Lo scrittoio di Leopardi. Processi compositivi e formazione di tópoi 8820754827, 9788820754822

L'autore dei "Canti" ha perseguito per tempo, con metodo coerente, una tenace ricerca di scelte semantich

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Italian Pages 188/2015 [205] Year 2011

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Avvertenza bibliografica
Premessa
I – IL PASTORE E ALTRI TÓPOI
II – L'«ORRENDA DELIZIA» DI WERTHER. LEOPARDI E L'ELEGIA
III – «QUELL'AFFETTO NELLA LIRICA CHE CAGIONA L'ELOQUENZA». UN'IDEA DI STILE SUBLIME
IV – ETRA, TERRA, MARE
V – SPAVENTO, SPAURA, SI SPAURA
VI – DI «SOLINGO», «SOLITARIO» E LORO DERIVATI O AFFINI
VII – TRA L'APPARIRE E L'ESSERE: RIFLESSI TEMATICI E STILISTICI
VIII – DI «ACERBO» E DEGLI «OGGETTI DOPPI»
IX – «TUTTO INTORNO UNA RUINA INVOLVE». IN VISTA DELLA GINESTRA
X – SIMMETRIE E PROCESSI COMPOSITIVI NEI CANTI FIORENTINI. LA PARTE DI PETRARCA
XI – CONSUMARE LA VITA. NOIA E NON-VIVERE DA ALFIERI A LEOPARDI
APPENDICE
La poesia come metodo.Il «Sistema di Belle Arti» nello Zibaldone
INDICE DEI TESTI LEOPARDIANI CITATI
Indice dei nomi
Quarta di copertina
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Lo scrittoio di Leopardi. Processi compositivi e formazione di tópoi
 8820754827, 9788820754822

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CRITICA E LETTERATURA 102

Giuseppe Antonio Camerino

LO SCRITTOIO DI LEOPARDI Processi compositivi e formazione di tópoi

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2011 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Ottobre 2011 Stampato in Italia da Liguori Editore, Napoli Camerino, Giuseppe Antonio : Lo scrittoio di Leopardi. Processi compositivi e formazione di tópoi/Giuseppe Antonio Camerino Critica e letteratura Napoli : Liguori, 2011 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5482 - 2 ISSN 1972 - 0645 1. Letteratura italiana

2. Critica letteraria italiana

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Ristampe: —————————————————————————————————————————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a ph neutro, conforme alle norme UNI EN Iso 9706 ∞, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS).

INDICE

x xi 1 29 45 63 75 89 103 115 121 133 147

Avvertenza bibliografica Premessa I: Il pastore e altri tópoi II: L’«orrenda delizia» di Werther. Leopardi e l’elegia III: «Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza». Un’idea di stile sublime IV: Etra, terra, mare V: Spavento, spaura, si spaura VI: Di «solingo», «solitario» e loro derivati o affini VII: Tra l’apparire e l’essere: riflessi tematici e stilistici VIII: Di «acerbo» e degli «oggetti doppi» IX: «Tutto intorno una ruina involve». In vista della Ginestra X: Simmetrie e processi compositivi nei canti fiorentini. La parte di Petrarca XI: Consumare la vita. Noia e non-vivere da Alfieri a Leopardi

165

APPENDICE La poesia come metodo. Il «Sistema di Belle Arti» nello Zibaldone

181

Indice dei testi leopardiani citati

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Indice dei nomi

A Maria Luisa Doglio [...] in greco proverbio è detto: «De li amici essere deono tutte le cose comuni». (Dante, Convivio IV, i, 2)

Avvertenza bibliografica I capitoli di questo volume sono inediti, tranne il III, il V, l’XI e il capitolo di Appendice che, in versioni non definitive, sono stati già editi rispettivamente come segue: in Lo studio, i libri e le dolcezze domestiche. In memoria di Clemente Mazzotta, a cura di C. Griggio e R. Rabboni, Verona, Edizioni Fiorini, 2010, pp. 399-419; in «Giornale storico della letteratura italiana», vol. CLXXXV, fs. 611, 2008, pp. 444-453; ivi, vol. CLXXX, fs. 590, a. 2003, pp. 191-205, e, con minima aggiunta, in Memoria e infanzia tra Alfieri e Leopardi, Atti del Convegno internazionale di studi, Macerata, 10-12 ottobre 2002, a cura di Marco Dondero e Laura Melosi, premessa di Simona Costa, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 75-88 e infine in Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno Internazionale di studi leopardiani (Recanati-Porto Recanati, 14-19 settembre 1998), 2 tomi, Firenze, Olschki, 2001, tomo I, pp. 59-74). Si avverte, inoltre, che il capitolo IV, non senza alcune lievi differenze, sta per vedere pure la luce nella miscellanea di studi offerti a Gian Paolo Marchi. Devo pure ringraziare per l’ospitalità offertami i direttori responsabili e i curatori delle diverse sedi di pubblicazione qui menzionate. Un vivo ringraziamento, inoltre, rivolgo alla dott.ssa Mariangela Mercuri per la collaborazione prestatami nel corso della correzione delle bozze di stampa e della compilazione dell’Indice dei nomi.

PREMESSA

Vera e sottile definiva Leopardi un’arte poetica somma, «sì bene e distintam.[ente] conosciuta e sì eccellentem.[ente] e maestrevolm.[ente] praticata dagli antichi». Ciò non toglie – come si legge in un passaggio precedente – che «anche gli antichi sommi poeti presto ci stancano e lasciano in secco, se e quando non sono che immaginosi, ancorchè in questo medesimo sommi, straordinarii, e pieni d’arte»1. I capitoli di questo studio intendono mettere in luce come il poeta dei Canti per tempo abbia indirizzato la sua arte con metodo coerente, lavorando con particolare tenacia nella ricerca di scelte formali e stilistiche e di originali elementi topici che ritornano nella sua poesia anche a lunga distanza di tempo, anche in fasi sempre più avanzate e complesse e in mutate condizioni di spirito. Non è un caso che un acuto studioso del linguaggio poetico come Mengaldo abbia sottolineato, tra l’altro, come persino «i Canti estremi riprendano per rovesciarli motivi dei precedenti»2. È un’analisi che finisce in molti casi per investire variae lectiones, sempre di grande valore sintomatico, anche quando concernono testi dal poeta dichiaratamente approvati e corretti (emblematico al riguardo il caso dell’edizione fiorentina Piatti: si ricordi la lettera a De Sinner del maggio 1831), e che si articola su due piani complementari, da tenere tuttavia distinti: il piano, già in parte esplorato pure da altri studiosi, delle riprese intertestuali interne ai Canti e quello concernente una vera e propria riscrittura di tópoi attraverso cui il poeta di Recanati si riappropria del linguaggio poetico della tradizione, a partire soprattutto da Petrarca, ma in modo del tutto originale e 1

Si veda alla p. 3822 (3 novembre 1823) di Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, edizione critica in CD-rom a cura di Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna, Zanichelli, 2009, d’ora in avanti citato con la sigla Zib. Tra parentesi quadre si integrano parole abbreviate o in forma impropria nel manoscritto. 2 Pier Vincenzo Mengaldo, Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei “Canti” di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 113.

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PREMESSA

inedito, perché originale e inedito è il sistema di riferimenti semantici e di interferenze stilistiche da lui edificato. Come dire che anche riprese intertestuali già note ai commentatori nel presente studio acquistano legittimità certa ove sia chiaramente documentata la volontà di riscrittura o di riformulazione stilistica e semantica che il poeta opera quando riprende luoghi di altri autori o quando riprende luoghi proprî, spesso anche a distanza di molto tempo. Inoltre, nella ripresa di parole e stilemi della tradizione, persino sostantivi o aggettivi di ascendenza aulica non suonano come scelte arcaizzanti, bensì come esiti di denso spessore poetico. Per fare solo un esempio, si pensi al caso di etra, che più volte occorre nei Canti e che merita una particolare attenzione dal momento che nella parola greca αåθ‹ρ, cielo o volta celeste, è insita l’idea dell’incommensurabile spazio celeste, quello che Simonide, nella canzone All’Italia abbraccia con lo sguardo insieme alla marina e il suolo: non a caso, come si vedrà (cap. IV), perché cielo, mare e terra più di una volta nei Canti sono allineati in un medesimo verso e vengono a costituire le tre raffigurazioni naturali dell’idea di infinito. Già Giovanni Nencioni aveva sottolineato l’ampiezza sperimentale del linguaggio poetico leopardiano; e a sua volta Blasucci aveva denunciato come insufficiente l’apporto di indagini testuali sulla storia interna di quel linguaggio, traduzioni comprese, da non confondere, egli ammoniva, con la ben più frequente attenzione dedicata invece agli influssi della tradizione letteraria sulla poesia di Leopardi3, il quale, ovviamente, ricercava nei grandi poeti della tradizione, sia italiana che greco-latina, modelli linguistici e stilistici non fini a se stessi, ma funzionali a motivi topici e significati nevralgici. In molti casi infatti è Leopardi stesso che indica esplicitamente le fonti e i modelli della sua ricerca inventiva. Per fare solo un esempio tra i tanti possibili, in alcune pagine dello Zibaldone risalenti al 1821, dopo aver teorizzato e minutamente descritto gli effetti straordinarî della luce, e poi dei suoni, rispetto a quella che viene da lui definita idea dell’infinito, sente il bisogno di esemplificare rinviando decisamente a un luogo del poema di Enea: «V.[edi] in questo proposito Virg.[ilio], Eneide 7. v. 8 seqq. La notte, o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata»4. Spesso si tratta di veri e proprî trapianti che Giacomo effettua; e non 3

Cfr. rispettivamente Giovanni Nencioni, La lingua del Leopardi lirico, in Giacomo Leopardi. Catalogo della mostra documentaria (Napoli, Biblioteca Nazionale, 23 novembre 1987-2 ottobre 1988), Napoli, Macchiaroli, 1987, e ora in Id., La lingua dei “Malavoglia” e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano, 1988, pp. 375-376, e Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 12. 4 Zib., p. 1930 (16 ottobre 1821).

PREMESSA

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solo dagli auctores, ma – fenomeno di estremo interesse, e pur finora rimasto inesplorato – persino dalle coeve traduzioni italiane di fondamentali opere straniere, sia creative, come nel caso del Werther, sia teoriche, come nel caso della Philosophical Enquiry di Edmund Burke o delle Lectures di Hugh Blair (autore dal Recanatese già precocemente citato nel suo Discorso sopra Mosco, composto nel 1815). Ed è davvero sorprendente la quantità e la pertinenza dei luoghi di queste pur imperfette traduzioni molto spesso – è il caso di dirlo – trapiantati non solo in appunti collegati alla sperimentazione del poeta lirico, ma persino, in modo inequivocabile ed evidente, in alcune sequenze dei suoi stessi componimenti poetici, che pure da tali innesti miracolosamente acquistano naturalezza e verità poetica. Come dire che le riprese da testi moderni Leopardi pone sullo stesso piano di quelli degli antichi, a cominciare dai greci. È molto difficile, del resto, pensare al Discorso sopra Mosco e al leopardiano giudizio su Teocrito senza l’apporto delle considerazioni del reverendo scozzese; e non è un caso che, sempre nel suddetto Discorso, egli ritagli dal Blair tradotto da Soave, in modo incontrovertibile, sostantivi o aggettivi come villa, cittadini, vita cittadinesca quando dice che Mosco «è un pastore sortito qualche volta dalla sua villa, ma che non ha contratto i vizi dei cittadini; […]». E – altro esempio – pure da Blair-Soave deriva l’affermazione, per lui fondamentale, secondo cui, perché la descrizione di un paesaggio in tempesta sia sublime, convien dipingere la tempesta con tali circostanze che empian la mente di grandi e terribili idee: un’indicazione molto importante che prepara il peculiare concetto del piacere dei pericoli del temporale col quale il poeta dei Canti traduce l’ossimorica orrenda delizia per il temporale, che si legge nella traduzione italiana del Werther, apparsa a Venezia nel 1796 a opera di Michiel Salom e che si rifletterà in seguito pure nell’insueto gaudio di Saffo. Non diversamente Leopardi, contestualmente a scritti moderni, utilizzava anche il ΠÂρd û„Ôù̃, che leggeva non solo nella traduzione piuttosto libera di Anton Francesco Gori5, ma anche nell’originale greco. E pure in quell’antico trattato i capitoli del presente studio individuano ulteriori inequi5

Come dimostra il caso della sua Lettera al ch. Pietro Giordani sopra il Frontone del Mai (cfr. nota 29, cap. III), in cui Leopardi riprende in termini quasi identici il parallelo tra l’eloquenza di Demostene e quella di Cicerone presente nel Περd ûψους (XII,4). Lo stesso luogo, nel volgarizzamento settecentesco di Anton Francesco Gori dell’antico trattato, sarà poi dal poeta inserito, non senza qualche variante di punteggiatura e non senza eliminare qualche inciso e persino qualche sintagma ritenuto superfluo, nella sezione Paralleli della sua Crestomazia italiana (1827): si veda qui alla nota 30 del cap. III. Per la versione di Gori, apparsa in prima edizione a Firenze nel 1737, di cui Giacomo trovava nella biblioteca di famiglia la terza edizione, quella bolognese del 1748, si veda invece alla nota 9 dello stesso capitolo.

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PREMESSA

vocabili riprese di motivi specifici e di grande rilievo quasi sempre all’interno del ciclo del Leopardi lirico. Durante le fasi di lavorazione di questo studio mi hanno manifestato particolare incoraggiamento e consenso occasionali lettori di alcune sue parti; amici, colleghi in massima parte, che qui intendo ringraziare sentitamente: Arnaldo Bruni, Grazia Di Staso, Maria Luisa Doglio, Mario Marti, Pantaleo Palmieri, Cesare Segre e Luca Serianni. G.A.C. Roma, 18 marzo 2011

I IL PASTORE E ALTRI TÓPOI

A partire dal Discorso sopra Mosco1 Leopardi mostra nei suoi testi, anche teorici, insieme ad alcune tracce specifiche, finora non focalizzate, dell’antico trattato Del sublime, importanti tracce degli scritti sul sublime dei moderni, in particolare di Burke e di Blair, le cui traduzioni in italiano da una parte gli forniscono immagini e temi e persino stilemi finora mai riscontrati nei processi intertestuali della poesia leopardiana e dall’altra, per quanto concerne le indicazioni intertestuali già note, si mostrano passibili di ulteriori accezioni e approfondimenti. Già le prime prove poetiche del Leopardi appena adolescente presuppongono una gara di emulazione con latini e greci, da lui, del resto, a parte anche tradotti a mo’ di esercitazione. Si prendano per esempio l’incipit della terza delle cinque canzonette intitolate La campagna da Giacomo composte nel 1809: «Il crudo verno sciogliesi, / Torna la primavera, / Né più nel cielo vedesi / L’atra tempesta, e nera». Questi versi ricalcano quasi alla lettera l’incipit dell’Ode IV di Orazio (libro primo) che lo stesso Giacomo così traduce: «Torna la primavera, e il verno sciogliesi, / Tornan le navi all’acquietato mare; / Né copre il gelo i prati [...]»2. Oppure si noti qualche immagine di malinconia o di orrore, come «l’atra tempesta, e nera» (III, v. 4) o «il flebile usignolo» che «sfoga [...] / fra l’orror notturno, e tacito / Armonioso, e mesto il duolo» (V, vv. 18-20): topos certamente convenzionale, e pur importante in quanto i versi sciolti che cito poco più avanti da un altro componimento dell’anno successivo, 1810, L’Amicizia. Idillio, sul flebile e mesto usignuolo che piangea nel bosco, evidente calco a sua volta della maerens philomela virgiliana, 1 Pubblicato la prima volta il 31 luglio 1816 in “Lo Spettatore”, t. VI, q. 57, Milano, pp. 173-186. 2 «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, a cura di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1972, pp. 49 e 91.

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

la quale flet miserabile carmen, ne costituiscono un’inequivocabile variante (inequivocabile, in particolare, è il flebile leopardiano che ricalca chiaramente il flet virgiliano). Sia pure in modo ancora inconsapevole, sempre nel 1809, affiorano spunti utili per la funzione che assumeranno nella futura poesia leopardiana: per esempio, nell’ode anacreontica La tempesta le metamorfosi del paesaggio si susseguono ora con aspetto lieto e sereno ora tempestoso e terribile – nube oscura (v. 10), aere oscuro (v. 34) –, determinando una gradatio nella reazione di smarrimento del soggetto osservante – paura (v. 12), tremendo orrore (v. 14), tuoni orribili (v. 17), terrore, tremito (v. 22), fenomeno che il lieto viso (v. 4) del pastorello (v. 2) tramuta in viso squallido (v. 47)3. Sono motivi e immagini assimilabili a quelli presenti sette anni più tardi nella parte iniziale della cantica Avvicinamento della morte, a cominciare proprio dal fenomeno dell’oscuramento celeste (vv. 31-33): Ecco imbrunir la notte, e farsi scura La gran faccia del ciel ch’era sì bella, E la dolcezza in cor farsi paura.

Su questo testo, nella mutata lezione4 datane dal Leopardi degli ultimi anni col frammento inscritto al n. XXXIX nell’ordine dei Canti (ma nella Starita era n. XXVII), che riguarda solo i primi 82 versi della stesura originaria, si tornerà in altro capitolo. Qui interessa segnalare alcune significative riprese, per cui l’aere oscuro dell’acerba canzonetta diviene nella cantica aer tetro (v. 61) o aria nera (v. 65); e soprattutto della stessa si replica la gradatio in crescendo per cui la paura (v. 33) si fa terrore (v. 74) e orrore (vv. 78 e 84) nel protagonista investito dal temporale: «Perch’al fine i’ ristetti a quell’orrore / E mi rivolsi indietro; […] / […] / Taceva ’l tutto, ed i’ era di pietra / E

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Ivi, p. 341 s. In particolare, il soggetto osservante s’indovina in una donna; e non parla più in prima persona. Si avverte che tutte le citazioni dai Canti e comunque di versi leopardiani derivano dall’edizione critica diretta da Franco Gavazzeni, a cura di Cristiano Animosi, F. Gavazzeni, Paola Italia, Maria Maddalena Lombardi, Federica Lucchesini, Rossano Pestarino, Sara Rosini, I. Canti, II. Appendici, III. Poesie disperse (l’edizione critica di quest’ultimo tomo, coordinata da P. Italia, è a cura di Claudia Catalano, Elisa Chisci, Paola Cocca, Silvia Datteroni, Chiara De Marzi, P. Italia, R. Pestarino, Elena Tintori), Firenze, presso l’Accademia della Crusca, nuova edizione in 3 tomi, 2009. Si accoglie il titolo di Avvicinamento della morte – anziché di Appressamento della morte – per quanto concerne la prima fase 1816-1818, in quanto tale è il titolo confermato dal poeta fino all’ultimo nell’autografo napoletano, anche oltre la copia in pulito rappresentata dal manoscritto che si conserva a Como: si rinvia all’esauriente Nota al testo nel suddetto vol. III della qui citata edizione critica, pp. 29-31. 4

IL PASTORE E ALTRI TÓPOI

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sudava e tremava che la mente / Come ’l rimembra, per l’orror s’arretra; / […]» (vv. 78-84). E anche la speme, che nella Tempesta del 1809 era instabile (v. 49), nella cantica del ’16 è un error (v. 30). Non si dice nulla di nuovo ricordando che il tema della tempesta investe la poesia italiana ed europea del Settecento, anche se solo nell’ultima fase del secolo tale tema non è più marginale o pretestuoso (si pensi a La tempesta, una delle cosiddette cantate metastasiane), bensì collegato al sentire malinconico e al senso del terribile e dell’orrido. Maria Corti riscontra qualche elemento tematico con l’idillio Il temporale di Fantoni e ricorda anche qualche luogo delle Visioni di Varano e La tempesta, ventesimo degli Idilli di Gessner5, di cui pure avrebbe dovuto ricordare Ein Gemähld aus der Syndfluth (1762), poemetto sul diluvio universale presentato per la prima volta in italiano nel 1779 dal conte Pagani Cesa6. Va intanto preventivamente segnalato che di lì a poco l’adolescente Giacomo leggerà in “Annali di Scienze e Lettere”, mensile posseduto nella biblioteca paterna, la lunga recensione di Borsieri al trattato Del Bello e del Sublime di Ignazio Martignoni7, in cui egli trova pure importanti riferimenti all’antico trattato pseudolonginiano che in misura fecondissima inciderà sui caratteri della sua più matura poetica. In quello stesso anno, 1810, egli compone i già menzionati sciolti dell’Amicizia, pervasi da una vena elegiaca e malinconica e adattati a un registro funereo: «[…] è questo / Quel dì ferale, in cui profonda, e nera, / Oscura tomba… oh Dio!... l’ossa rinchiuse / Del fido Tirsi: omai di sette lune / Scorse il giro dacché funesta notte /

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«Entro dipinta gabbia»…, cit., p. 59. Si veda Saggio delle poesie pastorali del sig. Gessner, trasportate in lingua italiana dal conte Giuseppe Urbano Pagani Cesa, Belluno, Tirsi, 1779. Ma a fine Settecento apparve anche un’altra versione italiana dello stesso poemetto: Il diluvio, tradotto da Giovanni De Coureil nel primo volume delle Opere (Firenze, Grazioli, 1790, pp. 245-254). Nella biblioteca di Palazzo Leopardi va segnalato pure Il Primo Navigatore, tradotto da Giulio Perini e Idillj scelti di Salomon Gessner tardotti da Francesco Soave, al nobile signor Conte Pietro Natali Alethy, patrizio di Osimo e Camerino, Osimo, presso Domenicantonio Quercetti, 1791. Si conserva inoltre un’edizione ottocentesca di Tutte le opere di Gessner, tradotte da Francesco Treccani e apparse a Brescia nel 1817, anno in cui la conoscenza del Gessner lirico da parte di Giacomo non poteva più rappresentare una particolare novità. 7 A. III, Milano, Dalla Tipografia di Gio. Giuseppe Destefanis, nn. 8-9, 1810, pp. 236-255 e 354-367. L’edizione recensita è: Del Bello e del Sublime. Libri due di Ignazio Martignoni Professore Emerito di diritto, del Collegio Elettorale dei Dotti ec., Milano dalla Tipografia Mussi, 1810 (la più recente edizione è quella curata da Augusta Brettoni, Roma Bulzoni, 1988). L’articolo di recensione uscì anonimo: per l’attribuzione a Pietro Borsieri si veda L. Derla, Un articolo inedito e uno sconosciuto di Pietro Borsieri, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXLIX, 1972, pp. 387-393. 6

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

A lui gli occhi ingombrò; gelida salma / Ei giacque in preda a cruda morte acerba, / […]» (vv. 27-33); oppure: «[…] / L’afflitta mente d’atre Larve ingombra / Nel cupo de la terra, orrido seno / Entrar gli sembra fra le tombe oscure / De gli estinti mortali […]» (vv. 80-83)8. Questi sciolti sono dall’autore sottotitolati idillio; non a caso: il poeta, pur ancora assai acerbo, sembra infatti già convinto che il genere dell’idillio non possa disgiungere una componente funerea (con qualche venatura macabra, che persisterà fino alle tarde sepolcrali) e impressione del paesaggio naturale: confluenza di due aspetti costitutivi di una poetica che egli poi cinque anni più tardi riterrà di poter riconoscere nel Canto funebre di Bione da lui tradotto. Ma nell’Amicizia viene anche abbozzata un’idea di paesaggio con gli strumenti di una memoria tutta libresca derivata dai poeti antichi, soprattutto da Virgilio. Si leggano i vv. 17-21: […] i pinti augelli ognor di ramo in ramo Canticchiando sen gian; flebile e mesto Piangea nel bosco il musico usignuolo, E risuonar facea del dolce canto L’ameno campo, e l’alta selva opaca.

Con i pinti augelli il poeta dodicenne mostra già di conoscere il canto virgiliano in cui si rivela la passione di Didone per Enea, dove si legge di «pecudes pictaeque volucres» (Aen. IV, v. 525), mentre il flebile e mesto piangere richiama, s’è già detto, la fonte virgiliana notissima che sarà indicata dallo stesso Leopardi nello Zibaldone9, e cioè Georg. IV, vv. 511 s., in cui la «maerens philomela […] / amissos queritur fetus […]» e «flet noctem ramoque sedens miserabile carmen / integrat et maestis late loca questibus implet». L’adolescente poeta, col bagaglio della sua educazione classicistica si rivolge alla campagna, alla selva opaca, al limpido ruscello, nonché alle raffigurazioni sepolcrali, che dunque precedono l’intuizione dello scenario lunare e astrale, per la quale si rivelerà decisiva e feconda la compilazione di una ponderosa Storia dell’astronomia qualche anno più tardi; opera che sembra scritta al solo scopo d’erudizione, ma che verso la fine, specie nei paragrafi dedicati alla luna e alle stelle, presenta notevoli spunti di poetica idillica. 8

«Entro dipinta gabbia»…, cit., p. 173 s. Zib., si veda rispettivam. alle pp. 211 e 281 (15 agosto e 17 ottobre 1820). Per il richiamo virgiliano si veda anche G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Id., Tutte le opere, a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, 2 volumi, Firenze, Sansoni, 1969, vol. I, p. 938. 9

IL PASTORE E ALTRI TÓPOI

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Della luna sono descritti alcuni importanti fenomeni: Quando la luna comincia ad apparir nella sera al tramontar del sole, presenta la forma di una falce e di un filo luminoso e curvo […]. La parte illuminata sensibilmente si accresce, e comparisce un mezzo disco: la luna allora al venir della notte è nel mezzo del cielo. Quattordici giorni circa dopo la sua prima apparizione, la luna si leva quando il sole tramonta; allora è piena […]. Ma il suo lume comincia tosto a scemare: il sole è preceduto dalla luna che si leva prima di esso. Finalmente la luna non si leva più, si rende per alcun poco invisibile […]10.

E a proposito delle stelle: L’uomo diviene come estatico nel contemplare l’ordine ammirabile in cui schierate sono e disposte quelle sfolgoranti lumiere che brillan sospese alla ricca volta che cuopre la sua abitazione. Ma le loro scintille son dolci, e soavi i loro raggi si dispergono negl’immensi spazi, interposti tra que’ corpi e la terra11.

Non si dimentichi che una prima svolta dall’erudizione e dalla poesia come esercitazione libresca a un gusto poetico più autentico prende forma in Leopardi in quell’anno d’intensa attività che è il 1815. Insieme al Mosco tradotto, va considerato il Discorso sopra Mosco, in cui si legge tra l’altro: La natura nella poesia di Mosco non è coperta dagli ornamenti, non è offuscata dalle frasi poetiche, non è serva dell’arte. Questa viene ad assidersi al fianco della natura, e la lascia comparire in tutto il suo splendore. Mosco è un poeta civilizzato, ma non corrotto; è un pastore che è sortito qualche volta dalla sua villa, ma che non ha contratto i vizi dei cittadini; è il Virgilio dei Greci, ma un Virgilio che inventa e non trascrive, e che inoltre canta in una lingua più delicata, e in un tempo che conserva alquanto più dell’antica semplicità12.

L’importanza di questa formulazione non è stata finora adeguatamente valutata. Il poeta dei Canti parla della poesia di Mosco enucleando in realtà per la prima volta un modello fecondo di rapporto tra soggetto e natura, che costituirà la base primaria della sua peculiare concezione del genere dell’idillio, che corrisponde a una sua interpretazione non meno peculiare dei caratteri dell’antica poesia greca. Come dire che egli comincia a guardare 10 11 12

G. Leopardi, Storia dell’astronomia, in Id., Tutte le opere, cit., vol. I, p. 732. Ivi, p. 735. G. Leopardi, Discorso sopra Mosco, in Id., Tutte le opere, cit., vol. I, p. 409.

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

al genere idillico più come a un metodo della poesia che a un modello di poetica. Presupposto di tale metodo, si vede già col Discorso sopra Mosco, è che la natura non deve mai cedere all’ornamentale e all’arte, il cui compito è solo quello di far risaltare nel modo migliore la natura stessa. Tale presupposto, familiare anche all’anonimo del Sublime, il poeta ribadirà pure, come si dirà, nel Discorso sulla poesia romantica, osservando che «il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte […]»; e lo ribadirà – va sottolineato – forzando alla sua tesi il concetto espresso da Castiglione nel Cortigiano con riferimento alla definizione di grazia in chiave classicistica, in cui tra l’altro si esorta a «fuggir quanto più si può […] la affettazione; e […] usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi». È questo un ampio passo da Leopardi derivato dal Cortegiano nel suo soggiorno romano, riprodotto parzialmente nello Zibaldone (14 marzo 1823), mentre nella Crestomazia del 1827 dedicata alla Prosa, sotto il titolo Della virtù della sprezzatura, contraria all’affettazione, vi ricuce un brano del par. XXVI con un altro più ampio del XXVIII13. Si noti che sul rapporto tra arte e natura, inteso nella peculiare concezione del sublime pseudolonginiano, come s’è detto, Leopardi costruisce la sua prima poetica molto precocemente, sicché quando, presumibilmente nel 182314, s’imbatte nel luogo castiglionesco sulla sprezzatura, gli impone 13

Si veda ora in G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Introduzione e note di Giulio Bollati, Torino, Einaudi, 1968, pp. 521-522. Sui presumibili limiti di questa edizione si veda alla nota 29 del capitolo III. Nella biblioteca di Monaldo esiste, preziosa cinquecentina, l’edizione 1541 (la princeps è del 1528) di Il libro del Cortegiano […] nuovamente stampato et con somma diligenza revisto, in Venezia, per Gabriel Jolito de Ferraii, 1541 (opera da Monaldo destinata al suo personale indice dei libri proibiti), ma questo luogo castiglionesco (par. XXVI del primo libro del Cortegiano), in misura più ampia, è esplicitamente citato in Zib. p. 2682 (Roma, 14 marzo 1823), dall’edizione primottocentesca: Il libro del Cortegiano del conte Baldessar Castiglione, 2 tomi, Milano, Società tipografica de’ Classici Italiani, 1803 (è questo il testo di riferimento per Leopardi). È lo stesso, identico luogo – si noti – già sottoposto a revisione critica da Aurelio De’ Giorgi Bertola nel suo Saggio sopra la grazia nelle lettere ed arti, in cui pure egli richiama Firenzuola e Della Casa: mi sia concesso di rinviare alla mia relazione su Bertola, Sulzer e il canone della “grazia” in pubblicazione negli Atti del Convegno internazionale Circolazione e trasformazione del sapere letterario nel Settecento e nel primo Ottocento in Lombardia e nel Veneto, Villa Vigoni (Loveno di Menaggio), 4-6 giugno 2009. 14 Fino alla riproduzione del passo castiglionesco citato del 14 marzo 1823, nello Zibaldone Castiglione è assente, come ha già rilevato Martelli (Mario Martelli, Leopardi e la prosa cinquecentesca, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani [Recanati, 13-16 settembre 1976], Firenze, Olschki, 1978, p. 273. Martelli però, ignorando il Saggio sopra la grazia di Bertola, che, si noti, apparve postumo ad Ancona, presso la stamperia di Alessandro Sartori, nel 1822, a ridosso cioè della prima citazione zibaldoniana di Castiglione, sbaglia a ipotizzare che Leopardi prima di quella data parlasse della grazia sulla scia dell’Essai sur le goût di Montesquieu.

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una interpretazione in chiave di stile sublime, del tutto estranea all’autore del Cortegiano. Non aver tenuto presente tale collegamento tra due testi tanto diversi, e da Leopardi conosciuti in tempi diversificati, preclude la possibilità di valutare correttamente la pagina castiglionesca in questione. Si noti però che senza fatica, e quasi senza pensarvi è formula già ripresa, quasi alla lettera, nel 1821 in chiave di stile sublime: senza mostrar l’intenzione per cui si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto15: E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre […]

È un punto cruciale, che il poeta dei Canti riprende in seguito, come si vedrà, non solo nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ma anche e soprattutto in relazione al sublime pseudolonginiano. Qui interessa intanto sottolineare che nel Discorso sopra Mosco del 1815 è pure citato, e dunque a lui già precocemente noto, il Blair delle Lectures on Rhetoric and Belles Lettres (III, 2), opera pure conservata nella biblioteca paterna nella traduzione del padre Soave. Secondo Blair Teocrito può pur vincere in semplicità Bione e Mosco, ma questi ultimi vincono il primo in tenerezza e delicatezza, fermo restando che Mosco – scrive, s’è già visto, l’autore del Discorso al poeta greco dedicato – «conserva al quanto più dell’antica semplicità». S’intende: semplicità dello stile, di cui Leopardi parla con riferimento a Mosco e che Blair, legandola alla concisione e alla forza, assegna alla categoria del sublime: «Il vero segreto d’esser sublime è il dir cose grandi con poche e semplici parole», scrive il Blair tradotto da Soave, il quale più avanti aggiunge: «Fra le qualità essenziali allo scriver sublime, oltre alla semplicità ed alla concisione, ho detto richiedersi ancor la forza. Questa nelle descrizioni viene in gran parte dalla stessa concisione e semplicità; […]»; e qualche pagina prima: «Io pongo la semplicità in opposizione agli studiati ornamenti, e la concisione alle parole superflue». Semplicità dello stile che l’autore di genio – il modello è Omero – sa ben distinguere da quella basata sul rifiuto aprioristico dell’ornamento (rifiuto che è indice, invece, di debolezza e negligenza) e che per Blair consiste in una «non affettata semplicità […]», quella del vero genio (da non confondere con quella sorta di semplicità al negativo che è indice di mediocrità)16. 15

Zib., pp. 1928-1930 (16 ottobre 1821). G. Leopardi, Discorso sopra Mosco, cit., p. 410. Il poeta leggeva il teorico scozzese nella seguente edizione: Lezioni di rettorica e belle lettere di Ugone Blair, Professore di rettorica e belle lettere nell’Univ. di Edimburgo. Tradotte dall’inglese e comentate da Francesco Soave, 3 tomi, Ve16

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Per Mosco anche il poeta moderno deve sapersi civilizzare senza corrompersi, restando sempre e comunque un pastore. Quella del pastore è, s’è visto, figura già emersa nella canzonetta La Tempesta, in cui è evocata ben quattro volte (vv. 2, 16, 25 e 40) e ripresa ripetutamente negli sciolti di L’Amicizia. Idillio, componimento pure precedentemente menzionato, a cominciare dai vv. 23-24: «[…] / Sotto un platano alter si stende afflitto / Il dolente Pastor; […]»; e il ricordo va pure al pastore, stanco, non afflitto, di Orazio, poeta di cui Giacomo ancora undicenne aveva tradotto diverse odi17: «[…] / iam pastor umbras cum grege languido / rivomque fessus quaerit et horridi / dumeta Silvani caretque / ripa vagis taciturna ventis» (Carminum Lib. III, XXIX, vv. 21-24). Questi versi oraziani, in particolare, riflettono una puntuale mediazione tra l’immagine del tutto convenzionale degli acerbi sciolti di L’Amicizia e quelli molto posteriori di Alla Primavera (28-33), in cui il calco oraziano – evidentissimo soprattutto nella puntuale sequenza cum grege languido rivomque – non è genericamente appena accennato, ma si fa scena originale: «[…] e il pastorel ch’all’ombre / Meridiane incerte ed al fiorito / Margo adducea de’ fiumi / Le sitibonde agnelle, arguto carme / Sonar d’agresti Pani / Udì lungo le ripe […] ». In realtà il mito del pastore colto, ma incorrotto e incorruttibile fuori della sua villa e al contatto con la vita di città, coltivato dal Leopardi ancora adolescente, era già stato prefigurato proprio da Blair nel tomo III, capitolo secondo delle sue Lezioni dedicato alla poesia pastorale: nell’italiano non sempre impeccabile di Padre Soave, infatti, il professore di Edimburgo parla esplicitamente di villa, di cittadini e di vita cittadinesca, che dunque non son termini adottati originalmente dal Leopardi del Discorso sopra Mosco. Si legga (corsivi miei): Le avventure e i discorsi de’ cortigiani e de’ cittadini in villa non son quelli che aspettiamo in questi componimenti. Aspettiamo d’essere intrattenuti da pastori o da persone interamente occupate nelle opere campestri, la cui innocenza e il cui allontanamento dalle brighe del mondo far possano nella nostra immaginazione un piacevol contrasto colle maniere e i caratteri di que’ che sono avvolti fra gli strepiti della vita cittadinesca. […]. Il pastor dee certamente esser piano e senza affettazione nella sua maniera di pensare sopra qualunque cosa: un’amabile semplicità deve esser la base del suo carattere; non è però necessario, che sia grossolano e scipito18. nezia, per Tommaso Bettinelli 1803. Per i luoghi richiamati o citati nel testo si veda ivi, t. I, rispettivam. alle pp. 79, 72, 68-69 e 66. 17 Entro dipinta gabbia, cit., p. 125 s. 18 Lezioni di rettorica…, cit., t. III, p. 28. Sulla semplicità del pastore, in opposizione alle

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È fin troppo evidente che questo luogo delle Lezioni blairiane costituisca un antefatto determinante già nella prima elaborazione leopardiana della simbolica figura del pastore, che verrà a imporsi come figura centrale del genere idillico, come appunto in Alla Primavera, o delle favole antiche, o come anche nell’Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano, in cui (vv. 71 s.) la raffigurazione del mondo biblico e della vita dei Patriarchi, quelle immagini dei Patriarchi evocate, caso interessante, pure nel Werther in traduzione19, si riferisce a una vita pastorale ingenua, incorrotta e innocente, come la natura circostante; o, in una diversa dimensione e in un diverso contesto, come nella figura del pastore del Canto notturno. Mosco, dice Leopardi, «è un pastore che è sortito qualche volta dalla sua villa, ma che non ha contratto i vizi dei cittadini […]». E sempre nel medesimo Discorso il pastore è definito leggiadro: «Chi […] non si sente allettato dal leggiadro pastore che ci trattiene col canto funebre di Bione, più che dal villano bifolco, che nell’Idillio ventesimo di Teocrito si lagna perchè Eunice l’ha beffato, e rimproverandogli la sua deformità e il cattivo odore che avea intorno, ignominiosamente gli ha volte le spalle?». Ed è lo stesso pastore definito amabile dal giovane traduttore di Espero: «[…] / Col mio pastore amabile / Io vado a conversar» (vv. 15-16). Ma archetipica resta per Leopardi la figura del pastore di Omero, il quale gioisce nell’animo (γέγηθε δέ τε φρένα ποιμήν·), al cospetto di un cielo stellato illuminato dalla luna e dell’aere senza vento e della vista delle cime dei monti e delle selve e delle torri: sono i vv. 555-559 di Il. VIII da lui tradotti nel Discorso sulla poesia romantica.20 Se la gioia del pastore di Omero nasce soprattutto dal repentino stupore di fronte a un quadro stellare e lunare magicamente immobile; nasce, cioè, citando testualmente Leopardi, di fronte a una «natura ancor vergine dalla poesia […]»21, la poesia della quiete notturna, degli spazî solitarî e delle ombre, verso lo stesso topos dello stupore è esplicitamente orientato il pastore di Virgilio, che Leopardi cita pure nel Discorso insieme al luogo omerico: «[…] stupet inscius alto / Accipiens sonitum saxi de vertice pastor», dice Enea (Aen. II, vv. 307-308), paragonandosi a un pastore22. E si ricordi, maniere artificiali, Blair insiste già nelle pagine precedenti; si veda per esempio, pure a p. 24: «[…] quando i pastori eran ameni e piacevoli senza esser colti e raffinati, erano piani e semplici senza esser rozzi e grossolani» 19 Verter. Opera originale tedesca del celebre Signor Goethe trasportata in italiano dal D.[ottor] M.[ichiel] S.[alom], Venezia, 1796, Presso Giuseppe Rosa, con permissione, I, p. 22 (12 maggio). 20 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., pp. 933-934. 21 Zib., p. 2983. Ma si veda anche p. 3154. 22 Per la presenza virgiliana in Leopardi si veda almeno M. Marti, Leopardi e Virgilio (già

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pur in un altro contesto, lo stupore del pastorel di Alla Primavera, il quale «tremar l’onda / vide, e stupì, che non palese al guardo / La faretrata Diva / Scendea ne’ caldi flutti, […]» (vv. 28 e 34-36). Non a caso, con riferimento agli stessi versi dell’Iliade da Leopardi richiamati nel Discorso, il pastore omerico è definito attonito da Monti, la cui traduzione dell’intera sequenza – col richiamo allo splendore lunare, all’assenza di vento, alle stelle e ai monti o alle montagne – suona inequivocabilmente come un anticipo della leopardiana Sera del dì di festa. «[…] Graziosi in cielo / Rifulgono gli astri intorno della luna, / E l’aere è senza vento, e si discopre / Ogni cima de’ monti […]», dice l’Omero leopardiano; e lo stesso traduttore, in veste di poeta in proprio (vv. 1-4): Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna23, e di lontan rivela Serena ogni montagna. […]

Ma già Monti aveva tradotto: «Siccome quando in ciel tersa è la Luna, / e tremole e vezzose a lei dintorno / sfavillano le stelle, allor che l’aria / è senza vento, ed allo sguardo tutte / si scuoprono le torri e le foreste / e le cime de’ monti; immenso e puro / l’etra si spande, gli astri tutti il volto / rivelano ridenti, e in cor ne gode / l’attonito pastor […]»24. Se vezzose, detto delle stelle, sarà nella leopardiana Vita solitaria applicato al raggio lunare (v. 97), i versi montiani appena citati il Leopardi traduttore, s’è detto, nel Discorso riprende quasi alla lettera. Si noti: graziosi in ciel rifulgono gli astri; e Monti: tremole e vezzose sfavillano le stelle; ancora Leopardi di seguito: l’aere è senza vento, e si discopre / Ogni cima de’ monti […]; e Monti: l’aria è senza vento, […] tutte si scuoprono […] le cime de’ monti. È la lezione che poi si

voce dell’Enciclopedia virgiliana), in Id., I tempi dell’ultimo Leopardi, Galatina, Congedo, 1988, pp. 133-169. 23 Negli autografi si legge: «La luna riposa […]». Su questa variante, anche in relazione a un’illuminante nota dello Zibaldone p. 3052 sulla derivazione di posare e riposare, si è soffermato Alberto Folin, Leopardi, la notte chiara, Presentazione di C. Galimberti, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 60-62. 24 V. Monti, Iliade, VIII, vv. 762-770 (cito da: V. Monti, Iliade di Omero, Introduzione e commento di Michele Mari, 2 voll. Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990). Va sempre tenuta però presente la più recente edizione critica: Iliade di Omero. Traduzione del cav. Vincenzo Monti, Edizione critica a cura di Arnaldo Bruni, II-1 (Il manoscritto Piancastelli), Bologna, Clueb, 2000. Di Bruni si veda anche l’edizione dell’Iliade montiana da lui curata (Roma, Salerno editrice, 2004).

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ripercuote in La sera del dì di festa: chiara è la notte e senza vento; queta […] posa la luna, […] e di lontan rivela serena ogni montagna. Lo splendore lunare, che, neanche a dirlo, è pure reminiscenza wertheriana25, domina già nei versi, in greco e in latino, delle anacreontiche Odae adespotae del 1816, di cui dirò più avanti, e tornerà costantemente nella poesia dei Canti, a cominciare da testi come Odi, Melisso e La sera del dì di festa, composti probabilmente tra il 1819 e il 1820, anno, questo, anche di una lettera a Giordani (6 marzo), in cui il poeta accenna non a caso a un cielo puro e a un bel raggio di luna. Il primo testo, che sarà eliminato nell’edizione fiorentina e recuperato nell’edizione Starita come frammento, senza titolo, in una prima fase compositiva testimoniata dall’autografo di Visso, era intitolato Il Sogno, titolo in seguito, fino ai Versi bolognesi, mutato con Lo spavento notturno: un’oscillazione estremamente interessante, se si pensa al luogo dell’anonimo articolo nello “Spettatore Italiano” in questo capitolo più avanti citato, in cui sogno è legato a spavento come causa a effetto. Quanto al secondo testo, verrà pubblicato per la prima volta solo nel 1825 nel bolognese “Il Nuovo Ricoglitore”. Non c’è dubbio che i tópoi dello scenario lunare e stellare e quello della figura del pastore si generano in stretta connessione in Leopardi, il quale sa pure che un vero poeta-pastore non deve copiare la natura, limitarsi a descriverla, come avrebbe fatto Virgilio, ma, sull’esempio di Mosco, deve inventare e deve cantare in una lingua più delicata. Questo significa che il metodo della poesia, che egli ricava dalla tradizione idillica, deve puntare soprattutto, ancora in età moderna, sulla forza dell’invenzione e del linguaggio. Questa consapevolezza autorizza a vedere nel Discorso sopra Mosco il preannuncio di una concezione della poesia che troverà qualche anno dopo sviluppo e approfondimento nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica proprio riguardo al primato della natura incorrotta («[…] la natura invariata e incorrotta discopra allora non ostante l’incivilimento e la corruzione nostra il suo potere immortale sulle menti umane […]»26). Traducendo gli idillî di Mosco il giovanissimo Giacomo persegue pure un’operazione filologica sia che attribuisca al poeta greco i testi in oggetto sia che ne dubiti della paternità (come nel caso di Espero). Ma soprattutto è da ritenere che egli, attraverso la sua traduzione condotta con grazia e

25 Verter…, cit., I, p. 88 (10 settembre): «[…] il vago effetto che faceva lo splendore della luna […] dalla sommità degli arbori […]». E sempre ivi, p. 158, citando i versi ossianici di Colma: «[…] splende la Luna, e alfin scintilla / Sulla gran valle il tremolio dell’onda». 26 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 918.

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leggiadria, affini anche una personale lettura della natura e del paesaggio27, come dimostra in particolare il caso dello stesso Espero, che il traduttore definisce «veramente leggiadro»28 e che cerca di riscrivere in strofe di settenarî sdruccioli e tronchi (gli ultimi versi di ogni strofa): O caro amabil Espero, O luce aurea di Venere Sacra di notte immagine, Seconda il mio desir. Tu della luna argentea Sol cedi al chiaro splendere; Ascolta, astro carissimo, ascolta i miei sospir. Oscurità sovrastane, che già la luna pallida, La luna, ch’oggi nacqueci, Vicina è a tramontar. Sul mio cammin propizio Spargi tua luce tacita: Col mio pastore amabile Io vado a conversar. Al passeggier pacifico, Che viaggia in notte placida, Non tendo occulte insidie, […].

Nella traduzione comincia a farsi strada il motivo lunare e notturno con un repertorio di formule estremamente rivelatrici della futura poesia leopardiana: «luna argentea», «luna pallida», «la luna […] / Vicina a tramontar», un sintagma, questo, che ovviamente richiama un componimento estremo come Il tramonto della luna; e ancora: «luce tacita», ma anche «notte placida». È un repertorio che si rivelerà fecondo fino alla fase conclusiva dei Canti. Si pensi alla connotazione di argentea attribuita alla luna: sempre nel Tramonto della luna, or ora richiamato, tale connotazione ritornerà innestata in un’intensa perifrasi, «[…] lo splendor che all’occidente / Inargentava della notte il velo […]» (vv. 52-53)29; perifrasi intensa perché il poeta recupera 27

Approssimative, se non generiche, al riguardo, le analisi del contributo di Antonino Fortuna, L’evoluzione dell’idillio da Mosco a Leopardi. Analisi e confronti, in “Filologia antica e moderna”, XXIV, 2003, pp. 27-51. 28 Si veda questo testo in G. Leopardi, Poeti greci e latini, a cura di Franco D’Intino, Roma, Salerno, 1999, pp. 500. 29 Con riferimento agli attributi della luna, e in particolare al colore argenteo, avevo già

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la funzione anche mitica dell’argento lunare nel momento in cui la collega al velo della notte, che non può esser inteso se non nel senso della foschia rugiadosa; la collega cioè alla virgiliana luna roscida delle Georgiche (III, 337), luna rugiadosa appunto: e luna roscida – sia detto per inciso – costituiva nell’autografo napoletano (AN) una varia lectio di Ciprigna luce (Alla Primavera, o delle favole antiche, v. 44): un episodio non casuale perché, oltre che a una scelta lessicale aulica, bisogna pensare che Leopardi intendeva probabilmente alludere a un’antica credenza secondo cui la rugiada sarebbe derivata proprio dalla luna. D’altra parte roscida è aggettivo che si trova attribuito a terra nell’autografo dell’Ultimo canto di Saffo (v. 20); e al riguardo la postilla d’autore30 dice: «roscida perch’era | sul far del giorno». E roscida è lezione che era stata confermata anche nel testo delle Canzoni bolognesi del ’24, venendo poi nella Piatti sostituita con rorida, che resterà definitiva. Nello stesso anno, 1816, a parte l’Inno a Nettuno, finto tradotto dal greco, e a parte le già ricordate Odae adespotae, presunte di un anonimo greco antico e tradotte in latino, Leopardi torna non a caso ancora al tema funereo, con la già menzionata cantica, Avvicinamento della morte, in cui pure non manca, già nel primo canto, di evocare il paesaggio lunare (vv. 7-9): Spandeva suo chiaror per ogni banda La sorella del sole e fea d’argento Gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda.

Nello stesso canto è evocato anche il motivo della tempesta (vv. 31 sgg.), che trova, come s’è già documentato, un lontano preludio nell’omonima canzonetta del poeta ancora fanciullo; ma è quello lunare il tema che affiora con maggiore evidenza nel Leopardi del 1816: un motivo che tallona tutta la prima fase della sua ricerca poetica e che presenterà occorrenze più ridotte a partire dai canti pisano-recanatesi31. Proprio nella seconda delle Odae adespotae, esplicitamente intitolata In lunam (in greco: sottolineato l’importanza del precedente di Espero nel mio volume L’invenzione poetica in Leopardi. Percorsi e forme, Napoli, Liguori (“Critica e letteratura”), 1998; cf. almeno le pp. 2224; ma trovo ora curiosamente quei miei medesimi riscontri riprodotti, senza alcun rinvio di citazione, nel volume di Marco Santagata, Il tramonto della luna e altri studi su Foscolo e Leopardi, Napoli, Liguori (“Letterature 38”), 1999, p. 96 s. e, limitatamente a qualche particolare, anche in una lacunosa e frettolosa rassegna di Massimo Natale, Dagli ‘Scherzi’ a ‘Imitazione’. Leopardi traduttore dei poeti 1955-2005, in “Lettere italiane”, a. LVIII, 2, 2006, p. 312, nota 29. 30 c. [2r] col. Sx: vedasi la cit. ed. critica a p. 227. 31 Si veda Giuseppe Savoca, Concordanza dei “Canti” di Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki, 1994.

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Εåσ Σελ‹νην) si nota l’elogio della benefica luce lunare; ma ancor più importante è notare che Leopardi fissa addirittura prima in greco e poi in latino il suo inno alla luna. È la luna di un poeta antico; ed è un testo sintomatico perché alcune di queste immagini lunari ritorneranno nel Leopardi maggiore: «Te, luna, canemus / Sublimem, os argenteam. / […] / Te et sidera honorant / Coelum collustrantem. / […] / Et dum ubique fessi / Silent homines, / Medium per coelum tacite / Nocturna solaque iter facis; / Super montes, arborumque / Cacumina, et domorum culmina, / Superque vias et lacus / Canum iaciens lumen». Medium per coelum: l’alta, argentea luna (os argenteum rinvia certamente alla luna argentea del v. 5 di Espero, già rilevato) si fa strada silenziosamente, notturna e solitaria nel mezzo del cielo, appunto, sopra monti e cime di alberi e tetti e vie e laghi, indugiandovi, bianco lume. Come si vede, l’esempio di Mosco opera in modo immediato e diretto nella ricerca poetica leopardiana; l’esperienza del ’15 prosegue e si rafforza nelle prove del ’16. Questa constatazione spiega, per esempio, perché Bigi abbia potuto sottolineare per Le rimembranze. Idillio una marcata influenza del poeta greco (sia pure nella versione neoclassica di Pagnini)32 o perché il motivo lunare, che si riscontra all’inizio di questo idillio, ritorna qualche anno dopo, in un componimento dal titolo simile, La ricordanza, che in seguito, infatti, assumerà quello esplicito di Alla luna già nell’edizione fiorentina dei Canti (1831). E spiega pure perché Leopardi abbia potuto recuperare verso la fine della sua stagione poetica e umana, non senza varianti, la parte iniziale dell’Avvicinamento della morte, inscrivendola come frammento al n. XXXVII nell’ordine dei Canti (edizione Starita), riconoscendovi implicitamente alcuni caratteri fondamentali della fase iniziale della sua concezione della poesia come idillio, che da una parte è legato ai fenomeni naturali, in particolare, il topos lunare, quello del paesaggio, anche tempestoso, e dall’altra fissa tópoi peculiari della sua invenzione poetica, tra cui, s’è visto, i moti soavi, l’error beato e i dolci inganni. 32

Emilio Bigi, La genesi del Canto notturno e altri studi, Palermo, Manfredi, 1967, pp. 23-25. Si vedano anche le pp. 27-28 in cui si evidenzia l’aderenza della traduzione di Pagnini di un celebre frammento di Saffo pure tradotto da Leopardi (cfr. Tutte le opere, vol. I, cit., p. 382: La impazienza. Ode di Saffo). Il lungo capitolo iniziale del volume di Bigi, Il Leopardi traduttore dei classici (1814-1817) è una pietra miliare per lo studio della formazione del linguaggio poetico leopardiano (vi sono considerate tra l’altro per il 1815 pure le traduzioni della Batracomiomachia e del Moretum da parte del Leopardi diciassettenne, che seguono – dice il critico – «altre vie, non estranee del tutto al suo gusto e magari suscettibili di sviluppi marginali nella sua opera matura, ma certo assai diverse e comunque meno rispondenti alla poetica fondata sull’aderenza all’antica “semplicità” e “naturalezza”» (p. 33).

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Ma al di là del caso della luna argentea, altri attributi lunari dell’idillio Espero rinviano al Canto notturno, dove la luna, tra l’altro, è candida o silenziosa o muta (vv. 138, 2, 80). Inoltre, la notte placida rinvia all’incipit dell’Ultimo canto di Saffo («Placida notte, e verecondo raggio / Della cadente luna […]») o, ancora, i sospir della supplica all’astro carissimo, rimandano a il sospirar in un altro luogo del Canto notturno (vv. 62-64; corsivo mio): […] tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; […].

Naturalmente, il poeta della maturità che s’interroga sul mistero dell’uomo e dell’universo è ancora di là da venire. All’altezza del biennio 1815-’16 egli indugia nella direzione del patetico e del funereo, come mostra l’esempio di Le rimembranze (un motivo che nella poesia leopardiana assumerà sviluppi ben diversi e più complessi), un idillio composto appena l’anno successivo, poi rinnegato dall’autore. Intanto, sempre nel 1815, la compilazione del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi lo induce a cogliere ulteriori fenomeni naturali e aspetti paurosi o terribili della vita notturna legati a credenze e a miti antichi, come mostrano in particolare i capitoli V, Dei sogni, VII, Del meriggio, VIII, Dei terrori notturni, XIII, Del tuono e XIV, Del vento e del tremuoto33, in cui molti passaggi son riservati agli effetti dei fenomeni naturali sull’animo umano, predisponendo un testo di erudizione a una lettura poetica che rinvia alla categoria del sublime. Per limitarci solo a un esempio, si confronti un passo del cap. XIII con uno delle Lezioni blairiane nella versione di Soave e si noti come Leopardi non fa che dare figura e movimento e pathos a situazioni che Blair si limita a esporre solo teoricamente: L’eccessivo strepito solamente è bastante ad opprimer l’animo, a sospenderne l’azione, e a riempirlo di terrore. Il romore di vaste cataratte, di rabbiose tempeste, del tuono, o dell’artiglieria, desta una grande e terribile sensazione nell’animo, quantunque non possiamo notare alcuna delicatezza, o artifizio in queste sorti di musica. L’agricoltore primitivo fuggendo per una vasta campagna, mentre la pioggia sopraggiunta improvvisamente, strepita sopra le messi e rovescia con un rombo cupo sopra la sua testa; mentre il tuono, che sembra essersi inoltrato verso di lui scoppia più distintamente e gli rumoreggia d’intorno; 33

G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in Id., Tutte le opere, cit., vol. I, pp. 784-790, 794-804 e 837-848.

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mentre il lampo, assalendolo con una luce trista e repentina, l’obbliga di tratto in tratto a batter le palpebre; rompendo col petto la corrente di un vento romoroso che gli agita impetuosamente le vesti, e gli spinge in faccia larghe onde di acqua, vede di lontano nella foresta una quercia tocca dal fulmine34.

