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Italian Pages 56 Year 2002
Marco Delogu Ritratti di pietra Carlotta Natoli Occhi d’acqua e di sassi Paolo Rosa Delfi Lucio Saviani Cosa guardano le statue
L’occhio di pietra a cura di Lucio Saviani
Sguardi di pietra Marco Delogu
Lo sguardo di Omero La memoria di Omero era differente. Certo, anche lui viveva all’ombra delle fanciulle in fiore, quelle fanciulle a cui qualcuno, nell’Inno omerico ad Apollo, aveva posto la domanda: “Chi secondo voi, fanciulle è tra i poeti il più mirabile?” L’Inno detta la risposta, che le fanciulle fanno propria: «E’ un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio: i suoi canti saranno per sempre i più belli!». Nella Grecia arcaica accade che alcuni uomini mostrino una fiducia letteralmente cieca nelle fanciulle, nelle korai. Si tratti di Edipo, che accecato dalle sue stesse mani si lascia guidare da Antigone, oppure di Omero, nell’Iliade, quando invoca le nove Fanciulle, che sanno tutto perché tutto vedono. In greco, del resto, sapere è vedere. Zeus, assiso sulla vetta d’Olimpo, è ben piazzato per confermarcelo. Apollo, il dio arciere, lo stesso. E nel suo corteo, dunque, le nove Muse. Se al contrario il saggio o l’aedo è cieco, egli tiene più che mai alle fanciulle, poiché il termine che significa «fanciulla», kore, vuole anche dire «pupilla dell’occhio». L’ambiguità della parola orienta infatti tutta la mitologia delle Muse, figlie di Zeus e della Memoria. Così nello sguardo spento di Omero è la memoria stessa che si iscrive, nel cavo. O piuttosto la condizione del grande Cieco che, per ricordarsi del sole, s’illumina delle nove fanciulle in fiore. Jesper Svenbro
Le immagini di Marco Delogu sono pubblicate da Fazi Editore per la Galleria La Nuova Pesa, Roma
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Ritratti di pietra Marco Delogu
Lo sguardo di Omero Traiano Decio Salonina Alessandro Severo Cicerone Omero Pitagora Epicuro Ganimede Caracalla Le immagini di Marco Delogu sono pubblicate da Fazi Editore per la Galleria La Nuova Pesa Roma
La memoria di Omero era differente. Certo, anche lui viveva all'ombra delle fanciulle in fiore, quelle fanciulle a cui qualcuno, nell'Inno omerico ad Apollo, aveva posto la domanda: "Chi secondo voi, fanciulle è tra i poeti il più mirabile?" L'Inno detta la risposta, che le fanciulle fanno propria: «E' un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio: i suoi canti saranno per sempre i più belli!». Nella Grecia arcaica accade che alcuni uomini mostrino una fiducia letteralmente cieca nelle fanciulle, nelle korai. Si tratti di Edipo, che accecato dalle sue stesse mani si lascia guidare da Antigone, oppure di Omero, nell'Iliade, quando invoca le nove Fanciulle, che sanno tutto perché tutto vedono. In greco, del resto, sapere è vedere. Zeus, assiso sulla vetta d'Olimpo, è ben piazzato per confermarcelo. Apollo, il dio arciere, lo stesso. E nel suo corteo, dunque, le nove Muse. Se al contrario il saggio o l'aedo è cieco, egli tiene più che mai alle fanciulle, poiché il termine che significa «fanciulla», kore, vuole anche dire «pupilla dell'occhio». L'ambiguità della parola orienta infatti tutta la mitologia delle Muse, figlie di Zeus e della Memoria. Così nello sguardo spento di Omero è la memoria stessa che si iscrive, nel cavo. O piuttosto la condizione del grande Cieco che, per ricordarsi del sole, s'illumina delle nove fanciulle in fiore. Jesper Svenbro
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Occhi d’acqua e di sassi
Carlotta Natoli
La pietra è una specie di diario del tempo meteorologico, una specie di grumo meteorologico. La pietra non è altro che il tempo meteorologico stesso, sottratto allo spazio atmosferico e nascosto dentro lo spazio funzionale (…) La pietra è il diario impressionista di un tempo meteorologico Frutto dell’accumulo di milioni di annate calamitose; ma essa non è solo il passato, è anche il futuro: c’è in lei una periodicità. È la lampada di Aladino che penetra l’oscurità geologica dei tempi storici a venire Osip Mandel’stam
Questo lavoro nasce dal desiderio di compiere una breve ricognizione sul tema dell’occhio e dello sguardo in relazione all’acqua e alla pietra. Per compiere questo rapido viaggio mi sono avvalsa di alcuni spunti tratti da un patrimonio letterario prevalentemente storico-religioso. Dallo scrigno della cultura ebraica ho tratto preziosi suggerimenti che hanno permesso la tessitura di alcune personali riflessioni in nessun caso connesse a un ambito storico-scientifico. Si tratta invece di un percorso che muove per immagini e procede analogicamente dietro la scia che da questa irradia; è infatti grazie al Midrash, alla profezia, al racconto mitologico, che alcune di esse acquistano quel meraviglioso e terribile potere di farsi eterne. Dalla tradizione storico-religiosa e mitologica ho dunque preso a prestito, come un profano appassionato, quelle figure che possono iscriversi in un patrimonio archetipico e pur nel rispetto del territorio “altro” mi sono amabilmente perduta in quel fitto bosco analogico in cui dall’immagine prende corpo la poesia.
IL POZZO
DI
MIRIAM
Secondo ciò che narra il Midrash, al crepuscolo del sesto giorno della genesi, proprio in “quell’imbrunire che portò con sé l’annuncio del primo sabato dell’universo”, sorsero dal nulla “cose che nessuno ha mai viste, vede o vedrà, insieme ad altre destinate invece sì a comparire, ma soltanto dopo l’attimo in cui furono create. Comunque cose in grado di evitare o almeno di attenuare spiacevoli conseguenze nel fertilizzante riposo sabbatico.” ( G. Limentani, Il Midrash) Tra le varie cose create in quel mitico crepuscolo, si trova il pozzo di Miriam, chiamato così poiché fu concesso a Israele per i meriti profetici della sorella di Mosé, un pozzo a forma di pietra rotonda come fosse una mola di mulino, che seguiva gli ebrei in viaggio verso la terra promessa “rotolando di tappa in tappa per fermarsi ad ogni tappa giusto nel centro dell’accampamento e di lì, attraverso fori che diventavano fonti, irrorare ogni singola tenda.” (G. Limentani, Il Midrash) Nella lingua ebraica “occhio” (‘Ain) significa anche punto in cui viene su l’acqua da un pozzo, sorgente; è la lingua per prima a testimoniare di un’ antica coincidenza tra acqua e occhio, come fossero luoghi in cui l’emersione alla vita è sancita da uno slancio originante. Fori preziosi come occhi sono quelli del pozzo di Miriam in cui il foro-sorgente sembra coniugarsi all’occhio, per testimoniare come la potenza vitale si schiuda sull’infinità del mondo. Possiamo dunque immaginare che il pozzo di Miriam, oltre a rientrare in una generica categoria “pozzo” (per indicare la quale la lingua ebraica utilizzerebbe il comune sostantivo Beer) rimandi - come per un gioco di corrispondenze profonde e meno evidenti - al sostantivo ‘Ain. E allora è come se dicessimo: in questa ruota sono tanti fori da cui sgorga acqua, come da altrettanti simbolici occhi sgorgano sguardi,
punti da cui viene-su la “vita”; punti in cui la vita riconosce se stessa. La Torah, infatti, è spesso paragonata a una “fonte-viva”, come fosse un’acqua che sgorga in piena coscienza per portare “nutrimento”, dissetare e rivitalizzare chi beve per rigenerare il mondo. La Torah come viva fonte è la possibilità di un movimento in eterno divenire, di un continuo inizio che è, insieme, essenza della memoria. L’occhio umano a cui - secondo la tradizione - non è dato di “vedere” l’eterno rappreso in un’unica immagine, può tuttavia leggere in quell’occhio sempre vivo con cui l’Eterno si manifesta nel mondo. La Torah, è infatti un dono prezioso: un’acqua prodigiosa che porta in sé congiunti, visibili e leggibili, i “segni” di un’eterna misteriosa impronta, è la possibilità di riconoscere il testo del mondo e continuamente “articolare” il discorso della vita. Grazie a quegli insostituibili composti che sono le parole della Torah, noi comuni mortali possiamo vedere, nella scrittura, l’Eterno, attraverso la lettura far vibrare la superficie di quell’acqua e “animare” di nuova vita la nostra presenza nel mondo. Quei suoni emessi a partire da quelle lettere mettono in risonanza il “corpo” individuale con l’infinitezza dell’universo, poiché a ogni successiva lettura e interpretazione del testo noi attiviamo quella multipla e misteriosa qualità di Dio e così attraverso i nostri occhi lasciamo scivolare uno sguardo sempre nuovo. È singolare come nella Torah sia proprio attorno ai pozzi che avvengono gli incontri più importanti. Essi si pongono come significativi e inevitabili crocevia attorno ai quali l’umanità è chiamata a incontrare l’Altro e perciò sé stessa, quasi muovendosi spesso inconsapevole sulle sottili linee del destino che l’Eterno ama intessere e che noi amiamo confondere: linee che sembrano scorrere sotterranee lasciando l’uomo alla propria erranza, mentre all’improvviso si rivelano, come un’acqua che viene-su, emergendo vigorosamente da un pozzo in apparenza “secco”, per testimoniare con uno scroscio la sonorità della vita, per ricordare all’uomo di unirsi a quell’evento che é la vita stessa. Occhio e fonte sono dunque quei “luoghi” da dove viene su la vita, da cui può sorgere una
“visione”, da cui può cominciare o ricominciare un movimento. Il pozzo di Miriam nella sua forma ricorda, lo dicevamo, una gigante ruota e per questo si offre come ulteriore suggestione all’idea di movimento. Un’enorme ruota di mulino che all’occorrenza si fa ‘pozzo’, si trasforma in sorgente, aprendo i suoi occhi d’acqua pura per tutelare i passi di un popolo interne troppo aride, un pozzo-ruota che si anima di movimento per seguire l’anima di quel medesimo errare.
