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Italian Pages [128] Year 1939
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in dal suo soi^ere l’Istituto di Studi Romani, ubbi dendo aU’ordine del Duce : t andare verso il popo F lo », ha sviluppato accanto all’opera dì pura ricerca scien tifica e di metodica organizzazione, varie e molteplici forme di alta divulgazione scientifica. Sulla stessa linea programmatica, per mettere sempre più il popolo a diretto contatto con l’alta cultura e per estendere sempre più negli Italiani la coscienza di ciò che Roma rappresenta nel patrimonio spirituale della Nazione, l’ Istituto di Studi Romani ha promosso, d ’intesa con l’Opera Nazionale Dopolavoro, la pubblicazione di una collana di volumetti illustranti vari aspetti della civiltà romana, tutti affidati a studiosi che sono vanto della scien za italiana. L’Opera Nazionale Dopolavoro diffonderà queste agili e brevi monografie attraverso la sua poderosa organizza zione ; cosi che attraverso l'opera associata di due Istitu zioni del Regime l’idea di Roma penetri sempre più nella mente e nel cuore del popolo italiano. Ecco la prima serie dei volumetti : Roberto
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L 'a rte in Roma dalle origini ai giorni nòstri
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Roma dalla Guerra mondiale al nuovo Impero
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L’ IMPERO DI ROMA Il nucleo sparuto di po'chi pastori e agricoltori, die scelse a propria sede un colle sorgente in mezzo a bassure acquitrinose non lungi dal Tevere, e che dalla dea dei pascoli Pales lo chiamò Palatino, non pensava certo a crearsi un impero. V iveva esso in angusta pentiria, stretto tutto intorno da popolazioni aliene e diverse, talune forse an che per stirpe e certo per linguaggio, come g li Etruschi, una cui città ricca e popolosa, V eio, era a meno di venti chilometri dal Pala tino. E tutti questi vicini furono a quel nuovo piccolo popolo fiera mente ostili, sì che esso dovette duramente e lungamente combattere per non essere schiacciato e distrutto. Lavoratore ostinato e instanca bile di una terra di modesta feracità, coperta di recenti deiezioni vul caniche, torpida di acque stagnanti, quei suoi scarsi beni difese con accanita tenacia, e quando per la sana, fresca, pura vigoria della stirpe si accrebbe di prole numerosa, dovette per essa cercare meno angu sti confini, 0 quanto meno dalla poca terra posseduta allontanare minacciosi vicini. Ma se fu a questo fine necessario ricorrere alle armi, sempre il popolo romano le impugnò persuaso di aver ragione di impugnarle. Che nessun altro popolo al mondo ebbe più profondo e più vivo il culto del giusto e dell’equo, nessuno tra i popoli vissuti prima del cri stianesimo si forgiò una religione, pur nella sua scabra nudità, più ele vata e più sana, nessuno ebbe più solido e più vivace il senso della fa miglia. Nessuno pertanto aveva congiunto più strettamente del popolo romano il concetto della guerra, del supremo discrimine degli avveni menti umani, con queUo della giustizia e della fede alla parola data, onde solo presso i Romani si parla 'di bellum iustum, pium, aequum, necessarium (guerra giusta, pia, equa, necessaria). E se le azioni guerresche i Romani condussero con virile energia, se non perdona rono chi aveva mancato alla fede data, furono generosi coi vinti, v i dero sempre nel nemico di oggi il possibile amico e socio di domani.
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Profondamente errato perciò ii concetto di considerare il popolo romano come un popolo assetato di conquiste, inebriato di spirito guerriero, di null’altro desideroso che di marciare con la spada alla mano e di imporre con la violenza il proprio dominio. Quando le guerre hanno portato il popolo romano all’acquisto di nuovi territorii e all’assoggettamento di genti estranee, due sentimenti si sono costan temente destati nel suo spirito : alla terra il massimo del lavoro, agli uomini il massimo della libertà e del benessere conciliabili con la sicurezza. Per questi suoi caratteri di saggezza, di onestà, di dirittura l’impero che Roma costituì fu di tutti g li imperi il più vasto, il più saldo, il più durevole, il più benefico. Esporre come esso venne a formarsi con paziente lentezza d ap prima, con rapido moto in seguito, sarà compito d i altri in questa serie di volumi. E non si mancherà di narrare, come nell’ultimo secolo della repubblica l’insufficienza delle istituzioni statali affatto inade guate ai grandiosi successi militari e alle larghe conquiste, e più ancora le enormi prede, il contagio di civiltà più antiche e più evolute, ma moralmente scadute e pervertite, minacciarono di travolgere le antiche virtù romane, e furon causa di gravi squilibri! economici e di lotte civili combattute con atroce accanimento. In esse fu quasi per naufra gare il mondo romano, vana essendosi dimostrata la energica azione riordinatrice di Siila, e troppo presto stroncata dal pugnale dei con giurati quella iniziata d al genio di Cesare. Ora la storia dell età imperiale di Roma che io debbo trattare non è soltanto poco nota tra noi, ma è nota sotto luci e punti di vista assolutamente fallaci. L e vie che il pensiero filosofico e politico seguì negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primissimi del pre sente, non erano favorevoli a una adeguata comprensione del valore di Roma, meno che mai dell’impero di Roma nella storia del mondo. I dotti non vollero vedere nei Romani altro che pedestri e grossolani imitatori delle virtù dei Greci, e nel loro impero una mostruosa tiran nia imposta a tutto il mondo con la violenza delle armi e tenuta in piedi con la forza dura e spietata di ferree leggi per sfruttare a be neficio di pochi oziosi le risorse economiche delle province. Per gran parte dell’opinione pubblica la storia dell’impero è d ^ d e n z a . Con la fine delle guerre puniche e con le conquiste d’A sia Minore comincia la corruzione. Catone è l ’ultimo onest’uomo che tenta inutilmente di opporsi a l dilagante mal costume, e poi fino alla caduta dell’im pero i Romani oziano nelle Terme, si ficcano le dita in gola per pro lungare le cene oltre la sazietà, si pigliano mostruosi e feroci di vertimenti n d l’Anfiteatro o nel Circo, opprimono schiavi, torturano
L ’IM PERO DI ROMA
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€ ammazzano cristiani. Nerone e Caracalla sono assai meglio cono sciuti di Vespasiano e di Antonino Pio. Naturalmente con queste concezioni rimangono alcune incognite d a spiegare. Come mai questo dilagare di forza bruta ebbe risultati così ampii e durevoli? Come essa riuscì a raggiungere e ad assicurare per secoli quella unità e quella pace di tutto il mondo conosciuto, che non era mai stata raggiunta prima, e non fu mai più raggiunta dopo? Come mai tante diverse genti furono liete e fi-ere di dirsi romane, e come per dieci secoli dopo la caduta dell’Impero popoli e pensatori ne invo carono appassionatamente il ritorno, e ne venerarono la memoria? Come mai, se a Roma non si faceva altro che oziare e gozzovigliare, come mai in tutto il mondo romano si svolgeva il più vasto e fervido lavoro, che la storia umana abbia mai veduto, sì che dovunque dalle nevi della rScozia ai torridi deserti di Siria e Mesopotamia ne son vive e meravigliose e incredibilmente numerose le tracce? E d era possibile, che sorgesse nelle pause di un’orgia continuata, d a intelligenze e da cuori abbrutiti dalla crapula, l’edifi.cio portentoso del diritto romano, dello stato romano, delle romane idealità politiche e sociali, sulle quali si fondano ancora gli ordinamenti civili d i ogni paese e i cardini della civiltà stessa del mondo ? Insomma, se le marce d i tanti altri popoli conquistatori non hanno lasciato dietro di sè che una rovinosa e vuota sterilità, a che cosa mai è dovuta questa onni presenza di Roma nella storia del mondo, a che cosa è dovuta la universalità e la perpetuità del pensiero e dello spirito di Roma? Occorre ripensare di nuovo, qual veramente fu questa storia di Roma, storia tanto ardua e travagliata e faticosa da raggiungere più i vertici del prodigio, che non il normale andamento delle umane cose. Occorre rendere giustizia a questa serie di Cesari, non adunata di paranoici e di delinquenti con qualche rara eccezione di persone per bene, ma schiera di uomini che in generale ebbero per lo meno il senso del proprio dovere e delle proprie enormi responsabilità. Basterà accen nare alle cifre: quattro imperatori uccisi in combattimento contro i nemici esterni dell’Impero, una decina a cominciare dallo stesso A ugu sto feriti in battaglia, sette morti in campagna per le fatiche di gra vose spedizioni. Il Fascismo, restauratore possente di ogni gloria d ’Italia, ha su perato d’un balzo queste vecchie mentalità antiromane, e sente ed esal ta la romanità e l’impeto, ma anche esso ha necessità di rafforzare l’intuizione generosa con la profondità d i un ripensamento, di un rinnovamento culturale.
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AUGUSTO E I SUOI PRIMI SUCCESSORI Caio Ottavio, il giovane diciottenne che il testamento del prozio Giulio Cesare adottava quale figlio, accettava animosamente la grave eredità dell’ucciso, e in un anno riusciva a porsi a capo di forti e affezionati eserciti, a imporre la propria elezione a console, a far attri buire a sè e ad altri due Cesariani : Antonio e Lepido una magistratura straordinaria con poteri assoluti per la completa riforma dello stato. Non mai forse nella storia del mondo abilità di uomo di stato si era affermata con più portentoso successo e in più immatura età. Le pro scrizioni e la duplice battaglia di Filippi annientarono quanto era rimasto del partito repubblicano. Seguirono’non pochi anni difficili e duri ; deposto l’incapace Lepido, i poteri assoluti del triunvirato erano rimasti a Ottaviano e Antonio che li esercitavano l’uno in Occidente, 1 altro in Oriente. E ra naturale, che Antonio, più maturo di anni, piu esperto uomo d ’armi, posto a capo delle province più ricche e più civili del territorio romano, sentisse la superiorità sua e della sua parte, e non è necessario ricorrere alla sola spiegazione sentimentale della passione per la regina d’Egitto Cleopatra. E d è naturale anche, che quando la grande spedizione di Antonio contro i P arti si chiuse con esito .disastroso, sempre più Antonio abbia dovuto stringersi all’Egitto, donde all’esercito romano in penosa ritirata, e alla provincia minacciata di Siria potevano venire gli aiuti più pronti e più vicini. E Cleopatra che con arti femminili ma con virile animo difendeva gli interessi della propria dinastia, sapeva farsi pagare tali aiuti anche a scapito dello stato romano. Tanto audaci divennero i maneggi della regina, e così grave il pericolo di un prevalere dell’Oriente sull’Occidente, che fu fa d le a Ottaviano ottenere dal senato e dal popolo romano la dichiarazione
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di guerra a Cleopatra. E tutta l’Italia e l’Occidente si legò quasi con solenne giuramento militare al giovane vindice dei diritti di Roma contro le insidie degli orientali. Guerra a Cleopatra, non ad Antonio, il quale era pur sempre un magistrato romano, punibile, se aveva pre varicato, con le leggi dello stato, e non perseguibile con una guerra. Dovere di lui sarebbe ora stato abbandonare la donna e prendere il suo posto nei ranghi della patria in armi. Non lo fece, e si pose perciò nella condizione moralmente e giuridicamente peggiore. E come per una fatale connessione di eventi egli, il capitano abile e valente, con dusse fiacco e svogliato la guerra, nè lo secondò Cleopatra, alla quale solo una cosa importava : salvare il proprio regno, non marciare su Roma. Due grandi eserciti e due grandi flotte si trovarono di fronte intorno al golfo di Ambracia e al promontorio di Azio. Ma gli eserciti non combatterono, e le navi di Antonio tentarono più che una bat taglia un’evasione, riuscita male anch’essa. Ritiratasi senza combat tere la flotta egiziana, Antonio segui la regina, e i suoi abbandonati dal proprio comandante si arresero a Ottaviano (2 settembre del 31 a. C.). L a battaglia di A zio aveva rivelato un cosi grave scadimento delle virtù militari e dello spirito g ià alacre e animoso di Antonio, che Ottaviano non ritenne necessario far seguire aUa vittoria un imme diato inseguimento. Il poderoso esercito che aveva da terra potuto vedere tutto lo svolgersi dello scontro navale, e che si trovò abbando nato completamente dal proprio capo, passò agli ordini di Ottaviano, il quale si preoccupò prima d’ogni altra cosa della dislocazione e delia smobilitazione della ingente massa di armati costituita dal suo esercito e da quello di Antonio. Compiuta poi una breve visita all’Italia, per la Grecia, l’A sia Minore, la Siria, Ottaviano si recò in Egitto. Non trovò nè alla frontiera d i Pelusio, nè sotto Alessandria difficoltà gravi : Antonio in preda al più profondo abbattimento passava da inutili temerità di qualche scontro di cavalleria a folli richieste di pro varsi con Ottaviano in un combattimento singolare, di ritirarsi pri vato in Atene; Cleopatra sperava col non offrir resistenza di riuscire a conservare il trono. L a fredda inaccessibilità di Ottaviano spinse l ’uno e l’altra alla disperazione e al suicidio, l’E gitto fu ridotto a provincia romana, e prestò al nuovo signore lo stesso devoto ossequio e lo stesso culto religioso che da quaranta secoli aveva professato ai propri sovrani, fossero essi nazionali 0 no.