A parte qualche evidente ripresa lessicale, come eccessivo strepito che rinvia a strepita sopra le messi o il romore di vaste cataratte […] del tuono che richiama a il tuono […] gli rumoreggia d’intorno, si noti come Leopardi, rispetto al Blair in traduzione, si limita a curare i particolari e dare figura e movimento e pathos a un quadro che il teorico scozzese enuncia in astratto (nelle Lezioni blairiane, non si dimentichi, sono indicati come sublimi «l’imperversare de’ venti, de’ tuoni e de’ fulmini, e tutte le violenze straordinarie degli elementi»35). E son questi i capitoli del Saggio leopardiano in cui la natura misteriosa e terribile è avvertita dall’uomo primitivo e incolto come qualcosa di sovrumano. L’elemento del sogno troverà riscontro già in prose e in versi composti a partire dalla fine del ’17, nel Diario del primo amore, nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, che, seguendo l’ottimo e documentato suggerimento di Marti, si dovrebbero intitolare Abbozzi della vita di Silvio Sarno, e nell’idillio intitolato appunto Il sogno (definito in un primo momento «elegia»36); ma i sogni di cui si parla nel citato capitolo del Saggio del ’15 altro non sono che inconsci riflessi di una condizione di sgomento e terrore attribuita all’uomo nella fase aurorale della sua scoperta del mondo. 34

Lezioni di rettorica…, cit. t. I, p. 99 e G. Leopardi, Saggio sopra gli errori…, cit., p. 838. Ivi, p. 57. 36 Mario Marti (Sette paragrafi sui primi “idilli” di Giacomo Leopardi, ora nel suo volume Amore di Leopardi, Trento, La Finestra, 2003, p. 33 s.) perviene al titolo Abbozzi della vita di Silvio Sarno correggendo e perfezionando un’antica, ma sempre valida indicazione di Angelo Monteverdi (ora in Frammenti critici leopardiani, Roma, Tipografia del Senato 1959, pp. 11 e 21-22, nn. 4, 25 e 27; nuova ed.: Napoli, E.S.I. 1967): scelta di titolo che anch’io approvo senza riserve. Per quanto concerne invece la definizione di “elegia” in un primo momento attribuita al Sogno, tra le carte napoletane c’è un appunto autografo che inizia: «Se tu devi poetando fingere un sogno […]» (già pubblicato da Flora: lo si veda ora in G. Leopardi, Tutte le opere, cit., vol. I, pp. 349-350), che reca la data del 3 dicembre 1820. Questo appunto si collega perfettamente al contenuto del Sogno, che dunque dovrebbe essere stato composto a ridosso di quella data. Nella prima stampa (numero del 13 agosto 1825 di «Notizie teatrali, bibliografiche e urbane ossia Il Caffè di Petronio», periodico bolognese diretto da Pietro Brighenti) Leopardi l’attribuì al genere dell’elegia” e solo nel “Nuovo Ricoglitore”, n. 13, gennaio 1826, e nei Versi dello stesso anno lo indicava come idillio, anzi, come idillio IV. Su questo testo qualche interessante rilievo esegetico nell’articolo di Marti, «Il sogno» tra la Fattorini e la Brini, articolo ora inserito nel volume dello stesso, Dante Boccaccio Leopardi, Napoli, Liguori, 1980, pp. 261-291. 35

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Nel ’15 l’adolescente Giacomo aveva pure scoperto attraverso le Lectures di Blair, il Burke di A philosophical Inquiry, il quale, infatti, proprio nella terza delle lezioni blairiane (tomo I) viene richiamato per la teoria del terrore intesa come sorgente del Sublime: L’autore della Ricerca filosofica su le nostre idee del Sublime e del Bello, a cui siamo debitori di molti ingegnosi e originali pensieri, pone una formal teoria su questo principio, che il terrore è la sorgente del Sublime, e che non hanno questo carattere se non gli oggetti, che producono l’impressione della pena e del pericolo.

Da questo principio consegue anche quanto in Blair-Soave si osserva nella lezione successiva: «Una tempesta […] è un oggetto sublime in natura. Ma perché sia sublime […] convien dipingerla con tali circostanze, che empian la mente di grandi e terribili idee»37. Si evidenzia chiaramente in questi luoghi come le Lezioni blairiane costituiscano una fonte fondamentale dell’idea leopardiana di sublime, certamente non inferiore alle fonti ossianiche, che vien emergendo in questo capitolo e che emerge anche in altri di questo volume, e che invece non era mai stato finora sottolineato adeguatamente. Le forti coincidenze stilistiche e lessicali, oltre che concettuali, tra il Blair-Soave e Leopardi, a partire dal ’15, a cominciare da quelle col Saggio sopra gli errori popolari, son numerose e impressionanti e spiegano la frequenza nel poeta di Recanati, nella fase di gestazione della sua ricerca poetica e poi nella sua fase più matura, di descrizioni di immani tempeste e di spettacoli naturali terribili e devastanti. Proprio nel Saggio del ’15 si rileva una lettura traslata, che suggerisce, per esempio, la parte iniziale del capitolo Dei sogni, vero e proprio tentativo di poetare intorno al volto arcano e pauroso della natura. L’uomo primitivo, scrive Leopardi, atterrito dal ruggire delle belve e dal quieto muoversi delle frondi nella foresta; verso la sera agitato dal timore che gl’infondeva il sopraggiungere delle tenebre, sentia nondimeno entro di se una forza sconosciuta, che lo invitava al riposo. […]. Verso il mattino egli vede un sogno che l’atterrisce. Il vento, che spira leggermente sulla sua faccia, lo risveglia tutto ad un tratto. […]. Una belva, che passando senza esser vista fa crepitare le foglie secche nel bosco, lo richiama alle sue inquietudini. Tremando egli fugge lontano da quel luogo, e s’avanza taciturno e sospettoso […]38. 37 38

Lezioni di rettorica…, cit., I, pp. 59 e 72. Corsivi miei. G. Leopardi, Saggio sopra gli errori…, cit., pp. 784-785.

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Questo primitivo, forte sbigottimento di fronte a fenomeni naturali sconosciuti, posson determinare, come si dirà, anche un diletto poetico in misura non minore dello spettacolo della natura gioiosa, serena e splendente di colori. A questo riguardo, non si lasci l’attento lettore sfuggire, per esempio, la notazione solo apparentemente marginale dell’azione del vento, che spira sul volto e risveglia il primitivo abitator della terra: quella notazione, infatti, non è casuale, ma introduce un ulteriore topos, già precocemente richiamato nell’apprendistato del Leopardi lirico ancora da Mosco, Idillio V, col motivo del pino che canta, appunto, al soffiar di gran vento: «[…] in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento. […]»39: un luogo in cui l’evidentissimo calco dalla traduzione dello stesso idillio da parte del settecentesco Giuseppe Maria Pagnini – «ove ’l pin de’ gran venti al soffio canta» – il Leopardi traduttore esegue in stretta relazione con l’immagine topica del soffiare del vento tra le foglie dei più svariati alberi. E non a caso, in quel medesimo torno di tempo (seconda metà del 1816), l’azione del vento diventa un cantare e pure un mormorare rispettivamente nell’Avvicinamento della morte (canto I, v. 10: «I ramuscei cantando ivano al vento / […]») e nell’Inno a Nettuno (vv. 187-188: «[…] e del vento / mormora il bosco al soffio […]»)40. E il mormorar – si noti –, per tornare all’Idillio V, sarà di un rivo, anziché del vento (v. 16: «Quanto m’è grato il mormorar del rivo, / […]»). Il vento, che si ode stormir nell’Infinito (vv. 8-9) e al quale, nella Vita solitaria «erba o foglia non si crolla» (v. 28), torna nelle Ricordanze (vv. 1517; 50-51; 68-69): […] sussurrando al vento I viali odorati; ed i cipressi Là nella selva; […] 39

In una di due precedenti lezioni di questi versi era il vento a cantare: si veda E. Bigi, Il Leopardi traduttore dei classici…, cit., p. 30. 40 I luoghi tradotti da Mosco da Pagnini e Leopardi derivano rispettivamente da Teocrito, Mosco, Bione, Simmia greco-latini con la Bucolica di Virgilio latino-greca volgarizzati, e forniti d’annotazioni da Eritisco Pilenejo P.A., Parma dalla Stamperia Reale, 1780, e da G. Leopardi, Poeti greci e latini, cit. Dell’Avvicinamento e dell’Inno a Nettuno esemplari edizioni ora in G. Leopardi, Canti, ed. crit. cit., t. III (Poesie disperse), rispettiv. pp. 27 s. e pp. 159 s. Per la princeps dell’Inno si veda Inno a Nettuno d’incerto autore nuovamente scoperto. Traduzione dal greco del conte Giacomo Leopardi da Recanati. Odae adespotae in “Lo Spettatore”, t. VII, q. 75, Milano, 1 maggio 1817, pp. 142-165. Su Leopardi traduttore di Mosco si veda ora l’intelligente e ben documentato saggio di Renato Lenti, Il primo idillio di Mosco nella traduzione di Leopardi, in Teorie e forme del tradurre in versi nell’Ottocento fino a Carducci, Atti del Convegno Internazionale, Lecce, 2-4 ottobre 2008, a cura di Andrea Carrozzini, Premessa di G. A. Camerino, Galatina, Congedo, 2010, pp. 263-275.

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Viene il vento recando il suon dell’ora Dalla torre del borgo. […] […] intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento, […]

Topos il vento, ma anche agente in situazioni dei Canti tra loro pure molto diversificate. Solo qualche esempio: «[…] qual tra le chiome / D’antica selva zefiro scorrendo [variante in AN: scuotendo], / Un lungo, incerto mormorar [var. in AN: sussurrar] ne prome» (Primo amore, vv. 29-33); «[…] la secreta / Nelle profonde selve ira de’ venti, / […]» (Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano, vv. 44-45); «[…] intorno a queste /Ampie finestre sibilando il vento, / […]» (Le ricordanze, vv. 68-69); «I ramuscelli ivan cantando al vento, / […]» (Framm. XXXIX, v. 10)41. Già gli esempî di questi versi sullo stesso topos si rivelano tutt’altro che improvvisati, ma già predisposti e preparati in vere e proprie prove di laboratorio, tra cui l’abbozzo Fanciulle nella tempesta, uno degli argomenti di idilli (all’incirca del 1819): «Levossi un vento all’improvviso ec. e chiuse tutto il cielo. […]. Oh Dio che il vento m’affoga io non ho più lena […]». Riprendendo ora il brano sopra riportato dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, non v’è dubbio che vada posto in relazione diretta con l’approfondimento che della concezione della poesia in rapporto alla natura e ai modelli antichi il poeta produrrà tre anni dopo nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, allorché, partendo dal presupposto che la «condizione naturale degli uomini è quella d’ignoranza» (si noti: degli uomini in generale), rileva che le scoperte scientifiche finiscono per impoverire la natura, che «non concede più quei diletti che prima offeriva spontaneamente»42. E più avanti, dopo aver ricordato che «il diletto nella poesia scaturisce dall’imitazione della natura», sottolinea come tale diletto sia «conformato alla condizione primitiva degli uomini […]», per cui «è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura […]. E questo adattarsi degli uomini alla natura, consiste in rimetterci coll’immaginazione come meglio

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Sul motivo del vento alcuni riscontri in G. A. Camerino, L’invenzione…, cit., pp. 21 e 68. In modo più ampio è stato poi in seguito ripreso questo motivo da L. Blasucci: Lo stormire del vento tra le piante: parabola di un’immagine, in Id., Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 31-46. A p. 44 il critico rileva anche: «”stormire”, […] impiegato nell’Infinito e non più usato nei Canti, anzi in nessun’altra delle sue poesie; […]». 42 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 918.

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possiamo nello stato primitivo de’ nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie». La fantasia, anzi, la sterminata operazione della fantasia, come si legge più avanti sempre nel Discorso, diventa una categoria fondante del metodo della poesia, così come era stato per gli antichi, ma come può esserlo pure per i moderni – riteneva ancora il Leopardi del 1818 –, se i moderni riescono a porsi nelle condizioni psicologiche della fanciullezza, le più assimilabili a quelle degli antichi: quando tutti i fenomeni della vita naturale e del paesaggio – il tuono, il vento, il sole, gli astri, gli animali, le piante, le case e così via – coinvolgevano profondamente la fantasia e lo spirito di noi fanciulli, scrive il poeta, e «la meraviglia […] continuamente ci possedeva; quando […] tutto ci era nuovo o disusato […]»: tempo favoloso dell’uomo in cui le passioni erano «indomite e svegliatissime» e la commozione era una forma del diletto non meno dell’immaginativa con cui il fanciullo sapeva senza sforzo d’arte ricreare un mondo di fascinosa bellezza (l’esempio testuale riguarda le «bellezze di vita pastorale […]»). Esperienza irripetibile; «prepotente inclinazione al primitivo […] negli uomini di questo tempo […]», si legge ancora, «e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi […]»43. Di fronte alla pagina del Saggio sopra gli errori, evocativa di un mondo naturale primitivo incorrotto era doveroso fare intravedere, sia pure per cenni, quali sviluppi una simile evocazione avrebbe poi avuto solo a distanza di qualche anno in quel fondamentale approdo della ricerca poetica leopardiana che è il Discorso sulla poesia romantica. Ma nel passo citato del Saggio del ’15 si possono intuire anche i fenomeni del tremore e dell’inquietudine («una belva […] lo richiama alle sue inquietudini. Tremando egli fugge […]») legati allo stupore, allo sbigottimento e ad altri fattori simili che verranno a costituire nella poesia leopardiana quelle che si possono definire le forme del diletto poetico, generalmente indirizzate verso la categoria del sublime (proprio l’ëκπλ‹ξις, per esempio, – letteralmente: lo sbigottimento – esercita, non si dimentichi, una funzione primaria nel trattato dell’anonimo). Ma, anche in Blair-Soave si legge: «[…] nelle prime età del Mondo […] la mente degli uomini era […] più facile alla sorpresa e alla maraviglia»44. Sono aspetti già consapevolmente maturati nel Leopardi diciassettenne, il quale nel suddetto Saggio persevera in un’attenta analisi dei fenomeni percettivi (capo settimo, Del meriggio):

43 44

Ivi, pp. 919-920. Lezioni di rettorica …, cit., p. 64.

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Si tace, si è solo, si è nelle tenebre: ecco i timori panici in folla, ecco i palpiti, ecco i sudori angosciosi, l’orecchio in aria per spiare ogni romore, i sospetti, e talvolta ancora le visioni immaginarie. Se tutto ciò è proprio dei fanciulli noi possiamo considerar come tali gli antichi volgari, allevati in una religione che dava peso ai loro errori, e autorizzava i loro spaventi45.

Gli antichi allevati in una religione che dava peso ai loro errori è una perifrasi per connotare la superstizione. Questo luogo del Saggio del ’15 si rifletterà in seguito in qualche pagina dei cosiddetti Abbozzi preparatorî del Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, in cui infatti si torna a parlare (cito testualmente) di terrori sogni larve tenebre, voci e locuzioni che a loro volta sono quasi identiche a quelle di un articolo, al poeta difficilmente sfuggito, intitolato Le apparizioni, apparso nel 1818 nella rubrica Filosofia dello “Spettatore Italiano”, in cui si legge tra l’altro che «l’uomo superstizioso, d’ogni cosa si sbigottisce; la terra e il mare, l’aria e il cielo, le tenebre e la luce, il rumore e il silenzio gl’infondono terrore; basta un sogno per arrecargli spavento. […]. Le larve, gli spettri, le notturne fantasie erano le ombre cattive; […]». Quest’articolo dello “Spettatore Italiano” reca pure in epigrafe due versi (esattamente 208-209) del secondo dello Epistularum Liber in cui Orazio esorta il giovane amico Floro a farsi beffe proprio dei sogni, dei terrori dovuti a credenze magiche, alle ombre e fantasie notturne46. I timori panici, i palpiti, i sudori angosciosi, lo spiare ogni romore, i sospetti, le visioni immaginarie preannunciano del resto la maggiore poesia leopardiana, nel senso che, come gli antichi, si comportano anche i moderni quando sono o si pongono nella condizione di fanciulli. Si pensi, per esempio, a Alla luna (vv. 2-3): «[…] sovra questo colle / Io venia pien d’angoscia a rimirarti: / […]» (ma nelle stampe precedenti, fino all’edizione Piatti si leggeva carco d’angoscia); o si pensi alla Vita solitaria (vv. 66-67): «[…] a palpitar si move / Questo mio cor di sasso […]»; oppure, ancora, si pensi agli assidui terrori delle Ricordanze nel passo che si cita più avanti47. 45

G. Leopardi, Saggio sopra gli errori…, cit., p. 795. Cfr. rispettivamente G. Leopardi, Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, ed. cit., p. 120 e “Lo Spettatore Italiano”, 1818, t. X, pp. 577-578. I versi di Orazio in epigrafe recitano: «Somnia, terrores magicos, miracula, sagas, / Nocturnos lemures, portentaque thessala rides» (si noti: senza il punto interrogativo presente nel testo oraziano). 47 Sui terrori, evocazioni spettrali e altre reazioni affini dell’uomo primitivo, già rilevabili nel già cit. Saggio di Martignoni, in cui vengono saldati al sublime poetico, si veda ora in I. Martignoni, Del Bello e del Sublime. Libri due (1810), cit.: si veda almeno, nel libro secondo, a p. 74 (Capo primo. Della Natura del sublime, e de’ varj fonti, da’ quali deriva). L’edizione originale è cit. alla nota 6 del capitolo I. In affinità con lo stesso tema si veda pure nei cosiddetti 46

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Quanto ai palpiti e agli errori, o agli inganni, Leopardi nella canzonetta Il risorgimento, ne ricostituirà come in filigrana gli stretti rapporti semantici, come mostrano in modo esemplare soprattutto i vv. 85-86, in cui si forma un sistema semantico unitario di lemmi e sintagmi intercambiabili, moti soavi, immagini, palpiti ed error beato, che si estende ancora a dolci inganni o a gl’inganni aperti e noti: «Mancàr gli usati palpiti, […]» (v. 13); «[…] sì beato errore / Nutrii nell’alma un dì!» (vv. 43-44); «Moti soavi, immagini, / Palpiti, error beato, / […]» (vv.85-86); «Proprii mi diede i palpiti, / Natura, e i dolci inganni» (vv. 109-110); «Dalle mie vaghe immagini / So ben ch’ella discorda: / […]» (vv. 117-118); «Pur sento in me rivivere / Gl’inganni aperti e noti; / E de’ suoi proprii moti / Si meraviglia il sen» (vv. 145-148). E ancora: Stupisco ai nuovi palpiti avrebbe dovuto suonare il v. 101 se il poeta non vi avesse soprascritto il verso che poi resterà definitivo («Chi mi ridona il piangere, / […]»). E palpiti richiama anche ulteriori luoghi dei Canti: «[…] di te pensando / A palpitar mi sveglio. […]» (Alla sua donna, vv. 40-41); «[…] a palpitar si move / Questo mio cor di sasso […]» (La vita solitaria, vv. 65-66). E l’errore, due volte, s’è visto, definito beato, è pure antico (nell’autografo però era leggiadro) in Nelle nozze della sorella Paolina (vv. 2-4). In quest’ultimo componimento, invece, beate saranno le larve (variante delle già note immagini), ancora un lemma, si noti, utilizzato nel Saggio sopra gli errori, al capo ottavo, significativamente intitolato Dei terrori notturni: Ombre, larve, spettri, fantasmi, visioni, ecco gli oggetti terribili che faceano tremare i poveri antichi, e che, convien pur dirlo, ispirano ancora a noi dello spavento48.

Il sostantivo spavento, che, collegato al motivo del sogno, si ritroverà più tardi, s’è appena visto, nel citato articolo dello “Spettatore Italiano”. Questo topos, al quale è dedicato in questo volume il capitolo V, sarà fecondamente e originalmente inserito nel sistema poetico del diletto che – non era stato finora notato – il Leopardi del Saggio sopra gli errori deriva inequivocabilmente dalla traduzione italiana di A philosophical Enquiry di Burke, in cui infatti si legge tra l’altro: «Ciò [= le paure notturne per la presunta presenza di spiriti e folletti] si comprenderà da chiunque consideri quanto la notte accresca grandemente il nostro spavento in tutti i casi di pericolo, e quanto le nozioni degli spiriti e de’ folletti, di cui nessuno può formarsi idee chiare, agitano gli animi di coloro che danno fede ai popolari racconti intorno a sì fatte sorti di Abbozzi del Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, a cura di Ottavio Besomi, Bellinzona, Casagrande, 1988, p. 120. 48 Ivi, p. 798.

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esseri»: indicazioni, queste, pedissequamente riprese poi dal recensore del saggio di Martignoni, per il quale tali apparizioni di spettri «oltre le idee terribili ch’esse risvegliano, sono sempre accompagnate dalle […] privazioni generali solitudine, oscurità, silenzio»49. Il sostantivo spavento si rivelerà componente fondamentale del diletto poetico e in una particolare accezione semantica andrà a collegarsi con stupore e meraviglia, come pure si constata per uno degli idillî pubblicati nel ’25, che s’intitolava significativamente Lo spavento notturno. Nel capo ottavo del Saggio or ora citato si legge ancora: «Non v’ha terrore che possa paragonarsi a quello che ispira la idea delle cose soprannaturali applicata a delle chimere […]»; e più avanti ricorda Lucrezio, il quale paragonava i timori degli uomini «per cose vane e da nulla, alle angustie che i fanciulli provano nelle tenebre»50: immagine quest’ultima, assimilabile a quella autobiografica di alcuni versi del Primo amore, avviati alla fine del ’17 come Elegia I (43-46): Ed io timido e cheto ed inesperto, Ver lo balcone al buio protendea L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, La voce ad ascoltar [...].

L’immagine dell’orecchio avido viene dal poeta fissata proprio in questi anni 1817-’18 non solo perché riflette chiaramente il sintagma «[…]coll’orecchio avidissimamente teso […]» delle cosiddette Memorie del primo amore51, ma anche perché proprio al 1818 risale il celebre luogo dello Zibaldone – che qui si cita più avanti – in cui tale immagine è rimarcata con la fondamentale connotazione dell’ora notturna: «[…] notti estive […] in letto in camera oscura […]». In una situazione diversa, il teso orecchio del pallido ladron torna in La vita solitaria (v. 78), ma non si deve dimenticare che questa immagine topica è anche mediata dal Cesarotti ossianico: «tende l’orecchio / Al calpestìo de’ piedi […]»52. 49

Nella Biblioteca di Casa Leopardi era disponibile in traduzione italiana, Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee del Sublime e del Bello, con un discorso preliminare intorno al gusto di Edmondo Burke tradotta dall’inglese da Carlo Ercolani canonico della cattedrale di Macerata, Macerata, presso Bartolommeo Capitani 1804; si veda a p. 66. Corsivi miei. Per la recensione a Martignoni vedasi “Annali di scienze e lettere”, 1810, fs. IX, pp. 358-359 (corsivo d’autore). 50 Ivi, pp. 799 e 804. 51 È questo il titolo congetturato da Flora e poi assunto in G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, a c. di Franco D’Intino, Roma, Salerno, 1995, p. 12. 52 Sono parole del poemetto Dartula. Nella biblioteca di casa Leopardi è presente la seguente edizione: Poesie di Ossian figlio di Fingal antico poeta celtico ultimamente scoperte, e tradotte in prosa inglese da Jacopo Macpherson e da quelle trasportate in verso Italiano dall’abate

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Destinata a crescere nel sistema poetico leopardiano, questa invenzione ricalca chiaramente puntuali passaggi di Blair e di Burke; il primo infatti nelle sue già citate Lezioni aveva scritto: «Il cupo suono di una grossa campana è sempre un non so che di grande; ma quando s’ode nel più profondo silenzio della notte, il divien doppiamente»; e il secondo, in termini identici, nella Philosophical Enquiry (II, 19), che Giacomo leggeva nella traduzione italiana apparsa a Macerata nel 1804: «Poche cose sono più terribili dei tocchi di una gran campana, quando il silenzio della notte impedisce l’attenzione dall’essere troppo dissipata»53. Deriva da queste indicazioni il topos dell’udire suoni senza vederne la causa; tanto più nella notte. È un topos, questo sulla funzione dell’udire in chiave poetica, che l’autore riscrive ampiamente nel ben noto appunto zibaldoniano del 16 ottobre 1821, già citato prima, in cui sostiene che quanto da lui «detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito». È una situazione dal poeta ripresa anche in contesti diversi da quello amoroso e sentimentale. La si ritrova nell’appunto zibaldoniano richiamato poco prima: Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della notte, o al mattino ancora silenzioso, e all’età consistente.

E l’immagine centrale dell’orologio torna nei cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza: […] mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole consolato dall’orologio della torre ec.54

Melchior Cesarotti con varie annotazioni de’ due Traduttori, Bassano MDCCLXXXIX, a spese Remondini di Venezia, tomi 3, in 8°. 53 Cfr. rispettivamente Lezioni…, ed. cit., t. I, p. 58, e Ricerca filosofica…, cit., p. 100 (II, 19). 54 Cfr. rispettivamente Zib., p. 36, G. Leopardi, Tutte le opere, cit., I, p. 361 e Id., Scritti e frammenti… cit., pp. 73-74. Per la datazione dei primi anni dello Zibaldone, mancante nell’autografo, si veda G. Pacella, Datazione delle prime cento pagine dello «Zibaldone», in “Italianistica”, XVI, 1987, pp. 401-409. Per quanto concerne la torre, tutt’altra funzione rispetto a Leopardi assume quella descritta da Burke (Ricerca…, ed. cit., p. 99).

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Immagine e situazione topiche, ma anche episodio autobiografico fissato nella memoria che troverà alta esecuzione lirica a distanza di anni nei già citati delle Ricordanze (vv. 50 s.): Viene il vento recando il suon dell’ora Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, Quando fanciullo, nella buia stanza, Per assidui terrori io vigilava, Sospirando il mattin. […]

Si noti il vento come agente del quadro presentato: è questo un ulteriore motivo preparato da lontano, almeno da una ampia pagina dello Zibaldone del 16 ottobre 1821, in cui il poeta già adottava per il vento il verbo stormire: È piacevole per se stesso […] un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; […]. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, […], massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quando è più sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente nella foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocché oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. […]. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo, che non lasci determinare la vastità del suono, nè i punti da cui esso parte ec.ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e recando il soggetto senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorarne l’effetto e le immagini che son per produrre […]55. 55

Zib., p. 1929 (ma si veda anche tutta la p. 1928). È in questo stesso intreccio di interferenze sulla percezione poetica dei suoni che va collocato l’importante riscontro di Mengaldo sulla «suggestiva riscrittura del primo appunto dello Zibaldone nella chiusa della strofa iniziale della Quiete: “Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro / Del passegger, che stritolando i sassi, / Mandava un suon, che precedeva da lungi / Il tintinnio de’ mobili sonagli”= “E, dalla via corrente […], odi lontano /Tintinnio di sonagli, il carro stride / Del passegger che il suo cammin ripiglia”»: Pier Vincenzo Mengaldo, Sonavan le quiete stanze, cit., p. 107, n. 14.

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Questa lunga pagina zibaldoniana non solo condensa la radice inventiva di memorabili luoghi delle Ricordanze, non solo dimostra con quanto gusto di dettagli il poeta motivi e arricchisca il topos della varia percezione dei suoni suggeritogli dalle annotazioni di Burke e di Blair, ma anche convoglia e aggancia questo topos – s’è già visto – alle caratteristiche della sprezzatura castiglionesca con rilievi inequivocabili e specifici (si ricordi: immagini bellissime quanto più negligentemente son messe e così via). Il vento, come il tuono e l’eco, è elemento agente che non si vede; ma perché le immagini che producono siano altamente poetiche («[…] immagini in poesia […] sempre bellissime […]», si legge ancora poco più avanti) tale stato d’invisibilità, indispensabile a rendere in modo intenso il fascino dei suoni o delle voci che tali elementi agenti trasportano, deve assolutamente coniugarsi con l’immagine della notte, proprio come specificamente indicava ancora Burke nel capitolo Intermittenza: «[…] la notte accresce il terrore, forse più di qualunque altra cosa. […]. […] i suoni bassi confusi ed incerti ci lasciano nella stessa timorosa ansietà riguardo alle loro cagioni, come la totale mancanza di luce, ovvero una luce incerta riguardo agli oggetti che ci circondano». E Leopardi, poi, nello Zibaldone: Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo ec. ec. La notte, o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata56.

A questi luoghi zibaldoniani va rinviata, dunque, il processo inventivo dei vv. 50 s. delle Ricordanze che opera in modo consequenziale57: durante la notte infatti («[…] alle mie notti […] nella buia stanza […]») il vento reca il suon dell’ora, e a sua volta questo suon reca conforto al fanciullo che veglia per assidui terrori. Il tema delle ombre inquiete e dei terrori notturni si rivelerà acquisto di lunga durata nell’elaborazione dei Canti, insieme a qualche altro preparato nella delicata fase degli anni di sperimentazione (1815-1818) dalla quale l’analisi fin qui svolta era partita. Nel 1816 il diciottenne poeta compone Le 56

Cfr. rispettivamente Zib., 1798 (28 Settembre 1821) e Zib., 1930 (16 Ottobre 1821). I corsivi sono d’autore. 57 Questa consequenzialità del processo inventivo nei versi in esame, in stretta relazione con il luogo zibaldoniano menzionato, non è stato finora mai evidenziata dai commentatori dei Canti.

IL PASTORE E ALTRI TÓPOI

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rimembranze, un idillio, secondo la sua definizione, che, s’è già anticipato, tocca il tema del lamento funebre (non si dimentichi che era ancora recente la traduzione del Canto funebre di Bione, da lui non a caso elogiato nel suo Discorso sopra Mosco) e presenta particolari riferimenti alla luna, alle foglie, ai fiori, all’erba e alla sera. L’incipit recita: «Era in mezzo del ciel la curva luna, / […]»; e il ricordo va a un passaggio già citato dell’adolescenziale Storia dell’astronomia (corsivi miei): la luna dapprima «presenta la forma di una falce o di un filo luminoso e curvo [...]» poi, crescendo di luminosità, «al venir della notte è nel mezzo del cielo»: formula che – fatto significativo – l’autore ripete identica pure in greco e in latino nella seconda delle Odae adespotae, che sono pure del 1816 come Le rimembranze: «μέσον ούρανeν» e «medium per coelum». Le rimembranze è idillio dominato dal patetico e da una malinconica aura di morte nel dialogo tra Micone e il suo figliolo minore Dameta. Se il patetico è una categoria utile al giovanissimo autore per imparare a maneggiare il mondo degli affetti, il mondo della memoria, a cui richiamerebbe il titolo del cosiddetto idillio, sarà radicalmente trasformato nella sua poesia più consapevole (si veda in questo volume almeno al cap. VII). Ancora in alcuni testi del 1816, infatti, opera una memoria intesa come variante della tenerezza sentimentale, come per esempio nell’abbozzo della tragedia Maria Antonietta («[…] andati giorni / Oh lieti dì, memoria acerba! […]»), o ancor più, come nelle stesse Rimembranze. Idillio, in cui Micone dice a Dameta: […] del tuo maggior fratello Non ti ricordi tu? Più non rammenti Il tuo Filino? Ei t’ha lasciato, e un anno È che nol vedi più. Le prime rose Spuntavano, com’or, su quella fratta, […].

Il modello di Mosco, secondo Bigi, opera in Le rimembranze. Idillio (sia pure nella versione neoclassica di Pagnini)58, a cominciare dal motivo lunare, che si riscontra all’inizio di questo idillio e che ritornerà qualche anno dopo in un componimento dal titolo simile, La ricordanza, che in seguito, infatti, assumerà quello esplicito di Alla luna già nell’edizione fiorentina dei Canti.

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Si veda alla nota 32.

II L’«ORRENDA DELIZIA» DI WERTHER. LEOPARDI E L’ELEGIA

Verso la fine del 1817, inteso a rifondare in senso moderno il genere dell’idillio, e soprattutto ad ampliarne gli orizzonti rispetto al modello antico, sia per quanto concerne il paesaggio lunare e notturno e i fenomeni naturali, anche tempestosi, sia per quanto concerne i palpiti interiori e i cosiddetti errori e sogni del cuore, Leopardi si trova di fronte a componenti del lavoro poetico che si aprono a un genere lirico diverso, quello dell’elegia. Non è infatti casuale che, legate al cosiddetto Diario del primo amore del dicembre 1817, il poeta componga – rispettivamente nello stesso mese e nel gennaio 1818, secondo la datazione di Porena1 – Elegia I ed Elegia II per Gertrude Cassi-Lazzari, di cui è segretamente invaghito. E neppure è casuale che nel giugno 1818 egli abbozzi quattro Argomenti di elegia e, un anno dopo, ancora un Argomento di elegia e tre Argomenti di idilli, denotando implicitamente una vera e propria rivisitazione dei due generi. E ancora: non è casuale che Il sogno – come s’è già visto – venga nella prima stampa, quella dell’agosto1825 nel Caffè di Petronio2, indicato come Elegia, e solo nelle stampe successive del ’26 lo stesso testo viene indicato come Idillio IV; un’oscillazione estremamente rivelatrice dell’impegno del poeta al riguardo. Il Diario del primo amore (si mantenga il titolo tràdito, che non è dell’autore) viene definito dallo stesso Leopardi «ciarle […] fatte con me stesso per isfogo del cuor mio e perché mi servissero a conoscere me medesimo e le passioni [...]». Lo isfogo del cuore e le passioni echeggiano certamente 1

Manfredi Porena, Le elegie di Giacomo Leopardi [1911], in Id., Scritti leopardiani, Bologna, Zanichelli, 1959, pp. 215-249. 2 Il titolo completo è Notizie teatrali / bibliografiche e urbane / ossia / Il Caffè di Petronio / […] / Volume Primo / Bologna 1825. / Per le stampe di Annesio Nobili e comp./ Il componimento occupa le pp. 129-30.

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Petrarca, del quale già in un appunto zibaldoniano del 1820 si leggeva tra l’altro: […] tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano […].3

Ma, assegnato a Petrarca il tributo preventivo che merita come poeta dell’amore passione, lo isfogo del cuore e le passioni del cosiddetto Diario del primo amore si collegano in modo specifico alle passioni e alla voglia del povero core di Werther nella traduzione di Michiel Salom, presente nella biblioteca di famiglia: «[…] dall’affanno ai trasporti di gioia, e dalla dolce mestizia alle più ardenti e più pericolose passioni»; «[…] il mio povero core è come un fanciullo infermo, ed io lo lascio fare a sua voglia»4. È su questa infermità che Leopardi costruisce, complementare a quello di idillio, riguardante la natura e il paesaggio, il suo argomento di elegia, che concerne il sentire dell’amore-passione. Egli infatti contrappone ai «sentimenti del suo cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza […]» (malinconia, in particolare richiama scopertamente la dolce mestizia del Werther italiano), l’insorgere dell’«amor tenero e sentimentale»: «quegli affetti […] incorporati con la sua mente, che in nessun modo né anche durante il sonno lo poteano lasciare». E più avanti dirà: «quei moti cari e dolorosi [...]», di cui egli prevede di rimanere «sempre schiavo» e di cui egli si sforza di mantenere sempre viva la «cara sembianza», che, quando il sonno non ne risente, gli appare in sogno, procurandogli «giorni smaniosissimi e infelici […]»5. Nel 1817, in concomitanza della composizione della Elegia I e della Elegia II, Leopardi dovette iniziare, protraendola per qualche anno, la lettura della traduzione del Werther, dalla quale assume sia la forma del nome Verter sia la ridenominazione del nome della protagonista Lotte in quello di Carolina. È la medesima edizione utilizzata già da Foscolo, sulle cui Ultime lettere di Jacopo Ortis – è stato già ricordato6 – ha però esercitato un’influenza non

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Zib., p. 112 (5 giugno 1820). Verter…, cit., p. 22. 5 G. Leopardi, Diario del primo amore, in Id., Tutte le opere, cit., vol. I, pp. 354 e 358 (passim). 6 Riccardo Massano, Werther, Ortis e Corinne in Leopardi, in Leopardi e il Settecento, Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1962), Firenze, Olschki, pp. 415-435; si veda a p. 416. 4

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paragonabile con quella subìta dal Recanatese (il quale, invece, beninteso, non potrà non declinare la lezione wertheriana con quella ortisiana7). All’inizio del 1819 Leopardi sottolinea che la disperazione in amore in varie guise l’avrebbe indotto al suicidio: […] nell’amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perché dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (nonostante ch’io fuggissi, quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.

E poco dopo, nella primavera dello stesso anno, nei cosiddetti Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, il poeta annoterà un appunto presumibilmente legato al progetto di un romanzo wertheriano8: «Ecco dunque il fine di tutte le mie speranze de’ miei voti e degli infiniti miei desideri (dice Verter moribondo e ti può servire pel fine)». «[…] Letto Verter» – dirà ancora il poeta in un appunto dell’ottobre 1820 – «mi sono trovato caldissimo nella mia disperazione […]»9. Werther entra nella trafila dei Canti non solo per quanto concerne la componente idillica, ma ancor più per quanto concerne la materia sentimentale in chiave elegiaca, chiave in cui pure, per esempio, si può leggere il maturo Consalvo, il cui amore inappagato per Elvira riecheggia per varî aspetti quello di Werther per Lotte. Anche nel personaggio leopardiano, infatti, l’amore risveglia da un profondo isolamento e la idealizzata associazione di amore e morte può realizzarsi solo in un mondo sovrannaturale. Un’evidente differenza è certamente da vedersi nel fatto che il dramma dell’innamorato in Consalvo non è al tempo stesso, come nel Werther, quello dell’amata. Infatti, diversamente da Lotte, Elvira non contraccambia l’amore, ma concede al morente soltanto un bacio per pietà10. 7

Si vedano ancora al riguardo R. Massano, cit., p. 420 s. e L. Monte, Leopardi e il Werther, Napoli, Federico & Ardia, 1995, p. 11. 8 Lo ritiene altamente probabile L. Monte (cit., p. 12), la quale richiama un’annotazione del febbraio 1829: Eugenio, romanzo (Verter). 9 Cfr. nell’ordine Zib., p. 64. G. Leopardi, Tutte le opere, cit., I, p. 362 e Zib., p.261. 10 L. Monte, Leopardi…, cit., pp. 89 s., 94 e 102 s. Del tutto gratuita la tesi in chiave psicoanalitica di Giorgio Manacorda, Materialismo e masochismo. Il Werther, Foscolo e Leopardi,

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Ma si proceda con ordine. Il Diario costituisce già di per sé un argomento (come direbbe il poeta) di elegia con al centro il cuore e i suoi moti cari e dolorosi, preludio, come si vedrà più avanti, dei «teneri / Moti del cor profondo / […]» del Risorgimento o degli indicibili moti d’Aspasia; e con al centro ancora i turbamenti interiori e le passioni pur serbate a un amore platonico. «[...] S’al mondo ci fu mai affetto veramente puro e platonico, ed eccessivamente e stranissimamente schivo d’ogni menomissima ombra d’immondezza il mio senz’altro è stato tale ed è […]»11. Questa esplicita affermazione sull’affetto veramente puro e platonico va considerata come preziosa testimonianza espressa nella congiuntura tra le due elegie, il Diario e Il primo amore. Essa sarebbe tuttavia incomprensibile senza la connotazione platonica, pur mediata entro certi limiti attraverso Petrarca, che proprio in Alla sua donna rivela il suo primo, evidente approdo. Inequivocabili si mostrano in tal senso i riscontri testuali: «[…] non è cosa in terra / Che ti somigli; e s’anco pari alcuna / Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, / Saria, così conforme, assai men bella» (vv. 19-22); e ancora: «[…] ben chiaro vegg’io siccome ancora / Seguir loda e virtù qual ne’ primi anni / L’amor tuo mi farebbe. […]; / E teco la mortal vita saria / Simile a quella che nel cielo india» (vv. 28-33); e ancora: «[…] s’altra terra ne’ superni giri / Fra mondi innumerabili t’accoglie, / E più vaga del sol prossima stella / T’irraggia, e più benigno etere spiri, / Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d’ignoto amante inno ricevi» (vv. 50-55). Proprio il Diario si rivela riferimento evidente dei summenzionati Argomenti d’elegia del 1818, in cui s’incontrano espressioni e motivi quasi identici, come «io gelo e tremo solo in pensarvi ora che sarà ec.», «Mi basta il mio dolore la purità de’ miei pensieri l’ardore la infelicità dell’amor mio. […]. Nato al pianto mi contento anche in questo amore d’essere infelicissimo»; oppure: «[…] il mio cor non tace / Ancor posando e palpitar desia»; e ancora, con movenza petrarcheggiante: «[...] il pianger solo / Per lei tuttora e ’l sospirar mi piace»12.

Roma, Artemide, 2001 (1.a ed., Firenze, La Nuova Italia, 1973), pp. 63, 65 e 74, secondo cui nella algida Elvira Leopardi avrebbe trasfigurato l’algida e insensibile figura materna. 11 G. Leopardi, Diario del primo amore, cit., p. 358. 12 Si noti che già qualche anno prima, nella frammentaria e incompiuta Telesilla Girone dice all’amata: «[…] al pianto / Siam prodotti ambedue»: cfr. G. Leopardi, Tutte le opere, cit., vol. I, pp. 330-331 e 346, edizione, questa, che a sua volta deriva il testo da quella a cura di Francesco Flora (G.L., Le poesie e le prose, in Id., Tutte le opere di G.L., vol. I, Milano, Mondadori, 19586). Quest’ultima però non è sempre attendibile, come dimostra il caso di

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Come si dirà meglio in altro capitolo, l’espressione nascere al pianto maturerà col tempo nell’invenzione stilistica dei Canti e la si ritroverà in altri luoghi, come per esempio nel Sogno (v. 55), nell’Ultimo canto di Saffo (v. 48) e nell’Inno ai Patriarchi (v. 7). Ma si faccia un passo indietro e si noti come simili spunti fossero già riscontrabili nelle due Elegie, composte tra la fine del 1817 e il 1818, riferite sempre alla stessa esperienza, che pure costituiscono, sia pure con inevitabili approssimazioni, una circostanziata replica in versi del Diario. Nell’Elegia I, cioè nel testo di base di quello che, con correzioni e interventi di rilievo, s’intitolerà poi Il primo amore, dopo essersi chiesto il perché del travaglio e del lamento che pure colmano il cor di tanto diletto, il poeta si rivolge ancora al suo cuore, definito tenero, che è, si noti, uno dei due aggettivi adottati nel Diario; l’altro è molle, «il cuore molto molle e tenero»13. Scelta non casuale, ma in chiara relazione con una delle prime pagine dello Zibaldone: «[…] dall’influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità come l’olio soavissimo delle sue Canzoni[…]»14. Ma è dal Tasso delle Rime che Giacomo, in linea diretta, deriva l’endiadi tenero e molle: «[…] il core / tenero e molle esperto amante renda, / […]». La stessa endiadi, si noti, che qualche anno dopo in un contesto diverso Giacomo riprenderà prima in un altro luogo zibaldoniano e, più tardi, anche in un passaggio del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani: «[…] delicato, tenero e molle»15. I vv. 13-15 di Il primo amore recitano: Dimmi, tenero core, or che spavento, Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual t’era noia ogni contento?

L’accezione leopardiana di spavento, sostantivo pur ripreso nell’Elegia II (v. 5) – «[…] e che spavento è questo?» –, per cui si rinvia in questo volume al capitolo V, è già matura in questa Elegia pur acerba e appesantita da reun’inversione di termini rispetto all’originale: cfr. D. De Robertis, Leopardi. La poesia cit., pp. 286-287, n. 19. 13 G. Leopardi, Diario del primo amore, cit., p. 353. Il testo è stato ripubblicato col titolo Memorie del primo amore in un’edizione più recente: si veda G. Leopardi, Memorie del primo amore, cit., p. 9. 14 Zib., p. 24. 15 Si veda al numero DXXVIII delle Rime, vv. 3-4, in Torquato Tasso, Opere, a cura di Bruno Maier, I (Aminta, Amor fuggitivo, Intermedi, Rime), p. 538. Si veda anche in Zib. p. 2210 (1 dicembre 1821): «[…] gli uomini di poco o mediocre sentimento […] sono […] sempre egualmente teneri e molli […] e restano bene spesso tali per tutta la vita […]» (corsivo mio).

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miniscenze letterarie; e tale accezione torna più avanti anche nei cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza e nell’idillio intitolato in un primo tempo Lo spavento notturno. Nel punto esaminato, spavento è assimilato ad angoscia, anticipando una connessione che verrà poi sottolineata nell’Elegia II. In questo testo alla stessa area verrà aggregato anche lo stupore (vv. 63-68) e, con gli affanni d’amore, ritorneranno i motivi emersi, al di là del corredo petrarchesco16, nello stesso Diario, dell’insonnia e del sogno (vv. 8-10: «[…] spero / Ch’egli sia sogno e ch’i’ non sia ben desto. / Ahimè ch’io veglio, e quel che sento è il vero; / […]»). Inoltre, in questa Elegia, con una virata estremamente sintomatica rispetto alla materia elegiaca, si nota un recupero del motivo del paesaggio naturale, questa volta in una forma tempestosa e terribile che, non senza indulgenze retoriche, viene a saldarsi con la violenta passione accesa nell’animo del poeta, il quale vorrebbe invocare, se non pregustare, una via d’uscita proprio nel suo naufragare o disperdersi a opera dell’inusitata violenza degli elementi (vv. 41-50): «[…] / Invan la pioggia invoco e la tempesta / […] / Pure il vento muggia ne la foresta, / E muggia tra le nubi il tuono errante, / […] / Or prorompi o procella, or fate prova / Di sommergermi o nembi […]». Poi il cielo si rasserena: «S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto / Posan l’erbe e le frondi, e m’abbarbaglia / Le luci il crudo Sol pregne di pianto. / Io veggio ben ch’a quel che mi travaglia / Nessuno ha cura; io veggio che negletto, / Ignoto, il mio dolor mi fiede e taglia» (vv. 52-57). Si tratta di versi non ben sintonizzati nel contesto prevalentemente elegiaco, ma proprio per questo sintomatici del tentativo di Leopardi di coniugare la rappresentazione della natura, sia nel suo aspetto devastante sia in quello sereno, col sentire e col lamento d’amore; l’idillio, appunto, con l’elegia. E questo inserto non amalgamato col contesto del componimento è anche una conferma della presenza di componenti di diversa provenienza, e pur in questo punto convergenti nell’immaginazione del poeta; vale a dire componenti ossianiche, certamente inconfondibili per i versi appena citati: «Mugge il vento lontano […]»; «Sorgete […] / […] tenebrosi venti, / Imperversate tempeste, fremete / Turbini, e nembi […] / Muoia Calmar fra turbini e procelle» (Fingal, VI, v. 6 e I, vv. 138-144)17. Ma, a parte questo 16

Alludo a versi come: «[…] colei che in cor m’ha posto / Di morire un asprissimo desio: / […]» (14-15); «Amore, io ti credetti assai men duro / Allor che desiai quel che m’ha fatto / Miser fra quanti mai saranno o furo» (28-30): si veda G. Leopardi, Elegia II, in Id., Canti, ed. crit. cit., t. I, pp. 551-553. 17 Cito dall’edizione presente nella biblioteca di casa Leopardi: Poesie di Ossian figlio di Fingal antico poeta celtico ultimamente scoperte e tradotte in prosa Inglese da Jacopo Macpherson, e da quelle trasportate in verso Italiano dall’abate Melchior Cesarotti con varie annotazioni de’ due

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luogo ossianico, era stato soprattutto Werther a predisporre in Leopardi la raffigurazione orribile di una tempestosa natura invocata drammaticamente con voluttà autodistruttiva, con quell’orrenda delizia, di cui infatti si legge nella traduzione di Salom: Luttuosissimo spettacolo! Ai piè della rupe, mercè il riverbero Lunare si vedevano ammonticchiarsi l’onde natanti sui campi, sui prati, sui sterpi, e sopra ogni cosa, e tutta la vasta pianura sembrava un burrascoso mare, su cui fischiasse un vento procelloso. Se la Luna appariva di nuovo appoggiata sopra un negro nuvolone, mentre il flutto colaggiù in faccia mi mugghiava e strepitava fra uno spesso terribile riverbero, prendeami un certo orrore frammisto di desiderio. Io mi stava a braccia aperte davanti l’abisso, anelante di gettarmivi, di perdermi in quell’orrenda delizia, e di conficcare a forza colà dentro tutte le mie pene, tutt’i tormenti, là, sì, là, in quelle onde mugghianti 18.

Nessuno finora ha notato che la orrenda delizia del Werther italiano prepara e predispone in Leopardi un topos centrale, quello del piacere dei pericoli che crea il temporale, già fissato in Argomento di elegia del ’19 e illuminante in modo incontrovertibile l’insueto gaudio di Saffo, di cui si dirà pure in questo volume più avanti. Si aggiunga che la traduzione del brano wertheriano appena citato, o almeno l’ultimo periodo di questa, si sarebbe dovuto forse evidenziare in corsivo per sottolineare la straordinaria analogia col quadro di un innamorato in balia di una tempesta spaventosa già rilevato nei versi prima citati dalla Elegia II; ed è, si noti, lo stesso quadro dell’argomento, come ribadisce del resto un inciso dell’autore, il quale si riferisce ai versi or ora menzionati come a «quelle terzine […] segnate ne’ pensieri»: Elegia di un innamorato in mezzo a una tempesta che si getta in mezzo ai venti e prende piacere dei pericoli che gli crea il temporale ed egli stesso errando per burroni ec. E infine rimettendosi la calma e spuntando il sole e tornando gli uccelli al canto (dove si potrebbono porre quelle terzine ch’io ho segnate ne’ pensieri) si lagna che tutto si riposa e calma fuorchè il suo cuore. Anche si potranno intorno al serenarsi del cielo usare le immagini del Canto secondo e quarto della mia Cantica. Io vedo ec. Gli uccei girarsi basso per la valle: Poco può star che s’alzi una tempesta. Donna io non ispero che tu mi possa amar mai: povero me non mi amare no, non lo merito, infelicissimo non ho altro che questo povero cuore, non mi ami, non mi curi, non ho speranza nessuna: Oh s’io potessi morire! Oh turbini ec. Ecco comincia a tonare: venite qua, spingetelo o Traduttori, Bassano, MDCCLXXXIX, a spese Remondini di Venezia, tomi 3, in 8°. 18 Verter…, cit., p. 142 (12 dicembre). Corsivi miei.

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venti il temporale su di me. Voglio andare su quella montagna dove vedo che le querce si movono e agitano assai. Poi giungendo il nembo sguazzi fra l’acqua e i lampi e il vento ec. e partendo lo richiami19.

In questo squarcio «elegiaco» (non a caso l’incipit dell’Argomento specifica che si tratta dell’elegia di un innamorato) la presenza lessicale e in parte anche stilistica dell’Ossian cesarottiano20 è in realtà filtrata dal personaggio di Werther, il quale nell’italiano di Salom, ricorda certamente come nel suo cuore «Ossian eclissò Omero […]». Questo filtro wertheriano operante tra Leopardi e il modello di Ossian è stato finora sorprendentemente ignorato dagli studiosi. Blasucci in uno specifico contributo sull’argomento parla di correzione operata dal Recanatese nel suo giudizio su Ossian tra la sua Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana del 1816 e il suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818, allorché Ossian non è accomunato con la disprezzata schiera dei poeti nordici, tanto cari alla Staël, ma è considerato in ogni caso un poeta antico (cioè operante prima del cosiddetto incivilimento esaltato dai moderni) «che non ha nulla da invidiare al patetico dei romantici esaltato dal Di Breme […]». Ma mi chiedo, se ci si possa appagare solo con la constatazione di questa correzione di giudizio, per cui Ossian viene ammirato come poeta antico, e non come poeta nordico, e dunque ricollocato in quella dimensione temporale che era già di un Omero, o invece non si debba anche considerare che tra il 1816 e il 1818, tra la Lettera e il Discorso, agisca in Leopardi appunto la lettura wertheriana di Ossian, che tende a rimodulare e a riconvertire il linguaggio ossianico, epico-guerriero, in una dimensione eminentemente sentimentale e passionale. Ed è non a caso alla lettura del Werther che il Recanatese riconduce esplicitamente il suo pensiero sul desiderio di suicidio in una delle prime pagine dello Zibaldone, che pure andrebbe dunque collegata all’Argomento: […] nell’amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perché dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di 19

G. Leopardi, Tutte le opere, I, cit., p. 336. Si veda al riguardo L. Blasucci, Sull’ossianismo leopardiano, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti (Gargnano del Garda, 4-6 ottobre 2001), a c. di Gennaro Barbarisi e Giulio Carnazzi, t. II, Milano, Cisalpino, 2002, pp. 785-816 e poi in Id., Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 199-235. Questo contributo coinvolge solo fugacemente il leopardiano Argomento di elegia, che è invece un testo da rivalutare nell’ottica del Leopardi lettore di Goethe. 20

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amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch’io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.

D’altra parte il Werther nella traduzione italiana di Salom recupera, non a caso, in moltissimi luoghi proprio il linguaggio ossianico-cesarottiano, anche in quei lemmi e stilemi per i quali Blasucci, invece, richiama decisamente Ossian, come nel caso del verbo mugghiare 21 che si trova pure nel passo poco prima citato dal Werther in traduzione, dove si legge onde mugghianti, una iunctura che rinvia anch’essa, non meno di alcuni luoghi ossianici (Fingal, Dartula) al mugghiante flutto dell’Inno ai Patriarchi (vv. 57-58). È evidente che le affinità lessicali e stilistiche e semantiche molto strette tra l’Argomento di elegia e la lettura del romanzo goethiano autorizzano a collocare quest’ultimo, per Leopardi, non più su un piano di influenza generica, ma specifica e superiore rispetto al Cesarotti ossianico22, come conferma inequivocabilmente qualche ulteriore, inedita analisi intertestuale, concernente la riconversione leopardiana dal linguaggio epico-guerresco ossianico a quello in chiave passionale-wertheriana. Infatti, proprio per il caso dell’ Argomento andrebbe pure ricordata nel Frammento 47 di Saffo l’analogia tra Eros che scuote la mente e il vento che si si abbatte sulle querce23. Ma per restare al Werther in traduzione si vedano, per esempio, nel libro II, la lettera del 12 ottobre (e non luglio: vedasi qui nota 24) lo stesso verbo errare («errando per burroni […])» o un sostantivo come turbini («Oh turbini ec»). Se il Leopardi dell’Argomento dice errando per burroni e Oh turbini […] Ecco comincia a tonare, nella lettera wertheriana si legge: «Errare per le foreste, circondato da impetuosi turbini, che portano sulla densa caligine del tetro raggio Lunare gli spiriti de’ grand’Avi […]». E più avanti ancora v’è un altro luogo della traduzione dal Werther che il Leopardi dell’Argomento ricalca in modo netto verso il finale del brano, quando l’innamorato invoca i venti affinché spingano in avanti il temporale e quando vuol raggiungere le 21

Il passo citato sul desiderio del suicidio e sulla lettura recente del Werther è in Zib., p. 64. Sul verbo mugghiare nei poemi ossianici si veda L. Blasucci, Sull’ossianismo leopardiano, cit., rispettivamente alle p. 786 e 807 e 200 e 224. 22 Non è un caso che Blasucci (ivi, rispettivam. a p. 795 e a p. 210) avverta giustamente il rischio di «molteplicità indifferenziata di richiami testuali ai poemi di Ossian». 23 Questo frammento saffico non è presente in Le odi di Anacreonte e Saffo recate in versi italiani da Francesco Saverio de’ Rogati, Tomo I, Colle MDCCLXXXIII, Nella Stamperia di Angiola Martini e Comp., opera posseduta nella biblioteca di Monaldo, che di Saffo racchiude solo un florilegio limitatamente alle pp. 193-210.

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querce che si movono e agitano assai su una montagna: è un luogo per il quale meritano risalto i versi wertheriani di estrazione ossianica (ma riconvertiti, s’è detto, in un contesto diverso) riguardanti Rino, il figlio di Fingal ucciso in Irlanda nella guerra contro l’esercito di Svarano: «Su, su, imperversa pur, procella orrenda! / Fremi de’ monti sulle negre vette! / Mugghia torrente! Delle quercie in alto / Urla tempesta! […]»24. Ossian è filtrato, dunque, ancora una volta dal Werther italianizzato, ma va ricordato che l’immagine della quercia agitata da una bufera era già nel leopardiano Saggio sopra gli errori popolari degli antichi («rompendo col petto la corrente di un vento romoroso […], vede di lontano nella foresta una quercia tocca dal fulmine»). A questo riguardo preme tuttavia rilevare che l’elegia è di un innamorato perché, secondo il poeta, i piaceri del temporale non si addicono a un’anima d’amor digiuna: una precisazione cruciale, che per di più aiuta a focalizzare una sequenza ancora sub iudice del leopardiano componimento Nelle nozze della sorella Paolina. Si legga (vv. 48-53): […]. D’amor digiuna Siede l’alma di quello a cui nel petto Non si rallegra il cor quando a tenzone Scendono i venti, e quando nembi aduna L’Olimpo, e fiede le montagne il rombo Della procella. […]25

Il collegamento di questi versi con i luoghi citati di Elegia II, oltre che dell’Argomento, è fin troppo evidente. Malgrado questo vincolante riscontro testuale, Blasucci presenta i versi appena citati di Nelle nozze «come manifestazione non di disperazione, ma di coraggio dell’animo innamorato»26: 24

Verter… cit., rispettivamente a p. 125 e a p. 165. La citata lettera del 12 Ottobre in questa traduzione riporta erroneamente la data del 12 luglio. Son miei i corsivi riguardanti l’affinità di parole chiave tra il testo leopardiano e quello goethiano in traduzione. 25 Alla luce degli inequivocabili riscontri testuali che sorreggono l’analisi di questi versi lascia molto perplessi l’affermazione secondo cui «questo è forse l’unico luogo della poesia leopardiana in cui la tempesta viene rappresentata in positivo» (Lucio Felici, L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra “favole antiche” e “disperati affetti”, Venezia, Marsilio, 2005, p. 57). 26 L. Blasucci, Sull’ossianismo leopardiano, cit., p. 213. Dubbî non possono non sorgere anche per quanto lo studioso afferma poche righe più avanti: «Ma il motivo del piacere nella tempesta, e più in generale del piacere nei pericoli, è, come sappiamo, tipicamente ossianico, e questa volta documentabile con precisi riscontri testuali […]». In realtà, sin dal primo riscontro del testo ossianico riportato (La morte di Cucullino, vv. 255-256) si nota che il cuore dell’eroe cresce, e s’allegra non per i pericoli di un uragano o temporale, bensì nel fragor dell’acciar. Del resto, i testi leopardiani interessati, compreso il passo di Zib. del 18 novembre 1821, che Blasucci cita subito dopo e che io cito più avanti, non giustificano la confusione

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un giudizio che non tiene conto del fatto che, anche nell’Argomento e negli altri testi in versi citati, e che si citeranno, compreso l’Ultimo canto di Saffo, è in verità del tutto improprio e apparente parlare di gesto di disperazione, in quanto – come avevo già osservato nel mio libro precedente27 e come cercherò meglio di illustrare in questo lavoro – si tratta invece di un’acquisizione nuova, profonda e decisiva nella formazione della poetica leopardiana del sublime: investe cioè a tutto campo l’idea che solo un animo innamorato può essere degno e capace di avvertire il fascino unico e irripetibile del paesaggio naturale nella sua versione più terribile, quella dei fenomeni più sconvolgenti. Nelle moderne poetiche settecentesche del sublime, infatti, l’alternativa all’idea di bellezza di tradizione classicistica è il terrore, come sottolinea apertamente il Burke della Philosophical Enquiry, che nella traduzione italiana nota a Leopardi infatti scrive: «[…] non vorrei per nessun conto persuadere che la bruttezza sia per se stessa un’idea sublime; purchè non vada unita con quelle qualità che eccitano un forte terrore». E tale acquisizione – straordinario a dirsi – è ancora una scoperta derivazione dal Werther dell’edizione veneziana, quando nella lettera del 18 agosto il protagonista dice: Ah! non […] già le grandi e le stupende calamità del globo, non i rovinosi flutti […], non i tremuoti che inghiottono le città […] son le cose che mi commuovono, ma questa forza distruggitrice che giace occulta in tutta quanta la natura […]28.

