L'Ora e l'attimo. Confronti vichiani


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L'Ora e l'attimo. Confronti vichiani

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Vincenzo Vitiello

L'Ora e l'attirrw \ Confronti vichiani

t

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Introduzione

éPX6tia Leibniz-non è occasionale (e se qualcuno riscontrasse in ciò il peccato che Vico denunzia nella IV Degnità, saremmo ben lungi dal respingerlo con disdegno). Risponde, anzi, a un'unità di intenti che qui va sottolineata. L'intento è quello definito da Vico nell'Autobiografia: la ricerca di «un qualche argomento e nuovo e grande nell'animo, che in un Principio unisse egli tutto il sapere umano e dit>ino» (OF, p. 24). Ora l'estensione operata da Vico della mathesis universalis alla storia - che amplia il progetto di Grozio che riguardava la sola scien7_.a del diritto (De iure, pp. 100-103) - è il primo grande tentativo di superare il dualismo tra le due forme tradizionali in cui, a partire da Aristotele, il sapere si è diviso: la logico-mathematica e l'ermeneutico-retorica. La topologia si colloca sulla medesima linea, e questo superamento cerca di realizzare attraverso una riflessione capace di mettere radicalmente in questione le categorie del tempo e dello spazio14•

14. Sul tema rinvio a miei precedenti lavori, due in particolare: Tm e FC, di quest'ultimo in part. Parte Il sulla "svolta topologico-trascendentale dell'ermeneutica".

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Il tempo della topologia che accoglie in sé tutti i tempi e ogni direzione del tempo s'identifica oon lo spazio. È il tempo che - per riprendere di nuovo Kant - «bleibt und nicht wechselb, (KrV, B 225), perché se anche il tempo cambiasse, allora avremmo bisogno di altro tempo - che non cambia ma sta- per oonoscere e misurare i cambiamenti di quel primo tempo. L'argomentazione kantiana è irrefutabile. Per renderla più immediatamente accessibile possiamo dire così: non c'è tempo senza un ordine stabile che non muta Il tempo della topologia, il tempo che si identifica oon lo spazio, è questo ordine, questo tempo-ordine. Ma l'argomentazione kantiana non termina qui. Insieme con l'affermazione che il tempo non muta ma resta, c'è l'altra che non va sottaciuta. L'affermazione che dice: «die Zeit kann an sich selbst nicht wahrgenommen werden» (B 233). Infatti l'ordine del tempo muta anch'esso col mutare dei fenomeni. Se definisco 1 questo ordine e "X" il fenomeno che scorre in esso, è ben evidente che altro è 'T' quando "X" è nella posizione "A", altro quando è nella posizione " B", "C' ... "N". 1 stesso muterà in "T1", "T2", 13", .. "TN". Ma se il tempo-ordine muta col variare dei fenomeni, com'è più possibile ]"'ordine" senza cui non si dà tempo? Né si elimina la diffiooltà, facendo appello alla monade suprema, dacché Dio, la monade di tutte le monadi, quella che accoglie tutte le prospettive in sé, nonché essere assoluta (ab-soluta, sciolta) dalla relatività delle molteplici monadi, soffre della relatività di tutte. È più mutevole di tutte le monadi. L'ordine, nonché essere garantito, è piuttosto negato. La monade-Dio è la molteplicità pura che nega ogni ordine e stabilità. E che, pertanto, nega la possibilità del movimento stesso. Negare l'uno è negare insieme i molti; negare l'ordine è insieme negare il movimento e il tempo.

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5 «Ma là dove è il pericolo, / cresce anche ciò che salva» 15• Ciò che salva è qui la relazione uno-molti, ordine-movimento. Che non è una relazione estrinseca ai suoi termini, non è un "terzo" - direbbe Hegel -, ma è nei termini stessi che pone in rapporto, anzi è i termini stessi del rapporto. Per riprendere le formule poco sopra impiegate, il tempo-ordine 'T' è sempre "Ti", "T2", "'f3".. . "TN". "Sempre" significa: "Ti", "T2", "'f3" ... "TN" sono prospettive particolari, e perciò limitate, della totalità 'T', la quale è sempre tutta presente in ogni suo momento ("Ti", "T2"... "TN"), quantunque visibile solo da una determinata prospettiva. 'T' non è fiwri di "T1", perché è, ali'opposto, il suo contenuto. Il rapporto Totalità-parti appare, e in certo senso è, qui, invertito: è infatti il particolare e finito ad avere come contenuto la totalità e l'infinito. La particolarità e determinatezza è della prospettiva; l'indeterminata totalità è del contenuto.

Qui si mostra nuovamente la completa corrispondenza di spazio e tempo. Come è possibile capire che un particolare segmento è il lato di un ottagono solo avendo la visione dell'intero poligono, cosl è possibile comprendere un fatto storico solo collocandolo nel suo luogo temporale specifico, resta altrimenti un frammento "tronco e slogato". Ma collocare un fatto storico nel suo luogo temporale implica rapportarlo alla totalità degli altri luoghi. Ora questo rapporto non è qualcosa che s'aggiunga al fatto, ma è proprio del fatto, è il fatto stesso. Il segmento è un lato del poligono, se, e in quanto questo, il poligono entra a costituire l'essere del lato, se, cioè, è il lato stesso. Il medesimo vale per il tempo. Non è comprensibile l'età degli dèi se non in rapporto alle successive degli eroi e degli uomini: queste

15. F. Holderlin, Patmos, w. 3-4, SWll, I, p. 379.

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ultime quindi entrano a costituire l'essere della prima, sono la prima. 1l: per questo motivo che sopra criticavamo lo schiacciamento della storia ideale eterna sull'ultima età. Ogni età, dicevamo e ribadiamo, deve essere una visione sul tutto. E quindi deve avere il tutto - l'intero della storia - a suo contenuto. Chiaramente come il poligono ossetvato da un lato non è il poligono ossetvato dagli altri suoi lati - pur essendo sempre lo stesso poligono - cosi si deve dire della storia ideale eterna osservata da ciascuna delle sue distinte età. Torniamo a Kant. L'affermazione: «il tempo in sé non può essere percepito» - ora ci è chiara. Mai si percepisce la pura vuota 'T', ma sempre 11", "T2", "T3".. . "TN". O, per usare il linguaggio kantiano, «il correlato costante di ogni esisten1.a fenomenica, di ogni cambiamento e di ogni concomitanza» è la sostanza (KrV, A 183, B 226), ciò che non muta nel mutevole. Ma attenzione: ciò che non muta nel mutevole - il sole, che è sempre lo stesso astro all'aurora, a mezzodl, e al tramonto non lo si percepisce che nel mutevole - non v'è altro sole che quello del mattino, del mezzogiorno, del tramonto. Ma, di nuovo, il sole all'aurora è quel sole che è, in quanto non-è il sole del mezzodl e del tramonto, e questo suo non-essere gli altri soli è appunto ciò che lo costituisce, e pertanto quegli altri che esso non-è rientrano nel suo essere, ne fanno parte. Kant esprime tutto ciò nel modo più limpido, quando afferma che, potrà anche apparire paradossale, ma tutto quello che la sostanza è, è in virtù delle relazioni eh'essa intrattiene con le altre sostanze (KrV, A 284-285, B 340-342). Essendo unico l'ordine pur nella molteplicità delle prospettive, unica la sostanza pur nella pluralità delle sue relazioni e dei suoi apparimenti (Erscheinungen), Kant ne conclude che è impossibile il sorgere anche di una sola sostanza nuova Dovremmo ammettere, altrimenti, l'esistenza di più ordini temporali svolgentesi contemporaneamente: «welches ungereimt isb>, il che è assurdo - afferma lapidariamente (KrV, A 188-189, B 231-232).

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La conclusione di Kant è quella stessa che l'episteme occidentale ha tratto sin dall'inizio della sua costituzione, e che qui vogliamo ricordare nella lingua del suo autore sommo: tautà aei, «sempre le stesse cose» (Met, XII, 1072a 8). E questo ci fa intendere che il «DOVETTE, DEVE, DOVRÀ» della storia ideale eterna non è qualcosa che possiamo elidere dalla Scienza Nuova. È il suo programma, il suo intento, la sua ragione. Solo che.. . Solo che la ragione epistemica non è l'unica componente della filosofia vichiana.

6 Il limite della Dipintura allegorica - s'è detto - sta in ciò, che schiaccia l'intera storia ideale eterna sulla prospettiva dell'ultima sua età. Questo limite non può esser superato formando vari quadri, ciascuno con la scena propria dell'età che doveva rappresentare. Alla serie dei singoli quadri - nella nostra esemplificazione: a "Tt, "T2"... "TN" -sarebbe comunque mancato l'elemento essenziale: il movimento dall'una ali'altra scena. Da dove descrivere, da quale prospettiva disegnare questo movimento di passaggio? Non certo da una delle scene, perché in ciascuna d'esse si ha la visione delle altre solo dalla propria prospettiva. E se la "mente pura", la ragione, non è in grado di "immaginare", potendo "appena intendere" -come Vico stesso afferma in tutte e tre le edizioni della Scienza Nuova - il mondo degli dèi, a maggior ragione sarà incapace di pensare-dire il passaggio dall'uno all'altro mondo, dall'una all'altra età. Posto pure, come si è ipotizzato, che ogni prospettiva è un punto di vista particolare sul tutto, vero è che ciascuna è un mondo a sé. Ed è proprio per spiegare il passaggio dall'una ali'altra prospettiva, e cioè la loro possibilità di comunicare, che Leibniz doveva porre oltre le infinite monadi create, finite e relative, la monade increata, infinita, assoluta. Ma questa monade è dav-

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vero assoluta solo se non è pensata come lo specchio in cui tutte le monadi si rispecchiano, perché in tal modo anch'essa è ridotta a schema: è parte, non totalità... In che modo, allora, va pensata16? Siamo giunti al punto decisivo, che riguarda non Vico, né Leibniz soltanto, ma l'intera tradizione epistemica occidentale. Che riguarda la costituzione stessa della '1ogica" e la sua differenza dal linguaggio.