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Il giovane che, quattordici anni innanzi aveva osato tra i rischi di un tragico momento accettare il nome e l’eredità di Giulio Cesare, era rimasto solo a capo idei vasto impero di Roma. Tanto era orribile il ricordo delle passate guerre civili e tanto lo stupore per la prodi giosa abilità dimostrata da Ottaviano, che nessimo certo pensava a volergli contrastare il passo. E gli era ancora in possesso dei poteri straordinari affidatigli come triumviro rei ■ publicae constiiuendae non solo, ma prima della guerra contro Antonio senato e popolo romano e l’Italia tutta e le province occidentali gli avevano prestato solenne giuramento di fedeltà. Ma avrebbe egli saputo rendere sicura, stabile, definitiva quella pace che poteva essere soltanto sosta d ’armi dovuta a mortale stanchezza? Avrebbe egli saputo restituire nei cittadini e nei sudditi quella fiducia nella potenza, nella giustizia, nella magna nimità di Roma, che sola poteva assicurare la tranquillità e il benes sere al mondo sconvolto e disorientato? L ’ardua prova fu superata senza scosse, senza esitaziom, con una lucida, rettilinea visione, con un’opera mirabile per serenità e per sag gezza. I primi tre anni dopo la battaglia di A zio furono impie gati a hquidare la pesante eredità delle guerre civili. L e forze armate numerosissime che erano state di fronte in quella non molto sangui nosa battaglia, rimaste tutte agh ordini di Ottaviano, dovevano per gran parte esser congedate e provvedute di quei premii che nel periodo 'della lotta erano stati loro con larghezza promessi. Non era d’altra parte possibile lasciare senza un presidio militare le frontiere verso le popolazioni non soggette e quelle stesse province non ancora del tutto tranquille all’interno. Fu necessario perciò costituire e dare stabili norme a un vero e proprio esercito permanente, concezione del tutto nuova nel mondo antico, anche in quegli stati, tra i quali in pri mo luogo Roma, che avevano avuto necessità di tener sempre in piedi più o meno grossi nuclei di armati. L ’assetto che l’esercito romano acquistò e conservò lungamente immutato nell’impero, e che espor remo in seguito, fu in tutte le sue grandi linee pensato e attuato da Ottaviano, in modo da assicurare la pace, pesando quanto meno fosse possibile sulla pubblica finanza. Risoluto questo urgente problema, un altro ne sorgeva più grave e angoscioso. D ata l’ampiezza del territorio che da Roma attendeva la tranquillità e la prosperità, ampiezza resa più smisurata dalla len-
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tazza delle comunicazioni, non era assolutamente possibile continuare a governare con la vecchia costituzione repubblicana, sufficiente appena per una città con un modesto territorio. Magistrati mutevoli ogni anno inceppati da ogni sorta di vincoli politici (collegialità in ogni ufficio con poteri uguali per ogni singolo collega, facoltà di divieti da parte dei tribuni della plebe) e religiosi (intervento di auguri, etc.) non pote vano in nessun modo nè rendersi conto delle condizioni, dei problem i, delle necessità di paesi lontani e diversi, nè conservare quella unità e quella continuità di direttive e di azione che era indispensabile per ben governare tante e tanto varie popolazioni, per conservare rela zioni di buon vicinato o imporre rispetto a tanti confinanti. Tanto erano insufficienti a queste inderogabili necessità le magistrature ordi narie, che aveva dovuto sostituirsi a loro il senato. Esso durante gli ultimi secoli della repubblica aveva travalicato le proprie funzioni di corpo consultivo dei magistrati, ed era divenuto il vero organo di governo, del quale i magistrati erano gli strumenti. Ora però non solo questa era vera e propria usurpazione e sovvertimento di una costitu zione esistente, ma, fatto più grave, l'autorità e il prestigio dell’alto consesso, mirabilmente efficaci in determinati periodi specialmente di pericolose guerre esterne, eran venuti a scadere e a logorarsi durante le lunghe lotte civili. Non era possibile accettare senz’altro e perpetuare questa forma di governo senatorio, del quale si erano chiaramente viste le insanabili deficienze. D ’altra parte permaneva ancora possente l’avversione al governo di un solo, alla monarchia, avversione divenuta quasi un dovere religioso, giurata come era stata a Giove Ottimo Massimo dopo la cacciata dei Tarquinii. Occorreva pertanto essere da un lato innovatori radicali di sistemi di governo affatto inadeguati, e dall’altro conservatori rispettosi di forme costituzionali, alle quali il popolo romano, ligio come pctchi altri alle cose fatte dai padri, era singolarmente devoto. L ’ardua soluzione fu felicemente trovata. In una giustamente insigne seduta del senato del 13 gennaio 27 a. Cr. Ottaviano depose i poteri assoluti conferitigli col trium virato e confermatigli col giuramento di obbedienza prestatogli dal l’Italia e dalle provincie occidentali. L a res romana tornava in po tere del senato e del popolo romano. In quella seduta e nelle suc cessive il senato pregava Ottaviano di conservare il governo di quelle province non ancora perfettamente tranquille o esposte a minacce di popoli confinanti, confermava a Ottaviano i poteri e le guarentige di tribuno della plebe, e creava per lui, restauratore della pace e della
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libertà, il nuovo titolo di Augusto, santo cioè e circondato di reli giosa venerazione. L a pregiudiziale antimonarchica era così abilissimamente evitata, mentre il necessario, l’indispensabile potere di un solo era assicurato. Nulla di più repubblicanamente ortodosso nelle, apparenze, l’antica costituzione tornava intatta, come nei giorni più nostalgicamente rim pianti dai repubblicani; il popolo eleggeva ancora i suoi consoli, i pretori, i tribuni della plebe, e a nessuno di questi magistrati era tolta attribuzione o dignità veruna, al senato si chiedevano ancora pareri, e si presentavano proposte di leggi; soltanto queste antiche forme erano integrate da quanto si era manifestato indispensabile per il reggimento di un così grande stato. Augusto era un proconsole go vernatore di provincia e un tribuno della plebe della repubblica, sol tanto cumulava questi due uffici, e a ciascuno di essi era attribuita più vasta estensione. Augusto era un proconsole, ma non di una, bensì di tutte le province dell’impero non completamente tranquille, o non perfettamente assicurate nei propri confini. E non era sotto posto ai vincoli così inceppanti e dannosi della limitazione annuale del potere, e le sue province governava per mezzo di suoi luogote nenti (legati) che rispondevano a lui solo, e che egli conservava in carica per quanto tempo avesse ritenuto opportuno. E poiché solo in queste province malsicure risiedevano milizie, egli era capo di tutte le forze armate dello stato. Augusto era un tribuno della plebe, e come i tribuni della plebe repubblicani era sacro e inviolabile, e po teva presentare proposte di legge, convocare il senato e il popolo, opporre il proprio inoppugnabile e insindacabile divieto a qualunque deliberazione degli altri magistrati. Ma la sua potestà tribunicia era per l’alto prestigio della sua persona superiore a quella dei suoi col leghi tribuni della plebe, sicché poteva egli frapporre il proprio veto agli atti degli altri, non gii altri a quello di lui. Tutto il buono pertanto del potere proconsolare e del potere tribunicio, tutto il buono senza nulla di cattivo, senza la collegialità cioè e senza l’annualità. Su questi due pilastri perfettamente repubblicani del proconsolato e del tribunato della plebe riposa saldo, incrollabile l’edificio superbo, vigoroso, benefico, dell’impero di Roma. A queste così ampie facoltà si aggiunsero poi svariati altri poteri ed onori : il titolo di im p e r a tO T , comandante vittorioso cioè, che venne a far parte integrante del nome personale del principe, la concessione di racco mandare i candidati alle cariche pubbliche, e di saperli senz’altro eletti in forza d i questa raccomandazione, importantissime facoltà in
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materia religiosa, giuridica e civile per Tattribuzione del pontificato massimo e dell’augurato, ecc.
D i tutti questi così vasti poteri Augusto seppe far uso (come dice ima felice espressione di Svetonio) in modo che ninno avesse a pen tirsi di averglieli confidati. E la sua posizione di protagonista e di arbitro nella storia del mondo civile durò senza una deviazione, senza un abbandono, senza un istante di stanchezza, ininterrotta per cinquantanove anni dai diciotto ai settantasette di età. Mirabile prova di energia in un uomo fisicamente poco vigoroso, facile a contrarre gravi malattie, ma certo resistente come pochi a una somma di lavoro pauroso e schiacciante. In possesso della piena facoltà di agire era necessario ora intra prendere con tutta alacrità la vasta opera di consolidamento, di rior dinamento di quell’impero da cui il mondo attendeva la pace, la si curezza, la prosperità. S i deve principalmente alla saggezza d’Augusto, se questi beni furono potuti assicurare a! mondo per tre secoli. Trecento anni, lungo spazio non mai più raggiunto nella storia del genere umano che ha conosciuto sì la guerra dei cento anni, la guerra dei trent’anni, ma non ha mai potuto apporre un numerale altrettanto decoroso alla durata di nessuno dei suoi trattati di pace. Per assicurare la tranquillità delle province, e rendersi conto dei loro bisogni, Augusto intraprese lunghi viaggi prima in Spagna e in GalHa, poi nelle province orientali. I risultati delle sue visite furono ottimi: pacificate definitivamente le province spagnole che pel fiero e riottoso spirito degli abitanti avevano sempre dato gravi preoccu pazioni, guadagnato completamente l’ossequio leale e sincero dei Gallia, poi nelle province orientali. I risultati delle sue visite furono voli, conclusi accordi con capi di tribù germaniche e britanniche a sicura protezione dei confini gallici. Ricondotte a pacifica tranquillità le province orientali, state già per gran parte devote a Bruto e a Cassio prima, ad Antonio poi; il regno dei Parti, il più potente degli stati confinanti con l’impero di Roma, e già per due volte vittorioso degli eserciti romani di Crasso e di Antonio, fu condotto a tanto deferente amicizia, da lasciare, che su! trono di Armenia (stato cuscinetto tra la Partia e le province romane) salisse un principe cliente di Roma, e da restituire ad A u gusto le insegne militari prese alle sfortunate milizie d i Crasso e di
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Antonio. Dovunque poi con romana alacrità iniziate utili e decorose opere pubbliche, fondate città, aperte vie, muniti porti, raccolte e condotte acque. D'Italia che aveva dato a Ottaviano tutto il suo appoggio e la sua fedeltà fu premiata col divenir tutta una grande Roma, concessa alla intera penisola la cittadinanza romana, esentata perciò da tri buti, favorita nell’agricoltura, nei commerci, risanata e ripopolata nelle regioni devastate dalle guerre, insignita di nobili edifici, per più accurata vigilanza amministrativa ripartita in undici regioni (*). Roma, suddivisa anch’essa in quattordici regioni, fu rapidamente portata alla dignità urbanistica e monumentale conveniente alla sua sovrana posizione. Restaurati ottantadue antichi templi, erettine nuovi splendidissimi al D ivo -Giulio, a Marte Ultore, ad Apollo Palatino, creato un nuovo Foro, contiguo al Foro di Cesare, condotte tre nuove acque e riordinate le condotture delle altre, risanata la regione dell’Esquilino e sopra tutto con l’alacre opera di Agrippa, investito di una straordinaria magistratura edilizia, creata una serie di magnifici edifici pubblici nel Campo Marzio fino allora quasi vuoto di costru zioni. Procedendo da sud verso nord vi si incontravano costruzioni tutte augustee, il teatro di Marcello, il portico di Ottavia, i Saepta Julia e il Diribitorium (locali per le elezioni), la Basilica Neptuni, le Terme di A grippa col Pantheon, la porticus Vipsania con l'orbts picius, carta geografica dell’impero, YAra Pacis Augustae, il Sola rium, piazzale con delineazione di un orologio solare cui serviva da gnomone un obelisco portato dall’Egitto (^), e finalmente il grande mausoleo rotondo destinato a sepoltura deH’imperatore e dei suoi. A difesa contro i frequenti incendii, e a tutela dell’ordine pub blico fu istituita la milizia dei vigili: sette coorti di mille uomini ciascuna, comandate d a un praefecius vigilum. L e sette coorti ave vano ciascuna una propria caserma Jstatio) e da ogni statio dipen devano due posti di guardia {excubiioria') che venivano così a tro varsi in ciascuna delle quattordici regioni della città. ainìa; II : Apulia et Calabria; III ; Bnittii et Lucania; IV : Samnìum; V : Picemim; VI : Umbria; VII : Etruria; V ili : Cispadana; IX: Liguria (sino alle foci del Varo); X: Venetia et Histria (sino al Quamaro); XI : Transpadana. (*) E quello che ritrovato in pezzi non lungi dalla piazza di S. Lorenzo in Lucina fu da papa Pio VI eretto in piazza di Montecitorio non senza aver subito gravi danni per l ’incendio deUai baracca lignea, nella quale era stato temporaneamente riparato.
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L e province, come si è detto, vennero ad esser divise in due categorie : quelle dipendenti dal senato e quelle affidate (in via prov visoria, doveva pensarsi) all’imperatore, perchè bisognose di presidio militare. L e prime (Sicilia, Sardinia et Corsica, Gallia Narbonensis, Hispania Baetica, A frica, Creta et Cyrenae, Cyprus, Cilicia, Asia, Achaia, Macedonia) erano governate come in età repubblicana da un proconsole che durava in carica un anno, e aveva alle proprie dipen denze uno 0 più legati e un questore per l’amministrazione finanziaria. Proconsoli erano i due consoli e gli otto pretori allo scadere del loro anno di magistratura, di nomina pertanto elettiva. L e province im periali i(Gallia Lugdunensis, Aquitania, Germania Superior, Germania Inferior, Hispania Tarraconensis, Lusitania, Numidia, Syria, Galatia et Cappadocia, Moesia, Pannonia) erano affidate ciascuna a un legaius Augusti prò praetore, scelto dall’imperatore e lasciato in ca rica a tempo indeterminato, assistito anch’egli da uno o più legati, e da un procuratOT Augusti, che corrispondeva per le sue funzioni al questore delle province senatorie. L ’E gitto ebbe un governo tutto suo, più consono alle sue seco lari abitudini, fu quasi un dominio personale dell’imperatore, succes sore degli antichi Faraoni. L o rappresentava sul posto un praefectus Aegypti. Il legatus Augusti prò praetore ebbe in un primo periodo della storia deH’irapero non solo poteri amministrativi e giudiziarii, ma anche il comando delle forze militari della provincia. Erano queste abitualmente dislocate alle frontiere dell’impero; solo le capitali dei due grandi regni ellenistici : Alessandria d’E gitto e Antiochia di S i ria, centri di popolazione assai numerosa, varia di origini e turbo lenta, ebbero in immediata vicinanza il presidio di una legione. E una legione non dislocata alle frontiere esterne fu anche nella Hispa nia Tarraconensis (Spagna del nord-est).
