L'intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah 9788866772699


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L'intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah
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INTERSEZIONI

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Matteo Bortolini

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L’INTELLETTUALE IN CAMPO Il caso di Robert N. Bellah

ARMANDO EDITORE

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BORTOLINI, Matteo L’intellettuale in campo. Il caso di Robert N. Bellah ; Roma : Armando, © 2013 144 p. ; 20 cm. (Intersezioni) ISBN: 978-88-6677-269-9 1. Sociologia delle idee 2. Dibattito sulla religione civile in America 3. Libertà accademica in America negli anni Settanta

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CDD 300

© 2013 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-07-024 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Sommario

Introduzione Le regole dell’attenzione. Teoria e pratiche dell’intellettuale in campo Un’idea del campo intellettuale Habitus e agency dell’intellettuale Località, abitudini e oggetti culturali

10 17 22

Avvertenza e ringraziamenti Versioni originali

31 32

Capitolo primo Prima della religione civile: sugli incontri dimenticati tra Robert N. Bellah e l’America, 1955-1965 Talcott Parsons e la sociologia americana Robert Bellah al Department of Social Relations di Harvard Una lettura parsonsiana della storia religiosa del popolo americano La teoria della modernizzazione e l’America Bellah teorico della modernizzazione Arriva la religione civile Emancipazioni intellettuali e organizzative

7

33 38 42 45 50 53 58 64

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Capitolo secondo La trappola del successo intellettuale. Robert N. Bellah e il dibattito sulla religione civile americana Il successo intellettuale e la teoria dell’accumulazione del vantaggio Il dibattito sulla religione civile americana (1967-1975) Il successo di Bellah negli studi americani (1967-presente) Attraverso lo specchio: la trappola del successo intellettuale (1971-1980) Successo intellettuale e differenziali di status Capitolo terzo L’“affaire Bellah” a Princeton: eccellenza intellettuale e libertà accademica in America negli anni Settanta L’Institute for Advanced Study a Princeton Robert N. Bellah prima del 1973 Lo scontro sulla nomina di Bellah allo IAS L’“affaire Bellah” La libertà accademica e i suoi nemici: due storie contrapposte Reazioni pubbliche e private Il superamento dell’affaire Bellah

73 75 80 86 91 99

109 112 113 115 119 123 126 133

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Introduzione

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Le regole dell’attenzione. Teoria e pratiche dell’intellettuale in campo

A guide is not a guide if he leads simultaneously in all directions at once. John W. Burrow

Gli intellettuali sono persone che vivono di idee1. Creano idee. Manipolano idee. Le sostituiscono con altre idee, migliori o semplicemente diverse. Qualche volta riescono ad attirare l’attenzione dei loro pari o, addirittura, di pubblici più vasti. Se un tempo gli “uomini di idee” erano considerati, e si rappresentavano, come individui eccentrici o straordinari – lo scienziato geniale e distratto, il brillante ma superficiale conversatore dei salotti, il poeta maudit votato all’autodistruzione, l’arcigno inquilino della torre d’avorio –, la sociologia della conoscenza li ha descritti come portatori di ruoli sociali radicati in strutture e processi collettivi – gruppi, comunità, organizzazioni, istituzioni. 1

Utilizzerò indifferentemente “idea” e “oggetto culturale” per indicare qualunque oggetto simbolico riconoscibile come tale. Come spiego nel secondo capitolo, questa decisione è giustificata dal fatto che idee e testi vengono usualmente compresi e utilizzati mediante formule semplificate che li compattano in oggetti facilmente riconoscibili. In questo senso, non c’è alcuna differenza analitica tra la formula “E = mc2” e l’intero testo della Divina Commedia.

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Complici le numerose svolte relazionali, culturaliste e pratiche degli ultimi trent’anni2, l’agenda dei sociologi del sapere è cambiata radicalmente e la concezione classica degli intellettuali si è dissolta in un nuovo vocabolario fatto di discorsi, interventi, capitali, allineamenti e performance. I miei tre studi di caso su Robert N. Bellah – il sociologo americano allievo di Talcott Parsons noto per le sue tesi sulla religione civile americana e l’evoluzione della religione – intendono collocarsi nell’ambito di quella che è stata definita nuova sociologia delle idee3. Questa introduzione elabora e presenta brevemente i concetti utili a costruire una sociologia di tipo narrativo capace di spiegare singole evenienze storiche utilizzando concetti e teorie sociologiche – soprattutto al livello dei meccanismi – senza perdere di vista l’unicità dei fenomeni sotto esame; nonché, viceversa, una sociologia capace di cogliere analiticamente le vicende biografiche e le carriere di intellettuali, gruppi e scuole di pensiero come esempi e studi di caso per chiarire questioni teoriche più ampie4. La mia trattazione si concentrerà soprattutto sui due concetti, campo e habitus, che occupano una posizione centrale nelle due teorie egemoni nella nuova sociologia delle idee – quelle di Pierre Bourdieu e Randall Collins5. Muovendomi nello spazio marcato da 2

Per una articolazione delle varie svolte si possono vedere l’introduzione di Marco Santoro e Roberta Sassatelli a Studiare la cultura (Il Mulino, Bologna, 2009) e T.R. Schatzki, K. Knorr Cetina e E. von Savigny (eds.), The Practice Turn in Contemporary Theory, Routledge, London-New-York, 2001, dove le pratiche sono definite come «insiemi incorporati e materialmente mediati di attività umane organizzati da comprensioni pratiche condivise» (p. 11). 3 L’espressione si trova in C. Camic e N. Gross, The New Sociology of Ideas, in J.R. Blau (ed.), Blackwell Companion to Sociology, Blackwell, Oxford, pp. 236-249. 4 Sul concetto di meccanismo sociale si possono vedere, innanzitutto, F. Barbera, Meccanismi sociali, Il Mulino, Bologna, 2004, e N. Gross, A Pragmatist Theory of Social Mechanisms, in «American Sociological Review», 74, 2009, pp. 358-379. 5 Questa introduzione esclude il terzo dei pilastri della nuova sociologia delle idee, la ANT di Bruno Latour e John Law ma anche, più in generale, gli approcci di tipo microsociologico ed etnografico – di cui abbiamo esempi anche nell’analisi delle scienze sociali e delle humanities, per esempio in How Professors Think di Michèle Lamont (Harvard University Press, Cambridge, MA, 2009) e in alcuni saggi del recente Social Knowledge in the Making, curato dalla stessa Lamont con C. Camic e N. Gross (The University of Chicago Press, Chicago-London, 2012). Tale esclusione è dovuta unica-

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queste impostazioni teoriche mi servirò del lavoro di sociologi come Bernard Lahire, Howard Becker, e Michèle Lamont per aprire e rendere più ricco e flessibile il mio toolkit teorico. Ognuno dei capitoli in cui si articola il volume presenta un episodio della biografia intellettuale di Bellah alla luce di un tema di più ampio respiro teorico – i processi con cui i creatori di oggetti culturali si autonomizzano dai propri maestri; i meccanismi di stereotipizzazione e i paradossi della teoria dell’accumulazione del vantaggio; la circolazione delle reputazioni nell’ambito delle istituzioni che definiscono e difendono l’autonomia del campo intellettuale. I tre capitoli possono dunque essere letti come studi su quelle reti di relazioni in cui il campo si concretizza e diventa operativo attraverso le pratiche che attori individuali e collettivi portano avanti nel contesto di organizzazioni più o meno formalizzate. Tre avvertenze. In primo luogo, essendo convinto che i concetti vadano messi a confronto con le necessità della ricerca, più che con altri concetti, ho volutamente evitato la modalità scolastica della dissertazione teorica per presentare un apparato analitico che combina alcune delle intuizioni migliori della nuova sociologia delle idee. Il fine ultimo è quello di mettere in luce e spiegare alcuni dei meccanismi del campo intellettuale, modificando i concetti quando ciò si dimostra necessario per comprendere appieno fenomeni e processi. In secondo luogo, poiché parto dalla premessa che lo schema generale sia applicabile al di là delle differenze tra i diversi ambiti del campo intellettuale, ho disseminato questa introduzione di esempi che puntano a mostrare icasticamente le omologie tra un ambito e l’altro. Con ciò non intendo affermare che arte, letteratura e scienza funzionino esattamente nello stesso modo. Sono però convinto che le analogie con le arti e le humanities siano cruciali quanto le analogie con le scienze dure per introdurre una serie di studi di caso che si mente a una insufficiente elaborazione teorica da parte di chi scrive. Un altro riferimento importante, anch’esso non sufficientemente integrato in questa introduzione, è M.S. Archer, La morfogenesi della società, Franco Angeli, Milano, 1997.

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concentrano sulle vicende di un intellettuale posizionato all’incrocio di una serie di campi accademici diversi. Infine, nonostante Bourdieu sia una presenza fin troppo evidente, la sociologia delle idee che propongo in questo volume non coincide con quella del sociologo francese. Oltre alla rielaborazione dell’habitus, assai più in linea con il lavoro di Lahire, mancano nei miei studi i paralleli tra posizioni interne ed esterne al campo intellettuale che costituiscono il punto decisivo di molte delle analisi di Bourdieu, da Homo Academicus all’Ontologie politique de Martin Heidegger, da Les règles de l’art alla Distinction. Pur riconoscendo e prendendo in esame l’influenza indiretta dei processi esterni al campo della produzione culturale, gli studi di caso presentati di seguito privilegiano le pratiche degli intellettuali e le dinamiche che operano all’interno di campi intellettuali specializzati, tanto da poter rientrare nel cosiddetto “nuovo internalismo sociologico”6. Nonostante esistano ragioni di carattere storico per limitare l’analisi alle dinamiche interne, sono convinto che il limite si giustifichi anche dal punto di vista epistemico. Come scriveva Niklas Luhmann, la teoria vede tutto il mondo, ma da un solo punto di vista. L’ambizione è che da lì si veda qualcosa di cui altri, situati altrove, possano fare buon uso.

Un’idea del campo intellettuale Seguendo la definizione di Charles Camic e Neil Gross, intendo per intellettuali coloro che «sono relativamente specializzati nella produzione di idee scientifiche, interpretative, morali, politiche o estetiche»7. Sebbene sia sociologicamente impossibile che una 6 Camic ha elaborato la nozione di “nuovo internalismo sociologico” (new sociological internalism) in riferimento ai lavori di Randall Collins e Andrew Abbott. Vedi “Bourdieu’s Two Sociologies of Knowledge”, in P. Gorski (ed.), Bourdieu and Historical Analysis, Duke University Press, Durham-London, 2013. 7 C. Camic e N. Gross, The New Sociology of Ideas, cit., p. 237.

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collettività o un ceto sociale riescano a monopolizzare i processi di creazione e diffusione delle idee, la definizione include innanzitutto scienziati e artisti, critici e scholar8, ideologi e scrittori. Creando oggetti culturali – concetti, fatti scientifici, teorie, paradigmi, programmi di ricerca, metodi, romanzi, film, stili di recitazione, dipinti, sculture, canzoni o poesie – che vorrebbero convincenti e decontestualizzati, cioè capaci di circolare al di là delle condizioni immediate della loro produzione, gli intellettuali ambiscono a dare una forma al mondo – aspirano a chiarire come stanno, e come dovrebbero stare, le cose9. Possiamo chiamare campo intellettuale la sfera sociale – diversamente differenziata e articolata nelle diverse formazioni storicosociali – in cui avviene la produzione, circolazione e discussione delle idee. Prendere le mosse dal concetto di campo significa pensare gli intellettuali come attori che occupano posizioni intrinsecamente relazionali. In altre parole, per comprendere cosa sta facendo un intellettuale nel momento in cui propone un oggetto culturale è necessario situarlo nello spazio delle posizioni oggettive occupate da altri intellettuali: «Le posizioni espresse in un dato contesto sono a tal punto definite per relazione che possiamo caratterizzarle adeguatamente solo per riferimento alla loro opposizione o complementarietà reciproca»10. Più dei concetti relazionali di “figurazione” o “mondo”, la nozione di campo richiama l’attenzione sul caratte8 In italiano le parole che traducono “scholar” – studioso, colto, erudito, istruito – faticano a restituire il complesso di significati intessuti nella parola inglese, quindi userò quest’ultima. 9 La definizione è una sintesi delle definizioni di Bourdieu (The intellectual field: a world apart, in Id., In Other Words, Stanford University Press, Stanford, 1990, p. 146) e Collins (Sociologia, Zanichelli, Bologna, 1980, ultimo capitolo, e The Sociology of Philosophies, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA, 1998, p. 19). 10 Fritz Ringer, The Intellectual Field, Intellectual History, and the Sociology of Knowledge, in «Theory & Society», 19, 1990, p. 270. Un esempio a contrario è l’arte naïf che, esterna al campo artistico, non ne comprende le forme né la storia: vedi H.S. Becker, I mondi dell’arte, Il Mulino, Bologna, 2004, capitolo 8. Vedi anche P. Bourdieu, Risposte, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 60.

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re intrinsecamente competitivo dei rapporti tra gli attori sociali11. Il campo intellettuale è infatti definito tanto dalla mappatura delle posizioni quanto dai processi di allocazione dello specifico capitale a cui puntano, e di cui si servono, gli attori nell’ambito della “rivalità strutturata” che li oppone legandoli. Possiamo definire il capitale intellettuale come un nesso di attenzione e reputazione: le posizioni del campo intellettuale si definiscono per la dotazione di specifiche forme di influenza – essere ascoltati, convincere senza argomentare, trasformare idee in scatole nere – che possono essere investite nel perseguimento di profitti “interni” – attenzione, influenza e reputazione – o “esterni” – capitale economico, politico, educativo. Per ragioni metodologiche, la nuova sociologia delle idee tende a presupporre, spesso con qualche forzatura, che i campi intellettuali funzionino come spazi d’azione autonomi, in cui la competizione riguarda risorse che altrove non circolano: «Nelle competizioni tra filosofi», scrive Collins, «si può conquistare l’attenzione degli altri solo grazie a risorse specificamente intellettuali, cioè risorse sociali specifiche delle reti intellettuali»12. In realtà, le condizioni materiali e organizzative del lavoro intellettuale, così come il gioco reciproco delle transazioni dei capitali esterni e interni, dipendono dalla condizione di autonomizzazione e differenziazione del campo intellettuale dalle altre sfere sociali, un problema storico e non teorico o astratto. Data la natura relazionale del campo della produzione culturale, le idee prodotte al suo interno sono sempre interpretabili come prese di posizione – riflessi di relazioni, somiglianze, allontanamenti a loro volta leggibili come attacchi, difese o rinunce – anche a prescindere dall’intenzionalità degli attori. Il gioco del posizionamento è con11

Mi riferisco ovviamente a Norbert Elias e Howard Becker. Il linguaggio delle “comunità” (scientifica, artistica, letteraria) era invece tipico della sociologia strutturalfunzionalista. Vedi H.S. Becker e A. Pessin, A Dialogue on the Ideas of World and Field, in «Sociological Forum», 21, 2006, pp. 275-286; P. Baulle et al., Elias and Bourdieu, in «Journal of Classical Sociology», 12, 2012, pp. 69-93. 12 R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., p. 13.

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sentito dall’esistenza di un ordine simbolico di distinzioni, categorie e significati articolato in generi, correnti di pensiero, tradizioni di ricerca e stili artistico-intellettuali13. Il processo di categorizzazione, necessario per ridurre la complessità del campo, tipizza gli oggetti culturali con atti di identificazione che li situano all’intersezione tra opposizioni e confini simbolici pre-strutturati. Ecco un buon esempio di posizionamento:

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Il trio britannico Muse è tanto punk quanto prog rock […] Il loro debutto, Showbiz, raggiunge la maestosa agonia di un Thom Yorke […], ma con un piglio più vezzoso e straccione.

Lo stesso accade nella recensione di Anarchy, State, and Utopia di Brian Barry: Politicamente il libro non fa che portare il meschino senso comune dell’America profonda alle sue logiche conseguenze […] Se avete amato [il senatore Barry] Goldwater amerete Nozick […] Nozick è il Gerald Ford dei colti o, se preferite, il John Rawls dei ricchi (visto che difficilmente potrebbe essere il John Rawls dei poveri)14.

Al di là della funzione cognitiva, l’ordine simbolico consente l’attivarsi di pratiche valutative che producono e riproducono il campo come spazio stratificato di oggetti e produttori15. Il giudizio sull’oggetto culturale combina due atti logicamente indipendenti. In 13

Riprendo per tutto il paragrafo senza citarli volta per volta P. Baert, Positioning Theory and Intellectual Interventions, in «Journal for the Theory of Social Behaviour», 42, 2012, pp. 304-324; P. Di Maggio, Organizzare la cultura, Il Mulino, Bologna, 2009; E. Zerubavel, Social Mindscapes, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1997; M. Lamont e V. Molnar, The Study of Boundaries in Social Science, in «Annual Review of Sociology», 28, 2002, pp. 167-195. 14 Vedi N. Chonin, Review: Muse, Showbiz, in «Rolling Stone», 14 ottobre 1999; B. Barry, Review of Anarchy, State, and Utopia, in «Political Theory», 3, 1975, pp. 331-336. 15 H.S. Becker, I mondi dell’arte, cit., p. 376.

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prima battuta, i generi, le scuole e i movimenti intellettuali sono già stratificati, così che una idea acquisisce lo status della regione del campo a cui viene assegnata. Situare un oggetto ambiguo come la Low Symphony, per esempio, richiede particolare attenzione:

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Esatto, Philip Glass ha costruito la sua nuova sinfonia su alcuni temi tratti dall’album di David Bowie del 1977, Low, ma ciò non significa che il suo nuovo lavoro sia rock & roll16.

Ogni oggetto culturale ha inoltre un impatto individuale: esercita cioè un’influenza sul campo e la sua struttura, spinge alla creazione di nuovi oggetti culturali – come imitazioni, elaborazioni, estensioni o critiche – e contribuisce a tracciare, ridefinire o cancellare distinzioni. Al vertice della gerarchia delle idee si trovano le pietre miliari da cui dipende la leggibilità stessa di una porzione del campo o il tracciato di un confine simbolico17. Si pensi, giusto per citare alcuni oggetti culturali che hanno assunto una posizione di preminenza all’interno dei propri campi, alla teoria generale della relatività, Madame Bovary, il metodo Stanislawskij, la conscience collective, il dogma centrale della biologia molecolare, Les demoiselles d’Avignon, Philosophische Untersuchungen, Fallingwater o Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band. La storiografia delle idee più eminenti diventa a sua volta un oggetto culturale, poiché tutto ciò che le riguarda diventa necessario per comprendere anche il campo o la porzione del campo che hanno contribuito a delimitare. Ecco come Lawrence Scaff comincia la storia della ricezione di un libro assai noto: 16 G. Sandow, Review: Philip Glass, Low Symphony, in «Entertainment Weekly», 147, 4 dicembre 1992. 17 P. Bourdieu, The Field of Cultural Production, or: The Economic World Reversed, in «Poetics», 12, 1983, pp. 338-339; R. Collins, On the Acrimoniousness of Intellectual Disputes, in «Common Knowledge», 8, 2002, p. 51; R. Collins, Interaction Ritual Chains, Princeton University Press, Princeton, 2004, p. 357; H.S. Becker, I mondi dell’arte, cit., p. 384.

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Tra tutti i testi di Max Weber, ce n’è uno dotato di un significato particolare come espressione della sua originalità e come base della sua reputazione: Die protestantische Ethik und der Geist der Kapitalismus […] La versione di Parsons ha regnato come autorità incontrastata sul mondo anglofono per settantadue anni. Solo la pubblicazione della nuova traduzione di Peter Baehr e Gordon Wells, basata sui saggi originali di Weber pubblicati nel 1904-1905 sull’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik ha mutato la situazione18.

La complessa citazione parla tanto della storia (e della trasfigurazione) di un oggetto culturale quanto del processo di tipizzazione che oggettivizza i creatori degli oggetti culturali. Anche gli intellettuali sono infatti sottoposti a una dinamica simile, che nel loro caso funziona come costruzione di una storia reputazionale19. La definizione pubblica di un intellettuale comincia a prendere forma quando le sue creazioni vengono confrontate e messe in relazione tra loro. Dal punto di vista valutativo che accompagna la definizione senza mai coincidere perfettamente con essa, la rilevanza di un intellettuale come rappresentante, o meglio sarebbe dire incarnazione, di un genere, di uno stile o di una scuola di pensiero si costituisce nel tempo: è solo quando il creatore di oggetti culturali è riuscito a mantenersi visibile per un certo periodo e il suo lavoro è stato riconosciuto come degno di attenzione che il suo nome comincia ad assumere un significato. All’inizio della sua carriera Jackson Pollock era difficilmente categorizzabile, e ciò si ripercuoteva sulla circolazione delle sue opere; il sostegno di un gruppo di ricchi estimatori gli assicurò l’agio di coltivare la sua arte fino a quando non emerse un vocabolario critico – action painting e impressionismo astratto – adatto 18 L.A. Scaff, Max Weber in America, Princeton University Press, Princeton, 2011, p. 211. 19 Contro Becker (I mondi dell’arte, cit., p. 376) uso la parola “reputazione” solo per gli attori sociali, in quanto, come ha ben sottolineato Antonio Mutti (Reputazione, in «Rassegna italiana di sociologia», 48, 2007), la reputazione presuppone reiterazione.

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a descriverla20. In breve, i processi con cui gli oggetti culturali si diffondono, con cui le diverse creazioni di un autore vengono catalogate e situate, con cui i vari pubblici familiarizzano con un nome o un’etichetta, con cui tutti questi elementi vengono messi relazione al fine di costituire un giudizio complessivo – il quale, di rimando, può confermare o modificare confini, vocabolari e identificazioni categoriali – sono centrali per la definizione e la categorizzazione degli intellettuali come creatori di cultura. La categorizzazione delle idee e dei loro autori, così come la definizione del loro valore, è un processo interattivo a cui partecipano intellettuali, pubblici e oggetti materiali e culturali. Seguendo Bourdieu e Gary A. Fine possiamo distinguere analiticamente tre tipi di pubblico: gli altri produttori, gli imprenditori reputazionali e il pubblico dei non specialisti, a sua volta distinto in gruppi e segmenti21. Il processo funziona in modi diversi nei diversi ambiti del campo della produzione culturale per via delle diverse relazioni che legano produttori e consumatori di oggetti culturali. Nei campi caratterizzati da forte autonomia, come la fisica quantistica o la filosofia analitica, le posizioni di produttore, consumatore e critico tendono a essere ricoperte dai medesimi individui empirici e l’impatto del pubblico non specialistico è limitato. Nei campi più aperti e porosi le varie posizioni vengono ricoperte da individui diversi, organizzati in collettività più o meno coese e orientate da sottoculture particolari. I pubblici gestiscono in relativa autonomia processi paralleli di attribuzione della reputazione che allocano diverse forme di capitale simbolico e costituiscono, a loro volta, una forma di competizione. Nel campo della produzione musicale, per esempio, i critici esercitano una forte influenza sulla definizione delle opere e degli artisti, 20

M. Mulkay ed E. Chaplin, Aesthetics and Artistic Career: A Study of Anomie in Fine-Art Painting, in «The Sociological Quarterly», 23, 1982, pp. 117-138. 21 P. Bourdieu, The Field of Cultural Production, cit., p. 313; G.E. Lang e K. Lang, Etched in Memory, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1990; G.A. Fine, Difficult Reputations, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2001; A. Cossu, It Ain’t me Babe, Paradigm, Boulder, 2012.

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fungendo da imprenditori reputazionali e stimolando la reazione dei produttori – il caso più eclatante è forse quello di Jon Landau, il critico passato dall’altra parte della barricata come produttore e braccio destro di Bruce Springsteen22.

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Habitus e agency dell’intellettuale La sociologia delle idee più radicale attribuisce ai processi di posizionamento e categorizzazione che hanno luogo nel campo intellettuale una centralità epistemica tale da rendere inutile lo studio dell’intenzionalità degli attori. In Bourdieu il legame tra posizioni e prese di posizione appare spesso pre-determinato mentre Collins invita «a guardare attraverso le personalità» poiché è «la struttura interna delle reti intellettuali che dà forma alle idee»23. Nella sua teoria del posizionamento – una versione estrema della teoria del campo – Patrick Baert24 ha scritto che «la soluzione [metodologica] sta nell’abbandonare del tutto il vocabolario delle intenzioni per un vocabolario degli effetti». Teorizzando una “sociologia degli interventi” ispirata a Bourdieu e agli studi di Harry M. Collins sull’expertise, Gil Eyal e Larissa Buchholz hanno sostenuto che non solo le personalità ma anche le caratteristiche sociologiche degli attori – i “ruoli” dei tempi che furono – vanno subordinate alle forme, agli allineamenti e agli assemblaggi che compongono la rete25. Dalla moltiplicazione di discorsi, strategie e arene in cui avviene la produzione di oggetti culturali emergerebbe infatti una generale redistribuzione 22 Vedi, tra i molti studi: R. von Appen e A. Doehring, Nevermind the Beatles, Here’s Exile 61 and Nico, e M.R. Watson e N. Anand, Award Ceremony as an Arbiter of Commerce and Canon in the Popular Music Industry, entrambi in «Popular Music», 25, 2006; M. Santoro, Effetto Tenco, Il Mulino, Bologna, 2010. Su Landau e Springsteen vedi D. Remnick, We are alive, in «The New Yorker», 30 luglio 2012. 23 R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., pp. 2-4. 24 P. Baert, Intellectual Positioning and Intellectual Interventions, cit., p. 318. 25 Vedi G. Eyal e L. Buchholz, From the Sociology of Intellectuals to the Sociology of Interventions, in «Annual Review of Sociology», 36, 2010, pp. 117-137.

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della facoltà di nominare il mondo, da specifici attori-in-posizione a network compositi e imprevedibili. In realtà, il superamento del problema del ruolo dell’intellettuale26 riconfigura il problema dell’agency nei termini di una teoria delle pratiche. Bourdieu ha elaborato una versione di tale teoria nel concetto di habitus27, che prenderò come punto di partenza per una rapida ricognizione sull’agency degli intellettuali. Possiamo pensare l’habitus intellettuale come il complesso delle disposizioni necessarie per agire all’interno del campo intellettuale – produrre idee e oggetti culturali, comprendere le dinamiche di allocazione del capitale di attenzione e reputazione, affrontare la competizione che ha luogo al suo interno. L’editor che sostiene la “sua” rivista coltivando un’ampia rete di autori e finanziatori, il coreografo che crea un balletto in cui si fondono il suo stile personale, i punti di forza del primo ballerino e la tradizione della compagnia di danza, il filosofo che scrivendo anticipa le possibili obiezioni al proprio argomento, il traduttore capace di rendere i significati più complessi al di là di qualsivoglia norma grammaticale sono tutti portatori di habitus intellettuale ben formato, diverso a seconda della regione del campo in cui i singoli intellettuali si trovano ad agire28. Secondo una teoria disposizionale fondata sul concetto di pratica, l’habitus intellettuale si costituisce come una sorta di “matrice astratta, non contestuale e

26 Vedi per esempio i saggi in P. Rieff (ed.), On Intellectuals, Doubleday & Co., Garden City, 1969. 27 Riprendo qui in forma abbreviata alcuni degli spunti presentati con il titolo L’habitus e il suo individuo al workshop “Teorie in campo”, Università di Bologna, 22 febbraio 2013. Vedi C. Camic, The Matter of Habit, in «American Journal of Sociology», 91, 1986, pp. 1039-1087. 28 Vedi, a mo’ di esempio: S.P. Wainwright et al., Varieties of habitus and the embodiment of ballet, in «Qualitative Research», 6, 2006, pp. 535-558; M. Philpotts, The Role of the Periodical Editor, in «The Modern Language Review», 107, 2012, pp. 3964; M. Watkins, Discipline, Consciousness and the Formation of a Scholarly Habitus, in «Continuum», 19, 2005, pp. 545-557; R.R. Faulkner e H.S. Becker, “Do you Know…?” The Jazz Repertoire in Action, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2009; M. Santoro, Come si diventa scrittori, in «Polis», 17, 2003, pp. 453-481.

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trasponibile”29 dell’azione che emerge dal consolidamento e dalla naturalizzazione di modi di fare appresi entro situazioni concrete – sperimentando in laboratorio, interagendo con registi e sceneggiatori, rispondendo alle domande dei discussant durante un seminario. Chi possiede il giusto habitus è in grado di improvvisare corsi d’azione adeguati alla situazione utilizzando accortamente la rete delle distinzioni simboliche del campo come struttura percettiva di classificazione. Il naso per l’argomento che tira ovvero per l’editore, il gallerista o l’artista giusto dipende “senza alcuna necessità di un calcolo cinico”30 dalla capacità di cogliere e interpretare le posizioni, di leggere la gerarchia di pubblici e produttori, di figurarsi una mappa dettagliata e realistica del mondo in cui si opera – tutte facoltà stratificate e legate sia alla dotazione di capitale culturale dell’attore sia all’energia emotiva che egli è in grado di investire nella sua pratica31. Mentre improvvisa con naturalezza un assolo, il pianista sa che ai partecipanti alla jam session non sfuggono gli accenni agli stili di Art Tatum, Bill Evans ed Herbie Hancock – e sa che la propria reputazione dipende, almeno in parte, dalla capacità di suggerire fraseggi e stilemi senza riprodurli troppo banalmente. Bourdieu definisce illusio il terzo elemento dell’habitus – l’intima convinzione circa il valore di uno specifico capitale e la rilevanza della propria partecipazione ai confronti che hanno luogo nel campo. L’illusio è la condizione di chi è preso da un gioco sociale e vuole parteciparvi pienamente. È costituita da due dimensioni inestricabilmente legate, inclinazione a giocare e senso del gioco: «L’abilità di differenziare – il “gusto” – distingue chi, essendo capace di differen-

29 O. Lizardo, The Cognitive Origins of Bourdieu’s Habitus, in «Journal for the Theory of Social Behaviour», 34, 2004, p. 392. 30 P. Bourdieu, The Field of Cultural Production, cit., p. 95. 31 Sulla relazione tra habitus e capitale culturale vedi almeno S. Lash, Pierre Bourdieu: Cultural Economy and Social Change, in C. Calhoun et al. (eds.), Bourdieu: Critical Perspectives, Polity Press, Cambridge, 1993, pp. 193-211. Sull’energia emotiva il testo di riferimento è R. Collins, Interaction Ritual Chains, cit.

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ziare, non è indifferente»32. Gli studenti di sociologia che al bar si scannano su Luhmann e Habermas appaiono agli altri clienti simili a tifosi di calcio – e in un certo senso lo sono, perchè come accade per gli ultras del Palermo o del Cosenza, per chi vive di sociologia la contrapposizione tra teoria dei sistemi e teoria dell’agire comunicativo è qualcosa di terribilmente serio. Chi non è preda dell’illusio rimane invece indifferente: non vede l’urgenza del gioco, non coglie la rilevanza della posta, non è in grado di leggere le raffinate distinzioni tra le posizioni. E infatti, come ha scritto Marco Santoro, senza illusio «non ci sarebbero ragioni di agire, non ci sarebbero conflitti, non ci sarebbero coinvolgimenti né investimenti, non ci sarebbero quei microcosmi di vita collettiva che costituiscono dinamicamente la “società”»33. Se Bourdieu ha gettato le basi di una teoria disposizionale dell’azione, è anche vero che nella sua opera la compattezza e la coerenza dell’habitus tendono a essere date per scontate. Al contrario, l’eterogeneità delle traiettorie individuali, intese come storie dei transiti tra situazioni e campi diversi, rende necessario smontare e rimontare empiricamente la presunta coerenza dell’habitus, prendendo coscienza del fatto che, soprattutto quando parliamo di società moderne e contemporanee, gli attori posseggono «stock di schemi di azione o abitudini che sono non-omogenei, non-unificati e di conseguenza […] pratiche eterogenee (o addirittura contraddittorie), che variano a seconda del contesto sociale in cui si sviluppano»34. In una serie di ricerche empiriche approfondite, Bernard Lahire ha mostrato come le disposizioni si stratifichino in antiche e recenti, superficiali e profonde, disponibili, attive o latenti, e, soprattutto, in disposizioni “ad agire” e disposizioni “a credere”35. Oltre che di 32

P. Bourdieu, The Peculiar History of Scientific Reason, in «Sociological Forum», 6, 1991, p. 8. 33 M. Santoro, L’onere della sociologia, in «Rassegna italiana di sociologia», 54, 2013. 34 B. Lahire, The Plural Actor, Polity Press, Cambridge, 2011, p. 26. 35 Ivi, p. 32 e pp. 56 e ss.

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pratiche sedimentate in agency, infatti, le traiettorie individuali sono fatte di convinzioni ideali, politiche e religiose, immagini morali e caratteriali. Si tratta di disposizioni che si attuano in processi di definizione e ridefinizione riflessiva dell’identità personale36 e che non si lasciano ridurre, né diacronicamente né sincronicamente, alla posizione occupata dall’attore in un campo. I modelli dell’intellettuale in campo basati sull’habitus vanno allora ridisegnati e completati con una teoria del concetto di sé intellettuale (intellectual self-concept) – inteso come «comprensione che gli attori hanno di sé in quanto esseri umani caratterizzati da storie e identità uniche»37. Gli intellettuali raccontano storie a proposito di sé e degli altri, storie che dicono chi sono in quanto intellettuali. Sono dunque fortemente motivati a impegnarsi in progetti intellettuali che li aiuteranno, tra le altre cose, a esprimere e a mettere insieme i disparati elementi di queste storie. Ceteris paribus, si orienteranno verso idee che rendono possibile tale tipo di sintesi38.

L’aspetto più interessante del recupero del tema dell’identità all’interno della nuova sociologia delle idee è l’intuizione sugli strumenti che l’intellettuale utilizza per costruire le storie che formano il concetto che ha di sé. Neil Gross parla infatti di “storie tipologiche”: gli attori raccontano a sé e agli altri narrazioni costruite con i materiali – le distinzioni, i confini, le tassonomie – che costituiscono l’ordine simbolico del campo39. L’autoposizionamento comprende inoltre la topologia degli atteggiamenti nei confronti di altri intel36 Vedi anche M.S. Archer (ed.), Conversations About Reflexivity, Routledge, London-New York, 2010. 37 N. Gross, Richard Rorty, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2008, pp. 12-13 e p. 261. 38 Ivi, p. 272. 39 S. Frickel e N. Gross, A General Theory of Scientific/Intellectual Movements, in «American Sociological Review», 70, 2005, p. 222.

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lettuali, comprese le relazioni immaginate con scuole o tradizioni di pensiero di lunga o lunghissima durata che sono tipiche degli intellettuali40 – dirsi “durkheimiano” o “weberiano” è cruciale per l’autodefinizione di un sociologo quanto fare i conti con lo stile di Scott LaFaro o Jaco Pastorius lo è per l’autodefinizione di un bassista. Le narrazioni autobiografiche comprendono infine un’idea generale di cosa significa essere e fare l’intellettuale che rimandano a dimensioni identitarie più astratte. L’habitus intellettuale contiene dunque le immagini stratificate, complesse e spesso incoerenti che l’attore ha di sé – come Richard Rorty, soggetto alla tensione tra la posizione di star della filosofia analitica e una profonda identificazione, non limitata all’aspetto professionale, con il pragmatismo americano41. Distinguere disposizioni a credere e disposizioni ad agire aiuta a descrivere e spiegare l’illusione, la frustrazione o il senso di colpa – i casi cioè in cui credenze e capacità non sono allineate o in cui gli attori hanno incorporato «delle credenze senza avere i mezzi (materiali e/o attitudinali) per rispettarle, per concretizzarle, per raggiungerle o per realizzarle»42. Abbiamo dunque bisogno di una sociologia delle idee “di scala individuale”, l’espressione è di Lahire, che sia capace di spiegare fenomeni sociali e vicende personali dando conto dell’equilibrio tra la generalità intessuta nell’individuo e la sua singolarità di attore sociale.