7 Che la logica sia nata dal linguaggio, che sia una forma di linguaggio, non deve essere neppure ricordato, la sua stessa terminologia -categoria, predicato, giudizio, sillogismo ... -ce lo rammenta. Ma che forma di linguaggio è la logica, e com'è che la diciamo nata dal linguaggio? Per entrare nel problema ricorriamo a due esempi, recente l'uno, antico l'altro. Rappresentano due diversi livelli problematici della questione che andiamo trattando. Il primo, ironico sino a sembrare scanzonato, ma invero molto profondo, è tratto da Evaristo Carriego di Borges: due barattieri [ ... ) nel mez:zo della sconfinata pianura russa si salutarono: «Dove vai, Daniel?» disse uno. «A Sebastopoli» disse l'altro. Allora Moshe Io guardò 6sso e poi esclamò: «Tu menti, Daniel. Mi rispondi che vni a Sebastopoli perché io pensi che tu vai a Niznij-Novgorod, ma la verità è che tu vai dawero a Sebastopoli. Tu menti Daniel!». (TO, I, pp. 245-246)

16. Su questa aporia della monadologia leibniziana cfr. V. Vitiello, CsR, Parte I, cap. I, § 7.

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L'esempio mostra non solo la differenza tra il contenuto del dire, il significato, e l'intenzione che lo regge, sì anche la dipendenza del significato dall'intenzione. Le stesse parole, meglio: lo stesso significato può essere vero e falso, a seconda dell'intenzione del parlante. L'intenzione del parlante - s'è detto. Ma questa non è sempre decisiva. Talora l'intenzione può essere esattamente la stessa del significato, e tuttavia il senso del discorso esser completamente altro. Prendiamo ad esempio l'Edipo re di Sofocle. Qui le parole di Edipo hanno contemporaneamente significati opposti: quello che lui dice, infatti, gli si rivolgerà contro17• Il che attesta che il "senson del significato non dipende solo, e non dipende tanto, dall'intenzione, ma da una matrice nascosta del linguaggio. Per sottrarre la "logica" alla polisemia del linguaggio Aristotele opera un taglio: separa il significato da ogni determinazione ad esso estranea. Fa del significato un tutto a sé stante. E così lo fissa. Di esso si potrà parlare d'ora innanzi come qualcosa che è quello che è e non l'opposto: tertium non datur. Di qui la grande forza della logica, sul suo terreno irrefutabile; insieme la sua grande debolez:,.a, perché è sempre confutata e respinta dalla vita, dalla realtà. Aristotele stesso nel tentativo di spiegare il movimento non può non riammettere quel che aveva respinto: la validità della contraddizione 18• E non a caso Heidegger, quando fariferimento ali'essere come Geschehen, come accadere, precisa che questo non va pensato con le categorie aristoteliche (cfr.

17. Sul tema cfr. J.-P. Vemant-P. Vidal-Naquet, CEM. 18. Si consideri la defìni:àone del movimento che Aristotele dà in Phys, lii, 1, 201a 10-11: «l'atto [entelécheia) dell'ente in potenza [dyndmei), in quanto tale (cioè: in quanto in potenza)». Ma, se l'attoesclude da séi contrari (essere e non-=sere), laddove la potenza li include (Met, IV, 1007b 26-29, e 1009a 34-36, e passim), allora il movimento (k(nesis) comprende in sé contraddi:àone e non~ntraddi:àone. A commento si può ben ripetere l'espressione hegeliana: die Verbindungder Verbindung und der Nichtverbindung.

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BPh, § 157, p. 280; it., p. 281). Ma la cosa più importante è

quella che fa presente Hegel, là dove parla del linguaggio della filosolìa nel quale forma e contenuto sono in contrasto, dacché lo "speculativo", e cioè il movimento del pensare, è irriducibile alla lìssità della forma1°.

8 È qui che il genio di Vico si mostra in tutta la sua poten1.a. Dopo aver esteso la mathesis 1.miversalis alla storia, alla politica, alla morale, portando a termine un lavoro iniziato già da Grozio nella sfera del diritto; dopo aver ampliato l'ambito "schematico" del sapere tradizionale, portandovi dentro quanto la stessa tradizione aristotelica lasciava fuori - la retorica, la storia, la poesia, in breve tutto ciò che vichianamente si denomina "lìlologia" -, Vico si rende conto del limite dell'episteme, del linguaggio "logico", del linguaggio ridotto a puro "signilìcato". È in questa otticache va letta la su citata Nota 33 al De constantia iurisprudentis relativa alla separazione di lìlosolìa e lìlologia, di parole e cose, operata dalla ragione riflessa. La "cosa", a cui Vico qui si riferisce, non è la cosa già distinta dalla parola, la cosa che è altro dall'occhio che l'osserva, dalla mano che l'usa, dai sensi che la percepiscono; è bensì tò pragma, la cosa che è "suono e schema", nel linguaggio di Platone, la "parola reale" o "geroglilìco", nel linguaggio di Vico 00 • È la "cosa" che è la parola stessa, suono e gesto insieme: il "parlare scrivendo" della voce che non accompagna ma fa tutt'uno col movimento del corpo, col gesto. La lingua eroica delle cerimonie e delle

19. Cfr. G.W.F. Hegel, PhaG, VOtTede, pp. 48-5.5; it, I, pp. 48-5.5. Sul tema rinvio a V. Vitiello, Hl, Parte I, Se-,:. 11, cap. lii: ui proposwone speculatioa: il linguaggio dellajilosofia,pp. 169-180. 20. Cfr. Platone, Cratilo, 423d; G. Vico, SN44, Degnità LVII-LX, pp. 875, e pp. 943-963 e passim.

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anni. Lingua sempre particolare e determinata, anzi singolare, nella quale ogni parola è "unica", quella e non altra- come il grido dell'atleta che solleva il peso, l'urlo del guerriero che lancia l'arma, il lamento del sacerdote che solleva la vittima sull'ara. Queste voci sono "segnate" dai gesti che nascono originariamente con esse, e del pari i gesti dalle loro voci: talché la voce "rammenta" il gesto, anche quando questo non si vede, e il gesto la voce, quand'essa non s'ode. Questa "memoria" naturale, non intenzionale, è ali'origine della separazione di parole e cose, da cui dipende la successiva tra fìlosofìa e fìlologia. Ma nella parola separata dalla cosa, nella phoné che conserva memoria dello schema, ma che non è però più essa medesima "schema", e cioè gesto, scrittura del corpo, "parola reale", un elemento viene meno - necessariamente. Quell'elemento che Platone nomina come teno, il chroma, che - dice sempre Platone - non è di tutte le cose, ma solo di alcune. Chroma, il colore: il rosso delle passioni forti, e pur della violenza, il colore che «inquieta e infuria le bestie»; il giallo sereno e gaio della calda intimità; il freddo e triste azzurro; l'appagante verdc#1••• Questi colori dell'anima la parola separata dalla cosa, la pura phoné, non conserva. Se è stata separata dalla cosa, è proprio perché non ne conservi traccia. Il significato "puro" è tale proprio perché purificato dalla passione, dal "colore", dal profondo sentire. Che non è solo l'umano sentire. Nel "colore" della parola non v'è solo la passione dell'uomo. V'è dell'altro: la traccia di una passione più antica e originaria, archaica: di un sentire non più solo animale e non ancora umano, di quei Terme filii che, uscendo dall'ingens syfoa, divengono uomini, Polifemi ancora, e pur "pii". Nel "colore" della parola è la traccia dell'originaria ek-sistenza del tempo: dell'emergere dell'ordine del tempo dal Caos della Notte pri21. Cfr. J.W. Goethe, FL, in part. Se-~. VI: Azione sensibile e morale del colore, p. 193.

36 migenia, dal platonico a{dion, l'infigurabile Uno che resta en en{, l'immoltiplicabile Uno che si sottrae a ogni "idea", "forma", "schema", "ordine'>22 - ma da cui (che non significa per cui) ogni "idea", "forma", "schema", "ordine" ek-siste, vien alla luce. Nel non schematiz7-abile colore della parola, nella "passione" originaria che la parola-gesto, la parola-corpo, la "parola reale" o "geroglifico sonoro", custodisce, è presente in lontananza ciò che sempre si assenta: l'eterno più antico del Cielo e del Tempo; l'eterno che è "prima" dell'aionica figura che è tutte le figure; l'a{dion che è "prima" dell'ordine, "prima" dello spazio, "prima" della "sostanza" che pure si mostra solo nei fenomeni, nelle Erscheinungen. Nel "colore" della parola l'uomo "sente" l'ek-sistenza del tempo, e insieme "patisce" l'indicibile, il noumenon: l'ou-wpico della topologia trascendentale.

9 Il noumenon: ciò di cui - rileva Kant- «s'ignora se sia in noi o anche fuori di noi». E a ulteriore chiarimento: ciò che si sottrae a ogni rappresenta:zione, come sensibile così intellettiva (KrV, A 288-289, B 344-345). Ciò che contraddice ogni "significato", in quanto assoluto altro, altro anche di se medesimo: altro dell'altro. Come altro, così medesimo. Di questo altro, che è altro anche dall'altro, nulla è possibile dire, se non negativamente; nulla, se non che esso fissa i limiti della sensibilità e dell'intelletto. È il grande risultato della Critica kantiana, la definizione del limite del giudizio dall'interno del giudizio, della logica dall'interno della logica, dell'episteme dall'interno dell'episteme. È la smentita aoont la lettre della tesi hegeliana che conoscere il limite è varcarlo. Ma, giunti a 22. Cfr. Platone, Timeo, 37c-38b, e Parmenide 137o-142a.