Per tutto il resto dell’impero l’ordinamento militare fu per circa tre secoli quello stabilito da Augusto, pur s’intende con adattamenti e miglioramenti varii. Come dissi, si vide la necessità d i un esercito permanente, e si dovette dare vita e norma a questa nuova istitu zione. Asse e nucleo centrale dell’esercito rimase la legione, composta di circa seimila Uomini, cittadini romani, armati e istruiti come fanti, con pochi cavalieri per i servizi di avanscoperta, collegamenti, ecc. Le legioni tenute in piedi da Augusto dopo A zio furono poco più di
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venti. Divenuta penuzinente la istituzione, ogni legionario si impe gnava a servire per venti anni, dopo i quali aveva un congedo con premio. In linea di diritto tutti i cittadini romani erano sempre ob bligati a rispondere a una chiamata alle armi, ma in fatto la lunga durata d d servizio e la modestia degli effettivi tenuti come perma nenti faceva sì, che i vuoti si colmassero automaticamente con l’a f flusso dei volontari!. Intorno alla legione erano reparti d i truppe ausiliarie, tolte da sudditi provinciali e anche da genti d ’oltre confine: coorti di fanti e ale di cavalieri della forza di mille o di cinquecento uomini ciascu na, comandate da ufficiali romani. Il servizio nelle truppe ausiliarie durava venticinque anni. Anche per la dislocazione di queste forze e per la sistemazione delle frontiere i principi! generali che ebbero poi sempre più sapiente svolgimento, furono posti da Augusto. Fossati e palizzate, talora muraglie, munivano la linea di confine, sì che essa fosse ordinariamente valicabile solo in alcuni punti determinati. Torri di vedetta e piccoli posti sorvegliavano la linea. In posizione più ar retrata erano i piccoli accampamenti delle coorti o delle ale ausiliarie, e più indietro ancora il campo della legione, collegato da ampia rete stradale con tutti i posti. Intorno ai campi germogliarono gruppi di baracche, di botteghe, di case che spesso finirono per diventare nuove città e per esser riconosciute come tali con una loro propria ammi nistrazione comunale, specialmente quando i campi militari furono spostati per solito più in avanti. Questa la forma di assicurazione del confine (Umes imperii) specialmente alle frontiere del Danubio e del Reno. Dove la frontiera era fasciata da vaste zone desertiche, come in -Siria o in A frica, la linea di confine era meno continua e confidata a una difesa più mòbile, guardata cioè ai punti obbligati, dove erano pozzi, e percorsa da truppe celeri a cavallo, o anche più tardi a dro medario. S i provvide anche alla sorveglianza delle vie d ’acqua. L e due flotte militari più importanti erano l ’una a Ravenna, l’altra a Miseno, e fino alla fine dell’impero senza più una battaglia navale ten nero perfettamente la polizia del Mediterraneo. V i furono poi flot tiglie fluviali sul Danubio e sul Reno, e gruppi di navi sulle coste del Mar del Nord e del Mar Rosso. Il servizio sulla flotta, meno pregiato che quello in terra, durava venticinque armi. II sistema presentava il grande vantaggio di una grandissima economia di uomini e di spese; non si poteva raggiungere con mi nore sforzo il compito di guardare così vasto territorio. E ra buono
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però solo per la ordinaria difesa; mancava infatti dietro a questo primo schieramento alle frontiere qualunque massa di manovra, sic ché in seguito più di una volta avvenne che, rotta in un punto la linea di difesa, gli invasori potessero a loro agio scorrere saccheggiando il territorio romano, prima che dalle altre frontiere fossero accorse altre truppe a turare la falla. Non poteva dirsi massa di manovra quella che divenne la guar nigione di Roma; i pretoriani, cioè, gli urbani e i vigili. Il coman dante di un esercito romano anche durante la repubblica aveva una sua guardia del corpo che si diceva coorte pretoria. Non potevano per ciò coorti pretorie esser negate ad Augusto comandante supremo di tutte le forze armate di Roma. Distaccate da principio in parecchi luoghi, furono poi da Tiberio concentrate in un loro campo a Roma in numero di circa diecimila uomini, che sottoposti a servizio più lieve e meno lungo di quello dei legionarii e degli ausiliarii (sedici anni), pagati meglio, sottratti quasi in perpetuo a pericoli di guerre, furono per la loro prepotenza e la loro avidità assai più spesso ca gione di male che non di bene allo stato. Reso da Tiberio stabile con determinato campo dazione l’ufficio del prefetto di Roma {praefectus urbi) anche a lui furono assegnati tremila armati, distinti in tre cokortes urbanae. Dei vigiles dicemmo già. Si unirono poi più tardi a queste milizie altri meno importanti reparti armati: i Germani corpcris cusiodes, gli equites singulares Augusti nostri, i frumentarii ad detti da principio all’intendenza, poi adoperali come informatori, due reparti di marmai che figuravano come addetti al servizio di stendere e ritirare le tende [velarla) sopra i circhi e gli anfiteatri, ma potevano poi costituire altri nuclei di armati a disposizione immediata deH’imperalore.
II riordinamento dello stato, palesatosi così indispensabile alla fine della repubblica, non poteva prescindere anche da rilorme che penetrassero più in profondo tra la cittadinanza e tra i sudditi. A u gusto, uomo di stato quanto altri mai saggio e avveduto, non disco nobbe il grave squilibrio morale prodotto in Roma dalla grandezza stessa dei suoi successi, dall’affluirvi di immense ricchezze, dal disor dinato e furioso scatenarsi di passioni durante le guerre civili, e ne vide il rimedio in quei ritorno alle antiche virtù dei padri, che po teva facilmente esser proposto ad un popolo assai ligio alle tradi-
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zioni e della propria storia giustamente orgoglioso. Ritorno pertanto all’ossequio religioso alle vecchie divinità che avevano così visibilmente protetto la fortuna e la grandezza di Roma, ritorno all’antica d i gnità e severità di costumi che avevano fatto la forza e la gloria dei padri. Nelle riforme religiose non si contentò Augusto di restaurare an tichi templi quasi abbandonati e cadenti (ottantadue nella sola città di Roma) di richiamare in vita collegi sacerdotali sepolti nell’oblìo, di celebrare con ogni splendore cerimonie religiose impressionanti e d a lungo tempo intermesse, (esempio massimo \ L udi Secolari, per i quali Orazio compose l’inno famoso che è tornato ad essere l’inno della gioventù italiana), ma da acuto psicologo volle raggiungere gli effetti più larghi e più durevoli, mirando a guadagnare la parte più numerosa della popolazione. Questo ottenne specialmente col dar in cremento e favore al vecchio culto intimo e familiare dei Lares, e portandolo anche fuori delle case, nei crocicchi delle vie, in modo che queste semidivinità più semplici, più bonarie, più umane dei lon tani Dei dell’Olimpo, fossero pronte al soccorso e al beneficio di tutti, anche di quegli umilissimi che non avevano una propria casa e pro pri L ari. I Lares Compiiales, i L ari della strada, ebbero proprie edi cole ed altari, e ne fu regolato il culto e onorati i cultori e i mi nistri, tolti spesso dalle modestissime classi popolari. E tra i due L ari non fu affatto difficile inserire il Genio di Augusto, lo spirito protettore, l’Angelo custode che anche Augusto aveva come tutti gli altri mortali, e che si rivelava chiaramente così potente e benefico. Risveglio pertanto di fede confortata dai fatti, e creazione di un lea lismo dinastico, che doveva dare saldezza alla nuova istituzione del l’impero. Dei corrotti costumi Augusto vide la conseguenza politicamente più dannosa nello scadimento dell’istituto famigliare e nella diminu zione delle nascite, limitate specialmente dalla frequenza di un celi bato fatuo e godereccio. E gli si preoccupò di curare il male princi palmente nelle classi più elevate, dove esso appariva più diffuso, più grave, più tenacemente radicato, e donde come era partito il malo esempio, così poteva muovere un principio di rieducazione anche per le classi popolari. Con disposizioni di legge che per le concezioni del mondo antico poterono sembrare quasi rivoluzionarie, furono concessi privilegi ai genitori di più figli legittimi, negati o limitati onori e vantaggi ai celibi, presi provvedimenti contro gli adulterii e il mal costume. Tale azione di Augusto non ebbe, a dire il vero, risultati
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molto efficaci, specialmente perchè limitata solo ad una parte, e a quel la per naturali condizioni meno docile, deUa popolazione.
Nelle relazioni con i popoli estranei all’impero Augusto fu pru dente e amante della pace. In quella mirabile esposizione dell’opera sua che egli scrisse poco prima di morire, e che letta in senato fu in cisa in tavole di bronzo innanzi alle porte del suo sepolcro ('), egli afferma di non aver mai dichiarato guerra se non sfidato e per ribat tere una provocazione. Ed invero, a quasi tutte le imprese militari del lungo periodo di suo governo sappiamo aver, preceduto ragioni impellen.i per minacce altrui, e per analogia dovremo supporle anche in quei casi, nei quali la nostra tradizione è incompleta. Così ad esempio non abbiamo notizie sui precedenti di due spe dizioni l'una guidata dal prefetto d ’Egitto Cornelio Gallo contro il regno di Nubia, l’altra condotta da Caio Petronio attraverso tutta la penisola araba fino allo Yemen. In ogni modo, più che di guerra si trattò di esplorazioni in forza, che debbono certo collegarsi con am bascerie indiane che vennero per due volte a presentarsi all’impera tore romano; evidentemente da una parte e dall’altra si cercavano vie di comunicazione tra i due lontani paesi, che non fossero sbarrate dalla ostilità del regno dei Parti. Più decise operazioni militari fu necessario condurre contro le popolazioni alpine, che non ricercate e non raggiunte finora da una penetrazione civile rimediavano con ru berie ai rari viaggiatori che tentavano i valichi o con incursioni pre datone in L ah a o in Gallia, alla povertà delle loro anguste vallate. I popoli delle A lp i Occidentali furono domati da Aulo Terenzio Varrone; alam i dei loro capi furono confermati nei loro poteri, e rice vettero la cittadinanza romana, altri furono deportati o venduti schia vi. Dell’avvenuta pacificazione abbiamo testimonianze monumentali nel’arco di Susa, nel monumento di L a Turbia la cui lunga iscrizione COI nomi delle tribù sottomesse fu copiata, e ci è stata trasmessa da Plinio il Vecchio, e finalmente neHa deduzione delle due colonie di Augusta Taurinorum (Torino) e di Augusta Praetoria (Aosta) e ne gli edifici augustei di quelle due città. (■) L’originale del Mausoleo di Augusto a Roma è andato distrutto, ma tre copie, una delle quali quasi completa in latino e in greco, ci sono state
^ se rv M e in tre aniidhe città d ’Asia Minore: Ancyra (Ankara), Apollonia e Antiochia di Pisidia (mod. Yalovac).
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Più grave e tenace sforzo richiese la pacificazione dei Reti e dei Vindelici che abitavano le regioni alpine centrali, e che più volte erano scese a far preda nelle pianure lombarde e venete. Dato l’im mediato gravare delle regioni da loro abitate sull Italia Settentrio nale, si dovette decidere di portare il conine al Danubio, e le neces sarie operazioni militari furono affidate ai due giovani figliastri di Augusto : Tiberio e Druso. Con manovra avvolgente, mentre Druso risaliva da sud verso nord, tenendo come principale direttrice di marcia la valle dell’A d ige, Tiberio muovendo dalla Gallia e dalla Elvezia verso levante e verso sud cacciava innanzi a sè i nemici, e li gettava innanzi alle milizie di Druso. Il risultato della spedizione fu pieno e assoluto, il con&ne danubiano fu raggiunto, e la città di A u gusta ricorda ancora col nome e con l’aspetto, conservatosi più che altrove romano e italiano anche durante il medio evo e il rinasci mento, l'impresa di Tiberio e di Druso. Ma le preoccupazioni più gravi venivano dai Germani indipen denti. Questo gruppo di popolazioni fiere e bellicose, ancora semi nomadi, protette da selve e da paludi, dedite alla pastorizia e in via sussidiaria a una rudimentale coltivazione di piante annue, stretti dal bisogno e dall’anelito a più calde e soleggiate terre, premuti a tergo da altre popolazioni che avanzavano dalle regioni baltiche e russe, molte volte avevano tentato d’invadere definitivamente, o ave vano compiuto dannose scorrerie in Italia Settentrionale e in Gallia. I Galli avevano resistito male a questa spinta germanica, e Roma, che li aveva sottomessi ,e disarmati, aveva ora assunto l’impegno d’ono re di difenderli. Già Giulio Cesare aveva respinto dalla Gallia e in seguito oltre Reno Ariovisto re dei Sicambri; nuove irruzioni germa niche verificatesi circa gli anni 18-15 a. Cr. indussero Augusto a tentar di dare maggior sicurezza alla provincia, portando il con&ne dal Reno all'E lba. Anche in questa impresa di vasto respiro i due principali attori dovevano essere Tiberio e Druso, e ancora con una operazione a tenaglia, Tiberio avanzando daH’alto Danubio verso nord, Druso dal basso Reno verso levante. Non ostante gravi difficoltà frapposte dalle asprezze del clima, dalla impraticabilità delle selve e delle pa ludi, dal dileguare del nemico per la sua vita primitiva non collegato a nessuna posizione fissa e perciò quasi inafferrabile, non ostante ri bellioni e minacce di altre tribù barbariche in Pannonia, pure il corso dell’Elba fu raggiunto. E con romana alacrità furono iniziati lavori di collegamento con vie terrestri e con canali navigabili, costruzioni di fortezze e di campi militari ecc. Nel corso della lunga e dura im-
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presa però Druse, il giovane, valentissimo condottiero, il pacificatore sapiente della Gallia, moriva per una caduta da cavallo (a. 9 a. Cr.). Il territorio occupato sembrava ciò non ostante tranquillo, quasi definitivamente annesso all’impero, e già il governatore romano Quin tino Varo credeva di potervi applicare norme di vivere civile e pa cifico, percorrendo senza precauzioni militari il vasto territorio pa cificato, e tenendo tribunale ed esercitando i poteri giudiziari! secondo i principi! del diritto romano. Apparvero quelle norme giuridiche in tollerabili ai liberi figli della foresta, o fu solo l’occasione di una grassa preda che li mosse all’insidia e alla strage? Un capo della tribù dei Cherusci, Arminio, che già aveva militato nelle truppe ausiliarie romane, ordì la sottile trama d’inganni e d’imboscate, per la quale tre legioni romane furono massacrate nella selva di Teutoburgo (a. 12 d. Cr.). Tiberio, accorso subito sul Reno, impedì ulteriori sviluppi dell’azione di Arminio, ma Augusto g ià settantacinquenne non volle impegnarsi in una impresa di rivincita. Questa mancanza di ardimento fu dovuta anche al contegno poco bellicoso del popolo romano che non volle rinunciare agli agi della propria vita signorile per quello. che considerava forse un trascurabile episodio di guerra provinciale. A fatica, ricorrendo persino ad accettare le offerte di schiavi, si riuscì a riempire i vuoti prodotti dalla strage. Malanno in cui cadono alle volte i popoli ricchi e satolli, e che può anche degenerare in perni cioso, diuturno letargo.