Località, abitudini e oggetti culturali In sintesi, l’idea è che campo e habitus siano entrambi necessari per comprendere la creazione, la circolazione e la trasformazione delle idee: posizionamenti e complessi disposizionali concorrono a 40

R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., p. 27. N. Gross, Richard Rorty, cit., passim. 42 B. Lahire, Per una sociologia di scala individuale, in «Sociologia e politiche sociali», 7, 2004, p. 57. 41

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spiegare non solo il comportamento degli intellettuali, ma anche la condivisione di modelli d’azione e aspettative, le specifiche figurazioni sociali-storiche che emergono dalle pratiche e si producono attraverso la riproduzione di queste ultime, nonché la rigidità, la resilienza o la malleabilità delle strutture a fronte delle inevitabili variazioni che introducono contingenza negli assetti istituzionali. Il fine è, da una parte, comprendere lo strutturarsi dell’habitus del singolo intellettuale come insieme stratificato di disposizioni a credere e ad agire, e, dall’altra, vedere come l’attore individuale, una volta “in campo”, agisca e reagisca alle situazioni locali e situate in maniera più o meno stereotipata. Ciò è possibile solo prendendo le vicende di un intellettuale, o al massimo di uno specifico gruppo di individui, come una sorta di lente attraverso la quale leggere e rileggere processi strutturali e storici di breve e medio periodo43. Il punto di osservazione che ho scelto è la figura di Robert Neelly Bellah, sociologo e intellettuale pubblico americano nato nel 1927 e noto per i suoi lavori sulla religione civile, il Giappone e la cultura delle classi medie. Il suo ultimo libro, Religion in Human Evolution, pubblicato nel 2011, è un’opera imponente per scopo ed erudizione, il coronamento di una lunga carriera intellettuale e accademica44. Bellah è un caso interessante per la sociologia delle idee da molti punti di vista: allievo di Talcott Parsons, professore ad Harvard e, dal 1967 al 1997, a Berkeley, è oggi un intellettuale assai noto anche 43 Una concezione complessa e stratificata dell’habitus intellettuale può anche contribuire alla comprensione del processo di intellettualizzazione dei pubblici di cui parlano Eyal e Buchholz: la disponibilità di capitale culturale oggettivato e la moltiplicazione delle tecniche e dei luoghi di comunicazione e partecipazione si rivelerebbero inutili se non si accompagnassero all’acquisizione, da parte dei “non specialisti”, di alcune delle disposizioni che un tempo distinguevano gli intellettuali di professione. Vedi due esempi assai diversi: R. Florida, L’ascesa della classe creativa, Mondadori, Milano, 2003; L. Pellizzoni, Conflitti ambientali, Il Mulino, Bologna, 2011. 44 Vedi R.N. Bellah, Religion in Human Evolution, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA, 2011. Sul volume si veda il dibattito ospitato dal sito The Immanent Frame all’url: http://blogs.ssrc.org/tif/bellah/. I saggi che seguono sono stati pensati e scritti come materiali per un volume dal titolo provvisorio Beyond Borders. A Sociology of Robert N. Bellah.

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al di fuori del campo accademico, autore di uno dei libri più venduti e dibattuti – Habits of the Heart –, nonché di uno degli articoli più citati, e forse malcompresi, – “Civil Religion in America” – della storia della sociologia americana45. Al tempo stesso, la sua influenza in diversi campi scientifici e umanistici – oltre alla sociologia, gli studi orientali e americani, nonché la teologia e gli studi religiosi, – non raggiunge certo quella di Jürgen Habermas, Charles Taylor o Clifford Geertz – giusto per citare tre studiosi con cui Bellah ha intrattenuto lunghe relazioni di amicizia e collaborazione. Questa posizione trasversale, centrale ma non “stellare”46, unita alla ricchezza e alla complessità delle vicende personali e alla disponibilità di una gran mole di riflessioni autobiografiche edite e inedite, fa di Bellah un oggetto di studio perfetto per una sociologia delle idee che ambisce a cogliere sia l’individualità degli eventi e degli attori sia la loro tipicità all’interno di una sistemazione sociologica di forme e categorie. Non potendo ripercorrere i tre studi di caso, cercherò di fornire una chiave di lettura complessiva partendo dall’individuo e dal processo di strutturazione delle sue disposizioni a credere e ad agire. Come qualunque attore sociale, Bellah si forma all’interno di una specifica regione del campo intellettuale, e in particolare all’interno di una scuola di pensiero dotata di leader, dimensioni organizzative e schemi concettuali condivisi. Studente e dottorando al Department of Social Relations di Harvard nel decennio 1945-1955, Bellah entra nel campo sociologico sotto l’ala di Talcott Parsons, figura centrale della sociologia postbellica e instancabile animatore di una serie di movimenti finalizzati al consolidamento e alla professionalizzazione delle behavioral sciences. La socializzazione disciplinare e professionale di Bellah avviene dunque nel contesto di una particolare costellazione epistemica e teorica – concezione interdisciplinare della 45 Edizioni italiane di entrambi i testi sono state pubblicate da Armando nei volumi Le abitudini del cuore (1996) e La religione civile in Italia e in America (2009). 46 R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., pp. 42 e ss.

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ricerca sociale, funzionalismo, teoria della modernizzazione, area studies – che influisce profondamente sul rafforzamento di alcune disposizioni di fondo e sul costituirsi di un habitus intellettuale in cui idee e pratiche del lavoro intellettuale, dell’essere un accademico e delle scienze umane e sociali si intrecciano senza soluzione di continuità con idee politiche e religiose relativamente mutevoli47. Al cuore del complesso disposizionale sviluppato da Bellah nella sua relazione con Parsons e altri maestri – tra cui Paul Tillich, Edwin O. Reischauer e Wilfred Cantwell Smith – sta quello che, in mancanza di espressioni migliori48, chiamerò habitus “dello studioso” (scholarly habit): una sintesi tra la capacità di creare, manipolare e presentare idee idonee ad attirare l’attenzione di pubblici eterogenei per orientamento, expertise e disponibilità al confronto; la spinta ad accrescere costantemente il proprio capitale culturale e la disciplina necessaria per farlo; la propensione a discutere pubblicamente le proprie idee; la disponibilità a tornare sulle proprie posizioni nel caso le critiche colgano nel segno. Si tratta di una costellazione di disposizioni astratte e riflessive che non è legata a particolari orientamenti teorici, metodologici o ideali – come tratto di base, in altre parole, essa trascende sia le appartenenze di scuola sia quelle politiche, religiose o civili. Accoppiate a una forte identificazione con Parsons – il quale, dal canto suo, proietta sull’allievo altissime aspettative – le disposizioni a pensarsi, e ad agire, come uno scholar destinato all’eccellenza intellettuale costituiscono la leva principale di Bellah come “intellettuale in campo”, cioè come attore sociale che agisce, e reagisce, nel contesto di configurazioni via via differenti di relazioni, gruppi, reti e strutture simboliche. Ciò è evidente in almeno due momenti della vicenda di Bellah: nel modo in cui il sociologo americano vive e affronta il “dilemma dell’allievo dotato” (primo capitolo) 47 Sebbene nel testo si trovino pochi accenni alle sue vicende personali, durante il suo primo decennio harvardiano Bellah si iscrive al Partito comunista e ne viene espulso, perde e ritrova la fede cristiana, viene costretto dal Maccartismo a riparare in Canada e si interessa a diversi oggetti di studio. 48 Vedi nota 8.

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e nel suo modo di porsi all’interno del dibattito sulla religione civile americana (secondo capitolo). Vediamoli brevemente. La logica del campo intellettuale come luogo della competizione per l’attenzione porta gli attori a sperimentare, prima o poi, una particolare alternativa: seguire le orme del proprio mentore o sforzarsi per creare una posizione originale, dalla quale sviluppare una voce autonoma? Secondo Randall Collins il posizionamento del maestro e dell’allievo all’interno del campo determina non solo il modo, e l’intensità, in cui il secondo sperimenta il dilemma, ma anche la radicalità della rottura che gli è necessaria per ricavare una posizione originale: i migliori studenti dei migliori maestri sono quelli che vivono più acutamente la frustrazione di trovarsi in una posizione secondaria e quelli che hanno più da guadagnare da una rottura forte ed esplicita con il mentore, avendone ereditato, almeno in parte, il capitale culturale e simbolico. Intorno ai quarant’anni Bellah è spinto dalla logica del campo ad autonomizzarsi rispetto a Parsons e all’intero milieu intellettuale e organizzativo in cui ha mosso i suoi primi passi di sociologo. Durante il suo secondo decennio harvardiano (1957-1967) Bellah occupa una posizione invidiabile – professore associato e poi ordinario, figura di spicco del funzionalismo e degli area studies sull’Estremo Oriente. Dopo il 1967 tutto cambia: temi (dal Giappone all’America), stili (dalla sociologia parsonsiana a un discorso umanistico di ampio respiro), luoghi (da Harvard a Berkeley). Al contrario di quanto previsto da Collins, però, non troviamo espliciti atti di rottura nei confronti di Parsons, quanto piuttosto un lento ma irresistibile allontanamento. L’idea è che la concezione di sé come scholar destinato all’eccellenza intellettuale e la forte identificazione di Bellah con Parsons su cui essa si è costruita siano il tratto disposizionale più profondo e duraturo che impedisce a Bellah di contrapporsi esplicitamente al suo vecchio maestro, il tratto che mette in secondo piano le necessità della logica del campo in favore di un formale mantenimento della continuità – ripetutamente 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di/mostrata in pubblico e in privato – e di una modificazione degli strati più superficiali del complesso disposizionale, quelli legati ad appartenenze di paradigma e scuola di pensiero, che non intacca gli strati più profondi e duraturi del suo concetto di sé e delle sue capacità pratico-intellettuali. La persistenza del nucleo profondo dello scholarly habit spiega, almeno in parte, il comportamento di Bellah durante il dibattito sulla religione civile. Come racconto nel secondo capitolo, Bellah debutta nel campo degli studi americani quasi per caso, grazie all’inatteso successo di un saggio scritto obtorto collo su richiesta di Parsons. Il dibattito sulla religione civile può essere pensato come una sorta di rete discorsiva complessa e multidisciplinare all’interno della quale circolano capitali culturali e simbolici diversi da quelli posseduti da Bellah – questo anche per sottolineare come cambiare “oggetto, stile e luogo” non sia un’operazione indolore e automatica, ma una decisione che necessita, prima o poi, di uno sforzo di ridefinizione e adeguamento il cui esito non è scontato. Bellah si trova privo di autorevolezza e di expertise; è la comprensione che ha di sé come scholar di eccellenza che lo porta ad ampliare a dismisura il suo capitale culturale incorporato per eccellere anche nella nuova situazione. Date la sua formazione e la posizione che ricopre all’inizio degli anni Settanta, la decisione di impegnarsi in lunghe ore di studio e riflessione sul nuovo oggetto, secondo nuove regole e nuovi vocabolari, è una “scelta” perfettamente iscritta nel patrimonio disposizionale di Bellah e inconsapevolmente giustificata da una logica pratica. Un intellettuale con un diverso habitus di fondo avrebbe potuto agire diversamente: avrebbe potuto snobbare le richieste del pubblico dei non specialisti, avrebbe potuto considerare le domande dei suoi colleghi come attacchi ad personam, avrebbe potuto decidere di abbandonare la discussione alle prime difficoltà (“Questo non fa per me, dopotutto mi occupo di Giappone”). Un altro intellettuale, poi, avrebbe potuto utilizzare il suo capitale extra-scientifico per zittire gli interlocutori – una strategia spesso 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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utilizzata nei campi intellettuali nostrani con “ottimi” risultati. È il nucleo profondo del suo scholarly habit, dunque, che spiega il comportamento di Bellah di fronte alle sollecitazioni del campo – così come spiega, almeno in parte, la sua decisione di abbandonare il dibattito, e l’espressione “religione civile”, nel momento in cui le sue idee non ottengono l’attenzione desiderata. Piuttosto che adagiarsi in una posizione comoda ma in qualche modo lontana dalle sue convinzioni, e quindi inautentica, Bellah preferisce abbandonare la discussione. Vorrei concludere indicando tre punti metodologici che ritengo irrinunciabili. In primo luogo, se vogliamo comprendere a fondo le dinamiche della produzione, diffusione e circolazione degli oggetti culturali e dei loro creatori non possiamo fare a meno di prendere sul serio il fatto che gli ambienti e i campi sociali in cui si svolgono le pratiche intellettuali sono località complesse e plurali, situate su livelli diversi di generalità e astrazione. Negli studi di caso l’attenzione si è concentrata soprattutto su gruppi di collaboratori (i circoli harvardiani e le relazioni tra Parsons, Bellah e Geertz), istituzioni accademiche (il Department of Social Relations e l’Institute for Advanced Study), regimi di discorso fluidi ma organizzati (il dibattito sulla religione civile americana e il movimento per la professionalizzazione delle scienze sociali, nonché il movimento, opposto, per la loro ri-politicizzazione), norme astratte e scarsamente tangibili circa i confini e la vita delle comunità scientifiche (le discipline e la libertà accademica). Ma le località e le reti in cui si addensa il campo sono molteplici, e qualunque identificazione dell’intellettuale con un solo campo, o la porzione di un campo, rischia di aprire più problemi di quanti ne risolve. Dopo brevi premesse, come quella contenuta in questa introduzione, è necessario abbandonare il discorso astratto, che rischia di essere vuoto o tautologico, per calarsi nelle modalità in cui le diverse regioni del campo si articolano in località caratterizzate da relazioni strette e coagulate intorno a particolari gruppi, pratiche, saperi impliciti – in poche parole, nelle reti in cui il campo 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si manifesta tangibilmente49, così che qualsivoglia spiegazione generale viene, di per sé, esclusa di principio. Ciò implica anche, secondo punto, che la ricostruzione dei campi e delle traiettorie individuali sia orientata dai canoni più rigorosi della ricerca storica. Il sociologo delle idee dovrà dunque rinunciare a fonti di seconda mano, alle interpretazioni e alle distinzioni tipiche del folklore accademico e, spesso, anche alle storie dei campi intellettuali scritte dagli appartenenti ai campi stessi – le quali vanno considerate per quello che sono: “auto-narrazioni” idiosincratiche, connotate da un certo grado di auto-celebrazione e di acredine verso gli antagonisti. Le biografie degli attori individuali e collettivi vanno ricostruite al massimo livello di precisione e completezza storica possibile, in modo da rendere conto delle molteplici appartenenze, del trascorrere del tempo, del mutamento delle condizioni e degli attaccamenti di fondo. Proprio perché comprende la complessità dei patrimoni disposizionali, il sociologo delle idee dovrà inoltre utilizzare gli account autobiografici come punti di partenza per ulteriori verifiche. In particolare, come afferma Gross50, l’analisi di documenti privati – corrispondenza, appunti, minute, bozze e diari – è cruciale per distillare l’idea di sé che guida, almeno in parte, le scelte dell’intellettuale, e non può essere eliminata in favore della storia delle idee condotta su testi pubblici. Lo stesso vale per le idee: i sociologi della conoscenza devono prestare più attenzione al contenuto degli oggetti culturali. Come mostra il secondo capitolo, prendere in considerazione le idee può modificare profondamente la comprensione che abbiamo di una vicenda o di un episodio. Il sociologo deve allora rinunciare a quella pratica di categorizzazione e stereotipizzazione su cui si fonda il funzionamento dei campi della produzione culturale, e sforzarsi di ricostruire minuziosamente il processo di creazione degli oggetti culturali, le versioni, i ripensamenti, le 49 50

P. Bourdieu, Risposte, cit., pp. 82-83. N. Gross, Richard Rorty, cit., pp. 274 e ss.

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variazioni – senza per questo convincersi che si possa giungere a interpretazioni autentiche o definitive. In terzo e ultimo luogo, quando scriviamo di persone in carne e ossa dobbiamo seguire l’avvertimento di Pierre Bourdieu e non lasciarci affascinare dai nostri soggetti umani. Ciò è necessario per sfuggire alla fallacia biografica51, la tentazione di raccontare le vite individuali come se fossero storie logicamente coerenti, prive di soluzione di continuità. Bourdieu ha ragione. Le vite dei nostri soggetti, così come le nostre, sono un caos di eventi diversi, abitudini e novità, decisioni strategiche e momenti di distrazione, possibilità e rimpianti. Allo stesso tempo, come ci ricorda lo stesso Bellah all’inizio di Religion in Human Evolution, gli uomini non possono non raccontare storie, e le storie si organizzano simbolicamente – la loro verità «non nasce dalla corrispondenza tra le singole parole o proposizioni e la “realtà”, ma dalla coerenza della storia presa nel suo complesso. Come una poesia non può essere parafrasata concettualmente senza che il suo significato si perda irreparabilmente», così la narrazione deve mantenere una sua unità di fondo52. Al di là degli apparati concettuali e della prudenza scientifica, l’equilibrio tra spiegazioni strutturali e libertà individuale, apertura alla contingenza e senso complessivo delle storie che raccontiamo non può che rimanere precario e provvisorio.

51 52

P. Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 71 e ss. R.N. Bellah, Religion in Human Evolution, cit., p. 33.

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Avvertenza e ringraziamenti

Fatta salva l’introduzione, scritta ex novo, il volume raccoglie articoli apparsi su riviste internazionali che escono per la prima volta in italiano. Pur prendendomi parecchie libertà come traduttore di me stesso, ho rispettato le versioni originali anche dove avrei voluto inserire modifiche più consistenti. Ringrazio le riviste e le case editrici che mi hanno consentito di pubblicare le versioni italiane dei saggi che seguono. Vorrei ringraziare Jeffrey C. Alexander, Peter Bearman, Matteo Bianchin, René Capovin, Harry M. Collins, Paolo Costa, Stefano Crabu, Daniele De Pretto, Vanina Ferreccio, Gary A. Fine, Renée C. Fox, Marcel Fournier, Nils Gilman, Neil Gross, Donald G. Jones, Clive Kessler, Samuel Z. Klausner, Victor M. Lidz, Andrea M. Maccarini, Neil McLaughlin, Alessandro Mongili, Tatiana Motterle, Larry T. Nichols, Jennifer Platt, Gianfranco Poggi, Riccardo Prandini, Massimo Rosati, Giuseppe Sciortino, Edward Tiryakian, John Torpey, Isacco Turina, Aristide e Vera Zolberg e Harriet Zuckerman, e ricordare Irving L. Horowitz, Carl Kaysen e Melanie Bellah. Un ringraziamento particolare va a Marco Santoro e Andrea Cossu, compagni di ricerca e amici dai quali ho avuto più di quanto non sia riuscito a dare, e a Bob Bellah, che mi ha accolto. Elisa Nutria Scalabrin e Riccardo Bortolini sono qui con me. Dedico questo libro a Pierpaolo Donati, per tutto quello che mi ha obbligato a fare da solo. Tra Bologna e Padova, febbraio 2013 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Versioni originali

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Capitolo primo: Before Civil Religion. On Robert N. Bellah’s Forgotten Encounters with America, 1955-1965, in «Sociologica», 4, 2010, 33 pp. Capitolo secondo: The Trap of Intellectual Success. Robert N. Bellah, the American Civil Religion Debate, and the Sociology of Knowledge, in «Theory & Society», 41, 2012, pp. 187-210. Capitolo terzo: The ‘Bellah Affair’ at Princeton. Scholarly Excellence and Academic Freedom in America in the 1970s, in «The American Sociologist», 42, 2011, pp. 3-33.

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Capitolo primo

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Prima della religione civile: sugli incontri dimenticati tra Robert N. Bellah e l’America, 1955-1965

Vedere crisi e problemi ovunque è la malattia professionale degli intellettuali. Robert N. Bellah, 1965

È impossibile pensare a Robert N. Bellah senza pensare all’America – alle riflessioni sulla religione civile, alle figure e ai personaggi di Habits of the Heart, ai recenti, appassionati interventi su Barack Obama. Non sempre, tuttavia, chi ammira i suoi penetranti studi sociologici e il suo incrollabile progressismo sa che inizialmente la carriera intellettuale di Bellah aveva preso tutt’altra direzione – la teoria sociologica, le religioni orientali e, soprattutto, la storia sociale e culturale del Giappone. Pubblicato nel 1967, “Civil Religion in America” era il primo passo dello studioso, ormai quarantenne, nel campo degli studi americani – un debutto folgorante, che rivoluzionò la sua traiettoria intellettuale e personale. Negli anni, Bellah ha spiegato il passaggio “dal Giappone all’America” raccontando di essere stato quasi obbligato a scrivere “Civil Religion in America” per una conferenza organizzata da «Daedalus», la prestigiosa rivista dell’American Academy of Arts and Sciences. 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il saggio sollevò inaspettatamente un ampio dibattito multidisciplinare, a cui Bellah decise di partecipare per ragioni più politiche e civili che intellettuali1. Nella introduzione autobiografica a Beyond Belief, il sociologo descrive la fine degli anni Sessanta come un periodo di profondo turbamento interiore, caratterizzato da «sgomento nel vedere che la nostra società ha mancato di agire rapidamente e in maniera efficiente per riparare all’ingiustizia sociale, la tensione che scaturisce dalle agitazioni sempre più numerose nella comunità accademica […] e soprattutto orrore per la guerra in Vietnam, profondamente immorale e ingiustificata». Presentando “Civil Religion in America” come «una forte adesione al nucleo dei valori americani, almeno nella loro forma più autocritica», reinterpretati nel contesto dell’«impegno sempre più profondo [degli Stati Uniti] nella guerra del Vietnam», Bellah attribuisce il proprio interesse per gli studi americani al brusco risveglio di un intellettuale fino a quel momento interessato alle culture esotiche e alle astrazioni della teoria2. Una lettura alternativa è stata proposta da Jeffrey C. Alexander, già allievo di Bellah, e Steven J. Sherwood in un breve saggio, Mythic Gestures. In questo caso l’originalità di “Civil Religion in America” sta più nella combinazione tra schema teorico, stile letterario e forma estetica che non nell’oggetto. La tesi è strettamente intellettuale: la transizione segue il graduale emergere di un nuovo paradigma ermeneutico per le scienze sociali, e il saggio è visto come un tentativo di superamento della sociologia di Talcott Parsons, principale mentore di Bellah ad Harvard. Questa interpretazione – che punta a ricostruire la nascita della “sociologia culturale” nell’opera di Bellah e in quella del suo collega e amico Clifford Geertz – è persuasiva e 1

Si vedano: J.A. Mathisen, Twenty Years After Bellah: Whatever Happened to American Civil Religion?; R.N. Bellah, Comment on James A. Mathisen, “Twenty Years after Bellah: Whatever Happened to American Civil Religion?”, entrambi in «Sociological Analysis», 50, 1989; R.N. Bellah, Epilogue. Meaning and Modernity: America and the World, in R. Madsen et al. (eds.), Meaning and Modernity, University of California Press, Berkeley, 2002, pp. 255-276. 2 R.N. Bellah, Al di là delle fedi, Morcelliana, Brescia, 1975, p. 36. Vedi anche R.N. Bellah, Imagining Japan, University of California Press, Berkeley, 2003, p. 3.

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viene confermata dalle considerazioni dello stesso Bellah sulla propria biografia intellettuale3. Le spiegazioni di carattere psicologico o intellettuale colgono solo un lato della medaglia. In questo capitolo vorrei completarle con una spiegazione di carattere strutturale ispirata dall’opera di Randall Collins e Pierre Bourdieu, che prende le mosse dall’idea che gli intellettuali siano intrinsecamente costituiti dalle dinamiche interazionali e dai network relazionali entro i quali si trovano ad agire: Ciò che costituisce l’intellettuale come tale è l’insieme delle sue esperienze nell’ambito dei network intellettuali; ciò dà forma al contenuto del suo pensiero nel momento in cui decide di assumere una posizione distinta da quella occupata da altri intellettuali nell’ambito della ricerca di una nicchia dello spazio dell’attenzione4.

In particolare, la produzione e riproduzione delle pratiche intellettuali si fonda sulle relazioni verticali tra maestro e allievo, cruciali per la trasmissione di capitale culturale e disposizioni specifiche. Interagendo con i propri maestri e osservandoli all’opera, gli aspiranti intellettuali sviluppano il “senso del gioco”5 – disposizioni che si concretizzano, in particolare, nella capacità di creare oggetti culturali che verranno riconosciuti come contributi appropriati a una discussione o un dibattito, nonché nella capacità di anticipare, e di tenere conto, delle critiche. In altre parole, le relazioni verticali sono cruciali per il costituirsi dell’habitus intellettuale tra una generazione e l’altra. 3

J.C. Alexander e S.J. Sherwood, “Mythic Gestures”: Robert N. Bellah and Cultural Sociology, in R. Madsen et al. (eds.), Meaning and Modernity, cit., pp. 1-14. Sull’emergere della sociologia culturale mi permetto di rimandare a M. Bortolini, Blurring the Boundary Line. The Origins and Fate of Robert N. Bellah’s Symbolic Realism, in C. Fleck e A. Hess (eds.), Knowledge for Whom? Public Sociology in the Making, Ashgate, Farnham, 2013. 4 R. Collins, Interaction Ritual Chains, Princeton University Press, Princeton, 2004, p. 357. 5 P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano, 2003; P. Bourdieu, Homo Academicus, Stanford University Press, Stanford, 1988.

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Tale apprendistato è per sua natura destinato a concludersi. Secondo Collins «la vita e la carriera di ogni aspirante intellettuale passano per un punto di svolta» in cui è necessario chiedersi «se valga la pena impegnarsi per occupare una delle poche posizioni di alta visibilità» o se non sia meglio puntare a occupare la posizione di “divulgatore”, “specialista” o “critico”. In altre parole, l’intellettuale dovrà decidere se ambire al centro della professione oppure accomodarsi in una posizione più periferica e, forse, più confortevole. Una delle tappe del percorso è l’emancipazione degli allievi dai maestri, una necessità non riducibile a esigenze di tipo psicologico. È la logica intrinseca della distinzione a spingere gli intellettuali che si ritengono “pronti” a rompere con i propri maestri: «Ripetere le idee di altri equivale a perdere la possibilità di essere riconosciuti individualmente»6. La scelta è particolarmente urgente per gli allievi più dotati degli intellettuali eminenti – attori che hanno assaporato l’eccitazione e l’energia di chi si trova where the action is e hanno assimilato l’ambizione come ingrediente cruciale del proprio atteggiamento intellettuale. Al tempo stesso, la reputazione dei maestri e il gran numero di studenti dotati che essa attrae aumenta la posta in gioco e rende la competizione più dura: Poiché i maestri importanti occupano una posizione più attraente e centrale nello spazio dell’attenzione, sono proprio i loro allievi a guadagnare maggiormente dalla rottura […] Nei network intellettuali è normale che le figure più importanti di ogni nuova generazione siano gli ex-allievi delle figure più importanti della generazione precedente7.

6

R. Collins, On the Acrimoniousness of Intellectual Disputes, in «Common Knowledge», 8, 2002, pp. 54-56. 7 Ibidem. Vedi anche S. Frickel e N. Gross, A General Theory of Scientific/ Intellectual Movements, in «American Sociological Review», 70, 2005, pp. 204-232.

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È dunque la struttura stessa dei campi intellettuali a spingere gli allievi più ambiziosi a emanciparsi dal proprio mentore e a creare per sé una posizione riconoscibile. Come ha scritto Neil J. Smelser, gli studenti più brillanti dei maestri importanti cercheranno di “mettersi in proprio” non appena si sentiranno pronti a farlo8. Questo capitolo analizza parte degli scritti di Bellah precedenti al 1967 per avanzare due tesi. Mostro innanzitutto che l’interesse intellettuale di Bellah per gli Stati Uniti precede la pubblicazione di “Civil Religion in America”9: la lettura di alcuni dei suoi testi degli anni Cinquanta rivela una costante attenzione per la cultura e la società americana; ricerche in archivio hanno inoltre portato alla scoperta di almeno tre testi inediti sulla religione americana scritti prima di “Civil Religion in America”. La prima tesi è che la serie degli “incontri dimenticati” con l’America sia un punto di osservazione privilegiato sul processo di individuazione e maturazione intellettuale del sociologo americano. Nei primi cinque paragrafi contestualizzo la traiettoria di Bellah tra il 1955 e il 1965 per mostrare come i suoi interessi, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, fossero condizionati e plasmati dai network culturali, istituzionali e relazionali entro i quali egli operava10. La seconda tesi è che proprio 8 N.J. Smelser, Sociological and Interdisciplinary Adventures: A Personal Odyssey, in «The American Sociologist», 31, 2000, p. 13. 9 Mi riferisco al lavoro intellettuale di Bellah, non alle sue idee politiche personali. Già come studente alla Los Angeles High School Bellah lavorava come direttore del giornale della scuola, il «Blue and White», e i suoi editoriali spesso toccavano questioni politiche: si vedano R.N. Bellah, Inside L.A., in «Blue and White», 13 novembre 1944; R.N. Bellah, Inside L.A., in «Blue and White», 11 dicembre 1944. Nel 1947 Bellah si iscrisse al Partito comunista (dal quale fu espulso nel 1949) e al John Reed Club, una associazione studentesca di Harvard. Su questo si vedano: R.N. Bellah, “Veritas” at Harvard: Another Exchange, in «The New York Review of Books», 24, 14 luglio 1977; R.N. Bellah, McCarthyism at Harvard. Letter to the Editor, in «The New York Review of Books», 52, 10 febbraio 2005. 10 Sebbene non arbitraria, la mia scelta dei contesti è fortemente selettiva. Bellah è stato fin dall’inizio un intellettuale assai versatile e, come mostrerò, ha sempre avuto un atteggiamento eclettico e multidisciplinare, con forti relazioni con studiosi che si opponevano esplicitamente ai principi della teoria della modernizzazione e degli studi di area – un esempio in tal senso è Wilfred Cantwell Smith. Sulla dimensione locale della

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mentre stava scrivendo “Civil Religion in America” Bellah si stesse confrontando con il problema collinsiano dell’allievo dotato – stesse cioè decidendo se rimanere nell’ombra del suo maestro o provare a farsi avanti per costruirsi una posizione originale all’interno del campo intellettuale. Nel sesto e nel settimo paragrafo ricostruisco il processo che ha portato alla pubblicazione di “Civil Religion in America” e propongo alcune ipotesi circa la relazione tra le idee di Bellah sull’America e lo sviluppo della sua carriera intellettuale e accademica.

Talcott Parsons e la sociologia americana Nel 1945, anno dell’arrivo di Bellah ad Harvard, un impetuoso processo di professionalizzazione stava per investire la sociologia americana. La partecipazione di un gran numero di scienziati sociali allo sforzo bellico appena conclusosi aveva accresciuto la fiducia del pubblico circa le possibili applicazioni pratiche delle “scienze del comportamento”11. I più importanti dipartimenti e centri di ricerca del Paese si trovarono inondati da un imponente flusso di denaro pubblico e privato; la nuova struttura dei finanziamenti adottata da agenzie federali e fondazioni filantropiche – che introduceva per la prima volta la peer review su larga scala12 – modificò profondamente le pratiche di ricerca, spingendo in direzione di intense colsociologia delle idee si veda C. Camic, Reputation and Predecessor Selection: Parsons and the Institutionalists, in «American Sociological Review», 57, 1992, pp. 421-445. 11 L’espressione “behavioral sciences” venne introdotta alla fine degli anni Quaranta per “evitare confusioni tra scienza sociale e socialismo” (H. Crowther-Heyck, Patrons of the Revolution. Ideals and Institutions in Postwar Behavioral Sciences, in «Isis», 97, 2006, pp. 438-439). Vedi Harvard University, The Behavioral Sciences at Harvard. Report by a Faculty Committee, Cambridge, MA, 1954; J.G. Miller, Toward a General Theory For The Behavioral Sciences, in «American Psychologist», 10, 1955, pp. 513531. 12 S.P. Turner e J.H. Turner, The Impossible Science: An Institutional Analysis of American Sociology, Sage, Newbury Park, CA, 1990, pp. 95-97. Vedi anche W.J. Buxton, Talcott Parsons and the Capitalist Nation-State, University of Toronto Press,

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laborazioni interdisciplinari su progetti specifici e circoscritti. Ciò favorì una crescita esponenziale dei PhD in sociologia e dei membri dell’American Sociological Association. Nel 1958, il National Defense Education Act accrebbe ulteriormente le risorse a disposizione delle scienze del comportamento. Le trasformazioni istituzionali si accompagnavano a un movimento per la piena legittimazione scientifica e professionale delle scienze sociali ispirato a una epistemologia vagamente naturalistica capace di raccogliere intorno a sé tradizioni filosofiche e metodologiche disparate. Si diffuse un positivismo metodologico che ascriveva alle scienze sociali l’obiettivo di determinare “leggi di copertura” raccogliendo ed elaborando dati empirici. Ciò favorì l’affermarsi della modellistica matematica e di altri approcci quantitativi, nonchè la creazione di centri di ricerca come il Bureau of Applied Social Research alla Columbia University e la Rand Corporation. Alla normalizzazione metodologica si accompagnava il tentativo di sviluppare e consolidare un vocabolario disciplinare capace di affermare la sociologia come scienza, differenziandone i risultati dalle osservazioni dilettantistiche sui problemi sociali, e di affermarne l’importanza come strumento di policy making13.

Toronto, 1985. Riprendo il discorso del movimento delle scienze sociali del Dopoguerra, esponendo dati ulteriori, nel terzo capitolo. 13 Vedi, tra gli altri, G. Steinmetz, American Sociology Before and After World War II, in C. Calhoun (ed.), Sociology in America, The University of Chicago Press, ChicagoLondon, 2007, pp. 314-366; I. Wallerstein, Aprire le scienze sociali, Franco Angeli, Milano, 1997; G. Steinmetz, Scientific Authority and the Transition to Post-Fordism, in Id. (ed.), The Politics of Method in the Human Sciences, Duke University Press, Durham-London, 2005, pp. 274-323; I. Wallerstein, The Unintended Consequences of Cold War Area Studies, in N. Chomsky et al., The Cold War and the University, The New Press, New York, 1997, pp. 195-232; D.P. Haney, The Americanization of Social Science, Temple University Press, Philadelphia, 2008; A. Abbott e J. Sparrow, Hot War, Cold War: The Structures of Sociological Action, 1940-1955, in C. Calhoun (ed.), Sociology in America, cit., pp. 281-313; P. Wagner e B. Wittrock (eds.), States, Institutions, and Discourses: A Comparative Perspective on the Structure of the Social Sciences, in P. Wagner, B. Wittrock e R.D. Whitley (eds.), Discourses on Societies, Kluwer, Dordrecht, 1991, pp. 331-357.

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Harvard e Columbia University costituivano l’avanguardia di questo movimento scientifico-intellettuale. Pur non riuscendo mai a egemonizzare il campo della sociologia americana14, lo strutturalfunzionalismo di Talcott Parsons e Robert K. Merton mirava a ridefinire i confini disciplinari e le regole costitutive della scienza sociale. Nell’ambito del più ampio movimento delle scienze del comportamento, lo struttural-funzionalismo si caratterizzava per la centralità accordata all’opera di alcuni sociologi europei, tra cui Émile Durkheim e Max Weber, per la concezione analitica della teoria sociologica e per la spiegazione dei fenomeni sociali secondo i principi di un funzionalismo centrato su strutture e sistemi normativi15. Secondo Seymour M. Lipset e Neil J. Smelser, due dei suoi maggiori esponenti, lo struttural-funzionalismo si fondava sul principio che l’accumulazione di scoperte scientifiche valide e rilevanti per l’azione dipendesse dall’esistenza di «un corpus di teorie e metodi capaci di guidarci nel raccordare i dati alla società e ai suoi problemi»16. 14 C. Calhoun e J. van Antwerpen, Orthodoxy, Heterodoxy and Hieranchy, in C. Calhoun (ed.), Sociology in America, cit., pp. 367-410. Vedi anche J. Isaac, Making Knowledge, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2012. 15 Va sottolineato che il progetto venne realizzato solo in minima parte. L’integrazione tra teoria e ricerca empirica, per esempio, era più immaginaria che reale sia ad Harvard che a Columbia (D.P. Haney, The Americanization of Social Science, cit., pp. 46 e ss.). Sebbene Parsons e Merton abbiano poi rifiutato l’etichetta “strutturalfunzionalismo”, nei primi anni Cinquanata essa circolava normalmente fuori e dentro le loro cerchie intellettuali. Su questo vedi: T. Parsons, On Building Social Systems Theory: a Personal History, in «Daedalus», 1970, 99; T. Parsons, The Present Status of “Structural-Functional” Theory in Sociology, in L.A. Coser (ed.), Ideas of Social Structure, Harcourt Brace Jovanovich, New York, 1975, pp. 67-84; R.N. Bellah, Apache Kinship Systems, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1952, p. 145, n.1; M.J. Levy, Jr., The Structure of Society, Princeton University Press, Princeton, 1952. Nel suo libro sulle scuole teoriche della sociologia americana, Nicholas Mullins ha proposto di chiamare il movimento capeggiato da Parsons e Merton con il nome di “sociologia americana standard”, ma questo uso mi pare dare per scontata una egemonia che non è mai esistita. Vedi N. Mullins, Theories and Theory Groups in Contemporary American Sociology, Harper & Row, New York, 1973. 16 S.M. Lipset e N.J. Smelser, The Setting of Sociology in the 1950’s, in Idd. (eds.) Sociology: The Progress of a Decade, Prentice-Hall, New York, 1961, p. 6. Vedi anche T. Parsons, The Present Position and Prospects of Systematic Theory in Sociology, in G. Gurvitch e W. E. Moore (eds.), Twentieth Century Sociology, Philosophical Library,

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È difficile sovrastimare la leadership intellettuale e organizzativa di Parsons nell’ambito delle scienze sociali del dopoguerra. Al di là dei suoi scopi scientifici, il progetto parsonsiano di creare uno schema teorico generale, la “teoria dell’azione”, puntava alla piena professionalizzazione della sociologia mediante la ripartizione delle aree di interesse delle scienze del comportamento e la creazione di strumenti analitici adatti allo studio comparativo dei fenomeni sociali17. La cosiddetta “teoria cibernetica” era un elemento cruciale del progetto parsonsiano: negando la possibilità di individuare un elemento ultimo del “sociale”, la teoria dei sistemi consentiva di operazionalizzare una concezione stratificata della realtà in cui gli oggetti potevano essere studiati in sé o come complessi organizzati di elementi, strutture e processi. L’introduzione delle pattern variables – un set di cinque distinzioni che poteva essere utilizzato indifferentemente per analizzare i sistemi sociali, le personalità e i sistemi culturali – puntava a decostruire e a rendere più flessibile l’eredità intellettuale degli autori europei su cui Parsons aveva costruito il proprio lavoro – Durkheim, Weber e Ferdinand Tönnies18. Nei primi anni Cinquanta, il passaggio dallo struttural-funzionalismo al funzionalismo radicale e la creazione del cosiddetto schema AGIL non fecero che rafforzare questa tendenza. Secondo AGIL, per conservarsi in ambienti complessi e pericolosi, ogni sistema deve risolvere quattro problemi funzionali – adattamento, raggiungimento degli scopi, integrazione e mantenimento del modello latente. Nelle intenzioni di Parsons, lo schema era uno strumento teorico che poteva essere usato per studiare qualunque sistema sociale, psicologico o culturale al di là delle divisioni tra le discipline. A completamento New York, 1945, pp. 42-69; L.A. Coser, Sociological Theory From the Chicago Dominance to 1965, in «Annual Review of Sociology», 2, 1976, pp. 145-160. 17 T. Parsons, La struttura dell’azione sociale, Il Mulino, Bologna, 1986; T. Parsons e B. Barber, Sociology, 1941-46, in «The American Journal of Sociology», 53, 1948, pp. 245-257. 18 T. Parsons, Il sistema sociale, Comunità, Milano, 1996; T. Parsons ed E.A. Shils (eds.), Toward a General Theory of Action, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1951.