37 questo limite, è legittimo chiedersi: i limiti della '1ogica" sono i limiti del linguaggio tout court, o non v'è un linguaggio che eccede il dire proprio dell'episteme? Se per rispondere a questa domanda ci volgiamo di nuovo a Vico, è perché Vico ancora una volta ha molto da insegnarci. E non tanto per il contenuto del suo dire, ma per il suo gesto filosofico-linguistico. Quando parla dell'uscita dei Terraefilii dall'ingens syloo, e cioè della nascita della storia, e dell'ordine che regge la storia, Vico si richiama al Dio biblico, che anche dopo il peccato di Adamo non ha privato la lapsa natura umana dei semi della verità (cfr. De uno, cap. XXXIV, p. 53). Per questi "semi" il tuono di Giove incute con la paura il pudore nei primi "pii" Polifemi, e così nascono le famiglie, poi le città, le repubbliche e infine le monarchie. Come abbiamo detto, osservando la Dipintura, il Dio di Vico è insieme il Dio della Bibbia e il Diomathematico, il principio che tiene insieme l'apparato categoriale della mathesis universalis, il principio primo della logica, dell'episteme. Ciò che regge ogni significato e ogni schema, e che è già, egli stesso "significato" e "schema". Ma quando Vico deve spiegare in concreto com'è avvenuta l'uscita dall'ingens sylva, allora, mette da parte il significato logico, consapevole che se con questo neppure possiamo avvicinarci alla mentalità dei primi bestioni, che al più possiamo "immaginare", ma certo non "intendere", tantomeno possiamo intravvedere, e neppure per '1umi sparsi", la nascita della logica, dell'ordine, della storia ideale eterna. Vico ricorre al mito di Ercole, e ci racconta la "fabula" della lotta con il leone nemeo. Ascoltiamola direttamente dalla sua voce: NELLA FASCIA DEL ZODIACO, CHE CINGE IL GLOBO MONDANO, PIÙ, CHE CLI ALTRI, COMPARISCONO IN MAESTÀ o, come dicono, IN PROSPETTIVA I SOLI DUE SEGNI DI LIONE, E DI VERGINE; per significare

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che questa Scienza ne' suoi Principj contempla primieramente Ercole; poichè si truova, ogni nazione gentile antica narrarne uno, che la fondò; e '} contempla dalla maggwrsua f atiga, che fu quella, con la qual' uccise il Lùme, il quale, vomitando fiamme, incendiò la Selva Nemea; della cui spoglia adorno Ercole fu innal7.ato alle Stelle; il qual Lùme qui si truova essere stata la gran Selva Antica della Terra; a cui Ercole, ti quale si truova essere stato il carattere il malore; che nè dentro acconsentino ad un Monarca natio; nè vengano nazioni migliori a conquistargli, e conservargli da fuori; allora la Proooedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che, poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare, ch'alle particolari propie utilità di ciascuno; & avevano dato nell'ultimo della dùicatezza, o per me' dir, dell'orgoglio, ch'a guisa di fiere nell'essere disgustate d'un pelo, si risentono, e s'infieriscono, e sì nella loro maggiore celebrità, o folla de' corpi, vissero, come bestie immani, in una somma solitudine d'animi, e di voleri; non potendovi appena due convenire, seguendo ognlun de' due il suopropiopiacere, ocapna;w: per tutto ciò con ostinatissime fazioni, e disperate guerre civili vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d'uomini; e 'n cotal guisa dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi; che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione, che non era stata la prima barbarie del senso: perchè quella scuopriva una fierezza generosa; dalla quale altri poteva difendersi, o campare, o guardarsi: ma questa con unafierezza vile dentro le lusinghe, e gli abbracci insidia alla vita, e alle fortune de" suoi confidenti, ed amici. Perciò popoli di sì fotta riflessiva malizia con tal' ultimo rimedio, ch'adopera laProooedenza, così storditi e stupidi non sentano più agi, diltcatezze, piaceri, e fasto, ma solamente le

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nece.ssarie utilità della cita: e nel pocc numero degli uomini al 6n limasti, e nella copia tklle cose necessaJie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e per la Jitomata plimiera semplicità del plimo Mondo de' popoli, sieno religwsi, veraci, e fidi; e cosl Jitorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia, e sono grazie, e bellezze dell'ordine Eterno dJ Dio. (SN44, pp. 1260-1261)

Dietro la descrizione di questo ricorso "felice" non vi sono i

falsi circuli pagani, condannati da Agostino; c'è un forte sentimento morale, consapevole che non si può far fronte al malum mundi, alla possibilità della fine non della civiltà, ma della storia, dell'uomo - possibilità che è nella "materia" stessa dell'uomo e del tempo dell'uomo, la storia -, se non dando forma e figura a quella materia che non ha forma e figura. E donde prende, può prendere, l'umanità storica le forme e le figure, per dare un volto a ciò che la minaccia? donde, se non dal suo passato, da quel passato che già vinse le tenebre dell'ingens syloo? Si rivela qui la funzione della "storia ideale eterna": medio necessario all'uomo - e specie all'uomo di ingentilita natura per contrastare, proiettando nel futuro l'immagine del passato, l'ingens syloo, che sempre prospera in noi stessi e nel mondo. Torna qui utile riprendere il confronto con Hegel. Ma con altro Hegel: non l'"ontologo" della storia, ma il fenomenologo dello spirito, che proprio là dove maggiormente ne esalta l'assoluteZ7.a, più fortemente awerte la potenza che lo insidia: die lichtscheue Macht ,la poten7.a che ha in orrore la luce. Poten7.a non estranea ali'autocoscien7.a spirituale, anzi intimior intimo suo, e perciò nascosta, inconscia - ed estremamente pericolosa. Entrambi, Vico e Hegel, hanno Ii-conosciuto il carattere tragico della storia umana, l'irriducibile legame dell'umano all'umbratile Terra, che insieme ti condanna e ti salva. Ma hanno affrontano la sfida dell'"ombra" in modo opposto: Hegel opponendo potenza a potenza, Vico ritraendosi, riconoscendo il limite, accettandolo.

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Le parole finali della Scienza ntWOO - «In somma, da tutto ciò che si è in quest'Opera ragionato, è finalmente da conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente secolo Studio della Pietà; e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio» - provano che nel profondo, nel più profondo, la funzione della storia ideale eterna non è logica né ontologica, ma morale.

È la risposta, la risposta ultima di Vico all'apocalittica della storia: domani potrebbe non esserci domani. Ho kairòs sunestalménos estin.

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III Parlare scrivendo, cantando Con Vico e Nietzsche: alla radice del linguaggio

Ermogene: Ma allora, Socrate, che tipo di imitazione sarebbe il nome? Socrate: Prima di tutto, come pare a me, non quando imitiamo le cosecosl come le imitiamo con la musica, sebbene anche in questo caso le imitiamo con il suono, e poi non quando imitiamo quelle cose che imita anche la musica, noi le denominiamo. Oleo questo: le cose hanno suono (plwnè) e figura [schéma) e molte anche colore [chroma]? (Platone, Cmtilo, 423c-d) Seguitarono a formarsi le voci umane con I' Inte,jezioni; che sono voci articolate ali'empito di passioni violente, che 'n tutte le lingue son rrwnosillabe. Onde non è fuori del verisimile che, da' primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la mamvlglia, nascesse la prima Inte,jezione da quella di Giove, formata con la voce, pa, e che poi restò raddoppiata pope; interjezione di maraviglla, onde poi nacque a Giove il titolo di Padre degli uomini, e 1,5). E ora "leggiamola" questa Dipintura, alla cui "spiegazione" Vico destinò, nell'ultima stesura, ben trentasei pagine. Vera, real,e "Idea dell'Opera", com'egli la definì, chiudendo l'Introduzione1 1: insieme immagine e pensiero, pensiero in immagine, efdcs necessario per rappresentare ciò che la voce può dire solo "dividendo", nel prima e nel poi del tempo, l'unità dei due "movimenti": dall'alto al basso, da Dio all'uomo, l'uno, e da] basso all'alto, dall'uomo a Dio, l'altro. Una "geometria" non detta, ma scritta, regge la Dipintura: i due raggi che uniscono l'astro divino e la statua dell'uomo s'incontrano nella Vergine dal capo alato, segnando un triangolo virtuoso, che "ripete"

ll. «E alla fìnfìne per restrignerel' Idea dell'Opera in una somma brievissima, TUTIA LA FIGURA rappresenta gli tre Mondiseoondo l'omine, ool quale le menti umane della Gentilità da Terra si sono al Cielo levate» (SN44, p. 815).

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nell'esteriorità della creazione il triangolo perfetto racchiuso nel cerclùo solare. Una geometria «con tanto più di realità, quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, lineee, superficie, e figure» 12• È la geometria della storia, la mathesis universalis della storia, che "opera" ben prima che le dottrine dei filosofi giungano a concepirla13• Il riflettersi del raggio divino dal gioiello concavo della Vergine che mira il sole, sulla statua di Omero, indica che il sapere degli "addottrinati" non è "primo"; all'inizio è il sapere dei "poeti". E non dei poeti di sapien7.a riposta, fantasticati da Platone, ma dei poeti creatori del linguaggio, del linguaggio umano - sorto non in Paradiso, ma nelle selve. Dall'urlo animale.

2 Non dalla creazione inizia la "narrazione" di Vico, e non da Adamo e dalla cacciata dall'Eden. Il suo inizio è più tardo. Più tardo ancora del primo delitto dell'uomo contro l'uomo, del fratello contro il fratello. La "storia" narrata da Vico comincia più "in basso", neppure dall'uomo, ma dai figli della Terra: Gegeneis che si aggirano nella selva selvaggia del post-diluvio, in cerca di cibo e acqua, e di quant'altro serve a soddisfare i loro istinti ferini. Non hanno più nulla dell'Adamo creato da Dio a sua immagine, non le fattezze del corpo, né la parola, la voce significante. Il diluvio ha cancellato nei figli di Noè ogni traccia del "passato" che è alle spalle del tempo. Il "cristiano" Vico - che pur s'appella alla sapien7.a dell'antico Egitto -, per

12. SN44, p. 904. Chiaro il riferimento a Spino-.t.a, Ethi.ca, Parte 111, Praefa&, pp.232-237. 13. •I...Ji primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già da quando i Filosofi cominciaron' a riRettere sopra !'umane Idee» (SN44, p. 903).