A i successi mirabilmente grandiosi toccati ad Augusto nell’opera sua di capo e di reggitore del mondo civile andarono per converso uniti grandi dolori familiari. Il desiderio così naturale di veder con tinuata la propria opera da un proprio figlio non fu esaudito. Da Scribonia prima moglie, Augusto non ebbe che una figlia, Giulia, e assai dovette rimpiangere di averla avuta, da L ivia, la compagna caramente e fedelmente diletta, non nacque che un bimbo morto quasi subito. Gli crebbero ciò non di meno intorno giovanetti e fanciulli, taluni dei quali meritevoli di alta fiducia. Più d’ogni altro gli fu caro Marcello figlio della propria sorella Ottavia, che volle quanto più potè vicino a sè dandogli in sposa la propria figlia Giulia. Ma il giovane nipote e genero morì ventenne, e molti anni dopo la disgrazia un accenno a lui in pochi versi di Virgilio fece lagrimare Augusto e venir meno Ottavia. I figli di L iv ia e di Tiberio Claudio Nerone: Tiberio
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e Druso, furono dalla mamma portati bimbetti nella casa di Augusto, quando il padre morì, e diedero poi ambedue grandi prove di sag gezza, di valore, di elevati sentimenti. Ma più che in loro le spe ranze d i Augusto si posavano sui tre bambini che Giulia, la figlia sua sposata in seconde nozze al fedele compagno A grippa, aveva avu to in questo secondo matrimonio. Augusto li aveva adottati per pro pri figliuoli, subito appena nati, li aveva cresciuti in sua casa, aveva per loro ottenuto onori e cariche straordinariamente precoci, ma l ’uno di essi morì di ferita in A sia Minore a ventitré anni, un altro di ma lattia a diciotto in Gallia, il terzo A grippa Postumo rivelò così rozza e bestiale natura, che fu dovuto relegare in un’isola. Moriva A grippa il camerata devoto e leale che aveva in certo modo completato Augusto, ponendo al servizio di lui tutta la sua altissima competenza militare, e che era stalo investito di tali alti uffici da designarlo in modo inequivocabile quale futuro successore. Moriva Druso il più caro dei due figliastri, valoroso come un eroe, amabile come una fanciulla. Morivano altri cari e sapienti amici come Mecenate, altri sommi ingegni che egli aveva apprezzati ed amati: Virgilio e Orazio, la sorella Ottavia che aveva dato nobilissimi esempi di vita ammirabile come sposa e come madre. Solo per la figlia Giulia non si schiudevano le bronzee porte del mausoleo che Augusto aveva eretto per sè e per i suoi nel Campo Marzio. A tali eccessi giunsero le sregolatezze di lei, che il padre, dopo aver lungamente dubitato, se in forza delle leggi da lui promulgate sui buon costume dovesse farla morire, la relegò nell’isola di Ventotene. Unico parente rimaneva l’altro figliastro Tiberio, certamente ad Augusto poco simpatico, se non ostante l’alto valore e la devozione leale di lui, non ostante l ’indubitabile azione della madre L ivia, egli lo lasciò fino all’ultimo in posizione di secondo piano. Ma d’altra parte sarebbe stato delittuoso lasciare incerta una successione, e possibile il rischio di rinnovare discordie nel grande organismo prodigiosamente condotto a salvezza. Negli ultimi anni pertanto Tiberio fu adottato quale figlio, chiamato vicino al trono e fatto partecipe della tribunicia potestà e dtW imperium proconsolare. Sicché quando Augusto chiuse a Noia il 19 agosto dell’a. 14 d. C . la sua lunga vita, fu perfettamente regolare, che Tiberio continuasse ad esercitare i suoi poteri che erano quelli stessi del padre adottivo. Tacito, sempre incline a vedere tenebrosi intrighi in quanto con cerne la corte imperiale, accenna ad azioni di Livia, ad esitazioni che Tiberio avrebbe finto di avere innanzi al senato, ad aspirazioni di
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qualche senatore, a imprudenti riserve di altri, ma in ultima analisi la nuova situazione del trapasso dei poteri potè risolversi subito e senza scosse. TIBERIO
Tiberio giungeva all’impero quasi sessantenne, ricco di espe rienze civili e militari che avevano accresciuto la naturaile sua assen natezza e il rigido senso del dovere. Molti e gravi dolori avevano però mutato in una amara, inamabile tristezza certe pur nobili qualità del suo temperamento austero, disdegnoso, solitario. Carattere essen ziale del governo di Tiberio fu la osservanza delle direttive politiche e delie norme di governo segnate da Augusto, della cui opera egli può dirsi il continuatore e il consolidatore. Benché fornito di doti militari superiori a quelle di Augusto, pure seguì upa politica di pace, aliena da conquiste, fu amministratore sagace e diligente, tutore geloso della giustizia e della maestà di Roma, ma alle provincie largamente benefico, vigile ed esigente dai governatori e dai funzionari, assertore severo della disciplina dei soldati, alieno così dall’accettare o dal ricercare onori e adulazioni, come dal soverchio indulgere ai gusti goderecci e scrocconi della plebe, per il senato assai deferente, anche •se più d’una volta singoH senatori ebbero sotto di lui a subire gravi condanne. I primi atti del nuovo governo furono rivolti ad onorare la memoria di Augusto, che il senato proclamò divo, come il padre adottivo Giulio Cesare. Se il senato e il popolo accolsero senza d if ficoltà la elevazione di Tiberio alla dignità imperiale, le legioni di stanza alle frontiere di Germania e d i Pannonia si ammutinarono, sperando di strappare al nuovo principe condizioni meno dure di servizio e di soldo. E non senza fatica il pericoloso movimento fu sedato. Sembrò in tale occasione opportuno non lasciare in ozio le milizie, e si deliberò di riprendere quella marcia verso l’Elba che doveva ad un tempo assicurare i confini della Gallia e punire la fel lonia di Arminio. Il comando della spedizione fu affidato a Germa nico figlio di Druso e per volontà di Augusto figlio adottivo di Tiberio. Il giovane principe che già aveva conquistato l’affetto e la stima dei soldati, mosse dal campo legionario di Vetera (mod. Xanten in Germania) e percorse il paese dei Marsi tra la Lippe e la Ruhr, severamente castigandoli per la loro partecipazione alla insi d ia contro Varo. Il ritorno alla linee romane non fu però
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grave pericolo, chè altre popolazioni germaniche si collegarono a molestare vivacemente la marcia delle legioni attraverso la regione boscosa e paludosa, e tutta l’energia di Germanico fu necessaria per sottrarre l’esercito a gravi pericoli. Quella spedizione pertanto non poteva in nessim modo esser ritenuta sufficiente a ristabilire il prestigio romano, e fu ripresa con maggiori forze nell’anno suc cessivo. Anche questa volta eserciti romani, movendo da più punti della frontiera avanzarono vittoriosamente nel paese nemico, fu visitata la foresta di Tetoburgo, recuperata una delle aquile legionarie, e resi gli onori funebri alle ossa insepolte dei soldati di Varo, ma il ritorno alle basi fu difficile e funestato da gravi perdite per le insidie dei Germani e per straordinaria violenza di bufere e di inondazioni. Si pensò pertanto a più energica e decisiva azione, trasportando buona parte delle truppe per mare alla foce del Visurgis (inod. Weser) e risalendo la valle di questo fiume. In una grande battaglia campale nella pianura di Idistaviso (presso la mod. Minden) l’espe rienza guerresca romana trionfò pienamente del furore barbarico, e Arminio ferito scampò a gran pena alla cattura. Il ritorno però fu anche questa volta disgraziato. Una furiosa tempesta nel mar del Nord colpì le mille navi cariche di soldati, di cavalli, di materiale guerresco, e cagionò gravissime perdite, la cui notizia riaccese la fiamma della ribellione tra le tribù germaniche. I loro assalti furono vittoriosamente contenuti, ma il proposito di continuare azioni mili tari in Germania e di raggiungere il confine dell’Elba fu almeno pel momento abbandonato. Raggiunto lo scopo di restituire intatto il prestigio delle armi di Roma, si ritenne miglior partito non insi stere a consumare forze ingenti per una conquista che appariva quasi sterile, e fortificato più saldamente il confine renano lasciare che i Germani si logorassero nelle loro perpetue discordie. Germanico ebbe gli onori del trionfo, ma fermissimamente gli fu negato il permesso di riprendere le operazioni oltre i confini del Reno. Il vivo rammarico del giovane generale e di coloro che gli erano più vicini e più affezionati, diede facilmente origine alla leg genda di un atteggiamento d’invidia e d i gelosia dell’imperatore verso il nepote. In realtà l’incarico che fu affidato a Germanico richia mato dalla frontiera del Reno non solo era tanto onorevole quanto quello che gli veniva tolto, ma forse anche più importante e fecondo di possibili risultati. Gli veniva affidato, e con poteri straordinari, il riordinamento e l’assetto deUe provinole orientali, cosi preziose per
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tante ragioni all’impero e in ben delicata situazione per la prossimità dell’unico grande stato che potesse contrapporsi a Roma: il regnodel Parti. E gravi problemi in quel momento non mancavano i suc cessione al trono d’Armenia, che la politica romana voleva occupato d a un sovrano ligio all’impero, riduzione a province dei regni alleati e clienti della Cappadocia e della Commagene, trattative col re dei Parti. Non mancarono a Germanico bei successi in tutti questi affari, ma insorsero purtroppo anche aspri dissensi col vecchio e autoritario governatore della Siria Caio Calpurnio Pisene. Questi trasse certa mente profitto di un viaggio di Germanico in E gitto per mandare all’aria non poche disposizioni di lui. Quel viaggio Tiberio non aveva autorizzato nè gradito, e il giovane principe che aveva avuto quelle accoglienze entusiasticamente affettuose, che egli sapeva provocare dovunque si mostrasse, ne tornò però malcontento per la disap provazione imperiale e gravemente scosso in salute. In Siria le sue condizioni peggiorarono rapidamente, e Io portarono alla tomba il I O ottobre dell’a. 19. Il disfacimento d i una così fiorente e bene amata giovinezza non mancò di far sorgere e nel malato e più ancora nei familiari e negli amici sospetti di malefici, e via via sino di delittuosa azione concertata da Tiberio e da L iv ia con Calpurnio Pisone. Peggio ancora; il pietoso spettacolo della vedova e dei figliuo letti recanti nel lungo viaggio di ritorno l’urna con le ceneri del giovane eroe provocò così vivaci e incomposte manifestazioni di do lore nei cittadini e nei provinciali, che Tiberio, geloso custode della gravità e della dignità del popolo romano, ritenne necessario porvi un freno. Il che naturalmente fu ancora una volta interpretato quale segno di durezza e di malevolenza. Nè chiarì la situazione il pro cesso svoltosi innanzi al senato contro Calpurnio Pisone, che amici di Germanico avevano formalmente accusato di veneficio. L a prova dell’accusa non fu in nessun modo raggiunta, ma i dubbi rimasero per essersi l’accusato tolta la vita. Avrebbe forse potuto ridestare le correnti di simpatia popolare e prendere il posto di Germanico il figlio di Tiberio Druse Minore, anch’egli giovane di egregie doti e di grande nobiltà d’animo, ma anche questo la morte rapiva in molto immatura età. Solo rimaneva nella triste casa l’imperatore severo e rigido, e con lui la vecchia madre imperiosa L ivia, la cognata Antonia madre di Germanico, e Giulia Agrippina la giovane vedova di Germanico, non rassegnata e non aliena da sospetti e da rancori.
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D i tutte queste turbate circostanze domestiche, e deUe scarse simpatie popolari per Tiberio seppe approfittare il prefetto del pre torio, comandante delle guardie imperiali, Elio Sciano. Uomo intel ligente, abile, ambizioso e senza scrupoli seppe rendersi così utile a Tiberio, da guadagnarne la più assoluta fiducia. Tanta fiducia, che l’imperatore credette dopo qualche anno di non mancare |al proprio dovere, portandosi ad abitare una villa costruita da A ugu sto a Capri, lontano dalla folla, dal frastuono, dai rumorosi tripudii di Roma. Non che egli tralasciasse per questo di occu parsi con tutta l’usata diligenza degli affari, ma indubbiamente si accresceva per la lontananza il prepotere di Sciano. 11 quale, devoto forse e leale nei primi anni, cominciò ora a perdere il senso della misura, a concepire le più audaci speranze, e da ultimo a mancare di fede anche contro il suo benefattore. Non è escluso che il legit timo erede al trono, il giovane Druso, sia stato fatto avvelenare d a lui, e non può dubitarsi neppure che alla disgrazia finale della vedova e dei figli di Germanico (relegazione di Agrippina e del maggiore figliuolo) abbiano dato causa non le sole imprudenze e impazienze dei relegati, ma anche gli intrighi e i maneggi di Sciano. L a morte sembrava aiutare le ambiziose mire dell’astuto confi dente. Non restavano vivi della parentela imperiale che un figlio di Druso e uno di Germanico, tutti e due di costituzione fisica non del tutto sana, e un bambino Tiberio Gemello figlio di Druso il Minore. Del più anziano, che fu poi l’imperatore Claudio, pareva non ci si dovesse preoccupare, tanto era misero il suo aspetto, e neppure del bambino. L ’azione di Sciano mirava a compromettere il superstite figlio di Germanico, Caio, che fu poi l’imperatore Caligola. Su di lui vegliava però l ’ava Antonia, vedova di Druso e cognata perciò dell’imperatore, donna di alti sentimenti, di inteme rata vita, universalmente circondata di profonda venerazione. Ella finì per porre in guardia Tiberio sulle macchinazioni di Seiano. Il quale sentendosi sospettato ritenne di dover affrettare i tempi, per dendo ogni ritegno e ogni prudenza. L ’energia e la prontezza di Tiberio riuscì però a prevenirlo; date le opportune disposizioni al prefetto della città e al prefetto dei vigili, nominato un nuovo prefetto del pretorio, uno dei consoli riceve l’ordine di leggere in senato una lettera imperiale che rivela il tradimento di Seiano, e ne ordina l’arresto. Il senato riunitosi ancora una seconda volta nel giorno stesso, giudica e condanna il reo. e la sentenza è eseguita con grande soddisfazione del popolo, che purtroppo non mancò però di giungere nel suo furore a deplorevoli eccessi.