LA
PROFEZIA DI
EZECHIELE
Per continuare il nostro vagare in terra “straniera”, consideriamo ora una nuova immagine. Si tratta della prima visione profetica di Ezechiele attraverso la quale assistiamo all’apparizione di un “carro” molto molto particolare. Interrogato il Signore riguardo agli idoli e ai suoi costruttori Ezechiele riceve in risposta una profezia che sembra quasi assumere il carattere di un monito enigmatico. Nella visione appare un carro del tutto particolare composto da quattro Caioht, letteralmente “supervitali”, “vitalissime”. Tali misteriose figure si rivelano con quattro volti diversi: aquila, leone, toro e uomo unite tra di loro. Le vitalissime sono provviste di ali che, anch’ esse, si toccano; i quattro arti sono congiunti in uno solo che culmina a forma di arto di vitello, sotto al quale si incrociano fra loro - una nell’altra - quattro ruote. Questi cerchi dai quali si desume l’idea del carro, sono cosparsi di occhi. Le Caioth secondo impulso divino: “esse andavano dove si sentivano ispirate ad andare e tutto si muoveva con loro”. La vitalità torna a esprimersi con una metafora che coniuga l’occhio al movimento e questa volta troviamo occhi sotto-messi a un movimento ispirato. Tale carro si rivela infatti essere un carro divino che, scendendo dall’alto delle sfere verso la terra, porta con sé quello che abbiamo definito come un monito-enigma. La voce divina ammonisce i costruttori con una frase che può tradursi: “avete
creduto di sottrarmi una delle facce” o anche “credete di avermi sottratto una faccia” o ancora “avete pensato di sottrarmi una faccia!” Ma cosa significa sottrarre un volto al Signore? Il movimento del carro divino è a trecentosessanta gradi, garantito dall’incrocio dei quattro cerchi o ruote d’occhi: origine del movimento e radice della visione; movimento quindi che ovunque muove perché tutto “vede”, non con gli occhi di una sola delle facce di cui il carro si compone, ma con gli occhi di una coscienza superiore che queste facce riassume in un’unica, composta e mobile figura. Per questo possiamo leggere la “sottrazione” di una delle facce - a cui si iriferisce la frase profetica - come la sottrazione di uno “sguardo”, di un punto di vista, ossia una limitazione alla possibilità di percepire un orizzonte, di compiere quel movimento libero che diventa, per traslato, impossibilità di percepirsi “ispirati” ad andare. Cosa resta dunque di quel fluido movimento, di quella “divina” possibilità di accedere anche solo in parte alla “visione”? Dove si nasconde per noi la possibilità d’incontrare un pozzo come fu quello di Miriam per le tribù d’israele? Cosa stiamo dunque cercando, mentre camminiamo e perdiamo lacrime dagli occhi, senza avvederci di quale miracolo si stia compiendo? ‘Ain, l’occhio che è anche il punto da cui si origina l’acqua in un pozzo, come fosse un “occhio-sorgente” si pone nella nostra lettura come quel punto originante a partire dal quale riconosciamo un movimento. Quindi ‘Ain si propone anche come soglia, punto di confine, luogo ove sensoriale e trascendente si incontrano, segnando la possibilità di un prezioso quanto temibile “rischio”, luogo a partire dal quale si configura il destino come incontro nel tempo.
L’OCCHIO
E LA PIETRA
L’acqua nelle sue molteplici qualità si rivela elemento indispensabile alla vita: nutrimento, fonte creativa, purificante. Un corso d’acqua può essere un confine tra due lembi di terra, una superficie riflettente,
ma soprattutto con l’acqua ha origine il sentimento del tempo: l’acqua col suo scorrere comincia a lasciare nel mondo “tracce” di memoria. In qualità di superficie l’acqua rinvia all’occhio immagini come fossero confusi frammenti del divenire che cercano senso in una forma sempre irrequieta. Ma cosa accadeva prima che l’acqua si manifestasse nel suo corso risvegliando in noi la possibilità di ri-flettere e perciò anche di ricordare? Se l’acqua porta con sé le forme del tempo e rende armonico l’universo del movimento, è alla pietra che da sempre è affidato il “compito” di presentificare l’immobilità. La primitiva coesione della materia si contrappone al fluire dell’acqua come la staticità al movimento, il tempo dell’oblio a quello della memoria, antinomia che si spinge sino all’irriducibile e radicale opposizione di vita e morte, e si concentra su quel sottilissimo crinale su cui si fa e si disfa il senso. Spesso in poesia la pietra si fa metafora di morte ma anche traccia, segnale di un possibile “accesso” al regno dell’indicibile; allora essa è piuttosto segno misterioso di mediazione tra noto e ignoto, luogomargine su cui si condensa il senso di un’alterità non ricostruibile; la pietra in poesia è cioè rigenerata nel suo potere enigmatico di rinviare costantemente ad “altro”, come se qualche cosa sfuggisse all’evidenza del corpo solido per proiettare direttamente un “altrove”, cavo e impalpabile.
L’OCCHIO
DELLA
GORGONE, LO
SGUARDO DI
PERSEO
Così viene da chiedersi: cosa si nasconde in quel freddo, enigmatico giardino di statue che è assieme il mitico e l’immaginifico luogo in cui vive la Gorgone?
Perché quando si pensa a quelle strane statue si ha l’impressione che siano tanto più inquietanti quanto più esageratamente fisse? Sembrerebbe che da quella fissità emani il soffio orrendo di una morte che porta ancora impressa una vibrazione, come si trattasse di un angoscioso richiamo incastonato nella forma morta e destinato a rimanere muto. Quelle statue che sappiamo congelate proprio in quell’ultimo istante di movimento in cui l’occhio dell’uomo ha preteso di gettare uno sguardo impudico sull’enigma, sono uomini che pagano l’ignoranza dello sguardo con l’impossibilità di “sapere” di più! Occhi morti al loro proprio movimento che testimoniano con la loro fissità, di una materia costretta ad omettere il grido esasperato della vita che è in essa impresso (o è forse compresso?). Una breve indagine riguardo alla storia della Gorgone ci metterà in grado di gettare un rapidissimo sguardo intorno ai suoi occhi senza rischiare di rimanere pietrificati. La Gorgone chiamata Medusa, figlia di Ceto e Forcide, ha due sorelle: Steno e Euriale entrambe immortali, per l’esattezza Medusa sembrerebbe essere l’unica figlia mortale della coppia Forcide-Ceto che è genitrice anche delle Graie (le così dette “Vecchie”, per le quali ritorna il tema dell’occhio, ma qui in forma menomata: come è noto, esse dispongono di un solo occhio e un solo dente in tre), delle Esperidi e del Drago che ne custodiva i pomi immortali. Insomma da una parte il patrimonio dell’immortalità e il suo “inviolabile” segreto, dall’altra Medusa che poi, chissà perché, sarà nel tempo considerata come la Gorgone per antonomasia. Perché Medusa era mortale e le altre due no? È interessante notare come Forcide e Ceto, oltre a essere fratello e sorella, siano divinità marine, figli di Flutto il Mare e di Gaia la terra, e quindi di un principio solido statico, enigmatico e di uno liquido, fluido, dinamico. Come unica figlia mortale della coppia, Medusa
funge per così dire da connessione tra sfera divina, inaccessibileimmortale, e sfera umana, terrena-mortale. E allora cosa ci insegna Medusa? Perché un mostro di tal fatta non è immortale, ma partecipa di una condizione umana? Qual’è il mistero che si cela nell’immagine mitica? Medusa in quanto mortale deve poter essere sconfitta e proprio in questo sembra, almeno in parte, risiedere il suo segreto: come mortale medusa deve poter “scoprire” qualche cosa, mentre in quanto divina, deve portare con fierezza il proprio attributo di morte e celare il suo “enigma”, come fosse un gravoso patto di cui essa stessa è schiava inconsapevole. Medusa pietrifica la “vita”, attendendo che qualche cosa della vita le si riveli e quindi, paradossalmente, Medusa attende una “visione”! Ma di quale visione potrà trattarsi? Sarà Perseo a sciogliere l’enigma della Gorgone. In particolare nella versione più tarda del mito (Ovidio) si tende a dare maggiore rilievo al tema della “rifrazione”: lo sguardo riflesso, specchiato, rinviato appunto da superfici in grado di duplicare il soggetto. È nel leggendario scudo dell’eroe che l’occhio della Gorgone incontra sé stesso rinchiuso nella propria terrificante maschera e, di fronte al proprio enigma, Medusa muore. Perseo gioca con l’occhio della Gorgone, egli come eroe può sostenere l’orrore dell’ossimoro vitamorte e insieme il paradosso di uno sguardo che fa-di-pietra; Perseo dona a Medusa la morte poiché riconosce e rispetta l’enigma che da essa promana e saprà custodire nelle pieghe del tempo. Alla fine dello scontro con Medusa, egli si premura di raccogliere in un sacco il capo mozzato, non per gloriarsi dell’orrendo trofeo, ma al contrario per utilizzare il potere mitico che da esso irradia. Il “capo” pietriflcatore è ormai piegato alla volontà storica dell’eroe. Come ricorda Calvino, Perseo dai sandali alati è l’eroe della “leggerezza”, poiché riconosce la pesantezza e, più che ambire alla vittoria, egli pone le premesse della conoscenza. Il cerchio si chiude:
il sangue che sgorga dal capo mozzo di colei che con l’occhio procura morte di pietra, è un sangue sacro, procreatore, un sangue che nello “sgorgare” da un punto1 è già assimilato al movimento vitale del percorribile e della memoria. Medusa, vincolata a un patto divino che la rendeva incapace di conoscere, custodiva il segreto del proprio sangue come l’enigma della vita rinchiuso nella morte. Con la liberazione di Medusa dalla condanna della pietra, e il “nuovo” scorrere di sangue, si evidenzia quel principio vitale che nella scansione mitica è costantemente presente sotto forma di metafora liquida. Colei che è generata da divinità marine, a causa del potere di morte che cela negli occhi, non viene avvicinata da nessuno se non dalla forza vitale di una divinità come Poseidone che la sfida e la fa sua (quasi a riconoscere in lei, oltre i rischi della fredda pietra, un’attraente e liquida affinità). Essa è a sua volta “vinta” da un gioco di riflessi. La Gorgone muore alla morte, ovvero all’impossibilità di conoscere e riconoscere, muore al suo essere vincolata a un’unica dimensione di faccia-maschera inchiodata a sé stessa. Infine dal suo sangue come liquido divino, si genereranno, grazie anche a Poseidone, Pegaso e Crisaore: il cavallo alato e l’uomo dalla spada d’oro (l’uno, volando verso l’Olimpo, si porrà al servizio di Zeus, l’altro genererà a sua volta un eccesso di vita destinata alla morte: Gerione, mostro a tre teste e tre corpi). La vita torna alla vita e questo appare, in una storia come quella di Medusa, il più pesante mistero che solo Perseo, eroe della “leggerezza”, potrà permettersi di sostenere. Medusa è certamente la maschera di un’ “alterità radicale”, come ricorda Vernant nel prezioso saggio La morte negli occhi, maschera d’orrore che trasforma in pietra la sventatezza umana. L’uomo non può sfidare con una visione “frontale”, “diretta”, il volto-maschera di Medusa. La Gorgone cattura nel regno della morte, cui essa presiede, perché l’occhio umano si perde “in quello della Potenza che lo guarda come
