (CBCR 1976, IV, 74): 1589-1601: una cantoria viene inserita tra le ultime due colonne verso ovest (Rodocanachi 1898, 35, 41). 1729: il programma di restauri sostenuto da papa Benedetto XIII (1724-1730) prevede, oltre a tetto, arco absidale e mosaico sulla controfacciata, anche l'opus sectile. Rubbino afferma esplicitamente che «le parti mancanti furono sostituite da pitture» (Rubbino 2002, 57; indicazioni meno specifiche in Darsy 1968, 114; CBCR 1976, IV, 88).
Fonti e descrizioni Libro di tutta la spesa /atta da N.S. Papa Sisto V a 5. Sabina - 16 Febbraio 1587, ASV, Arm. B. 15; Ugonio 1588, 8-9; Ciampini 1690, 187 -188; Notizie storiche della chiesa e convento di S. Sabina Martire in Roma (XVIII secolo), BAV, Vat. lat. 9167, f. 258r.
Bibliografia 13
I primi due intercolumni su entrambi i lati presentano un'imitazione dipinta delle crustae [13]; integrazioni a pittura di minore entità ricorrono in altri punti delle arcate (Rickert 1998, 265). Mufioz ritiene che esistesse, anticamente ma in un tempo imprecisato, un
Merlin 1906, 65-66, 435-436; Berthier 1910, 268-269; Mufioz 1919, 13-14, 26-27; Mufioz 1938, 18, 29, 50; Darsy 1961, 48, 103; Oakeshott 1967, 89; Darsy 1968, 31, 114; Becatti 1969, 166; Cagiano de Azevedo 1970b, 233; CBCR 1976, IV, 72-74, 78, 8788, 91; Kelly 1986, 263; Guidobaldi 1989, 64; Guidobaldi 1992, 74-75; Rickert 1998, 264-265; Guidobaldi 2000a, 277; Brenk 2002, 1011; Rubbino 2002, 17, 37 , 48-49, 56-57.
40c. I RITRATTI CLIPEATI DELL'ARCO ABSIDALE
Sull'emiciclo dell'arco absidale di Santa Sabina è dipinta una corona di quindici figure maschili in busto entro clipei. Unica identificabile con certezza è quella del Cristo al centro, col nimbo crucisignato. I clipei poggiano su una fascia decorativa con motivo a fuseruole e maglie oblunghe, sono sovrastati da nove colombe in volo disposte in maniera asimmetrica e affiancati alle due estremità dalle città celesti di Betlemme, a destra, e Gerusalemme, a sinistra. Il dipinto, monocromo e di un omogeneo color seppia, è la copia dell'incisione di Ciampini che riproduceva, a fine Seicento (Ciampini 1690, tav. XLVII), la decorazione presumibilmente paleocristiana allora ancora visibile e andata in seguito perduta, forse durante i restauri promossi da Benedetto XIII (1724-1730; CBCR 1976, IV, 74) [14, 15]. La copia della tavola di Ciampini fu eseguita dal pittore Eugenio Cisterna nel corso della prima campagna di interventi alla basilica, diretta da Antonio Mufioz negli anni 1914-1919 (Mufioz 1924; Id. 1938, 38; Moretti 1982), e andò a coprire il semplice parato ad intonaco risalente al 1729, ammesso che il mosaico antico fosse stato effettivamente e definitivamente obliterato a questa data (Darsy 1961 , 42). L'opera di Cisterna subì tuttavia un radicale restauro nel 1955 quando, durante il risanamento delle gravi lesioni al pilastro destro e alla chiave dell'arco, «si dovette riprodurre di nuovo il disegno del Ciampini [ .. -.] su cartoni di fotografie a scala originaria» (Darsy 1961, 100).
Note critiche La pittura oggi sull'arco absidale di Santa Sabina è la copia di una copia. U gonio scriveva, alla fine del XVI secolo, che «Si vede anco nell'Arco della Tribuna, in due fregi che vi sono rimasti, segno del Musaico antico» (Ugonio 1588, 8); Ciampini, circa un secolo dopo, accompagnava l'incisione del mosaico sull'arco con una descrizione accurata di quanto era ancora visibile: «est arcus Tribunae cui quindecim orbes incumbunt, ac aliorum quorum vestigia apparent, quorum /ingulos implet togati viri/acies & pectus, quales imagines Ca?sarum in numusmatibus esse solent. Medium in arco fastigio orbem obtinent Christi Servatoris effigies. Icones reliqua?. Cum nullam pra?se/erant tesseram peculiarem, pra?ter tunicam, quosnam re/erant viros dubium faciunt, quod ego ab esemplari hic apposito, minus occupato Lectori solvendum relinquo. Adha?rent hic inde orbium lateribus dua? civitates, utraque partis patentibus, quorum ex arcu tres lampades pendent, figura partim rotunda?, partim quadrata?.» (Ciampini 1690, 188-189). Che questa decorazione musiva fosse paleocristiana è non solo suggerito da Ugonio - «è verisimile fosse da principio fatto da quel Pietro Cardinale, che fondò la Chiesa, si come il Musaico che è rincontro sopra la porta maggiore» (Ugonio 1588, 9) - ma, come vedremo oltre, confermato dalla sua chiara attinenza all'intero programma decorativo della basilica, che si data al pontificato di Sisto III (432440). Oltre alle citate testimonianze di Ugonio e Ciampini, è
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proprio la coerenza della decorazione dell'arco con l'insieme a confermare che la sua tecnica esecutiva fosse il mosaico. L'operazione di copia della copia, affidata da Muiioz a Cisterna, nasce dalla scelta metodologica di ricomporre l'organismo antico nella sua integrità di struttura e decorazione; scelta che aveva già indirizzato il modus operandi di Muiioz nei cantieri di San Giorgio al Velabro e del Tempio della Fortuna Virile (Muiioz 1914; Id. 1925; Id. 1953, 391-395) . Ancorato alla cultura contemporanea del restauro architettonico e alla sua linea radicale di ritorno all'antico, l'intervento in Santa Sabina ha attirato un'aspra critica di Roberto Longhi (Longhi 1961). Di fatto questa operazione ha prodotto una confusa mescolanza dell'originale paleocristiano con l'incisione di XVII secolo e con l'interpretazione novecentesca e affaticato la riflessione di storici e critici su iconografia e stile del mosaico. Le figure nei quindici clipei, con l'eccezione del Cristo, sono state variamente ritenute papi (Taurisano 1925, 34), santi (Merlin 1906, 435; de Rossi in Berthier 1910, 361; Muiioz 1938, 38), papi oppure santi da Matthiae, il quale dubita che il numero quattordici si attagli alla serie apostolica (Matthiae 1965 [1987], 40), apostoli e santi (Faldi Guglielmi 1966, 103 ), profeti e apostoli (Berthier 1910, 365; Darsy 1949, 212), apostoli ed evangelisti (Garrucci in Berthier 1910, 361; Frutaz in Darsy 1949, 212), apostoli con i santi Paolo e Barnaba (Krautheimer 1981 , 60), semplicemente togati viri (Ciampini 1690, 188). A questa pluralità di interpretazioni dell'iconografia si sommano le ipotesi sul numero originario dei tondi, escluso quello col Cristo: quattordici (Ciampini 1690, 188; Taurisano 1925, 34; Muiioz 1938, 38; Krautheimer 1988, 177) ventiquattro (Darsy 1949, 212; Id . 1961, 99), sedici (Ferrua e Frutaz in Darsy 1949, 212). Il dubbio che la serie dei clipei fosse più numerosa e proseguisse verso il basso è stato accresciuto dalla tavola di Ciampini, dove si intravede l'unghia di altri due emisferi nei pennacchi. La difficoltà a stabilire l'identità dei personaggi si deve in parte anche alle 'modifiche' che essi hanno subito col
passaggio alla redazione documentaria seicentesca, che deve aver riprodotto una situazione compromessa e quindi cercato di integrare e sostituire elementi e dettagli perduti: esempio di integrazione-sostituzione è il «busto col collarino clericale del Seicento», il quinto da destra (Krautheimer 1987-1988, 174). Osservando il mosaico dell'arco un secolo prima di Ciampini, Ugonio parla infatti di «due fregi che vi sono rimasti», lasciando supporre uno stato assai lacunoso, con perdite già gravi e pesanti mutilazioni (Ugonio 1588, 8). La descrizione e l'incisione di Ciampini, delle quali non si nega il grande valore documentario, suggerirebbero tuttavia eh' esso fosse ancora in buone condizioni di leggibilità, pressoché intatto s'egli ne può descrivere i dettagli con precisione (Ciampini 1690, 188-189) ed è pertanto legittimo ritenere che Ciampini, secondo una prassi che non disdice al XVII secolo, abbia voluto presentare l'opera in una veste 'ordinata' e compiuta, integrando e sostituendo dove necessario. La composizione iconografica sull'arco di Santa Sabina non trova corrispondenze puntuali in contesti coevi: figure clipeate disposte ad emiciclo si trovano solo sulla fronte di accesso alla cappella di San Zenone in Santa Prassede (Pasquale I, 817 -824) e sull'arco absidale di San Marco (Gregorio IV, 827 -844). Questo ha suggerito a Matthiae - insieme alla notizia del Liber Pontzficalis che papa Eugenio II (824-827), prima della sua elezione, 41b) , notizia che era confermata dal titulus ricordato sulla controfacciata dal Panvinio (Panvinio 1570b, 235;---> 41c). L'edificazione della basilica, invece, doveva essere già stata completata probabilmente negli anni precedenti, forse durante il pontificato di Celestino I (422-432), quando la muratura, in attesa della decorazione definitiva, fu rivestita con un leggero strato di pittura rossa e la malta tra i mattoni ripassata in bianco (CBCR 1971, III, 40-41 , fig. 39; Atlante I---> 28). I mosaici della navata rappresentano le storie dei patriarchi dell'Antico Testamento. In origine comprendevano quarantadue riquadri, dei quali ne rimangono ventisette (---> 41a): a sinistra, a partire dall'abside, narrano le Storie di Abramo, Isacco e Giacobbe e, a destra, sempre a partire dall'abside, le Storie di Mosè e Giosuè. I riquadri erano disposti all'interno di cornici in stucco di gusto ellenizzante, distrutte durante i lavori pinelliani (1593; CBCR 1971 , III, 27 -3O). È possibile ricostruirne l'aspetto grazie ad alcuni disegni rinascimentali anteriori alle trasformazioni (GDSU, Arch., n. 1864; BAV, Vat. lat. 11257, f. 185r [33]; Bartoli 1914-1922 , I, tav. 2, fig. 3, IV, tav. 357, fig. 656; CBCR 1971, III, 16, fig . 10, 4950, figg . 49-50). Una serie di lesene disposte fra le finestre , che erano in numero doppio rispetto a quelle oggi esistenti, saliva fino al soffitto e includeva al suo interno un doppio ordine di finte nicchie; quello inferiore ospitava i riquadri a mosaico in edicole con frontone, alternativamente triangolare e semicircolare e colonnine tortili ai lati; quello superiore incorniciava le aperture delle finestre (Atlante I ---> 28). Ciascun riquadro musivo ospita generalmente due scene sovrapposte, ad eccezione di quattro casi: l'Offerta del pane e del vino da parte di Melchisedech sulla parete sinistra, il Passaggio del Mar Rosso, la Battaglia di Ra/idim, Giosuè /erma il sole sulla parete destra. La narrazione biblica procede con ritmi diversi, ora in modo sintetico, raggruppando più momenti in un unico riquadro, ora in modo analitico, come avviene nelle Storie di Giosuè, nelle quali ad ogni versetto è dedicata per lo più una scena. Inoltre, la sequenza cronologica viene a volte modificata, anticipando alcuni episodi rispetto ad altri, per creare precise
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rispondenze compositive fra le scene o per privilegiare il rapporto fra alcuni episodi veterotestamentari della navata e lo spazio presbiteriale. Sulla parete sinistra l'Offerta del pane e del vino da parte di Melchisedech (Gen 14, 18-20) e l'Apparizione ad Abramo del Signore nella valle di Mambre (Gen 18, 1-8) precedono la Separazione di Abramo e Lot (Gen 13 , 8-12); sulla parete destra il Miracolo delle quaglie (Es 16, 13) anticipa Le acque di Mara (Es 15 , 24) , il Trasporto dell'arca (Gs 3, 14-17; 4, 1-11) e l'Invio degli esploratori a Gerico (Gs 2, 1-6), mentre la Presa di Gerico (Gs 6, 20-25) precede l'Apparizione a Giosuè del comandante delle schiere celesti (Gs 5, 13-16; Brenk 1975, 53-132). Le singole scene, come già notavano Richter e Taylor (RichterTaylorl 904), per l'ambientazione naturalistica e il vivace senso narrativo, presentano sorprendenti affinità formali con alcuni codici prodotti a Roma nel corso del V secolo, in un momento di straordinario revival classicista segnato dall'attività di scriptoria che producono, contemporaneamente, testi classici latini e testi biblici. Il Virgilio Vaticano (BAV, Vat. lat. 3225), che contiene il testo delle Georgiche e dell'Eneide, e l'Itala di Quedlinburg, del quale rimangono solo alcuni fogli del Libro dei Re (SBB, Ms. Theol. Lat.; Kitzinger 1975; Id. 1977 [2005], 76), ne sono celebri testimonianze. Per individuare la genesi dell'iconografia delle scene sistine gli studiosi, in mancanza di altri cicli monumentali con le storie dei Patriarchi, si sono rivolti alla produzione miniata, anche se posteriore, nella ricerca di confronti. L'analisi delle illustrazioni di codici eseguiti fra la seconda metà del V e il pieno VI secolo (Genesi di Cotton, LBL, Cotton Otho.VI; Genesi di Vienna, ONB, Theol. Grec. 31) ed anche di altri pienamente medievali, ma redatti sulla base di modelli più antichi, come gli Ottateuchi bizantini, ha rivelato l'indiscussa originalità delle iconografie dei mosaici (Richter-Taylor 1904; Wilpert 1916, I, 412-496; Cecchelli 1956, 105-188; Brenk 1975, 53-132; Deckers 1976a; Id. 1976b, 308-318; Gandolfo 1987, 88-109). Nella maggior parte dei casi esse risultano elaborate sulla base di modelli presi in prestito dall 'arte romano-imperiale, in particolare dal repertorio militare (l'Adventus, l'Assedio, l'Attraversamento del/iume, l'Invio degli esploratori, la Presa della città), e talvolta anche da soggetti civili (Dextrarum iunctio, Consesso dei/zloso/i; Grabar 1936, 209-230; Deckers 1976a). La composizione delle scene è volta a sottolineare il tono epico nella narrazione, ma è anche regolata da un principio generale che crea un effetto di «ritardando» verso l'abside, attraverso l'allentarsi del ritmo narrativo, in un perfetto parallelismo fra la parete sinistra e la parete destra (Kitzinger 1977 [2005], 74). Avvicinandosi al presbiterio, come per primo indicava Komsted, le figure diventano più monumentali, la gestualità più misurata, il racconto meno concitato, gli sfondi naturalistici cedono progressivamente il campo ai fondali d'oro per preparare i modi delle scene dell'arco (Komsted 1929, 14). Questo si presenta visivamente come il punto di arrivo, il fulcro verso cui tende la sequenza narrativa, in un crescendo di solennità che viene preparata lungo tutto il percorso eall'ingresso verso l'abside. I mosaici dell'arco, che in origine, si ili:ordi, era un arco absidale, presentano le storie dell'Infanzia di Cristo disposte in modo continuo su tre registri, secondo un sistema che richiama da vicino gli archi di trionfo, in particolare quello di Settimio Severo (Grabar 1968, 48-5 3). Il ciclo deriva , almeno in parte, dai Vangeli apocrifi; comprende otto episodi che privilegiano gli aspetti della
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divinità di Cristo. Alcuni hanno qui la loro prima rappresentazione, altri propongono iconografie del tutto originali, mai più riprese in seguito. Sono raffigurati per la prima volta la Presentazione al Tempio, la Strage degli Innocenti e l'Incontro della Sacra famiglia con il re Afrodisio, ma non è presente, come ci si aspetterebbe, la Natività. L'iconografia dell'Annunciazione e dell'Adorazione dei Magi è rielaborata appositamente per il programma sistino (Brenk 1975, 12, 25-26). Anche la disposizione delle scene non segue la tradizionale sequenza narrativa, ma è piegata a creare una serie di rispondenze visive e simboliche fra le due parti dell'arco, secondo un preciso principio gerarchico e di simmetria (Ki.inzle 1961-1962, 153-177; Gandolfo 1987, 109-115). In quest'ottica si comprende il senso dell'ubicazione del trono vuoto dell' Etimasia, al culmine dell'arco, con ai lati gli apostoli Pietro e Paolo e al di sopra i simboli apocalittici. Il trono si collega idealmente alle raffigurazioni delle città gemmate poste alla base. Nell'insieme le scene superano il livello di semplice illustrazione delle storie cristologiche e risultano trasformate in « visualizzazione simbolica » di principi teologici (Casartelli Novelli 1996, 658). Rispetto ai mosaici della navata, nelle scene dell'arco il procedere del racconto è più lento; prevale un tono maiestatico, aulico e solenne, uno stile più astratto; le figure imponenti e squadrate, di dimensioni maggiori rispetto a quelle nei riquadri della navata, si dispongono frontalmente davanti ad un fondale d'oro, nettamente delineato dietro i personaggi (Deichmann 1948, 65; Matthiae 1967, 98; Kitzinger 1977 [2005], 74). La diversità di linguaggio fra i mosaici dell'arco e quelli della navata ha fatto sostenere in passato l'ipotesi di una loro diversa cronologia. Seguendo una linea di studi che parte dal Ciampini, giunge a Wilpert ed ha avuto, nella prima metà del secolo scorso, ampio seguito, i mosaici della navata venivano attribuiti alla basilica di papa Liberio (352-366), edificio che la tradizione riteneva sorgesse sullo stesso luogo (Ciampini 1690, 211; Wilpert 1916, II, 412; Id. 1931, 197-213; van Made 1923,5; Biagetti 1937, 105-116; Id. 1946-1947, 250-251; Bettini 1947, 28). Richter e Taylor pensarono persino alla provenienza dei riquadri da un edificio ancora più antico, del II-III secolo (Richter-Taylor 1904, 15-16, 3 97-400). Altri hanno proposto una datazione dei mosaici della navata ai primi anni del V secolo (Oakeshott 1967, 74-82), estesa, senza alcun fondamento, anche ai mosaici dell'arco (Klauser 1972, 126-129). È oggi chiaro, sulla base di considerazioni che partono da elementi di diversa natura, che l'esecuzione dei mosaici si è svolta in un'unica fase. In primo luogo l'esame del retro dei pannelli, reso possibile a seguito dello stacco durante i restauri del 19361939 (Biagetti 1937 , fig. 2), ha provato che i mosaici sono stati allettati, fin dall'origine, direttamente sulle pareti della basilica sistina. L'impronta dei corsi di mattoni, conservata sul retro, corrisponde infatti esattamente al modulo della muratura delle pareti della navata centrale (CBCR 1971, III, 41-42). Un secondo elemento è offerto dai risultati dello studio delle modalità tecnico esecutive dei mosaici che sono risultate le stesse sia nell'arco che nei pannelli della navata (Astorri 1934, 51-72; Brenk 2000 [2005], 236-237). Infine, la maggiore conoscenza delle linee di svolgimento della produzione artistica fra IV e VII secolo, caratterizzata dalla frequente presenza di «modes» diversi anche all'interno di una stessa opera, permette di considerare i mosaici di Santa Maria Maggiore non un caso anomalo, ma una testimonianza all'interno di un quadro più vasto (Kitzinger 1977 [2005], 74). Anche il programma risulta concepito unitariamente. E, partendo dall'intuizione del Ki.inzle, si sono sviluppate letture sempre più complesse e.stratificate. Attraverso le gesta di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e Giosuè, le Storie dell'Antico Testamento nella
navata raccontano le vicende del popolo di Dio in viaggio verso la Terra promessa e preparano la venuta di Cristo, rappresentata nelle Storie dell'Infanzia sull'arco (Ki.inzle 1961-1962, 153-177). Vecchio e Nuovo Testamento sono legati dall'essere il primo prefigurazione del secondo e una fitta trama di rimandi di tipo iconografico e compositivo mette strettamente in relazione la raffigurazione dell'uno e dell'altro (Brenk 1975, 35-52, 107-125). La solenne iscrizione dell'arco sottolinea infine il ruolo guida del pontefice di Roma, nella sua natura di episcopus, nel condurre la cristianità verso la salvezza. Come per primo ha indicato Grabar, in questo contesto l'appropriazione del linguaggio figurativo romanoimperiale, sia nelle scelte iconografiche che nell'impaginazione delle scene, costituisce un intervento di « voluta archeologia » (Grabar 1936, 209; Id. 1968, 46; Gandolfo 1987, 123), teso a esprimere la volontà della committenza di rilanciare il primato di Roma all'interno del mondo cristiano, secondo una linea che inizia con papa Damaso (3 66-3 84) e giungerà fino a Leone Magno (440461; Brenk, 1975, 179-181; Kitzinger 1977 [2005], 75-76). Questa interpretazione del programma di Santa Maria Maggiore non sembra venire scardinata dalla critica rivolta recentemente da Mathews alla «mistica imperiale» dell'arte cristiana (Mathews 1993 [2005], 5-18). Infatti nel programma della basilica sistina i temi romano-imperiali vengono inseriti, anche dove non sarebbero richiesti dal testo biblico, apportando varianti all'iconografia consueta, con il fine preciso di trasformare alcuni episodi del racconto in momenti di celebrazione dell'autorità dei patriarchi del Vecchio Testamento o di Cristo. Accade, ad esempio, in modo particolarmente evidente nelle scene dell'Offerta di Melchisedech, di Isacco che visita Esaù, dell'Adorazione dei Magi. L'ambiente, all'interno del quale nasce un programma così complesso e originale, individuato e messo a fuoco da Brenk (Brenk 1975; Id. 2002 [2005], 227-231), è costituito dalla nuova temperie culturale che a Roma si viene a creare fra due avvenimenti chiave: da una parte il venir meno del potere imperiale con l'invasione dei Goti (410), dall'altra il concilio di Efeso (431). In questi due decenni il ruolo della chiesa di Roma diviene centrale nella vita della città, andando a sopperire al vuoto lasciato dall'organizzazione imperiale ormai in disfacimento; allo stesso tempo la sua posizione all'interno del mondo cristiano si rafforza, nel lavoro di ricomposizione delle controversie religiose alimentate dalle eresie (arianesimo, pelagianesimo, nestorianesimo, ecc.; Brenk 2002 [2005], 231-23 7). Una lunga tradizione di studi, che parte da Ciampini, ha interpretato il programma dei mosaici sistini come diretta espressione delle risoluzioni del concilio di Efeso (Ciampini 1690, 187,205; Wilpert 1931; Wellen 1961, 93-94; Matthiae 1967, 87; Marini Clarelli 1996, 323-344; Paolini Sperduti 1996, 55). Altri hanno accolto con riserva o messo in dubbio questo legame (Grabar 1936, 219 nota 1; Bertelli 1961, 48-49), giungendo anche a negarlo del tutto (Richter-Taylor 1904, 390-39; Van Berchem-Clouzot 1924, 47); altri ancora hanno preferito porre l'attenzione esclusivamente sulla dipendenza delle scene dell'arco dai Vangeli apocrifi (Toesca 1927, 231 nota 28; Schuchert 1939, I, XV-XVIII; Goubert 1964, 187-215). Dal momento che la decorazione dell'arco è stata realizzata sicuramente negli anni del pontificato di Sisto III e, quindi, a ridosso della conclusione del concilio non si può escludere un legame tra i mosaici e le decisioni di quest'ultimo, e tuttavia, come già osservava Wellen, limitarne la lettura all'adesione ai principi del dogma efesino non consente di coglierne la complessità e l'intera articolazione (Wellen 1961, 93-130) . A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso si sono aggiunte interpretazioni più complesse che legano il programma sistino ora al pensiero teologico agostiniano, espresso nel De Civz'tate Dei
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(Brodsky 1966; Spain 1968a, 165-207 ; Brenk 1975 , 108-125; Casartelli Novelli 1996, 650-652; Ead. 2000 , 315-321), ora ai Sermones del futuro papa Leone Magno, dedicati al dogma dell'Incarnazione (Kollwitz 1960; Brenk 1975 , 39-49; Deckers 197 6b, 318; Sieger 1987) o ancora all'ideologia del primato politico della Chiesa di Roma (Kantorowicz 1963b; Schubert 1971, 194226; Schubert 1995 ; Warland 2003 ). Tutte queste letture, che in molti casi non si elidono, ma si completano a vicenda, offrono un quadro dell'alto livello di riflessione e di elaborazione intellettuale raggiunto all'interno della curia romana nei primi decenni del V secolo; permettono, inoltre, di cogliere lo sforzo della committenza nel creare una sorta di summa theologica per immagini, dando vita ad un programma figurativo con un 'impronta fortemente «polisemantica» (Bertelli 1997, 48) . Nella ricerca della personalità in grado di ispirare un disegno di così ampio respiro, la critica si è orientata sempre più verso la figura di Leone Magno. Egli, durante il pontificato di Celestino I (422-432 ) e Sisto III, era solo un diacono e non aveva ancora scritto la maggior parte delle sue opere più significative - in particolare i novantotto Sermoni, redatti tutti fra il 440 e il 461 - ma fin dall'inizio della sua carriera si era impegnato sulle questioni teologiche ed era stato scelto quale portavoce delle posizioni della Chiesa occidentale proprio al concilio di Efeso. Per il suo profilo era considerato, in modo indiscusso, fra gli intellettuali di maggior spicco dell' ambiente romano (Studer 1997, 25-27; Cavalcanti 2000, 254-260). La redazione iconografica dei mosaici sistini deve essere stata particolarmente complessa non solo per l'ideazione del programma nel suo insieme, per la scelta dei soggetti e la loro disposizione nella basilica , ma anche per l 'individuazione dei modelli più appropriati in relazione alle singole scene. Per le ridotte dimensioni e l'accentuato senso narrativo i riquadri della navata appaiono miniature ingrandite in un'impaginazione su scala monumentale (Andaloro 1992 , 574 nota 14; Ead. 2000a, 63 nota 62) ; tale scelta non agevola la loro lettura dal livello pavimentale della basilica, ma conferisce volutamente al racconto un tono aulico, evocando le pagine di un «poema epico fastosamente illustrato» (Kitztinger 1975 , 134). E se immaginiamo i riquadri nella loro redazione originaria, all'interno delle cornici in stucco, il rimando alla tradizione classica diviene ancora più incisivo (Atlante I - 28 ). In passato si è pensato ad una diretta dipendenza dei mosaici da un codice miniato prodotto a Roma all'incirca negli stessi anni, simile al Virgilio Vaticano (Morey 1942, 151; Matthiae 1967, 114119). Oggi, sulla scia degli studi che hanno indagato e fatto luce intorno alle modalità operative all'interno del cantiere medievale, si è chiarito che alla base del programma decorativo esisteva una guida pittorica, redatta appositamente per questo contesto, che f
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attingeva ad un «repertorio di formule», tratto da modelli diversi, a seconda del tipo di episodi e della loro collocazione, non esclusivamente librari (Kitzinger 1975 , 121-138; Andaloro 1987, 229). Questa tesi scaturisce da alcune considerazioni: ogni scena ha una composizione pensata appositamente in rapporto alla sua specifica ubicazione, funzione e significato all'interno della basilica; in secondo luogo non è stato individuato alcun codice con un ciclo analogo. Inoltre l'impaginazione con due scene sovrapposte, che caratterizza la maggior parte dei riquadri sulle pareti della navata, non trova confronto in codici prodotti nella metà del V secolo a Roma, ma solo nelle miniature dell'Iliade Ambrosiana (Bianchi Bandinelli 1955 , 146-149), eseguite ad Alessandria alla fine del V secolo (Cavallo 1973 , 80-85). Tutti questi elementi hanno indotto Kitzinger a giungere alla conclusione che alla base della redazione del programma vi fossero necessariamente modelli diversi, selezionati e rielaborati ad hoc su precise indicazioni del committente (Kitzinger 1975 , 134 ; Andaloro 1987, 229). Per l'esecuzione di un'opera così vasta, frutto dello «sforzo eccezionale della committenza» (Gandolfo 1987 , 116) in un arco di tempo piuttosto ristretto furono impegnate numerose maestranze, attive, contemporaneamente, con i relativi gruppi di lavoro (Byvank 1958, 41-47 ; Matthiae 1967 , 114-120; Brenk 1975 , 151-154 ), secondo Matthiae cinque nell'arco e almeno otto nella navata (Matthiae 1967 , 114-120; Andaloro 1987, 229). Il tratto distintivo del cantiere è lo straordinario senso del colore che il recente restauro dei mosaici con la direzione dei Musei Vaticani ha riportato alla luce in tutta la sua preziosa e ricchissima gamma cromatica. Ora è usato a macchia per ottenere effetti coloristici disgregati (Storie di Giosuè), ora piegato al recupero del senso costruttivo (Storie dell'arco). Sono «modi» diversi, testimoni di distinti orientamenti: il primo, legato alla tradizione dell' «impressionismo romano» (Deichmann 1983 , 60), è stato avvicinato ai modi delle catacombe di via Latina (Matthiae 1967, 117; Gandolfo 1987, 123 ) e testimonia la sopravvivenza della tradizione ellenistica a Roma nella prima metà del V secolo (Kitzinger 1977 [2005] , 76-77 ; Andaloro 1992, 574; Id. 2006, 49 ), il secondo, più moderno , preannuncia il cambiamento che porterà allo stile astrattizzante del secolo successivo (Kitzinger 1977 [2005] ,77 -78). I mosaici sistini, nella pluralità delle loro componenti, che in passato hanno fatto avanzare l'ipotesi della presenza anche di elementi orientali all'interno del cantiere (Kitzinger 1977 [2005] , 77-78), trovano i propri antecedenti nella tradizione romana, non solo per le scelte iconografiche e compositive ma anche per le modalità esecutive dei mosaici, che assumono la tessera quale unità base nella costruzione dell'immagine (Brenk 1975, 134-159; Id. 2000 [2005], 236-237; Andaloro 2006, 49).
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41a. STORIE DEI PATRIARCHI DELLA NAVATA CENTRALE
I riquadri musivi nella navata, in origine quarantadue, ventuno sulla parete sinistra con le storie di Abramo, Isacco e Giacobbe e ventuno sulla parete destra con le storie di Mosè e Giosuè, si dispongono su entrambe le pareti a partire dall'abside verso la facciata. Nella descrizione si è scelto di raggruppare le storie per patriarca (1-5) ma si è mantenuta, in numeri romani, la posizione dei riquadri secondo la sequenza sulla parete (I-XXI). Sulla parete sinistra restano dodici pannelli:
1. Storie di Abramo (I-III):
I. Offerta del pane e del vino da parte di Melchisedech; II. Apparizione ad Abramo del Signore nella valle di Mambre; III. Separazione fra
Abramo e Lot. 2. Storie di Isacco (VII): IV. perduto; V. perduto; VI. perduto; VII. Isacco benedice Giacobbe
- Ritorno di Esaù 5. Storie di Giosuè (XIII-XIX) 3. Storie di Giacobbe (IX-XIII, XV, XVII, XVIII) VIII. perduto; IX. Rachele e Giacobbe - Labano e Giacobbe; X. Giacobbe chiede in moglie Rachele; XI. Lagnanza di Giacobbe Matn·monio di Giacobbe con Rachele;XII. Nuova lagnanza di Giacobbe - Divisione del gregge; XIII. Dio comanda a Giacobbe di partire Giacobbe dà l'annuncio della sua partenza alle mogli; XIV. perduto; XV. Giacobbe invia i messi ad Esaù - Incontro di Giacobbe con Esaù; XVI. perduto; XVII. Acquisto del campo -Annuncio del ratto di Dina; XVIII. I principi di Sichem trattano con Giacobbe -I Sichemiti indotti a /arsi circoncidere; XIX. perduto; XX. perduto; XXI. perduto. I pannelli IV, V e VI sono stati distrutti dall'apertura, da parte di Flaminio Ponzio, dell'arco in corrispondenza della Cappella Paolina nel 1611; i pannelli VIII, XIV, XVI, XIX, XX e XXI sono stati sostituiti da affreschi durante i lavori di ristrutturazione dell'interno della basilica promossi dal cardinale Domenico Pinelli nel 1593 . Sulla parete destra restano quindici pannelli:
4. Storie di Mosè (II-III; VII-XII) I. perduto; II. Mosè viene adottato dalla figlia del Faraone -Disputa con ifiloso/i; ID. Matrimonio di Mosè con Se/ora - Il roveto ardente; IV. Incontro di Mosè e Aronne -Mosè e Aronne di fronte al Faraone, perduto; V. Istituzione della Pasqua - La Terra Promessa, perduto; VI. Offerta dei primogeniti, perduto; VII. Passaggio del Mar Rosso; Vill. Mormorazione del popolo d'Israele -Miracolo delle quaglie; IX. Il popolo di Israele si lamenta per la sete - Opposizione degliAmaleciti; X. Battaglia di Ra/zdim; XI. Ritorno degli esploraton - Rivolta del popolo d'Israele; XII. Consegna della legge e morte di Mosè - Trasporto dell'Arca.
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XID. Passaggio dell'Arca attraverso zl Giordano -Invio degli esploraton· a Gerico; XIV. I'Angelo appare a Giosuè - Fuga da Gerico degli esploratori; XV. Caduta di Gen·co -Processione dell'A rca dell'Alleanza; XVI. Assalto di Gabaon - Apparizione del Signore a Giosuè; XVII. Giosuè mette in fuga gli Amorrei - Caduta delle pietre;XVIII. Giosuè / erma il sole e la luna; XIX. I re davanti a Giosuè - Supplizio dei re; XX. perduto; XXI. perduto. I riquadri IV, V e VI sono andati perduti a seguito dell'intervento di Ferdinando Fuga (1747-1750) per l'apertura dell'arco davanti alla cappella Sistina, eretta nel 1585 da Domenico Fontana. Di essi restano gli acquerelli commissionati dal cardinale Francesco Barberini (1640 circa; BAV, Barb. lat. 4405 , ff. 23 , 24, 25 ; Waetzoldt 1964, tavv. 258260; Herklotz 1992, 31-37; Osborne-Claridge 1996, 47 ). I pannelli I, XX e XXI sono stati sostituiti da affreschi cinquecenteschi, come è accaduto per sei riquadri sulla parete sinistra. Alla sistemazione paleocristiana appartiene il fregio a mosaico con racemi vegetali su fondo oro che si svolge lungo le due pareti all'interno dell'architrave sopra le colonne e in origine si estendeva anche sulla controfacciata (-+ 4 lc).
1. STORIE DI ABRAMO
I. Offerta del pane e del vino da parte di Melchisedech [4] Il riquadro presenta un'unica scena. A sinistra Melchisedech, re di Salem, in veste di sacerdote, con una corta tunica e un ampio mantello, fermato da una fibula circolare sul petto, offre un cesto colmo di pani per ringraziare Dio della Liberazione di Lot (Gen 14, 18-20). Un grande vaso in forma di cantaro è disposto al centro
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per l'offerta del vino. Sulla destra Abramo giunge a cavallo, alla testa dell'esercito; a differenza del suo seguito, non indossa abiti militari, ma una tunica bianca segnata da clavi purpurei. In alto, fra le nubi rosse, bianche e blu, appare la figura a mezzo busto di Cristo che, con il braccio teso, si rivolge a Melchisedech. Il pannello è l'unico fra quelli della navata ad essere stato integrato a mosaico durante i restauri degli anni Trenta (- 41b , Int. cons.).
la città di Sodoma, rappresentata sinteticamente sulla destra. Il registro inferiore accoglie un episodio naturalistico, ampiamente integrato a pittura durante la campagna di lavori del cardinale Pinelli (BAV, Barb. lat. 4405 , f. 28). Presenta le greggi al pascolo fra arbusti e due pastori in piedi ai lati della scena (Gen 13 , 5-7 ).
II. Apparizione ad Abramo del Signore nella valle di Mambre [5] Il pannello è articolato in due registri . Il superiore contiene l'Apparizione dei tre angeli ad Abramo (Gen 18, 1-5 ), l'inferiore l'Ospitalità di Abramo (Gen 18, 6-8 ). I!,Apparizione è ambientata sullo sfondo di nuvole rossastre anziché sotto il terebinto, come prevede il racconto biblico. I tre angeli con aureola, ma senza ali, sono vestiti di tunica e pallio; una mandorla luminosa circonda la figura centrale e si sovrappone in parte alle due laterali; sulla sinistra, Abramo, in piedi, si inchina davanti a loro. I!,Ospitalità si articola in due momenti distinti. A destra Abramo porge il piatto con la carne di vitello agli angeli seduti dietro la mensa imbandita. Tre pani sono disposti sulla tavola, mentre un grande cantaro con il vino (quasi interamente di restauro) è poggiato sul prato, davanti ad essa. I tre angeli si distinguono per la diversa gestualità: il primo da destra indica i pani, il secondo il piatto di Abramo mentre il terzo si rivolge verso il compagno al centro. Abramo è rappresentato nuovamente a sinistra, nel 'gesto della parola', indirizzato verso Sara che, vestita di tunica e dalmatica, con il capo coperto da una cuffia bianca, sta preparando i pani per gli ospiti. Sara è davanti alla propria casa contrassegnata da una croce all'interno del timpano.
Le Storie di Abramo si aprono con l'Offerta del pane e del vino da parte diMelchisedech, anziché con la Separazione di Abramo e Lot, sconvolgendo la normale sequenza del racconto. La scelta è dettata dall'opportunità di collocare nel punto della parete più prossimo ali' altare una scena di sacrificio, sottolineando l'interpretazione tipologica del racconto biblico in chiave eucaristica. Segue il secondo episodio l'Apparizione dei tre angeli ad Abramo che ha anch'esso significato eucaristico. In queste prime scene vi è infatti un esplicito riferimento al pane (i pani nel cesto di Melchisedech; le focacce preparate da Sara e offerti agli angeli) e al vino (il cantaro in primo piano; Brenk 1975 , 108-109). Labbinamento dei due riquadri risulta dunque perfettamente organico allo spazio presbiteriale, e sarà riproposto più tardi, ai lati dell'altare nei mosaici della chiesa di San Vitale a Ravenna (548 circa; Deichmann 1958, figg. 322323, 326-327 ; Id. 1976, 148-159) . La terza scena, invece, la Separazione di Abramo e Lot, non ha alcun particolare significato tipologico, ma costituisce un momento di snodo narrativo. La presenza di Isacco fanciullo , che al tempo di svolgimento dell'episodio non era ancora nato, anticipa e rimanda alla figura del patriarca al quale dovevano essere dedicate le scene dei tre riquadri seguenti, distrutti nel 1611 (Brenk 1975 , 62 ). La composizione delle tre storie è del tutto originale, sia per l'anomala sequenza narrativa, che per le scelte iconografiche e compositive. La scena dell'Offerta di Mechisedech invece di presentare Abramo e il re di Salem in piedi, uno di fronte ali' altro, ai lati dell'altare, come avviene nelle miniature della Genesi di Cotton (f. 21r; Weitzmann-Kessler 1986, fig. 185 ) o degli Ottateuchi
Note critiche
III. Separazione di Abramo e Lot [6, 16] La parte superiore del riquadro è occupata dalla scena della Separazione di Abramo e Lot accompagnati dalle rispettive famiglie (Gen 13, 8-12) . A sinistra Abramo con accanto il piccolo Isacco, la moglie Sara e il popolo sono davanti alla sua casa e alla quercia di Mambre; a destra Lot con la moglie e le due figlie si dirige verso
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(BAV, Vat. grec. 747, f. 36v; BAV, Vat. grec. 746 f. 68r; WeitzmannBernabò 1999, figg. 229, 231) introduce, in modo del tutto inaspettato, Abramo secondo l'iconografia romano-imperiale dell'Adventus (Dufraigne 1994, 95-96, 112 ) e riserva solo a Melchisedech il ruolo di sacerdote. Il cesto dei pani e il grande cantaro con il vino sottolineano che Melchisedech è sacerdote della Nuova Alleanza, prefigurazione di Cristo, secondo l'interpretazione della Lettera agli Ebrei (6, 20-27 ; Brenk 1975, 54) e la teofania, assente nel racconto biblico, rende ancora più esplicito il significato, dal momento che il Signore appare nelle forme di Cristo e non di angelo, come in altre scene della navata (Perler 1974, 275-276). Nell'Ospitalità di Abramo, il significato eucaristico si completa con quello trinitario, tramite l'inserimento, rispetto alla tradizione, di alcune significative varianti (Stritzky 1998, 200-214 ). Sara, di solito all'interno della porta di casa, come nei mosaici di San Vitale a Ravenna (Deichmann 1958, fig. 326) o affacciata alla finestra, come negli Ottateuchi (BAV, Vat. grec. 747 , f. 39v; Vat. grec. 746, f. 72r; Weitzmann-Bernabò 1999, figg. 261 , 264 ), è intenta a preparare le focacce, in numero di tre, le stesse che sono raffigurate anche sulla mensa, davanti ai tre angeli. La casa molto simile all'edificio nell'Annunciazione alla Vergine sull'arco (-. 41b.l ), permette di identificare Sara, secondo l'interpretazione di Ambrogio (De Abraham , I, 38, PL 14, col. 428) come prefigurazione della Chiesa dei credenti (Stritzky 1998, 209-210). Altri elementi simbolici sono utilizzati nella scena in modo del tutto sperimentale. Per la prima volta fa la sua comparsa in un contesto monumentale la mandorla luminosa che raffigura la 'Gloria' del Signore (Loerke 1981 , 1522) , presente, ma con un significato diverso, anche nella scena della Rivolta contro Mosè sulla parete sinistra. In passato è stato proposto di identificare nella figura centrale all'interno della mandorla Cristo (Richter-Taylor 1904, 76), in analogia al mosaico delle catacombe di Domitilla(-. 20), o con il Logos accompagnato da due angeli (Wilpert 1916, I, 428; Perler 1974, 280), ma l'esegesi del passo biblico (Gen 18, 6-8) in chiave esclusivamente trinitaria compiuta dai Padri della Chiesa, da Origene (185-253/254) a Gregorio Magno (560-602 ), prova che la mandorla in questo contesto sta esclusivamente a rafforzare il significato trinitario e non a indicare una distinzione fra le tre figure (Loerke 1981 , 20; Stritzky 1998, 206). Per quanto riguarda invece gli angeli, è da rilevare che essi sono raffigurati senza ali, come negli altri riquadri della navata, secondo un 'iconografia comune fra IV e V secolo, prima che essi acquisiscano la loro caratterizzazione definitiva (Bussagli 1991 , 4480). Nel programma sistino è però da sottolineare che angeli senza ali sono presenti solo nelle scene della navata, mentre nelle scene dell'Infanzia di Cristo sull'arco gli angeli hanno sempre le ali. La coesistenza delle due diverse tipologie, all'interno di uno stesso programma concepito organicamente, fornisce la misura del carattere sperimentale e innovativo del cantiere (Pirani 2000, 393;-. 41b). La terza scena delle storie di Abramo, la Separazione di Abramo e Lot, è priva di confronti; nella Genesi di Cotton (f. 19r; Weitzmann-Kessler 1986, fig . 171 ), nella Genesi di Vienna (Gerstinger 1931, 751) e negli Ottateuchi (BAV, Vat. grec. 747, f. 35v; Vat. grec. 746, f. 66r; Weitzmann-Bernabò 1999, figg. 188, 191,204, 207 ) l'episodio si sviluppa su due registri, in ognuno dei quali è posto uno solo dei personaggi biblici, insieme alla rispettiva famiglia e ai propri animali. Un tratto che accomuna le tre scene dedicate al patriarca è il ricorso a prestiti dall'iconografia romano-imperiale. Fra questi si distingue la formula dell'Adventus per introdurre la figura di Abramo. Nel testo biblico egli non giunge a cavallo a capo delle truppe e questa variante, in apertura delle storie veterotestamentarie, dà una decisa connotazione romana alla scena. Altri motivi, invece, possono
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essere considerati temi correnti nella comunicazione figurativa dell'epoca (Mathews 1993 [2005] , 9-18). È il caso dell'apparizione divina a mezzo busto, costruita su modelli pagani come il tipo del Giove Tonante della colonna Traiana (Settis 1988, 288, tav. 30), della composizione 'a fregio' con le figure di animali e di pastori nel registro inferiore del terzo pannello, vicina ai rilievi dei sarcofagi del IV secolo (Gerke 1941 , tavv. 3-6, 18-19; Brenk 1975, 150) e alle scene bucoliche delle miniature del Virgilio Vaticano (Wright 1991 , figg. 14, 55 ). I tre riquadri a livello stilistico presentano alcune differenze. Se il primo e il terzo sono accomunati dal modellato saldo e monumentale delle figure e dalla resa del fondo tramite zone di colore (verde, giallo, azzurro) nettamente giustapposte (Matthiae 1967 , 11 8), il secondo pannello, l'Ospitalità di A bramo, per l'ambientazione naturalistica e la scioltezza compositiva si avvicina ai modi delle successive scene di Giacobbe.
2. STORIE DI ISACCO
IV. perduto V. perduto VI. perduto VII. Isacco benedice Giacobbe - Ritorno di Esaù [7, 2] È l'unico pannello superstite delle Storie di Isacco. Nel registro superiore il patriarca , semisdraiato sulla k line, davanti ad un'architettura tetrastila, pone la mano sul capo di Giacobbe, nel gesto della benedizione (Gen 27 , 22-29 ), mentre da destra entra Rebecca vestita di tunica e palla; a sinistra, al di sopra di un ampio paesaggio agreste - in parte di restauro - fra le nuvole, spunta la mano di Dio. La scena sottostante, gravemente compromessa in tutta la zona inferiore, riprende invertendoli gli elementi compositivi: Isacco è questa volta sulla sinistra mentre riceve Esaù
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(Gen 27, 30-31) che reca il frutto della caccia. Completano il riquadro a sinistra una porta aperta con una tenda sollevata che lascia scorgere la figura di Rebecca e, a destra , elementi architettonici fra i quali si distingue un'alta arcata.
Note critiche Il pannello era preceduto da altri tre riquadri dedicati alla vita di Isacco, perduti nel 1611 per l'apertura dell'arcata di Flaminio Ponzio, in corrispondenza della cappella Paolina. In mancanza di qualsiasi documentazione è solo possibile supporre che i riquadri contenessero le scene più significative della vita del patriarca: il Sacrificio d'Isacco, Isacco prende in moglie Rebecca, Nascita di Giacobbe ed Esaù (Brenk 1975, 116). L'episodio superstite, Isacco benedice Giacobbe, si contraddistingue per il suo significato tipologico. Secondo la lettura del Vecchio Testamento ad opera di Ambrogio (De Abraham l, 71, PL 14, col. 446) e di Agostino (De Civz'tate Dei, 16, 32), la scena prefigura la benedizione di Cristo su tutti i popoli; Isacco è infatti immagine di Cristo e della sua passione e Rebecca della Chiesa (Brenk 1975 , 116-117). La scena, presente anche nelle catacombe di via Latina (cubicolo A e cubicolo B;-+ 16, 10), introduce diverse varianti rispetto allo schema più diffuso (Brenk 1975, 64): l'inserimento dell'architettura alle spalle del patriarca, l'eliminazione dell'offerta di cibo da parte di Giacobbe e la disposizione di Rebecca sul lato opposto rispetto a Isacco. Il Ritorno di Esaù dalla caccia trova confronti nel repertorio degli Ottateuchi (BAV, Vat. grec. 747, f. 49r; Vat. grec., 746, f. 93r; Weitzmann-Bernabò 1999, figg. 375, 378), ma prevalgono elementi di gusto antichizzante che rimandano alle 'scene di ritorno dalla caccia' sui sarcofagi romani (Roma, Catacomba di Praetestato, Melucco Vaccaro 1963-1964, tav. IV, fig. 9), mentre il motivo della porta aperta con la tenda sollevata ha un preciso riscontro nella miniatura di Didone sul letto funebre nel Virgilio Vaticano (Wright 1991, fig. 26). La combinazione delle due scene Isacco benedice Giacobbe e il Ritorno di Esaù dalla caccia è originale. Anche negli Ottateuchi si
sovrappongono due episodi fra loro, tuttavia sono relativi solo alla figura di Esaù: Isacco manda a caccia Esaù, Esaù va a caccia - Esaù offre il/rutto della caccia (BAV, Vat. grec. 747, f. 48v; Vat. grec 746, f. 92r; Weitzmann-Bernabò 1999, figg. 371,374; Brenk 1975, 64; Deckers 1976a, 69). Per quanto riguarda il sistema compositivo, è da sottolineare che il riquadro introduce l'articolazione a chiasmo fra i due registri che caratterizzerà le successive Storie di Giacobbe ed anche le Storie di Mosè e Giosuè sulla parete destra.