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del paradigma, Parsons introdusse una concezione evolutiva del mutamento sociale, secondo la quale la storia delle società poteva essere interpretata come un progressivo processo di differenziazione di strutture orientate alla soluzione dei singoli problemi funzionali19.

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Robert Bellah al Department of Social Relations di Harvard Oltre a essere una delle figure più attive e visibili della rifondazione intellettuale delle scienze sociali, Parsons si impegnò per dare al movimento una solida base organizzativa: il Department of Social Relations (DSR), creato ad Harvard all’inizio del 1946 insieme a Clyde Kluckhohn, Gordon Allport e Henry Murray. Nelle intenzioni dei quattro fondatori – rispettivamente sociologo, antropologo culturale, psicologo sociale e direttore della Harvard Psychological Clinic – il DSR mirava a istituzionalizzare l’intensa collaborazione interdisciplinare del periodo bellico in una solida struttura finalizzata alla ricerca e all’insegnamento. Il fine principale del DSR era la creazione e la diffusione di un linguaggio comune per le scienze sociali; in particolare, le quattro discipline “di base” avrebbero dovuto elaborare uno schema analitico generale che economia, scienza della politica e storia avrebbero potuto (o dovuto) utilizzare per analizzare

19

Su questi passaggi si vedano almeno: T. Parsons et al., Working Papers in the Theory of Action, The Free Press, New York, 1953; T. Parsons e N.J. Smelser, Economia e società, Franco Angeli, Milano, 1970; T. Parsons, Teoria sociologica e società moderna, Etas Kompass, Milano, 1971. Il pieno sviluppo dell’evoluzionismo parsonsiano doveva attendere la fine degli anni Sessanta con T. Parsons, Sistemi di società, 2 voll., Il Mulino, Bologna, 1971-1973. Vedi almeno S.N. Eisenstadt, Social Evolution and Modernity: Some Observations on Parsons’s Comparative and Evolutionary Analysis, in «The American Sociologist», 35, 2004, pp. 5-24; M. Bortolini, “Parsonianism”, General Frameworks, Evolution, in C. Hart (ed.), A Collection of Essays in Honour of Talcott Parsons, Midrash Publications, Poynton, 2009, pp. 81-112. Per una considerazione complessiva dello sviluppo della teoria di Parsons rimando a M. Bortolini, L’immunità necessaria, Meltemi, Roma, 2005.

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i fenomeni storico-sociali20. Le attività di ricerca del DSR venivano coordinate e gestite dal Laboratory of Social Relations guidato da Samuel Stouffer, già direttore tecnico del progetto pubblicato con il titolo di The American Soldier. Di fatto, il consenso teorico auspicato da Parsons non venne mai raggiunto e alcuni dei più eminenti membri del DSR – Erik Erikson, David Riesman, George Homans e Jerome Bruner – non contribuirono mai al progetto iniziale21. Dal punto di vista della formazione di una nuova leva di scienziati sociali, il DSR si rivelò invece un esperimento convincente e nei primi dieci anni della sua esistenza conferì il dottorato a studiosi come Robin M. Williams, Robert K. Merton, Arthur Vidich, Harold Garfinkel, Renée C. Fox e Clifford Geertz. Per i membri della sua cerchia ristretta, Parsons era un modello di entusiasmo, correttezza e professionalità22. Già prima di laurearsi Robert Bellah si trovò immerso in questo clima intellettuale e sviluppò una fortissima identificazione intellettuale con lo strutturalfunzionalismo e il suo leader: grazie al suo tutor, l’antropologo David Aberle, Bellah entrò nel circolo parsonsiano e utilizzò il quadro 20

N. Gilman, Mandarins of the Future, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London, 2003; U. Gerhardt, Talcott Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge University Press, Cambridge, 2002. 21 L.N. Nichols, Social Relations Undone: Disciplinary Divergence and Departmental Politics at Harvard, 1946-1970, e B.V. Johnston, The Contemporary Crisis and the Social Relations Department at Harvard, entrambi in «The American Sociologist», 29, 1998. 22 Si vedano le seguenti testimonianze: R.C. Fox, In the Field: A Sociologist’s Journey, Transaction, New Brunswick, 2010; E. Tiryakian, Have a Sociological Passport, Will Travel, in M. Deflem (ed.), Sociologists in a Global Age, Ashgate, Aldershot, 2007, pp. 239-263; N.J. Smelser, Sociological and Interdisciplinary Adventures, cit.; C. Geertz, Oltre i fatti, Il Mulino, Bologna, 1995; B. Johnson e M.M. Johnson, The Integrating of the Social Sciences: Theoretical and Empirical Research and Training in the Department of Social Relations at Harvard, in S.Z. Klausner e V.M. Lidz (eds.), The Nationalization of the Social Sciences, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1986, pp. 131140. Per un parere opposto si veda A. Vidich, The Department of Social Relations and “Systems Theory”at Harvard: 1948-50, in «International Journal of Politics, Culture and Society», 13, 2000, pp. 607-648. Sul clima a Columbia University si veda invece J.A. Coleman, Columbia in the 1950s, in B.M. Berger (ed.), Authors of Their Own Lives, University of California Press, Berkeley, 1990, pp. 75-103.

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teorico anticipato nel manoscritto di The Social System per la sua tesi di laurea, pubblicata con il titolo Apache Kinship Systems23. Nell’autunno del 1950, il ventitreenne Bellah cominciò un dottorato in sociologia e lingue orientali sotto la guida di Parsons e dell’antropologo John Pelzel. Il tema della sua ricerca – l’applicazione della tesi weberiana su etica protestante e spirito del capitalismo a uno dei casi non analizzati dal sociologo tedesco, il Giappone – rifletteva chiaramente gli interessi e l’impostazione teorica del suo mentore. In quanto membro dell’inner circle parsonsiano, Bellah poteva accedere alle più recenti elaborazioni teorico-concettuali del maestro e potette utilizzare una delle prime versioni di AGIL per interpretare analiticamente la relazione tra la cultura e le strutture sociali dello shogunato Tokugawa24. Se parlare di una vera e propria divisione del lavoro appare eccessivo25, concluso il dottorato Bellah divenne il punto di riferimento del gruppo parsonsiano per quanto riguardava la religione26. In un saggio scritto nel 1955, “The Systematic Study of Religion”, Bellah 23

R.N. Bellah, Apache Kinship Systems, cit. Aberle, un antropologo sociale specializzato nello studio della cultura Navajo, era egli stesso un allievo di Parsons. Insieme a M.J. Levy, F.X. Sutton, A.K. Cohen e A.K. Davis, Aberle aveva pubblicato un saggiochiave per lo sviluppo del funzionalismo parsonsiano (The Functional Prerequisites of Society, in «Ethics», 60, 1950, pp. 100-111). 24 R.N. Bellah, Tokugawa Religion, The Free Press, Glencoe, IL, 1957; R.N. Bellah, Research Chronicle: Tokugawa Religion, in P.E. Hammond (ed.), Sociologists at Work, Basic Books, New York, 1964, pp. 164-185. 25 Sulle diverse declinazioni dei concetti di “gruppo”, “cerchia”, “movimento” e “scuola” si vedano almeno R. Collins, The Sociology of Philosophies, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA, 1998; N. Mullins, Theories and Theory Groups in Contemporary American Sociology, cit.; T.N. Clark, Prophets and Patrons: The French University and the Emergence of the Social Sciences, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1973; S. Frickel e N. Gross, A General Theory of Scientific/Intellectual Movements, cit. La tesi di Ed Tiryakian (Hegemonic Schools and the Development of Sociology, in R.C. Monk (ed.), Structures of Knowing, University Press of America, Lanham-New York-London, 1986, pp. 417-441) sulla compattezza della “scuola parsonsiana” mi sembra un po’ troppo coraggiosa. 26 Anche Geertz si occupava di religione, ma era un antropologo e si trasferì in Indonesia nel 1954. Una volta tornato in America insegnò ad Harvard come lecturer per poi trasferirsi all’University of Chicago (C. Geertz, Oltre i fatti, cit.). Si noti che quando Bellah ottenne il suo primo incarico ad Harvard nel 1957 i suoi compagni di studi se

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utilizzò una sofisticata versione di AGIL per teorizzare un modello della “religione” articolato in tre livelli strutturali (simboli, azioni e organizzazioni) e tre processi (socializzazione, differenziazione e patologia)27. Nonostante Parsons fosse piuttosto conosciuto nel campo della sociologia della religione, soprattutto per via di alcuni saggi in cui aveva spiegato perché una piena secolarizzazione era impossibile dal punto di vista teorico28, il manoscritto di Bellah era di fatto il primo tentativo di proporre un modello operativo per lo studio della religione basato sul funzionalismo parsonsiano. Il testo cominciò a circolare in versione ciclostilata e propiziò il primo incontro tra Bellah e l’America.

Una lettura parsonsiana della storia religiosa del popolo americano Tra il 1955 e il 1956 Bellah si dedicò alla scrittura di un saggio sulla storia religiosa degli Stati Uniti su richiesta dell’allora notissimo sociologo della religione Charles Y. Glock – il quale, colpito dal suo lavoro teorico, gli aveva offerto un incarico alla Columbia Uni-

ne erano già andati altrove. Bellah e Parsons insegnarono insieme il corso di sociologia della religione fino al 1967, anno della partenza del primo per Berkeley. 27 Vedi R.N. Bellah, Beyond Belief, University of California Press, Berkeley, 1991, pp. 260 e ss. Vedi anche R.N. Bellah, The Place of Religion in Human Action, in «The Review of Religion», 22, 1958, pp. 137-154. 28 Si vedano: T. Parsons, Racial and Religious Differences as Factors of Group Tension, in L. Finkelstein et al. (ed.), Unity and Difference in the Modern World, Conference on Science, Philosophy and Religion in Their Contribution to the Democratic Way of Life Inc., New York, 1945, pp. 182-199; T. Parsons, Religious Perspectives in College Teaching in Sociology and Social Psychology, The Hedward W. Hazen Foundation, New Haven, 1951. Ricostruzioni e riferimenti più precisi si trovano in M. Bortolini e G. Sciortino, Presentazione: Talcott Parsons e “la secolarizzazione”, in «Studi Culturali», 5, 2007, pp. 85-92; M. Bortolini e R. Prandini, Destino della religione e cultura della modernità. L’orizzonte ultimo della sociologia di Talcott Parsons, all’url: http://www.scform.unipd.it:8080/~m.bortolini/IntroChrist.pdf.

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versity29. Come già “The Systematic Study of Religion”, “Religion in America” si apre con un attacco tipicamente parsonsiano alla pochezza concettuale dei sociologi della religione, un problema al quale Bellah vuole trovare una soluzione definendo la religione come il sottosistema del sistema sociale specializzato nell’adempimento delle funzioni di mantenimento del modello latente e di gestione delle tensioni. Utilizzando lo schema AGIL, Bellah30 propone un modello delle organizzazioni religiose differenziato in servizio (A), culto (G), fratellanza (I) e devozione (L). Con questi strumenti analitici, Bellah rilegge la storia delle chiese americane come una continua oscillazione tra problemi di carattere strumentale (A/G) e problemi integrativi (I/L). L’interpretazione è condizionata dallo schema teorico: poiché analiticamente la religione si concentra su simboli e significati, le fasi di carattere espressivo durano più a lungo delle fasi strumentali e incidono più profondamente sulla società31. Asse portante del saggio è l’oscillazione tra l’istituzionalizzazione dei valori religiosi nelle strutture sociali e la loro interiorizzazione nelle personalità dei singoli individui. Secondo Bellah, subito dopo la fondazione delle prime colonie puritane le chiese si trovarono a «combattere per la sopravvivenza e per i loro valori all’interno di una società secolare da cui comunque traevano la loro esistenza», tanto che la particolare configurazione dei rapporti tra chiesa e società da cui nacque la repubblica emerse dalla prima ondata di revi29 In una rassegna sulla sociologia della religione americana Glock aveva segnalato Bellah come il più promettente teorico del campo. Vedi C.Y. Glock, The Sociology of Religion in R.K. Merton, L. Broom, L.S. Cottrell (eds.), Sociology Today, Basic Books, New York, 1959, pp. 154-177. In una lettera datata 14 novembre 1955 Bellah chiese a Parsons di spedire una copia del saggio a Geertz, Levy e a Jerome Kaplan della Free Press, che si era detto interessato a pubblicarlo (Harvard University Archives, HUF (FP) 15.2, box 5). La versione in mio possesso di Religion in America conta 45 pagine ed è priva di data. Il saggio non è mai stato pubblicato ed è stato ritrovato da Bellah nel luglio 2007 dopo che gli ho mostrato una vecchia lettera recuperata nei Parsons Papers. 30 R.N. Bellah, Religion in America, manoscritto, Department of Social Relations, Harvard University, 1955-1956, pp. 3-4. 31 Ivi, p. 36.

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valismo devozionale. All’inizio dell’Ottocento una nuova ondata di revivalismo consentì a vecchie e nuove chiese protestanti di evangelizzare i territori dell’Ovest. Anche in questo caso Bellah individua una relazione simbiotica tra valori religiosi e valori secolari: «Le chiese revivaliste venivano considerate come meccanismi di assimilazione capaci di attrarre le persone nella sfera di influenza dei valori dell’etica protestante, che costituiva, allo stesso tempo, il sistema di valori dominante nella cultura» secolare. Parallelamente, il progetto teocratico del protestantesimo ascetico venne sostituito dal progetto di creare una “società cristiana”32. All’inizio del Novecento le chiese si trovarono a fronteggiare problemi del tutto inediti: crimine, delinquenza e questione operaia. Ciò favorì l’affermazione del movimento del Social Gospel, delle “crociate” contro il consumo di alcool e della cosiddetta “guerra contro la guerra”. Il periodo era caratterizzato da una scarsa propensione alla teologia e da una concezione tendenzialmente ottimistica dell’uomo e del suo potenziale; le chiese, sempre più simili ad associazioni volontarie, cominciarono ad assolvere molteplici funzioni ricreative e sociali33. Urbanizzazione, industrializzazione e ricerca del successo avevano prodotto nuove tensioni, di fronte alle quali le chiese si trovarono del tutto impreparate e che produssero una nuova ondata di revivalismo a cui partecipò, per la prima volta, anche la Chiesa cattolica. Oltre che da Bill Graham e altri predicatori di successo, i primi decenni del Novecento furono caratterizzati dall’imporsi delle chiese pentecostali e dal proliferare di sette e profeti fai-da-te, come la Christian Science e Norman Vincent Peale, «che promettevano il raggiungimento di finalità empiriche mediante l’utilizzo di poteri divini»34. Finì così l’egemonia del protestantesimo liberale, incapace di affrontare la competizione del sogno americano e delle dottrine del 32

Ivi, pp. 9-15. Ivi, pp. 19-21. 34 Ivi, pp. 24-25. 33

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benessere psico-fisico. Per la prima volta nella storia americana, nel 1929 una crisi nazionale venne superata senza l’aiuto di alcun revival religioso. Allo stesso tempo, teologi neo-ortodossi come Richard Niebuhr, Karl Barth e Paul Tillich si impegnarono per “un deciso riallineamento della riflessione religiosa” e il rinascimento intellettuale del protestantesimo. Per Bellah i primi anni Cinquanta sono un momento contraddittorio: il senso della tragedia imminente si accompagnava a un evidente affermarsi della pratica religiosa, mentre il riproporsi dei simboli religiosi nella vita pubblica – come l’inserimento dell’espressione “under God” nella Pledge of Allegiance – ispirava nuove modalità di adattamento della religione allo stile di vita americano. Le forme emergenti del protestantesimo abbandonavano il riformismo sociale per concentrarsi sulla devozione individuale e sulla gestione delle tensioni generate dalla Guerra Fredda e dalla competizione economica, assumendo toni fin troppo ottimistici35. La narrazione analitica della storia religiosa americana proposta da Bellah rimaneva nel solco dell’insegnamento di Parsons, nettamente contrario, per ragioni teoriche, alle versioni semplicistiche della teoria della secolarizzazione36. Secondo Bellah, in America tra “chiese” e “società” era sempre esistita una relazione di reciprocità: la società secolare forniva il dinamismo necessario al raggiungimento degli scopi dei corpi religiosi, le chiese ricambiavano garantendo le risorse di senso, ispirazione e integrazione necessarie in un contesto sociale in continua trasformazione37. Se di quando in quando si rendeva necessario rivitalizzare la devozione individuale e rinnovare l’osmosi tra chiese e società, nel Novecento industrializzazione

35

Ivi, pp. 29-33. Vedi, su questo, V.M. Lidz, Religion and Cybernetic Concepts in the Theory of Action, in «Sociological Analysis», 43, 1982, pp. 287-305; V.M. Lidz, The Functional Theory of Religion, in B.S. Turner (ed.), The New Blackwell Companion to the Sociology of Religion, Wiley-Blackwell, Chichester, 2010, pp. 76-102. 37 R.N. Bellah, Religion in America, cit., p. 16. 36

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e urbanizzazione erano state controbilanciate da chiese e forme di spiritualità inedite:

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La chiesa, fin dall’inizio una istituzione specializzata in tali funzioni [integrative e di mantenimento del modello], è stata chiamata a svolgere un ruolo sempre più attivo a fronte dell’emergere di una società industriale complessa. La sua funzione integrativa, inoltre, si fa ancora più cruciale in un contesto di forte mobilità e diffusione delle periferie urbane.

Ciò significava anche che le forme di devozione nate negli anni Cinquanta non erano mode passeggere, quanto piuttosto l’espressione visibile di processi di riequilibrio di lungo periodo, tipici della funzione svolta dalla religione nelle società moderne38. Bellah sarebbe tornato spesso sul tema weberiano della costruzione e del consolidamento delle identità in una società caratterizzata da continue trasformazioni. Nonostante il saggio fosse preceduto da una nota in cui l’autore dichiarava la sua scarsa expertise39, la lunga rassegna della letteratura mostra una solida conoscenza delle principali opere sulla religione in America, con un preferenza per la storia del New England puritano di Perry Miller, la dissertazione di Benton Johnson sui gruppi religiosi e American Society di Robin Williams, Jr., un sociologo struttural-funzionalista allievo di Parsons, definito da Bellah «probabilmente la migliore trattazione sociologica del problema generale»40. Il lavoro sul manoscritto continuò per anni: in una lettera a Glock del 1960 Bellah parla di una nuova versione del saggio e si 38

Ivi, p. 39. «Questo articolo si basa su un mese e mezzo di letture generali sulla religione americana. Il suo scopo è proporre una breve analisi dell’oggetto e di passare in rassegna la letteratura» (ivi, p. 1). 40 Ivi, pp. 41-42; R.M. Williams, Jr., American Society, Alfred Knopf, New York, 1951. Come vedremo nel secondo capitolo, American Society anticipava in qualche modo la tesi durkheimiana della religione civile. 39

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rincresce di non poter aggiungere un paragrafo sulla rilevanza delle pattern variables per lo studio della religione in America. Secondo Bellah, che si trovava in Giappone come Fulbright scholar, «è stato, come potrai immaginare, terribilmente difficile scrivere sull’America quando tutto quello che voglio fare è immergermi completamente nel Giappone»41. In realtà, l’America rimaneva una presenza costante e visibile anche nel suo lavoro sull’Estremo Oriente.

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La teoria della modernizzazione e l’America Ho tratteggiato finora il più generale contesto intellettuale dell’incontro tra Bellah e le scienze sociali. Studente e dottorando al DSR di Harvard, Bellah era entrato nella professione sociologica attraverso la mediazione dello struttural-funzionalismo. Il saggio sulla religione americana – un lavoro commissionatogli per via del ruolo informale di specialista della religione che, pur giovanissimo, ricopriva all’interno del gruppo parsonsiano – rivelava una profonda consuetudine con l’apparato concettuale elaborato dal suo mentore e una straordinaria capacità di utilizzare creativamente lo schema AGIL. Come chiarisce la maggior parte delle recensioni del secondo libro di Bellah, Tokugawa Religion, lo struttural-funzionalismo improntava anche i suoi lavori sull’Estremo Oriente42. In quest’ultimo caso, tuttavia, allo schema analitico generale si accompagnava una teoria di medio raggio: come scrisse lo stesso Bellah43, i suoi primi studi si fondavano sui principi della teoria della modernizzazione, il paradigma macrosociologico allora dominante nella spiegazione 41

Lettera di Robert N. Bellah a Charles Y. Glock, 1 ottobre 1960 (Bellah personal

files). 42 H. Passin, Review: Tokugawa Religion, in «American Sociological Review», 22, 1957, p. 594; W.T. Liu, Review: Tokugawa Religion, in «American Catholic Sociological Review», 18, 1957, pp. 175-176; A.S. Nash, Review: Protestant and Catholic; Tokugawa Religion, in «Social Forces», 37, 1958, pp. 178-179. 43 R.N. Bellah, Al di là delle fedi, cit.

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del cambiamento sociale – ciò non sorprende, se pensiamo al ruolo chiave di Parsons nello sviluppo della teoria della modernizzazione e alla diffusione di quest’ultima nelle cerchie intellettuali frequentate da Bellah. La forza retorica di tale paradigma dipendeva in gran parte dall’idea che l’America costituisse una sorta di avanguardia storica, e, benché Bellah cercasse di differenziare la propria posizione dalle versioni più semplicistiche della teoria, la sua idea degli Stati Uniti era del tutto simile a quella condivisa da Parsons e dagli altri scienziati sociali. Possiamo definire la teoria della modernizzazione come un insieme articolato di assunti sul mutamento economico, politico, sociale e culturale che si contrapponeva esplicitamente all’interpretazione marxista (e dunque sovietica) dell’emergere della società industriale44. Come hanno mostrato Michael Latham e Nils Gilman, negli anni Cinquanta gli schemi analitici di Parsons e la sua sistematizzazione di alcune diffuse convinzioni circa i rapporti tra diversi tipi di società vennero utilizzati da antropologi, sociologi, storici e scienziati della politica come fondamento delle proprie ricerche teoriche ed empiriche. Tra i principi di base della teoria della modernizzazione possiamo indicare la netta distinzione tra società “moderne” e “tradizionali”; una concezione delle società come sistemi “quasi coerenti” in cui il mutamento sociale e culturale avveniva in modo integrato e controllato; l’idea che i processi di mutamento sociale seguissero una sequenza rigida e quasi unilineare di “stadi” chiaramente distinguibili; la selezione dei fattori tecnologici ed economici come variabili indipendenti; una concezione tecnocratica della vita pubblica, in cui le élite politiche e militari avrebbero dovuto suscitare nella popolazione il consenso necessario a implementare decisioni post-ideologiche in una sorta di gestione illuminata e benigna della pubblica opinione. Entusiasti sostenitori dello scientismo e del 44 Uno dei libri più importanti del periodo era caratterizzato esplicitamente come A Non-Communist Manifesto. Vedi W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.

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positivismo imperanti, i teorici della modernizzazione si dedicavano allo studio dei Paesi arretrati utilizzando tecniche di ricerca innovative e, per i tempi, assai sofisticate45. L’identificazione tra America e modernità era parte integrante del progetto teorico. L’idea di una singola sequenza evolutiva prendeva automaticamente “le società più modernizzate” a modello e ispirazione per le società “sottosviluppate”. In effetti, la teoria della modernizzazione puntava a dimostrare «ai “Paesi emergenti” che lo sviluppo secondo il modello liberale e capitalistico poteva ridurre la povertà e migliorare le condizioni di vita tanto quanto le sue alternative marxiste e rivoluzionarie»46. “La più modernizzata tra le società”, tuttavia, non era l’America “reale”, quanto una sua immagine ideale di complesso storico-sociale in cui economia di mercato, pluralismo democratico, secolarizzazione, comunicazione libera e aperta e individualismo morale si sostenevano reciprocamente grazie a un ampio consenso su un insieme di valori post-ideologici. È in questo clima scientifico e ideale che David Riesman, autore di The Lonely Crowd e collega di Parsons e Bellah ad Harvard, giunse ad attribuire ai propri concittadini americani il ruolo globale di “apostoli della modernità”47.

45 M.E. Latham, Modernization as Ideology. American Social Science and “Nation Building” in the Kennedy Era, The University of North Carolina Press, Chapel HillLondon, 2000; D. Harrison, The Sociology of Modernization and Development, Routledge, London, 1991; vedi anche J.C. Alexander, Twenty Lectures, Columbia University Press, New York, 1987, pp. 73-88; J.C. Alexander, Modern, Anti, Post, and Neo: How Intellectuals Have Coded, Narrated, and Explained the “New World of Our Time”, in Id., Fin de Siècle Social Theory, Verso, London, 1995, pp. 11-19; H. Joas e W. Knöbl, Social Theory. Twenty Introductory Lectures, Cambridge University Press, Cambridge, 2009, pp. 308-309. 46 M. Latham, Modernization as Ideology, cit., p. 28; vedi anche N. Chomsky et al., The Cold War and the University, The New Press, New York, 1997; D.C. Engerman, Social Science in the Cold War, in «Isis», 101, 2010, pp. 393-400. 47 N. Gilman, Mandarins of the Future, cit., pp. 101-102 e pp. 63-69.

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Bellah teorico della modernizzazione Grazie alle sue relazioni e frequentazioni, negli anni Cinquanta Bellah era un membro a pieno titolo delle reti in cui la teoria della modernizzazione fungeva da doxa condivisa48. Il padrino degli studi orientali ad Harvard, lo storico del Giappone Edwin O. Reischauer, intratteneva una intermittente ma solida relazione con Parsons; come patrocinatore dei cosiddetti area studies, Reischauer ebbe un ruolo cruciale nella costruzione di uno dei campi accademici in cui il paradigma veniva concretamente utilizzato49. Alcuni dei più attivi partecipanti al movimento, Alex Inkeles e David McClelland, insegnavano al DSR, e molti tra gli studenti e i collaboratori di Parsons – Lipset, Smelser, Marion Levy, Jr., Shmuel N. Eisenstadt, Francis X. Sutton e Clifford Geertz – presero parte allo sviluppo della teoria. Gli scambi intellettuali e organizzativi tra Harvard e gli altri centri dedicati allo studio della modernizzazione – tra cui il Committee on the Comparative Study of New Nations presieduto da Edward Shils a Chicago e il MIT Center for International Studies – erano assidui e intensi. Al di là delle apparenze, l’orizzonte della teoria della moderniz48 Durante il dottorato Bellah si manteneva grazie a una borsa di studio dello Harvard-Yenching Institute, diretto dal celebre studioso Serge Elisseeff. Vedi N. Monteith Deptula e M.M. Hess, The Edwin O. Reischauer Institute of Japanese Studies: A Twenty-Year Chronicle, Harvard University, Cambridge, MA, 1996; R.N. Bellah, “Veritas” at Harvard, cit. 49 W.H. Buxton e L.T. Nichols, Talcott Parsons and the “Far East” at Harvard, 1941-48: Comparative Institutions and National Policy, in «The American Sociologist», 31, 2000, pp. 5-17; H.D. Harootunian, America’s Japan/Japan’s Japan, in M. Miyoshi e H.D. Harootunian (eds.), Japan in the World, Duke University Press, Durham-London, 1993, pp. 206-208; E.O. Reischauer e J.K. Fairbank, Understanding the Far East through Area Studies, in «Far Eastern Survey», 17, 1948, pp. 121-123; M.B. Jansen, History: General Survey. Stages of Growth, in Id. (ed.), Japanese Studies in the United States. Part One: History and Present Condition, The Japan Foundation-Association for Asian Studies, Ann Arbor, 1988, pp. 7-68; G.R. Packard, Edwin O. Reischauer and the American Discovery of Japan, Columbia University Press, New York, 2010; I. Wallerstein, The Unintended Consequences of Cold War Area Studies, cit., p. 205; N. Gilman, Mandarins of the Future, cit., pp. 73 e ss.

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zazione non era certo monolitico; possiamo pensarlo come una piattaforma comune da cui emergevano posizioni diverse, configurate spesso come sintesi alternative della teoria parsonsiana elaborate da ricercatori impegnati nel lavoro sul campo e tendenzialmente impreparati all’elaborazione teorica. Come hanno scritto Hans Joas e Wolfgang Knöbl, le prime opere di Bellah erano più vicine alla complicate elaborazioni parsonsiane, e alla sociologia di Weber e Durkheim, di quanto non lo fossero i lavori dei suoi colleghi50. L’introduzione di Tokugawa Religion può essere letta come un tentativo di definire una particolare posizione nel campo della teoria della modernizzazione. Come prima mossa Bellah distingue il proprio oggetto di studio da tutti gli altri Paesi in via di sviluppo. Poiché il Giappone è l’unica nazione pienamente industrializzata fuori dall’Occidente, il ricercatore può tralasciare lo studio del presente e delle condizioni necessarie per il “decollo” – come aveva fatto Geertz nei suoi studi su società e religione in Indonesia – per concentrarsi sulla ricostruzione degli equivalenti funzionali dell’etica protestante nel Giappone ottocentesco51. Dal punto di vista metodologico, il riferimento a Weber suonava come un attacco al riduzionismo dei molti teorici della modernizzazione che condividevano con gli studiosi marxisti dello sviluppo una predilezione per le spiegazioni di carattere materialistico: La Restaurazione e la modernizzazione del Giappone che l’ha seguita vanno considerate innanzitutto come fenomeni politici e solo in seconda battuta come fenomeni economici. Il punto va sottolineato con forza, perché la tendenza a considerare lo sviluppo economico come la “base” e lo sviluppo politico come la “sovrastruttura” non 50

M. Latham, Modernization as Ideology, cit., pp. 37 e ss.; H. Joas e W. Knobl, Social Theory, cit., p. 331. 51 C. Geertz, The Religion of Java, The University of Chicago Press, ChicagoLondon, 1960; C. Geertz, Princes and Peddlers, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1963; C. Geertz, Oltre i fatti, cit.; R.N. Bellah, Tokugawa Religion, cit., pp. 2-3.

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riguarda soltanto i circoli marxisti ma permea la maggior parte delle ricerche in questo campo di studi52.

L’America entra in scena quando Bellah decide di servirsi di alcuni degli strumenti concettuali di Parsons – le pattern variables e una versione semplificata di AGIL – per classificare e comparare le società moderne in base ai loro modelli di valore primari. In cima alla scala dei valori americani stanno principi di tipo “economico”, cioè «i valori che caratterizzano, sopra ogni altra cosa, il processo di razionalizzazione dei mezzi» all’intersezione tra performance e universalismo. Il Giappone, invece, è un sistema sociale in cui i “valori politici” privilegiano il raggiungimento degli scopi collettivi e le lealtà particolaristiche53. Tracciando la distinzione tra società industriali orientate economicamente o politicamente, Bellah sconfessa implicitamente chi assolutizza il modello americano e nega l’inevitabile convergenza di tutte le società su un solo modello di modernizzazione. Come alcuni Paesi europei, il Giappone dimostra che un sistema sociale fondato su particolarismo e performance può trovare una propria via alla modernità; non è detto, afferma Bellah, che la razionalizzazione dell’economia elimini le strutture tradizionali e imponga il proprio dominio su tutte le sfere sociali. Allo stesso tempo, però, gli Stati Uniti rimangono “il caso tipico di società industriale moderna”54 e conservano un ruolo centrale in termini comparativi. Tokugawa Religion impose Bellah nel pantheon degli studiosi del Giappone. I recensori – tra cui l’influente politologo giapponese 52 R.N. Bellah, Tokugawa Religion, cit., p. 185. La tesi è riproposta in R.N. Bellah, Religious Aspects of Modernization in Turkey and Japan, in «American Journal of Sociology», 64, 1958, pp. 1-5 e in R.N. Bellah, Meaning and Modernisation, in «Religious Studies», 4, 1968, pp. 37-45. 53 R.N. Bellah, Tokugawa Religion, cit., p. 5. Nel quinto capitolo di The Social System Parsons aveva proposto una classificazione simile ma non identica. Sulle differenze tra le interpretazioni del Giappone (e della Cina) da parte di Parsons e Bellah vedi R.N. Bellah, Research Chronicle, cit., pp. 181 e ss. 54 R.N. Bellah, Tokugawa Religion, cit., p. 4.

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Maruyama Masao – salutarono il libro come un nuovo The Chrysanthemum and the Sword55. Nei primi anni Sessanta Bellah venne cooptato nella Conference on Modern Japan, il principale veicolo organizzativo per l’istituzionalizzazione della teoria della modernizzazione come discorso dominante negli area studies sul Giappone56. Ciò rafforzò ulteriormente il suo impegno nei confronti del paradigma e dei suoi principi, com’è evidente dall’ampio affresco sulla cultura e la società americane presentato in una conferenza tenuta alla Christian International University di Tokyo nel 1961. Seguendo l’impostazione multidimensionale della sociologia di Parsons, Bellah legge il mutamento sociale come un passaggio evolutivo dal tradizionalismo al razionalismo, intesi come i due estremi di un continuum su cui è possibile collocare tutte le società storiche. La società moderna viene inquadrata come un sistema sociale in cui «il processo di razionalizzazione [funziona] in modo relativamente libero e continua incessantemente a rivoluzionare ogni aspetto dell’esistenza umana rispettando solo pochi limiti». Con Weber, Bellah attribuisce la modernizzazione europea a un insieme di fattori economici e religiosi e indica nei vari tentativi nazionali di istituzionalizzare i principi della Riforma protestante la più importante variabile indipendente57. L’America viene introdotta come «l’unico esempio di una realizzazione quasi perfetta dei principi di base del protestantesimo progressista su larga scala». In termini comparativi, il suo significato è evidente: poiché la modernizzazione nasce con la diffusione dei 55 Vedi M. Maruyama, A Review of Tokugawa Religion by Robert N. Bellah, translation by Arima Tatsuo, Mimeo, 1958 (versione originale in «Kokka Gakkai Zassi», 72, 1958); H.D. Harootunian, Review: Tokugawa Religion, in «The Journal of Asia Studies», 22, 1963, pp. 329-331. 56 M.D. Jansen, History: General Survey, cit.; H.D. Harootunian, America’s Japan/Japan’s Japan, cit.; V. Koschmann, Modernization and Democratic Values: The “Japanese Model” in the 1960s, in D.C. Engerman et al. (eds.), Staging Growth: Modernization, Development, and the Global Cold War, University of Massachusetts Press, Amherst, 2003, pp. 225-250. 57 R.N. Bellah, Values and Social Change in Modern Japan, in «Asian Cultural Studies», 3, 1963, pp. 15-16.

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principi della Riforma, e poiché l’America è l’esito più radicale di quest’ultima, i ricercatori sociali dovrebbero studiarla come “il caso più puro di società moderna” e come “logica conclusione” del processo di razionalizzazione. Generalizzata e tradotta in termini secolari, l’etica protestante costituisce il fondamento della cultura e delle istituzioni americane – una combinazione virtuosa, sebbene non priva di problemi, di autonomia e burocrazia che Bellah indica con il concetto parsonsiano di “individualismo istituzionalizzato”58. Nel descrivere gli Stati Uniti come l’unica società che ha potuto evitare la transizione da tradizionalismo a razionalismo – l’America come “Gesellschaft fin dall’inizio” – Bellah si rifà anche alla versione tocquevilliana dell’eccezionalismo americano: Credo che in America la modernizzazione vada fino alle radici, in quanto non c’è altro e non c’è mai stato altro. [La modernizzazione] non è la superficie; è l’intera struttura, è l’intera sostanza della società stessa.