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aver allontanato in un inenarrabile "ieri" il racconto che precede il diluvio 14, l'unico diluvio ch'egli conosce, meriterebbe, più ancora di Solone, il giudizio del vecchio sacerdote egizio ricordato da Platone (cfr. Timeo, 21e-23d). La storia dell'uomo nella narrazione vichiana inizia, infatti, con Zoroaste, cent'anni dopo il diluvio universale 15• Vero è che l'intento primario di Vico è "spiegare" la nascita dell'uomo storico. E questo intento non si realizza risalendo indietro nel tempo, ché proprio il tempo è in questione. Il tempo storico, il tempo dell'uomo. Donde, allora, iniziare? Dal linguaggio - come, s'è visto, farà Benjamin due secoli dopo Vico. Ma con una grande differenza: Vico non segue il testo sacro, non apre la Bibbia; Vico legge Platone. E con Platone spiega anche la Bibbia. Il linguaggio della Bibbia. I Mutcli si spiegano per atti, o corpi, c'hanno naturali rapporti all'idee ch'essi vogliono significare. Questa Degnità è 'I Principio de' geroglifici, oo' quali si truovano aver parlate tutte le Nazioni nella loro prima barbarie. (SN44, Degnità LVII, p. 875)

Con "mutoli" Vico non intende quelli che non hanno voce (come pur s'è sostenuto, falsificando il suo pensiero16), se tutte le nazioni, come abbiamo or letto, nella prima barbarie hanno parlato con "geroglifici" - parlato e non solo "scritto" gesticolando! "Mutoli" sono coloro che, non articolando la voce, accompagnano i loro gesti con voci monosillabe: come appunto i nati dalla Tena. La separazione di voce e gesto è molto più tarda, e avviene senza intenzione alcuna quando la voce

14. Cfr. SN44, Degnità XXIII-XXVII,pp. 865-867. Delle due storie, la Sagra degli Ebrei e l'umana dei Gentili, Vico narra solo questa. 15. Cfr. SN44, Tavola Cronologica, pp. 816-817. 16. Sultema cfr.supra, A, III, ealtresl V. Vitiello, SLN, in particolarecap. III, nota 41, pp. 64-65, e Lumi, pp. 63-11.

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da pura espressione si muta in strumento di comunicazione. In questo mutamento è all'opera la Provvedell7.a, che spinge la bestia vagante nell'umida selva, cui era ridotta la terra che usciva dal diluvio, a "farsi" uomo. Dio opera in latell7.a "dal basso", nell'unico luogo ove può mostrarsi ai figli della Terra, servendosi, per farsi "intendere", dei mezzi che la Terra stessa gli fornisce: il fulmine, che squarcia l'ombra della Notte, il tuono che fa tremare la terra17• Il teno elemento - la passione - è del figlio della Terra: ora che, levando in alto gli occhi, avverte - aooerte, e non più solo vede (cfr. SN44, p. 918, ed altresì Degnità LIII, pp. 873-874) - il Cielo, e trema al tremare della Terra. Ora che da bestia è divenuto uomo.

Phbnè kaì sc"hema, kaì chroma - suono, immagine, colore, ovvero: passione 18 -: i tre elementi costitutivi delle cose, secondo Platone (cfr. Cratilo, 423d-e). Cose, non oggetti, e cioè: non sostanze, ousfai, ma pragmata: opere, azioni in cui si continua la mano, il braccio, il corpo dell'uomo. Operazioni, in cui s'esprime il legame uomo-mondo. "Antropomorfismo"? Certo, dacché il nuovo nato, l'uomo, interpreta a partire da sé, dalla propria voce e dal proprio gesto, il tuono e il fulmine come linguaggio di Zeus. E, con pari certeZ7.a, non "antropocentrismo", perché i monosillabi umani non si distinguono in nulla dalle voci animali, e se son detti "geroglifici" - segni sacri - non son tali per l'uomo, ma per la Provveden7.a che opera nell'operare umano; né esprimono essi altra "forma" che quella della lingua umana. Gli stessi nomi di Zeus e di Giove si originano per 17. •I... ) in tale stato d'Uomini tutti robuste forze di corpo, che urlando, brontolando spiegavano le loroviolenti.ssime passiorù; si finsero il Cielo esser' un gran Corpo animato, che per tal' aspetto chiamarono GIOVE, il primo Dio delle Genti dette Maggiori; che col.fischio de' fulmini, e colfragore de' tuoni vole.sse dir Imo qualche cosa,. (SN44, p. 918). 18. Sul nesso "colore-passione" cfr. supra, A, III,§ 7, e nota 4.

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imitazione delle percezioni sonore dell'uomo 10• Il linguaggio umano resta legato alla Terra, la sua voce non ha altra estensione che quella terrena; la Provvedenza che opera in lui, è a lui ignota. Come inconsci, irùntenzionali sono i suoi "passaggi" da una forma all'altra di linguaggio, da un'età all'altra della sua storia.

3 Non solo la paura di Giove tonante e fulminante condusse i bestioni a trovare protezione nelle caverne, sì anche, e non meno, il pudore (aidos'f>. Cessò l'uso della Venere nefanda, "a cielo aperto", sotto gli occhi degli dèi. Portate le loro femmine nelle caverne, i bestioni dettero vita alle prime famiglie; nacquero, di seguito, le prime tribù. Nacque: l'umanità. In questa "storia", fondamentale fu la funzione del linguaggio. Le prime voci umane, i "monosillabi", "parole reali" in quanto costituite di suono e gesto, resero possibile la prima comunicazione a distanza: non era necessario vedere l'azione, la voce "ricordava" la cosa - il gesto - a cui era "naturalmente" unita. Portiamo ad esempio l'episodio di Polifemo, che, accecato da Ulisse e dai suoi compagni, urla per il dolore. I Gegeneis delle vicine caverne gli chiedono chi gli ha recato danno. "Nessuno" - risponde la bestia ferita. Allontanando così quelli che potevano aiutarlo. Esempio prezioso, perché illumina insieme l'aspetto positivo della voce - la sua maggiore estensione comunicativa rispetto alla vista - . e il negativo: l'errore causato

19. «li padre e re degli dèi e degli uomini, per onomatopea dal fragore del tuono, a' latini detto "Jous• , comeZeuç a' greci dal fischio del fulmine» (SN25, p. 254); in SN44 è dettoinveoe che il nome "lous• "Prima d 'ogni altro dovette significare il grascia delle vUtime dovuto a G1ooe,. (p. 977; cfr. anche p. 947 per il congiunto riferimento a jus, diritto). 20. Cfr. Platone, Protagora, 122c-d.

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da quello stesso che amplia la comunicabilità, la divisione della voce dal gesto. L'evoluzionepolitica del linguaggio -dai segni "muti" agli "articolati"-, legata alla formazione delle eo100nità21 , mette in luce il carattere doppio della storia umana, dacché a ogni avanzamento s'accompagna un maggior rischio di arretramento. È la comunicazione ali'origine dell'errore, non l'espressione, che, come la sensazione, è al di qua del vero e del falso. Pertanto, essendo la comunicazione legata alla prassi, è la prassi ali'origine dell'errore. E della verità - che, come l'errore, non è senza il suo opposto.

4 La funzione del linguaggio non s'arresta al rapporto con la p6lis, invero tutto l'ordine della storia è da Vico modellato sull'evoluzione delle forme linguistiche. Le tre età, degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini, sono un gran rottame deU'Egiziache Antichità (cfr. SN44, Degnità XXVIII, p. 867) molto più nell'immaginazione storicizzante di Vico, quella stessa che gli ha dettato la «Tavola Cronologica»22, che non un concetto operativo nell'elaborazione della Scienza Nuova, come appare chiaro nel Libro IV, nel quale la descrizione del Corso che fanno le Nazioni, ritmata sulla sequenza di "tre spezie" - di nature, costumi, diritti naturali e governi; di lingue e caratteri; di giurisprudenze, ragioni e giudizi; e di tempi, infine -, conclude con un Corollario che merita d'esser citato per esteso:

21. Cfr.supro, B, I. 22. Dal diluvio universale, anni del mondo 16.56, alla Il guerra cartaginese «da cui comincia la Storia certa romana,,, anni del mondo 3849, anni di Roma 552 (cfr. SN44, pp.816-823).

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Il Diritto Romano Antico fu un serioso Poema; e l'Antica Giurispruden7.a fu una severa Poesia; dentro la quale si truovano t primi dil"OZ7.amentl della Legai Metafisica; e come a' Greci dalle Leggi uscl la Filosofia. (SN44, p.1220)

Chiaro, il linguaggio in Vico comprende l'intero mondo umano, che è linguistico nella sua essem:a. Il mondo umano - s'è detto - e solo umano. Il suo oriz:wnte non soltanto non supera mai questo limite, ma anzi all'interno stesso del suo orizzonte il linguaggio umano è consapevole d'essere estraneo a una parte di sé, dacché la lingua "pistolare", la lingua della più diffusa comunicabilità, può a stento "intendere" la lingua della prima età, ma certo non immaginare com'essa immaginavat-3. La lingua della Scienza nuova dice, dunque, di ciò che non può dire, se non "alterando". Parla di immagini ch'essa non immagina. Ma cosa resta del linguaggio di quegli uomini, appena usciti dall'ingens sylva della prima barbarie, tutti corpo e senso, e nullo raziocinio, una volta tolta l'immagine, lo schema? Come chiedersi: cosa resta della voce, una volta tolto il suono? Eppure tra le pagine più intense, e, non solo letterariamente, "belle~, della Scienza Nuova, vi sono proprio quelle in cui Vico parla della prima età, l'età degli Dèi, del mondo omerico, e della successiva, l'età degli Eroi - la distinzione tra le due non è netta 25 -, e questo non può non farci pensare. Evidentemente il

23. «Onde intendere appena si può, affatto immaginar non si può, come dovessero pensare i primi uomini delle ra:a.e empie in tale stato, che non avevano già innanzi udita mai voce umana, e quanto grossolanamente gli formassero e con quanta sconce-o.a unissero i loro pensieri» (SN25, p. 69; cfr. SN30, pp. 486 e 635, SN44, pp. 899 e 1099). 24. Nel significato platonico di ekphané.staton (cfr. Fedro, 250d): il più manifesto, in quanto è ciò che mostra, che fa vedere.e in questo senso "vero". 25. «La Faoell4 Poetica [... ) scorse per cos'I lungo tratto dentro il Tempo !storico, come i grandi rapidi Fiumi si sporgono molto dentro il mare, e serbano dolci )'acque portatevi con la violenza del corso» (SN44, p. 936).