3. STORIE DI GIACOBBE VIII. perduto IX. Rachele e Giacobbe - Labano e Giacobbe [8] Il riquadro, in origine il secondo delle Storie di Giacobbe, presenta tre episodi in stretta successione, organizzati in una disposizione a chiasmo. Nel registro superiore Rachele, vestita di tunica e dalmatica , annuncia al padre Labano, che sta uscendo dalla propria casa, l'arrivo di Giacobbe. Il patriarca giunge sulla destra al seguito del gregge (Gen 29, 12); è vestito da pastore, come Labano, con tunica corta che lascia scoperta una spalla (exomis). La scena si svolge alla presenza di Lia, la sorella maggiore di Rachele, che indossa tunica e palla e una cuffia sopra i capelli ed è davanti alla casa del padre Labano. Nel registro inferiore (restaurato a pittura alla fine del XVI secolo, nella parte più bassa, BAV, Barb. lat. 4405, f. 11) , a sinistra è descritto l'Abbraccio di Labano e Giacobbe (Gen 29, 13 ), alla presenza di Lia; a destra è raffigurato nuovamente Labano insieme a Lia che conduce Giacobbe nella propria casa, sulla soglia della quale attende Rachele (Gen 29, 13b). X. Giacobbe chiede in moglie Rachele [9] Labano acconsente alla richiesta di Giacobbe di sposare la figlia Rachele raffigurata al centro in primo piano insieme alla sorella Lia (Gen 29, 15-19). Al seguito di Giacobbe, a destra, vi sono due
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pastori, vestiti della consueta corta tunica, di un piccolo mantello e senza calzari ai piedi. Il gesto di Labano e la presenza del gregge di Giacobbe indicano il futuro del patriarca che si impegnava a servire Labano per sette anni come pastore. Il registro inferiore è andato quasi interamente perduto; le poche tracce superstiti e l'acquerello seicentesco (BAV, Vat. lat. 4405, f 12; Alinari, 30132 ) permettono di dedurre che si trattava di una scena agreste, probabilmente relativa al lavoro prestato da Giacobbe a Labano (Gen 19, 20). XI. Lagnanza di Giacobbe - Matrimonio di Giacobbe con Rachele [10, 1] Il pannello illustra tre versetti del testo della Genesi (Gen 29 , 25 27 ) attraverso tre scene distinte. Nella parte superiore è raffigurata la Protesta di Giacobbe contro Labano per la sostituzione di Rachele, la donna che aveva chiesto in sposa, con Lia, la sorella più anziana. Le due figure femminili sono insieme al padre Labano davanti alla propria casa, mentre sulla sinistra Giacobbe è accompagnato da un pastore. Nel registro sottostante, integrato a pittura in tutta la parte inferiore, a destra Labano, vestito di tunica clavata, celebra il matrimonio fra Giacobbe e Rachele unendo le mani degli sposi, davanti ad una maestosa architettura ad esedra e alla presenza di Lia. A sinistra Labano, invita due figure maschili alla festa di nozze.
XIII. Dio comanda a Giacobbe di partire - Giacobbe dà l'annuncio della sua partenza alle mogli [12 , 3] In questo riquadro si condensano momenti diversi del racconto biblico. Il registro superiore contiene due scene separate da un albero, impaginate secondo il principio della 'narrazione continua'. Quella a sinistra è in stretta relazione agli episodi del pannello precedente (Gen 30, 37-43 ): Giacobbe con l'aiuto di due pastori pianta le verghe variegate nei luoghi dove si abbeverano le greggi, in modo che gli animali le guardino e le femmine partoriscano animali dal pelo variegato. A destra, invece, Dio appare tra le nubi a Giacobbe, in forma di angelo a mezzobusto , ordinandogli di tornare nella terra dei Padri (Gen 31 , 3 ). Nel registro inferiore è illustrato l'episodio in cui Giacobbe informa le mogli Rachele e Lia, che lo avevano raggiunto nel campo, circa la volontà divina (Gen 31 , 4-16). Per rendere in modo aderente al testo il racconto, lo spazio è articolato in due ambientazioni diverse: a destra un paesaggio agreste con il gregge e due pastori che colloquiano fra loro fa da sfondo alla figura di Giacobbe; a sinistra, un'architettura è alle spalle delle due mogli Lia e Rachele, accompagnate dai rispettivi figli. XIV. perduto
XV. Giacobbe invia i messi ad Esaù - Incontro di Giacobbe con Esaù XII. Nuova lagnanza di Giacobbe - Divisione del gregge [11] Le due scene si riferiscono al patto fra Giacobbe e Labano, dopo la nascita dei figli di Rachele e Lia. Secondo questo patto il gregge sarebbe stato diviso e a Giacobbe sarebbero stati assegnati tutti gli animali di pelo variegato (Gen 30, 25-34 ). Il registro superiore presenta al centro Labano e Giacobbe, ciascuno accompagnato da due pastori, che discutono con ampi gesti. La scena è completata dalle rispettive greggi e da edifici sullo sfondo. Nel registro inferiore, restaurato a pittura nella fascia più bassa (BAV, Vat. lat. 4405 , f. 10; Alinari, 30130), Labano e i suoi figli , vestiti da pastori , procedono alla divisione delle greggi (Gen 30, 35 ).
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[13] Il pannello segue un riquadro interamente perduto e sostituito, al tempo del cardinale Pinelli, con la scena Giacobbe riconosce le vesti insanguinate di Giuseppe (Gen 38, 33-34), soggetto del tutto fuori sequenza che non poteva essere in questo punto nel programma originario. Nel registro superiore Esaù, divenuto re della città di Seir (Gen 32, 3-6 e Gen 33 , 1-4), contraddistinto dall'abbigliamento da dignitario romano (clamide e diadema), esce dalla città con la scorta di due soldati armati di lancia e scudo ad incontrare i messi inviati dal fratello. A destra è raffigurato Giacobbe fra le due mogli e due figure di pastori. Nel registro inferiore la decorazione musiva
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è andata perduta, ad eccezione di due brani, a destra con i busti di un gruppo di armati con lance e scudi, a sinistra con brani di figure vestite di tuniche.
dei principi di Sichem al popolo per convincerlo a farsi circoncidere, condizione senza la quale non sarebbe stato possibile concludere le trattative di matrimonio (Gen 34, 20-32) .
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XIX. perduto
XVII. Acquisto del campo -Annuncio del ratto di Dina [14] La scena va letta in rapporto all'episodio che doveva essere narrato nel pannello precedente, interamente perduto , relativo alla circostanza per cui Giacobbe si era stabilito nei pressi della città di Salem e la figlia Dina era stata rapita mentre i fratelli erano al pascolo nei campi (Gen 34 , 4-7) . Nel registro superiore, ampiamente integrato nell'angolo in alto a destra, il re Emor e il figlio Sichem chiedono a Giacobbe la mano della figlia di Lia, Dina (Gen 34, 6) , inchinandosi davanti a lui. Giacobbe siede su un faldistorio, attorniato dai familiari. A differenza delle altre scene, è di aspetto senile, con barba e lunghi capelli bianchi e non è vestito da pastore, ma di una lunga tunica clavata, in modo consono al suo ruolo di patriarca. A sinistra sono raffigurate le mura della città di Salem, dalla quale si vede ancora uscire il corteo che accompagna il re Emor. Nella parte inferiore, quasi interamente di restauro (BAV, Vat. lat., 4405, f. 14; Alinari, 30129), Giacobbe è nella stessa posa, ma è collocato a sinistra, mentre a destra , riproponendo una rispondenza a chiasmo fra le due scene come nei riquadri precedenti, è descritto l'arrivo dei figli dai campi, adirati per il rapimento della sorella (Gen 34, 7).
XX. perduto
XVIII. I principi di Sichem trattano con Giacobbe - I Sichemiti indotti a /arsi circoncidere [ 15] Nel registro superiore a sinistra, Giacobbe, seduto sul faldistorio, assiste alle trattative fra i suoi messi e il gruppo venuto dalla città di Salem, a destra sullo sfondo, per accordarsi sul matrimonio fra la figlia Dina .e il principe Sichem (Gen 34 , 6 e 8-17). Il registro inferiore, conservato solo nella metà più alta, illustra il discorso
XXI. perduto
Note critiche I riquadri dedicati alle Storie di Giacobbe in origine dovevano essere almeno dieci - agli otto superstiti dovevano aggiungersi il XIV e il XVI - o forse anche dodici, se gli ultimi riquadri, sostituiti da affreschi nel 1593, erano interamente dedicati alle Storie di Giacobbe e non ad episodi della vita di Giuseppe. Le Storie si svolgono secondo i modi della 'narrazione continua' propri della scultura romana (Brenk 1975, 149), da una parte legando fra loro episodi diversi in uno stesso registro, con la ripetizione dei personaggi principali, e dall'altra, ove necessario, inserendo elementi con la funzione di cesura, come l'albero fra l'episodio di Giacobbe che invia i messi ad Esaù ed Esaù che riceve i messi. Il racconto biblico è illustrato in dettaglio, ma senza rapporti con la tradizione iconografica degli Ottateuchi, dalla quale si discosta per il tipo di impaginazione delle scene, per l'omissione di alcuni episodi o per l'aggiunta di altri. Nel pannello di Giacobbe e Rachele non compaiono le scene di Giacobbe e Rachele al pozzo (BAV, Vat. grec. 747, f. 50v; Vat. grec. 746, f. 98r; Weitzmann-Bernabò 1999, figg. 399, 402) e il Ringraziamento di Giacobbe per i discendenti (BAV, Vat. grec. 747, f. 50v; Vat. grec.746, f. 98r; WeitzmannBernabò 1999, figg. 403-406); la Scena delle verghe è insieme all'Apparizione di Dio a Giacobbe, mentre negli Ottateuchi quest'ultima scena è abbinata al Commiato di Giacobbe dalle mogli (BAV, Vat. grec. 746, ff. 102v-103r; BAV, Vat. grec., 747, ff. 53r-
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53v); le scene dell'Acquisto del campo, dell'Annuncio del ratto di Dina , delle Trattative di Sz'chem e dei Sichemiti indotti a farsi circoncidere sono assenti negli Ottateuchi che privilegiano altri episodi. È nuovo il risalto attribuito alle figure di Rachele e Lia, che compaiono ripetutamente insieme, caratterizzate dall'abbigliamento diverso: la prima vestita di tunica e dalmatica con i capelli raccolti e impreziositi da gioielli; la seconda indossa tunica e palla, con il capo coperto da una cuffia. L'insistenza su questa distinzione, non prevista dal racconto biblico, è chiara alla luce dell'interpretazione tipologica di Ambrogio (De Iacob, 5, 25 , CSEL 32, II, 46) che vede in Rachele la prefigurazione della Chiesa, e in Lia la rappresentazione della Sinagoga (Richter-Taylor 1904, 107 ; Brenk 1975 , 118). Sono, insieme a Sara, le figure femminili chiave del Vecchio Testamento che trovano rispondenze con le figure femminili nelle scene dell'arco (Presentazione al Tempio e l'Adorazione dei Magi; Calcagnigni 2000, 1928-1935). Le soluzioni iconografiche e compositive rimandano al repertorio dell'arte romano -imperiale, in particolare in quei casi, come gli episodi relativi all'Incontro di Giacobbe ed Esaù, dove vi è un preciso riferimento alla regalità (Deckers 1976a, 103-106). La scena con Esaù che riceve i messi inviati da Giacobbe riprende l'iconografia dell'imperatore davanti alle mura di città. È un tema raffigurato con frequenza all'interno del fregio storico romano (Settis 1988, 293, tav. 35), ma raro dalla fine del IV secolo (Deckers 197 6a, 105) che viene recuperato per visualizzare in Esaù il simbolo del potere civile. La sua regalità è sottolineata, oltre che dalle vesti, anche dal diadema fra i capelli, elemento distintivo che ritroviamo sul capo di Giosuè nelle storie veterotestamentarie sulla parete destra e del re Afrodisio e di Erode nelle scene dell'arco (-. 41 b). L'Annuncio del Ratto di Dina è costruito sul tema della Clemenza dell'imperatore, mentre i tratti dell'anziano Giacobbe rimandano ai tratti di Zeus o alla tipologia del filosofo antico (Deckers 197 6a, 112; Scheid-Huet 2000, fig. 68). Lo sviluppo temporale, che salda il momento della partenza dalla città e dell'arrivo davanti a Giacobbe attraverso la rappresentazione del corteo, segue il procedimento compositivo presente nella scena della Clemenza dell'imperatore sul fregio della colonna traiana (Settis 1988, 386, fig. 128) o sui
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rilievi dell'arco di Arco di Galerio a Salonicco (Speiser 1984, tav. 17) L'episodio dei Sichemiti indotti a/arsi circonadere, infine, riprende il tema dell'Adlocutio, che in età costantiniana accentua la predilezione per la rigida simmetria degli elementi, con due figure imperiali al centro, come nella medaglia di Costante (Monaco, Staatsmuseum; Deckers 1976a, 118). La scena del Matrimonio fra Giacobbe e Rebecca è costruita sull'iconografia della dextrarum iunctio (Richter-Taylor 1904, 110-113 ), variata attraverso una serie di dettagli, quali il gesto della mano sinistra di Rachele verso il mento, il diverso abbigliamento degli sposi, la veste sontuosa, decorata da perle e completata dal velo della sposa in contrasto con l'abbigliamento da pastore dello sposo, l'architettura ad esedra che fa da sfondo (Brenk 1975, 70). In altri casi, i rimandi all'iconografia imperiale non sono così puntuali. Non sembra, ad esempio, di poter cogliere un riferimento diretto all'iconografia dei tetrarchi nell'abbraccio fra Labano e Giacobbe (Brenk 1975, 66). Alla base delle Storie di Giacobbe vi è la stessa cultura figurativa che ha prodotto le miniature del Virgilio Vaticano (BAV, Barb. lat. 3225 ) e del Terenzio Vaticano (BAV, Vat. lat. 3868) ed emerge con particolare evidenza nella scena del Commiato di Giacobbe, molto vicina al Commiato fra Didone ed Enea (Wright 1991 , fig. 24), nell'ambientazione bucolica nella scena della Divisione del gregge (Wright 1991, figg. 6, 36), nella disposizione delle figure alternativamente frontali e di spalle (Wright 1991, figg. 38, 4950), nella cura per la gestualità dei personaggi soprattutto in alcuni episodi, come la scena della Lagnanza (Wright 1991, fig. 11). Le Storie di Giacobbe segnano un cambiamento nei modi compositivi rispetto alle Storie di Abramo. La scansione dei piani prospettici è resa da zone di colore (verde, giallo, azzurro, grigio, bianco) che utilizzano un 'ampia gamma di toni cromatici e si intersecano fra loro senza nette giustapposizioni, ma adattandosi di volta in volta ad accompagnare i soggetti raffigurati. Il tratto aureo disposto fra la linea del terreno e lo sfondo del cielo non crea un effetto bidimensionale di schermo, ma, al contrario, crea una spazialità indefinita che arretra il piano di fondo e diviene elemento per la resa della 'prospettiva aerea'. La disposizione delle figure si articola spesso su due piani sfalsati, come avviene
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nell'Ara Pacis e nel fregio della colonna Traiana (Matthiae 1967, 111), mentre la costruzione plastica dei corpi è affidata principalmente al colore, evitando la linea continua di contorno. Gli ultimi due riquadri, per la vivacità coloristica più accentuata e la maggiore libertà possono essere riferiti all'opera di mosaicisti diversi, più vicini a quelli che operano sulla parete destra (Matthiae 1967, 112).
Al centro il giovane Mosè all'interno di un teatro discute vivacemente, come si deduce dal gesto della mano destra, con un gruppo di filosofi, due in piedi, gli altri seduti a scalare sulle gradinate della cavea. L'aspetto di quattro di essi, con il petto nudo, i capelli lunghi ed arruffati, il volto emaciato, li connota come seguaci della filosofia cinica . La scena ai lati è chiusa da gruppi di spettatori che si affacciano dalle gradinate (quasi , interamente perduti quelli della parte sinistra).
4. STORIE DI MOSÈ
III. Matrimonio di Mosè con Se/ora - Il roveto Ardente [18] La scena del Matrimonio di Mosè con Se/ora (Es 2, 21) riguarda la formula romana della dextrarum iunctio, come nel Matrimonio di Giacobbe e Rebecca sulla parete sinistra. Qui però Mosè indossa la toga contabulata, dall'ampia piegatura che ricade sulle spalle, abbigliamento che i romani riservavano alle cerimonie ufficiali; Sefora veste tunica e dalmatica ed ha un velo appuntato sul capo che le scende sulle spalle. Al centro , l'imponente figura del sacerdote Jetro, vestito secondo l'usanza ebraica con una corta tunica, un mantello fermato sul petto da una a fibula circolare e alti calzari, circonda con le braccia le spalle degli sposi ad indicarne l'unione. La struttura ombrelliforme dorata disposta sopra il gruppo, più che una struttura architettonica potrebbe essere un elemento simbolico che indica la benedizione divina (Gandolfo 1987, 96) . Al seguito degli sposi sul lato di Sefora vi sono tre figure femminili con tunica e dalmatica e il capo coperto dalla cuffia, del tipo indossato da Sara e Rebecca nelle storie di Abramo e Giacobbe; sul lato di Mosè quattro figure maschili vestite di toga contabulata. Nel registro inferiore l'episodio del Roveto ardente (Es 2, 1-4), viene illustrato nel suo momento iniziale. Mosè al centro, vestito questa volta come pastore, vede in lontananza le fiamme levarsi dal monte a sinistra, fra le quali si distingue la mano di Dio. Il registro è stato restaurato nel margine inferiore durante la campagna del cardinale Pinelli (15 93).
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II. Mosè viene adottato dalla figlia del Faraone - Disputa di Mosè con ifilosofi [17] La scena, identificata da Richter e Taylor (Richter-Taylor 1904, 148) come illustrazione del momento in cui Mosè, ormai diventato fanciullo, viene adottato dalla figlia del faraone (Es 2, 9-10), descrive con dovizia di particolari un momento della vita di corte. A sinistra, la figlia del faraone seduta sul trono indossa una preziosa dalmatica dorata ed ha i capelli raccolti sul capo e impreziositi da gioielli, secondo la moda della prima metà del V secolo. Accanto sono disposte cinque figure femminili, anch'esse elegantemente abbigliate. La figura al centro, da identificarsi con la sorella di Mosè (Cecchelli 1956, 144), introduce Mosè fanciullo, vestito con clamide e tablion, mentre l'ancella a sinistra, che la preziosità dell'abito lascia supporre vicina alla figlia del faraone, offre una cassettina aperta con le monete d'oro che costituiscono la ricompensa per l'adozione. Una donna con un cesto di vimini colmo di pani chiude la scena a destra, mentre in alto a sinistra la mano che fuoriesce dalle nubi rossastre indica la volontà divina. Nel registro inferiore la Disputa di Mosè con i filoso/i è l'unica scena all'interno del programma sistino che non sia tratta dal testo biblico: deriva dalla Vita di Mosè di Filone d'Alessandria (21-24).
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IV. Incontro di Mosè e A ronne -Mosè e A ronne dinanzi al Faraone, perduto
V. Istituzione della Pasqua - La Terra Promessa, perduto VI. Offerta dei primogeniti, perduto
VII. Passaggio del Mar Rosso [19] Il pannello ospita un'unica, grandiosa scena, costruita a volo d'uccello, che salda fra loro tre momenti diversi della narrazione biblica, il senso di lettura dei quali va da destra verso sinistra. A destra, dalla porta della città, fuoriesce impetuosamente l'esercito egiziano, con i fanti, la cavalleria e i carri ad inseguire il popolo d'Israele (Es 14, 6-9). A sinistra la folla degli Israeliti si accalca sulla sponda dopo l'attraversamento del Mar Rosso e Mosè, con la sua bacchetta, ordina alle acque di richiudersi (Es 14, 26-31 ). Al centro della composizione si svolge la tragedia dell'esercito egiziano che viene completamente travolto dalle acque (Es 14, 28) e del faraone che, unica figura ancora in vita, in preda alla disperazione, alza lo scudo, in un ultimo gesto di difesa, mentre sta per essere sommerso dai flutti. VIII. Mormorazione del popolo d'Israele - La caduta delle quaglie nel deserto [20] Il registro superiore abbina la Mormorazione del popolo d'Israele, provato dalla fame, contro Mosè ed Aronne (Es 16, 2-3) , alla scena di Dio che parla a Mosè promettendogli nutrimento dal cielo (Es 16, 4-5 ). I personaggi dei due episodi si stagliano su un fondo oro , che occupa la zona intermedia del registro e si giustappone in modo netto all'azzurro del cielo nella parte alta. La figura di Mosè, vestita di tunica e pallio, si ripete due volte, contrassegnata da un 'incisiva gestualità. Verso sinistra parla con il folto gmppo di Ebrei, vestiti di tunica e paenula, verso destra dialoga con l'app arizione divina. Nel registro inferiore
il Miracolo delle quaglie (Es 16, 13 ) è articolato in due momenti distinti: a sinistra Mosè, insieme ad altre due figure, Aronne e Ur (Cecchelli 1956, 158), indica al popolo il prodigio venuto dal cielo, sotto forma di uccelli, mentre a sinistra gli Israeliti esultano e si apprestano a catturare i volatili, come i due uomini inginocchiati in primo piano . Le tre figure a sinistra, per la netta differenza stilistica riassumibile nel marcato linearismo, l'inespressività dei volti e la semplificazione dei panneggi, sono state riconosciute opera di un restauro di epoca carolingia (Bertelli 1955 , 40-42) ed avvicinate alle figure dei sen iores apocalittici sui mosaici dell'arco della basilica di Santa Prassede, eseguiti al tempo di Pasquale I (817-824; Nordhagen 1983, 323;----> 41a Int. cons. ).
IX. Il popolo di Israele si lamenta per la sete - Opposizione degli A maleciti [21] Il riquadro ha una costruzione analoga al precedente, ma gli episodi presentano una maggiore vivacità narrativa. Nella parte superiore a sinistra gli Israeliti protestano contro Mosè per la sete e l'amarezza delle acque (Es 14, 24) mentre a destra il Signore, a mezzo busto fra le nuvole, appare in aiuto di Mosè consigliandogli di immergere nelle acque un legno che le renda dolci; Mosè esegue immediatamente il suggerimento, mentre è ancora nell'atto di parlare (Es 15 , 25). Il popolo può così subito dissetarsi e gli Israeliti, intorno a Mosè, si inginocchiano per bere, portando l'acqua alla bocca con le mani. Nel registro sottostante, a sinistra l'esercito degli Amaleciti esce dalla città di Rafidim per un'incursione (Es 18, 8), mentre a destra Mosè, assistito da Aronne e Ur, parla a Giosuè, ordinandogli di combattere contro gli Amaleciti (Es 17, 9). Giosuè fa qui la sua prima apparizione, vestito in abiti militari romani, con lorica, clamide, elmo, lancia, scudo, isolato dalle altre figure , e, inoltre, circondato da un alone luminoso, lo stesso che è anche intorno al capo di Mosè.
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X. Battaglia di Ra/idim [22]
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La scena della battaglia (Es 17, 10-13) occupa l'intero riquadro in una composizione grandiosa che richiama molto da vicino quella del pannello con il Passaggio del Mar Rosso, sia per la prospettiva a volo d'uccello che per l'organizzazione a cuneo dei gruppi di figure. A sinistra, dalla porta della città esce l'esercito degli Amaleciti per scontrarsi con gli Israeliti guidati da Giosuè. La scena prevede un senso di lettura inverso rispetto all'episodio del Passaggio del Mar Rosso nel quale la porta della città è a destra. In alto , al centro della composizione, è raffigurato Mosè che, durante lo svolgimento della battaglia, sulla sommità del monte prega con le braccia alzate, assistito da Aronne ed Ur. Concentra su di sé l'aiuto divino, raffigurato dai raggi dorati che discendono dall'alto , grazie al quale gli è concesso vincere fintanto che terrà le braccia levate.
XI. Il ritorno degli esploratori - Rivolta del popolo d'Israele [23] Nel registro superiore è narrato il resoconto degli esploratori al ritorno dalla terra di Canaan a Mosè ed Aronne (Nm 13, 26-33). L'episodio, contrassegnato dall'incisiva gestualità di Mosè e del capo del gruppo degli esploratori, non si svolge nel deserto di Faran, come richiederebbe la fonte biblica, ma sullo sfondo di un edificio con un'alta gradinata a sinistra e di una città fortificata a destra. Nel registro inferiore è illustrata la Rivolta degli Ebrei (Nm 14, 10) che tentano di lapidare Mosè, Aronne e Giosuè i quali vengono salvati grazie all'apparizione della 'Gloria' del Signore sul Tabernacolo dell 'Alleanza. Il concetto di 'Gloria', traduzione del temine ebraico kabod, citato nel testo biblico, viene visualizzato attraverso una mandorla trasparente che scaturisce dalla mano di Dio e protegge Mosè facendo rimbalzare le pietre scagliate per colpirlo (Brendel 1944, 24; Loerke 1981). Il tabernacolo sulla destra ha la stessa struttura dell'edificio nel registro superiore ed è evidente che in questa sede è un elemento non richiesto dalla narrazione, ma è stato inserito per creare una rispondenza a chiasmo
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fra le due zone del pannello. Le cortine tirate permettono di vedere all'interno l'Arca dell' Allenza.
XII. Consegna della legge e Morte di Mosè - Trasporto dell'A rca [24 , 25] Il riquadro nel registro superiore unisce gli unici due episodi tratti dal Deuteronomio: la Consegna della Legge (Dt 31 , 24-29) e la Morte di Mosè sul Monte Nebo ( Dt 35, 1-5). Nella Consegna della legge la figura di Mosè, a sinistra, è in piedi su una roccia e mostra il libro aperto al gruppo di anziani, che sono disposti frontalmente e di spalle. Due di essi sono vestiti di tunica e clamide. La scena della Morte di Mosè si svolge sulla sommità del monte Nebo, creato da ampi roccioni digradanti. Il patriarca è disteso con compostezza e solennità sul fianco sinistro, appoggiato all'avambraccio e con il capo leggermente reclinato. Il registro sottostante presenta, con un salto nella narrazione, il Trasporto dell'Arca dell'Allenza. L'episodio, pur appartenendo al libro di Giosuè (Gs 3-6), non è del tutto slegato dai precedenti dal momento che Mosè aveva ordinato di porre il libro della Legge accanto ad essa. L'Arca viene trasportata da quattro Leviti vestiti di tuniche bianche, preceduti e seguiti da gruppi di tre sacerdoti nel consueto abito.
Note critiche Le Storie di Mosè in origine comprendevano dodici riquadri dei quali quattro sono andati perduti. Del quarto , quinto e sesto pannello, distrutti durante i lavori di Ferdinando Fuga, è stato possibile identificare i soggetti sulla base dei disegni barberiniani (BAV, Barb. lat. 4405 , ff. 23-25): il terzo riquadro raffigurava l'Incontro di Mosè ed Aronne (Es 4, 20) nel registro superiore e Mosè ed A ronne dinanzi al Faraone (Es 5, 1-4) in quello inferiore; il quarto l'Istituzione della Pasqua nella parte superiore (Es 13 , 1-
27) e la Terra Promessa (Es 13, 5) nella parte inferiore. Il soggetto del sesto pannello è di più incerta individuazione perché, come documentano gli acquerelli barberiniani, era già stato ridipinto per buona parte ex novo durante il restauro del cardinale Pinelli (1593). È tuttavia probabile che vi fosse raffigurato l'episodio dell'Offerta dei primogeniti (Es 13, 11-16). Il primo riquadro, invece, è stato sostituito da un dipinto di soggetto completamente diverso (Un angelo che incorona una santa), ma poteva essere dedicato ad una scena del patriarca con marcato significato tipologico, come accade per la prima scena delle Storie di Abramo sulla parete sinistra (Gandolfo 1987 , 95;--. 4la.I). La selezione degli episodi della vita del patriarca per il ciclo sistino non corrisponde a quella seguita dalla tradizione degli Ottateuchi. Nei casi in cui le scene concordano, il racconto si articola in modo più complesso; solo raramente accade l'inverso, come per l'episodio della Morte di Mosè, condensato in una scena, anziché in tre momenti distinti (BAV, Vat. grec. 747, 25r; Vat. grec. 746, 219r; Weitzmann-Bernabò 1999, figg. 1117, 1120). D'altro canto, alcuni episodi della vita del patriarca, in particolare quelli relativi ai poteri miracolosi-la Mormorazion e del popolo d'Israele, Il miracolo delle acque di Mara, il Passaggio del Mar Rosso - avevano avuto ampia diffusione a Roma a partire dal IV secolo, sia sui sarcofagi (Rizzardi 1970; Deichmann1996, 33-34), che all'interno delle pitture delle catacombe (Domitilla, Sant'Ermete, via Latina) e in complessi monumentali quali i perduti mosaici della cupola di Santa Costanza (--+ ld) e le porte lignee della basilica di Santa Sabina a Roma (de Maria 2002, 1695, fig. 4). La Disputa di Mosè è, invece, senza confronti nel repertorio paleocristiano e il suo inserimento si giustifica con la funzione di raccordo fra i mosaici della navata e dell'arco. È la prefigurazione dell'episodio di Gesù fra i Dottori, che non è presente, come ci si aspetterebbe, fra le scene dell'Infanzia di Cristo. Il significato della scena rimanda in questo caso all'Incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio nel quale, come nella Disputa , un filosofo cinico rappresenta il riconoscimento
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della divinità di Cristo da parte del mondo pagano (Brenk 1975, 79;--. 41b.2 ). L'inserimento della Disputa di Mosè si giustifica sulla base della lettura tipologica del Vecchio Testamento che è stata individuata anche in altri episodi delle Storie di Mosè (Brenk 1975 , 78-79, 119-121 ). Il Matrimonio di Mosè con Se/ora rappresenta l'unione di Cristo con i pagani; il Passaggio del Mar Rosso è prefigurazione del Battesimo (Agustinus, Salmo 72, PL 36, col. 917), Il miracolo delle quaglie, variante del Miracolo della manna, dell'istitu zione dell 'Eucarestia (Agustinus , PL 35, col. 1612); la figura di Mosè con le braccia alzate nella Battaglia di Ra/idim ricorda il potere salvifico della croce (Agustinus, Sermo 352, 6, PL 39, col. 1556), come anche il legno della bacchetta che nel Miracolo delle acque di Mara permette la trasformazione delle acque (Agustinus, PL 34, col. 616). Di volta in volta, la volontà divina che si realizza attraverso Mosè è visualizzata da segni celesti di vario tipo. Le apparizioni del Signore (in quattro scene), gli aloni lucenti che circondano il capo di Mosè e la figura di Giosuè nella scena dell'Opposizione degli Amaleciti, la struttura luminosa sopra Mosè e Sefora nella scena del Matrimonio, la mandorla che racchiude Mosè nella Rivolta degli Ebrei. Quest' ultima iconografia è piuttosto originale; rappresenta il principio astratto della 'Gloria' (Es 10, 18) , della potenza sprigionata dalla mano di Dio a proteggere colui che vi è racchiuso, come suggerisce il contorno, ben delimitato da una spessa linea nera, del tutto assente in altri casi (Brendel 1944, 1415; Musso 2000, 380), dove la luce è emanata dalla stessa persona divina come nell'Apparizione degli angeli ad Abramo (Loerke, 1982;--. 41a.1.II) . L'elaborazione delle scene si adatta ai principi guida, ai quali si è fatto riferimento in precedenza, che sono alla base del programma. Le storie si snodano sulla base di rispondenze compositive all'interno dei singoli riquadri; ora creano strutture a chiasmo,
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con l'inversione degli elementi fra scena inferiore e scena superiore, come fra il Ritorno degli Esploratori e la Rivolta degli Ebrei, ora ripropongono impaginazioni simili da pannello a pannello per visualizzare l'analogia di significato fra scene distanti fra loro. È questo il caso della Mormorazione degli Israeliti e il Miracolo delle quaglie; della Rivolta degli Ebrei e Mosè che parla a Giosuè o, ancora, del Passaggio del Mar Rosso e della Battaglia di Ra/idim, le grandi scene che impegnano ciascuna un intero riquadro. Le scelte dell'ideatore del programma, come hanno messo in luce io particolare Breok (Breok 1975) , Deckers (Deckers 1976a), Gandolfo (Gandolfo 1987), si caratterizzano per l'orientamento a costruire di volta in volta le scene attraverso evidenti prestiti dall'iconografia romana. L'Adozione di Mosè riprende l'iconografia dell'Inductio (rilievo di Valerio Petroniano nei Musei Civici di Milano; Deckers 197 6a, fig. 219) ; il Matrimonio fra Mosè e Se/ora la dextrarum iunctio in modo ancor più maestoso della scena del Matrimonio fra Giacobbe e Rebecca; da parte loro l'Opposizione degli Amaleciti, il Ritorno degli Esploratori trovano puntuali confronti negli episodi narrati sui rilievi della colonna traiaoa (Settis 1988, fig. 332) ed aureliana (Scheid-Huet 2000, fig. 70) , il Trasporto del!'Arca nella scena di trionfo con il trasporto delle insegne sull'arco di Traiano a Benevento (Breok 1975, 97 ). Ma sono soprattutto i grandiosi riquadri a scena unica con il Passaggio del Mar Rosso e la Battaglia di Ra/idim a rivelare quanto siano forti i prestiti dall 'arte romano-imperiale del II-III secolo d.C. In essi prevale la costruzione dello spazio a volo d'uccello, con l'orizzonte fortemente rialzato; l'organizzazione per blocchi di figure, prive di singola individualità, che si affollano ai lati e lasciano lo spazio centrale vuoto, a disposizione dell'avvenimento principale, la morte del faraone nel Passaggio del Mar Rosso, la preghiera di Mosè nella Battaglia di Rafidim. I confronti più stringenti sono da una parte con la grandiosa scena della battaglia contro i Quadi nei rilievo della colonna aureliana (Brenk 1975, 86; Scheid-Huet 2000, fig. 35) e con le scene di battaglia sui sarcofagi del III sec. d.C. (sarcofago Ludovisi, Museo Nazionale Romano), dall'altra con le miniature del Virgilio Vaticano (Wright 1991 , figg. 44 , 47) e dell'Iliade Ambrosiana eseguite, com'è stato dimostrato, su modelli figurativi di III secolo (Bianchi Bandinelli 1955 , fig. 42 ). Il Passaggio del Mar Rosso è un episodio che gode di particolare fortuna fra IV e V secolo, sia nella scultura che in pittura. Sui rilievi dei sarcofagi d1 età teodosiana si sviluppa in un'unica scena sulla fronte, come sul sarcofago di Arles, Museé d'Art Antique (ChristemBriesenick 2003, tav. 16) o di Aix-eo-Provence (ibidem, tav. 34), mentre nella pittura delle catacombe può giungere ad occupare anche due pareti adiacenti (catacomba di Via Latina, Cubicoli C ed O). La scena si snoda per lo più in senso orizzontale e prevede lo svolgimento del racconto da sinistra a destra (Rizzardi 1970, 123); il faraone è raffigurato in piedi sulla quadriga, ad eccezione del sarcofago di Carcassonoe sul quale è morente fra i flutti con lo scudo alzato (ibidem, n. 13 ). Un caso di articolazione in senso verticale è offerto dal pannello della porta lignea di Santa Sabina (Jeremias 1980, tav. 27), ma qui la disposizione degli elementi è diversa rispetto a Santa Maria Maggiore: la città è raffigurata nella parte superiore e Mosè e Aronne sono nella parte inferiore, si è attinto dunque a modelli diversi. La composizione della scena 'a trittico' nei mosaici sistini (Uscita degli Israeliti dalla città, Mosè ordina alle acque di richiudersi, Morte del faraone) e il senso di lettura da destra a sinistra possono essere avvicinati a contesti orientali, come le pitture di Dura Europos (metà III secolo) (Kraeliog 1956, tavv. 52-53 ), mentre la costruzione spaziale, come si è detto, è del tutto occidentale (Brenk 1975, 87; Deckers 1976a, 167-169). Anche altre scelte si distinguono per iconografie originali, non sempre aderenti al racconto biblico. Nella scena del Roveto ardente Mosè è
ritratto in veste di pastore (come avviene solo nel Cosma Indicopleuste, vedi Wolska-Conus 1973, 167), anziché in tunica e pallio, in compagnia di altre figure maschili, non previste dal testo veterotestamentario, dando vita ad un quadro di vita bucolica; nella Morte di Mosè la raffigurazione del patriarca retrocede in secondo piano e il monte, definito da ampi gradoni, si trasforma in uno straordinario inserto paesistico che rimanda, ancora una volta, alla cultura figurativa delle miniature del Virgilio Vaticano (Wright 1991, fig. 37). Ad essa rinviano anche la vivace gestualità dei personaggi della Rivolta degli Ebrei e del Ritorno degli esploratori (Wright 1991 , fig. 24 ), le architetture del Trasporto dell'Arca (Wright 1991, fig. 22), le soluzioni compositive nella Battaglia di Ra/idim (Wright 1991, fig. 50). Nelle Storie di Mosè si individuano modalità esecutive diverse. Da una parte sono motivate dalle scelte compositive interne al programma, dall'altra indicano la compresenza di una pluralità di maestranze. In particolare i primi due riquadri sono segnati da una statica solennità, da gesti pacati e misurati, dalla disposizione frontale delle figure, rimandando ai mosaici dell'arco (-> 41 b). L'Adozione di Mosè è molto vicina alla scena dell'Adorazione dei Magi, tanto da aver fatto ipotizzare la presenza di uno stesso maestro. I modi nella costruzione del viso della figlia del faraone rinviano a Teodora nel pannello di San Vitale a Ravenna (RichterTaylor 1904, 45); hanno fatto ipotizzare un 'origine orientale dei mosaicisti e formulare l'idea che nel cantiere attivo a Santa Maria Maggiore non siano attivi solo maestri romani (Kitzinger 1977, 73-75; Id. 1977 [2005] , 77-78) . Nei pannelli seguenti, nei quali sono presenti almeno tre maestranze diverse, s'impone una costruzione delle figure affidata al colore con effetti 'a macchia', che richiama la tradizione pittorica delle catacombe di via Latina (Matthiae 1967, 117). Si raggiungono effetti particolarmente audaci nella scena del Passaggio del Mar Rosso, mentre si manifesta una straordinaria vivacità espressiva nelle scene della Rivolta degli Ebrei e del Ritorno degli esploratori. Più deboli i risultati nei tre pannelli intermedi raffiguranti la Mormorazione del popolo d'Israele
- Miracolo delle quaglie, Il popolo di Israele si lamenta per la sete Opposizione degli Ama leciti e la Battaglia di Ra/zdim.
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STORIE
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XIII. Passaggio dell'Arca attraverso il Giordano - Invio degli esploratori a Gerico [26] È questo il primo riquadro delle Storie di Giosuè, ma la figura del patriarca era già stata introdotta nelle Storie di Mosè fin dalla scena dell'Opposizione degli Amaleciti (-> 41 a.4 .IX) . Nel registro superiore sono saldati due momenti distinti della narrazione biblica (Gs 3, 14-17; 4, 1-11). A sinistra le acque del fiume Giordano si sono miracolosamente divise: le acque a monte hanno formato un alto argine (a sinistra), quelle a valle si sono staccate per scomparire nel Mar Morto. I sacerdoti che trasportano l'Arca sono fermi nel letto asciutto del fiume attendendo che il popolo d'Israele lo attraversi. A destra Giosuè, nelle vesti di generale romano, ammira l'accaduto mentre a sinistra quattro uomini trasportano dodici grandi pietre, una per ogni tribù d'Israele che, su ordine di Giosuè, hanno raccolto dal letto del fiume per erigere un monumento a ricordo del miracolo sul luogo dove quella notte avrebbero fissato l'accampamento. Nel registro inferiore l'illustrazione dell'Invio degli esploratori a Gerico (Gs 2, 1-6) costituisce un ritorno all'indietro nel racconto, dal momento che la scena avrebbe dovuto precedere il Passaggio dell'Arca. Questa scelta si spiega con la necessità di stabilire uno stretto collegamento simbolico con il penultimo pannello delle
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Storie di Mosè, fra la Consegna del Libro della legge e l'Arca dell'Alleanza. Anche la scena dell'Invio degli esploratori comprende due tempi della narrazione: a sinistra gli esploratori si stanno recando verso Gerico; a destra sono all'interno della città, nascosti sulla terrazza della casa della prostituta Raab, la cui figura viene ripetuta a destra mentre sta parlando con un messo del re.
la prostituta Raab. Secondo gli accordi presi con gli esploratori, le sarebbe stata risparmiata la vita se avesse appeso fuori della sua finestra la fune rossa con la quale li aveva aiutati a calarsi dalle mura. Sembra probabile che il tratto rosso sulla sinistra sopra la porta della città vada letto in riferimento a questo elemento fondamentale del racconto (Gandolfo 1987 , 106). Nel registro inferiore la Processione dell'Arca dell'Alleanza (Gs 6, 12-19) si svolge su uno sfondo paesaggistico con al centro l'Arca trasportata dai sacerdoti, ai lati i suonatori delle lunghe tube disposti tre per parte e, in secondo piano, sulla destra, Giosuè con un piccolo gruppo di armati.
XIV. L'angelo appare a Giosuè - Fuga degli esploratori da Gerico [27] La scena de L'angelo appare a Giosuè (Gs 2, 13-16) nel registro superiore anticipa il Ritorno degli esploratori da Gerico (Gs 2, 15 ) per permettere di creare fra quest'ultimo episodio e il pannello seguente un nesso visivo che ruota intorno alla figura di Raab , la prostituta che aveva offerto aiuto agli esploratori. Nella scena dell'apparizione tutta la parte destra è riservata ali' angelo, figura isolata sullo sfondo del paesaggio; senza ali, ma contraddistinto da un nimbo azzurro, indossa le vesti di generale romano, ed è armato di lancia e non di spada, come sarebbe previsto dal racconto biblico. A sinistra Giosuè, questa volta in abiti civili, con l'esercito al seguito, si inchina, con le mani velate dalla clamide, a rendere omaggio all'apparizione divina , riconoscendone il ruolo di guida. Il Ritorno degli esploratori ripropone alla lettera il sistema compositivo della scena dell'Invio degli esploratori a Gerico nel pannello precedente. A destra gli esploratori si calano, in fuga, dalle mura della città aiutati da Raab, mentre a sinistra riferiscono a Giosuè, questa volta di nuovo in abiti militari, sulla loro missione.
XVI. Assalto di Gabaon -Apparizione del Signore a Giosuè [29] Il pannello apre una sequenza di scene in cui ogni versetto biblico trova la sua corrispondenza figurativa (Gs 10, 5-9). Al suo interno vi sono quattro distinti momenti narrativi. L'inizio del racconto è a destra nel registro superiore con la scena dell'Assalto di Gabaon, città alleata degli Israeliti, da parte dei re Amorrei (Gs 10, 5) e non di Ai, come indicato, fra altri, da Cecchelli (Cecchelli 1956, 181 ). Segue, a sinistra, l'episodio dei messi della città che chiedono aiuto a Giosuè (Gs 10, 6), nel quale il patriarca è presentato davanti agli scudi dei guerrieri che lo scortano; gli scudi, giustapposti, il primo verde il secondo colore arancio, formano una sorta di clipeo intorno alla sua figura . La narrazione prosegue nel registro inferiore, integrato a pittura in basso al tempo del cardinale Pinelli, con l'Apparizione del Signore a Giosuè (Gs 10, 8) e a sinistra Giosuè che cavalca nella notte verso Gabaon (Gs 10, 9), scene separate fra loro da un sottile albero di cipresso, secondo un procedimento utilizzato anche sulla parete sinistra(---> 41a.3 ).
XVII. Giosuè mette zn/uga glzAmorrei - Caduta delle pietre [30] XV. Caduta di Gerico - Processione dell'Arca dell'Alleanza [28] La Caduta di Gerico (Gs 6, 20-25) è illustrata nel registro superiore del riquadro, anticipando la scena della Processione dell'Arca, per creare un collegamento con il pannello precedente. La città di Gerico è raffigurata al centro, stretta ai lati dall'esercito degli Israeliti, mentre cade miracolosamente al suono delle tube. Sulle mura si distingue
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Nel riquadro sono raffigurati due soli episodi. Nel registro superiore Giosuè, giunto a Gabaon, con una schiera di soldati che gli fanno corona intorno, piomba sui nemici mettendoli in fuga in tutte le direzioni (Gs 10, 10). La composizione, di grande drammaticità, ha come fulcro il condottiero che, sul cavallo impennato, travolge i corpi dei nemici caduti a terra e si appresta a scagliare la lancia
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contro i fuggitivi. Nella scena inferiore Giosuè con l'esercito insegue a piedi il nemico e vede, con sorpresa, la miracolosa caduta di pietre provocata dal Signore del quale si vede la mano fra le nubi rossastre (Gs 10, 11). XVIII. Giosuè ferma il sole e la luna [31] La scena, unica e grandiosa, riprende le soluzioni compositive del pannello con il Passaggio del Mar Rosso e della Battaglia di Rafidim per raccontare lo scontro fra Israeliti e Amorrei. Gli eserciti, gli Israeliti a sinistra, gli Amorrei a destra , si dispongono ai lati, scaglionandosi in profondità e lasciando un ampio spazio vuoto al centro. Qui la figura di Giosuè, isolata e di dimensioni monumentali, domina su tutto. Con il braccio destro alzato ferma il sole e la luna raffigurati in alto a sinistra, per permettere al suo esercito di vincere (Gs 10, 12-14). XIX. I re davanti a Giosuè-Supplizio dei re [32 , 33] Nel riquadro, fortemente compromesso da interventi di restauro su tutta la superficie, si torna alla narrazione su due registri. In quello superiore i cinque re Amorrei, a sinistra, vengono portati con le mani legate dietro la schiena, alla presenza di Giosuè (Gs 10, 22-23) che, al centro della scena, è davanti al proprio scudo che ha l'effetto visivo di un grande clipeo. In quello inferiore, leggibile con difficoltà per i rifacimenti pittorici tardocinquecenteschi e l'irregolarità del tessuto musivo, Giosuè, seduto a sinistra e attorniato dalla scorta dei soldati, ordina ai comandanti del suo esercito di andare a calcare il collo dei vinti e di appenderli alle forche (Gs 10, 24-25 ). XX. perduto XXI. perduto
Note critiche È probabile che le Storie di Giosuè si sviluppassero all'interno di ben nove pa~nelli, se gli ultimi due riquadri della parete destra,
sostituiti da affreschi tardo cinquecenteschi con soggetti del tutto fuori sequenza (Trasporto dell'Arca dell'Alleanza e Adorazione del candelabro a sette braccia) contenevano in origine altri episodi relativi alla vita del patriarca. L'ampio spazio dedicato a Giosuè segna l'importanza della sua figura all'interno del programma della basilica (Gandolfo 1987 , 109). Giosuè, secondo l'esegesi dei padri della Chiesa Girolamo ed Agostino, è l'uomo della Grazia, tramite il quale si conclude il viaggio alla Terra Promessa, prefigurazione di Cristo, come indica anche il nome (Hieronymus, PL 22, col. 545; Agustinus, PL 34, col. 743), ma anche esempio di condotta per i regnanti cristiani (Brenk 1975, 123-124; Schapiro 1949, 172). La lettura tipologica aiuta a comprendere anche lo spazio riservato a Raab in ben tre episodi relativi alla Presa di Gerico e la sua frequente raffigurazione anche all'interno delle pitture nelle catacombe (catacomba via Latina) e nell'illustrazione degli Ottateuchi (BAV, Vat. grec. 747, f. 217; Vat. grec. 746, f. 441). Raab è un modello di fede , perché nel suo colloquio con gli esploratori dimostra di credere nel carattere miracoloso delle vittorie degli Israeliti, pur non essendo ebrea (Brenk 1975 , 124; Calcagnini 2002,1932); secondo Ambrogio, rappresenta la chiesa mistica, luogo dell'unione di tutte le genti (Brenk 1975 , 124). Le modalità narrative dei primi tre riquadri delle storie di Giosuè, con l'inversione della sequenza degli episodi rispetto al racconto veterotestamentario fra registro superiore e registro inferiore, rientrano in un disegno compositivo generale che tende a creare rimandi visivi ed equivalenze di significato fra i diversi pannelli e che è presente, seppur in modo meno accentuato, anche nelle storie degli altri patriarchi. Dal sedicesimo riquadro si afferma l'illustrazione versetto per versetto del testo biblico , espediente che porta all'intensificazione del ritmo narrativo via via più pressante, fino a culminare nel pannello a scena unica di Giosuè che ferma il sole. Il ciclo è stato messo in relazione dal Kollwitz (Kollwitz 1966, 105110) con le miniature del Rotulo di Giosuè, prodotto a Costantinopoli nella prima metà del X secolo, sulla base di modelli di IV-V secolo (Weitzmann 1948), forse mediati da una redazione dei primi del VII (Lowden 1992, 105-119), ma i confronti sono
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limitati a quattro scene e, all'interno cli esse, solo ad alcuni specifici elementi (Brenk 1975 , 96-104). L'iconografia è stata di volta in volta ridisegnata in modo autonomo e originale sulla base cli modelli romani, guardando, come per le storie di Mosè, al repertorio di II-III secolo. La scena del Trasporto dell'Arca rimanda alla prima scena del Rotulo (Weitzmann 1948, fig. 5), ma la forma dell'Arca è un semplice parallelepipedo e gli uomini che la trasportano sono in tunica corta, come nella scena del trionfo del fregio dell'arco di Traiano a Benevento (Deckers 1976a, fig. 372); l'Apparizione dell'Angelo nel quattordicesimo pannello può essere avvicinata al Rotulo (Weitzmann 1948, fig. 13) persino nel particolare del nimbo, ma l'impostazione generale della scena, con il gesto cli sottomissione cli Giosuè con le mani velate, ricalca la scena di analogo significato nei rilievi dell'imperatore Marco Aurelio (Scott-Ryberg 1967, fig. 40); la Presa di Gerico ripropone , pur condensate in un unico momento, le miniature 7-9 del Rotulo (Weitzmann 1948, fig. 19), ma varia la posa del condottiero che, anziché seduto sul trono, è in piedi come in alcune scene della colonna traiana (Settis 1988, 217, fig. 59); in Giosuè che/erma il sole e la luna la figura cli Giosuè è diventata cli dimensioni gigantesche e domina la sottostante scena cli battaglia in una soluzione che rinvia all'Iliade ambrosiana (Bianchi Bandinelli 1955, fig. 36). Altre scene, la Presa di Gabaon, Giosuè e i cinque re Amorrei, la Sconfitta dei re Amorrei sono completamente autonome dal Rotulo e costruite direttamente sulla base di schemi compositivi propri della tradizione romana. In particolare, la Presa di Gabaon illustra la procedura dell'assedio che vediamo rappresentata sulla colonna traiana, o nei fregi dell'arco di Costantino; la drammatica sconfitta dei Re Amorrei, con al centro Giosuè a cavallo, è ricalcata sulla composizione dei sarcofagi di III secolo, quali il Sarcofago Ludovisi (Roma, Museo Nazionale Romano) o il Sarcofago di Achille e Pentesilea (Musei Vaticani); i re Amorrei sconfitti, con le mani legate dietro la schiena, vengono ricevuti dal generale vincitore in piedi e non seduto sul trono, come i prigionieri raffigurati nei rilievi dei pannelli di Marco Aurelio (Scott-Ryberg 1967, figg. 56-61).