In un certo senso, gli Stati Uniti sono a tal punto moderni da sembrare del tutto diversi dai Paesi sottosviluppati. E tuttavia, poiché il processo di razionalizzazione è ovunque il medesimo, lo studio della storia americana può rivelarsi una risorsa importante per i Paesi in via di modernizzazione59. Bellah tocca anche la questione politica che sta al centro della teoria della modernizzazione: il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Nella sua interpretazione, il progetto comunista di creare una società comunitaria e indifferenziata è privo di speranza, poiché mira a superare la modernizzazione sopprimendo le contraddizioni 58 Ivi, p. 27. Vedi F. Bourricaud, The Sociology of Talcott Parsons, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1981; T. Parsons, Religion in Postindustrial America: The Problem of Secularization, in «Social Research», 41, 1974, pp. 193225. 59 R.N. Bellah, Values and Social Change in Modern Japan, cit., pp. 21-22.

57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tipiche di tutti i sistemi sociali differenziati. L’Unione Sovietica non è stata in grado di combinare individualismo e burocratizzazione, e ha mantenuto la stabilità sociale utilizzando “meccanismi di soppressione e negazione” e seguendo strategie fondate su “elementi feudali”, cioè non-moderni60. Poco prima della pubblicazione, nel gennaio del 1962, Bellah aggiunge al testo della conferenza un poscritto sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Premettendo che il ritorno in patria ha peggiorato la sua visione delle cose, Bellah spiega che il valore dell’esperienza americana dipende dalla stabilità di “alcuni principi universali”, rivoluzionari e moderni, e che la sua lealtà di cittadino dipende integralmente dal rispetto di questi ultimi. Allo stesso tempo, Bellah propone un soddisfatto parallelo tra il suo Paese e l’Atene di Pericle, e attribuisce al primo il ruolo di “educatrice del mondo moderno”. Sebbene Bellah cercasse di distinguere la propria presa di posizione da quella di altri teorici della modernizzazione, il suo ritratto degli Stati Uniti coincideva in gran parte con quello proposto da questi ultimi. La “modernità” non andava confusa con l’America, ma l’“America” continuava a essere quell’esempio di società razionalizzata, dinamica e individualistica che gli altri aderenti al movimento proponevano come termine di paragone per valutare il progresso delle altre società.

Arriva la religione civile Nei primi anni Sessanta Bellah si dedicò soprattutto allo studio delle interpretazioni della modernizzazione giapponese – i saggi su Ienaga Saburo e Watsuji Tetsuro, caratterizzati da un approccio umanistico, così come il celebre articolo sulla evoluzione religiosa del 1964, avevano poco da dire sull’America. Il tema della relazione tra religione e politica negli Stati Uniti compare invece nell’epilogo 60

Ivi, pp. 24-25.

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del libro Religion and Progress in Modern Asia, laddove discutendo di transizioni storiche Bellah suggerisce che «il simbolismo religioso solenne – come quello, per esempio, tipico della cerimonia di insediamento del Presidente americano – può contribuire a rendere tollerabili i cambiamenti» grazie al suo «riferimento a ciò che è immutabile»61. L’America rimaneva per Bellah un oggetto poco interessante, che andava ripescato solo quando la logica della ricerca comparativa necessitava di un prototipo di piena modernizzazione in cui il problema del rapporto tra continuità e razionalizzazione fosse già stato risolto. Dietro l’angolo, però, c’era un cambiamento radicale. Tra il 15 e il 16 ottobre 1965 Bellah prese parte alla conferenza “Religion in American Culture” organizzata dall’American Academy of Arts and Sciences. La sua prima reazione all’invito di Parsons, presidente in pectore dell’Academy per il quadriennio 1967-1971, era stata negativa: Parsons insisteva perché scrivessi un intervento per una conferenza organizzata da Daedalus sulla religione in America, da cui sarebbe poi stato tratto un numero della rivista. Io non volevo partecipare perché non mi sentivo abbastanza preparato sull’America – dopotutto la mia specialità era il Giappone; ma Talcott mi rassicurò dicendo che un sociologo può affrontare qualunque argomento62.

Parsons non faceva che esprimere l’idea di fondo della concezione delle scienze sociali propugnata dal movimento del Secondo dopoguerra: la disponibilità di schemi analitici raffinati – capaci di organizzare coerentemente dati storici ed empirici – consentiva al 61

R.N. Bellah, Epilogue: Religion and Progress in Modern Asia, in Id. (ed.), Religion and Progress in Modern Asia, The Free Press, Glencoe, 1965, p. 173. Vedi anche i saggi raccolti in R.N. Bellah, Imagining Japan, cit. 62 R.N. Bellah, God, Nation, and Self in America: Some Tensions between Parsons and Bellah, in R.C. Fox et al. (eds.), After Parsons, Russell Sage Foundation, New York, 2006, p. 137.

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sociologo di comprendere qualunque fenomeno sociale, al di là delle specializzazioni. Questo, dopotutto, era quello che Bellah aveva fatto dieci anni prima con il primo saggio sulla religione in America. Il suo intervento, intitolato “Heritage and Choice in American Religion”, era diviso in tre parti. Alcune delle tematiche delle sezioni prima e terza, “Historical Identity” e “Problems”, erano simili agli altri scritti sugli Stati Uniti. La parte più originale della presentazione, “The Civil Religion”, riprendeva invece alcuni appunti su Kennedy usati da Bellah per una conferenza durante il suo primo viaggio in Giappone nel 1961. Il primo paragrafo, dedicato al retaggio “privato” della religione americana, si concentra su uno dei temi cari a Bellah: la relazione tra identità e mutamento sociale. Come in tutte le pubblicazioni dei primi anni Sessanta, Bellah affronta la questione tracciando una distinzione tra società moderna, definita come “istituzionalizzazione del cambiamento”, e i temi culturali più profondi che stanno a fondamento della vita religiosa. Secondo la sua analisi durkheimiana, le chiese garantiscono agli americani la stabilità del senso e degli orientamenti di valore, la possibilità di esprimere sentimenti e identità collettive, e funzionano in qualche modo come veicoli di “solidarietà meccanica”63. I gruppi e le organizzazioni custodiscono le “verità fondamentali sulla realtà” che consentono agli americani di dare un significato alla vita quotidiana. In questo senso, scrive Bellah, «per le persone religiose alcuni eventi del passato remoto sono immediatamente e assolutamente significativi»64. Allo stesso tempo, la rapidità del mutamento sociale influisce sulla stabilità delle tradizioni religiose. Ciò colpisce soprattutto le chiese protestanti tradizionali: poiché la cultura e la società americana nascono dal movi63

R.N. Bellah, Heritage and Choice in American Religion, manoscritto (19 pp.), Proceedings of the Daedalus conference on “Religion and American Culture”, 15-16 ottobre, 1965, American Academy of Arts and Sciences, Brookline, MA. Il testo è stato pubblicato in «Sociologica», 4, 2010. Ringrazio Todd T. Ito della University of Chicago Law School per avermi aiutato a trovare l’unica copia di questo saggio. 64 Ivi, p. 1.

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mento riformistico di detradizionalizzazione e razionalizzazione, le chiese si trovano obbligate ad adattarsi alle continue trasformazioni di una società che hanno loro stesse creato. Ciò significa anche che tradizione e modernità possono procedere insieme, così che «una persona può essere “tradizionalmente religiosa” senza sentirsi alienata da, o in contrapposizione a, la società moderna»65. Come già nel saggio del 1955, Bellah afferma che l’idea per cui il protestantesimo americano sarebbe “prigioniero” dello stile di vita americano ignora la più importante verità storica riguardo il rapporto tra le due culture: Prima di accettare troppo frettolosamente la conclusione critica per cui in America la religione sarebbe prigioniera di una cultura estranea ovvero del tutto “privatizzata”, dovremmo ricordare la misura in cui quella stessa cultura è un prodotto della tradizione religiosa e quanto può essere importante un solido settore privato per i settori “pubblici” della vita66.

Con la critica della tesi dell’irrilevanza della religione negli Stati Uniti Bellah introduce, nel secondo paragrafo, il secondo pilastro del retaggio religioso, la sua dimensione pubblica. Bellah presenta la “religione civile” – definita come un insieme di «atti e linguaggi religiosi [usati] nell’ambito di varie occasioni pubbliche ufficiali» – con un’attenta analisi del discorso di insediamento di John F. Kennedy, e cerca di spiegare i continui riferimenti a un’idea astratta (cioè non giudaico-cristiana) di Dio67. Secondo Bellah, i richiami di Kennedy 65

Ivi, p. 5. Ivi, p. 6. Nel celebre Protestant, Catholic, Jew (Doubleday, Garden City, NJ, 1955), Will Herberg aveva criticato la santificazione dell’American way of life come una forma di idolatria e la “religione civica” (sic) americana come una pratica di tipo consolatorio. Anche in assenza di riferimenti diretti, era chiaro a chiunque ascoltasse Bellah quale fosse il bersaglio della sua critica. Attaccando Herberg, Bellah prendeva posizione in una discussione pluriennale ma ancora priva di un nome. 67 R.N. Bellah, Heritage and Choice in American Religion, cit., p. 7. 66

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non sono un omaggio ipocrita al sentimento religioso della popolazione, quanto piuttosto «l’interpretazione più recente di un tema che sta al centro della tradizione americana: l’obbligo, collettivo e individuale insieme, di costruire il Regno di Dio sulla Terra». Nella tradizione politica americana, infatti, la sovranità ultima appartiene a Dio, non al popolo68. Kennedy invoca un Dio generico perché il suo linguaggio dev’essere inclusivo, comprensibile e condivisibile da tutti gli americani a prescindere dal loro credo religioso: non una violazione della separazione tra Stato e chiesa, dunque, ma una interpretazione autentica di uno dei più profondi temi culturali della tradizione americana. Nel terzo paragrafo Bellah affronta questioni attuali, indicando due fratture. La prima divide le élite secolarizzate dal popolo religiosamente orientato, la seconda contrappone ministri pubblicamente impegnati e fedeli politicamente passivi. Se le élite e il clero si interessano alla razionalizzazione della società e ai problemi che essa ha prodotto, i fedeli cercano sicurezza e consolazione69. Nelle amare osservazioni di Bellah sul difficile rapporto tra teologia, scienza e religiosità popolare si scorge il riflesso delle sue esperienze con gli studenti della Harvard Divinity School e il loro senso di estraneità nei confronti delle anime di cui si dovrebbero occupare. Pur riconoscendo le difficoltà, Bellah si schiera, in base a un ragionamento sociologico, dalla parte del “buon borghese (represso)”: poiché nessun progetto di mutamento sociale può ignorare le classi medie e le loro “ansie irrazionali” verso il futuro, è necessario utilizzare la tradizione religiosa, nelle sue dimensioni pubblica e privata, per produrre una mobilitazione potente e positiva della “classe media, che è maggioranza nella società”70.

68

Ivi, pp. 12-13. Ivi, p. 18. 70 Ivi, pp. 15-19. 69

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Durante la conferenza fu la seconda parte di “Heritage and Choice” ad attirare l’attenzione dei presenti71. Parsons integrò immediatamente l’idea di religione civile nella propria interpretazione della secolarizzazione in America, come dimostra la lunga citazione che segue, tratta dal saggio “Religion in a Modern Pluralistic Society” pubblicato nel 1966: Una delle prove più importanti [del fatto che gli Stati Uniti non sono un Paese secolarizzato] è l’affermarsi di quella che Bellah ha chiamato “religione civica” [sic] americana. Esiste un sottile confine tra gli obblighi costituzionali di separazione tra chiesa e Stato e il senso in cui una “credenza in Dio” è ritenuta caratteristica, e in un certo senso costitutiva, della comunità nazionale. Utilizziamo il motto “In God We Trust” sulle monete e in numerosi altri contesti simbolici. L’espressione “One Nation Under God” è uno slogan nazionale, e viene utilizzata ufficialmente. Le cerimonie di insediamento dei presidenti hanno sempre previsto preghiere e invocazioni da parte del clero, anche se si è deciso di non limitarsi a una sola “fede”. Lo stesso vale per l’apertura delle sedute del Congresso. I discorsi e i pronunciamenti dei leader politici, soprattutto quelli di presidenti come Kennedy e Johnson, sono saturi di riferimenti religiosi che hanno spesso un tono biblico. Si potrebbe forse dire che la “teologia” di questa “religione civica” viene attentamente mantenuta a un livello molto generale, al punto che può spesso sembrare più deistica che teistica72.

71

Uno dei più entusiasti sostenitori di Bellah era David Riesman. In una lettera al preside dalla Faculty of Arts and Sciences di Harvard, Franklin L. Ford, Riesman scrive: «Condivido anche con [Bellah] un interesse per la sociologia della religione, e recentemente abbiamo partecipato insieme a una conferenza di Daedalus sulla religione in America, dove lui ha presentato un intervento particolarmente penetrante» (D. Riesman a F.L. Ford, 16 novembre 1965, Harvard Archives, HUG (FP) 15.4, box 17). 72 T. Parsons, Religion in a Modern Pluralistic Society, in «Review of Religion Research», 7, 1966, p. 134.

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Si avvicinava una seconda conferenza sulla religione in America. Nella stesura del suo contributo per l’incontro del 13 e 14 maggio 196673, Bellah tenne conto dell’interesse dimostrato dai suoi colleghi per la religione civile eliminando i temi trattati nella prima e terza parte di Heritage and Choice e concentrandosi sull’aspetto pubblico della religione, rafforzandone i fondamenti concettuali e ampliandone l’orizzonte storico. Il nuovo intervento, intitolato “Civil Religion in America”, aggiungeva all’analisi del discorso di Kennedy nuovi paragrafi su altri presidenti, sulla Guerra di secessione e sul futuro della religione civile in quello che Bellah definiva “il terzo momento della verità”. Il saggio, pubblicato come apertura del numero invernale di «Daedalus» del 1967, cominciava con una fulminante articolazione della tesi sulla religione civile americana – «Parallelamente alle chiese e chiaramente differenziata da esse, esiste in America una religione civile articolata e ben istituzionalizzata. Questo saggio afferma non solo che tale religione, o meglio sarebbe dire tale dimensione religiosa, esiste, ma anche che essa ha una sua serietà e integrità e merita la medesima attenzione che dedichiamo alla comprensione di ogni altra religione». Come Bellah avrebbe sperimentato di lì a poco, la sua tesi sarebbe stata citata e criticata innumerevoli volte74.

Emancipazioni intellettuali e organizzative Gli interventi preparati da Bellah per le due conferenze di «Daedalus» erano caratterizzati da continuità e rotture rispetto ai lavori precedenti sugli Stati Uniti. Il difficile rapporto tra le trasforma73

Vedi J. Cogley, Scholars Agree That U.S. Is in Religious Crisis, but They Dispute Its Nature, in «The New York Times», 16 maggio 1966, p. 21. 74 R.N. Bellah, La religione civile in America, in Id., La religione civile in Italia e in America, a cura di M. Bortolini, Armando, Roma, 2009, p. 29. Il secondo capitolo del presente volume analizza approfonditamente il dibattito sulla religione civile americana e il suo impatto sulla carriera intellettuale di Bellah.

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zioni prodotte dal processo di modernizzazione e la necessità di mantenere punti di riferimento significativi rimaneva il principale nodo teorico, così come la relazione tra politica e religione, uno dei temi classici della riflessione di Bellah almeno a partire da Tokugawa Religion. L’analisi della parte giocata dalle chiese protestanti nella vita sociale e culturale americana proposta in “Heritage and Choice” non si discostava da quella di “Religion in America” e si contrapponeva chiaramente alle tesi di chi, come Will Herberg e Martin Marty, aveva denunciato la resa della religione al sogno americano75. L’idea “rivoluzionaria” per cui esisteva un insieme di valori religiosi superiori grazie ai quali la vita pubblica nazionale poteva, e doveva, essere giudicata, così come l’anticipazione di una “religione civile mondiale” capace di trascendere l’esperienza americana, non si discostavano dalla nota aggiuntiva al testo giapponese del 1961. Gli aspetti più originali della tesi della religione civile erano però del tutto inediti. L’idea stessa della stretta, per non dire costitutiva, relazione tra religione e politica proposta in “Civil Religion in America” era assente in “Religion in America”. Nel 1955 Bellah aveva attribuito la Rivoluzione e la fondazione della repubblica ai soli “movimenti secolari” e aveva sottolineato che questi ultimi avevano «attirato interessi che avrebbero altrimenti trovato un’espressione religiosa». In un rapido passaggio aveva interpretato l’aggiunta dell’espressione “under God” nella Pledge of Allegiance come una conseguenza del revival religioso del Secondo dopoguerra, senza indicare la presenza di temi culturali più profondi. L’ultima parte di “Civil Religion in America”, con la sua dura critica alla politica 75

Confronta, per esempio, ciò che scrive Bellah (La religione civile in America, cit., p. 35) – «la volontà popolare non è il criterio ultimo di ciò che è giusto o sbagliato. Esiste un principio superiore in termini del quale tale volontà può essere giudicata: è possibile che il popolo si sbagli» – con quanto scrive Martin E. Marty (The New Shape of American Religion, Harper & Brothers, New York, 1959, p. 108) – «il Dio prodotto in America dal clima della religione-in-generale non era degno di gloria né capace di essere “goduto”. Era utile e utilizzato in maniera limitata; un Dio non è libero di giudicare né di salvare la nazione che l’ha creato».

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estera americana, non aveva nulla a che fare con il tono positivo e quasi ottimistico delle opere precedenti76. Come hanno sostenuto Alexander e Sherwood, la novità più radicale dei due interventi sulla religione civile è il tentativo di elaborare un linguaggio originale, lontano dal gergo sociologico dello struttural-funzionalismo77; gli strumenti parsonsiani usati in precedenza – AGIL, le pattern variables e la teoria della modernizzazione – sono del tutto assenti. Il nuovo vocabolario nasce indubbiamente da necessità di carattere intellettuale: l’attenzione per la natura stratificata dei simboli, la consapevolezza del costante confronto tra frammentazione e senso del tutto, la ferma credenza di Bellah nella profonda religiosità di ogni uomo reclamavano una comprensione più “profonda” (thick), meno astratta e più ermeneutica della cultura, capace di superare le analisi schematiche e formali del sistema culturale proposte da Parsons. Ignorando i fattori strutturali della rottura tra Bellah e il suo mentore, però, Alexander e Sherwood inducono a sbagliare due volte: i fattori culturali vengono assolutizzati a spese di quelli strutturali e le reti intellettuali entro le quali Bellah trova gli strumenti concettuali necessari per creare la nuova posizione sono ignorate. Attribuendo a Bellah un’eccessiva e disincarnata originalità, Alexander e Sherwood impediscono di comprendere appieno l’evolversi delle sue idee. Nel 1966 Bellah era l’unico “prodotto” del DSR ad aver superato l’intero cursus honorum – da studente a professore ordinario – tra le mura del dipartimento. Diversamente da tutti i suoi colleghi e amici, Bellah aveva infatti deciso di rimanere ad Harvard78. Aveva continuato a insegnare insieme a Parsons e, come mostrano la corrispon76 R.N. Bellah, Religion in America, pp. 12-13; vedi anche V.M. Lidz, Civil Religion: On the Emergence, Development, and Importance of the Concept, e S.M. Tipton, Civil Religion in the Making, entrambi in «Sociologica», 4, 2010. 77 J.C. Alexander e S.J. Sherwood, Mythic Gestures, cit., pp. 13-14. 78 Bellah rifiutò offerte da Michigan, UCLA, Columbia e University of Chicago. Si vedano le lettere tra Parsons, Ford, Riesman e Bellah, novembre 1966 (Harvard Archives, HUG (FP) 42.8.8, box 3, e HUG (FP) 15.4, box 17).

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denza e l’aneddoto sulla conferenza di «Daedalus», quest’ultimo rimaneva la sua principale interfaccia per le questioni accademiche79. Ormai quarantenne, Bellah si trovò spinto dalla logica del campo intellettuale ad allontanarsi da Parsons. Data la struttura e le dinamiche dello spazio dell’attenzione, il suo tentativo di emancipazione seguì le orme del progetto lanciato dal suo mentore alla fine degli anni Quaranta: il lancio di un nuovo paradigma e il tentativo di radicarlo in una organizzazione. Dal punto di vista intellettuale, Bellah si spostò sul versante umanistico dello studio della religione, traducendo in sociologia un interesse pluridecennale per la storia comparata delle religioni per come veniva intesa e praticata da Wilfred Cantwell Smith – suo mentore alla McGill University nel biennio 1956-1957 e direttore del Center for the Study of World Religions di Harvard a partire dal 1964. La consuetudine con i circoli umanistici e una profonda conoscenza delle loro risorse concettuali permisero a Bellah di allontanarsi dallo struttural-funzionalismo e di lanciare un nuovo approccio sociologico di tipo ermeneutico e culturalista. In una serie di saggi metodologici centrati sulla critica radicale del “riduzionismo simbolico” tipico della tradizione sociologica, Bellah propone una posizione, il “realismo simbolico”, per cui «i simboli non conoscitivi e non scientifici sono costitutivi della personalità umana e della società, e reali nel senso più vero della parola» – i simboli religiosi, cioè, non sono riducibili né alla conoscenza empirica né a processi sociali o psicologici “sottostanti”. Come Parsons aveva fatto nel 1937 con The Structure of Social Action, Bellah lasciò il livello della scienza “normale” per proporre un cambio di paradigma80. 79 Questa impressione è confermata anche dal fatto che Bellah non viene mai nominato nelle storie del DSR. Vedi, oltre ai saggi già citati, anche G.A. Fine, The Dissolution of Social Relations at Harvard. A Social History, manoscritto, University of Minnesota; P.L. Schmidt, Towards a History of the Department of Social Relations, Harvard University, 1946-1972, manoscritto, Harvard College. 80 R.N. Bellah, Al di là delle fedi, cit., p. 263. Ho ricostruito e contestualizzato la vicenda del “realismo simbolico” in M. Bortolini, Blurring the Boundary Line, cit.

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Dal punto di vista accademico, subito dopo la pubblicazione di Civil Religion in America, Bellah decise di accettare un’offerta della University of California e si trasferì a Berkeley. Pur ricoprendo il ruolo di direttore del Center for Japanese and Korean Studies fino al 1974, Bellah abbandonò di fatto l’Estremo Oriente per concentrarsi sugli studi religiosi e sull’americanistica, due campi in cui stava ottenendo un successo crescente. Poiché gli Stati Uniti erano al tempo stesso l’oggetto principale e il modello ideale della sociologia struttural-funzionalista e del suo più stretto alleato, la teoria della modernizzazione, lo spostamento di Bellah “dal Giappone all’America” finiva per acquistare un significato speciale per il suo rapporto con Parsons. Con la pubblicazione di “Civil Religion in America” Bellah prese la prima decisione rischiosa della sua carriera intellettuale; il tono e il lessico del saggio, insieme al profilo interdisciplinare della rivista su cui venne pubblicato, suggeriscono che Bellah ambiva a proiettarsi oltre i confini della sociologia – e, visto che i suoi primi lavori erano stati elogiati per l’uso creativo del paradigma parsonsiano, rinunciando a quest’ultimo Bellah si privava volontariamente di un prezioso marchio di fabbrica81. Allo stesso modo, il termine “modernizzazione” era sparito dal suo vocabolario assai prima che l’omonima teoria cominciasse a essere attaccata da più parti82 – come abbiamo visto, nel 1970 Bellah era già pronto a storicizzare la prima fase del proprio sviluppo intellettuale. Bellah era anche impegnato nella cauta ricerca di nuove soluzioni organizzative. Quando alcuni sociologi capeggiati da Alex Inkeles avevano messo in discussione il progetto interdisciplinare del DSR e avevano cominciato a premere per la creazione di un vero e proprio dipartimento di sociologia, Bellah non si era speso nella difesa della creazione di Parsons, e aveva anzi esplorato la possibilità di 81 Etichettando la sua opera come “non sociologica”, Alexander e Sherwood (Mythic

Gestures, cit., pp. 12-13) rinunciano a comprendere l’operazione di sganciamento di Bellah da una sociologia della religione sempre più positivistica e riduzionista. 82 N. Gilman, Mandarins of the Future, cit., pp. 241 e ss.

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fondare un dipartimento di studi religiosi. Giunto a Berkeley, Bellah decise di non tornare sui suoi passi – nel 1968, per esempio, rifiutò la cattedra di Houghton Professor of Theology and Contemporary Change offertagli dalla Harvard Divinity School83. L’unica proposta che Bellah prese in considerazione fu quella di Carl Kaysen e Clifford Geertz, che nel 1973 lo candidarono a membro permanente all’Institute for Advanced Study di Princeton con l’esplicito progetto di creare una scuola di scienze sociali di orientamento ermeneutico84. Come hanno sottolineato giustamente Alexander e Sherwood, Bellah e Geertz avevano collaborato fin dai primi anni Sessanta al tentativo di trasformare l’interesse formale di Parsons per il sistema culturale in una analisi interpretativa radicale – di fronte al violento rifiuto dello struttural-funzionalismo tipico dell’ondata anti-parsonsiana dei tardi anni Sessanta, Bellah e Geertz cercavano di salvare quanto di buono si poteva ricavare dal movimento delle scienze sociali del Dopoguerra85. È forse per questa ragione che non ci fu alcuna rottura palese del rapporto tra Bellah e Parsons almeno fino al 1974, cioè prima della pubblicazione del libro che Bellah decise di dedicare alle promesse non mantenute della religione civile americana, The Broken Covenant86. Dopo aver letto il manoscritto, Parsons scrisse al suo ex83

Vedi lettere di R.N. Bellah a T. Parsons del 5 giugno 1965 e del 2 dicembre 1968 (Harvard Archives, HUF (FP) 15.4, box 4). Il Department of Sociology si separò dal DSR nel 1970. 84 Vedi il terzo capitolo del presente volume per uno studio di caso sul “Bellah affair” a Princeton. 85 J.C. Alexander, Twenty Lectures, cit.; M. Bortolini e M. Santoro, Presentazione. Quando (e come) Parsons leggeva Geertz, in «Studi culturali», 5, 2007, pp. 69-81; M. Bortolini, Blurring the Boundary Line, cit. 86 Il libro di Bellah presenta una visione molto critica dell’America, rifiutata da Parsons al punto che l’ultima versione del manoscritto parsonsiano sulla società americana (pubblicata postuma nel 2007) è stata considerata come una lunga discussione contro l’ex-allievo. Vedi J.C. Alexander e S.J. Sherwood, Mythic Gestures, cit., pp. 7 e ss.; R.N. Bellah, God, Nation, and Self in America, cit.; R.N. Bellah, Introduction, in R.N. Bellah e S.M. Tipton (eds.), The Robert Bellah Reader, Duke University Press, Durham, 2006, pp. 1-17; J.C. Alexander, Foreword, in T. Parsons, American Society. A Theory of the Societal Community, ed. by G. Sciortino, Paradigm, Boulder, 2007,

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allievo una lettera in cui un lungo elenco di critiche sostanziali era preceduto da una osservazione particolarmente dura: «Francamente, sono rimasto colpito dal manoscritto e mi sembra che non sia coerente con l’alto livello di qualità intellettuale che tu hai mantenuto in modo ammirevole per così tanto tempo»87. Un giudizio tanto insolito, e probabilmente ingeneroso, può essere letto come un segno della latente, ma profonda, rottura tra maestro e allievo. Era come se Parsons volesse avvertire Bellah che stava per abbandonare il solido terreno della sociologia scientifica per quel tipo di discorso critico fortemente emotivo che il movimento del Dopoguerra aveva cercato di escludere dall’orizzonte culturale delle scienze sociali88. I toni della critica rivolta da Bellah alla società americana – una critica che accentuava aspetti che Parsons riteneva secondari, come la burocratizzazione delle organizzazioni e della vita pubblica – prefiguravano una “svolta profetica” che il vecchio maestro non era disposto ad avallare. Non sorprendentemente, Bellah non prestò alcuna attenzione alle critiche di Parsons e pubblicò il libro così com’era – in realtà, così come lo aveva pensato parecchi anni prima nel corso di alcune conferenze tenute a Cincinnati89. Un anno dopo, The Broken Covenant valse a Bellah il Sorokin Award della American Sociological Association e lo lanciò definitivamente nel pantheon degli scienziati sociali americani. Nel 1970 Bellah ha descritto il passaggio dal Giappone all’America, e da Harvard a Berkeley, come l’espressione esteriore di un cambiamento interiore. Alexander e Sherwood l’hanno interpretato come “un’ulteriore deviazione” dal sentiero teorico e stilistico di Parpp. xiii-xvi; M. Bortolini, Review: T. Parsons, American Society, in «Sociologica», 3, 2009. 87 Lettera di T. Parsons a R. Bellah, 10 settembre 1974 (Harvard Archives HUG (FP) 42.8.8, box 3). 88 Per un’idea dell’impostazione di Parsons su questo problema si può vedere La teoria sociologica e il problema dell’ideologia, in «Quaderni di teoria sociale», 2, 2002, pp. 13-32, e i saggi di John Holmwood e Riccardo Prandini nello stesso numero di quella rivista. 89 Vedi il secondo capitolo del presente volume, pp. 88-89.

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sons. Come ho cercato di dimostrare in questo capitolo, si è trattato anche del definitivo atto di auto-emancipazione con cui Bellah si è allontanato dai gruppi e dalle reti che lo avevano reso un accademico celebre, ma che gli impedivano, allo stesso tempo, di raggiungere la maturità come intellettuale.

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Capitolo secondo

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La trappola del successo intellettuale. Robert N. Bellah e il dibattito sulla religione civile americana

Rispettare la verità è rispettare chi la cerca. Robert K. Merton

Il successo in campo intellettuale è un tema classico della sociologia della conoscenza. Se tradizionalmente lo si imputava a fattori intrinseci – gli oggetti culturali hanno un valore perché sono veri, belli o sofisticati; gli intellettuali diventano famosi perché sono eruditi, intelligenti o creativi –, i sociologi hanno mostrato che l’inclusione nei campi intellettuali, l’accumulazione di reputazione e l’affermarsi degli oggetti culturali a fronte di resistenze, critiche e competizione dipendono da un complesso intreccio di risorse, relazioni e strategie. Al di là di ciò che le divide, entrambe le generazioni di sociologi del sapere ritengono che il successo in campo intellettuale sia una condizione univocamente desiderabile. Secondo la scuola mertoniana, il successo aumenta le probabilità di ottenere la più scarsa delle risorse, l’attenzione, e consente all’intellettuale di accumulare una quantità sproporzionata di riconoscimento. I sociologi delle idee post-mertoniani hanno introdotto schemi teorici di tipo costruttivista 73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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per spiegare come gli intellettuali più celebri riescano a modificare i campi a propria immagine e somiglianza, in modo da rendere le proprie creazioni “più appropriate” di quelle dei loro concorrenti. Al cuore di entrambi i paradigmi sta una teoria dell’accumulazione del vantaggio: il successo di un oggetto culturale porta fama e risorse al suo creatore; grazie al successo gli intellettuali più noti riescono a imporre le proprie idee su quelle di critici meno conosciuti o di partner potenziali. In questo capitolo affronto una questione controintuitiva e poco studiata che rovescia il rapporto tra il successo dell’intellettuale e il riconoscimento del valore delle sue creazioni: a volte gli intellettuali più celebri possono incontrare serie difficoltà nel diffondere le proprie idee proprio perché sono famosi. Come mostrerò, ciò accade quando le nuove idee si contrappongono a creazioni più celebri o mal si accordano con le definizioni correnti dell’opera dei loro creatori. Più diventano un punto di riferimento per produttori, critici e pubblico, più gli intellettuali rischiano di rimanere intrappolati in aspettative e stereotipi. Pur essendo una condizione invidiabile, il successo intellettuale ha un lato oscuro che è finora sfuggito all’analisi della sociologia della conoscenza. La mia strategia argomentativa prevede due fasi. Dopo aver richiamato i principi delle due versioni, mertoniana e post-mertoniana, della teoria dell’accumulazione del vantaggio, presento uno studio di caso – Robert N. Bellah e il dibattito sulla religione civile americana – che pare essere una perfetta illustrazione della teoria. Pubblicato nel 1967, il saggio “Civil Religion in America” sollevò un’ampia controversia multidisciplinare e consacrò il suo creatore nel campo degli studi americani. Grazie a opere come The Broken Covenant (1975), Habits of the Heart (1985) e The Good Society (1991), Bellah è stato al centro del dibattito sull’America per più di quarant’anni1. 1

Vedi il primo capitolo del presente volume per una storia delle origini del saggio e dell’interesse di Bellah per l’America.

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La mia tesi è che la storia del dibattito sulla religione civile appare del tutto diversa se prendiamo in considerazione i cambiamenti nel contenuto delle idee di Bellah. Durante il dibattito, e grazie a esso, le idee di Bellah sulla religione civile americana si modificarono profondamente. Poiché la controversia era nata da “Civil Religion in America”, però, le nuove idee di Bellah vennero ignorate o identificate con quelle esposte nel primo articolo. Dopo aver cercato più volte di richiamare l’attenzione sulla sua seconda interpretazione, Bellah decise di abbandonare la discussione. Come mostro nella narrazione “attraverso lo specchio”, la ricezione delle nuove tesi sulla religione civile americana venne resa più, e non meno, difficile dal successo del primo saggio. Nell’ultimo paragrafo propongo una ipotesi esplicativa costruita sulla distinzione tra lo status delle idee e quello dei loro creatori e sui processi di categorizzazione e stereotipizzazione che hanno luogo nel campo intellettuale. Non intendo, con ciò, negare la validità della teoria dell’accumulazione del vantaggio, quanto piuttosto richiamare l’attenzione sulle sfumature e i paradossi del successo intellettuale e delle sue conseguenze.

Il successo intellettuale e la teoria dell’accumulazione del vantaggio A partire dagli influenti studi di Robert K. Merton sulla sociologia della scienza, la sociologia della conoscenza contemporanea ha spesso studiato il rapporto tra sistemi di status, fondati su stima e onore, e sistemi di classe, relativi alla stratificazione delle possibilità di vita, e ha prodotto solidi studi la cui influenza si estende al di là dei confini della sotto-disciplina. Per verificare se il sistema della scienza funzioni davvero secondo le norme ideali di universalismo, disinteresse, comunalismo e scetticismo organizzato, i sociologi fedeli al paradigma mertoniano hanno esaminato attentamente 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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il rapporto tra la posizione occupata dagli scienziati e la qualità del loro lavoro. Dai primi studi di sociologia della scienza è emersa una influente generalizzazione, la teoria dell’accumulazione del vantaggio e dello svantaggio, secondo la quale il privilegio degli scienziati più celebri cresce in misura sproporzionata, così che la distribuzione delle risorse ideali e materiali si fa sempre più diseguale e finisce per avvantaggiare coloro che già occupano il vertice del sistema di stratificazione2. I mertoniani hanno usato l’espressione “effetto san Matteo” per indicare un ciclo di feedback in cui i risultati che gli scienziati hanno ottenuto nel passato, segnalati da sanzioni positive come le citazioni e le cariche istituzionali, «intervengono in qualche modo sulla ricezione delle [loro] nuove scoperte». Come hanno scritto Jonathan e Stephen Cole: All’inizio gli scienziati ottengono visibilità pubblicando ricerche significative. Dopo che la visibilità è stata ottenuta, essi godono di un effetto alone (halo effect), e le loro ricerche richiamano più attenzione grazie alla loro visibilità3.

La teoria dell’accumulazione del vantaggio spinge logicamente a ipotizzare una discrepanza tra la qualità delle opere e il riconosci2 R.K. Merton, La sociologia della scienza, Franco Angeli, Milano 1981; B. Barber, Science and the Social Order, The Free Press, Glencoe, 1952; N.W. Storer, The Social System of Science, Holt, Rinehart, & Winston, New York, 1966; H. Zuckerman, Scientific Elite, Transaction, New Brunswick-London, 1996; H. Zuckerman, Accumulation of Advantage and Disadvantage: The Theory and its Intellectual Biography, in C. Mongardini e S. Tabboni (eds.), Robert K. Merton and Contemporary Sociology, Transaction, New Brunswick-London, 1998, pp. 139-161. Vedi anche l’introduzione di Massimiano Bucchi a R.K. Merton, Scienza, religione e politica, Il Mulino, Bologna, 2011, e D. Rigney, Sempre più ricchi, sempre più poveri, Etas, Milano, 2011. 3 J.H. Cole e S. Cole, Social Stratification in Science, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1973, pp. 220-221. Mentre il lavoro di Merton sull’effetto san Matteo si concentrava sulle scoperte multiple, Jonathan e Stephen Cole hanno studiato «l’influenza della posizione nel sistema della stratificazione su tutti i tipi di scoperte» (ivi, pp. 192 e ss.). Vedi anche B. Barber, Resistance by Scientists to Scientific Discovery, in «Science», 134, 1961, pp. 596-602.