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Il raminarico del subito inganno tese più desolata la misan tropia di Tiberio, che continuò l’alacre e rigida azione di governo, ma non ebbe più l’animo di tornare in Roma. E nella solitaria villa di Capri vecchio di settantotto anni l’imperatore moriva il i6 marzo dell’anno 37, non rimpianto dal senato sperduto dietro sogni mal definiti di restaurazione repubblicana e impotente a effettuarla, non rimpianto dal popolino scarsamente accontentato nei suoi bassi desiderii di donativi e di festeggiamenti. L a tradizione letteraria pervenutaci è quasi unanimemente assai avversa a Tiberio; una più esatta valutazione storica deve far giu stizia delle malevole interpretazioni di Tacito, delle ignobili sto rielle di Svetonio, e riconoscere in Tiberio una austera dignità di vita, un rigido senso del dovere, non temperato forse da nessuna amabilità, ma costantemente fisso all’ideale della conservazione e del rinsaldamento dell’impero di Roma inteso come unica, compro vata forza benefica per una pacifica, giusta, prospera convivenza delle stirpi umane.
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£ ragionevole attribuire soltanto al caso il fatto che, mentre per la prima volta nella storia del mondo veniva a coronarsi in un aspetto di immutevole saldezza una istituzione universale quale l’impero, un’altra universalità ancora più grande e più sacra venisse a sorgere in Oriente? S i fondava essa su principii affatto diversi da quelli che ave vano dato vita all’impero di Roma, li bandiva con semplici parole a pochi ascoltatori in ima remota oscura provincia dell’impero, un umile, un povero, non rivestito di alcuna dignità, di alcun ufficio, uscito dalla bottega di un fabbro di Nazaret. L ’odio di una classe sacerdotale timorosa di perdere i suoi privilegi, la colposa debolezza di un governatore romano punirono con un atroce, infame supplizio la enunciazione di quei pochi detti di bontà. E fu proprio nel nome d i Tiberio, dell’imperatore impavido e intransigente assertore di giustizia, che un magistrato romano persuaso dell’innocenza del l ’Accusato ne pronunciava la condanna, non solo ledendo l ’onore, ma distruggendo la missione essenziale di Roma: quella di tener fede a qualunque costo al giusto e al vero. Il F iglio di Dio, la cui nascita in terra era stata registrata in un censimento ordinato da Augusto, spirava sulla croce per una sentenza emanata in nome di
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Tiberio. Nulla certamente il primo, ben poco il secondo imperatore seppero del grande avvenimento, ma g li uomini venuti dopo non poterono persuadersi che l’imperatore di Roma, il potentissimo, l’omnisciente, l’omnipresente, avesse ignorato la Redenzione del mondo, e favoleggiarono di Vergilio profeta nella misteriosa ecloga quarta, della Sibilla rivelante ad Augusto la -nascita di Gesù, di Tiberio proponente al senato di collocare nel numero degli Dei l’oscuro suddito di Palestina morto sulla croce. CALIGOLA
Spirato appena Tiberio, i pretoriani e i marinai della flotta di Miseno presenti aH’avvenimento proclamarono imperatore l’unico su perstite dei Égli di Germanico, e il senato accettò quella designa zione. Il nuovo imperatore, che rinnovava il nome sopra ogni altro glorioso di Caio Giulio Cesare, aveva ventiquattro anni, e aveva sofferto Én da tenera età di attacchi epilettici, sicché era un po’ a temersi del suo equilibrio mentale. Ma la memoria sempre cara e venerata del padre suo lo proteggeva, e aveva contribuito a conser vargli quel nomignolo affettuoso di Caligola (piccola scarpa militare) che i soldati gli avevano applicato, quando i loro solitari! campi ai gelidi conflni della Germania erano stati allietati dal fascino del suo sorriso infantile. Il governo di Caligola ebbe da principio serene e liete acco glienze, quando si manifestò con onori resi alla memoria della madre e del fratello morti nella relegazione loro inflitta da Tiberio, con onori resi all’ava Antonia, con larghezze al popolo e ai soldati, con festeggiamenti e spettacoli che sembravano tanto più graditi dopo le austere parsimonie del governo precedente. Ma a queste reazioni abbastanza innocue a quanto era stato fatto prima se ne associò un’altra rischiosa e professata con la intemperanza dello squilibrato. A differenza di quanto avevano praticato Augusto e Tiberio, egli vide, o più probabilmente adulatori, schiavi e liberti orientali gli fecero vedere il potere imperiale non come una magistratura romana pur provvista di poteri straordinarii, ma come la monarchia orien tale, assoluta, onnipotente, divina. A questo si doveva fatalmente arrivare un giorno, ma la resistenza romana a tali concezioni non pote va esser vinta d un tratto e con i mezzi impulsivi e pazzeschi adottati da Caligola. L a pretesa d’esser adorato, le umiliazioni gravi inflitte al senato, le strambe, grottesche cerimonie e coreografle destinate alla
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;'?To. propria esaltazione, le prodigalità folli e rovinose, provocarono disapprovazioni e resistenze, contro le quali infierì con aspre con danne l’imperatore maniaco. Rimanevano intanto trascurati gli affari più gravi dello stato, si seguivano incerti e mutevoli indirizzi di politica interna ed esterna, ora restituendo al popolo i diritti eletto rali da Tiberio trasferiti al senato, ora compiendo atti da tiranno orientale, ora alienando parti di province romane per ricostituirne regni alleati, ora intraprendendo spedizioni militari non richieste d a necessità e poi improvvisamente tralasciandole. Dopo qualche tentativo riuscito vano, e che aveva dato motivo a larghe e sangui nose repressioni, una congiura formatasi nel palazzo stesso imperiale intorno a un tribuno dei pretoriani, Cassio Cherea, riuscì ad ucci dere l’imperatore in un criptoportico del Palatino, mentre tornava dall’aver assistito a uno spettacolo (24 gennaio del 41). CLAUDIO
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I tre anni o poco più del governo di Caligola avevano dato palese dimostrazione dei pericoli che possono esservi nel governo di 'un solo, sicché il senato pensò e discusse, se non fosse il caso di tornare alle antiche forme repubblicane. Ma si trattò di velleità e di nostalgie senza idee ben chiare e senza programmi ben determi nati, contro le quali si levarono interessi assai precisi e realistici: quelli dei pretoriani, che non potevano rinunciare alla propria ragione di essere per vani ricordi di un passato ormai quasi sconosciuto, h-ssi scovarono nelle sale del palazzo imperiale l’ultimo più prossimo parente dei passati principi, lo condussero seco nel loro campo, lo proclamarono imperatore, l’obbligarono ad accettare, e informarono il senato di quanto diecimila uomini armati chiusi in un campo torti£cato entro la città stessa inerme e priva di mura avevano deliberato. II popolino, che aveva con Caligola scialato, non sentiva alcuno stimolo a tentare eroiche imprese per un principio ideale che oltre a tutto certamente portava a minori larghezze, sicché al senato non rimase che accettare quanto d ’altra parte anche a molti dei senatori appariva imprescindibile necessità. Il nuovo eletto Claudio era figlio di Druso il Maggiore, nepote perciò di Tiberio e zio di Caligola. E ra privo di molte doti esterne dell’uomo di governo: debole di salute, impacciato nel parlare, e fatto per le sue deficienze timido e goffo. Nessuno aveva mai pen sato a lui per posti di responsabilità di governo, Augusto che lo
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aveva avuto in casa ragazzo, scrive di lui a Livia con una amorevole compassione, Tiberio gii aveva concesso gli ornamenti di console, tutti lo avevano lasciato tranquillo in una isolata vita di studioso. Chè non era uno sciocco, e si era acquistato una notevole cultura sia pure pedan.esca e barcollante come il suo incedere. A cinquantun anno questo erudito, privo di esperienze pratiche, Ignoto agli eserciti e alle province, assumeva l ’impero del mondo E nell-immenso incarico egli diede prova di tale onesta dirittura, di tale tenace, meticolosa applicazione al lavoro, di tale riflessiva pru denza, da vincer di molto le sue deficienze e da riuscire uno dei buoni e saggi imperatori romani. L a tradizione letteraria gli è avversa, e specialmente con nessuna generosità contro lui appena morto si accanì un violento componimento satirico di Seneca, ma i fatti bene accertati del suo governo e documenti recentemente tornati in luce emananti dalla sua cancelleria e talora proprio da lui stesso, ci consentono un molto miglior giudizio. Non facne era l’eredità di Caligola assertore pericoloso di una monarchia di diritto divino, profligatore dannoso della pubblica finanza, dominatore sospettoso e crudele. Claudio ritrovò la strada giusta, non rinnegò la dignità imperiale e le ragioni dinastiche della sua famiglia, chè anzi punì di morte i maggiori colpevoli nella con giura contro Caligola, ma ritornò al concetto auguste© del princeps ristabilì la collaborazione col senato, ricondusse con una vigilanza minuziosa, consona al suo temperamento paziente e tenace, l’ordine nelle dissestate finanze. Naturalmente l’attenzione voluta da Claudio portare agli affari tutti dello stato, lo scrupolo e la lentezza della sua applicazione, rese necessaria una organizzazione burocratica più complessa e più ricca di quanto era stata finora. E poiché l’ammini strazione statale era in questo assai primitiva e rudimentale, è natu rale che Claudio si facesse aiutare, come avevano già fatto i suoi predecessori, da schiavi e da liberti della sua famìlia. Alcuni specialmente di questi liberti furono molto abili e intelligenti, e non è a meravigliarsi, se qualche volta presero la mano al principe rimasto lontano dafla vita pubblica e portato a fidarsi defle poche persone ^ e aveva avuto intorno a sè. D i questo prepotere di ex schiavi è fatta dagli antichi gran colpa a Claudio, anche per la sgradevole impressione che nei vecchi cittadini romani doveva produrre l’autorità e 1 influenza di persone straniere e di spregiata origine servile A u mentavano il discredito di Claudio le pazienti sue tolleranze verso le
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sregolatezze della seconda sua moglie Valeria Messalina e verso le virili ambizioni della terza moglie Giulia Agrippina. Ma con tutte queste de&cienze l’azione deH’imperatore Claudio fu non di rado e in gravi cose animosa e assennata. Privo di espe rienza militare, volle aggiungere al territorio romano importanti e vaste regioni : la Mauretania, vicina irrequieta e malfida della pro vincia romana d i Numidia, e la Britannia, necessaria a una sicura protezione della Gallia, e già tentata da Giulio Cesare, da Augusto, da Caligola. L ’una e l’altra conquista seguì con prospera e rapida fortuna, e alla occupazione con le armi tenne dietro con la consueta romana alacrità la rapida elevazione di quelle barbare regioni a civile tenore di vita con fondazioni di città, deduzione di colonie, apertura di vie, stanziamento di campi militari, organizzazione di lavoro agri colo e minerario. Con la stessa decisione i regni clienti di Tracia e di Giudea, venuti a mancare i rispettivi sovrani, furono ridotti a pro vince, e così pure la confedei'azione delle città di Licia, lasciate sinora libere per antica e provata amicizia verso il popolo romano, ma inca paci di por fine alle loro perpetue interne dissensioni. Questa costante direttiva dell'azione politica di Claudio non mirò soltanto ad accrescere materialmente il territorio dell’impero, ma anche a crearne una salda unità spirituale. Documento insigne di tale desiderata e ricercata diffusione della romanità è un discorso tenuto dall’imperatore in senato, perchè alle popolazioni della Gallia conquistata da Cesare e dimostratasi per tanti anni leale e fedele, fosse aperto l’adito agli uftci e agli onori pubblici. II discorso è conservato in una grande tavola di bronzo trovata a Lione, e risponde cosi perfettamente nella forma a quanto ci è detto intorno alla natura pedantesca di Claudio, che occorre pensare sia opera sua non solo nei concetti informatori, ma anche nella stesura. Anche nel campo affine dei lavori pubblici la volontà di Claudio s’impose con risoluta tenacia. Nuove acque su maestose arcuazioni condusse a Roma (Claudia e Anio Novus), strade costruì in Britannia e nelle regioni- danubiane, ma sopra tutto contro il parere di moltis simi anche tecnici volle prosciugare il lago di Fucino, proteggere Roma dal pericolo di inondazioni, cavando un canale dal Tevere al mare, dare alla città sovrana un porto marittimo che sostituisse l’insufficiente e malsicuro approdo fluviale di Ostia. Quest’ultima impresa di creazione di un porto in spiaggia aperta con costruzione di grandi moli e di un antemurale fu per concezione ed esecuzione
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quanto di più ardito e grandioso si fosse sino aUora tentato nel bacino del Mediterraneo. ^ L e buone prove di saggezza, di indefessa alacrità, di tenacia da.e da Claudio nella sua opera di governo sembravano dileguare entro le pareti domestiche. I liberti abili, energici che egli aveva preposto a singoli servizi, non mancavano di abusare della fiducia del patrono, peggio ancora si comportarono le due donne che egli ebbe vicino durante i suoi anni di governo. Messalina, natura ardente, più giovane di lui di circa trent’anni, perdette ogni freno e ogni ritegno, quando giunse alla onnipotenza di imperatrice. 11 tentativo di contrarre altre nozze e di iniziare una nuova dinastia imperiale sbarazzandosi di Claudio, fece accorrere alla difesa anche del suo proprio interesse il potente liberto Narciso che strappò a Claudio una condanna a morte dei due adulteri, e si affrettò a farla eseguire. Rimaneva malauguratamente accanto al vecchio imperatore una nipote, Giulia Agrippina, ultima superstite delle tre figlie di Ger manico, vedova di un Cneo Domizio Enobarbo. Non la dissolutezza come in Messalina, ma una violenta ambizione era la passione domi nante di questa donna che la condusse giovane, bella, a prendere nelle sue lusinghe un vecchio zio così poco attraente per aspetto fisico e per doti dello spirito. Essa, la figlia del grande Germanico, per suasa, come tutti quelli di sua famiglia, della soppressione violenta del padre suo, esacerbata per la condanna alla relegazione della madre sua, anelava a una vendetta su questi Claudii che le avevano ucciso il glorioso padre, la dolente madre, voleva strappare ad essi la successione al trono di Roma e assicurarlo al figlio suo, nel quale qualche stilla ancora correva del sangue di Germanico e del divo Augusto. Il figlio eUa aveva avuto da Domizio Enobarbo, e Claudio aveva un suo figliuolo Britannico avuto da Messalina. Agrippina riuscì a far concedere in sposa al proprio figlio la figlia primogenita di Claudio, Ottavia, poi a far adottare da Claudio quel suo genero ^ e da Domizio Enobarbo diveniva per l ’adozione Nerone Claudio Cesare, e farlo infine preporre per una alquanto maggiore età al figlio naturale Britannico. L a partita era ora vinta, Claudio poteva morire, e morì infatti, non senza gravi sospetti di propinatogli ve leno; il prefetto dei pretorio presentò ai soldati il giovane Nerone, non senza promesse di largo donativo, e anche il senato trovò che Nerone era figlio di Claudio quanto Britannico, che era meno ragazzo del figlio di Messalina, ed assenti senza obiezioni alla scelta fatta dai pretoriani.