144 linguaggio della Scienza Nuova si sottrae al destino della lingua, non essendo essa, che pure è "pistolare" -lingua "scritta" della ragione riflessa-, priva di "immaginazione". E invero la cosa bal7..a agli occhi sin nelle prime pagine dell'Introduzione, dove Vico spiega il sorgere delle prime comunità umane ricorrendo al mito. Alla gran fatiga di Ercole che uccide il leone nemeo che rappresenta l'ingenssylva -con la suastessa arma, il fuoco. Il semidio e la fiera feroce si scambiano le parti: quasi la terra selvatica si portasse a cultura da sé 26• Ma è nella descrizione del primo sorgere del diritto che Vico, con i suoi illuminanti ossimori - l'empia pietà del costume eroico (cfr. SN44, p. 992)-mostra il vero linguaggio della Scienza Nuova: il mitho'logetn, l'unione, non la congiunzione, di mythos e légos, tale che il racconto, narrando, riflette, e la riflessione, riflettendo, narra. Un esempio, che non cessa di destare ammirata meraviglia, è dato in quelle pagine della prima Scienza Nuova, ove Vico nel mentre riflette sulla lotta tra patrizi e plebei nell'antica Roma, avendo sotto gli occhi i libri di Tito Livio, nomina Orfeo, al plurale: con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che finora hanno ingombrato la storia favolosa de' greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore deglidèi adclimesticato le fiere e riduttele nelle città (SN25, pp. 86-87; corsivo mio).

La poesia del mito addolcisce la "violenz.a" del diritto al suo sorgere. Nell'empia pietà dei legislatori delle prime p6leis «Ius optimus, ius fortissimus» (De uno, p. 125) - è da vedere l'operare nascosto della provvedenz.a. Ché nell'agire degli uomini v'è più di quanto è nella loro "coscienz.a": «aetemi veri semina in homine corrupto non prorsus extincta, quae, gratia 26. Cfr. SN44, p. 786. Sulla "dopple-aa" delle figure del mito la letteratura è sterminata; mi limito qui a citare di Paula Philippson OFM, per la "vicinanza" al nostro "esempio" di alcune sue pagine, in particolare del cap. Zeus Pose/mm.

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Dei adiuta, conantur contra naturae corruptionem» (De uno, p. 53). Il linguaggio della poesia, che è il linguaggio delle prime età, dell'eroica in particolare, narra la storia di quell'età in un narrare che è più storia "agita" (res gestae) che non "pensata", che non historia rerum gestarum. Naturale viene qui accostare la virtù eroica descritta da Vico all'etica hegeliana, che, pur manifestandosi compiutamente soltanto alla fine, opera tuttavia sin dall'inizio, sin nel diritto astratto. Naturale e criticamente fondato, questo confronto, se si considera la radice "paolina" della religione comune a Vico e Hegel 27 •

III Guai! Guai! Guai a coloro che danno pietre invece di pane! (S. LagerlB( Jerusalem, p. 124) ... se i popoli marciscano in quell'ultinw civil malore ... (SN44, p. 1260)

1 Perché questo "parallelo" tra la concezione vichiana del diritto delle prime età della storia - l'empia pietas degli Eroi - e l'etica hegeliana? Perché l'opposizione radicale di Benjamin a Hegel coinvolge anche Vico. Per Benjamin il diritto è violenza e solo violenza: un frammento della preistoria, che l'uomo storico ha custodito2B, valendosene e perfezionandolo. Lo Stato, infatti,

21. Cfr. Gal 3,24-2.5. Sul tema cfr. V. Vìtiello, PE. 28. «[... ] l'ordine del diritto[ ... ] è solo un residuo dello stadio demonico dell'esisteM>i degli uomini, i cui statuti giuridici non regolavano solo le loro

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non solo esercita la violenza, ma la sua maggior cura sta nel difendere -con la violenza - il suo esclusivo diritto alla violenza. Diritto e violenza sono sorti insieme e insieme procedono29. Questa tesi è perfettamente in linea con la teologia del linguaggio sovraesposta. Il peccato originale della lingua è il giudizio (Ur-teil): l'estraneazione, per sovradenominazione, della parola dalla cosa La parola si pone sopra la "cosa", estranea ali'azione che giudica e condanna. La congiunzione non esprime un legame tra due - possibile o necessario che sia-. indica un'identità: «Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa». Quindi «non è l'uomo ad avere un destino [ ... ], il soggetto del destino è indeterminabile. Il giudice può vedere destino dove vuole». Non ha senso pertanto parlare, nell'esecuzione della pena, di un ristabilimento dell'ordine etico del mondo (sittli-

che Weltordnung) 30• Questo spiega la decisa asserzione del Frammento teolcgicopolitico: «l'ordine del profano non può essere costruito sul pensiero del regno di Dio». E tuttavia, l'ordine profano, proprio in quanto opposto all'ordine "messianico", può «favorire l'av-

relazioni, ma anche il loro rapporto con gli dèi, [che] si è conservato oltre ("epoca che ha inauguratola vittoria sui demoni,. (Y,/. Benjamin, SCh, p . 174; il, p. 120). In merito cfr. l'aspra critica di B. de Giovanni: «un'intera civiltà giuridica cade[ ... ]. li De univenijuris uno principio et fine uno come rappresentazione del divenire della coscienza europea vain archivio» (KS, p. 24). Sul tema cfr. il mio intervento Da Kelsen e Schmitt a Benjamin e Vico e la replica di de Giovanni, Risposta a Vincenzo Vitiello, in «li Pensiero», LVII, n. 1, 2018, rispettivamente pp. 157-162 e 163-168. 29. Cfr. W. Benjamin, KG, pp. 179-203; it., pp. 133-156. S'aggiunga che violento è anche il rapporto di Dio con l'uomo, ancorché di diversa violen:,.a: la violen:,.a giuridica, "mitica~ «esige sacrifici•; la violen:,.a divina «li accetta,, (ivi, p. 200; it., p. 153). Sul tema rinvio a V. Vitiello, Lo tir':,.ach. La sacralità della oita nel mondo contemporaneo, in ET, pp. 113-127. 30. Cfr. G.W.F. Hegel, RPh, §§ 97-103, spec. § 100, e W. Benjamin, SCh, p. 175;it., pp.120-121.

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vento del regno messianico». Di qui la conclusione, necessaria, che il nichlilismo è il metodo della politica mondiale (cfr. TPF, pp. 203-204; it., pp. 171-172). Il Frammento è l'esposizione coerente della teologia di Benjamin: teologia senza provviden7.a, ma non senza Dio. Nel nichilismo storico-politico di Benjamin v'è tutta la disperazione dell'ebreo ovunque in terra estraneo. E non per gli uomini, per Dio, ,. Il neoplatonismo, il "neo-plotinismo" (come precisava Mathieu) di Vico si manifesta qui potentemente: non c'è passaggio da Hén a Nous. Portato il problema nell'orizzonte della comprensione della storia, la mancata mediazione trinitaria dice: non c'è passaggio dalla storia ideale eterna alle storie che corrono in tempo. Tra la Dipintura che immobilizza in "figure" la Storia e il movimento delle umane storie - di cultura della terra e fondazioni di Città, di commerci, guerre, navigazioni .. . - non c'è "legame". Le "due" storie restano divise. Restano divise conoscenza della storia e storia, voce e gesto, parola e azione. Vico non se lo nasconde affatto: la Scienza Nuova - ne testimonia il continuo lavoro di revisione a cui Vico sottopose l'opera -vive di questa scissione. Qui la profonda relazione di Vico col suo tempo, laNeuzeit,la cui "cifra" è la scissione. Che il conatus - in Vico come in Spino7.a (una relazione dai molti aspetti, che qui posso appena "citare") non aujhebt, non "toglie". Cacciati ha giustamente insistito su questo punto, mostrandola profondità e l'estensione della scissione che dal linguaggio s'espande al conoscere e ali'agire, mostrando la consapevolezza tutta "moderna" dell'"impoten7.a" di

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entrambi (felicissimo l'accenno al "mancato incontro" di Vico con Shakespeare!). In questa prospettiva l'interpretazione del mondo moderno fondato sul "soggetto assoluto", Io o Ragione che sia - interpretazione che vanta nobile origine, Hegel, e un'eletta storia, da Heidegger a Blumenberg - non può non essere respinta come unilaterale, dacché per Cartesio dimentica Cervantes, oltre al già citato Shakespeare, o, peggio, come superficiale, se ancora si criticano Kant e Husserl per il loro "presunto" soggettivismo. È su questo ampio terreno della valutazione complessiva del moderno che va portata e discussa l'interpretazione storicistica di Vico data da Tessitore e quella umanistica prospettata da Cacciatore. La domanda che pongo è questa: è possibile per Vico, beninteso - superare la scissione, o questa è iscritta nella struttura stessa della storia, nella costituzione della sua mathesis universalis? Per me è e resta fondamentale per la comprensione del moderno e di Vico, di Vico e del moderno, la consapevolezza dell'impotenza del linguaggio che dovrebbe narrare la storia; dell'impotenza del conoscere a comprendere l'agire e dell'agire a "fare" storia. Muovendo da questo nodo di problemi - che trovo riassunti ed evidenziati nella distinzione vichiana di genitum e factum - la mia lettura vichiana sfocia in una riflessione sul Sacro. Cacciatore mi chiede - non mi nascondo la portata deUa sua domanda-obiezione - se il problema del Sacro (del Sacro, non di Dio, immagine umana del Sacro) sia problema anche per Vico. Certamente, rispondo, se il problema della scissione, in primis della scissione tra eternità e tempo, è il problema del moderno - come reputo che sia. Il problema del Sacro ripropone su altro livello la questione deU'ingens sylva. Non più solo selva primigenia da cui è sorto il mondo storico - per un salto: il salto che separa la «confusione de' semi umani», del tempo-non-tempo in cui «gli uomini nell'infame comunione non avevano propie forme d'uomini», dal minuere costitutivo deUa storia e della cultura-, l'ingens