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mento attribuito ai loro creatori: se la reputazione dell’intellettuale conosciuto funziona come garanzia della qualità del suo lavoro, il controllo da parte della comunità dei pari si riduce e privilegia ex ante le élite esistenti e le loro idee. I mertoniani si sono pertanto concentrati sulle funzioni latenti dell’effetto san Matteo, giungendo a stabilire che, poiché le pubblicazioni degli scienziati più celebri sono anche le più citate dagli scienziati meno noti, e dunque “le migliori nel loro campo”, l’accumulazione del vantaggio è funzionale alla circolazione di risultati scientifici validi e di modelli di ruolo positivi. Come ha sostenuto Harry M. Collins, tale spiegazione funziona finché regge l’assunto per cui «le risposte ultime alle domande [della scienza vengono] dalla Natura, e gli uomini [sono dei] semplici mediatori» – nel paradigma mertoniano gli scienziati più famosi si dimostrano essere, per così dire, anche i migliori mediatori. Al contrario, la sociologia della conoscenza post-mertoniana «si interessa proprio di ciò che vale come conoscenza scientifica e dei processi attraverso i quali un tipo di sapere viene definito come tale»4. I sostenitori della nuova sociologia delle idee hanno mostrato che la definizione di ciò che conta come “contributo legittimo” discende dai processi di strutturazione dei campi intellettuali. I nuovi approcci ribaltano la precedente concezione: l’importanza degli oggetti culturali dipende dalla loro adeguatezza al frame epistemico egemonico, per come esso è stato definito dagli attori dominanti all’interno, e a volte all’esterno, del campo5. 4 H.M. Collins, The Sociology of Scientific Knowledge and Studies of Contemporary Science, in «Annual Review of Sociology», 9, 1983, pp. 266-267. 5 Si vedano almeno P. Bourdieu, Le regole dell’arte, Il Saggiatore, Milano, 2005; B. Latour e S. Woolgar, Laboratory Life, Princeton University Press, Princeton, 1986; B. Latour, La scienza in azione, Comunità, Torino, 1998; M. Lamont, How to Become a Dominant French Philosopher: The Case of Jacques Derrida, in «American Journal of Sociology», 93, 1987, pp. 584-622; N. McLaughlin, How to Become a Forgotten Intellectual: Intellectual Movements and the Rise and Fall of Erich Fromm, in «Sociological Forum», 13, 1998, pp. 215-246; S. Shapin, Here and Everywhere: Sociology of Scientific Knowledge, in «Annual Review of Sociology», 21, 1995, pp. 289-321.

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È interessante notare che, negando che la “realtà esterna” possa in ultima istanza confermare o falsificare gli esiti della ricerca o le creazioni della mente, il costruttivismo post-mertoniano ha rafforzato e in qualche modo blindato la teoria dell’accumulazione del vantaggio. Nell’opera di Pierre Bourdieu, per esempio, le sanzioni simboliche vengono riconcettualizzate come capitale scientifico e intellettuale e considerate come la posta e, allo stesso tempo, le armi della battaglia per il riconoscimento delle pretese intellettuali6. In questo modo l’accumulazione di capitale reputazionale influisce direttamente sulla topologia e la stratificazione degli aspetti strettamente simbolici dei campi intellettuali, in modo del tutto diverso da quanto avviene nel paradigma mertoniano: le idee di chi, grazie ai risultati ottenuti in passato, occupa il vertice di un sistema di stratificazione vengono valutate positivamente proprio perché il campo tende a ristrutturarsi secondo la sua definizione di ciò che conta come “una buona idea”7. La legge sociologica dei piccoli numeri individuata da Randall Collins è un altro esempio dell’approccio post-mertoniano. Secondo il sociologo americano, il numero massimo di posizioni rivali che un campo intellettuale può sostenere oscilla fra tre e sei. Ciò significa che mano a mano che alcuni intellettuali – nel caso di Collins, filosofi – riescono a occupare le posizioni dominanti, diventa sempre più difficile per gli altri raggiungere il medesimo livello di eminenza8. 6 P. Bourdieu, Homo Academicus, Stanford University Press, Stanford, 1988; P. Bourdieu, The Forms of Capital, in J.E. Richardson (ed.), Handbook of Theory and Research for the Sociology of Education, Greenwood Press, New York, 1986, pp. 242-258; L. Wacquant, Sociology as Socioanalysis: Tales of Homo Academicus, in «Sociological Forum», 5, 1990, pp. 677-689. 7 Ciò spinge gli attori dominanti a naturalizzare lo status quo secondo il proprio modo di fare scienza, scrivere romanzi o dipingere quadri. Vedi P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano, 2003. 8 R. Collins, The Sociology of Philosophies, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA, 1998, pp. 81 e ss. Nel caso di Collins, così come in quello di Bourdieu, la logica del campo spinge gli attori dominanti a difendere il proprio stile di creazione degli oggetti culturali anche senza una vera e propria intenzionalità. Vedi su questo N. Gross, Richard Rorty, The University of Chicago Press,

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L’interpretazione che Collins dà della carriera di Arthur Schopenhauer è un perfetto esempio della versione costruttivista della teoria dell’accumulazione del vantaggio e dello svantaggio:

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Schopenhauer venne sconfitto dalla legge dei piccoli numeri; tutte le posizioni erano già occupate da varianti dell’Idealismo, e la sua specificità non risultava visibile. La sua filosofia della volontà come cosa-in-sé venne vista come l’ennesima versione di Fichte […] Schopenhauer fu fortunato a vivere abbastanza a lungo da essere riscoperto dalla generazione successiva9.

In sintesi, gli intellettuali accumulano reputazione grazie al riconoscimento tributato al loro lavoro, e la fama permette loro di accumulare ulteriore capitale ideale e materiale. Ciò consente agli intellettuali più celebri e influenti di controllare i fondamenti epistemici del campo da una posizione di vantaggio. Una volta egemonizzato il campo, sarà più facile per loro imporre i propri prodotti culturali sugli altri attori. L’accumulazione del vantaggio si dimostra a tal punto irresistibile che i mutamenti di paradigma possono essere attuati solo da intellettuali che occupano il centro del campo – oppure devono attendere una transizione generazionale o più ampi sconvolgimenti societari e istituzionali10. Il successo ottenuto da Robert Bellah nel corso del dibattito sulla religione civile americana sembra essere un esempio da manuale della teoria dell’accumulazione del vantaggio.

Chicago-London, 2008, pp. 234 e ss. e, ancora prima, J.C. Alexander e G. Sciortino, On Choosing One’s Intellectual Predecessors: The Reductionism of Camic’s Treatment of Parsons and the Institutionalists, in «Sociological Theory», 14, 1996, pp. 154-171. 9 R. Collins, On the Acrimoniousness of Intellectual Disputes, in «Common Knowledge», 8, 2002, p. 53; vedi anche R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., pp. 661-663. 10 S. Frickel e N. Gross, A General Theory of Scientific/Intellectual Movements, in «American Sociological Review», 70, 2005; T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 2009; R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., pp. 622 e ss.

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Il dibattito sulla religione civile americana (1967-1975)

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Il saggio di Robert Bellah “Civil Religion in America” venne pubblicato all’inizio del 1967 su «Daedalus», la prestigiosa rivista multidisciplinare dell’American Academy of Arts and Sciences. La sua fulminante apertura era destinata a essere citata innumerevoli volte: Parallelamente alle chiese e chiaramente differenziata da esse, esiste in America una religione civile articolata e ben istituzionalizzata. Questo saggio afferma non solo che tale religione – o meglio sarebbe dire tale dimensione religiosa – esiste, ma anche che essa ha una sua serietà e integrità e merita la medesima attenzione che dedichiamo alla comprensione di ogni altra religione11.

Secondo Bellah, in America l’esistenza di un insieme di credenze, simboli e rituali comuni radicati nel vocabolario e nell’immaginario biblico, ma anche autenticamente americani e del tutto originali, aveva storicamente compensato l’assenza di una chiesa di Stato12. La religione civile americana (d’ora in poi RCA) aveva raggiunto la sua forma peculiare nel corso di due momenti cruciali della storia nazionale: la Rivoluzione americana e la Guerra di secessione. Sebbene inizialmente il simbolismo della religione civile si richiamasse all’Antico Testamento, la Guerra civile aveva introdotto «un nuovo tema di morte, sacrificio e rinascita – simbolizzato dalla vita e dalla morte di Lincoln»13. La fine degli anni Sessanta andava considerata 11

R.N. Bellah, La religione civile in America, in Id., La religione civile in Italia e in America, a cura di M. Bortolini, Armando, Roma, 2009, p. 29. Rimando anche alla mia introduzione allo stesso libretto per qualche considerazione più teorica, alla quale si può affiancare M. Bortolini, Utile sineddoche. La “religione civile” e l’autocomprensione dell’Europa, in RI.LE.S. (a cura di), Rammemorare la Shoah. 27 Gennaio e identità europea, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 33-49. 12 R.N. Bellah, La religione civile in America, cit., p. 66. 13 Ivi, p. 48.

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come un “terzo momento della verità” in cui gli Stati Uniti erano chiamati ad assumersi la piena responsabilità del proprio agire politico in un mondo nuovo, in cui le nazioni emergenti aspiravano agli stessi valori – libertà, uguaglianza e ricerca della felicità – su cui si fondava la tradizione rivoluzionaria americana. Solo ispirandosi agli aspetti migliori del retaggio della RCA l’America poteva contribuire alla creazione di un mondo migliore, un mondo in cui una “religione civile mondiale” avrebbe trasceso distinzioni fallaci come quella tra “dittature” e “mondo libero”14. Come ogni tradizione, concludeva Bellah, la RCA non era del tutto priva di ambiguità, ma poteva rivelarsi una guida per il futuro nel momento in cui venisse correttamente compresa e interpretata. Prima di “Civil Religion in America” l’idea di una “religione americana” era già stata avanzata, tra gli altri, da Seymour Martin Lipset e Talcott Parsons, mentre un approccio durkheimiano per interpretare la religione in America era già stato usato da Robin M. Williams, Jr. e Lloyd Warner15. Nella descrizione di Bellah, tuttavia, la RCA non appariva né come una religione generica né come cristianesimo camuffato; si trattava piuttosto di una elaborazione simbolica autonoma, che interpretava gli eventi storici e politici alla luce di una particolare relazione tra il popolo americano e la trascendenza: Al suo meglio la religione civile è in grado di comprendere autenticamente una realtà religiosa universale e trascendente proiettata su – ovvero, si potrebbe dire, rivelata attraverso – l’esperienza del popolo americano16.

14

Ivi, p. 61. S.M. Lipset, The First New Nation, W.W. Norton & Co, New York, 1963; T. Parsons, Teoria sociologica e società moderna, Etas Kompass, Milano, 1971; R.M. Williams, Jr., American Society, Alfred Knopf, New York, 1951; L. Warner, American Life: Dream and Reality, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1953. 16 R.N. Bellah, La religione civile in America, cit., p. 53, corsivo mio. 15

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Dieci anni prima, l’idea di un patto speciale tra gli Stati Uniti e Dio era stato il bersaglio polemico di un libro assai celebre, Protestant, Catholic, Jew. Il suo autore, Will Herberg17, considerava la santificazione dello stile di vita americano come una forma di idolatria e la “religione civica [sic]” americana una pratica debole e sostanzialmente consolatoria: «In questo tipo di religione non è l’uomo che serve Dio, ma Dio che viene attivato per servire l’uomo e i suoi fini». Pur consapevole di questo rischio, con la sua interpretazione del discorso di insediamento di John F. Kennedy Bellah puntava a dimostrare che la religione civile era in grado di giocare un ruolo critico e, al limite, profetico, in cui la nazione e i suoi leader fossero chiamati a giustificare le proprie azioni davanti a un tribunale più alto. La RCA non solo era “articolata”, ma anche “ben istituzionalizzata”: i suoi principi erano scritti nella Dichiarazione di Indipendenza e i presidenti degli Stati Uniti ne erano allo stesso tempo i sommi sacerdoti, i principali profeti e i più alti bersagli – una interpretazione che differenziava la religione civile di Bellah dalla santificazione dello stile di vita americano criticata da Herberg e Martin E. Marty18. Per quanto riguardava la relazione tra la religione civile e le chiese, Bellah confrontava Stati Uniti e Francia. In quest’ultimo Paese, la religione civile giacobina si era messa in competizione con la chiesa cattolica, mentre negli Stati Uniti il rapporto tra denominazioni e sistema politico era stato straordinariamente tranquillo, così che «la religione civile [era stata] in grado di consolidare potenti simboli religiosi di solidarietà nazionale evitando contrapposizioni con le chiese, e di attivare motivazioni personali profonde per il perseguimento delle finalità della nazione»19. 17 W. Herberg, Protestant, Catholic, Jew, Doubleday, Garden City, NJ, 1955, p. 268. 18 M.E. Marty, The New Shape of American Religion, Harper & Brothers, New York, 1959. 19 R.N. Bellah, La religione civile in America, cit., p. 56.

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“Civil Religion in America” venne immediatamente considerato un contributo importante agli studi americani e venne elogiato e criticato da molti diversi punti di vista20 – in effetti, le caratteristiche più interessanti del nascente dibattito erano la sua multidisciplinarietà e la multivocalità di un insieme assai ricco di interpretazioni diverse o addirittura opposte della tesi della religione civile. I sociologi attaccarono il funzionalismo di Bellah, la sua considerazione per l’integrazione sociale e la mancanza di dati quantitativi21. Storici e politologi bollarono la definizione della RCA come troppo vaga per ispirare ulteriori ricerche storiche ed empiriche, e reclamarono una descrizione più realistica delle relazioni tra le chiese e la politica, capace di tenere conto dei molti conflitti tra esse. Dal punto di vista politico “Civil Religion in America” venne attaccato da chi difendeva una radicale separazione tra Stato e chiesa. Da parte sua, l’importante teologo tedesco Jürgen Moltmann criticò l’idea di una religione civile mondiale: dal punto di vista della sua teologia della speranza, infatti, la critica radicale portata dal Cristo crocifisso al potere politico aveva assegnato al cristianesimo il compito di met20 Il saggio di Bellah colpì l’attenzione del pubblico per l’uso dell’espressione “religione civile” e per il modo in cui ristrutturava e rinominava l’oggetto di una discussione cominciata già negli anni Cinquanta. Anche la posizione accademica di Bellah (di cui parla il prossimo paragrafo) e il prestigio della rivista «Daedalus» contribuirono probabilmente al suo successo. Non avendo la possibilità di procurarmi dati empirici affidabili, ho potuto basarmi solo sulle interviste con Donald Jones e Martin Marty (archivio dell’autore), che condividono generalmente quanto scritto. Per alcune delle prime reazioni si vedano: E.B. Fiske, Religion. There’s Piety in Our Politics, in «The New York Times», 15 gennaio 1967, sect. The Week in Review, E9; P.E. Hammond, Commentary, in D.R. Cutler (ed.), The Religious Situation 1968, Beacon Press, Boston, 1968, pp. 381-388; C. Cherry, Two American Sacred Ceremonies, in «American Quarterly», 21, 1969, pp. 739-754; C. Cherry, Nation, Church and Private Religion, in «Journal of Church and State», 14, 1972, pp. 223-233. 21 Vedi, tra gli altri, J.A. Coleman, Civil Religion, in «Sociological Analysis», 31, 1970, pp. 67-77; R.L. Means, Methodology for the Sociology of Religion: An Historical and Theoretical Review, in «Sociological Analysis», 31, 1970, pp. 180-196; R. Robertson, The Sociological Interpretation of Religion, Schocken Books, New York, 1970; M.C. Thomas e C.C. Flippen, American Civil Religion: An Empirical Study, in «Social Forces», 51, 1972, pp. 218-225.

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tere in discussione, e di fatto negare, qualsivoglia forma di religione civile22. L’esistenza di un dibattito strutturato venne ratificata nel 1974 dalla pubblicazione di American Civil Religion, una antologia di saggi di diversa provenienza disciplinare raccolti da Russell Richey e Donald Jones. Nella loro introduzione i curatori attribuirono un nome alla discussione, classificarono cinque diverse interpretazioni della RCA e definirono Bellah come sostenitore della “religione universale e trascendente della nazione”23. A questo punto, la maggior parte dei partecipanti al dibattito aveva già condensato le complesse idee presentate in “Civil Religion in America” in una formula sintetica e pronta all’uso, che chiamerò “la religione civile di Bellah” (d’ora in poi RCB). Ecco una versione esemplare della RCB: Le funzioni principali della religione civile sono, primo, indicare al processo politico una finalità trascendente e un sistema di significati e, secondo, motivare i cittadini a perseguire le finalità politiche nazionali […] La religione civile serve a guidare e a motivare la nazione in tempo di crisi24. 22 L. Lipsitz, If, As Verba Says, the State Functions as a Religion, What Are We to Do Then to Save Our Souls?, in «The American Political Science Review», 62, 1968, pp. 527-535; J.R. Whitney, Commentary, in D.R. Cutler (ed.), The Religious Situation 1968, cit., pp. 365-381; J. Moltmann, Theologische Kritik der Politische Religion, in J. B. Metz, J. Moltmann e W. Oelmüller, Kirche im Prozess der Aufklärung: Aspekte einer neuen “politische Theologie, Chr. Kaiser Verlag, München, 1970, pp. 11-51. 23 Richey e Jones (American Civil Religion, Harper & Row, New York, 1974) ricomprendevano nella stessa categoria anche la “religione della repubblica” di Sidney E. Mead. In un altro capitolo dello stesso libro, Martin E. Marty (Two Kinds of Two Kinds of Civil Religion) proponeva una classificazione a quattro voci e definiva la posizione di Bellah e Mead come una “concezione profetica dell’auto-trascendimento della nazione”. In realtà, l’esistenza di una discussione sulla religione civile era già stata notata in The Christian Century, Unsigned Editorial: Defining Civil Religion, in «The Christian Century», 40, 1973, p. 308; R.L. Moellering, Civil Religion, the Nixon Theology and the Watergate Scandal, in «The Christian Century», 40, 1973, pp. 947-951; J.L. Garrett, “Civil religion”: clarifying the semantic problem, in «Journal of Church and State», 16, 1974, pp. 187-195. 24 M.C. Thomas e C.C. Flippen, American Civil Religion: An Empirical Study, cit., p. 219.

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Gran parte della discussione sulla RCA riguardava in realtà l’utilità della RCB come strumento per comprendere il passato e il presente dell’America. La versione condensata della tesi sulla religione civile cominciò ad attirare una serie di critiche ricorrenti: Bellah venne attaccato per il suo funzionalismo, l’imprecisione dei concetti, l’assenza di ricerca empirica, la scarsa attenzione per la tradizione evangelica e le opzioni di valore che permeavano la sua analisi25. In campo teologico, la RCB rischiava costantemente di essere accusata di idolatria o, nel migliore dei casi, di secolarismo26. La versione sintetica della tesi della religione civile venne anche utilizzata come punto di partenza (e a volte come pretesto) per ricerche storiche e sociologiche tanto sugli Stati Uniti quanto su altri Paesi27. 25 Vedi, tra gli altri: W.A. Cole e P.E. Hammond, Religious Pluralism, Legal Development, and Societal Complexity: Rudimentary Forms of Civil Religion, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 13, 1974, pp. 177-189; W.L. Bennett, Political Sanctification: The Civil Religion and American Politics, in «Social Science Information», 14, 1975, pp. 79-102; H.W. Bowden, An Historian’s Response to the Concept of American Civil Religion, in «Journal of Church and State», 17, 1975, pp. 495-505; R.D. Linder, Civil Religion in Historical Perspective: The Reality that Underlies the Concept, in «Journal of Church and State», 17, 1975, pp. 399-421; J. Lockwood, Bellah and His Critics: An Ambiguity in Bellah’s Concept of Civil Religion, in «Anglican Theological Review», 57, 1975, pp. 395-415; R.J. Neuhaus, Time Toward Home, The Seabury Press, New York, 1975; R.E. Stauffer, Bellah’s Civil Religion, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 14, 1975, pp. 390-394; C.J. Bourg, A Symposium on Civil Religion, in «Sociological Analysis», 37, 1976, pp. 141-149; R. Fenn, Bellah and the New Orthodoxy, in «Sociological Analysis», 37, 1976, pp. 160-166; B.E. Steiner, Review: The Broken Covenant, in «The Journal of American History», 62, 1976, pp. 964-965. 26 Vedi, tra gli altri: A.M. Greeley, The Civil Religion of Ethnic Americans, in «Religious Education», 70, 1975, pp. 499-514; C.E. Lincoln, Americanity: The Third Force in American Pluralism, in «Religious Education», 70, 1975, pp. 485-499 e pp. 575-576; D.S. Ross, The “Civil Religion” in America, in «Religion in Life», 44, 1975, pp. 23-35; M.H. Tanenbaum, Civil Religion: Unifying Force or Idolatry?, in «Religious Education», 70, 1975, pp. 469-473; V. Deloria, Jr., Completing the Theological Circle: Civil Religion in America, in «Religious Education», 71, 1976, pp. 278-287; I. Eisenstein, Is the U.S. Ready for a Civil Religion?, in «Religious Education», 71, 1976, pp. 227-229; M. Novak, America as Religion, in «Religious Education», 71, 1976, pp. 261-266. 27 Vedi, per esempio: R.C. Wimberley et al., The Civil Religious Dimension: Is It There?, in «Social Forces», 54, 1976, pp. 890-900; J.A. Christenson e R.C. Wimberley, Who is Civil Religious?, in «Sociological Analysis», 39, 1978, pp. 77-83.

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Al di là degli apprezzamenti e delle critiche, in pochi anni la RCB aveva acquisito la funzione totemica di aggiornata descrizione durkheimiana dei valori più sacri degli Stati Uniti. Spesso citato all’inizio o alla fine di un intervento, “Civil Religion in America” svolgeva di fatto una funzione sineddotica28. La prova più evidente del successo del complesso e raffinato saggio di Bellah stava proprio nella sua trasformazione in RCB: Civil Religion in America era diventato un punto di riferimento obbligatorio, un caposaldo attorno al quale si strutturavano le distinzioni e le contrapposizioni su cui era costruito il dibattito29.

Il successo di Bellah negli studi americani (1967-presente) Sebbene fosse il suo debutto pubblico30 negli studi americani, “Civil Religion in America” non era certo l’esordio di Bellah come intellettuale. La sua vicenda professionale può anzi essere interpretata come un tipico esempio di consacrazione precoce e accumulazione del vantaggio nei campi della sociologia della religione e degli studi sull’Estremo Oriente. Dopo la laurea in antropologia sociale presso il Department of Social Relations di Harvard nel 1950, Bellah si iscrisse a un programma di dottorato in sociologia e lingue dell’Estremo Oriente sotto la guida di Talcott Parsons e John Pelzel. Il suo libro Tokugawa Religion, pubblicato nel 1957, venne collo28 B. Allen, Referring to Schools of Thought: An Example of Symbolic Citations, in «Social Studies of Science», 27, 1997, pp. 937-949. 29 Come hanno sostenuto Latour e Claude Rosental, la condensazione di una argomentazione complessa in una formuletta pronta all’uso significa che essa è diventata un punto di passaggio inevitabile per chi vuole appartenere a un campo o intende dare il proprio contributo a una discussione. Vedi B. Latour, La scienza in azione, cit.; C. Rosental, Certifying Knowledge: The Sociology of a Logical Theorem in Artificial Intelligence, in «American Sociological Review», 68, 2003, pp. 623-644; C. Rosental, Weaving Self-Evidence, Princeton University Press, Princeton, 2008. 30 Vedi il primo capitolo del presente volume per una considerazione del rapporto tra Bellah e gli Stati Uniti prima di “Civil Religion in America”.

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cato dai commentatori al crocevia tra teoria sociologica, storia del Giappone e area studies. Pur criticando la sua interpretazione, il più importante scienziato politico giapponese, Maruyama Masao, scrisse che «nell’ambizione e nel coraggio della sistematizzazione non è esagerato dire che [Bellah] merita di ammantarsi dell’eredità della compianta professoressa [Ruth] Benedict»31. Dopo aver rifiutato offerte da McGill University e Columbia University, Bellah divenne lecturer ad Harvard dividendosi tra il Department of Social Relations, gli istituti di Middle Eastern e Far Eastern Studies e la Divinity School. In una serie di saggi dedicati alla storia sociale e intellettuale del Giappone Bellah rivide esplicitamente le tesi di Tokugawa Religion seguendo i suggerimenti di Maruyama32. I più eminenti tra i suoi colleghi, tra cui Parsons e David Riesman, espressero ripetutamente in pubblico e in privato il loro apprezzamento per i suoi scritti e il suo atteggiamento intellettuale33. Bellah si recò in Giappone nel 1960-1961 come Fulbright fellow e trascorse l’anno accademico 1964-1965 al Center for Advanced Studies in the Behavioral Sciences di Stanford. Nel 1967 lasciò Harvard per trasfe31

R.N. Bellah, Tokugawa Religion, The Free Press, Glencoe, 1957. Sulla formazione di Bellah al Department of Social Relations di Harvard e le reazioni a Tokugawa Religion vedi il primo capitolo del presente volume. 32 Ciò mostra sia la gratificazione derivata dal trovarsi in siffatta compagnia sia la disponibilità di Bellah a recepire le critiche più persuasive. Tornerò sul punto più avanti. Vedi le due raccolte dei saggi di questo periodo: R.N. Bellah, Al di là delle fedi, Morcelliana, Brescia, 1975; R.N. Bellah, Imagining Japan, University of California Press, Berkeley, 2003. 33 Per esempio, in una lettera al preside della Faculty of Arts and Sciences di Harvard, McGeorge Bundy, datata 9 gennaio 1961, Parsons scrisse del “generale consenso sulla straordinaria promessa” di Bellah come studioso, mentre in una lettera al presidente di Harvard, Nathan Pusey, descrisse Bellah come “probabilmente superiore, in questo senso [cioè come teorico], a Robert Merton”. Le lettere sono conservate nei Parsons Papers, Harvard Archives, HUG (FP) 42.8.8, box 3. Da parte sua, Riesman scrisse a Parsons il 2 novembre 1966: «Io ritengo, come penso anche tu, che [Bellah] sia lo studioso più valido, più dedicato, più disinteressato e più universale di tutta l’università». E sempre Riesman, scrivendo a Ezra Vogel e Albert Craig il 3 novembre 1966: Bellah «è il nostro collega più solido da ogni punto di vista: come intellettuale, e senza pari in termini di erudizione e dedizione; affermare che lo riverisco non è un’esagerazione» (Riesman Papers, Harvard University, HUG (FP) 15.4, box 17).

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rirsi a Berkeley come Ford Professor of Sociology and Comparative Studies e direttore del Center for Japanese and Korean Studies della University of California. Aver pubblicato un saggio che aveva inaspettatamente dato vita a un ampio dibattito favorì il debutto di Bellah nel campo degli studi americani. L’autore di Civil Religion in America venne infatti invitato a innumerevoli seminari, simposi e discussioni pubbliche34. Diversamente da quanto potrebbe suggerire uno sguardo superficiale alle sue pubblicazioni – tra il 1967 e il 1974 Bellah pubblicò solo un paio di saggi sulla RCA – il suo coinvolgimento nella discussione fu immediato e continuo, e ridusse notevolemente il suo impegno negli studi orientali35. In questo senso, la raccolta curata da Richey e Jones 34 Bellah decise di partecipare al dibattito sulla religione civile per ragioni politiche e intellettuali. Da una parte, verso la fine degli anni Sessanta egli si trovava a disagio con la direzione presa dalla sociologia americana. Come hanno mostrato Jennifer Platt e George Steinmetz, tra gli anni Cinquanta e Sessanta un generico e vago positivismo si era affermato e diffuso nella sociologia americana. Contro questa tradizione intellettuale, che considerava inadatta a cogliere pienamente la ricchezza e la profondità dei fenomeni sociali e religiosi, Bellah aveva assunto fin dall’inizio un atteggiamento più eclettico e interdisciplinare. La controversia sulla RCA gli offrì l’opportunità di interagire con studiosi provenienti da due campi – la teologia e, soprattutto, la storia americana – assai più stimolanti e prestigiosi che non la sociologia. Dall’altra parte, una parte importante nella decisione la ebbe la profonda, e ambivalente, preoccupazione che Bellah provava nei riguardi del proprio Paese, soprattutto dopo l’inizio della guerra del Vietnam e l’elezione di Richard Nixon a presidente. Bellah era anche infastidito da quella che riteneva una inaccettabile fuga degli accademici di fronte al “terzo momento della verità”. Vedi J. Platt, A History of Sociological Research Methods in America: 1920-1960, Cambridge University Press, Cambridge, 1996; G. Steinmetz, American Sociology Before and After World War II, in C. Calhoun (ed.), Sociology in America, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2007, pp. 314-366; R.N. Bellah, Al di là delle fedi, cit.; R.N. Bellah, Response, in D.R. Cutler (ed.), The Religious Situation 1968, Beacon Press, Boston, 1968, pp. 388-393; R.N. Bellah, The New Religious Consciousness and the Secular University, in D.N. Freedman e A.T. Kachel (eds.), Religion and the Academic Scene, The Council on the Study of Religion, Waterloo, 1975, pp. 1-24. 35 Oltre a curare la versione in volume del fascicolo di «Daedalus» sulla religione in America e a rispondere ad alcuni critici in The Religious Situation 1968 (R.N. Bellah e W.G. McLoughlin (eds.), Religion in America, Houghton Mifflin, Boston, 1968; D. Cutler, (ed.), The Religious Situation 1968, cit.), Bellah cominciò a tenere conferenze sugli Stati Uniti già nel 1969. Un confronto tra le Frank L. Weil Memorial Lectures del 1971 e il testo di The Broken Covenant, pubblicato nel 1975, rivela che la maggior

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può essere considerata anche come un momento di consacrazione individuale. Ciò è attestato dalla struttura stessa del volume: la prima sezione (Tema) presentava “Civil Religion in America” insieme a saggi di Will Herberg, Sidney Mead e Lloyd Warner, tre anziani studiosi che godevano di un’ottima reputazione nel campo degli studi americani; nella seconda (Metodo) e terza (Critiche) sezione, esperti provenienti da campi disciplinari diversi sottoponevano le idee di Bellah a critiche puntigliose, alle quali Bellah rispondeva nella conclusione del libro. Non sorprende dunque leggere in una recensione: «Nonostante i curatori rendano omaggio a tre dei predecessori di Bellah […] è la versione del problema della religione civile offerta da Bellah […] a definire l’agenda e la struttura del libro». La forma e il contenuto del volume suggerivano che Bellah aveva raggiunto lo stesso livello degli altri autori e che era giunto il suo momento: infatti la sua «formulazione concettuale della religione civile era rimasta, le altre no»36. Dal punto di vista della teoria dell’accumulazione del vantaggio da quel momento in poi Bellah ottenne un evidente successo: venne invitato a simposi e conferenze, ricevette molteplici inviti a pubblicare saggi sulla RCA, venne intervistato da riviste accademiche e non, ricevette premi e fondi di ricerca, e diresse uno dei migliori dipartimenti di sociologia del mondo dal 1979 al 1985. Il suo libro The parte del libro riproduce parola per parola il testo delle conferenze: i capitoli dal primo al quinto ripetono, con trascurabili cambiamenti, le Weil Lectures, mentre l’ultimo capitolo mantiene il titolo (The Birth of New American Myths) e alcune pagine della conferenza originale, già presentata in pubblico nel 1970 e pubblicata come R.N. Bellah, No Direction Home: Religious Aspects of the American Crisis, in M.B. Bloy, Jr. (ed.), Search for the Sacred, The Seabury Press, New York, 1972, pp. 65-81. Vedi anche R.N. Bellah, Evil and the American Ethos, in N. Sanford and C. Comstock (eds.), Sanctions for Evil, Jossey-Bass, San Francisco, 1971, pp. 177-191. Per una rassegna parziale dei seminari e dei simposi si veda B. Kathan e N. Fuchs-Kreimer, Civil Religion in America. A Bibliography, in «Religious Education», 70, 1975, pp. 541-550. Vorrei ringraziare Kevin Proffitt per avermi spedito il CD con le registrazioni audio delle Weil Lectures dagli American Jewish Archives di Cincinnati. 36 L.I. Sweet, Review of American Civil Religion, in «Church History», 44, 1975, pp. 546-547.

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Broken Covenant: American Civil Religion in Times of Trial venne pubblicato nel 1975 tra gli elogi dei critici e vinse il Sorokin Award della American Sociological Association. Nel 1978 Bellah cominciò a lavorare con quattro giovani colleghi a un progetto finanziato dalla Ford Foundation sotto il titolo “The Moral Basis of Social Commitment in America”. I risultati vennero pubblicati nel 1985 nel volume Habits of the Heart: Individualism and Commitment in American Life, che divenne immediatamente un best-seller nazionale37. Dopo gli articoli su “New York Times”, “Los Angeles Times” e «Times Literary Supplement», il libro sollevò un vivace dibattito, assai più ampio di quello sulla RCA. Nel 1986 Habits venne ripubblicato in versione tascabile e venne candidato al premio Pulitzer38. Nel 1987 i cinque studiosi cominciarono a lavorare su un secondo volume, The Good Society, per il quale ricevettero l’incredibile anticipo di 250.000 dollari39. Come previsto dalla teoria di Merton, l’effetto san Matteo assicurò a Bellah gran parte del riconoscimento simbolico per entrambi i volumi40. Per evitare che accettasse offerte da altre università, 37

R.N. Bellah, R. Madsen, W. Sullivan, A. Swidler e S. Tipton, Habits of the Heart, University of California Press, Berkeley, 1985; R.N. Bellah, Foreword, in S.M. Tipton, Getting Saved From the Sixties, University of California Press, Berkeley, 1982, pp. ixxi; R.N. Bellah, Individualism and Commitment in American Life, in «Berkeley Journal of Sociology», 30, 1985, pp. 117-141. 38 Secondo Herbert Gans (Best-Sellers by Sociologists: An Exploratory Study, in «Contemporary Sociology», 26, 1997, pp. 131-135), Habits è nella top ten dei libri di sociologia più venduti di tutti i tempi. Nel 1987 i cinque autori curarono anche una antologia tascabile di scritti in qualche modo legati al loro progetto: R.N. Bellah et al. (eds.), Individualism and Commitment in American Life, Harper, New York, 1987. 39 R.N. Bellah et al., The Good Society, Alfred Knopf, New York, 1991. 40 Una analisi del contenuto di 34 recensioni e articoli su Habits (1985-1989, archivio dell’autore) mostra l’uso delle seguenti espressioni per indicare gli autori del libro: “the authors” (24 volte); “Bellah” e “Bellah et al.” (10 ciascuna); “Bellah and his associates” e “Bellah and his colleagues” (9 ciascuna); tutti e cinque i nomi (4); “Bellah and his co-authors” e “the Bellah team” (3 ciascuna); “Bellah and company”, “Bellah and the others”, “Bellah’s group”, “Bellah and friends”, “Bellah’s coworkers” e “Bellah and his collaborators” (2 ciascuna); “Bellah and his crew” (una volta). Va aggiunto che l’anticipo per The Good Society venne diviso in parti uguali, e che Bellah ha sempre insistito nel dire che i due libri derivano da uno sforzo del tutto collettivo.

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dopo il successo di Habits Berkeley gli attribuì una nuova cattedra nominandolo Elliott Professor of Sociology. Tre anni dopo il pensionamento, nel 2000 Bellah ricevette la United States National Humanities Award Medal «per gli sforzi volti a chiarire l’importanza della comunità per la società americana»41. Si può tranquillamente affermare che Bellah non avrebbe mai raggiunto tali traguardi senza il passaggio “dal Giappone all’America” innescato dal successo di “Civil Religion in America” – un saggio che, dopo 45 anni e nonostante le critiche emerse dal dibattito degli anni Settanta, mantiene la propria importanza: la RCB continua a ispirare ricerche teoriche ed empiriche e viene spesso citata nei manuali e nelle antologie42. Insieme a “Limiting Science: A Biologist’s Perspective” del premio Nobel David Baltimore, “Civil Religion in America” è l’unico saggio a comparire in entrambi i fascicoli celebrativi del trentesimo (1988) e cinquantesimo (2005) anniversario di «Daedalus».

Attraverso lo specchio: la trappola del successo intellettuale (1971-1980) La storia del dibattito sulla religione civile americana può essere letta come un classico caso di accumulazione del vantaggio, e la centralità raggiunta da Bellah nel campo degli studi americani 41 Vedi: http://berkeley.edu/news/berkeleyan/2001/01/10/bellah.html (accesso: 27 dicembre 2012). 42 Qualche esempio tra i più recenti: J.C. Alexander, The Civil Sphere, Oxford University Press, New York-Oxford, 2006; M. Cristi e L.L. Dawson, Civil Religion in America and in Global Context, in J.A. Beckford e N.J. Demerath, III (eds.), The Sage Handbook of the Sociology of Religion, Sage, London-Thousand Oaks, 2007, pp. 267-292; J.C. Alexander e K. Thompson, A Contemporary Introduction to Sociology, Paradigm, Boulder, 2008; J. Santiago, From “Civil Religion” to Nationalism as the Religion of Modern Times, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 48, 2009, pp. 394-401. Nel 2011 la rivista «Political Power and Social Theory» ha ospitato un dibattito sulla “religione civile di Obama” centrato sulle tesi di Philip Gorski, un exallievo di Bellah che insegna a Yale e che sta per pubblicare un libro sulla religione civile.