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Le miniature del Virgilio Vaticano e dell'Iliade Ambrosiana ancora una volta offrono elementi di confronto che talvolta sono particolarmente precisi. È il caso dell'illustrazione dell'assedio (Bianchi Bandinelli 1955 , fig. 39; Wright 1991 , fig. 50) o delle scene cli combattimento (Bianchi Bandinelli 1955, fig. 429; Wright 1991 , fig. 44 ). Il cambiamento che avviene nella scansione del racconto delle Storie di Giosuè dal sedicesimo pannello in poi, dove si passa all'illustrazione del testo versetto per versetto, suggerisce l'ipotesi che all'interno del cantiere sistino si sia utilizzato per la reda~ione della guida pittorica anche un testo vicino all'Itala di Quedlinburg, con lo specchio della pagina suddiviso in quattro parti, all'interno delle quali l'illustrazione si svolge in modo analitico (Kitzinger 1977 [2005], 71; Gandolfo 1987 , 106 e 122). Le scene di Giosuè si distinguono dalle storie degli altri patriarchi per l'accentuazione del tono epico, congeniale del resto al racconto delle imprese militari che segnano il suo operato. Presentano una maggiore coerenza ed unitarietà stilistica rispetto a quelle cli Mosè. Tratti distintivi sono: la costruzione delle figure essenzialmente con il colore, tanto che spesso la linea cli contorno è del tutto inesistente, e il privilegiare la resa immediata del racconto a scapito della consistenza plastica delle figure. I risultati più significativi vengono raggiunti nella scena del Ritorno degli Esploratori e nell'Assalto di Gabaon.
Interventi conservativi e restauri Fine VIII-prima metà IX secolo: il più antico restauro all'interno dei mosaici della navata è stato individuato dal Bertelli nella scena con il Miracolo delle quaglie (parete destra, ottavo pannello) (Bertelli 1955, 40-42 ). Si tratta cli un intervento di epoca carolingia, riconosciuto, sulla base delle differenze stilistiche e tecnico esecutive (tessere cli dimensioni maggiori e irregolari e con una disposizione più rigida e schematica), nelle tre figure cli angeli a destra. Successivamente la Spain ha proposto di individuare interventi carolingi in altri sei punti della decorazione musiva della basilica, sia in altri riquadri sulle pareti
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della navata (testa della figlia del faraone, testa di Melchisedech) che sull'arco (Giuseppe nella scena dell'Annuncio e del Sogno;l' Etimasia con le figure di Pietro e Paolo) (Spain 1977; Ead. 1979, 13 ). L'ipotesi, come ha rilevato Nordhagen, non è condivisibile perché, anche se nei casi considerati dalla studiosa la disposizione delle tessere è diversa, non sono presenti modi simili a quelli delle tre figure nel Miracolo delle quaglie (Nordhagen 1983, 323-324). L'intervento carolingio sembra dunque limitato esclusivamente a questo riquadro e può essere messo in relazione ai lavori di manutenzione al tetto della basilica, promossi da papa Adriano I (772-795), ricordati nel Liber Ponti/icalis (LP I, 486-523 ), come ha suggerito Krautheimer (CBCR 1971, III, 58) oppure, più probabilmente, ad un intervento durante gli anni del pontificato di Pasquale I (817-824) (Bertelli 1955, 42) . 1593 : il cardinale Domenico Pinelli, arciprete della basilica dal 1587 al 1611 , dà inizio ai lavori di ristrutturazione dell'interno della basilica (Panciroli 1625, 253), che comportarono lo smantellamento dell'assetto paleocristiano delle pareti, composto da lesene e cornici in stucco, e la chiusura di metà delle finestre. Al posto di queste ultime furono collocate pitture con scene del Nuovo Testamento (Barroero 1988, 224). I riquadri musivi con le storie del Vecchio Testamento vennero risparmiati e accordati alla nuova sistemazione. Dopo aver eliminato le cornici paleocristiane in forma di edicola furono racchiusi in nuove cornici di forma rettangolare, composte da larghe fasce bianche e dorate. Dal momento che i riquadri erano di dimensioni variabili- larghezza da 170 a 180 centimetri, altezza da 200 a 210 centimetri - (Karpp 1966a, 21 ; Brenk 1975, 6), si provvide a uniformarli: eliminando i margini costituiti da fasce bianche, rosse e turchine e colmando lo spazio fra il mosaico e la nuova cornice con uno strato di malta dipinta di colore rosso bruno, che fungeva da inquadratura interna (De Bruyne 1938, 299 ). L'intervento causò la distruzione della zona inferiore di tutte le scene e, in alcuni casi, anche delle zone laterali come per il Miracolo delle Quaglie, il Trasporto dell1Arca e la Rivolta degli Ebrei. Si passò
poi al restauro dei mosaici che dovevano essere tutti più o meno danneggiati, ora in modo grave, ora in modo lieve, probabilmente a causa delle infiltrazioni di umidità, ma anche degli stessi lavori per la sistemazione delle nuove cornici (De Bruyne 1938, 299). I mosaici che presentavano lacune circoscritte furono integrati a pittura, mentre quelli gravemente compromessi furono sostituiti da affreschi, per un totale di quindici pannelli, spesso raffiguranti soggetti fuori sequenza rispetto alla narrazione delle storie o temi del tutto diversi. Gli acquerelli, eseguiti per volere del cardinale Francesco Barberini (1633-1639) e attribuiti alla bottega di Simone Lagi e Bartolomeo Montagna (Herklotz 1992, 42; Osborne-Claridge 1996, 201-209), distinguono con grande accuratezza le zone originali da quelle di restauro indicate come «moderne» e permettono di ricostruire l'entità dei danni e l'estensione dell'intervento pinelliano (BAV, Barb. lat. 4405, ff. 2-42 ). Inoltre si deduce dalla testimonianza del Ciampini (Ciampini 1690, 197) e dalla documentazione fotografica Alinari e Anderson, realizzata prima degli interventi di restauro degli anni Trenta (1922-1929), che tutte le integrazioni furono eseguite a pittura, su stucco liscio dipinto a finto mosaico (Biagetti 1931, 30). È da riferire all'intervento del cardinale Pinelli anche lo stacco di alcuni pannelli con parte del supporto murario e la loro ricollocazione sulla parete meridionale. Le cause che portarono a questa decisione devono essere riferite probabilmente alla grave decoesione degli intonaci dalla muratura (De Bruyne 1938, 284-303 ; CBCR 1971 , III, 41). 1824-1830: il pontefice Leone XIII promuove una prima campagna di restauro fra il 1824 e il 1830, diretta da Vincenzo Camuccini e Filippo Agricola, estesa a tutti i mosaici della navata. Si limitò per
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lo più a una semplice pulitura e al ritocco dei vecchi completamenti pittorici su tutti i pannelli (Richter-Taylor 1904, 406-408; Wilpert 1916, I, 419-423 ; Spain 1983 , 325-326). Secondo Wilpert, su sei riquadri delle navata si intervenne con integrazioni a mosaico riservate alla decorazione medievale dell'abside e della facciata (Wilpert 1916, I, 421-422 ). 1848-1851 : seconda campagna di restauro durante il pontificato di Leone XIII. Si concentrò sul fregio della trabeazione, con risarcimenti musivi ampiamente estesi, che risparmiarono il tessuto originale solo in pochi punti (Cecchelli 1956, 62-63 ). 1936-1939"' tutti i mosaici della basilica sono stati nuovamente restaurati fra il 1929 e il 1939 durante i lavori voluti dal pontefice Pio XI (1922-1939). La prima campagna (1929-1931 ) si rivolse esclusivamente all'arco (-41b Int. Cons). La seconda (1936-1939) ha interessato tutti i pannelli della navata, che sono stati in parte staccati. Sulla parete sud, durante le operazioni di stacco venne alla luce che almeno in quattro casi i mosaici erano allettati su porzioni di muratura incassate successivamente nella parete (Biagetti 1937, 104). Questa sistemazione fu ritenuta dal Biagetti coeva alla costruzione della basilica e interpretata come prova certa che i pannelli musivi erano stati sistemati sulle pareti della basilica sistina staccandoli dalla precedente basilica liberiana di IV secolo (352366; Biagetti 1937 , 113 ; Id. 1946-1947, 290-291 ). Lo studioso fu portato a rivedere la sua opinione sulla datazione dei mosaici, che negli anni precedenti aveva riferito nella loro globalità all'intervento di Sisto III, e a sostenere la datazione dei mosaici della navata al IV secolo. Il restauro costituì l'occasione per riaprire il dibattito sulla questione della diversa cronologia fra mosaici della navata e arco, sostenuta fin dal Ciampini (Ciampini 1690, 211 ). Questa volta il problema veniva riproposto non più su basi puramente stilistiche, ma su presunti dati strutturali, tanto da indurre anche Bianchi Bandinelli a nutrire dubbi, pur se per breve tempo, sul riferire tutti i mosaici al V secolo (Bianchi Bandinelli 1951 , 437 ; Id. 1955 , 146). È merito invece del De Bruyne (De Bruyne 1938, 284-303 ) l'aver subito intuito sulla base di una meticolosa analisi delle murature e delle cornici, che lo stacco dei riquadri e la loro ricollocazione erano da riferire ai lavori del cardinale Pinelli (1593 ). Per quanto riguarda il restauro dei mosaici, dopo l'esperienza della campagna sull'arco, nella quale si era optato per integrazioni esclusivamente a mosaico, si riconsiderò il modo più opportuno di procedere sui pannelli della navata (- 41b Int. cons. ). Sulla base delle indicazioni che venivano discusse in quegli anni dalla commissione presieduta da Pietro Toesca, sulla scorta dell'esperienza di Corrado Ricci sui mosaici ravennati (Gnudi 1938, 531 ), si decise di optare per integrazioni a pittura. Dalle relazioni del restauratore Giorgio Pianigiani è possibile risalire alle procedure adottate (MV-ASLR, Prot. n. 1400, Prot . n. 1526, Prot. n. 2046; in parte pubblicati dalla Spain 1968, 325-328). Dopo un'accurata documentazione grafica dello stato di conservazione dei mosaici , i pannelli furono consolidati e quelli gravemente distaccati furono strappati e riapplicati su nuovo intonaco. Si passò, quindi, ali' eliminazione di tutti i rifacimenti pittorici e alla loro sostituzione, dove erano di lieve entità con integrazioni musive, mentre le grandi lacune furono colmate da nuove integrazioni a pittura; ove non era possibile ricostruire gli elementi della scena si optò per «tinte fuse e variate» (MV-ASLR, Prot. n. 1400, pp. 15-16; Spain 1983 , 325 ; Belli 1992-1993, 88). 1995-2000: negli anni '90, in occasione dell'anno giubilare 2000, è stato eseguito, con la direzione dei Musei Vaticani, il restauro conservativo di tutti i mosaici della basilica.
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41b. STORIE DELL'INFANZIA DI CRISTO SULL'ARCO ABSIDALE
I mosaici dell'arco rappresentano otto scene dell'Infanzia di Cristo disposte su tre registri alle quali si aggiungono le raffigurazioni dell'Etimasia e delle due città gemmate: 1. Annunciazione e Annuncio a Giuseppe; Presentazione al Tempio e Sogno di Giuseppe 2.Adorazione dei Magi; Incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio 3. Strage degli innocenti; Scribi e Magi davanti ad Erode 4. Etimasia e le città gemmate di Gerusalemme e Betlemme
41 b.1. Annunciazione e Annuncio a Giuseppe; Presentazione al Tempio e Sogno di Giuseppe [35-37] Nella scena dell'Annunciazione la Vergine indossa sopra la tunica bianca una dalmatica dorata, impreziosita da una trabea e da un collare di gemme ed ha i capelli raccolti in un'elaborata acconciatura completata da un diadema. Siede, perfettamente frontale, su un ampio trono mentre tesse la lana di vera porpora per il velum del tempio, disposta nel cesto alla sua sinistra (Pseudo Matteo IX, 2). Una scorta di quattro angeli vestiti di tunica e pallio, contraddistinti da ali di colore verde e aureole azzurre, è ai lati del trono; nel cielo, fra le nubi colorate, sono raffigurati l'arcangelo Gabriele in volo, nel momento dell 'annuncio e la colomba bianca dello Spirito Santo. A destra il secondo angelo è un elemento di raccordo con la scena dell'Ann uncio a Giuseppe che segue senza soluzione di continuità. Giuseppe si distingue per i capelli neri a calotta, la corta tunica clavata e la verga nella mano destra. La composizione è chiusa da due edifici con colonne corinzie sulla fronte, simili fra loro. L'edificio a sinistra ha le porte sbarrate, ad indicare la casa della Vergine, quello a destra ha le cortine sollevate che lasciano scorgere la lampada appesa all'interno. La scena presenta integrazioni a mosaico, frutto della campagna di restauro degli anni Trenta in tutta la fascia superiore, nella quale sono state rifatte zone del cielo, parte delle ali dell'angelo e della colomba, e a sinistra, della casa della Vergine (Wilpert 1916, IV, tav. 51). A destra dell 'arco la Presentazione al Tempio (Le 2, 22 -39) si sviluppa con inusitata ampiezza, proponendo un'iconografia del tutto originale che non avrà seguito (Kantorowicz 1963b, 123145) . Una lunga serie di arcate su colonne corinzie ambienta la scena nell'atrio del Tempio di Gerusalemme, come richiesto dal testo evangelico . Davanti ad esse si dispongono due gruppi di figure . A sinistra la Vergine, nello stesso prezioso abbigliamento che la contraddistingue nella scena della Natività, si dirige con il bambino in braccio, vestito di una tunica bianca, verso il Tempio. È seguita da due angeli in tunica e pallio che le fanno da scorta. Al centro della composizione vi sono due figure che uniscono le mani davanti ad un angelo. La figura maschile è identificabile come Giuseppe, anche se questa volta, a differenza di quanto avviene nelle altre scene, ha barba e capelli bianchi; la figura femminile, avvolta in una palla porpora-scuro che le copre il capo, viene identificata con la profetessa Anna. A destra, poco più avanti, Simeone alla testa dei sacerdoti del Tempio, che rappresentano le dodici tribù d'Israele, si inchina con le mani velate. I sacerdoti hanno capelli lunghi bianchi e barbe fluenti; i primi due indossano la lacerna, come i sacerdoti delle storie veterotestamentarie della
navata, i restanti una semplice tunica stretta in vita. Elemento distintivo della scena è l'architettura sulla destra che ha le forme di un tempio corinzio tetrastilo e presenta all'interno d.el timpano la raffigurazione della Dea Roma identificabile per gli attributi del globo, dello scettro e dell'elmo (Grabar 1936, 216; Warland 2003, 27 -3 O). Il particolare delle due tortore bianche sulla soglia del Tempio e dei due piccioni grigi è in riferimento all'offerta di Giuseppe ricordata dagli apocrifi (Pseudo Matteo V, 1) . La scena del Sogno di Giuseppe (Mt 2, 13 ; Pseudo Matteo XVII, 2) è inserita sul lato dell'edificio. L'angelo alato è in piedi accanto a Giuseppe e lo avverte di fuggire in Egitto . Giuseppe dorme semisdraiato per terra, con il capo sorretto dal braccio sinistro. Tutta la figura, ad eccezione del piede, è stata ricostruita nei restauri degli anni Trenta, come anche tutta la parte del tempio retrostante (Wilpert 1916, IV, tav. 57).
Note critiche Il ciclo si apre con due ampie scene che ruotano intorno al principio dell'incarnazione di Cristo e al riconoscimento della sua divinità, organizzate sulla base di modelli del cerimoniale romano-imperiale, rispettivamente il tema della Majestas nell'Annunciazione e della Concordia nella Presentazione al Tempio. L'abbigliamento sontuoso della Vergine e la scorta angelica sono elementi chiave, veri e propri leitmotiv all'interno delle scene dell'Infanzia di Cristo. L'insolita veste della Vergine è simile, ma non identica, agli abiti indossati da alcune figure femminili nelle storie veterostamentarie della navata e precisamente Rebecca nel Matrimonio con Giacobbe, Sefora nel Matrimonio di Mosè e la figlia del faraone nella scena dell'Adozione. Si tratta dell'abbigliamento della donna di rango nobile, la clarissima /emina o /emina consularis, raffigurata frequentemente nei medaglioni di vetro dorato o sui sarcofagi (Schade 2003, 107-109, tavv. 16, 6 e 17, 5-7) . Il significato di questa scelta, che nel V secolo ha un unico, isolato confronto nella legatura dell'Evangelario del Duomo di Milano (Richter-Taylor 1904, tav. 52, 2-3; Volbach 1958, tav. 50), ha dato spunto ad interpretazioni diverse. Per alcuni l'abbigliamento della Vergine è espressione dell'immagine della Theotokos frutto delle risoluzioni del concilio di Efeso e precedente della Vergine Regina (Wilpert 1931, 208; Wellen 1961, 118; Brenk 1975, 50-52) , per altri rientra nel processo di appropriazione del cerimoniale imperiale, senza avere un nesso con le decisioni conciliari (Grabar 1936, 226); per altri ancora scaturisce dalle decisioni conciliari, ma senza presentare la Vergine Regina (Marini Clarelli 1996, 328) e in effetti non sono presenti i simboli chiave della regalità, il globo e lo scettro (Andaloro 1986, 107). Infine e' è chi ha interpretato l'abbigliamento sontuoso come riferimento alla discendenza della Vergine dalla stirpe di David, come ricordano in apertura i Sermoni di Leone Magno (Sermo in natale I, 1, in Naldini 1998, 80-81) (Sieger 1987, 86). Una posizione diversa è stata espressa da Bertelli che vede nella veste il simbolo della verginità di Maria nella condizione di sponsa, al pari di Rebecca e Sefora nelle scene veterotestamentarie (Bertelli 1961, 48) ; ma, come è stato precisato, la sponsa nell'iconografia del V secolo è raffigurata sempre con il velo (Iacobini 1991 , figg . 1-7 ; Marini Clarelli 1996, 3 29) . Nell'oscillazione di significati appare particolarmente interessante la lettura della Sieger che, sottolineando come l'abbigliamento segua esattamente la moda
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di corte del V secolo a Roma, propone di leggere in questa scelta la volontà di attualizzare l'evento della nascita di Cristo nella Roma di V secolo, nella chiesa di Santa Maria Maggiore, considerata la Betlemme di Roma (Sieger 1987 , 86; Marini Clarelli 1996, 328). Elementi di conferma a questa interpretazione sono offerti da studi recenti sulla liturgia e la predicazione a Roma fra IV e V secolo che individuano fra gli obiettivi dei sermoni di Leone Magno la presentazione degli episodi sacri non come eventi passati, ma realtà presenti, che rivivevano davanti agli occhi della comunità cristiana attraverso la celebrazione liturgica (Cavalcanti 2000, 262263 ; Casartelli Novelli 2000a, 322-323 ). L'insolito isolamento della Vergine, frontale e immobile, rispetto all'angelo annunciante è ricalcato sulle apparizione maiestatiche, come quella dell'imperatore Teodosio nel Missorium di Madrid (Brenk 1975, 12), mentre il gesto di tessere la porpora viene inserito non solo per aderenza ai testi apocrifi (Toesca 1927, 178), quanto a sottolineare che la Vergine è responsabile della natura umana di Cristo, simile ad una veste tessuta con la spola di un atto divino, come ricorda Proclo nel dibattito conciliare (PG 65 , col. 757D; Marini Clarelli 1996, 330). Il porpora, colore del sangue di Cristo, diviene simbolo di salvezza e, non a caso, nelle Storie di Giosuè della navata è porpora la fune grazie alla quale Raab salva gli esploratori inviati a Gerico e acquista così la propria salvezza (Sieger 1987, 85 ; - 41a.5 ). Anche la numerosa scorta angelica che caratterizza anche le scene seguenti è da leggere in funzione della figura di Cristo; nella scena dell'A nnunciazione ricorda che fin dal momento del concepimento Cristo è presente nel grembo della Vergine nelle due nature umana e divina (S. Leo Magnus, Sermo in natale 1, 1, in Naldini 1998, 80-81; Wellen 1961 , 101 ). L'Annuncio a Giuseppe che completa la scena a destra presenta anch'esso un'iconografia insolita. Non segue il testo evangelico nel quale l'episodio è narrato avvenuto in sogno (Mt I, 20-21; Pseudo Matteo XI e Proto Giacomo XI) , come nella cattedra di Massimiano (Ravenna, Museo Arcivescovile), e la variante ha fatto sì che Ciampini lo abbia identificato come A nnuncio a Zaccaria (Ciampini 1690, 206). Lo stacco dei mosaici nella campagna di restauro degli anni Trenta ha messo in luce una sinopia nella zona soprastante la figura di Giuseppe che rappresenta un angelo in volo, disposto in modo simmetrico rispetto all 'angelo dell'A nnunciazione della Vergine ed ha quindi provato che le due scene di Annuncio erano state concepite insieme (AFMV, VII-1617; VII-16 -18; VII-16 -1 9; Brenk 1975 , 13-14; Gandolfo 1987 , 112 ). La scelta della variante iconografica in corso d'opera può essere stata dettata dall'opportunità di non duplicare nella stessa posizione la figura di Giuseppe, dal momento che il Sogno di Giuseppe è raffigurato a sinistra, sullo stesso registro dell'arco (Cecchelli 1956, 203; Brenk 1975, 14). La Presentazione al Tem pio ha un 'iconografia inconsueta e complessa. Il tema ruota intorno al riconoscimento della divinità di Cristo da parte d'Israele e della concordia fra Vecchio e Nuovo Testamento, riassunti nel gesto della profetessa Anna che davanti a Simeone benedice in direzione del Bambino in braccio alla Vergine (Wilpert 1916, I, 481; Cecchelli 1956, 220; Matthiae 1967, 93 ; Brenk 1975 , 19; Deckers 1976b, 316; Gandolfo 1987 , 112 ). Il significato è reso ancora più esplicito poiché la figura di Simeone ha un'insolita iconografia apostolica: è infatti raffigurato con barba e capelli corti ed è vestito di tunica e pallio, a differenza degli altri sacerdoti, mentre Giuseppe ha i tratti dei sacerdoti del Vecchio Testamento (Wellen 1961 , 102; Brenk 1975 , 23). Per sottolineare il tema della concordia la scena ripropone in chiave cristiana l'iconografia della concordia augustorum con al centro la dextrarum
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iunctio (Grabar 1936, 218; Wellen 1961, 103-104; Brenk 1975, 19-24; Buhl 1995, 288-296). Se sul tema della scena non vi sono dubbi, non è univoca l'identificazione dei personaggi e il significato da attribuire ad ogni elemento. La figura ammantata è stata identificata anche come allegoria dell'Ecclesia (Schubert 1971, 208-209), anziché come profetessa Anna, e nel personaggio alla sua sinistra è stato riconosciuto il sacerdote Simeone e non Giuseppe, partendo dall'osservazione che non ha i tratti giovanili che caratterizzano Giuseppe nelle altre scene (Therel 1962 , 161 nota 5). La Marini Clarelli, invece, è d'accordo con l'identificazione delle figure , ma non riconosce nell'iconografia la dextrarum iunctio; il gruppo al centro non costituirebbe il nucleo significante della scena, ma svolgerebbe solo la funzione di raccordo tra i personaggi del Nuovo Testamento e le figure degli Israeliti preceduti da Simeone, allusione ai due popoli della Chiesa, come le immagini di Pietro e Paolo ai lati dell'Etimasia (Marini Clarelli 1996, 332). Per quanto riguarda il tempio con la Dea Roma si è cercato di identificarlo con un edificio realmente esistente(--+ 31). È stato proposto di vedervi la raffigurazione del Templum Urbis, dedicato a Venere e Roma, ancora in piedi al tempo dell'esecuzione del mosaico (Grabar 1936, 217-220; Warland 2003, 27-30) o del tempio di Giove Capitolino a Gerusalemme, eretto nel 130 sul luogo del Tempio e nel 418 trasformato da Orosio in chiesa cristiana (Richter-Taylor 1904, 325; Steigerwald 2003, 77-80). Ma sembra più probabile che sia solo un elemento che serve a conferire una forte impronta romana alla scena, senza avere necessariamente una precisa corrispondenza con architetture reali (Stritzsky 1980, 12; Gandolfo 1987, 112). L'ambientazione vuole affermare la leadership di Roma all'interno del mondo cristiano e nel contempo l'immagine di Roma Aeterna serve a rimarcare il ruolo provvidenziale dell'Impero romano. È il concetto chiave che emerge poco più tardi negli scritti di Leone Magno sviluppando l'interpretazione agostiniana (Sermo in natale apostolorum Petri et Paulz; CCL 138A, 508-518; Schubert 1971, 205; Id. 1995; Fried 2000, 1-4). Anche altre recenti interpretazioni, pur proponendo letture diverse partono entrambe dai Sermoni di Leone Magno. Per Steigerwald la scena rappresenta l'avverarsi delle profezie del Vecchio Testamento con la nascita di Cristo, re e sommo sacerdote del Tempio di Gerusalemme (Steigerwald 2000, 197-199) in base al sermone di Leone Magno relativo alla lettera agli Ebrei 5, 5 (Sermo 8, 2, in Naldini 1998, 80-81). Warland, invece, identifica nel
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sacerdote con le mani velate Pietro accompagnato dai sacerdoti pagani davanti al Templum Urbis a Roma e vede nella scena la celebrazione della chiesa cristiana come pieno compimento della Roma pagana (S. Leo Magnus, Sermo 82, CCL 138A, 508; Warland 2003, 141 ). Per quanto riguarda il Sogno di Giuseppe, l'anticipazione dell'episodio , che dovrebbe seguire l'Adorazione dei Magi, si spiega con l'esigenza di istituire una perfetta simmetria fra la parte sinistra e la parte destra della decorazione musiva dell'arco (Giordani 1973-1974 , 225-249; Brenk 1975, 24), ma serve anche a creare nell'impaginazione generale un collegamento simbolico con la scena del registro sottostante, L'Incontro della Sa cra Famiglia con Afrodisio, ambientata in Egitto, luogo che è anche la meta della fuga della Sacra Famiglia. L'episodio, poco ricorrente, è raffigurato su alcuni sarcofagi romani di fine IV secolo (Le Puy, Museo Archeologico; Arles, Museo Archeologico, vedi Benoit 1954 , nn . 95, 66; 46d , 48) e nella cattedra di Massimiano a Ravenna (Cecchelli 1936, tav. 24). Un confronto particolarmente pertinente è offerto dai dipinti di epoca più tarda di Deir-Abu-Hennis, presso Antinoe nel medio Egitto (VIIVIII secolo; Giordani 1973-1974, tav. 7). Per le scene del primo registro la Brodsky (Brodsky 1961, 413504; Ead. 1966) ha proposto una lettura in chiave tipologica, sulla base sull'esegesi agostiniana degli episodi del Vecchio Testamento, ripresa successivamente solo dalla Spain: ha letto l'Annunciazione come Annuncio a Sara (Gen 17; Spain 1968, 136-139), l'Annuncio a Giuseppe come la Promessa di Dio ad Abramo, duplicazione del significato della scena sulla parete sinistra della navata con l'Offerta da parte di Melchisedech (Spain 1979, 518) ; la Presentazione al Tempio come Unione di Giuseppe e la Vergine dinanzi a Sara ed Abramo (Spain 1968, 139-148). Successivamente il Sogno di Giusepp e è stato interpretato anche come Visione di Isaia (De Spirito 1987). Queste proposte, anche se non hanno avuto seguito nei risultati specifici, hanno il merito di aver aperto la strada ad una lettura delle scene non solo come traduzione del racconto dei Vangeli apocrifi, ma come frutto del pensiero teologico dell'epoca. Nell'esecuzione dei mosaici fra la parte sinistra e la parte destra dell'arco si coglie una diversità di modi che suggerisce la presenza di maestranze diverse. L'Annunciazione presenta un'impostazione monumentale delle figure, costruite per ampi volumi e segnate da gesti solenni mentre nella Presentazione prevalgono un senso coloristico più accentuato e una maggiore vivacità espressiva (Matthiae 1967, 102 ).
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41b.2. Adorazione deiMag( Incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio [35 , 38, 39] I;Adorazione dei Magi (Mt 2, 1-2; 9-11) si sviluppa intorno ad un asse perfettamente centrale. Il Bambino, vestito di tunica bianca clavata e con il capo circondato dall'aureola, siede da solo, sul grande trono gemmato. Quattro angeli, con ali e aureola, sono in piedi dietro lo schienale del trono , mentre al centro, sopra al capo di Cristo, splende la stella. Ai lati del trono sono sedute due figure femminili: a sinistra la Vergine, nello stesso abbigliamento sontuoso delle scene precedenti e, a destra, una figura ammantata in una palla rosso porpora con un rotolo semiaperto nella mano destra. I Magi sono disposti due a destra e uno a sinistra e vestono il tipico costume orientale che li contraddistingue, descritto con particolare accuratezza. Indossano anaxiridis riccamente decorati, calzari a punta , corta tunica, berretto frigio e offrono i doni su vassoi circolari. I due Magi a destra , appaiono provenire dalla città raffigurata a ridosso dell'apertura dell'arco, mentre il terzo, a sinistra, è rappresentato nell'atto di indicare la stella che brilla sopra il capo del Bambino, ed è accanto a Giuseppe. Queste due ultime figure sono interamente opera del restauro degli anni Trenta, ad eccezione del braccio levato del mago (Wilpert 1916, IV, tav. 61 ). La scena sulla destra dell'arco è stata identificata dal Ciampini (Ciampini 1690, 199) sulla base di un episodio narrato nel vangelo dello Pseudo Matteo (Ps Mt 33-34), l'Incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio davanti alla città di Sartine. A sinistra Afrodisio, governatore dell 'Egitto è vestito di ampia clamide con tablion e diadema nei capelli, ed è seguito da un gruppo di dignitari. La figura accanto a lui sulla destra si distacca dalle altre ed ha il caratteristico aspetto del filosofo cinico: capelli scomposti e barba lunga, tunica che lascia interamente scoperta una spalla, bastone nodoso nella mano destra. Il governatore si rivolge a Cristo Bambino, che è al centro, scortato da due angeli disposti alle sue spalle, mentre a breve distanza seguono le figure di Giuseppe, della Vergine e infine degli altri due angeli, l'ultimo dei quali è interamente di restauro (Wilpert 1916, IV, tav. 64-66).
Note critiche I due episodi situati nel secondo registro , l'Adorazione dei Magi e l'Incontro con il re Afrodisio, hanno un significato analogo : il riconoscimento della divinità di Cristo da parte dei popoli della terra, rappresentati da una parte dai Magi provenienti secondo la
tradizione da oltre i confini del mondo romanizzato, dall'altra da Afrodisio, governatore dell'Egitto, ritenuto il luogo della più antica idolatria (Brenk 1975 , 41-44 ). Il nesso è chiarito dai Sermoni di Leone Magno, nei quali l'autore, dopo aver ricordato l'arrivo dei Magi, passa subito alla menzione del viaggio in Egitto che rammenta la conversione del popolo egiziano «soggetto ad antichi errori» (Sermo 13, 1, 4, in Naldini 1998, 233-240 ; Brenk 1975 , 43). Riguardo all'Epifania, Leone sottolinea che essa è la manifestazione (declaratio) del Natale al di là dei ristretti confini di Betlemme (Sermo 12, 1-2 ; 13, 1, 1, in Naldini 1998, 233; Montanari 1998, 20). Nell'arco sistino la scena dell'Adorazione dei Magi riassume dunque in sé anche il significato della Natività e si giustifica così l'inusuale assenza di questa scena nelle Storie dell 'Infanzia di Cristo. I personaggi e i fatti del racconto secondo Leone Magno sono da considerare non solo per il significato simbolico, ma anche 'tipico', in quanto manifestano quello che sarebbe avvenuto nel tempo della Chiesa (Sermo 17, 1, 1-3 in Naldini 1998, 285-290; Montanari 1998, 20). La stella, ad esempio, che ha un posto centrale nello spazio della raffigurazione, è la guida verso la Natività; è il segno della vocazione e del sacramento della grazia che si rivolge a tutti i popoli e rappresenta dunque l'universalità del messaggio evangelico che si ripete di tempo e in tempo (Sermo 32 , CCL 138, 165-169). Il rilievo che viene attribuito all'Adorazione dei Magi è da leggere anche in relazione all 'importan za che la liturgia dell 'Epifania acquista a Roma nel V secolo; l'Epifania, infatti, godeva di uno spazio privilegiato in quanto era una festività a tema, a differenza di quanto accadeva in Oriente, dove era fusa al Natale, al Battesimo di Cristo e al miracolo di Cana (Montanari 1998, 17). Limportanza dell'Adorazione dei Magi e il suo legame intrinseco con la Natività permettono di comprendere le linee guida alla base dell'impaginazione dei mosaici sistini: l'Adorazione è anticipata rispetto al racconto evangelico per essere disposta esattamente al di sotto della scena dell'A nnunciazione della quale riprende l'impianto compositivo, caratterizzato dal grande trono e dalla schiera dei quattro angeli. Anche le scene del secondo registro sono costruite, come già quelle del registro superiore, sulla base di modelli del cerimoniale romanoim periale: la Majestas e l'Adventus. Nell 'Adorazione dei Magi l'iconografia tradizionale che prevede la Vergine con il Bambino su un lato e i Magi che giungono dall'altro (catacombe di Priscilla, catacombe di Marcellino e Pietro - lla) o la Vergine con il Bambino al centro e i Magi sempre tutti e tre sullo stesso lato, è stata totalmente rivisitata dando vita ad una composizione che
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non sarà più ripresa. Il modello di partenza è la raffigurazione della maestà romano-imperiale così come si presenta nel dittico di Halberstadt nel quale ai lati dei due imperatori sono disposte due personificazioni femminili , rispettivamente Roma e Costantinopoli (Grabar 1936, 228 ; Bi.ihl 2001, 193-206). Nel mosaico sistino la figura a sinistra rappresenta la Vergine che, in modo del tutto inusuale, non è sul trono insieme al Bambino, mentre per la figura ammantata disposta sulla destra, vestita nello stesso modo della figura femminile accanto a Simeone nella scena della Presentazione al Tempio , sono state proposte svariate identificazioni; allegoria dell' Ecclesia in generale (Toesca 1927 , 177; Brenk 1975 , 27) , dell'Ecclesia ex circumcisione (De Bruyne 1936, 254; Deichmann 1948, 68) , Sibilla (Richter-Taylor 1907, 337; Therel 1962, 153 ; Marini Clarelli 1996, 336), profetessa Anna (Grabar 1936, 228) , Anna madre di Maria (Wilpert 1931 , 206), Rachele (Ki.inzle 1961-1962, 171), levatrice (Bertelli 1961 , 49 n. 32), Eva (Goubert 1964, 201-206) , duplicazione della figura di Maria (Schubert 1971 , 217-219), Maria con Sara sulla sinistra (Spain 1968, 149) fino alla Sapienza divina (Cecchelli 1956, 214; Matthiae 1967, 92; Gandolfo 1987, 113). In questa molteplicità di ipotesi la più convincente ed organica al contesto appare l'identificazione con la Sapienza divina o, semmai, con la profetessa Anna, già raffigurata nella Presentazione al Tempio. Per quanto riguarda l'episodio a destra dell'arco , l'Incontro della Sacra famiglia con Afrodisio, la sua raffigurazione è un unicum. La scena in realtà non rispetta il racconto dello Pseudo Matteo (XXXXIV) che narra come all'ingresso della Sacra Famiglia nel tempio della città di Sotine si era verificata la miracolosa caduta degli idoli
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e il governatore Afrodisio si era apprestato ad adorare il Bambino in braccio alla Vergine. Le varianti introdotte - incontro con la Sacra famiglia davanti alla città e non all'interno del tempio, assenza degli idoli, Bambino in piedi scortato da angeli e non in braccio alla Vergine - trasformano l'episodio in una scena di Adventus, nell'iconografia nota attraverso i rilievi dell 'attico dell 'arco di Costantino e del fregio della Cancelleria (Grabar 1968, 228-229). Si viene così a istituire un parallelo visivo con la scena dell'Adorazione dei Magi situata sullo stesso registro che celebra la regalità di Cristo (Brenk 1975 , 27 -29 ). Alla luce di queste rispondenze simboliche è stato suggerito di leggere nella figura del vecchio accanto al regnante clamidato con aspetto del filosofo cinico, un 'allegoria della saggezza umana , speculare alla figura femminile ammanta, allegoria della saggezza divina, nella scena dell'Adorazione (Brenk 1975, 28; Gandolfo 1987, 113 ). La Sieger, e più recentemente la Marini Clarelli, hanno proposto un'interpretazione dell'episodio sulla base dei Sermoni di Leone Magno che riprende l'esegesi di Atanasio d 'Alessandria (De incarnatione 37 , PG, 25 , col. 161 ). La scena andrebbe letta come allegoria della conversione dell'Egitto (Sieger 1987, 86-87): la figura clamidata raffigurerebbe il vicario imperiale che accoglie l'entrata di Cristo in Egitto e il personaggio seminudo il profeta Isaia, che assiste all'awerarsi della sua predizione (Is 19, 1) (Sieger 1987, 87 ; Marini Clarelli 1996, 338). La lettura storicizzata della Brodsky, che giunge a identificare la figura del regnante con l'imperatore Valentiniano III, sostenitore di Sisto III negli anni in cui il pontefice fu accusato di pelagianesimo , non appare sostenuta da elementi sufficienti (Brodsky 1966, 90). Nell'esecuzione delle scene si individuavano i modi già presenti nel registro superiore: la Vergine dell'Adorazione rimanda alla stessa figura nella scena dell'A nnunciazione, Giuseppe è simile a quello nella scena della Presentazione, mentre il gruppo di armati nell'Incontro della Sacra Fa miglia con Afrodisio per la ricchezza di toni coloristici richiama alcuni episodi delle Storie di Giosuè della navata (- 41a.5 ). I;Adorazione dei Magi è considerato uno degli episodi più alti della decorazione musiva dell'arco , contrassegnato da un linguaggio rivolto ad ottenere effetti di maggiore astrazione, più moderno ed aggiornato (Matthiae 1967 , 101 ).
41b . 3. Strage degli innocenti; Scribi e Magi davanti ad Erode [35 , 40, 41] La scena della Strage degli Innocenti (Mt 2, 16) sulla sinistra dell'arco è stata pesantemente restaurata negli anni trenta lungo il bordo a sinistra e nella zona centrale (Wilpert 1916, IV, tav. 67 ). Presenta a destra il re Erode, vestito con abiti imperiali, clamide e diadema, seduto su di un trono decorato da gemme con suppedaneo. Un nimbo grigio-azzurro gli circonda il capo. Accanto vi sono tre soldati, un quarto è al centro della scena mentre afferra un bambino dalle braccia della madre (entrambi di restauro ). A sinistra, il gruppo delle donne, con i capelli sciolti e i bambini in braccio, è rappresentato con compostezza e misura, mentre è assente qualsiasi particolare cruento. Lepisodio degli Scribi e Magi davanti ad Erode (Mt 2 , 1-8) comprende due momenti distinti della narrazione. I Magi, sulla sinistra, davanti alle porte della città di Betlemme, chiedono notizie a Erode intorno al luogo della nascita del re dei Giudei. Due scribi sul lato sinistro del trono, interpellati dal re, srotolano un lungo cartiglio. Sono vestiti di corta tunica e lacerna come i sacerdoti israeliti nella scena della Presentazione al Tempio. La figura di Erode e il gruppo di armati dietro il trono sono opera del restauro
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degli anni Trenta (Wilpert 1916, IV, tav. 73). Al di sopra del capo di Erode è posta un 'iscrizione quasi sovradimensionata, rispetto all'esiguità dello spazio, che identifica il personaggio (Iscr. 1).
3 PL 54 , col. 239B; Sermo 33 , 3, PL 54 , col. 242A). L'episodio della Strage degli Innocenti è invece simbolo della morte dei primi martiri della chiesa (Kotzsche Breitenbruch 1968-1969, 108; S. Leo Magnus, Sermo 37 ,1, PL 54 , col. 260B).
Iscrizioni 1 - Iscrizione esegetica, su specchio di corredo nel III registro destro , in capitale epigrafica di alto livello qualificativo, eseguita a caratteri bianchi su fondo blu, con lieve apicatura alle estremità delle lettere. H erodes
Note critiche Anche nel terzo registro , analogamente a quanto avviene nei casi già esaminati, gli episodi sono collegati dal significato simbolico. In questo caso è il mancato riconoscimento della natura divina di Cristo che si contrappone ali' avvenuto riconoscimento nel secondo registro dell'arco (Brenk 1975 , 45). P er rafforzare il nesso fra i due episodi Strage degli innocenti - raffigurata qui per la prima volta (Kèitzsche Breitenbruch 1968-1969, 108) - e Scribi e Magi davanti a Erode, le scene sono costruite in modo speculare, sulla base di rispondenze e parallelismi: le figure degli scribi occupano infatti la stessa posizione dei soldati nella scena della Strage. Il loro abbigliamento è simile a quello dei sacerdoti del Tempio nella Presentazione nel registro superiore dell'arco (- 41b.1). L'elemento del nimbo intorno al capo di Erode indica la pienezza del potere imperiale, secondo la consuetudine diffusa nell'arte romana (Ahlqvist 2001 , 207-228) e potrebbe indicare il disegno divino che si compie attraverso il potere di Erode (Brenk 1975 , 33, 4445). Anche in questo caso i Sermoni di Leone Magno sull'Epifania aiutano a comprendere la scelta e il legame fra i soggetti. I Sermoni descrivono Erode pari al diavolo , il re illegittimo che si oppone a colui che detiene la regalità e il feroce persecutore di Cristo e della Chiesa (Montanari 1998, 22 ), mentre i sacerdoti e gli scribi di Israele sono i rappresentanti del non riconoscimento (Brenk 1975, 44-45 ; S. Leo Magnus, Sermo 32 , 2, PL 54 , col. 238C; Sermo 32,
41b.4. Etimasia e le città gemmate di Gerusalemme e Betlemme [35 , 42] L'Etimasia è situata al centro del primo registro sopra il culmine dell 'arco. Sul trono d 'oro tempestato di pietre preziose sono disposti la clamide purpurea, il diadema, la croce gemmata e sul suppedaneo il rotolo avvolto e chiuso dai sette sigilli (Ap 4, 2-3 ). All'interno della testata dei braccioli sono collocati due ritratti identificati con Pietro a sinistra e Paolo a destra, mentre sui lati del dossale sporgono due protomi leonine (Guarducci 1982, 80). Il trono è all'interno di un clipeo delimitato da tre bande di colore diverso (verde-azzurro , azzurro, blu). Ai lati sono disposti gli apostoli acclamanti, Pietro a sinistra e Paolo a destra , in ordine inverso rispetto alla tradizione figurativa romana, che recano un libro aperto con caratteri neri imitanti la scrittura; quelli sul libro di Pietro sembrano rimandare ai caratteri dell'alfabeto ebraico. Nella zona superiore i quattro simboli degli Evangelisti recanti corone - da sinistra a destra il toro e l'angelo, il leone e l'aquila sono stati ampiamente integrati durante i restauri negli anni 19291931. La ricostruzione delle parti mancanti secondo le indicazioni del Wilpert si è basata sull'iconografia dei mosaici coevi della cappella di Santa Matrona nella chiesa di San Prisco presso Capua Vetere (Albertella 1933 , 90). Al di sotto del clipeo con il trono dell'Etimasia si dispone l'iscrizione dedicatoria User. 1). Alla base dell'arco vi sono le due città gemmate. A sinistra, la raffigurazione di Gerusalemme segue da vicino le indicazioni dell'Apocalisse (Ap 21,10-21) che costituiscono il modello anche alla città di Betlemme, sulla destra dell'arco. Le città sono di forma esagonale, con le mura decorate da perle e pietre preziose e lasciano intravedere gli edifici all'interno. Gerusalemme si distingue per il tempio tetrastilo in riferimento al Tempio di Gerusalemme e per la Rotonda dell'Anastasis (Matthiae 1967, 96) . D all'arco della
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porta urbica, che introduce ad una via porticata, pende una croce gemmata fra due pietre preziose. Sul prato, nello spazio antistante le mura, sono raffigurati sei agnelli dei quali il terzo da sinistra è rivolto all'ingresso della città, a differenza degli altri, tutti di profilo. Betlemme , come si deduce dalla documentazione di Wilpert (Wilpert 1916, IV, tav. 74) , è stata completamente ricostruita durante i restauri degli anni Trenta. In precedenza questa zona era interessata da un rifacimento pittorico a finto mosaico da riferire, per i suoi caratteri manieristici, ai lavori del cardinale Pinelli, piuttosto che al tempo del Ciampini, come suggeriva il Wilpert (Wilpert 1916, I , 420; Belli 1992-1993, 82). Ciascuna città è contraddistinta da un'iscrizione che ne indica il nome nella fascia inferiore della scena User. 2-3 ).
Iscrizioni 1 - Iscrizione dedicatoria su specchio di corredo, sottostante al trono gemmato, eseguita in capitale epigrafica di alto livello, a caratteri bianchi su fondo blu, recante alle estremità delle lettere una lieve apicatura [42].
Xystus episcopus plebi Dei 2 - Iscrizione esegetica, su specchio di corredo nel registro inferiore sinistro, in capitale epigrafica di alto livello, eseguita a caratteri oro su fondo blu, con lettere apicate alle estremità.
Hierusalem 3 - Iscrizione esegetica, su specchio di corredo nel registro inferiore destro, in capitale epigrafica di alto livello, eseguita a caratteri oro su fondo blu, con lettere apicate alle estremità.