L’Argomento conserva la stessa composizione bifronte del componimento in versi; e le due componenti, quella dei fenomeni naturali e quella della confessata infelicità d’amore restano irrisolte e non amalgamate. L’innamorato che prende piacere dei pericoli del temporale e che erra per burroni è evidentemente lo stesso poeta, il quale, quando torna il sereno nel cielo, non tra piaceri della tempesta e piaceri dei pericoli in generale. A p. 809, poi, lo studioso fa un ulteriore passo e, tenendo però fuori l’insueto gaudio di Saffo, ribattezza questo motivo del piacere dei pericoli come piacere del rischio in se stesso: una definizione semplicemente fuorviante nel caso dei luoghi leopardiani presi in esame. L’insueto gaudio di Saffo è invece fugacemente liquidato come «ultima risorsa del disperato […]» in G. Lonardi, L’oro di Omero. L’“Iliade”, Saffo: antichissimi di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 82-83: ma è poco convincente spiegare lo insueto gaudio con l’esclusione subita da Saffo sia dall’esperienza dell’amore sia dalla dotazione del bello che è in natura, e quindi con la sua disperazione. 27 G. A. Camerino, L’invenzione poetica…: cfr. almeno le pp. 110-115. 28 Si veda in Ricerca…, cit., pp. 131-132 Verter…, cit., p. 82 (corsivo mio): come si evince dalle citazioni a testo, la distinzione goethiana tra la fenomenologia materiale di terribili distruzioni naturali, che è visibile e ostensibile, e il fascino sublime dell’incontenibile forza della natura, che è invece occulta, ricalca appunto la distinzione molto affine di Burke.

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trova serenità alcuna nel suo cuore, proprio come nelle terzine dell’Elegia II, di cui s’è citato qualche frammento, e che l’autore, s’è visto, richiama come segnate ne’ pensieri. Sia detto per inciso, nell’edizione Starita, a distanza di circa diciassette anni, Leopardi recupererà con alcune significative varianti i versi di Elegia II riguardanti il protagonista investito dal temporale (componimento poi, nell’edizione 1845, collocato al numero XXXVIII nell’ordine dei Canti): non a caso, perché vi riconosceva evidentemente un tema idillico e sublime al tempo stesso, mai intimamente negato o superato come motivo del diletto o piacere poetico. E come tale, molto significativamente, il poeta sottolinea in un ulteriore luogo zibaldoniano del 18 novembre 1821 proprio questa vena di piacere di fronte allo scenario della natura tempestosa e terribile: Piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo una vena di piacere, quantunque ella sia p[er] se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. […]. E tali immagini, benchè brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella pittura, nell’eloquenza ec.29

Per restare al componimento XXXVIII, dopo il temporale, l’avvento del sereno – già evocato nell’Avvicinamento della morte, oltre che nel I canto, anche in due similitudini del II (vv. 7 s.) e IV (vv. 61 s.)30, – è ancora un tipico motivo di Leopardi. Ma centrale resta nel testo in esame la raffigurazione della tempesta e del preannuncio di essa con gli uccelli che volano basso; scena questa già intuita precocemente nella finta traduzione dell’Inno a Nettuno (vv. 42-45): Ammutarono a un tratto e sbigottiro I volatori de la selva, e intorno Con l’ali stese s’aggirar vicino Al basso suol. […]31

29

Zib., p. 2118. Per l’edizione del testo di L’avvicinamento della morte si veda alla n. 4 del cap. I. Si tengano anche presenti, se non altro, per alcune ipotesi esegetiche, l’edizione critica a cura di Lorenza Posfortunato (Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1983) e quella più recente a cura di Sabrina Delcò-Toschini, introduzione e commento a cura di Christian Genetelli (Roma-Padova, Editrice Antenore, 2002). 31 Per il testo dell’Inno a Nettuno si veda alla n. 40 del capitolo precedente. 30

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A questi versi accosterei quelli frammentarî del III degli Argomenti di idilli: «E moribondi a terra ivan gli augelli /Con l’ali mezzo chiuse, […]»; argomento, si ricordi, che s’intitola Fanciulle nella tempesta: «Donzellette sen gian, per la campagna / Correndo e saltellando, cogliendo fiori, giocando ec. / Né s’avvedean che sopra agli Appennini / Da lungi s’accoglieva un tempo nero / E brontolava lungamente il tuono. / Ma quelle nol badar però che ’l sole / Rideva ancor sulla fiorita piaggia»; e proseguendo in prosa: «Levossi un vento all’improvviso ec. e chiuse tutto il cielo. Fuggirono»; e più avanti, insieme ai moribondi augelli con l’ali mezzo chiuse, la raffigurazione di morte coinvolge anche le incaute donzellette («Perdero il fior degli anni») e gli stessi animali («Le vacche spaventate fuggivano per li prati dalla grandine [...]»)32. L’incipit, inoltre, presenta, quasi precostituito, quello del Sabato del villaggio («La donzelletta vien dalla campagna, / […] / […] e reca in mano / Un mazzolin di rose e di viole, / […]»); e il vento improvviso e il tuono sono ancora visti come forieri di tempesta; e le campane delle torri sono un lontano preludio del suon dell’ora nelle Ricordanze; e le vacche in fuga, spaventate dalla grandine, anticipano la fuga de’ greggi dell’Ultimo canto di Saffo. Questo scenario di tempesta è il più idoneo a evocare l’amore impossibile del protagonista, il quale replica così la stessa disperata situazione dell’Elegia II, definendosi infelicissimo, senza nessuna speranza, desideroso di farla finita, investito e quasi dissolto dalla violenza temporalesca. Quello della tempesta, affacciatosi precocissimo all’immaginazione leopardiana, si rivela dunque un motivo in evoluzione; e la situazione e il quadro proposti nei testi appena esaminati rielaborano immagini quasi identiche ad altre del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in cui si nota persino una quercia soccombere a un fulmine, così come querce sono gli alberi che l’innamorato leopardiano vede agitarsi fortemente sulla montagna, quasi a riprendere un’immagine ossianica dal Werther in traduzione: «[…] delle quercie in alto / Urla tempesta! […]»33: L’agricoltore primitivo fuggendo per una vasta campagna, mentre la pioggia sopraggiunta improvvisamente, strepita sopra le messi e rovescia con un rombo cupo sopra la testa; mentre il tuono, che sembra essersi innoltrato verso di lui scoppia più distintamente e gli rumoreggia d’intorno; mentre il lampo assalendolo con una luce trista e repentina, l’obbliga di tratto in tratto a batter le palpebre; rompendo col petto la corrente di un vento romoroso che gli agita impetuosamente le vesti, e gli spinge in faccia larghe onde d’acqua, vede di lontano nella foresta una quercia 32 33

G. Leopardi, Argomenti di idilli, in Id., Tutte le opere, cit., vol. I, pp. 336. Verter…, ed. cit., p. 165.

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tocca dal fulmine. Da quel momento egli riguarda quell’albero come sacro, concepisce per esso una venerazione mista di orrore, e non ardisce più avvicinarsi al luogo ove il fulmine è caduto34.

Ma l’Argomento di elegia, se da una parte segue il Saggio del ’15, dall’altra anticipa a livello d’invenzione linguistica alcuni versi dell’Ultimo canto di Saffo: infatti nell’insueto gaudio della poetessa infelice e in preda ai disperati affetti si replica il piacere dell’innamorato leopardiano di fronte ai pericoli del temporale, che a sua volta replica l’orrenda delizia del Werther salomiano (si ricordi: lettera dell’8 dicembre, sopra citata); mentre l’errando per burroni dell’argomento leopardiano è ripreso nell’Ultimo canto da per le balze e le profonde valli: […] già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi l’insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda

(vv. 6-18).

Se il natar tra’ nembi richiama in modo scoperto l’onde natanti della già citata lettera wertheriana, si noti pure come il poeta, mediante la sinestesia, recupera ancora una volta l’aggettivo molle (anche legato in endiadi a tenero, si ricordi), che si presenta ora come opposto a disperati (disperati affetti)35. In questi versi dell’Ultimo canto di Saffo interessa sottolineare che il tema della tempesta, argomento, tra l’altro, come s’è visto, di una delle Idyllen di Gessner (menzionato negli abbozzi preparatorî del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica36) e, con ben maggiore evidenza, nei canti ossianico-cesarot34

G. Leopardi, Saggio sopra gli errori..., cit., p. 838. Il raddoppiamento della n di inoltrato è d’autore. 35 Si veda qui anche alle note 25 e 26. 36 Si veda Fernando Figurelli, Un inedito del Leopardi. Appunti e note di variazioni ed aggiunte al «Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica», in «Giornale storico della letteratura italiana», vol. CXXIX, fasc. 386, 1952, p. 187.

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tiani, viene in Leopardi a configurarsi anche come rilevante intuizione del sublime, che, ancora nel 1821, lo indurrà a inserire nei suoi Disegni letterari il progetto di un Comento a Longino. E dell’antico trattato resta pure il frammento di traduzione dell’incipit, che risale alla fine del 182637. Ma il sublime era già assegnato al genere della poesia lirica (insieme all’epica) nei primi appunti dello Zibaldone, in cui pure il giovane Giacomo dava notizia di un articolo (non firmato, ma di Pietro Borsieri) su Ignazio Martignoni apparso nel 1810 (a. III, n. 8-9) in “Annali di Scienze e lettere”38.

37 38

G. Leopardi, Tutte le opere, cit., t. I, p. 507. Si veda al riguardo L. Derla, Un articolo..., cit., pp. 387-393.

III «QUELL’AFFETTO NELLA LIRICA CHE CAGIONA L’ELOQUENZA». UN’IDEA DI STILE SUBLIME

Sull’idea di sublime che si manifesta «nelle magnifiche scene della Natura, e rado ne’ lavori dell’Arte», aveva già richiamato l’attenzione Ignazio Martignoni nel suo trattato del 18101. Leopardi, in quegli incunaboli del Discorso sulla poesia romantica che sono gli appunti che si leggono nelle prime pagine dello Zibaldone, presenta osservazioni assai rivelatrici sul modo di rappresentare la natura nei poeti antichi: Ora che faceano gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè, ci pare di vederli, per quanto è possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll’arte sua ci ha preparati a riceverne quell’impressione […]2.

Va detto subito, a scanso di equivoci, che gli antichi che dipingevano la natura nel modo più semplice possibile dovevano esser intesi, a dire di Leopardi, nel senso di un sublime orientato tra Omero e Pindaro, modello che tra i moderni sarebbe stato rappresentato da Chiabrera «solo veramente Pindarico, non escluso punto Orazio, sublime alla greca Omerica 1 Si veda ora in I. Martignoni, Del Bello e del Sublime…, cit., p. 69. Questo trattato era stato da Leopardi conosciuto attraverso un articolo di recensione apparso anonimo: per l’attribuzione a Pietro Borsieri si veda L. Derla, Un articolo inedito… cit., pp. 387-393. 2 Zib., p. 16.

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e Pindarica, cioè dentro grandi ma giusti limiti, […] sublime, colla conveniente e greca semplicità, per mezzo dell’accozzamento τω˜ ν λημμάτων, come dice Longino, cioè di certe parti della cosa che unite tutte insieme formano rapidamente il sublime, e un sublime, come dico, rapido inaffettato e insomma pindarico; robusto nelle immagini, sufficientemente fecondo nell’invenzione e nelle novità, facile appunto come Pindaro a riscaldarsi infiammarsi, sublimarsi anche per le cose tenui, e dar loro al primo tocco un’aria grande ed eccelsa». Se non si mette in contatto il semplicissimamente riferito al modo con cui gli antichi dipingevano la natura con la conveniente e greca semplicità dell’appunto successivo si rischia di non intendere pienamente l’idea leopardiana di sublime, formatasi preventivamente, ma non esclusivamente, sull’antico trattato pseudolonginiano, in cui semplicità significa tutt’altro che leziosaggine e ornamento e affettazione, ma appunto stile inaffettato, robusto nelle immagini, che il poeta ancora giovane identifica soprattutto con la lezione di Pindaro, capace di sublimarsi anche per le cose tenui. Su questa idea di semplicità il poeta, sempre nello Zibaldone, tornerà alcuni anni dopo: È bellissima nelle scritture un’apparenza di trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono, una quasi noncuranza. Questa è una delle specie della semplicità. Anzi la semplicità più o meno è sempre un’apparenza di sprezzatura […] peroch’ella sempre consiste nel nascondere affatto l’arte, la fatica, e la ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai dalla vera trascuratezza, anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e studio3.

Se la semplicità intesa come un’apparenza di sprezzatura che consiste nel nascondere l’arte, la fatica, e la ricercatezza è concetto che ricalca un preciso luogo del Cortigiano di Castiglione (cap. I, XXVII) riportato nello Zibaldone del 14 marzo 1823, già menzionato, in cui tra l’altro si afferma che, nel cercare una regola per la grazia, bisogna «fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e […] usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte […]», la detta apparenza che non nasce mai dalla vera trascuratezza, anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e studio richiama a sua volta le fatiche e le industrie degli scrittori, di cui si legge ancora nel Cortegiano (par. XLIV), luogo non a caso riprodotto sempre nella stessa pagina e in quella seguente dello Zibaldone (14-15 marzo 1823): «[…] in vero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed 3

Zib., rispettivamente pp. 24 e 3050-3051.

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industrie degli scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili […]». È la stessa citazione che si ritrova poi nel capitolo secondo dell’operetta Il Parini, ovvero della gloria, nell’autografo napoletano datato luglio-agosto 1824, a commento della quale – non a caso – Leopardi, ripetendone qualche parola-chiave (si veda artifizio o fatiche) e, adattando alla sua concezione il dettato castiglionesco, definisce lo stile «parte sì grande e rilevante dello scrivere; e cosa d’inesplicabile difficoltà e fatica, tanto ad apprenderne l’intimo e perfetto artificio, quanto ad esercitarlo […]»4. E proprio a queste parole di Castiglione il poeta dei Canti tornerà appena qualche mese dopo per sottolineare «tutte le immense fatiche che un perfetto scrittore deve spendere per dare a’ suoi scritti la finitezza, la grazia, la leggiadria, la nobiltà, la forza, insomma la bellezza della lingua […]»; e vi tornerà pure circa quattro mesi dopo5. Le riprese dal Cortegiano in tema di arte, natura semplicità di stile, s’è già detto, tendono a coinvolgere l’autore cinquecentesco nella costruzione di un’originale poetica del sublime che è però tutta di Leopardi. Quando, per esempio, ancora nel Cortegiano (I, XXXV; ma si veda anche a II, 12) si definiscono bone le parole che «si conoscono per un certo giudicio naturale e non per arte o regola alcuna», si è lontani dal rapporto arte-natura come sarà rielaborato da Leopardi in quanto le bone parole castiglionesche tendono solo a valorizzare le figure del parlare, come vengono chiamate, proprio in quanto generate al di fuori delle regole grammaticali e atte a dilettare – citazione testuale – il senso proprio dell’orecchia. La rielaborazione che farà invece Leopardi di quel rapporto punta, tra l’altro, a rifondare il concetto di sentimentale che – egli sostiene polemicamente – per Breme e i romantici, «perduto il linguaggio della natura […] non è altro che l’invecchiamento dell’animo nostro […]» e non tiene conto di altre componenti essenziali della poesia come «il sublime, l’impetuoso, l’esultante, il giubilante […]»6. 4

Zib., pp. 2682-2683 e G. Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le opere, vol. I, cit., pp. 119-120. Le citazioni dalle Operette morali sono collazionate sull’ediz. crit. a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fondazione Mondadori, 1979. 5 Zib., pp. 2796-2797 (19 giugno 1823). Il passo interessato è ampiamente riportato dal Recanatese dall’edizione 1803 già cit., ed è questa edizione da tener presente per lui: si veda alla nota 13 del capitolo I, in cui pure del Cortegiano si ricorda un’importante cinquecentina edita a Venezia, conservata nella Biblioteca del Palazzo di famiglia del poeta. 6 Zib., p. 17. Si veda anche p. 1856: «Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario […]. Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram.[ente], che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento».

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Sono obiezioni di un poeta attestato sulla linea dell’antico trattato Del Sublime, nonché delle Lezioni di Hugh Blair7: una linea che rafferma l’idea di una poesia fondata su regole determinate solo dalla natura. Ribadendo quanto aveva già precocemente rilevato nel 1815 nel suo Discorso sopra Mosco (si veda il relativo passo già citato), anche in questi appunti della parte iniziale dello Zibaldone il poeta sottolinea che la poesia ha una tecnica, un’arte, ma il suo fine non è l’arte: «il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte [...]»; e ancora: «[…] avvicinarsi sempre più alla natura […] è il fine di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre bestemmiano l’arte e predicano la natura, non s’accorgono che la minor arte è minor natura»8. Rilievi che paiono assunti di peso dal trattato pseudolonginiano (cap. XXII), che, aspetto da sottolineare, si rivela evidentemente per Leopardi un testimone da opporre a Breme e ai romantici: «[…] γaρ ì τ¤κνη τ¤λειος ìν›κ’iν Ƈσις εrναι δοκÿ É, ì δ’αs Ƈσις âπιτυχcς nταν λανθ¿νουσαν περι¤χÿ Ë τ‹ν τ¤χνην [infatti l’arte raggiunge il suo più perfetto risultato quando sembra il prodotto della natura, e a sua volta la natura coglie il segno quando dentro di sé racchiude l’arte]»9. Ed è in quest’ottica che si può anche accennare, almeno di passaggio, al fatto che i suoi or ora menzionati appunti sul sublime inteso come conveniente e greca semplicità, erano stati di poco preceduti dalla cosiddetta Titanomachia di Esiodo, sua traduzione (in settantadue versi) di un episodio della Teogonia: un luogo definito di terribilità semplicissima dal traduttore, il quale, qualche riga più avanti, aggiunge: «[…] è meraviglioso com’Esiodo ci trascini dietro alla fantasia per tanti versi, e

7

Lezioni di rettorica…, cit. Nella biblioteca di Casa Leopardi, s’è già detto, v’era l’edizione di Venezia (1803). 8 Zib., p. 20. 9 Utilizzo la moderna traduzione inserita in Anonimo, Il sublime, a c. di Giulio Guidorizzi, Milano, Mondadori, 1996 (1ª ed. 1991), p. 93. Leopardi ha certamente letto anche in greco l’antico trattato, di cui esiste una sua prova di traduzione dell’incipit della fine del ’26 (la si veda in G. Leopardi, Tutte le opere, cit., p. 507). Nella biblioteca di famiglia si conserva l’edizione di Oxford del 1778 a cura di John Toup, con note di David Ruhnken. Naturalmente era posseduto (edizione 1748) il trattato attribuito all’ignoto Dionisio Longino e tradotto da Anton Francesco Gori (3ª ed. La 1ª era Firenze, 1737): Trattato del sublime di Dionisio Longino tradotto dal greco in Toscano da Anton Francesco Gori Proposto di S. Giovanni di Firenze, e Lettore pubblico di Storia nello studio Fiorentino. Terza edizione, di Note accresciuta, in Bologna, nella Stamperia Lelio dalla Volpe 1748. Tale versione però Leopardi giudicò molto negativamente nel suo Preambolo alle Operette morali di Isocrate, che risale al febbraio 1826: cfr. G. Leopardi, Tutte le opere, cit., vol. I, p. 468. E sempre nella Biblioteca di Palazzo Leopardi, sempre della traduzione di Gori, si conserva pure l’edizione del 1821 arricchita di nuove note, apparsa a Bologna presso Amnesio Nobili.

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ci sforzi a inorridire, finch’e’ vuole, avendo già su bel principio data tanta veemenza all’orrore»10. Il concetto di naturalezza e quello di funzione dell’arte, quasi negli stessi termini adoperati nelle pagine iniziali dello Zibaldone, saranno ripresi nel Discorso, a cominciare dalla rilevata esigenza di nascondere l’arte nell’imitazione della natura in modo che l’imitazione stessa s’imponga con naturalezza, secondo anche una lezione di Orazio, di cui Breme incautamente «si fa beffe»11. Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica vanno in particolare tenuti presenti i seguenti punti: (1) contro le tesi di Breme, il poeta nega che la poesia possa essere sviata «dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantochè sarà poesia […] e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale»12; (2) lo sviluppo delle scienze e delle conoscenze dell’uomo non modificano il modo d’essere della natura, sulla cui imitazione si fonda il diletto nella poesia, negli antichi così come anche nei moderni, per mezzo dell’immaginazione13; (3) porsi di fronte alla natura con la stessa predisposizione d’animo degli antichi significa per i moderni recuperare la condizione di fanciulli di fronte ai fenomeni naturali avvertiti come fatti assoluti, allorché, ignorando chiarimenti razionali sui medesimi, si scoprono la «sterminata operazione della fantasia» e le «passioni indomite e svegliatissime»14; (4) ne consegue «che la ragione in pressoch’infinite cose è nemica formale della natura [...]»15; (5) come già negli appunti dello Zibaldone, sempre contro le tesi di Breme, Leopardi continua a contestare la limitazione della poesia moderna al solo patetico, come se il patetico non appartenesse anche agli antichi: E per esempio di quella celeste naturalezza colla quale ho detto che gli antichi esprimevano il patetico, può veramente bastare il solo Petrarca ch’io metto qui fra gli antichi, nè senza ragione, perch’è loro uguale, oltrechè fu l’uno dei primi poeti nel mondo appresso al gran silenzio dell’età media […].

Dopo aver fatto seguire alcuni versi tradotti dal greco classico del Canto funebre per Bione, Leopardi osserva che il patetico negli antichi assume varie forme, ma non scade mai nell’orrido, come invece nei moderni romantici; e 10 11 12 13 14 15

G. Leopardi, Tutte le opere, cit., vol. I, p. 447. Zib., p. 20. G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno…, cit., p. 915. Ivi, pp. 918 e 920. Ivi, p. 919. Ivi, p. 921.

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soprattutto non diventa una categoria esclusiva, se è vero che non si devono trascurare tutte le altre passioni dell’uomo e la sublimità di pensieri: Dunque le cetre dei poeti avranno per l’avvenire una corda sola? e ciaschedun poema assolutamente e tutti rispettivamente saranno unisoni? dunque non ci saranno epopee, non canzoni trionfali, non inni non odi non canti di nessuna sorta se non patetici? […]. Dunque Virgilio non fu poeta fuorchè nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? Dunque il Petrarca dove non parlò d’amore non fu poeta? dunque Pindaro, perchè non fu sentimentale, non fu poeta? dunque Omero non fu poeta? o vero fu (come parve a molti che fosse) ma non è più? o vero è poeta e sarà, e diletta e diletterà supremamente, ma nessun poeta moderno dee cantare in quella forma?16

Domande assai forti e risentite che fanno comprendere come Leopardi giudicasse molto negativamente l’eventuale limitazione della poesia al patetico. Ma non si coglie tutta la complessità di questo risentimento se non lo si collega al presupposto che soltanto varietà di passioni e grandezza di pensieri, come s’è detto, possono garantire in poesia una imitazione autentica della natura. Come dire, parafrasando lo stesso Leopardi, non solo un animo di amor digiuno, ma anche un animo di passioni digiuno è incapace di comprendere il piacere del sublime provocato da una natura sottoposta a terribili sconvolgimenti. Ed è pure in questo contesto che si coglie quella funzione antiromantica che Leopardi ritiene di dover assegnare al sublime e al trattato dell’Anonimo, se è vero che la leopardiana grandezza di pensieri come condizione irrinunciabile della poesia traduce quasi alla lettera Rψoς μεγαλοφροσύνης àπ‹χημα, il sublime come risonanza d’una grande anima (cap. IX del trattato). E l’evidente ripresa, filologicamente accertata, con questo luogo dell’antico trattato rende assai meno vincolanti, e comunque secondarie, altre indicazioni di fonti, come, per esempio, quella ripresa pure nel commento di Gavazzeni per l’Infinito, vale a dire alcuni rilievi della recensione di Borsieri al trattato di Martignoni, in cui si accenna a grandi pensieri e a grandi idee, ma in modo generico. Ben più specifico al riguardo, invece, quanto osserva il Blair tradotto da Soave: […] una classe di oggetti sublimi […] costituiscono ciò che può dirsi Sublime morale, o sentimentale, prodotto dall’attività dell’animo umano, e da certe grandi affezioni, ed azioni de’ nostri simili. Queste appartengono o in tutto, o principalmente a quella classe, che va sotto il nome di Magnanimità, o d’Eroismo; e producono un effetto similissimo a quel 16

Ivi, pp. 938-939.

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che nasce dalla veduta de’ grandi oggetti della natura, empiendo la mente di meraviglia, e sollevandola sopra sé stessa.

E nella pagina seguente: Un’eroica virtù è la più naturale e feconda sorgente di questo Sublime morale.

Il sublime morale come stile e linguaggio della poesia si nutre di eroica virtù e, a sua volta, l’eroica virtù consiste e si afferma soprattutto come stile e linguaggio del sublime. Avrebbe potuto per Leopardi essere anche questo, del resto, il significato della citazione delle parole da Lucio Anneo Floro (IV, 7) poste in bocca a Marco Giunio Bruto in punto di morte: «non in re, sed in verbo tantum, esse virtutem»17. Non esiste poesia sublime senza magnanimità, senza grande forza morale. Principio di notevole portata e che tuttavia non risulta essere stato finora evidenziato, anche e soprattutto per quanto concerne l’equivalenza tra grandezza d’animo e l’intuizione dell’eterno, dell’infinito, dell’incommensurabile e della grandiosità dei fenomeni naturali, alla cui luce soltanto è possibile comprendere ancor più in profondità il cruciale luogo esaminato in Nelle nozze della sorella Paolina, che non a caso – si noti – era stato preceduto dal richiamo a esempî di magnanimità (vv. 11-12): «[…]. Di forti esempi / Al tuo sangue provvedi. […]». E molti versi dopo i forti esempi si traducono in atti egregi (grandezza di pensieri, forza e impeto e ardore d’animo, grandi azioni aveva già scritto nel passo zibaldoniano sullo Pseudo-Longino di alcuni anni prima, che si cita più avanti): «Ad atti egregi è sprone / Amor, chi ben l’estima, e d’alto affetto / Maestra è beltà. […]» (vv. 46-48). Il tema richiede lo stile dell’eloquenza, come infatti il poeta esplicita in un altro passo (pure citato più avanti), in cui configura un indissolubile nesso tra lirica ed eloquenza, prendendo a modello tre componimenti del Petrarca volgare. E proprio il v. 78 del primo di questi componimenti – «[…] / volando al cielo colla terrena soma, / […]» – egli interpreta in chiave di grandezza di pensieri, come segue: «sollevando l’intelletto ad alte cognizioni e ad alti pensieri, nonostante la soma, cioè l’incarco delle membra»18. 17

Il primo riferimento è “Annali di Scienze e Lettere”, cit., III, p. 354. Per i luoghi citati si veda rispettivam. in Lezioni di rettorica…, cit., I, pp. 57-58 e Zib., p. 523. 18 Apparso per la prima volta nel 1826 presso i milanesi editori Stella, questo commento, in edizione corretta e accresciuta, vide la luce nel 1839 a Firenze, presso Passigli. Come ha già rilevato Lucia Barbieri (Sul Leopardi interprete delle ‘Rime’ petrarchesche, in Terzo quaderno veronese di filologia lingua e letteratura italiana, a cura di G. Lonardi, Verona, s.e., 1988, pp. 103104 e 116), dalla Passigli deriva la ben più recente edizione curata da Adelia Noferi (Milano, Longanesi, 1976), anche se tale derivazione stranamente non è dalla curatrice denunciata;

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Che cosa dimostra il fatto che in Nelle nozze i versi sopra citati sui forti esempi e sugli atti egregi precedono quelli ormai noti sull’anima d’amor digiuna, che non si rallegra per i venti in tenzone, per la minaccia dei nembi, per il rombo della procella, se non – appunto – che il poeta vuol a ogni costo instaurare uno stretto collegamento tra lo Rψõ μεγαλοφροσύνης àπ‹χημα, già visto, il sublime come risonanza di una grande anima, e l’anima pervasa d’amore e di (leopardiana) grandezza di pensieri? Ed è questo collegamento incontrovertibile che garantisce fondamento e legittimazione e significato vero all’insueto gaudio di Saffo e rende erronea la proposta di intenderlo limitatamente in relazione con i disperati affetti 19. Uno spettacolo naturale terribile è avvertito come sublime solo da anime capaci d’immaginare imprese eroiche o di alto significato morale, fuori dall’ordine comune: come il prode di Bruto minore in guerra col fato indegno (vv. 38 s.) o come pure il magnanimo campion di A un vincitore nel pallone, esortato a muovere il cuore «ad alto desio» (vv. 5-8) e ai «forti errori» che soli procacciano «gloriosi studi» (vv. 37-39), cioè nobili occupazioni e pensieri (viene ripreso persino il motivo patriottico, già trattato nelle prime due canzoni: «Alla patria infelice, o buon garzone, / Sopravviver ti doglia», vv. 53-54). Per via della vastità e varietà che presentano le radici del sublime, Leopardi si sentirà autorizzato a perseguire filoni lirici diversificati, ma non per questo contraddittorî. Nel trattato antico infatti il sublime come estasi (öκστασις) o come sbigottimento (εκπλ‹ξις, cap. I) o come straordinario (παράδοξος, cap. XXXV) è sempre in funzione di un alto sentire e agire. A questo riguardo si legge, tra l’altro, in una delle pagine iniziali dello Zibaldone:

così come non è da lei specificato il fatto che gli argomenti introduttivi ai testi petrarcheschi non sono d’autore. Attento ai dati bibliografici delle edizioni del commento petrarchesco di Leopardi, il saggio di Barbieri è carente per quanto concerne possibili derivazioni linguistico-stilistiche dal poeta antico a quello moderno. Quasi esclusivamente una preistoria del commento leopardiano offre invece Rossella Bessi, Leopardi commenta Petrarca, in “La rassegna della letteratura italiana”, n. 1, 1999, pp. 174-192. 19 L. Blasucci, Sull’ossianismo leopardiano, cit., rispettivamente a p. 798 e p. 213. Lascia un po’ perplessi l’affermazione dello studioso secondo cui «[…] il motivo del piacere nella tempesta […]» sarebbe «tipicamente ossianico […]». Come ho già osservato (cap. II, n. 25), in realtà, sin dal primo riscontro del testo ossianico riportato (La morte di Cucullino, vv. 255-256), si nota che il cuore dell’eroe cresce, e s’allegra non per i pericoli di un uragano o temporale, bensì nel fragor dell’acciar. Del resto, i testi leopardiani interessati, compreso il passo di Zib. del 18 novembre 1821, che Blasucci cita subito dopo e che io cito più avanti, non giustificano la confusione tra piaceri della tempesta e piaceri dei pericoli in generale. Eppure, a p. 224 lo studioso insiste nella sua valutazione e, tenendo però fuori l’insueto gaudio di Saffo, ribattezza questo motivo del piacere dei pericoli come piacere del rischio in se stesso.

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[…] il sublime dee scuotere fortemente il lettore, ma non subbissarlo con cose che oltrepassino la capacità nostra. E questo della poesia umana. Ma la poesia divina come la scrittura, dee veramente subbissare e oltrepassare la capacità umana, e però quelle imagini (essendo poi per se stesse lontanissime dall’essere esagerate) convengono ottimamente a questa sorta di poesia tutta essenzialissimamente diversa dalla nostra; e però da noi non imitanda senza colpa poetica20.

Avviene allora che il poeta dei Canti, grazie alla categoria pseudolonginiana, non avverta frattura che non sia apparente tra una poetica idillica, da lui resa sempre più robusta e complessa, che coinvolge e converte il sublime della natura e dei grandiosi fenomeni naturali, e una poetica, non meno sublime dell’eloquenza civile e dei valori eroici, a cominciare dalle canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, coeve al Discorso sui romantici. Questa diagnosi ha anche il vantaggio di spiegare perché in quelle stesse pagine iniziali dello Zibaldone, incunaboli, s’è detto, del Discorso, dopo le annotazioni in direzione idillica e dell’imitazione della natura come miracolosa formula degli antichi poeti, Leopardi viene a enunciare una poetica delle virtù civili e morali: Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perchè al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia. [O]ra queste non sono madri ma sorelle di quell’effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri nè forza e impeto e ardore d’animo, nè grandi azioni che per lo più sono pazzie21.

L’intuizione fondamentale che il giovane Leopardi non si lascia sfuggire consiste nel collegare forza delle illusioni a grandezza d’animo: elementi, l’uno e l’altro sempre più rari nei razionali tempi moderni. Non diversamente e non casualmente pure nelle pagine conclusive del Discorso sui romantici, in cui la difesa del metodo antico d’imitazione della natura in poesia trova una replica assai più circostanziata e appassionata, i motivi eroici e civili e patriottici vengono esaltati in una lunghissima esortazione ai Giovani italiani, in cui in particolare l’autore sottolinea il primato italiano nelle lettere e nelle arti come l’unica vera ricchezza d’una patria per altri versi avvilita e decaduta: 20 21

Zib., p. 13. Zib., p. 21.

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[…] date una mano a questa afflitta e giacente, che ha sciagure molto più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i nemici. […] Inferma spossata combattuta pesta lacera e alla fine vinta e doma la patria nostra, perduta la signoria del mondo e la signoria di se stessa, perduta la gloria militare […], non serba altro che l’imperio delle lettere e arti belle […]. Questo solo regno questa gloria questa vita rimane alla patria nostra […]. Ma già per rapirle questo medesimo avanzo adoprano armi ed arti assai più terribili e potenti che per l’addietro […]. […] Per la memoria e la fama unica ed eterna del passato, e la vista lagrimevole del presente […], sostenete l’ultima gloria della nostra infelicissima patria, non commettete per Dio che quella che per colpa d’altri infermò, per colpa d’altri agonizza, muoia fra le mani vostre per colpa vostra. Che valse che quella nazione il cui dominio consumato nella decima parte d’un secolo, tanto ha durato meno del nostro quanto era degno, ci rapisse le opere de’ nostri artefici, e sfornisse le vie le case i tempii gli altari nostri per adornare le sue piazze e le sale, forse anche i tempii e gli altari insanguinati, quasi le dovesse fruttar gloria e non vergogna l’aver tolto colle armi a un popolo inerme quelle opere ch’ella forzatamente ammirando e invidiando, non seppe nè sa produrre? 22

Si tratta di temi poi ripresi nelle canzoni del ’18: «[…]. Or fatta inerme, / Nuda la fronte e nudo il petto mostri. / Oimè quante ferite, / Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, / Formosissima donna! […]»; oppure: «[…] / Piangi, che ben hai donde, Italia mia, / Le genti a vincer nata / E nella fausta sorte e nella ria» (All’Italia, vv. 6-10 e 17-20); o ancora – con più evidente richiamo all’esortazione ai «Giovani italiani» nel Discorso –: «Amor d’Italia, o cari, / Amor di questa misera vi sproni, / Ver cui pietade è morta / In ogni petto omai, perciò che amari / Giorni dopo il seren dato n’ha il cielo. / Spirti v’aggiunga e vostra opra coroni / Misericordia, o figli, / E duolo e sdegno di cotanto affanno / Onde bagna costei le guance e il velo»; o ancora, riprendendo il motivo della rapina delle opere d’arte attuata da truppe straniere, dice il poeta, a Dante un fato meno crudele evitò di vedere «degl’itali ingegni / Tratte l’opre divine a miseranda / Schiavitude oltre l’alpe […]» (Sopra il monumento di Dante, vv. 35-43 e 109-111). Il tono di commozione oratoria, evidente nelle due giovanili canzoni politiche di Leopardi – e in particolare in All’Italia – riflette la sua ammirazione per il Petrarca di Italia mia 23, ma il tentativo che si delinea, 22

G. Leopardi, Discorso di un italiano…, cit., p. 946. Si veda al riguardo il saggio di Ettore Bonora, Leopardi e Petrarca, che risale al 1978: ora in Id., Dall’Arcadia al Leopardi. Studi di letteratura italiana, Modena, Mucchi Editore, 1997. Il riferimento è a p. 201. 23

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parallelamente e in aggiunta ad altri ancor più complessi, di scoprire il sublime delle virtù patrie ed eroiche, induce a risalire al maggio-giugno 1815, quando l’adolescente Giacomo compose l’orazione Agl’Italiani, «singolare mescolanza di motivi libertari e di motivi legittimistici, risultanti dall’incontro delle idee di Monaldo con lo slancio retorico-libresco del giovanetto Leopardi che allega a ogni momento gli antichi e che idoleggia Atene e la libertà»24. Ma l’anno cruciale per questo tema resta il 1818. In un appunto del 29 giugno di quell’anno infatti il pensiero patriottico s’intreccia alla considerazione di sofferenze personali («[...] per qual patria spanderò i sudori i dolori il sangue mio?»), mentre l’Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia, che risale al periodo luglio-settembre, può considerarsi un abbozzo in prosa preparatorio delle due canzoni civili. Alla prima suggerisce addirittura l’incipit: «O patria mia, vedo i monumenti gli archi ec. ma non vedo la tua gloria antica ec.»25; e alla seconda (si vedano i vv. 139-180) porge i tratti più caratterizzanti della vicenda terribile degli italiani caduti in Russia. La materia eroica e patriottica investe naturalmente anche il linguaggio dell’eloquenza, anzi ì δ‡ναμις âν τá ÷ λ¤γειν, il talento per l’eloquenza, che per l’Anonimo, si ricordi, costituisce la base comune di tutte le fonti del sublime (VIII, 1); e questa indicazione pseudolonginiana viene a saldarsi con una precedente esperienza leopardiana (anno 1816), quella del Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone dedicato ad Angelo Mai, in cui l’autore scopriva l’efficacia di un’eloquenza che fa a meno dell’artificio: «Frontone conobbe che si erano sormontati i confini della vera eloquenza, e cominciò dal retrocedere. Per giungere ad agguagliare gli antichi, prese ad imitarli. […]. […] Serbò il suo stile esente dalla esagerazione, dalla squisitezza soverchia, dalla sublimità affettata; fuggì insomma con ogni cura possibile l’eccesso dell’artificio»26. Nelle pagine iniziali dello Zibaldone, oltre all’affermazione che «l’eloquenza è cosa molto simile alla poesia», si legge anche che a cagionarla è l’affetto: Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più, e più dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, nè antico nè moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado: e Orazio […] in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca: il cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose, ma anche singolarmente e nomina24 25 26

L. Blasucci, Leopardi e i segnali…, cit., p. 39. Lo si veda in G. Leopardi, Tutte le opere, cit., vol. I, p. 331. Ivi, p. 904.

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tivamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.) ha una semplicità e candidezza sua propria, che però si spiega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire, (come in quel: Pon mente al temerario ardir di Serse ec.) […]: si piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l’alte imprese ec.) quantunque di quelle spiccate non n’abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sì ’l fianco ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise ec. Le man le avess’io avvolte entro i capegli ec.).

E nella pagina successiva: Son propri esclusivamente del Petrarca in quanto all’affetto, non solo la copia, ma anche quei movimenti pieni τοÜ πάθους e quelle immagini affettuose (come: E la povera gente sbigottita ec.) e tutto quello che forma la vera e animata e calda eloquenza. E dall’influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità come d’olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche nominatam.[ente] quelle sull’ [I]talia) […], non mancando a lui la sublimità degli altri e di più avendo quella morbidezza e pastosità che è cagionata dal cuore27.

L’assunzione dell’affetto come componente fondamentale dell’eloquenza ai fini della poesia lirica prende a modello la cinquecentesca (e breve) Apologia di Lorenzino de’ Medici, «la sola cosa eloquente che abbia la nostra lingua», come Leopardi scrive a Giordani il 3 febbraio 1819; e il 2 luglio, con qualche variante: «la sola cosa veramente eloquente della nostra lingua». E, sempre a proposito dello stesso testo, in un’altra lettera del 21 giugno, in cui esprime il «parere che le scritture e i luoghi più eloquenti sieno dov’altri parla di se medesimo», sottolinea che l’autore sa rigenerare l’eloquenza greca e latina e «la signoreggia e l’adopera da maestro, con una disinvoltura e facilità negli artifizi più sottili, nella disposizione, nei passaggi, negli ornamenti, negli affetti, e nello stile, e nella lingua […] che pare ed è non meno originale di quegli antichi, ai quali tuttavia si rassomiglia come uovo ad uovo, non solamente nelle virtù, ma in ciascuna qualità di esse. Perchè quegli che parla di se medesimo non ha tempo nè voglia di fare il sofista, e cercar luoghi comuni, […], e lo scrittore cava tutto da se, non lo deriva da lontano, sicchè riesce spontaneo ed accomodato al soggetto, e in oltre caldo e veemente, nè lo studio lo può raffreddare ma conformare e abbellire […]»28. 27 28

Zib., pp. 23-24. G. Leopardi, Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, 2 voll., Torino, Bollati

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Col richiamo a quella che definisce la vera eloquenza (Discorso su Frontone), ovvero la vera e animata e calda eloquenza, Leopardi vien ad acquisire una componente fondamentale nel suo originale progetto di poesia lirica, al quale continuerà a lavorare con molto impegno. Infatti, partendo ancora da Frontone, del quale Angelo Mai aveva portato alla luce e pubblicato in due volumi nel 1815 scritti e lettere da lui scambiate con i suoi illustri discepoli (Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, Appiano), dopo «due anni e più […]» da quell’edizione di Mai, compone la Lettera al ch. Pietro Giordani sopra il Frontone del Mai, ampliando di molto le osservazioni da lui inviate due anni prima allo stesso Mai, insieme alla sua traduzione in volgare degli scritti frontoniani (materiale poi ritrattato). In particolare il poeta richiama un passo, non riscontrato dal pur attento erudito bergamasco, di Claudiano Mamerto, scrittore del V secolo, il quale presenta «in uno stile barbaro buoni consigli e sentenze intorno allo scrivere; […]» e, tra l’altro, reca un parallelo tra Frontone e Cicerone: «FRONTO AD POMPAM, Cicero ad eloquentiam capessendam usui sunt». Questo giudizio di Mamerto il giovane Giacomo sottopone a una serie di verifiche, chiamando in causa prima Macrobio, il quale invece attribuisce allo stile frontoniano la categoria della secchezza, poi san Girolamo e Sidonio; e ancora ricorda Demostene, «del quale dice Cicerone nell’Oratore che nessuno fu più grave; […]»29. E, con riferimento al parallelo tra l’eloquenza di Demostene e quella di Cicerone, in questa sua Lettera frontoniana egli riprende in termini quasi identici il giudizio espresso sui due oratori nel Περì ≈ψους (XII,4), in cui vengono contrapposte la sobria e asciutta sublimità del greco, paragonata a una bufera o a un fulmine che schianta o incendia, e la facondia esuberante del romano, paragonata a un incendio che mantiene in tutti i suoi focolai sempre la stessa altezza. Provo qui a darne una versione di servizio, molto letterale: «L’uno [differisce dall’altro] nella sublimità per lo più essenziale (âÓ R„ει τe πλ¤ον àποτÞμ̂ F ), l’altro, Cicerone, nell’abbondanza (âν χύσει), e perciò, mentre il nostro per l’impeto e, anche, per la rapidità, la forza, la veemenza, – come se a un tempo desse fuoco e devastasse ogni cosa –, potrebbe esser paragonato a una bufera o a un fulmine, l’altro, Cicerone, è, credo, come un grande incendio, che si spande e si volge ovunque, molto tenendo pure sempre costante la fiamma, e che si divide ora in una direzione ora in un’altra al Boringhieri, t. I. Contrariamente alla scelta degli editori, conservo, alla maniera di Leopardi, l’accento grave e finale di avverbî e congiunzioni: cfr. rispettivam. alle pp. 245 e 312-313. 29 G. Leopardi, Scritti filologici (1817-1832), a cura di Giuseppe Pacella e Sebastiano Timpanaro, Firenze, Felice Le Monnier (vol. VIII della coll. “Scritti di G. Leopardi inediti o rari”), 1969, rispettivam. alle pp. 52 e 55. I corsivi son d’autore.

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suo interno e che dai suoi rivoli (κατa διαδοχaς) si alimenta». È un luogo, questo, che nella versione del volgarizzamento settecentesco di Anton Francesco Gori dell’antico trattato, sarà poi dal poeta inserito, non senza qualche variante di punteggiatura e non senza eliminare qualche inciso e persino qualche sintagma ritenuto superfluo, nella sezione Paralleli della sua Crestomazia italiana (1827)30. È fin troppo evidente che il poeta-filologo tiene conto del modello oratorio di Demostene nella sua Lettera sul Frontone scoperto da Mai e, con riferimento agli esegeti frontoniani prima segnalati, egli aggiunge e puntualizza ancora riguardo alle qualità della pompa e della gravità in eloquenza: […] io non discredo che san Girolamo e Sidonio, dove accennano la gravità di Frontone, vogliano dinotare questa qualità che è in somma quella primaria qualità di Demostene che io ho descritto poco sopra e che tanto s’ammira e si celebra: e […] converrà dire che san Girolamo e Sidonio concordano in certa guisa con Mamerto, assegnando a Frontone una proprietà vicinissima alla pompa; se bene a ogni modo non ne discorderebbero attribuendo a Frontone la gravità la quale […] difficilmente desiderassi dovunque la pompa non si desideri.

Se la gravità converge con la pompa, la secchezza richiamata da Mamerto sembra identificarsi con «quella proprietà degli Attici tanto famosa e lodata anticamente, che consisteva massime nella semplicità e nella sobrietà […]»; proprietà che però i latini chiamavano «non pure siccitatem, ma tenuitatem e subtilitatem, e anche sanitatem e integritatem, dai quali nomi si può comprendere di che natura fosse»31. In altri termini, al di là della lezione di un Lisia e di molti oratori attici, semplicità e secchezza (nel senso, appunto di 30

Si vedano il già cit. Trattato del sublime di Dionisio Longino tradotto dal greco in Toscano da Anton Francesco Gori e G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, cit., pp. 473-474: un’edizione, quest’ultima, che purtroppo sembra non garantire la correttezza dei testi riportati. A p. XCIX infatti si denunciano, ed emendano, alcuni refusi tipografici della princeps del 1827, ma evidentemente non tutti, come mostra il madornale errore, dal curatore non rilevato, di conscio invece di conciso (un sublime per lo più stretto e conciso): «Nè in altra cosa, per quanto e’ mi pare, Cicerone differisce da Demostene, che nelle grandezze: perchè veramente questi sta in un sublime per lo più stretto e conscio (sic!); Cicerone poi in un amplo e diffuso. E per verità il nostro, per lo ardere, in un certo modo, e insieme portar via qualsisia cosa colla forza, e di piú colla velocitade e robustezza e fierezza, si potrebbe ad un folgore o a un fulmine rassomigliare; Cicerone poi a un dovizioso incendio, che per tutto si pasce e si volge, avendo molto ardore, e sempre costante, che in lui, in quest’altra maniera, vien di mano in mano nodrito». Ripristino l’accento grave sulla e di congiunzioni, secondo l’uso dell’autore e del suo tempo. 31 Cfr. G. Leopardi, Scritti filologici, cit., rispettivamente alle pp. 55-56 e 58.

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sobrietà, di asciuttezza, di rifiuto dell’ornamentale e dell’ampolloso) non devono considerarsi inconciliabili col concetto di pompa; e proprio in Frontone, argomenta ancora Leopardi, […] io vedo e larghezza d’ornamenti, e nessuna scarsezza (anzi non so perch’io non dica, ubertà) così di parole come di cose, e molto splendore d’immagini e di sentenze, e maniera e garbo e leggiadria, e una certa soavità e un certo che di pastoso e di morbido nel colorito, e se bene la pompa propriamente parlando non ce la trovo, […] nondimeno lo stile in genere mi pare a maraviglia acconcio a sollevarsi e a pigliare grandi forme e a vestire panni magnifici […]

Questo non significa accettare passivamente il giudizio di Macrobio sulla secchezza, cioè, s’è detto, nel senso indicato da Leopardi dell’asciuttezza e della sobrietà, proprietà che non impediscono a Frontone, appunto, s’è detto, quello splendore d’immagini e di sentenze che, eludendo la gratuita pomposità e gonfiezze, inserendo solo sentenze «che il soggetto gli porgeva e quasi fruttando gli produceva, nè le andava cercando, come i nostri antichi dicevano, col fuscellino […]».32 Non sfugga al lettore attento il rilievo attribuito dal Recanatese al fatto che le sentenze di Frontone sono strettamente vincolate a quanto il soggetto, cioè l’argomento trattato, suggerisce e di per se stesso provoca allo scrittore: e, in nome della già evidenziata unità di eloquenza e lirica, vale questo rilievo per l’oratore, ma vale anche, si noti, per il poeta. Del resto non è un caso che l’idea di eloquenza si forma e si alimenta sotto il segno dell’antico trattato pseudolonginiano, che la colloca infatti alla base del sublime eroico, che configura, nell’immaginazione leopardiana, miti della libertà e dell’amore per la patria sventurata dal poeta verificati e fortificati con esempî notevoli derivati dalla tradizione letteraria italiana, come dimostra in particolare la sua lettera a Giordani del 19 febbraio 1819, in cui tra l’altro si legge: […] non è meraviglia che l’Italia non abbia lirica, non avendo eloquenza, la quale è necessaria alla lirica a segno che se alcuno m’interrogasse qual composizione mi paia la più eloquente fra le italiane, risponderei senza indugiare, le sole composizioni liriche italiane che si meritino questo nome, cioè le tre Canzoni del Petrarca, O aspettata, Spirto gentil, Italia mia.

Come si vede, sono esattamente le tre canzoni che aveva già menzionato nello Zibaldone e non è stato finora notato che proprio su una di queste 32

Ivi, pp. 59 e 60.

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canzoni – Spirto gentil – Leopardi abbia ricalcata la proposizione sopra già citata dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: «[…] sciagure molto più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i nemici»; e Petrarca (RVF, LIII, vv. 64-65) in termini identici aveva detto: «[…] piaghe a mille a mille, / ch’Anibal, non ch’altri, farian pio». Ma a parte questo calco, le tre canzoni, rispettivamente ai nn. 28, 53 e 128 nell’ordine dei Rerum Vulgarium Fragmenta, sono indicate da Leopardi proprio come modelli del genere lirico-eloquente che determina inevitabilmente anche qualche analogia tra l’una e l’altra: si pensi, per esempio, al fatto che le prime due si aprono con un’invocazione, di alta fattura rettorica, diretta all’anima o allo spirito del destinatario, tipica connotazione dello stile dell’eloquenza; o si pensi, sempre in funzione dell’eloquenza, al ruolo delle interrogative retoriche (come, tra gli esempî possibili, i vv. 57 s. o 66 s. di Italia mia). Sono inoltre canzoni in cui non solo il mito dell’Italia (nella prima, O aspectata, definita virgilianamente anticha madre: cfr. Aen. III, v. 96) è sempre in vista, ma, contestualmente, anche i miti delle generose e nobili imprese di eroi. Per esempio, nella XXVIII, vv. 100 s. quelle delle Termopili, «[…] le mortali strette /che difese il leon con poca gente, / […]», in All’Italia, vv. 65-67, riprende con «[…] / o tessaliche strette, / Dove la Persia e il fato assai men forte / Fu poch’alme franche e generose!»; oppure nella CXXVIII, v. 22, «[…] del barbarico sangue si depinga», sempre Leopardi riprende con «[…] infusi e tinti / Del barbarico sangue […]». La falsariga petrarchesca agisce in profondità, ma non si dimentichi mai che nel poeta dei Canti operano non meno profondamente le indicazioni pseudolonginiane: indicazioni di eloquenza nel sublime eroico, se è vero che nell’antico trattato, al cap. XVI, ancora si rievoca il Demostene esaltante gli eroi di Maratona, Salamina e Platea. Nel tentativo di forgiarsi pure un suo linguaggio dell’eloquenza in funzione del sublime eroico e patriottico, Leopardi abbozza in prosa di lì a poco (all’incirca tra il ’18 e il ’19) anche una Canzone sulla Grecia33, in cui avrebbe voluto richiamare momenti gloriosi del passato per risollevare gli animi dei greci del suo tempo, popolo oppresso, non meno di quello italiano, nonché il testo Dell’educare la gioventù italiana (probabilmente del ’18 perché reca l’esortazione alle giovani generazioni, come nel finale del Discorso sulla poesia romantica); ed è per lo stesso tentativo che egli vagheggerà nei Disegni letterari (databili al 1820) di comporre le «Vite de’ più eccellenti Capitani e cittadini italiani a somiglianza di Cornelio Nepote e di Plutarco, destinate a ispirare l’amor patrio per mezzo dell’esempio de’ maggiori, aiutato dall’elo33

Ivi, p. 334.

«QUELL’AFFETTO NELLA LIRICA CHE CAGIONA L’ELOQUENZA»

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quenza dello storico, da una frequente applicazione ai tempi presenti, dalla filosofia, dalla possibile piacevolezza dei racconti ec.»34. Come si vede, non c’è solo il richiamo alla funzionalità dell’eloquenza in materia di patriottismo, di cui s’è detto («l’amor patrio […] aiutato dall’eloquenza dello storico […]»), ma anche il richiamo a personaggi storici di eccezionali virtù, all’emulazione di esempî e opere di un passato glorioso, pure evidente – va notato – nell’ultimo capitolo del Sublime (XLIV), che il poeta dei Canti si accinge a riprendere ancora nella canzone Ad Angelo Mai (gennaio 1820), in cui il passato s’identifica con una tradizione letteraria e spirituale di straordinario valore: «Ch’essendo questa o nessun’altra poi / L’ora da ripor mano alla virtude / Rugginosa dell’itala natura, / Veggiam che tanto e tale / È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi / Dimenticati il suol quasi dischiude, / A ricercar s’a questa età sì tarda / Anco ti giovi, o patria, esser codarda» (vv. 23-30). Si tratta d’una variante del più ampio motivo della decadenza e della dolorosa sopravvivenza della patria, ripreso ancora nel 1821 in A un vincitore nel pallone (vv. 52-53): «Alla patria infelice, o buon garzone, / Sopravviver ti doglia», mentre le ultime due stanze di Nelle nozze della sorella Paolina, di poco precedente, rievocano l’eroica Virginia romana, della quale pure si fa menzione nei già citati testi di Dell’educare la gioventù italiana e dei successivi Disegni letterari 35.

34 35

Ivi, p. 370. Ivi, pp. 332 e 370.

IV ETRA, TERRA, MARE

Nell’antico trattato intorno al sublime, oltre alle categorie dell’eroico e dell’eloquente, Leopardi vi trovava anche quelle del vasto e dell’illimitato, da lui già ricercate e coltivate in qualche suo precoce, ancorché poeticamente immaturo esercizio, come, in particolare, nella sua finta traduzione, nel 1816, di un Inno a Nettuno1, in cui è fin troppo scoperta l’esemplarità del mare – vasto mare, profondo mare, immenso mare – che configura vere e proprie approssimazioni sul tema dell’infinito: dal nocchier fatichevole «che corre / sul veloce naviglio il vasto mare, / […]» (vv. 4-5) all’eco errante della mitica Rea (tra l’altro, madre di Nettuno) «[…] per gli eccelsi monti / ed il profondo mare […]» (vv. 37-38); dal mar ceruleo (v. 54), invocato pure come azzurro dio che la terra circondi (vv. 141-142), alle immagini del profondo mare (v. 38) o del profondo del romoroso pelago (vv. 154-155), dove profondo è sostantivo, e di un uragano «sopra l’immenso mare» (v. 191). Se quest’ultimo riscontro prelude anche alla immensità in cui nell’Infinito (v. 14) s’annega il pensiero del poeta, gli aggettivi vasto e profondo trascendono il richiamo al mare e si attestano come intercambiabili per la raffigurazione di un’idea di infinito, che tocca terra e cielo, elementi indissolubilmente connessi con quello marino o equoreo in genere e costituenti una triade topica che dal poeta, si noti, sarà collocata più volte in unico verso. E non a caso: era stato infatti già il Blair tradotto da Soave a predisporre questa triade, parlando di «un’estesa pianura, ove l’occhio non vede confine, l’ampiezza del firmamento, l’indefinita espansione dell’oceano»; aggiungendo: «Ogni vastità produce l’impressione del Sublime»2.