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appare a tutta prima come un prodotto dell’effetto san Matteo. Dal punto di vista mertoniano – la qualità dell’opera di Bellah era tale da permetterle di superare la prova del tempo – come da quello postmertoniano – Bellah è riuscito a imporre la propria visione della RCA al punto che chiunque intenda discutere di religione e politica in America è obbligato a prenderla in considerazione – il continuo accrescersi del riconoscimento e il persistente successo della RCB sembrano confermare la validità della teoria dell’accumulazione del vantaggio e la sua capacità predittiva. La storia, tuttavia, appare molto diversa se solo introduciamo una variabile semplice quanto inattesa – il contenuto degli oggetti culturali. Per ragioni metodologiche, i sociologi della conoscenza tendono a sintetizzare il complesso, e spesso contraddittorio, contenuto delle idee usando cliché solo apparentemente autoevidenti. Gli intellettuali vengono dunque trattati come se la loro opera, che spesso comprende decenni di lavoro, fosse riassumibile con una formuletta o addirittura indicando un solo testo “fondamentale”43. Nei loro studi sulla struttura istituzionale della scienza i mertoniani hanno raramente preso in considerazione i contenuti delle scoperte o degli oggetti culturali. Tra i post-mertoniani, le opere di grande respiro di Bourdieu, come Homo Academicus e Le regole dell’arte, rappresentano gli intellettuali all’interno dello spazio delle posizioni come se le loro idee fossero univocamente attribuibili a generi, teorie o poetiche e non necessitassero di alcuna interpretazione. Quella di Bourdieu, peraltro, è una semplificazione che non dipende dalla portata della ricerca: nel libro sulla ontologia politica di Martin Heidegger, l’opera del filosofo tedesco viene analogamente ridotta a uno scarno insieme di slogan metafisici44. Allo stesso modo, nel suo studio sulla traiettoria di “Derrida”, Michele Lamont si riferisce a un compatto oggetto culturale che comprende gli scritti di Jacques Der43

Ho inserito di seguito il testo della nota 19 a pagina 197 del testo originale. Oltre a Le regole dell’arte e a Homo Academicus, entrambi già citati, si veda P. Bourdieu, Führer della filosofia?, Il Mulino, Bologna, 1989. 44

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rida, alcuni fatti biografici e la loro rappresentazione all’interno di precisi circoli accademici – lo stesso vale per l’Erich Fromm di Neil McLaughlin o la caratterizzazione di “Fichte” come «un modo per indicare un movimento sociale all’interno della comunità intellettuale» di Randall Collins45. Pur dedicando una maggiore attenzione al contenuto degli oggetti culturali, la sociologia della conoscenza scientifica si è concentrata su controversie che vedono lo scontro tra tesi sostenute da scienziati o gruppi di ricerca i cui nomi sono utilizzati per indicare posizioni univoche e viceversa46. La riduzione di lavori articolati e complessi a formule standardizzate impedisce ai sociologi della conoscenza di studiare sia i processi sociali che portano gli intellettuali a imboccare strade nuove sia gli effetti che i cambi di direzione possono avere sulle loro carriere. I rapidi accenni di Collins e Bourdieu agli interessi posizionali di allievi dotati e scrittori emergenti non raggiungono il livello di una spiegazione, mentre gli studi di Latour sulle traduzioni riuscite paiono dare per scontata una malleabilità quasi infinita degli oggetti culturali. Generalizzando ciò che Andrew Abbott ha scritto recensendo The Sociology of Philosophies di Collins, si può dire che la maggior parte dei sociologi della conoscenza scrive come se «le gerarchie dei significati e le stratificazioni delle idee fossero immediate e più o meno stabili nel tempo»47. Se, allontanandoci dal mainstream, prendiamo in considerazione il contenuto degli scritti di Bellah sulla RCA e le sue trasformazioni nel tempo, la storia va riscritta in modo del tutto diverso. L’analisi è facilitata da una circostanza storica affascinante: come abbiamo visto nel capitolo precedente, nel 1967 Bellah aveva una conoscenza professionalmente inadeguata del nesso tra politica e religione in

45

Vedi nota 5. Vedi il classico H.M. Collins e T. Pinch, Il golem, Dedalo, Bari, 1995. 47 A. Abbott, Review: The Sociology of Philosophies, in «American Journal of Sociology», 105, 1999, pp. 528-530. 46

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America. Una volta coinvolto nel dibattito sulla RCA, la mancanza di expertise cominciò a farsi sentire:

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Tenevo una conferenza, qualcuno mi faceva una domanda e io ero obbligato a rispondere: “Non lo so”. Non mi era mai capitato prima, e non mi è mai più capitato, di dover rispondere “Non lo so”. Semplicemente, non sapevo come rispondere.

Robert Bellah – il professore di Berkeley formatosi ad Harvard e destinato a grandi conquiste intellettuali – non era abituato a considerarsi meno che perfetto. Di fronte a questa logorante situazione, fece quello che il concetto di sé come studioso impegnato che occupava una cattedra in una istituzione accademica d’élite lo spingeva a fare: «Per poter rispondere alle domande ho dovuto crearmi da solo una solida base di studi americani»48. Grazie allo studio frenetico e alla partecipazione a dibattiti e simposi l’expertise di Bellah si accrebbe rapidamente. Paradossalmente, ciò lo spinse a cambiare idea sulla RCA: Bellah sviluppò una intepretazione più complessa e più vicina a quella dei suoi critici e al mainstream della ricerca storica sulla politica e la religione americane49. Nella seconda delle Frank L. Weil Memorial Lectures (autunno 1971), Bellah propose un completo ribaltamento della sua tesi sui rapporti tra religione civile, devozione protestante e coscienza nazionale americana. Secondo la nuova interpretazione la religione civile dei fondatori era sempre stata “imbalsamata” e solo presidenti eccezionali come Washington, Jefferson e Lincoln erano riusciti a 48

R.N. Bellah, Intervista, a cura di M. Bortolini, luglio 2007 (archivio dell’autore). Una analisi del contenuto delle pubblicazioni di Bellah sulla RCA dal 1967 al 1985 rivela un continuo accrescersi della sua expertise, misurata dal tasso di nuovi autori, opere e personalità storiche citate, così come dalla varietà disciplinare dei riferimenti (archivio dell’autore). I cambiamenti nelle idee di Bellah possono essere dunque spiegati in riferimento a tre fattori: l’accrescersi del capitale culturale, l’attenzione per le critiche provenienti da interlocutori preparati e la ricerca di una posizione e uno stile originali. 49

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conferirle fascino e forza. La religione civile ufficiale non era mai stata autosufficiente: su tutti i temi più importanti erano state «le chiese a parlare con la doppia voce dei credenti e dei cittadini»50. Più avanti Bellah si avvalse della distinzione tra religione civile e teologia pubblica, introdotta da Martin Marty e considerata come «uno dei più importanti contributi alla discussione sulla religione civile», per dare una forma concettuale al profondo cambiamento della sua analisi della RCA51. Mentre la religione civile ufficiale doveva rimanere quanto più “aperta o vuota dal punto simbolico”, le tradizioni religiose potevano intervenire sulle questioni di interesse pubblico dal proprio specifico punto di vista. Così facendo, avrebbero arricchito la religione civile ufficiale, sempre che nessuna di esse venisse considerata come la religione di Stato. In pochi anni, le idee di Bellah erano cambiate sotto molti punti di vista: ancora convinto dell’importanza del retaggio della RCA, non credeva più che quest’ultima potesse giocare un ruolo di primo piano nel rinnovamento della società americana. Bellah, inoltre, aveva relativizzato la RCA e ora la intendeva come una delle due culture rivali presenti in America fin dalla fondazione delle prime colonie; era ben cosciente della possibilità di interpretare in chiave utilitaristica la Dichiarazione di Indipendenza e riconosceva che la Costituzione del 1787 non conteneva alcuna traccia dell’originario 50

La conferenza è riprodotta parola per parola in The Broken Covenant (cit., pp. 45-46). Nelle Weil Lectures Bellah presentò anche le sue idee su altri problemi: denunciando il “doppio crimine” contro i neri e gli indiani americani, definendo la Guerra civile “un dramma nell’anima dell’uomo bianco” e dedicando un’intera conferenza a “Nativism and Cultural Pluralism in America”, Bellah aveva già anticipato le critiche che gli avrebbero rivolto C.H. Long (Civil Rights - Civil Religion: Visible People and Invisible Religion, in R.E. Richey e D.G. Jones (eds.), American Civil Religion, cit., pp. 211-221), H. Richardson (Civil Religion in Theological Perspective, in R.E. Richey e D.G. Jones (eds.), American Civil Religion, cit., pp. 161-184) e V. Deloria (Completing the Theological Circle, cit.). Con la sua analisi di come i valori principali del sogno americano fossero stati traditi e usati a scopi utilitaristici Bellah aveva anche già dimostrato l’infondatezza delle accuse di ottimismo. 51 Vedi R.N. Bellah, American Civil Religion in the 1970’s (augmented version) in R.E. Richey e D.G. Jones (eds.), American Civil Religion, cit., pp. 258-259.

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consenso biblico-repubblicano. Infine, ma non meno importante, quando si avventurava a proporre “soluzioni”, Bellah sottolineava l’importanza della religione “reale”, cioè delle chiese, e promuoveva un approccio più spirituale alla vita. In questo senso, si stava chiaramente spostando in direzione di una più profonda consapevolezza dei problemi a suo tempo sottolineati dai suoi critici più attenti52. La versione più dettagliata della nuova interpretazione della religione civile venne presentata in The Broken Covenant. Se nel saggio del 1967 Bellah aveva scritto che grazie alle sue specificità la religione civile si era salvata «da un vuoto formalismo funzionando come autentico strumento dell’autointerpretazione della nazione», nella conclusione del libro del 1975 leggiamo non solo la celebre frase “oggi la RCA è un guscio vuoto e rotto”, ma anche che «fin dall’inizio si trattava di un contratto esterno. Ciò non costituisce in sé un problema […] ma in una repubblica il contratto esterno non è mai abbastanza»53. Nel vocabolario durkheimiano di Bellah il “contratto esterno” era l’esatto opposto di una conscience collective condivisa. Secondo la teoria dell’accumulazione del vantaggio, l’eminenza di Bellah avrebbe dovuto assicurare una rapida diffusione alle sue nuove idee. Al contrario, la maggior parte dei partecipanti al dibattito sulla RCA ignorò del tutto i suoi interventi successivi al 1967, e i recensori di The Broken Covenant a stento notarono lo sviluppo del suo pensiero54. Due monografie pubblicate nel 1979, finalizzate 52 Vedi L. Pfeffer, Commentary, in D.R. Cutler (ed.), The Religious Situation 1968, cit., pp. 360-365; J.R. Whitney, Commentary, cit.; R.L. Means, Methodology for the Sociology of Religion, cit.; D. Little, The Origins of Perplexity: Civil Religion and Moral Belief in the Thought of Thomas Jefferson, in R.E. Richey and D.G. Jones (eds.), American Civil Religion, cit., pp. 185-210; M.E. Marty, Two Kinds of Two Kinds of Civil Religion, cit.; H. Richardson, Civil Religion in Theological Perspective, cit. 53 R.N. Bellah, La religione civile in America, cit., p. 45, R.N. Bellah, The Broken Covenant, cit., p. 142, corsivi miei. 54 Vedi, per esempio: L. Marx, The Uncivil Response of American Writers to Civil Religion in America e J.F. Wilson, A Historian’s Approach to Civil Religion, entrambi in R.E. Richey e D.G. Jones (eds.), American Civil Religion, cit., pp. 115-138; W.P. Frost,

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a dare ordine al dibattito sulla RCA, convennero sulla centralità di Bellah, ma gli attribuirono una interpretazione durkheimiana e integrativa della funzione della religione nella società – in poche parole, la RCB55. Bellah finì per trovarsi in una condizione poco invidiabile. Dopo aver accusato i critici di aver malinterpretato le sue idee, provò a relativizzare l’espressione “religione civile” dal punto di vista epistemologico: in quanto concetto utile per interpretare dati empirici, la RCA era nata con il numero invernale del 1967 di «Daedalus» e poteva tranquillamente “cessare di esistere” se una migliore “costruzione sociale della realtà” l’avesse rimpiazzata. Dichiarandosi “lungi dall’essere legato al termine”, Bellah ostentò distacco dalla RCB e si disse pronto a impegnarsi in una discussione più sostanziale56. Quando alcuni critici cominciarono a considerare la RCB una Review of The Broken Covenant, in «Journal of the American Academy of Religion», 43, 1975, p. 807; J.M. Mulder, The Bicentennial Book Band, in «Theology Today», 32, 1975, pp. 277-286; K. Minoru, Review of The Broken Covenant, in «Japanese Journal of Religious Studies», 3, 1975, pp. 88-91; R. Robertson, Review of The Broken Covenant, in «Sociological Analysis», 37, 1976, pp. 184-187; S.E. Ahlstrom, Review of Beyond Belief and The Broken Covenant, in «The American Historical Review», 82, 1977, p. 1057; B. Johnson, Review of The Broken Covenant, in «Contemporary Sociology», 6, 1977, pp. 82-83; R.T. Handy, A Decisive Turn in the Civil Religion Debate, in «Theology Today», 37, 1980, pp. 342-350; J.T. Watts, Guest Editorial. Robert N. Bellah’s Theory of America’s Eschatological Hope, in «Journal of Church and State», 22, 1980, pp. 5-22. 55 Come dimostrano alcune trascrizioni, lo stesso accadeva ai seminari e alle conferenze. Più avanti, altri tentativi di sintesi produssero risultati modesti, e i simposi dedicati a Bellah o alla religione civile non riuscirono a restituire la complessità del suo pensiero. Vedi, tra gli altri: J.F. Wilson, Public Religion in American Culture, Temple University Press, Philadelphia, 1979; G. Gehrig, American Civil Religion: An Assessment, Society for the Scientific Study of Religion, Storrs, CT, 1979; G. Gehrig, The American Civil Religion Debate: A Source for Theory Construction, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 20, 1981, pp. 51-63; M.H. Tanenbaum, Civil Religion, cit.; C.J. Bourg, A Symposium on Civil Religion, cit.; E.M. West, A Proposed Neutral Definition of Civil Religion, in «Journal of Church and State», 22, 1980, pp. 2340; M.W. Hughey, Civil Religion and Moral Order, Greenwood Press, Westport, CT, 1983; P.E. Hammond et al., Forum: American Civil Religion Revisited, in «Religion and American Culture», 4, 1994, pp. 1-23. 56 Vedi R.N. Bellah, Response, cit.; R.N. Bellah, American Civil Religion in the 1970’s, cit., p. 256.

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posizione soggettiva, priva di spessore scientifico, tale strategia autolesionistica57 venne abbandonata a favore di un profluvio di nuovi concetti e distinzioni. Bellah propose di considerare la religione civile come un testo interpretabile da diversi punti di vista; ne distinse una versione generale e una versione speciale; ne analizzò gli effetti sovra- e infrastrutturali; la differenziò da teologia pubblica, filosofia pubblica e “nazione”. La nuova articolazione concettuale, estremamente complessa e non del tutto coerente, venne ignorata e Bellah non riuscì a imporre la sua nuova posizione58. A questo punto Bellah decise di abbandonare la discussione. Nella sua introduzione a Varieties of Civil Religion, una raccolta di saggi curata con Phillip Hammond nel 1980, Bellah descrisse il dibattito sulla RCA con le seguenti parole: «Assai sterile, focalizzato più sulla forma che sul contenuto, più sulle definizioni che sulla sostanza». Il tentativo di ampliare l’orizzonte della teoria, comparando gli Stati Uniti all’Italia e al Giappone, rimase l’ultimo uso del 57 Vedi, per esempio, C.J. Bourg, A Symposium on Civil Religion, cit.; H.W. Bouwden, An Historian’s Response to the Concept of American Civil Religion, cit.; R.N. Bellah, Response to the Panel on Civil Religion, in «Sociological Analysis», 37, 1976, pp. 153-159. 58 Vedi R.N. Bellah, The Revolution and the Civil Religion, in J.C. Brauer (ed.), Religion and the American Revolution, Fortress Press, Philadelphia, 1976, pp. 5573; R.N. Bellah, Religion and Legitimation in the American Republic, in «Society», 15, 1978, pp. 16-23; R.N. Bellah, The Role of Preaching in a Corrupt Republic, in «Christianity and Crisis», 38, 1978, pp. 317-322. Non vorrei dare l’impressione che le nuove idee di Bellah venissero del tutto ignorate o misconosciute. Come ho mostrato alla fine del primo capitolo, Talcott Parsons non apprezzò affatto quello che percepì come un evidente cambiamento nel pensiero del suo ex-allievo (vedi T. Parsons, Law as an Intellectual Stepchild, in «Sociological Inquiry», 47, 1977, pp. 11-58). Al contrario, altri amici eminenti – tra cui Riesman, Wilfred Cantwell Smith, Ed Tiryakian e Kenneth Burke – apprezzarono i nuovi lavori (vedi W.C. Smith a R.N. Bellah, 27 settembre 1975; K. Burke a R.N. Bellah, 31 gennaio 1974; D. Riesman a R.N. Bellah 12 dicembre 1973 e 17 settembre 1974; E. Tiryakian a R.N. Bellah 9 dicembre 1974, Bellah personal papers). Alcuni commentatori accennarono al cambiamento, mentre altri lo interpretarono come una semplice messa a punto della tesi originale o come un momento di pessimismo. Vedi S. Kessler, Tocqueville on Civil Religion and Liberal Democracy, in «The Journal of Politics», 39, 1977, pp. 119-146; P.M. Jolicoeur e L.L. Knowles, Fraternal Associations and Civil Religion: Scottish Rite Freemasonry, in «Review of Religious Research», 20, 1978, pp. 3-22.

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termine “religione civile” da parte sua per molti anni59. Più avanti, Bellah evitò l’espressione, anche nei casi in cui un titolo poteva far pensare al contrario60. Come già detto, l’abbandono dell’espressione “religione civile” non comportava, da parte di Bellah, alcuna perdita di interesse per l’America – nel 1980 il progetto che avrebbe portato alla pubblicazione di Habits of the Heart era già cominciato da anni.

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Successo intellettuale e differenziali di status Nella mia rilettura, la dinamica del dibattito sulla RCA contravviene le predizioni delle varie versioni della teoria dell’accumulazione del vantaggio: nonostante la sua importanza, Bellah non riuscì a far circolare né tantomeno a imporre le sue nuove idee sulla religione civile, e la frustrazione lo spinse in ultima istanza ad abbandonare il concetto che lo aveva reso celebre. In questo ultimo paragrafo sostengo che i partecipanti al dibattito vennero spinti a identificare tutto quello che Bellah scriveva con la RCB o a ignorarlo completamente proprio per via della centralità della “religione civile di Bellah”. In altre parole, il successo del saggio del 1967 spiega la mancanza di riconoscimento delle altre interpretazioni della RCA avanzate da Bellah più della qualità dei singoli testi o dei pregiudizi ideologici dei critici. All’inizio del dibattito su “Civil Religion in America” Bellah venne incluso nel campo degli studi americani come creatore di un oggetto culturale importante, la “religione civile di Bellah” – una posizione centrale che contribuì ad allontanarlo dalla sua precedente

59 Vedi R.N. Bellah, Introduction, in Id. e P.E. Hammond, Varieties of Civil Religion,

Harper & Row, New York, 1980. 60 Per esempio nel volume curato da Bellah insieme a F.E. Greensphan, Uncivil Religion: Interreligious Hostility in America, Crossroad, New York, 1987.

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incarnazione come parsonsiano e teorico della modernizzazione e gli conferì capitale simbolico e materiale in abbondanza. Ciò che rimase, tuttavia, era la distanza tra lo status della RCB e lo status di Bellah. Poiché il dibattito sulla religione civile aveva preso le mosse da “Civil Religion in America”, chi intendeva partecipare alla discussione doveva prendere posizione nei confronti della RCB – non nei confronti di ciò che pensava Bellah. Il teologo Herbert Richardson, al tempo molto amico di Bellah, espresse questo atteggiamento in maniera cristallina: Il saggio pubblicato da Robert Bellah nel 1967, “Civil Religion in America”, ha sollevato un vivo dibattito; va tenuto conto del fatto che nei sette anni passati Bellah ha considerevolmente sviluppato le sue idee sul tema. Ciononostante, nella mia discussione mi concentrerò sul suo saggio del 196761.

In quanto fondamento della discussione, “Civil Religion in America” rimaneva comunque più importante sia degli altri testi di Bellah sia dello stesso Bellah. Nonostante la sua centralità, i partecipanti al dibattito non erano tenuti a sapere se Bellah cambiava idea o se proponeva concetti innovativi. Ignorando le sue nuove idee, inoltre, essi proteggevano l’oggetto sacro, “la religione civile di Bellah”, su cui si fondava il dibattito. La sensazione di disagio di Bellah può dunque essere interpretata come l’esito di uno scontro reputazionale tra il “vero” Bellah, le cui idee sulla RCA erano in costante evoluzione, e la sua immagine all’interno della discussione – che potremmo definire, con un salto mortale, “Bellah, quello della religione civile di Bellah”. Mano a mano che le idee di Bellah sulla RCA cambiavano, la distanza tra il Bellah in carne e ossa e il suo avatar, assai più influente, si accresce61

H. Richardson, Civil Religion in Theological Perspective, cit., pp. 164-165 (corsivi miei).

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va. Se da una parte ciò assicurava al vero Bellah un flusso continuo di capitali materiali e simbolici, l’esistenza di “Bellah, quello della RCB” impediva la circolazione delle sue nuove idee sulla RCA. Quando la distanza tra i due si fece psicologicamente insopportabile, il vero Bellah abbandonò il Bellah fittizio e, con lui, la discussione sulla religione civile. In realtà, la exit non era l’unica opzione a sua disposizione: avrebbe potuto, per esempio, ricavarsi una nicchia ripetendo una qualche versione della RCB, rimanendo “Bellah, quello della RCB”. Alternativamente, avrebbe potuto continuare con le sue nuove idee sulla RCA, rischiando definitivamente il proprio status – poiché la sua reputazione dipendeva dall’identificazione con “Bellah, quello della RCB”, i critici avrebbero potuto considerarlo inadeguato a sostenere la nuova posizione o, ancora peggio, una promessa non mantenuta. La storia del dibattito sulla religione civile americana non falsifica la teoria dell’accumulazione del vantaggio. Ci spinge però ad affrontare in maniera più complessa e raffinata le relazioni che legano gli intellettuali, i prodotti delle loro pratiche e le posizioni che entrambi ricoprono all’interno del campo della produzione culturale. Dobbiamo innanzitutto differenziare lo status di una idea da quello del suo creatore senza dare per scontata alcuna correlazione tra i due. Possiamo semplificare un sistema di stratificazione complesso affermando che un’idea può essere considerata come un semplice contributo, una delle posizioni note e/o contrapposte, o come l’oggetto attorno al quale ruota un campo o la porzione di un campo. Allo stesso modo, un intellettuale può essere considerato come un semplice contributore, un esperto oppure un “autore” o un intellettuale pubblico (vedi tab. 1).

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Oggetto culturale/idea

Creatore/intellettuale

Strato inferiore

Contributo standard

Contributore

Strato medio

Posizione riconosciuta all’interno di un campo

Esperto

Strato superiore

Idea cruciale o centrale

“Autore” o intellettuale pubblico

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Tabella 1. Stratificazione semplificata delle idee e degli intellettuali.

Il problema che ho messo in evidenza nasce perché i pubblici tendono a identificare intellettuali e idee, dando la preminenza a quello, tra i due, che gode dello status superiore. Ciò è particolarmente evidente nell’ambito di seminari e conferenze, a cui gli intellettuali partecipano come incarnazioni ambulanti delle loro idee più note. Per fare un esempio, l’incontro tra Jürgen Habermas e l’allora cardinale Joseph Ratzinger alla Katholische Akademie di Münich il 19 gennaio 2004 era chiaramente uno scontro tra liberalismo e teologia. Una discussione tra Habermas e Ratzinger su modernità, secolarizzazione e ruolo pubblico della religione era interessante appunto perché permetteva di sentire, e vedere, due saperi discutere attraverso i corpi dei loro “campioni”62. Nell’ambito del dibattito sulla RCA, Bellah (un esperto tra gli altri) era stato identificato con la RCB (il principale bersaglio della discussione). Di conseguenza, la maggior parte delle revisioni post-1967 venne ignorata o ridotta alla versione condensata di Civil Religion in America. A prescindere dalla loro originalità, le nuove idee venivano sempre ricondotte alla formuletta della RCB. Dal punto di vista di una sociologia delle idee non interessata al contenuto degli oggetti culturali, tutto ciò conta come “successo”. Bellah continuò a occupare la scena del dibattito sulla RCA 62 Vedi su questo J. Habermas e J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia, 2005. Ho incorporato nel testo parte della nota 28 di pagina 203 del testo originale.

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fino al momento in cui decise di uscirne, e qualche anno dopo il capitale simbolico accumulato in quella occasione gli garantì la maggior parte del riconoscimento per Habits of the Heart e contribuì a lanciarlo come intellettuale pubblico. Al contrario, se introduciamo come variabile legittima il contenuto delle sue idee vediamo che il successo finì per intrappolare Bellah in una gabbia dorata, non diversa da quella in cui sono imprigionati gli attori a cui si chiede di continuare a impersonare sempre lo stesso personaggio – nel nostro caso, “Bellah, quello della RCB”. Come ho mostrato attraversando lo specchio, essere “Bellah, quello della RCB” non aiutò Robert Bellah a diffondere le sue nuove idee sulla RCA. Paradossalmente, a Bellah non era permesso fare ciò che tutti stavano facendo: criticare la RCB! In secondo luogo, nonostante questo capitolo abbia preso in esame un caso in cui lo status dell’idea è superiore a quello del suo creatore, il meccanismo esplicativo dovrebbe funzionare anche nel caso inverso – nei casi, cioè, in cui le idee ricevono attenzione solo perché sono state avanzate da un intellettuale celebre. Per chi non tiene conto dei contenuti, si tratta della definizione stessa dell’effetto san Matteo. A un esame più attento, tuttavia, è chiaro che in alcuni casi, le idee verranno schiacciate dai loro creatori e il loro successo sarà più apparente che reale. Ciò è particolarmente evidente quando l’intellettuale occupa una delle posizioni più elevate – intellettuale pubblico o “autore” – che spettano a chi ha avuto una carriera relativamente lunga e ha prodotto contributi noti trasversalmente63. Un “autore” è un intellettuale che diventa oggetto di studio per altri intellettuali, che impiegheranno tempo e risorse per studiarne le intenzioni, le teorie o le poetiche, cercando di comprendere le diverse posizioni che ha assunto nel tempo, di spiegare come e perché

63

R. Collins, The Sociology of Philosophies, cit., pp. 42-44.

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hanno avuto successo e così via64. Nei primi anni Settanta Bellah occupò per qualche tempo la posizione di “autore”: proprio nel momento in cui partecipava con successo al dibattito sulla religione civile, il cosiddetto “affaire Bellah” all’Institute for Advanced Study di Princeton richiamò l’attenzione sulla sua persona pubblica e scientifica65. Per questo motivo, alcuni dei recensori di The Broken Covenant si concentrarono più sul suo stile e la sua personalità che non sulle sue idee66. Nella sua recensione per l’«American Journal of Sociology», Marty parlò esplicitamente delle differenze tra il saggio del 1967 e il libro del 1975 – “nelle Weil Lectures tutto è cambiato” – ma decise di concentrarsi sull’uomo piuttosto che sulle idee, descrivendo Bellah come «una persona sensibile che per stile di vita, dialettica e anche scrittura non può non tenere conto del cambiamento». Benton Johnson scrisse che bisognava fidarsi di Bellah sebbene i suoi lavori non fossero del tutto coerenti e maturi: «A volte le intuizioni superano la sua capacità di chiarificazione» ma, facendo parte «di una piccola schiera di pionieri della sociologia della religione contemporanea», Bellah era «al suo apice e possiamo attenderci di imparare da lui tante altre cose nei prossimi anni»67. Almeno in alcuni circoli il rapporto tra la personalità di Bellah e la sua opera complessivamente intesa si era imposto sul semplice contenuto delle sue idee – nei miei termini, il suo status era più elevato dello status delle sue opere prese singolarmente e queste ultime venivano identificate con lui in quanto “autore”. I critici si cimen64

S. Fuchs, The Professional Quest for Truth, SUNY University Press, New York, 1992, p. 166. 65 Sull’affaire Bellah si veda il terzo capitolo del presente volume. 66 W.P. Frost, Review of The Broken Covenant, cit.; R. Robertson, Review of The Broken Covenant, cit.; S. Ahlstrom, Review of Beyond Belief and The Broken Covenant, cit.; D.G. Jones, Review of The Broken Covenant, in «Sociological Analysis», 37, 1976, pp. 183-184; R. Fenn, The Relevance of Bellah’s “Civil Religion” Thesis to a Theory of Secularization, in «Social Science History», 1, 1977, pp. 502-517. 67 M.E. Marty, Review of The Broken Covenant, in «American Journal of Sociology», 82, 1976, pp. 230-232; B. Johnson, Review of The Broken Covenant, cit.

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tavano in interpretazioni sistematiche della sua opera, tracciando distinzioni e connessioni alle quali lui stesso, molto probabilmente, non aveva mai pensato68. Il nuovo status venne consacrato dalla pubblicazione sul «Journal for the Scientific Study of Religion» di un simposio dedicato a una valutazione complessiva della sua opera69. Ciò allontanò ulteriormente Bellah dalla RCB. Quando il dibattito riguardava la religione civile egli rimaneva “Bellah, quello della RCB” e veniva immediatamente identificato con il principale bersaglio polemico. Quando invece la discussione si concentrava su “Bellah, l’autore”, le posizioni intellettuali venivano messe in ombra dalla sua personalità o dai tentativi di rinvenire uno “schema” o una teoria capace di riportare tutti i suoi scritti a un’“opera” complessiva. Questo momento, tuttavia, non durò a lungo: al tempo della pubblicazione di Habits of the Heart i critici avevano già smesso di scrivere di “Bellah, l’autore” e la successiva analisi complessiva avrebbe dovuto aspettare il 199270. In terzo luogo, la mia ipotesi implica anche che qualsivoglia cambiamento durevole nell’immagine pubblica di un intellettuale dipenda, in ultima istanza, dalla creazione di un ulteriore oggetto culturale al quale la sua immagine e il suo status andranno a legarsi – dipenda cioè da una nuova identificazione. A Bellah ciò riuscì con Habits of the Heart. Il libro divenne tanto celebre che solo tre delle 34 recensioni pubblicate tra il 1985 e il 1989 citavano l’espressione “religione civile”. Tale silenzio non aveva nulla a che fare con il 68

Un buon esempio di questo tipo di lavoro è il tentativo intrapreso da Joan Lockwood di spiegare lo sviluppo delle idee di Bellah sulla RCA mettedole in connessione con le sue opere teoriche. Per questo Lockwood venne violentemente criticata da Bellah in una delle sue poche repliche – dal mio punto di vista, la reazione stranamente violenta di Bellah esprimeva il suo disagio per la posizione in cui si trovava. Vedi J. Lockwood, Bellah and His Critics, cit.; R.N. Bellah, Rejoinder to Lockwood: “Bellah and His Critics”, in «Anglican Theological Review», 57, 1975, pp. 406-423. 69 Vedi J.K. Hadden, Editor’s Introduction, e W.C. Sheperd, Robert Bellah’s Sociology of Religion: The Theoretical Elements, entrambi in «Journal for the Scientific Study of Religion», 14, 1975; R.E. Stauffer, Bellah’s Civil Religion, cit. 70 Vedi B. Frohnen, Robert Bellah and the Politics of “Civil Religion”, in «Political Science Reviewer», 21, 1992, pp. 148-218.

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fatto che Habits avesse cinque coautori: come abbiamo già visto, la preminenza di Bellah era nota ed evidente. Alcuni commentatori accennarono al passato di Bellah, ma i riferimenti alla RCA e alla più ampia discussione rimasero stranamente assenti71. Cos’era accaduto? Era accaduto che Habits of the Heart si era imposto come oggetto culturale all’interno di una porzione del campo intellettuale parzialmente diversa e molto più ampia di quella interessata alla religione civile. Bellah venne ri-categorizzato come il più eminente tra i coautori di un libro assai discusso su individualismo e comunità in America, e i critici smisero di parlare di “Bellah, quello della RCB”. Com’era avvenuto vent’anni prima, il successo di un oggetto culturale aveva consentito al suo creatore di occupare una posizione in un nuovo campo. E tuttavia, come ho già detto, lo spettro di Civil Religion in America ha continuato a perseguitare Bellah fino a oggi. Il suo nome rimane legato a quel saggio, e anche un profondo conoscitore della sua opera come Jeffrey C. Alexander cita solo Civil Religion in America nella sua grande opera sulla “sfera civile”72. Ciò continua anche a essere motivo di frustrazione, come dimostra questa citazione da una intervista del 2007: «Odio il fatto che [Civil Religion in America sia] l’unica cosa che alcune persone sanno di me. La religione civile 71 Vero

è che in Habits la religione civile non veniva mai citata. I fondamenti teorici del libro, tuttavia, ricordavano da vicino quelli degli scritti di Bellah più recenti: La democrazia in America di Tocqueville e la distinzione tra la tradizione biblico-repubblicana e quella utilitaristica erano presenti in molti dei saggi post-RCB. Potremmo dire che dal punto di vista del contenuto Habits era più vicino agli ultimi saggi di Bellah sulla RCA di quanto non lo fosse “Civil Religion in America”. Per le recensioni si vedano: D. Martin, Review of Habits of the Heart, in «The Times Literary Supplement», 20 settembre 1985, p. 1022; M.E. Marty, Review of Habits of the Heart, in «The Christian Century», 15 maggio 1985, pp. 499-501; M. Novak, Habits of the Left-Wing Heart, in «National Review», 1985, 37; E.A. Tiryakian, Review of Habits of the Heart, in «Sociological Analysis», 47, 1986, pp. 172-173; S.G. McNall, Is Democracy Possible?, in «Sociological Forum», 2, 1987, pp. 167-176. 72 J.C. Alexander, The Civil Sphere, cit. Il blog The Immanent Frame, punto di riferimento del dibattito su religione e politica in America, ospita regolarmente discussioni sulla religione civile in cui il contributo di Bellah viene considerato solitamente nella forma di RCB.

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è l’unica cosa, è quello con cui vengo identificato». Dopo 45 anni, Robert N. Bellah non si è ancora liberato dalla trappola del successo73.

73 Se mi è consentita una integrazione al testo, vorrei aggiungere che il lavoro di riflessione e scrittura che ha portato alla pubblicazione del presente saggio ha aiutato Bellah a fare i conti, e in qualche modo a riappacificarsi, con questa identificazione e con la religione civile americana, tanto che negli ultimi due o tre anni ha spesso accettato di parlare pubblicamente di religione civile in occasioni accademiche e non.

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Capitolo terzo

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L’“affaire Bellah” a Princeton: eccellenza intellettuale e libertà accademica in America negli anni Settanta

Poiché il pensiero è una condotta, i risultati del pensiero riflettono inevitabilmente le qualità del tipo di situazione umana in cui essi sono stati ottenuti. Clifford Geertz

Il 14 agosto 2003, il “New York Times” annunciava la morte di Armand Borel, un matematico svizzero dell’Institute for Advanced Study di Princeton, già premiato con la Brouwer Medal, lo Steele Prize e il Balzan Prize1. Tra le altre cose, il necrologio accennava cripticamente a una storia molto vecchia: 1

Nel corso del saggio utilizzerò le seguenti abbreviazioni: BPF (Robert N. Bellah personal files, Berkeley, CA); DRP (David Riesman Papers, Harvard University Archives, HUGFP 99.8 Series Correspondence, box 5, folder “Correspondence with Bellah”; HUG FP 99.12 Series Correspondence, box 1, folder “Correspondence with Bellah”); IAS (Institute for Advanced Study); NYT (“The New York Times”); RKMP (Robert K. Merton Papers, Columbia University Archives, 1930-2003, MS, 1439. Series II Correspondence, Sub-series Alphabetical 1930-2003, box 41, folder 4, series II.1 “The Institute for Advanced Study, 1970-1985”); s.f. (senza firma); TPP (Talcott Parsons Papers, Harvard University Archives, HUG FP 42.8.8, Series Correspondence, box 3, folder “Bellah, Robert”; HUG FP 42.45.4, Series Writing, Publishing, and Speaking, box 7, folder “Commonweal April 1973, Article on Bellah”). I brani dei documenti inediti sono pubblicati col permesso di Robert Bellah, Hildred Geertz, Carl Kaysen, Michael Riesman, Harriet Zuckerman, e degli archivi di Columbia e Harvard University. Le versioni complete di alcuni dei documenti citati sono state pubblicate in

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Nel 1973 il dottor Borel guidò un gruppo di studiosi in uno scontro divenuto assai noto con il direttore dell’Istituto, il dottor Carl Kaysen, sulla nomina a professore del sociologo Robert N. Bellah. Gli sfidanti contestarono tanto le credenziali intellettuali di Bellah quanto la necessità di istituire un dipartimento di sociologia. Alla fine il dottor Bellah non entrò a far parte dell’Istituto2.