lui guarda lei (...) per il gioco dell’incantesimo colui che guarda è strappato a sé stesso, privato del suo proprio sguardo, investito e come invaso da quello della figura che Io fronteggia”. In questo circuito d’alienazione del sé, in cui ai volti si sovrappongono le maschere, in questo incanto si produce quel totale disorientamento che deriva dall’essere troppo prossimi all’alterità della morte. Il sé stesso si trova identificato all’estraneità dell’Altro, come un irriducibile riflesso in cui il doppio rimane fissato in maschera di pietra, mentre il sé si proietta direttamente nell’aldilà. Questo è il “gioco” in cui l’uomo viene proiettato da Medusa: “guardare Medusa negli occhi è trovarsi faccia a faccia con l’aldilà nella sua dimensione di terrore, incrociare lo sguardo con quell’occhio che non cessando di fissarti è la negazione dello sguardo (...) Quando fissi Medusa, è lei che fa di te quello specchio dove, trasformandoti in pietra, ella guarda la sua orribile faccia e riconosce se stessa nel doppio, nel fantasma che tu sei diventato dopo aver affrontato il suo occhio”. Ma è poi vero che Medusa “riconosce se stessa nel doppio”? Oppure Medusa realizza il doppio senza riconoscere sé stessa né tantomeno conoscere l’Altro? Il mito di Perseo potrebbe spingerci piuttosto a sottolineare come Gorgone sia la figura di un inganno. Vincolata a una funzione di morte beffarda, essa è costretta a reiterare il perverso meccanismo della pietrificazione, senza tuttavia conoscerne il senso. Medusa procura morte tentando di riconoscerne un’essenza che infinitamente le sfugge. Insomma, Medusa non è padrona della propria vita. Perseo sa quanto rischiosa sia la fascinazione di un occhio “divino” fissato in un’unica smorfia e, se da un lato Perseo rinuncia alla possibilità di una visione diretta, accetta la sottrazione2 di una visione frontale procuratrice di morte, dall’altro egli dona la morte come trasformazione; egli quindi spezza il perpetuarsi dell’incantesimo all’interno del quale poco importa stabilire chi sia il soggetto e chi l’oggetto.
Perseo annienta la fascinazione della maschera, riconoscendo il potere e il miraggio che da essa emana. Perseo libera la Gorgone dal paradosso in cui essa stessa è “fissata” e, così facendo compie l’atto coraggioso di rispettare il mistero della vita che emana dal punto della morte. Perseo, dunque, occupa il posto dell’enigma e conquista la pienezza dello sguardo.
GIOCO D’OCCHI E DI PIETRA PROGETTO PER UN’INSTALLAZIONE Questo intervento nasce da una raccolta di sassi, non sassi comuni, ma ciottoli marini, ciottoli simili a occhi tanto da suscitare la domanda: cosa guardano i sassi? Questo pensavo mentre sceglievo accuratamente alcuni esemplari in quella vasta distesa ghiaiosa. Raccogliamo dei ciottoli perché ce ne innamoriamo, li tocchiamo, li osserviamo, li custodiamo accuratamente; poi però lasciamo che vengano dimenticati nelle nostre case e così, divisi dal loro luogo d’origine, i sassi finiscono col giacere inerti, ingrigiti e ormai vuoti di senso, in tazze di varia misura, in recipienti trasparenti o chissà dove altro. Si vorrebbe che qualcuno condividesse con noi il piacere magico che all’inizio ci aveva innamorati di quel “corpo” nudo, ma per scarsezza d’idee si resta più spesso privi di un tale privilegio. Questa volta mi si propone invece di intervenire direttamente in merito alla questione e in virtù del rischioso accostamento di occhio e sasso, riscattare le pietre dall’opacità di una vita fuori contesto. L’idea è stata quella di porre la materia, intesa come un sistema in sé già stratificato che gode di un autonomo principio linguistico, in un nuovo e specifico spazio di significazione. In altri termini, giochiamo
a creare! Noi, a metà tra demiurghi e bricoleurs, inventiamo per i sassiocchio un nuovo contesto in cui inserirli, nel tentativo di regalare alla materia densa e compatta nuova trasparenza, all’inerzia di un corpo fisico vincolato alla pesantezza imprimere un nuovo movimento affinché sia per noi possibile partecipare -al fianco della materia stessa- di un nuovo e comune circuito linguistico. Nutro un totale rispetto nei confronti di ogni singola pietruzza, ma non posso fare a meno di giocare con il “peso” di quella saggezza primordiale, scolpita dal tempo e dalle circostanze, poiché la materia parla al-di-là del suo silenzio, lanciando un messaggio che raramente siamo in grado d’intendere. Più semplicemente si può dire che, se consideriamo i ciottoli come occhi poniamo le premesse per uno scambio linguistico che va dal nostro corpo verso quello del sasso e ritorno. In altre parole, possiamo chiederci: cosa accade se guardiamo l’occhio in un sasso? Ne veniamo colpiti, trafitti dalla nostra stessa domanda; accade che possiamo percepire un al-di-là della compattezza opaca e riconoscere in esso una vibrazione che si avvicina quasi a un principio di trasparenza. Interroghiamo la materia ed essa si rivela al nostro occhio infinitamente vibrante. La pietra, all’interno del nuovo spazio e in relazione alla domanda, si anima di nuova vita e noi scopriamo, solo ora, che siamo pronti ad ascoltarla. Cosa guarda un sasso? Cosa vede un sasso? Ci disponiamo a essere toccati dalla nostra domanda e finiamo come catturati in uno sguardo troppo penetrante. Il nostro occhio nel confronto con l’occhio di pietra s’involve su sé stesso sino a toccare il proprio significato. I sassi collocati in questo nuovo circuito sembra che non smettano di lanciare il loro messaggio muto. Cosa vede quel ciottolo che fissa il suo punto di colore sino oltre la superficie sensoria del mio occhio che lo guarda? Quel sasso come occhio: “mi ha visto”, “mi ha colpito”, ossia mi ha detto, mi ha parlato,
varcando quell’orizzonte trasparente che si pone come guardiano del sé e con la potenza della pietra s’incide in esso. Lo sguardo di un sasso ci “tocca” sino a farci precipitare con la vita nell’essenza della materia. L’occhio di pietra fa rimbalzare la domanda di chi guarda, dischiudendo la coscienza a un diverso. senso del guardare. Ogni pietra pur minuscola porta con sé la potenza di una moltiplicazione originaria, quasi fosse un linguaggio fratto in milioni d’idiomi, intorno al quale dobbiamo poterci arrischiare. L’occhio di sasso. Chi ama i sassi, o se ne sente attratto, sa che la potenza che emana da un sasso sembra richiamarsi direttamente a un principio primordiale: il corpo solido tiene, o meglio trattiene, profondamente coesa la saggezza degli atomi di cui si compone. Dai sassi allora sembrerebbe promuoversi un principio di estrema e coerente stabilità, eppure il fascino dei sassi non risiede in un senso di morte-rigida da contrapporsi alla mobilità della vita, poiché nella pietra la vita vive; nei sassi si legge impressa, scritta, disegnata la loro storia, cosicché in ognuno di essi percepiamo la coincidenza di principio e fine, coesione e dispersione, essenza ed evanescenza. Ogni sasso porta in sé un messaggio preciso, ogni sasso è ai nostri occhi muto ma parla una lingua altra, che deve potersi intendere. Trovare un occhio in un sasso può allora rappresentare il tentativo di una mediazione tra il nostro linguaggio e una lingua inconosciuta, una possibilità di articolare una relazione tra noi e quell’espressività oltre-codice rappresentata dal sasso. L’occhio che si trova in un sasso può essere la traccia di un’idea, la reminiscenza di una forma a noi nota che vediamo proiettata sulla superficie della materia perché essa possa essere da noi nominata e quindi intesa. Un sasso costituisce un piccolo universo a sé, un frammento autonomo di un linguaggio smarrito, e su di esso ogni traccia visibile si costituisce piuttosto come un “in sé”, un’icona. Alla trasparenza vitale dell’occhio umano, che si lascia attraversare nonostante l’enigma, che si fa ascoltare nel suo percorso espressivo, si affianca l’occhio di sasso che, inquietante per la sua precisione
quasi innaturale, si fa raccogliere, toccare, guardare e riguardare, mentre rimane fondamentalmente identico a sé stesso. La sua superficie è percepibile come rotondità, sulla quale si legge il tondo di una traccia, una macchia che richiama l’attenzione, un segno già di per sé parlante. “L’essere è rotondo”, afferma Bachelard riprendendo una frase di Jaspers per sottolineare la “primitività di certe immagini dell’essere”. Ma quella stessa traccia rotonda, come un segno che circoscrive una zona, rimanda contemporaneamente a un “vuoto”. Così nella solidità espressa da un sasso tondeggiante e macchiato, oltre quel tutto-pieno si configura un punto indefinitamente vuoto. La traccia di colore allude a un oltre, il sasso custodisce il proprio vuoto, la storia secolare di un essere che tra implosione ed esplosione si manifesta nella rotondità. Da quel punto macchiato, dunque, come fosse il margine di un precipizio, o il bordo di un pozzo segreto, si può di rado intendere una voce sottile raccontare lentamente la propria storia infinita. Da dove guardano i sassi? I sassi guardano dal medesimo punto in cui parlano ed è proprio vicino a quel luogo, intorno a quel bordo che dobbiamo estendere i nostri sensi affinché si produca la magia dell’incontro con un linguaggio che andrebbe altrimenti perduto. Carlotta Natoli Note Questo sgorgare del sangue da un punto spezza una continuità statica e incosciente e richiama quel “venire su” che nel paragrafo precedente veniva associato all’acqua. Lo scorrere del liquido divino, insieme orrendo e sacro, è dunque il segno prepotente di emeiwtom a nuova vita e traccia rossa che marchia la memoria dell’eroe. 1
2
Perseo attua una sottrazione allo scopo di non essere eternamente
menomato. Egli accetta la mancanza di una visione frontale per un orizzonte. Così facendo, Perseo sfugge alla flssità, si sottrae consapevolmente all’illusione della forma, non ascolta il canto di sirene che attira gli occhi umani ad inchiodarsi irreversibilmente su quelli della maschera. Perseo non è sottomesso alIa adulazione né all’arroganza dello sguardo e conquista così l’interezza del movimento. Egli sottrae potere all’inganno tridimensionale per tuffarsi in una quarta dimensione. Come per le Caioth nella profezia di Ezechiele, Perseo ha conquistato la possibilità di sentirsi “ispirato ad andare”.