1

Mi baso, come già detto alla nota 40 del cap. I, sul testo critico stabilito in G. Leopardi, Canti, ed. cit., t. III (Poesie disperse), p. 159 s. 2 Lezioni di rettorica e belle lettere di Ugone Blair, Professore di rettorica e belle lettere nell’Univ. di

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Vasto, il primo aggettivo evidenziato esaminando l’Inno a Nettuno, è diffuso nelle precoci prove del poeta fanciullo o adolescente e del giovanissimo traduttore dal greco e dal latino – vasto Oceàno o vasto Ocean, vasto pelago, vasto mare o vasta marina o anche vasti flutti –, ma sembra esaurire la sua funzione già nella prima fase dei Canti. E lo stesso aggettivo riguarda poi anche pianura (o pianure), campo ( o campi), spazi, mondo3: una frequenza che vien meno nei Canti, in cui tuttavia val la pena di segnalare le vaste californie selve di Inno ai Patriarchi (v. 104). E, sempre nell’Inno ai Patriarchi, le selve son anche profonde («[…] e la secreta / Nelle profonde selve ira de’ venti»); e profonde è anche il secondo aggettivo già nell’Inno a Nettuno evidenziato, sempre con riferimento all’elemento equoreo o marino; un aggettivo che nei Canti in particolare, oltre alla profondissima quiete dell’Infinito, tocca pure terra e cielo: cioè le profonde valli dell’Ultimo canto di Saffo (v. 14) ovvero il profondo infinito seren del Canto notturno (vv. 87-88) e il ciel profondo della Ginestra. È un processo ad ampio raggio. Già nella precoce Canzonetta V, lontano preludio della profondissima quiete dell’Infinito, s’incontra la iunctura, pur collocata in un diverso contesto tematico, quiete profonda. Ma è l’elemento marino-equoreo, tra i tre leopardiani indicatori semantici dell’idea di infinito, quello che lascia qualche traccia nelle poesie e nelle traduzioni poetiche della fanciullezza o prima adolescenza, fino a quelle degli anni 1815-1816: da l’ondoso profondo seno che i vortici raggira dell’oraziana ode VI (A Valgio) al profondo Ocean (Pompeo in Egitto, a. II, v. 339) o all’imo di Oceàn profondo dell’Idillio secondo di Mosco (Europa, v. 104); o ancora: dal profondo seno metter continuo cupo ululo il mare (Avvicinamento della morte, IV, vv. 149-150)4.

Edimburgo. Tradotte dall’inglese e comentate da Francesco Soave, 3 tomi, Venezia, per Tommaso Bettinelli, 1803, t. I, p. 52. 3 Rispettivamente in Ode III. A Virgilio che parte per Atene (traduzione da Orazio), v. 17, Il Balaamo. Canto Terzo, v. 98, A Munazio Planco. Ode VI (trad. da Orazio), v. 48, Alla Fortuna (trad. da Orazio), v. 11, Ode XXIV (trad. da Orazio), v. 21, Ode XXVIII (trad. da Orazio), v. 23, Catone in Affrica (IX), v. 83, Odissea. Canto primo (traduz.), v. 268, Eneide. Libro secondo, v. 431; e ancora: La Spelonca, v. 129, Il Balaamo. Canto primo, v. 2, Il Catone in Affrica (II), v. 7, ivi (V), vv. 12, 27 e 77, ivi (VII) v. 32, ivi (IX), v. 3, Il Diluvio universale vv. 9 e 85, Pompeo in Egitto (a. II, v. 42 e a. I, v. 196), Ode XXV (trad. da Orazio), v. 7, Catone in Affrica (IX), v. 83. Eccetto i luoghi citati dell’Odissea, dell’Eneide e del Pompeo in Egitto, per i quali si rinvia al vol. I di G. Leopardi, Tutte le opere, cit., rispettivam. pp. 421, 434 e 546, per tutti gli altri luoghi menzionati e per la numerazione attribuita alle odi orazione, è responsabile la curatrice di «Entro dipinta gabbia», cit. 4 Per la traduzione dell’ode oraziana si veda ancora «Entro dipinta gabbia», cit., p. 135. Per l’idillio Europa, derivato da Mosco, si veda G. Leopardi, Poeti greci e latini, cit. Per L’avvicinamento della morte, si veda alla nota 4 del cap. I.

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Il terzo aggettivo che connota il mare nell’Inno a Nettuno è immenso. A differenza degli altri, non ha precedenti nelle poesie infantili-adolescenziali e pertanto si tratta di una sequenza – «[…] dal ciel gran nembo / sopra l’immenso mare. […]» (vv. 190-191) – che direttamente viene ripresa solo nella straordinaria evocazione dell’immensità del mare dell’Infinito, idillio che risale probabilmente alla tarda estate del 1819, anno di eccezionale sperimentazione, come documentano le prove e i tentativi nelle più diverse e complesse direzioni, di cui alcune prevarranno decisamente, ma di cui nessuna mai verrà completamente esclusa nella costruzione di una poetica idillica irripetibile, certamente più ampia e articolata sia rispetto alla tradizione degli antichi sia rispetto a quella dei moderni, fino al Settecento. L’immagine del mare immenso, o della immensità di esso è conquista della fase matura del poeta5. Infatti, se nel novembre del 1824, componendo il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (poi apparso nell’“Antologia” nel gennaio 1826), il poeta ipotizzava «un mare unico e immenso»6, nei Canti l’aggettivo immenso, pur in qualche caso debitore a reminiscenze letterarie – si pensi all’abisso orrido, immenso del Canto notturno, stretto ricalco dal Polinice alfieriano «[…] uno immenso orrido abisso / S’apre ai miei piè?...» – si attesta molto agevolmente come evoluzione di una semantica fissata nell’Infinito: dalla solitudine immensa del Canto notturno (v. 89) all’immenso universo di Amore e morte (v. 94); da del mar gli immensi tratti della Palinodia al marchese Gino Capponi alle stelle, luci […] immense, in guisa che un punto a petto a lor son terra e mare della Ginestra (vv. 167-170). Ancora una volta terra e mare, cioè proprio gli altri due elementi che, insieme al cielo, connotavano l’idea di infinito nel giovanile Inno a Nettuno, che in quest’ottica si rivela testo cruciale del laboratorio poetico leopardiano. E, con riferimento alle luci stellari della Ginestra, il poeta parla (v. 53) di stellato cielo; e stellato, è da aggiungere, ha ancora una volta un precedente nel Blair delle Lezioni: Il firmamento, allorchè è pieno di stelle sparse in così gran numero, e con sì magnifica profusione, colpisce l’immaginazione con più sorprendente grandezza che quando è illuminato da tutto lo splendore del Sole7.

Non si dimentichi comunque che il firmamento stellato è immagine che sorge precocissima nel Leopardi dei versi puerili: stellato Olimpo in Notti puniche, I, v. 125 e in I re magi. Canto primo, v. 31, e stellato cielo in Il Balaamo.

5 6 7

Ma già Blair aveva parlato di spazio immenso: si veda qui qualche pagina più avanti. G. Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le opere, vol. I. Lezioni di rettorica…, cit., t. I, p. 54.

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Canto secondo, v. 998). E quanto al colore azzurro, tipico del sereno, cioè del cielo (si veda a v. 17 del Sabato del villaggio), nell’Inno a Nettuno sarà proprio del mare: mar ceruleo (v. 54), azzurro Dio che la terra circondi (vv. 140-141). E a sua volta il mare del cielo sarà poi specchio, come si legge nella Ginestra, vv. 162-165: In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare […].

Qualche verso più avanti ancora, vv. 168-177, si legge che agli occhi del poeta quelle stelle, o luci, […] sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz’alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia […]

Nelle pagine prevalentemente autobiografiche, composte tra l’11 marzo e il 21 maggio del 1819, che tradizionalmente s’intitolavano Appunti e ricordi e che, a partire dall’edizione Flora, sono intitolate Ricordi d’infanzia e di adolescenza, ma che avrebbero più correttamente dovuto intitolarsi Abbozzi della vita di Silvio Sarno, il poeta predispone una sorta di canovaccio dei versi or ora citati che circa 17 anni dopo egli comporrà nella Ginestra: […] mie consideraz.[ioni] sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo […] veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della mia casa tal quale alla similitudine di Omero ec., favole e mie immaginazioni in udirle vivissime come quella mattina […] mie reverie sopra una giovine di piccola condizione bella ma molto allegra veduta da me spesso ec. poi sognata interessantemente ec. solita a salutarmi ec. mie apostrofi fra me a lei dopo il sogno […]. 8

«Entro dipinta gabbia», cit., rispettivam. alle pp. 286, 188 e 223.

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E ancor più avanti: […] torre isolata in mezzo all’immenso sereno come mi spaventasse con quella veduta della camerottica per l’infinito ec. […]9.

Si tratta di elementi di estrema importanza per le linee fin qui emerse di una poetica da Leopardi ritenuta intimamente idillica, pur con notevoli integrazioni e revisioni. La grandezza, anzitutto, e la forza della natura come categorie del sublime, straordinarie rispetto alla capacità di misura della mente umana, per cui il poeta procede per graduale comparazione: i torrenti «che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo […]». In secondo luogo vanno considerate la veduta notturna e lunare, «tal quale alla similitudine di Omero ec.» (si ricordino i versi tradotti e riportati nel Discorso sulla poesia romantica: «[…] / Rifulgono gli astri intorno della luna / E l’aere è senza vento […]»), e le «favole» e le «immaginazioni» e le «reverie», che il poeta sottoporrà a rielaborazione soprattutto negli idillî, a partire dal ’19 – si pensi Alla luna (titolo definitivo) –, collegando questi temi a quello affettivo-sentimentale («una giovine […] sognata interessantemente ec. solita a salutarmi ec. […]»). E infine l’evocazione dell’immensità e dell’infinito di cui il poeta prova spavento (sostantivo da intendere nell’accezione precisata ne capitolo seguente): «[…] in mezzo all’immenso sereno come mi spaventasse […]»; (corsivo mio). Che questo luogo prepari la mirabile invenzione del si spaura e dell’annegare e del naufragare dell’Infinito lo conferma anche il fatto che poche righe dopo proprio il lemma spavento è dal poeta riferito a due varianti dell’annegare e del naufragare come obblivione e morte totale («[…] mio spavento dell’obblivione e della morte totale ec.»10). E d’altra parte le «considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra […]», l’«immenso 9

G. Leopardi, Tutte le opere…, cit., I, pp. 360-362, ma si veda ora in G. Leopardi, Vita abbozzata di Silvio Sarno (titolo editoriale), in Id., Scritti e frammenti…, cit., pp. 70-80 e 94. Come già detto (cap. I, n. 36), M. Marti (Sette paragrafi sui primi “idilli” di Giacomo Leopardi, cit.) propone convincentemente il titolo Abbozzi della vita di Silvio Sarno. 10 G. Leopardi, Scritti e frammenti…, cit., p. 91. Il sostantivo Oblivione ricorre anche nei Canti: si veda in Ad Angelo Mai, v. 51 («[…]dira / Obblivione antica […]»), A un vincitore, v. 48 (« […] la funesta delle patrie cose / Obblivion […]»), Il sogno, v. 21 («[…]Obblivione ingombra / I tuoi pensieri […]»), La ginestra («Torna al celeste raggio / Dopo l’antica obblivion l’estinta / Pompei […]»). Colgo l’occasione per ricordare che fino a molti anni fa, ancora nell’edizione G.L., Le Poesie e le Prose, a cura di Francesco Flora, Milano Mondadori, 1958 (1a. ed. 1940), alle pp. 375-377 si presentavano presunti abbozzi dell’Infinito: una falsificazione dimostrata senza ombra di dubbio da S. Timpanaro: cfr. “Giornale storico della letteratura italiana” CXLIII (1966), pp. 88-119 e Id., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, 1980, pp. 295-348.

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sereno» e la «veduta della camerottica per l’infinito […]» richiamano in modo particolare L’infinito, in cui soprattutto i versi finali sottolineano l’immensità, la vastità senza limiti che costituisce una componente fondamentale del sublime nella lezione pseudolonginiana: […] interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. […] […] e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Io nel pensier mi fingo. Non è mai stato finora rilevato che un’inconfondibile fonte del leopardiano fingersi, cioè dell’immaginarsi, del crearsi col pensiero ciò che è interminato e impercettibile a misura d’uomo, è riscontrabile con evidenza in uno o due luoghi del Werther in traduzione, in cui pure il protagonista, cito testualmente, si perdea nell’oscura visione d’una invisibile immensità ed evoca, quasi come un archetipo, il modello omerico. Nella lettera del 9 maggio infatti si legge: […] io pur cercava di spingerla (id est: la fantasia) sempre più oltre, infino a tanto ch’io mi perdea nell’oscura visione d’una invisibile immensità. […]. Quando Ulisse parla del mare incommensurabile e della terra infinita, non è forse questa un’idea più forte, più vera, più interamente sentita, di quello che udire adesso ripetersi da ogni scolaruzzo […] che la terra è rotonda?

Se infinita detta della terra rinvia inequivocabilmente all’aggettivo omerico àπείρων, che, proprio riferito a γαÖα, nome greco di terra, ha varie occorrenze nell’Odissea (si vedano almeno I, v. 98, V, v. 46, XV, v. 79, XVII, v. 418), incommensurabile, detto del mare, con cui, alla lettera, Salom traduce ungemeßnes Meer di Goethe, non risulta scelta avallata da Omero, il quale, invece, propende per la distesa marina, per l’aggettivo εéρ‡ς, come si vede anche in Iliade, VI, v. 291: âπιπλgς εéρέα πÞντον, navigando il vasto mare (corsivo mio). Εéρύς infatti significa vasto o ampio, ma non incommensurabile o infinito (come in Od. XII, v. 2 e XXIV, v. 118). E insieme al riflessivo fingersi (v. 7 dell’Infinito), va nel Leopardi lirico considerato la forma attiva fingere: e ancora dal Werther in traduzione il poeta

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deriverà una celebre sequenza delle Ricordanze (vv. 23-24), come conferma in modo inequivocabile la ripresa del lemma mondi. Arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio!, scriverà infatti Leopardi; e Goethe per mano di Salom aveva detto (3 novembre): «quella sacra facoltà vivificante ond’io creava mondi a me d’intorno […]»11. Ma nei celeberrimi versi dell’Infinito poco sopra citati il poeta ha mirabilmente fissato il sublime dell’infinito e dell’illimitato pure collegandosi al trattato dell’Anonimo (cap. XXXV), oltre che alla recensione su “Annali di Scienze e Lettere” a Del Bello e del Sublime di Martignoni, e più in generale alla riconsiderazione che nel Settecento si registra per il Περd ≈ψους, come mostrano in particolare il Blair delle Lezioni, già presente, s’è detto, nel leopardiano Discorso sopra Mosco12, e il Burke della Enquiry (1756), il quale, tra l’altro, nella traduzione italiana nota a Leopardi recita: «Una pianura di vasta estensione di terreno è un’idea certamente non mediocre. Il prospetto di una tal pianura può essere tanto esteso, quanto quello del mare»13. Se a questa riformulazione burkiana del mare assimilato per analogia a una pianura sconfinata va ricondotta l’identificazione di immensità e mare che regge l’invenzione poetica leopardiana, e non solo nel celebre idillio, come si dirà, ancora Blair riproponeva a sua volta il rapporto tra sublime e infinito e tra immensità dello spazio, eternità del tempo e grandezza illimitata delle idee, osservando che se si toglie «ogni limite ad un oggetto» subito lo si rende «sublime» e che «lo spazio immenso, il numero infinito, la sempiterna durata empion la mente di grandi idee»14. E proprio in quest’ottica si deve riflettere sul fatto che non è certo per gusto arcaizzante che il lemma etra nella lingua del Canti occorra più volte15: in All’Italia e in Ad Angelo 11

Verter…, cit. p. 129 (3 novembre: corsivi miei). In verità, al posto del generico sostantivo facoltà, scelto dal traduttore, nel passo originale di Goethe c’è Kraft, cioè forza, energia: «[…] die heilige, belebende Kraft, mit der ich Welten um mich schuf; […]»: la sacra, vivificante energia con la quale io creavo mondi intorno a me. 12 Rodolfo Macchioni Jodi, Riflessi del Περd ûψους sulla poetica leopardiana, in Leopardi e il mondo antico, Atti del V Convegno Internazionale di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980), Firenze, Olschki, 1982, p. 488, n. 27, in cui si afferma che delle Lezioni di Blair il Recanatese «possedeva la prima edizione (Venezia, 1803)». In realtà ce n’è un’altra precedente: Parma, Reale Tipografia, 1801 (3 voll.). 13 Ricerca filosofica…, cit., p. 65. E ai nomi di Burke e di Blair andrebbe aggiunto almeno un altro importante per la ricerca sul sublime nel Settecento, quello di Moses Mendelssohn la cui opera sul sublime era già disponibile in Italia da alcuni decennî: Moses Mendelssohn, Principi generali delle belle lettere e belle arti. Trattato del sublime e del naturale nelle belle lettere, traduzione italiana di C. Ferdinandi, Losanna, Società tipografica, 1779. 14 Lezioni di rettorica…, cit., t. I, pp. 52-53. 15 Ma si veda anche nei versi tradotti da Archiloco (5-6) : «[…] e l’aureo lume / Del chiaro febo a mezzo l’etra estinse».

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Mai, come dirò meglio a breve, ma anche in Alla Primavera («[…] curvo / Etra […]», vv. 68-69), in Inno ai Patriarchi («[…] etra infesto […]», v. 57), in Ultimo canto di Saffo («[…] per l’etra liquido si volve / […]», v. 9) e nel frammento XXXIX («[…] / Si spense il lampo e tornò buio l’etra / […]», v. 74). È un lemma la cui centralità si conferma anche nel caso dell’autografo del Bruto minore, in cui all’altezza del v. 28, ma investendo anche il v. 29, nel margine inferiore, l’autore annota: Ne l’aere; per, ne l’etra. […]. Il / tuon per l’etra, aria spingi. Per l’etra il carro […]16. Nella parola greca αåθ‹ρ, cielo o volta celeste, è insita infatti l’idea dell’immensità incommensurabile e dello sterminato spazio celeste, quello che Simonide abbraccia con lo sguardo insieme, neanche a dirlo, al mare e alla terra. E etereo campo, o eterei campi indicano espressamente l’incommensurabile mare, non diversamente da etereo sen, varia lectio di Bruto minore. Ma per limitarci a etra, è lemma che viene inserito come in una triade collocata, si noti, in un unico, medesimo verso in All’Italia (vv. 79-80), in Ad Angelo Mai (vv. 88-90) e nell’explicit di Aspasia (vv. 111-112): Simonide salia, Guardando l’etra e la marina e il suolo; […] e assai più vasto L’etra sonante e l’alma terra e il mare Al fanciullin, che non al saggio, appare. […] neghittoso immobile giacendo Il mar la terra e il ciel miro e sorrido17.

Dunque, l’acquisizione leopardiana del mare come categoria dell’infinito, insieme alla volta celeste e al suolo, o all’alma terra (la pianura burkiana e blairiana) è molto precoce, precedente alla composizione del celebre idillio; 16

Si veda ora in G. Leopardi, Canti, ed. cit., p. 155. Corsivi miei. L. Blasucci (Sull’ossianismo leopardiano, cit., p. 797 nei già cit. Atti cesarottiani e p. 211 in Id., Lo stormire del vento, cit.) collega il salire di Simonide sul colle di Antela con quello del Monti ossianico, il cui bardo sopra una vetta salia tutto raccolto (I, 16, 9). In realtà in questo caso il modello più specifico del montiano Bardo della selva nera è stato The Bard di Gray: mi sia concesso a questo riguardo rinviare a G. A. Camerino, The Bard di Gray e gli inizî di Berchet traduttore tra Foscolo e Monti, in Teorie e forme del tradurre in versi nell’Ottocento fino a Carducci, Atti del Convegno internazionale, Lecce, 2-4 ottobre 2008, a cura di Andrea Carrozzini, Premessa di G. A. Camerino, Galatina, Congedo editore (“Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Letteratura dell’Università del Salento”), 2010, pp. 127 s. e in Id., Profilo critico del romanticismo italiano, Novara, Interlinea (coll. “Biblioteca letteraria dell’Italia unita”), 2009, in Appendice alle pp. 153 s. 17

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ed è indicazione topica che Leopardi recherà con sé fino all’ultima fase della sua ricerca poetica, fino alla tarda Ginestra in quei versi dedicati all’infinita, incommensurabile vastità del vòto seren e in cui terra e mare sono ancora una volta congiunti; si ricordi (vv. 162 s.): Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. […] […] un punto a petto a lor son terra e mare […].

Veggo dall’alto: il topos di osservare spazî sterminati da un’altura (s’è già richiamata la figura di Simonide in All’Italia nell’atto di andar in alto: «Simonide salìa / Guardando […]»), già nel luogo dell’Iliade tradotto da Leopardi nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, sarà ripreso ben più tardi in un appunto zibaldoniano: « […] accade al fanciullo, o all’ignorante, che guarda intorno da un’alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v’è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito»18. Ma la ricerca leopardiana sull’infinito e sulla vastità come categoria del sublime si traduce anche in un rinnovamento tecnico nella rappresentazione poetica del fenomeno. Così, mentre da una parte il poeta nel 1821 si proponeva tra i Disegni letterari un commento al presunto Longino, come s’è detto, dall’altra alcuni suoi appunti dello stesso anno vengono a correlare l’idea d’infinito con quella di vago e d’indefinito, cercando di riprodurre quasi in vitro una sorta di tecnica della percezione dell’infinito medesimo: Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perde di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec.19.

18 19

Zib., p. 4292 (20 settembre 1827). Zib., pp. 1430-1431 (1° agosto 1821).

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

Una torre […] che […] paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte richiama la già ricordata torre isolata in mezzo all’immenso sereno dei cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza: come non pensare all’osservazione di Burke, alla sua idea del sublime dell’altezza esemplificata, guarda caso, oltre che da altissima rupe o montagna, proprio da una torre alta cento canne?20 E ancora: sublimissimo, s’è visto, chiama Leopardi il contrasto tra finito e indefinito; e dell’indefinito, osserva in un appunto zibaldoniano del ’23, hanno bisogno «il bello e il grande […]»21: un passo, questo, in cui sono innegabili gli echi delle pagine teoriche dedicate all’infinito da autori a lui ben noti come Blair, Burke, oltre che dal più tardo Martignoni. Il contrasto tra finito e indefinito, per restare nella terminologia leopardiana, finalizzato all’idea di sublime, opera del resto come esperimento percettivo sensoriale, come emerge anche nella raffigurazione del vasto e dell’illimitato espressa – s’è già detto prima – dal Blair di Soave: «[…] un’estesa pianura, ove l’occhio non vede confine, l’ampiezza del firmamento, l’indefinita espansione dell’Oceano. […] Togliete ogni limite ad un oggetto, e subito lo rendete sublime. […] Lo spazio immenso, il numero infinito, la sempiterna durata empion la mente di grandi idee»22. E il Burke della Enquiry proprio sulla categoria della Infinità, come suona nell’edizione maceratese il titolo del capitolo IX, osservava che «l’immaginazione è lusingata dalla promessa di qualche cosa di più, e non si ferma nel presente oggetto di senso» e costruiva il concetto di delightful horror: «Un’altra sorgente del sublime è l’infinità. Tende questa a riempir l’animo d’una specie di dilettevole orrore, che è l’effetto il più genuino, e il più vero contrassegno del sublime»23. Questa idea del dilettevole errore legato al sublime verrà recepita da Martignoni nel suo trattatello. Nella recensione a questo scritto, nota a Leopardi, si legge, tra l’altro, che le piramidi d’Egitto «serbano una grande affinità colle idee d’eternità e d’infinito, e producono gli effetti tutti del sublime»; e nella pagina precedente: «[…] l’anima, gettata in una così fatta immensità di cui non vede limite od uscita, rimane attonita e compresa da religioso terrore. Gli obbjetti poi sono incommensurabili o per l’ampiezza incircoscritta come il cielo, l’oceano, un deserto vastissimo; o pel numero come le stelle, una immensa boscaglia d’alberi; o per il tempo come il remoto volger de’ secoli; o per la forza come i terremoti, le eruzioni vulcaniche ec. Quindi è manifesto che il sublime trovasi facilmente nelle ma20

Ricerca filosofica…, cit., p. 84. Zib., p. 2804 (21 giugno 1823). 22 Si veda anche questo rilievo del Blair in traduzione: «[…] la stessa oscurità dell’oggetto al Sublime non è sfavorevole. […] Altro è il rendere l’idea chiara, ed altro il far che colpisca fortemente l’immaginazione»: Lezioni di rettorica…, cit., I, p. 55. 23 Ricerca filosofica…, p. 86. 21

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gnifiche scene della natura e rado nei limitati lavori dell’arte»24; affermazione, quest’ultima, che non riflette propriamente il giudizio di Martignoni, il quale in verità scrive che «anche da’ lavori dell’arte il Sublime si genera, allorché ad emular giungono l’eccelso operar della Natura»25.

24 25

“Annali di scienze e lettere”, cit., III (1810), p. 356. Corsivi d’autore. Si veda ora in I. Martignoni, Del Bello e del Sublime…, cit., p. 71.

V SPAVENTO, SPAURA, SI SPAURA

Del topos di spavento, un vero e proprio tropo già emerso nel capitolo precedente, che Leopardi deriva da indicazioni semantiche di Saffo e Petrarca, avevo già dato alcune specifiche indicazioni in altra sede1. In relazione a questo topos, la linea Saffo-Petrarca, autorizzata esplicitamente dallo stesso Leopardi, rende inutili o sterili eventuali ulteriori richiami, come per esempio quelli da autori umanistico-rinascimentali e di tradizione petrarchesca; si pensi, per esempio, a un noto luogo del quarto libro del Cortegiano (LXV): « […] l’anima […] con una certa meraviglia si spaventa e pur gode e, quasi stupefatta, […] sente quel timore e riverenza che alle cose sacre aver si sòle, e parle d’esser nel suo paradiso»2. La citazione in Zibaldone, p. 3443, 16 settembre 1823, rispettivamente dei vv. 53-55 di Chiare, fresche et dolci acque e dei vv. 6-7 di º∙›ÓÂÙ∙› ÌÔÈ(posti in corsivo dal poeta) recita: Quante volte diss’io Allor pien di spavento, Costei per fermo nacque in paradiso. Petr. Canz. Chiare fresche e dolci acque. ∫∙d ÁÂÏaû̃ ‰’åÌÂÚÞÂÓ ÙÞ ÌÔÈ ∫∙Ú‰›∙Ó âÓ ÛÙ‹õÂÛÈÓ âÙÞ∙ÛÂÓ.

Saffo ap. Longin. sezione 10. Questa è l’unica volta in cui Petrarca adopera nei Rerum vulgarium fragmenta il sostantivo spavento. Nel suo commento alle rime petrarche1

G. A. Camerino, L’invenzione poetica…; si vedano almeno pp. 101 e s. Come già detto, la lettura leopardiana del Cortegiano va datata molto probabilmente solo a partire dalla fine del 1822 (si veda alla nota 13 del cap. I), ma la metafora (petrarchesca) del paradiso è da Leopardi già fissata in un testo dei primi mesi del 1819, i cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza, come si vedrà meglio nel cap. X. 2

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

sche3, Leopardi chiosa al v. 54 della celebre canzone come segue: «Effetto del tormentoso desiderio cagionato in me da quella stupenda bellezza che io vedeva in Laura»; e di seguito, ancora, nelle pagine successive dello Zibaldone: […] lo spavento viene da questo, che […] in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo […]. La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel punto, l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutte in un tratto, benchè confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; […].

E ancora: […] Il primo concepimento d’un desiderio vivissimo di cosa difficile a ottenere […] è sempre accompagnato da spavento […]. […] I desiderii come son penosissimi nella lor durata e nel loro corso, così riescono spaventosi nella lor nascita (e più quel d’Amore, ch’è più penoso, perchè più forte; massime negl’ inesperti)4.

Queste pagine zibaldoniane, or ora citate in misura essenziale, vanno sempre tenute in evidenza perché costuiscono il punto di riferimento più alto al quale ricondurre la peculiarissima accezione di spavento in Leopardi, il quale la intuisce per la prima volta in chiave sentimentale-petrarchesca e in seguito molto ampliata, fino a costituire un vero e proprio sistema semantico che investe tutta la gamma di affetti e passioni umane e si collega alle categorie del sublime in un’ottica che del resto lo stesso poeta aveva già predisposto in varî suoi versi del periodo 1816-’18. Nel citato mio studio in volume, del resto, già documentavo come l’accezione di spavento nel poeta di Recanati venga a coincidere, non con quella di timore, come nel codice della norma, ma con le accezioni di turbamento, sbigottimento, stupore e molte altre strettamente affini, tutte legate alla percezione della natura, base del diletto poetico. Venga a coincidere, ho detto, anche se, ovviamente, non manca qualche caso di oscillazioni e ambiguità che sono inevitabili in una lingua poetica costruita per strati profondi. Una diagnosi importante e quanto mai evidente nel maggior Leopardi; non certo sempre valida per altre sue prove poetiche minori5. 3

Apparso nel 1826 presso gli editori Stella di Milano: si veda alla n. 18 del cap. III. Zib., pp. 3444-3446. 5 Significativo il caso che si nota, per esempio, in G. Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia (per questo testo rinvio a Id., Poesie, a cura di Mario A. Rigoni, con un saggio di 4

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Non si dimentichi che il diletto, o piacere (da non confondere col concetto leopardiano di piacere sviluppato sul piano teorico-speculativo), è già richiamato nei versi del frammento XXXIX dei Canti («Spento il diurno raggio»), che sono, com’è noto, derivati dal primo canto della giovanile cantica Avvicinamento della morte6 e riproposti, non senza qualche ritocco, a distanza di poco meno di un ventennio (corsivi miei): «Piacer prendea di quella vista […]» (v. 23); «Dilettevol quaggiù null’altro dura […]» (v. 26); «Al bosco là del dilettoso loco» (v. 39)7. In questi versi il riferimento allo spavento riguarda la percezione, da parte di una non meglio identificata figura femminile, dei fenomeni di una possente natura in tempesta, percezione alla quale poi ben presto Leopardi aggiunge la visione di una natura non meno possente, di dimensioni immani, stanza smisurata: «[…] torre isolata in mezzo all’immenso sereno come mi spaventasse con quella veduta della camerottica per l’infinito […]»8. E su tale percezione della natura Leopardi in Zibaldone p. 15, in dissenso con uno scritto di Breme apparso sul n. 91 dello “Spettatore”, rileva «l’impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura […]»; un procedimento che, a suo dire, era anche degli antichi poeti, dai quali le immagini naturali sarebbero state riprese senza artificio, senza intervento dell’arte. Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nel recupero di una condizione primitiva, che Leopardi propone al poeta moderno, la natura resta sempre invariata e incorrotta, vergine e intatta e alimenta la sterminata operazione della fantasia. Il tuono, il vento, il lampo, il sole, gli astri e tutti quei fenomeni della natura stessa sui quali il poeta diciassettenne aveva già discorso in specifici capitoli nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi 9 erano avvertiti nel senso, apCesare Galimberti, vol. I, Milano, Mondadori [“I Meridiani”], 1987: edizione, questa, esemplata sulla edizione critica a cura di Francesco Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1931). Nel canto VI, stanza 30, vv. 1-2 si legge: «E in suo cor sottentrata allo spavento / Era l’angoscia del presente stato», dove spavento rientra in questo caso nell’accezione della lingua della norma e non ha nulla a che vedere con la semantica del sublime, come nel Leopardi lirico. E lo stesso dicasi di angoscia, che – come si vedrà più avanti – il poeta lirico collegherà a spavento, facendone un’ulteriore variante della öÎÏËúÈ̃ pseudolonginiana. 6 Secondo un recente studioso, già nell’estate 1819 Leopardi «immagina altre sedi in cui sviluppare il tema della tempesta, di cui comincia ormai a intravedere il valore esemplare […]» (Matteo Residori, Un’ipotesi sulla revisione della ‘Cantica’ leopardiana, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa – Classe di Lettere e Filosofia”, s. iv, vol. ii, 2, 1997, p. 711. Per le citazioni da L’avvicinamento della morte si rinvia alla n. 30 del cap. II. 7 Per l’edizione di riferimento dei Canti si veda alla nota 4 del capitolo I. 8 G. Leopardi, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, cit., p. 362 (corsivo mio). Lo stesso testo è stato pubblicato, col titolo Vita abbozzata di Silvio Sarno, in G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, cit.: la citazione a p. 94 (ma si veda in questo volume al cap. I, n. 36). 9 G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in Id., Tutte le opere, cit. volume

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punto, dello spavento-stupore («[…] ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; […]»). La natura in un aspetto terribile e tempestoso non è meno stupefacente di un paesaggio ameno perché recupera un’idea di sublime non meno significativa della tradizionale concezione classicistica della bellezza intesa come ordine e armonia. È un percorso che va esaminato nella sua evoluzione e che conduce anche all’insueto gaudio di Saffo: infatti anche ciò che è disarmonico, desolante, orrido va per Leopardi recuperato alla percezione estetica e alla sterminata operazione della fantasia e, dunque, a quella invenzione poetica che egli più tardi definirà in modo esplicito in una pagina zibaldoniana del 29 agosto 1828: «Il poeta […] vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carat.[tere] essenziale del poeta». In uno dei primi appunti dello Zibaldone, dopo aver sottolineato che la causa prima del diletto è la maraviglia, aggiunge che essa «è prodotta dalla imitazione del bello come da quella di qualunque altra cosa reale o verisimile […]»10. E la meraviglia e lo stupore nascono dall’esitazione dell’animo umano di fronte a qualcosa che si ignora, di cui s’è turbati e persino atterriti o, se si vuole, spaventati. Non a caso, se si legge attentamente, in «Spento il diurno raggio», vv. 23 s., la donna che «piacer prendea di quella vista, […]» e alla quale «[…] il bene / Che il cor le prometteva era più grande», vede all’improvviso oscurarsi il cielo notturno e il precedente stato di piacere, o di diletto, di fronte a un paesaggio ridente, si trasforma in paura (v. 30): e il piacere in colei farsi paura.

È un verso che nella stesura dell’Avvicinamento della morte (sempre v. 30) registrava una lectio diversa: e la dolcezza in cor farsi paura.

Questa precedente lezione, oltre a suggerire uno stretto parallelo tra piacere e dolcezza e oltre a immettere un’ulteriore occorrenza di cor, sostantivo centrale in Leopardi, e non soltanto in «Spento il diurno raggio» (si veda almeno ai vv. 24 e 72), presentava un emistichio – in cor farsi paura – che anticipava di qualche anno la stessa, identica struttura sillabico-prosodica di un memorabile emistichio dell’Infinito (v. 8): primo: si vedano in particolare i capitoli IX (Del sole), pp. 804-808; X (Degli astri) e XIII e XIV, pp. 837-848, intitolati rispettivamente Del vento e Del tuono e del tremuoto. 10 Zib., rispettivamente pp. 4358 e 6 (appunti del 1818).

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[…] / Il cor non si spaura […].

L’uno e l’altro emistichio presentano la stessa posizione degli accenti ritmici e sono in qualche modo debitori al virgiliano Horror ubique animos, simul ipsa silentia terrent (Aen. II, v. 755), che Leopardi aveva tradotto (corsivi miei), «[…] Orror dovunque, / Silenzio pur l’alma spaura»11, anticipando cioè il verbo che nell’Infinito sarà adottato nella forma medio-intransitiva, si spaura, ripresa non a caso pure in La vita solitaria (vv. 89-91): «[…] e resta, e si spaura / Delle ardenti lucerne e degli aperti / Balconi. […]». E la forma attiva, che sottolinea la öÎÏËúÈ̃ pseudolonginiana, cioè lo sbigottimento o sbalordimento o, se si vuole, pure lo stupore assoluto di fronte a qualcosa di sovrumano o di infinitamente più grande delle possibilità umane, tornerà ancora nella fase avanzata dei Canti: si veda in Amore e Morte, vv. 34-35, «Forse gli occhi spaura / Allor questo deserto: […]», e nella più tarda Palinodia al marchese Gino Capponi (vv. 273-274): «[…] né ti spauri / L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti». In Amore e Morte, malgrado il richiamo agli occhi, il deserto è una metafora e non più il boreal deserto di Sopra al monumento di Dante (v. 154) (o pallido deserto, variante della edizione bolognese delle Canzoni); non più la fisica percezione di uno spazio interminato, come nel giovanile Infinito, ma non per questo l’immagine evocata è meno sublime di uno spettacolo naturale incommensurabile e imponente. Anche quest’ultimo esempio, del resto, conferma pienamente quanto avevo messo in luce nel mio già citato lavoro12; e cioè che nella trasmutazione dei temi e delle posizioni morali dal poeta assunte via via nei Canti, restano tuttavia sempre in piedi, fino all’ultimo e senza eccezioni, tutte le conquiste inventive del suo linguaggio poetico, – dal Boreal deserto, per esempio, dell’Avvicinamento della morte (IV, v. 147) al metaforico deserto, appunto di Amore e morte – preparate per tempo in una lunghissima vigilia fatta di traduzioni ed esercizî in versi e in prosa, senza trascurare la scrittura epistolare, come nella lettera a Giordani del 6 maggio 1825: «[…] il mondo mi riuscirebbe un deserto, dove io mi trovassi solo, senza relazione a cosa alcuna»13. Attraverso questo esercizio, provando e riprovando, incontentabile come ogni autentico artista, egli ha fissato pian piano uno straordinario sistema semantico di parole-chiave e di stilemi inconfondibilmente suoi. E quando le motivazioni tematiche e morali della sua poesia si sono trasformate (alcune 11 Per la ripresa da Virgilio si veda anche il commento di Domenico De Robertis in G. Leopardi, Canti, a cura di Giuseppe e D. De Robertis, Milano, Il Polifilo, 1978. 12 G. A. Camerino, L’invenzione…, cit, p. 87. 13 G. Leopardi, Epistolario, cit., vol. I, p. 884.

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evoluzioni tematiche nei Canti sono ben note), ha soltanto dovuto inserire quei dati topici del suo ormai consolidato linguaggio in una versione simbolica o metaforica. In riferimento al luogo citato da Amore e Morte, in molte altre diverse forme, anche più dirette, il poeta avrebbe potuto esprimere il motivo dell’ostilità che l’uomo avverte da parte della terra […] inabitabil fatta (vv. 35-36), tanto più forte quanto più grande è il suo sentimento d’amore. Ha preferito l’immagine del deserto, che, nella sua infinitudine, evoca a chi l’osserva anche l’idea di sublime: dico osserva perché il poeta richiama nel luogo in questione la funzione degli occhi e del vedere: «Forse gli occhi spaura /Allor questo deserto: a se la terra / Forse il mortale inabitabil fatta / Vede omai […]» (Amore e Morte, vv. 34-37, corsivi miei). Nel sintagma orror dovunque, che si legge nel passo da Virgilio tradotto prima citato, il giovane traduttore riecheggia in qualche modo l’ancor fresca esperienza dell’ Avvicinamento, in particolare nel canto I: si pensi al ruggire orribilmente senza posa detto del tuono (v. 65), un luogo, questo, si noti, che si può avvicinare ai vv. 82-84 di Alla Primavera o delle favole antiche («[…] cieco il tuono / […] / Gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro / In freddo orror dissolve; […]»). Cieco il tuono, si noti, come l’aere nell’Inno ai Patriarchi (vv. 59-60): «[…] o tu cui prima / Dall’aer cieco e da’ natanti poggi / […]». Cieco ha un significato peculiarissimo in Leopardi, finora mai messo adeguatamente a fuoco da lettori e commentatori. Andrebbe infatti evidenziato lo stretto collegamento del cieco tuono, così come anche dell’aer cieco, con un preciso luogo del Saggio sopra gli errori popolari (capo XIII), in cui non solo il poeta nei caeci ignes di Aen. IV, vv. 208-210 («[…]. An te, genitor, quum fulmina torques, / Nequidquam horremus, caecique in nubibus ignes / Terrificant animos, et inania murmura miscent?»14) rivela la fonte del cieco tuono di Alla Primavera, ma il richiamo a questo passo virgiliano gli permette di contestualizzare sia l’orrore (horremus) sia il terrore (terrificant) degli antichi, ai quali era ignota la cagione dei lampi e dei tuoni. E nell’Avvicinamento, poco sopra citato, si pensi pure all’orrore che provoca il bagliore del lampo, ripreso poi in Frammento XXXIX: le nuvole coprono mare e monti e dentro di esse in una cieca oscuritade guizzavan lampi (vv. 46-50). E più avanti (vv. 67 s.; corsivi miei): «Ella dal lampo affaticati e lassi / Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno, / Gia pur tra il nembo acce-

14

Traduco letteralmente: «Forse che te, padre, inorriditi avvertiamo invano quando scagli i fulmini e i fuochi ciechi fra le nubi atterriscono gli animi e vi mescolano vani echi di rombo?».

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lerando i passi. / Ma nella vista ancor l’era il baleno / Ardendo sì, ch’alfin dallo spavento / Fermò l’andare […]». Ma già nell’Appressamento della morte (ms. di Como, vv. 76-78) si leggeva: Era ’l balen sì spesso che ’l bagliore S’accendea sempre e mai non era spento, Perch’al fine i’ ristetti a quell’orrore, […]

Ma è soprattutto ai vv. 79-81, sempre del canto I dell’Avvicinamento, che il verso virgiliano Horror ubique animos, simul ipsa silentia terrent era già stato da Leopardi, prima della sua traduzione, chiaramente e puntualmente ricalcato, se è vero che taceva ’l tutto, la mente e orror riprendono rispettivamente silentia, ubique, animos e Horror, appunto: Taceva ’l tutto; ed i’ era di pietra E sudava e tremava che la mente Come ’l rimembra, per l’orror s’arretra; […]15.

In questo luogo non c’è il sostantivo spavento, ma è come se vi fosse perché è implicitamente richiamato dal sudava e dal tremava che rinviano infatti a Inf. III, vv. 130-132 (corsivi miei): «[…] la buia campagna / tremò sì forte, che de lo spavento / la mente di sudore ancor mi bagna». Leopardi, in ogni caso, distingue nettamente lo spavento e il terrore dal timore. Per lui l’«uomo perfettamente coraggioso o savio […] non teme mai, ma può sempre essere atterrito. Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato»16. Atterrito e spaventato sono sulla stessa linea semantica fin qui enucleata di sbigottito o anche di esterrefatto; cioè, si ricordi, sulla stessa linea a Leopardi già segnalata da Blair, del terrore come sorgente del sublime. Non a caso in «Spento il diurno raggio» lo scatenarsi degli elementi atmosferici era terribil cosa e la figura femminile protagonista arresta la sua corsa e osserva sbigottita: un aggettivo topico nel sistema semantico che si va delineando, in quanto collocabile tra l’atto della fuga e la condizione di spavento (vv. 61-72, corsivi miei).

15

Non è casuale l’insistenza sull’immagine del lampo che Leopardi trovava privilegiata dai teorici del sublime: si vedano in particolare i già ricordati H. Blair (Lezioni…, cit., p. 78 e pp. 101-102), E. Burke (Ricerca…, cit., II, 15, p. 95) e I. Martignoni, (per il trattato di quest’ultimo si rinvia alla recensione apparsa in “Annali di scienze e Lettere”, cit., pp. 360-361). 16 Zib., pp. 2803-2804.

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

E il tuon veniale incontro come fera, Mugghiando orribilmente e senza posa; E cresceva la pioggia e la bufera. E d’ogni intorno era terribil cosa Il volar polve e frondi e rami e sassi, E il suon che immaginar l’alma non osa. Ella dal lampo affaticati e lassi Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno, Gia pur tra il nembo accelerando i passi. Ma nella vista ancor l’era il baleno Ardendo sì, ch’alfin dallo spavento Fermò l’andare, e il cor le venne meno.

Sarà da questa fuga, – v. 69: «[…] accelerando i passi» –, da questo spavento (v. 71) che si genereranno i celebri versi della prima stanza dell’Ultimo canto di Saffo. Non si dimentichi che il Blair, del quale Leopardi nella biblioteca di famiglia poteva leggere le Lezioni di rettorica e di belle lettere nella traduzione del padre Soave17, legava strettamente il terribile con lo spavento. Esemplare in questo senso e non casuale il caso riscontrabile nelle variae lectiones che si leggono nel margine inferiore del manoscritto riguardo al v. 99 in Bruto minore, in cui l’aggettivo sbigottita è collocato esattamente tra fuggitiva e spaventata18: come volevasi dimostrare. È un’area semantica che comprende, naturalmente, anche lo stupore profondo e imprevedibile di sentimenti e passioni radicali; si pensi, per esempio, a Consalvo (vv. 8890), in cui nell’autografo, prima della definitiva scelta, volto sbigottito, il poeta aveva optato per occhi sbigottiti: […] non si cela Vero amore alla terra. Assai palese Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi, […].

Si conferma ancora una volta che l’accezione di spavento è da collocare nell’area semantica della öÎÏËÍÈ̃ dell’antico trattato sul sublime, cioè di quel senso di sbigottimento, appunto, o di smarrimento che (capitolo I, par. 4) secondo l’anonimo si accompagna al senso del meraviglioso, che prevale sempre su ciò che è persuasivo o su ciò che

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Si veda alla nota 16 del capitolo I di questo volume. Per la citazione del terrore come sorgente del sublime si rinvia al cap. I, n. 37. 18 G. Leopardi, Canti, ed. cit., I, p. 164.

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è grazioso 19: «[…] ÛfÓ âÎÏ‹ÍÂÈ ÙÔÜ Úẽ ÎaÚÈÓ aÂÈ ÎÚ∙ÙÂÖ Ùe õ∙ùÌ¿ÛÈÔÓ …]». In questa stessa area semantica in Elegia I, la lirica composta a metà dicembre del 1817, che poi entrerà già nell’edizione fiorentina dei Canti (1831), col titolo, che resterà definitivo, di Il primo amore, il poeta introduce anche il termine angoscia, assimilandolo ancora al peculiarissimo significato di spavento: «Dimmi, tenero core, or che spavento,/ Che angoscia era la tua […]»20. Spavento ritorna nei vv. 5-6 di Elegia II: «Perché vacillo? E che spavento è questo? / Io non so quel ch’io fo nè quel ch’oprai». E nello stesso componimento è ripreso pure il sostantivo angoscia, che ai vv. 61-63 viene collegato a quello ormai già noto di stupore, variante, s’è visto, dello spavento, anche qui inteso, al di fuori della norma linguistica, come topos della poetica del sublime: « […] e questo amore / Ch’io ti porto, non sai, né te n’avvisa / L’angoscia di mia fronte e lo stupore» (corsivi miei). Ai vv. 67-68, sempre in Elegia II, solo in parte, invece, è possibile chiosare il sostantivo angoscia come legato solo a un sublime stupore: infatti angoscia in questo caso tende a convogliare in sé anche l’accezione più comune di grande sofferenza: «Deh giammai questa cruda e questa insana / Angoscia non la tocchi […]»21: un caso che rinvia a quelle ambiguità e oscillazioni semantiche, alle quali accennavo all’inizio, che sono tipiche della poesia più autentica. Non c’è dubbio che nel sistema semantico dello spavento si coglie la percezione di un diletto poetico inteso da Leopardi come sublime: è la percezione nell’Ultimo canto di Saffo di un gaudio che è insueto, perché il diletto, contrariamente al canone classicistico, deriva da una natura sconvolta, che reca in sé il fascino del terribile. L’insueto gaudio: per Leopardi la poesia rivela un diletto o un piacere profondo di fronte a spettacoli naturali terrificanti, non diversamente dalla situazione di un innamorato in mezzo a una tempesta, di cui il poeta aveva parlato nel ’19 nella prosa intitolata Argomento di elegia: «Elegia di un innamorato in mezzo a una tempesta che rigetta in mezzo ai venti e prende piacere

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Vedo che Lonardi (G. Lonardi, Leopardi, Saffo, il sublime, ora in Id., L’oro di Omero…, cit., p. 66 [ma già apparso con lo stesso titolo – nella sezione A Luigi Blasucci – in “Annali della Scuola Normale Superiore”, Classe di Lettere e Filosofia, s. IV, 2, 1999, pp. 409-437]), propone per la definizione della öÎÏËÍÈ̃ pseudolonginiana un luogo del cap. XII, dove l’anonimo richiama sì il sublime, ma solo per far risaltare la tensione oratoria di Demostene in opposizione all’amplificazione rettorica di Cicerone. 20 G. Leopardi, Il primo amore, vv. 14-15. 21 Sempre alla già cit. edizione critica dei Canti si rinvia per il testo di Elegia I ed Elegia II.

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dei pericoli che gli crea il temporale ed egli stesso errando per burroni […]»22. Nella Saffo leopardiana il sintagma per burroni diventa per le balze e le profonde valli: come dire che il sentimento del sublime riguarda non solo la violenza dirompente degli elementi atmosferici, ma anche le smisurate (sarebbe il caso di dire spaventose, nell’accezione fin qui accertata) dimensioni del paesaggio, delle quali l’antico anonimo aveva rimarcato l’importanza nel cap. XXXV del suo trattato, osservando che oggetto di istintiva ammirazione e degni di emozione non sono i piccoli corsi d’acqua, ma il Nilo, l’Istro, il Reno e ancor più l’Oceano. Analogamente, aggiunge l’anonimo, noi proviamo stupore non in presenza di un piccolo fuoco per la luce viva che ci mostra, ma soprattutto di grandi corpi celesti, anche se spesso si oscurano (Ôf‰¤ Á Ùe fÊ’ìÌáÓ ÙÔùÙd ÊÏÔÁ›ÔÓ àÓ∙Î∙ÈÞÌÂÓÔÓ, âÂd Î∙õ∙ÚeÓ Ûÿ̂ã úÂÈ Ùe ʤÁÁỖ, âÎÏËÙÙeÌÂõ∙ ÙáÓ ÔéÚ∙Ó›̂Ó ÌÄÏÏÔÓ, Î∙›ÙÔÈ ÔÏÏ¿ÎÈ̃ âÈÛÎÔÙÔṳ̀Ó̂Ó)23. Come non vedere

in questo ulteriore esempio di rapporti incommensurabili un motivo che il Leopardi dei Canti reinventerà con immaginazione feconda, ampliando di molto i confini della sua rappresentazione, come in particolare mostrano alcuni memorabili versi di La ginestra? Si ricordino i vv. 162-183: […] In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vóto seren brillare il mondo. 22

G. Leopardi, Argomento d’elegia, in Id., Tutte le opere…, vol. I, p. 336 (corsivo mio). Del tutto infondata è l’interpretazione di un lettore di questo luogo leopardiano, il quale, non avendo compreso le ricadute sulla poetica e sulla semantica dei Canti dell’originale topos del piacere della tempesta, equipara addirittura il suddetto motivo alla «speranza infranta nel fior degli anni: come Silvia, come Nerina, la fanciulla del frammento è assalita e uccisa dalla tempesta del vero […]»: ma del vero è aggiunta gratuita del suddetto lettore, il quale, verso la fine del suo contributo, ribadisce ancora: «Leopardi trasfonde nel vecchio brano qualcosa della sua tragica e patetica coscienza del morire di ogni giovanile speranza […]» (Vittorio Formentin, Un recupero leopardiano: il frammento xxxix dei Canti, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa – Classe di Lettere e Filosofia”, s. iii, vol. xvi, 1, 1986, rispettivamente alle pp. 290 e 299). Pure Residori (art. cit., p. 698), riporta questo importante appunto, che egli chiama in verità progetto (anziché argomento) di elegia, ma senza lontanamente sospettare il collegamento al topos del piacere della tempesta e dell’insueto gaudio. Sulla predilezione leopardiana per il topos della tempesta si veda pure la recensione di Mario Marti all’edizione critica, già cit., dell’Appressamento della morte a cura di Posfortunato in “Giornale storico della letteratura italiana”, vol. CLXI, 1984, pp. 615-617. 23 Di questa sdequenza si veda anche nella già cit. (cap. III, n. 9) traduzione di A. F. Gori alle pp. 165-166.

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E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch’a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senza alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; […]

Avevo già sottolineato anni fa la ripresa dei vv. 172-173 dai cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza, che risalgono al 1819 («[…] questo globo ch’è un nulla nel mondo»), ma nel brano citato è evidente che Leopardi, per quanto l’abbia amplificato, resta ancorato alla condizione di fondo del motivo indicato nell’antico trattato: vale a dire che i grandi corpi celesti sono oggetto di estremo stupore anche se la loro luce non è viva, anche se sembrano spesso vedersi nebulosamente, oscurarsi (ÔÏÏ¿ÎÈ̃ âÈÛÎÔÙÔṳ̀Ó̂Ó E Leopardi infatti traduce con nebbia, con luce nebulosa! Il tema dell’incommensurabilità di straordinarî e imponenti fenomeni naturali viene ripreso anche da Lonardi, il quale dopo aver citato dallo stesso capitolo di ¶ÂÚd û„Ôù̃il raffronto tra piccoli rivi e giganteschi fiumi, non senza una qualche forzatura, richiama anche un passo delle Lezioni di Hugh Blair24, in cui però l’accento vien posto, più che sulle dimensioni sterminate negli spazî celesti e terrestri e sull’imponenza dei fenomeni naturali, soprattutto sulla potenza dei medesimi, come si legge nell’italiano di padre Soave: «Non v’ha cosa più sublime di una forza possente. Il ruscelletto, che scorre placido tra le sue sponde, è un oggetto leggiadro; ma quando precipita col fragore e l’impetuosità d’un torrente, diviene tosto sublime»25. Dal 24

Ivi, p. 49, nota 71, facevo rilevare che di Lezioni di rettorica e belle lettere di Ugone Blair, tradotte dall’inglese e commentate da Francesco Soave nella biblioteca di Recanati, v’era la già menzionata edizione di Venezia (1803), che non era però la prima, come già sostenuto in Rodolfo Macchioni Jodi, Riflessi del Περd ûψους…, cit., p. 488, n. 27, ma c’era una precedente pubblicata a Parma in tre volumi nel 1801. 25 Lezioni di rettorica…, cit., t. I, p. 53.

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movimento leggiadro di un placido rivo alla raffigurazione in chiave sublime dello stesso rivo che, ingrossandosi, precipita con forte impeto: immagine per la quale – oltre che ancora i cosiddetti Ricordi (la «grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti […]», scrive Leopardi) – sarebbe stato forse più appropriato richiamare da parte di Lonardi i vv. 154-156 del canto IV della giovanile cantica leopardiana (che pur si muoveva – va notato – in un contesto di poetica molto diverso): «[…] / E ’l ruscel che venuto era torrente, / Spumar fumar con alto gorgoglìo / Sì come in vaso al foco onda bollente»26. Vedo poi con piacere che dallo stesso critico vien ricalcata sostanzialmente la mia analisi sullo strettissimo rapporto tra il topos dello spavento e la poetica del sublime, che in Leopardi prende indiscutibilmente avvio dall’antico trattato pseudolonginiano, a cominciare dalla formula della sublimità di pensieri27, che riprende chiaramente la û„Ỗ ÌÂÁ∙ÏÔÆÚÛÛ‡ÓË̃ à‹ÌËÌ∙ la ³ risonanza di un’anima grande28. Credo, però, che si compia una certa forzatura nel leggere in direzione dell’antico trattato il brano dello Zibaldone29 che recita tra l’altro: «le opere di genio […] quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose […] tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia […], servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo […]». Infatti, se pure il poeta vi trova una risposta sulle qualità di consolazione e di entusiasmo delle opere di genio, più che all’antico sublime, si deve pensare alla moderna e molto risentita reazione alla noia e alla non-vita che Leopardi coltiva sulla scia del forte sentire di Alfieri30.

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Si veda G. Lonardi, Leopardi, Saffo, il sublime, cit., p. 83. Per il passaggio sulla forza dei torrenti nei cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza si veda nel mio volume citato, pp. 81-82. 27 G. Leopardi, Discorso di un italiano…, cit, p. 939. Il volume di Raffaele Gaetano, Giacomo Leopardi e il sublime: archeologia e percorsi di un’idea estetica, Prefazione di Giovanni Lombardo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 499, non verifica la presenza del sublime sul vivo tessuto dei processi inventivi e testuali del Leopardi lirico, ma tenta, non senza approssimazioni, di ricostruirne la posizione teorica rispetto al sublime, collocandola tra antichi e moderni. 28 Si veda pure G. Lonardi, L’oro…, cit. p. 59 s. e p. 70. E nel mio vol. cit. alle pp. 3743. 29 Zib., pp. 259-260 (3-4 ottobre 1820). Lonardi si rende conto di questa forzatura e annota (p. 60): «Certo non arriva […] dal sublime antico e semmai […] risente di un più inquietamente oltranzista sublime dei moderni, l’afferramento di una sorta di dialettica nulla/vita, noia/entusiasmo nel rapporto che si intrattiene tra l’opera di genio e l’anima grande che ne fruisce». 30 Rinvio in questo volume al cap. XI.