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Il nuovo imperatore era anche lui im adolescente: diciassette anni, e veramente un triste spettacolo è quello che dà questa volta il senato romano pronto a lasciare nelle mani di un ragazzo sconosciuto l ’impero del mondo, e pronto a concedere al defunto imperatore cosi poco stimato in vita gli onori divini, richiesti da coloro che nelFopinione di molti ne avevano procurata la morte. A guidare e a sorreg gere il ragazzo nel gravissimo compito che gli era addossato, si pre sentavano la madre, donna di non comune ingegno e di alto sentire che del suo affetto materno aveva dato prove forse confinanti col delitto, e due uomini scelti dalla madre: L . Anneo Seneca, retore e filosofo tra i contemporanei reputatissimo, e Sesto Afranio Burro, prefetto del pretorio, uomo di grande espefienza nelle cose civiH e nelle militari. Ma dopo idilliaci principi di governo, ben presto il giovane Nerone sfuggì completamente dalle mani dei suoi consi glieri, si liberò anzi di loro in maniera definitiva e totalitaria, e rivelò così bestiale e violenta natura, da condurre a gravi rischi l’impero tanto leggermente lasciatogli nelle mani. Non senza colpa furono i consiglieri stessi che gelosi tra loro, pur di sopraffarsi a vicenda, non esitarono a indulgere alle peggiori tendenze del giovane, credendo di accaparrarsene la benevolenza e la docilità. E d è doloroso dire, che proprio il saggio, il filosofo Se neca fu quello che maggiormente peccò in questo senso. Nei primi momenti tutto sembrò andar bene: l’imperatore di mostrò profonda deferenza al senato, licenziò i liberti di Claudio divenuti per la loro potenza e per le accumulate ricchezze assai invisi a tutta la cittadinanza, largheggiò in donativi e in splendide feste, che furono più gradite dopo l’amministrazione severa e gretta di Claudio. Poi cominciò ad apparire il maniaco e la belva. Natura ampollosa ed estetizzante, fatua e teatrale, più assai di greco e di orientale che di romano, dalla sublimità di una posizione raggiunta in cosi immatura età, dalle compiacenti adulazioni di tutti, fu presto portato a perdere ogni freno e ogni misura. Liberiamoci (se ne prova vivo il desiderio) della narrazione pur necessaria dei più ne fandi suoi delitti, e vediamo poi, che cosa pure in così disgraziato periodo si compì nell’impero di serio e di costruttivo. L a prima •vittima di un certo rilievo fu, e ben s’intende, il fratellastro Britannico. A lui era stato sottratto l’impero, ed è troppo naturale, dice un’amara sentenza di Tacito, odiare coloro ai quali
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si è fatto del male. U n improvviso malore dopo un banchetto not turno; e la mattina appresso già si chiudevano su di lui le bronzee porte del Mausoleo imperiale eretto da Augusto nel Campo Marzio. Venne poi la volta di Ottavia, la figlia di Claudio e di Messalina, a lui data in sposa. Non solo la passione per una bella e ambiziosa pompeiana Poppea, ma la protezione accordata dalla madre Agrip pina alla legittima sposa furono causa della rovina della timida, della spaurita Ottavia. S i doveva far vedere alla madre, chi era il padrone. Ottavia, accusata contro ogni verità di adulterio, fu relegata in un’isola e ben presto uccisa. Nè molto tempo passò, che anche Poppea fu uccisa. Ma nes suno dei molti delitti fu tanto enorme e tanto vile quanto l’uccisione della madre. L a donna che per orgoglio di nascita, per spirito di vendetta, per un ferino amore materno non aveva forse arretrato neppure innanzi al delitto per assicurare-il trono al proprio figlio, era per sua disgrazia troppo intelligente e troppo volitiva per ritirarsi e sparire dinanzi al giovane che essa aveva in certo qual modo due volte generato, come uomo e come Cesare. Non solo, ma doveva anche tremare all’idea di lasciarlo solo con quel temperamento che andava rivelandosi sempre più pericoloso. Viceversa proprio questa tutela e questa superiorità erano intollerabili al maniaco giunto ormai alla onnipotenza. E non si può escludere, che Seneca e Burro,, meglio tollerati perchè utili e in posizione di secondo piano, fossero gelosi e timorosi di un ascendente della madre, e contribuissero a irritare in Nerone questa intolleranza. L a quale non tardò a portare all’orrendo delitto. Nel paesaggio dolcissimo di Baia esso si svolse, turpe anche nella sua viltà. L a madre, convitata dal figlio, era a notte inoltrata riaccompagnata in barca alla sua villa. A mezzo percorso Timbarcazione doveva far acqua e affondare. L ’animosa donna, benché battuta anche a colpi di remo, si salvò a nuoto, e subito mandò ad informare il figlio dello scampato pericolo, quasi più nel desiderio di persuadere se stessa che altri della casualità dell’ayvenuto. A lla mala coscienza si aggiunse allora il terrore, e il comandante della flotta di Miseno che aveva avuto l’incarico di pre parare il primo inganno, ebbe anche nella notte stessa l’ordine di portare a compimento in qualunque modo quanto gli era stato com messo. Dopo questa massima, che vede elencare le altre scelleratezze di Nerone? Ricordiamo quegli avvenimenti che per imperiale iniziativa o per casuali circostanze ebbero conseguenze storiche durante l’inde-
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gno regime. L a megalomania e il miraggio delle ricchezze e del fas;o orientale portarono Nerone a ima politica piuttosto energica verso le regioni a sud e a levante deU’impero. Non solo un reparto di pretoriani fu inviato in esplorazione molto oltre i confini di Egitto lungo l'Alto Nilo, ma anche verso il potente regno dei Parti si tenne aito il prestigio romano. Era riuscito al re dei Parti Vologese di sbal zar di trono il re d’Armenia protetto da Roma e a sostituirlo col proprio fratello Tiridate. Dure campagne condotte nell’aspro paese per più anni d a un valente generale Domizio Corbulone portarono a un accordo che dovette compiacere enormemente la vanagloria di Nerone. Tiridate venne con grande seguito a Roma, e compiuto atto di adorazione dell’imperatore, da lui ricevette la corona di Armenia. Per questi felici successi in Oriente e per la sicurezza raggiunta nelle nuove province di Mauretania e di Britannia, Nerone ebbe anche la fortuna, di cui molto si compiacque, di chiudere ancora una volta il tempio di Giano, e di celebrare la pace assicurata in tutto il mondo. Ma l’avvenimento più clamoroso di questo disgraziato periodo fu senza dubbio io spaventoso incendio che quasi distrusse la capitale del mondo. Sorto nella notte del i6 luglio dell’a. 64 presso il Circo Massimo, divampò per nove giorni, arrecando enormi danni a dieci delle quattordici regioni augustee della città. Nerone colse avida mente l’opportunità del disastro per iniziare la costruzione di una nuova residenza imperiale, di una vastità e sontuosità, quale poteva esser desiderata dalla sua mania di grandezza, residenza che dal Palatino si estendeva sino alle pendici dell’Esquilino. Questa pron tezza nel profittare delie aree fatte vuote dalle fiamme fece sorgere la voce, che l’incendio fosse stato ordinato da Nerone, e si narrò di gente sopresa ad appiccare il fuoco o ad impedire di spegnerlo. A stornare questi sospetti che avevano impaurito Nerone, si cer carono altri possibili rei. E furono abbastanza facilmente trovati nei convertiti al cristianesimo, invisi al popolino, e forse compromessi da qualche escandescenza verbale di cristiani, più ferventi che pru denti e assennati, che avranno proclamato ben meritato castigo di Dio quel disastro. L a predicazione del Vangelo aveva avuto successi notevoli in Roma; è ora dai più autorevoli studiosi ammessa la venuta di S. Pietro nell’Urbe, e naturalmente nessuno ha mai elevati dubbi sulla dimora e sulla predicazione di S. Paolo. Dei torbidi sorti nella comunità giudaica sotto Claudio impulsore Chresto, come dice Svetonio, è anche generalmente attribuita la causa ai dissensi prò-
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vocati a Roma come altrove nella comunità giudaica dalla propa ganda cristiana. Nerone pertanto ebbe campo di presentare molti presunti rei, e, data l’enormità del reato ad essi imputato, potè agire contro di essi per lo più non cittadini romani con ogni mezzo anche fuori d’ogni legge. « Grande moltitudine » dice Tacito, « fu con dannata * alle belve, e, crudele pena del taglione, al rogo, tanto che anche la plebe romana abituata alle sanguinose scene dell’anhteatro, e di esse per ormai guasto costume morbosamente desiderosa, finì per sentire pietà e per dubitare anche più di prima della colpevolezza di Nerone. Nulla però tanto screditò l’imperatore quanto le sue manìe di attore, di cantante, di citaredo. U n viaggio di esibizione artistica che egli volle compiere in Grecia, sembrò veramente prostituire la dignità e la gravità romana dinanzi a spregiati sudditi. Non poche personalità romane concepirono il disegno di liberare Roma da Nerone, alcune prime congiure fallirono, e le repressioni causarono la morte di illustri personaggi e vive reazioni, specialmente per la intrepida fierezza di alcuni dei condannati. Il dispre gio e l’odio dilagò nelle province, fu offerto l'impero al governatore della Hispania Tarraconensis Sergio Sulpicio Galba, che non lo rifiutò. L a fedeltà dei pretoriani vacillò, il senato dichiarò Nerone nemico pubblico, e, tentata inutilmente la fuga, il decaduto impera tore si uccise. Finiva con lui l’ultimo rappresentante di quella dina stia Giulio-Claudia che aveva potuto giovarsi deU’immenso prestigio derivatole, sia pure per via di adozioni, dalla discendenza di Cesare e di Augusto.
III.
LA LETTERATURA ■ LE ARTI LA L E G IS L A Z IO N E I PROBLEMI RELIGIOSI Dopo aver sommariamente esposto lo svolgimento dei fatti policiti, fermiamoci a considerare brevemente le attività più intime dello spirito durante questo primo secolo che va dalla affermazione di Augusto alla morte di Nerone. I Romani avevano esteso il loro domi nio così su popolazioni barbare e primitive come su genti che avevano avuto un’alta civiltà. Merito grande per essi è l’aver conservato, accre sciuto e consolidato quanto di nobile, di alto, di prezioso era stato raggiunto dal pensiero e dall’opera di chi li aveva preceduti, e l’averlo posto in valore, diffondendolo tra altre genti, nuove alla vita civile. Superiore a esclusivismi di qualsiasi genere, Roma si valse quale strumento di propagazione- così della lingua greca, come della sua propria, e questa, nata per soddisfare i bisogni di pochi pastori e agricoltori, ristretta già entro angustissimi confini, seppe con mi rabile rapidità portare a coprire metà del mondo conosciuto e a poter esprimere con maschia, sonora, agile virtù qualunque più complessa, più sottile concezione, qualunque più alto, più delicato sentimento. L a letteratura latina, che negli ultimi insanguinati decenni della repubblica aveva con prodigioso balzo raggiunto i fulgidi ardimenti del poema di Lucrezio Caro, la magnificenza sovrana delle orazioni di Cicerone, la squisitezza appassionata delle liriche di Catullo, la cristallina limpidezza dei Commentari di Cesare, si adorna durante il lungo reggimento di Augusto dei nomi sopra ogni altro gloriosi di Virgilio, di Orazio, di Tito Livio. Nella prodigiosa opera dei quali l’imperatore interviene con azione diretta di incitamento e di patroci nio, pur lasciando specialmente allo storico ogni più ampia libertà. Tutta la dignità e l’alta funzione a vile e sociale della letteratura si
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manifestano ora, lo scrivere non è più lo svago passeggero tra due campagne o tra due magistrature, come era apparso ai vecchi romani della repubblica, e neppure l’elegante passatempo di una società raffi nata, ma stanca, quale sarà tra poco. Orazio e Virgilio, di modesti natali entrambi, non rivestiti di magistrature o di comandi, trattano quasi da amici con Augusto, figlio di un Dio e padrone del mondo, e la loro poesia adempie in modo altissimo a una eccelsa funzione politica e civile. U na analoga evoluzione storica seguono nell’impero le arti. Nella Roma imperiale confluirono gli ammaestramenti e gli esempli di arti precedenti, la etrusca, la italica e in special modo la greca, che giunta sin già dal secolo V av. Cristo a sublimi altezze, arricchita di nuove esperienze e di nuove conquiste specialmente dopo i vittoriosi con tatti con l’Oriente Mediterraneo in seguito alla impresa di Alessandro Magno, si presentava ora agli occhi dei Romani con tale una copia, una magnificenza, una varietà di manifestazioni, che cercare altre vie per solo desiderio d’originalità sarebbe stata vana o stramba im presa. Ma nuovi concetti informatori non mancarono a quest’arte imperiale che in tutto il mondo mediterraneo raccoglieva, fondeva e potenziava tante nobili eredità. Nell’architettura lo spirito concreto, fattivo, conclusivo dei Romani ebbe le sue manifestazioni più insigni e più originali. Preoccupata più della rispondenza a uno scopo che della esteriore apparenza, l’architettura romana, più di ogni altra architettura del mondo antico, si propose il problema di creare grandi spazi interni, vaste aree coperte, e a quel problema grazie all’uso e al dominio dell’arco e della volta, assai parcamente usati nelle archi tetture anteriori, riuscì a dare insigni soluzioni che finirono per giun gere alle aule immense delle Terme, modello poi alle più grandiose basiliche cristiane. Altre forme architettoniche più specialmente volute e diffuse da Roma in tutta la superficie dell’impero furono i Fori, le Basiliche, gli archi trionfali, gli acquedotti, i ponti, gli anfiteatri. Anche i templi, magnifici, ebbero alcune loro caratteristiche che li distinsero dai templi greci. Nella scultura uno spirito realistico, storico si impose a forme e a motivi già esperimentati nell’arte ellenica. Esempio luminoso ne può essere l’Ara Pacis Augustae, eretta dal senato e dal popolo romano per celebrare il ritorno di Augusto dall’aver pacificato le pro vince occidentali dell’impero. Intorno all’ara un recinto marmoreo, di cui non pochi frammenti sono stati in quest’anno ricomposti, pre-
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sentava nel suo registro inferiore una superba decorazione a cespi e a girali di acanto, nel registro superiore la scena reale dei magi strati, del senato, dei sacerdoti che muovono incontro ai reduce imperatore. L o stesso spirito di concreta veracità si manifesta nei ritratti abbondanti nel mondo romano, e che congiungono ad un sicuro rendimento del vero una acuta penetrazione psicologica. L a pittura ci è conservata solo n di’opera decorativa che riveste le pareti di affreschi o di encausti, e anche di tale pittura ornamen tale serie abbondanti non abbiamo che a Pompei e a Ercolano, mo deste cittadine sepolte dalla eruzione vesuviana dell’anno 79. L a grande pittura è purtroppo andata tutta distrutta, ma anche dal l’opera degli artigiani che hanno dipinto le pareti di modeste case pompeiane, possiamo rilevare la maestria sicura, l’eleganza squisita cui quest’arte era giunta. Le stesse doti di una raffinatezza di gusto propria di una supe riore civiltà si manifestano nelle arti minori, quelle che giungono sino alla fabbricazione e alla decorazione della suppellettile dome stica, mirabile in qualunque materia dall’argento e dal bronzo al vetro, allo stucco, all’argilla. L ’esperienza del reggere in pacifica convivenza tanti popoli diversi, provvedendo al benessere di ciascuno di essi, la molteplicità dei bisogni e degli espedienti affinano intanto le doti tutte romane di lucido buon senso, di sicuro intuito di giustizia, e preparano la costruzione di quel superbo edificio che sarà il diritto romano. Un saggio insigne di equità romana ci è conservato in cinque lettere di Augusto recentemente restituiteci da una stele marmorea iscritta trovata a Cirene. Augusto e Claudio si preoccuparono molto di problemi religiosi, con uno spirito conservatore ma tendente a una elevazione e a una epurazione. L a tolleranza verso le religioni professate dai sudditi dell’impero fu sempre piena e completa, a meno che esse non si oppo nessero a principi! essenziali di civiltà, di diritto naturale, di mora lità. Particolari indulgenze e favori si ebbero verso la religione giu daica pur così assoluta nella sua intransigenza. Ma già fin da questa nostra epoca si separava e si distingueva sempre meglio dalla sinagoga la ecclesia di Gesù. Essa appariva poi più tardi come inconciliabile con la idea imperiale romana, perchè essa stessa è imperiale, e il suo impero vuole essere ancora più univer sale di quello di Roma, oltrepassarne le frontiere e giungere a tutti, al
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patrizio romano come all’ultimo schiavo. Non è improbabile, che fino dal tempo di Claudio la polizia romana abbia dovuto occuparsi delle agitazioni che specialmente in seno alle comunità giudaiche erano suscitate dalla predicazione dei Vangelo. N e avremmo indizii per Roma dal passo già citato di Svetonio (v. sopra pag. 30) e per Ales sandria d ’Egitto da una lettera dell’imperatore conservataci in un papiro. Con Nerone vedemmo una bestiale repressione scatenata con tro i Cristiani accusati di aver tentato la distruzione di Roma col fuoco. L e vere persecuzioni contro i Cristiani cominciano più tardi, e se ne tratterà appresso.