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syloo è ora l'inconscio della storia, die licht-Scheue Macht, per dirla con Hegel, «la potema che ha in orrore la luce», che è costante minaccia della storia, sempre in pericolo di ricadere non nella barbarie da cui si risorge, ma in quella che spegne la storia stessa, il tempo sempre incerto degli uomini. «Viene da chiedersi - scrive Cacciali - quali frutti avrebbe potuto trarre Heideggerdalla conoscemadi questo Vico ...». Una minore "fiducia" nell'Evento che dona, direi, e sovrattutto una più ferma meditazione sul Sacro, Grazia (Gnade) e Furia (Grimm) insieme. Sul Sacro, che nelle Baccanti di Euripide ha l'umana figura di Dioniso: theòs mégas, grande dio terren212013 sull'edizione Bompiani delle tre SN: 1725, 1730, 1744.

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Invero quando proposi a Giovanni Reale, allora mio Collega alla Facoltà di Filosofia dell'Università San Raffaele di Milano, la pubblicazione della Scienza nuova nella Collana da lui diretta, pensavo unicamente all'ultima versione, quella che Vico non ebbe la fortuna di vedere a stampa. A tale impresa mi spingeva il convincimento che Giambattista Vico non ha nel dibattito filosofico e politico attuale il ruolo che merita, nonostante l'interesse che il suo pensiero ha suscitato e continua a suscitare ben oltre i confini della cultura europea. La sua riconosciutaclassicitàè come piegata sul passato. Vico - dissi a Reale - non ha nel mondo contemporaneo la stessa presenza di Hegel e di Kant. E questo è un danno per tutti noi, perché il pensiero vichiano può insegnarci ancora molto riguardo non solo alla comprensione storica della nostra tradizione, ma anche, se non sovrattutto, all'approfondimento teorico dei problemi del nostro tempo: sulla "scissione" del rapporto potere-sapere, sul tramonto della teologia politica e più in profondità del tempo "storico", sulla crisi del linguaggio, o, meglio, dei linguaggi, insomma su ciò che siamo soliti definire sommariamente "nichilismo"; a non dire del rapporto corpo-mente, che Vico spiega genealogicamente, ben oltre la prospettiva scientista oggi prevalente. Reale accolse la mia proposta con entusiasmo, prospettandomi l'idea di pubblicare tutt'e tre le versioni della Scienza nuova in un unico volume. Presi tempo; il lavoro richiedeva competenze filologiche che io non avevo. Gli dissi che mi sarei rivolto a un'esperta vicologa, Manuela Sanna, appunto, già curatrice dell'edizione critica della seconda Scienza nuova: se accetterà di partecipare all'impresa, ci metteremo subito al lavoro; ma ci vorranno - precisai - almeno tre anni per portarlo a termine. Manuela accolse l'invito di buon grado. Insieme ne parlammo con Tessitore, che con grande generosità mise a nostra disposizione il lavoro già compiuto da lui anni prima; ne è traccia la sua firma nelle presentazioni delle tre edizioni della Scienza nuova. Sanna ed io abbiamo lavorato in perfetto accordo sin dall'ini-

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zio. Nel distribuirci i compiti a me toccò l'Introduzione generale all'opera e quella particolare alla prima Scienza noooo, a lei l'Introduzione alle due versioni successive del '30 e del '44, la storia della "fortuna di Vico", la Biografia e la Bibliografia. Il primo confronto fu sulle Introduzioni alle singole edizioni. E fu positivo. V'era differen7.a di prospettiva e prim'ancora di "stile" di scrittura, ma non contrasto. Passo ora a dire della mia Introduzione generale, cercando di corrispondere ad alcune delle critiche che mi sono state mosse. Non a tutte, ché non posso e non voglio abusare dell'ospitalità del «Bollettino»: a quelle, preciso, che mi permettono di meglio chiarire l'impostazione del saggio, e quindi il mio interesse per Vico, che non è storico, pur essendo legato indissolubilmente alla storia. Nulla è più lontano da me di una teoresi che non sia nutrita di storia e non sia costantemente volta alla comprensione della storia; nulla, se non la riduzione della filosofia a "sapere storico". Altro è comprendere la storia nell'orizzonte della filosofia - come ha fatto genialmente Vico, inimitabile modello, ma modello - , altro comprendere la filosofia nell'orizzonte della storia, come peraltro anche la comprensione filosofica della storia esige. Resta fermo, però, che l'orizzonte storico della filosofia è altro dall'oriz:wnte storico della storiografia. Questa distinzione mi permette di chiarire il titolo che ho dato al Saggio introduttivo: Vico nel suo tempo. Chiaramente il tempo, a cui faccio riferimento, non è quello della NaEOli tra fine '600 e prima metà del '700, in cui visse il filosofo. E anzitutto il tempo in cui matura la filosofia di Vico, la Neuzeit, l'età moderna; è poi il più ampio tempo nel quale la stessa Neuzeit va inclusa per essere "compresa"; infine è il tempo di Vico, il tempo che Vico ha pensato nel suo originarsi, e che spiega anche il sorgere del tempo "oggettivo", o "tempo del mondo", in cui tutto accade: la nascita di Cristo come l'implosione di una stella. Tempo "universale",che riteniamo essere l'unico "reale", forse

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perché in esso, non a caso detto "oggettivo", scompare ogni distinzione, anche quella tra natura e storia, secondo la formula crociana della «natura come storia sem.a storia da noi scritta»! Il tempo in cui matura la fìlosofìa di Vico: il tempo della scien7.a moderna, il tempo di Galilei e Descartes - certamente; ma non solo. È anche il tempo di Cervantes -e sono grato a de Giovanni, a Lomonaco e a Carillo, che, da prospettive diverse, hanno dato rilievo a questa "prese117.a" nel mio Saggio introduttivo. La storia dell'ingenioso hidalgo, infatti, è la rappresentazione "tragica" - tutta giocata, com'è, su un'ironia che, nulla risparmiando del mondo, alla fìne si piega spietatamente su se stessa -del moderno; è la rappresentazione tragica della Neuzeit, in costante lotta con la scissione che la dilania, la scissione tra sapere e potere. Galilei e Descartes sono i più alti tentativi della scien7.a moderna di superare tale scissione. Vico ne è attratto e insieme respinto. Il De ratione vive di questa tensione. Cosa trova inaccettabile di questi «architetti di un edificio immenso»? L'astrattezza, il venir meno della corpulentissima materia del mondo (rilevo qui che la critica vichiana coinvolge anche Bacone -suo "auttore"). E tuttavia il loro metodo lo attrae. Il rapporto topica/critica, nel capitolo più importante dell'opera, l'XI, dedicato al diritto e alla giurispruden7.a di Roma antica, non sen:za riferimento all'età moderna, si inverte: è la critica che prevale sulla topica, la Legge sul!'equità, più in generale: la ragione sull'esperien7..a. Di qui l'elogio dei «i giureconsulti antichi [che], a differem..a dei moderni, adattavano non le leggi ai fatti, ma i fatti alle leggi». Vico trova nell'antico - nei giuristi romani dell'età pre-imperiale - la forma logica propria della scien:za moderna: il giudizio di sussunzione del soggetto sotto predicati, la forma "pura" della mathesis universalis. Questo, ovviamente, riduce di molto l'opposizione, tanto esaltata, di Vico a Descartes. Non solo: se per un verso mostra la totale partecipazione di Vico al suo tempo storico - la geniale scoperta della «storia ideal' eterna», nella quale soltanto, «i

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grandi frantumi dell'Antichità [ .. . cheJerano giaciuti squallidi, tronchi, e slogati» possono divenire fatti storici, è l'estensione della mathesis universalis all'universo della storia-, per l'altro amplia l'orizzonte storico sino a comprendere nel dibattito della scien1.a moderna le due "opposte" logiche di Platone e di Aristotele: quella retta dal principio del metéchein, della partecipazione dei generi, questa dall'opposto dello hyparchein, dell'appartenen7~dei predicati al soggetto -che sono le prime rigorose formulazioni delle due logiche del giudizio di ineren7.a (del predicato al soggetto) e del giudizio di sussunzione (del soggetto sotto predicati). Enrico Nuzzo si ribella. L'interpretazionedi Vitiello-obiettasovraccarica, come sempre accade con le letture "speculative" della storia della lìlosofìa (e, penso, non solo della fìlosofìa), di sue proprie intenzioni e convinzioni l'autore studiato. Nonché piegarsi lui alle domande e alle soluzioni di Vico, impone le sue a Vico. Una critica, questa, che anche Cacciatore mi muove, con minor impeto e maggiore ironia. Non sono insensibile alle loro critiche, rivelatrici, peraltro, di una partecipazione sincera, "vera" alle mie ricerche. Mi chiedo, però, se si dà storia al di fuori di un orizzonte interpretativo, che certo non è mai "neutro". Debbo ricordare loro da dove parlano? Il loro "storicismo umanologico"? Ho grande rispetto per le interpretazioni vichiane di Piovani. Reputo il suo saggio Ex legislatwnephilosophia un classico della letteratura vichiana, che pure ho criticamente discusso. Ma dal "pluralismo delle interpretazioni" non si esce; problematico è, però, decidere quale interpretazione riesce meglio a cogliere e rappresentare la viva mobilità del corso storico, e quale visione storica penetri più a fondo nel mondo storico. A tal fine ritengo di poter ben difendere il mio "schema teorico", mostrando come le due "logiche" dell'ineren7.a e della sussunzione si incontrano, si contrastano, si intrecciano in forme sempre diverse lungo l'intero arco della storia del pensiero, fìlosolìco e scientifico (nel Saggio introduttivo mi soffer-