Bethleem
Note critiche 1-:Etimasia e le città gemmate sono disposte rispettivamente al vertice e alla base di un ideale triangolo lungo il quale si snoda il percorso delle storie e costituiscono l'asse dell'interpretazione del significato dell'arco (Casartelli Novelli 2000a, 284 ). Il trono dell' Etimasia allude a Cristo come magister e rex, iudex e imperator modificando , con l'inserimento della croce signum salutis un'iconografia che fin dal periodo ellenistico (Picard 1954, 1-54) affermava la presenza del potere dell'imperatore anche in sua assenza (Grabar 1936, 9; 199-200; Casartelli Novelli 1987 , 149). Fra IV e V secolo il tema ha un ' ampia diffusione in ambito cristiano nei diversi media decorativi acquisendo un significato apocalittico; è presente su un lato della cassetta eburnea di Samagher (Venezia, Museo Archeologico ), nei mosaici del Battistero degli Ortodossi e, più tardi, del Battistero degli Ariani a Ravenna (Deichmann 1958, tavv. 62, 64, 66 e 251 ), nel mosaico nella Cappella di Santa Matrona a San Prisco a Capua Vetere (Brenk 1975, 17, fig. 9). Nei mosaici sistini il trono si distingue per due particolarità: la presenza delle protomi leonine che sporgono a destra e a sinistra dello schienale e l'inserimento dei ritratti di Pietro e Paolo nelle testate dei braccioli. Il primo motivo trova confronti con il trono sul quale siede la Dea Roma sul retro delle monete emesse nella seconda metà del IV secolo, il secondo con le cattedre raffigurate sui dittici consolari del V secolo che tramandano probabilmente una tradizione precedente (Wellen 1961 , 116; Gandolfo 1987, 85) . Se ne deduce che l'immagine del
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trono dell ' Etimasia è stata redatta sulle cattedre imperiali e consolari, anche se non è perfettamente aderente ad esse. Inoltre il trono è legato all'iscrizione sottostante User. I ) tanto più che il termine episcopus si dispone esattamente al di sotto, istituendo un immedi ato ed efficace legame visivo con il ,simbolo per eccellenza del potere civile. È nuova la collocazione dell' Etimasia - con gli apostoli e i simboli degli evangelisti - al culmine dell'arco, poiché i soggetti di significato apocalittico erano di consueto posti nell'abside, come nella basilica di Fondi, descritta da Paolino da Nola e a Santa Pudenziana (-> 8) o sulla controfacciata, come nella basilica di Santa Sabina (-. 40a). Nuovo è anche il collegamento visivo e simbolico alle città gemmate alla base dell' arco. Se il motivo delle due città è raffigurato fin dal IV secolo sui sarcofagi, tanto da dare il nome alla classe dei sarcofagi «a porte di città» (Biscanti 1996c, 589609), ed è presente allo stato larvale nel mosaico dell'abside con la Traditio legis nel Mausoleo di Santa Costanza (-> lg) , è solo nei mosaici di Santa Maria Maggiore che trova la sua corr{pleta codificazione (Casartelli Novelli 1996, 650-652 ). Le città diventano opere di oreficeria in scala monumentale, nello stesso modo del trono vuoto posto al culmine dell 'arco e sono contrassegnate dalle grandi iscrizioni che vogliono evidenziarne il significato. Si inaugura così una tradizione iconografica di lunga durata che, attraverso la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, San Lorenzo fuori le mura, San Marco, Santa Prassede giungerà fino al XII secolo, ai mosaici dell'arco absidale della chiesa di San Clemente (Gatti Perler 1983 , 200-201 ; Colli 1983, 129-130). La Casartelli Novelli ha richiamato l'attenzione sull'importanza di queste «immagini teologiche» (Grabar 1968, 141 ) che traspongono in chiave simbolica i principi della dottrina cristiana ed ha proposto per l'intero programma dell'arco una lettura in chiave apocalittica, secondo la quale le storie dell'Infanzia non sono da intendere come prima venuta di Cristo che culmina con l'Etimasia, ma come cristologia rivelata alla comunità di Roma secondo il testo giovanneo (Casartelli Novelli 2000a, 284-285 , 325 ). La posizione della città di Gerusalemme , che situata nella parte a sinistra dell'arco, precede e non segue, la città di Betlemme, come sarebbe richiesto da uno svolgimento delle storie in senso cronologico, conferma il carattere simbolico e non narrativo delle scene (Brenk 1975 , 34 ; Casartelli Novelli 1996, 665 ). La grande iscrizione dedicatoria , seppur composta con cura, presenta alcune anomalie User. 1). Le parti terminali della tabula vanno a occupare a sinistra lo spazio del piede dell'apostolo Pietro, a destra del piede dell 'apostolo Paolo, mentre la parte superiore sembra inserirsi quasi a forza nello spazio rimasto libero sotto il clipeo. Per giustificare queste particolarità in passato si è supposto che l'iscrizione non fosse prevista in origine sull'arco trionfale e che sia stata inserita solo in un secondo momento , da considerarsi però sempre all'interno della campagna decorativa di Sisto III (Bertelli 1997, 48, 155-156). Si è pensato persino che il pontefice Sisto III possa aver introdotto la tabula all 'interno di una decorazione già completata (Richter-Taylor 1904, 24-35 ; CBCR 1971 , III, 56) o che l'iscrizione sia stata manomessa da un restauro carolingio (Spain 1977). L'analisi dei materiali e delle modalità tecnico-esecutive del mosaico in occasione del recente restauro ha permesso di chiarire definitivamente che l'iscrizione non può essere riferita ad una fase diversa rispetto al soprastante trono dell'Etimasza, con il quale è strettamente collegata come si è detto, anche a livello concettuale (Brenk 2000 [2005] , 234). L'iscrizione, anche se ha un esiguo spazio a disposizione, si basa su una concezione legata ancora alla tradizione classica, per l'autonomia dello spazio scrittorio rispetto al testo figurativo e
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per l'eleganza dei caratteri (Cadetti 2000, 451 ). Nel testo è da segnalare l'uso dell'espressione Plebs Dei, riferito alla comunità cristiana di Roma, che costituisce una novità all 'interno di un'iscrizione monumentale a mosaico. La plebs è la dedicataria dell 'impresa di Sisto III, insieme alla Vergine, menzionata nel titulus ricordato dal Panvinio sulla controfacciata (- 41 c) . Il termine, ampiamente utilizzato in Agostino (De Civz'tate Dei, capp. III, IV e V del libro XVII) , era stato usato da papa Damaso (3663 84) nelle iscrizioni d'apparato con le eglogae martirum, destinate a dare maggior rilievo ai luoghi martiriali (plebs Dez; plebs sancta Christi plebs, Cadetti 2000, 444-451 ; Ferrua 1942 , nn. 53, 63 , 67 .9) . La scelta aveva l'intento di rafforzare il legame fra il vescovo e la comunità cristiana nel momento in cui per la prima volta era il pontefice a promuovere un 'iniziativa, indipendentemente dall'autorità imperiale (Brown 1982, 132). L'iscrizione della basilica di Santa Maria Maggiore rivela, dunque, quanto Sisto III si ponga in una linea di consapevole continuità con il programma damasiano, che giungerà a compimento durante il pontificato di Leone Magno (440-461). Si deve al Brenk (Brenk 1975 , 35-37), l'aver messo a fuoco come proprio l'iscrizione offra la chiave di lettura non solo della scena soprastante dell'Etimasia, ma dell'intero programma decorativo della basilica sistina. Il termine plebs nei Vangeli (Le 2 29-32; 7,16) e negli Atti degli Apostoli (4 , 10; 13 , 17 ; 13 , 23 , 24 ) è usato esclusivamente in riferimento alla plebs Israelis. Sembra dunque che vi sia un preciso piano ideologico nel trasformare l'espressione plebs Israelis in plebs Dei, a sottolineare, come sarà espresso nelle esegesi di Leone Magno, che non esistono più due popoli, i Giudei e i Gentili, ma un 'unica plebs Dei che li riunisce. Vi è anche un altro aspetto non secondario: la plebs ha come riferimento naturale l'autorità del vescovo e, dal momento che a Roma esso è il pontefice, ne consegue che tutta la comunità cristiana ha come proprio riferimento il papa di Roma; non è un caso che proprio la parola episcopus sia disposta esattamente al di sotto del trono vuoto. Il concetto viene ribadito dalla presenza dei due apostoli, Pietro missionario fra i Giudei e Paolo fra i Gentili, che completano lo svolgimento del programma di salvazione che inizia con le storia del Vecchio Testamento nella navata (Schubert 1971 ; Brenk 1975 , 18; 35-39; Gandolfo 1987 , 116; Brenk 2002 , 1014-1016) . Nello stesso tempo , come ha sottolineato Brenk, la sede di entrambi i «principi degli apostoli» è Roma, dove essi sono particolarmente venerati (Brenk 1975, 35-41) .
Interventi conservativi e restauri Oggi la superficie musiva dell'arco , a differenza dei pannelli nella navata (- 41a, Int. Cons.), si presenta con ampie integrazioni a mosaico che hanno sostituito precedenti risarcimenti pittorici. Per comprendere i motivi di questa scelta adottata durante la campagna di restauro degli anni Trenta (1929-1931) è opportuno ripercorre brevemente gli interventi che fra la fine del XV e la fine del XVI secolo hanno coinvolto l'arco , anche se non rivolti direttamente alla decorazione musiva. 1445-1484: il cardinale Guillaume d 'Estouteville sostituisce la copertura lignea del transetto medievale con volte. Queste caricano l'arco di un peso eccessivo e provocano lesioni alla struttura e ampie lacune nella zona dell'Etimasia. In questa zona, prima dei restauri degli anni Trenta, è documentata un'integrazione pittorica su malta liscia, probabilmente da riferire ad un intervento immediatamente successivo all'inserimento delle volte nel transetto (Spain 1983, 325-328). 1492-1503: il pontefice Alessandro VI inserisce l'imponente fregio ligneo a sostegno del nuovo soffitto della navata che va a coprire la parte più alta dei mosaici (Krautheimer 1983 , 31). 1593 : il cardinale Domenico Pinelli, arciprete della basilica (1587 1611 ), sistema alle estremità dell'arco due semipilastri in stucco e mutila il bordo esterno delle scene su tutti i registri (Ciampini 1690, 208-209). Entro 1690: il Ciampini, per poter riprodurre e descrivere i mosaici all'interno della sua opera Vetera monimenta, chiede e ottiene la pulitura dei mosaici e la rimozione del fregio borgiano (Ciampini 1690, 200) . I mosaici sono all'epoca coperti da uno strato di sporco talmente spesso che a stento è possibile distinguere i temi delle scene («ob earum vetustate adeo denigrate ac polvere abductae», Ciampini 1690, 200). La scarsa leggibilità dei soggetti, segnalata già da Jean l'Hereux (ante 1605 ), testimonia la mancanza di attenzione dell'epoca per i mosaici, e spiega perché nella monografia di Paolo de Angelis (1621 ), interamente dedicata alla basilica sistina, vi sia solo un breve e sommario cenno alla decorazione musiva (de Angelis 1621, 90). Il Ciampini, inoltre, segnala la presenza di integrazioni a pittura sulla superficie dell'arco («non musivi opere, sed pictura e//ormatos», Ciampini 1690, 209) e dalle campagne fotografiche Alinari e Anderson si deduce che in alcuni casi, come nella città di Betlemme ad esempio, erano a pittura su malta liscia dipinta a finto mosaico, secondo il sistema scelto per il restauro pinelliano nei pannelli della navata.
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1724-1730: si registra una deformazione dell'arco e il progressivo distacco della superficie musiva, causati dal peso delle volte del transetto costruite dal cardinale Guilluame d'Estouteville. Hanno così inizio una serie di interventi volti ad assicurare l'adesione dei mosaici all'arco. Durante il pontificato di Benedetto XIII (17241730), nella campagna di restauro che ha interessato tutta la decorazione a mosaico della basilica (Bianchini 1727, IV), la superficie musiva viene pulita, consolidata con l'inserimento di numerose grappe metalliche e restaurata ad affresco (Bianchini 1727, VI; Biagetti 1931, 31). 1824-1830: durante la breve campagna promossa da Leone XIII tra il 1824 e il 1830, svolta dai mosaicisti della Scuola Vaticana del Mosaico sotto la direzione di Vincenzo Camuccini e Filippo Agricola, sono sistemate altre grappe metalliche (Biagetti 193 la, 31; Spain 1983 , 325-328). 1929-1931: le condizioni dell'arco peggiorano a tal punto che negli anni Trenta del Novecento esso presenta uno spostamento in avanti di circa 20 cm, con gravi lesioni nella muratura (Biagetti 1931 b, 27). Si rende dunque necessario un intervento radicale, che si svolge fra il 1929 e 1931, negli anni del pontificato di Pio XI, affidato a Biagio Biagetti. Per alleggerire la struttura dell'arco vengono abbattute le volte quattrocentesche, ripristinando la copertura lignea del transetto medievale e vengono rimossi i semipilastri laterali sistemati durante la campagna del cardinale Pinelli (1593 ) (Biagetti 193 la, 26-32). Inoltre, per il grave stato di decoesione degli intonaci, si ritiene opportuno staccare l'intera superficie musiva dell'arco. I lavori procedono con la divisione del mosaico in 169 sezioni e con il loro stacco insieme agli strati d'intonaco sottostanti (Biagetti 193 la, 26-29). Le operazioni portano ad una scoperta eccezionale: sul primo dei tre strati di intonaco vengono alla luce alcune sinopie relative all'Annunciazione e al Sogno di Giuseppe [43, 44]. Le sinopie (AFMV, VII-16-17 / 19), dall'aspetto di veri e propri schizzi sommari, presentano significative differenze con la raffigurazione definitiva dei mosaici, sia nell'iconografia che nella disposizione degli elementi; sono dei veri e propri studi in situ, una sorta di prova generale dell'assetto compositivo nel suo insieme e indicano il modo di procedere e il grado si sperimentazione all'interno del cantiere musivo, come hanno confermato anche altri rinvenimenti nell'ambito di contesti paleocristiani e bizantini, quali la Rotonda di Salonicco, l'abside di Tsromi in Georgia e l'abside di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna (Andaloro 1986, 48-49, 69
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nota 15 ). Nelle sinopie dell'arco sistino l'angelo nella scena del Sogno di Giuseppe è in volo e non stante, gli angeli sempre senza ali, la colomba nella scena dell'A nnunciazione spostata a sinistra di circa 50 cm rispetto alla stesura musiva (Biagetti 193 la, 26-29; Brenk 1975, 8, 10-11 ; -> 41b .1). Durante la campagna di restauro , dopo la sostituzione dei vecchi intonaci e la ricollocazione in situ dei mosaici, venne affrontato il problema dell'integrazione delle lacune e dopo un ampio dibattito, scegliendo la linea indicata dal Wilpert e sostenuta dal pontefice, si stabilì di integrare a mosaico tutte le lacune rimuovendo le precedenti integrazioni pittoriche (a finto mosaico o su malta liscia) per facilitare la lettura e la comprensione delle scene da parte dei fedeli (Wilpert 1931 , 211-213 ; Albertella 1933, 81-98; 211-212 ). L' équipe di mosaicisti della Fabbriceria della Basilica di San Marco a Venezia diretta dal Marangoni, alla quale fu affidato l'incarico, ebbe cura di eseguire le integrazioni sulla base delle ricostruzioni iconografiche elaborate dallo stesso Wilpert, segnandone i contorni con liste di pasta vitrea facilmente riconoscibili ad un'analisi ravvicinata del tessuto musivo. Prima di procedere sull'arco si volle testare il sistema di integrazione messo a punto su una superficie più limitata e si scelse il primo pannello della parete sinistra della navata l'Offerta del pane e del vino di M elchisedech, che è l'unico riquadro della navata ad avere integrazioni interamente a mosaico. In questa occasione furono anche eseguiti calchi colorati delle scene, i quali, di proprietà della Santa Sede, sono oggi custoditi in deposito permanente presso il Collegio di San Luigi dei Francesi a Roma (Biagetti 1931a, 28; Acconci 2000, 634-635 ). Negli anni precedenti Wilpert aveva eseguito un'accurata campagna di studio e documentazione dei mosaici da ponteggi montati appositamente; i mosaici «puliti con acqua e spugna» dallo stesso Wilpert (Wilpert 1931 , 198) erano stati fotografati da Pompeo Sansaini e le basi fotografiche dipinte dal pittore Carlo Tabanelli, soggetto per soggetto [45]. Questa accurata documentazione permette di ricostruire con precisione l'entità delle integrazioni del restauro degli anni Trenta (Wilpert, 1916, II, tavv. 53 -73 ; Nestori-Bisconti 2002 ). Essa è particolarmente preziosa, dal momento che non esiste per i lavori dell'arco alcuna relazione di restauro (Kiinzle 1961-1962, 188-189; Spain 1983 ). 1995-2000: negli anni '90, in occasione dell'anno giubilare 2000, è stato eseguito, con la direzione dei Musei Vaticani, il restauro conservativo di tutti i mosaici della basilica.
41c. IL TITULUS DEDICATORIO SULLA CONTROFACCIATA E IL MOSAICO DELLA PERDUTA ABSIDE
L'unico elemento superstite connesso col mosaico che rivestiva l'abside paleocristiana è la decorazione del sottarco. Al centro accoglie il monogramma di Cristo accompagnato dalle lettere alfa e omega racchiuso su entrambi i lati da un ricco festone di fiori quadripetali, contornato da una cornice di gemme, che si diparte dai cesti collocati alle due estremità dell'arco [46]. Il festone non si dispone esattamente al centro del sottarco, ma è spostato verso il bordo rivolto verso la navata per lasciare spazio, nella zona lungo il bordo verso l'abside, ad una serie di ampie fasce di colore diverso.
Iscrizioni 1 - Iscrizione dedicatoria. Dispersa, in origine sulla controfacciata, in parte ancora visibile nel secolo XVI (Panvinio 1570b, 235; ICUR, II 42) Virga Maria, tibi Sixtus nova tempia dica vi I digna salutifero munera ventre tuo. I Te genitrix ignara viri,~ denique feta visceribus sa/vis edita nostra salus. I Ecce tui testes uteri sibi premia portant I sub pedibus iacet passio cuique sua: I ferrum, flamma, fere fluvius sevumque venenum I tot tamen has mortes una corona manet._ «Vergine Maria, a te io Sisto ho dedicato un nuovo tempio, degna offerta al tuo ventre salutifero. A te genitrice ignara dell'uomo, a te, infine, che avendo partorito, hai generato dalle tue viscere intatte la nostra salvezza. Ecco, i testimoni del tuo utero portano a te i premi e sotto i loro piedi è posto lo strumento della passione di ognuno: ferro, fiamma, belve, fiume e tremendo veleno. Mentre sono tante queste (forme) di morte, una sola è la corona».
Note critiche Le indagini sulle fondazioni della basilica svolte dal Biagetti (Biagetti 1933, 40-43; CBCR 1971, III, 37) hanno consentito di verificare con certezza che l'abside paleocristiana, sostituita per volere di Niccolò IV (1288-1292) con una nuova abside introdotta dal transetto , era direttamente collegata all'arco e, dunque , al suo complesso programma iconografico. Un indizio che la decorazione musiva si estendesse fra arco e abside senza soluzione di continuità è costituito, come ha dimostrato il Biagetti, dal sistema di fasce che decora il sottarco lungo il bordo rivolto verso l'abside (Biagetti 1933, 38, figg. 4-5). È più difficile ricostruire quale tema figurativo fosse raffigurato nell'abside. Le ipotesi si basano sugli elementi che si possono ricavare dal titulus dedicatorio e, dall'altra, dalla decorazione dell'abside medievale. Il contenuto del titulus è noto attraverso tre sillogi medievali, con alcune minime varianti (Diehl 1925-1931, I, n. 976; Cecchelli 1956, 63-70; Matthiae 1967 121, n. 4; Cecchelli 1956, 64; CBCR 1971, III, 5; Brenk 1975, 4; Bertelli 1997, 58 n. 25) . Nel primo verso vi è la dedicazione della chiesa alla Vergine - il termine templa nella silloge di Tours è sostituito da tecta - che si aggiunge a quella alla Plebs Dei contenuta nell'iscrizione musiva al culmine dell'arco; i tre versi successivi sono riservati ad esaltare il ruolo della Vergine dal «saluti/ero gremio» «genitrix [. .. ] visceribus salvzs edita nostra salus»; infirn;, l'ultima parte menziona cinque martiri («tui testes uteri») con i simboli del martirio raffigurati sotto i piedi («/errum
flamma /erae fluvius saevumque venenum»), che recano corone (praemia) alla Vergine. L'intero contenuto dell'iscrizione ruota, dunque, intorno alla figura di Maria e ne sottolinea ripetutamente il ruolo nell'incarnazione di Cristo. Conosciamo l'ubicazione del titulus grazie alla testimonianza di Onofrio Panvinio che ne dà notizia nel 1570, prima dei lavori del cardinale Pinelli (1593 ). Era eseguito a mosaico sulla parete della controfacciata, sopra la porta centrale, ed era già poco leggibile in quegli anni, tanto che Panvinio riuscì a trascrivere solo il primo verso («versus quidam musivei supra portam maiorem in tra aecclesiam, iam exolexentes /ere consumpti», Panvinio 1570b, 235). In appunti su fogli sciolti, pubblicati da Biasotti (Biasotti 1915, 23), annotò anche che sopra le porte vi erano pitture abbinate a un rivestimento in opus sectile e un fregio continuo («supra portas ubi desunt tabulae lapidae sunt picturae satis elegantes ... antiquo zoophoro diruto hi versus»); si deduce quindi che il fregio disposto sopra gli architravi della navata centrale proseguiva senza interruzione sulla controfacciata. L'insieme descritto sembra richiamare la controfacciata della basilica di Santa Sabina, che comprendeva l'iscrizione musiva, l'opus sectile ed elementi figurati (-+ 40). Il titulus non contiene alcun riferimento circa la disposizione dei soggetti all'interno della basilica e gli studiosi hanno avanzato in proposito ipotesi diverse, anche molto lontane fra loro. La prima vede il titulus e l'intera composizione disposti sulla parete della controfacciata (Wilpert 1931, 209-210; Kiinzle 1961-1962, 9-10), ma ha il limite di non prendere in considerazione l'incidenza delle finestre che erano sicuramente presenti, probabilmente nella formula adottata nella basilica di Santa Sabina o nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, e riducevano sensibilmente lo spazio per una vasta composizione musiva (CBCR 1971, III, 48). Un'ipotesi diversa ritiene che solo l'iscrizione fosse sulla controfacciata, mentre la raffigurazione doveva essere disposta altrove. Il De Bruyne (De Bruyne 1938, 308) suppose che i martiri potessero essere collocati fra le finestre della navata centrale, sul modello della basilica di Sant' Apollinare Nuovo a Ravenna, trascurando la presenza delle lesene e delle cornici in stucco sulle pareti; per altri l'iscrizione sulla controfacciata era accompagnata dalle figure dei martiri, mentre la Vergine era raffigurata nell'abside (Brenk 1975, 4) . E in effetti, alcuni elementi del testo, quali il temine ecce che introduce i santi martiri, sembrano indicare che la loro immagine fosse a stretto contatto con l'iscrizione, ai lati o al disopra della tabula scriptoria, sul modello già ricordato della basilica di Santa Sabina (Brenk 1975, 4) . Altri ancora pensano che solo l'iscrizione fosse sulla controfacciata mentre l'intera composizione, che si presta ad avere un impianto monumentale, si svolgeva nell'abside (Cecchelli 1956, 67-68; Nilgen 1996, 154; Andaloro 2000b, 99-100). L'insieme non poteva prevedere solo la Vergine fra cinque martiri, ma rispettando un principio di simmetria doveva essere completato da un'ulteriore figura, che è logico supporre fosse quella del committente, il pontefice Sisto III (Gandolfo 1987, 87; Nilgen 1996,154). Un'ipotesi che ha affrontato il problema in modo diverso è stata proposta da Kiinzle, secondo il quale il titulus visto dal Panvinio nel 1570 può essere una copia medievale dell'iscrizione paleocristiana, copia realizzata durante i lavori promossi dal pontefice Niccolò IV (1288-1292) che avevano interessato oltre all'abside anche la parete della
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controfacciata (Ki.inzle 1960-1961 , 9). Negli stessi anni anche Wellen ha sostenuto l'idea che la testimonianza di Panvinio possa documentare una situazione non originale proponendo, a differenza di Ki.inzle, che il titulus descritto non sia un copia medievale, ma la stessa iscrizione paleocristiana staccata dall'abside e trasportata sulla controfacciata durante i lavori alla fine del Duecento. Lo studioso partiva dalla riflessione che il titulus risulta strettamente legato alle immagini e doveva perciò essere necessariamente contestuale ad esse. L'abside accoglieva secondo Wellen la figura della Theotokos, espressione dell 'incarnazione di Cristo all'indomani del concilio di Efeso , accompagnata dai santi e dall'iscrizione collocata alla base del catino, probabilmente divisa in tre tabulae distinte, seguendo la consuetudine più frequente nelle basiliche romane , come i Santi Cosma e Damiano, Sant' Agnese, Santa Prassede (Wellen 1961, 120). Quando l'abside venne distrutta si sarebbe provveduto a recuperare il titulus, il cui contenuto non era più funzionale alla nuova decorazione, e a trasportarlo sulla controfacciata, come memoria dell 'abside paleocristiana, secondo un'attenzione per le iscrizioni che si riscontra anche nel cantiere attivo negli stessi anni in San Giovanni in Laterano (Wellen 1961, 127). Altri studiosi sono di opinione opposta. Sostengono che l'abside paleocristiana non potesse accogliere l'immagine della Vergine, ma doveva necessariamente presentare la figura di Cristo, quale fulcro del significato cristologico del programma decorativo nel suo insieme ed escludono che il titulus possa riferirsi, anche solo parzialmente, alla decorazione absidale (Bertelli 1961, 49, nota 36; Ki.inzle 1961-1962, 177; Marini Clarelli 1996, 340-341; Bertelli 1997, 56 ; Saxer 2001, 45; Pace 2002, 77; Pace 2004, 222). Una proposta ancora diversa parte dalla lettura in chiave apocalittica del programma dell'arco attraverso la quale è stato proposto quale tema dell'abside la Trasfigurazione (Casartelli Novelli 2000, 288). Alla luce di tutte queste ipotesi, anche recenti, sembra opportuno ricordare che il tema della Vergine Theotokos con il bambino in grembo ha un significato intrinsecamente cristologico e non mariano, e si afferma proprio all'indomani del concilio di Efeso, ad esprimere la doppia natura di Cristo, in un contesto che già dalla fine del IV e l'inizio del V secolo vede l'intensificarsi del culto per la Vergine in Oriente come in Occidente sullo sfondo delle dispute teologiche (Belting-Ihm 1960, 132-135; Wellen 1961 , 120-153 ; Andaloro 2000b, 100). In Occidente il soggetto rimarrà un caso isolato probabilmente fino all'abside di Santa Maria Nova al Foro Romano; in Oriente invece il tema è assente nel V secolo, ad eccezione del mosaico nella chiesa di Santa Maria delle Blacherne a Costantinopoli commissionato dall'imperatore Leone il Grande (457-474) (Wellen 1961, 149), ma avrà ampia diffusione nel VI secolo come attestano i mosaici della basilica Eufrasiana di Parenzo e della Panaria Kanakaria a Cipro (Belting-Ihm 1960, 56-57 , 5960; Andaloro 2000b, 100). In conclusione, si può suggerire che l'abside di Santa Maria Maggiore con ogni probabilità accogliesse l'immagine della Theotokos, come enuncia il titulus nel quale i martiri testimoniano la maternità di Maria («tui testes uteri»). Rafforzano questa ipotesi diversi elementi: l'importanza che nella basilica sistina assume la liturgia del Natale, prima celebrata a San Pietro (Montanari 1998, 11), l'interpretazione del programma dell'arco sullo sfondo del pensiero teologico di Leone Magno relativo al dogma dell'incarnazione, ormai accolta dalla maggior parte degli studiosi (---> 41 b ) e la stessa titolazione della basilica. Nel tentativo di ricostruire l'assetto generale della composizione dell'abside, gli studiosi si sono rivolti al mosaico medievale di Iacopo Torriti (1296) - che presenta l'Incoronazione della Vergine
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fra santi all'interno di girali d'acanto e una fascia fluviale alla base del catino absidale - cercando elementi che possano essere una spia della diretta ripresa di temi paleocristiani. Li hanno individuati nei girali d'acanto e nella fascia fluviale popolata di putti e animali, motivi che trovano precisi riferimenti con opere di V secolo (Mi.intz 1875, 274; Ajnalov 1895, 247; Id. 1900-1901 [1960] , 192-195). Il primo può essere avvicinato ai mosaici dell'abside orientale dell'atrio del Battistero lateranense, legati alla committenza sistina (---> 42a), il secondo alla decorazione perduta della cupola di Santa Costanza (---> 1d) e alla fascia fluviale del mosaico dell 'abside medievale-di San Giovanni in Laterano , che probabilmente ripropone un motivo dell 'abside paleocristiana. Nella seconda metà dell'Ottocento l'aspetto antichizzante dei motivi citati aveva colpito gli studiosi a tal punto da spingere il Mi.intz a pensare che fossero state recuperate e reinserite nel mosaico medievale alcune porzioni del tessuto musivo paleocristiano e, segnatamente, del brano nilotico (Menna 1991, 237 -251 ), affascinato da quanto aveva potuto constatare per il busto del Salvatore nell 'abside di San Giovanni in Laterano (Mi.intz 1875 , 274 ; de Rossi 1899; Ajnalov 1895, 247 ; Wickhoff 1895, 84-85;---, 43 ). L'ipotesi è stata in seguito ripresentata dall 'Oakeshott (Oakeshott 196 7, 94-96; Henkels 1971 , 135-136; Verdier 1980, 157-160), ma si è rivelata infondata per l'omogeneità del tessuto musivo che non consente di pensare , a interpolazioni nel mosaico medievale. Per quanto riguarda i girali vegetali, la loro presenza nell'abside paleocristiana sembra confermata dalla Descriptio Lateranensis Ecclesiae di Giovanni Diacono del 1169 (PL 194, col. 4557 ). L'espressione «pluribus pisces ibi in floribus et bestiae cum avibus inter chorum et altare» (PL 194, col. 4557 ) è infatti da riferire alla calotta dell'abside (Gandolfo 1976, 62; Bertelli 1997, 55 ) e non al pavimento, come proposto in precedenza (Wellen 1961 , 123-125 ). La figura della Vergine in trono con il Bambino era dunque accompagnata da girali vegetali, che potevano dipartirsi dalla base del cilindro absidale secondo quanti hanno interpretato la fonte sulla base della decorazione perduta della basilica Suricorum a Santa Maria a Capua Vetere, fondata nella metà del V secolo dal vescovo Simmaco (Belting-Ihm 1960, fig.10 ; Biscanti 2002b, 1647 1648) o seguire un 'impaginazione più simile a quella dell 'abside medievale. Un riflesso della composizione sistina è secondo alcuni da vedere nella composizione dell'abside della basilica di Santa Maria Nova (1167) (Matthiae 1967 , 354) che ne sarebbe una copia, filtrata attraverso un 'elaborazione carolingia nella quale i girali vegetali sono stati sostituiti dal motivo architettonico ad arcate (Snyder 1974 , 1-9; Gandolfo 1988, 343 ). Il programma della basilica di Santa Maria Maggiore poteva essere completato dal titulus inserito alla base del catino absidale, se si condivide l'ipotesi che quello visto da Panvinio sulla controfacciata fosse una copia medievale realizzata durante i lavori promossi da Niccolò IV negli ultimi decenni del Duecento (Ki.inzle 1960-1961 , 9) oppure, secondo l'ipotesi meno convincente formulata dal Wellen, il titulus paleocristiano staccato e trasportato sulla parete d'ingresso (Wellen 1961 , 127 ). La decorazione musiva dell'abside sistina costituiva il fulcro del complesso programma della basilica articolato nei mosaici della navata e dell'arco, e la novità del tema, rispetto alle decorazioni delle absidi romane riservate a Cristo in trono nel consesso degli apostoli, come nella chiesa di Santa Pudenziana (---> 8) o nelle chiese di Sant'Agata dei Goti (462-479) e di Sant'Andrea in Catabarbara (468-473 ), queste ultime perdute ma note da disegni, è in sintonia con l'originalità dell'intero programma della basilica, sottolineato nelle pagine precedenti, espressione dell'alto livello di riflessione intellettuale degli anni del pontificato di Sisto III.
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Interventi conservativi e restauri Il sottarco è stato coinvolto nelle vicende conservative dell'arco (--+ 41b, Int. cons.).
Documentazione visiva de Angelis 1621 , 91; bottega di Simone Lagi e Marco Tullio Montagna, acquerelli (1640 circa), BAV, Barb. lat., 4405, ff. 1-41; bottega di Simone Lagi e Marco Tullio Montagna, acquerelli (1640 circa), WRL, 8953-8957 (arco trionfale); Ciampini 1693 , tavv. ILLXIV; Seroux d'Agincourt 1823 , V, pl. XIV-XVI; Valentini 1839, tavv. LXI-LXVIII; Fontana 1855 , tavv. 22-24; Garrucci 1881, tavv. 211-222; de Rossi 1899, tavv. 1-4; Richter Taylor 1904, tavv. I-IL; Scaglia 1910, tavv. 2-52 ; Wilpert 1916, III, tavv. 8-28, 53-74, 161163; Alinari, fotografie (1917), nn. 28297, 30122-30151; Anderson, fotografie (1917) , nn. 17424, 17472-17490, 17506-17513 , 17653659; fotografie (1940), AFMV: nn. XXX-34-13 /20, XXX-34-22/27, XXX-31-16, XXX-35-7, XXX-34-9, XXX-30-12 , XXX-31-17 , I12-14 ; Karpp 1966a, tavv. 1-157 ; fotografie (1999), AFMV: nn. 37986,39415,43558, 47356,50134 , 50136, 50138-50140, 50143 , 50145, 50318-50320, 50322, 50324, 50326, 50328, 50330, 50350, 50360,50362,50364 , 50366, 50368,50370,50372,50294.
Fonti e descrizioni Lettera di Adriano I (772-795) a Carlo Magno (vedi Mansi 17671773 , XIII, 8.01; LP I, 235 nota 8); Iohannes Diaconus, Liber de Ecc!esiae Lateranensis, 1180 circa (vedi PL 194, col. 4557); Panvinio
1570b, 235 ;Jean l'Heureux (Iohannes Macarius) ante 1605 [1856] , 50, 53 , 59, 191 ; de Angelis 1621 , 90-91; Panciroli 1625, 253 ; Mabillon 1689, II, 560-576; Ciampini 1690, I, 195-224; Joseph Marie Suarès, disegno con annotazioni (XVII secolo), BAV, Vat. lat. 9136,f. 218; Bianchini 1727, 15-32; Seroux d'Agincourt 1823 , II, 55-57 , III, 14-16.
Bibliografia Seroux d'Agincourt 1823, II, 55-57; III, 14-16; Ratti 1825; Fontana 1855 , 22-24 ; Valentini 1839; Rohault de Fleury 1874 , 11 , 53 , 63, 67-69, 78 , 86; Miintz 1875, 273-274; Garrucci 1877, IV, 17-31 ; Rohault de Fleury 1878, 29; Garrucci 1881 , I, 497-501; Kondakoff 1886, 104-106; De Waal 1887, I , tav. VIII-IX; Ajnalov 1895, riassunto in Richter Taylor 1904, 415-419; de Rossi , 1899, fase. XXIV e XXV; Grisar 1899, 577-594 ; Ajnalov 1900-1901 [1960], 192-195 ; Venturi 1901 , I, 252-273 ; Richter Taylor 1904; Scaglia 1910; Dalton 1911 , 338; Biasotti 1914 , 73-95; Wulff 1914 , 331338; Biasotti 1915a, 15-40; Biasotti 1915b, 20-3 2; Wilpert 1916, I, 412-496; Van Made 1923, 5-7 ; Alpatov 1924, 1-19; Van Berchem Clouzot 1924, 11-58; D alton 1925 , 233 ; Diehl 1925-1931 , I , n. 976; Toesca 1927, 170-178; Muratov 1928, 61-62; Komsted 1929, 11-19; 42-44 ; 37-60 ; Biagetti 1931a, 26-32; Biagetti 1931b, 2733 ; Wilpert 1931 , 197-213; Anichini 1932; Albertella 1933, 8198; Biagetti 1933 , 33-43; Diehl 1933 , 61-62; Astorri 1934, 51-72; Biasiotti 1935; de Bruyne 1936, 231-269; Boulet 1936, 65-78; Grabar 1936, 209-230; Biagetti 1937 , 101 -116;de Bruyne 1938, 281-318; Biagetti 1939, 47-56; Schefold 1939, 289-316; Schuchert
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1939; Biagetti 1941-1942, 292-296; Male 1942 , 74-87; Morey 1942, 146-155 ; Brendel 1944, 5-24 ; Biagetti 1946-1947, 241 -251; Bettini 1947 , 11-12 ; Deichmann 1948, 62; Bianchi Bandinelli 1951 , 421-453 ; Talbot Rice 1953, 66-68; Bertelli 1955 , 40-42 ; Bianchi Bandinelli 1955, 146-149; Cecchelli 1956; Byvanck 1958, 41- 48; Redig de Campos 1958, 319-326; Volbach-Hirmer 1958, 69-70; Kollwitz 1960, 17-19; Belting-Ihm 1960, 130-132; Lavagnina 1960, 70-72 ; Weis 1960, 73-88; Bertelli 1961, 48-49; Bonicatti 1961 , rist. 1963, 92-98; Brodsky 1961, 413-504; Byvanck 1961 , 15-26; Wellen 1961 , 93-130; Kiinzle 1961 -1962 , 153-190; Therel 1962, 153-171; Bovini 1963 , 81-101 ; Kantorowicz 1963b, 118-154; Goubert 1964 , 187-215 ; Waetzoldt 1964, 48-49, nn. 438-478, figg. 237-276, 51, nn. 488-494, fig . 280; Matthiae 1965 [1987], 42-53; Bovini 1966, 33-47; Brodsky 1966; Karpp 1966a; Karpp 1966b, 62-80; Kollwitz 1966, 105 -110; Lazarev 1967 , 4750; Matthiae 1967 , 87-123; Oakeshott 1967, 73 -89; Marinelli s.d. [post 1967] , 15; Grabar 1968, 45-49 , 132-140; Spain 1968a; Kotzsche Breitenbruch 1968-1969,108; Spain 1968-1969, 85; CBCR 1971 , III, 40-41, 48-50; Schubert 1971, 194-226; Henkels 1972, 135-136; Klauser 1972, 120-135; Giordani 1973-1974, 225249; Perler 1974 , 275-293; Snyder 1974 , 1-19; Brenk 1975; Kitzinger 1975 , 121-138; Perler 1974, 275 -293; Deckers 1976a; Deckers 1976b, 308-318; Gandolfo 1976, 62 ; Piétri 1976, 15871596; Kitzinger 1977 , 68-74 ; Spain 1977 , 12-22; Schubert 1979,
181-191 ; Spain 1979, 518-540; Amato 1980, 105-111; von Stritzky 1980, 133-145; Verdier 1980, 157; Russo 1980-1981 , 83-84; Loerke 1981 , 15-22; Nilgen 1981 , 1-33; Guarducci 1982, 80; Colli 1983, n. 71 ; Nordhagen 1983, 323-325; Spain 1983 , 325-328; Andaloro 1986a, 103-112 ; Andaloro 1986b, 69 nota 15; Andaloro 1987, 227-230; Casartelli Novelli 1987 , 149-172; Gandolfo 1987 , 85123 ; Momigliano 1987 , 412; Sieger 1987 , 83-91; Andaloro 1988, 122-124; Gandolfo 1988, 343; Romanini 1988, 83-91 ; De Spirito 1989, 565-582 ; Pietri 1989, 589-603 ; Kogman-Appel 1990-1991 , 27-51 ; Andaloro 1992, 574; Belli 1992-1993 ; Dufraigne 1994, 9496; Kemp 1994 , 149-181 ; Biihl 1995, 288-296; Schubert 1995 , 81-89; Casartelli Novelli 1996, 659-666; De Spirito 1996, 273292; Marini Clarelli 1996, 323-344; Nilgen 1996, 153-165; Osborne-Claridge 1996, 201-209; Paolini Sperduti 1996, 61-72 ; Stritzky 1998, 200-214; Acconci et al. 2000, 634-641; AndaloroRomano 2000, 99-100, 120-122 ; Brenk 2000 [2005] , 139-148; Fried 2000, 1-41 ; Cadetti 2000, 448-453 ; Casartelli Novelli 2000a, 315-321; Cavalcanti 2000, 254-260; Biscanti 2000h, 13-23 ; NestoriBisconti 2000; Pirani 2000, 389-394; Steigerwald 2000, 187-199; Ahlqvist 2001 , 209; Saxer 2001 , 41-59; Brenk 2002 , 1001-1018; Calcagnigni 2002 , III, 1919-1938; Pace 2002 , 77 ; Steen 2002 , 1944-1946; Kemp 2003 , 5-16; Schade 2003 , 107-109; Steigerwald 2003 , 74-83 ; Warland 2003 , 127-141, Pace 2004 , 222; Kitzinger 2005 , 69-78; Andaloro 2006, 49. M aria Raffaella Menna
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MOSAICI E LA D}iCORAZIONE AD OPUS SECTILE NELL'ATRIO DEL BATTISTERO -LATERANENSE
42. I MOSAICI E LA DECORAZIONE AD OPUS SECTILE NELL'ATRIO DEL BATTISTERO LATERANENSE
Il Battistero lateranense ospitava una ricca decorazione a mosaico parietale e ad opus sectile di V secolo, distribuita nell'involucro ottagonale costantiniano (LP I, 172-175), nel vestibolo eretto da Sisto III (432 -440; ~ 42abc) e nelle tre cappelle di San Giovanni Evangelista, San Giovanni Battista e Santa Croce (~ 48abc) costruite da papa llaro (46 1-468) attorno al Battistero stesso (LP I, 48, c. 2, 6-7). Questa sontuosa decorazione ha subito notevoli perdite a causa delle trasformazioni cinquecentesche apportate all'edificio da Leone X (1475 -1521) e Paolo III (1534-1549) e dei restauri del XVII secolo di Urbano VIII (1623-1644; San Giovanni in Laterano 1990; Brandenburg 2004c, 43 ). L'originaria veste interna del
Battistero è nota grazie ad una descrizione di Onofrio Panvinio del 1560 ca., che riferisce di un mosaico che ornava la volta a botte del corridoio anulare e di un opus sectile che rivestiva le pareti fino all'imposta della volta (Lauer 1911, 464-465). Il mosaico e i sectilia dell 'ottagono, sebbene non siano documentati graficamente, a differenza della perduta decorazione del vestibolo e delle cappelle, nella storiografia più recente sono stati riferiti al pontificato di Sisto III (432-440), unitamente alla definitiva sistemazione architettonica della struttura ottagonale e alla costruzione e decorazione del vestibolo biabsidato (Krautheimer 1961 , 291-302; Romano 1991 , 34-50; de Blaauw 1994, 133-136; Brandt 1997-1998, 7-66).
42 a. IL MOSAICO CON L'AGNUS DEI, LE COLOMBE E I GIRALI D 'ACANTO NELL'ABSIDE ORIENTALE Sisto III (432-440)
Il mosaico presenta una decorazione a girali, su fondo blu intenso, impostata centralmente su uno stelo verticale sorgente da un cespo d'acanto dal quale si dipartono simmetriche volute verdi e oro che, digradanti dal basso verso l'alto, riempiono l'intera superficie del catino [1, 2]. La spazialità del pergolato arboreo è evidenziata dalla fascia di terreno verde cosparso di piccoli cespi fioriti che funge da proscenio.
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La raffigurazione vegetale, al culmine della curvatura della conca, è conclusa da un velario a conchiglia, da una fascia intermedia decorata con fiori di giglio e da cinque campi lunettati, contenenti quattro colombe e l'Agnello [3], racchiusi in una banda ad ovoli da cui pendono sei croci gemmate [4]. Altre croci gemmate, oggi in numero di nove , in origine dodici , ornano la fascia blu che delimita in basso la calotta.
L'intera composizione è incorniciata da un fregio decorato con volatili affrontati ad un cantaro, intervallati da un fiore rosso su uno stelo verticale terminante in due volute ornamentali, che corre addossato ali' arco dell'abside e termina nella zona inferiore della conca. Allo stato attuale, il mosaico si trova costretto all'interno dell'intelaiatura tardo-barocca che, in parte, ne impedisce la corretta visione per la presenza degli stucchi. Lo stato di conservazione appare simile a quello documentato dalle riproduzioni fotografiche dei primi anni del Novecento. Le zone integrate a pittura corrispondono, nella foto acquerellata Wilpert-Tabanelli (Wilpert 1916, I, 251 , III, tavv. 1-3 ), alle lacune in marrone neutro e alle aree in cui la decorazione riprende il motivo originario con una tonalità di colore più intenso. Queste ultime, risarcite a mosaico nell'Ottocento, sono state nuovamente integrate a pittura nel 1943-1944. Il restauro ottocentesco a mosaico è documentato in una ripresa Anderson (n . 2177 ) che riporta anche, sulla fascia perimetrale di cornice alla calotta, a sinistra e a destra del velario, alcune integrazioni pittoriche quadrettate riferite ad un intervento conservativo del 1597 , oggi non più esistenti (Iacobini 1998, 251-256) [4].
Iscrizione Nel corso dell'intervento conservativo del 1943-1944, sono state individuate, nella parte sinistra della fascia blu che corre sotto la rappresentazione del terreno, alcune lettere chiuse con materiale musivo e stucco non differente da quello originale (MV-ASLR, prot. 2316, 8, 1944). Ciò ha suggerito la possibilità che un'iscrizione fosse stata progettata unitamente al piano iconografico e compositivo, ma realizzata solo in parte ed obliterata in seguito ad un cambiamento
di progetto in corso d'opera, oppure, trasferita in una eventuale fascia sottostante il fregio con vasi e volatili, oggi sigillata dal rivestimento marmoreo settecentesco (Iacobini 1998, 261-262 ).
Note critiche Il mosaico è stato concordemente datato al pontificato di Sisto III (432-440) dopo l'attribuzione di Giovenale, a quegli anni, della struttura dell ' abside, cui aderisce la superficie musiva (Giovenale 1929, 121; Bovini 1963, 74-78; Matthiae 1966, 83-86; Id. 1968, 97 ). Più recentemente la sua realizzazione in epoca sistina è stata messa in relazione alla costruzione stessa del vestibolo biabsidato (Cecchelli Trinci 1990, 39-59; Iacobini 1998, 249266), in base allo studio delle murature, agli scavi e alla presenza di marmi di spoglio analoghi, utilizzati da questo papa nel vestibolo e nell'epistilio sopra la vasca battesimale della sala ottagona (LP I , 234 ), secondo un puntuale programma di recupero della classicità (Krautheimer 1961 , 291-302; Pelliccioni 1973, 7-114 ; de Blaauw 1994, 133-136; Previtero 1996, 10-12; Brandt 19971998, 48 ). Sull'attribuzione del mosaico al pontificato di Sisto III permane, tuttavia, un 'ombra gettata dalle indagini condotte da Pelliccioni negli anni Settanta sulle murature dell'abside, dove nella parte superiore, corrispondente al catino, è stato individuato un intervento di restauro dell'epoca di Anastasio IV (1153-1154 ), che ha riaperto il dibattito sulla datazione (Pelliccioni 1973 , 99, nota 14, 104; Andaloro 1987, 230). Peraltro, la mancata redazione di una documentazione accurata e argomentata, in occasione di quel sondaggio, rende particolarmente auspicabili ulteriori studi che portino definitiva chiarezza sulla natura e l'epoca delle murature dell'atrio.