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Tra gli altri aspetti del rapporto tra Leopardi e il ¶ÂÚd û„Ôù̃ (da lui letto certamente anche nell’originale31), oltre a quello, capitale, del rapporto natura-artificio (cap. XXII del trattato, che Leopardi pure utilizza contro i romantici e in particolare contro il Breme delle Osservazioni sul Giaurro di Byron), va ovviamente ricordata, in questa nota dedicata al topos dello spavento, la citazione nel cap. X di Del Sublime della famosa ode di Saffo º∙›ÓÂÙ∙› ÌÔÈAll’inizio ho già riprodotto, dallo Zibaldone del 16 settembre 1823, i vv. 53-55 di Rerum vulgarium fragmenta CXXVI di Petrarca – «Quante volte diss’io / Allor pien di spavento, / Costei per fermo nacque in paradiso» – che Leopardi accosta ai vv. 5-6 dell’ode greca, in cui ancora Lonardi, con felice scelta, legge la parola spavento; e la legge nella feconda accezione petrarchesca-leopardiana che avevo già nel mio precedente studio evidenziato. Alla lettera verrebbe da tradurre «Ùe ÌÔÈ ’ÌaÓ / Î∙Ú‰›∙Ó / ¤Ó ÛÙ‹õÂÛÈÓ âÙÞ∙ÈÛÂÓ.», per esempio, il cuore mi si agita nel petto; ma Lonardi, s’è detto, traduce invece, non a caso: «questo a me davvero / il cuore in petto ha preso a colpire di spavento» (corsivo mio). È una scelta che conforta i risultati già da me raggiunti, così come pure quando lo studioso veronese, a proposito della CÎÏËÍÈ̃, osserva che «Longino riconosce il sublime […] nella sua capacità di spaventare, di stordire […]»32. Dello spavento come terribile pure Lonardi richiama alcuni loci del leopardiano Saggio sopra gli errori popopolari degli antichi, nonché l’idillio Lo spavento notturno, soffermandosi sul binomio diletto-spavento, che, con varianti minime, viene ridefinito «l’ambivalenza tra spavento e piacere, tra delight e horror» dallo studioso veronese33, il quale non manca di richiamare più avanti qualche ulteriore aspetto da me già trattato, come, per la Saffo leopardiana, il sublime della natura tempestosa e un brano cruciale dello Zibaldone: «Piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini ma comunque. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo una vena di piacere, quantunque ella sia p. se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec.»34.

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Si veda in questo volume alla nota 9 del capitolo III. Per la precedente citazione e per questa si veda G. Lonardi, L’oro…, cit., p. 66. 33 Ivi, p. 73 e nel mio vol. cit., pp. 16-21, 27 e 133 (per quanto concerne i riscontri sul Saggio sopra gli errori popolari e Lo spavento notturno) e almeno i capitoli 1.3, 2.2 e 2.4 (per quanto concerne il binomio diletto-spavento). 34 G. Lonardi, L’oro…, cit. rispettivam. alle pp. 90 e 83-84. I corsivi nel passo leopardiano di Zib., p. 2118, sono miei. 32

VI DI «SOLINGO», «SOLITARIO» E LORO DERIVATI O AFFINI

Tra il 1819 e il 1820 l’impegno di ricerca sull’idea d’infinito in Leopardi si connette strettamente alla maturazione dolorosa del sentimento del nulla e dell’infelicità come privazione di piacere, a cui l’uomo sembra destinato. Nello Zibaldone del luglio 1820, dopo l’osservazione che «l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perchè […] cosa […] illimitata», si legge: Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere.

Si tratta di una riflessione molto lunga che prosegue in molte pagine a dimostrare che la facoltà immaginativa è in realtà facoltà ingannatrice, fomentatrice di illusioni che «le persone istruite […] seguono più per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi degl’ignoranti de’ fanciulli e dell’ordine della natura»1: distinzione, questa, che ricalca una analoga delle Lezioni blairiane, dove le persone istruite e gli antichi, gli ignoranti e i fanciulli di Leopardi si chiamano rispettivamente infanzia di tutte le società e colte società: «Nell’infanzia di tutte le Società gli uomini sono assaissimo dominati dall’immaginazione e dalle passioni. […]. […] Debbon esser inclinati all’esagerazione e all’iperbole; debbon esser portati al descrivere ogni cosa co’ più forti colori e colle più veementi espressioni assai più di coloro, 1

Zib., pp. 165, 167 e 168-169.

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i quali vivono nelle colte società, ove l’immaginazione è più castigata, più temperate le passioni, e in cui una maggior esperienza rende gli oggetti della vita più familiari»2. Nella sua lunga riflessione il Recanatese vuole anche rendere ragione di una complessa problematica che pone l’idea di piacere e d’immaginazione di fronte al «sentimento della nullità di tutte le cose». Tale sentimento negativo è approdo del Leopardi tra il 1819 e il 1820, anno della canzone Ad Angelo Mai, in cui tale motivo torna evidente, come mostra questa breve sequenza autobiografica (vv. 34-38): […]. Io son distrutto Nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro M’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno È tal che sogno e fola Fa parer la speranza. […]

Sogno e fola formano in questo caso un’endiadi e, come aveva già visto lo Straccali3, dipendono quasi certamente da Triumphus Cupidinis, IV, v. 66: «[…] /sogno d’infermi, e fola di romanzi!»: luogo – mi sia concesso a questo riguardo di aggiungere – che pure rinvia a un altro luogo petrarchesco in Seniles (I 5, 16): «video eam ipsam quae vita dicitur […] vel confusum somnium esse vel fabulam inexpletam […]». Ma sogno e fola esprimono altresì bene quel sentimento molto negativo al quale sono pure da ricondurre una serie di idillî di questi anni di crisi: Lo spavento notturno (cioè il frammento poi definitivamente inserito al n. XXXVII nell’ordine dei Canti), Alla luna (in un primo tempo intitolata La ricordanza) databili al 1819; La sera del dì di festa, Il sogno (ambedue del 1820) e La vita solitaria, probabilmente del 1821. Ognuno di essi riprende tópoi elaborati dal poeta fino a questi anni, a cominciare, nel primo, da quello del sogno, alternativa, insieme all’immaginazione, all’arida ragione. Nel secondo, colloquio con la luna, già con toni favolosi evocata nello Spavento notturno, emerge il tema della rimembranza illusoria, ma necessaria, e il senso dell’eterno e dello sterminato che avvicina Alla luna a L’infinito. Nella Sera del dì di festa affiora ai vv. 13-14 (si veda anche qui nel capitolo seguente) il motivo, conseguente alla scoperta del nulla, della natura onnipossente che consegnò il poeta all’affanno, negandogli ogni speranza di un futuro meno doloroso, 2

Lezioni di rettorica…, cit., t. I, pp. 114-115. I Canti di Giacomo Leopardi commentati da Alfredo Straccali, terza edizione corretta e accresciuta da Oreste Antognoni, Firenze, Sansoni, 1912 e poi, con nuova presentazione di Emilio Bigi, ivi, 1957. 3

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tema che nel Sogno si svolge come cupa, melodrammatica rievocazione di un amore infelicissimo, ma anche segnato da un destino di morte, riproponendo una situazione molto simile a un’altra già configurata nei cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza, in cui, tra l’altro, si menziona Verter [sic], cioè Werther moribondo, che dice addio alle sue speranze: un episodio letterario in cui si riflette lo stato d’animo di un amore platonico, quello del poeta per la Brini, un’umile ragazza recanatese (mentre la figura femminile del Sogno è un fantasma difficilmente riconoscibile in senso anagrafico); e l’amore platonico è essenzialmente sogno: […] sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente […] in somma il sogno mio fu tale e con sì vero diletto ch’io potea proprio dire col Petrarca In tante parti e sì bella la veggio Che se l’error durasse altro non chieggio […]4.

Pur nella prevalenza di toni sentimentali, anche Il sogno serba un valore di sintomo nella successiva prospettiva leopardiana (si pensi per esempio a Consalvo), sia perché riprende ancora una volta, rapportandolo a quello dell’amore, il tema della morte, avviato già nei toni dell’idillio funebre sin dai precoci tentativi dell’adolescenza, sia perché prepara motivi e stilemi destinati a un ruolo di primo piano nel linguaggio dei Canti. Come si vede, nella sua costruzione di un peculiare sistema del genere idillico, Leopardi viene intensificando e precisando una rete di rapporti tematici e semantici ben definita. In particolare, s’è visto che il motivo dell’infinito, componente stretta dell’idea di sublime, si connette alla constatazione del nulla, del dolore e dell’infelicità, alla privazione di speranza e di piacere e alla necessità di supplirvi con l’immaginazione e le illusioni. Ora nella Vita solitaria, un lungo idillio d’intonazione autobiografica, certamente databile al 18215, si può ancora riconoscere il repertorio inventivo e stilistico dell’infinito

4

Già in Tutte le opere, cit., I, p. 362 s. e ora in G. Leopardi, Scritti e frammenti…, cit., pp. 119-120. 5 Il 18 febbraio 1821 Leopardi legge le Reflexions nouvelles sur les femmes di M.me Lambert e vi ritaglia tra l’altro questa considerazione sulla retraite, sulla vita solitaria appunto: «Nous n’avons qu’une portion d’attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s’affoiblit: nos désirs ne sont-ils pas plus vifs et plus fort dans la retraite?». Soprattutto da queste parole prende avvio la lunga pagina dello Zibaldone (679-683) chiusa alla data del 20 febbraio in cui si può riconoscere il tema centrale della Vita solitaria: la solitudine come condizione più vicina a quella naturale, lontana dalla vita dei commerci e della cosiddetta società civile. La vita solitaria appare per la prima volta nel milanese “Nuovo Ricoglitore”, gennaio 1826, n. 13, col sottotitolo di Idillio VI, riconfermato nei Versi bolognesi dello stesso anno (ma non nell’edizione fiorentina del 1831).

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(e dell’idillio con lo stesso titolo) nei versi 23-32: Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato, Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, La sua tranquilla imago il Sol dipinge, Ed erba o foglia non si crolla al vento, E non onda incresparsi, e non cicala Strider, nè batter penna augello in ramo, Nè farfalla ronzar, nè voce o moto Da presso nè da lunge odi nè vedi.

Tornano situazioni o elementi costitutivi dell’idillio precedente. E questo legame stretto tra i due idillî, di cui Blasucci aveva già sottolineato in particolare la ripresa cruciale di quiete trisillabo, vedo ora confermato da un’indicazione strutturale molto puntuale di Franco Gavazzeni, il quale osserva giustamente che «il tempo scandito senza soluzione di continuità nella Vita solitaria secondo un ritmo ternario (vv. 1-22 mattina; vv. 23-69 meriggio; vv. 70-108 notte), e ribadito dall’incastro dei vv. 35-66 (dove si succedono appunto mattino, meriggio e notte), onde rappresentare l’immutabilità della condizione supposta ai vv. 51-54, può ben confrontarsi con l’eternità dell’Infinito, e collaborare a mettere in parentesi un’esperienza circoscritta all’hic et nunc di un’occasione particolare»6. V’è persino un richiamo inconfondibile, transitato dall’uno all’altro testo, rispettivamente ai vv. 7-8 e 89, costituito dal rarissimo verbo, in forma medio-intransitiva, si spaura, già analizzato nel capitolo precedente: «[…] per poco / Il cor non si spaura […]»; «[…] e resta, e si spaura / […]». In La vita solitaria, certamente, la struttura del componimento e, si direbbe, anche la fattura tecnica del linguaggio è ben sorvegliata. Per esempio, «Talor m’assido […]» ricalca palesemente sia un testo di alta tradizione letteraria, come le Rime di Bembo [XXIV, 9], sia l’ossianico-cesarottiano «[…] / Talor m’assido alla tua tomba accanto, / […]», Fingal, V (v. 346)7. Inoltre, «talor m’assido […]» e «sedendo immoto […]» (vv. 22 e 35) e «[…] / Ed erba o foglia non si crolla al vento […]» (v. 28) rievocano nell’Infinito passaggi affini: «Ma sedendo e mirando […]» (v. 5), «[…]. E come il vento 6

Si vedano rispettivamente L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 134-135 e F. Gavazzeni, L’unità dei “Canti”: varianti e strutture, cit., p. 402. 7 Cito ripettivamente dalle seguenti edizioni: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. Gli Asolani. Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Milano, Classici italiani TEA, 1989 (1.a ed. Torino, U.T.E.T., 1966), p. 526, e Poesie di Ossian…, cit. (n. 51 del cap. I).

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/ Odo stormir tra queste piante […]» (vv. 8-9). Si tratta di un modulo che resisterà fino alla fine nel sistema inventivo leopardiano, fino ad Aspasia (vv. 110-112: giacere / mirare); fino a La Ginestra (vv. 158-165: sedere / vedere): […] neghittoso immobile giacendo, Il mar la terra e il ciel miro e sorrido. Sovente in queste rive, […] Seggo la notte; e sulla mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui lontan fa specchio Il mare […]8.

Per restare a La vita solitaria, dall’Infinito vi son ripresi con evidenza gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quiete, l’infinito silenzio e l’eterno e l’immensità e il naufragar (vv. 33-38): Tien quelle rive altissima quiete; Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto, e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda.

Se l’obblio del mondo e di se stessi equivale al dolce naufragio dell’idillio precedente, non c’è dubbio che nei versi appena citati il motivo della profondissima quiete (L’infinito) ovvero dell’altissima quiete (La vita solitaria) ovvero dell’infinito silenzio (ancora L’infinito) resta centrale e – sia detto per inciso – affiorerà qualche anno più tardi (lo aveva già rilevato Blasucci) nella prosa del Cantico del gallo silvestre («[…] se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; […] non voce, non moto alcuno se non delle acque, del vento e delle tempeste […]»9). E al tema del silenzio e dell’infinito si connette pure quello, fondamentale, della solitudine, legato a una componente pastorale bucolica, che in clausola detta il senso di questo idillio, quando il poeta, rivolto alla cara luna (v. 70), dice:

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Corsivi miei. G. Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le opere, vol. I, cit., p. 156 (corsivo mio).

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Me spesso rivedrai solingo e muto Errar pe’ boschi e per verdi rive, O seder sovra l’erbe, assai contento Se core e lena a sospirar m’avanza.

Non sfugga la stretta connessione: il poeta solingo e muto potrebbe riconoscersi anche assai contento poiché, trovandosi in luoghi naturali ameni – boschi, verdi rive, erbe –, è forse possibile che gli avanzi core e lena a sospirar. Del resto vien qui ribadito uno stato di grazia già richiamato prima nello stesso componimento quando dice che quasi me stesso e il mondo obblio e che le sue membra, non più agitate dallo spirito e dai sensi, giacciono in una quiete che sembra confondersi co’ silenzi del loco: concetti questi che a La vita solitaria, che dovrebbe risalire all’estate-autunno del 1821, derivano chiaramente, oltre che da un’indicazione del solito Blair in traduzione10, da una sorta di abbozzo in prosa, che detta le linee-guida del componimento stesso, affidato allo Zibaldone alla data del 20 febbraio dello stesso anno: La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell’uomo ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall’ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all’uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era allora quando l’uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditaz.[ioni] filosofiche; nè agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cogniz.[ione] del vero. Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all’uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni11.

L’indicazione è esplicita: la condizione in cui la solitudine può suggerire un’idea di felicità è nello stato naturale, l’unico nel quale si trova il conforto o la consolazione della solitudine, anche con la consapevolezza che tale consolazione, sia negli uomini di oggi che in quelli primitivi, deriva dalle illusioni. Un motivo che nei versi dell’idillio, infatti, stabilisce una gerarchia tra felicità, appellata come reina, e la natura: «[…] alla reina / Felicità servi, o natura» (vv. 19-20); anche se poi – va aggiunto – ben più avanti reina 10

Lezioni di rettorica…, cit., pp. 53-54: «[…] l’oscurità, la solitudine, il silenzio, assai tendono ad accrescere il Sublime». 11 Zib., p. 679.

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diventa la luna stessa, che, illuminando il paesaggio notturno e gli esseri viventi che lo popolano, è un po’ la causa prima di questa idea, sia pur aleatoria, di felicità. Se in La vita solitaria il poeta esprime alla luna la speranza del sospirar, a quella stessa luna, si noti, un quindicennio più tardi, nella solitudine di un paesaggio notturno incantevole, nei versi del Tramonto della luna, egli consegnerà definitivamente, quasi come un testamento, la constatazione dell’impossibilità di quella speranza. Se nel primo componimento la luna è serena dominatrice dell’etereo campo (vv. 101-102), cioè dell’infinita volta celeste, nell’altro, dopo la sua scomparsa, sarà il sole a inondare con fiumi di luce gli eterei campi (vv. 60-62); un sintagma, quello di etereo campo e relativa forma plurale, già anticipato da etereo sen che per Bruto minore (autografo napoletano ed edizione bolognese delle Canzoni) richiama un’analoga visione infinita, quella del mare. In La vita solitaria, con un’amplissima similitudine che, investendo anche la seconda strofa, si snoda in un lungo incipit (fino al v. 28) con straordinarie raffigurazioni naturali, riesce mirabilmente al poeta di tradurre in metafore universali l’oscura condizione dell’uomo. Versi elaborati con perizia tecnica, mirante soprattutto a segnalare l’effetto lunare anche quando la luna non è nominata, come mostra già al v. 2 il costrutto a catacresi, «Sovra campagne inargentate ed acque», e ai vv. 5253 la perifrasi «[…] lo splendor che all’occidente /Inargentava della notte il velo, / […]»; e ancora, sempre in perifrasi, in Frammento XXXIX, vv. 8-9: «[…] / La sorella del sole, e fea d’argento / Gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda»: luoghi tutti in cui viene richiamato un attributo della luna già affiorato vent’anni prima nell’esperienza di traduzione da Mosco; si ricordi: «Tu della luna argentea / […]». Ma al di là delle immagini e metafore del paesaggio naturale avviato all’oscurità, nel Tramonto si tratta di versi che promettono riscontri testuali importanti. Mi limito a citare fino al v. 15 e poi da 22 a 26: Quale in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, Là ’ve zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti Fingon l’ombre lontane Infra l’onde tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo, Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno

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Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon l’ombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, […] […]. In fuga Van l’ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze, Ove s’appoggia la mortal natura.

Il tramonto della luna coincide perfettamente nel quadro inventivo col tramonto definitivo di sospirate immagini di felicità, che mille vaghi aspetti e ingannevoli obbietti possono solo fingere, cioè rappresentare in modo apparente: fingon l’ombre lontane, che vanno in fuga con le sembianze dei dilettosi inganni, e vengon meno le lontane speranze. La luna scende nell’infinito seno del mare e si scolora il mondo; e la notte, già solinga nell’incipit, resta poi anche orba, cioè cieca. E È un tema che era emerso precocemente già nel Leopardi appena adolescente, il quale aveva progettato nel 1810 di comporre un Opuscolo intitolato Dell’amore della solitudine 12. Le riflessioni zibaldoniane al riguardo assumono un carattere speculativo e costituiscono la base preliminare di La vita solitaria, in cui la natura sembra mostrare pietà, anche se scarsa (v. 15), e in cui l’arido vero, anzi il misero e freddo vero, come si legge nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, che risale al giugno 1824, si configura come «infelice / Scena del mondo […]» (vv. 46-47). Non va però mai dimenticato che la componente filosofica del tema della solitudine opera sempre in funzione e in subordine dei processi semantici e inventivi dei Canti. Non v’è dubbio infatti che alcuni luoghi del Passero solitario (vv. 45 s.), di La vita solitaria (vv. 104 s.) e del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 61 e 64) vanno assunti all’interno di un medesimo disegno poetico. Infatti solingo, detto dell’augellin che non si duole e non ha ragione di dolersi perché il suo è un vivere secondo natura, di cui ogni vaghezza è frutto, è certamente, come aveva visto Bigi 13, una chiara ripresa del solingo augello della canzone castiglionesca Amor, poiché ’l pensier per cui sovente (v. 88), ma, mi sia concesso di sottolineare, era stato dal poeta già prefigurato nei versi di tenore 12

Cfr. «Entro dipinta gabbia», cit., pp. 447-448. Emilio Bigi, Leopardi e il petrarchismo, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, cit., p. 242. 13

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autobiografico posti in clausola a La vita solitaria, in cui solingo e muto, immerso nella natura boschiva, egli si sente «[…] assai contento / Se core e lena a sospirar m’avanza». E ancora, nella stessa funzione semantica, solingo era proposto nell’Inno ai Patriarchi, vv. 75-76, con ben due soluzioni, come variante alternativa di oscuro14. Inoltre, bisognerebbe evidenziare che anche sospirar è parola-chiave legata strettamente al motivo in esame. In stretta sintonia con la natura in uno stato di solitudine. Infatti, il sospirar fa ventilare al poeta una possibile felicità, ma nel Passero è al solingo augellin che lo stesso poeta trasferisce l’ipotesi di un vivere in letizia, mentre ora per lui il sospirar non serba più vaghe promesse e già nei versi precedenti era stato tramutato in una dolente definizione dell’amore: sospiro acerbo de’ provetti giorni (vv. 20-21). E ancora, nel Canto notturno, sempre in una condizione di solitudine («Pur tu, solinga, […]»), nello spazio infinito dei cieli, viene a sostituirsi al passero la luna, entrambi non a caso pensosi, mentre ancora il poeta denuncia l’umano sospirar come sofferenza e patir (vv. 61-64): Pur tu, solinga, eterna peregrina Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar che sia; […]

L’augellin è solingo come la luna; e come la luna è pensoso; e se la luna va contemplando, l’augellin il tutto mira. E l’equiparazione tra contemplare e mirare è istituita nel Canto notturno; e quasi identiche son le domande del poeta alla luna e all’augellin, al quale dice: «Tu pensoso in disparte il tutto miri; […]» (v. 12); e alla luna, che va contemplando i deserti, fa dire al pastore: «[…] ancor sei vaga / Di mirar queste valli?» (vv. 7-8). Queste coincidenze rivelano una correlazione fra Il passero e Il canto notturno 15, che si conferma 14

Per quanto concerne il calco leopardiano da Castiglione – solingo augellin] solingo augello –, si tratta di un tipico caso in cui una fonte letteraria riflette comunque un grado incompiuto rispetto al processo testuale nuovo e al nuovo contesto semantico in cui viene a collocarsi: rinvio al riguardo a Cesare Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984, p. 110. Per quanto concerne invece solingo come possibile variante di oscuro, si veda pure nella cit. ed. critica di riferimento a p. 205. 15 Il verbo somigliare, su cui s’è posta l’attenzione nei luoghi rispettivamente citati dal Passero e dal Canto notturno, riecheggia un luogo dell’Arcadia di Sannazaro (VIIIe 37): «Questa vita mortale al dì somigliasi». Sulla presenza di Sannazaro nel Leopardi lirico si vedano Stefano Agosti, Per un repertorio delle “fonti” leopardiane: Iacopo Sannazaro, in “Paragone”, 210 (1967), pp. 99-13 e Maria Corti, Passero solitario in Arcadia, in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 195-207. Un cenno anche in Stefano Carrai, Leopardi e il modello petrarchesco

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puntualmente anche in un ulteriore dato: nell’uno e nell’altro componimento, infatti, si ripropone l’identico verbo somigliare per sottolineare le strette affinità tra la vita del passero e quella del poeta e tra la vita della luna e quella del pastore. Si legga (corsivi miei): Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! […] (Il passero solitario, vv. 17-18) Somiglia alla tua vita La vita del pastore (Canto notturno, vv. 9-10).

Solingo presenta qualche ulteriore occorrenza nei Canti, e non solo16, anche se non sempre correlata col sospirare o col sostantivo sospiro. In Bruto minore, infatti, solinga sede (v. 90) si riferisce all’Alpe di v. 86 e va intesa come sede squallida e deserta17; e pure solinga (v. 13), ancora nel senso di squallida e deserta, si presenta Eco in Alla primavera (v. 61 s.), «[…] misero spirto, / Cui grave amor, cui duro fato escluse / Delle tenere membra» (vv. 63-65); e – si noti – squallidi e deserti, anzi nudi e desolati, proprio come l’alpe in Bruto minore, sono rispettivamente gli scogli e gli alberghi, senza dimenticare le grotte (v. 65) e le paurose latebre, in cui la stessa Eco sparge i lamenti (vv. 65-69): […]. Ella per grotte, Per nudi scogli e desolati alberghi, Le non ignote ambasce e l’alte e rotte Nostre querele al curvo Etra insegnava. […]

Corrispondenze, queste, che dimostrano come il poeta procedesse nel suo lavoro rielaborando anche in contesti nuovi elementi topici e semantici derivanti da contesti diversi, i quali vengono ad articolarsi tra loro in modo complementare. Ne è prova chiarissima il caso di solinga nel Pensiero dominante, dove pure il poeta recupera la funzione del sospirare nella forma plurale del sostantivo derivato, sospiri. Si vedano i vv. 13-15 e 29-43:

nei “Canti” dell’ultimo periodo recanatese, in Lezioni, Roma edizioni Farenheit 451 [seminario di studi Dall’Ateneo alla città: lezioni leopardiane. genn-apr. 1998], p. 438. 16 Si veda Avvicinamento della morte, cit., c. III, vv. 188-189: «[…] carbon tra la cenere, che splenda / Solingo in cieca stanza […]». 17 Con riferimento a questo luogo l’autografo napoletano (AN) presenta una fitta serie di varianti, tra cui, noto, anche squallida e deserta: si veda in G. Leopardi, Canti, cit., t. I, p. 662.

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Come solinga è fatta La mente mia d’allora Che tu quivi prendesti a far dimora! […] Come da’ nudi sassi Dello scabro Apennino A un campo verde che lontan sorrida Volge gli occhi bramoso il pellegrino; […] Quasi in lieto giardino, a te ritorno, E ristora i miei sensi il tuo soggiorno. Quasi incredibil parmi Che la vita infelice e il mondo sciocco Già per gran tempo assai Senza te sopportai; Quasi intender non posso Come d’altri desiri, Fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri.

Prima di chiosare questi versi, è molto opportuno premettere che la proposizione solinga è fatta la mente mia ripropone, addirittura a circa quindici anni di distanza, una ancor giovanile pagina zibaldoniana, che si rivela una vera e propria glossa dall’autore precocemente anticipata rispetto al componimento maturo; un ennesimo caso che ancora una volta rende avvertiti del metodo del lavoro inventivo leopardiano, molto spesso teso a ridefinire e a riorganizzare, anche a lunga distanza di tempo, dati e motivi predisposti in quella fervidissima stagione che precede la sua cosiddetta conversione letteraria. Si legga: Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine […] come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo […], tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo così potentemente da tutte le cose circostanti, come l’amore […]18.

Tutto si dimentica […] fuorché quel solo pensiero e quella vista: è una scoperta variante d’abbozzo di un concetto poi rimodulato nel Pensiero dominante come segue (vv. 101-106): «[…] che paradiso è quello / Là dove spesso il 18

Zib., p. 59.

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tuo stupendo incanto / Parmi innalzar! Dov’io / Sott’altra luce che l’usata errando, / Il mio terreno stato / E tutto quanto il ver pongo in obblio!». E il dimenticare, il porre in oblio, come forma di distacco dalla greve realtà, è ricorrente nei Canti: per esempio, nella Vita solitaria (vv. 34-35), dove però il tema è diverso; si ricordi: «[…] quasi me stesso e il mondo obblio / Sedendo immoto […]». Per quanto concerne invece l’analisi degli altri versi prima citati dal Pensiero dominante, è di estremo interesse sottolineare il restaurato nesso tra il desiderio di sintonia con la natura agreste e, in contrapposizione netta con i luoghi desolati e scabri (come, appunto, la già vista alpe del Bruto minore), una ritrovata possibile felicità nella solitudine, alla maniera della Vita solitaria: «A un campo verde che lontan sorrida / Volge gli occhi bramoso il pellegrino; / […] / Quasi in lieto giardino, a te ritorno, / E ristora i miei sensi il tuo soggiorno». Un restauro evidente della situazione dei versi in clausola della Vita solitaria, che nel Pensiero dominante si completa con la ripresa di sospiri, che qui però al poeta riesce di far intendere non solo, come ipotetico approdo alla felicità, come nell’idillio, ma anche, come nell’altra versione già rilevata (Il passero solitario, Il canto notturno), nel senso di sospiro acerbo e di patir. È un processo inventivo che si conclude in modo circolare. La tipologia dell’analisi che qui si conduce investe inevitabilmente anche Il passero solitario. Di questo componimento, problematico dal punto di vista esegetico e di datazione non sicura, si son per la prima volta collegate alcune sequenze con alcune altre della Vita solitaria o del Canto notturno, in cui pure l’aggettivo-chiave, solingo o solitario, non solo è presente, ma viene anche collocato all’interno di alcuni significati paralleli poco sopra indicati. S’è rilevata in particolare l’equiparazione, inequivocabile, tra il passero e la luna del Canto notturno, entrambi invocati rispettivamente dal poeta e dal pastore, in cui è trasfigurato il poeta stesso: un rapporto certificato dall’adozione, per l’uno e l’altro caso, dalla ripresa del verbo somigliare (somiglia al tuo costume il mio / somiglia alla tua vita la vita del pastore). E s’è pure rilevata nel Passero l’attribuzione dell’aggettivo solitario anche al poeta (v. 37), nonché, beninteso al medesimo augellin (già nel titolo e al v. 2), il quale è però anche solingo (vv. 2 e 45), come pure solingo nella Vita solitaria (v. 104) è detto il poeta, il quale al v. 23 era evocato seduto in solitaria parte. E ancora: il passero (v. 12 del Passero solitario) è anche pensoso, così come solinga e pensosa è la luna rispettivamente al v. 61 e al v. 62 del Canto notturno. E vincolante in questa rete di intrecci e corrispondenze è anche la funzione del sostantivo sospiro e del verbo sospirare, che costituiscono un ulteriore richiamo tra Il passero (v. 21) e La vita solitaria (v. 107), tra il verso sospiro acerbo de’ provetti giorni e il verso se core e lena a sospirar m’avanza.

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Corrispondenze, queste, sintomatiche e non casuali nel Passero solitario, che oscillano tra La vita solitaria, databile nella seconda metà del 1821 e il Canto notturno, concluso nell’aprile 1830; e vi aggiungerei anche un prezioso appunto, certamente anteriore al 1821: «Galline che tornano la sera spontaneamente alla loro stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che scendendo per essa si perdono tosto di vista […]»19. È questo un luogo menzionato anche da De Robertis, il quale è comunque contrario all’ipotesi di un primo, incompiuto abbozzo del Passero e, in modo dialettico, citando con sovrabbondanza, spesso pure da pagine zibaldoniane coeve alla prima fase dei Canti, assunte come precocemente anticipatrici di una poetica leopardiana degli anni ultimi, argomenta che la composizione del Passero in una fase tardiva, allorché sarebbe ormai stato «disseccato dall’esperienza e dal sapere» (citazione zibaldoniana del 1821), si rivelerebbe essenziale «al ritrovamento e alla pittura delle fantasie passate e all’esercizio dell’immaginazione». Salvo l’imprevedibile scoperta di ulteriori documenti, e pure in mancanza dell’autografo, non sarà mai possibile recidere con certezza il nodo della questione20. Una questione che in ogni caso non va assolutamente collegata con la lunga serie di corrispondenze tra testi anche tra loro lontani negli anni via via documentate nel presente studio. Corrispondenze che il Leopardi dei Canti persegue e attraverso le quali costruisce una vera e propria rete di tópoi e significati peculiari e inconfondibili, che dimostrano una geniale coerenza di metodo nella ricerca inventiva di un suo specifico linguaggio poetico. 19

Lo si veda alla p. 2 del Supplemento generale a tutte le mie carte autografo conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (BR 342 /11): testo ripubblicato, non senza qualche errore di trascrizione, in G. Leopardi, Le Poesie e le Prose, cit., p. 377. 20 Naturalmente esula dai confini di questo studio la questione della datazione del Passero, sulla quale vanno almeno ricordati i contributi di Angelo Monteverdi (La data del ‘Passero solitario’ [1958], in Id., Frammenti critici leopardiani, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967, pp. 67-101), D. De robertis (Una contraffazione d’autore: il ‘Passero solitario’, Firenze, Licosa, 1976 e poi in Id., Leopardi. La poesia, Bologna, Clueb, 1998, pp. 279-332; cit. a p. 305) e M. Marti (Leopardi, due sepolcri e un passero, in Id., I tempi dell’ultimo Leopardi (con una “Giunta” su Leopardi e Virgilio, Galatina, Congedo editore, 1988, pp. 7-45). Se questi contributi, pur con differenziazioni nelle rispettive analisi, propongono come termine della lavorazione del Passero gli ultimi anni del poeta – Monteverdi propende per la primavera/estate del 1831, De Robertis per l’arco di anni tra l’estate del ’32 e quella del ’35 e Marti tra il ’34 e il ’35, in prossimità dell’edizione Starita dei Canti, – solo quest’ultimo però (ivi, p. 66), riprendendo qualche osservazione di Umberto Bosco (Sulla datazione di alcuni canti [1963], ora in Id., Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci editore (“L’ippogrifo”), 1980, p. 57 s.), e sulla base di alcune indicazioni interne ed esterne, avanza la convinzione che comunque «il Passero sia stato certamente ideato, e forse rapidamente abbozzato in appunti, a Recanati […]».

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Questa fondamentale coerenza di metodo non è mai venuta meno e, anzi, è ancor più evidente ove esercitata in contesti diversificati e pur temporalmente distinti dell’esperienza umana, morale e ideologica del poeta.

VII TRA L’APPARIRE E L’ESSERE: RIFLESSI TEMATICI E STILISTICI

Apparire ed essere sono due verbi molto sintomatici nella ricerca poetica leopardiana soprattutto perché ne riflettono due condizioni in alternativa l’una all’altra: dalla parte dell’apparire vi sono i diletti, gli inganni e gli errori; dalla parte dell’essere c’è il vero, la ragione, il nulla. Il conflitto tra queste due condizioni è destinato a non aver mai fine. Riuscire, per assurdo, a spiegarne la reciproca contraddizione significherebbe poter rivelare «con quali ordini e leggi a che si volva / Questo arcano universo; […]» (Al conte Pepoli, vv. 147-148). Il tentativo di focalizzare i notevoli riflessi che la dicotomia tra apparire ed essere imprime allo stile dei Canti comporta una serie di sorprendenti verifiche testuali che in questa sede si propongono in un intreccio fitto che, tra l’altro, permette anche di fissare ancor meglio l’evoluzione del ruolo dell’immaginazione e della memoria nella poesia leopardiana. La cosiddetta crisi del ’19, documentata anche nelle lettere indirizzate a Giordani, a partire da quella del 19 novembre e riflessa inevitabilmente sul piano dell’impegno sperimentale, è stata interpretata come polemica più generale «contro l’epoca “moderna” in cui la raison, artificiosa e depauperante, aveva preso il sopravvento sulla natura […]»1: diagnosi accettabile, che tuttavia non può e non deve implicare in Leopardi la distinzione di una presunta «ragione naturale mai veramente da lui negata» da una raison degenerata2. Questa distinzione non corrisponderebbe alla lettera e allo spirito 1

Walter Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1988 (1ª ed. 1973), p. 42. Binni in questo caso segue Cesare Luporini (Leopardi progressivo, Roma, Editori riuniti, 1993 [1ª ed. 1947], pp. 43-44), secondo cui il Recanatese condannerebbe «una ragione storica, […] prodotta e sviluppata storicamente […]» contrapposta a una «ragione naturale», che non sarebbe «altro che il germe e l’elemento originario della prima, visto in “natura”». Ma 2

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della documentazione disponibile, a cominciare dalle missive del poeta. Per esempio, solo qualche mese più tardi Leopardi, sempre a Giordani, parla di «barbaro insegnamento della ragione […]»: la ragione tout court, senza distinzioni, che si contrappone alla natura. Non a caso, la lettera appena ricordata si apre con lo scenario di una natura che invita a quegli affetti ed entusiasmi illusorî, ma indispensabili all’esistenza umana. È una lettera eccezionale, quasi manifesto di quella svolta di cui le lettere immediatamente precedenti allo stesso Giordani presentano comunque prodromi inequivocabili. La citazione in questo caso non può non essere ampia: […] vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo […]. Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l’entrata di questa povera anima, e la stessa onnipotenza eterna e sovrana dell’amore è annullata […]. Perchè questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e solamente giusto e vero. […]. Queste considerazioni io vorrei che facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano dello smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta nella cognizione del vero, quando non c’è altro vero che il nulla, e questo pensiero […] ci dee condurre necessariamente e dirittamente a quella disposizione […], nell’appunto zibaldoniano del 1820 (p. 375), in cui il poeta sembra distinguere una ragione primitiva positiva, perché autentico prodotto di natura, da una ragione intesa come fenomeno essenzialmente negativo, egli opera in realtà una distinzione illusoria, perché sa bene che quella ragione definita primitiva la sua storia di poeta finirà per fagocitare nelle categorie dell’immaginazione e del sentimento. Non a caso negli anni successivi egli non tornerà più su una simile distinzione. Sulle contraddizioni in Leopardi tra natura e immaginazione da una parte e ragione dall’altra (contraddizioni che acquistano valore solo in ricerche finalizzate a chiarire la Weltanschauung leopardiana piuttosto che il suo linguaggio poetico e il suo metodo della poesia) è utile segnalare Carlo Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, Venezia, Marsilio, 1987, un lavoro condotto con impegno, ma non sempre sufficientemente documentato nel districare nel poeta ragione e immaginazione, cognizione del vero e vocazione alla poesia.

TRA L’APPARIRE E L’ESSERE: RIFLESSI TEMATICI E STILISTICI

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la quale sarebbe pazzia secondo la natura, e saviezza assoluta e perfetta secondo la ragione3.

È sorprendente rilevare che, pur in una ricerca intellettuale e letteraria conformata in una dimensione assai più complessa e profonda, in questo lungo passo epistolare indirizzato a Giordani, Leopardi potrebbe aver applicato lo schema di due luoghi del Werther in traduzione italiana, sua lettura adolescenziale, come s’è visto; in particolare lo schema della lettera del 18 agosto, in cui s’incontrano parole e considerazioni simile e persino identiche (come sull’ineluttabile infelicità umana). Scrive infatti Goethe per mano di Salom: Era egli dunque indispensabile, che quelle cose medesime le quali formano quaggiù la felicità degli uomini, avessero a divenir poscia la sorgente delle loro miserie? Quel sentimento ardente che il mio core aveva per la viva natura, che m’inondava di tanta gioja, che cangiava in paradiso il mondo che m’attorniava, ora m’è divenuto un insopportabile carnefice, un malefico spirito, che mi tormenta, e mi perseguita per ogni via.

E molte pagine più avanti: Non sono io dunque quell’istesso a cui svolazzavano d’intorno per l’addietro in ogni incontro le più squisite sensazioni, che trovavo ad ogni passo un paradiso […]4

Nelle ultime parole poco prima citate della lunga lettera a Giordani il poeta rileva che ciò che sarebbe pazzia secondo natura sarebbe invece saviezza secondo ragione: una risposta evidentemente sarcastica a ogni tentata conciliazione della ragione medesima con la natura che, insieme alle altre affermazioni assai chiare del brano riportato, dimostra che Leopardi non considera una ragione naturale oltre a una cosiddetta ragione storica5, come invece qualcuno in passato ha sostenuto per il timore di vedere allentare i legami della poetica leopardiana con le premesse sensistiche e illuministiche di cui pure è nutrita. Timore dettato da una concezione ideologica dell’esercizio critico e non da un’adeguata analisi testuale, che nel caso in esame si mostra esemplare e paradigmatica. Esemplare perché si tratta di 3 G. Leopardi, Epistolario, cit., t. I, pp. 379-380. La lettera è del 6 marzo 1820. Continuo a conservare l’accento grave sulla e finale secondo l’uso d’epoca seguito da Leopardi. 4 Verter, cit., rispettivamente alle pp. 79 (18 agosto) e 129 (3 novembre). 5 W. Binni, La protesta…, cit., p. 41.

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un documento epistolare circostanziato, relativo agli inizî del 1820, ma già preparato da alcune altre lettere allo stesso destinatario alla fine del 1819; un documento, cioè, che segue immediatamente un anno di eccezionale impegno per la ricerca poetica leopardiana. Paradigmatica perché, a conferma di quanto detto, tale documento contiene in nuce, mescolati non a caso alla denuncia del barbaro insegnamento della ragione, tutti i motivi in vario modo coinvolti in una poetica idillica e già evidenti nelle prove del ’19: il topos del paesaggio serale e lunare, le immagini antiche, i moti del cuore, il dialogo con la natura elargitrice di illusioni, affetti, passioni, entusiasmo, commozione, ma anche la natura come fonte di atroci delusioni e grandi amarezze; in breve, la natura come misura e metodo della poesia. Si legge nella Sera del dì di festa (vv. 11-14): […] io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente, Che mi fece all’affanno. […]

La benignità del cielo è solo apparente (appare in vista), perché natura e cielo sono alla cupa luce della ragione colpevoli insieme dell’umana infelicità, e perciò in coppia nominati, come nella lettera a Giordani del 24 aprile 1820, che costituisce pure il diretto precedente dei versi appena citati (corsivo mio): «Poco manca ch’io non bestemmi il cielo e la natura che par che m’abbiano messo in questa vita a bella posta perch’io soffrissi»6. Non v’è contraddizione tra la natura come metodo e misura della poesia e la natura alleata d’un cielo crudele nemico dell’uomo. Unica distinzione resta quella tra apparire ed essere: il cielo o la natura appaiono col volto benigno delle illusioni e favoriscono la nascita della poesia e del favoloso, ma sono in realtà riconosciuti dalla ragione come negatori d’ogni illusione o speranza e, a rigore, della poesia medesima. Ed è molto importante sottolineare che questa distinzione tra apparire ed essere interviene nel Leopardi consapevole della frattura sempre più irrimediabile tra natura e ragione: quella ragione che, verso la fine del 1819, egli scoprirà come infelice coscienza di un male senza rimedio. Si comprende allora perché lo stesso cielo, che appare benigno nella Sera del dì di festa, nel frammento «Spento il diurno raggio», generato com’è noto nel 1816, non appare, ma è (corsivi miei): «La sembianza del ciel ch’era sì bella» (v. 29). È una distinzione che riflette una vera e propria rivoluzione nel rapporto io-natura. Infatti l’io lirico, legislatore della poesia 6

G. Leopardi, Epistolario, cit., vol. I, p. 398.

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della natura, interagisce di fronte all’apparire, non all’essere; e non a caso proprio nella tarda rielaborazione del frammento originato nel ’16 la donna, soggetto dell’osservazione del paesaggio e dei fenomeni naturali, viene identificata solo col pronome di terza persona e il punto di vista è oggettivo, anziché soggettivo. Nel Discorso sulla poesia romantica il moderno Leopardi esplicita questo rapporto apparire-essere e si fa interprete della condizione degli uomini, e quindi anche di se stesso, nel periodo dell’infanzia e della prima giovinezza: «[…] ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna […]»7. In seguito, attraverso la scoperta del nulla e dell’arido vero, il mantenimento e la conservazione di questo apparire o sembrare diverrà essenziale per via della memoria, che restituirà sempre vive e intatte le immagini fissate nelle prime età dell’uomo; e anzi le alimenterà con immagini, percezioni e sensazioni del passato per via diretta e senza interpolazioni. Ma questa vera e propria alternativa di poetica ai referti della ragione Leopardi arriverà a fissare con lucidità assoluta solo nel 1821, anno in cui, non a caso, egli affida allo Zibaldone una serie di appunti quanto mai chiarificatori. Cito: 16 gennaio […] forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; […] proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensaz.[ione] immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica […]; 24 luglio La memoria non è quasi altro che virtù imitativa, giacchè ciascuna reminiscenza è quasi un’imitazione che la memoria, cioè gli organi suoi propri, fanno delle sensazioni passate […]; 16 settembre La memoria la più indebolita dimentica l’istante passato, e ricorda le cose della fanciullezza. Ciò vuol dire che la memoria perde la facoltà di assuefarsi (in cui ella consiste), e conserva le rimembranze passate, perchè 7

G. Leopardi, Discorso di un italiano…, cit., vol. II, p. 919. Corsivo mio.

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vi è assuefatta dal lungo tempo […]; 25 ottobre […] son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec.8

Ricordanza, ripetizione, ripercussione o riflesso dell’immagine antica, virtù imitativa: a partire dal ’21 la memoria, categoria primaria della sua sempre più articolata concezione del genere dell’idillio, viene dal poeta assunta in modo non più inconsapevole e troverà risonanza massima nella stagione matura delle Ricordanze. È una svolta cruciale che Franco Gavazzeni ha collegato con le correzioni che il poeta, su una copia dell’edizione Starita, apporta proprio a un componimento del 1821, Alla luna. Infatti se i vv. 12-14 nel testo del “Nuovo Ricoglitore” del ’26 recitavano «[…]. Oh come grato occorre / Il sovvenir de le passate cose / Ancor che triste, e ancor che il pianto duri!», lo stesso luogo è quasi dieci anni dopo ampliato come segue: «[…]. Oh come grato occorre / Nel tempo giovanil, quando ancor lungo / La speme e breve ha la memoria il corso, / Il rimembrar delle passate cose, / Ancor che triste, e che l’affanno duri!». Una forte correzione testuale determinata, secondo l’acuta e convincente valutazione di Gavazzeni, dalla volontà di Leopardi di non contraddire la tesi sostenuta nel Passero solitario – che dunque anche per questo caso si conferma componimento della fase estrema del poeta –, in cui (vv. 50-59) il ricordo non ha niente di piacevole, ma è unicamente fonte di pentimento ed è priva di ogni consolazione («Ahi pentirommi, e spesso, / Ma sconsolato, volgerommi indietro»)9. Ulteriori appunti zibaldoniani sulla memoria risalgono agli ultimi mesi del ’28, poco dopo la composizione delle Ricordanze, e al 1829, in cui viene ribadito con maggior forza, se possibile, il ruolo centrale della memoria stessa, alimento costante dell’immaginazione, evidenziando in particolare che i piaceri della stessa immaginazione e del sentimento consistono nel ricordo, cioè nelle cose passate anziché presenti, e introducendo anche la teoria degli oggetti doppi, cioè degli oggetti rievocati che presentano un fascino senza confronto rispetto agli oggetti percepiti istantaneamente coi sensi. Per restare al 1821, si deve rilevare che la garanzia della memoria opera anche e soprattutto verso i dati della ragione, che finisce inevitabilmente per tagliare alle radici, pur senza volerlo, la possibilità stessa di un rapporto io-natura e la necessità sul piano poetico e umano di valorizzare i dati di 8 9

Zib., rispettivam. p. 515; p. 1383; p. 1716; p. 1987. F. Gavazzeni, Studi di critica e filologia italiana…, cit., pp. 404 s.

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quell’immaginazione, che, come si legge in un’altra illuminante annotazione dello stesso 1821, «è la sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia […]». E ancora: «Immaginazione e intelletto è tutt’uno. L’intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello stesso modo ciò che si chiama riflessione ec. ec.»10. Non sorprenda quest’idea della ragione intesa come una delle componenti di quella categoria-principe che è l’immaginazione; e cioè che la facoltà riflessiva o intellettiva costituisce una variante della facoltà inventiva, come la chiama il poeta. Come dire che all’interno del processo dell’immaginare viene individuato pure un processo dello speculare, per usare un verbo d’autore. Si veda al riguardo la lettera del 6 maggio 1825 indirizzata a Giordani: «Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo»11. Sono parole che introducono perfettamente all’epistola Al conte Carlo Pepoli, in particolare agli ultimi versi (140 s.), in cui è pur ripreso il verbo specolar (v. 150) e poco dopo, non a caso il verbo affine ragionare (v. 153): […]. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell’eterne cose; a che prodotta, A che d’affanni e di miserie carca L’umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi: Con quali ordini e leggi a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d’ammirar son pago. In questo specolar gli ozi traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, che già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento: Vana Diva non pur, ma di fortuna E del fato e d’amor, Diva più cieca. 10 11

Zib., pp. 2133-2134 (20 novembre 1821). G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 885.

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«[…] / Questo arcano universo […]» (v. 148) e «In questo specolar gli ozi traendo / […]» (v. 150) ricalcano quasi alla lettera il passo appena citato della lettera a Giordani: «[…] speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo»12. Specolare, o speculare, o speculazione, sono rispettivamente verbo e sostantivo che Leopardi attribuisce esplicitamente ai filosofi o, in senso etimologico, agli scienziati della natura, come per esempio, nel Copernico delle sue Operette morali: «[…] se ella troverà qualcuno di quei filosofi che stia fuori di casa al fresco, speculando il cielo e le stelle […]» (è un passaggio del discorso che il Sole, desideroso che Copernico sia recato al suo cospetto, rivolge all’Ora prima)13. I versi citati sono preceduti da un mesto e forte congedo ai dolci inganni e alle dilettose immagini (si vedano i vv. 122 s.), non diversamente da quanto formulato due anni prima nel Parini ovvero della gloria: «[…] si dileguano facilmente dall’immaginazione degli uomini le larve della prima età, e seco le speranze dell’animo, e colle speranze gran parte dei desiderii, delle passioni, del fervore, della vita, delle facoltà»14. È possibile sostituire nel diletto della poesia i dolci inganni ovvero le larve della prima età col terribile vero? A questa domanda Leopardi aveva già tentato di rispondere qualche anno prima in un appunto dello Zibaldone: Il vero certamente non è bello: ma pur anch’esso appaga o se non altro, affetta in qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero […].

È un appunto della fine del ’22. Nel gennaio dello stesso anno in Alla Primavera l’autore evocava «l’atra / Face del ver» contrapponendola ancora alla bella età (v. 12); ma nel 1824, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, riprendendo lo stesso incipit del passo zibaldoniano appena citato, aveva scritto: Certamente il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello è da preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da preferire ad ogni altra cosa15.

È questa, s’è visto, anche la risposta degli ultimi versi di Al conte Pepoli: in assenza di speranze o immagini dilettose, persino l’acerbo vero (v. 140) può 12

Ibidem. G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 167. 14 Ivi, p. 122. 15 Si veda rispettivam. Zib., p. 2653 (16 dic. 1822) e G. Leopardi, Detti memorabili…, cit., p. 146 (cap. V). 13

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diventare oggetto di bellezza e quindi di sentimento poetico. Indicazione in realtà impossibile a osservarsi e già smentita in un certo modo nei versi immediatamente precedenti (si vedano almeno 121-137) dal senso di viva nostalgia che traspare per le immagini e i fenomeni paesaggistici e naturali, indicatori di felicità illusoria certamente, ma non eliminabili nella vita della poesia; tanto insistito ed energico è il desiderio che quei versi riescono a trasmettere, a dispetto delle successive formulazioni sull’acerbo vero: […]. Io tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre infino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, nè degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Nè degli augelli mattutini il canto Di primavera, nè per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltate o di natura o d’arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; […].

Della prima stagione i dolci inganni, le dilettose immagini, degli aprichi campi il sereno e solitario riso, degli augelli mattutini il canto di primavera, per colli e piagge sotto limpido ciel tacita luna, ogni alto senso, ogni tenero affetto: è un repertorio già della fase iniziale dei Canti che sarà ripreso a partire dalla primavera del ’28 e si riverbererà su tutti i componimenti pisano-recanatesi; ne è spia, in particolare, il verbo ricordar, posto, si noti, in inciso, perché verbo-programma di una rinnovata poetica, come mostrano gli appunti zibaldoniani del 1828-’29, diversi da quelli del ’21. È nel ’28 che egli scopre in Il risorgimento che «nell’intimo del petto / Ancor viveva il cor» (vv. 27-28); e molto più avanti (vv. 109-116): Proprii mi diede i palpiti, Natura, e i dolci inganni. Sopiro in me gli affanni L’ingenita virtù; Non l’annullâr: non vinsela Il fato e la sventura;

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Non con la vista impura L’infausta verità.

L’infausta verità non è che l’acerbo vero dell’epistola al Pepoli che sembrava addirittura poter sostituire le vaghe immagini (v. 117) e i dolci inganni. Ora la dura verità rivela una vista impura (v. 115) – formula che in Alla Primavera suonava «atra face del ver» – ed è tenuta a bada, insieme al crudo destino (v. 114), dall’ingenita virtù» (v. 113) del poeta; il quale sa benissimo che «natura è sorda, / Che miserar non sa» (vv. 119-120), che «pietà fra gli uomini / Il misero non trova; / […]» (vv. 125-126), che «ignora il triste secolo / Gl’ingegni e le virtudi; / […]» (vv. 129-130), ma pure è altrettanto consapevole che la poesia fonda il suo metodo e, si direbbe, la sua necessità non sulla natura vista dalla facoltà speculativa, ma vista dal cuore, inteso come luogo di confluenza di passioni, affetti, immagini e «inganni aperti e noti; […]» (v. 146). Se i lemmi inganno e ingannare, sostantivo e verbo, si rivelano cruciali e al tempo stesso ambivalenti nel linguaggio leopardiano, come si vede subito dopo in A Silvia («O natura, o natura, / […] / […] perché di tanto inganni i figli tuoi?», vv. 36-39), l’acerbo vero dell’epistola del ’26 e l’infausta verità della canzonetta del ’28 si collegano direttamente a quell’apparir del vero, che stronca impietosamente una creatura fragile come Silvia, sempre nel canto omonimo (vv. 60 s.), e – ancora – a Le ricordanze (vv. 71-72: «[…] l’acerbo, indegno / Mistero delle cose […]»). Si conferma in tal modo la qualità fittizia e pur insostituibile per la poesia di ogni speranza o anelito del cuore; qualità che il poeta presenta invariata in un identico modulo esclamativo retto dal che sia in A Silvia (vv. 28-31) sia – in forme più ampie e articolate – nelle Ricordanze (vv. 19-27): Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia La vita umana e il fato! […]. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri […]. Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato.

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Di proposito s’è reso in corsivo nell’uno e nell’altro testo i sostantivi vita e fato per sottolinearne l’evidente specularità non a caso impostasi dopo le rispettive due proposizioni esclamative costruite in modo identico nella forma e nella sostanza. In particolare, i versi di A Silvia, come già notato da De Robertis, sono una ripresa puntuale, a notevole distanza di tempo, di un passaggio dei giovanili Ricordi che presentava lo stesso verbo reggente, parere / apparire, e richiamava testualmente proprio la vita umana e le speranze, «[…] allora mi parve la vita umana (in veder troncate tante speranze ec.) […]»16: ed è in tale medesima linea che il verbo parere verrà poi assunto, rilevato anche dalla disposizione chiasmica, in una nota sequenza del Pensiero dominante (vv. 131-135; corsivi miei): Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, Quasi una finta imago Il tuo volto imitar. Tu sola fonte D’ogni altra leggiadria, Sola vera beltà parmi che sia.

Ma si resti a A Silvia, primo esempio nei Canti di canzone libera e notevolissimo esito di una maturità di linguaggio e forme, in cui si compie definitivamente l’ardua saldatura tra idillio come paesaggio naturale ed elegia sentimentale. Una saldatura che sembrava precaria e quasi irraggiungibile più di un decennio prima nelle prove di Elegia I e Elegia II (seguiti, s’è visto, da una sorta di allegati in prosa, distinti secondo il genere, appunto: idillio o elegia). A Silvia, inoltre, esprime una poetica della memoria («Silvia, rimembri ancora […]»), i cui verbi, nel processo delle varianti puntualmente segnalate da Gavazzeni, oscillano tra sovvenire, rimembrare e rammentare17. Questa poetica, però, di massimo rilievo sin dagli inizî dell’esperienza lirica leopardiana – si pensi a Le rimembranze. Idillio dell’autore ancora diciottenne –, solo a partire dalla sua fase più matura diverrà non più mezzo, bensì fine. Soprattutto nella prospettiva della memoria l’osservazione del poeta salda e sovrappone elementi affettivi e aspetti del paesaggio con quella naturalezza (precipuo sostantivo leopardiano, sia detto per inciso) che dissimula perfettamente la lunga arte e il lungo studio. Si notino, per esempio, i due sensi dell’udito e della vista: mentre molti anni prima nell’Infinito egli udiva il vento e mirava interminati spazî, in A Silvia «porgea gli orecchi al suon» della voce della fanciulla, ma, contem16

G. Leopardi, Ricordi…, cit., p. 362 e Id., Vita abbozzata…, cit., p. 100. Per De Robertis si veda ad locum nel relativo suo commento ai Canti, cit. 17 F. Gavazzeni, Studi di critica e filologia…, cit., p. 386.

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poraneamente, «mirava il ciel sereno, / Le vie dorate e gli orti, / E quinci il mar da lungi, e quindi il monte». Non v’è differenza, non v’è distacco tra le due operazioni che interagiscono su un’unitaria misura stilistica e inventiva, votata a un sistema di poesia divenuto complesso, che si potrà sempre chiamare dell’idillio, ma in un’accezione del tutto originale; sistema che in A Silvia, con un passaggio ulteriore si compie nella prospettiva sempre terribile del vero e in quella, in questo caso non meno terribile, della morte (vv. 60-64): All’apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.

Se questi versi – formulo un’ipotesi del tutto astratta – fossero isolati da ciò che precede, non avrebbero certamente quel valore e quella funzione poetica, che nel metodo leopardiano sono assunti non dal vero, ma dal suo contrario: dall’errore e dalla finzione. Sicché il finale apparire del vero nella costruzione di A Silvia, oltre a sottolineare una componente non nuova, come quella funerea, indica la contraddizione drammatica tra natura come immaginazione e natura come ragione, che – s’è visto – della prima è pur sempre una variante; tra apparire ed essere, tra errore e verità, tra i pensieri soavi e le speranze e il sentimento del nulla.