IV .
L’IMPERO SAPIENTE DEI FLAVI! E DEGL! ANTONINI GALEA
L a morte ingloriosa di Nerone, dell’ultimo che pur lontana mente potesse dirsi legato per sangue al divino fondatore dell’impero, creava una situazione oltremodo torbida e grave, e se ne videro infatti molto dolorose conseguenze. Il governatore della Gallia Lugdunense Giulio Vindice, che primo si era ribellato a Nerone, e che aveva persuaso ad unirsi a lui il governatore della Spagna Citeriore Sergio Sulpicio Galba, era stato vinto e costretto al suicidio dal legato della Germania iSuperiore. Ma le stoltezze e le indecisioni di Nerone non avevano permesso, che la repressione fosse continuata, e avevano invece provocato, come si disse, la defezione dei pretoriani e del senato. Ucciso Nerone, Galba fu riconosciuto imperatore, e mosse verso Roma. Ma l’adesione alla causa di lui fu più dovuta al caso che a calore di convinzione, nè egli era uomo tale da poter dominare la situazione. Intanto aveva settantatre anni, e la vecchiaia aveva reso anche meno amabile il suo carattere di antico patrizio romano : duro, rigido, parsimonioso, del tutto alieno dalle scervellate liberalità, dalle manie festaiole che avevano almeno in alcuni ceti so ciali dato una certa popolarità a Nerone. E queste sue asprezze egli manifestò subito e violentemente. I marinai della flotta di Miseno, che Nerone aveva portato per propria difesa a Roma, e ai quali aveva promesso miglioramenti di carriera, recatisi incontro al nuovo imperatore nella speranza di vedersi confermate le promesse di Nerone, furono, per ordine di lui, dispersi e calpestati dalla cavalleria che lo accompagnava : non pochi senatori furono con eommari procedimenti condannati a morte, nè più nè meno di come avveniva sotto Nerone. Anche le riparazioni
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alle ingiustizie di Nerone (recuperi di pazzeschi donativi ; restituzione di beni ingiustamente confiscati, etc.), lodevoli nelle intenzioni, fu rono eseguite male, e molto pare ne profittasse un liberto dell'impera tore, che in breve si conciliò più odii di quanti ne avessero raccolti i liberti di Claudio e di Nerone. Malcontento anche maggiore si destò, quando contro ogni attesa, il vecchio imperatore dichiarò di aver adottato quale figlio e di designare pertanto alla successione il gio vane Calpurnio Pisene Liciniano. E ra anche questi noto come un patrizio di vecchio stampo, e fece subito comprendere, quale sarebbe stata la sua linea di condotta, negando ai pretoriani in questa fausta ricorrenza della sua adozione qualunque donativo. Quei viziati militi si richiamavano i bei tempi passati, e volsero la loro attenzione a un gaudente signore: Marco Salvio Otone che era stato molto amico di Nerone, e aveva dovuto cedergli la propria sposa Poppea. Inca ricato poi da Nerone del governo della lontana provincia di Lusitania, aveva aderito al movimento insurrezionale di Galba, e ne aveva certo sperato qualche premio che la inattesa adozione di Pisone gli negava ora per sempre. I pretoriani avevano simpatia per Otone, e lo gridarono imperatore. Galba, sorpreso e privo di milizie fedeli, non ritenne conveniente al suo onore salvarsi con la fuga, scese dal Palatino nel Foro forse per arringare il popolo, ma raggiunto colà d a cavalieri pretoriani fu ucciso insieme al figlio adottivo. OTONE
Otone fu riconosciuto imperatore, ma le legioni di Germania che già negli ultimi giorni di Galba avevano compiuto atti di ammu tinamento, non vollero esse, milizie quasi sempre combattenti, esser da meno della legione del pacifico presidio di Spagna e dei ben pasciuti e imbelli pretoriani, e proclamarono imperatore uno dei loro comandcinti, Aulo Vitellio. L a scelta fatta con inconsiderata fretta e quasi per caso non poteva esser peggiore; ma a quei legio nari! induriti in guerre aspre e poco fruttuose, e più ancora alle truppe ausiliarie semibarbare assai sorrideva l’idea di una scorri banda nella ricca Italia e di una buona lezione d a dare a oziosi bor ghesi e agli odiati soldati del privilegio. L a marcia dai campi del Reno verso l’Italia fu subito intrapresa, e fu rovinosa per ognuna delle regioni attraversate. Otone non ebbe il tempo di preparare, una linea di resistenza sui passi alpini, e non riuscì perciò a salvare dall’invasione il Pie-
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monte e la Lombardia; quando le milizie cittadine e i marinai di Miseno che egli potè raggranellare giunsero al Po, i soldati d i V i tè llo avevano già occupato e fatto base di operazioni Cremona. Otone si portò a Placentia e a Brixellum ; dopo alquante scaramucce si com battè a Bedriacum il 14 aprile dell.a. 69, con decisi vantaggi dei Vitelliani. Poteva però forse ristabilirsi la situazione per l ’intervento prossimo delle legioni di Dalmazia e del Danubio che si erano con servate fedeli a Otone, ma questi, ritrovata nell’ora del pericolo quel la romana dignità, che pareva non potesse mancare neanche in un antico cortigiano di Nerone, non volle si continuasse per sua causa il tristo massacro tra soldati romani, e congedatosi con nobilissimo discorso dai soldati, avendo provveduto alla salvezza dei senatori che lo avevano seguito, si tolse la vita. VITELLIO
Vitellio fu riconosciuto dal senato, e si affrettò a venire a Roma, facendosi seguire da circa sessantamiìa tra legionarii e ausiliari, di venuti per la vittoria più indisciplinati e tracotanti che mai. Il nuovo imperatore stesso dava del resto i peggiori esempli, di nuU’altro preoc cupato che di corse, di spettacoli gladiatori!, di fastosi banchetti. II gavazzare non ebbe però lunga durata. Le legioni del Danubio e quel le d ’Oriente che avevano appreso quante promozioni, quanti donativi, quanta licenza era stata concessa ai propri colleghi della frontiera re nana in premio 'dell’aver mancato di fede all’imperatore, mal tolle ravano d ’esser rimasti fuori da tanta grascia. Specialmente malcon tente erano le milizie che da due anni erano impegnate in una san guinosa guerra contro i Giudei. E non queste sole ingordigie insoddisfatte si rodevano e si agi tavano; ma anche uomini di alta posizione sociale e consapevoli di una propria responsabilità sentivano il danno, il pericolo e la vergo gna del colpo di testa soldatesco che aveva dato Timpero a un tanto ignobile cialtrone. E ra a capo del forte esercito che combatteva contro i Giudei Tito Flavio Vespasiano, un uomo di modesti natali, ma che aveva mo strato in Britannia, in A frica e ora in Palestina solide qualità di soldato e di amministratore. Le personalità romane più vicine : Licinio Muciano governatore di Siria e Tiberio Giulio Alessandro prefetto d ’Egitto gli erano amici, e riconoscevano, che egli assai più di loro stessi godeva la stima e l’attaccamento dei soldati. Il i luglio
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il prefetto d’Egitto in Alessandria, qualche giorno dopo il governa tore di Siria in Antiochia proclamavano decaduto Vitellio e a lui sostituito Vespasiano. L ’A sia Minore quasi priva di milizie, ma ricca di mezzi, le province danubiane con le loro forti guarnigioni si dichiararono per Vespasiano. Il legato di una legione del Danubio Antonio Primo, senza attendere ordini o aiuti, trasse in rapida mar cia i suoi uomini in Italia, e riuscì ad occupare senza difficoltà buona parte del Veneto e della Lombardia orientale. Mudano avanzava attraverso l’A sia Minore, mentre Vespasiano stesso si recava in E gitto nel paese che primo lo aveva salutato imperatore, e dai quale dipendeva l ’approvvigionamento di Roma. Vitellio inetto e sorpreso non aveva sotto mano che le truppe le quali lo avevano accompagnato a Roma, numerose, ma guaste dalla indisciplina e dalla crapula con cui erano state premiate; le flotte di Ravenna e di Miseno passarono al nuovo imperatore. I Vitelliani si schierarono tra Ostiglia e Cremona, Antonio Primo aveva la sua base a Verona. U n durissimo combattimento ebbe luogo presso a poco nel luogo dove qualche mese prima erano stati sconfitti i soldati di Otone, questa volta furono i vincitori d’allora dopo un giorno e una notte di lotta sbaragliati e ricacciati dentro Cremona che presa poi d’as salto ebbe a soffrire un feroce saccheggio. L a sconfitta portò alla defezione delle guarnigioni del Reno, e alla ritirata e alla resa di altri reparti vitelliani in Umbria; solo a Roma si combattè dura mente nelle vie specialmente intorno al Campidoglio e al Castro Pre torio; il tempio di Giove Capitolino e il Tabulario, contenente pre ziosi documenti pubblici incisi in bronzo (trattati, leggi, etc.), furono distrutti dalle fiamme, ucciso il fratello di Vespasiano che rivestiva la carica di prefetto della città, e finalmente, quando le truppe di Antonio Primo irruppero per le vie Flaminia e Salaria, anche Vitellio fu ucciso e gettato nel Tevere. VESPASIANO
Vespasiano fu da tutti riconosciuto imperatore. Saliva con lui per la prima volta al trono un rappresentante di quella sana, sobria, animosa borghesia agricola italiana, che molto sempre aveva dato e che non molto aveva ricevuto. Figlio di modesta fam iglia di Reale (mod. Rieti) aveva fatto da sè la propria fortuna. Non si può dire, che egli sia stato un uomo di eccezionali doti, ma era fornito di
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tale buon senso, equilibrio, chiarezza di vedute, fermezza di spirito, che riuscì senza sforzi a riportare la pace e l’ordine nel mondo scon volto d a due armi di anarchia. G li fu di vantaggio Tesser rimasto lontano dall’Italia, dove la lotta civile ebbe le sue scene più tragiche. Quando i suoi partigiani poterono annunciargli la vittoria, venne dall’ E gitto in Italia, portando seco quelle abbondanti granaglie che restituirono un nuovo benessere all’esausto paese. A l comando del l’esercito impegnato contro i Giudei lasciò il figlio Tito. L a msurrezione giudaica era scoppiata negli ultimi anni di Nerone. Roma aveva cercato ogni mezzo per non urtare troppo la difficilissima popolazione di Palestina. A veva mostrato la più grande tolleranza e rispetto per le loro credenze religiose e per i loro costumi, aveva lasciato loro una semi indipendenza politica con principi indi geni a capo dello Stato; ma tutto era vano con la intransigenza ardente e assoluta del popolo eletto, che si riteneva depositario di una promessa di Dio, e che, quanto più grave era l’umiliazione e la decadenza, tanto più vicina sognava la liberazione e la venuta del Messia. U na grossa tempesta aveva minacciato di scoppiare, quando il frenetico Caligola aveva preteso di collocare proprie statue e di ricevere onori divini dentro il recinto del Tempio di Gerusalemme. L a tattica temporeggiatrice del governatore di Siria e la breve durata dell’impero di Caligola scongiurarono allora il disastro, ma il sospetto e il malanimo non furono sopiti. Nel settembre dell’a. 6 6 , essendosi allontanato il procuratore imperiale Gessio Floro, assai malvisto dai Giudei, un gruppo di ribelli occupò in armi la platea ■ del Tempio, pose assedio al palazzo del governo, e riuscì a pene trarvi e a massacrare la coorte romana di guardia. Fatti analoghi si manifestarono in altre città di Palestina, di Siria e d’Egitto, nè il legato di Siria con le forze di presidio riuscì a ricondurre l’ordine; anzi tutta la Palestina fu in mano dei ribelli. Vespasiano, posto al comando di una spedizione militare stra ordinaria, con azione metodica aveva riconquistato quasi tutto il paese, e attendeva, quando morì Nerone, ad assediare Gerusalemme, dove si era accentrata la furiosa resistenza dei ribelli. L a incertezza del biennio dei tre imperatori e la scelta del comandante a impe ratore fecero languire le operazioni che furono ora riprese da Tito. 1 .a città fu difesa con disperato accanimento, ma dopo cinque mesi di sanguinose lotte, conquistata metro per metro, tornò romana. Il Tempio, il luogo unico in terra che il Dio unico aveva prescelto per esservi adorato, il centro della vita religiosa e nazionale, era anche