Delfi
Paolo Rosa
È una Delfi notturna, oscura, quasi invisibile, quella che sta intorno al vecchio custode delle rovine mentre ci racconta le sue preoccupazioni, le sue ansie, le sue emozioni. Una Delfi che si è appena liberata dalla vociante presenza dei numerosi turisti della giornata e che ora si ritira silenziosamente in un buio rigeneratore, lasciando il suo spazio al dialogo muto delle statue, dei marmi e degli animaletti che li abitano. È il momento di una visita speciale. Avevamo cercato a lungo questa visita prima di incrociare nel 1990 questo testo di Ghiannis Ritsos. Sentivamo allora l’esigenza di un percorso purificatorio, rigenerante che ci allontanasse dal turbine di immagini, di informazioni, di dati che sentivamo pronto ad aggredire i nostri immaginari, i nostri comportamenti. Sentivamo un senso di stanchezza, di fastidio che ci ha reso immediatamente complici delle parole di questo racconto: “sono stufe anche le statue. Sono stanche anche loro, le belle, le innocenti, le prive di responsabilità, loro che sono state plasmate con così tanta dolcezza dalle mani innamorate degli uomini per mostrare il corpo umano in tutta la sua bellezza”, concordi con il suo protagonista nella voglia di cercare percorsi
fuori dalla superficialità: “a volte sotto i drappeggi lavorati nel marmo, riesci ancora a distinguere, tremanti come una preghiera, delle membra umane, e toccando il ginocchio di pietra di una divinità in frantumi è ancora possibile sentire tutto quanto c’è nascosto”. Ci sentivamo partecipi della sua rabbia che porta a reagire: “in quell’istante immagino che dentro alle macchine fotografiche dei turisti si oscurino all’improvviso tutte le lastre, che non rimanga che un immobile nero”. La nostra visita speciale comincia qui. Con il vuoto, col silenzio, soprattutto con il buio. Nel primo studio teatrale di questa opera, realizzato nel 1990, ci tentò immediatamente il mettere in scena l’essenzialità estrema del nero. L’avvolgere il palcoscenico in un buio denso, impenetrabile. Immaginammo anche noi che dentro il teatro si oscurasse all’improvviso tutta la scena rendendo i nostri occhi incapaci di distinguere. lmmaginammo due schermi collegati in diretta a due camere agli infrarossi che si sarebbero mossi come occhi. Due pupille cioè, che con il loro movimento sincronizzato, il loro effetto stereoscopico, la capacità di creare analogie e generare sogni ci
avrebbero guidato a decifrare uno scenario gremito di statue in attesa di essere restituite a un nuovo livello di sguardo, a una nuova condizione di sensibilità. Questi erano i presupposti per riscrivere le emozioni di Ritsos. Essi si intrecciavano alle intenzioni di due altri indispensabili compagni di visita, Moni Ovadia e Piero Milesi, completando così un progetto piccolo e essenziale, ma per tutti noi di profondo significato. Da quello studio per suono, voce, video e buio del 1990 alla versione più ampia che abbiamo presentato nel 1994 sono trascorsi pochi anni, ma assai densi di avvenimenti e carichi dei significati di una mutazione profonda. Ma non abbiamo mai avuto la sensazione che le intenzioni e le tensioni che hanno guidato questo esperimento video-teatrale si svuotassero e, rimandandoci a quell’eco di classicità del testo, venissero superate. Anzi, la successione degli avvenimenti sembrava di volta in volta riportarci inesorabilmente alle nostre suggestioni e alle nostre scelte. A cominciare, qualche mese più tardi dalla prima rappresentazione a Parma, dallo stesso tipo di sguardo forzato agli infrarossi che guidò drammaticamente tutti noi nelle notturne visioni di una Bagdad infuocata dalle bombe. Uno sguardo che non voleva farci dimenticare che molta della ricerca tecnologica ha quella finalità.
Per noi che abbiamo sempre affrontato gli impegni nel teatro innestando nella componente nobile, tradizionale l’elemento dissacrante della presenza tecnologica, a rappresentazione di un connubio che ormai fa parte della quotidianità; per la nostra esperienza Delfi è stato un passo verso la semplificazione, l’essenzialità, la rinuncia, nel tentativo di piegare ancora una volta una tecnologia ridondante e questa volta assai sofisticata, nei confini di una poesia sempre più dimenticata. Non è, e non è stata, solo la messa in scena di un malessere, ma semmai ancor più l’esigenza di uno sfogo, come quello del vecchio custode (speriamo con somigliante intensità), contro l’aggressività con cui certe immagini ci assediano, alla superficialità con cui vengono assunte, ai comportamenti che esse determinano. Uno sfogo per non trovarci, per non ridurci a essere “turisti del proprio immaginario”, per non divenire visitatori distaccati e distratti di quello che esso contiene e di quello che esso significa. Buona visita a Delfi.