VIII DI «ACERBO» E DEGLI «OGGETTI DOPPI»

Nelle Ricordanze la qualità illusoria, ma pur sempre poeticamente indispensabile delle speranze antiche (v. 88), ritorna con forza e profonda nostalgia. Si vedano per esempio i vv. 55-57: […]. Qui non è cosa Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Si noti: egli vede e sente, ora, al presente, non un’immagine reale, ma un’immagine interna, che torna e sorge dal passato illusorio, che s’identifica perfettamente con quell’immagine altra, di cui il poeta parlava già nello Zibaldone del 30 novembre 1828 (passo citato più ampiamente qui di seguito): «Egli [cioè l’«uomo sensibile e immaginoso», come Leopardi definisce se stesso poeta] vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono» (corsivi miei). I vv. 170-173 recitano: […] e fia compagna D’ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba

Acerbo, si noti, è aggettivo che accompagna sempre sostantivi topici della poesia dei Canti. Acerbo è il fato nella canzone All’Italia (v. 90), in cui è evidente la ripresa da Sannazaro (Arcadia, v. 50: «Tanto dolse a ciascun l’acerbo fato») e da Tansillo (son. Che debbo far? che mi consigli, Amore?, vv. 10-11: «[…] l’acerbo fato / Piangerò solo»). E acerbi pure son i casi nel

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Bruto minore (v. 50), acerbo il vero nella epistola al Pepoli (v. 140), acerba la rimembranza nell’ultimo verso delle Ricordanze, acerba, con ripresa di un sintagma già petrarchesco (RVF, CXXVII, v. 21), la nostra etade al v. 11 del frammento simonideo collocato al n. XLI nell’assetto definitivo dei Canti: tutti sostantivi che, dunque, stilisticamente legati dall’identico aggettivo, vengono di riflesso a costituire un inedito, peculiare sistema semantico che li pone in reciproco rapporto di complementarità e d’interferenza, se è vero che proprio il fato, ovvero il destino o i casi, la cognizione del vero, il ruolo della rimembranza e della nostra etade, cioè il tempo del viver terreno, sono punti nodali capitali per la base della ricerca morale e poetica leopardiana. Non a caso, in precedenza si legge (vv. 87-94): […]. Ahi, ma qualvolta A voi ripenso, o mie speranze antiche, Ed a quel caro immaginar mio primo; Indi riguardo il viver mio sì vile E sì dolente, e che la morte è quello Che di cotanta speme oggi m’avanza; Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto Consolarmi non so del mio destino.

A parte il destino inconsolabile (acerbo, s’è detto prima), il ritorno del caro immaginar si connota in questa avanzata stagione dei Canti nella coerente ripresa e nell’intensa variazione di elementi topici che si rinnovano e si rincorrono ormai da almeno un decennio. Ecco allora il vento, che si ode stormir nell’Infinito (vv. 8-9) e al quale, nella Vita solitaria «erba o foglia non si crolla» (v. 28), tornare nelle Ricordanze (vv. 15-17; 50-51; 68-69): […] sussurrando al vento I viali odorati; ed i cipressi Là nella selva; […]. Viene il vento recando il suon dell’ora Dalla torre del borgo. […] […] intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento, […].

Ed ecco l’immagine costante del mare, centrale nell’Infinito, ripresa pari pari abbinata a quella dei monti, secondo un modulo già stabilito nell’ado-

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lescenziale Inno a Nettuno: «[…] quel lontano mar, quei monti azzurri, / […]» (Le ricordanze, v. 21); «[…] gli eccelsi monti / Ed il profondo mare […]» (Inno a Nettuno, vv. 37-38); ecco la ripresa di fingere, verbo-chiave, s’è visto, che dall’Infinito (vv. 4-7: «[…] interminati / Spazi […] e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; […]») si protende sino alle Ricordanze (vv. 23-24 e v. 76): […] arcani mondi, arcana Felicità fingendo al viver mio! […] celeste beltà fingendo ammira. E ancora dall’Infinito – idillio sempre nevralgico e fecondo di indicazioni topiche, come si vede, – il verbo mirare («Ma sedendo e mirando […]»), si proietta fino agli idillî della maturità: per esempio, in A Silvia («Mirava il ciel sereno e le vie dorate e gli orti / […]», v. 23) o nelle Ricordanze («[…] io solea passar gran parte / Mirando il cielo […]», vv. 11-12). Anche Le ricordanze (agosto-settembre 1829), come A Silvia, testo considerato nel capitolo precedente, riflettono certamente l’approdo del processo assai complesso, nei suoi snodi fondamentali, dell’elaborazione leopardiana dell’idillio, che a un certo punto s’intreccia strettamente anche al filone elegiaco. Non a caso, nelle sette stanze di cui si compone questo lungo idillio, quelle lirico-descrittive (le dispari) si alternano a quelle per così dire riflessive (le pari) ed evocano immagini remote e favolose, mentre l’ultima stanza presenta un’intonazione elegiaca sul tema dell’amore e della morte; dell’amore (per Nerina) conteso e negato dalla morte. In questo caso l’arte leopardiana compie il miracolo di rendere coerente e compatibile la componente elegiaca nel genere idillico, riconducendo a unità espressiva e stilistica un processo sperimentale molto elaborato, in cui viene ribadito il primato assegnato al linguaggio della memoria: si ricordi, in explicit, la rimembranza acerba. I luoghi e le immagini d’un tempo irrimediabilmente concluso dopo la scoperta dell’arido vero tornano in una prospettiva diversa, ma non per questo hanno mutato la funzione decisiva che assolvono nell’invenzione poetica. Come dimenticare del resto che la meditazione teorica leopardiana s’intensifica proprio in prossimità delle Ricordanze, a partire dall’autunno 1828? Le citazioni dallo Zibaldone potrebbero essere numerose, ma è sufficiente richiamarne alcune estremamente significative:

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22 ottobre 1828 […] quasi tutti i piaceri dell’immaginaz.[ione] e del sentim.[ento] consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente. 30 novembre All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.

Il suono di una campana il poeta l’avrà pur avvertito o immaginato nella sua prima età, ma è certamente intanto sorprendente scoprire qui che si tratta anche di un netto calco da Blair-Soave, in cui si legge: «Il cupo suono di una grossa campana è sempre un non so che di grande; ma quando s’ode nel più profondo silenzio della notte il divien doppiamente». Ancora in tema di memoria nell’anno 1828 un appunto del 14 dicembre recita: La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non p.[er] altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago.

E il 21 maggio 1829 Certe idee, certe immagini di cose supremam.[ente] vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommam.[ente], o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, pchè1[perchè] ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nra[nostra] fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie […]. Analizzate bene le vre2 [vostre] sensaz.[ioni] ed immaginaz.[ioni] più poetiche, quelle che più vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; 1 2

Con accento circonflesso sulla p. Nra e vre con accento circonflesso sulla r.

DI «ACERBO» E DEGLI «OGGETTI DOPPI»

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troverete che esse, e il piacer che ne nasce, (almen dopo la fanciullezza), consistono totalm.[ente] o principalm.[ente] in rimembranza3.

Come si vede, le osservazioni del ’21 sulla memoria, esaminate nel capitolo precedente, diversi anni dopo vengono sì confermate, ma al tempo stesso liberate da ogni vincolo, anche esilissimo, con sensazioni o percezioni ormai lontane nel tempo, e che pure erano ritenute reali. Si consideri infatti che nell’appunto del 16 gennaio 1821 si parlava di «rimembranza della fanciullezza […]», nel senso che «ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle circostanze. […] Una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica». Nelle annotazioni del ’28-’29, appena citate, non v’è traccia invece di immagini provate sensibilmente, per quanto antichissime; non v’è traccia cioè di ripetizione, ripercussione, riflesso della immagine antica, per usare le stesse parole dell’autore, perfettamente consapevole che le immagini sublimi e poetiche non sono state in realtà mai avvertite, ma solo sembrano essere state avvertite in un improbabile tempo favoloso della vita. Come dire che nel ’28-’29 la memoria viene a consolidarsi nell’autore dei Canti non più come mezzo (come ancora nel ’21), ma come scopo tra i massimi della poesia. Differenza non da poco; ma la funzione della rimembranza in poesia è proprio quella, necessaria e ineludibile, della finzione poetica (vv. 65-67 e 77-78 delle Ricordanze; corsivo mio): […] ameni inganni Della mia prima età! […] […] allor che al fianco M’era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov’io fossi. […]

Ameni inganni, possente errore: la lingua dei Canti presenta spesso peritissime acquisizioni e variazioni di termini topici che pur vengono da anni lontani. Su errore, in particolare, di semantica petrarchesca, si puntualizzerà meglio nel cap. X, ma si ricordi pure Nelle nozze della sorella Paolina: «[…] le beate / Larve e l’antico error, celeste dono, / Ch’abbella agli occhi tuoi 3

Zib., rispettivam. 4415, 4418, 4426 e 4513. Per la citazione da Blair-Soave si veda Lezioni di rettorica…, p. 54. Difficile documentare la tesi di Antonio Carrannante, I diletti del vero. Percorsi della poesia leopardiana tra filosofia e filologia, Pisa, ETS, 1987, pp. 163 sgg., secondo cui la memoria leopardiana, al di là delle apparenze, opererebbe in uno stato di attualità e nella condizione del presente.

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quest’ermo lido, / […]» (vv. 2-4, corsivo mio). Ed è in questo contesto altresì che vanno meditati alcuni passaggi zibaldoniani prima citati: «Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non gli oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione»; e ancora: «[…] il presente […] non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago»; e ancora, nella citazione successiva, come s’è visto, le immagini poetiche sono definite tra l’altro «chimeriche, impossibili […]», che «traggono fuor di voi stesso e del mondo reale […]». La poesia non fonda il suo metodo sul mondo reale, non sul presente, non sugli oggetti semplici, quelli avvertiti dai sensi, ma appunto su immagini chimeriche e impossibili. Ciò dimostra soltanto che il metodo leopardiano della poesia opera in direzione contraria alle verità della scienza filosofica o naturale. Non a caso, già nel 1821 il poeta aveva annotato: Quante grandi illusioni concepite in un momento o di entusiasmo, o di disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e sublimi verità […]. Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico […].

Erano già in questa asserzione del ’21 le premesse della sintomatica dichiarazione, posteriore di ben sette anni, sul primato della immaginazione e della invenzione: «Falsiss.[ima] idea,» – si legge nello Zibaldone del 29 agosto 1828 – «considerare e definir la poesia p.[er] arte imitativa […]. Il poeta immagina: l’immaginaz.[ione] vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il caratt.[ere] essenziale del poeta»4.

4

Zib., rispettivamente pp. 1855-56 (5-6 ottobre 1821) e 4358.

IX «TUTTO INTORNO UNA RUINA INVOLVE». IN VISTA DELLA GINESTRA

Gli studî testuali sul Leopardi lirico hanno già evidenziato in modo indubbio quali e quanti moduli stilistici e lessemi topici vengono ripresi dalle poesie della prima fase dei Canti e riscritti e reinnestati, pur in diversificati contesti di poetica, nei componimenti della maturità e in quelli dell’ultima fase. Del resto, una lettura analitica della tarda Ginestra rivela nella costruzione inventiva una non casuale cura per immagini estreme di distruzione e di rovina da parte di una natura cieca e orribile. Si vedano per esempio i seguenti versi (29-33 e 103-110): […]; e fur città famose Che coi torrenti suoi l’altero monte Dall’ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, […] […] eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest’orbe, promettendo in terra A popoli che un’onda Di mar commosso, un fiato D’aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì che avanza A gran pena di lor la rimembranza.

Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto, come si legge nell’autografo, dal 22 ottobre 1829 al 9 aprile 1830, Leopardi recupera i caratteri dell’infinito e dell’immensità come sublime già assunti nel suo

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sistema inventivo e linguistico sin dal ’21, tra L’infinito e La vita solitaria, e li recupera in funzione interrogativa sull’arcano della condizione umana, ancora e sempre in linea con la sua ricerca intellettuale e poetica – si ricordi – intorno al 1820, tra lo Zibaldone di quell’anno e la canzone Ad Angelo Mai: «[…] quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose […]»; «Il sentimento della nullità di tutte le cose […] e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo […]» (Zibaldone, tra marzo e luglio 1820); e in Ad Angelo Mai (vv. 36-38): «[…] tutto quanto io scerno / È tal che sogno e fola / Fa parer la speranza. […]». Naturalmente, a queste acquisizioni del ’20 se ne aggiungeranno in futuro delle ulteriori: «[…] questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo» (6 maggio 1825 a Giordani); oppure: la noia immortale, l’acerbo vero, questo arcano universo (Al conte Pepoli, vv. 72, 140, 148). Si comprende allora come Il canto notturno finisca per costituire un polo terminale, una sintesi mirabile, insieme a Le ricordanze, di processi inventivi già predisposti da tempo, con particolare riguardo all’infinito e all’immensità dell’universo come mistero, alla terribile noia, al volto non meno terribile del vero; e la luna, riferimento mitico e precocissimo nella poesia leopardiana, sempre appellata, com’è noto1, con aggettivi che insistono soprattutto sul candore, sull’aspetto virgineo e sull’apparire solitario, si pone al centro di interrogativi universali (vv. 87-92)2: Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? Che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; […].

Versi celeberrimi che riprendono in una fase estremamente avanzata ed evoluta la meditazione leopardiana del ’19 consegnata ai cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza, in cui era già predisposta la contrapposizione tra l’incommensurabile immensità del cosmo e la limitatezza estrema dell’uomo e del suo ambiente – «[…] mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il 1

Si veda in questo volume nel cap. I. La luna come interlocutore in un dialogo poetico non era topos sconosciuto già ai poeti idillici greci; si pensi al secondo idillio di Teocrito, Le incantatrici, v. 11, in cui il personaggio di Simeta si rivolge alla luna in modo confidenziale. «[…] a te in sordina canterò i miei incantesimi» (τdν γaρ ποταείσομαι Lσυχα, δαÖμον). 2

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niente di noi e di questa terra […]» –, contrapposizione che s’inscrive nel canone del sublime inteso come tensione della mente a oltrepassare i confini del cosmo, come avvertiva lo Pseudo-Longino (cap. XXXV) e per la quale nell’Infinito «per poco / Il cor non si spaura. […]». Quella tensione invece, nella versione del Canto notturno, maturato nell’assoluta necessità di coniugare l’acerbo vero col senso di smarrimento o sbigottimento che suggeriva il sublime dell’Anonimo, acquista l’intensità tutta nuova di un’interrogazione sentimentale e razionale al tempo stesso: «[…] che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?». Anche l’interrogativo alla greggia, beata perché ignora la condizione infelice degli esseri viventi, e il concetto di tedio (cioè la noia immortale dell’epistola al Pepoli) erano stati predisposti in anni precedenti. Per esempio, nello Zibaldone del 1819, in cui si abbozzava un verso simile a quello che riguarda la greggia nel Canto notturno: «Beati voi se le miserie vostre / Non sapete», con possibile riferimento, si precisava, «a qualche animale, alle api ec.»3. E alla beata incoscienza delle api accennerà pure alcuni anni dopo il personaggio autobiografico di Filippo Ottonieri: «Osservando […] certe api occupate nelle loro faccende disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità»4. E ancora: come già segnalato da Binni per i vv. 105-132 del Canto notturno, è evidente la reminescenza dalle Notti di Young (divulgate nella prosa italiana del Loschi alla fine del Settecento), in cui si leggeva: «[…] le tue greggie […]. Ahi la pace di cui godono esse, è negata ai loro padroni. Un tedio e una scontentezza che non dà mai tregua, rode l’uomo e lo tormenta da mane a sera»5; e il pastore leopardiano: O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. […] Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge 3 Già notato da O. Antognoni nelle sue note aggiuntive al già cit. commento ai Canti avviato da Straccali: si veda alla n. 3 del cap. VI. 4 G. Leopardi, Detti memorabili…, cit., p. 139. 5 W. Binni, Leopardi e la poesia del secondo Settecento, in Id., La protesta…, cit., p. 166.

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Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco.

Infine, in chiusura appare quel vero dal poeta più volte richiamato nei Canti (a cominciare dall’epistola al Pepoli). Sempre del Canto notturno si leggano i vv. 139-143: O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale.

Se si vuol dare alla raffigurazione della greggia una funzione di parabola o apologo, la differenza tra il Canto notturno e i due precedenti apologhi-idillî, come li definisce non a caso Fubini6, cioè La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, composti nella seconda metà del settembre 1829, in stretta successione, viene a ridursi notevolmente; tanto più che i rispettivi temi del piacer figlio d’affanno (La quiete, v. 32) e della speme e della gioia destinate a divenire diman tristezza e noia (Il sabato, vv. 39-40) sono rigorosamente preliminari alla scoperta del nulla, della noia e dell’acerbo vero. Il tema della Quiete era già emerso nello Zibaldone del 7 agosto 1822 (i «mali danno risalto ai beni, e […] più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta […]»); e il tema del Sabato, cioè il tema delle speranze illusorie, ma necessarie all’esistenza umana, si riconosceva già nello Zibaldone del 18 ottobre 1825: «[…] la speranza è una passione, un modo di essere […] inerente e inseparabile dal sentimento della vita […]. Io vivo, dunque io spero […]. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita»7. La scelta della poesia-apologo permette all’autore di recuperare il repertorio idillico solo in una dimensione metaforica; in questo caso il momento della tempesta, topos ormai noto, generato precocemente dall’immaginazione leopardiana. Dapprima la tempesta è superata dall’avvento del sereno, che «rompe là da ponente alla montagna» (La quiete, vv. 4-5) e per cui «Ogni cor si rallegra […]» (v. 8): modulo reiterato al v. 25, sempre della Quiete («Si rallegra ogni cor»), e ripreso, si noti bene, con una lieve variazione anche nel 6 G. Leopardi, Canti, con introduzione e commento di Mario Fubini, edizione rifatta con la collaborazione di Emilio Bigi, II edizione nuovamente riveduta e accresciuta, Torino, Loescher, 1997 (1.a ed. 1964), p. 189. 7 Zib., rispettivam. pp. 2601 e 4145-4146.

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Sabato (v. 23: «[…] il cor si riconforta»). Poi, più avanti, la tempesta riflette la condizione tormentata dell’umanità (vv. 37-41): […] in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudâr le genti e palpitâr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento.

Nel Sabato il sereno irrompe insieme «al biancheggiar della recente luna» e alla squilla come scenario rituale della «festa che viene; / […]» (vv. 17-21), ma il «giorno chiaro, sereno» del v. 46 non è che una metafora della festa (v. 50) che attende il garzoncello scherzoso, petrarchescamente ribattezzata età fiorita (v. 44)8. È difficile negare che negli anni 1829-’30 la conversione della lirica leopardiana verso moduli logico-argomentativi si presenti più rigida; specialmente nella transizione che è utile definire dal vero al male. Il male è già inserito nel razionale, negativo sistema del vero; così come v’è inserito anche il nulla, inteso, si rammenti, come una risultante filosofica dell’infinito; anzi, è lo stesso infinito. Concetti, l’uno e l’altro, già evidenti in alcune note del ’26: «Tutto è male. […] L’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male […]. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è […]». E ancor più avanti: «Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla»9. Ma quelle note, volte secondo l’autore a capovolgere l’assioma leibnitziano (tutto è bene10), assumono consistenza a partire appunto dal ’29, quando egli spiegherà che il male è dalla natura inscritto nell’ordine delle cose: 8

Si veda almeno: RVF CCLXXVIII, v. 1; CCCXV, v. 1 e CCCXXXVI, v. 3. Zib., pp. 4174 e 4178 (rispettiv. 22 aprile e 2 maggio 1826). 10 Zib., p. 4174: «Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz del Pope ec. che tutto è bene». È fin troppo scoperto in queste parole il riferimento alla Theodicea leibniziana, in cui in particolare si postula l’esistenza di una ragione per la quale la volontà divina non può in alcun modo essere supposta se non finalizzata al bene, anche quando incidentalmente tale volontà permette il male: si veda lo scritto Causa Dei asserta per justitiam ejus cum caeteris ejus perfectionibus cunctisque actionibus conciliatam in Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, herausgegeben von Carl Immanuel Gerhardt, Hildesheim, Georg Olms, 1960-1961 (reprint), vol. VI, p. 444. 9

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La natura, p.[er] necessità della legge di distruz.[ione] e riproduz.[ione], e p.[er] conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialm.[ente] regolarm.[ente] e perpetuam.[ente] persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni gen.[ere] e specie, ch’ella dà in luce […].

E circa un mese più tardi (corsivi dell’autore): […] Il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. […]. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. […]. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? […] Che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?11

È evidente in questi rilievi la radice di celebri versi (100-104) del Canto notturno, composto, com’è noto, tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830 (corsivo mio): Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male.

Sono motivi che qualche anno dopo verranno sostanzialmente riassunti in un testo allo stato d’abbozzo dedicato ad Arimane (probabilmente del 1833), in cui si delinea una vera e propria poetica della funzione eminentemente distruttiva della Natura: «Re delle cose, autor del mondo, arcana / Malvagità, sommo potere e somma / Intelligenza, eterno dator de’ mali e reggitor del moto […] produzione e distruzione ec. per uccider partorisce ec. sistema del mondo, tutto patimento. Natura è come un bambino che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: amore. […]. Perchè, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? l’amore?... per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri, e del tempo nostro passato ec.? […]. Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte»12. 11 12

Zib., pp. 4485 e 4511 (rispettivam. 11 aprile e 17 maggio 1829). Si veda G. Leopardi, Tutte le opere, cit., vol. I, p. 350. Il sostantivo patimento nella citazione

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Se questo abbozzo risale quasi certamente al 183313, è probabile che tale anno possa pure costituire termine post quem per datare la Palinodia al marchese Gino Capponi14 dal momento che in essa torna il paragone della natura distruttiva con un fanciullo capriccioso e dai modi inconsulti: «[…] la natura crudel, fanciullo invitto, / Il suo capriccio adempie, e senza posa / Distruggendo e formando si trastulla» (vv. 170-172). In ogni caso le veloci annotazioni dell’abbozzo dell’inno ad Arimane preludono a puntuali riscontri nella Ginestra (che risale, com’è noto, all’ultimo anno di vita del poeta): si pensi allo sterminator Vesevo (v. 3) e ai versi (202 e s. e 240 e s.) dedicati alla furia distruttiva della natura, ora nella figura di un pomo maturo che, staccandosi dal ramo dell’albero, uccide un popol di formiche, ora in quella del vulcano; o si pensi anche alla evidentissima ripresa testuale tra il per uccider partorisce nell’abbozzo dell’inno e la madre di parto e di voler matrigna: invenzioni esemplificative e analogiche dell’assunto poetico della Ginestra, in cui pure si scopre il poeta nel momento del recupero o della riscrittura o della riconversione di intuizioni e metafore risalenti a sue esperienze di scrittura anche diverse, anche molto lontane nel tempo, con una ricerca stilistica e immaginativa persistente e molto resistente negli anni: basti pensare all’immagine del pomo maturo staccato dall’albero e precitato su un popolo di formiche che il poeta ottiene semplicemente col capovolgimento di un’altra sua intuizione analogica finalizzata a un’altra tematica, quella della morte molto prematura, manifestata ben 17 anni prima nei cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza. Acerbi e immaturi frutti colti prematuramente, come giovani esseri crudelmente strappati alla vita: mio dolore in veder morire i giovini come a veder bastonare una vite carica d’uve immature ec. una messe ec. calpestare ec. […]. […] mi duole veder morire un giovine come segare una messe verde verde o sbatter giù da un albero i pomi bianchi ed acerbi; […].15

Ma, per restare alla Ginestra, si leggano i vv. 111-125, in cui la natura medesima viene assunta come espressione del male e unica responsabile dell’infelicità umana: Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce scioglie un’abbreviazione seguita da punto. 13 Si veda U. Bosco, Titanismo e pietà..., p. 77. Il riferimento di datazione è alla frase: «Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ec. concedimi ch’io non passi il 7° lustro». 14 Per Bosco (ivi, p. 62) sarebbe del ’35. Ma è ipotesi non certificabile con sicurezza. 15 G. Leopardi, Scritti e frammenti…, cit., pp. 99 e 107.

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Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che […] […] […] dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna.

A parte l’evidente reminiscenza lucreziana (il coraggio di Epicuro di fronte alla superstizione: De rer. nat., I, vv. 66-67) e i vv. 118-119 («Quella che grande e forte / Mostra sé nel soffrir […]»), e a parte l’evidente aggancio col Preambolo alla traduzione, eseguita alla fine del 1825, del Manuale di Epitteto, in cui si legge tra l’altro che «è proprio degli spiriti grandi e forti […] il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino […]»16, la natura prefigurata nella Ginestra, pur nel pervertimento delle sue funzioni, è collegata tuttavia da Leopardi ancora all’antico canone del sublime inteso come smarrimento della mente di fronte all’intuizione di un universo tanto spaventoso nella sua terribile immensità quanto misterioso. Anzi, nei versi iniziali della IV stanza, Leopardi, proprio di fronte a questa intuizione, ripropone, sia pur variata – seggo, veggo, miro (vv. 161, 163, 174) – il sintagma del sedendo e mirando dell’Infinito (vv. 158193, corsivi miei): Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch’a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente, a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz’alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo 16

G. Leopardi, Tutte le opere, cit., I, p. 492.

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E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell’uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell’universe cose Scender gli autori […].

La citazione più ampia possibile di questa stanza era inevitabile per evidenziare come nella sua struttura la funzione reggente dei verbi sedere, vedere e mirare al cospetto dell’immensità dell’universo sia assimilabile, come s’è detto, alla situazione poetica del giovanile Infinito, salvo l’insistenza, nei versi della Ginestra, sul rapporto incommensurabile tra condizione umana e terrena e vita dell’universo, già tema di tradizione classica (Leonida da Taranto, Plutarco, Seneca): le lontane stelle che «sembrano un punto, / E sono immense, in guisa / Che un punto a petto a lor son terra e mare». Sono considerazioni che investono anche Il coro dei morti 17 e che presentano pure alcuni inconfondibili preannunci proprio nel lontano anno di composizione dell’Infinito, cioè nel 1819, se è vero che nei già menzionati Ricordi (cfr. cap. IV, n. 9) si leggeva tra l’altro: «[…] mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo […]». «[…] Questo globo ch’è un nulla nel mondo», scriveva nel ’19; e nel ’36: «[…] questo / Globo ove l’uomo è nulla, / Sconosciuto è del tutto […]»: 17

Osserva De Robertis che «l’idea della vita sospesa tra due infiniti aveva trovato voce in un epigramma di Leonida di Taranto che Leopardi avrebbe potuto leggere nell’a lui ben nota, ma non sappiamo se accessibile, Anthologia graeca, e di cui non avrebbe potuto non colpirlo quel cominciare con la parola Μυρ›ος» (D. De Robertis, Leopardi…, cit., p. 164). Ma nell’Antologia graeca, nello stesso luogo citato da De Robertis (Anthol. gr. VII, 472, vv. 1-6), si dice anche che quanto resta della vita è solo un punto, στιγμ‹, e persino qualcosa di più insignificante di un punto: e sarebbe forse allora più naturale pensare pure a un punto di luce nebulosa, di cui si legge in La ginestra (vv. 182-183).

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simili riscontri di intertestualità interna ci rendono avvertiti come Leopardi abbia perseguito assai da lontano l’elaborazione sempre più ardua del suo linguaggio poetico, fissandone tenacemente nel tempo i tópoi qualificanti e i caratteri stilistici e semantici fondamentali. Nel quadro accentuatamente negativo del passaggio dal vero al male la lunga, instancabile osservazione leopardiana del cosmo e della natura, pur nei suoi aspetti sempre più terribili e imperscrutabili, continua a mantenere inalterata la sua forza di attrazione poetica proprio perché legata per intero e senza soluzione di continuità al processo della sua formazione letteraria. Nel caso della stanza della Ginestra ampiamente citata, la sproporzione massima tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo deve comunque prendere le mosse da lontano, dal noto canone del sublime, delineatosi alla mente del poeta nella stagione dell’Infinito, come s’è dimostrato, e più in generale dei primi idillî: «purissimo azzurro»; «lo vòto seren»; «[…] un punto a petto a lor son terra e mare […]»; «[…] remoti / Nodi quasi di stelle, / Ch’a noi paion qual nebbia […]»; «un punto / Di luce nebulosa […]», su cui mi sono già soffermato nel capitolo quarto. Riscontri, questi, che non devono però far dimenticare il contesto logicoargomentativo e gl’interrogativi universali dell’ultimo Leopardi, che, nell’opporre immensità dell’universo e piccolezza e limitatezza dell’uomo, ricalcano – si noti bene – moduli già sperimentati nel Canto notturno: «[…] / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? Che vuol dir questa / Solitudine immensa? Ed io che sono? / Così meco ragiono […]» (vv. 86-90); e nella Ginestra: «[…] e quando miro / Quegli ancor più senz’alcun fin remoti / Nodi quasi di stelle, / Ch’a noi paion qual nebbia, […] / […] / […] al pensier mio / Che sembri allora, o prole / Dell’uomo? […]» (vv. 174-177 e 183-185). Quelle immagini sublimi, tuttavia, assumono in questa fase poetica estrema soprattutto una funzione mitica: immagini favolose e irraggiungibili, ma, a differenza delle fasi precedenti, ormai definitivamente prive di ogni possibile nutrimento affettivo, che legava il poeta alle illusioni e ai dolci inganni. Di quel nutrimento affettivo resta solo nell’ultimo Leopardi un tentativo di recupero estremo; e dico estremo non a caso, ma pensando all’inganno estremo di A se stesso, cioè all’amore (vv. 1-3): Or poserai per sempre, Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, Ch’eterno io mi credei. Perì. […]

Si faccia attenzione perché l’incipit di A se stesso, componimento del ’31, «[…] / Ch’eterno io mi credei. […]», si rivela anello intermedio tra l’incipit

«TUTTO INTORNO UNA RUINA INVOLVE»

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del Risorgimento e l’explicit della Ginestra. Nel componimento pisano del ’28 si leggeva: Credei ch’al tutto fossero In me, sul fior degli anni, mancati i dolci affanni Della mia prima età: […].

Gli ultimi versi della Ginestra, con riferimento proprio al fiore del deserto recitano invece: […] Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell’uom, quando le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali.

È evidente che il punto di snodo risolutivo tra i tre luoghi citati è costituito dalla ripresa non casuale del verbo credere: la ginestra, più saggia e tanto meno inferma dell’uomo, non ha mai creduto, non si è mai affidata all’estrema fragilità del destino dei viventi. Allo stesso poeta nel Risorgimento, ancora ben oltre il citato incipit, destava stupore l’improvviso richiamo dei dolci affanni, dei teneri moti del cor profondo, degli usati palpiti. È uno stupore però di cui in A se stesso non solo non c’è più traccia, ma di cui viene con massima consapevolezza e forza ribadita l’impossibilità; quella consapevolezza che si connota nella Ginestra come autentica saggezza.

X SIMMETRIE E PROCESSI COMPOSITIVI NEI CANTI FIORENTINI. LA PARTE DI PETRARCA

Il legame tra amore e morte, che, come aveva già visto D. De Robertis, è un reiterato topos della poesia del Duecento1, nel ciclo fiorentino si basa sul fatto che due entità si oppongono per vie diverse all’indifferente e crudele natura: l’amore come unica, possibile fonte di felicità rispetto alla sventurata condizione umana; la morte identificata dai giovani come unica forma di consolazione, mentre «tutte le altre età ammettono la consolazione o filosofica, o qualunque»2. Questa ulteriore precisazione, espressa nel 1820, è importante anche per illuminare il rapporto tra amore e morte affrontato dal poeta in anni successivi; in particolare in alcuni versi iniziali del Consalvo (corsivo mio): «[…] / Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo / Del suo destino: ora già non più, che a mezzo / Il quinto lustro, gli pendea sul capo / Il sospirato obblio. […]». Il protagonista anelante al sospirato obblio, cioè alla morte, è appunto un giovane di quattro lustri e mezzo, cioè di appena ventidue anni e mezzo, ma questa lezione era stata modificata rispetto alla lezione base dell’autografo napoletano (AN), in cui infatti si legge prima innanzi / Al mezzo di sua vita e poi avanti / Del mezzo di sua vita. L’intento di retrodatare il canto di Consalvo alla stagione dei primi idillî, nella quale non a caso cade pure l’asserzione zibaldoniana citata, induce pure alla correzione e alla retrodatazione dell’età del protagonista, operata per mano di Ranieri, prima della Starita: avanti / Del quinto lustro appena, lezione penultima, questa, prima della lezione definitiva. 1

Si veda ad locum nel già cit. commento di Giuseppe e D. De Robertis in cui si menziona un noto incipit di Guittone, Amor dogliosa morte si po dire (Rime, CCXXXVII). 2 Zib., p. 302 (3 Novembre 1820).

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L’episodio spiega certamente anche la regressione di Consalvo nei Canti rispetto all’ordine occupato da altri componimenti fiorentino-napoletani, e cioè Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso e Aspasia, in cui pure il tema del rapporto tra due entità assolute come l’amore e la morte trova ulteriori sviluppi, a cominciare dal rilievo esplicito dato, rispetto al Consalvo, a un’idea dell’amore sublimata e intesa come dolce pensiero (Il pensiero dominante, vv. 88-94): Per còr le gioie tue, dolce pensiero, Provar gli umani affanni, E sostener molt’anni Questa vita mortal, fu non indegno; Ed ancor tornerei, Così qual son de’ nostri mali esperto, Verso un tal segno a incominciar il corso: […].

Ed ancor tornerei: una speranza illusoria, certamente, che però trova recisa, negativa risposta in Consalvo («[…]. Passato è il tempo, / Né questo dì di rimemorar m’è dato», vv. 142-143) e in A se stesso ( «[…]. Perì l’inganno estremo, / Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, / In noi di cari inganni, / Non che la speme, il desiderio è spento», vv. 2-5). Sono oscillazioni di messaggio poetico che nei canti fiorentini comunque ruotano intorno al binomio di amore e morte. Scrive il poeta a Fanny Targioni Tozzetti il 16 agosto 1832: «[…] Certamente l’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l’amore fa l’uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né degne dell’uomo»3. I ruoli strettamente complementari dell’amore e della morte sono esplicitati già nell’incipit di Amore e Morte: Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle 3

G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1389. Angiola Ferraris nel suo pregevole lavoro L’ultimo Leopardi (Torino, Einaudi, 1987, p. 41) identifica i soggetti d’amore e morte nella rappresentazione leopardiana nella categoria del mito. Questi miti tuttavia – mi sia concesso di correggere – sono comunque raffigurati nelle forme topiche di un linguaggio maturato e sedimentato nel tempo e non sono nati con l’ultima stagione dell’autore. Solo come riflesso lessicale, senza alcuna incidenza sulla poetica leopardiana di amore e morte, si veda anche Petrarca, RVF, XL, vv. 1-2: «S’Amore o Morte non dà qualche stroppio/ a la tela novella ch’ora ordisco, / […]».

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Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, Nasce il piacer maggiore Che per lo mar dell’essere si trova; L’altra ogni gran dolore Ogni gran male annulla.

Si noti la ripresa anaforica di gran dolore e gran male ai quali l’uomo viene sottratto solo dalla morte liberatrice: una tesi – ha già notato Blasucci4 – in comune solo con un altro testo leopardiano, Dialogo di Tristano e di un amico. Sarebbe il caso di precisare che detto Dialogo, ultima delle Operette morali, risale allo stesso anno, 18325, di Amore e morte; e dunque la concezione della morte liberatrice che vi si riflette vien indiscutibilmente a radicarsi nel poeta nel suo periodo fiorentino. Ha ragione allora la Ceragioli a scrivere che «solo a Firenze la morte assume i luminosi caratteri che da dolorosa condanna la fanno assurgere a creatura divina che trae le proprie qualità da un legame fraterno con amore»6. In Consalvo, probabilmente elaborato di lì a poco (anche se collocato, s’è detto, ben prima nell’ordine dei Canti), questo rapporto viene argomentato in due proposizioni distinte, ma consequenziali: nell’una si segnala lo stato di totale soggezione dell’innamorato, «[…]. Così l’avea / Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore», e nell’altra il miracolo della morte che «ruppe […] il nodo antico / Alla sua lingua. […] » (vv. 22-25). E congiunti restano, infatti, l’uno e l’altra nella passione del cuore di Consalvo «che gli ultimi battea / Palpiti della morte e dell’amore, / […] » (vv. 79-80); congiunti, fino a richiamare quasi le stesse parole dell’appena citato incipit di Amore e morte (vv. 99-102): […]. Due cose belle ha il mondo: Amore e morte. All’una il ciel mi guida In sul fior dell’età; nell’altro, assai Fortunato mi tengo. […].

È evidente che queste due assolute entità si rivelano una risorsa estrema per la sopravvivenza, non meno estrema, di un metodo e di una vocazione alla poesia. Caduta da tempo definitivamente l’operatività delle rimembranze, delle illusioni, delle finzioni – la natura serena o terribile, ma sempre subli4

L. Blasucci, I tempi dei “Canti”. Nuovi studi leopardiani, Torino, Einaudi, 1996, p. 157. Fiorenza Ceragioli, I Canti fiorentini di Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki, 1981, p. 24 s. 6 Ivi, p. 26. 5

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me e arcana –, cadute le risorse del patetico, il poeta tenta di recuperare ancora nell’amore e nella morte le condizioni di un idillio quasi impossibile; tentativo che in Aspasia, componimento databile al 1834, tocca accenti molto significativi, anche per l’intento dell’autore di riportare alla sua misura immagini e registri stilistici di derivazione petrarchesca, ma anche stilnovistica, in particolare cavalcantiana,7 che, al di là dei dati intertestuali in sé e per sé, riscontrabili anche in qualche puntuale commento (in particolare quelli curati dai De Robertis o quello curato da Franco Gavazzeni e Maria M. Lombardi), interessano soprattutto come segnali che il Recanatese riconverte in specifiche ragioni di poetica, che in Aspasia particolarmente, ma non esclusivamente, viene a sviluppare con tutte le opportune risorse dell’invenzione: il vagheggiamento di una superba vision (v. 8), non in senso platonico8, come nel componimento Alla sua donna, ma nel senso di un sogno interiore avvertito in modo profondamente reale e tuttavia di fattura non umana, non mortale, non terrena. Sul tessuto compositivo del canto, richiamando anche luoghi degli altri canti del suddetto ciclo, vanno a questo punto individuate – e in forme trasversali a tutti i testi di questo ciclo, si noti bene, al di là dunque di pur importanti differenze di poetiche tra gli stessi –, forme stilistiche e aggregazioni semantiche funzionali ai motivi costanti che connotano il binomio leopardiano di amore e morte, che a loro volta si articolano in specifiche componenti, distinte, ma complementari e reciprocamente correlate: in particolare, la condizione di solitudine o d’isolamento rispetto al mondo dei viventi, il recupero dei peculiari significati di stupore o sbigottimento riferiti a una parola-chiave come spavento (si veda in questo volume al capitolo V), le visioni di paradisiaca bellezza, che in Aspasia (vv. 6, 35 e 68) si accompagnano pure a una celestiale musica e che non sono da intendere come idealizzate in senso platonico, bensì come terribile, ma caro dono del ciel (Il pensiero dominante, vv. 3-4) o alto mistero d’ignorati Elisi (Aspasia, v. 36), come un provvidenziale barlume d’immortalità in diretta contrapposizione con l’infelice destino dei mortali e infine il fier disio di morte come unica 7

Per il Pensiero dominante, per esempio, concordo con De Robertis, il quale pone nel suo commento tra i modelli soprattutto quello cavalcantiano: si veda nel citato commento di G. e D. De Robertis, p. 353 s. Sempre D. De Robertis, Leopardi…, cit., p. 313, n. 92, per il leopardiano dolce pensiero (si veda la relativa citazione prima riportata dal testo del Pensiero dominante) richiama Lapo Gianni (ball. Dolc’è il pensier) e Guido Cavalcanti (ball. La forte e nova mia disavventura, v. 3). Sulla presenza di influssi stilnovistici, e soprattutto cavalcantiani, torna anche Emilio Pasquini, Il pensiero dominante, in Lectura leopardiana. I quarantuno ‘Canti’ e “I nuovi credenti”, a c. di Armando Magliano, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 489-502. 8 L. Blasucci, I tempi dei “Canti”…, cit., p. 62 s.

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via d’uscita: «[…] per cagion di lei grave procella / Presentendo in suo cor, brama quiete, / Brama raccorsi in porto / Dinanzi al fier disio, / Che già, mugghiando, intorno intorno oscura» (Amore e morte, vv. 40-44). E procella – quiete – porto è triade che ricalca con evidenza quella petrarchesca, tempesta – pace – porto: «[…] s’io vissi in guerra et in tempesta, / mora in pace et in porto; […] » (RVF, CCCLXV, vv. 9-10). Il tema del desiderio di morte assimilato all’approdo in un porto di pace è ripreso anche nella prima sepolcrale leopardiana9. Ma per restare ai canti fiorentini, i maggiori temi fin qui impostati sono condensati e riconoscibili già nei primi otto versi di Aspasia, in cui l’innamorato esterna il suo pensiero d’amore: Torna dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al dì sereno, alle tacenti stelle, Da soave armonia quasi ridesta, Nell’alma a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge.

Torna dinanzi al mio pensier talora il tuo sembiante è evidente riscrittura, tra l’altro, di un verso di Alla sua donna: «[…] / Se vera e quale il tuo pensier mi pinge» (v. 25), ma anche di un luogo di Amore e morte (vv. 37-39): «[…] quella / Nova, sola, infinita / Felicità che il suo pensier figura: / […]», in cui opera pure il ricalco petrarchesco: «[…] l’imagine […] di quel giorno /che ‘l pensier mio figura […]» (RVF CXVI, vv. 13-14). Ma Torna dinanzi, si noti, era stato già anticipatamente preparato da un altro incipit, quello del giovanile Primo amore, «Tornami a mente il dì […]», testuale ripresa a sua volta ancora di Petrarca e di un petrarchista arcade come Zappi10. Del resto, a insegnare a Leopardi la qualità tutta interiore dell’immagine era stato proprio Petrarca (si pensi anche a «L’amoroso pensero / ch’alberga dentro […]», RVF LXXI, vv. 91-92): constatazione, questa, che, con riferimento all’incipit di Aspasia, di un testo cioè della fase leopardiana matura, contraddice quanto il poeta aveva scritto anni prima all’editore Stella: «Il 9

Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 64-74. Riprese già segnalate da D. De Robertis nel suo commento: si vedano rispettivamente gli incipit di RVF CCCXXXVI – Tornami a mente, anzi v’è dentro, – e del sonetto di Zappi La partenza inserito da Leopardi al n. CXIII nella sua Crestomazia, Tornami a mente quella trista e nera: si veda ora in G. Leopardi, Crestomazia italiana. La poesia, Introduzione e note di Giuseppe Savoca, Torino, Einaudi, 1968, p. 200. 10

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platonismo […] del Petrarca a me pare una favola, poiché più d’un luogo de’ suoi versi dimostra evidentissimamente che il suo amore era come quello di tanti altri, sentimentale sì, ma non senza il suo scopo carnale»11. E anche con la ripresa dello stesso verbo e soggetto del Pensiero dominante (v. 6: «[…] / Pensier che innanzi a me sì spesso torni»; ma si veda pure dolce pensiero ai vv. 88 e 110; e ancora dolce, riferito a pensiero al v. 14712), si resta in area petrarchesca; e non solo per la semantica specifica, appunto, di pensiero come sentimento d’amore, che pure resta notevolissima anche al di fuori dei canti fiorentini, come mostrano i vv. 14, 16, 31 e 101 di Il primo amore, il v. 21 di La sera del dì di festa, il v. 25 di Alla sua donna, il v. 28 di A Silvia o il v. 138 di Le ricordanze o il v. 13 della seconda traduzione simonidea, inserita nei Canti (XLI: Dello stesso). Naturalmente Petrarca va richiamato anche per lampeggiare e per deserti campi, poiché i versi di Aspasia prima citati, «[…]. O fuggitivo / Per abitati lochi a me lampeggia / In altri volti; o per deserti campi, / […]» riflettono una contaminazione tra il celebre incipit di RVF, XXXV e il v. 6 di RVF, CCXCII: «[…] ’l lampeggiar de l’angelico riso, / […]». E lampeggiare preannuncia pure il vivo sfolgorar degli sguardi dell’amata al v. 55 (a sua volta possibile reminiscenza del folgorar RVF, CXCVII, v. 8 o di CCXXI, v. 10, o del folgorando di RVF, CCLVIII, v. 2). Sono da notare tuttavia la coppia di verbi, tornare / risorgere e di sostantivi, sembiante / vision, concepiti con significato identico: dapprima torna, reggente di sembiante, e poco dopo risorge, reggente di superba vision. L’agognata vista, però, sembiante o vision che sia, non si mostra stabile («[…] fuggitivo / Per abitati lochi a me lampeggia / In altri volti […]») e l’anima del poeta, «da soave armonia

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G. Leopardi, Epistolario, cit, vol. I, p. 1237 (13 settembre 1826). Per il sintagma si veda anche dolci pensieri al v. 13 di Frammento XLI e F. Petrarca, RVF, CLXVIII v. 1 e XXXVII, v. 36. Al maggior Petrarca in volgare, non si dimentichi, Leopardi aveva dedicato un commento pubblicato a Milano, presso l’editore Stella nel 1826: Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi. Al modello petrarchesco, in particolare alla canzone Nella stagion che ’l ciel rapido inchina, Carrai riconduce il Leopardi dell’ultimo periodo recanatese: Stefano Carrai, Leopardi e il modello petrarchesco, cit. Lemmi indicativi di origine cortese o petrarchesca rintracciabili in tutto l’arco dei Canti di tanto in tanto si presentano anche in coppia. Per esempio, sogno e fola (Ad Angelo Mai, v. 37), che riecheggiano Tr. Cupidinis, IV, v. 66: sogno d’infermi e fola di romanzi; sollazzo e riso (Il passero solitario, v. 18), termini tipici della tradizione cortese: su cui si veda Julius A. molinaro, A Note on Leopardi’s ‘Passero solitario’, in “Studies in Philology”, LXIV (1967), pp. 640-653) e D. De Robertis, Leopardi…, cit., p. 309 s.; riso e trastullo (Le ricordanze, v. 32), che richiamano i vv. 9-10 di RVF I, che Leopardi aveva già chiosato come segue: «Per lungo tempo fui materia di discorso e di riso alla gente»: cfr. L. Barbieri, Sul Leopardi interprete delle ‘Rime’ petrarchesche, cit., p. 112. 12

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quasi ridesta, / […]», è vicina a sgomentarsi, verbo da intendersi nell’accezione leopardiana, s’è detto, di grande stupore o sbigottimento, come in Consalvo (vv. 89-91): «[…]. Assai palese / Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi, / Ti fu. […]». Nei canti fiorentini non manca nessuna delle componenti sopra evidenziate, perché anche la prima, vale a dire lo stato di solitudine e d’isolamento, non esplicitato nei versi in esame, è finemente e abilmente evocato dal poeta con l’innesto dei petrarcheschi deserti campi che attraggono inevitabilmente il sintagma che precede, appunto: solo e pensoso. In solitudine con i proprî pensieri: una condizione espressa in un appunto zibaldoniano quasi certamente del ’19 (già citato nel cap. VI): Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo […]. Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo così potentemente da tutte le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza dell’oggetto amato […]13.

Questa diagnosi zibaldoniana troverà conferma in ulteriori versi di Aspasia (vv. 33-43), in cui l’amante è rapito nel senso, appunto, che il suo animo è astratto da tutto ciò che lo circonda, ma viene anche precisato che lo stesso amante, in stato di confusione, una stessa figura femminile crede di poter contemporaneamente vagheggiar ed amar, cioè contemplare idealmente e amare sensualmente. L’amorosa idea, invece, va distinta dalla figura di una donna reale; essa è infatti proiezione unilaterale e solitaria della sua mente (la figlia della sua mente, l’amorosa idea), quella mente che non a caso – s’è già visto nel capitolo sesto – nel Pensiero dominante è fatta solinga (solitaria, appunto): «Come solinga è fatta / La mente mia d’allora / Che tu quivi prendesti a far dimora!». Si legga: Raggio divino al mio pensiero apparve, Donna, la tua beltà. Simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi, Ch’alto mistero d’ignorati Elisi Paion sovente rivelar. Vagheggia Il piagato mortal quindi la figlia 13

Zib., p. 59. Pur con funzioni diverse rispetto al contesto della mia analisi, questo luogo zibaldoniano era già stato segnalato per primo da Bonora: E. Bonora, Leopardi e Petrarca, cit., p. 263.

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Della sua mente, l’amorosa idea, Che gran parte d’Olimpo in se racchiude, Tutta al volto ai costumi alla favella Pari alla donna che il rapito amante Vagheggiar ed amar confuso estima.

Va notata al primo verso la ripresa quasi letterale dei precedenti vv. 26-28: «[…]. Apparve / […] quasi un raggio / Divino al pensier mio». E va notata altresì la ripresa non casuale, a breve distanza, del verbo vagheggiare: «[…]. Vagheggia / Il piagato mortal […]» e «[…] donna che il rapito amante / Vagheggiar ed amar confuso estima». Vagheggiare, in netta alternativa al sensuale amar, esprime il puro, idealizzato contemplare, da parte dell’amante colpito al cuore (piagato mortal), dell’idea stessa di bellezza che innamora e che si fa avvertire anche nella forma di musicali accordi, come perfetta armonia musicale, da intendere – eventualmente adattando una reminiscenza petrarchesca qui solo latente – come espressione di linguaggio non mortale, il solo adeguato a una natura divina14. Motivo, questo, della superiorità del linguaggio musicale, già avvertito dal poeta in anni lontani: «[…] principio del mondo (ch’io avrei voluto porre in musica non potendo esprimere queste cose ec. ec. […])»15. Motivo non a caso ribadito poco più avanti (vv. 67-70): […]. In simil guisa ignora Esecutor di musici concenti Quel ch’ei con mano o con la voce adopra In chi l’ascolta. […]

Chi ascolta è presumibilmente lo stesso poeta, il quale, per esempio, in un luogo dei Ricordi d’infanzia, parla di «effetti della musica da lui sentita nel giardino […]»16. E vagheggiare è pure verbo che giustifica tutte le proprietà sovrannaturali dell’amore inteso come raggio divino e come idea, che gran parte d’Olimpo in se racchiude. Ed è evidente che l’amorosa idea riguarda una bellezza idealizzata un tempo, Diva appunto, e ora divenuta cosa morta nel cuore dell’amante (vv. 77-79):

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Alludo almeno a RVF, CCXLVII, vv. 12-13: «Lingua mortale al suo stato divino / Giunger non pote». Divino stato, si noti, è sintagma leopardiano: si veda Amore e morte, v. 101. Quanto a lingua mortale, si veda, ancora Leopardi, in A Silvia, vv. 26-27: «Lingua mortal non dice / Quel ch’io sentiva in seno». 15 G. Leopardi, Ricordi…, cit., p. 360 e in Id., Scritti e frammenti…, cit., p. 56. 16 Ibidem.

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Pur quell’ardor che da te nacque è spento: Perch’io te non amai, ma quella Diva Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

Solo a quella Diva s’attaglia celeste beltà (v. 81), che in Consalvo (v. 67) è variata in volto celeste 17; solo per lei il poeta amante ha accettato di essere ingannato dal piacere di quella dolce somiglianza (vv. 86-87), da quella finta imago (v. 132), come è detto nel Pensiero dominante, che pur si contrappone alla sovrana imago […] bella qual sogno e alla angelica sembianza (vv. 140-142). Se ora quella Diva è fatta sepolcro, ciò si deve pure alla successiva constatazione (vv. 106-108) che «[…] se d’affetti / Orba la vita, e di gentili errori, / È notte senza stelle a mezzo il verno, / […]». È questa una sequenza del Pensiero dominante, in cui non solo l’ultimo verso riecheggia, sia pur in senso mutato, un emistichio di RVF CLXXXIX (v. 3), ma in cui pure viene rimodulata un’ulteriore citazione petrarchesca: infatti i vv. 121-122, «[…] a vivi segni dentro l’alma io sento / Che in perpetuo signor dato mi sei» –, riecheggiano scopertamente RVF, CCXXXIX, vv. 4-5: «[…] i pensier’ dentro a l’alma / Mover mi sento […]». Le riprese petrarchesche nel laboratorio dei canti fiorentini sono molto frequenti. In Aspasia (vv. 101 s.) un vero e proprio incantesimo è caduto dopo un lungo vaneggiar: «Cadde l’incanto, / E spezzato con esso, a terra sparso / Il giogo: […]. […] / […] dopo / un lungo vaneggiar, contento […]». Se per cadde l’incanto il riferimento va al Pensiero dominante (vv. 101103: «[…] che paradiso è quello / Là dove spesso il tuo stupendo incanto / Parmi innalzar! […]»), col verbo vaneggiar la connotazione petrarchesca (RVF, I, v. 12) esce confermata anche in un contesto semantico leopardiano. Ed eminentemente petrarchesco è l’aggettivo angelica, anche se il Recanatese, a maggior ragione nei suoi canti fiorentini, l’assume come iperbole che idealizza un sogno sensuale: lo si nota ancora in Aspasia ai vv. 44-45, allorché il poeta innamorato accenna alla donna platonicamente vagheggiata, che egli «[…] / ancora / Nei corporali amplessi, inchina ed ama» (in RVF CCXXVIII, 14: «[…] / l’adoro e ’nchino come cosa santa»)18. Sempre sull’aggettivo angelica si veda pure: «A quella voce angelica […]» (Consalvo, 17

A differenza di quanto suppone la Ceragioli, volto celeste in Consalvo resta in ogni caso un’astrazione, come celeste beltà del Pensiero dominante: si veda F. Ceragioli, I Canti fiorentini…, cit., p. 155. 18 Nella forma riflessiva, il verbo inchinarsi è usato invece in un contesto del tutto diverso, con riferimento al poeta che si rivolge alla Bella Morte: «[…] Non tardar più, t’inchina / A disusati preghi, / Chiudi alla luce omai / Questi occhi tristi […]» (Amore e morte, vv. 104107).

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v. 139), «[…] / […] de la voce angelica soave» (RVF, LXIII, v. 7); «Angelica beltade!» o «[…]/ Angelica sembianza, / […]», «[…] a me si offerse / L’angelica tua forma […]» (rispettivam. Il pensiero dominante, vv. 130 e 142, e Aspasia, vv. 17-18), «[…] inver l’angelica beltade / […]», «[…] d’angelica forma […]», «[…] / l’angelica sembianza», o ancora «L’angelica sua forma è in paradiso, / […]» (rispettivamente RVF LXX, v. 49 e XC, v. 10, CCLXX, v. 84 e LXVIII, v. 37). Pur alcuni già noti ai commentatori, tutti questi riscontri si è cercato di coordinare e collegare in un sistema di significati poetici inconfondibili, che il poeta costruisce in modo specifico nel linguaggio del ciclo di Amore e morte. E richiamerei pure (p. 51 s. del vol. già cit.: cfr. n. 20 del cap. VI) l’analisi di Marti, il quale, nel proporre di datare una sepolcrale leopardiana, Sopra il ritratto, successivamente, sia pur di poco, alla composizione di Aspasia, sottolinea – tra l’altro – non solo qualche ripresa testuale ravvicinata, come musici concenti della stessa Aspasia (v. 68) e dotto concento della sepolcrale (v. 42), ma anche la ripresa della distinzione «fra la figlia della propria mente, l’amorosa idea, e la donna reale; tra l’Aspasia morta e l’Aspasia ancor viva, che palpita negli sciolti […]»; e che torna in Sopra il ritratto (vv. 34-38): […] quel che fu dianzi Quasi angelico aspetto, E dalle menti insieme Quel che da lui moveva Ammirabile concetto, si dilegua.

E se l’angelico aspetto non è che la petrarchesca angelica vista (RVF CXXIII, v. 9: «Ogni angelica vista, ogni atto humile / […]»), sotto il segno del Petrarca delle rime operano altri tópoi importanti come sogno ed errore, che ripropongono referenti semantici e stilistici ormai di lunga data nell’altrettanto lunga ricerca poetica leopardiana, in quanto risalgono al periodo dei primi idillî, e in particolare al fatidico 1819, di cui s’è già detto in questo volume. Per il motivo del sogno infatti basti pensare all’idillio omonimo (in un primo tempo, si rammenti, definito un’elegia); o allo Spavento notturno, cioè al frammento «Odi, Melisso». E quanto all’errore in amore come fonte di un’illusione divina che sembra miracolosamente sospendere le sofferenze degli uomini, Leopardi non aspetta certo Il pensiero dominante per sottolineare una simile interpretazione. Infatti dai cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza di quel lontano 1819 s’è già citato il passo che segue:

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[…] sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente […] in somma il sogno mio fu tale e con sì vero diletto ch’io potea proprio dire col Petrarca In tante parti e sì bella la veggio Che se l’error durasse altro non chieggio […]19.