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Il mosaico presenta uno schema iconografico, incentrato sul tema vegetale, che rispetta una formula di simmetria 'classica' nella disposizione e nella trattazione del tema dei girali d 'acanto, con volute 'non abitate' terminanti in fiori quadrilobati o con corolle a forma di coppa, più volte avvicinato al motivo presente nei rilievi alla base dell'Ara Pacis Augustae (L'Orange 1962, 7-16) e sorprendentemente simile alla decorazione di due nicchie nell'ipogeo di Sette Camini, vicino Roma, del tempo di Adriano (Sear 1977, 104 fig. 32). Se il confronto con l'Ara Pacis è particolarmente appropriato riguardo l'equilibrio raggiunto, in entrambi i casi, tra «l'ordinata successione di forme geometriche e le sottili variazioni dei motivi organici» (Vandi 2002 , 94-96), quello con le nicchie dell'ipogeo lo è in relazione alla sistemazione del motivo delle volute d'acanto, originate da un elemento centrale, a riempimento di una superficie concava. L'esuberante preminenza del tema ornamentale ha lasciato assegnare al mosaico del Battistero «solo una funzione decorativa», strettamente collegata ai riquadri in opus sectile conservatisi accanto alla porta d'ingresso(----> 40c), nell'intento di dare «unità esteriore e tematica alla decorazione dell'ambiente» (Matthiae 1967 , 83 ). Nondimeno , i motivi ornamentali di discendenza ellenisticoromana, l'acanto, la cornice ad ovoli, i vasi, si integrano ad elementi cristiani, le croci, le colombe, l'Agnello - che sono stati ben compresi nel loro ruolo allegorico di immagini-paradigma della
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salvezza attraverso l'esaltazione del Cristo risorto, pur nelle diverse sfumature interpretative: dalla raffigurazione del giardino paradisiaco alla trionfale fioritura dell'universo (L'Orange 1962, 7-16). Dei singoli elementi cristiani è stato ben chiarito anche il significato simbolico . Se le quattro colombe rivolte verso l'Agnus Dei alludono agli evangelisti, le dodici croci rappresentano gli apostoli. Inoltre, nello stelo verticale sorgente dal cespo d'acanto, è stata recentemente riconosciuta, nonostante le poche tessere originarie conservatesi nella parte alta del tralcio, una reliquia della Passione, la Santa Lancia, che sarebbe stata inserita anch'essa nella composizione quale elemento salvifico, «quasi un arbor vitae nel giardino del Paradiso» (Iacobini 1998, 257-258 ). L'Agnus Dei è caratterizzato da una croce raffigurata al vertice del capo [3] . La stessa croce, equilatera con terminazioni non patenti, si trova anche nei mosaici dell'arco trionfale di Santa Maria Maggiore, in corrispondenza della figura di Gesù Bambino, seppure qui abbinata al nimbo, probabilmente per porre l'accento sulle due nature, umana e divina di Cristo, ratificate dalle disposizioni del Concilio di Efeso del 431. La forma della croce dell'A gnus Dei riconduce dunque , a nostro avviso, ancora una volta al clima delle committenze sistine, al pari del manifesto classicismo nella trattazione del tema dell'acanto, presente nel mosaico e nelle tarsie, e del consapevole riutilizzo di marmi antichi. Tenendo presente le imprese legate a Sisto III a Roma e il più ampio
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panorama pittorico della prima metà del V secolo, viene allora naturale interrogarsi sulle possibili relazioni tra il decoro a girali del Battistero lateranense e l'ornato vegetale di pampini di vite (Ihm 1960, 178) o di girali d'acanto (Bovini 1967 , 54) che accompagnavano la Theotokos nel perduto mosaico del catino absidale di Santa Maria Maggiore a Capua Vetere. Il mosaico con la Madonna e il Bambino in trono, infatti, riferito anch'esso alle risoluzioni di Efeso e attribuito al tempo del vescovo Simmaco (424-439) , per buona parte della critica dovrebbe richiamare quello che ornava la primitiva abside sistina di Santa Maria Maggiore (Andaloro-Romano 2000, 120; -4 41 e). Sfortunatamente anche il mosaico nell'abside della basilica sistina è andato perduto, rendendo vana la possibilità di chiarire se esso fosse stato il modello pure per il mosaico del vestibolo o se, al contrario, sia da considerare un'eventuale rielaborazione di uno schema decorativo sperimentato, per primo, nel Battistero. L'ornato a girali lateranense è stato più volte paragonato al decoro vegetale nell'abside della basilica superiore di San Clemente, come esempio di ripresa dell'arte paleocristiana nella prima metà del XII secolo (Corpus IV, - 32). Le assonanze sono particolarmente evidenti nell'impostazione generale della composizione e nel principio del riempimento di una conca mediante delle volute (Toubert 1990 [2001], 199). Tuttavia, l'ornamentazione di San Clemente, allo stesso tempo più schematica e più carica di
particolari, si distingue da quella lateranense dove emerge, pur piegata ad un disegno rigoroso e prosciugato da ogni dettaglio inessenziale, una declinazione del tema ancora convincentemente naturalistica e una più efficace resa plastico-volumetrica delle dinamiche volute. Anche le coeve lunette del Mausoleo di Galla Placidia (440-450) con i cervi alla fonte tra girali d'acanto, sul piano formale sono state reputate più libere e allo stesso tempo dotate di minor senso della spazialità rispetto alla decorazione del vestibolo, dove il motivo arboreo, sebbene caratterizzato da un certo schematismo, è trattato con maggiore senso naturalistico (Matthiae 1967, 8384; Deichmann 1974, 63-90, tavv. 14-15). Ciò nonostante, i contatti ravennati sono particolarmente interessanti anche per l'utilizzo di un'analoga sensibilità cromatica in grado di far vibrare i girali verdi-dorati sul blu del fondo . In questa direzione ancora più intense sono le affinità con i mosaici di Santa Matrona in San Prisco a Capua Vetere, del tempo del vescovo Simmaco (424439), per l'impressionismo coloristico che li caratterizza (Olivieri Parioli 1967, 285-286). Le lumeggiature dorate, digradanti al verde sull'indaco intenso del fondo e realizzate con tessere piccole e angolate, giocano, infatti, non su effetti di contrasto quanto su una ricerca di naturalismo basata su una convincente articolazione nello spazio della decorazione fitomorfica, assai vicina a quella dell'abside romana.
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Interventi conservativi e restauri
Fonti e descrizioni
1597-1598: l'indoratore Giovanni Andrea Stabilini venne pagato per «ristorare un mosaico del Portico di S. Rufina» (ASR, Camerale I , G iustif icazioni di Teso reria, B 25, reg. 3, c. 18r). Il restauro tardo-cinquecentesco fu probabilmente eseguito con integrazioni pittoriche dorate e graffite a finto mosaico (Iacobini 1997 , 252-253 ). 1827-1828: campagna di restauri diretta da Vincenzo Camuccini. Le integrazioni a mosaico riguardarono la fascia del sott' arco, la decorazione a volute della conca e la fascia orizzontale inferiore. Il restauro si concluse con il lavaggio generale dell'opera al fine di «ravvivare li vecchi smalti per mezzo di scopette, acqua di calce ed olio» (ARFP, III piano, ser. 29, pacco 1, cc. 684-687 ; Matthiae 1967 , 408; Iacobini 1998, 254-255 ). 1943-1944: intervento conservativo del Laboratorio di Restauro Vaticano diretto d a Giorgio Pianigiani che comportò lo «strappo totale a zone» e la riapplicazione del mosaico antico (MV-ASLR, prot. 2316, 1944; Iacobini 1998, 255-256).
Onofrio Panvinio, De Baptisterio Lateranensi et eius ornamentis, III (1560 ca. ), BAV, Vat. lat. 6110 (si veda Lauer 1911, 464-465 ); Ugonio 1588, 46-47 ; Rasponi 1656, cap. II, 212-233 ; Descrizione e scandaglio della spesa occorrente per risarcire e rinnovare in parte gli A ntichi M usaici di cui sono decorate le Cappelle contigue al f amoso Battistero Lateranense, ARFP, III piano, ser. 29, pacco 1, cc. 684687 ; R elazione del restauro del mosaico dell'abside dell'Oratorio delle SS. R ufina e Seconda nel Battistero Lateranense, eseguito dal 1O maggio 1943 al 28 luglio 1944 , MV-ASLR, prot. 2316, 1944 (la relazione a f irma cli Giorgio Pianigiani è datata 30 luglio 1944).
Docum entazione visiva de Rossi 1899, tav. XI; Rohault de Fleury 1877 , tav. XLIII.
Bibliografia Rohault de Fleury 1877 , 137 , 309-310; Garrucci 1881 ; de Rossi 1899, commento alla tavola XI; Lauer 1911 , 176-177 ; Wilpert 1916, I, 247-271 ; Van Berchem-Clouzot 1924, 9-10; Toesca 1927 , 167-168; Giovenale 1929; Krautheimer 1961 , 291-302; Bovini 1963 , 67-80; Matthiae 1965 [1987], 54 ; Matthiae 1967 , 83-86, fig . 76, 408; Oakeshott 1967, 100, 150-153 ; Bovini 1968, 94-96; Bovini 1971, 133-141; Pelliccioni 1973, 104; Andaloro 1987, 230; Cecchelli Trinci 1990, 47-48 ; Romano 1991 ; de Blaauw 1994 , 129-136; Iacobini 1998, 249-266; Toubert 1990 [2001] , 177-227 ; Vandi 2002 ; Brandenburg 2004c, 46-47.
42b. IL MOSAICO CON PASTORI NELL'ABSIDE OCCIDENTALE Sisto III (432-440)
Il mosaico dell'abside occidentale è andato completamente perduto nel 1757 in seguito alla realizzazione degli apparati decorativi della cappella della famiglia Lercari, ma forse già allora non era più esistente o era gravemente danneggiato (Lauer 1911 , 60, 176-177; Cecchelli Trinci 1990, 47 ). L'originario tema della decorazione è parzialmente ricostruibile, nel suo assetto originale, attraverso alcune fonti documentarie e grafiche. Panvinio nel 1560 ca. descrive l'abside scomparsa in questi termini: «in dextera sunt depinti pastori; ch e pascono i loro armenti; con uccelli & uccelliere», collocandola a destra poiché il suo punto di osservazione era probabilmente dall'ingresso del Battistero (Lauer 1911 , 466; Panvinio 1570a, 158). In due acquerelli di Ciacconio della fine del Cinquecento (BAV, Vat. lat. 5407, ff. 195,200) [5], sono raffigurate due coppie di pastori con pecore e buoi, ma sono assenti gli «uccelli & uccelliere» citati da Panvinio. I pastori con il loro gregge si trovano anche nel primo documento iconografico a noi noto , un disegno del Codex Escu rialen sis [6] , risalente all 'ultimo quarto del XV secolo, che mostra uno dei pastori racchiuso all'interno di un arco ribassato con un velario appeso , sorretto da una candelabra vegetale in cui è campito un pavone, mentre un altro pastore è raffigurato al di sotto cli una sorta di recinto campestre (Egger 1906, 59; Wilpert 1916, I , 256-266; Iacobini 1998, 251-252 ). Il motivo della candelabra è presente anche in un'incisione di Lafréry del 1540 (Rohault de Fleury 1877, tav. XXXIV; Lauer 1911 , fig. 14 ) [7], dove la parte visibile dell 'absidiola di sinistra è ornata da candelabre vegetali che, seguendone la curvatura, ne occupano l'intera estensione. Infine, in alcune incisioni tardo-ottocentesche, la composizione perduta è ricostruita tramite una fantasiosa aggregazione di elementi desunti
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dai più antichi codici citati con il tema del mosaico ancora esistente nell'abside opposta (Rohault de Fleury 1877, tavv. XXXIII, XLIII).
Note critiche Il perduto mosaico che ornava l'abside occidentale del vestibolo è stato generalmente riferito dalla critica alla campagna pittorica promossa da Sisto III (432-440) nel Battistero, insieme al mosaico con l'A gnus D ei, le colombe e i girali d 'acanto che si conserva nell'abside opposta (--+ 42a) e ali'opus sectile presente ai lati della parete d 'ingresso ali' ottagono (--+ 42c; Matthiae 1967, 84-85 ; Bovini 1963 , 78; Id. 1968, 98-100; Id. 1971 , 139-141 ; Iacobini 1998, 249266 ). Alla fine del Cinquecento il mosaico mancava della parte superiore della decorazione del catino, come riferisce un'annotazione contenuta in uno dei fogli acquerellati di Ciacconio: «caetera que olim superius extabant, temporis iniuria collapsa sunt» [1] (BAV, Vat. lat. 5407 , f. 200; Waetzoldt 1964, 42, n. 260). E proprio in quest'area della calotta erano stati probabilmente dipinti gli «uccelli & uccelliere» descritti circa un ventennio prima da Panvinio. Il mosaico, d'altra parte, doveva essere già lacunoso allo scorcio del XV secolo, se anche il disegno del codice Escurialensis ci restituisce solo elementi particolari e non l'assetto generale della compo-sizione [6]. In base ai dettagli noti, gli studiosi hanno ipotizzato la collocazione delle due coppie di pastori, ritratti in atteggiamenti diversi, nella zona inferiore del mosaico, reputandoli «quattro pastori che pascolano il loro gregge» (Wilpert 1916, I, 256-257 , figg. 72-73 ) o ancora «varianti del medesimo originale o meglio parti simili di una composizione più vasta» (Matthiae 1967, 84), ritenuta incentrata sull'immagine del Buon Pastore (Matthiae 1965 [1987] , 54; Cecchelli Trinci 1990, 47 ).
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Unanimemente condivisa dalla critica è l'opinione sull'esistenza di una stringente somiglianza tra i pastori del vestibolo e quelli che si trovano nella fascia verdeggiante sotto i girali del mosaico di XII secolo (1118) nella basilica superiore di San Clemente a Roma (Corpus IV, - 32; de Rossi 1899, commento alla tavola XI; Bovini 1963 , 78; Cecchelli Trinci 1990, 47). Opinione rafforzata dal riconoscimento di una puntuale citazione, nella scena di cortile dell'abside clementina, dell'episodio che si svolge all'interno del recinto nel disegno del codice Escurialensis (Toubert 1990 [2001] , 210 nota 141 ). Tali corrispondenze attestano l'appropriazione, da parte dei mosaicisti del XII secolo, di elementi tratti dal tradizionale repertorio paleocristiano, come conferma la ripresa del tema dell'acanto, nella stessa abside clementina , dal mosaico nell'absidiola opposta del vestibolo lateranense (- 42a). I pastori riprodotti da Ciacconio non sono raffigurati con una pecora sulle spalle, secondo l'antico schema iconografico del crioforo divenuto Cristo Buon Pastore; [5] e se anche quest'ultimo fosse stato presente nella originaria composizione, perduta e non documentata, in scala maggiore e in posizione centrale, come talvolta supposto (Matthiae 1965 [1987], 54; Cecchelli Trinci 1990, 47), i soli soggetti copiati da Ciacconio basterebbero a conferire al tema del mosaico un generico valore simbolico d'impronta agrobucolica, in un orizzonte figurativo ancora interessato dalla cultura pagana. Così i pastori ci appaiono nella plastica funeraria e nella pittura catacombale di III e IV secolo, nelle rappresentazioni del giardino paradisiaco, caratterizzato in chiave pastorale tramite immagini deUa vita campestre, spesso adombranti episodi di vita oltremondana (Biscanti 1990, 62-66). Nel mosaico del Battistero
è però implicita anche una valenza cristologica, già sottintesa nell'annotazione riportata in uno degli acquerelli di Ciacconio: «uhi Christus ter arm entariz; sem el pecuarii habitu cernitur» (Waetzoldt 1964, 42, n. 260) e, quindi, un significato soteriologico strettamente connesso alla liturgia battesimale. Lo dimostra la reiterata presenza del Buon Pastore nei programmi decorativi dei battisteri, a partire da quello di Dura Europos, dove esso appare con la pecora sulle spalle sopra il fonte battesimale (232-233 d.C. ), a quello damasiano del Vaticano, dove Prudenzio vide il pastore Sitibondo guidare il pascolo alle acque salutari (Prudentius, Peristephanon XII, vv. 43-44) , fino alle lunette pastorali di San Giovanni in Fonte a Napoli (inizi V secolo). E la sua presenza è anche evocata da un'iscrizione, che corre lungo una delle nicchie inferiori nel Battistero neoniano di Ravenna (metà V secolo; Ricci 1931 , 33) e da un carme di Venazio Fortunato in quello di Ma yen ce (Venantius Fo rtunatus, Miscell. 2, 15, PL 88, 106 in De Bruyne 1954; Maier 1964 , 120-129; Biscanti 2001c, 430-431) . Nel caso specifico del Laterano, tuttavia, come anche nelle lunette del Battistero napoletano (Gandolfi 2002, 22-24) , sembrerebbe a nostro avviso essere prioritario il riferimento al rinnovamento spirituale che dà diritto alla vita eterna, piuttosto che l'allusione alla remissione dei peccati (Gv 10, 10-11 , 27-28 ; Gv 21 , 15-17; Le 15 , 6-7), maggiormente connessa, quest'ultima, con l'iconografia del crioforo che ritrova la pecora smarrita. Il pastore che guarda il suo gregge meglio si collega, infatti, ali' esegesi del salmo 22 , «il Signore è il mio pastore» e ai concetti più generici del rinfresco , della rigenerazione e della pace cosmica, suggeriti dal contesto paradisiaco della raffigurazione perduta (Biscanti 2001c, 430-431 ). L'ingresso
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all'interno del Battistero rappresentava dunque l'ingresso in Paradiso (Cirillo di Gerusalemme, Protocat. 15 in Iorio 1993 , 41), così come l'esuberante ornamentazione di volute d'acanto, candelabre vegetali, drappi e volatili, presente nelle due absidi del vestibolo, doveva alludere ad un quadro paradisiaco accessibile unicamente attraverso il battesimo(-+ 42a). Non a caso, un contesto simile a quello che in origine doveva essere evocato dai pastori lateranensi, appoggiati a lunghi bastoni e abbigliati in corta tunica clavata, mantellina e sandali con fasce crurali, si ritrova proprio nei mosaici del Battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli (inizi V secolo), dove, nelle lunette, sono raffigurate scene pastorali di intonazione idillico-bucolica affine a quella romana (Mayer 1964, 120-140). Stringenti analogie si notano anche tra il segmento della cornice decorativa riprodotto nel disegno del codice Escurialensis e le fasce rastremate con candelabre vegetali contenenti animali, con appese cortine e drappi, del Battistero napoletano. Al traguardo finale di queste similitudini s'incontrano, per l'assetto decorativo, il mosaico del Battistero neoniano di Ravenna (Deichmann 1974, 17 -4 7, tav. 3 9) e, per la scena pastorale, i mosaici della zona inferiore dell'abside con il Ratto di Elia nel mausoleo imperiale di Sant'Aquilino (Bertelli 1985, 144-169), che spettano entrambi agli anni centrali del V secolo, di poco successivi, dunque, alla realizzazione della perduta decorazione del Battistero romano.
Documentazione visiva Alfonso Ciacconio, disegni a penna (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, ff. 195 , 200; Francisco de Ollanda, acquerello (1538-1540), MBE,
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28-1-20, f. 4; incisione di Lafréry del 1540 (si veda Rohault de Fleury 1877, tav. XXXIV; Lauer 1911 , fig. 14); Rohault de Fleury 1877 , tavv. XXXIII, XLIII; Garrucci 1881 , tav. 239.
Fonti e descrizioni Onofrio Panvinio, D e Baptisterio Lateranensi et eius ornamentis, III (1560 ca. ), BAV, Vat. lat. 6110 (si veda Lauer 1911 , 466 ); Panvinio 1570a, 158; Panvinio 1570b, 201 ; Ugonio 1588, 47; Rasponi 1656, 221.
Bibliografia Rohault de Fleury 1877, 16, 17, 20, tavv. XXXIII, XXXIV, XLIII; Garrucci 1881 , 47-48 , tav. 239; de Rossi 1899, commento alla tavola XI; Lauer 1911 , 60, 176-177 , 466; Wilpert 1916, I, 256266; Bovini 1963 , 78;; Waetzoldt 1964, 42, n. 260; Matthiae 1965 [1987] , 54 ; Matthiae 1966, 84-85 ; Matthiae 1967 , 84; Bovini 1971, 139-141 ; Cecchelli Trinci 1990, 47 ; Iacobini 1998, 251-252. Francesca Romana Moretti
42c. LA DECORAZIONE AD OPUS SECTILE Sisto III (432-440)
Nel vestibolo del Battistero lateranense si trovano i resti di una decorazione ad opus sectile, parzialmente integrata a pittura durante un restauro moderno, che si dispone ai lati della parete d'ingresso all'ottagono e sulla parte sinistra dell'arco absidale est. I.: opus sectile si affianca, nell'insieme decorativo dell'ambiente, al mosaico con Agnus Dei, colombe e girali nell'absidiola orientale e al mosaico perduto con pastori di quella meridionale, entrambi databili al pontificato di Sisto III (- 42ab ). Le tarsie sulla zona destra della parete d'ingresso presentano una superficie piuttosto integra, articolata in tre parti: due registri sovrapposti, divisi da una cornice orizzontale al cui interno si sviluppano ritmicamente, in forme stilizzate, volute d'acanto [8]. Nel registro superiore, troncato dal soffitto moderno dell'ambiente per circa 40 cm nella parte alta, sono tre pannelli, dei quali il primo a destra è perduto con l'eccezione della cornice a girali; quello al centro, quasi intatto, è composto da un disco racchiuso in un elemento decorativo dal profilo a spiromeandro; il terzo riquadro, interamente perduto, è sostituito da una pittura che ne imita il probabile motivo antico, comune agli altri pannelli. Questa integrazione pittorica, fo rse riconducibile ad un restauro di XV-XVI secolo (Int. cons.), è visibile solo nella metà destra. Del registro inferiore restano, alternati tra loro e parzialmente distrutti in basso, due pannelli e due lesene. Queste contengono candelabre con piccoli vasi, uccelli, cespi d'acanto ed altri elementi mutuati dal repertorio classico [10]. Dei pannelli, quello a destra si compone di un disco contornato da virgulti d'acanto [12]; l'altro consiste in una grande lastra rettangolare, inquadrata da una cornice con motivo 'a cuore' [11]. Nella zona sinistra della parete si conserva una ridottissima porzione della cornice orizzontale ad opus sectile, all'interno della quale si vede un disco gemmato con un fiore a quattro petali, analogo al motivo presente nella cornice che separa i registri sulla parte opposta. Se ne deduce che la cornice si estendeva lungo tutta la parete e che, presumibilmente, anche nella sua metà sinistra dividesse la decorazione in registri sovrapposti. Le tarsie della zona sinistra sono andate perdute ma, similmente a quanto accade nella zona destra, restano integrazioni a pittura di due pannelli, coperti nella metà superiore, che presentano uno schema compositivo e cromatico affine e che sembrerebbero potersi ricondurre, come quelle nella zona destra, ad un restauro di XV-XVI secolo [9]. Quanto sopravvive delle antiche crustae dell'arco absidale est è un sistema di fasce forse pertinente ad una cornice o ad una lesena, nell'angolo in basso a sinistra; anche qui la presenza di integrazioni mimetiche a pittura nell'angolo in basso a destra e in un tasto sopra il profilo dell'arco, forse ascrivibile alle indagini archeologiche degli anni 1963-1969, induce ad ipotizzare l'estensione dell'opus sectile a tutta la superficie. I marmi che compongono le tarsie sono essenzialmente tre: porfido rosso, serpentino e palombino, e più raramente il giallo antico e il pavonazzetto. Mentre porfido e serpentino sono impiegati per i fondi dei campi decorati e per le fasce, gli altri si prestano per disegnare i profili curvilinei dei motivi ornamentali, perché più morbidi al taglio.
su entrambi gli archi absidali e sulle pareti sotto le calotte absidali:
«Utraeque abszdes cum tota porticu antiquitus e tabulis varij marmoris et emblematibus diversis coopertae erant (. . .);/rons baptisterzj tota fuit opere tassellato, ornata ex lapillis viridibus, rubeis, aureis, albis, et similibus in quadratam, rotundam, oblongam et ovatam /ormam, periti artz/icis manu incisis» (Panvinio 1570a, 158). La datazione delle tarsie si lega alla costruzione del vestibolo biabsidato. Le caratteristiche delle murature del vestibolo (Previtero 1996, 10-12; Brandt2002, 925) e l'uguaglianza dei marmi di spoglio
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Note critiche Secondo la testimonianza di Panvinio , l'opus sectile era originariamente esteso su tutta la parete di ingresso all'ottagono,
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sulla facciata del vestibolo con quelli dell'epistilio sopra la vasca battesimale interna all'ottagono (Romano 1991, 34-50) fanno ritenere pressoché certa una datazione al pontificato di Sisto III (432-440). La decorazione ad opus sectile è del resto coerente con l'opera di monumentalizzazione dell'ingresso al Battistero attraverso il vestibolo. Essa si integra al tono aulico dell'insieme e, ispirata ai repertori ornamentali antichi sul modello di esempi quali le tarsie dalla basilica di Giunio Basso (--. 33) , o della domus ostiense fuori Porta Marina (--. 39), vi ripropone l'uso di riempire la superficie secondo quello stesso sistema compositivo a registri sovrapposti. Sono infatti molto evidenti le affinità nella sintassi delle parti, cioè l'organizzazione di campi, lesene, cornici, fregi in un insieme coerente (Guidobaldi 2000b, 252-253 ); è comune la scelta di alcuni marmi- porfido rosso, serpentino, palombino - anche se nel caso lateranense si è voluta
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dare prevalenza assoluta all'accostamento cromatico rosso-verde quindi all'uso di porfido e serpentino. La stessa alternanza si riscontra nelle tarsie del Battistero neoniano a Ravenna e in quelle nella basilica di Santa Sabina a Roma. Le prime, alloggiate sulle pareti nord-ovest e sud-est del battistero, sono composte da dischi porfiretici circondati da minuti listelli a disegno floreale ed eleganti cornici e si datano al 458 (Deichmann 1974, 46-47; Novara 2000, 362); le seconde sono sui pennacchi delle pareti della navata centrale e rappresentano pannelli verticali che ospitano dischi su piedistalli, databili come quelle lateranensi al pontificato di Sisto III(--> 40b). Esiste evidentemente, soprattutto con Santa Sabina, una concordanza di scelte cromatiche e una condivisione di elementi come il disco con profilo a spiromeandro, che avvalora la già accolta esecuzione sistina e conferma il ruolo
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'fondativo' che questo pontefice ha avuto nei programmi decorativi dei primi edifici cristiani monumentali. Le tarsie lateranensi sono tra i primi esempi di un nuovo gusto estetico, che rientra all'interno di un programmatico recupero della classicità in cui si intravedono valenze politiche (De Lachenal 1995, 31-46). Nell'uso così accentuato del porfido rosso-incluse le monumentali colonne dell'accesso al vestibolo - sembra di cogliere la volontà del pontefice di richiamarsi alla porpora imperiale, in quanto sovrano di una Chiesa cristiana che trionfa, dopo la scia di insicurezze lasciate dal sacco di Alarico del 410 (-> 40; Brenk 2002, 1002-1004). Quanto resta della decorazione marmorea è il risultato di vicende sia conservative che distruttive. Ad un momento storico di difficile identificazione si devono le integrazioni a pittura sopra descritte. Giovenale ritiene, sulla base di un passo del Liber Ponti/icalis, che esse si possano attribuire al tempo di papa Anastasio IV (11541159) poiché in quegli anni si effettuarono restauri alla struttura muraria del vestibolo e l'intervento potrebbe aver incluso l'opus sectile, forse già parzialmente compromesso (Giovenale 1929, 127). Le pitture integrative presentano tuttavia delle qualità formali, come il dinamismo delle linee e il par/um antique - ovvero un'evidente aderenza al testo originale che attesta la consapevolezza della sua antichità - che indurrebbero a ritenerle di epoca posteriore, forse di un periodo compreso tra XV e XVI secolo. A tal proposito, Panvinio le vide e le giudicò ineptae («ineptae quaedam picturae parietes occupant», Panvinio 1570a, 158); a questi stessi anni si riferisce la notizia di un pagamento di 20 scudi ad un pittore «per dipingere dove manca le tavole di marmo di dette mura» (Previtero 1996, 722). Si ha notizia di un restauro promosso dal papa Gregorio XIII (1572-15 85) sulle pareti dell'ottagono ma non esiste conferma alla possibilità che le pitture integrative siano state eseguite contestualmente. Quanto alle vicende distruttive, la costruzione a ridosso della parete di fondo dei monumenti funebri a Nicolò Lercari, a sinistra, e ad Alessandro Borgia, a destra, durante il pontificato di Clemente XIII (1758-1769) (San Giovanni in Laterano 1990, 174), comportò probabilmente la quasi totale perdita dell'opus sectile e l'occultamento delle tarsie
rimanenti sotto uno strato di intonaco, ancora visibile nella parte alta della parete. Negli anni 1923-1925 si effettuarono indagini archeologiche nell'area del Battistero, estese anche al vestibolo; in questa occasione si provvide alla restituzione delle tarsie coperte, raschiando l'intonaco (Giovenale 1929, 128) .
Interventi conservativi e restauri Entro 1570: si eseguono pitture mimetiche che vanno ad integrare le parti perdute dell'opus sectile (Panvinio 1570a, 158) . Clemente XIII (1758-1769): al suo pontificato si deve la costruzione dei monumenti funebri a Nicolò Lercari e Alessandro Borgia (San Giovanni in Laterano 1990, 174). Pur non sussistendo menzioni nelle fonti e notizie bibliografiche, si può supporre che la loro erezione abbia comportato il definitivo occultamento delle tarsie. 1923-1925: l'intonaco che copriva le tarsie ancora esistenti viene raschiato (Giovenale 1929, 128). 1943 -1944: il confronto fra la documentazione fotografica delle indagini di Giovenale e lo stato attuale fa ipotizzare che il pannello con motivo a spiromeandro fu staccato per essere consolidato, inserito in una cassa metallica e ricollocato in situ, anche se di circa 10 cm più in alto. Si ritiene che ciò sia avvenuto durante il restauro ai mosaici dell'abside orientale (Iacobini 1998, 256) perché tale intervento è più consono ad una campagna conservativa che ad indagini archeologiche quali farà Pelliccioni nel 1963-1967 (Pelliccioni 1973, 100).
Fonti e descrizioni Panvinio 1570a, 158.
Bibliografia Lauer 1911, 466; Giovenale 1929, 128-132; Kelly 1986, 265-266; Brandenburg 2004c, 46. Gaetano Alfano
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43 . IL VOLTO DI CRISTO DELLA PERDUTA ABSIDE DI SAN GIOVANNI IN LATERANO Prima metà del V secolo
La decorazione paleocristiana dell'abside lateranense doveva accogliere un tema teofanico (Andaloro 2000b, 99), forse un nucleo centrale con croce gemmata e busto di Cristo al centro e figure di apostoli ai lati oppure una imago brevis del collegio apostolico al fianco del Cristo a figura intera (Not. Cr). Della composizione originaria si era conservato, fino agli interventi ottocenteschi per il rinnovo dell'area presbiterale, l'unico brano del volto di Cristo (cm 75 x 105) , perduto in quell'occasione a seguito del suo stacco dal supporto murario nel 1883-1884, e che oggi si può descrivere solo grazie alla fotografia Parker del 1870 circa [1] e ai disegni pubblicati da studiosi che ebbero l'opportunità di salire sui ponteggi durante i restauri (Gerspach 1880, 147 ; de Rossi 1899, tav. XXXVII) [2, 3 J. Il volto aveva una forma leggermente oblunga, accentuata da baffi spioventi e barba folta, incorniciata da una chioma bruna e morbida che cadeva sulle spalle. Apparteneva dunque al tipo definito 'ellenistico' o 'filosofo'. La canna retta del naso separava i grandi occhi, dallo sguardo fermo e intenso. Vestito di una tunica grigia sul pallium porpora scuro dei sapienti antichi, con clavio dorato sulla spalla destra, il busto si stagliava su un fondo blu attraversato da filamenti di nubi celesti, che proseguivano nel campo dorato e uniforme del nimbo non crucisignato.
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Note critiche Negli anni 1875-1886 l'abside lateranense fu sottoposta ad un restauro radicale che ne sconvolse architettura e decorazione , compromettendo la /acies medievale e l'inserto paleocristiano conservati fino allora (Busiri Vici 1868; Mathis 1992). Il mosaico absidale perduto in quella circostanza, opera di Jacopo Torri ti e commissione di papa Niccolò IV (1288-1292) , si ancorava cronologicamente al 1291 sulla base di dati epigrafici (Tornei 1990, 77-78), e ospitava una Deesis. La Deesis rispondeva allo schema atipico con la croce gemmata al centro, sovrastata dal busto in luogo della figura intera del Cristo, a destra la Vergine, il papa Niccolò IV e i santi Francesco, Pietro e Paolo, a sinistra i santi Giovanni Battista, Antonio da Padova, Giovanni Evangelista e Andrea; un cammeo col Battesimo di Cristo era all'intersezione dei bracci della croce, eretta sul monte paradisiaco dal quale fluivano i quattro fiumi celesti, cui si abbeveravano cervi e agnelli. In basso, a chiusura della raffigurazione, si svolgevano un ambiente fluviale e la firma di Torriti, a sinistra. Il fondo era dorato nella fascia inferiore e, in corrispondenza del busto di Cristo, blu scuro percorso da nubi policrome, da angeli e un serafino. Il progetto ottocentesco di rinnovamento del presbiterio prevedeva la conservazione del mosaico medievale, come attesta la messa a
punto di un 'accuratissima documentazione di tutta la superficie per mezzo di calchi in cartone dipinto a tempera, e lo stacco a massello dell'opera in porzioni quadrate di 50 centimetri di lato; l'obiettivo era di ricollocarle nell'esatta posizione (La nuova absida 1886; Tornei 1987;Jatta Fornaciari 1990, 243-244), ma i 296 metri quadrati di mosaico medievale si persero , o dispersero, con l'eccezione del fondo dorato, risarcito di lacune e deterioramenti quindi restituito alla calotta (Tornei 1990, 239). La perdita dell'opera torritiana ha innescato interrogativi anche attorno al vultum Salvatoris, suo cuore antico, quel volto di Cristo proveniente da una redazione anteriore del mosaico absidale, che papa Niccolò volle conservare come «pegno della dignità e santità della basilica mater et caput dell 'orbe cristiano» (de Rossi 18721892 , 168r) , facendolo reinserire alla sommità della calotta e dichiarando il suo atto nell'iscrizione dedicatoria situata alla base dell'abside, che recita «Partem posteriorem et anteriorem ruinosas
huius sancti templi a /undamentis reedificare /ecit et ornari opere mosyaco [sic] Nicolaus PP III! /ilius beati Francisci et sacrum vultum Salvatoris integrum reponi/ ecit in loco ubi primo miraculose populo romano apparuit quando / uit ista ecclesia consacrata. A nno Domini MCC nonagesimo II» (trascrizione da Tornei 1990, 77) . Interrogativi e ipotesi si sono rincorsi negli studi fino a diventare una vexata quaestio ancora sospesa, e riguardano l'effettiva antichità del volto, il suo statuto di reliquia e immagine acheropita ma anche la pertinenza ad un programma decorativo paleocristiano transitato, e in quali proporzioni, nell'abside niccolina. Appare acquisito che il volto di Cristo provenisse da una decorazione più antica, come afferma innanzi tutto il passo «sacrum vultum Salvatoris integrum reponi/ecit>> dell'iscrizione già riportata. Si poté inoltre osservare che il volto, al tempo del suo stacco ottocentesco, era adagiato su una lastra di travertino dai bordi rialzati ancorata alla muratura da grappe di ferro , sul fondo della quale erano tracce rosse di sinopia (La nuova absida 1886, 12), secondo Cecchelli proprie al mosaico primitivo collocato sin dall'origine in un 'contenitore' a sé (Cecchelli 1961 , 18). Chi poté esaminare il busto da vicino nota che «gli smalti che lo compongono sono diversi nella piccolezza e lucidezza da tutti gli altri impiegati nella Tribuna e sono altresì meglio commessi» (Crescimbeni Baldeschi 1723, 173) e rileva il chiaro segno di una 'quadratura' attorno al volto [4], che marcava il confine materiale del frammento antico rispetto al suo contesto medievale e gli accreditava un'esistenza propria. Gli studiosi che nel 1876 salirono sul ponteggio testimoniano lo straordinario tour de main, la cura estrema con cui l'artista ottenne la massa bruna dei capelli, e ne rammentano il par/um antique, l'impronta della prima era cristiana ancora impastata con le proporzioni auree e gli equilibri solenni dell'antichità (Gerspach 1880, 147; Miintz 1879, 109; de Rossi 1872-1892, 168v) . A questi elementi si affianca la tradizione che vuole vedere nel volto del Laterano l' «effigie di un archetipo sovrannaturale» (Andaloro 2000a, 53), quello del Cristo apparso durante la consacrazione della basilica costantiniana nel 319, tornato a cristallizzarsi in oro e paste vitree sulla chiave di volta della conca absidale (Crescimbeni Baldeschi 1723, 156-172; Lauer 1911 , 217; Hoogewerff 1955 , 301). La credenza ha una prima e significativa attestazione nell'epigrafe dedicatoria di Niccolò IV, dove nel passo «in loco ubi primo miraculose populo romano apparuit>> la comparsa del volto di Cristo viene definita miraculose, mentre fonti più antiche dell'epigrafe, come il Lezionario del Laterano, datato fra IX e XI secolo, nel quale si legge «Et imago Salvatoris depicta parietibus primum visibiliter omni Populo Romano apparuit>> (Arch. Lat., f. 229 in CrescimbeniBaldeschi 1723, 156) o il Liber de Ecclesia Lateranensi di Giovanni
Diacono, datato fra XII e XIII secolo, in cui si ripete la stessa frase , indicano il volto del Salvatore semplicemente come visibiliter. Il passaggio dalla sola visibilità all'apparizione miracolosa dimostra che il volto, alla fine del XIII secolo, è ritenuto un 'acheropita, un'immagine-reliquia da curare e perpetuare ed è presumibilmente la sua percezione quale vera effigie Domini nostri a spiegare sia il suo isolamento materiale in una cassa di travertino - ammesso che questo non risalga ancora indietro nel tempo - che la scelta di ricontestualizzarlo nel nuovo mosaico torritiano. Alcuni hanno voluto interpretare il gesto niccolino come esempio di quella prassi pittorica medievale che vede talvolta eseguire i volti delle figure separatamente dai corpi, come accade nel Cristo del Giudizio Universale di XII secolo sulla controfacciata della chiesa di San Giovanni a Porta Latina (Corpus IV - 61 ; Wilpert 1929, 108; Giordani 1994a, 304-305). Nella basilica lateranense l'immissione del volto paleocristiano del Salvatore nel mosaico medievale sarebbe annunciata, secondo gli studiosi citati, dall'espressione in/ixa parietibus che compare nel Liber di Giovanni Diacono, che non spiegherebbe tuttavia perché il pontefice avesse reinserito l'antico volto, con un atto solenne e dichiarato, anziché farne eseguire uno ex novo, pur separandolo dal resto del corpo. La datazione del volto lateranense è argomento molto delicato, che s'intreccia con la sua attinenza ad una redazione paleocristiana del mosaico absidale, soggetto altrettanto delicato e ancora sub judice, sia per la configurazione iconografica che per la cronologia. Le questioni dibattute da fine Ottocento ad oggi sono nella sostanza tre: se il vultum Salvatoris si debba associare alla
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fondazione costantiniana della basilica quindi datare al IV secolo oppure al V, sulla base di un passo del Liber Pontz/icalis, di confronti tipologici con altre opere e del contenuto di un'epigrafe perduta; se Torriti abbia riprodotto fedelmente e senza variazioni l'iconografia del mosaico paleocristiano, recuperando l'antico volto di Cristo e immettendolo nel nuovo testo musivo; infine se il sistema croce-busto e figure ai lati non si debba, invece, ad una seconda redazione del mosaico, forse di IX secolo, che avrebbe
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comunque conservato e reimpiegato il volto originario: in questo caso nel mosaico torritiano sarebbe transitata una composizione altomedievale e non paleocristiana. Si tratta di una materia vasta e difficile da ordinare, che soffre la perdita materiale dell'opera oltre ad una penosa assenza di documentazione antecedente la demolizione ottocentesca, al punto che ancora oggi, come dimostra lo schema ricapitolativo nel recente contributo di De Spirito, si possono offrire acute riflessioni ma nessuna certezza (De Spirito 2004 , 126). L'assegnazione del volto ad un arco cronologico compreso tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo appare la più probabile. La datazione costantiniana infatti (Wilpert 1924, 27-28; Cecchelli 1961, 15) appare inaccettabile perché dovrebbe trascurare l'ipotesi, assai complessa e dibattuta, che la primitiva abside lateranense, come quella vaticana, fosse aniconica, rivestita di foglia d 'oro (Krautheimer 1967a) o di tessuto in filo d'oro (Guarducci 1981 , 803-804 ; Andaloro 2000b , 96). Considerazioni più convincenti hanno spinto altri studiosi verso il V secolo: una perduta iscrizione anticamente posta in throno (abside), e tramandata dalla Sylloge Laureshamensis, indicava nel console Flavio Felice (428-430) e in sua moglie Padusia i committenti di un intervento nell'abside per adempiere ad un voto (Buddensieg 1959, 182; De Spirito 2004 , 216); in un passo del L iber Pontz/icalis alla vita di papa Leone Magno, si legge che «H ic renovavit basilicam beati Petri apostoli (et cameram) et beati Pauli post ignem divinum renovavit. Fecit vero cameram in basilica costantiniana» (LP I, 239); Christe propone un confronto stilistico tra il volto lateranense ed i pannelli di soggetto teofanico in Santa Maria Maggiore, che ritiene leoniani (Christe 1970, 206). Inoltre, nell'aula ostiense fuori Porta Marina si affaccia, alla fine del IV secolo, un busto virile nimbato ad opus sectile (- 39) nel quale si vuole riconoscere un'effigie di Cristo in stato ancora germinale, embrione di quella tipologia che sarebbe maturata nei decenni successivi fino a configurarsi come vero e proprio «vincolo» (Andaloro 2000b, 50) per la rappresentazione del volto del Salvatore nei contesti romani, la tipologia del 'filosofo carismatico', adulto e barbato , con chioma lunga e sguardo profondo. Il volto che vediamo nella foto Parker [1], o nel disegno di de Rossi [3] , e che la copia ottocentesca restituisce con un 'intonazione forse meno caratteristica [5], più uniformata ad un canone moderno di bellezza, dimostra di essere un Cristo 'filosofo ' maturo, un esemplare evoluto e pienamente formalizzato; esso è inoltre il centro, il fulcro figurativo di un mosaico che doveva possedere un alto valore simbolico per la Chiesa e la comunità cristiana e questo ne fa un archetipo monumentale. Si ritiene pertanto che una cronologia tra fine IV e primi decenni del V secolo sia accettabile, rafforzata dall'intensa affinità che esso offre con il volto del Cristo docente nel cimitero dei Santi Marcellino e Pietro (- 25 ), della seconda metà del IV secolo, più volte posto a confronto col frammento del Laterano. La funzione archetipica del volto del Laterano varca il V secolo, come attestano i mosaici absidali dei Santi Cosma e Damiano, dell'oratorio di San Venanzio nel Battistero lateranense, di Santo Stefano Rotondo e il mosaico sulla voltina sopra l'altare del Sancta Sanctorum (Atlante I, 15, 31, 21 ), opere che si datano fra VII e XIII secolo, dove i volti di Cristo trovano in quello lateranense il proprio «nucleo generativo» (Andaloro 1995, 14 3). Per quanto riguarda la configurazione primitiva del mosaico absidale dal quale proverrebbe il volto, gli studi si sono imperniati attorno a due iconografie: il sistema croce-busto affiancato dai soli Pietro e Paolo o da apostoli e il Battista (Wilpert 1924, 27 ; Cecchelli 1961 , 16-17 ; Matthiae 1967, 349; Oakeshott 1967, 312; Christe 1970; Andaloro 1987, 227 ) e la figura intera del Cristo
al centro di una imago brevis del collegio apostolico (Buddensieg 1959; Angiolini 1970, 62-63; Giordani 1994a, 304-305). Entrambe le proposte si sono basate sul recupero delle secolari trafile iconografiche, sul confronto con opere mobili (le ampolle di Terra Santa, gli avori della cassetta di Samagher), coi sarcofagi di età teodosiana e con pitture monumentali e cimiteriali, da intendersi quali termini ante o post quem. Hanno inoltre tenuto conto della resistenza di soggetti antichi come lo schema romano di culto della vittoria imperiale, che associava croci e busti dei vincitori, e della comparsa di temi iconografici come la Deesis per accogliere o respingere l' assegnazione al V secolo e l'eventualità di una 'manipolazione' del mosaico nel IX secolo. Il vultum Salvatoris del Laterano vanta evidentemente una storia critica e interpretativa vasta che urta contro la povertà di elementi probanti; esso è stato il cuore di una composizione teofanica ad alto valore simbolico, databile entro la metà del V secolo; nella tipologia erede del 'filosofo carismatico', il volto fu concepito a un terripo come fulcro figurativo del tema absidale e come cellula autonoma in quanto immagine-reliquia , funzioni confermate dalla sua ricontestualizzazione niccolina.
Interventi conservativi e restauri 1291: Jacopo Torriti recuperò il volto di Cristo del mosaico più antico e lo inserì nella nuova composizione absidale per volontà di Niccolò IV. L'iscrizione alla base della conca, che documenta la ricontestualizzazione, afferma che il volto era intero (Not. cr.). 1660: Alessandro VII Chigi (1655-1667) commissionò un restauro del mosaico absidale che forse interessò anche il volto di Cristo (Mathis 1992, 49 ). 1826: de Rossi cita un album epigrafico compilato dal Settele, cominciato il 12 settembre 1826, nel quale si fa menzione di ritocchi al volto di Cristo; riferisce inoltre una testimonianza di Gerspach, il quale avrebbe collaborato con un mosaicista, figlio di un altro mosaicista-restauratore attivo sul volto di Cristo nel 1826 (de Rossi 1872-1892, 168v). 1883-1886: si demolì l'abside lateranense, cui seguirono la riedificazione e l'esecuzione di un nuovo mosaico. In questa occasione si perdette il volto paleocristiano, documentato da un calco come il resto, che però non figura tra quelli recuperati da Carlo Pietrangeli e acquisiti ai Musei Vaticani (Tornei 1990, 239).
Descriptio Lateranensis Ecclesiae, XII secolo (si veda ValentiniZucchetti 1940-1952 , III, 319-373) ; Iacopo Torriti, Iscrizione dedicatoria di papa Niccolò IV (1 288-1292) nell'abside lateranense, mosaico, emiciclo absidale della basilica di San Giovanni in Laterano, Roma , 1292 (si veda Forcella 1869-1884, VIII, 14 n. 14); Panvinio 1570b, 145 ; del Sodo 1575 , 227 ; Ugonio 1588, 42a ter; Paleotti 1606, cap. I, 16; Panciroli 1625 , 135; Severano 1630, 508; Ciacconio 1677, II, col. 257; Ciampini 1693 , 8; Calcagnini 1639, 459; Piazza 1703 , 384; Crescimbeni-Baldeschi 1723 , 15517 3; Marangoni 17 47, 17 4; De Mirabilibus Urbis Romae, Roma e 1537 (vedi Valentini-Zucchetti 1946, Codice III, 3-65); AASS, ]unii, VII, 149, col. I.
Documentazione visiva
Bibliografia
Baldeschi-Crescimbeni 1723 , 155 ; Gutensohn-Knapp 1823 , tav. XLVI; Jean Baptiste Seroux D 'Agincourt, disegno (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9841, f. 51v; Seroux D'Agincourt 1825, VI, tav. XVIII, 13; Henry Parker, fotografia (1870 circa), ICCD F 321/12; Miintz 1878; Fontana 1870, tav. I; Rohault de Fleury 1877, tavv. XX-XXII; Gerspach 1880, 137 ; Cavalcaselle-Crowe 1864-1886, I, 143 ; de Rossi 1899, tav. XXXVII.
Miintz 1878b, 273-278; Miintz 1879, 109-117, 216-220; Gerspach 1880, 131-148; de Rossi 1899, commento alla tavola XXXVII; Lauer 1911 , 49, 54, 215-223 ; Wilpert 1924 , 26-31 ; Wilpert 1929, 107-126; Hoogewerf 1955 , 297-326; Buddensieg 1959, 157-200; Cecchelli 1961 , 13-18; Matthiae 1965 [1987], 41-42 ; Matthiae 1967 , 347-352 ; Oakeshott 1967, 312; Christe 1970, 197-206; Gandolfo 1983 , 85-88 ; Andaloro 1987 , 227 ; Tornei 1987 , 184187;Jatta-Fornaciari 1990, 243-244; Tornei 1990, 239-242 ; Mathis 1992, 15 5; Belting 1994, 65; Giordani 1994a, 271-311 ; Andaloro 1995, 142-144; Andaloro 2000a, 48-50; Andaloro 2000b , 100102; Ballardini 2000, 286-287; Brandenburg 2004c, 26; De Spirito 2004, 122-125.