Cosa guardano le statue Lucio Saviani
Bisogna scoprire l’occhio in ogni cosa Giorgio de Chirico
“Car l’espace en realité ne comporte pas plus de points, de lignes que le temps. Comprendre que la Gestalt est déjà la transcendance: elle me fait comprendre qu’une ligne est un vecteur, un point, un cente de forces. Il n’y a pas de lignes ni de points ni de couleurs absolus dans le choses. La vision de champ et la notion de champ - Bergson disant que le serpentement ne produit peut-être aucune ligne réelle.” (M. MerleauPonty)
La rete di allusioni, di rimandi e di approssimazioni - in cui sono talvolta attratti significati a prima vista lontani - aperta e tesa dalla parola greca ágalma sembra disegnare in filigrana le tracce trasparenti della topologia di una realtà illusa, in cui le cose non sono in alcun posto, non “hanno luogo”, o della reale illusione di quel gioco di seduzione tra presenza e assenza che è l’apparenza. La parola greca ágalma designa le statue, ma anche (da agállomai) la gioia e l’esultanza. Ágalma è offerta agli dei, immagine, ricordo, onoranza e celebrazione (Euripide, Baccanti, 157); ma è anche immagine degli dei, statua o pittura; o simulacro, come in Erodoto. Ágalma (da agállo a ága) è ciò di cui ci si adorna, o di cui si gode. È ornamento, decorazione, come in Euripide e in Pindaro; splendore (Omero, Odissea 19, 257: “perché gli fosse ornamento”, agalémenai). In Aristofane è celebrazione con offerte e altri segni di pietà; in Tucidide e in Omero è spesso “gloriarsi di avere” (agálletai exón), nelle Leggi di Platone è “compiacersi, esultare, andare superbi” (Omero, Iliade, 12, 114: “superbo dei cavalli e del cocchio”, agallómenos). Questo termine, avverte Kereny, sta a indicare presso i Greci ben più di una cosa, ma la continua origine di un evento, a cui partecipano
gli dei non meno che gli uomini. Accade così che talune statue arcaiche recano un’iscrizione attraverso la quale esse dichiarano di essere sia la statua che la gioia di un dio. Il genitivo di ágalma è, in questo caso, sia soggettivo che oggettivo. “Davanti a queste statue è del tutto impossibile decidere se ci troviamo di fronte a ‘oggetti’ o a ‘soggetti’, perché esse ci guardano da un luogo che precede e supera la nostra distinzione soggetto/ oggetto.” (G. Agamben) La topologia “delle cose che non hanno luogo” è aperta dallo sguardo sospeso di queste statue, come da un brillìo traspare in un attimo (Augenblick: battito di ciglia, colpo d’occhio) scolpito in eterno. Nello sguardo di queste statue riluce, come in un lampo, un mondo che, ancor meglio degli dei, conoscono i poeti, i giocatori e gli uomini selvaggi. L’essere del mondo, quel gioco di un fanciullo che sistema e individua le cose nel mondo facendole nascere e svanire, non ha luogo nel mondo, non si manifesta. Non è “fenomeno”, non è collocabile tra le cose nel mondo, in quanto si risolve nel conferire luogo e tempo, più che nell’apparire e durare. Il mondo non dura quanto potrebbe durare una cosa nel mondo; il mondo dura al massimo quanto il tempo stesso. L’essere del mondo non trova dunque posto accanto o al di sopra delle cose; allo stesso modo non si dà come sfera dell’eterno distinta dal “mondo” del transitorio. In questo originario sottrarsi, per questo gioco di assenza e presenza, accade però talvolta che una cosa finita possa rilucere nella sua inerenza al mondo e rinviare all’intero universale: che un frammento del mondo possa rilucere alla luce del mondo. Nello sguardo fisso e sospeso, nell’ “irreale” battito di ciglia dell’ágalma (“gloria” e “splendore”) riluce fulmineamente il mondo, della cui luce brilla la stessa cosa finita; come in un lampo, una cosa del mondo viene illuminata e sollevata nello “splendore” del mondo. Ciò che accade alla cosa finita quando riluce nella sua inerenza al mondo, piuttosto che un brillare di un “riflesso” di luce, è
un diventare trasparente alla luce del mondo. Questo sguardo o lampo del mondo avviene per lo più come un attacco di sorpresa. In questa trasparenza la cosa finita non si annulla, ma si lascia piuttosto guardare più chiaramente come prodotto della forza individuatrice del tutto universale, della cui luce d’improvviso risplende. Le cose “trasparenti” che si lasciano attraversare dalla luce del mondo acquistano una profondità cosmica; guardando sul fondo di esse “apprendiamo come il tutto si agiti in esse” (E. Fink). La cosa finita, grazie a questo luminoso attraversamento da parte a parte del mondo, rimanda al tutto governante, ma non nel senso del rinvio a un’altra cosa del mondo. La cosa che riluce della potenza del mondo è diventata simbolo. Il totum è in parte; il tutto è rappresentabile solo nella figura simbolica: il simbolo rappresenta non come copia di un originale, ma come parte che rappresenta il tutto. Quando su una cosa del mondo cade la luce della forza governante dell’universo, la cosa assume un nuovo aspetto: essa continua a essere ciò che era e tuttavia non lo è più. Il tutto universale si nasconde nella propria luce, non “entra” nel fenomeno, sottraendosi allo sguardo. “Il culto è più vecchio della filosofia” (E. Fink). Per l’uomo mitico le cose erano il loro significato: per un pensiero che ancora non faceva uso di concetti, le immagini “mitiche” erano esperienze originarie, più che riproduzioni. Nel culto primitivo, nella festa arcaica, l’ingresso nell’ “irreale” significa innanzitutto uno sfondamento in una realtà superiore, una via d’accesso alle potenze sovrumane, “rappresentate”, rese visibili, ma in una “irrealtà” che ha un carattere ontologicamente superiore alla “realtà” della vita ordinaria. “Per l’uomo mitico le cose ‘sono’ il loro ‘significato’; per lui non si può distinguere tra ciò che semplicemente ha un significato e il significato che si appoggia ad esso. La cosa e il senso del simbolo si confondono misteriosamente. La cosa che ha un senso mitico è
simbolo. Ma questo non significa che sia altra cosa da quella significata in essa. Ciò che significa e ciò che viene significato coincidono, o meglio si compenetrano continuamente l’uno nell’altro.” (E. Fink)
Di qui, l’ambigua dimensione dell’“irrealtà” misteriosamente accessibile e, con essa, l’apparire del misterioso potere del tòpos. L’ “irrealtà” da cui ci guardano e verso cui ci invitano a guardare gli occhi dell’ agalma è quella terra di nessuno, sospesa tra materiale e immateriale, zona indecisa tra soggettivo e oggettivo, regno dell’illusione, in cui giocano prossimità e distanza, identità e differenza, interno ed esterno. Di nuovo, il potere misterioso del tópos, di quella cosa, secondo Aristotele, così difficile da “cogliere” ma dal potere “meraviglioso” e superiore a ogni altro, quello stesso potere che, secondo Platone, fà sì che “ciò che è, in un certo senso, non sia e ciò che non è, in un certo senso, sia.” L’invito a una nuova abitudine, ad “abitare”, a pensare il “luogo” come qualcosa di più originario dello spazio. “Le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza di essere-al-mondo.” (G.Agamben)
Il nihil mirari dell’occhio vuoto delle statue sospende l’ovvietà del mondo delle cose, suscita l’inquietante stupore del fatto che il mondo e le cose, semplicemente, ci siano. È lo sguardo su un mondo che, offrendo senso a tutte le cose, rimane di per sé vuoto e insignificante. Un oscuro e improvviso sguardo sull’abisso, sul vuoto: uno smarrito “avvertimento” del nulla
del mondo. Il fatto che accade sotto quegli occhi è che il mondo, di per sé, rimanda al vuoto, all’abisso: che il mondo non significa nulla. “Io ti voglio esporre anche il miracolo di Memnone: perché fu veramente mirabile l’arte, ed eccedente la mano d’un uomo. V’era una statua in Etiopia fatta di marmo, di Memnone, figlio di Titone. Ma certo la pietra non stava tra i suoi limiti , né guardava quel silenzio che per natura le competeva, ma avvegnaché fosse pietra, aveva tuttavia la facoltà della voce: perché ora parlava al sole nascente, significando con la voce il suo gaudio e lieto per la presenza della madre; ora piangeva ansiosamente, e miserabilmente verso notte, declinando il giorno, preso da mestizia per la sua assenza. Né poi era privo di lacrime (…) La natura ha dato alle pietre un’indole non vocale, ma muta, e che non ammette il regime del dolore, né è partecipe di letizia, ma insensibile in ogni caso: ma a quella pietra di Memnone la natura ha concesso il piacere, e ha infuso il dolore nel sasso. E solo conosciamo quest’arte, che ha dato al sasso i sentimenti e la voce (…) Le mani degli Etiopi hanno trovato la strada di far l’impossibile, e hanno vinto la stupidezza della pietra.” (Callistrato) “Narrano che il luogo in cui si erge la statua è simile ad una antica piazza, come quelle rimaste nelle città che furono abitate nei tempi passati, dove si trovano frammenti di colonne e vestigia di muri, seggi e stipiti e statue in forma di Erme, in parte distrutti dalle mani degli uomini, in parte dal tempo. La statua, rivolta verso il sole nascente, rappresenta un giovane ancora imberbe, ed è di pietra nera. I suoi piedi sono riuniti come nella statuaria dei tempi di Dedalo , e le braccia si appoggiano ritte al seggio, come se fosse in atto di levarsi da seduto. Essi decantano quest’atteggiamento e l’espressione degli occhi la fattura della bocca in atto di parlare; e dicono di non averlo tanto ammirato per tutto il tempo in cui questi effetti non riescono appieno evidenti, quanto nel momento in cui il raggio del sole cade sulla statua. Ciò avviene al suo sorgere, e allora non seppero frenare la loro ammirazione: poiché non appena il raggio tocca la sua bocca, la statua emette una voce, e gli occhi sembrano levarsi splendenti verso la luce, come fanno gli uomini che amano affissarsi nel sole. Dicono di aver compreso che sembra alzarsi in onore del sole, come fanno quanti venerano la potenza divina stando eretti.” (Filostrato)
“V’era un bosco, e in quello una fonte bellissima, che aveva acque molto pure, e limpide. E presso quello era posto Narcisso fatto di bianco marmo, fanciullo, o piuttosto della stessa età degli Amori, mandando fuori del corpo quasi una folgore di bellezza (…) E il suo sguardo non era tale che esulta di puro gaudio, né per una serena ilarità; ché era ingenerata negli occhi per industria dell’arte la tristezza, come se l’immagine imitasse con Narcisso anche la sua fortuna (…) Si stava in piedi usando della fonte come di specchio e diffondendo in essa la forma del suo volto: e la fonte ricevendo i suoi lineamenti dava l’immagine delle sue forme, onde si paresse che fra loro contendessero questi due diversi generi di cose. Imperocché il marmo tutto si trasformava all’imitazione di quel vero fanciullo; e la fonte contendea cogli sforzi dell’arte del marmo; esprimendo con figura priva di solidità corporea la somiglianza della figura, che faceva un corpo solido (…) E puoi osservare la pietra, benché sia tutta di uno stesso colore, e aver presa la forma degli occhi, e conservare la rappresentanza de’ costumi, e dimostrare il sentimento, e manifestare gli affetti.” (Callistrato)
C’è un senso nascosto della radice erm- di “ermeneutica”, quello che trae origine dal sanscrito varsma e che indica “ammasso di pietre”, “prominenza”; questo senso è meno nascosto nell’espressione érmata themélion (“rovine dei fondamenti”) che conduce al limite opposto del significato principale di “erma”, ossia “base”, “sostegno”. “In Arcadia esiste un altro santuario dove si prestano i giuramenti più gravi , nelle questioni più importanti: quello di Demetra Eleusinia, a Feneo. Vi si giura per il pétroma, per la pietra. Formato da due macigni accostati (in cui sono racchiusi scritti concernenti i misteri, che vengono tirati fuori ogni due anni per essere letti agli iniziati) il pétroma reca sulla sommità una sfera che ha all’interno la maschera di una Demetra Kidaria.” (J.P. Vernant) “Dal punto di vista dello scultore la parte più difficile della testa umana (e forse addirittura di tutto il corpo umano) da rappresentare in forma scultorea è l’occhio. Per tutta la storia della scultura l’occhio ha sempre rappresentato, nel modellato di una testa, il massimo problema. Ciò è dovuto, ovviamente, al fatto che, di tutte le parti del corpo umano, l’occhio soltanto reca in sé un disegno che esiste soltanto in
termini di colore, ma non di forma: l’iride e la pupilla.” (R. Wittkower) “Bernini meditava senza posa sul problema fondamentale del ritratto, e precisamente su come tradurre in marmo non colorato i colori e la complessione di un volto. Ragionava che se uno tingesse di bianco i capelli, la barba, le labbra e le sopracciglia e, se ciò fosse possibile, gli occhi, persino chi lo veda tutti i giorni avrebbe difficoltà a riconoscerlo. Così, egli diceva, era difficilissimo raggiungere la somiglianza in un ritratto fatto di marmo, che è interamente bianco. Per raggiungere una somiglianza compiuta è talvolta necessario rappresentare nel marmo tratti che non sono presenti in chi posa.” (R Wittkower)
Il re Luigi XIV dovette rimanere interdetto quando, durante l’ultima seduta di posa, vide ancora una volta il suo sguardo diventare opaco e vuoto, i suoi occhi due macchie nere e disuguali. Lo aveva già incuriosito, mesi prima, il fatto che Bernini, durante la lavorazione del busto, fosse tornato più volte con il suo gessetto nero su quegli occhi, macchiando le orbite di marmo bianco e correggendo qualcosa di cui non si intuiva né la presenza, né la provvisorietà. Ogni volta la mano dello scultore tornava, con una precisa urgenza, sugli occhi; fino, appunto, a quell’ultima seduta. Quel giorno Bernini dichiarò finita l’opera; il senso delle sue parole era che la presenza del re finiva di essere necessaria. Allo sguardo regale Bernini avrebbe lavorato da solo. Lo sguardo del re, fermo e incisivo, era stato, fino alla fine, la prima preoccupazione dell’artista: uno sguardo da trovare, da scavare, e da consegnare all’assenza. Nel suo laboratorio Bernini picchiò con lo scalpello negli occhi del re; incise, punse, scalfì l’iride di gesso nero; l’ombra che ne risultò fu la pupilla che copriva e svelava la propria assenza, tanto a lungo inseguita e, alla fine, fissata per sempre.