Queste parole del ’19, con la radice petrarchesca dell’errore, sembrano l’abbozzo precoce dell’ancor lontano Pensiero dominante, in cui pure, s’è visto (vv. 101 s.), ritornerà la metafora del paradiso: «[…] che paradiso è quello / Là dove spesso il tuo stupendo incanto / Parmi innalzar! […]», verbo, quest’ultimo, che allegava due precedenti lezioni in due sinonimi, elevare e trasportare, di un appunto zibaldoniano vergato, si noti, proprio durante il soggiorno fiorentino, in cui il poeta, osservando di una giovinetta il viso e i gesti che avrebbero potuto indurre a innamorarsene, annota (corsivi miei): «[…] io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità»20. Se la metafora del paradiso nel maturo poeta dei canti fiorentini è rivisitazione tutta leopardiana del Petrarca volgare, si deve tuttavia constatare che tale metafora matura già nel poeta adolescente ancora una volta col sorprendente Werther in traduzione italiana, come mostrano i due luoghi già citati in questo volume nel cap. VII; si ricordi: «Quel sentimento ardente che il mio core aveva per la viva natura, che m’inondava di tanta gioja, che cangiava in paradiso il mondo che m’attorniava […]»; «Non sono io dunque più quell’istesso […] che trovava ad ogni passo un paradiso […]»21. Ed è evidentemente a questi luoghi wertheriani che va ricondotto poi un luogo del giovanile Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica in cui, nel tentativo di raffigurare mirabili bellezze di vita pastorale, il poeta osseva: «[…] se fosse conceduta a noi così fatta vita, questa già non sarebbe terra ma paradiso, […]»22. Si comprende allora perché molti anni più tardi nei canti fiorentini la metafora del paradiso, assunta in chiave decisamente petrarchesca, prevarrà nettamente sulla sua versione wertheriana. Per fare ancora un altro esempio, in Consalvo si legge: «[…] la terra / Fatta per sempre un paradiso /

19

G. Leopardi, Scritti e frammenti…, cit., pp. 119-120 (in Ricordi d’infanzia…, cit., vol. I, p. 364). Le occorrenze di errore nei Rerum vulgarium fragmenta cominciano sin dal «mio primo giovenile errore» (v. 3) del sonetto di apertura. 20 Zib., p. 4310 (Firenze, 30 giugno, 1828). 21 Verter, cit., rispettivamente alle pp. 79 (18 agosto) e 129 (3 novembre). Corsivi miei. 22 G. Leopardi, Discorso di un italiano…, cit., p. 919.

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[…]», ripresa di fare in terra un paradiso di RVF, CCXII, vv. 5-7: «le crespe chiome d’òr puro lucente / e ’l lampeggiar de l’angelico riso, / che solean fare in terra un paradiso, / […]»; versi che, chiamando in causa l’angelico riso, avevano già generato molti anni prima nella Vita solitaria (vv. 47-48) un raro, originale stilema leopardiano: «[…] gli sorride in vista / Di paradiso. […]». Come si vede, malgrado i numerosi innesti petrarcheschi, e al di là di questi, l’intertestualità interna continua a operare nella lingua leopardiana in coerenza e in profondità anche a lunga distanza di tempo. Se così non fosse non si comprenderebbe la mirabile capacità di un poeta che in un contesto più tardo, condizionato, tra l’altro, da verità radicali che tendono a paralizzare la spinta all’invenzione poetica, rivaluta tuttavia moduli lirici già noti delle percezioni del paesaggio, degli affetti e dei moti del cuore: […]. Non sai Che smisurato amor, che affanni intensi, Che indicibili moti e che deliri Movesti in me […].

Non sono questi versi di Aspasia (63-66) inconfondibilmente modulati sul medesimo ordine ritmico-sintattico di versi scritti anni prima? Si legga (Le ricordanze, vv. 19-23): […]. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopro […]

Malgrado simili riscontri è tuttavia innegabile che nel Leopardi dei canti fiorentini un intero, complesso sistema della poesia venga a esaurirsi per il coesistere, insieme a moduli di acquisizione idillica (nel senso più ampio e articolato del termine, secondo quanto emerge nel lungo corso della formazione del poeta), di moduli più rigidamente logico-argomentativi e interrogativi che s’insinuano con sempre maggiore insistenza a partire dai canti pisano-recanatesi, a cominciare dai perchè di A Silvia («Perchè non rendi poi / Quel che prometti allor? perchè di tanto / Inganni i figli tuoi?»), che – ha osservato acutamente Vincenzo Di Benedetto – traducono i cur/quare di Lucrezio. Leopardi tende ora a inserire i dati evocativi, figurativi e idillici in una cornice simbolica, attribuendo ormai a quei dati solo un valore di astrazione metaforica, come nel Pensiero dominante, in cui se per il potere dell’amore

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«cresce quel gran diletto […]», quel pensiero è poi assimilato alle idilliche proiezioni di un campo verde e di un lieto giardino 23.

23

Suona riduttiva l’opinione della Ceragioli, secondo la quale il lieto giardino del v. 35 «ripete il motivo dell’hortus conclusus tipico della cultura cavalleresca». Sempre sulla stessa linea, la studiosa rinvia al modello cavalleresco, per cui il poeta «per cogliere le gioie del dolce pensiero […] prova gli affanni umani (89), sostiene molti anni la vita mortale e comincerebbe di nuovo il corso (94) per raggiungere tale mèta (un tal segno 94) benché […] già consapevole di tutto il dolore che incontrerà […] (“Così qual son de’ nostri mali esperto”)». Tale dolore sarebbe necessario «per arrivare al possesso di amore che vince le nostre pene (99)»: F. Ceragioli, I Canti fiorentini…, cit., pp. 90 e 92-93.

XI

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La funzione della memoria e dell’esperienza d’infanzia in Alfieri, come in Leopardi, si lega alla consapevolezza che le immagini della puerizia e della prima adolescenza si rivelano generalmente deludenti, anche se non manca nell’autobiografia del tragediografo qualche rarissimo moto di nostalgia nel tornare sui luoghi della sua prima giovinezza, come per esempio all’altezza dell’anno 1784, rientrando a Torino dopo sette e più anni di assenza: «Il rivedere gli amici della prima gioventù, ed i luoghi che primi si son conosciuti, ed ogni pianta, ogni sasso, in somma ogni oggetto di quelle idee e passioni primitive, ell’è dolcissima cosa». Non diversamente, ricorrendo alla figura della geminatio col ripetere l’ultimo aggettivo alfieriano, ma senza il superlativo, il poeta dei Canti dirà: «[...]. Qui non è cosa / Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. / Dolce per se; [...]», (Le ricordanze, vv. 55-58). L’uno e l’altro autore però si affrettano a vanificare e a rendere amarissima questa dolcezza già nelle parole che seguono immediatamente le due citazioni: il primo rilevando subito dopo la gelidissima accoglienza degli antichi compagni, il secondo soffermandosi dolorosamente sul «pensier del presente» e sul «van desio del passato». In realtà la delusione che oscura le felici immagini di un tempo segue in entrambi modalità diverse: da una parte Alfieri, il quale ricostruisce a posteriori nella Vita il mito di un riscatto eroico da un’infanzia tetra, soffocante, di vuota e repressiva educazione, avarissima di spinte ideali e di ragioni culturali, da lui definita infatti «stupida vegetazione infantile»; dall’altra Leopardi, il quale insiste tanto più sul fascino delle memorie infantili quanto più è razionalmente convinto della loro illusorietà. Ne deriva tuttavia un risultato molto affine in quanto in entrambi prende forma acutissima un sentimento dolente, esclusivo, di insofferenza profonda per la più generale condizione

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umana, da cui si genereranno la nozione alfieriana e quella leopardiana di noia, convergenti solo in parte. A quel punto i primi anni della vita diverranno per l’autore dei Canti, come già era stato per il tragediografo, oggetto di osservazione distaccata e quasi filosofica. Funzionale alla ricostruzione a posteriori dell’eroico riscatto alfieriano è certamente il contrasto radicale tra la «bollente» indole dell’autore, evidente dono di natura, incline – cito testualmente – «alla giustizia, all’eguaglianza, ed alla generosità d’animo» (percepibile l’eco di Rousseau) e la definizione di «oziosissima, ineducata e sfrenata» da lui attribuita alla sua «prima gioventù». Il primo dei tre aggettivi della definizione richiama ozio, sostantivo legato a un altro, noia, frequentemente usato nella Vita 1, per significare un’esistenza indegna d’un uomo libero, un vegetare, appunto, un non-vivere, un trascinare la vita senza pensieri e senza passioni. Noia, in particolare, verrà ripreso da Leopardi in un primo momento nello stesso significato negativo, ma in seguito in quello positivo di qualità spirituale elevata ed eccezionale. Come dire che in Leopardi tale concetto avrà una veste duplice, ma pur sempre alfieriana, nel senso che egli vi farà convergere e l’aspetto negativo, la noia vera e propria, e quello positivo, che Alfieri chiamava forte sentire. Sia però ben chiaro, in questa sede non s’affronta in modo diretto né un’analisi sistematica del concetto alfieriano di noia, oltre che del forte sentire, né tanto meno di quello leopardiano, ma s’intende focalizzare con la maggiore ampiezza possibile il momento genetico di motivi e aspetti legati a questi concetti che Leopardi deriva da Alfieri cercando di far emergere, anche con raffronti intertestuali, il momento cruciale di gestazione e di transizione, nell’uno e nell’altro autore, dalle visioni d’infanzia al concetto di non vivere e del trascinare la vita, fondamentali in entrambi proprio in funzione e come viatico della noia e del forte sentire di Alfieri e delle due fasi in cui si evolve l’idea di noia in Leopardi. La dimensione favolosa dell’infanzia verrà spiegata dal poeta dei Canti con l’inconsapevolezza che connota l’essere fanciullo; e la stessa memoria non garantirà nulla della felicità che avrebbe contrassegnato quella prima età della vita. Come già per Alfieri, anche per Leopardi la memoria sarà concepita, almeno fino ai primi anni Venti, come un meccanismo ripetitivo 1

Si veda per esempio la formulazione dittologica «[…] per ozio e per noia […]» a p. 120 (Epoca terza, cap. XII) in Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, in V. Alfieri, Opere, Introduzione e scelta di Mario Fubini, Testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977; edizione collazionata su Vita di Vittorio Alfieri, edizione facsimilare del manoscritto laurenziano Alfieri 241-2, a cura di Franca Arduini, C. Mazzotta, Gino Tellini, Firenze, Edizioni Polistampa, 2003. Per le precedenti citazioni si veda nell’ordine a p. 239 (Epoca quarta, cap. XIII) e a p. 52 (Epoca seconda, cap. IX): i corsivi son miei.

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di sensazioni e immagini legate fra loro: solo il ripresentarsi di una di esse può richiamarne altre2. È una verità che egli sperimenta proprio sull’autobiografia alfieriana, come mostra questo appunto del 1821: […] Un canto ci richiama, p.[er] e.[sempio], quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec. Così l’Alfieri nel principio della sua Vita, osserva una sua rimembranza che fa al proposito ec.3.

L’allusione, inequivocabile, è al cap. II, epoca prima dell’autobiografia, in cui l’Astigiano osserva che il rivedere una forma di scarpa caduta in disuso gli aveva fatto tornare alla mente tutto un mondo lontano – un vecchio zio morto, il sapore dei confetti da lui ricevuti in dono – e lo aveva indotto a riflettere «sul meccanismo delle nostre idee, e sull’affinità dei pensieri colle sensazioni». A questo ricordo dello zio paterno, per il quale l’autore si limita a parlare di «sensazioni primitive» o di «moti e modi» e, più avanti, di «idee primitive, o sia le sensazioni ricevute prima de’ sei anni [...]», ne segue ancora qualche altro labile e frammentario: una dolorosissima dissenteria all’età di cinque anni, l’entrata in monastero della sorella Giulia quando egli ne aveva quasi sette (prima di altre separazioni che seguiranno negli anni), il pedagogo don Ivaldi, «il buon prete [...] ignorantuccio [...]» che lo seguì fino ai nove anni4. Già la frammentarietà di questi ricordi rende avvertiti che per l’Alfieri maturo l’infanzia non viene richiamata come fase di un’esperienza più vasta, ma come corpo staccato, come esempio di anni inutili, di «stupida vegetazione», appunto: concetto, questo del vegetare, che non a caso egli aveva pure inteso esplicitare nella redazione definitiva della sua autobiografia nel sottotitolo dell’Epoca prima: «Abbraccia nove anni di vegetazione». Questi anni, visti a posteriori, sono solo serviti sempre, nell’ottica dell’Alfieri maturo, a preparare la sua indole fortemente appassionata e fuori del comune per reazione alla noia e al dolore di non-vivere che dominano non a caso le sue poche visioni d’infanzia: [...] trascurava i miei studi, ed ogni occupazione, o compagnia mi noiava.

2

Per il concetto di memoria come «ripetizione», «ripercussione o riflesso dell’immagine antica», «virtù imitativa» negli appunti zibaldoniani del 1821 si veda nella parte iniziale del precedente cap. VIII. 3 Zib., p. 1455. 4 Vita di Vittorio Alfieri, cit., pp. 9-10.

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Oppure: [...] quell’umor malinconico, che a poco a poco si insignoriva di me, e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell’indole mia.

Oppure: Io avea sentito dire [...] che v’era un’erba, detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m’era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell’erba […]5.

In quest’ultimo esempio il ricordo infantile risale alla precoce scoperta di un oscuro istinto di morte, di cui è ignota l’origine: motivo che poi si sarebbe rivelato fondamentale nella poetica tragica dell’autore. D’altra parte il mondo esterno per il fanciullo Alfieri somiglia sempre di più a una cupa prigione con castighi e divieti che esacerbano il suo animo e lo fanno ammalare per giorni; un vero e proprio «giogo», per riprendere un termine testuale. Si pensi al crudele castigo di dover andare a messa con la reticella, con la conseguenza, dirà nella Vita, di non volere «in quel giorno mangiare, nè parlare, nè studiare, nè piangere». Si pensi al rifiuto ostinatissimo di qualsiasi dono da parte della nonna materna o all’episodio della prima confessione in chiesa, impostagli malgrado la sua «natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i suoi segreti, fatti e pensieri ad una persona ch’egli appena conosceva». Una condizione penosissima per un ragazzo, alla quale, in occasione del suo primo viaggio compiuto all’età di nove anni «incalessato» da Asti a Torino per essere educato all’Accademia Reale, egli saprà in un primo momento opporre solo alcune «idee achillesche» e «un impetino di natura gloriosa, il quale si sviluppava tosto che gli veniva concesso di alzare un pocolino il capo da sotto il giogo»6. Alla Vita alfieriana si sarebbe idealmente potuto affiancare una Vita leopardiana, se si volesse considerare un pezzo di autobiografia giovanile il cosiddetto Diario del primo amore – ma forse preferibile il titolo Memorie del primo amore, secondo una motivata scelta di Flora – e, soprattutto, se non fosse rimasto al semplice stato di abbozzo un possibile romanzo autobiografico che il Recanatese probabilmente avrebbe potuto intitolare Vita di Silvio

5 6

Ivi, pp. 12-13 (Ep. prima, cap. III). Ivi, rispettivam. pp. 15, 17 e 21.

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(o Lorenzo) Sarno7: sprazzi, sparsi frammenti dell’età fanciulla rievocati in una fase in cui Giacomo aveva ormai razionalmente rimosso il fascino di quelle finzioni lontane (finzioni pur sempre indispensabili alla poesia). Si tratta di una prosa convulsa, con tratti rapidi e con bruschi passaggi, vergata come in un ininterrotto flusso di coscienza; barbagli che affiorano e scompaiono come il volto fanciullesco del poeta «colle maniere ingenue e non corrotte [...] semplici e naturali [...]» che lo distinguevano dagli altri fratelli. Oppure i «sogni amorosi», a cominciare da quelli della sua balia. Oppure la scena idillica «coll’ombra delle tettoie il cane sul pratello i fanciulli la porta del cocchiere socchiusa le botteghe ec., effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera»8. Come già in Alfieri, anche in Leopardi questa e altre poche reminiscenze infantili sono assunte come preludio del carattere ideale che egli avrebbe voluto dare di sé dopo l’acquisizione delle aride verità di ragione. Non a caso le stesse sono intercalate da episodî e ricordi che preannunciano la futura consapevolezza di infelicità e di esclusività rispetto agli altri uomini, come per esempio la circostanza che la madre lo ritenesse un po’ matto, o la facilità di lasciarsi andare all’ira. A questa ultima notazione segue improvvisamente un’altra sfiorata dalla medidatio mortis («[...] lettura dell’Alamanni, e del Monti nell’aspettazione della morte [...]») che, alcune righe più avanti, si intreccia con furori libertarî di stampo alfieriano («[...] mie meditazioni dolorose […] della caduta di Napoleone […] aspettando la morte, desiderio d’uccidere il tiranno […]»); oppure s’intreccia con l’idea del suicidio o, per citare testualmente, con la «vicinanza al suicidio». E ancora: i ricordi fanciulleschi, che richiamano i «pensieri romanzeschi», sollecitatigli dalle figure dei libri 7

Per il titolo Memorie del primo amore, si veda G. Leopardi, Le poesie e le prose, a cura di Francesco Flora, I, Milano, Mondadori, 197310, p. 1139. Questo testo, con lo stesso titolo, si veda ora in G. Leopardi, Scritti e frammenti…, cit., pp. 3-44 e 139-145. Quanto a Silvio Sarno s’è già detto (cap. I, n. 36), correggendo e perfezionando un’antica, ma sempre valida indicazione di A. Monteverdi, M. Marti propone di indicare come Abbozzi della vita di Silvio Sarno i frammenti rimastici di una tentata opera che forse Leopardi avrebbe intitolato Vita di Silvio Sarno. L’indicazione (non il titolo, si badi bene) di Marti mi sembra molto meglio ragionata rispetto a quella proposta da D’Intino nella citata edizione da lui curata (si vedano soprattutto le pp. 145-54), e cioè Vita abbozzata di Silvio Sarno. Su questo testo importanti considerazioni in Maria Antonietta Terzoli, I buoi del sole e l’ira di Enea. Ipotesi su una mancata autobiografia di Giacomo Leopardi, in «Nuova rivista di letteratura italiana», III, 1, 2000, pp. 121-170, dove pure, con la cautela del caso, si preferisce tornare all’indicazione di Abbozzi (pp. 123 e 127), già proposta da Marti, anche se. con qualche ragione, assegnando valore prioritario a una testimonianza di Zib., p. 295, – a differenza di Marti e di D’Intino – si propende per il nome Lorenzo invece che per quello di Silvio Sarno. 8 G. Leopardi, Scritti e frammenti…, cit. Le citazioni tra virgolette sono alle pp. 49 e 5355.

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sacri di famiglia, a cominciare da quello del Kempis, sono subito seguiti da cenni al suo precoce «disprezzo degli uomini massime nel tempo dell’amore e dopo la lettura dell’Alfieri ma già anche prima come apparisce da una sua lettera a Giordani […]»; e sono seguiti pure da ulteriori cenni al suo desiderio di vedere il mondo, nonostante che ne conoscesse «perfettamente il vuoto e qualche volta l’abbia quasi veduto e concepito tutto intiero […]» e nonostante la insensibilità di fronte alla bellezza femminile o del paesaggio; «[…] quasi neppur la vista delle donne più lo moveva […] scontentezza nel provar le sensazioni destategli dalla vista della campagna ec. […]»9. Queste citazioni documentano a sufficienza l’intento dell’autore di retrodatare più di quanto non sia realmente avvenuto la sua precoce cognizione dell’umana infelicità, della vanità e inconsistenza delle stesse visioni fanciullesche, che evidentemente coprono, non diversamente che in Alfieri, il sostanziale nulla, il dolore del non-vivere, il trascinare e il dissipare indegnamente l’esistenza; motivo che in Leopardi non solo s’impone attraverso la ripresa inequivocabile di uno stilema alfieriano, come si vedrà, ma pure fa capo al tema, sempre alfieriano, del forte sentire, di carattere più generale. Nel 1817, com’è noto, appena terminata la lettura della Vita alfieriana, Leopardi compone un sonetto che si chiude col rimpianto di un desiderio inappagato di gloria («Di me non suonerà l’eterna tromba; / Starommi ignoto [...]»)10, desiderio che pure, solo qualche mese prima, aveva esplicitamente dichiarato a Giordani: «Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria […]»11. È una sequenza di una lettera in cui egli coinvolge proprio Alfieri in un paragone con la sua ancor iniziale esperienza di scrittore: […]. Spesso m’è avvenuto di compatire all’Alfieri, il cui stile tragico in quei tempi di universale corruzione parea intollerabile […]. Certo quel trovarsi solo in una sentenza vera fa paura […]. Buon p.[er] l’Alfieri che tenne duro […].

Il sentimento, già maturato nell’adolescenza, di appartenere a un’elettissima cerchia di uomini dotati di massima indipendenza di giudizio e nutriti di forte insofferenza per la mediocrità dei più ritorna alcuni mesi dopo, allorché 9

Ivi, p. 360. Ivi, pp. 319-320. 11 G. Leopardi, Epistolario, cit., I, p. 70 (Recanati 21. Marzo 1817). In casi di forme abbreviate, in cui una lettera dell’alfabeto sia seguita da punto, prima della parentesi quadra che contiene lettere mancanti, ho mantenuto il punto di abbreviazione, a differenza di quanto fanno gli editori dell’Epistolario. 10

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Leopardi, in un’altra lettera a Giordani, definisce i «veri savi» richiamando una precisa affermazione dell’autobiografia alfieriana: Dice santamente il mio caro Alfieri nella sua Vita ch’egli non disputava mai con nessuno con cui non fosse d’accordo nelle massime. E questo credo che sia la pratica dei veri savi […]12.

Il riferimento va al cap. XIII della IV Epoca in cui l’Astigiano, confermando implicitamente il suo desiderio di gloria, che si trasmetterà poi a Leopardi, rivela un forte scoraggiamento per l’inettitudine e l’insensibilità della critica contemporanea, che trasforma lo scrittore geniale in un incompreso. Il desiderio di gloria, del resto, in entrambi si rivela ineludibile ed esclusiva ricerca di identità, non aspirazione a un consenso mondano; un’identità che contrappone chi la possiede alla «volgare schiera», per riprendere una formulazione già dantesca del più volte citato Avvicinamento della morte (V, v. 58), che risale al 1816. In questo senso l’eroismo di chi s’immola per la patria è assimilabile a quello di spiriti eccezionalmente grandi. In Sopra il monumento di Dante, v. 152, gli eroi e i martiri della causa italiana sono «a tutto il mondo ignoti, / […]» (stilema, si noti, già utilizzato, con la lieve variante del sinonimo oscuro nello stesso componimento, v. 85 – «Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura» – e in Inno ai Patriarchi, vv. 73-74, «[…]. Dirò siccome / Sedente, oscuro […]»). «Starommi ignoto […]» aveva pure detto Leopardi di se stesso nel sonetto già citato sulla Vita alfieriana; e nella giovanile Elegia II (vv. 56-57): «[…] io veggio che negletto, / Ignoto, il mio dolor mi fiede e taglia». Una ripresa non casuale che va collegata a un preciso passaggio dell’alfieriana Virtù sconosciuta, in cui Gori Gandellini dice di sé: «[…] ignoto quasi a me stesso, per morire io nacqui, e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti non mai vissuti, già già mi ha riposto l’oblio»; e Vittorio risponde: «Ignoto ai contemporanei tuoi tu vivevi, perchè degni non erano di conoscerti forse; e ad un reo silenzio mal mio grado ostinandoti, d’essere a’ tuoi posteri ignoto sceglievi […]»13. In differente contesto, a questi alfieriani «nati-morti non mai vissuti» neanche nel periodo dell’infanzia, Leopardi non solo ha pensato in 12

Ivi, p. 173 (Recanati li 29 Xbre 1817). Per l’edizione critica della Virtù sconosciuta si vedano l’Introduzione (pp. IX-XXXVII) e le pp. 255-284 e 451-472 in V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di Pietro Cazzani, I, Asti, Casa d’Alfieri, 1951. La citazione riportata nel testo è però derivata da V. Alfieri, La virtù sconosciuta, a cura di A. Di Benedetto, Torino, Fògola, 1991, pp. 29-30, edizione che corregge non pochi refusi dell’edizione Cazzani e ripropone opportunamente l’edizione di Kehl del 1788 (ma la data di impressione è 1786). Non seguo l’editore nell’ammodernare l’uso alfieriano dell’accento grave. 13

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un luogo della cantica L’avvicinamento della morte (V, vv. 59-60) – «[…] morrò come mai non fossi nato, / Nè saprà il mondo che nel mondo io m’era»14 –, ma li riecheggerà in un’esortazione ad Angelo Mai – «[...] risveglia i morti / Poi che dormono i vivi; […]» (vv. 176-177) –; mentre il «reo silenzio» di Vittorio diverrà «brutto silenzio» nella stessa canzone (vv. 159-160). Ancora nel 1819 si può sorprendere questa confessione estremamente significativa di Giacomo al padre: Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. […]. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di tutte le mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo15.

Alcune asserzioni risaltano subito: la vile prudenza che rende incapaci d’ogni grande azione; l’appellativo di pazzo attribuito a tutti gli uomini grandi (e come s’è visto, a suo dire, tale lo riteneva la madre); il dovere di essere piuttosto infelice che piccolo; soffrire piuttosto che annoiarsi. L’infelicità come segno di dignità vera e autentica della condizione umana accompagna anche Alfieri sin dalle descrizioni dell’infanzia16, e Leopardi se ne ricorderà anche in qualche altra occasione, per esempio in Nelle nozze della sorella Paolina (vv. 16-17: «O miseri o codardi / Figliuoli avrai. Miseri eleggi. […]»). Ma la citazione sopra riportata, ridotta all’essenziale da un brano epistolare più lungo, è estremamente illuminante per chiarire il delicato passaggio combinato dal poeta dal desiderio di grandezza alla individuazione della noia come male peggiore, «madre […] di tutte le mortifere malinconie […]». Passaggio cruciale in cui Leopardi si appoggia incontestabilmente ad Alfieri, a cominciare dalla proposizione «riducendoci come animali che attendono alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero». Questa visione fortemente negativa della riduzione alla vita di una bestia, non diversa, in fondo, dalla definizione di anni di vegetazione attribuita all’infanzia, era già nella Vita alfieriana (II, 9) – «[…] questa vita di vero bruto bestia […]» – nelle cui ultime due parti comunque ritorna frequente 14

Mi servo della edizione critica citata alla nota 4 del capitolo I. G. Leopardi, Epistolario, cit., I, p. 323 (s. d., ma Recanati, fine di luglio 1819). 16 Sul tema dell’infelicità, che nell’Alfieri tragico costituisce una concatenazione semantica insieme alla pietà e alla innocenza, mi sia consentito citare G. A. Camerino, Alfieri e il linguaggio della tragedia. Verso, stile, tópoi, edizione riveduta e accresciuta, Napoli, Liguori (“Collana di testi e critica”), 2006 (1.a edizione 1999), soprattutto alle pp. 112-186 e 247-264. 15

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l’incubo di una vita vegetativa, trascinata nell’ozio, come mostra già questa breve rassegna: «[...] arrossire della mia stupida oziosa vita, del non mai aprir un libro qualunque […]» (III, 6); «Vegetando io dunque così in questa vita giovenile oziosissima […]»; «bizzarro e tormentatissimo stato, in cui vissi non ostante (o vegetai, per dir meglio) […]» (III, 13); «[…] vissi io vergognosamente in un ozio vilissimo […]» (IV, 12); «[…] andarvi pure strascinando la vita, e stancando oramai le speranze» (IV, 13); «[…] piuttosto vegetando che vivendo, strascino assai male i miei giorni […]» (IV, 19)17. Non v’è dubbio che Leopardi trovasse già predisposti nella Vita alfieriana, sin dalle prime pagine sull’infanzia, le basi su cui costruire i concetti di ozio, noia e non-vita, che subito rinviano a un altro appunto zibaldoniano che inizia con queste parole: «In quest’ozio, in questa noia, in questa frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita […]»18. E non è un caso che in pochi versi, persino nello stesso verso, o subito di seguito, – ancora la figura rettorica della geminatio, – nell’epistola al Pepoli, parte iniziale, occorre in modo ossessivo più volte il lemma ozio, nonché il denominale ozioso: «[…] L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti, / […]» (v. 5); «[…]. È tutta, / In ogni umano stato, ozio la vita, / Se quell’oprar, quel procurar che a degno / Obbietto non intende, o che all’intento / Giunger mai non potria, ben si conviene / Ozioso nomar. […]» (vv. 7-12); «[…]. La schiera industre / […] / […] / Se oziosa dirai, da che sua vita / È per campar la vita […]» (vv. 12-16); «[…]. Le notti e i giorni / Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne / Sudar nelle officine, ozio le vegghie / Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi; / E il mercatante avaro in ozio vive; / […]» (vv. 18-22). Nella Vita alfieriana, si aggiunga, Leopardi trovava anche qualche stilema specifico come «bizzarro e tormentatissimo stato […]» ripreso anche nella sua poesia matura (si pensi, per esempio, a La ginestra, v. 87: «Uom di povero stato […]»). E non è un caso che già nella canzone Ad Angelo Mai, composta nel gennaio 1820, la presenza dell’Astigiano non vada solo registrata nei famosi versi 151-165 dedicati all’«allobrogo feroce», ma anche e soprattutto nei sintagmi e termini che designano una vita vegetativa, condotta senza tensioni nobili e sublimi, come aveva dichiarato al padre. Cito i vv. 158-160 e 163-165: […] privato, inerme, (memorando ardimento) in su la scena 17 18

Vita di Vittorio Alfieri, cit., rispettivamente alle pp. 50, 83, 132, 134, 236, 244, 268. Zib., pp. 729-730.

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mosse guerra a’ tiranni […] […]. Ei primo e sol dentro all’arena scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

A parte il «memorando ardimento», testuale ripresa dall’alfieriano Del principe e delle lettere, come aveva già notato Fubini19, l’attenzione non può che andare all’ozio e al brutto silenzio, che costituiscono, ancora a uno stato embrionale, una prima, parziale approssimazione al futuro e definitivo concetto leopardiano di noia: termine non esplicitato nella canzone Ad Angelo Mai, che pure è attraversata da parole e sintagmi di affine orientamento semantico quali «secol morto» (v. 4), «nebbia di tedio» (v. 5), «ozio» (vv. 44 e 164), «viltade» (v. 45), «tedio che n’affoga» (v. 72), «il nulla s’accresce» (v. 100); senza dimenticare gli ironici versi (171-173) – «[…]. Or di riposo / Paghi viviamo, e scorti / Da mediocrità […]» – che confermano la detestata idea di vita vegetativa sulla stessa linea della «vile prudenza che ci agghiaccia e lega […]», come nella già menzionata lettera al padre. Come per Alfieri, anche per Leopardi, il quale parla non a caso di «secol di fango» (v. 179), il circostante ambiente umano e storico è assolutamente privo di valori intellettuali e morali. «Secol di fango», in particolare, è formula che ricalca da vicino l’alfieriana Virtù sconosciuta, quando Francesco dice: «Di questo secolo servile ed ozioso, tutto, ben so, ti è nausea e noja; […]»; e Vittorio risponde denunciando il «secolo guasto»20. Ad Angelo Mai costituisce dunque una tappa decisiva nell’approssimazione leopardiana al concetto di noia intesa come negativa condizione esistenziale, assorbita, sia pur ancora inconsapevolmente, sin dagli anni infantili. In questo percorso Alfieri è costantemente presente, ammirato ora per lo «[…] spirito libero, e contrario a quello del tempo […]» ora per la sua «matta attenzione» ai classici (corsivo di Leopardi; ma Alfieri aveva scritto «pazza attenzione») ora per la sua vena di malinconia21; malinconia che evidentemente in quest’ultimo cenno zibaldoniano assume un’alta, positiva qualità; espressione anche di un dolore profondo, condizione permanente dell’animo preannunciata, s’è visto, dalle «mortifere malinconie» delle quali 19

G. Leopardi, Canti, con introduzione e commento di Mario Fubini, edizione rifatta con la collaborazione di Emilio Bigi, 2.a edizione nuovamente riveduta e accresciuta, Torino, Loescher, 1997 (1.a ed. 1964), p. 60. 20 V. Alfieri, La virtù sconosciuta, cit., p. 61. 21 Zib., rispettivam. alle pp. 393 (8 Dicembre 1820), 1260 (1 Luglio 1821) e 2364 (27 Gennaio 1822). Per la citazione alfieriana cfr. V. Alfieri, Opere, cit., I, p. 226 (Vita, Epoca quarta, cap. I).

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sarebbe stata madre la noia. Tra il 1819 e il 1820 Leopardi non ha ancora distinto la noia dei pochi esseri consapevoli dell’umano destino dalle insipide occupazioni della quasi totalità degli altri uomini perché egli resta ancora fedele all’accezione della Vita alfieriana, come per esempio il binomio noja e insipidità con cui l’Astigiano bolla i suoi adolescenziali studî in accademia22. Solo molti anni dopo la distinzione prende vigore e acquista una valenza positiva e ben più complessa. Scrive Leopardi: La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Agli altri ogni insipida occupazione basta a tenerli contenti; e quando non hanno occupazione alcuna, non sentono la pena della noia. Anche gli uomini sono, la più parte, come le bestie, che a non far nulla non si annoiano; come i cani, i quali ho ammirati e invidiati più volte, vedendoli passar le ore sdraiati, con un occhio sereno e tranquillo, che annunzia l’assenza della noia non meno che dei desiderii23.

Questa definizione era stata preparata gradualmente in appunti di anni precedenti, come per esempio: «Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita» (10 dicembre 1821); oppure: «La noia è il desiderio della felicità, lasciato, p.[er] così dir, puro. Questo desiderio è passione» (17 ottobre 1823); e quasi un mese dopo, perfezionando il concetto, afferma che, differentemente «da quella che noia comunemente è chiamata», ce n’è una «sensibile e viva, qualità che l’avvicinano all’infelicità così chiamata positivamente […]», la quale «è più passione e più penosa […]» (13 novembre 1823); e l’anno dopo, ponendosi ancora una domanda sulla noia, la definisce «niun male nè dolore particolare […], ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo» (8 marzo 1824)24. Ben prima dunque dell’appunto del ’28, sopra richiamato, la noia è pienamente sentita da Leopardi sotto forma di vita provata e sperimentata. Se nel vocabolario alfieriano la noia resta intesa come concetto del tutto negativo, Leopardi lo identifica con un’energia spirituale profonda, con un’estrema sofferenza per il vuoto del mondo, e traduce in un’ottica originale, cioè in un concetto positivo di noia, quel forte sentire che – si legge nella Vita alfieriana25 – «non s’impara». Si tratta di una concezione connessa

22

Vita di Vittorio Alfieri, cit., p. 25 (Epoca seconda, cap. II). Zib., p. 4306 (Pisa, 10 maggio 1828, Sabato). 24 Ivi, rispettivam. alle pp. 2243 (10 Dicembre 1821), 3715 (17 Ottobre 1823), 3879-3880 (13 Novembre 1823), 4043 (8 Marzo 1824). 25 Vita di Vittorio Alfieri, cit., p. 182 (Epoca quarta, cap. II). 23

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coi temi, complementari e intrecciati, del non-vivere e del vano trascinar del tempo. Per il primo tema basterebbe ricordare che nel marzo 1826 – vale a dire sempre all’interno degli anni fin qui richiamati – Leopardi compone l’epistola Al conte Carlo Pepoli che comincia: «Questo affannoso e travagliato sonno / Che noi vita nomiam […]»; versi in cui egli contamina due loci alfieriani diversi, uno di Vita scritta da esso e l’altro della tragedia La Congiura de’ Pazzi: «[…] il mio povero intelletto dormiva allora un sordidissimo sonno […]»26 e «[…] questa morte, che nomiam noi vita […]»27. Per il secondo tema si legge ancora nell’epistola al Pepoli (vv. 48-50): «[…] necessitate, io dico, / Di consumar la vita: improba, invitta / Necessità […]». E pure nello stesso anno, nel leopardiano Dialogo di Torquato Tasso: «[…] tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla»28. Il verbo consumare ha conosciuto per ben due volte una variante in occupare («occupare la vita»); e – notazione di rilievo – allega due ulteriori, interessanti varianti, campar la vita, nel senso di sopravvivere, e trarre in ozio, nel senso di trascinare in ozio, ancora nell’epistola al Pepoli (vv. 15-16): «[…] da che sua vita / È di campar la vita […]»; «[…] Le notti e i giorni / Tragge in ozio il nocchiero; […]» (vv. 18-19). Se il costrutto le notti e i giorni tragge in ozio dipende chiaramente dalla già citata forma alfieriana strascinare i giorni, consumare, occupare, campar la vita restano soprattutto legati al vegetare di Alfieri, al non-vivere, né più né meno come nell’Alfieri della Virtù sconosciuta in cui Francesco dice (corsivi miei): «[...] il dolor di non vivere quale potuto forse l’avrei, andava consumando i miei giorni; […]»29: un collegamento, questo, in verità suggerito inconsapevolmente, ma non casualmente dal fratello Carlo a Giacomo in una lettera del 18 febbraio 1826 – cioè nell’imminente vigilia dell’epistola al Pepoli – in cui si legge tra l’altro: «Eccoti abbastanza di questa mia non vita, per dirla all’Alfieri»30. Nelle Operette morali, nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, che risale al 1826, si configura non a caso il primato del sogno rispetto alla realtà. «Sappi» – dice il Genio a Torquato – «che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più 26

Ivi, p. 102 (Epoca terza, cap. III). V. Alfieri, La Congiura de’ Pazzi, testo definitivo e redazioni inedite a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968, p. 83 (a. V, sc. 1.a, v. 74). 28 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 113. Le citazioni derivate da questa edizione, come già detto, sono collazionate sull’edizione critica, a cura di O. Besomi. 29 Su questo passo della Virtù sconosciuta mi sia concesso ancora rinviare a G. A. Camerino, Alfieri e il linguaggio della tragedia, cit., p. 259. 30 G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1080. 27

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bello e più dolce, che quello non può mai»; e molto più avanti: «[…] tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla […]»31. In termini quasi identici due anni prima Leopardi aveva osservato: «Uno de’ grandissimi e principalissimi bisogni dell’uomo è quello di occupare la vita»; e in un altro testo: «[…] occupare la vita […] è maggiore assai di tutti i bisogni particolari ai quali, occupandola, si provvede; e maggiore eziandio che il bisogno di vivere. Anzi il vivere, per se stesso, non è bisogno; perchè disgiunto dalla felicità, non è bene»32. Ma nel Dialogo di Torquato Tasso va anche segnalata la denuncia della noia nullificante del mondo cosiddetto reale, contro la quale pure il dolore, ancor più del sonno e dell’oppio, diventa rimedio efficace, «perchè l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera»33. Il motivo dell’ozio e della noia, anzi della «noia immortale», torna nello stesso 1826 nell’epistola Al conte Pepoli (v. 72), insieme, appunto, al costrutto consumare la vita. […] È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, […] (vv. 7-8); […] necessitate, io dico, Di consumar la vita: improba, invitta Necessità […] (vv. 48-50); […] la quiete antica Col mercatar, con l’armi, e con le frodi, La destinata sua vita consuma (vv. 97-99).

E il verbo consumare, sempre nella stessa, peculiarissima accezione, si trova pure in Le ricordanze: Non mi diceva il cor che l’età verde Sarei dannato a consumare in questo Natio borgo selvaggio […] (vv. 28-30);

e nel Canto notturno:

31

G. Leopardi, Operette morali, cit., pp. 111 e 113. Si veda rispettivam. Zib., p. 4075 (20 apr. 1824) e G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri (che risalgono pure al 1824), in Id., Tutte le opere, cit., vol. I, p. 146. 33 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 113. 32

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[…] Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato (vv. 114-116)34.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio, quasi contemporaneo all’epistola al Pepoli (fu composto probabilmente nel 1827), il discepolo dice al maestro: «A me pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo d’ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita, anco a chi si trovi in istato e in fortuna, non solamente non cattiva, ma prospera»35. Questo luogo anticipa quasi alla lettera i vv. 9-13 del Coro di Federico Ruysch, in cui pure, ancora una volta, torna il verbo consumare con riferimento alle età vote e lente, cioè a un tempo vuoto considerato come eternità, anziché commisurato solo sull’arco della vita umana: infatti, se nel Dialogo di Plotino e Porfirio la noia è anche intesa come privazione d’ogni speranza di stato e di fortuna migliore e desiderio di finir la vita, nel Coro di Ruysch il nesso noia-privazione di speranza e desiderio di morte è così ripreso: «[…]; / Alla speme, al desio, l’arido spirto / Lena mancar si sente: / Così d’affanno e di temenza è sciolto, / E l’età vote e lente / Senza tedio consuma»36. Che l’età vote e lente, come s’è detto, riguardino lo spazio dell’eternità rispetto a quello della vita mortale, è confermato nelle 34 La riscrittura leopardiana della poetica della noia e del non vivere in chiave marcatamente alfieriana, documentata nella presente analisi, conferma in modo perfettamente complementare quella condotta in Luigi Blasucci, Un esperimento «oraziano» sui generis: l’epistola «Al conte Pepoli», in Id., I tempi dei «Canti», cit., pp. 90-104 (ma già apparso in «Le forme e la storia», III, 1991, pp. 175-188), in cui pure si richiamano i concetti oraziani di otium e necessitas, concetti di antica tradizione classica, che per Leopardi non hanno nulla a che vedere con la sua negativa diagnosi tutta moderna, e alfieriana, dell’ozio e del duro fato. Se non si comprende che il modello oraziano, in particolare quello delle Satire, ha per Leopardi solo un valore formale, si corre il rischio di equivocare sui concetti di otium e di necessitas nel poeta latino e nel poeta italiano: si veda al riguardo il pur ottimo contributo di Antonio La Penna, il quale, però, sul rapporto Leopardi-Orazio, anche con riferimento alla epistola al Pepoli, ha equivocato osservando tra l’altro: «[…] Leopardi ha trovato nel poeta antico quella smaniosa insoddisfazione di tutto che porta all’annullamento di ogni valore e piacere e al torpore completo dell’animo» (A. La Penna, Leopardi fra Virgilio e Orazio, in Leopardi e il mondo antico, cit., p. 206 e ora in Id., Tersite censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno, Pisa, Nistri-Lischi, 1991, p. 311). Mi sia concesso di aggiungere che in una nota del 1822 Leopardi formula un ulteriore, moderno concetto di noia, che egli vede prodotta dall’uniformità: «l’uniformità è certa ragione di noia. L’uniformità è noia e la noia uniformità» (Zib., p. 2599). 35 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 177. 36 Cito dall’edizione critica allestita da D. De Robertis e pubblicata in Id., Leopardi…, cit., pp. 207-212.

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varianti in margine dell’autografo napoletano, in cui il poeta, non a caso, mostra chiaramente di aver voluto tener distinti gli spazî del contingente e dell’eterno, lasciando – prima della lezione definitiva – una lunga lista di lezioni alternative a quella ne varietur: in particolare la contrapposizione tra tempo circoscritto – anni, o anche lustri o secoli – e quello infinito (età o immense età)37. Ma si resti all’Epistola al Pepoli, in cui, v. 72, la noia è definita immortale. La concezione leopardiana della noia nasce dalla convinzione acuta e definitiva negli anni che precedono la seconda stagione degli idillî della mancanza di un senso nella vita dell’uomo e dell’universo: «Mi compiaccio» – scrive a Giordani il 6 maggio 1825 – «di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo»38; confessione abbastanza fedelmente tradotta l’anno successivo nell’Epistola, appunto ai vv. 140-158 (che, nel contesto e in funzione di un’analisi di tipo molto diverso, son già stati citati nel precedente cap. VII): […]. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell’eterne cose; a che prodotta, A che d’affanni e di miserie carca L’umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi: Con quali ordini e leggi a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d’ammirar son pago. In questo specolar gli ozi traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, che già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento: 37

Ivi, pp. 209-210. G. Leopardi, Epistolario, cit., p. 1198. Non si dimentichi che appena l’anno precedente nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (agosto-settembre 1824) osservava tra l’altro: «A quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è contento del proprio stato, rispondeva: la cagione è, che nessuno stato è felice» (cit., p. 139). La «questione di Orazio» è presumibilmente quella affrontata nei Sermones (I, 1, vv. 1-3): «Qui fit Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem / seu ratio dederit, seu fors obiecerit, illa / contentus vivat, laudet, diversa sequentis». 38

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Vana Diva non pur, ma di fortuna E del fato e d’amor, Diva più cieca.

È evidente che il condurre la vita alla ricerca del vero, ancor che tristo, è in questi versi indicato come antidoto al consumar la vita non con altra utilità che di consumarla e al sentimento del non vivere. E tale sentimento, prima in Alfieri e successivamente in Leopardi, non nasce su meditazioni astratte, ma – s’è detto – sulla base di un modello individuato proprio nei loro anni più verdi, rivissuti attraverso la memoria. In particolare l’angosciosa definizione alfieriana dell’infanzia come anni di vegetazione, o di «quella prima quasi stupida vegetazione de’ bambini», come si legge nella prima redazione della Vita39, e la dolorosa denunzia del poeta dei Canti della sua precoce incapacità a gustare le bellezze paesistiche e persino il fascino femminile e la sua non meno precoce intuizione del vuoto del mondo attestano inequivocabilmente la costruzione di un modello del non vivere, reale o presunto che sia, nato e alimentato in anni lontani. Da questo modello prenderà le mosse una meditazione metafisica che finirà per identificare il vegetare e il non vivere col concetto di noia e con una condizione umana ontologicamente negativa; e nel forte sentire alfìeriano, ovvero nella leopardiana superiore concezione della noia medesima, l’unica garanzia di autenticità spirituale per un uomo libero. Si comprende bene anche come il risultato dell’analisi fin qui condotta evidenzi un livello ulteriore e più profondo del rapporto che lega Leopardi ad Alfieri; un livello da porre vicino ad altri significativi aspetti di tale rapporto precedentemente evidenziati dagli studî: soprattutto i numerosi prestiti stilistici e lessicali trasferiti dall’Alfieri tragico al Leopardi lirico, i temi del titanismo che irrompe nel giovanissimo Leopardi delle prime canzoni oppure l’idea di un Alfieri genio del fare prima che dello scrivere e, ancora, al di là della metafora della tirannide, l’intuizione – già alfieriana, prima che leopardiana – di un male metafisico incombente sul destino degli uomini, quel fato determinato da una crudele volontà degli dèi e alla quale sia Alfieri sia Leopardi daranno una stessa definizione: duro fato40. 39

Vita di Vittorio Alfieri, cit., p. 337. L’avevano già notato Gavazzeni e M. M. Lombardi nel loro commento ai Canti (con Introduzione dello stesso Gavazzeni: Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 20013): si veda rispettivamente nel Filippo (a. I, v. 33) e in Nelle nozze della sorella Paolina (v. 7). Per alcuni vecchi riferimenti bibliografici sui prestiti stilistici e sui motivi da Alfieri trasmessi a Leopardi si veda l’apposita nota (p. 216) in Giuseppe Guido Ferrero, Alfierismo leopardiano, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CIX (1937), pp. 211-238. In genere i commenti ai Canti registrano reminiscenze alfieriane in Leopardi, a cominciare da quello a cura di M. Fubini 40

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ed E. Bigi, ristampato fino ad anni recenti (si veda alla nota 18), che presenta riscontri nei seguenti componimenti: Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, II primo amore, Al conte Carlo Pepoli, Amore e morte e La ginestra. Parziali, ma significativi riscontri in questa direzione in alcuni altri studî dedicati a Leopardi: mi limito qui a citare Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 107-109. Poco utile Antonio Sorella, Spunti di stile tragico nella lirica leopardiana, in «Italian Studies», LVI (2001), pp. 57-65 che parte dal presupposto del tutto infondato che gli stilemi dell’Alfieri tragico «poterono essere utilizzati dal Leopardi lirico, per rappresentare la tensione spirituale di un laico che, attraverso il monologo ‘tragico’, istituiva a modo suo un dialogo con l’ultraterreno» (p. 57). Sul titanismo si veda almeno U. Bosco, Titanismo e pietà…, cit., mentre su varî aspetti della presenza alfieriana in Leopardi – spirito antitirannico, malinconia, rifiuto della mediocrità, brama di indipendenza e percezione acutissima del tragico vuoto dell’esistere – restano ancora utili le pagine dedicatevi da G. G. Ferrero nel saggio sopra citato. Sulla noia leopardiana (legata alla scoperta del vero) e sul forte sentire alfieriano acuti cenni in A. Di Benedetto, Le passioni e il limite. Un’interpretazione di Vittorio Alfieri, Napoli, Liguori, 1994 (2ª ed.); cfr. almeno le pp. 203 e 212 s. Un breve saggio di Angiola Ferraris (Alfieri e Leopardi: i regni della poesia, in « Italianistica», a. XXII, nn. 1-3, genn.-dic. 1993, pp. 21-27) vorrebbe dimostrare un comune approdo dei due poeti alle ragioni del primato della letteratura e della peculiare natura del comporre poetico: ma l’argomento si rivela molto impegnativo rispetto alla ridotta documentazione riportata. Infine, sulla formulazione alfieriana, da Leopardi ripresa quasi alla lettera, del motivo della imperscrutabilità e terribilità del male incombente sul destino degli uomini, mi sia concesso rinviare a G. A. Camerino, «Sublimi verità in sublime stile notate». Un dialogo toscano e la poetica dell’Alfieri tragico, in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze, 19-20-21 ottobre 2000, a cura di Gino Tellini e Roberta Turchi, Firenze, Olschki, 2002, pp. 448-449 e poi in Id., Alfieri e il linguaggio della tragedia. Verso, stile, tópoi, Napoli, Liguori (“Collana di testi e critica”), pp. 355-356.

APPENDICE La poesia come metodo. Il «Sistema di Belle Arti» nello Zibaldone Nello Zibaldone di pensieri, sin dalle prime pagine, in cui si traccia anche una sorta di rassegna dei maggiori autori della letteratura italiana con significativi giudizî, è possibile seguire, al di là di qualche contraddizione apparente, le fasi evolutive e gli snodi fondamentali della lunga riflessione di Leopardi sul fine e sui mezzi del lavoro poetico. Nell’arco di un quindicennio, dal 1817 al 1832, egli ha infatti arricchito, ampliato e integrato in modo coerente questa riflessione, senza mai smentirne, anche a distanza di tempo, i presupposti originarî; e ha soprattutto formulato un vero e proprio metodo, oltre che un gusto della poesia. Il gusto, definito «scienza del buono e del cattivo» in un pensiero del 18201, sarebbe stato naturale negli antichi e tale dovrebbe tornare a essere anche in tempi moderni, dopo lunghissimi periodi di corruzione (polemica rivolta soprattutto contro il cosiddetto «seicentismo»). In un altro pensiero, posteriore di due anni, si osserva che il gusto può fondarsi su regole ed essere considerato universale ed eterno soltanto in un senso poco determinato e molto relativo: Non c’è regola nè idea nè teoria di gusto universale ed eterno. Qual potrebb’ella essere, se non la natura? [...] Ma qual natura, se non l’umana? Poichè le cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del cattivo gusto, non sono considerate se non per rispetto all’uomo. Or non è ella cosa manifestissima, che la natura dell’uomo si diversifica moltissimo secondo i climi, secoli, costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze fisiche, morali, politiche, ec. [...]? Resta dunque per tutta idea e teoria di gusto universale ed eterno, un’idea ed una teoria, che comprenda solamente, e si fondi, e si formi di quei principii che, relativamente al gusto, si trovano esser comuni a tutti gli uomini, e tenere alla primitiva e immutabile natura umana. [...] Dal che segue che questa idea e questa 1

Zib., p. 146 (2 luglio 1820).

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teoria d’un gusto che sia veramente universale ed eterno, si riduce a pochissime regole, ed è infinitamente meno circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e lascia luogo a infiniti gusti diversiss.[imi] ed anche contrarii fra loro [...]2.

Passo chiarificatore importante anche perché induce Leopardi, di fronte all’estrema varietà dei gusti, a porsi un problema di regole, evocate, come s’è visto, in contrasto ai primi. Sia detto subito che nello Zibaldone (ma non solo in quest’opera, evidentemente) si rileva una posizione molto innovativa di fronte alla tradizione classicistica delle regole e dei generi letterarî, anche senza aderire alla loro negazione, come proclamato dai romantici. «Tutti i grandi poeti greci sono stati prima di Aristotele, e tutti i latini prima o contemporaneamente ad Orazio», si legge nella pagina precedente a quella del 1820 prima menzionata3; affermazione che ribadisce in modo netto quanto il poeta aveva scritto due anni prima nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitù e l’ignavia del poeta sono queste le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? dei quali, e massimamente dei tre primi, è stato detto mille volte che sono e similissimi agli antichi, e diversissimi4.

«Similissimi [...] e diversissimi»: la ricerca leopardiana di un metodo della poesia, o di un «Sistema di Belle Arti», per usare una formula propria dell’autore5, radicalmente divergente da regole e modelli, prenderà le mosse da questo principio. Similissimi e diversissimi rispetto agli antichi poeti significa che questi ultimi vengono assunti non passivamente come modelli che si cristallizzano in regole, bensì solo come metodo di una poesia che, nel processo imitativo, avendo come fine il diletto, segua determinati criterî – a cominciare da quello della semplicità o naturalezza –, sapendo bene che gli stessi devono essere però arricchiti attraverso l’apporto, praticamente inesauribile, dell’immaginazione e dell’invenzione. Similissimi allora nel metodo e nella concezione della poesia (fine e mezzi; e tra questi la maraviglia, come si dirà più avanti), ma diversissimi nel modo di osservare la natura, che non

2 3 4 5

Zib., pp. 2636-38. Zib., pp. 145. G. Leopardi, Tutte le opere, cit., I, p. 932. Zib., p. 6.

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è mutata rispetto a quella degli antichi, e che tuttavia ai moderni si rivela sempre più varia e complessa. Ma per restare allo Zibaldone, le cui pagine integrano, approfondiscono e sviluppano notevolmente molti presupposti del Discorso sulla poesia romantica (citato anche esplicitamente), si deve anzitutto sottolineare che Leopardi nella costruzione teorica di un metodo della poesia tenta di delinearne fine e mezzi che procedono sempre in modo coordinato e coerente. In uno dei primi appunti zibaldoniani, che risalgono alla seconda metà del 1817, egli postula un Sistema di Belle Arti: Fine – il diletto; secondario alle volte, l’utile. – Oggetto o mezzo di ottenere il fine – l’imitazione della natura, non del bello necessariamente – Cagione primaria del fine prodotto da questo oggetto o sia con questo mezzo – la maraviglia: forza del mirabile e desiderio di esso innato nell’uomo: tendenza a credere il mirabile: – la maraviglia così è prodotta dalla imitazione del bello come da quella di qualunque altra cosa reale o verisimile [...].

Dopo aver accennato alle cosiddette «cagioni secondarie e relative ai diversi oggetti imitati – la bellezza, la rimembranza, l’attenzione che si pone a cose che tuttogiorno si vedono senza badarci ec.», nonché alla «cagione primitiva del diletto destato dalla maraviglia ec. e però conseguentemente del diletto destato dalle belle arti [...]», egli osserva ancora: Cagioni dei difetti nelle belle arti – Sproporzione, sconvenevolezza, cose poste fuor di luogo, al che solo (contro l’opinione di chi pensa che provenga dall’avere le arti per oggetto il bello) si riducono i difetti della bassezza della bruttezza deformità crudeltà sporchezza tristizia tutte cose che rappresentate o impiegate nei loro luoghi non sono difetti giacchè piacciono e per mezzo dell’imitazione producono la maraviglia, ma sono difetti fuor di luogo p.[er] e.[sempio] in un’anacreontica l’immagine di un ciclopo [...]. Altri difetti e vizi; affettazione ec. quasi tutti si riducono alla sconvenevolezza e inverisimiglianza [...]6.

Dunque, il Leopardi diciannovenne delinea già un metodo della poesia, o sistema come lo definisce. Come nell’estetica classicistica (Aristotele, ma anche De arte poetica di Orazio), il fine poetico è identificato nella categoria del diletto (e, solo in via subordinata, dell’utile) e viene perseguito attraverso un processo d’imitazione della natura che deve destare la meraviglia. E la categoria del mirabile viene a contrapporsi all’«orrore della noia naturale» 6

Ibid. Ma si veda anche alle pp. 2 e 3.

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non attraverso l’insensata astrazione del bello ideale, ma attraverso una originalità specifica, applicata però a un genere artistico o letterario in cui non risulti sconveniente o inverosimile. E sempre nello Zibaldone, poche pagine più avanti, contestando il Breme delle Osservazioni sulla poesia moderna, ribadisce in termini identici la sua linea sul concetto d’imitazione e sul fine della poesia: [...] se la poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, nè deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura e del fine della poesia che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia prodotta dall’imitazione ec. [...]7.

L’imitazione della natura è originariamente un concetto-guida della poetica aristotelica; ed anche quello di meraviglia come causa del piacere estetico deriva da Aristotele, il quale aveva scritto: «Il meraviglioso, poi, è piacevole, segno ne è che tutti riferiscono esagerando con aggiunte, come pensando di far piacere. Soprattutto Omero ha insegnato anche a tutti gli altri a dire il falso come si deve; e questo è il paralogismo [Τò δb θαυμαστòν cδύ· σημεÖον δέ, πάντες γaρ προστιθέντες aπαγγέλλουσιν óς χαριζόμενοι. Δεδίδαχεν δb μάλιστα òΟμηρος καd τους iλλους ψευδÉ λέγÂιν óς δεÖ. òΕστι δb τοÜτο παραλογισμός]»8. Ma solo un anno dopo, all’incirca, sempre nello Zibaldone, il poeta dei Canti già integrava Aristotele con lo Pseudo-Longino, annotando: Anche l’amore della maraviglia par che si debba ridurre all’amore dello straordinario e all’odio della noia ch’è prodotta dall’uniformità.