Che bisogno c’era di menzionare una storia tanto lontana? Cosa aggiungeva alla ricca biografia di Borel? E chi era Bellah? Cercando “Robert Bellah” su Google3, il lettore curioso avrebbe trovato qualche notizia interessante, e forse inattesa: già professore alla University of California, Berkeley, Bellah era andato in pensione nel 1997 e uno dei suoi libri, Habits of the Heart, era stato candidato al Pulitzer Prize nel 1986. Bellah aveva inoltre ricevuto nel 2000 la United States National Humanities Medal dal presidente Bill Clinton con la seguente motivazione: Il presidente degli Stati Uniti d’America conferisce la National Humanities Medal a Robert N. Bellah per gli sforzi volti al chiarimento dell’importanza della comunità nella società americana. Noto sociologo ed educatore, egli ha migliorato la nostra consapevolezza dei valori che stanno al centro delle nostre istituzioni democratiche e dei pericoli di un individualismo non temperato dalla responsabilità sociale.

appendice alla versione originale del saggio in «The American Sociologist», 42, 2011, pp. 21-30. Una prima versione di questo capitolo è stata presentata alla sessione di History of Sociology all’Annual Meeting dell’American Sociological Association, San Francisco, 10 agosto 2009. 2 P. Lewis, Armand Borel, 80, a Leader in 20th-Century Mathematics, in “The New York Times”, 14 agosto 2003. 3 Il 6 novembre 2009 ho utilizzato l’Internet Wayback Machine per verificare l’aspetto della homepage del sito di Robert Bellah, curata dallo Hartford Institute for Religion Research, il 24 settembre 2003 (la data più vicina al necrologio di Borel). Attualmente la pagina è stata eliminata dall’archivio.

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Secondo ciò che il lettore del NYT poteva leggere su internet, Bellah pareva essere un intellettuale rispettato e influente. Perché, dunque, era stato criticato dai professori dell’Istituto? Perché non era entrato a farne parte? E, soprattutto, perché un matematico si era opposto alla nomina di un sociologo? In questo ultimo capitolo ricostruisco la storia del cosiddetto “affaire Bellah” a Princeton rileggendo documenti editi e inediti attraverso una teoria costruttivista della fiducia per cui le reputazioni emergono, crescono e crollano grazie all’intreccio delle pratiche e delle strategie di attori influenti all’interno di più ampi campi strutturali e culturali, che ne permettono e ne vincolano la capacità di agire4. L’affaire Bellah ebbe inizio quando una spiacevole ma tutto sommato banale baruffa accademica su nomine e risorse si trovò esposta nella sfera pubblica5. Nel corso del capitolo mostro come l’emergere di una particolare definizione della situazione spinse tutti gli attori rilevanti a insabbiare e dimenticare rapidamente l’episodio: per ragioni diverse, l’affaire Bellah mise in dubbio la reputazione professionale di molti degli intellettuali coinvolti e si trasformò in una situazione no-win che tutti i giocatori cercarono di chiudere quanto prima. Lungi dall’essere predeterminato, tuttavia, tale esito emerse come risultato di uno scontro reputazionale combattuto dentro e fuori i mass media. Poiché uno studio retrospettivo dell’impatto che le diverse strategie comunicative e reputazionali ebbero sul pubblico è irrealizzabile, presento una descrizione multidimensio4

G.A. Fine, Difficult Reputations, The University of Chicago Press, ChicagoLondon, 2001; J.C. Alexander, The Meanings of Social Life, Oxford University Press, Oxford-New York, 2003; L.H. Mayhew, The New Public, Cambridge University Press, Cambridge, 1997; M. Lamont, How to Become a Dominant French Philosopher: The Case of Jacques Derrida, in «American Journal of Sociology», 93, 1987, pp. 584-622; N. McLaughlin, How to Become a Forgotten Intellectual: Intellectual Movements and the Rise and Fall of Erich Fromm, in «Sociological Forum», 13, 1998, pp. 215-246; G.E. Lang e K. Lang, Recognition and Renown: The Survival of Artistic Reputation, in «American Journal of Sociology», 94, 1988, pp. 79-109. 5 I. Shenker, Dispute Splits Advanced Study Institute, in “The New York Times”, 2 marzo 1973; I. Shenker, At Institute for Advanced Study, Opposing Sides Dig In for Fight, in “The New York Times”, 4 marzo 1973.

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nale dell’affaire Bellah e della sua conclusione che tiene conto di un complesso insieme di variabili culturali, strutturali e pratiche – la situazione del campo sociologico americano nei primi anni Settanta, il tono e i cambi d’accento degli articoli pubblicati sulla stampa e alcuni eventi contingenti sono tutti fattori che contribuiscono a spiegare l’esito dell’affaire Bellah.

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L’Institute for Advanced Study a Princeton L’Institute for Advanced Study nacque a Princeton nel 1930 grazie al lascito di un uomo d’affari del New Jersey, Louis Bamberger, e di sua sorella Caroline Bamberger Fuld. Il loro amico Abraham Flexner, che sarebbe diventato il primo direttore dell’Istituto, li aveva convinti a creare un luogo unico, un ambiente “ideale” per un piccolo numero di studiosi eccezionalmente dotati: piena autonomia di ricerca, nessun carico didattico, alti stipendi. I membri permanenti dell’Istituto avrebbero scelto anno per anno un consistente numero di membri temporanei per permettere loro di sviluppare i loro progetti in un ambiente congeniale6. L’Istituto venne avviato nel 1933 con la School of Mathematics, di cui facevano parte Albert Einstein, Oswald Veblen, Hermann Weyl, James Alexander e John von Neumann. Pochi anni dopo l’Istituto si espanse aggiungendo la School of Economics and Politics e la School of Humanistic Studies. Uno scontro sulle nomine dei nuovi professori portò alle dimissioni di Flexner e alla scelta di Frank Aydelotte come nuovo direttore, un ruolo che egli ricoprì dal 1939 al 1946, quando venne sostituito da J. Robert Oppenheimer. Nel 1948 le due nuove scuole si fusero dando vita alla School of Historical 6 Sullo IAS si possono vedere E. Regis, Chi si è seduto sulla sedia di Einstein?, Frassinelli, Milano, 1990; Institute for Advanced Study, Institute for Advanced Study. Text and production by Linda G. Arntzenius, The Institute for Advanced Study, Princeton, 2005; S. Batterson, Pursuit of Genius: Flexner, Einstein, and the Early Faculty at the Institute for Advanced Study, A.K. Peters, Wellesley, 2006.

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Studies, che avrebbe ospitato studiosi del calibro di Harold Cherniss, George Kennan, Felix Gilbert ed Ernst Kantorowicz. Oppenheimer promosse la nomina di alcuni giovani e promettenti fisici – TsungDao Lee, Chen Ning Yang, Abraham Pais e Freeman Dyson – e creò la School of Natural Sciences nel 1966. Tra i matematici dell’Istituto figuravano, oltre al già citato Borel, André Weil, Kurt Gödel e Deane Montgomery. Nel 1966 Carl Kaysen, un economista di Harvard che aveva prestato servizio nell’amministrazione Kennedy, divenne il quarto direttore dello IAS con il mandato di creare una School of Social Sciences7. Gli psicologi George Miller e R. Duncan Luce si trattennero allo IAS come membri temporanei fino alla nomina di Clifford Geertz, un antropologo che aveva lavorato alla University of Chicago dopo aver conseguito il dottorato al Department of Social Relations di Harvard, come primo membro permanente nel 1970. Un anno dopo il demografo inglese Anthony Wrigley declinò l’offerta di un incarico permanente per ragioni personali8. A quel punto Geertz suggerì a Kaysen di proporre al suo amico e compagno di studi Robert N. Bellah di entrare a far parte dell’Istituto.

Robert N. Bellah prima del 1973 Anche Bellah aveva studiato al Department of Social Relations di Harvard, dove aveva conseguito un BA in Social Anthropology nel 1950 e un PhD in Sociology and Far Eastern Languages nel 1955 sotto la guida di Talcott Parsons. Dopo un periodo presso l’Institute for Islamic Studies della McGill University di Montreal, Bel7 C. Kaysen, Report of the Director 1966-1976, The Institute for Advanced Study, Princeton, 1976. 8 Wrigley ha confermato l’informazione, datami da Kaysen nel corso di una intervista faccia a faccia (1 maggio 2008), in una comunicazione personale (24 dicembre 2008).

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lah tornò ad Harvard come lecturer nel 19589. Promosso associato nel 1961 e ordinario nel 1966, Bellah teneva regolarmente corsi su Islam, Cina, Giappone e sociologia della religione. Nel 1967 si trasferì a Berkeley come Ford professor of Sociology and Comparative Studies e direttore del Center for Japanese and Korean Studies della University of California. Considerato già negli anni Cinquanta come il più promettente teorico nella sociologia della religione10, Bellah cercò di sviluppare un approccio multidisciplinare e utilizzò diverse tradizioni intellettuali al fine di creare una sociologia storica centrata su un’ermeneutica profonda dei fenomeni sociali e culturali. In particolare, a partire dalla fine degli anni Sessanta Bellah aveva cercato di recuperare criticamente la tradizione sociologica di Émile Durkheim, Max Weber e Sigmund Freud per costruire una sociologia interpretativa capace di accogliere le suggestioni di autori diversi come Paul Tillich, Herbert Fingarette e Norman O. Brown. Secondo il “realismo simbolico” proposto da Bellah, la religione andava compresa nei suoi propri termini mediante una ermeneutica profonda di quei “simboli costitutivi” capaci di rappresentare l’unità ultima di soggetto e oggetto. Gli scienziati sociali potevano comprendere la religione solo assumendo l’atteggiamento dei soggetti religiosi, e ciò comportava l’elisione di qualsivoglia differenza tra l’insegnamento della religione e l’insegnamento sulla religione. Con tutta evidenza, il progetto di Bellah andava molto al di là dei confini disciplinari della sociologia, tanto che nella premessa alla sua prima raccolta di saggi, Beyond Belief, troviamo scritto: Mi riterrò soddisfatto se questo libro porterà anche soltanto un piccolo contributo alla cristallizzazione della religione, considerata in 9

Questo paragrafo è stato riscritto e alleggerito in seguito alle ricerche esplicitate in M. Bortolini, Blurring the Boundary Line, in C. Fleck e A. Hess (eds.), Knowledge for Whom? Public Sociology in the Making, Ashgate, Farnham, 2013. 10 Vedi il primo capitolo del presente volume.

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generale, come un campo indipendente di riflessione e di ricerca all’interno della comunità accademica11.

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Lo scontro sulla nomina di Bellah allo IAS Durante l’anno accademico 1972-1973 Bellah venne ammesso allo IAS come membro temporaneo, ma la proposta di un trasferimento definitivo risaliva almeno alla fine del 197112. Un’offerta in tal senso venne avanzata in maniera informale il 25 settembre 1972 e sollevò immediatamente l’opposizione di alcuni dei membri permanenti dell’Istituto13. Come ha scritto Morton White – filosofo

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R.N. Bellah, Al di là delle fedi, Morcelliana, Brescia, 1975, p. 28. Nel 1965, quando il sociologo di Harvard Alex Inkeles aveva rimesso in discussione il progetto interdisciplinare del Department of Social Relations, Bellah aveva esplorato la possibilità di creare un Department of Religion nella sua alma mater (lettera di R.N. Bellah a T. Parsons, 5 giugno 1965, TPP). Giunto a Berkeley, Bellah provò a coinvolgere docenti dell’università e del Graduate Theological Union nella creazione di un dipartimento di studi religiosi. Vedi B.A. Pearson, Religious Studies at Berkeley, in «Religion», 29, 1999, pp. 303-313. 12 Lettere di D. Riesman a R.N. Bellah, 3 novembre 1971 e di R.N. Bellah a D. Riesman, 14 dicembre 1971 (DRP). In effetti, in una lettera a Parsons del 6 settembre 1972 (TPP), Bellah scriveva che «Cliff [Geertz] ha cominciato a parlare della possibilità di una mia venuta permanente appena dopo il suo arrivo». Durante l’anno accademico 1972-1973 gli altri membri temporanei del programma di scienze sociali erano Pierre Bourdieu, Clive Kessler, Bruce Mazlish, Thomas Dunbar Moore, Nancy Munn, James T. Siegel, Peter Hopkinson Smith, Aristide Zolberg e Albert O. Hirschman. Paul Rabinow si trovava allo IAS come assistente di Geertz. Per tutte queste notizie vedi Institute for Advanced Study, A Community of Scholars. The Institute for Advanced Study Faculty and Members 1930-1980, The Institute for Advanced Study, Princeton, 1980. Poiché alcune delle persone coinvolte sono ancora vive, lo IAS non mi ha permesso di accedere ai suoi archivi. Il professor White non ha voluto aggiungere nulla a quanto scritto nella sua autobiografia (comunicazione personale, 27 settembre 2008). Le interviste ad alcuni dei membri temporanei (Moodie, Kessler, Zolberg, Rabinow) non hanno aggiunto molto ai dati in mio possesso. 13 M. White, A Philosopher’s Story, The Pennsylvania State University Press, University Park, 1999, p. 296. Vedi anche le lettere di D. Riesman a R.N. Bellah, 29 novembre 1972, e di R.N. Bellah a D. Riesman, 20 dicembre 1972 (DRP).

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allo IAS e leader della protesta14 – alcuni dei membri delle scuole di matematica e di studi storici avevano in precedenza costituito un “fronte unito” contro i progetti edilizi di Kaysen, che consideravano un inutile spreco di denaro, e contro la creazione della scuola di scienze sociali15. Non appena il nome di Bellah cominciò a circolare gli oppositori si misero a leggere le sue pubblicazioni e consultarono autonomamente studiosi esterni allo IAS, ottenendo opinioni discordanti16. Kaysen invitò cinque noti scienziati sociali a costituire una commissione col compito di «assistere i membri dell’Istituto nel valutare la qualità dell’opera di Bellah e la sua capacità di contribuire al programma proposto» per il futuro17. Tutti i convocati accettarono prontamente: Robert K. Merton ed Edward Shils, due celebri sociologi che Kaysen aveva già consultato diverse volte18; lo storico delle religioni Joseph Kitagawa; il filosofo Stanley Cavell; lo storico del Giappone ed ex-ambasciatore Edwin O. Reischauer, che era stato

14 Al di là delle considerazioni accademiche a cui è dedicato questo capitolo, non è difficile comprendere perché White abbia assunto fin dall’inizio un ruolo centrale tra gli oppositori. Le sue idee sullo studio e l’insegnamento della religione nell’università erano sostanzialmente l’opposto di quelle espresse da Bellah nelle sue pubblicazioni più recenti (vedi il paragrafo precedente e, più estesamente, il già citato M. Bortolini, Blurring the Boundary Line). Secondo White, era del tutto insensato parlare in astratto di “religione” o di “simboli religiosi”. La domanda giusta non era “Dovrei essere religioso?” – una questione che White attribuiva a intellettuali come Paul Tillich, uno dei mentori di Bellah – ma “Dovrei essere ebreo/cristiano/musulmano?”. Le conclusioni di White erano che le questioni cognitive rimanevano cruciali per lo studio della religione e che l’insegnamento dei contenuti dottrinali non poteva essere confuso con l’insegnamento degli studi religiosi. Vedi M. White, A Philosopher’s Story, cit., p. 160; M. White, Religion, Politics, and Higher Education, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1959, pp. 85-97. 15 M. White, A Philosopher’s Story, cit., pp. 289-291. 16 Ivi, pp. 296-297. 17 Lettera di C. Kaysen a R.K. Merton, 6 novembre 1972, p. 1. 18 Kaysen non coinvolse Talcott Parsons, già mentore di Bellah e Geertz, perché il suo stile non gli piaceva (comunicazione personale, 1 maggio 2008). Merton aveva già fatto parte della commissione nominata nel 1969 per la nomina di Geertz (lettera di K. Kaysen a R.K. Merton, 7 gennaio 1970, RKMP).

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uno dei maestri di Bellah e poi suo collega ad Harvard19. Insieme alla lettera di nomina i commissari ricevettero copie del curriculum di Bellah, una lista delle sue pubblicazioni e due dettagliati documenti. La presentazione del “Program in Social Change”, non firmata, indicava nell’utilizzo dei concetti elaborati dalle scienze sociali per l’analisi delle società moderne e delle “nuove nazioni” post-coloniali la via più efficace per rispondere alle più venerabili domande della tradizione storica e filosofica occidentale. Gli scienziati sociali dello IAS si sarebbero dedicati alla comprensione del mutamento sociale utilizzando metodi ermeneutici: differenziando esplicitamente questo approccio dallo scientismo imperante, il progetto denunciava l’artificialità dei confini che dividevano le scienze sociali dalla storia e ne auspicava il rapido abbattimento. Nel secondo documento, Geertz presentava l’opera di Bellah come un esempio paradigmatico di quanto il programma avrebbe voluto realizzare nello studio del rapporto tra idee, istituzioni e mutamento sociale. Geertz sottolineava anche la creatività metodologica di Bellah e parlava chiaramente di un progetto intellettuale comune: Non esiste nessun altro scienziato sociale in questo Paese che rispetto più di lui e nessuno che vorrei avere al mio fianco nello sviluppo del nostro programma negli anni cruciali che abbiamo davanti20. 19 La lista dei cinque membri compariva nella lettera di invito a far parte della commissione e venne pubblicata in I. Shenker, Dispute Splits Advanced Study Institute, cit., e in D. Shapley, Institute for Advanced Study: Einstein Is a Hard Act to Follow, in «Science», 179 (4079), 1973, pp. 1209-1211. 20 I due documenti – intitolati Program in Social Change, s.f., e The Work of Robert N. Bellah, di Geertz – sono stati pubblicati su «The American Sociologist» a cura di chi scrive (vedi nota 1). La dichiarazione programmatica riflette fedelmente sia l’impostazione multidisciplinare del Department of Social Relations di Harvard sia l’esperienza di Geertz come membro del Committee for the Comparative Study of New Nations della University of Chicago nel periodo 1962-1970 (su questo vedi C. Geertz, Oltre i fatti, Il Mulino, Bologna, 1995; R.A. Shweder e B. Good (eds.), Clifford Geertz by his Colleagues, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2005; sul tema ho potuto anche giovarmi dei lavori inediti di Bijan Warner, che ringrazio). I due documenti confermano l’interpretazione retrospettiva proposta da Landon Y. Jones, Jr. nel 1974 (Bad Days on Mount Olympus. The Big Shoot-Out at the Institute for Advanced Study,

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I cinque commissari esterni si riunirono con sei membri permanenti, Kaysen e Geertz il 3 dicembre 1972. Poiché la commissione allargata non riuscì a raggiungere una decisione unanime sul valore di Bellah, venne richiesto agli esterni di mettere il proprio parere nero su bianco come memorandum per la riunione dei membri permanenti che, di lì a poco, avrebbe votato sulla nomina. A loro volta, White e Geertz scrissero lunghi memorandum per argomentare le rispettive posizioni e li presentarono agli altri professori dell’Istituto prima dell’incontro, che ebbe luogo il 15 gennaio 1973. I membri permanenti votarono “13 contro, 8 a favore e 3 astenuti” e la nomina di Bellah venne bocciata21. Con una seconda votazione, una maggioranza di 14 membri decise che la nomina non dovesse essere proposta al Consiglio di amministrazione dello IAS. Kaysen, tuttavia, aveva deciso di sostenere Bellah anche contro il voto e propose la nomina al Consiglio. Il 20 gennaio 1973 il Consiglio di amministrazione decise di approvare «la proposta di nominare Robert N. Bellah come professore nel programma di scienze sociali». Dieci giorni dopo i consiglieri distribuirono un memorandum di tre pagine per spiegare la decisione: poiché Geertz e Kaysen erano gli unici due membri del programma di scienze sociali, la loro opinione godeva di un “peso particolare” in «The Atlantic Monthly», 233, 1974, pp. 37-46 e pp. 51-53). Secondo Jones, Kaysen e Geertz avevano cercato di sovvertire lo stile di lavoro fortemente individualistico tipico dello IAS proponendo una School of Social Sciences intesa come una vera e propria comunità di studiosi. Secondo il loro piano, «nuovi criteri venivano utilizzati per il processo di selezione – Bellah era in grado di lavorare con Geertz, insieme i due rispondevano a un’esigenza conoscitiva nell’area dello studio comparativo del mutamento sociale, il nuovo programma necessitava della presenza di particolari persone». Geertz e Kaysen avevano in qualche modo “coperto” il progetto più ampio (cioè una trasformazione radicale della struttura stessa dello IAS) sostenendo che avevano scelto Bellah utilizzando «gli stessi standard di eccellenza usati dai professori delle altre scuole». Vedi anche lettera di D. Riesman a R.N. Bellah, 30 novembre 1971 (DRP): «Dovresti anche sfruttare al meglio l’opportunità di lavorare insieme a Cliff Geertz – le possibilità di quel calibro sono così poche e dobbiamo ripudiare l’individualismo che non prende abbastanza sul serio le relazioni non famigliari […] Immagino che voi due insieme sarete in grado di cambiare lo stile di lavoro di almento una parte dell’Istituto». 21 M. White, A Philosopher’s Story, cit., p. 302.

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a fronte del voto negativo dell’assemblea dei membri permanenti. Il sostegno dei tre membri della commissione «più direttamente qualificati dal punto di vista professionale a dare un giudizio su Bellah» venne citato come ulteriore prova a favore di quest’ultimo. Infine, Kaysen aveva avvertito il Consiglio che la nomina di Bellah era cruciale per la costituzione della School of Social Sciences, e i consiglieri avevano condiviso le sue preoccupazioni. Pur rassicurando i membri permanenti sul mantenimento dei rispettivi ruoli, i consiglieri sottolineavano che la “responsabilità ultima degli affari dell’Istituto” spettava al Consiglio e che una situazione tanto delicata richiedeva a quest’ultimo una decisione chiara e definitiva. Carl Kaysen consegnò a Bellah la proposta formale e una copia del memorandum del Consiglio il 31 gennaio 1973. Bellah accettò l’offerta alla fine di febbraio22.

L’“affaire Bellah” Fino a questo momento, è bene precisarlo, non esisteva alcun affaire Bellah. Esisteva un conflitto sull’allocazione di risorse accademiche e lo IAS aveva una lunga tradizione di “ammutinamenti” da parte dei professori23. Se questi ultimi erano usciti vincitori dagli scontri del 1939 e del 1944-1945, questa volta Kaysen aveva deciso di non piegarsi al voto della maggioranza, al quale attribuiva un valore meramente consultivo. I membri della “maggioranza dissidente”24 decisero fin dall’inizio di attivare il proprio capitale 22 Vedi la lettera di Harold F. Linder (Presidente del Board of Trustees) ai membri permanenti dello IAS, 20 gennaio 1973, e H.F. Linder, Memorandum to the Faculty, IAS Princeton, 30 gennaio 1973 (TPP). Bellah sarebbe entrato in carica nel luglio 1973. Vedi anche le lettere di C. Kaysen a R.N. Bellah del 31 gennaio 1973 (TPP) e di R.N. Bellah a D. Riesman del 19 febbraio 1973 (DRP). 23 E. Regis, Chi si è seduto sulla sedia di Einstein?, cit.; S. Batterson, Pursuit of Genius, cit. 24 Riprendo l’espressione introdotta in I. Shenker, Dispute Splits Advanced Study Institute, cit.

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sociale a sostegno della protesta contro Kaysen e il Consiglio di amministrazione. André Weil, per esempio, fece circolare tra i matematici americani una lettera che sollecitava reazioni e commenti contro direttore e consiglieri. Weil stigmatizzava il comportamento di Kaysen e il fatto che, nonostante fosse stato informato dell’esito del voto, Bellah avesse accettato la nomina senza problemi. Nella lettera Weil scriveva che «i membri del consiglio pensano di essere i padroni dell’Istituto e ci trattano come impiegati» e riportava il parere di un collega norvegese che aveva paragonato l’episodio alla chiusura dell’Università di Oslo da parte dei nazisti nel 194325. Kaysen e il Consiglio ricevettero dozzine di lettere a sostegno della maggioranza dissidente. A quel punto, qualcuno si convinse che la gravità della situazione esigeva l’uso di armi non convenzionali. Il 2 marzo 1973 un lungo e dettagliato articolo di Israel Shenker, intitolato Dispute Splits Advanced Study Institute, apparve sulla prima pagina del “New York Times”26. Sebbene Shenker narrasse la crisi come una contrapposizione tra Kaysen e i professori dello IAS, due terzi dell’articolo erano dedicati ai contrastanti giudizi sulle competenze di Bellah. Dalla parte della maggioranza dissidente, Weil – presentato come “uno dei più grandi matematici del mondo” – affermava di non aver mai avuto “la sensazione di perdere tempo” come quando aveva letto le “inutili” pubblicazioni di Bellah. White definiva i suoi riferimenti filosofici «banali e pretenziosi più di quanto si può sopportare da un articolo 25

Vedi la lettera spedita da Weil a uno sconosciuto professore di Harvard e in copia a R.K. Merton del 29 gennaio 1973 (RKMP). In un articolo pubblicato sul “Washington Post”, Weil dichiarava: «Ho inviato a Bellah un biglietto in cui ho scritto che conosco pochissime persone nel mondo accademico che accetterebbero un incarico in queste circostanze. Gli ho anche scritto che non potrò mai considerarlo come un collega». Vedi W. Chapman, The Battle of Princeton, 1973, in “The Washington Post”, 11 marzo 1973, p. B.03. Sull’Università di Oslo nel periodo 1941-1943 si veda B. Mees, The Science of the Swastika, Central European University Press, Budapest, 2008, p. 245. 26 Si tratta di I. Shenker, Dispute Splits Advanced Study Institute, cit. Shenker era un giornalista piuttosto conosciuto, specializzato in tematiche culturali e accademiche. Vedi M. Fox, Israel Shenker, 82, a Reporter With the Instincts of a Scholar, Dies, in “The New York Times”, 17 giugno 2007.

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di giornale». Kurt Gödel – “da tutti considerato il più grande matematico del mondo” – osservava che nessuno dei sostenitori di Bellah aveva mai parlato della “verità o verosimiglianza delle sue affermazioni sociologiche”. L’articolo citava anche i dubbi di Ronald Dore, un sociologo esperto di Giappone, e di un anonimo “detentore di una cattedra Ford a Berkeley” circa il reale valore di Bellah come sociologo tout court. Sull’altro fronte, venivano rivelate le valutazioni confidenziali di tre dei componenti esterni della commissione: secondo Shils, Bellah era “uno dei più importanti sociologi” a livello internazionale; Merton lo definiva “uno dei due migliori sociologi della sua generazione” per quanto riguardava lo studio del mutamento sociale; Reischauer, il cui giudizio veniva duramente criticato da Weil, scriveva che nessuno superava Bellah per ampiezza di vedute e profondità. Geertz elogiava “la straordinaria serietà ed erudizione” di Bellah, mentre il fisico Freeman Dyson affermava di “apprezzare” i suoi scritti. Lo storico di Yale John W. Hall veniva citato tra coloro che avevano informalmente dato un’opinione positiva. Era evidente che Shenker non solo aveva avuto la possibilità di intervistare alcuni dei membri permanenti dell’Istituto, ma aveva anche avuto accesso ad alcuni dei documenti confidenziali sull’opera di Bellah27. Il 4 marzo il NYT pubblicò un secondo articolo in cui Shenker28 ricostruiva lo scontro tra Kaysen e i professori, che avevano chiesto l’istituzione di una commissione esterna per valutare l’operato del direttore. Il Consiglio d’amministrazione aveva invece nominato un comitato interno i cui cinque membri avrebbero incontrato la mag27 I giudizi su Bellah presentati negli articoli di Shenker erano dunque di quattro tipi: giudizi formali dei membri della commissione; giudizi formali di Geertz e White; opinioni informali di altri professori permanenti dello IAS; opinioni informali di studiosi esterni consultati privatamente dai membri dello IAS. In una lettera all’«Atlantic Monthly» (233, 1973, pp. 38-39), White affermò esplicitamente di non aver passato documenti confidenziali a Shenker. 28 I. Shenker, At Institute for Advanced Study, Opposing Sides Dig In for Fight, cit. Vedi anche s.f., Membership Dispute Divides Institute for Advanced Study, in «The Harvard Crimson», 3 marzo 1973.

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gioranza dissidente il 24 marzo. Shenker scrisse che i dubbi sull’originalità dell’opera di Bellah erano confermati energicamente “da parte di colleghi di altre istituzioni” e che White aveva accennato a un irriverente parallelo: forse che Bellah era l’Einstein della sociologia? Se la risposta fosse stata affermativa, allora si sarebbe meritato il posto. Poiché non lo era, non lo meritava. L’articolo riportava anche alcune osservazioni dello stesso Bellah, che si lamentava del fatto che nessuno dei suoi detrattori fosse in grado di spiegare perché lo considerava inadatto a ricoprire il ruolo di membro permanente. Anche in assenza di giudizi espliciti da parte di Shenker, entrambi gli articoli si schieravano con una certa evidenza dalla parte della maggioranza dissidente29. La storia rimbalzò su altri media: sul «National Observer» il 17 marzo, su «Time Magazine» e «Newsweek» il 19 marzo e su «Science» il 23 marzo30. L’articolo di William Chapman pubblicato sul “Washington Post” l’11 marzo 1973 ignorava lo scontro tra direttore e maggioranza dissidente e riportava ulteriori giudizi sui presunti deficit intellettuali di Bellah. Cherniss non aveva dubbi – «Leggo le opere del signor Bellah e le considero negativamente. Perché le considero negativamente? Perché sono brutti libri» – e White descriveva Bellah in questo modo: «In primo luogo, il suo pensiero è oscuro, non è bravo nell’analisi dei concetti. In secondo luogo, non è capace di lavorare con i dati. Il suo pensiero è confuso e non rigoroso». In realtà, i singoli giudizi sull’opera di Bellah – nessuno dei quali riguardava esplicitamente i contenuti31 – erano solo uno dei campi su cui avveniva la battaglia per la definizione della situazione. 29 Una interpretazione condivisa retrospettivamente sia da Geertz che da White. Sul parallelo tra Bellah ed Einstein come forma retorica vedi I.L. Horowitz, Trouble in Paradise. The Institute for Advanced Study, in «Change», 5, 1973, pp. 44-49. 30 Vedi s.f., Ivory Tower Tempest, in «Time Magazine» 19 marzo 1973, p. 48; J.K. Footlick, Thunderbolts on Olympus, in «Newsweek», 19 marzo 1973, pp. 60-63; D. Shapley, Institute For Advanced Study: Einstein Is a Hard Act to Follow, cit. 31 I lettori del NYT vennero informati del fatto che White e Geertz avevano presentato lunghi memorandum sull’opera di Bellah, ma nulla venne rivelato circa il loro contenuto.

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La libertà accademica e i suoi nemici: due storie contrapposte Entrambe le parti descrissero l’affaire Bellah come uno scontro politico e legale sulla libertà accademica e il futuro dello IAS. Non sorprendentemente, la controversia venne descritta come uno scontro tra professori e amministrazione, ma le due storie non potevano essere più diverse nella descrizione degli eventi e nell’attribuzione dei ruoli positivi e negativi. Se definiamo la libertà accademica come «la libertà di perseguire la professione di studioso, dentro e fuori dall’aula di insegnamento, secondo le norme e gli standard della professione», possiamo leggere le due narrazioni come due interpretazioni diverse di chi dovesse applicare quali norme nel caso di Bellah32. Secondo la maggioranza dissidente, Kaysen e il Consiglio di amministrazione avevano usurpato un potere che spettava ai professori: solo gli accademici possedevano il diritto di selezionare i propri pari, una norma che secondo Cherniss valeva in “qualunque università rispettabile”33. L’idea di fondo era che un rilassamento degli standard sarebbe costato allo IAS la posizione di migliore istituto di ricerca del mondo. Secondo Weil, lo IAS non era stato creato per diventare “una istituzione di servizio o un’altra Rand Corporation”, e il medievista Kenneth M. Setton si chiedeva se la School of Social Sciences dovesse diventare un dipartimento serio o un «cenacolo intellettuale di persone che i professori Geertz e Kaysen giudicano brillanti»34. La maggioranza dissidente si presentava come un 32

M.W. Finkin e R.C. Post, For the common good. Principles of American academic freedom, Yale University Press, New Haven, 2009, p. 149. Sulla libertà accademica si veda anche W.P. Metzger, Academic freedom in the age of the university, Columbia University Press, New York, 1961, soprattutto il quinto capitolo. 33 J.K. Footlick, Thunderbolts on Olympus, cit.; D. Shapley, Institute For Advanced Study: Einstein Is a Hard Act to Follow, cit. 34 I. Shenker, At Institute for Advanced Study, Opposing Sides Dig In for Fight, cit. Nonostante le motivazioni degli oppositori di Bellah siano sempre state considerate dal punto di vista locale, il commento di Weil ci spinge ad accennare al più ampio contesto dei dibattiti etici e politici sul ruolo societario degli scienziati. Come ha mostrato Kelly Moore, dopo un ventennio in cui “l’autorità degli scienziati riguardo la natura e le loro relazioni con la vita politica” si era affermata senza discussioni né critiche, nel passag-

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articolato gruppo di studiosi coscienziosi e preoccupati per la reputazione dell’Istituto. Studiosi che parlavano in nome della scienza e dell’eccellenza intellettuale contro amministratori dispotici che non possedevano le capacità né il diritto di interferire nelle nomine dei professori. Nella sintesi proposta da White, «a prescindere dalla composizione legale del consiglio, i fiduciari morali dell’Istituto sono i professori. I consiglieri hanno parlato in nome del potere, i professori in nome della ricerca e della propria coscienza»35. La maggioranza dissidente proponeva quella che definirei un’idea “estesa” della libertà accademica, in cui qualunque professore aveva le competenze per valutare l’opera di Bellah a prescindere dalla propria appartenenza o specializzazione disciplinare – secondo White, «questo tizio [Bellah] non scrive in cinese, giapponese o simboli matematici che non possiamo capire. Non è certo un caso di “Io no parlare inglese”»36. L’autonomia della ricerca andava protetta dalle interferenze dell’amministrazione: se la maggioranza aveva ragione, Bellah non si meritava l’incarico e Kaysen andava censurato. Dall’altra parte della barricata la storia appariva assai diversa. I sostenitori di Bellah la descrissero come l’ultimo di una lunga serie di attacchi al direttore e alla sua politica. Secondo Kaysen, le regole procedurali erano state rispettate e lui, in coscienza, era rimasto congio tra gli anni Sessanta e Settanta la partecipazione degli scienziati ai progetti governativi e, più in generale, il loro coinvolgimento in questioni di carattere politico avevano attirato l’attenzione del pubblico. Potrebbe non essere sbagliato considerare questo clima culturale come una delle variabili intervenienti nel Bellah affair (vedi per esempio l’interpretazione tutta politica dell’episodio avanzata da Irving L. Horowitz, infra). Le diverse posizioni politiche ed etiche dei membri permanenti dello IAS, così come le vicissitudini pubbliche di Einstein e Oppenheimer, potrebbero comunque diventare un oggetto di studio in sé. Vedi K. Moore, Disrupting Science. Social movements, American scientists, and the politics of the military, 1945–1975, Princeton University Press, Princeton, 2008; S. Shapin, The Scientific Life, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2008; D.P. Haney, The Americanization of Social Science, Temple University Press, Philadelphia, 2008. 35 I. Shenker, Embattled Director of Institute In Princeton Vows to Stay On, in “The New York Times”, 29 aprile 1973. 36 I. Shenker, Dispute Splits Advanced Study Institute, cit.