“Quando vi si riflette, appare strano che nella prima arte greca, quando il corpo umano era sottoposto a norme arcaiche rigorose, l’occhio venisse rappresentato in modo assolutamente realistico, con pupilla e iride colorate. Si prenda l’Auriga in bronzo a Delfi; ha gli occhi fatti di vetro, i bulbi oculari sono bianchi, le iridi marrone, le pupille nere. La vita degli occhi è tanto efficace che si tende a trascurare l’arcaicità dei tratti (…) Un modo per rappresentare l’occhio con mezzi puramente scultorei non venne trovato prima dell’età ellenistica. In quest’epoca gli scultori indicavano l’iride con un cerchietto in rilievo sul bulbo oculare, e la pupilla con uno o due forellini al centro. L’ombra prodotta dai forellini dà l’effetto di una pupilla nera e il piccolo bordo tra di loro emerge chiaramente e rammenta quella scintilla di luce che ravviva l’occhio umano. Poiché nella vita reale questa scintilla di luce si sposta con l’angolo di visione di una persona, il piccolo rilievo consentiva allo scultore di fissare la direzione dello sguardo.” (R.Wittkower) “L’occhio greco nella sua forma dipinta definitiva, conferiva alla testa un vigore enorme. Gli scultori italiani trovarono adatto il bulbo non trattato, non dipinto, per esprimere idee generali come sensibilità e compassione, ove fosse necessario uno sguardo che spaziasse nell’intorno, più che uno sguardo fisso: ciò si adattava certamente, ed era assai espressivo, per molte tematiche dell’iconografia cristiana.” (R.Wittkower)
Per Golem, nel folklore ebraico, si intende un simulacro dotato di una forma di vita incompleta, analogamente all’uso che del termine faceva la letteratura talmudica per indicare una sostanza embrionale, imperfetta. L’animazione del Golem era possibile per incantesimo e sapienza di maghi, ovvero in forza di parole sacre o sinonimi del nome di Dio scritti su un foglietto che veniva posto nella bocca o affisso alla testa dell’automa. Per arrestare il Golem si rimuoveva il foglietto (lo Shem) dalla sua sede. Ogni fantasia su questo tema diventa palpabile se, percorrendo il perimetro del cimitero ebraico di Praga, ci si sofferma davanti alla tomba del Rabbi Loew e, come gli altri visitatori fanno, vi si posa sopra un sassolino, secondo il rito. (Avremo letto in precedenza le straordinarie pagine di Praga
magica di Ripellino). A quale delle statue incontrate fin qui applicheremmo volentieri lo Shem che dava vita al Golem? Oppure: quali tra queste sono forse state una volta dei Golem cui fu sottratto il foglio con la parola sacra? “Rob” di robot viene forse da “schiavo” o da “rabbi”. Servo ambiguo, generatore di equivoci, il robot può rivoltarsi contro il suo padrone, portarlo alla disperazione. Robot è anche un nome proprio ceco, che Capek trae dalla parola “robota” (faticoso) per designare gli automi del suo dramma R.U.R. (Rossum’s Universal Robots). Gli automi di Villiers de l’Isle, di Raymond Roussel, di Hoffmann sono forse leggibili come simboli del desiderio di riportare indietro, alla vita, la statua che fu un giorno viva prima di trasformarsi in sale, come la moglie di Loth? Talvolta la statua entra come soggetto nell’opera pittorica, chiamata a fare da testimone o da attrice in un gioco di rimandi o di allusioni che la rendono, insieme alla pittura che la raffigura, ancor più misteriosa. Nell’ “Autoritratto” 1924 di Giorgio de Chirico la testa del pittore indirizza il suo sguardo imbronciato verso di noi, mentre una sua effigie marmorea di dimensioni equivalenti guarda con intensa severità il pittore. La direzione dello sguardo di questo, leggermente obliqua verso la sua sinistra, forma con quella degli occhi della statua i due lati di un triangolo il cui terzo lato siamo noi a fornire, prestandoci così al gioco del maestro. Viene in mente il titolo che lui stesso scelse per la raccolta dei suoi scritti (Meccanismo del pensiero): con questo quadro ci coinvolge appunto in un meccanismo dove il vedere e pensare sono il primo passo che induce al guardare e ragionare. E siamo noi a finire il quadro, o meglio a “compierlo”, guardandolo in silenzio. “Ainsi changent les rapports intérieurs de l’oeuvre, la
statue établit dans le silence du tableau un volume compact redoublant le silence (...)” (Starobinski). Verrà poi il momento in cui De Chirico sostituirà le teste con semplici forme ovoidali oblunghe, prive d’occhi. Il soggetto malinconico si sente già morto in un mondo di morte? “(...) le peintre s’est littéralement peint pétrifié, le ragard blanc, aveuglé, dévenu enfin, comme dans le livret de Da Ponte, l’uomo di sasso. La mélancolie qui l’empregne est celle d’un monde de l’inert, de la mine, du minéral (…) Grand lecteur de Nietzsche et de Schopenhauer, mais aussi de Freud et d’Otto Weininger, Giorgio de Chirico est sans doute celui qui a le plus medité sur le sens de la fascination méduséenne.” (J. Clair)
L’arte del ritratto “nasconde l’obiettivo” di cogliere in un’altra persona nello stesso tempo ciò che esprime e ciò che nasconde la maschera/volto, cioè di far apparire l’inespresso nel manifesto. Come paziente e maliziosa arte del “riconoscimento”, l’arte di riprendere un volto - “individuarlo” - mette in “opera” un preciso disegno, quasi come un voler ri-prendersi qualcosa che si sia sottratto allo sguardo e che, intanto, si “guarda bene” dal
farsi riprendere. O “inquadrare”. È un uomo braccato, senza alcun motivo, il misterioso protagonista del Film di Beckett. O almeno, nel suo affrettarsi affannato e guardingo, quest’uomo si sente braccato. Ripreso quasi sempre di spalle, lo guardiamo cambiare strade che conosce bene, mentre cerca senza sosta di nascondere il volto. Voltandosi di scatto, riesce a sfuggirci e a evitare l’occhio di una cinepresa-Medusa che continua, implacabile, a “inquadrarlo” a ogni passo. Di volta in volta, quando riusciamo ad avvicinarlo, cerca di coprirsi il volto e continua a fuggire, coprendosi anche alla vista di qualche passante. Inseguiamo l’uomo fino in casa e lo sorprendiamo a nascondersi a sé stesso come a noi, coprendo in fretta ma con tanta attenzione gli specchi delle stanze. Finalmente, nelle ultime sequenze, la resa. Ma con un primo piano tenero e beffardo: appare il suo volto, esausto e angosciato, e scopriamo nel volto l’irraggiungibile sguardo di Buster Keaton, detto “la maschera”, o “volto cancellato”. O anche “faccia di pietra”. “Esaminiamo più da vicino questo termine di ‘avanguardia’, al di là della sua connotazione militare, si trova il concetto dell’anticipare il fenomeno, anch’esso militare, guerriero, comunque protettore della ‘guardia’, del fare la guardia (vigilare, custodire) contenuto nel verbo guardare, cioè, similmente al tedesco warten o inglese to ward, il fatto di proteggersi, di fare attenzione, di stare in guardia. Riguardare è anche l’atto di volgere il proprio sguardo all’indietro per accertarsi di non essere seguiti o minacciati. Si tratta di uno sguardo di retrospezione per, come si è soliti dire, guardarsi alle spalle. Vi sarebbe quindi un’antinomia, o meglio un’aporia, un principio antagonista al nomos, alla regola classica, tra lo sguardo del pittore, che è reiterazione, riflessione, richiamo dello sguardo, che vuole essere garante ostinato di una regola del vedere, di una teoria del sapere, e il fenomeno dell’avanguardia, che rompendo la guardia, avanza alla stregua dell’ex-cursus di un occhio solitario e vulnerabile, correndo così il rischio di smarrirsi veramente, di perdere la vista, o di perdere la vita di quell’organo che ci permette di vedere.” (J. Heiduk)
Cosa riluce negli occhi di Artemide quando la dea scopre di essere vista da Atteone? Quale pensiero divino brilla in quel colpo d’occhio? È vendetta, inumana ferocia, castigo o, semplicemente, un gioco sovrumano (remoto al pensiero degli uomini, come pensa Klossowski) a trasformare - in un battito di ciglia - il cacciatore in cervo, sbranato di lì a poco dai suoi stessi cani? Gli dei si divertivano a trovare imprevedibili e fantasiose occasioni per apparire agli uomini. Si mascheravano, a volte si trasformavano, oppure si facevano precedere da bizzarri e spesso bugiardi messaggeri; altre volte lasciavano segnali, spesso ingannevoli, oppure offrivano moniti e consigli attraverso oscuri oracoli, affaticando veggenti e sibille. Stranieri agli uomini, gli dei incontravano così una certa familiarità presso i mortali, abitandone lo stesso mondo. Ma intanto, immortali in un mondo imperfetto, vivevano di un loro crudele destino: più che ingannare gli uomini, essi ingannavano il tempo... Eppure quei due sguardi che s’incrociano, quell’apparizione così improvvisa, sono il luogo di un incontro del tutto particolare che sembra anzi raccontare - con le domande che lascia sospese - ben più di quanto non “dia a vedere”. “Qualunque arte che si riferisca a cose della sfera visibile in primo luogo tratta e mette