Fonti e descrizioni Lezionario della Basilica di San Giovanni in Laterano, ACL, f. 229 (vedi Crescimbeni-Baldeschi 1723 , 156); Giovanni Diacono ,
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Geraldine Leardi
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44. I MOSAICI E I DIPINTI MURALI ESISTENTI E PERDUTI DI SAN PAOLO FUORI LE MURA
La basilica di San Paolo fuori le mura [2] sorge dove fu sepolto il corpo dell'apostolo martirizzato nel 67 d .C. sotto Nerone. La più antica notizia della sepoltura di Paolo sulla via Ostiense è riportata nella H istoria Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, il quale, fra il 299 e il 317 , scriveva: «Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli. Se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa» (Eusebio, H istoria Ecclesiastica , II, 25 , 7). Sopra la 'cella memoriale' che accoglieva le spoglie di Paolo , Costantino costruì una piccola basilica, consacrata nel 324 da papa Silvestro I (314-335 ; Filippi 2004; Filippi 2006 ). A Valentiniano II, Teodosio e Arcadio si deve l'erezione della grande basilica, che inglobò quella costantiniana mantenendo come fulcro la 'memoria apostolica'. La costruzione fu portata a termine dal figlio di Teodosio, Onorio (395-423 ), come recita il distico inserito nella cornice superiore del mosaico dell'arco trionfale (---> 44c.1 ). Un 'altra iscrizione che corre lungo l'archivolto e una notizia del Liber Ponti/icalis ci informano che, successivamente, papa Leone Magno (440-461 ) dovette intervenire quando dei fulmini , o un terremoto avvenuto nel 442-443 , danneggiarono gravemente l'edificio (ibidem). Questi lavori sono ricordati in alcuni versi di un carme scolpito su un'epigrafe un tempo sulla controfacciata della basilica, oggi conservata nel monastero: «Nam potiora nitent
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reparata culmina templi et sumpsit vires /irmior aula novas dum Xpi antistes cunctis Leo partibus aedes consulit et celeri tecta re/ ormat ape doctorem ut mundi Paulum plebs sancta beatam intrepide solitis excolat o/ficiis. Laus ista /elix respicit te preasbiter nec te levZtes adeodate praeterit quorum /idelis atque pervigil labor decus omne tectis ut rediret institit» (ICUR, II 423 ; Silvagni 1943 , II, 47 83; Filippi 1998). La basilica di San Paolo fu colpita da un terribile incendio nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1823 [1] . La furia del fuoco fece crollare, oltre al tetto, l'intera parete nord della navata centrale e danneggiò pesantemente le altre strutture che, seppure rimasero in piedi, dovettero essere demolite, per delibera della Commissione speciale per la riedificazione della Basilica di San Paolo sulla via Ostiense, istituita per volere di papa Leone XII (1823-1829), il 26 marzo del 1825. I lavori si protrassero per oltre trent'anni, tra accesi dibattiti e cambiamenti di progetto in corso d'opera, e si conclusero il 10 dicembre 1854 con la fastosa consacrazione della nuova basilica, da parte del pontefice Pio IX (1846-1878; da ultimi Grobelewski 2001 ; Docci 2006). I resoconti della Commissione riferiscono l'impegno con cui, in un primo moment~), si cercò di salvare ciò che restava della basilica, mettendo in sicurezza i mosaici dell'arco trionfale, ma già nel luglio del 1827 i piani mutarono e tra il 1827
e il 1828 si decise di staccare sia i mosaici dell'arco che i ritratti papali e tre scene del ciclo dell'Antico Testamento rimaste sulla parete settentrionale, i mosaici dell'abside di Onorio III (12161227 ) e quelli della facciata del tempo di Giovanni XXII (13161334), opera di Cavallini (Quinta congregazione generale della Commissione speciale, Roma 1931, 16). Della decorazione del tempo di papa Leone Magno si conservano oggi quaranta ritratti papali esposti all 'interno degli ambienti monastici (- 44b.2), alcuni frammenti del mosaico dell'arco trionfale, rifatto ex novo nella nuova basilica (- 44c), mentre delle tre scene veterotestamentarie si è persa ogni traccia (Kessler 2004 , 22-23 ). Il recupero dell'impianto originario della decorazione della basilica, riferibile al tempo di papa Leone, è oggi possibile solo attraverso descrizioni e testimonianze pittoriche e grafiche antecedenti la sua distruzione. Le fonti visive più importanti sono: i disegni acquerellati fatti eseguire dal cardinale Francesco Barberini nel 1635 (BAV, Vat. lat. 4406), i disegni di Seroux d'Agincourt eseguiti tra il 1777 e il 1781 da Louis Étienne Deseine (BAV, Vat. lat. 9843 ), i dipinti su tela di Gian Paolo Panini eseguiti nel 17 43-1750, le sezioni di Andrea Alippi pubblicate nella monografia di Nicolai sulla basilica di San Paolo (Nicolai 1815 ) e le incisioni di Luigi Rossini del 1818 (Boccalini 1954) . La navata centrale della basilica, con l'abside ad oriente, si presentava scandita da arcate sorrette da venti colonne per lato: nella fascia immediatamente al di sopra di esse correva la serie dei ritratti papali all'interno di clipei; nella fascia mediana si estendeva un ciclo pittorico a doppio registro costituito, sulla parete sud,
da scene dell'Antico Testamento ed episodi della vita di san Paolo, sulla parete nord. I pannelli erano separati da colonnine, probabilmente in stucco, come anche in stucco doveva essere la decorazione nei pennacchi tra arco ed arco (Kessler 2004, 13-15 ). Negli spazi tra le finestre di ciascuna parete stavano ventidue figure di Apostoli e Profeti. Chiudeva trionfalmente la navata, all'ingresso del presbiterio, l'imponente arco con la decorazione a mosaico di tema apocalittico: Cristo tra i ventiquattro Seniores, i viventi e i principi degli Apostoli. Nell'impianto decorativo voluto da papa Leone Magno sono da inserire anche le pitture della controfacciata, con scene della Passione di Cristo e figure dei quattro evangelisti, quarto fulcro semantico degli assi di lettura della decorazione della navata ideati dal grande pontefice (- 44a). Recenti indagini archeologiche, condotte da Giorgio Filippi nel transetto della basilica, hanno riportato alla luce un breve tratto di muratura decorato a finti marmi coerente con la recinzione presbiteriale di Leone Magno (- 44d).
Avvertenza La scheda 44b.2 , relativa alla serie dei ritratti papali, presenta una numerazione indipendente dalla sequenza progressiva che si osserva per l'intera scheda 44 al fine di garantire l'esatta corrispondenza tra la successione dei pontefici e le rispettive immagini.
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44a. I DIPINTI DELLA CONTROFACCIATA Papa Leone Magno (440-461 )
La controfacciata della basilica ostiense, distrutta dopo l'incendio del 1823 , è nota grazie a disegni e incisioni del XVII e XIX secolo. Una veduta di Luigi Rossini, eseguita subito dopo l'incendio, permette di recuperare lo schema compositivo originario della parete. L'incisione mostra lo stato della navata centrale vista dall'altare verso la controfacciata dove, seppure in lontananza, si scorgono anche i seguenti resti pittorici: tra i due ordini di finestre sagome di figure e riquadri narrativi, in basso due file parallele di clipei (Rossini 1829, 99). Nel codice vaticano Barb. lat. 4406 sono documentati tutti i dipinti della parete, senza dare però indicazioni della loro ubicazione. Vi sono raffigurati i quattro evangelisti seduti su scranni con leggii, accompagnati, in alto, dai loro simboli (ff. 129-134) [4-7] e quattro scene della Passione di Cristo: l'Agonia nell'orto dei Getzemani (f. 130), l'Andata al Calvario (f. 133 ), la Discesa dalla croce (f. 135) e una scena identificata come la Presentazione del corpo di Cristo (f. 136) [8-11]. Un disegno di Seroux d'Agincourt (BAV, Vat. lat. 9843 , f. 5 r), pur mancando delle figure dei quattro evangelisti, riporta invece gli episodi della passione tutti insieme, nella sequenza con cui dovevano apparire sulla parete. Nel disegno sono anche trascritti un monogramma clipeato e due iscrizioni [3] .
Note critiche La datazione delle pitture della controfacciata è stata sempre condizionata dalla presenza, nella scena dell'A ndata al Calvario, V 4 ~: - ,;', ,,.._~ ': • ..,
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di due figure con pallio e tiara, identificate dall'iscrizione «13 D T I HI VIII I NEO PP», inserita in un riquadro alla loro sinistra, come i potefici Benedetto VIII (1012-1024) e Bonifacio VIII (12941303; BAV, Barb. lat. 4406, f. 135; De Bruyne 1934, 138; Ladner 1941 , 175-179; Hetherington 1979, 90). Nel disegno di Seroux d'Agincourt, inoltre, è ricordato, in un monogramma iscritto in un tondo , un altro papa : Sergio IV (1009-1012; Hetherington 1979, 91). La presenza di questi pontefici attesta che le pitture della controfacciata , così come i cicli della navata, dovettero presentarsi agli occhi del copista barberiniano, e più tardi a Seroux d' Agincourt, come un testo pittorico stratificato, trasformato nei secoli da aggiunte e restauri. Hetherington, basandosi sul disegno di Seroux d'Agincourt, dove le scene della Passione sono annotate una di seguito all'altra e il clipeo con il monogramma di Sergio IV è posto immediatamente sopra di esse, ipotizza che i quattro riquadri narrativi e le figure degli evangelisti si trovassero in origine, tutti, nella parte inferiore della controfacciata, al di sotto delle finestre , tra le porte d 'entrata (Hetherington 1979, 91 , 97). Successivamente, Tronzo ha invece dimostrato che il disegno di Seroux non è una fonte attendibile per ricostruire l'ubicazione originaria della decorazione, poiché nell 'incisione di Rossini sono visibili tracce di pitture nelle otto porzioni della parete comprese tra le due file di fines tre. L'enigmatico clipeo con monogramma, disegnato da Seroux a ridosso delle scene, doveva trovarsi in realtà, essendoci le finestre, y
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nel punto più alto della parete (Tronzo 2001, 474-475 ). Seguendo l'ipotesi ricostruttiva di Tronzo, la posizione delle figure e delle scene risulta molto simile alla decorazione della controfacciata di San Pietro, e si può ipotizzare che gli evangelisti fossero disposti nel registro inferiore, cosicché le scene della passione fossero quasi perfettamente allineate al primo registro dei cicli narrativi delle due pareti della navata (ibidem, 475 ). Gli episodi della Passione di Cristo, se analizzati come un ciclo narrativo , presentano alcune discrepanze e incongruenze compositive. All'interno delle singole scene, ad esempio, è rilevabile una sensibile differenza di proporzioni tra le figure: alcune sono grandi, quasi monumentali, e occupano l'intero riquadro, come l' angelo della Presentazione del corpo di Cristo, mentre altre appaiono di dimensioni ridotte, come la figura a destra di Cristo nella Discesa dalla croce e quella dell'angelo nell'Agonia nel!' orto dei Getzemani, entrambe più piccole di Cristo, quasi compresse nel poco spazio a loro disposizione. Anche sul piano iconografico sono riscontrabili alcune incoerenze. La presenza di una figura femminile nella scena della Presentazione del corpo di Cristo non ha precedenti iconografici, ed inoltre il corpo di Cristo steso sulle ginocchia dell'angelo nel foglio 136 del codice Barberiniano non è presente nel disegno di Seroux. Nell'Andata al Calvario la disposizione della folla, sullo sfondo, mal si raccorda con la figura di Cristo e dei due personaggi in primo piano, evidente fulcro della scena. L'episodio della Discesa dalla croce presenta, poi, alcuni elementi associati, usualmente, all'iconografia della Crocifissione, quali la Vergine e san Giovanni, il sole e la luna e il personaggio
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più piccolo a destra della croce. L'unica scena coerente dal punto di vista iconografico è l'Agonia nell'orto, alla quale è stata riconosciuta un'impostazione di «sapore duccesco» (Tronzo 2001 , 468-469). Ma se le incongruenze fin qui elencate fossero lette come il risultato di non ben riuscite ridipinture a secco, seguendo la tesi avanzata di recente da Tronzo , ecco che gli episodi riacquisterebbero una loro coerenza iconografica e narrativa. Se si legge la Discesa dalla croce come una ridipintura di una Croà/issione, l'incongruenza della figurina in basso svanisce perché può essere interpretata come Stephaton o Longino, presenti in quella posizione nelle redazioni più antiche di questa iconografia. Allo stesso modo, analizzando la scena dell'Andata al Calvario ci si rende subito conto che la folla è un'aggiunta, affatto integrata, ad una scena che s'impostava sulla contrapposizione tra Cristo, da un lato, e Pilato con un suo attendente, dall'altro. L'angelo e la figura femminile a sinistra nella Presentazione del corpo di Cristo acquistano nuova luce se si considera la figura di Cristo come un'aggiunta posteriore dipinta a secco, senza la quale ci si sarebbe trovati di fronte ali' episodio delle Marie al Sepolcro (Tronzo 2001, 467 nota 24). Secondo Hetherington i copisti del XVII secolo ripresero quello che, all'epoca, si presentava come un pastiche di pitture e ridipinture eseguite in parte da Cavallini su resti più antichi, del IX e X secolo (Hetherington 1979, 98-99). Tronzo, invece, non ritiene convincente pensare che Cavallini abbia agito sulla controfacciata modificando le iconografie poiché è consapevole che gli artisti medievali rimasero sempre fedeli agli schemi iconografici e compositivi originari (Tronzo 2001 , 471;
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Romano 2002). Diversamente, le trasformazioni isolate sulla controfacciata sembrano essere state eseguite secondo un intento opposto, nel senso che esse hanno cambiato completamente il significato originale: la Crocifissione trasformata in Deposizione, le Marie al sepolcro nella Presentazione del corpo di Cristo, mentre l'Incontro tra Cristo e Pilato con l'aggiunta della folla è diventato il Trasporto della Croce. Modifiche così radicali trovano una giustificazione se collegate ad una data ormai lontana dalla reverenza medievale per gli antichi originali. Tronzo ritiene plausibile pensare ad un intervento nel XV secolo, in concomitanza con l'erezione di un ponteggio per interventi di portata maggiore del semplice aggiornamento della decorazione. Nel 1425 il cardinale Condulmer, poi papa Eugenio IV, dovette intervenire per riparare il tetto della basilica, ormai quasi del tutto distrutto, ed è facile pensare che gli aggiustamenti iconografici siano stati eseguiti in questo periodo (- 44b.1) . Alla luce di queste considerazioni, Tronzo è in grado di proporre confronti decisivi miranti a dimostrare che le ridipinture siano state eseguite su originali del V secolo. Per le scene della Passione sono illuminanti i confronti con i 'Sarcofagi della Passione' e soprattutto con il gruppo di avori del 420-430 conservati al British Museum di
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Londra (Tronzo 2001, 476); per i quattro evangelisti è evidente l'impianto arcaico secondo il quale i personaggi sono nettamente separati dai loro simboli, invece che presentati entro uno spazio unico, come avverrà nel XIII e XIV secolo. La decorazione originaria della controfacciata, pertanto, deve essere considerata parte integrante del programma decorativo ideato da papa Leone Magno per la basilica di San Paolo. La controfacciata e l'arco trionfale vengono a costituire in questo modo i due poli del percorso, che attraverso i cicli della navata, conduce dalla Passione e Sacrificio di Cristo al suo Trionfo sulla morte (ibidem, 480-487; - 44b.l ).
Documentazione visiva Disegni acquerellati (1635 circa), BAV, Barb. lat. 4406, ff. 129134; Jean Baptiste Seroux d 'Agincourt, disegni a penna (1780 circa) , BAV, Vat. lat. 9843, f. 5r; Rossini 1829, tav. 99.
Bibliografia Rossini 1829; De Bruyne 1934a; Ladner 1941 ; Hetherington 1979; Tronzo 2001, 457-487; Romano 2002, 615-630.
Manuela Viscontini
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44b. I DIPINTI DELLA NAVATA 1. IL CICLO VETERO TESTAMENTARIO DELLA PARETE SUD E LE STORIE APOSTOLICHE DELLA PARETE NORD Papa Leone Magno (440-461)
Fino all'incendio del 1823 e alle definitive demolizioni volute da papa Leone XII (1823-1829), la navata centrale della basilica di San Paolo fuori le mura ospitò un esteso ciclo dipinto. Numerose testimonianze, grafiche e pittoriche, realizzate prima della distruzione della basilica, consentono di fornire una descrizione del ciclo almeno per quanto attiene ai soggetti e alla sequenza narrativa che lo costituivano. Lungo la parete sud si svolgevano storie dell'Antico Testamento, sulla sinistra episodi della Vita di san Paolo. Il ciclo era costituito complessivamente da ottantaquattro scene, quarantadue per parte, disposte su due registri. L'ordine di lettura di ciascun registro partiva dall'arco trionfale e terminava verso l'entrata (Hetherington 1979, 86). I disegni a penna ed acquerello, realizzati nel 1635 da Antonio Eclissi per il cardinale Francesco Barberini e oggi conservati nel codice vaticano Barb. lat. 4406 (ff. 23-128), costituiscono l'unico documento che illustra la serie completa degli episodi. Grazie ad essi è possibile ricostruire la successione delle scene lungo le due pareti. Documenti grafici successivi, come il parziale disegno di Seroux d'Agincourt (BAV, Vat. lat. 9843, f. 4r) o la sezione prospettica della parete sinistra di Alippi (Nicolai 1815, tav. II) sono comunque da tenere in considerazione, soprattutto per le differenze iconografiche con cui alcune scene sono registrate rispetto ai disegni del XVII secolo. Seguendo le indicazioni del Barb. lat. 4406, il ciclo veterotestamentario iniziava, nel registro superiore, con otto episodi del Genesi, tre delle storie di Caino e Abele, tre di Noè, sei di Abramo, tre dei quali già perduti nel 163 5. Il registro inferiore si apriva con nove episodi delle storie di Giuseppe, dodici di Mosè, uno dei quali era già perduto al tempo dei disegni barberiniani. Si dà di seguito, sulla base del codice vaticano Barb . lat. 4406, l'elenco delle scene divise per parete e registri. Parete sud - registro superiore Separazione della luce dalle tenebre (Gen 1, 14-15; f. 23) Creazione di Adamo (Gen 1, 27; f. 24) Creazione di Eva (Gen 2, 21-22; f. 25) Peccato originale (Gen 3, 6-7; f. 26) Adamo ed Eva rimproverati da Dio (Gen 3 , 8-13; f. 27) Dio maledice il serpente (Gen 3, 14-19; f. 28)
I.: angelo scaccia Adamo ed Eva dal paradiso con una spada fiammeggiante (Gen 3, 24; f. 29) Adamo impegnato in attività agricole, Eva allatta i bambini (Gen 3, 24 -4, 1; f. 30) Sacrificio di Caino e Abele (Gen 4 , 3-4; f. 31) Uccisione di Abele e la maledizione di Caino (Gen 4 , 8-15; f. 32) Dio annuncia il diluvio e ordina a Noè di costruire un'arca (Gen 6, 13-21 ; f. 33) Noè costruisce l'arca con l'aiuto deifigli (Gen 6, 22; f. 34) La colomba torna con un ramoscello di olivo, la famiglia di Noè lascia l'arca (Gen 8, 8-18; f. 35 ) Abramo si prostra davanti agli angeli a Mamre (Gen 18, 2-5; f. 36) perduto perduto perduto
Abramo con Isacco, un asino e i servi in cammino per Moria (Gen 22, 3; f. 37) Sacrificio di Isacco (Gen. 22, 10-12; f. 38) Isacco sdraiato nel letto benedice Giacobbe che, travestito con le vesti di Esaù, gli porta il cibo (Gen 27, 16-29; f. 39) Sogno di Giacobbe e Giacobbe si sveglia, unge la pietra e chiama quel luogo Bete! (Gen 28, 12-18; f. 40) Parete sud - registro inferiore
Sogni di Giuseppe (Gen 37, 5; f. 41) Giuseppe racconta i suoi sogni - i due sogni insieme (Gen 3 7, 9-11;
f. 42) Giacobbe manda Giuseppe dai fratellz; che custodivano il gregge del padre a Sichem (Gen 37, 17; f. 43) Giuseppe viene gettato in un pozzo (Gen 37, 24; f. 44) Giuseppe viene venduto per venti pezzi di argento (Gen 37, 28; f. 45) Giuseppe e la moglie di Puti/arre (Gen 39, 7-12; f. 46) Giuseppe in prigione (Gen 39, 20/ 40, 4; f. 47) Sogni del Faraone (Gen 41 , 1-7; f. 48) Giuseppe interpreta i sogni del Faraone (Gen. 41, 14-36; f. 49) Roveto ardente (Es. 3 , 2-10; f. 50) Miracolo del bastone trasformato in serpente (Es 4, 1-3; f. 51) Aronne incontra Mosè e lo bacia (Es 4, 27; f. 52) Miracolo dei serpenti difronte al Faraone (Es 7, 10-12; f. 53)
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Piaga dei primogeniti (Es 12 , 29; f. 54) perduto Piaga dell'acqua mutata in sangue (Es 7, 20; f. 55 ) Piaga delle zanzare (Es 8, 24 ; f. 56) La pi1ga della peste uccide il bestiame (Es 8, 6/ 9, 23-25 ; f. 57 ) La piaga della grandine uccide gli uomini (Es 9, 23-25 ; f. 58) Piaga delle cavallette (Es 10, 13-14; f. 59) Piaga dei primogeniti (Es 12, 29; f. 60) Il ciclo agiografico della parete sinistra raccontava episodi tratti dagli Atti degli Apostoli con particolare riguardo per la storia di san Paolo. Il racconto iniziava nel registro superiore con nove scene che, seguendo l'ordine cronologico, illustravano le vicende di Stefano e di Saulo che da persecutore dei cristiani si converte sulla via di Damasco e viene battezzato da Anania. Il ciclo
proseguiva raccontando i viaggi, la predicazione e i miracoli di Paolo senza seguire l'ordine cronologico degli Atti degli Apostoli. L'iconografia di alcune scene rimane tutt'oggi di difficile interpretazione. L'elenco che qui si propone si basa sulla redazione, comunemente accettata dagli studiosi, proposta da Waetzoldt sulla base del codice vaticano Barb . lat. 4406 (Waetzoldt 1964, 58-61 ). Parete nord - registro superiore Scelta dei sette diaconi (At 6, 1-6; f. 87 ) Stefano di fronte al Sinedrio (At 6, 12-13; f. 88) Lapidazione di Stefano (At 7, 58-60; f. 89) Saulo perseguita i cristiani (At 8, 3; f. 90) Conversione di Saulo (At 9, 4-8; f. 91) Visione di Anania e Anania guarisce Saulo (?) (At 9, 10-17; f. 92 )
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Battesimo di Paolo(?) (At 9, 18; f. 93) Paolo predica nella Sinagoga (At 9, 20) ? (f. 94 ) Fuga di Paolo da Damasco (At 9, 25; f. 95) Sogno di Paolo a Triade (At 16, 9; f. 96) Viaggio in Macedonia (At 16, 11-12 ; f. 97 ) Paolo resuscita Eutichio (At 20, 10 e 12; f. 98) Paolo e Sila bastonati (At 16, 22 ; f. 99) Profezia diAgabo (At 21 , 11; f. 100) Paolo a Gerusalemme (At 21 , 17 ; f. 101 ) Paolo bastonato (At 22 , 25; f. 102) Paolo cittadino romano (At 22, 28-29; f. 103 ) Vz'aggio di Paolo a Cesarea (At 23 , 23-32 ; f. 104) Viaggio in mare (At 27 , 2-13 ; f. 105 ) Guarigione di Publio(?) (At 28, 8; f. 106) Predica di Paolo(?) (At 28, 23 ; f. 107 ) Parete nord - registro inferiore Divisione della popolazione di !conio(?) (At 14, 4; f. 108) Lapidazione di Paolo a Listra (At 14, 19; f. 109) Concilio degli Apostoli a Gerusalemme (At 15, 6; f. 11 O) Chiamata di Timoteo(?) e figura votiva (At 16, 1-3; f. 111 ) Predica di Paolo (?) e figura votiva (?) (f. 112 ) Chiamata di Saulo e Barnaba ad Antiochia (At 13 , 1-2; f. 113 ) Accecamento di Elimas (At 13, 9-11; f. 114) Guarigione del paralitico di Listra (Att 14, 8-10; f. 115 ) Fuga di Paolo e Barnaba a Listra (At 14, 6; f. 116) Gli apostoli con Lidia a Filippi (At 16, 14; f. 117 ) Paolo, Barnaba e il carceriere (At 16, 27-28; f. 118) Battesimo del carceriere e della sua famiglia (At 16, 33; f. 119) Paolo ad Atene con l'altare al dio ignoto (At 17, 22 ; f. 120) Predica di Paolo e figura votiva(?) (At 21, 27-40; f. 121 ) Paolo difronte ad Agrippa (At 25 , 23 -26,1-9; f. 122 ) Il Signore appare a Paolo (At 23 , 11 ; f. 123 ) Il tribuno chiama due centurioni (At 23 , 23 ; f. 124) Paolo davanti a Felice (At 23 , 33 ; f. 125 ) Naufragio a Malta (At 27 , 41; f. 126) Paolo morso da una serpe (Atti 28, 3; f. 127 ) Incontro di Pietro e Paolo (Apocrifo; f. 128)
Iscrizioni Si d à qui di seguito la trascrizione dal codice vaticano Barb. lat. 4406 delle iscrizioni didascaliche, attualmente disperse, che corredavano i singoli riquadri. 1-2 - Paolo cittadino romano, f. 103
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In basso indicazione a matita : + Hic vbi ; al centro: ivdeis gvingvies gvadragen (cit. da II Co r 11 , 24: «A Iudaeis quinquies quadraginta una minus accepi»). 3-4 - Chiamata di Timoteo(?) e figura votiva(?), f. 111 Lungo il margine destro a penna a lettere capitali : ( com )pieta est pars ec/esie ; all'interno del disegno : Ursvs sacer (dos) _cr monach v(s ) 5 - Iscrizione didascalica. Dispersa. Predica di Paolo (?) e figura votiva (?), f. 112 (Tempo )ribus dom(ni) loh(ann )is sextus abbas, a margine, di mano del copista , sta scritto «rived ere meglio: ma è un monaco in ginocchioni». 6-7 - Iscrizioni didascaliche. Disperse. Predica di Paolo e figura votiva (?), f. 121 Vicino alla figura : I(o)h(anne)s levita ; titulus: Ubi Paulus stans super scalam predicabat... popu/um
8 - Iscrizione didascalica. Dispersa. Paolo difronte ad Agrippa,
f. 122 titulus: Ubi Paulus presentatus ad Agruppam ... p_ ... m 9 - Iscrizione didascalica . Dispersa . Il Signore appare a Paolo,
f. 123 titulus: Ubi Deus dex.. .Pau(lum) 10 - Iscrizione didascalica. Dispersa. Il tribuno chiama due centurioni, f. 124 titulus : Ubi tribunus iussit centurionibus ut ducerent Paulum ad Felicem 11 - Iscrizione didascalica. Dispersa. Paolo davanti a Felice, f. 125 titulus : Ubi Paulus presentatus ad Felicem presidem
Note critiche La realizzazione dell 'impianto originario dei cicli vetero e neotestamentario della navata centrale della basilica ostiense viene concordemente attribuita al pontificato di Leone Magno che riparò la chiesa dopo che i fulmini ne avevano danneggiato le strutture, causando dei crolli (LP I, 239 ). Sin dalla fine dell'Ottocento, con la scoperta dei disegni della raccolta Barberini ad opera di Eugene Miintz (Miintz 1898) , si accese un vivace dibattito intorno all 'iconografia originale dei cicli
e alla natura e al numero dei restauri che i dipinti dovettero subire nel corso dei secoli. Le molte tesi proposte partivano tutte da congetture relative al modo in cui Antonio Eclissi avesse percepito e copiato le scene, che nel Seicento dovevano presentarsi come un palinsesto pittorico dove ai brani superstiti del tempo di Leone Magno erano sovrapposte superfetazioni frutto di restauri e aggiornamenti succedutisi nei secoli, tra cui quelli attestati al tempo di Adriano I (772-795; LP I, 504 , 506, 510-512) e di Niccolò III (1277-1280; Ptolemeus Lucensis, Historia ecclesiastica usque ad annum 1312 , in Muratori 1723-1751 , XI, 28, col. 1180) . Josef Garber, nel 1918, espresse perplessità sull'ipotesi che nel V secolo la parete settentrionale della basilica ostiense fosse decorata con un ciclo della vita di san Paolo, dal momento che un simile onore non era stato, probabilmente, concesso neanche a san Pietro nella sua basilica. Egli suppose quindi, seguito da altri, che il ciclo originale fosse dedicato alla vita di Cristo e che soltanto nel XIII secolo fosse stato soppiantato da quello paolino (Garber 1918, 27-28; Dinkler-Von Schubert 1967). Di opinione completamente diversa si è mostrato invece un nutrito gruppo di studiosi che, in accordo con la tesi di Miintz, ha riconosciuto negli acquerelli seicenteschi la presenza dell'iconografia originaria del V secolo e tracce, forse , dei restauri dell'VIII secolo, ritenendo l'intervento duecentesco un aggiornamento stilistico e non iconografico o tematico (White 1956; Waetzoldt 1964, 58 ; Buchtal 1966; Hetherington 1979; Eleen 1982 ). Il dibattito sulla natura degli interventi duecenteschi è ancora oggi aperto e vivace. Alcuni li attribuiscono a Cavallini per via della frase scritta da Lorenzo Ghiberti « ... dentro nella chiesa tutte le parieti delle naue di mezo
erano dipinte storie del testamento uecchio. Era dipinto el capitolo tutto di sua mano egregiamente fatte» (Ghiberti ed. Von Schlosser 1912, I, 39), mentre di recente Serena Romano li avrebbe riconosciuti come appartenenti «all'altra corrente della cultura romana, quella di versante pre-torritiano e torritiano» (Romano 2002, 627) . Nelle ricerche degli ultimi dieci anni (Pace 1991; Tornei 2000; Romano 2002; Kessler 2004; Pop per 2004) l'attenzione si è spostata sulle figure votive dell'abate Giovanni VI e del monaco Ursus, inserite nelle due scene contigue della parete nord, identificate come la Chiamata di Timoteo e la Predica di Paolo (BAV, Barb. lat. 4406, ff. 111-112). Il primo è citato nel titulus che il copista ha riportato sotto ai due pannelli, dal quale di evince che proprio in quel punto terminava l'area ridipinta al tempo del detto abate: [com]pleta est pars ecclesie (f. 111) I [tempo]ribus dom[ni] ioh[ann]is sextus abbas (f. 112). Mentre il monaco e sacerdote Ursus è rappresentato in ginocchio ai piedi di Paolo nel foglio 111 e citato da un 'inscrizione inserita all'interno della scena: Ursus sacerdos et monacus [12, 13]. La maggior parte degli specialisti ha accolto l'identificazione di Giovanni con il monaco di Montecassino menzionato da Nicolai, che fu abate nel 1278-1279, e di Ursus con Giovanni Gaetano Orsini, ovvero papa Niccolò III (1277-1280), o con un altro membro della famiglia Orsini. Questa identificazione andrebbe ad estendere l'intervento di Cavallini anche alle storie di san Paolo, intervento non citato da Ghiberti (White 1956, 85; Tornei 2000; Romano 2002, 615-617). Da questa ipotesi ha preso avvio una serie di studi che hanno tentato di individuare la mano di Cavallini, o di un altro
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esponente della scuola romana di fine Duecento, nelle strutture figurative degli acquerelli barberiniani, senza affrontare la questione delle evidenti differenze iconografiche che scaturiscono dal confronto degli acquerelli con i disegni di Seroux d' Agincourt e col prospetto della basilica di Alippi, o liquidandole come trascurabili inesattezze dei disegnatori. Ma una recente rilettura da parte di Tronzo dello studio dello storico Trifone, degli inizi del XX secolo, sulla cronologia degli abati del monastero di San Paolo (Trifone 1909, 101-113 ), ha riaperto il dibattito sui rifacimenti delle scene, aprendo la strada a nuove interpretazioni circa le incongruenze iconografiche presenti
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nelle diverse fonti visive (Tronzo 2001 ; Kessler 2004; Popper 2004). Nella cronologia di Trifone, Giovanni VI è identificato con Giovanni da Tor Sanguigna, cognato di Paolo Francesco Orsini, che resse il monastero dal 1406 al 1433 , mentre il Giovanni che fu abate tra il 1278 e il 1279, fu il quarto con quel nome e non il sesto. Negli anni della reggenza a San Paolo di Giovanni VI, Martino V concesse al cardinale Gabriele Condulmer piena facoltà di riformare l'abbazia sia dal punto di vista spirituale che temporale, con una bolla del 28 luglio del 1425 (Bull. Cassin. II, 295 ). Condulmer commissionò grandi lavori di restauro nel complesso ostiense, a-partire dal tetto della basilica che cadeva in rovina, e continuò la sua opera anche quando divenne papa con il nome di Eugenio IV (CBCR 1980, V, 101 ). Tronzo, Kessler e Popper hanno ipotizzato che la costruzione di un vasto ponteggio per la rip arazione del tetto sia stata anche l'occasione per porre mano alle scene delle pareti della navata. William Tronzo, nel suo saggio sulla decorazione della controfacciata (--+ 44a), ipotizza che le ridi pinture delle scene siano state date a secco, aggiornando e, in qualche caso modificando, le iconografie preesistenti (Tronzo 2001 , 472 ). L'impiego di ridipinture a secco su affreschi preesistenti è una pratica rara di cui però si conoscono almeno altri due episodi in ambito romano. I dipinti dell'abbazia di Grottaferrata (1270-1280 circa) aggiornati, vent'anni dopo, alla fine del Duecento (Matthiae 1970; Andaloro 1983 ; Pace 1987) e gli affreschi medievali del Sancta Sanctorum (1277-1280), ridipinti a secco, agli inizi del Cinquecento, per volere di papa Leone X (1513-1521; Romano 1995; Zanardi 1995). In entrambi i casi, l'aggiornamento fu sostanzialmente formale e si concentrò sulla resa degli sfondi architettonici e della foggia delle vesti, lasciando l'iconografia immutata. A San Paolo invece, nel Quattrocento, avvenne qualcosa di diverso: oltre ad un aggiornamento stilistico, si intervenne anche sul piano iconografico. La presenza di ridipinture a secco e la loro caduta nel corso dei secoli, a causa dell'intrinseca fragilità del medium pittorico, spiegherebbero, secondo Tronzo, le discrepan ze iconografiche riscontrabili tra gli acquerelli barberiniani, i disegni di Seroux d'Agincourt e Alippi. Lo studioso sostiene che queste ridipinture fossero ancora leggibili all'epoca della realizzazione degli acquerelli, mentre fossero scomparse, perché cadute, nel XIX secolo (Tronzo 2001, 472 ). Successivamente, Kessler ha dimostrato che alcuni particolari iconografici presenti nei fondali architettonici, impensabili sia al tempo di Leone Magno che a quello di Cavallini, siano del XV secolo poiché presentano notevoli affinità con gli affreschi dell'Annunziata di Cori, considerati una delle copie più fedeli dei cicli veteotestamentari di San Pietro e San Paolo. Il committente degli affreschi di Cori fu Giovanni Cervantes, ordinato cardinale proprio da Martino V nel 1426 (Kessler 2004 , 30). Soprattutto alla luce di queste recenti interpretazioni, le tracce dell'originario intervento leoniano nei cicli della basilica ostiense devono essere, pertanto, rintracciate indagando una stratigrafia complessa di interventi nella quale si sommano e, forse spesso si fondono , quelli del XIII e quelli del XV secolo. Se si dispongono gli acquerelli barberiniani secondo la sequenza con cui i dipinti si avvicendavano lungo la parete meridionale si nota un'ampia lacuna situata a tre quarti della parete, causata dalla perdita di quattro riquadri, già scomparsi al tempo dei disegni, tre sul registro superiore ed uno nell'inferiore [17]. Gli episodi dell'Antico Testamento che precedono la cesura si presentano come dei veri e propri palinsesti dove sull'impianto di V secolo convivono gli aggiornamenti medievali e le aggiunte rinascimentali. Negli episodi del Genesi sono state aggiornate le posture di alcuni personaggi o le strutture architettoniche ma rimangono intatte le
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formule iconografiche come il Cristo-Logos seduto sul globo, il cherubino a guardia della porta del Paradiso, l'arca rappresentata come una cassetta con il coperchio [18, 19, 21]. Elementi duecenteschi si trovano , invece, negli episodi della Costruzione dell'arca e nell'Uccisione dei primogeniti, dove il CristoLogos è stato mutato in Dio padre con l'aggiunta della barba. Altre incongruenze iconografiche possono, invece, essere spiegate con l'intervento rinascimentale . È il caso delle architetture prospettiche e tripartite nella scena di Giuseppe che fugge dalla moglie di Putz/ar, di quelle nel Miracolo delle serpi, simili, nella resa, alla porta del Paradiso nell'episodio della Cacciata dipinta nell 'Annunziata di Cori. Analogo alle soluzioni presenti a Cori è anche il modo di rendere le sbarre della prigione di Giuseppe [22] , la posizione supina e adagiata di Adamo nella Creazione di Eva [18] , la postura ritorta di Adamo nel Rimprovero di Dio, l'angelo in volo che caccia i progenitori dal Paradiso Terrestre, la presenza di Dio nel Sacrificio di Caino e Abele e la sua aureola triangolare [20] non documentata prima del Quattrocento (Kessler 2004 , 30-31 ). I dieci pannelli che seguono la lacuna denunciano, invece, stile e modalità compositive del V secolo evidenti nelle impostazioni spaziali a volo d 'uccello , nelle architetture più semplificate, nei panneggi più rigidi, elementi questi che si ritrovano anche nelle coeve scene del ciclo veterotestamentario della navata centrale di San Pietro (--+ 45 ). Un'altra incongruenza rilevabile tra i due gruppi di scene della parete meridionale di San Paolo, situate prima e dopo la cesurfl, è che entrambi si chiudono con la medesima scena, l'Uccisione dei Primogeniti (BAV, Barb. lat. 4406, ff. 54 e 60). Ne consegue che l'aggiornamento
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iconografico del XV secolo modificò anche la sequenza narrativa, eliminando alcune scene dedicate a Mosè a favore di altri episodi biblici che però non furono mai inseriti, per una improvvisa interruzione dei lavori, causata forse dal repentino abbandono di Roma, nel 1434, di papa Eugenio IV sfuggito alla rivolta dei cittadini romani contro l'autorità papale (Hay 2000, 634-640) . Ancora più complessa è la situazione della parete nord con le storie di san Paolo dove la lettura sinottica degli acquerelli barberiniani, dei disegni di Seroux e della sezione di Alippi mette in luce la presenza di numerose inserzioni rinascimentali [14, 15, 16]. Anche per questa parete la caduta delle ridipinture a secco del quattrocento spiegherebbe la serie di incongruenze rilevate in molte scene. Il foglio 108 del Barb. lat. 4406 ambienta l'episodio del Conalio degli apostoli a Gerusalemme all'interno di una città merlata che circonda completamente i personaggi facendoli sporgere dalla vita in su, mentre nei disegni di Seroux e di Alippi il tratto anteriore della cinta muraria è scomparso e si vedono gli apostoli a figura intera [23, 24]. Il terz'ultimo episodio del secondo registro nel foglio 126 è illustrato da una nave che imbarca acqua con quattro uomini al suo interno che emergono dalla cintola in su, e per questi elementi la scena è sempre stata interpretata come il naufragio di Paolo a Malta, ma nella serie di Alippi la barca non c'è e gli uomini sono rappresentati in piedi davanti a quinte architettoniche[25 , 26]. Anche l'altro episodio di navigazione, quello immediatamente al di sopra (f. 105), mostra delle differenze di impostazione rispetto al disegno di Alippi nel quale il gruppo centrale di figure è scomparso, non ci sono le vele, si vedono solo tre uomini, di cui solo quello a sinistra è aureolato, e tre remi sporgono dalla nave [27 , 28]. La figura nuda che riceve
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il battesimo al centro dell'episodio riprodotto nel foglio 119, in Alippi è scomparsa del tutto. In altri due episodi, prossimi tra loro, Stefano dinanzi al Sinedrio (f. 86) e Saulo che perseguita i cristiani (f. 88), compaiono due personaggi non riprodotti nel disegno di Seroux, la cui presenza, d 'altro canto, è accessoria alle scene [14 , 15 , 16]. Ci sono poi due casi in cui l'iconografia riprodotta nei fogli barberiniani non coincide in nessun modo con la documentazione di Alippi: nel foglio 98 dove Paolo resuscita Eutichio, l'apostolo è rappresentato due volte, la prima mentre si getta sul corpo del fanciullo e la seconda mentre lo mostra vivo alla folla. In Alippi non c'è traccia di tutto ciò ma solo quattro figure stanti tra cui la seconda da destra ha il braccio alzato in segno di allocuzione. Nel foglio 123 dove Dio appare in sogno a Paolo, quest'ultimo è steso su un giaciglio, mentre in Alippi la scena presenta una figura aureolata a sinistra, che si staglia sullo sfondo di un muro di mattoni, rivolta verso altre tre figure stanti davanti ad una architettura timpanata. Le otto scene che aprono il ciclo di san Paolo sono le uniche a mantenere una stretta aderenza al testo degli Atti, sia per la completezza della narrazione che per la sequenza cronologica del racconto. Esse mostrano, inoltre, caratteri compositivi e iconografici coerenti che non si riscontrano, invece, negli altri episodi, come, ad esempio, l'articolata organizzazione interna di ciascuna scena che consente l'apparizione reiterata di uno stesso personaggio. Si tratta della cosiddetta «sequenza damascena», descritta da Prudenzio nel suo Dittochaeum (Prudenzio ed. Thomson 1953 , II, 368-369), ma attestata, successivamente, nell'ambito della produzione miniata macedone. I modi medio-bizantini con cui sono costruiti questi primi otto episodi e l'impostazione degli sfondi architettonici hanno fatto pensare ad un intervento di Cavallini (White 1956; Eleen 1985 ), mentre è assai probabile che si tratti dell'iconografia originaria del ciclo, eventualmente aggiornata nei secoli successivi. Altre tracce dell'originaria iconografia di V secolo possono essere rintracciate nelle scene di battesimo, che si rifanno ancora al tipo dell'immersione nell'acqua, mentre nel Medio Evo si era soliti rappresentare il rito entro un fonte battesimale, nell'impianto ad esedra di alcune scene molto affollate come la Predica di Paolo a Gerusalemme, o ancora negli sfondi architettonici a colonne e loggiati presenti nella Chiamata dei sette diaconi e nella Predica di Paolo in Asza.
Documentazione visiva ante 1823 Antonio Eclissi, acquerelli (1635 ca.), BAV, Barb. lat. 4406 (ff. 23-
128); Piranesi 1749, tav. 9 (veduta dell'interno verso il transetto); Jean Baptiste Seroux d 'Agincourt, disegno (1777-1781 ), BAV, Vat. lat. 9843 f. 4r; Giovanni Paolo P anini, J;interno di San Paolo f uori le mura, olio su tela (1743 ), Cardiff, collezione privata; Giovanni Paolo Pannini, J;interno di San Paolo f uori le mura, olio su tela (1750 circa), Mosca, Museo Puskin; Giovanni Paolo Pannini (?), L'in terno di San Paolo fu ori le mura, olio su tela (1750 circa), Vienna, già Collezione Lanékoronski; Anonimo , Veduta dalla
navatella interna nord, attraverso la nave centrale, nel transetto, disegno a penna (1810 ca.), Roma, BIASA, Racc. Lane. , Roma XI.47.III , n . 3192 9; Andrea Alippi, Sezione longitudinale della navata centrale della basilica di San Paolo fu ori le mura, in Nicolai 1815, tav. II; Rossini 1843 , tav. 2 (veduta dal transetto verso la navata centrale del 1818). post 1823 Antonio Acquaroni, Rovine dell'interno di San Paolo f uori le mura, veduta della navata centrale e del transetto nord, acquarello (luglio 1823 ), Copenhagen, Thorvaldsen Museum; Uggeri 1823 , tav. 3 (alzato della navata centrale, muro sud e proposta di ricostruzione); Silvestri [1825] ; Luigi Rossini, Veduta est lungo la nave centrale crollata della basilica di San Paolo f uori le mura, acquarello ( 1823 ), New York, Pierpont Morgan Library; Rossini 1823, tav. 99 (veduta dal transetto verso la nave centrale in rovina), tav. 100 (veduta verso est lungo la nave centrale crollata), tav. 101 (veduta delle rovine delle cinque navate).
Fonti e descrizioni Panvinio 1570a, 67; Pompeo Ugonio (1580 ca. ), BAV, Barb. lat. 1994, c. 576v (300v); Ugonio 1588, cc. 227-238v; Marangoni 1749, 232-234; Nicolai 1815, 303-305; Uggeri 1823 ; Commissione speciale 1827 ; Dubbi 1831.
Bibliografia Miintz 1898, 1-19; Trifone 1909, 101-113 , 247-264; Garber 1918; White 1956, 84-95 ; Waetzoldt 1964 ; Buchthal 1966 , 43-48 ; Dinkler-Von Schubert 1967, 79-92; Matthiae 1970; Hetherington 1979; Eleen 1982 ; Andaloro 1983, 253-287 ; Eleen 1985 , 251259 ; Pace 1987 , 47-87 ; Pace 1991 , 181 -189; Romano 1992 ; Romano 1995 , 38-125 ; Zanardi 1995 , 230-247 ; Tornei 2000 ; Tronzo 2001 , 457-487 ; Romano 2002 , 615 -630; Kessler 2004 , 934; Popper 2004 , 35-48
Manuela Viscontini
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44b. I DIPINTI DELLA NAVATA 2. L A SERIE DEI RITRATTI PAPALI Papa Leone Magno (440-461 )
L'antica serie dei ritratti papali, iniziata da Leone Magno (440461), si estendeva, prima dell'incendio del 1823 , nella navata centrale della basilica, sulle pareti meridionale, settentrionale e, probabilmente, anche sulla controfacciata. I ritratti erano disposti a due a due nel registro che correva sopra gli intercolumni degli archi e sotto ai riquadri dei cicli vetero e neo testamentari, in modo che ad ogni scena corrispondesse una coppia di effigi. Ogni vescovo era racchiuso all'interno di un clipeo a triplice cornice (ocra- rossaverde) su un fondo azzurro-grigio, rappresentato in posa frontale o leggermente di tre quarti, a mezzo busto. Un'iscrizione, a destra del primo medaglione e a sinistra del secondo, denunciava il nome e la durata del pontificato. Scamparono all 'incendio solo quaranta ritratti della parete meridionale, che furono staccati tra il 1825 e il 1826 dal pittore Pellegrino Succi e posti su lastre di peperino. Dal 1859 sono esposti sulle pareti dell'ambulacro al primo piano del monastero di San Paolo. Succi non staccò però le iscrizioni pictae che accompagnavano i ritratti, ma si limitò a segnare, sul margine di ogni busto un numero d'ordine, numeri scomparsi quando Giovanni Battista de Rossi, incaricato nel 1859 insieme al cav. Moreschi, intervenne per sistemarli nel monastero (de Rossi 1870b, 122-124). Le due effigi che andarono perdute durante lo stacco di Succi furono identificate come Dionisio la prima e la seconda, per de Rossi, come Eleuterio, secondo De Bruyne, invece, come Anastasio (De Bruyne 1934a, 228-232 ). Sulla parete meridionale erano dislocati quarantadue ritratti clipeati che andavano da Pietro (t 64/ 67 ) a Innocenzo I (401-417 ); la serie continuava sulla parete settentrionale e, come vedremo, molto probabilmente anche su quella occidentale. Della serie della parete nord conosciamo oggi solo le copie ad acquerello di trentasette effigi tramandateci dal codice Barb. lat. 4407 , dove sono raccolti i ritratti di settantotto pontefici, da Lino (67-76) a Vitaliano (657672 ), gli ultimi cinque ritratti della serie erano a quell'epoca già irrimediabilmente perduti. Nel XIII secolo, sotto il pontificato di Niccolò III (1277-1280), fu aggiunta una seconda serie di ritratti, che ripeteva quella superiore da Pietro a Bonifacio I (418-422 ), sopra i capitelli delle colonne (Ptolemeus Lucensis, Historia ecclesiastica usque ad annum 131 2, in Muratori 1723 -1751 , XI, 28, col. 1180). La serie antica fu implementata solo nel XVIII secolo, per volere di papa Benedetto XIV (1740-1758), che nel transetto della basilica fece aggiungere le effigi dei pontefici fino alla sua (Marangoni 1749, 232 -233 ), e continuata, a varie riprese, fino al pontificato di Pio VII (1800-1823 ), il quale fece inserire il proprio ritratto sulla parete meridionale, al posto di uno dei clipei, quasi scomparsi, di Niccolò III, inaugurando una nuova serie (Francesco Cancellieri, BAV, Vat. lat. 9672, f. 47 ; Nicolai 1815, 30).
2 - Lino (67-76): Linus I sed /ann I XI I M I I2 XII (f.l : ann I M(enses) I III/ XD_
Iscrizioni
3 - Cleto (76-88), f. 2: assente nel codice
Iscrizioni esegetiche in campo aperto, ai lati dei ritratti papali, tràdite da copia presumibilmente esito dei restauri effettuati sugli originali. Si dà qui di seguito la trascrizione, con il solo scioglimento delle abbreviazioni laddove segnalate, dal codice Barb. lat. 4407 (1634 ca. ) con eccezione dei numeri 1 assente nel codice, e 2 che reca variante di lettura rispetto al testo ancora visibile sull'affresco.