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mo su Spino:za e Leibniz, Kant e Hegel). E quanto al secondo punto, la mia "topologia", proprio in quanto privilegia la concezione stratificata del tempo storico sulla visione orizzontale e unilineare, mi appare più vicina alla concezione vichiana della storia che non lo storicismo, pur nella sua versione "critica". Vi sono nello stesso tempo 11wlti tempi: quello che a Kant appariva assurdo (ungerei.mt) è esperienza effettiva di analisti della storia, e non di filosofi "speculativi" - e non credo sia necessario chiamare in causa Kosellek o Braudel. In ogni caso è su questo più ampio terreno "storico" che va esaminato quanto ho detto sui rapporti di Vico con Platone e il neoplatonismo, Plotino e Agostino, il linguaggio e il mito, e infine sul "barocco" della scrittura vichiana. Barocca com'era barocco Carlo Emilio Gadda, gran lettore di Vico - che protestava: «Barocco non è il Gadda. Barocco è il mondo» - ; barocca come barocchi definiva i suoi "buchi" Lucio Fontana. Di qui la mia estensione della problematica vichiana ai già citati Kant e Hegel, e poi a Nietzsche, a Heidegger, a Husserl, a Benjamin. Su questo ampliamento dell'orizzonte storico al presente, Fulvio Tessitore, ancora di recente per lettera, mi ha manifestato il suo disaccordo, obiettando che io proietto "la genialità di Vico in avanti", quasi "avesse bisogno di verifiche". Invero la mia proiezione del pensiero vichiano in avanti non ha lo scopo di verificarne la genialità, non foss'altro perché tale proiezione sulla genialità di Vico si basa, e di essa vorrebbe che il presente potesse valersi, e non solo per capire con più ampia consapevolez:1.a storica il proprio passato, ma per poter con più profonda coscien7.a del tempo aprirsi al futuro. E qui tocco l'ultimo punto: il tempo di Vico. Ne tratto nell'ultima sezione del capitolo III del Saggio introduttivo, cui ho dato il titolo - intenzionalmente ripreso da Capograssi - di Prospezioni vichiane. Già in precedenti lavori mi ero soffermato sul "limite" del concetto vichiano di mathesis universalis, il cui linguaggio, fatto di segni e non di "parole reali", impe-

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disce la "comprensione" del mondo "eroico". Limite non da altri denunciato che da Vico stesso, e sin nella prima Scienza nuova. Nell'ultima edizione, ritornando sul tema, ribadisce la difficoltà di «discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani; le quali ci è affatro niegato d'immaginare, e solamente a gran pena ci [è] permesso d'intendere». Ora cos'è questo intendere senza immagine se non un'alterazione del "certo" ad opera del "vero"? Il riconoscimento vichiano del limite della mathesis universalis rimetteva in giuocoil rapporto topica/critica, certo/vero. Fulvio Tessitore - mi sia concesso un ulteriore riferimento fuor delle mura di questo Seminario-, chiudendo la sua Prefazione al mio Vico. Storia, Linguaggio, Natura, mi poneva criticamente questa domanda: "E allora: certum pars veri o oorum pars certi?". Rispondo, oggi: né certum pars veri, né oorum pars certi, bensì verumpars facti, intendendo con ciò che il factum., il factum veri, il fatto della verità, è oltre la verità. E di una oltranza che resta tale, ancorché non altrove sia "esperibile" che nel vero. La mathesis non è abbandonata: è pur sempre l'orizzonte indispensabile a che i grandifrantumi dell'Antichità non restino tronchi e slogati. Ma questo ordine mathematico - ovvero: questo orizzonte di comprensione dei fatti - non inerisce ai fatti, ma li investe. I fatti sono storici non per sé, ma per l'ordine che li rende tali. È giusto, quindi, affermare che è la storio-grafìa che fa la storia (affermazione, voglio qui ricordare, che si legge nelle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel!), a condizione però che si tenga distinto il fatto dal certo. Il sum dal cogito. Per dirla col linguaggio di Vico: oorum et factum NON convertuntur! Conclusione che apparentemente mette Vico contro Vico, che non solo nel De antiquissima, sì anche nella Scienza nuova ha posto come principio del conoscere il verare facere. Apparentemente -dico-, dacché non si considera la distinzione tra fatto e certo che Vico, non altri che Vico, ha posto delimitando l'orizzonte della moderna scienza della storia, della scienza nuova, della scienza della Neuzeit,

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alla quale è affatto niegato d'immaginare, e a gran pena le è permesso di intendere ciò che è fuori del suo ambito "linguistico". Il vero pone il certo - il certo come se stesso: verom et certum idem-, non il fatto. Neppure quel fatto che esso stesso è. Per dirla con Hegel - e il riferimento alla Fenomenologia delle spirito cade a proposito - l'identità dell'esperien7.a della coscienza (il fatto) con la coscienza dell'esperien7.a (il vero) si dà soltanto nel reines àlsehen, nel «puro stare a vedere» che è proprio del concetto che si sa come concetto, ovvero: dello spirito assoluto. Nel tempo della storia factum, il f actum veri, e verom restano divisi. In questa prospettiva, che rovescia il rapporto tra la storia ideale eterna e le storie che corrono in tempo - tra hora e nyn nei termini giovannei-, muta la stessa concezione del tempo. Il tempo di Vico è nel significato più proprio della parola, apocalittico: tempo della rivelazione del tempo come possibilità sempre possibile, mai certa, mai secura. La storia pensata non come luogo del possibile, ma come la possibilità stessa. In quanto tale il tempo storico è finito nel senso che piw finire. Il ricorso vichiano non ha nulla dell'eterno ritorno: l'ingens sylva - questo il fatto irriducibile alla storia e al vero! - è minaccia costante e insuperabile, perché è la materia stessa della storia, quella materia infonne, ingorda di forme, da cui la storio-grafia, la scrittura della storia, si allontana educandola, imponendole una "forma", volta a volta una esingolare. «LE TENEBRE NEL FONDO DELLA DIPINTURA sono la materia di questa Scienza incerta, informe, oscura ...». Di qui la conclusione di Vico, con cui chiudo anche la mia Introduzione: «questa Scienza porta indivisibilmente seco lo Studio della Pietà; e [ ...] se non siesi pio, non si può daddovero esser Saggio». La "morale" - in senso rigorosamente kantiano -oltre la storia, perché si possa vivere, com'è nostro destino d'uomini, nella storia. Riservo la conclusione di questa nota a Biagio de Giovanni - se ne capirà la ragione. Nell'intervento al Seminario, e in forma

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più distesa e dettagliata nell'articolo Viro e intorno a Viro apparso su «L'Acropoli» (n. 2, 2013, pp. 120-127), de Giovanni si è soffermato in particolare sul ruolo centrale che il rapporto Vico-Spinoza ha nella mia interpretazione, sia riguardo allo stretto legarne che entrambi i filosofi ebbero con la tradizione neoplatonica, plotiniana in particolare, pur nella diversità delle loro "letture", che riguardo alle due linee di sviluppo del pensiero filosofico moderno, l'una che va da Cartesio a Kant, l'altra che congiunge Spinoza a Hegel. Prodigo di generosi apprezzamenti, egli ha accuratamente segnato la distan7..a che divide la sua interpretazione dalla mia, non solo e non tanto riguardo ai singoli autori, quanto all'interpretazione generale dell'età moderna. Infatti, muovendo dallo stesso concetto del moderno come crisi, conseguente alla scissione del sapere dal potere, giungiamo a conclusioni opposte: per lui la scissione sapere/potere è fonte di continui superamenti, parziali, incerti, riusciti, mancati, rinnovati e rinnovabili; per me invece è physei insuperabile, inoltrepassabile, essendo il limite del sapere e del volere. Sostenitori entrambi del finito, de Giovanni non rifugge dall'idea spinoziana e hegeliana dell'infinito come luogo in cui il finito vive e muore, gioisce e patisce, ama, odia, lotta, cade e risorge, quando risorge ... Perciò alla conclusione del mio saggio che riprende quella, poco sopra riportata, della Scienza ntlOOO, e più ingenerale alla sooltamorale della mia "topologia" oppone: «Hegel potrebbe richiamare forse il destino dell'anima bella, la sua volontà di non appartenere al mondo». Se non mi riconosco nella critica, perché proprio nell'aovertire che non sono del mondo, sento di essere nel mondo, capisco, però, il senso più profondo della distanza che ci separa. Che non so esprimere meglio che con un ricordo. Questo: giovanissimo lessi quel pensiero di Fichte -cito a memoria- secondo cui ciascuno ha la filosofia che corrisponde al suo carattere. Ne rimasi inorridito. La filosofia ridotta a epifenomeno della psiche o del corpo- fa lo stesso. Vecchio, inclino a credere avesse ragione.