E ancora, in un appunto del 14 ottobre 1821: La maraviglia principal fonte di piacere nelle arti belle, poesia, ec. da che cosa deriva, ed a qual teoria spetta, se non a quella dello straordinario?9

Rilievi di estremo interesse, perché lo straordinario che configura la maraviglia è traduzione letterale del παÚ¿δοξος pseudolonginiano; anzi, il concetto zibaldoniano traduce testualmente il passaggio finale del cap. XXXV del Sublime10, dove si legge che gli uomini «©αυμαστeν δ’ùμως àεd τe παÚ¿δοξος», 7

Zib., p. 18. Cito dalla recente edizione stabilita sull’edizione critica oxfordiana: Aristotele, Poetica, traduzione e cura di Pierluigi Donini, p. 166 (XXIV, 18-20). 9 Zib., pp. 23 e 1916. 10 Sulla lettura leopardiana del trattato dell’antico anonimo si veda in questo volume alla n. 9 del cap. III. 8

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cioè si meravigliano sempre di ciò che è straordinario (ma si veda anche nel cap. I: il meraviglioso si lega sempre a un senso di straordinario). Non sembri esagerato affermare che queste acquisizioni resteranno operative fino all’ultima stagione leopardiana, anche se la categoria del mirabile e il concetto d’imitazione della natura si amplieranno via via e si arricchiranno rispetto ai mezzi della poesia in stretta corrispondenza con l’ampliamento e l’arricchimento del fine della medesima. Premessa inderogabile è che la poesia resti in ogni caso espressione diretta e autentica della natura e, quindi, sul piano degli strumenti o dei mezzi, sia conseguita mediante l’imitazione di quella: formula classicistica, s’è detto, che assumerà tuttavia significati innovativi e antitradizionali attraverso i momenti distinti e pur unitarî dell’osservazione sensibile, della memoria, dell’immaginazione (o fantasia) e dell’invenzione. L’osservazione dei fenomeni fisici e paesaggistici che richiama per Leopardi quello straordinario che crea meraviglia, stupore, sbigottimento, spavento – termini sinonimici inconfondibilmente filtrati attraverso il Sublime pseudolonginiano (si ricordi: ©αυμαστeν, öÎπλËξις) – si troverà di fronte, a partire in modo evidente dal ’19, alla scoperta dell’arido vero e del nulla e alla dialettica sempre più articolata e conflittuale tra gli esiti della ragione e quelli della sensibilità e dell’immaginazione. Sul metodo leopardiano della poesia questa dialettica si rifletterà – s’è detto – con l’innesto in fasi distinte della funzione poetica della memoria, dell’immaginazione (o fantasia) e dell’invenzione. Non a caso nello Zibaldone, all’altezza del 1821 e del 1828’29, si addensano due ampî gruppi di pensieri nel passaggio dalla memoria come ricordanza, ripetizione ripercussione o riflesso della immagine antica, o come virtù imitativa, alla memoria come risorsa del tutto illusoria perché ormai soppiantata completamente dall’immaginazione (alludo alla teoria dei cosiddetti oggetti doppi 11). Ne consegue che il leopardiano Sistema di Belle Arti, delineato in alcune pagine iniziali dello Zibaldone, verrà potenziato rispetto al disegno originario. Il potenziamento del diletto, che è il fine della poesia, come s’è detto, avviene in due direzioni che si integrano a vicenda. Una è quella della semplicità o naturalezza, testuali termini leopardiani, l’altra quella che pone al centro del sistema poetico il genere della lirica, il più idoneo a esprimere le 11

Cfr. Zib., rispettivamente alle pp. 515, 1383 e 4418 (si ricordi: «Egli [cioè l’«uomo sensibile e immaginoso»] vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono»). Del problema della funzione della memoria in Leopardi dal 1821 al 1828-’29 ho trattato, anche con qualche esemplificazione dai Canti, a proposito degli oggetti «doppi», nel mio L’invenzione poetica…, cit.; cfr. almeno le pp. 59-60 e 70-71.

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passioni umane più forti e diverse, che per Leopardi già nel 1817 costituisce il primo genere poetico riconducibile alla categoria del sublime, secondo uno schema classificatorio riportato nella pagina zibaldoniana successiva a quella del Sistema di Belle Arti. A questa intuizione il poeta dei Canti resterà tenacemente e saldamente ancorato in tutte le stagioni, pur non sempre lineari, della sua storia di poeta; e non a caso molti anni più tardi scriverà ancora nello Zibaldone (corsivi dell’autore): Ogni sent.[imento] o pens.[iero] poet.[ico] qualunq.[ue] è, in qualche modo, sublime. Poetico non sublime non si dà. Il bello, e il sentim.[ento] morale di esso, è sempre sublime12.

È un appunto del 22 aprile 1829. Leopardi unisce qui in modo esplicito sublime estetico e sublime morale; un vincolo sempre operante nel senso che il sublime permette alla poesia di sollevare l’anima verso grandi illusioni e tocca sia il paesaggio naturale, col senso dell’infinito e dell’incommensurabile e l’imponenza e la terribilità dei fenomeni fisici, anche di quelli più devastanti, sia i moti del cuore e le passioni (malinconia, commozione, amore, odio, angoscia e altre ancora). Non a caso, nel cap. IX del suo trattato l’antico Anonimo cita sia il celebre carme di Saffo (per intero), Φα›νετα› μοι ÎÉνος Dσοσ θέοισιν, dedicato ai forti, interiori sussulti provocati dalla passione d’amore, sia i vv. 624 s. di Il. XV con la scena terribile di una tempesta di mare. E ancora: il sublime tocca le virtù e le azioni eroiche, consuete nel mondo antico; e solo uomini di eccezionale forza morale – si noti – possono comprendere anche la bellezza di un paesaggio sconfinato e terribile. Ma, senza scivolare sullo specifico terreno dell’invenzione poetica, si resti su quello del metodo della poesia. I concetti di semplicità e naturalezza restano per Leopardi fondamentali. La semplicità infatti è frutto di lunga arte e lungo studio e non ha nulla a che vedere con la spontaneità, come egli sottolinea a partire dal 1818 in alcune pagine iniziali dello Zibaldone, in polemica con le già ricordate Osservazioni del Cavalier Lodovico di Breme sulla poesia moderna e, più in generale, con le moderne versioni romantiche (Chateaubriand, Delille, Saint-Pierre) del patetico o sentimentale. «[...] Il sentimentale» – obietta il poeta nello Zibaldone – «non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una similitudine d’Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un’ode d’Anacreonte, vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che 12

Zib., p. 4493.

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cento mila versi sentimentali; perché quivi parla la natura, e qui parla il poeta [...]». E ancora: i romantici «non si avvedono che s’è perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro che l’invecchiamento dell’animo nostro [...]». Questo invecchiamento è tutto il contrario della semplicità degli antichi e del linguaggio di natura, che pure i romantici ritenevano di seguire, senza avvedersi, continua il passo zibaldoniano, «che essi amici della natura sola, vengono in effetto a predicar l’arte, e noi amici dell’arte veniamo verissimamente a predicar la natura»13. E ai requisiti di semplicità e naturalezza si richiama il rapporto artenatura sin dalle pagine iniziali dello Zibaldone, in cui pure si legge: «[...] chi non ha studiato e non ha letto, [...] non iscrive mica con semplicità, ma tutto all’opposto [...]»; e ancora: «[...] il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte [...]; e i nove anni d’Orazio14 [...], non sono mica per accrescer gli artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui [...] si burlano i romantici [...] che [...] non s’accorgono che la minor arte è minor natura»15. In realtà, nel contrapporre ai romantici un’idea di poesia come emanazione diretta della natura da conquistare attraverso un lungo tirocinio d’arte, Leopardi riprende quasi alla lettera una sequenza del cap. XXII del Sublime pseudolonginiano, in cui, esplicitando meglio un’affermazione di Aristotele16, si legge che (traduco approssimativamente) l’arte raggiunge il suo stadio più perfetto quando si presenta come prodotto della natura, la quale a sua volta coglie il segno quando in sé comprende l’arte. Analogamente lo stesso Anonimo, già nel cap. XVII, parlando dell’artificio delle figure retoriche, osservava che «la figura più riuscita è quella che non lascia vedere di essere una figura». Leopardi dunque ripropone ai moderni ancora una volta un’antica lezione di metodo; e del resto la semplicità o la naturalezza e il controllo dell’artificio connoterebbero nell’antichità anche quella che nello Zibaldone viene definita «cosa molto simile alla poesia», cioè l’eloquenza, come aveva anche rilevato l’anno precedente nel Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone («Frontone [...] fuggì [...] con ogni cura possibile l’eccesso

13

Zib., pp. 16-17. Qui Leopardi allude a De arte poetica, vv. 388-389: «[...] nonumque prematur in annum/ membranis intus positis [...]». 15 Zib., pp. 20-21. 16 Aristotele, Rettorica, 1404b: cfr. Aristotele, Opere complete, vol. X (trad. ital. di Armando Plebe), Bari, Laterza, 1973. 14

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dell’artificio»17) e come – per restare allo Zibaldone – sottolinea in Senofonte («[...] gli altri scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte non si scorge neppur ciò»18). Sulla «semplicità» di Senofonte l’autore torna pure in altri luoghi zibaldoniani19. Ma è soprattutto la semplicità dei grandi poeti antichi che attrae il compilatore dello Zibaldone, il quale a un certo punto annota: La semplicità del Petrarca benché naturalissima come quella dei greci, tuttavia differisce da quella in un modo che si sente ma non si può spiegare [...]. I greci poeti forse sono un poco più eleganti, come Omero che cercava in ogni modo un linguaggio diverso dal familiare [...] quantunque sia rimasto semplicissimo20.

Lontanissimo da questi esempî di semplicità e naturalezza sarebbe lo stile dei francesi contemporanei, «composto delle grazie di società e di conversazione [...]»21. Un paio d’anni dopo, sempre nello Zibaldone, l’esigenza di naturalezza e di semplicità viene fissata quasi in criterî normativi evolvendosi da gusto a fine della poesia; divenendo cioè una componente essenziale del diletto. Tali criterî si basano anzitutto sulla distinzione nettissima e, anzi, contrapposizione tra bello e natura, come mostra la nota del 29 luglio 1821: Come dunque altrove abbiamo distinto il bello da ciò che reca diletto alla vista, così bisogna formalmente distinguere il bello dal naturale. Non già che ciò che diletta la vista non possa esser bello, o che il bello non possa recar diletto alla vista (anzi il bello esteriore e sensibile glielo reca essenzialmente); ma queste due qualità sono diverse, ed altro è il dilettar la vista, altro l’esser bello. Così altro è l’esser naturale, altro l’esser bello; e può una cosa non esser naturale, e pur bella, o viceversa [...]22.

Come si vede, il bello non coincide con «ciò che reca diletto alla vista». Detto meglio: «altro è il dilettar la vista, altro l’esser bello. [...] Altro è l’esser naturale, altro l’esser bello. [...]»; fermo restando, ovviamente, che il naturale può anche essere bello. Si crea in tal modo una saldatura netta tra il diletto, che è il fine della poesia, e l’essere naturale; e di conseguenza tra il diletto e la naturalezza e semplicità intese come condizione in cui l’arte, seppur inevitabile, deve comunque restare servile alla natura, unica fonte della poesia. Ed è per questo che il passo zibaldoniano citato riprende subito di seguito 17 18 19 20 21 22

G. Leopardi, Tutte le opere, cit., I, p. 904. Zib., p. 62. Cfr. per es.: Zib., pp. 95 e 237. Zib., p. 70. Zib., p. 93. Ma si veda anche Zib., p. 237. Zib., p. 1410-1411.

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proprio il concetto di semplicità, ricordando la sua genesi nell’ambito del gusto («Il buon gusto ama sempre il semplice»), ma cercando ora di fissarlo in un metodo o in un sistema normativo. S’è detto che il semplice e naturale può anche essere bello. Per due ragioni, insiste puntigliosamente il poeta: 1. Perchè suol essere propria della natura, la quale (potendo ben fare altrimenti) si è per lo più diportata semplicemente, con mezzi semplici ec. ec. (il che massim.[amente] apparisce dalla mia teoria della natura) almeno quanto all’apparenza delle cose. La quale solo bisogna considerare circa il bello: giacchè la natura forzatamente e contro natura scoperta e svelata, non è più natura, qual ella è; e quindi non è più fonte di bellezza ec. ec. 2. La semplicità è bella, perchè spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo perchè è naturale, non affettata, non artifiziata [...]. Per queste, e non per altre ragioni, la semplicità forma parte essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne possono allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale nelle cose essenziali è immutabile. Perciò le poesie o scritture greche saranno sempre belle, non riguardo al bello in se stesso, ma riguardo alla semplicità e naturalezza loro ec.23

Questa enunciazione teorica che si legge nello Zibaldone del 1821 è un approdo definitivo nella costruzione leopardiana di un metodo della poesia. La semplicità viene a formare la parte essenziale, dunque non più opinabile, e il carattere del buon gusto (inteso, quest’ultimo, come categoria estetica e non in modo soggettivo) e, soprattutto, si qualifica in funzione dell’aderenza o fedeltà ai modi d’essere di una natura non svelata né violata (evidentemente dai cosiddetti progressi scientifici) e che si rivela fonte di poesia proprio nella sua più autentica fenomenologia, che è sempre apparente: precisazione, questa, che, unita all’inciso «non affettata, non artifiziata [...]» (detta di una cosa naturale), rinvia diritto a un’altra annotazione zibaldoniana successiva di alcuni mesi, in cui si legge che il piacere estetico consiste pure nel «contrasto tra l’artefatto e l’inartefatto, o la perfetta apparenza dell’inartefatto»24. Non è dunque influente per il poeta che la naturalezza sia reale o apparente. Siamo nel 1821, anno in cui ormai Leopardi aveva da tempo consumato la sua amarissima svolta e maturato la massima disillusione di fronte al vero e ai postulati della ragione; e il bello come possibile fenomeno apparente introduce, senza soluzione di continuità, alla contraddizione che 23 24

Zib., pp. 1411-4112. Zib., p. 1915; ma si veda anche p. 1916.

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il metodo leopardiano incontra via via che l’esperienza poetica procede. Infatti quell’«apparenza delle cose» nell’appunto del ’21 prima citato non è espressione inserita casualmente, ma preludio di una progressiva riforma del rapporto sensibile con la «realtà» naturale (nel Discorso sulla poesia romantica era definito «commercio coi sensi»25) che condurrà l’autore nel corso degli anni a postulare, oltre tale rapporto, la funzione poetica della memoria, dell’immaginazione e, infine, dell’invenzione, intesa come metodo addirittura opposto alle verità dei sensi e della ragione e fondata sul mondo come non è, come si legge nello Zibaldone del 29 agosto 182826. Ma si proceda con ordine. Attraverso le pagine dello Zibaldone vanno recuperate e collegate molte glosse e annotazioni che denotano la qualità articolata e complessa della semplicità e naturalezza del metodo leopardiano, assunte, s’è detto, come componenti essenziali del diletto, cioè del fine della poesia. Anzitutto la naturalezza, cioè il porre la natura come misura del poetico, implica precisi modelli di riferimento che Leopardi individua decisamente nei poeti antichi e, in primo luogo, nella tradizione dell’idillio, a partire da Teocrito e Mosco, genere a cui egli riconosce, appunto, il requisito della naturalezza-semplicità, definita nello Zibaldone anche «bella rozzezza e mirabile verità»: I nostri veri idilli teocritei non sono nè le egloghe del Sannazzaro nè ec. ec. ma le poesie rusticali come la nencia, Cecco da Varlungo ec. bellissimi e similissimi a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità, se non in quanto sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno molto spesso una tinta27.

Col tempo il poeta cercherà di riconvertire i presupposti di naturalezza insiti nel filone idillico nel generale alveo del genere lirico, definito nel ’26 nello Zibaldone «vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo»28. Definizione, questa, che non a caso si concilia perfettamente con quella onnicomprensiva di idillio, tardivamente, ma non inutilmente formulata dal poeta qualche anno dopo nei Disegni letterari: «Idillii esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo»29. 25 26 27 28 29

G. Leopardi, Discorso…, cit., p. 915. Zib., p. 4358. Zib., p. 57. Zib., p. 4234. G. Leopardi, Tutte le opere cit., I, p. 372.

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Come si vede, nella concezione leopardiana il modello dell’idillio rompe gli argini, confluendo nel generale e ben più capace alveo della lirica. Questo però non significa che del modello idillico-pastorale, da cui pure il suo lavoro poetico aveva preso le mosse, non resti per Leopardi un’indimenticabile e ineludibile lezione di metodo: quello appunto che connota il diletto, quale fine della poesia, con la semplicità e naturalezza, intese – ormai è chiaro – con quella clausola riportata nel passo zibaldoniano precedentemente citato; si rammenti: «[...] si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo perché è naturale, non affettata, non artifiziata[...]». E naturale, cioè pertinente alla natura, non è soltanto il paesaggio fisico, montano, campestre, marino o celeste, che tanta parte ha nel genere dell’idillio, ma tutto ciò che tocca l’immaginazione, il sentimento, gli affetti, compresa la materia funerea o lugubre, assegnata dall’autore al genere lirico, come si legge nello Zibaldone alla data del 15 dicembre 182630. Si noti bene: è lo stesso Zibaldone a fare chiarezza sull’idea leopardiana di semplicità e naturalezza e a tenerla distante assai da semplicistiche soluzioni di impronta arcadica. Infatti, il 26 gennaio 1822, appena un anno dopo aver scritto il passo citato sulla distinzione rigorosamente rimarcata tra il bello e il naturale, egli ne scrive un altro non meno illuminante dell’estrema diversità del suo concetto di naturalezza rispetto alle pastorellerie e alla finta semplicità degli arcadi settecenteschi. Si ascolti: [...] o pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella, efficace, elegante, e pienissimamente imitativa ch’ella sia, se non esprime passione [...] (o solamente qualcuna troppo poco viva) è sempre posposta a quelle che l’esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. [...] Non è dunque la sola verità dell’imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di questa vuol essere liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl’idilli ec. ec. saranno sempre d’assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelli, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione [...]31.

Il richiamo alla passione conduce ancora una volta all’antico trattato pseudolonginiano, all’inizio del cap. II e nel cap. XVII, in cui per ben due volte π¿©ος, (passione, appunto) è unito a ûψος (sublime) come in una endiadi, quale efficacissimo correttivo contro le figure artificiose dello stile. Ma sono soprattutto due gli aspetti di capitale importanza da rimarcare nel 30 31

Zib., p. 4236. Zib., pp. 2361-2362.

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

brano zibaldoniano appena citato: il primo è il ruolo decisivo della passione, della forza e dell’energia, che adottano la verità dell’imitazione e la bellezza per render l’uomo attivo e farlo sentire gagliardamente, formula, quest’ultima, che richiama in modo scoperto il forte sentire alfieriano32; il secondo aspetto è il rifiuto nettissimo di un’idea di idillio basata esclusivamente sulla pittura di paesaggio e sul pittoresco in generale. L’uomo, dice Leopardi, «odia l’inattività, e di questa vuol essere liberato dalle arti belle». Affermazione quanto mai rivelatrice perché instaura un rapporto di necessità tra funzione liberatrice della poesia e rifiuto di quell’inattività che, si capisce, non è che una variante dell’avvilente ozio, del bisogno di occupare la vita, come il poeta scrive in un appunto zibaldoniano del ’2433 e come sosterrà pure in termini analoghi nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nel Dialogo di Torquato Tasso e nell’epistola Al conte Pepoli. E la spinta a questa liberazione a opera della poesia e, più in generale, delle cosiddette arti belle deriva proprio dallo stato d’infelicità, che è direttamente proporzionale alla considerazione che l’uomo ha di sé, all’amor proprio, alla sua capacità di pensare in modo intenso e profondo; cioè «l’infelicità dell’uomo è sempre in ragion diretta degli avanzamenti del suo spirito [...]», come spiega in modo diffuso l’autore nelle pagine zibaldoniane dell’1 e del 2 maggio 182234. E non a caso, proprio in questo medesimo anno, che è anche quello del brano citato sulle arti belle che liberano dall’inattività, l’infelicità è assunta come base e condizione della poesia, come mostra la pagina zibaldoniana del 4 luglio: [...] qualunque è d’animo veramente e fortemente poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di vivo sentimento, scriva o no, in prosa o in verso) nasce infallibilmente destinato all’infelicità35.

È vero che una persistente, grande infelicità può portare a una totale indifferenza e inaridimento verso la natura, e quindi verso il bello e la poesia (su questo rischio si sofferma lo Zibaldone del 29 giugno 1824)36, ma in ogni caso il tema dell’infelicità resta strettamente connesso nella riflessione leopardiana a quello che s’è definito il metodo della poesia (e, com’è noto, 32

V. Alfieri, La virtù sconosciuta, cit., pp. 39-40. Si veda anche Zib., p. 2032: «[...] uno spirito gagliardamente poetico, [...] sente fortemente [...]». 33 Zib., p. 4075. Per questo motivo centrale, per il Leopardi è molto debitore ad Alfieri, è dedicato l’intero capitolo XI di questo volume. 34 Zib., pp. 2410-2414. La citazione è a p. 2414. Ma sullo stesso tema non va trascurata anche una nota zibaldoniana precedente (Zib., p. 960). 35 Zib., p. 2545. Sulla stessa linea è un’annotazione di qualche settimana più tardi che comincia: «Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non così anticamente […]» (Zib., p. 2583). 36 Zib., pp. 4105-4108.

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il riferimento principe in questo senso è Tasso, di cui, sempre nello Zibaldone, si legge: «[...] se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice»37). All’energia delle passioni e al sentire gagliardamente, per riprendere l’espressione testuale, di cui l’infelicità è il risvolto inevitabile, si collegano sia il sublime pseudolonginiano, che in Leopardi costituisce la prima, notevole lezione, anche per quanto concerne la cosiddetta barbarie della ragione, a cui si oppone la sola natura dispensatrice di illusioni, sia ancora una volta una puntuale indicazione del più volte citato Blair tradotto da Soave. Già nello Zibaldone del 1818 si leggeva tra l’altro: Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perchè al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia.

E ancora, poco più avanti: questi vizî derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri nè forza e impeto e ardore d’animo, nè grandi azioni che per lo più sono pazzie.

A sua volta Blair, per mano di Soave, verso la fine della Lezione III, osserva che nella rassegna da lui condotta sugli oggetti riconoscibili come sublimi «non si è presentato niun oggetto sublime, nella cui idea il potere, la gagliardia, la forza o non entri direttamente, o almen non sia con essa intimamente associata, guidando i nostri pensieri a qualche meravigliosa possanza, da cui l’effetto è prodotto»38. Grandezza di pensieri è formula che si collega chiaramente alla sublimità di pensieri del Discorso d’un italiano intorno alla poesia romantica39, che risale allo stesso anno dell’appunto zibaldoniano or ora richiamato, cioè al 1818; ma è anche formula eminentemente pseudolonginiana: ûψος μεγαλοφÚοσύνης àπήχημα, il sublime come risonanza di una grande anima (cap. IX del trattato). E la grandezza morale è anche condizione necessaria per poter percepire il sublime della grandiosità e dell’imponenza dei fenomeni naturali, dell’infinito e dell’illimitato, così come pure degli aspetti tempestosi e terribili

37 Zib., p. 4256. Omero, si legge nelle Operette morali, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, attribuiva alla specie umana il principato della infelicità. 38 Zib., p. 22 e Lezioni di rettorica…, cit., p. 60. 39 G. Leopardi, Tutte le opere, cit., I, pp. 938-939.

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LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

della natura. Alla data del 18 novembre 1821 si legge infatti nello Zibaldone (corsivo d’autore): Piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini, ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo una vena di piacere, quantunque ella sia p.[er] se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino, al quale un fiume vicino soleva recare grandi danni, dire che nondimeno era un piacere la vista della piena, quando s’avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini, benchè brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella pittura, nell’eloquenza ec.40 L’episodio del contadino potrebbe sembrare un inserto banale, invece va interpretato sempre nell’ottica della semplicità-naturalezza. Il contadino osserva la natura senza il filtro delle cognizioni razionali e scientifiche. Non è qui luogo di soffermarsi nuovamente sull’originale tema leopardiano del piacere della tempesta, che si nota, tra l’altro, nel cosiddetto Argomento di elegia del ’19, nell’Elegia II e nell’insueto gaudio di Saffo nell’Ultimo canto e che è stato già svolto nel cap. V41. Nel brano appena citato quel tema si riflette nella vena di piacere che si prova di fronte a una sensazione dispiacevole, formidabile, qui nel senso etimologico di spaventosa, o dolorosa, per riprendere le testuali espressioni zibaldoniane; stesso tema che va soprattutto considerato come componente essenziale del sublime, per Leopardi vera misura del poetico e chiave privilegiata dell’imitazione della natura, che pertanto come ogni cosa naturale – s’è già visto – si contrappone a un’idea di bello presunta universale. E al sublime va pure ricondotto, secondo l’insegnamento del cap. XXXV dell’antico trattato, anche l’idea dello smisurato, dell’illimitato e dell’infinito. Non a caso solo qualche mese prima del passo appena esaminato, l’autore aveva anche definito efficacissimo e sublimissimo il contrasto tra il finito e l’indefinito [...]»42. Ma il sublime, oltre a esprimere solo il momento più elevato dell’imitazione della natura, nelle raffigurazioni e metafore viene sempre a racchiudere un messaggio o un significato che innalzi l’anima e parli la lingua, questa sì universale, del destino e della condizione dell’uomo. Deve esservi racchiuso 40 41 42

Zib., p. 2118. Si vedano in questo volume almeno i capitoli III e V. Zib., p. 1431.

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179

cioè un fine più serio, secondo la testuale formula dello Zibaldone alla data del 20 settembre 1823. Si legga: Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s’è’ non se ne curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui poco importanti che gli scorrano naturalmente dalla peña; e, per dir così, descrivere e introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz’alcuna dimostrazione di compiacenza e di studio apposito, e di pensarci e badarci, né di voler che il lettore ci si fermi. Così fanno Omero e Virgilio e Dante, i quali pienissimi di vivissime immagini e descrizioni, non mostrano pur d’accorgersene, ma fanno vista di avere un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore [...]. Al contrario fa Ovidio, il quale [...] confessa [...] ch’ei [...] a null’altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente43.

La costruzione leopardiana di un originale metodo della poesia culmina in questa sequenza dello Zibaldone in modo coerente e profondo. La semplicità-naturalezza come qualità e sostanza del diletto poetico non solo viene ancora una volta ribadita nelle immagini che scorrono dalla penna d’un autore «senz’alcuna dimostrazione di compiacenza e di studio apposito», secondo il già noto concetto dell’arte che fa risaltare la natura quanto più opera di nascosto, ma contemporaneamente si realizza e si compie autenticamente solo nel «mirare a cose più gravi; […]» e nel «far vista di avere un fine molto più serio […]». In questo carattere di serietà e gravità culmina nella concezione leopardiana la complessa evoluzione dei concetti di semplicità e naturalezza. Arriva allora il momento in cui il poeta, postosi sulla strada di una poesia grave e seria, ne identifica lo scopo, cioè il diletto, proprio nell’innalzarsi dell’anima, come indica esplicitamente l’appunto zibaldoniano del 22 aprile 1829: [...] è proprietà ed effetto essenziale d’ogni immaginaz.[ione] e sentim.[ento] di natura poetica, l’inalzar l’anima [...]44.

43 44

Zib., pp. 3479-3480. Zib., p. 4493.

180

LO SCRITTOIO DI LEOPARDI

Si tratta di un’immagine che riprende un’altra quasi identica dell’antico anonimo: l’anima si esalta davanti al vero sublime (ύπe τàλη©ουσ ûψους âπα›ετ¿ι […] ì ψυχc). Se questa è un’ulteriore prova della lezione esercitata dal ¶Âρd ûψÔù̃ sul gusto e sulla ricerca di un metodo della poesia in Leopardi, il quale tuttavia sorvola sulle distinzioni didascaliche che pure tramano i capitoli dell’antico trattato, non c’è dubbio che il compilatore dello Zibaldone la riassorba in un contesto irripetibile, anche perché integrato con molte letture e riferimenti ad antichi modelli teorici e creativi (in primis, Aristotele, Orazio, gli idillici greci, Omero, Virgilio). Ne consegue una ricerca teorica di estrema coerenza, riferita a un quadro generale, con l’esclusione cioè di momenti particolari di tale ricerca, assai spesso condizionata dalla contraddizione tra un rapporto imitativo e immaginativo con la natura e gli esiti negativi della ragione. Penso, nell’ultimo Leopardi, ad alcune fasi più amare e sconsolate, in cui, in nome della salvezza della poesia, il poeta sembra prendere in considerazione addirittura ciò che non sarà mai praticabile e che sarà smentito dalla stessa materia dei Canti, vale a dire la possibilità di rinunziare all’immaginazione e al diletto derivati dalla natura per assumere quale soggetto poetico addirittura il terribile vero, il prodotto del mondo com’è, quanto di più contrario all’immaginazione e all’invenzione. È un appunto zibaldoniano del 16 dicembre 1822 già esaminato nel cap. VII: Il vero certamente non è bello: ma pur anch’esso appaga o, se non altro, affetta in qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero [...]45.

Il piacere della verità è esattamente l’opposto del piacere dell’immaginazione e del diletto prodotti dalla naturalezza o semplicità. Come un’ombra terribile, ma necessaria, questo amarissimo piacere tornerà negli stessi termini nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (cap. V) e nell’epistola al Pepoli (si ricordi: «[...] ancor che tristo / Ha i suoi diletti il vero [...]», vv. 151–152). E questa poetica per così dire innaturale spiega anche l’indugio del poeta nella fase estrema dei Canti su alcuni motivi assolutamente negativi e negatori del destino dell’uomo e, di conseguenza, del destino della poesia.

45

Zib., p. 2653.

INDICE DEI TESTI LEOPARDIANI CITATI

– A se stesso, 130, 131, 134 – A Silvia, 112, 113, 114, 117, 138, 140n, 144 – Ad Angelo Mai, 61, 67n, 70, 90, 122, 154, 155, 156, 162n – Ad Arimane, 126, 127 – Agl’Italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno, 55 – Al conte Carlo Pepoli, 103, 109, 111, 112, 116, 122, 123, 124, 158, 159, 160, 161, 162n, 176, 180 – All’Italia, XII, 53, 54, 60, 70, 71, 115 – Alla luna, 14, 21, 27, 67, 90, 108 – Alla sua donna, 136, 137, 138 – Alla Primavera, o delle favole antiche, 8, 9, 10, 13, 70, 80, 98, 110, 112 – Amore e morte, 65, 79, 80, 134, 135, 137, 142, 141n, 162n – Appressamento della morte, 81, 84n – Argomenti di elegia, 29 – Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia, 55 – Argomento di elegia, 29, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 42, 83, 84, 178 – Argomenti di idilli, 19, 29, 41 – Aspasia, 32, 93, 134, 136, 137, 138, 139, 141, 142, 144 – A un vincitore del pallone, 52, 61, 67n, 162n – Avvicinamento della morte (cantica in cinque canti), 2, 3, 13, 14, 40, 64, 77, 78, 79, 80, 81, 86, 98n, 153

– Bruto minore, 70, 82, 95, 98, 100, 116, 162n – Cantico del gallo silvestre, 93 – Canto funebre di Bione (trad. da Mosco), 4, 27, 49 – Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 15, 64, 65, 96, 97, 98, 100, 101, 121, 123, 124, 126, 130, 159, 160 – Canzone sulla Grecia (abbozzo in prosa), 60 – Canzonetta V, 64 – Canzoni (edizione 1824), 13, 79, 95 – Consalvo, 31, 82, 91, 133, 134, 135, 139, 141, 143 – Crestomazia italiana. La poesia, 137 – Crestomazia italiana. La prosa, XIII, 6, 58 – Dell’amore della solitudine, 96 – Dell’educare la gioventù italiana, 60, 61 – Dello stesso (framm. XLI: dal greco di Simonide), 138 – Detti memorabili di Filippo Ottonieri, 110, 123, 159, 161n, 176, 180 – Di Archiloco (traduz.), 70n – Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, 65 – Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 129, 160 – Dialogo di Plotino e di Porfirio, 160

182

INDICE DEI TESTI LEOPARDIANI CITATI

– Dialogo di Timandro e di Eleandro, 96 – Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, 158, 159, 176 – Dialogo di Tristano e di un amico, 135 – Diario del primo amore, 16, 29, 23, 30, 150, 151, 32, 33, 34, 150 – Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone, 55, 57, 171 – Discorso sopra Mosco, XII, 1, 5, 7 e n, 8, 9, 10, 11, 48 – Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, 4n, 7, 9, 10, 11, 19, 20, 36, 42, 45, 49, 53, 54, 59, 60, 67, 71, 77, 86, 107, 143, 166, 167 – Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, 33 – Disegni letterari, 60, 61, 71, 174 – Elegia I, 23, 29, 30, 32, 33, 83n, 113 – Elegia II, 29, 30, 153, 32, 33, 34, 35, 38, 40, 41, 83, 113, 178 – Eneide. Libro secondo (traduz.), 64n, 79 – Epistolario, XI, 56, 79, 103, 104, 105, 106, 109, 110, 134, 138, 152, 153, 154, 158, 161 – Espero (trad. da Mosco), 9, 11, 12, 15 – Europa (trad. da Mosco), 64 – I Re Magi. Poemetto (in tre canti), 66 – Idillio V (trad. da Mosco), 18 – Il Balaamo (Cantica in tre canti), 64n, 66 – Il Catone in Affrica (poemetto in undici sezioni in vario metro), 64n – Il Copernico. Dialogo, 110 – Il diluvio universale. Sciolti, 64n – Iliade (traduz. vv. 555-559, c. VIII), 71 – Il Parini, ovvero della gloria, 47, 110 – Il passero solitario, 96, 97, 98, 100, 101, 107 – Il pensiero dominante, 98-99, 100, 113,

– – – – – – –

134, 136, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144 Il primo amore, 19, 32, 33, 83, 137, 138, 162n Il risorgimento, 22, 32, 111, 112, 131 Il sabato del villaggio, 41, 66, 124, 125 Il sogno, 16, 29, 33, 90, 91 Il tramonto della luna, 12, 95, 96 Inno a Nettuno d’incerto autore, 18, 40, 63, 64, 65, 66, 117 Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano, 9, 19, 33, 37, 64, 70, 80, 97, 153

– L’Amicizia. Idillio, 1, 3, 4, 8 – La campagna, 1 – La ginestra, o fiore del deserto, 64, 65, 66, 67n, 71, 84, 93, 115, 121, 127, 128, 129, 130, 131, 155, 162n – La quiete dopo la tempesta, 124 – La ricordanza. Idillio III (vd. Alla luna) – La sera del dì di festa, 10, 11, 90, 106, 138 – La Spelonca. Idillio, 64n – La tempesta, 2, 3, 8 – La vita solitaria, 10, 18, 21, 22, 23, 79, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 100, 101, 116, 122, 143, 144 – Le ricordanze, 18, 19, 21, 25, 26, 41, 69, 108, 112, 113, 115, 116, 117, 119, 122, 138, 144, 147, 149, 159 – Le Rime di Francesco Petrarca, 51, 76 – Le Rimembranze. Idillio, 14, 15, 27, 113 – Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana, 36 – Lettera di Giacomo Leopardi al Ch. Pietro Giordani sopra il Frontone del Mai, 57, 58, 59 – L’infinito, 18, 64, 65, 67, 68, 69, 71, 79, 90, 92, 93, 114, 116, 117, 122, 123, 128, 129, 130

INDICE DEI TESTI LEOPARDIANI CITATI

183

– Lo spavento notturno. Idillio V (vd. «Odi, Melisso»)

91, 113, 122, 123, 127, 129, 140, 142, 143, 150, 151

– Manuale di Epitteto (volgarizzamento), 128 – Maria Antonietta. Tragedia (frammento), 27

– Saggio di traduzione dell’Odissea (canto primo), 64n – Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, 15, 16, 17, 19, 20, 21, 22, 23, 38, 41, 42, 78, 80, 87 – Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, 53, 54, 79, 153, 162n – Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, 142 – «Spento il diurno raggio», 14, 19, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 95, 106 – Storia della astronomia, 4, 5, 27 – Supplemento generale a tutte le mie carte (autografo conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, 101n

– Nelle nozze della sorella Paolina, 22, 38, 51, 52, 61, 119, 120, 154, 162n – Notti puniche (poemetto in versi sciolti in tre parti), 66 – Odae adespotae, 13 – Odi di Orazio (trad. da Carminum lib. I): *«Sic te diva potens Cypri / […]», 64n *«Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni/ […]», 1 *«Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilinen / […]», 64 «Quid dedicatum poscit Apollinem / […]», 64n «O diva, gratum quae regis Antium, / […]», 64n «Nunc est bibendum, nunc pede libero / […]», 64n – Odi di Orazio (trad. da Carminum lib. II): «Non semper imbres nubibus hispidos», 64n «Odi, Melisso», 11, 23, 34, 142 – Operette morali di Isocrate (volgarizzamento), 48n – Palinodia al Marchese Gino Capponi, 65, 79, 127 – Paralipomeni della Batracomiomachia, 77n – Pompeo in Egitto (tragedia), 64 – Ricordi d’infanzia e di adolescenza, 16, 23, 31, 34, 66, 71, 75n, 77n, 85, 86,

– Telesilla, 32n – Titanomachia (trad. da Esiodo), 48 – Ultimo canto di Saffo, XIII, 13, 15, 33, 35, 39, 41, 42, 52, 64, 70, 78, 82, 83, 178 – Vita di Silvio (o Lorenzo) Sarno [oppure Abbozzi della vita…, oppure Vita abbozzata…] (vd. Ricordi d’infanzia e di adolescenza), 66, 67n, 77n, 113n, 150, 151 – Zibaldone di pensieri, XI, XII, 4, 6, 23, 25, 30, 31, 33, 36, 43, 45, 46,47, 48, 49, 52, 53, 55, 56, 59, 72, 75, 76, 77, 78, 81, 86, 87, 89, 94, 99, 104n, 107, 108, 110, 115, 117, 118, 119, 120, 122, 123, 124, 125, 126, 139, 143, 149, 155, 156, 157, 159, 160n, 165-180

INDICE DEI NOMI*

Agosti Stefano, 97n Alighieri Dante, 81, 166, 177, 179 Alfieri Vittorio, XI, 86, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 163n, 176 Anacreonte, 2, 37n, 170 Animosi Cristiano, 2n Antognoni Oreste, 90n, 123n Antonino Pio, 57 Archiloco, 70n Arduini Franca, 149n Ariosto Lodovico, 166 Aristotele, 166, 167, 168, 171, 180 Baldovini Francesco (Fiesolano Branducci), 174 Ballerini Monica, XIn Barbarisi Gennaro, 36n Barbieri Lucia, 51n, 52n, 138n Bembo Pietro, 92 Berchet Giovanni, 70n Bertola de’ Giorgi Aurelio, 6n Besomi Ottavio, 22n, 47n, 65n, 93n, 158n Bessi Rossella, 52n Bigi Emilio, 14, 18n, 27, 90n, 96, 124n, 156n, 162n Binni Walter, 4n, 103n, 105n, 123, 162n

Bione, 4, 7, 9, 18n, 27, 49 Blair Hugh, XIII, 7, 8, 9, 15, 16, 17, 20, 24, 26, 48, 50, 63, 65, 69, 70, 72, 81, 82, 89, 94, 118, 119n, 177 Blasucci Luigi, XII, 19n, 36, 37, 38, 52n, 55n, 70n, 83n, 85, 92, 93, 135, 136n Boccaccio Giovanni, 16n Bollati Giulio, 6n Bonaparte Napoleone, 151 Bonora Ettore, 54n, 139n Borsieri Pietro, 3, 43, 45n, 50 Bosco Umberto, 101n, 127n, 163n Breme Ludovico Pietro Arborio Gattinara di, 36, 48, 49, 77, 87, 168, 170 Brettoni Augusta, 3n Brighenti Pietro, 16n Brioschi Franco, 105n Bruni Arnaldo, XIV, 10n Bruto Marco Giunio, 51 Burke Edmund, XIII, 17, 22, 23n, 24, 25n, 26, 39, 69, 72, 81n Byron George Gordon, 87 Camerino Giuseppe Antonio, 18n, 19n, 39n, 70n, 75n, 79n, 86n, 154n, 158n, 163n

* Non si indicano i nomi eventualmente compresi nei titoli delle opere leopardiane di invenzione. I numeri seguiti da “n” minuscola indicano nomi citati esclusivamente in nota.

186

INDICE DEI NOMI

Carnazzi Giulio, 36n Carrai Stefano, 98n, 138n Carrannante Antonio, 119n Carrozzini Andrea, 18n, 70n Cassi-Lazzari Gertrude, 29 Castiglione Baldassarre, 6, 7, 46, 47, 75, 97n Catalano Claudia, 2n Cavalcanti Guido, 136n Cazzani Pietro, 153n Ceragioli Fiorenza, XIn, 135, 141n, 144n, 145n Cesarotti Melchiorre, 24, 34n, 36, 37 Chiabrera Gabriello, 45 Chisci Elisa, 2n Cicerone Marco Tullio, XIIIn, 57n, 83n Cocca Paola, 2n Copernico Niccolò, 110 Cornelio Nepote, 60 Corti Maria, 1n, 3 Costa Simona, X D’Intino Franco, 12n, 23n, 151n Datteroni Silvia, 2n De Marzi Chiara, 2n De’ Medici Lorenzino, 56 De Robertis Domenico, 33n, 79n, 101, 113, 129n, 133, 136, 137n, 138n, 160n De Robertis Giuseppe, 79n, 133n, 136n De’ Rogati Francesco Saverio, 37 De Sinner Louis, XI Delcò-Toschini Sabrina, 40n Della Casa Giovanni, 6n Demostene, XIIn, 57, 58, 60, 83n Derla Luigi, 3, 43, 45n Di Benedetto Arnaldo, 148n, 153n, 163n Di Benedetto Vincenzo, 144 Didone, 4 Dionisotti Carlo, 92n Di Staso Grazia, XIV

Doglio Maria Luisa, XIV Dondero Marco, X Enea, XII, 4, 9 Epicuro, 128 Ercolani Carlo, 23n Esiodo, 48 Fantoni Giovanni, 3 Felici Lucio, 38n Ferraris Angiola, 134n, 163n Ferrero Giuseppe Guido, 162n, 163n Ferrucci Carlo, 104n Figurelli Fernando, 42n Firenzuola Agnolo, 6n Flora Francesco, 16n, 23n, 32n, 66, 67n, 150 Floro Lucio Anneo, 51 Folin Alberto, 10n Formentin Vittorio, 84n Fortuna Antonino, 12n Foscolo Ugo, 13n, 30, 70n Frontone Marco Cornelio, XIIIn, 55, 57, 58, 59, 171 Fubini Mario, 124, 148n, 156n Gaetano Raffaele, 86n Galimberti Cesare, 77n Gavazzeni Franco, 50, 92, 108, 113, 136, 162n Genetelli Christian, 40n Gerhardt Carl Immanuel 125n Gessner Salomon, 42 Ghidetti Enrico 4n Gianni Lapo, 136n Giordani Pietro, XIIIn, 11, 56, 59, 79, 103, 104, 105, 106, 109, 110, 122, 152, 161 Girolamo (santo), 57, 58 Goethe Johann Wolfgang, XIII, 9, 30, 31, 35, 36, 37, 38, 39, 41, 42, 68, 69, 91, 105, 143

INDICE DEI NOMI

Gori Gandellini Francesco, 153, 158 Gori Anton Francesco, XIII, 48n, 58, 58n, 84n Gray Thomas, 70n Griggio Claudio, X Guidorizzi Giulio, 48n Guittone d’Arezzo, 133n Isocrate, 48n Italia Paola, 2n

Lambert Ann-Thérèse (Ann-Thérèse de Maruenat de Courcelles, marchesa di), 91n Landi Patrizia, 56n La Penna Antonio, 160n Leibnitz Gottfried Wilhelm, 125 Lenti Renato, 18n Leonida da Taranto, 129 Leopardi Carlo, 158 Leopardi Monaldo, 6n, 55 Leopardi Paolina, 22 Lisia, 58 Lombardi Maria Maddalena, 2n, 136, 162n Lombardo Giovanni, 86n Lonardi Gilberto, 39n, 51n, 83n, 85, 86n, 87 [Longino], XIII, 1, 46, 48, 50, 51, 53, 55, 58n, 61, 69, 71, 77n, 82, 83, 84, 86, 87, 123, 168, 169, 170, 171, 175, 177, 178, 179 Loschi Lodovico Antonio, 123 Lucchesini Federica, 2n Lucrezio, 128, 144 Luporini Cesare, 103n Macchioni Jodi Rodolfo, 69n, 85n Macpherson James, 24n, 34n Macrobio, 57, 59 Magliano Armando, 136n

187

Mai Angelo, XIIIn, 55, 57, 58, 154 Maier Bruno, 33n Mamerto Claudiano, 57, 58 Manacorda Giorgio, 31n, 32n Marchi Gian Paolo, X Marco Aurelio, 57 Mario Gaio, 56 Martelli Mario, 6n Marti Mario, XIV, 16, 67n, 84n, 101n, 142, 151n Martignoni Ignazio, 3, 22n, 23n, 43, 45, 50, 69, 72, 73, 81n Massano Riccardo, 30n, 31n Mazzotta Clemente, X, 149n Melosi Laura, X Mendelssohn Moses, 69n Mengaldo Pier Vincenzo, XI, 25n, 26n Metastasio Pietro (Trapassi Pietro, poi grecizzato in), 3 Molinaro Julius a., 138n Montesquieu (Charles de Secondat, barone di la Brède e di), 6n Monteverdi Angelo, 16n, 101n, 151n Monte Lucia, 31n Monti Vincenzo, 10, 70n, 151 Moroncini Francesco, 77n Mosco, XIII, 1, 5, 7, 8, 11, 14, 18, 27, 48, 95, 174 Natale Massimo, 13n Nencioni Giovanni, XII Noferi Adelia, 51n Omero, 7, 9, 10, 36, 45, 50, 67, 68, 69, 71, 168, 170, 172, 177n, 179, 180 Orazio Flacco Quinto, 1, 8, 21, 45, 49, 55, 64, 160n, 161n, 166, 167, 171, 180 Ossian, 24n, 34, 36, 37, 38, 52n, 70n Ovidio Nasone Publio, 179 Pacella Giuseppe, 25n, 57n Pagani Cesa Giuseppe Urbano, 3 Pagnini Giuseppe Maria, 14, 18, 27

188

INDICE DEI NOMI

Palmieri Pantaleo, XIV Parini Giuseppe, 47 Pasquini Emilio, 136n Pepoli Carlo, 112, 123, 124, 158, 160, 161, 180 Pestarino Rossano, 2n Petrarca Francesco, XI, 30, 32, 33, 50, 51, 52n, 54, 55, 56, 59, 60, 75, 87, 90, 125, 133, 134n, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 166, 172 Pilenejo Eritisco, p.a. (vedi Pagnini Giuseppe Maria) Pindaro, 45, 46, 50 Plebe Armando, 171n Plutarco, 60, 129 Pope Alexander, 125n Porena Manfredi, 29 Posfortunato Lorenza, 40n, 84n Rabboni Renzo, X Ranieri Antonio, 133 Residori Matteo, 77n, 84n Rosini Sara, 2n Rossi Lovanio, 158n Ruhnken David, 48n Saffo, XII, 13, 14n, 35, 37, 39n, 52, 75, 78, 87, 170 Saint-Pierre, 170 Salom Michiel, XIII, 30, 35, 36, 37, 68, 69, 105 Sannazaro Iacopo, 97n, 115, 174

Santagata Marco, 13n, Savoca Giuseppe, 13n, 137n Segre Cesare, XIV, 97n Seneca, 129 Senofonte, 172 Serianni Luca, XIV Serse I (re di Persia), 56 Sidonio Apollinare, 57, 58 Simonide, XII, 70, 71 Soave Francesco, XIII, 3n, 7, 8, 15, 17, 20, 50, 63, 72, 82, 85, 118, 119n, 177 Sorella Antonio, 163n Staël (Anne-Louise-Germaine Necker, madame de), 36 Straccali Alfredo, 90, 123n Sulzer Johann Georg, 6n Tansillo Luigi, 115 Targioni Tozzetti Fanny, 134 Tasso Torquato, 33, 158, 166, 177 Tellini Gino, 149n Teocrito, XIII, 9, 18n, 122n, 174 Timpanaro Sebastiano, 57n, 68n Tintori Elena, 2n Toup John, 48n Turchi Roberta, 163n Varano Alfonso, 3 Vero (Lucio), 57 Virgilio Marone Publio, XII, 1, 4, 5, 9, 11, 13, 18n, 26, 50, 79n, 80, 81, 160n, 179, 180 Zappi Giovambattista Felice, 137

Critica e letteratura

1. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28.

N. Merola, N. Ordine (a cura di), La novella e il comico. Da Boccaccio a Brancati V. Roda, I fantasmi della ragione. Fantastico, scienza e fantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento E. Giordano, Il labirinto leopardiano II. Bibliografia 1984-1990 (con una appendice 1991-1995) A. M. Di Martino, “Quel divino ingegno”. Giulio Perticari: un intellettuale tra Impero e Restaurazione B. Pischedda, Il feuilleton umoristico di Salvatore Farina G. A. Camerino, L’invenzione poetica in Leopardi: Percorsi e forme L. B. Alberti, Deifira, analisi tematica e formale a cura di A. Cecere L. B. Alberti, De statua, introduzione, traduzione e note a cura di M. Spinetti M. Lessona Fasano, Le ragioni della letteratura. Scrittori lettori, critici D. Della Terza, M. D’Ambrosio, G. Scognamiglio, Tradizione e innovazione. Studi su De Sanctis, Croce e Pirandello G. Ferroni, Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro M. D’Ambrosio, Futurismo e altre avanguardie F. Minetti, Voce lirica e sguardo teatrale nel sonetto shakespeariano A. M. Pedullà, Il romanzo barocco ed altri scritti V. Sperti, Écriture et mémoire. Le Labyrinthe du monde de Marguerite Yourcenar G. Cacciavillani, La malinconia di Baudelaire M. M. Parlati, Infezione dell’arte e paralisi della memoria nelle tragedie di John Webster L. Di Michele (a cura di), Tragiche risonanze shakespeariane E. Ajello, Ad una certa distanza. Sui luoghi della letterarietà P. Pelosi, Guido Guinizelli: Stilnovo inquieto M. Del Sapio Garbero (a cura di), Trame parentali/trame letterarie E. Giordano, Le vie dorate e gli orti. Studi leopardiani G. Pagliano (a cura di), Tracce d’infanzia nella letteratura italiana fra Ottocento e Novecento M. Dondero, Leopardi e gli italiani. Ricerche sul «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani» F. Fiorentino, G. Stocker (a cura di), Letteratura svizzero-tedesca contemporanea A. R. Pupino, La maschera e il nome. Interventi su Pirandello R. Mallardi, Lewis Carroll scrittore-fotografo vittoriano. Le voci del profondo e l’«inconscio ottico»

29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57.

V. Gatto, Benvenuto Cellini. La protesta di un irregolare L. Strappini (a cura di), I luoghi dell’immaginario barocco V. Sperti, La parola esautorata. Figure dittatoriali nel romanzo africano francofono P. Pelosi, Principi di teoria della letteratura S. Cigliana, Futurismo esoterico. Contributi per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento G. A. Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa AA.VV., La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palemo. Volume I: L’Ottocento L. Di Michele, L. Gaffuri, M. Nacci (a cura di), Interpretare la differenza. E. Ettorre, R. Gasparro, G. Micks (a cura di), Il corpo del mostro. Metamorfosi letterarie tra classicismo e modernità T. Iermano, Esploratori delle nuove Italie. Identità regionali e spazio narrativo nella letteratura del secondo Ottocento M. Savini (a cura di), Presenze femminili tra Ottocento e Novecento: abilità e saperi A. M. Pedullà (a cura di), Nel labirinto. Studi comparati sul romanzo barocco AA.VV., La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo. Volume II: Il Novecento E. Salibra, Voci in fuga. Poeti italiani del primo Novecento E. Rao, Heart of a Stranger. Contemporary Women Writers, and the Metaphor of Exile E. Candela (a cura di), Letteratura e cultura a Napoli tra Otto e Novecento G. Baldi, Narratologia e critica. Teoria ed esperimenti di lettura da Manzoni a Gadda R. Mullini, R. Zacchi, Introduzione allo studio del teatro inglese C. De Matteis, Filologia e critica in Italia fra Otto e Novecento G. Pagliano (a cura di), Presenze femminili nel Novecento italiano. Letteratura, teatro, cinema T. Iermano, Raccontare il reale. Cronache, viaggi e memorie nell’Italia dell’OttoNovecento S. Baiesi, Pioniere in Australia. Diari, lettere e memoriali del periodo coloniale 1770-1850 M. Freschi, L’utopia nel Settecento tedesco V. Intonti (a cura di), Forme del tragicomico nel teatro tardo elisabettiano e giacomiano A. R. Pupino (a cura di), D’Annunzio a Napoli S. Caporaletti, Nel labirinto del testo. “The Signalman” di Charles Dickens e “The Phantom ’Rickshaw” di Rudyard Kipling D. Monda, Amore e altri despoti. Figure, temi e problemi nella civiltà letteraria europea dal Rinascimento al Romanticismo G. A. Camerino, La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper

58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85.

G. Scognamiglio, L’universo poetico di Moriconi L. Di Michele (a cura di), Shakespeare. Una “Tempesta” dopo l’altra G. Cacciavillani, “Questo libro atroce”. Commenti ai Fiori del male V. Sperti, Fotografia e romanzo. Marguerite Duras, Georges Perec, Patrick Modiano G. Pagliano (a cura di), Presenze in terra straniera. Esiti letterari in età moderna e contemporanea M. Bottalico e M. T. Chialant (a cura di), L’impulso autobiografico. Inghilterra, Stati Uniti, Canada... e altri ancora M. G. Nico Ottaviani, “Me son missa a scriver questa letera...”. Lettere e altre scritture femminili tra Umbria, Toscana e Marche nei secoli XV-XVI R. Birindelli, Individuo e società in Herzog di Saul Bellow A. R. Pupino (a cura di), Matilde Serao. Le opere e i giorni G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista S. Bigliazzi, Nel prisma del nulla. L’esperienza del non-essere nella drammaturgia shakespeariana R. Zacchi (a cura di), La scena contestata. Antologia da un campo di battaglia transnazionale L. Di Michele (a cura di), La politica e la poetica del mostruoso nella letteratura e nella cultura inglese e anglo-americana M. C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna E. Candela e A. R. Pupino (a cura di), Salvatore di Giacomo settant’anni dopo G. Baldi, Pirandello e il romanzo. Scomposizione umoritica e «distrazione» M. Morini e R. Zacchi (a cura di), Forme della censura M. H. Laforest (a cura di), Questi occhi non sono per piangere. Donne e spazi pubblici A. D’Amelia, F. de Giovanni, L. Perrone Capano (a cura di), Scritture dell’immagine. Percorsi figurativi della parola M. C. Figorilli, Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento C. Mucci, Tempeste. Narrazioni di esilio in Shakespeare e Karen Blixen T. Iermano, Le scritture della modernità. De Sanctis, Di Giacomo, Dorso E. Candela e A. R. Pupino (a cura di), Napoli nell’immaginario letterario dell’Italia unita E. Candela (a cura di), Studi sulla letteratura italiana della modernità. Per Angelo R. Pupino. Sette-Ottocento G. Baldi, Le ambiguità della «decadenza». D’Annunzio romanziere E. Candela (a cura di), Studi sulla letteratura italiana della modernità. Per Angelo R. Pupino. Vol. 1: Primo Novecento. Vol. 2: Dal secondo Novecento ai giorni nostri A. Righetti (ed. by), The Protean Forms of Life Writing: Auto/Biography in English, 1680-2000 V. Intonti, The small circular frame. La narrativa breve di Henry James

86. 87. 88.

M. D’Ambrosio, Roman Jakobson e il futurismo italiano C. Vecce, Piccola storia della letteratura italiana C. Mucci, C. Magni, L. Tommaso (a cura di), Le ultime opere di Shakespeare. Da Pericles al caso Cardenio 89. F. Marucci (a cura di), Il vittorianesimo 90. G. Baldi, Reietti e superuomini in scena. Verga e d’Annunzio drammaturghi 91. T. Iermano, Le ambiguità del moderno. Identità e scritture nell’Italia fra Otto e Novecento 92. A. Pes, Sermoni, amori e misteri. Il racconto coloniale australiano al femminile (1845-1902) 93. R. Giulio, D. Salvatore, A. Sapienza (a cura di), Macramè. Studi sulla letteratura e le arti 94. D. Capaldi, Momo, il demone cinico tra mito, filosofia e letteratura 95. G. De Leva, Dalla trama al personaggio. Rubè di G.A. Borgese e il romanzo modernista 96. G. Baldi, Menzogna e verità nella narrativa di Svevo 97. C. Vallini, A. De Meo, V. Caruso (a cura di), Traduttori e traduzioni 98. A. Gargano (a cura di), Fra Italia e Spagna: Napoli crocevia di culture durante il vicereame 102. G.A. Camerino, Lo scrittoio di Leopardi. Processi compositivi e formazione di tópoi