1 - Pietro (t 67 ): Petrus I sed I ann I XXV I MIII I I2 VII
4 - Clemente (88-97) , f. 3: ann NIIII I M(enses) II I D(ies) X 5 - Anacleto, f. 4: ann /XII I M(enses) X I D(ies) V
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19 -Ponziano (230-235 ), f. 19: I nus I se I di I 1 I M(enses) I D(ies)
6 - Evaristo (97 -105), f. 5: ann I X M(enses) I VI I D(ies)
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7 -Alessandro (105-115), f. 6: D(ies) VIII
20 - Antero (235-236), f. 18: he I ro I sed(it) I ann(i) I XIII I M(enses) l D(ies) I X
8 - Sisto I (115-125), f. 7: ann I M(enses) I III D(ies) I XXI
21 - Fabiano (236-250), f. 20: Fabia I nus I sed(it) I ann(i) I XIII I M(enses) I D(ies) I X
9 - Telesforo (125-136), f. 8: III! I XI M(enses) I III D(ies) I XXII
22 -Cornelio (251-253 ), f. 21: Cor I lius I sed(it) an I ni III I D(ies) X
10 -Igino (136-140), f. 9: !III I M(enses) I III I D(ies) VIII
t Lu I us se I d(it) an I !1{j)_ III I M(enses) III I D(ies) III
11 - Pio (140-155), f. 10: M(enses) I D(ies)L
24 - Stefano (254-257 ), f. 23: h I nus I sed(it) I ann(i) III I M(enses) Il D(ies) I XV
12 -Aniceto (155-166), f. 11: !III I D(ies) XXI
25 - Sisto II (257-258), f. 24: tus I sed(it) I ann(i) I Il M(enses) I X I D(ies) I VI
13 -Sotero (166-175), f. 12: assente nel codice
t
14-Eleuterio(175-189) , f.13: leth er i Il N ; y_
27 - Felice (269-274), f. 26: K I an I M(enses)
15 - Vittore (189-199), f. 14: tor I sedi I anno I M(enses) II I D(ies) X
t Euti I chi I anus I sedit I ann(i) I VIII I X D(ies) III
23 -Lucio (253-254), f. 22:
26 - Dionisio (259-268), f. 25: Dian I sius I sed(it) I ann(i) Il I M(enses) III I D(ies) VII
28 -Eutichiano (275-283), f. 27:
A Il I sed(it) I anno I XVII I M(enses) Il I D(ies) X
29 - Caio (283-296), f. 28: Caius I sed(it) I an I !1{j)_ XI I M(enses) III I D(ies) VIII!
17 -Callisto (217-222), f. 16: t Ca I tus I sedit I ann I _1:' I Il D(ies) I X
30 - Marcellino (296-304), f. 29: Marce I linus I sed(it) an I ni VIII I M(enses) Il D(ies) XXV
18- Urbano (222-230), f. 17: nus I sed(it) I ann I VIII I M(enses) I I D(ies) XI
t Mar I cel I lus I se I d(it) ~
16 - Zefirino (199-217), f. 15:
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31-Marcello (308-309), f. 30: I nni /III I Y M(enses) I VII D(ies) XXI
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32 - Eusebio (309-310) , f. 31 : t Euseb I ius I se I d(it) ann(i) I Il M(enses) I I D(ies) X I V
42 - Innocenzo I (401-417), f. 41 ,: t Inocen I cius sed(it) I ann XV I M(enses) Il D(ies) XX
33 - Milziade (311 -314 ), f. 32: t Melti I ades I sed(it) I ann(i) I III I M(enses) I VII I D(ies) I VI I L
43 - Zosimo (417-418) , f. 42: assente nel codice
34 - Silvestro (314 -335), f. 33: t Silves I ter I sed(it)I ann(i) XXIII I M(enses) I X I D(ies) I XX I
44 - Bonifacio (418-422) , f. 43: assente nel codice
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35 - Marco (336), f. 34: Marcus I sed(it) I an I ni Il I M(enses) VIII I D(ies) XX I I 36 - Giulio (337-352), f. 35: Iulius se /d(it) anni I XI M(enses) Il I D(ies) I V I 37 - Liberio (352 -366), f. 36: t Libe I rius se I d(it) I an I ni I X M(enses) I [VlII D(ies) III 38 - Felice II (355-365), f. 37: Felix I sed(it) I an(ni) I I M(enses) III I D(ies) Il 39 -Damaso (366-384), f. 38: . Dama/ sus /sed(it) I ann(i) /XVIII I M(enses) Il D(ies) I X 40-Siricio (384-399), f. 39: Siricil us sed(it)I ann(i) I XV I M(enses) XI I D(ies) XXV 41-Anastasio (399-401), f. 40: t A~ I fil s;. I d(it) !1 I Il X I VI
45 - Celestino (422-432) , f. 44: assente nel codice 46 - Sisto III (432-440), f. 45: assente nel codice 47 - Leone Magno (440-461), f. 46: assente nel codice
Note critiche I quaranta ritratti clipeati della parete meridionale si presentano oggi come un testo pittorico estremamente arduo da leggere, poiché decontestualizzato e parzialmente alterato, attraverso i secoli, da vicende conservative e restauri che hanno ridotto alcuni di essi a larve pittoriche, e comportato, per altri, una vera e propria trasformazione. Ma a dispetto di ciò, queste immagini emanano ancora una certa potenza, avvolti nella loro immortale aurea di «uomini illustri» della prima cristianità, unica galleria di ritratti papali sopravvissuta, anche se parzialmente, delle tre che decoravano la navata centrale delle basiliche di San Pietro, San
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Paolo e di San Giovanni in Laterano, quest'ultima del tempo di Niccolò III. La concezione e l'impianto originario dell'antica serie ostiense - e di quella vaticana - vede in Leone Magno (440-461) il regista ormai indiscusso, il quale inserì i pontefici clipeati a chiusura della decorazione, nell'ultimo registro delle pareti della navata centrale, quali «custodi della parola di Dio, annunziata dai profeti e raccontata attraverso i cicli figurati» (Andaloro 1992, 576; Ead. 2000a, 38-48). Joseph Wilpert per primo intuì che per tentare di recuperare la f acies originaria dei ritratti era necessario partire dalle copie barberiniane, che documentavano il loro stato al 1634 circa e ricostruire lo status quo ante i restauri del tempo di Benedetto XIV (1740-1758). Dalle copie si evince che i volti totalmente perduti a quell'epoca fossero tre: Anacleto, Sotero e Zefirino, mentre di Eutichiano e di Innocenzo I si conservava solo la metà,
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destra del primo, sinistra del secondo. I restauri del XVIII secolo furono affidati al pittore Salvatore Manosili che sotto la supervisione di Giovanni Marangoni e dell'abate Giustino Capeci, completò i ritratti e le iscrizioni danneggiate dal tempo (Marangoni 1751 , III-VIII). Questo intervento comportò l'integrazione ad intonaco della parte superiore dei clipei e delle iscrizioni da Pietro a Sotero e la ridipintura di gran parte dei primi sedici ritratti, particolarmente evidente nelle figure di Pietro, Lino , Cleto, Clemente, i quali furono 'aggiornati', secondo la moda del tempo, nell'abbigliamento e nell'acconciatura dei capelli [1-4]. Controversa resta invece la figura di Callisto I, unica integralmente rifatta, che De Bruyne dice ridipinta da Manosili (De Bruyne 1934b, 188-189), ma che risulta stilisticamente e matericamente diversa da tutti gli altri ritratti, specialmente dai quattro 'aggiornati' dallo stesso pittore [17] . Questa effige, del tutto difforme dalla
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sua copia barberiniana (BAV, Barb. lat. 4407 , f. 16), dove appare integra, fu rappresentata in modo differente anche nell'incisione pubblicata da Marangoni (Marangoni 17 51 , tav. XVI), il che fa sorgere il dubbio che sia frutto non del restauro settecentesco, ma di uno successivo, forse intrapreso quando Pio VII (18001823) volle continuare la serie sulla stessa parete sostituendo i ritratti del XIII secolo. A partire dalle ricognizioni epigrafiche di Francesco Bianchini del primo quarto del XVIII secolo , seguite a stretto giro dallo studio di Marangoni, nella serie antica dei ritratti papali è stata costantemente individuata la presenza di due gruppi distinti di effigi, separati in base a valutazioni sullo stato di conservazione, da Bianchini e Marangoni (Bianchini 1723, LXXVI; Marangoni 1751 , VIII), e per ragioni stilistiche, dalla storiografia del XX secolo. Bianchini prima e Wilpert poi circoscrissero nei ritratti da Pietro ad Antero, un primo gruppo omogeneo [1 -20], da Fabiano ad Innocenzo I, il secondo [21-42] . Questa divisione, con qualche oscillazione, vige ancora negli studi recenti. Eugéne Miintz fu il primo ad individuare nelle ridipinture, dovute ai restauri, la causa della differenza di stile tra i ritratti, isolando nel primo gruppo il nucleo da lui datato alla seconda metà del V-inizi VI secolo, ampiamente ritoccato nel XVI secolo (sic), e nel secondo la presenza di ritratti 'realistici' di epoche diverse, ognuno inverosimilmente contemporaneo al papa rappresentato (Miintz 1898, 10, 12) . Successivamente Wilpert intraprese un'analisi dettagliata dell'intera serie riconoscendo nel primo gruppo le ridipinture dovute al restauro di Manosili e, nel secondo la presenza di differenze stilistiche. Quest'ultirne furono giustificate dallo studioso attraverso l'individuazione di mani diverse - ben cinque - e di un'interpolazione dovuta ad un restauro che ipotizza
abbia avuto luogo durante il pontificato di Formoso (891-896) , in analogia con le vicende della basilica vaticana, dove il papa «hic per picturam renovavit totam ecclesiam beati Petri principis apostolorum» (LP II, 227; Wilpert 1916, II, 560-577 ). Di tutti i ritratti solo quattro, a parere di Wilpert, hanno conservato l'aspetto
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primitivo e sono quelli di Marcello, Eusebio, Milziade e Silvestro (ibidem, 573 ). Nel 1934 fecero la loro comparsa due importanti studi sulla serie dei ritratti della basilica ostiense: la monografia di Luciano De Bruyne e le poche ma densissime pagine dedicate ali' argomento da Ernst Kitzinger nella sua dissertazione dottorale. Secondo la ricostruzione di De Bruyne, la serie meridionale, fatta dipingere da Leone I, subì un primo estensivo restauro all'epoca di papa Formoso (891-896), durante il quale la maggior parte dei ritratti sarebbe stata ritoccata 'a guazzo', intervenendo soprattutto sui volti, che vennero connotati dell'incarnato 'rosso mattone' , e sulle vesti, dove furono applicate le lumeggiature ' a spina di pesce' (De Bruyne 1934a, 177-182). Un secondo intervento, limitato ai clipei compresi tra Sotero e Callisto, avrebbe avuto luogo nell'XI secolo, quando si intervenne sulla controfacciata (-> 44a ), comportando la trasformazione della
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foggia dei manti (ibidem, 199-202). Il terzo restauro isolato da De Bruyne è qu ello di Marangoni e Manosili , che investì soprattutto i ritratti e le iscrizioni del primo gruppo, e gli ultimi otto clipei del secondo. I volti di Lino, Anacleto , Evaristo , Telesforo , Pio , Sotero , Zefirino , furono integrati, Callisto integralmente rifatto , e le vesti del secondo gruppo riprese con una tinta verde-grigio (ib/dem, 188-197). Sul piano stilistico De Bruyne giustifica il lento avanzare dell'elemento lineare-astratto nel secondo gruppo attraverso il restauro formosiano , che operò , a suo avviso, in modo selettivo ritoccando appena i ritratti di Ponziano, Antero e Fabiano [1921], e ridipingendo del tutto le figure solo a partire da Cornelio [22]. Lo studioso non riesce a collocare il ritratto di Urbano che resta così sospeso tra il primo e il secondo gruppo. Per quanto concerne invece la realizzazione vera e propria della serie, De Bruyne individua tre tappe fondamentali: la prima è quella legata
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al pontificato di Leone Magno, che fece realizzare i ritratti compresi tra Pietro e il proprio sulle pareti meridionale, occidentale e settentrionale della navata [1-47]; la seconda tappa vede l'antipapa Lorenzo (501-506) , la cui effige compare nella copia barberiniana dei perduti ritratti della parete settentrionale, continuare la serie fino al proprio (BAV, Barb. lat. 4407 , ff. 4753) e la terza tappa di papaFormoso che, oltre a restaurarli, avrebbe completato la serie della parete nord (ibidem , 54-78; De Bruyne 1934a, 132-158). Ernst Kitzinger ha definito i ritratti del V secolo, da Pietro a Cornelio, «figure vigorose, plastiche, indipendenti nel proprio clipeo», individuando, sotto i restauri del XVIII secolo, ancora la presenza del drappeggio naturale dei palli, delle teste molto
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grandi e allungate, che ricordano «un triangolo rovesciato», con larghi nasi, grossi occhi, fronte bassa ed una resa naturalistica dell'incarnato [1-22], mentre nei ritratti compresi tra Lucio ed Innocenzo I ha riconosciuto figure senza corpo, con teste piccole e panneggi creati da un disegno lineare-astratto [23-42]. Tra i due gruppi però, secondo lo studioso, la cesura non è così netta, poiché il processo di atrofizzazione dell'elemento plastico avviene in modo graduale; i papi del secondo gruppo ebbero come modello quelli del V secolo ma, a un certo punto, dovettero essere ridipinti. Per Kitzinger, i primi ritratti del nuovo gruppo giungono assai vicino a quelli del primo in quanto a consistenza plastica creata qui da un sistema di lumeggiature, da lui definito appunto «das Lichterschema». In questi ritratti ciò che va perduto in solidità
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plastica è compensato attraverso «die geometriche Klarheit» e l'effige di Silvestro è il punto di arrivo di tale processo [34]. Lo studioso, a ragione, respinge l'ipotesi di Wilpert e De Bruyne di un restauro formosiano, non sostenibile né per via stilistica né documentaria, e pur ammettendo di non trovare a Roma opere direttamente confrontabili con i ritratti del secondo gruppo, suggerisce che anche per loro debba essere chiamato in causa quel «Lichterstil», erede del «griechische Illusionismus», da lui individuato e isolato negli affreschi di Santa Maria Antigua, nelle figure dei Maccabei e nella santa Barbara, dove le lumeggiature inducono l'occhio all'illusione della forma. E per questo avanza l'ipotesi, per i ritratti del secondo gruppo, di una ridipintura databile al VII secolo avanzato (Kitzinger 1934, 23-26). Dallo status quaestionis fin qui proposto emerge chiaramente come l'immagine dei ritratti di V secolo nelle formulazioni di Wilpert, Kitzinger e De Bruyne sia piuttosto idealizzata e compromessa dalla enfatizzazione delle forme apportata dai restauri del XVIII secolo. Il recupero della testa a mosaico di san Pietro proveniente dall'arco trionfale della stessa basilica di San Paolo, grazie al riconoscimento di Maria Andaloro, avvantaggia chi si avvicina oggi ai ritratti papali fornendo un imprescindibile punto di riferimento (Andaloro 1989a, 111-118; - 44c. 2) . La stessa Andaloro mettendo a confronto la testa a mosaico con il ritratto omologo di Pietro [ 1], con quello di Anacleto [5] , del primo gruppo e di Innocenzo I [42], del secondo, ha riconosciuto in tutti e quattro la medesima «compattezza stereometrica» e l'essere il frutto di un analogo «processo di semplificazione e monumentalizzazione» (Andaloro 1992, 576-579). Ad un'attenta osservazione dei singoli ritratti del cosiddetto 'secondo gruppo ' emerge, infatti, che questi hanno mantenuto, in buona sostanza, l'aspetto originario e non sono il frutto di un restauro radicale avvenuto nel primo medioevo o nel XVIII secolo. L'impressione generale è quella che in questi ritratti il processo di astrazione, «die langsame Verkummerung des Plastichen» individuata da Kitzinger, non li permei tutti, avanzando nella serie in modo lineare, ma sembra piuttosto procedere a singhiozzo, intercalato , fino ad Innocenzo I, dalla
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comparsa di volti nei quali la ricerca di un certo plasticismo, anche se costruito per campiture geometriche, è ancora presente ed evidente. Ne sono una prova i ritratti compresi tra Marcello e Giulio [31-36] e tra Damaso a Innocenzo I [39-42]. La distanza formale esistente tra la resa del volto di Pietro [1] e quella di Urbano[18] , di Silvestro [34] o di Siricio [40] è pertanto, a nostro avviso, assai ridotta. I ritratti compresi tra Fabiano e Marcellino [21-3 O] e di Liberio [3 7] e Felice II [3 8], dai visi stretti e lunghi, con barbe e capelli creati da lumeggiature date a tratteggio , appaiono non lontani dalle figure ritratte nei pannelli della cappella 'cristiana' nell'area dell'ospedale San Giovanni, datati alla metà circa del V secolo (~ 47) e dal santo vescovo conservato nei sotterranei della basilica di San Martino ai Monti, oggi meglio apprezzabile nella foto acquerellata Wilpert-Tabanelli (Wilpert
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1916, III, tav. 140), degli inizi del VI secolo. L'orizzonte all'interno del quale si situano i quaranta ritratti conservati di San Paolo fuori le mura ha come poli di attrazione e riferimento la testa di san Pietro a mosaico, della stessa basilica, e la figura di santo vescovo di San Martino ai Monti, sopra ricordata, nell'ambito di quel contesto figurativo , compreso tra la metà del V e gli inizi del VI secolo, già delineato da Maria Andaloro e recentemente ripercorso da Fabrizio Bisconti, a proposito del ritratto di sant' Agostino nella cosiddetta Biblioteca latina sottostante il Sancta Sanctorum (Andaloro 1992, 569-584; Andaloro 2000a, 45 -47 ; Bisconti 2004b). Questo contesto, definito dallo studioso: «crinale culturale così ricco e così difficile da decodificare nelle sue componenti e nelle sue valenze», vede protagoniste Roma, Napoli e Milano, scenari di un «universo figurativo che sta per
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abbandonare le esperienze dell'antichità più tarda, per entrare nell'orbita bizantina» (ibidem, 60-61) e un genere, quello del ritratto, depositario della tradizione romana, trasformato «nella concezione cristiano-tardoantica», e giunto qui ad un punto di svolta (Andaloro 2000a, 38-48). Un accenno va fatto, infine, alla serie perduta della parete settentrionale la quale, a partire dalle ricognizioni del XVIII secolo, ha posto non pochi problemi nel tentativo di ricostruire l'intera sequenza dei pontefici, poiché nelle copie del codice Barb. lat. 4407, unica testimonianza documentaria giunta a noi, gli acquerelli con i ritratti compresi tra Zosimo (417-418) e Vitaliano (657 -6 72) presentano delle incongruenze nelle didascalie identificative.dei singoli papi e, iniziando con Zosimo, successore di Innocenzo I, lasciano presupporre che la serie dalla parete sud
passasse direttamente alla nord (BAV, Barb. lat. 4407, ff. 43-78). Prima Wilpert e poi De Bruyne arrivarono alla conclusione che il copista seicentesco, trovandosi di fronte ad una situazione piuttosto disordinata delle iscrizioni conservate in situ , fosse stato costretto a normalizzare la serie ufficiale dei nomi, lasciando però nota 'in lapis' delle epigrafi realmente rilevate negli stessi fogli e allegando alle copie una lista (Wilpert 1916, II, 567-568; De Bruyne 1934b, 17-22). Già nella seconda metà del settecento Bianchini e Marangoni lamentavano di aver trovato sulla parete nord le iscrizioni pictae dei pontefici in uno stato del tutto sconvolto (Bianchini 1723, LXXX); Marangoni inoltre rilevò una situazione di palinsesto in corrispondenza dei primi otto o dieci ritratti, dove la pittura antica era stata coperta da una nuova decorazione, sempre ad imagines clipeatae (Marangoni 1751 , IV) .
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De Bruyne, primo e unico a porre l'attenzione sulla presenza del palinsesto, si limitò a riportare il passo di Marangoni, senza esprimere un giudizio sulla datazione dello strato sovrammeso (De Bruyne 1934a, 61 ). Ma alla luce dei recenti studi di Tronzo, Kessler e Popper è possibile avanzare l'ipotesi che questa decorazione sia stata realizzata durante la campagna di restauri condotta nel 1425 dal cardinale Gabriele Condulmer, che comportò, molto probabilmente, la ridipintura 'a secco' di molte scene delle tre pareti della navata centrale della basilica (Tronzo 2001; Kessler 2004; Popper 2004 ; - 44a,b.l). Tornando alle iscrizioni, De Bruyne, mettendo a confronto la successione dei nomi dei papi registrati ufficialmente e quelli annotati a matita nelle copie barberiniane, arrivò a stabilire che il ritratto di Leone Magno fosse il primo e non il quinto della serie
della parete settentrionale, a partire dal versante ovest. Questo comportava che la serie voluta da Leone dovesse proseguire sulla parete occidentale, con quattro ritratti, e chiudersi all'inizio della settentrionale. Che la controfacciata ospitasse dei ritratti è provato dalle annotazioni di Bianchini, che dichiarano «superest ex ea pictura praeter aliquas portiones circularum imagines olim continentium Romanorum Ponti/icum successorum 5. Innocentii» , e le tracce da lui rilevate erano di dieci clipei; ma dei ritratti non vi era più traccia (Bianchini 1723, LXXI, LXXX). Anche Marangoni rilevò la presenza di otto clipei (Marangoni 1751 , III; De Bruyne 1934a, 132-136), inoltre i disegni di Tasselli e la descrizione di Grimaldi attestarono che sulla controfacciata di San Pietro vi fossero dieci clipei della serie antica, leoniana, e sei di quella fatta inserire da Niccolò III (BAV, A64 ter, f. 19/18, 21 / 19) e ancora nell'incisione
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di Acquaroni, che illustra la basilica di San Paolo all'indomani dell'incendio del 1823 , si vedono in controfacciata le circonferenze di dieci clipei (Doc. vis. ). È a nostro avviso più probabile che in conformità con quanto visto da Bianchini, registrato nell'incisione di Acquaroni e confermato dal confronto con la controfacciata di San Pietro, i ritratti in controfacciata fossero dieci, e non quattro come vuole De Bruyne, e che l'imago clipeata di Leone Magno, pertanto, fosse ivi collocata, in prossimità del centro. La presenza dei ritratti sulla parete occidentale consente inoltre di avanzare l'ipotesi che la serie settentrionale si chiudesse con il ritratto di uno dei papi compresi tra Gregorio II (715-731 ) e Stefano II (752757), a seconda che i ritratti sulla controfacciata fossero otto o dieci, e che ci fosse o no la compresenza, nella serie della parete nord, di Simmaco e dell'antipapa Lorenzo. Nell'ambito di questa forbice di pontificati, il papa più accreditato ad aver continuato e chiuso la serie dei ritratti nella navata è certamente Gregorio III (731-741 ), il quale , in Rivzsta di archeologia cnstiana, 16 (1939), 289-316
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Musei, Gallerie e Pinacoteche Museo dell'Alto Medioevo, 276, 282 , 285 Musei Capitolini, 17, 247, 249 , 250, 256,282 - Palazzo dei Conservatori, 37 , 240, 247 , 249, 403 Museo Cristiano Lateranense, 94 Museo Laterano, 68 Museo Nazionale Romano, 31 , 175 , 228,230, 239, 240, 241 , 325 - Palazzo Massimo alle Terme, 17 , 228, 233-235 , 239 , 240, 242,247 Museo Petriano in Vaticano, 403 Musei Vaticani, 31 , 60, 89, 92 , 96, 181 , 201 , 212,232 , 256, 310, 361 - Museo Pio Cristiano, 93 , 96 Palazzo delle Esposizioni, 49, 282 Palazzi Palazzo Barberini, 103 , 241 mitreo, 102 Palazzo Massimo alle Quattro Fontane, 249 Palazzo Sessorium, 435 Palazzo del Quirinale, 93
Ville Villa dei Bassi sulla via Flaminia, 248 Villa Corsini, 60 Villa di Livia a Prima Porta, 250 Villa Medici, 240, 256 - palazzo degli Anicii, 256
Altro Campidoglio, 15, 28 , 40 Celio, 43 , 237 Esquilino, 119 INPS, sotterranei, 234,235,24 1 Monte Cavallo, 240 Ponte Milvio, 16, 37
Pontificio Istituto Orientale, 248 Stazione Termini, 105 Via dell'An1ba Aradam , 237 , 241 Via Livenza --> Ipogeo di via Livenza Via Dino Compagni --+ Ipogeo di via Dino Compagni Via latina --> Catacombe di via Latina Viminale, 107
Salamina (Cipro), terme, 43 , 44 , 46 Salonicco, 47 , 51 , 212 , 318 - Rotonda, 342 San Gin1ignano, collegiata, 414 Santa Maria Capua Vetere - chiesa di San Prisco, cappella di Santa Matrona, 46, 339, 340, 344,351 , 431 , 434 - chiesa di Santa Maria Maggiore, 35 1 San Pietroburgo, Museo Statale dell'Ermitage, 31 Saragozza, basilica, 397 Sarigiizel, 204 Sette Camini, ipogeo, 350 Silistra, 246 Sinai, 30, 46 Siria, provincia romana, 3 7
Spalato, palazzo di Diocleziano, 56 Tarragona , mausoleo di Centcelles, 77 , 94 , 95 Tivoli, 57, 89 - chiesa di San Silvestro, 89 - villa Adriana, 63 Torino, 73 Tours, scriptorium, 91 Treviri, 80, 239 Triade, 374 Tsromi, 342 Tunisia, 57 , 58 - E!Jem , casa del Sileno , 57, 58, 59 - Museo del Bardo, 59, 63 , 246 , 256 - Tunisi, 246 Venezia, 48 , 101 - basilica di San Marco, 48, 52 - Biblioteca Marciana, 79, 101 - Museo Archeologico Nazionale, 89, 340 Vienna - Biblioteca Albertina, 63 , 432 , 433 - Kunsthistorisches Museum, 296 Windsor, Eron College, 416
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI Quando non diversamente indicato , l'opera si trova a Roma; tra parentesi la referenza fotografica
p. 15 fig. 1 Incisione di H yeronimus Cock (XVII secolo) con veduta dei Fori e del Palatino (Bartoli 1911 , tav. IV) p. 16 fig. 2 Santa Costanza, absidiola nord, figura di Cristo del mosaico con Traditio clavium, (D. Ventura 2006-C/A); fig. 3 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni , ambiente B, figura virile di destra della Resurrezione di Lazzaro (G. Alfano 2005-C/ A); fig. 4 Necropoli vaticana, Sepolcro dei Giulii, mosaico con Cristo Helibs sulla volta, particolare (Archivio J aca Book) p. 17 fig. 5 Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro, cubicolo 'dei Santi ', figura e.li Cristo sull a volta (APCAS); fig. 6 Ipogeo di via Livenza, parete nord , Famula Dianae (J. Croisier); fig . 7 Napoli, Museo Archeologico Nazionale, domestico che offre una coppa da una domus del Celio (Sampaolo 1998, 181) p. 18 fig. 8 BAV, Vat. lat. 3225 , f. 7v, pagina miniata del 'Virgilio Vaticano' con Storza del vecchio di Corzcio (BAV); fig. 9 Battistero lateranense, atrio, pannello con disco e girali d'acanto sulla zona destra della parete e.l 'ingresso all'ottagono, particolare (G. Alfano 2005-C/ A); fig. 10 Santa Sabina, parete della navata centrale, motivo ad opus sectile disco-asta-base (G. Alfano, D. Ventura 2005-C/ A) p. 19 fig. 11 Santa Costanza , absidiola nord , mosaico con Traditio clavium (D. Ventura 2004- Cl A); fig . 12 BAV, Barb. lat. 4406, f. 32, disegno acquerellato con l'Uccisione di Gino dalla parete nord di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 20 fig . 13 BAV, Vat. lat. 3225 , f. 45v, pagina miniata del 'Virgilio Vaticano' con Enea ed Acate che incontrano la Sibilla (BAV) p. 21 fig. 14 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parere nord , Il ritorno degli e.,ploratori, (MV- AF, 50139D) p. 22 fig. 15 Santa Costanza, absidiola sud , mosaico con Traditio legis (D. Ventura 2004-C/ A); fig. 16 Atlante. Percorsi visivi, voi. I, 4, ricostruzione 3D I, particolare p. 24 fig. 17 Arco di Costantino, fregio costantiniano , particolare (Kitzinger 1977 [1989], fig . 4); fig. 18 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Matrùnonio di Mosè con Se/ora, (MV-AF, 50145D) p. 25 fig. 19 San Pietroburgo , Museo Statale dell'Ermitage, Nicolas Poussin , Battaglia di Giosuè con gli A maleciti, inv. 1195 (Mahon 1998b, 41) ; fig. 20 Mosca , Museo Puskin, icolas Poussin , Battaglia di Giosuè con gli Amort"ti, inv. 1046 (Mahon 1998b, 40); fig. 21 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord , Battaglia di Ra/idim, particolare (MV-AF, 50143D) p . 26 fig . 22 Parigi, collezione privata, Gino Severini, Tete /eminine a mosaico, 1958 (Mosaique 2000 , fig. 293 ); fig. 23 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Mosè viene adottato dalla figlia del Faraone, particolare (MV-AF, 50140D) p. 37 fig. 1 Musei Capitolini , Palazzo dei Conservatori, testa colossale di Costantino in marmo (Aurea Roma 2000, fig. 25 ); fig. 2 Musei Capitolini, Centrale Montemartini, statua di magistrato anziano dagli Horti Licinzani (Aurea Roma 2000, 432 fig. 12) p. 38 fig. 3 Disegno con la Tradùio legis e ipotesi ricostruttiva dell'abside di San Pietro in Vaticano (Buddensieg 1959, fig. 13 ); fig. 4 Catacombe di Priscilla, Vergine col Bambino e nn profeta (APCAS); fig. 5 Yale University, Ricostruzione della domus di Dura Europos, decorazione pittorica dell'ambiente battesimale, particolare p. 39 fig. 6 Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, testa colossale di Costantino in bronzo (Aurea Roma 2000, 72 fig. 14); fig . 7 Santi Cosma e D amiano, mosaico absidale, testa di san Pietro (Archivio Jaca Book); fig. 8 Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, testa colossale di Costantino in marmo (Aurea Roma 2000, fig. 25 ) p. 40 fig. 9 Santa Pudenziana, interno della chiesa, stato attuale (D. Ventura 2005-C/ A) p. 41 fig. 10 Santa Pudenziana, abside, mosaico con Cristo in trono, gli apostoli e le figure dei Viventi (A. Vescovo 2003) p. 42 fig. 11 Museo Nazionale Romano, opus sectile con Ratto di H ylas dalla basilica di Giunio Basso (Aurea Roma 2000, 535 fig. 177); fig. 12 Incisione del perduto mosaico absidale in Sant ' Andrea in Catabarbara (C iampini 1690, tav. LXXVI)
p. 43 fig. 13 Cipro, Salamina, mosaico con soggetto mitologico in un'abside delle terme (M. Andaloro 1989); fig. 14 Cipro, Salamina, figura virile nella parte sinistra del mosaico in un 'abside delle terme, (M. Andaloro 1989) p. 44 fig. 15 Oxford, Griffith Institute, Wilkinson XXXI, pp. 5 1-52, J. G. Wilkinson , acquerello della decorazione della sa la imperiale nel tempio di Ammone a Luxor (Kalavrezu Maxeiner 1975 ); fig. 16 Oxford , Griffith In stitute, Wilkinson XXXI, pp. 55-56, J. G. Wilkinson, acquerello della decorazione della sala imperiale nel tempio di Ammone a Luxor (Kalavrezu Maxeiner 1975) p. 45 fig. 17 Restituzione grafica dell' abside della sala imperiale nel tempio di Ammone a Luxor con figure dei quattro imperatori (Deckers 1979, 643); fig. 18 Thomas F. Mathews , schizzo ricostruttivo dell'interno di Santa Pudenziana nel V secolo (Mathews 2005, fig. 70); fig. 19 Istanbul , Santa Sofia, abside con mosaico del IX secolo e stesure musive del VI (Mainstone 1997, 236); fig. 20 Luxor, sala imperiale nel tempio di Ammone, abside con figure dei quattro imperatori, stato attuale (M.C. Tommasetti 2005 ) p. 46 fig. 21 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con stelle e sagome romboidali nel campo 2 (D. Ventura 2004 -C/ A); fig. 22 Santa Costanza, ambulacro , mosaico con rami, volatili e vasellame nel campo 6 (D. Ventura 2004-C/ A) p. 47 fig. 23 San Paolo fuori le mura, interno della basilica, stato attuale (Archivio Jaca Book) p. 48 fig. 24 Musei Capitolini, Centrale Monremartini, statua di magistrato giovane dagli Horti Liciniani (Aurea Roma 2000 , 433 fig. 13 ); fig. 25 Santa Maria Maggiore, arco absidale, parte sinistra con Annunciazione e Annuncio a Giuseppe e con l'Adorazione dei Magi (MV-AF, 37986) p. 55 fig. 1 Santa Costanza, ambulacro, mosaico a ottagoni e croci nel campo 1 (D. Ventura 2004 -C/A) p. 56 fig. 2 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con stelle e sagome romboidali nel campo 2 (D. Ventura 2004-C/ A) p. 57 fig. 3 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con stelle e sagome romboidali nel campo 11 (D. Ventura 2004 -C/ A) p. 58 fig. 4 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con cerchi annodati nel campo 3 (D. Ventura 2004-C/ A) p. 59 fig. 5 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con cerchi annodati nel campo 10 (D. Ventura 2004-C/ A) p. 60 fig. 6 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con tralci di vite e scene di vendemm ia nel campo 4 (D. Ventura 2004-C/ A); fig. 7 Grafico della superficie musiva originaria nel campo 4 dell'ambulacro di Santa Costanza (Matthiae 1967 , scomparto IV) p. 61 fig . 8 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con tralci di vite e scene di vendemm ia nel campo 9 (D. Ventura 2004 -C/A); fig. 9 Grafico della superficie musiva originaria nel campo 9 dell 'ambulacro di Santa Costanza (Matthiae 1967, scomparto IX) p. 62 fig. 10 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con cerchi tangenti nel campo 5 (D. Ventura 2004-C/ A) p. 63 fig. 11 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con cerchi tangenti nel campo 8 (D. Ventura 2004 ) p. 64 fig. 12 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con rami, volatili e vasellame nel campo 6 (D. Ventura 2004-C/ A); fig. 13 Grafico della superficie musiva originaria nel campo 6 dell 'ambulacro di Santa Costanza (Matthiae 1967 , scomparto VI) p. 65 fig. 14 Santa Costanza, ambulacro, mosaico con rami, volatili e vasellame nel campo 7 (D. Ventura 2004 -C/ A); fig. 15 Grafico della superficie musiva originaria nel campo 7 dell 'ambulacro di Santa Costanza (Matthiae 1967 , scomparto VII) p. 67 fig. 16 Santa Costanza, torretta, stato attuale (D. Ventura 2006-C/A) p. 68 fig. 17 KBB, 4151 , f. 73r, attribuito a Hugues Sambin (1520-1601 ), disegno con una sezione del mausoleo di Santa Costanza, particolare (Amadio 1986, 40 fig. 14); fig. 18 BCAF, Cl. I, 161, f. 1109, Pompeo Ugonio , schizzo a penna (1594) con l'Agnus Dei del perduto mosaico nella torretta di Santa Costanza (Amadio 1986, 53 fig. 25) p. 70 fig. 19 MBE, 28-1-20 , f. 22v, disegno di Francisco de Ollanda con veduta dell'interno di Santa Costanza (Amadio 1986, 29 fig. 6)
p. 71 fig. 20 Santa Costanza , intradosso della nicchia nordest, frammento di mosaico con stelle nere su fondo bianco (D. Ventura 2006-C/A); fig. 21 BCAF, Cl. I, 161 , f. 1103 , Pompeo Ugonio, schizzo a penna (1594) del perduto mosaico con motivo decorativo a stelle nel sottarco di una nicchia in Santa Costanza p. 73 fig. 22 MBE, 28-1-20, f. 27v, Francisco de Ollanda, acquerello (1538-1540) con quattro scene del perduto mosaico nella cupola di Santa Costanza (Torma y Monzò 1940, f. 7v) p. 74 fig. 23 GUL, nn. 64-65 , f. LXXXI, Pietro Santi Bartoli (1635 -1700), acquerello con quattro scene del perduto mosaico nella cupola di Santa Costanza; fig. 24 MBE, 28II-12, f. 4v, disegno di anonimo (XVI secolo) con due scene del perduto mosaico nella cupola di Santa Costanza (Amadio 1986, 22 fig. 2) p. 75 fig. 25 KBB, 4151 , f. 73r, attribuito a Hugues Sambin (1520-1601), disegno con una sezione del mausoleo di Santa Costanza (Amadio 1986, 40 fig. 14) p. 76 fig. 26 Incisione e.la un disegno attribuito a Pietro Santi Bartoli (1635- 1700) con il perduto mosaico nella cupola di Santa Costanza (Bellori-de La Chausse 1791 , tav. II) p. 77 fig. 27 BCAF, Cl. I, 161 , f. 1106, Pompeo Ugonio, schizzo a penna (1594) con Mosè che /a scaturire l'acqua nel deserto e il Sacrz/icio di Elia del perduto mosaico nella cupola di Santa Costanza (Amadio 1986, 51 fig. 22 ); fig. 28 BCAF, Cl. I, 161 , f. 1107 , Pompeo Ugonio, sch izzo a penna (1594 ) con Susanna e i vecchioni del perduto mosaico nella cupola d i Santa Costanza (Amadio 1986, 52 fig. 23 ); fig. 29 BCAF, Cl. I, 161 , f. 1109, Pompeo Ugonio, schizzo a penna (1594) con Il centurione di Ca/arnao del perduto mosaico nella cupola di Santa Costanza (Amadio 1986, 52 fig. 24) p. 79 fig. 30 BMV, Ital. IV. F. l 9r, disegno di anonimo (XVI secolo) con parte del perduto opus sectile nel tamburo di Santa Costanza (Amadio 1986, 39 fig. 13 ) p. 80 fig. 31 MBE, 28-II-12, f. 7, disegno di anonimo (XV secolo) con parte del perduto opus sectile nel tamburo di Santa Costanza (Am adio 1986, 23 fig. 3) p. 81 fig . 32 Santa Costanza , absidiola nord, mosaico con Traditto clavium (D . Ventura 2004 ); fig . 33 Incisione con Traditio clavium nell 'absidiola nord di Santa Costanza (Ciampini 1693 , fig . 32, I-2) p. 82 fig. 34 Santa Costanza, absidiola nord, figura di Pietro del mosaico con Traditio clavium, (D. Ventura 2006-C/ A) p. 83 fig. 35 Santa Costanza, absidiola nord, figura di Cristo del mosaico con Traditio clavium, (D. Ventura 2006-C/A) p. 85 fig. 36 Santa Costanza, absidiola sud , mosaico con Traditio legis (D . Ventura 2004-C/ A); fig. 37 Incisione con Tradit,o legis nell'absidiola sud di Santa Costanza (Ciampini 1693 , fig. 32 , I-1) p. 86 fig. 38 Santa Costanza, absidiola sud , figura di Pietro e iscriz ione nel cartiglio del mosaico con Traditio legis (D. Ventura 2006-C/ A); fig. 39 Santa Costanza , absidiola sud, figura di Paolo del mosaico con Traditio legis (D. Ventura 2006-C/ A) p. 88 fig. 1 Disegno con la Traditio legis e ipotesi ricostruttiva dell 'abside di San Pietro in Vaticano (Buddensieg 1959, fig. 13) p. 89 fig . 2 Venezia, Museo Archeologico Nazionale, Cassetta eburnea di Samagher, coperchio e lato anteriore (Ruysschaert 1968, fig. 2) p. 92 fig. 1 Musei Vaticani, mosaico con Flavius Iulù,s Iulianus dal C imitero di Ciriaca (MV-AF, 46485.D) p. 93 fig. 2 Musei Vaticani, mosaico con Simplicza Rustica dal Cimitero di Ciriaca (MV-AF, 32047) p. 94 fig. 3 Musei Vaticani , disegno acquerellato perduto con i mosaici con Flavius lulius Iulianus e Simplicia Rustica dal Cimitero di Ciriaca (MV-AF, inv. 31584- 31585) p. 95 fig. 4 Mosaici con Flavius Iulius Iulianus e Simplicia Rustica dal Cimitero di Ciriaca nell'allestimento presso il Museo Cristiano Lateranense nel 1918- 1919 (Alinari 38263) p. 97 fi g. 1 Cappella 'cristiana ' nell'area del co mplesso ospedaliero San Giovann i, ambiente A, figura femminile con fiaccola e scena di unzione con Genovius (G. Alfano 2005- C/A) p. 98 fig . 2 Cappella 'cristiana' nell 'area del complesso
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ospedaliero San Giovanni, ambiente A, scena di unzione con Genovius, particolare (G. Alfano 2005-CI A) p. 99 fig. 3 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni , ambiente B, Resurrezione di Lazzaro (G. Alfano 2005-CI A) p. 100 fig . 4 Cappella 'cristiana' nell 'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente B, figura virile di sinistra della Resurrezione di Lazzaro (G . Alfano 2005CI A); fig. 5 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente B, figura virile di destra della Resurrezùme di Lazzaro (G . Alfano 2005-CI A) p. 101 fig . 6 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedali ero San Giovanni , ambiente B, Cristo e la samaritana al pozzo (G. Alfano 2005-CI A)56 p. 102 fig . 7 Cappella 'crisriana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente B, figure frammentarie (G. Alfano 2005-CI A); fig. 8 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni , ambiente B, figure frammentarie e scena di unzione con Cristo in situ (Scrinari 1995 , fig. 258) p. 103 fig. 9 Cappella 'cristiana' nell 'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente B, scena di unzione con Cristo (G. Alfano 2005-CI A) p. 104 fig. 10 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente B, volto di Cristo della scena di unzione (G. Alfano 2005-CI A); fig. 11 Cappella 'cristiana' nell 'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente B, scena di unzione con Cristo in situ (Scrinari 1995 , 257 ) p. 106 fig. 1 Pianta e sezione dell 'oratorio del Monte della Giustizia con decorazione absidale (de Rossi 1876b, tavv. VI-VII) p. 108 fig. I Oratorio sotto i Santi Giovanni e Paolo, decorazione pittorica sulle pareti (R. Sigismondi , Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 109 fig. 2 Oratorio sotto i Santi Giovanni e Paolo, registro superiore della parete sinistra , scena di martirio (R. Sigismondi , Soprintendenza Archeologica di Roma); fig. 3 Oratorio sotto i Santi Giovanni e Paolo, registro inferiore della parere sinistra, figure virili (R. Sigismondi, Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 110 fig . 4 Oratorio sotto i Santi Giovanni e Paolo, registro superiore della parete destra , scena di martirio (R. Sigismondi , Soprintendenza Archeologica di Roma); fig. 5 Oratorio sotto i Santi Giovanni e Paolo, registro inferiore della parete destra , figure femminili (R. Sigismondi, Soprintendenza Archeologica di Roma); fig. 6 Oratorio sotto i Santi Giovanni e Paolo, parete di fondo , figura di orante (R. Sigismondi, Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 112 fig. l BAV, Vat. lat. 5407 , f. 82, Alfonso Ciacconio , disegno acquerellato con san Pietro in cattedra e Cristo fra Pietro e Paolo dall'oratorio di san Pietro in Santa Pudenziana (BAV) p. 115 fig . l Santa Pudenziana, abside, mosaico con Cristo in trono, gli apostoli e le figure dei Viventi (A. Vescovo 2003) ; fig. 2 BAV, Vat. lat. 5407 , f. 154 , Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato con il mosaico nell 'abside di Santa Pudenziana (BAV) p. 116 fig. 3 Santa Pudenziana, abside, Cristo in trono e libro con iscrizione (D. Ventura 2006- Cl A) p. 117 fig. 4 Santa Pudenziana, abside, uomo, particolare (D. Ventura 2006-CI A); fig. 5 Santa Pudenziana, abside, leone, particolare (D. Ventura 2006-CI A); fig . 6 Santa Pudenziana, abside, toro, particolare (D. Ventura 2006CI A); fig . 7 Santa Pudenziana, abside, aquila, particolare (D. Ventura 2006-CI A) p. 118 fig . 8 Santa Pudenziana, abside, architetture sul lato sinistro, particolare (D . Ventura 2006-CI A) p. 119 fig . 9 Santa Pudenziana, abside, architetture sul lato destro, particolare (D. Ventura 2006-CI A) p. 120 fig. 10 Santa Pudenziana , abside, figura femminile sul lato sinistro, particolare (D. Ventura 2006-CI A) ; fig. 11 Santa Pudenziana, abside, figura femminile sul lato destro, particolare (D. Ventura 2006-CI A) p. 121 fig. 12 Santa Pudenziana, abside, cielo e nubi sotto il leone, particolare (D. Ventura 2006- Cl A) p. 122 fig. 13 Santa Pudenziana, abside, Paolo, particolare (D. Ventura 2006-CI A); fig. 14 Santa Pudenziana, abside, Pietro, particolare (D. Ventura 2006-CI A) p. 123 fig. 15 Santa Pudenziana , abside, gruppo di apostoli sul lato sinistro, particolare (D. Ventura 2006-CI A); fig.