in scena l’organo che permette al mondo di apparire ai nostri sensi, dotato di una visibilità, cioè l’occhio , il globo oculare. Qualunque arte (…) rappresenta una metafora della visione, anzi una metafora del globo oculare (…) che proietta sul mondo il fatto singolare che noi abbiamo un occhio e, quindi, quando noi guardiamo il mondo, allo stesso tempo siamo guardato dal mondo, perché ci accorgiamo che il mondo, l’esterno, è quello che ci circonda , ‘ciò che ci riguarda’. Tutta la storia dell’arte in fondo non sarebbe altro che una storia dell’occhio e della visione.” (J. Heiduk)
Sorprendendo lo sguardo di Atteone, è Artemide che si scopre violata e ingannata. Ai suoi occhi lo sguardo sacrilego di Atteone è veramente sconfinato. Pur incontrandosi nello stesso posto, la dea e il cacciatore sono testimoni, reciproci, di “mondi diversi”; Atteone, pur così vicino, sta assistendo a cose di un “altro” mondo e gli occhi della dea, con il loro luccichìo, sembrano guardarlo da un’altra sconfinata lontananza. Nella sua fulminea vicenda, il mito della dea e del cacciatore è dunque uno sguardo gettato sul misterioso, oscuro confine che separa e unisce l’identità e la differenza. Uno sguardo sul limen intorno a cui “tramano” identità e alterità, unità e integrazione, interno ed esterno. Ma è uno sguardo sconfinato, così come la storia che sembra raccontarci. Dea “dei margini e dei confini”, delle paludi e delle lagune, delle zone indecise tra terra e acqua, Artemide rappresenta, per i Greci, il modo di confrontarsi con l’altro, di venire a contatto con lo “straniero”. È colei che guarda l’altro nella sua alterità per conservarne la differenza. Il numinoso sguardo di Artemide che “sprizzava scintille assassine” brilla di un’altra luce, che riconsegna Atteone all’ombra della sua differenza. Irriconciliabile con il mondo degli uomini è invece Medusa: il caos, il non essere, l’assolutamente altro. Medusa guarda con “la morte negli occhi”. La figura di Medusa si è a lungo collocata tra dei e demoni. Guardiana ai confini dell’Ade, separa il mondo dei vivi da
quello dei morti, il mondo delle cose visibili da quello delle invisibili. Ma separa soprattutto l’ordine dal caos, la ragione dalla follia. “Parce qu’elle partecipe de deux royaumes, sa nature... sera double elle aussi, invinciblement ambigue... tantot effroyable et tantot séduisante, tantot attirante et tantot repoussante comme il en est de tout ce qui touche au regard et au sexe, de tout ce qui nous rappelle que nous sommes nés et que nous devons mourir (...) ligne de fracture (...) faille qui sépare en deux les vivants comme elle separe les vivants et les morts.” (J. Clair)
Lo sguardo di Medusa posto dagli antichi sulle tombe per impedire ai morti di tornare e turbare i vivi, diventa poi col cristianesimo oggetto di segno contrario. Nella Basilica di Porta Maggiore, a Roma, e poi nelle Catacombe, sarà collocato non per spaventare ma per rassicurare i morti. “(…) l’apprivoisement de la Gorgone étant l’oeuvre des sectes orphiques et pytagoriche.” (U. Carcopino) Nella discesa omerica all’Ade di Odisseo, Medusa ha un ruolo simmetrico a quello di Cerbero: vigila sulle frontiere del regno di Persefone e impedisce ai vivi di entrare nel regno dei morti, mentre Cerbero impedisce ai morti di tornare tra i vivi. Un sinistro digrignar di denti, seguito da un urlo acuto inumano, costituiscono il linguaggio sonoro proprio della Medusa infernale cui fa eco il latrato del mostro dalle cinquanta teste. “Guardare Medusa negli occhi è trovarsi faccia a faccia con l’aldilà nella sua dimensione di terrore, incrociare lo sguardo con l’occhio che non cessando di fissarti è la negazione dello sguardo, accogliere una luce il cui bagliore accecante è quello della notte. Quando tu fissi Medusa, è lei che fa di te quello specchio dove trsformandoti in pietra, ella guarda la sua orribile faccia e riconosce se stessa nel doppio, nel fantasma che tu sei diventato dopo aver affrontato il suo occhio. O, per esprimere in altri termini questa reciprocità, questa simmetria così stranamente ineguale tra l’uomo e il dio, quello che ti dà a
vedere la maschera di Medusa quando ne resti affascinato altro non è che te stesso, te stesso nell’aldilà, questa testa vestita di notte, questa faccia mascherata di invisibile che, nell’occhio di Medusa, si rivela la verità della tua figura.” (J.-P. Vernant) “Vedere la Gorgone è guardarla negli occhi e, nell’incrociarsi degli sguardi, cessare di essere se stessi, di essere vivi, per diventare al pari di lei, potenza di morte. Fissare Medusa è perdere, nel suo occhio, la vista, trasformarsi in pietra cieca e opaca.” (J.-P. Vernant)
Non dimentichiamo che, pur essendo la sola veramente passata alla storia come simbolo, Medusa aveva altre due sorelle, Euriale e Stenno, ugualmente orride: testa ricoperta di squame di drago, denti simili a zanne di cinghiale, mani di bronzo e ali d’oro. Chi le guardava veniva impietrito. Ma essendo le due sorelle immortali, su di loro nulla può Perseo con la falce adamantina prestatagli da Hermes, che però agisce alla perfezione sull’unica sorella mortale, Medusa. E la decapitazione dà luogo alla nascita di Pegaso e Chrysaor generati da Poseidone che, mutatosi in animale, aveva in precedenza sedotto Medusa. Con l’uccisione di Medusa, Perseo dimostra di tener fede alle promesse fatte al re di Seripo alla fine di un banchetto: si direbbe una bravata, che non sarebbe certo riuscita senza l’aiuto di Hermes e di Atena. Da allora Atena si doterà del simbolo dell’orrore diventando, nel pensiero di Freud, la donna inavvicinabile, “colei cui ripugna ogni sorta di brama sessuale”. “Questa figura produce l’effetto di maschera semplicemente guardandoti negli occhi. Come se questa maschera non avesse lasciato il tuo volto, non si fosse separata da te che per fissarsi di fronte a te , come la tua ombra o il tuo riflesso, senza che tu possa staccartene. è il tuo sguardo che è preso nella maschera.” (J.-P. Vernant)
Condannata alla “faccialità”, Medusa sarà dunque sempre rappresentata di faccia. La sua iconografia la fissa così, in
eterno, anche quando figura tra immagini umane viste di profilo. Ma noi potremo, nel nostro museo immaginario, pensarla e guardarla nel suo profilo o di faccia, aggirarla alle spalle e magari carezzarla senza per questo averne danno. Perché, anche se il mito non ne fa cenno, Medusa è forse, in segreto, sensibile al nostro affetto e alla nostra ammirazione, non fosse per altro motivo che quello di smentire l’interpretazione freudiana della sua impenetrabilità... Tra gli strumenti magici ricevuti dalle Ninfe, Perseo dispone del sacco, detto Kibisis, dove avrebbe riposto il capo mozzato di Medusa. Posato il sacco su un fascio di rami, il sangue che ne cola pietrifica i rami, che ne conservano il colore. Questa la mitica origine del corallo, che resterà così per sempre dotato di virtù magiche. E la raccomandazione di Plinio il Vecchio “è buono da portare per evitare ogni pericolo” verrà ancora ascoltata ai giorni nostri. La forza simbolica dello sguardo e del volto di Medusa attraversa i secoli senza perdere, anzi acquistando, valenze sempre più profonde. Nella nota La testa di Medusa, datata 1922 e pubblicata postuma, Freud afferma l’equazione Decapitare=Evirare. Terrore dell’evirazione legato alla visione del genitale della madre. Qui rappresentato dal volto di Medusa circondato anziché da peli, dalla capigliatura di serpenti. Interpretata questa come strumento che mitiga l’orrore venendo i serpenti a sostituire il pene, dalla cui mancanza l’orrore è nato. L’irrigidimento della pietra è anch’esso in qualche modo consolatorio, equivalendo alla rigidità dell’erezione. “Costui ha ancora un pene e di ciò si rassicura diventando rigido (...)”; Freud ricorda anche come l’esibizione dei genitali abbia valore apotropaico. Dunque Medusa, la sua immagine e il suo mito accompagnano come una muta occulta presenza il ciclo vitale dell’uomo, emergendo con più forza nei momenti di più grave turbamento