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vinto della correttezza della nomina37. Ma il punto più rilevante, per Bellah e i suoi sostenitori, era che i componenti della maggioranza dissidente non erano competenti a giudicare i meriti di un sociologo; Kaysen e il Consiglio vennero dunque dipinti come i saggi costituzionali che avevano difeso i diritti di una minoranza oppressa. Il più esplicito tra i sostenitori di Bellah, Freeman Dyson, affermò che «è impossibile farsi una seria opinione circa la nomina in un’altra scuola»38. L’idea era che nelle scienze sociali e negli studi umanistici l’eccellenza intellettuale andasse valutata secondo criteri specifici e, nonostante tali criteri rimanessero nell’ombra, i sostenitori di Bellah citarono il giudizio dei sociologi della commissione come una dimostrazione della propria posizione. Infine, ma non meno importante, l’attacco a Bellah veniva interpretato come un attacco al direttore e alla stessa possibilità di istituire una School of Social Sciences39. La maggioranza dissidente aveva dunque sbagliato due volte: arrogandosi il diritto di giudicare un sociologo senza averne le competenze e pretendendo di entrare nel più ampio dibattito “costituzionale” sull’assetto futuro dello IAS. In sintesi, i sostenitori di Bellah attribuirono alla maggioranza la volontà di conculcare un diritto della minoranza, che invece Kaysen e gli amministratori avevano protetto e ristabilito. La loro idea di libertà accademica era “ristretta”: dava per scontata la sovranità delle discipline e affermava il diritto dello studioso a essere giudicato secondo standard di eccellenza contestualmente specifici40. Se la minoranza aveva ragione, 37

Ibidem. J.K. Footlick, Thunderbolts on Olympus, cit., p. 63. 39 D. Shapley, Institute for Advanced Study: Einstein is a Hard Act to Follow, cit., pp. 1210-1211. 40 Michèle Lamont ha mostrato come l’interazione tra i componenti delle commissioni multidisciplinari che devono attribuire premi, finanziamenti e borse di studio sia guidata da norme consuetudinarie come la sovranità disciplinare e la contestualizzazione cognitiva. Secondo la prima norma, «le opinioni dei membri godono di un peso maggiore a seconda della vicinanza del progetto proposto al “loro” campo disciplinare», mentre la seconda «richiede che i membri delle commissioni utilizzino criteri quanto più appropriati per la disciplina o il campo della proposta che stanno valutando» (M. Lamont, How Professors Think, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2009, pp. 38

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Bellah meritava il posto e Kaysen andava considerato un direttore coraggioso e indipendente.

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Reazioni pubbliche e private Chi conosceva Bellah personalmente o aveva una consuetudine con il suo lavoro non aveva alcun dubbio. La corrispondenza privata mostra come persone diverse dessero più o meno la medesima interpretazione dell’incidente: il giudizio che la maggioranza dissidente aveva dato dell’opera di Bellah era a tal punto incredibile che andava spiegato facendo ricorso a cause latenti o segrete. Il 5 marzo 1973 il direttore dell’East Asian Research Center di Harvard, John K. Fairbank, scrisse al suo ex-studente e collega Robert Bellah che È ovvio […] che tu rappresenti le scienze sociali in generale di fronte a un’alleanza tra matematici e umanisti. Ma i nostri problemi non vengono affrontati né dalle scienze pure né dalla storia letteraria e intellettuale41. 118 e 106). Al giorno d’oggi, un giusto bilanciamento tra queste considerazioni – che possono essere avvicinate a quella che ho definito concezione “ristretta” della libertà accademica – porta nella maggior parte dei casi a una decisione condivisa (ivi, pp. 156-158). Sfortunatamente Lamont non prende in considerazione lo sviluppo storico delle regole di base dell’etichetta accademica né le dinamiche di differenziazione e legittimazione delle discipline – logicamente, per essere sovrana una disciplina deve prima essere stata riconosciuta come tale. In realtà, le discussioni sulla libertà accademica dei primi anni Settanta davano per scontata una competenza disciplinare piuttosto stretta nella valutazione dell’opera dei singoli studiosi. Nel proporre la distinzione tra libertà accademica “generale” e “speciale”, John R. Searle sottolineava che la libertà accademica professionale si giustifica proprio grazie alla «specifica competenza [del ricercatore] entro una particolare area di studi accademici» (J.R. Searle, Two concepts of academic freedom, in E.L. Pincoffs (ed.), The concept of academic freedom, University of Texas Press, Austin, 1975, p. 88, corsivo mio) (anche gli altri saggi della raccolta propongono una concezione simile). Nel libro di Thomas Gieryn, Cultural Boundaries of Science (The University of Chicago Press, Chicago-London, 1999), troviamo tracce del fatto che le medesime argomentazioni erano già utilizzate, almeno come strategie retoriche, negli anni Quaranta e Sessanta. 41 Lettera di J.K. Fairbank a R.N. Bellah, 5 marzo 1973 (BFP). Nella sua semplicità, l’osservazione di Fairbank punta il dito sull’emergere delle scienze sociali come

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Tre giorni dopo un gruppo di professori di Berkeley, tra cui Neil Smelser, Bill Bouwsma, Delmer Brown, Larry Levine e Reinhardt Bendix, spedì a Bellah una lettera che esprimeva preoccupazione, “ammirazione e rispetto per i [suoi] risultati professionali” nonché “affetto personale”. Gli autori della lettera – alcuni dei quali avevano già espresso i medesimi sentimenti al momento della partenza di Bellah per Princeton nell’ottobre 197242 – descrissero l’episodio come una violazione immorale e immeritata della riservatezza accademica e invitarono il loro collega a tornarsene a Berkeley. David Riesman aveva ricevuto notizia della nomina definitiva e delle riserve di Bellah già il 19 febbraio 1973. Dopo aver letto gli articoli di Shenker sul NYT, cercò di aiutare l’amico esprimendo il proprio entusiasmo per il suo lavoro in un paio di lettere indirizzate al presidente del Consiglio di amministrazione dell’Istituto, Harold Linder, e al membro permanente dello IAS George Kennan43. In una lettera indirizzata a Bellah l’8 marzo 1973, Talcott Parsons criticò a sua volta il comportamento di White e scrisse: Spero, inoltre, di interpretare correttamente il comportamento di Karl [sic] Kaysen come una riaffermazione della tesi, attribuita a Reischauer, per cui Harvard non permetterebbe mai che una proposta di incarico nelle scienze sociali venisse decisa da un corpo docente la cui maggioranza fosse costituita di scienziati naturali non competenti a valutare l’opera del candidato44.

“terza cultura” diversa dalle scienze naturali così come da quelle umane. Per un saggio recente sul tema si veda J. Kagan, Le tre culture, Feltrinelli, Milano, 2013. 42 Si vedano le due lettere di N.J. Smelser a R.N. Bellah, rispettivamente dell’8 marzo 1973 e del 16 ottobre 1972 (BFP). 43 Lettera di R.N. Bellah a D. Riesman, 19 febbraio 1973. Bellah aveva espresso il proprio stato d’animo in una aggiunta a mano: «Non mi sento affatto a posto con la situazione e potrei tornare a Berkeley nel 1974 se mi passasse la voglia di continuare a recitare la parte del capitano Dreyfus all’Istituto». Vedi anche la lettera di D. Riesman a R.N. Bellah del 14 marzo 1973 (tutte in DRP). 44 Lettera di T. Parsons a R.N. Bellah, 8 marzo 1973 (TPP).

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Parsons accettò inoltre di difendere a causa del suo ex-studente sull’influente rivista cattolica «Commonweal»45; l’articolo lodava Bellah richiamando l’attenzione sulle sue opere meno controverse e sottolineando che a suo tempo la nomina di Geertz era stata approvata all’unanimità – circostanza che, data la vicinanza tra Bellah e Geertz, gettava un’ombra sulla capacità di giudizio dei professori dello IAS. Secondo Parsons la rapidità della escalation dimostrava che la vicenda di Bellah andava inquadrata nell’ambito di una più ampia contrapposizione tra professori e direttore dell’Istituto. L’articolo si concludeva con una discussione sull’“etica procedurale”, in cui Parsons esponeva le pratiche in vigore ad Harvard e sottoscriveva la versione ristretta della libertà accademica: Nella mia lunga carriera di professore di sociologia non mi è mai stato richiesto di valutare un fisico, un biologo, un professore di lingue e letterature romanze, un antichista o di intervenire in uno dei molti campi di ricerca rappresentati all’interno della facoltà.

Ciò detto, la documentazione mostra che i sostenitori di Bellah ritenevano che la reputazione di quest’ultimo non fosse affatto al sicuro. Parsons definì l’affaire Bellah “una tragedia molto seria”46. In una lettera a Edwin Reischauer, Riesman scrisse: «Sono certo che concorderai con me che Bob si trova in una situazione terribile». L’immagine pubblica di Bellah come intellettuale impegnato e dotato andava difesa e riaffermata47. 45 Vedi lettere di R.A. Schroth, SJ, a T. Parsons, 8 marzo 1973, e di T. Parsons a R.A. Schroth, SJ, 14 marzo 1973 (TPP). L’articolo venne pubblicato nel maggio 1973, quando l’affaire Bellah era ormai tramontato. 46 Entrambe le citazioni vengono da T. Parsons, The Bellah Case. Man and God in Princeton, New Jersey, in «Commonweal», 98, 1973, p. 259. Su richiesta di Bellah e Geertz, Parsons scrisse anche una lettera al Consiglio di amministrazione: vedi lettere di R.N. Bellah a T. Parsons, 6 aprile 1973, e di T. Parsons a IAS Board of Trustees, 24 aprile 1973 (TPP). 47 Lettera di D. Riesman a E.O. Reischauer, 14 marzo 1973 (DRP). Come ho mostrato nei capitoli precedenti, la reputazione di Bellah entro i circoli disciplinari rilevanti non era affatto in pericolo, e anzi i primi anni Settanta possono essere considerati

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Sulla stampa ciò emerse in varie forme: lettere ai direttori di quotidiani, giudizi espressi da noti studiosi nell’ambito della seconda ondata di servizi sull’affaire Bellah e articoli scritti da scienziati sociali. Non erano solo gli amici di Bellah a intervenire; il senso di disagio dei sociologi affondava le radici in un decennio di profondi cambiamenti e attacchi alla disciplina. Gli anni compresi tra il 1965 e il 1975 furono infatti un periodo molto difficile per la sociologia americana: mentre la generazione di Parsons cercava di consolidare la posizione accademica e pubblica della sociologia promuovendo obiettività e scientismo, la nuova generazione cominciò a proporre una versione più umanistica e politicamente impegnata della scienza sociale, che rifiutava l’impostazione tipica del movimento del Dopoguerra. L’assenza di un qualsivoglia consenso metodologico e paradigmatico impediva l’emergere di un chiaro modello disciplinare e rendeva i sociologi – soprattutto quelli raccolti intorno a Parsons, il leader del movimento per la professionalizzazione della sociologia americana48 – vulnerabili sulle questioni di base e li portava a interpretare l’affaire allo IAS come un attacco disciplinare che andava ben oltre la vicenda personale di Bellah. Tra il 1955 e il 1965 l’interesse per la sociologia – indicato dal numero dei membri dell’American Sociological Association (ASA) e il numero di BA e PhD in sociologia – era più che raddoppiacome un momento importante della sua carriera, soprattutto per quanto riguarda il dibattito sulla religione civile americana e la discussione sul realismo simbolico (vedi il secondo capitolo del presente volume e M. Bortolini, Blurring The Boundary Line, cit.). Dal punto di vista accademico, Bellah era assai tranquillo: come i suoi amici e conoscenti sapevano, non solo Berkeley aveva prolungato il suo sabbatico di un anno per dargli tempo di pensare a un ritorno in California, ma l’University of Pennsylvania gli aveva offerto informalmente la cattedra Benjamin Franklin di sociologia (Renee Fox, che al tempo ricopriva la carica di direttore del Department of Sociology, mi ha confermato il fatto in una comunicazione personale, 8 ottobre 2009). Bellah aveva anticipato a Parsons l’intenzione di rimanere allo IAS un anno, fino alla nomina di un nuovo membro permanente della School of Social Sciences, per poi trasferirsi a Philadelphia (lettera di R.N. Bellah a T. Parsons, 12 marzo 1973, TPP). 48 Su questo vedi il primo capitolo del presente volume e la bibliografia ivi indicata.

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to. Allo stesso tempo, un positivismo piuttosto vago si era diffuso come doxa più o meno ovunque, e i praticanti della disciplina concordavano nel riconoscere i dipartimenti e le riviste più importanti49. Nell’ambito di uno sforzo di ridefinizione complessiva del sistema educativo americano, i finanziamenti federali per la sociologia pura e applicata erano cresciuti rapidamente fino a raggiungere un picco nel biennio 1971-1972, per poi crollare nel 1973, mentre le lunghe discussioni sull’opportunità di creare una fondazione nazionale per le scienze sociali avevano ispirato ripensamenti e conflitti a proposito delle analogie e delle relazioni tra scienze sociali e naturali. La nascita di una rivista ufficiale dell’ASA dedicata a discutere i problemi della professione può essere considerata come un segno evidente della crescita della sociologia americana e dei suoi problemi, nonché un perfetto punto d’osservazione retrospettivo50. Il primo numero dell’«American Sociologist» venne pubblicato solo tre anni prima del 1968. Editoriale dopo editoriale, il fondatore e primo direttore della rivista, Talcott Parsons, perorava appassionatamente la definizione di standard disciplinari chiari e restrittivi, fondati su un’etica professionale ispirata alla Wertfreheit weberiana. Al tempo stesso, gli articoli di ricerca pubblicati sull’«American Sociologist» mostravano un campo assai eterogeneo. Da una parte, la crescita e la differenziazione della disciplina venivano confermate da vari indicatori51. Dall’altra, i sociologi si interrogavano preoc49 Vedi N.J. Smelser e J.A. Davis, Sociology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1989, pp. 129-137; L.S. Lewis, On Subjective and Objective Rankings in Sociology Departments, in «The American Sociologist», 3, 1968, pp. 129-131; W.E. Solomon, Correlates of Prestige Ranking of Graduate Programs in Sociology, in «The American Sociologist», 7, 1972, pp. 13-14. 50 Steven Shapin (The Scientific Life, cit.) ha estratto la visione del mondo e l’autorappresentazione degli scienziati impegnati nella ricerca industriale da pubblicazioni professionali. In questo senso, «The American Sociologist» è molto interessante perché pubblicava (e pubblica ancor oggi) articoli di ricerca sulla sociologia americana insieme a opinioni informate su di essa. Possiamo cioè considerarla come una sorta di riflessione continua sullo stato della disciplina. 51 Vedi per esempio M.J. Oromaner, The Most Cited Sociologists, in «The American Sociologist», 3, 1968, pp. 124-126; J.S. Brown e B.G. Gilmartin, Sociology Today:

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cupati sull’effettivo rispetto degli standard scientifici da parte dei colleghi, sullo scarso prestigio della disciplina e sulla mancanza di uno schema teorico unificato. Si trattava di un intenso e instancabile lavoro di definizione: le vittorie della disciplina erano troppo recenti e i sociologi erano particolarmente motivati a esplorare e proteggere i propri confini52. Uno dei temi più discussi era lo statuto scientifico della sociologia, con articoli equamente divisi tra i sostenitori e i detrattori del naturalismo. Gli articoli di ricerca mostravano alcune delle strategie usate dai sociologi per “apparire scientifici” e mettevano in luce l’esistenza di culture diverse nella valutazione dell’eccellenza nelle scienze sociali e naturali53. Parsons stesso si era fatto portabandiera di una sociologia pienamente scientifica, anche se non empiristica. Dopo i convegni annuali dell’ASA del 1967 e del 1968, gran parte del dibattito si spostò sull’impegno politico e sul ruolo pubblico dei sociologi. Con l’affermarsi della “sociologia radicale”, i sociologi più “anziani” come Parsons, William A. Gamson e Peter L. Berger cominciarono a dirsi preoccupati per il destino della sociologia scientifica54. Non sorprende che le intense discussioni incoraggiasLacunae, Emphases, and Surfeits, in «The American Sociologist», 4, 1969, pp. 283290. 52 Vedi almeno E.T. Lightfield, Output and Recognition of Sociologists, in «The American Sociologist», 6, 1971, pp. 128-133; E. Sibley, Scientific Sociology at Bay?, in «The American Sociologist», 6 (supplement), 1971, pp. 13-17; J.H. Hopper, Salaries of Sociologists 1966, in «The American Sociologist», 2, 1967, pp. 151-154; L.S. Dudley and A.P. Garbin, The Prestige of Sociology Compared to Other College Majors, in «The American Sociologist», 7, 1972, pp. 7-8. Tra i più critici si vedano R. Nisbet, Sociological Identity, e I. Wallerstein, There Is No Such Thing as Sociology, entrambi in «The American Sociologist», 6, 1971. 53 Vedi A.N. Maris van Blooderen, Of Sociology and Science, e H. Gamberg, Science and Scientism: The State of Sociology, entrambi in «The American Sociologist», 4, 1969; J.L. McCartney, On Being Scientific: Changing Styles of Presentation of Sociological Research, e J.M. Chase, Normative Criteria for Scientific Publication, entrambi in «The American Sociologist», 5, 1970. 54 Per alcuni esempi di diverso orientamento vedi già M.R. Stein e A.L. Vidich (eds.), Sociology on Trial, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1963; D.J. Colfax e J.L. Roach (eds.), Radical Sociology, Basic Books, New York, 1971; A. Sica e S. Turner (eds.), The Disobedient Generation, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2005; P.

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sero un inedito interesse per la “sociologia della sociologia”: nell’arco di pochi mesi vennero pubblicati The Coming Crisis of Western Sociology di Alvin W. Gouldner, A Sociology of Sociology di Robert Friedrichs, e le due antologie The Phenomenon of Sociology e The Sociology of Sociology55. Data la situazione, gli attacchi provenienti dallo IAS evocavano alcuni dei problemi che i sociologi stavano discutendo animatamente. Il fatto stesso che Bellah facesse parte dell’ambiente parsonsiano – che nel 1973 si trovava assediato già da qualche anno – non fece che accrescere la sensibilità e il disagio degli osservatori. Sentiamo l’eco dell’endemico stato di incertezza nel quale versava la sociologia nelle parole del primo sociologo intervenuto pubblicamente nell’affaire Bellah, Norman F. Washburne. In una lettera pubblicata dal NYT il 3 marzo 1973, il professore di Rutgers descrisse Bellah come la vittima della pretesa dei professori capeggiati da André Weil di giudicare senza avere le competenze per farlo. Di certo Weil non aveva «mai dovuto subire l’affronto di avere le sue opere giudicate da sociologi, poiché noi ammettiamo tranquillamente di non essere competenti a farlo». Il punto, tuttavia, aveva solo in parte a che fare con la sovranità disciplinare. Washburne sosteneva anche che Weil e Gödel stavano applicando uno standard sbagliato: se i professori dello IAS dovevano essere “indiscutibili”, allora non esistevano sociologi adeguati al ruolo, in quanto un buon lavoro sociologico era per sua natura controverso. Nel richiamare la norma della contestualizzazione cognitiva56, Washburne stava dando voce a un sentimento Bart, The Role of the Sociologist on Public Issues, in «The American Sociologist», 5, 1970, pp. 339-344; P.L. Berger, Sociology and Freedom, in «The American Sociologist», 6, 1971, pp. 1-5; W.A. Gamson, Sociology’s Children of Affluence, in «The American Sociologist», 3, 1968, pp. 286-288. 55 A.W. Gouldner, La crisi della sociologia, Il Mulino, Bologna, 1972; R.W. Friedrichs, A Sociology of Sociology, The Free Press, New York, 1970; E.A. Tiryakian (ed.), The Phenomenon of Sociology, Appleton-Century-Crofts, New York, 1970; P. Halmos (ed.), The Sociology of Sociology, University of Keele Press, Keele, 1970. 56 N.F. Washburne, Letter to the Editor, in «The New York Times», 13 marzo1973. Vedi anche M. White, Letter, cit., e per un commento sui diversi standard di valutazione T. Gieryn, Cultural Boundaries of Science, cit., pp. 81-82 e pp. 105-107.

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diffuso; per fare un esempio, un articolo aveva riportato le seguenti parole di Edwin Reischauer: «L’opera di Bellah è molto significativa, e chi non fa parte del suo campo non è in grado di apprezzare ciò che lui fa»57. Il 12 marzo 1973 la celebre sociologa femminista Jessie Barnard scrisse a «Footnotes», l’organo interno dell’ASA, sollecitando una presa di posizione pubblica a difesa di Bellah con un argomento ormai familiare: «Se i colleghi di Bellah ritengono che il suo lavoro sia straordinario, ciò dovrebbe bastare. Di sicuro il giudizio dei matematici non deve avere altrettanto peso»58.

Il superamento dell’affaire Bellah A questo punto l’episodio, rapidamente e semplicemente, cadde nell’oblio. Dati i toni e l’eccitazione dello scontro, l’improvvisa chiusura dell’affaire e l’effetto positivo che essa ebbe sulla reputazione di Bellah vanno spiegati. Prima di proporre una ipotesi esplicativa fondata su una concezione costruttivista della reputazione vorrei escludere come fattore causale un evento tragico e inatteso. Il 12 aprile 1973 la figlia maggiore di Bellah, Thomasin (Tammy), si suicidò59. Insieme alla sua famiglia, Robert Bellah decise di dimettersi per tornare a Berkeley. Sebbene non sia possibile escludere che la tragedia abbia placato gli animi e moderato i comportamenti della maggioranza dissidente, lo spazio dedicato a Bellah negli articoli di Shenker sul NYT era già crollato dal 75% del primo articolo al 5% del terzo, pubblicato il 25 marzo 1973. Inoltre, come dimostra il quarto articolo di Shenker sul NYT, la maggioranza dissidente non aveva alcuna intenzione di chiudere lo scontro con Kaysen: come af57

S.f., Membership Dispute Divides Institute for Advanced Study, cit. Lettera di J. Bernard al direttore di «Footnotes», 12 marzo 1973 (RKMP). La lettera venne poi pubblicata in maggio: J. Bernard, Support Robert Bellah, in «Footnotes», 1, 1973, p. 2. 59 La moglie di Bellah, Melanie, ha scritto un libro sulla figlia: M. Bellah, Tammy, Aten Press, Berkeley, 1999. 58

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fermò Borel, “siamo più uniti che mai, e abbiamo appena cominciato a lottare”60. Come ho anticipato, la mia ipotesi è che la costellazione simbolica e interpretativa emersa dallo scontro in pubblico avesse creato un interesse diffuso a chiudere e dimenticare quanto prima l’intero affaire Bellah. In uno dei suoi pochi, e assai miti, interventi pubblici, Bellah descrisse lo IAS come “un posto strano”, in cui mancavano “le normali frizioni che servono a rilasciare l’aggressività”. Bellah non era l’unico a pensarla così. Se Shenker aveva descritto l’Istituto come “una istituzione di ricerca di livello ineguagliabile”, citando i nomi di Einstein e Oppenheimer, un articolo anonimo su «Time Magazine» aveva assunto una posizione più ambivalente. Negli ultimi anni si erano sviluppate forti tensioni tra i matematici e gli umanisti e i primi avevano addirittura suggerito di liberare spazio in biblioteca eliminando i libri più vecchi di 25 anni. La nomina di Bellah «aveva sollevato quella particolare combinazione di rabbia incandescente e piccineria di cui sono a volte capaci i grandi intelletti»61. Il giornalista di «Newsweek» Jerrold K. Footlick descrisse lo scontro come “incredibilmente meschino”, sottolineando al contempo che comportamenti del genere “non sono rari nell’accademia”. Deborah Shapley intitolò il suo articolo per «Science» Einstein è difficile da imitare e parlò di una “guerra aperta fra tribù accademiche”, riportando lo stupore di Robert Solow, membro del Consiglio di amministrazione, di fronte ai toni degli interventi della maggioranza dissidente e la dichiarazione di un anonimo membro permanente: “Non ho idea di chi potrebbe gestire questo posto”. Chapman raccontò come matematici di fama mondiale evitassero la caffetteria dell’Istituto per evitare Bellah, Geertz e Kaysen62. La seconda on60

I. Shenker, Embattled Director of Institute In Princeton Vows to Stay On, cit. S.f., Kaysen Cancels Kennedy School Godkin Series, in «The Harvard Crimson», 9 marzo 1973; s.f., Ivory Tower Tempest, cit. 62 J.K. Footlick, Thunderbolts on Olympus, cit.; D. Shapley, Institute For Advanced Study: Einstein Is a Hard Act to Follow, cit.; W. Chapman, The Battle of Princeton, 1973, cit. 61

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data di articoli descriveva lo IAS come un turbolento gruppuscolo di primedonne. Altrove, però, si sospettava che l’affaire Bellah non fosse riducibile a una semplice “guerra tra bande accademiche”. Come scrisse il noto storico C. Vann Woodward in una lettera pubblicata sul NYT il 13 marzo, alcuni dei membri dello IAS avevano passato alla stampa giudizi riservati su Robert Bellah. Poiché «l’intero sistema delle nomine e delle promozioni accademiche [dipendeva] dalla franchezza di tali lettere», la difesa della riservatezza era uno dei principi di base dell’etichetta accademica63. Bellah definì “spregevole” l’episodio e il membro del Consiglio J. Richardson Dilworth, presidente della commissione interna, si dichiarò “sbigottito”64. Questo tipo di giudizi contribuì a creare un’immagine assai più terrena dello IAS e dei suoi professori, un’immagine che metteva in dubbio la definizione di sé – i guardiani disinteressati della scienza – che la maggioranza dissidente aveva cercato di proiettare. Questi grandi studiosi si rivelavano fin troppo umani e le loro affermazioni non andavano prese alla lettera. Il terzo articolo di Shenker sul NYT, in effetti, suggeriva che la situazione era sfuggita di mano – i lettori del NYT lessero infatti che «i presenti all’incontro [tra Consiglio e professori del 24 marzo] si sono promessi reciprocamente di non rivelare nulla di quanto si erano detti»65. La violazione della riservatezza accademica era stata stigmatizzata da più parti e aveva contribuito all’emergere di una definizione della situazione in cui Bellah appariva come una sorta di capro espiatorio la cui reputazione era stata ingiustamente messa

63 C.V. Woodward, Letter to the Editor, in «The New York Times», 13 marzo 1973. Nella sua lettera Woodward tracciava una analogia tra i membri permanenti dello IAS e gli studenti che avevano occupato gli uffici del presidente di Harvard nel 1969, un episodio che White avrebbe raccontato con grande fastidio in A Philosopher’s Story. 64 I. Shenker, Institute for Advanced Learning Meets to Resolve Governance, in «The New York Times», 25 marzo, 1973. 65 Ibidem.

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in pericolo. La maggioranza dissidente appariva bramosa di potere e risorse accademiche: L’episodio riguarda solo parzialmente le capacità [di Bellah] come studioso: la questione più ampia è chi deciderà del futuro dell’Istituto.

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Si sospetta da più parti che molti dei professori, soprattutto gli storici e i matematici, considerino le scienze sociali come un campo “molle” e poco preciso, che non merita di stare all’Istituto66.

Per bloccare il processo di costituzione di una nuova scuola, la maggioranza aveva fatto ricorso a un comportamento inconsueto e censurabile, che minacciava di distruggere quello stesso sistema scientifico che, a parole, tutti consideravano patrimonio comune. Sebbene Morton White abbia scritto che non si è mai saputo chi abbia passato a Shenker le informazioni riservate sulla selezione di Bellah, nella primavera del 1973 il gesto venne attribuito ai membri permanenti; la maggior parte degli osservatori, soprattutto tra gli scienziati sociali e gli umanisti, sposava di fatto la versione dei sostenitori di Bellah67. 66 Le due citazioni provengono rispettivamente da s.f., Kaysen Cancels Kennedy School Godkin Series, cit., e J.K. Footlick, Thunderbolts on Olympus, cit. 67 Ovviamente è impossibile valutare oggi l’impatto della contrapposizione allo IAS sul pubblico del tempo. In una serie di comunicazioni personali, Rabinow, Siegel, Moodie, Zolberg e Kessler (vedi nota 12) hanno confermato quanto ho scritto sui sociologi e la loro definizione della situazione. Questa è rimasta l’interpretazione standard dell’episodio: anche lasciando da parte i racconti dei protagonisti (oltre ai testi di Geertz e White, voglio ricordare C. Kaysen, Report of the Director 1966-1976, cit.), l’articolo scritto dallo storico della matematica e filosofo Joong Fang (“J’Accuse…” A Politics of Mathematics, in «Philosophia Mathematica», 12, 1975, pp. 124-148) e il libro di Ed Regis, Chi si è seduto sulla sedia di Einstein?, cit., criticavano la hubris dei matematici e degli storici e la loro pretesa di giudicare un sociologo. In un profilo di Bellah pubblicato su «Psychology Today», il “selvaggio attacco” venne attribuito al fatto che «gli scienziati “duri”, un tempo sommi sacerdoti della vita occidentale, si sentono sempre più minacciati dalle scienze “molli” che studiano l’uomo». Vedi S. Keen e T.G. Harris,

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Tale definizione della situazione venne in qualche modo “chiusa” da Irving L. Horowitz in un articolo pubblicato nel fascicolo di «Change» dell’ottobre 1973. Docente alla Rutgers University, Horowitz era stato descritto da «Time Magazine» come uno dei più importanti “sociologi radicali”, impegnato a rimodellare l’immagine pubblica del sociologo, fino ad allora visto come uno studioso “esoterico, oscuro, esclusivo ed elusivo”68. La sua versione dei fatti aveva dunque un peso maggiore di quella di Parsons: se era ovvio che quest’ultimo accorresse in aiuto di Bellah e Geertz, la difesa di un nemico dichiarato giungeva del tutto inattesa. L’intervento di Horowitz citava rapidamente gli articoli del NYT e le lotte interne allo IAS e proponeva una descrizione più raffinata (e, non sorprendentemente, conflittuale) del campo sociologico. Da una parte, Horowitz “rivelava” al pubblico dei non sociologi che i sostenitori di Bellah provenivano dall’«ala funzional-strutturalista della disciplina […] che per molti anni ha dominato la sociologia». Merton, Shils e Parsons, tre dei più importanti portabandiera di questo approccio, erano abituati “a fare e disfare nomine e promozioni a piacere” e avevano visto la bocciatura di Bellah come un affronto personale – Horowitz suggeriva che ciò poteva spiegare anche la pervicacia di Kaysen nel perseguire il proprio disegno. Dall’altra parte, nella sua abissale ignoranza della struttura e delle dinamiche del campo sociologico, la maggioranza dissidente aveva mirato al bersaglio sbagliato – i saggi autobiografici di Bellah e i suoi scritti sulla religione civile. Horowitz interpretava dunque l’episodio allo IAS come «un attacco della destra a un professore californiano moderatamente vicino alla controcultura», un attacco peraltro del tutto ingiustificato. SintetizThe Elegance of Math Can’t Measure the Rich Record of Human Belief, in «Psychology Today», 9, 1976, pp. 60-63. 68 Sebbene l’articolo non citasse espressamente Parsons, il lettore interessato avrebbe facilmente riconosciuto la prosa della Immaginazione sociologica di C. Wright Mills (Il Saggiatore, Milano, 1962), un volume assai critico verso il maestro di Bellah. Vedi s.f., The New Sociology, in «Time Magazine», January 5, 1970, e I.L. Horowitz, Professing Sociology, Aldine Publishing Company, Chicago, 1968.

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zando le idee di Bellah sulla religione civile, Horowitz lo descrisse come “acuto e sensibile” e ne lodò la serietà e la profondità:

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Con tutto quello che possiamo dire della posizione di Bellah – il suo quadro teorico antisecolare e, oltre a ciò, il suo tentativo di negare qualsivoglia spiegazione naturalistica del sistema sociale americano, – di sicuro essa a poco a che fare con l’oscurantismo o il semplicismo che le attribuiscono i detrattori all’interno della sezione storica dell’Istituto. Il suo vigoroso e muscolare protestantesimo è inconsueto, ma non è irrazionale né difficile da comprendere69.

Secondo Horowitz, i membri della maggioranza dissidente erano talmente in torto da non sapere neanche quando e perché avevano ragione. Anche Carl Kaysen ricevette la sua parte di giudizi negativi70. Venne dipinto come un “uomo brusco e invecchiato”, che aveva fatto ricorso “alla lettera della legge” solo per promuovere i propri interessi, impegnato a trattare su più tavoli e a cospirare contro i professori, un politicante di Washington che disprezzava i membri permanenti dello IAS71. Inizialmente, i dissidenti avevano cercato di mettere in dubbio la sua capacità di giudizio utilizzando la nomina di Bellah come prova stessa della sua incompetenza. Via via che la controversia si faceva incandescente, la maggioranza mise in dubbio la nomina dello stesso Kaysen, dicendo che il mandato di creare la School of Social Sciences nasceva da un processo decisionale ambi69 Va ricordato che, a parte i due memorandum di White (rimasti inediti), nessuno dei membri permanenti dello IAS aveva rivolto critiche specifiche a Bellah. Horowitz non era l’unico commentatore a suggerire che il target principale dell’attacco fosse la religione civile americana: vedi S.S. Hill, Review of Beyond Belief, in «Journal of the American Academy of Religion», 41, 1973, pp. 447-450, e T. Parsons, The Bellah Case. Man and God in Princeton, New Jersey, cit., ma anche A. Weil, Scientists & Religion. Letter to the Editor, in «Commonweal», 98, 1973, pp. 323 e 343. 70 Al contrario, nessuno mise in dubbio la correttezza e la capacità di giudizio di Geertz. 71 S.f., Ivory Tower Tempest, cit.; I. Shenker, At Institute for Advanced Study, Opposing Sides Dig In for Fight, cit.; W. Chapman, The Battle of Princeton, 1973, cit.

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guo e poco chiaro72. In privato Kaysen si era confrontato duramente con Robert K. Merton subito dopo il primo articolo sul NYT. Merton era stato contattato da André Weil, che gli aveva suggerito di prendere le misure necessarie per difendere il proprio nome e la propria reputazione dopo che questi erano stati utilizzati “impropriamente” dalla stampa73. Prima di rispondere a Weil, Merton chiamò Kaysen per avere dei chiarimenti. Merton sosteneva non solo che i suoi giudizi riservati erano stati diffusi alla stampa, ma anche che erano stati tagliati, e dunque travisati, dando l’impressione che Merton sostenesse pienamente Bellah, laddove la lettera era stata “scritta con grande attenzione” per esprimere alcune riserve. Merton voleva essere certo che in futuro nessuno utilizzasse la sua lettera distorcendone il significato. Neanche l’appello rivoltogli da Kaysen in difesa delle scienze sociali servì a tranquillizzare Merton circa la propria reputazione74. Alla fine Kaysen era stato criticato dalla stampa e da almeno uno dei suoi più preziosi e stimati alleati. Altri, tra cui Shils75, espressero in privato le proprie riserve sul suo comportamento. Questo esito simbolico, in combinazione con la decisione del Consiglio di amministrazione di accettare la richiesta di riforma della governance dello IAS proposta dai membri permanenti, creò un intresse diffuso a dimenticare velocemente l’accaduto. Nel quarto articolo di Shenker sul NYT, l’episodio venne ridimensionato come uno dei passaggi di un più ampio e antico dissidio tra i professori e Carl Kaysen. Non si faceva menzione né della pubblicazione delle informazioni confidenziali da parte della stampa né della discussione più generale. Dall’altro lato della barricata, Bellah e i suoi soste72 D. Shapley, Institute For Advanced Study: Einstein Is a Hard Act to Follow, cit., p. 1211. 73 Lettera di A. Weil a R.K. Merton, 3 marzo 1973 (RKMP). Merton ricevette anche da George D. Rostow la lettera di protesta che cinque importanti matematici di Yale avevano spedito a Kaysen. 74 Trascrizione di una telefonata tra C. Kaysen e R.K. Merton, 5 marzo 1973 (RKMP). La lettera di Merton è stata pubblicata a cura di chi scrive su «The American Sociologist», 42, 2010. 75 Vedi lettera di E. Shils a R.K. Merton, 29 maggio 1973 (RKMP).

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nitori auspicavano che l’episodio si chiudesse quanto prima. La loro definizione della situazione si era imposta e la reputazione di Bellah era, almeno nei circoli rilevanti, al sicuro. La professione sociologica aveva respinto un attacco disciplinare da parte di un gruppo di scienziati “duri” e aveva affermato il proprio diritto di essere considerata un campo di studi autonomo e differenziato. Nel 1974 Albert O. Hirschman venne nominato membro permanente della School of Social Sciences senza discussioni da parte degli altri professori76. Dopo un prolungato silenzio pubblico dovuto a ragioni personali, Bellah riprese la sua carriera intellettuale conservando la propria centralità nei dibattiti su politica, religione e teoria sociologica fino a quando la pubblicazione di Habits of the Heart nel 1985 lo consacrò come intellettuale pubblico77. A quel punto, però, dell’affaire Bellah non rimanevano tracce.

76 Il breve articolo pubblicato dal NYT per commentare la nomina diceva che «di fronte all’opposizione dei membri permanenti, che avevano messo in dubbio le sue capacità intellettuali, il professor Bellah aveva chiesto di ritirare la nomina». Vedi s.f., Institute Appoints Harvard Economist, in «The New York Times», 29 aprile 1974. 77 Vedi almeno R.A. Posner, Public Intellectuals, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2001; H.J. Gans, More of Us Should Become Public Sociologists, in «Footonotes», 30, July/August 2002; A. Wolfe et al., One of Sociology’s Most Influential Scholars, in «The Chronicle of Higher Education», 52, 2006, 10. Sul tema vedi M. Burawoy, Per la sociologia pubblica, in «Sociologica», 1, 2007.

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