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Intervista immaginaria a Giambattista Vico

Sono alla porta del Castello. Mi riceve un anziano signore, dai modi cortesi e unpo' antiquati; porta il bastone, ma non per appoggiarsi, piuttosto per saggiare il terreno su cui poggia il piede, non troppo falanàosi degli occhi. La sua voce non ha accento, come di chi è abituato a cambiar tonalità e ritmo, dovendo esprimersi in molte lingue, a seconda degli ospiti e dei visitatori. Mi dice che il Castello, di cui è Direttore, è romeuna grande biblioteca, sol-O che non ha libri, ma Autori. Le k>ro stanze sono disposte lungo interminabili corridoi, e su diversi piani seronào unak>gica, cheanrora non ha compreso, ma chepure dev'esserci. Mi accompagna all'appartamento di Giambattista Viro, ricordandmm, in modo cortese e deciso insieme, che il tempo concesso per l'intervista va rigorosamente rispettato. « È la regola del Castello» - dice rapidamente, prima di eclissarsi. Sono faccia a faccia col grande fiwsofo. Interrogante - Maestro, la ringrazio per la sua cortese disponibilità a concedermi questa intervista, a destinarmi parte del suo tempo...

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Vico - Oh, di tempo ne ho quanto voglio; qui, al Castello, è proprio la cosa che non manca. Ne ho, ne hanno tutti quelli che l'abitano, per l'eternità.. . Ma non perdiamoci in inutili preliminari. A qual lìne la sua "intervista"? Cosa vuol sapere che già non risulti dai miei scritti?

I - Molto, in verità, perché proprio quello che ha scritto ha dato origine a un'infinità di interpretazioni, spesso opposte. In particolare, oggi che le sue opere sono tradotte, oltreché nelle lingue europee, e non solo le più diffuse, anche in ebraico e in cinese. La sua bibliografia è sterminata.

V - Sì, anche lìn quassù, è giunta voce di questo interesse. ..

Mah!

I - Non mi dica che la cosa non la rallegra. V - Ne avrei goduto quando vivevo nel mondo, nell'intrico di passioni, gioie, dolori, soddisfazioni e delusioni, tante delusioni, troppe. Qui, al Castello, la cosa mi è indifferente.. .

I - Vedo, però, che ha davanti a sé una montagna di note, appunti .. . V - E che vuole che faccia? Continuo a meditare sulla Scienza Nuova, a fare aggiunte e correzioni.

I - Un lavoro senza lìne. Lo si intuiva. Lei ha scritto e riscritto la sua opera.

V - Un filosofo del suo tempo, del Novecento, ha detto che si pensa sempre e solo un unico pensiero. Non posso dire lo stesso di me, avendo nutrito interessi diversi, dalla filologia al diritto, al linguaggio, al mito - ma, certo, ho avuto anch'io un pensiero dominante. No, non un unico pensiero, un pensiero dominante, intorno al quale gli altri si raccoglievano. A partire da una certa data, almeno.

I - Dagli anni di elaborazione del Diritto universale?

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V - Nell'Autobiografia ho forse anticipato i tempi. Ma credo lei abbia ragione. Il Diritto universale segna un momento importante nella mia evoluzione.

I - Ma allora è vero quanto molti suoi inteipreti sostengono, e cioè che la sua filosofia ha abbandonato lo studio della natura per volgersi esclusivamente al mondo degli uomini, alla storia? Come Socrate che dopo un iniziale interesse per la dottrina di Anassagora, deluso dalle indagini sulla natura, si volse al mondo degli uomini ...

V - No, il paragone non regge. Le due situazioni sono incomparabili. Io non ho abbandonato la fisica per la storia. Ho fatto un'operazione affatto diversa, conforme alle esigenze del mio tempo. I filosofi e gli scienziati del mio tempo, Galilei non meno di Descartes, in modi e forme diverse, erano, pressoché tutti, consapevoli che il "realismo" della sciell7.a era un realismo "generico", giungeva al "genere" non al singolo, coglieva il tipo non l'individuo. E questo non per una "mancani.a" del sapere "fisico", ma per la sua stessa struttura. Questo spiega il "platonismo" che ha caratterizzato la scie117,a moderna, e non soltanto nella sua fase iniziale. La logica della scieni.a moderna, della scieni.a fisica, sorge come reazione all'aristotelismo scolastico, meglio alla logica aristotelica. Per dirla brevemente, alla logica dell'inerenza si sostituisce la logica della sussunzione.

I - Che significa questo? Vuole spiegarsi con un esempio? V - Significa quello che a partire da Galilei si è imposto nella coscienza dell'operare scientifico, e cioè che i concetti sommi con cui giudichiamo, conosciamo, le cose, quelli che chiamiamo categorie o predicati del giudizio, non ineriscono alle cose, ma sono essi che nella loro connessione determinano l'essere delle cose. Per fare un esempio, come lei mi chiede: non il movimento appartiene alla cosa, ma la cosa al movimento, cioè alla relazione che diciamo movimento. La pietra si muove -anche

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quel gran sasso che è il nostro pianeta - per la forza di gravitazione, ovvero perché un corpo l'attrae. Ma appunto questa logica della sussunzione - riportabile a quanto Platone dice nel Sofista sulla partecipazione (metéchein )-spiega insieme la pietra che cade e la Terra che gira intorno al Sole. La medesima legge vale per fenomeni tra loro molto diversi, e pertanto non può coglierne la specilìcità. La legge spiega la relazione, non i termini della relazione.

I - Eppure nel De antiquissima lei ha cercato di tenere insieme le due logiche, di mediarle. Perché, se è propria del solo operare divino la logica dell'inerenz.a: Dio è il "soggetto" che hain sé tutte le "forme", "da cui le cose sono", laddove l'uomo non può che operare dall'esterno sulle cose, componendole, mettendole in ordine; tuttavia, quando l'uomo opera seguendo le idee platoniche - le forme - e non gli astratti, inerti universali aristotelici, il suo agire s'approssima ali'operare divino. Comporre le cose, metterle insieme in quella che lei definisce pulchra proporlio, fa dell'uomo molto più che «il Dio delle cosearti6ciali» - come lei anche afferma. La potenz.a del vero, del vero eterno, dirà nel De uno, è presente anche nell'"uomo corrotto". Dio nell'uomo.

V - Lei ha colto un problema su cui mi sono a lungo travagliato. E non ero solo. Questo problema è stato la crox del pensiero moderno. Ma anche il segno della sua grande:723. Perché il moderno non è stato grande per aver affermato - come nel secolo in cui lei è nato si è detto e ripetuto - il primato della ragione universale, e del soggetto fondamento assoluto e inaggirabile del sapere del mondo e del mondo stesso. No, non per questo, ma perché ha di continuo messo in crisi se stesso. Modernità e crisi sono tutt'uno. La mia 6loso6a partecipa di questa crisi totalmente. Ho scritto e riscritto continuamente la mia opera fondamentale: qualcuno ne ha contato le redazioni, salendo a nove, qualche altro a dieci. E hanno ragione. Di

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fatto la Scienza Nu()t)(l è un'opera in fieri. Raccolgo ancor qui le mie Note e Aggiunte e Revisioni .. . Ma non divaghiamo, il nostro tema era...

I - Il "passaggio" dalla fisica alla storia. Per citarla: quanta più realità «hanno gli ordini d'intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie, e figure».

V - Non nego certo questa mia affermazione, è però necessario capire come ci sono arrivato. Anche in relazione a quanto sin qui detto.

I -La seguo. V - Dunque, nel momento in cui divenni consapevole che la scienza moderna, seguendo il principio della logica di sussunzione, coglieva il generico, la trama delle relazioni che intessono la realtà delle cose, ma non le cose nella loro singola, specifica singolarità, questa e non altra, mi chiesi dove dovevo rivolgermi per cogliere la "realtà" del singolo, il suo essere. Ripetetti l'operazione già compiuta da Descartes. Anch'io operai un'inversione del cammino, e dall'oggetto osservato passai al soggetto osservatore.

I - Ma, scusi, non è stato proprio lei a contestare l'inizio della filosofia cartesiana, a criticare l'ego cogito? E con aspr= senza pari, paragonando il cogito al sapere dell'incolto Sosia plautino? V - Non ritratto la critica che mossi al Signor Delle Carte. La invito, però, a esercitare la principale virtù del fìlosofo: la pazienza. Lei non deve aver fretta, ma seguire con calma tutti i vari passaggi del mio ragionamento. A meno che lei non stia esercitando l'altra virtù, meno virtuosa, del fìlosofo: la provocazione. Lei mi interrompe per provocarmi a dire quello che ama sentire da me. Le assicuro, non ce n'è affatto bisogno! Tomo al problema. Il ripiegarsi della mente su di sé - anche questo ho detto in una mia degnità -, e cioè la riflessione che libera

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la mente dall'immersione dei sensi nell'esteriorità del mondo, permette di toccare terra, di raggiungere non l'interiorità di un "soggetto" contrapposto al mondo, ma proprio l'interiorità del mondo comune, della p6lis, l'interiorità, cioè la vera essen7.a, di quello che un filosofo d'un secolo successivo al mio de6nl il «fare di tutti e di ciascuno». Il ripiegarsi della mente su di sé non altro dice che il rendersi, l'umano operare, consapevole disé.

I - Qui il passaggio alla storia, e dunque il vero senso della critica a Descartes. Resta, però, un punto da chiarire. Nella critica a Descartes svolta nel De antiquissima lei dice testualmente che non ego cogito, ma Deus cogitat in me. Il medesimo non vale anche per l'operare di tutti e di ciascuno? Per la comunità umana, per le comunità umane?

V - Certo, vale anche per le comunità umane. E non a caso nella Scienza Nuova parlo della provviden:za.

I - Un punto, questo, sul quale la richiesta di chiarimenti è dawero sen7.a limite ...

V - Ed è giusto che lo sia, perché intorno a questo tema si intrecciano vari problemi. Comincio dal più semplice, o da quello che sembra il più semplice. Nell'età di Descartes, di Spin07.a, di Leibniz, la Scienza Nuova si apre con l'affermazione che «alcuna giammai al mondo fu nazi on d'atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione». Non era un passo indietro, a un'età precritica, ben al contrario, fu un "salto" in avanti; fu il riconoscimento del carattere non originario del sapere, la consapevolezza che la 6loso6a non può iniziare dalla conoscenza e dalla critica della conoscen:za. Non può iniziare da sé. Come scrissi in una degnità: ,