e affermandosi come unico, efficace emblema del terrore, della morte e del nulla. Di fronte all’incanto suggerito dalle statue dimentichiamo felicemente il più delle volte il loro sottinteso funebre, lasciando cioè la forza della bellezza trionfare su altri umori, altre energie più latenti. Più difficile farlo con il volto di Medusa, ma non impossibile. C’è infatti chi, come Eraclito, lesse il mito di Medusa in chiave del tutto diversa (Periápiston). Un’etera di meravigliosa bellezza che trasformava in marmo gli ammiratori… Irrigiditi dunque in una erezione senza fine? Trionfo nel bello dell’eros che elimina ogni deformazione di segno opposto. A questa interpretazione si inclinano i nostri desideri. “Perchè è proprio l’occhio, in quanto figura omotetica del sesso, che promette di garantire il passaggio, l’articolazione anatomica, il congiungimento dei due sessi. è proprio questo dettaglio del corpo che, in virtù della sua somiglianza esterna con la natura della donna alla stregua di quanto avviene presso certe specie animali che si camuffano e si mimetizzano, per non essere uccise, rendendosi simili a ciò che le minaccia, è proprio questa ‘coincidentia oppositorum’ che riunisce quanto di più nobile esiste nel corpo, vultus, e quanto di più basso esiste in esso, vulva.” (J. Heiduk)
“E qui si vuol sapere che avvegn ache più cose ne l’occhio a un’ora possano venire, veramente quella che viene per retta linea ne la punta della pupilla, quella veramente si vede, e nella imaginativa si suggella solamente. E questo è però che ’l nervo per lo quale corre lo spirito visivo, è dritto a quella parte; e però veramente l’occhio l’altro occhio nonpuò guardare, sì che esso non sia veduto da lui: che sì come quello che mira riceve la
forma ne la pupilla per retta linea, così quella medesima linea la sua forma se ne va in quello ch’ello mira; e molte volte, nel drizzare di questa linea, discocca l’arco di colui al quale ogni arme è leggiere.” (Dante Alighieri)
Una maschera racconta mito più di un volto (O. Wilde)
Il vedersi visto estrema lontananza dall’illusoria passione dello sguardo occidentale integro, potente e progressivo, cartesiano insomma, del soggetto che aspira a guardare, a vederci chiaro (dal theoreîn alla contemplatio), senza mai pensarsi visto; a descrivere la scena del mondo (l’oráo dell’idea, e viceversa) come dal buco di una serratura. Nella lingua latina, persona (dall’etrusco Phersu, l’ “uomo mascherato” spesso identificato con il Perseo greco) era il nome della maschera dell’attore di teatro, che copriva tutto il capo lasciando, del volto, scoperti gli occhi. La maschera era diversa secondo i diversi caratteri da rappresentare o “impersonare”, ma gli occhi dell’attore - lo sguardo della maschera - fiammeggianti e mobili conferivano poi espressioni diverse alla stessa persona. Non sono rare le occasioni in cui il volto di una persona lascia trasparire un’improvvisa emozione, che si vorrebbe segreta e trattenuta, oppure una condizione, uno stato d’animo che da tempo dura impadronendosi di ogni momento. Lo stesso volto, di tanto in tanto, “tradisce” sentimenti taciuti o antichi segreti; proprio quando, in quei momenti, riesce molto difficile parlare guardandosi negli occhi. A volte si abbassa la fronte o, esitando, si volge lo sguardo altrove. Ma, non di rado, ci si
può ingannare. E a vicenda. Mascherando i pensieri più lontani si abbassano gli occhi, si guarda altrove e, con tanto trucco, si trova l’espressione che l’altro cercava in quel volto... Quasi imitando e mimando le attese dell’altro. Cosi, si scopre il volto e si trova una maschera, che nello stesso tempo nasconde ed esprime. Sembrano nascondersi in questo oscuro gioco di velature e rivelazioni le ragioni per cui si scopre, ogni volta, l’impossibilità di immaginare un volto senza le sue espressioni: quasi sempre appare una maschera funeraria. Oppure il volto di un automa. “Unheimlich e rigido come una figura di pietra”. È una delle tante espressioni che Freud riporta, nel suo saggio sul “Perturbante”, in una meticolosa e attenta rassegna dei diversi usi del termine tedesco Unheimlich. Il perturbante (Unheimliche), avverte Freud, è quella sorte di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Freud accoglie la preziosa indicazione di Schelling: Unheimlich è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato. Come esempio chiarificatore del senso del perturbante, Freud ricorda “il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato (...) l’impressione provocata da figure di cera, da bambole ingegnose e da automi”. In questa ottica Freud dedica gran parte del saggio al Sandmann di Hoffmann. Nel racconto di Hoffmann c’è un tema che gioca un ruolo determinante legando tra loro i momenti nodali della narrazione: il tema dell’occhio dello sguardo, della reciprocità del vedere e dell’essere visto. Al centro di questo gioco di sguardi c’è Olimpia, l’automa dalla “mano fredda come il marmo” e dalla bocca “gelida come la morte”. Olimpia “ha due occhi senza sguardo”. L’apparizione dell’occhio “distratto”, “divino”, “idiota” di Olimpia è preceduta e poi accompagnata, nel racconto di
Hoffmann, da numerosi presagi. L’intero racconto sembra essere la storia di un lungo presagio. Primo avvertimento, la verità che la governante rivela al piccolo Nathanael: “non sai ancora chi è il Sandmann? È un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manciate di sabbia, tanto che gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa. Allora li getta nel sacco e li porta nella mezzaluna e li dà da beccare ai suoi piccoli, che stanno nel nido e hanno il becco ricurvo come le civette, col quale squarciano gli occhi dei bambini cattivi”. La visione delirante del piccolo Nathanael: “(...) pareva a me di vedere strane figure umane tutte intorno con spaventose cavità nere al posto degli occhi, e di udire la voce minacciosa di Coppelius gridarmi: - I tuoi occhi, dammi i tuoi occhi! (...) Ora abbiamo degli occhi, un bel paio d’occhi di fanciullo! - E così dicendo trasse fuori dalle fiamme, con le sue mani, alcuni cornetti infuocati per accecarmi. Ma in quel momento mio padre, levando le braccia in atto supplichevole, gridò: - Maestro, maestro, lascia gli occhi del mio Nathanael!” Lo spirito di Clara nel poemetto di Nathanael: “- non puoi dunque vedermi? Coppelius ti ha ingannato; non erano già i miei occhi che bruciavano nel tuo petto; erano gocce scintillanti del sangue del tuo cuore. Io ho ancora i miei occhi, guardami. - Guarda gli occhi di Clara, ma di fronte a lui è la Morte che lo fissa con gli occhi della donna amata.” La prima apparizione di Olimpia, attraverso un vetro: “ella pareva non accorgersi di me, per quanto mi guardasse fissamente. Si sarebbe detto che dormisse a occhi aperti”. Gli occhiali che vende Coppola-Coppelius: “ecco - diceva degli occhiali; questi sono i miei occhi (...) Nathanael ebbe la sensazione che mille occhi fossero contemporaneamente fissi su lui, tenendolo sotto il loro strano fascino irresistibile”.
Olimpia attraverso la lente di Coppola-Coppelius: “soltanto gli occhi gli sembravano ancor più stranamente fissi e senza vita; ma guardando più attentamente gli pareva di vedere ch’essi si animavano a poco a poco, come illuminati da riflessi di raggi lunari, pieni di una potenza magnetica.” L’immutabile silenzio di Olimpia e il delirio di parole di Nathanael: “(...) per lunghe ore restava a guardare il suo amico con gli occhi immobili e il suo sguardo pareva ogni giorno acquistare nuova vita (...) - Ma che cosa sono le parole? Il divino sguardo dei suoi occhi esprime ben più d’ogni discorso”. Lo sguardo vuoto di Olimpia riapparirà, alla fine, sul volto di Nathanael. Dall’alto della torre, l’ultimo incrocio di sguardi: la folla, Coppelius, Olimpia, Clara, Lotario, la vertigine della pazzia: - “no, no, attendete un momento; egli verrà giù da solo - ghignò Coppelius e si mise a guardare in alto come gli altri. Nathanael rimase dapprima come impietrito, si sporse poi dalla balaustrata e, riconoscendo Coppelius, gridò con voce stridula: - Begli occhi! Begli occhi! e si precipitò nel vuoto.” Nathanael rimane impietrito, guardando un’ultima volta nel vuoto, quello stesso abisso dello sguardo di Olimpia, spaventoso e segreto, familiare e nascosto. Lucio Saviani