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16 Santa Pudenziana, abside, gruppo di apostoli sul lato destro rifatti nel restauro del 1831-1832 , particolare (D. Ventura 2006-CI A) p. 124 fig. 17 Santa Pudenziana, abside, volto di Cristo, particolare (D. Ventura 2006-CI A) p. 127 fig. l Necropoli vaticana, Sepolcro dei Giulii, mosaico con Cristo Helios sulla volta (Archivio J aca Book) p. 128 fig. 2 Necropoli vaticana, Sepolcro dei Giulii, mosaico con pescatore e pitture con motivi geometrici sulla parete di fondo (Roma sacra, 25 (2002), fig. 116) p. 129 fig. 3 Necropoli vaticana, Sepolcro dei Giulii , mosaico con Giona gettato in mare e pitture con motivi geometrici sulla parete di fondo (Roma sacra, 25 (2002), fig. 117 ) p. 131 fig . 1 Ipogeo di via Dino Compagni, cubicolo B, decorazione pittorica dell'arcosolio doppio sulla parete laterale sinistra (APCAS) p. 132 fig. 2 Ipogeo di via Dino Compagni , cubicolo B, decorazione pittorica dell'arcosolio doppio sulla parete laterale destra (APCAS) p. 133 fig. 3 Ipogeo di via Dino Compagni , cubicolo B, cantaro sulla parete d 'ingresso e Visione di Bethel nell 'arcosolio destro (APCAS) p . 134 fig. 4 Ipogeo di via Dino Compagni , cubicolo B, cantaro sulla parete d'ingresso e scene veterotestamentarie
sull'intradosso dell 'arcosolio sinistro (APCAS ) p. 13 7 fig. 1 Catacomba dei Santi Marcellino e Pie tro, cubicolo 69, Vergine con due magi nella lunetta di fondo e scene testamentarie sull'intradosso (APCAS) p. 138 fig. 2 Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro , cubicolo 'di Nicerus', decorazione pittorica dell 'arcosolio e sulla parere di fondo (APCAS ) p. 139 fig . 3 Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro , cubicolo 'di Nicerus', lunetta di fondo , Guarigione del!' emorroissa (APCAS) p. 140 fig . 4 Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro, cubicolo 'di Nicerus', sottarco, Cristo e la samaritana al pozzo (APCAS) p. 141 fig. 5 Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro, cubicolo 'di Nicerus', sottarco, Mulier inclinata (APCAS) p. 142 fig . 6 Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro, cubicolo 'di Nù:erus', parete d 'ingresso, ritratti dei coniugi proprietari del sepolcro (APCAS) p. 143 fig. l Catacomba anonima di via Anapo, nicchione 14 , decorazione pittorica della volta (APCAS) p. 144 fig. 2 Catacomba anonima di via Anapo, nicchione 14, piedritto sinistro, Moltiplicazione dei pani (APCAS) p. 146 fig. 3 Catacomba anonima di via Anapo, nicchione 8, decorazione pittorica sulla fronte esterna (APCAS) p. 147 fig. 4 Catacomba anonima di via Anapo, nicchione 8, sottarco, Consesso degli apostoli (APCAS) p. 148 fig. 5 Catacomba anonin1a di via Anapo, nicchione 8, piedritto destro , Daniele nella /ossa dei leoni (APCAS); fig. 6 Catacomba anon im a di via Anapo , nicchione 8, piedritto destro, Saert/icio di Isacco (APCAS) p . 149 fig . l Ipogeo di via Dino Compagni, cubicolo C , arcosolio della parere di fondo (APCAS) p. 151 fig. 2 Ipogeo di via Dino Compagni , cubicolo C , lunettone della nicchia nella parete sinistra, Missione di Giosuè (APCAS) p. 152 fig. 3 Ipogeo di via Dino Compagni , cubicolo C , lunettone della nicchia nella parete destra, Passaggio del Mar Rosso (APCAS) p. 155 fig. l I pogeo di via Dino Compagni , cubicolo ' di Sansone', Cristo e la samaritana al pozzo nella lunetta di fondo , eroti e soggetti zoomorfi sulla parete del settore ovest (APCAS) p. 156 fig. 2 I pogeo di via Dino Compagni , cubicolo ' di Sansone' , settore nord-ovest, figura virile che passa una porta (APCAS); fig. 3 Ipogeo di via Dino Compagni , cubicolo 'di Sansone', Sansone che uccide i Filistei nella lunetta di fondo e pavoni sulla parete dell'arcosolio ovest (APCAS) p. 158 fig. l Coemeterium Maius, lunetta dell'arcosolio, figura di donna con bambino (APCAS) p. 160 fig. 1 Ipogeo di via Dino Compagni, cubicolo A, parere d ' ingresso, scene veterotestamentarie (APCAS); fig. 2 Ipogeo di via D ino Compagni, cubicolo A, Cena di Isacco nella lunetta di fondo e scene della storia di Giona sulla parete nord- est (APCAS) p . 161 fig. 3 I pogeo di via Dino Compagni, cubicolo A, Susanna tra i vecchioni nella lunetta di fondo e Collegio apostolico sulla parete sud-est (APCAS )
p. 162 fig. 4 Ipogeo di ,~a Dino Compagni , cubicolo A, parete sud-ovest, volatili , cavalli alari e scene della storia di Giona (APCAS); fig. 5 Ipogeo di via Dino Compagni, cubicolo A, volta , storie dell 'Infan zia di Cristo e Buon Pastore (APCAS) p. 164 fig. 1 Catacomba di Domitilla, arcosolio 'di Veneranda', decorazione pittorica della lunetta di fondo e sulla fronte dell'arco (APCAS) p. 166 fig. l Catacomba dei Santi Marcellino e Pietro , arcosolio 'di Orfeo ', lunetta, Orfeo con la cetra tra due volatili (APCAS) p. 169 fig. 1 Catacomba di Commodilla, cubicolo 'di Leone', fronte dell 'ingresso, teorie di colombe e i santi Felice e Adautto (APCAS) p. 171 fig. 2 Catacomba di Commodilla, cubicolo 'di Leone', decorazione pittorica degli arcosoli e della volta (APCAS) p. 172 fig. 3 Catacomba di Commodilla, cubicolo 'di Leone', volta, decorazione a cassettoni e busto di Cristo (APCAS) p. 173 fig. 4 Catacomba di Commodilla, cubicolo 'di Leone', arcosolio destro, Ter negabis nella lunetta e due personaggi nimbati nell 'intradosso (APCAS) p. 174 fig . 5 Catacomba di Commodilla, cubicolo 'di Leone', arcosolio di fondo, scena zoomorfa di Motiplicazione dei pani neUa nicchia dell'intradosso (APCAS ) p. 175 fig. 1 Catacomba di Domitilla, galleria Hl2 , mosaico sull 'a rco e Majestas Domini nella lunetta di fondo dell 'arcosolio (APCAS ) p. 176 fig. 2 Catacomba di Domitilla, galleria Hl2 , sottarco a sinistra, mosaico con Resurrezione di Lazzaro (APCAS) p. 177 fig. 3 Catacomba di Domitilla, galleria Hl 2, sottarco al centro, mosaico con Tre giovani nella fornace (APCAS) p. 178 fig . 4 Catacomba di Domitilla, galleria Hl2 , sottarco a destra, mosaico con Sam/icio di Isacco ()) (APCAS) p. 179 fig . l Catacomba di Domitilla, Cubicolo 'dei Pistores', Collegio apostolico nel catino e ciclo professionale sulla parere dell'abside est (APCAS) p. 180 fig . 2 Catacomba di Domitilla , Cubicolo 'dei Pistores', Collegio apostolico nel carino dell 'abside est (APCAS) p. 181 fig . 1 Cimitero di Aproniano, mosaico con la storia di Giona sulle lastre di chiusura di un loculo (APCAS) p. 182 fig. 1 Catacombe di Sant 'Ermete, arcosolio decorato a mosaico (APCAS ); fig. 2 Catacombe di Sant 'Ermere, cornice della lunetta di fondo dell 'arcosolio decorato a mosaico (APCAS) p. 183 fig. 3 BAV, Vac. lat. 9849 , f. 25r,Jean-Bapriste Seroux d' Agincourt, disegno a china dell'arcosolio nelle Catacombe di Sant'Ermere (BAV); fig . 4 BAV, Vat. lat. 9841 , f. 38r, Jean -Baptisre Seroux d ' Agincourt , disegno a china del Sacrificio di Isacco sulla volta dell'arcosolio nelle Catacombe di Sant'Ermete (BAV) p. 184 fig. 1 Cimitero di Priscilla (II piano), arcosolio decorato a mosaico (APCAS); fig. 2 Cimitero di Priscilla (II piano), iscrizione 'a nastro ' eseguita sulla malta fresca di chiusura dell'arcosolio (APCAS) p. 185 fig. 3 Disegno interpretativo di Joseph Wilpert della volta dell'arcosolio nel Cimitero di Priscilla (II piano) (APCAS ); fig. 4 Cimitero di Priscilla (II piano), volta dell 'arcosolio, orante femminile (fotografia eseguita con tecnica UV, APCAS) p. 186 fig. 5 Cimitero di Priscilla (II piano), sottarco dell'arcosolio, Adorazione dei magi (APCAS ) p. 187 fig. 6 Cimitero di Priscilla (II piano), sottarco dell'arcosolio , Susa nna in giudizio davanti a Daniele (APCAS) p. 189 fig. 1 Catacomba dei santi Marcellino e Pietro, cubicolo 'dei Santi ', volta , Cristo e santi (APCAS) p. 191 fig. l Catacomba ad decimum (via Latina), arcosolio 'di Biator', Traditio legis (APCAS) p. 192 fig. 2 Catacomba ad decimum (via Latina), arcosolio ' di Biator', scena di presentazione del defunto Biator (APCAS) p. 194 fig. 1 Catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio, galleria F12, parete est, Abbraccio di Pietro e Paolo (APCAS) p. 195 fig. 2 Catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio, galleria F12 , volta, volto virile del primo strato e cristogramma del secondo strato di pittura (APCAS) p. 197 fig . 3 Catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio , galleria Fl2 , parete ovest , decorazione pittorica dell'arcosolio di Primenius et Severa (APCAS); fig. 4 Catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio, galleria Fl2 , parere ovest , Moltiplicazione dei pani
sull'intradosso dell ' arcosolio di Primenius et Severa (APCAS) p. 198 fig. 5 Catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio , galleria F12 , parete ovest , Nozze di Cana sull 'intradosso dell 'arcosolio di Primenius et Severa (APCAS) p. 200 fig. 6 C atacomba di San Sebastiano , e x vigna Chiaraviglio , arcosolio di Campanus, Majestas Domini e iscrizione nell 'emilunetta destra (APCAS) p. 201 fig. 7 Catacomba di San Sebastiano , ex vigna Chiaraviglio, arcosolio di Campanus, cantaro fra ovini nell'intradosso (APCAS) p. 202 fig. 8 Catacomba di San Sebastiano , ex vigna Chiaraviglio, arcosolio di Pau!us, angelo fra tendaggi nel pannello inferiore destro (APCAS) p. 202 fig. 9 Catacomba di San Sebastiano , ex vigna Chiaraviglio, arcosolio di Pau!us, angelo nel pannello superiore destro (APCAS) p. 203 fig . 10 Catacomba di San Sebastiano, ex vigna Chiaraviglio, arcosolio di Pau!us, Cristo in trono fra Pietro e Paolo portacorone nell' arca (APCAS) p. 204 fig. 11 Catacomba di San Sebastiano , ex vigna Chiaraviglio, arcosolio di Pau!us, cristogramma e cielo stellato sulla volta (APCAS) p. 206 fig. l Catacomba di San Callisto, Area I, cubicolo 'dei Sacramenti ' (APCAS) p. 208 fig. 2 Catacomba di Priscilla , ambiente del criptoportico (APCAS) p. 209 fig. 3 Catacomba di Priscilla , cappella ' greca', veduta verso la parete di fondo (APCAS) p. 210 fig. 4 Catacomba di Priscilla, cappella 'greca ', veduta verso la parete d ' ingresso (APCAS); fig. 5 Yale University, Ricostruzione della domus di Dura Europos, decorazione dell 'ambiente battesimale p. 211 fig. 6 Catacomba di Domitilla , cubicolo ' dei Pù tores', Buon Pastore nell 'abside (APCAS) p. 212 fig. 7 Catacomba di San Sebastiano, sarcofago della Traditio !egis (APCAS) p. 213 fig. 8 Catacombe di Ponziano , affresco con i santi Marcellino , Pietro e Pollione (APCAS) p . 215 fig. I Jose ph Wilpert, fotografia acquerellata della decorazione della volta del primo ambiente nell 'Ipogeo degli Aureli in viale Manzoni (APCAS) p . 216 fig. 2 Catacombe di Priscilla, Galleria dell'arenario centrale (APCAS) p. 217 fig. 3 Ipogeo di via Dino Compagni, fossore al lavoro (APCAS) p. 218 fi g. 4 Catacomba di Priscilla (II piano), murena in pasta vitrea (APCAS) p. 219 fig. 5 Ipogeo di via Dino Compagni , decorazione pittorica dei cubicoli N-0 (APCAS) p. 220 fig. 6 Catacomba dei santi Marcellino e Pietro, cubicolo ' dei due banchetti', decorazione della volta (APCAS) p. 221 fig. 7 Catacomba di Domitilla, cubicolo ' dei Pistores', ciclo professionale (APCAS) p. 224 fig. 1 Aula 'dell'orante' sotto i Santi Giovanni e Paolo, parete nord , decorazione con figure , finti secti!ia e racemi (R. Sigismondi, Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 225 fig. 2 Aula 'dell'orante' sotto i Santi Giovanni e Paolo, parete sud, decorazione con finti sectilia, racemi e mostri marini (R. Sigismondi , Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 226 fig. 3 Aula 'dell'orante' sotto i Santi Giovanni e Paolo, parete nord , maschera teatrale (R. Sigismondi , Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 227 fig. 4 Aula 'dell'orante' sotto i Santi Giovanni e Paolo, parete sud , figura di orante (R. Sigismondi, Soprintendenza Archeologica di Roma ); fig . 5 Aula 'dell'orante' sotto i Santi Giovanni e Paolo, parete est, maschera di Sileno (R. Sigismondi, Soprintendenza Archeologica di Roma) p. 229 fig. l Museo Nazionale Romano , figure di servo e padrone dalla villa di Casa] Morena (Pittura romana 2002 , 361 ); fig. 2 Museo Nazionale Romano, figura femminile dalla villa di Casal Morena (D. Ventura 2006-C/ A); fig. 3 Villa di Casa! Morena, ciclo pittorico della corre nel 1929 (De Rossi 1979, fig. 155) p. 230 fig. 4 Villa di Casa! Morena, dolio sulla parete nord ovest della corre nel 1929, perduto (De Rossi 1979, fig . 160) p. 231 fig. 5 Villa di Casa] Morena, dipinti sul pilastro al centro della corte nel 1929, perduti (De Rossi 1979, fig. 158); fig. 6 Villa di Casa! Morena, dipinti sul pilastro al
centro della corte nel 1929, perduri (De Rossi 1979, fig. 157); fi g. 7 Villa di Casa] Morena, figure di servo e padrone sulla parete nord-ovest della corte nel 1929 (D e Rossi 1979, fig. 161); fig. 8 Villa di Casa! Morena, due figure virili sulla parete nord -est della corte nel 1929, perdute (D e Rossi 1979, fig. 162) p. 232 fig. 9 Villa di Casal Morena, personaggio che sale una scala dalla parete nord-est della corte nel 1929, perduto (De Rossi 1979, fig. 163); fi g. 10 Villa di Casa! Morena, figura femminile sulla parete nord-est della corte nel 1929 (De Rossi 1979, fig. 164) p. 233 fig . 11 Villa di Casa! Morena, tre figure accucciate sulla parete est della corte nel 1929, perdute (D e Rossi 1979, fig. 169); fig. 12 Villa di Casa! Morena, decorazione sulla parete sud della corte nel 1929, perduta (D e Rossi 1979, fig.171 ) p. 235 fi g . l Museo Nazional e Romano , pann ello con ippocampi, delfini e auriga d alla Domus Faustae (Sapelli 1998, 55 ) p. 236 fi g. 2 I N PS, via dell ' Amba Aradam, pann ello con scena di approdo (?) dalla Domus Faustae (Scrin ari 1991 , fig. 107) p. 237 fi g. 3 INPS, via dell ' Amba Aradam , pannello con figura femminile dalla Domus Faustae (Scrinari 1991 , fig. 111) p. 23 8 fig. 4 Museo Nazionale Romano, pannello con figura maschile con spada e corazza dalla Domus Faustae (Sapelli 1998, 54 ); fig. 5 Museo Nazionale Romano, pannello con figura femminile offerente dalla Domus Faustae (Sapelli 1998, 55) p. 239 fi g. 6 Museo Nazionale Romano, pannello con figura virile con statuetta di genio o lare dalla Domus Faustae (Sapelli 1998, 55 ) p. 241 fig. I Museo Nazionale Romano, Dea Barberini (Aurea Roma 2000, 428 fig. 3) p. 242 fi g. 2 Fotografia acquerellata con la Dea Barberini con le integrazioni pittorich e del XVII secolo (Wilpert 1916, IV, tav. 125) p. 243 fig . 1 Incisione di Pietro Camporesi con l'ambiente da una domus del Celio con i pannelli dei servi dapiferi in situ (Cassini 1783 , XIX) p . 244 fi g. 2 Incisione di Pietro Camporesi con domestico che reca un vassoio con uova da una do mus del Celio , perduto (Cassini 1783 , I); fig. 3 Incisione di Pietro Camporesi con domestico che reca un vassoio con cinghiale da una domus del Celio, perduto (Cassini 1783 , II); fig. 4 Incisione di Pietro Camporesi con domestico che reca un vassoio con volatile da una domus del Celio , perduto (Cassini 1783, IV); fig . 5 Napoli , Museo Archeologico Nazionale, frammento superstite di un domestico con vassoio con spighe di grano da una domus d el Celio (Sampaolo 1998, 181); fig. 6 Incisione di Pietro Camporesi con domestico che reca un vassoio con spighe di grano da una domus del Celio (Cassini 1783, III) p. 245 fig. 7 Incisione di Pietro Camporesi con domestico che reca un vassoio con ortaggi da una domus del Celio, perduto (Cassini 1783 , V) p. 245 fig. 8 Incisione di Pietro Camporesi con domestico che reca un vassoio con frutta da una domus del Celio (Cassini 1783, VI) ; fig. 9 lncisione di Pietro Camporesi con domestico che offre una coppa da una domus del Celio (Cassini 1783, VII) ; fig. IO Napoli, Museo Archeologico Nazionale, domestico che reca un vassoio di frutta da una domus d el Celio (Sampaolo 1998, 180); fig. l i Napoli, Museo Archeologico Nazionale, domestico che offre una coppa da una domus del Celio (Sampaolo 1998, 181) p. 247 fig. l Museo Nazionale Romano, opus sectile con Ratto di Hylas dalla basilica di Giunio Basso (Aurea Roma 2000, 535 fig. 177); fig. 2 Museo Nazionale Romano, opus sectile con Pompa circensis dalla basilica di Giunio Basso (Aurea Roma 2000, 536 fig. 178) p. 248 fig. 3 Musei Capitolini, opus sectile con Tzgre che assale un toro dalla basilica di Giunio Basso (Aurea Roma 2000, 138 fig. l); fig. 4 Musei Capitolini, opus sectile con Tigre che assale un toro dalla basilica di Giunio Basso (A urea Roma 2000, 139 fig . 2) p. 249 fig. 5 Museo Nazionale Romano, opus sectzle con Ratto di Hylas dalla Basilica di Giunio Basso, particolare (D. Ventura 2006-C/ A) p. 250 fig. 6 Incisione con Pompa circensis dalla basilica di Giunio Basso (Ciampini 1690, tav. XXIII); fig. 7 BAV Barb. lar. 4424 , f. 31 v, Giuliano da Sangallo, disegno di un
prospetto laterale della Basilica di Giunio Basso (BAV) ; fi g. 8 Roma, collezione privata, disegno di un prospetto laterale della basilica di Giunio Basso (Whitehouse 2001 , 27)
p . 25 l fi g. 9 D .B. Martin , disegno con ipotesi ricostruttiva di un prospetto laterale della basilica di Giunio Basso (Lugli -Ashby 1932, fig. 16) p. 252 fig. 10 WRL 19225 , copia ad acquerello del Ratto di Hylas e di un tripode nella basilica di Giunio Basso (Whitehouse 2001 , 149 fig. 28); fig. 11 BAV, Vat. !at. 5407 , f. 99, Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato di un centauro e zoomachie nella basilica di Giunio Basso (Archivio Cl A) p. 254 fi g. I Ipogeo di via Livenza, dipinti sull 'arco e sulla parete nord (J. Croisier); fig. 2 Ipogeo di via Livenza, parete nord , Diana cacciatrice (J. C roisier) p. 255 fig. 3 Ipogeo di via Livenza , parete nord , Fa mula Dianae (J. Croisier) p. 257 fi g . 4 Ipogeo di via Livenza , parete occidentale, paesaggio acquatico (J. Croisier); fig. 5 Ipogeo di via Livenza, parete occidental e , mosaico con Mosè che fa sgorgare acqua dat!e rocce (J. Croisier) p. 258 fig. 6 Ipogeo di via Livenza , tracce di iscri zione a mosaico sull'arco (J. Croisier) p. 260 fig. I Ipogeo di Trebio Giusto, volta, fi gura di Buon Pastore (APCAS) p . 261 fig . 2 Ipogeo di Trebio Giusto, decorazione pittorica nel soprarco, nella lunetta e nello zoccolo della parete di fondo (APCAS) p. 262 fig. 3 Ipogeo di Trebio Giusto, spazio inferiore della parete sinistra, scena di costruzione (APCAS); fig. 4 Ipogeo di Trebio Giusto, spazio inferiore della pare te destra , Trebius Iustus e Generosus magister (APCAS) p. 263 fi g. 5 Ipogeo di Trebio Giusto , parete d ' ingresso , fi gura femminile (APCAS) p . 264 fig. 1 Casa 'cristiana' sotto la chiesa di Sant' Andrea in Vincis, ambiente I , pannello con 'orante' nel 1929, perduto (Muiìoz 1930, tav. LXXXII, 2) p. 265 fig. 2 Casa 'cristiana' sotto la chiesa di Sant'Andrea in Vinczs, ambiente H , figura maschile con mantello sulla sinistra (I strato) e due piccole teste sulla destra (II strato) nel 1929, perduti (Muiìoz 1930, tav. LXXXI, 2) p. 266 fig. 3 Casa 'cristiana ' sotto la chiesa di Sant'Andrea in Vincis, ambiente del balneum, nicchia con Perseo e Andromeda nel 1929 (Muiìoz 1930, ta v. XCV); fig. 4 Antiquarium Comunale di Roma , Perseo e Andromeda dalla lunetta dell'ambiente del balneum nella Casa 'cristiana' sotto la chiesa di Sant' Andrea in Vinczs (R omana Pictura 1998, fig. 70) p. 267 fig. 5 Casa 'cristiana ' sotto la chiesa di Sant' Andrea in Vinczs, ambiente del balneum, parete con nicchie dipinte nel 1929 (Muiìoz 1930, tav. XCIV); fig. 6 Maria Barasso, acquerello (1929) con la ricostruzione dell 'ambiente del ba!neum e la nicchia con Perseo e Andromeda (Muiìoz 1930, frontespizio) p. 268 fig. 1 Museo Barracco, pannello con paesaggio acquatico dalla domus sotto la Farnesina ai Baullari (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A) p. 269 fig. 2 Museo Barracco , pannello con anatra dalla domus sotto la Farnesina ai Baullari (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A) p . 270 fi g. 3 Museo Barracco, pannello con caccia alla tigre dalla domus sotto la Farnesina ai Baullari (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A); fig. 4 Museo Barracco, pannello con caccia al cervo dalla domus sotto la Farnesina ai Baullari (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A) p. 271 fi g. 5 Domus sotto la Farnesina ai Baullari , peristilio, dipinti in situ prin,a dello stacco (Tomassetti 1900); fig. 6 Domus sotto la Farnesina ai Baullari, peristilio, dipinti in sùu prima dello stacco (Tomassetti 1900) p. 272 fig. 1 Sovrintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma , Ufficio Monumenti Antichi e Scavi, Archivio Disegni, inv. 2414, Luigi Cartocci, acquerello (1943 ) con veduta prospettica dell'ambiente del vicus lugarius (A urea Roma 2000, 431 fig. 10); fig. 2 Ambiente del vicus lugarius, parete sinistra, figure femminili in situ nel 1943 , perdute (Colini 1980-1984, fig. 5) p . 273 fig . 3 Sovrintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma , Ufficio Monumenti Antichi e Scavi , Archivio Disegni, inv. 2411 , Luigi Cartocci, acquerello (1 943 ) con figure femminili sulla parete sinistra dell'ambiente del vicus Iugarius (Aurea Roma 2000, 430 fig. 7)
I NDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
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p. 274 fig. 4 Ambiente del vicus Iugarius, sottarco, decorazione a cerchi e rombi, perduta (Colini 1980-1984, fig. 10); fig. 5 Sovrintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma, Ufficio Monumenti Antichi e Scavi, Archivio Disegni, inv. 2412 , Luigi Cartocci, acquerello (1943) con decorazione a cerchi e rombi in un sottarco dell 'ambiente del vicus lugarius (Aurea Roma 2000, 430 fig. 8) p. 275 fig. 6 Sovrintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma, Ufficio Monumenti Antichi e Scavi, Archivio Disegni, inv. 2413 , Luigi Carrocci, acquerello (1943) con figura frammentaria della D ea Roma sulla parete di fondo dell'ambiente del vicus Iugarius (Aurea Roma 2000, 430 fig. 9); fig . 7 Ambiente del vicus Iugarius, parete di fondo, figura frammentaria della Dea Roma, (Colini 1980- 1984, fig. 9); fig. 8 Antiquarium Comunale di Roma, frammento della testa della D ea Roma dalla parete di fondo dell'ambiente del vicus lugarius (Pittura romana 2002 , 369) p. 276 fig. 1 Museo dell'Alto Medioevo (Roma) , allestimento dell'opus sectile dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G. Alfano , D. Ventura 2006-CIA); fig. 2 Museo dell 'Alto Medioevo (Roma ), opus sectile con leone che assale un cervo dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006-CI A) p. 277 fig. 3 Museo dell'Alto Medioevo (Roma), opus sectile con leone che assale un cervo dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006- Cl A) p. 278 fig. 4 Museo dell 'Alto Medioevo (Roma), opus sectzle con tigre che assale un 'antilope dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G . Alfano, D. Ventura 2006-CI A); fig. 5 Museo del!' Alto Medioevo (Roma), opus sectile con tigre che assale un'antilope dall 'aula fuori P orta Marina ad Ostia , particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006- Cl A) p. 279 fig . 6 Museo cieli' Alto Medioevo (Roma) , opus sectile con specchia tura con cornice a cerchi intrecciati dal!' aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006-CI A) p. 279 fig. 7 Museo cieli' Alto Medioevo (Roma), opus sectile con piccola architettura in prospettiva dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G. Alfano, D. Ventura 2006- Cl A); fig. 8 Museo dell'Alto Medioevo (Roma), opus sectile con cornice a girali dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006- Cl A); fig. 9 Museo dell'Alto Medioevo (Roma) , opus sectile con motivo a pelte dall 'a ula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006- Cl A) p. 280 fig. 10 Museo del!'Alto Medioevo (Roma), opus sectile con apparato 'architettonico' e clipeo con fanciullo dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G. Alfano , D. Ventura 2006-
CI A) p. 281 fig. 11 Museo dell 'Alto Medioevo (Roma), opus sectile con busto di figura virile nimbata dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G. Alfano, D. Ventura 2006-CI A) p. 282 fig. 12 Museo dell'Alto Medioevo (Roma) , opus sectile con capitello 'tipo' ionico dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G. Alfano, D. Ventura 2006-CI A); fig. 13 Museo del! ' Alto Medioevo (Roma ), opus sectile con opus reticulatum dall 'esedra dell 'aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006-CI A) p. 283 fig. 14 Museo dell'Alto Medioevo (Roma), opus sectile con capitello 'tipo' ionico dall'aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D . Ventura 2006- Cl A) p. 284 fig. 15 Museo dell'Alto Medioevo (Roma), opus sectile con lesena con girali dall 'aula fuori Porta Marina ad Ostia, particolare (G. Alfano, D. Ventura 2006-CIA) p. 285 fig. 16 Museo del!' Alto Medioevo (Roma), frammento di mosaico dal soffitto dell'esedra dell'aula fuori Porta Marina ad Ostia (G. Alfano, D. Ventura 2006- Cl A) pp. 292-293 fig. 1 Santa Sabina, controfacciata, mosaico con iscrizione e figure delle Ecclesiae (A. Vescovo 2003 ) p. 294 fig. 2 Santa Sabina, controfacciata, Ecclesia ex circumcisione (A. Vescovo 2003) p. 295 fig. 3 Santa Sabina, controfacciara, Ecclesia ex gentibus (A. Vescovo 2003) p. 296 fig. 4 Disegno del mosaico sulla controfacciata di santa Sabina ante 1877 (Garrucci 1877, tav. 210) p. 296 fig. 5 Santa Sabina, mosaico in controfacciata attorno al 1890 (Anderson 4000); fig. 6 Incisione del mosaico sulla controfacciata di Santa Sabina con simboli evangelici e figure di Pietro e Paolo in seguito perduti (Ciampini 1690, tav. XLVIII) p. 298 fig. 7 Santa Sabina, parete destra della navata centrale, opus sectile (G. Alfano, D. Ventura 2005-CIA)
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I NDICE DELLE ILLUSTRAZION I
p. 299 fig. 8 Santa Sabina, motivo ad opus sectile disco-astabase (G. Alfano, D. Ventura 2005- Cl A); fig. 9 Santa Sabina, motivo ad opus sectile 'tipo' flabellum (G. Alfan o, D . Ventura 2005-C/A) p. 300 fig. 10 Santa Sabina, tarsia absidale del 1936, copia dell'opus sectile antico (G. Alfano, D. Ventura 2005-C/A); fig. 11 Disegni di stemmi militari dalla Notzzia Dzgnitatum (Berger 1981); fig. 12 Disegni di stemmi militari dalla Notizia Dignitatum (Berger 1981 ) p. 301 fig . 13 Santa Sabina, imitazione a pittura di un motivo d isco-asta-base ad opus sectile (G. Alfano, D. Ventura 2005-
CI A) p. 302 fig. 14 Santa Sabina, abside, dipinti di Eugenio Cisterna sull'arco absidale (G. Alfano, D. Ventura 200_2-CI A) p. 303 fig. 15 Incisione del mosaico sull'arco absidale di Santa Sabina (Ciampini 1690, tav. XLVII) p. 307 fig. 1 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Lagnanza di Giacobbe, partù:olare (MV-AF, 50366D) p. 308 fig. 2 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Isacco benedice Giacobbe, particolare (MV-AF, 50362D) p. 311 fig. 3 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Dio comanda a Giacobbe di partire, particolare (MVAF, 50358D) p. 312 fig. 4 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Offerta del pane e del vino da parte di Melchisedech (MV-AF, 50320D) p. 313 fig. 5 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud , Apparizione ad Abramo del Signore nella valle di Mambre (MV-AF, 50318D); fig . 6 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Separazione fra Abramo e Lot (MV-AF, 50319D) p. 314 fig. 7 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Isacco benedice Giacobbe e Ritorno di Esaù (MV-AF, 50362D) p. 315 fig. 8 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Rachele e Giacobbe e Labano e Giacobbe (MV-AF, 50360D); fig. 9 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Giacobbe chiede in moglie Rachele (MV-AF, 50364D) p. 316 fig. 10 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Lagnanza di Giacobbe e Matrimonio di Giacobbe con Rachele (MV-AF, 50366D); fig. 11 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Nuova lagnanza di Giacobbe e Divisione del gregge (MV-AF, 50374D) p. 317 fig. 12 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Dio comanda a Giacobbe di partire e Giacobbe dà l'annuncio della sua partenza alle mogli (MV-AF, 50358D); fig. 13 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Giacobbe invia i messi ad Esaù e Incontro di Giacobbe ed Esaù (MV-AF, 50370D) p. 318 fig . 14 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, Acquisto del campo e Annuncio del ratto di Dina (MVAF, 50368D); fig. 15 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete sud, I principi di Sichem trattano con Giacobbe e I Sichemiti indotti a /arsi circoncidere (MV-AF, 50372D) p. 319 fig. 16 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parere sud, Separazione fra Abramo e Lot, particolare (MV-AF, 50319D) p. 320 fig. 17 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Mosè viene adottato dalla figlza del Faraone e Disputa di Mosè con ,filosofi (MV-AF, 50140D); fig. 18 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Matrimonio di Mosè con Se/ora e Il Roveto ardente (MV-AF, 50145D) p. 321 fig. 19 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord , Passaggio del Mar Rosso (MV- AF, 50136D); fig. 20 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord , Mormorazione del popolo d'Israele e La caduta delle quaglie nel deserto (MV-AF, 50134D) p. 322 fig. 21 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord , [l popolo di Israele si lamenta per la sete e Opposizione degli Amaleciti (MV-AF, 50141D); fig. 22 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Battaglia di Rafidim (MV-AF, 50143D) p. 323 fig. 23 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Il ritorno degli esploratori e Rivolta del popolo d'Israele (MV-AF, 50139D); fig. 24 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Consegna della legge e Morte di Mosè e Trasporto dell'Arca (MV-AF, 50138D) p. 324 fig. 25 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Morte di Mosè, particolare (MV-AF, 50138D) p. 326 fig. 26 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Passaggio dell'Arca attraverso il Giordano e Invio
degli esploratori a Gerico (MV-AF, 50322D); fig. 27 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, L'angelo appare a Giosuè e Fuga degli esploratori da Gerico (MVAF, 50330D) p. 327 fig. 28 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Caduta di Gerico e Processione dell'Arca dell'Alleanza (MV-AF, 50332D); fig. 29 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Assalto di Gabaon e Apparizione del Signore a Giosuè (MV-AF, 50326D) p . 328 fig. 30 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Giosuè mette zn fuga gli Amorrei e Caduta delle pietre (MV-AF, 50333D); fig. 31 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, Giosuè /erma il sole e la luna (MVAF, 50328D) p. 329 fig. 32 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord , I re davanti a Giosuè e Supplzzio dei re (MV-AF, 50324D); fig. 33 BAV, Vat. lat. 11257, f. 185r, disegno di anonimo (inizio XVI secolo) con l'alzato della parete destra della navata centrale di Santa Maria Maggiore, particolare (BAV) p. 330 fig . 34 Santa Maria Maggiore, navata centrale, parete nord, I re davanti a Giosuè, particolare (MV-AF, 50324D) pp. 332-333 fig. 35 Santa Maria Maggiore, mosaici con Storie dell'Infanzia di Cristo sull'arco absidale (MV-AF, 50294D ) pp. 334-335 fig. 36 Santa Maria Maggiore, arco absidale, parte sinistra del primo registro, Annunciazione e Annuncio a Giuseppe (MV-AF, 37986); fig . 37 Santa Maria Maggiore, arco absidale, parte destra del primo registro, Presentazione al Tempio e Sogno di Giuseppe (MV-AF, 394 15) p. 336 fig. 38 Santa Maria Maggiore , arco absidale, parte sinistra del secondo registro, Adorazione dei Magi (MVAF, 37986) p. 337 fig. 39 Santa Maria Maggiore, arco absidale, parte destra del secondo registro, Incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio (MV-AF, 39415) p. 338 fig. 40 Santa Maria Maggiore, arco absidale, parte sinistra del terzo registro e pennacchio sinistro, Strage degli innocenti (MV-AF, 47356); fig. 41 Santa Maria Maggiore, arco absidale, parte destra del terzo registro e pennacchio destro, Scribi e magi davanti ad Erode (MV-AF, 39415) p. 339 fig . 42 Santa Maria Maggiore, arco absidale, Etimasia, Pietro e Paolo, simboli evangelici ed iscrizione dedicatoria (MV-AF, 43558D ) p. 341 fig. 43 Musei Vaticani, sinopia di un particolare dell'Annunciazione sull 'arco absidale di Santa Maria Maggiore (MV-AF, VII-16.19); fig. 44 Musei Va ticani, sinopia di un particolare del Sogno di Giuseppe sull 'arco absidale di Santa Maria Maggiore (MV- AF, VII-16.18) p. 342 fig. 45 Fotografia acquerellata dei mosaici sulla parte centrale dell'arco absidale di Santa Maria Maggiore prima del restauro del 1929-1931 (Wilpert 1916, IV, tav. 74) p. 345 fig. 46 Santa Maria Maggiore, sottarco absidale, mosaico con monogramma di Cristo e festone floreale (Cecchelli 1956, tav. XIII) p. 348 fig. 1 Battistero lateranense, atrio, mosaico con Agnus Dei, colombe e girali d'acanto nell'abside est (A. Vescovo 2003) p. 349 fig. 2 Battistero lateranense, atrio, mosaico conAgnus Dei, colombe e girali d'acanto nell'abside est ante restauro del 1943 -1944 (Alinari 7175 , Anderson 2177 ) p. 3 50 fig. 3 Battistero lateranense, atrio, Agnus Dei del mosaico nell'abside est, particolare (G. Alfano 2005-C/ A) p. 351 fig. 4 Battistero lateranense, atrio, croci gemmate del mosaico nell'abside est, particolare (G. Alfano 2005-C/ A) p. 353 fig . 5 BAV. Vat. lar. 5407 , f. 200, Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato con pastori nel perduro mosaico dell' abside ovest dell'atrio del Battistero lateranense (Archivio Cl A) p. 354 fig. 6 MBE, 28-1-20, f. 4, disegno con due figure di pastori dall'abside ovest dell'atrio del Battistero lateranense (Archivio Cl A); fig. 7 Incisione di Antonio Lafréry (1540) con una sezione del Battistero lateranense (Rohault de Fleury 1877, tav. XXXIV) p. 355 fig. 8 Battistero lateranense, atrio, opus sectile sulla zona destra della parete d'ingresso all'ottagono (G. Alfano 2005-CIA); fig. 9 Battistero lateranense, atrio, integrazioni a pittura del! 'opus sectile sulla zona sinistra della parete d'ingresso all'ottagono (G. Alfano 2005-CI A) p. 356 fig. 10 Battistero lateranense, atrio , lesena ad opus sectzie sulla zona destra della parete d'ingresso all'ottagono, particolare (G. Alfano 2005-CIA) p. 357 fig. 11 Battistero lateranense, atrio, lastra ad opus
sectile sulla zona destra della parete d'ingresso all'ottagono, particolare (G. Alfano 2005); fig. 12 Battistero lateranense, atrio, pannello con disco e girali d'acanto sulla zona destra della parete d'ingresso all'ottagono, particolare (G. Alfano 2005 -CI A) p. 358 fig. l San G iovanni in Laterano , abside, mosaico torritiano con volto di Cristo di epoca paleocristiana nella foto di Henry Parker del 1870 ca. (Foto Parker, ICCD F321/12 ) p. 359 fig. 2 11 volto di Cristo nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano in un disegno del 1875 ca. (Gerspach 1880, 147 ) p. 360 fig. 3 11 volto di Cristo nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano in un disegno del 1875 ca. (de Rossi 1899, tav. XXXVII); fig . 4 11 volto di Cristo nel mosaico absidale di San G iovanni in Laterano in un disegno del 1720 ca. (C rescimbeni- Baldeschi 1723 , 173 ) p. 361 fig. 5 San Giovanni in Laterano, busto di Cristo nel mosaico absidale, stato attuale (Archivio J aca Book) p. 366 fig. 1 Luigi Rossini, incisione con veduta della basilica di San .Paolo fuori le mura dopo l'incendio del 1823 (Rossini 1823 , tav. 98) p. 367 fig. 2 San Paolo fuori le mura, interno della basilica, stato attuale (A rchivio Jaca Book) p. 368 fig . 3 BAV, Vat . lat. 9843, f. 5r, disegno di Seroux cl' Agincourt con scene cristologiche sulla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 369 fig. 4 BAV, Barb. lat. 4406, f. 127, disegno acquerellato con l'evangelista Luca e il toro dalla conrrofacciata di San Paolo fuori le mura (BAV), fig. 5 BAV, Barb. lat. 4406, f. 129, disegno acquerellato con l'evangelista Matteo e l'angelo dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV), fig. 6 BAV, Barb. lat. 4406 , f. 132 , disegno acquerellato con l'evangeli sta Giovanni e l'aquila dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 7 BAV, Barb. lat. 4406, f. 134 , disegno acquerellato con l'evangelista Marco e il leone dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 370 fig. 8 BAV, Barb. lat. 4406, f. 130, disegno acquerellato con l'Orazione nel!'orto dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 9 BAV, Barb. lat. 4406, f. 133 , disegno acquerellato con l'Andata ,al Calvario dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 371 fig. 10 BAV, Barb. lat. 4406, f. 135, disegno acquerellato con la Deposizione dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 11 BAV, Barb. lat. 4406, f. 136, disegno acquerellato con l'Esposizione del corpo di Cristo dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 372 fig. 12 BAV, Barb. lat. 4406,f. 111, disegno acquerellato con la Chiamata di Timoteo e figura votiva dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 13 BAV, Barb. lat. 4406, f. 112 , disegno acquerellato con la Predica di Paolo e figura votiva dalla controfacciata di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 373 fig. 14 BAV, Barb. lat. 4406, ff. 87 -93, Ricostruzione della sequenza delle scene della parete nord di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 15 BAV, Vat. lat. 9843, f. 4r, disegno di Seroux cl 'Agincourt con i primi 10 episodi della parete nord di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 16 Andrea Alippi , disegno della sezione longirudinale della parete nord di San Paolo fuori le mura (Nicolai 1815, tav. II) pp . 374-375 fig. 17 BAV, Barb. lat. 4406, ff. 35140; 53-60, Ricostruzione della sequenza delle scene della parete sud di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 375 fig. 18 BAV, Barb. lat. 4406, f. 25, disegno acquerellato con la Creazione di Eva dalla parete sud di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 19 BAV, Barb. lat. 4406, f. 30, disegno acquerellato con il Lavoro dei progenitori dalla parete sud di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 376 fig. 20 BAV, Barb. lat. 4406, f. 31, disegno acquerellato con il Sacrificio di Caino e A bele dalla parete sud di San Paolo fuori le mura (BAV); fi g. 21 BAV, Barb. lat. 4406, f. 3 5, disegno acquerellato con La famiglia di Noè lascia l'arca dalla parete sud di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 22 BAV, Bar b. lat. 4406 , f. 4 7, disegno acquerellato con Giuseppe in prigione dalla parete sud di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 3 77 fig . 23 BAV, Barb. lat. 4406, f. 110, disegno acquerellato con il Concilio degli apostoli a Gerusalemme dalla parete nord di San Paolo fuori le mura (BAV); fig . 24 Andrea Alippi , disegno della sezione longitudinale della parete nord, Concilio degli apostoli, particolare (Nicolai 1815 , tav. ID; fig. 25 BAV, Barb. lat. 4406, f. 126, disegno acquerellato
con il Naufragio di Paolo a Malta dalla-parete nord di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 26 Andrea Alippi, disegno della sezione longitudinale della parete nord , Naufragio di Paolo a Malta, particolare (N icolai 1815 , tav. II) p. 378 fig. 27 BAV, Barb. lat. 4406, f. 105, disegno acquerellato con il Viaggio di Paolo in mare dalla parete nord di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 28 Andrea Alippi, disegno della sezione longitudinale della parete nord , Vù1gg10 di Paolo in mare, particolare (Nicolai 1815 , tav. II) p. 379 fig. 1 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Pietro dalla parete sud della basilica (G. Bordi 2000) p. 380 fig. 2 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Lino dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 3 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Cleto dalla parete sud deUa basilica (D. Ventura 1998) p. 381 fig. 4 San Paolo fuori le mura , monastero , papa Clemente dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 5 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Anacleto dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fi g. 6 San P aolo fuori le mura, monastero, papa Evaristo dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 7 San P aolo fuori le mura, monastero, papa Alessandro dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 8 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Sisto I dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 9 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Telesforo dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 382 fig. 10 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Igino dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 383 fig. 11 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Pio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 12 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Aniceto dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 13 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Sotero dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) ; fig. 14 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Eleuterio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 15 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Vittore dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 16 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Zefirino dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 17 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Callisto dalla parete sud della basilica (D. Ventu ra 1998) p. 384 fig. 18 San Paolo fuori le mura , monastero , papa Urbano dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 385 fig. 19 San Paolo fu o ri le mura , monastero , papa Ponziano dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 20 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Antero dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 21 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Fabiano dalla parete sud delta basilica (D. Ventura 1998); fi g. 22 San P aolo fuori le mura, monastero, papa Cornelio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 386 fig. 23 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Lucio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 387 fig. 24 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Stefano dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 25 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Sisto II dalla pa rete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig . 26 BAV, Barb. lat . 4407 , f. 25 , acquerello (1634) con papa Dionisio dalla parete sud della basilica di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 388 fig. 27 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Felice dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 28 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Eutichiano dalla parete sud deUa basilica (D. Ventura 1998); fig. 29 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Caio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 30 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Marcellino dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 389 fig. 31 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Marcello dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 390 fi g. 32 San Paolo fuori le mura, monastero , papa Eusebio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 33 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Milziade dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 34 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Silvestro dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 391 fig. 35 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Marco dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig . 36 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Giulio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig . 37
San Paolo fuori le mura, monastero, papa Liberio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 38 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Felice II dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 392 fig. 39 San Paolo fuori le mura, monastero, papa D amaso dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 40 San Paolo fuori le mura, monastero, papa Siricio dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998); fig. 41 BAV, Barb. lat. 4407 , f. 40, acquerello (1634) con papa Anastasio dalla parete sud della basilica di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 393 fi g. 42 San Paolo fuori le mura , monastero, papa Innocenzo I dalla parete sud della basilica (D. Ventura 1998) p. 394 fig. 43 BAV, Barb. lat. 4407 , f. 42 , acquerello (1634) con papa Zosimo dalla parete sud della basilica di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 44 BAV, Barb. lat. 4407, f. 43 , acquerello (1634) con papa Bonifacio dalla parete sud della basilica di San Paolo fuori le mura (BAV); fig. 45 BAV, Barb. lat. 4407 , f. 44 , acquerello (1634) con papa Celestino dalla parete sud della basilica di San P aolo fuori le mura (BAV); fig . 46 BAV, Barb. lat. 4407, f. 45, acquerello (1634) con papa Sisto III dalla parete sud dell a basilica di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 395 fig. 47 BAV, Barb. lat. 4407, f. 46, acquerello (1634) con papa Leone Magno dalla parete sud della basilica di San Paolo fuori le mura (BAV ) p. 396 fi g. 29 San Paolo fuori le mura , mosaico dell'arco trionfale, stato attuale, (D. Ventura 2005 -CI A) p. 397 fig. 30 Incisione con il mosaico dell 'arco trionfale di San Paolo fuori le mura (Ciampini 1693 , tav. LXVIII) p. 399 fig. 3 1 BAV, Barb. lat. 4406 , ff. 139v-140r, acquerello (1630 ca.) con mosaico dell 'arco trionfale di San Paolo fuori le mura (BAV) p. 400 fig. 32 San Paolo fuori le mura, Seniores sul lato sinistro del mosaico dell'arco trionfale, particolare (D. Ventura 2005-CIA) p. 401 fig. 33 San Paolo fuori le mura, Seniores sul lato destro del mosaico dell'arco trionfale, particolare (D. Ventura
2005-CIA ) p. 404 fig. 34 Grotte Vaticane, testa di san Pietro a mosaico dall 'arco trionfale di San Paolo fuori le mura (Archivio Andaloro) p. 405 fig. 35 Grotte Vaticane, testa di san Pietro a mosaico dall 'arco trionfale di San Paolo fuori le mura nel 1923 (Alin ari 263 79); fi g. 36 Testa di san Pietro a mosaico dall'arco trionfale di San Paolo fuori le mura, fotocolor pubblicato in Matthiae 1967, tav. XV p. 406 fi g. 3 7 Angelo a mosaico dal lato sinistro dell'arco trionfale di San Paolo fuori le mura (Wilpert 1916, II, fig. 187) p. 407 fig. 38 San Paolo fuori le mura, arco trionfale, angelo sul lato destro (D . Ventura 2005- Cl A) ; fig. 39 San Paolo fuori le mura , arco trionfale, angelo sul lato sinistro (D. Ventura 2005 - Cl A); fig. 40 Disegno del calco dell'angelo sul lato sinistro dell'arco trionfale di San Paolo fuori le mura pubblicato in Gerspach [1882] , 99 p. 408 fig. 41 San Paolo fuori le mura, recinzione presbiteriale, tratto sinistro della decorazione a finti marmi (G. Filippi 2003 ) p. 409 fig. 42 San Paolo fuori le mura, recinzione presbiteriale, tratto sinistro della decorazione a finti marmi (G. Filippi 2003 ) p. 410 fig . 43 San Paolo fuori le mura, recinzione presbiteriale, tratto destro della decorazione a finti marmi (G. Filippi 2003 ) p. 412 fig. l BAV, Barb. lat. 2733, ff. 113v-114r, Domenico Tasselli da Lugo, acquerelli (1619) della parete sud della navata centrale di San Pietro in Vaticano (BAV) p. 413 fig . 2 BAV, Album A 64 ter, f. 13v, Domenico Tasselli da Lugo, acquerelli della parete nord della navata centrale di San Pietro in Vaticano (BAV) p. 414 fig. 3 BAV, Album A 64 ter, f. 14, Domenico Tasselli da Lugo, acquerelli dei ritratti dei papi nella navata centrale di San Pietro in Vaticano (BAV) p. 417 fig. 1 WEC , Cod. Farf. 124, f. 122 , disegno della facciata di San Pietro in Vaticano (Pinelli 2000, Saggi 43 , fig. 29) p. 419 fi g. l Cappella 'c rist ian a' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente C, Cristo che incorona Costantina ed Eudo.uia (G. Alfano 2005-CI A) p. 420 fig. 2 Cappella 'cristiana' nell'area d el complesso
IND ICE DE LL E ILL USTRAZION I
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ospedaliero San Giovanni, ambiente C, Eudossia (G. Alfano 2005-C/ A) p. 421 fig. 3 Cappella 'cristiana ' nell 'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente C, Costantina (G. Alfano 2005 -C/ A) p. 422 fig. 4 Cappella 'cristiana' nell 'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente C, Cristo e tre santi (G. Alfano 2005-C/ A) p. 423 fig. 5 Cappell a 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente C, Cristo e un santo (G. Alfano 2005-C/ A) p. 424 fig. 6 Cappella 'cristiana' nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, ambiente C, lacerto con testa di giovane che suona una tromba (G. Alfano 2005-C/ A) p. 426 fig. 1 Battistero lateranense, cappella di san Giovanni Evangelista, volta, mosaico con A gnus Dei (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A)
482 INDICE DE LLE ILL USTRAZION I
p. 427 fig. 2 Battistero lateranense, cappella di san Giovanni Evangelista, A gnus Dei del mosaico sulla volta (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A) p. 428 fig. 3 Battistero lateranense, cappella di san Giovanni Evangelista , uccelli affrontati ad una coppa di frutta del mosaico sulla volta (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/A); fig . 4 Battistero lateranense, cappella di san Giovanni Evangelista , lunetta nord-est, mosaico con motivo a candelabra (G. Alfano, D. Ventura 2006-C/ A) p. 430 fig. 5 Incisione del mosaico con A gnus Dei sulla volta ed evangelisti nelle lunette della cappella di San G iovanni Battista nel Battistero lateranense (Ciampini 1690, tav., LXXV) p. 431 fig . 6 Catacomba di Domitilla, cubicolo 'del Buon Pastore', volta, figura del Buon Pastore e pallOni (Fiocchi Nicolai-Mazzoleni-Bisconti 1998, fig. 101 ); fig. 7 Cimitero di Ermete, volta, figura del Buon Pastore, pavoni e uccelli affrontati (Wilpert 1903 , tav. 15 1)
p. 432 fig. 8 BAV, Barb. lat. 4424, f. 3 lr, Giuliano da Sangallo, disegno della parete d'ingresso e della volta del perduto oratorio della Santa Croce nel Battistero lateranense (Romano 1996, fig. 3) p. 433 fig. 9 lncisione di Antonio Lafréry (1568) con pianta e spaccato del perduto oratorio della Santa Croce nel Battistero lateranense (Labacco 1572 , tav. IV) p. 434 fig . 10 AW, SAH, 108r, disegno di anonimo (XVI secolo) con veduta dell'interno dell'oratorio della Santa Croce nel Battistero lateranense (Johnson 1995 , fig. 14 ) p. 435 fig. 11 GDSU , U 438 A r, Baldassa rre Peruzzi e anonimo (1490 ca.-1525 ca. ), pianta , alzato e ved uta dell'interno cieli' oratorio della Santa Croce nel Battistero lateranense (Lauer 1911 , fig. 24 ); fig. 12 BML, Codice Ashburnham App. 1828, f. 118, schizzo di anonimo (XVI secolo? ) con veduta dell'interno dell'oratorio della Santa Croce nel Battistero lateranense (Romano 1996, fig. 11 )