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esso incendiato e distrutto. A i sottomessi non fu però proibita la pratica della loro religione, e si amò credere, che la ostinata resi stenza fosse dovuta solo a una frazione più intransigente e fanatica del popolo ebraico. Mentre si spegneva il grande incendio di Giudea, un altro ne sorgeva sulle sponde del Mare del Nord. U n capo dei fiatavi, popo lazione alleata d i Roma, dichiaratosi partigiano di Vespasiano, aveva cominciato ad assalire le milizie del Reno, elettrici di Vitellio, poi aiutato dai-Germani indipendenti, senza più darsi pensiero di Vitellio e di Vespasiano, aveva fatto crollare quasi per intero la linea di difesa del Reno. Fu necessario un notevole sforzo per ristabilire la situazione, ma ci si riuscì, e non si abusò della vittoria. Il capo della insurrezione, benché reo di tradimento perchè era stato insignito della cittadinanza romana, fu lasciato libero di riti rarsi tra i Germani indipendenti. Altre guerre non vi furono durante i dieci anni d’impero di Vespasiano, sicché tutta l'opera di lui potè essere data alla pacifi cazione interna, alla assicurazione dei confini, al riassetto delle sconquassate finanze, ottenuto specialmente con una saggia e parsi moniosa amministrazione che fece alquanto mormorare i sudditi male abituati dagli sperperi e dalle folli generosità di Nerone. Questo avaro però, che il popolino punzecchiava volentieri, ricostruì gran parte di Roma distrutta dall’incèndio Neroniano, dandole tra gii altri edifici quello che agii uomini del Medio E vo sembrò simbolo e pegno della eternità di Roma : il Colosseo. E la pace, il benessere, il buon governo, la fi-ducia rifiorirono in tutte le province dell’impero, rendendo degni di grato ricordo così i dieci anni nei quali governò Vespasiano, come i due nei quali si chiuse il reggimento del figlio e successore Tito. Mori Vespasiano nella sua villetta sabina, e tentò negli ultimi momenti di levarsi in piedi, chè in piedi affermò dovesse morire un imperatore romano. TITO
Buon impero che sembrò brevissimo quello di Tito, tanto seppe conciliarsi l’affetto e la riconoscenza dei sudditi. Nel primo dei due anni al 24 agosto dell’anno 79 un improvviso ridestarsi del Vesuvio, di cui nessuno conosceva attività vulcaniche, seppelliva due fiorenti cittadine della Campania : Ercolano e Pompei, e ne darmeggiava
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giavementè una terza, Stabia. L a spessa coltre di detriti vulcanici ha conservato alla nostra conoscenza preziose testimonianze della vita lie ta e comoda degli uomini del primo secolo dopo Cristo nella tranquil lità della pace romana. Le provvidenze adottate da Tito così per soc correre gli infortunati della zona vesuviana, come per alleviare le sofferenze di regioni colpite dalla peste, avevano singolarmente gio vato alla buona fama dell’imperatore che fu sinceramente pianto, quando in giovane età improvvisamente venne a morire nel settem bre dell’a. 8i. D O M I Z l A NO
Il fratello minore Tito Flavio Domiziano non trovò difficoltà ad essere riconosciuto imperatore. Dimostrò però tale incomposta e frettolosa avidità di assumere il potere, da far pensare ai malevoli persino a una soppressione col veleno del vigoroso e giovane Tito. Gli antichi scrittori sono tutti molto avversi a Domiziano, il quale fu SI un vanitoso, un timido, un sospettoso e dalla timidezza e dalla diffidenza fu talvolta condotto a ingiustizie e a crudeltà, ma non mancò di saggezza amministrativa, di intelligenza, di premura per il buon governo delle province, di amore alla cultura e alla magni ficenza delle costruzioni, sicché il suo governo, per alcuni riguardi almeno, fu giovevole all’impero. Persuaso della necessità di un accen tramento di poteri in senso monarchico, fu sgraziato e inabile neli’affermare il suo assolutismo, sicché venne ben presto in gra/ve dissenso col senato. Volle invece tenersi buono l’esercito, e non avendo mai avuto l’occasione o l’abilità di guadagnarne la stima e l’affetto con felici azioni di guerra, cercò di accattivarselo con dona tivi e con miglioramenti di carriera. Rafforzò la burocrazia di corte, alla quale ammise non più soltanto liberti e schiavi, ma anche cava lieri romani. Nelle relazioni con le popolazioni non soggette all’impero di Roma fu piuttosto prudente, talora anche troppo. Così troncò a mezzo i successi del valoroso governatore della Britannia Giulio Agricola, che avrebbero probabilmente condotto all'assoggettamento anche della regione montuosa più settentrionale (nord Scozia), rima sta poi sempre indipendente. E poco fortunato e poco energico fu rispetto ai Daci, popolazione barbara numerosa e unita sotto un sovrano unico, che abitava a nord dell’ultimo tratto del Danubio, e spesso molestava le due province romane di Mesia situate a sud del
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grande &ume. In una di queste incursioni le milizie romane d i pre sidio furono sgominate, ucciso il governatore, e tutta la provincia corsa e saccheggiata. Un esercito di soccorso comandato dal prefetto del pretorio re spinse gli invasori, e li inseguì nel loro territorio, ma procedendo con troppa baldanza fu sorpreso e quasi distrutto. Fu allestito un nuovo esercito che penetrò profondamente nel paese nemico, e ri portò belle vittorie, ma la fatua inesperienza di Domiziano che volle, mentre duravano le operazioni contro i Daci, punire altre popola zioni germaniche vicine,, e non riuscì, compromise ogni buon esito, e obbligò a una pace di compromesso non molto onorevole per le armi romane. Il confine del Reno fu ben guardato e protratto nelle valli degli affluenti di destra di quel fiume. Roma vide cancellare affatto le ultime tracce dell’incendio neroniano, e magnifici monumenti ne ac crebbero il fasto e il decoro. Ma il dissidio col senato e con l’alta società romana si fece sempre più aspro e violento, si formarono congiure, si sospettò che se ne formassero delle altre, e l’imperatore puni con sempre maggiore severità, specialmente se gli indiziati appar tenevano al senato. L a mala genia delle spie e dei calunniatori ebbe buon giuoco, nessuno si sentiva più sicuro della propria vita e della propria libertà. U na cospirazione sorse finalmente anche tra le per sone più vicine entro il palazzo imperiale stesso, e il i8 settembre dell'a. 96 un gruppo di liberti, schiavi e soldati uccise il sovrano. Il senato non era del tutto ignaro, infatti provvide immediata mente alla nomina del successore, e Io scelse nel proprio seno, nella persona di un vecchio mite e devoto al partito senatorio. L a memoria di Domiziano fu dannata, ossia revocati i suoi atti, distrutte le sue immagini, cancellate le sue iscrizioni onorarie. N E R VA
Marco Cocceio Nerva, chiamato dal senato a succedere a D o miziano, era un uomo di studio, figlio e nepote di illustri giurecon sulti, giurista egli stesso e letterato e poeta. Aveva rivestito le ca riche pubbliche della ordinaria carriera dei senatori, ma non mai aveva avuto comando di eserciti 0 governo di province. Non era pertanto una figura di primissimo piano, nè aveva mai desiderato l’impero. Non ebbe neanche la forza di rifiutarlo. Governò con grande bontà, in pieno accordo col senato, cercando di riparare il male fatto da
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Domiziano col richiamo di esuli, con la restituzione di beni confiscati. Ma i pretoriani non eran contenti di questo vecchio imbelle, scono sciuto negli ambienti militari, nominato senza il loro intervento, e che restituiva il denaro del fisco alle famiglie dei condannati, invece di distribuirlo tra i soldati, come aveva fatto tante volte Domiziano. Tumultuarono, imposero la condanna degli uccisori di Domiziano, minacciarono il vecchio imperatore. 11 senato si accorse di essere an dato troppo in là nella ricerca dell’uomo buono; Nerva avrebbe vo lentieri abdicato, ma lasciare scoperto il trono poteva essere in quel momento estremamente pericoloso. L a buona sorte aiutò a trovare un rimedio salutare. Nerva adottò come figlio Traiano, un uomo di alti meriti, uso a farsi obbedire dai soldati e tra loro assai reputato, e •il senato gli conferì subito la potestà tribunicia e la proconsolare, lo fece cioè uguale a Nerva. Accanto all’uomo buono era ora l’uomo forte. T re mesi dopo l’adozione Nerva moriva, non senza aver dato prove di una sincera volontà di bene, specialmente con istituzioni di assi stenza sociale che vedremo poi svolte e ampliate dal suo successore. TRAI ANO
E ra nato Mcirco U lpio Traiano nel Municipio di Italica nella provincia Baetica. L a remota città spagnola (moderna Santipono: presso Siviglia) aveva una storia gloriosa. Nel 205 av. Cr. quando ancora non era completamente allontanata dall’Italia la minaccia anni balica, gli uomini che durante le più tremende disfatte avevano man tenuto un esercito in Spagna, pensarono non essere inutile alla re pubblica tenere fermo il piede nella penisola iberica. E come le ne cessità urgenti della guerra non permettevano troppe dispersioni di forze vive, così agli invalidi del proprio esercito affidò Scipione A fr i cano il glorioso incarico di tenere a Roma un posto nella Baetica a poca distanza dalla fenicia Gades, e dall’A frica. Per tal modo sorse la città, e Scipione le diede un nome per gli uomini de! suo tempo singolare: Italica, quasi a riconoscere la salda fede dei soci nelle calamità della seconda punica. Il padre di Traiano, recatosi a Roma sotto Nerone, ebbe onori e cariche pubbliche, e fu governatore della provincia sua natale, della Siria e dell’A sia. Per tali alte posizioni paterne il giovane Traiano avrebbe potuto aspirare ben presto ad uffici onorifici e lucrosi, ma, più che trafficare nei Foro e intorno alla Corte, egli preferì il duro servizio alle frontiere, e per dieci anni continuò nei campi militari la vita del tribuno.
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Gli elementi dei quali si costituiva l’esercito romano in età impe riale, erano diversi da quelli che formavano l’esercito repubblicano. Se in teoria restava sempre fermo il principio che ogni cittadino ro mano era obbligato al servizio militare, in pratica però avveniva, ge neralmente, che militassero soltanto coloro che avevano scelto c- me propria professione quella delle armi, perchè il concorso dei volon tari per le necessità dell’effettivo numerico dell’esercito era ordinaria mente sufficiente. Il sistema di reclutamento aveva però i suoi incon venienti, perchè, come dice Tacito, per lo più erano i miserabili e i vagabondi coloro che si presentavano ad arruolarsi, e perchè non po teva per essi supporsi un vero e profondo spirito patriottico. Ma in quegli animi semplici e primitivi scendeva possente la edu catrice virtù della sapiente disciplina romana. Con formule solenni prestavano il loro giuramento che a differenza di ogni altro si diceva non iusiurandum ma sacramenlum. E il campo dalle vigilate invio labili porte, separato e lontano dalle città, li avvolgeva nel geloso suo segreto, e li distaccava per sempre dal mondo civile e borghese. Per fino gli affetti familiari erano ad essi preclusi, chè si erano negate al soldato fino al termine del suo servizio le justae nu-ptiae, il matri monio legalmente riconosciuto. Nè la fam iglia paterna per la -distanza di luogo, e per la diffi coltà dei viaggi e della trasmissione di notizie, aveva agio di tornar spesso a memoria ai soldati di Roma. Nel campo avevano essi ormai la città e la casa, e il foro e il tempio. Nume presente li vegliava nella corrusca immagine l’impe ratore, e splendeva innanzi a loro, con superstizioso terrore adorata, la santa aquila d’oro. E se figgevano in avanti lo sguardo, fuori da gli spalti, dalle feritoie, dalle torri di osservazione, vedevano essi mi steriose e paurose regioni, selve impraticabili, paludi nebbiose, im mensi tratti deserti, vasti fiumi vorticosi, oltre i quali vigilavano quo tidianamente nell’attesa famelica della preda i nemici del nome ro mano. Essi sentivano nella semplice rozzezza della loro anima fremere l’onda immane degli infiniti popoli, che spinti dall’indigenza e dall’accrescersi delle loro masse dovevano una volta irrompere sui ricchi e civili paesi romani, e sapevano che solo a frenarli era il terrore delle loro armi, il senso superbo della invincibilità romana. Quegli ufficiali romani che per più anni avevano tenuto il governo di tali milizie, avevano certo saldo il pugno e a Roma devoto il cuore. Divenuto Pretore sotto Domiziano, Traiano ebbe comando di le gioni in Spagna e poi governo della Germania superiore, ufficio anche
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questo più militare che civile, perchè, più che amministrazione di ter ritori pacihcati e ordinati, importava la tutela e la difesa del confine del Reno. Mentre esercitava queste funzioni, gli giunsero le notizie della uccisione di Domiziano, della elevazione al trono di Nerva, della sua propria adozione a figliuolo e della conseguente assunzione a una specie di correggenza che il vecchio imperatore, vissuto sempre fra gli studi giuridici, aveva ritenuto necessario di fare per por rimedio alla propria inesperienza militare. Nè però Traiano intermise, nè allora-, nè quando poco dopo Nerva mori, l’opera sua al confine germanico. Manifestava così quelli che furono i caratteri essenziali della sua per sonalità ; non quei doni eccezionali d’intelligenza e di altezza d’animo che Iddio largisce a pochissime creature, ma il possesso pieno e po tremmo dire eroico di quelle salde virtù, alle quali pare che ogni uomo sano e di buona volontà possa pervenire : onestà profonda di senti menti, raro senso di equilibrio e di giustizia, devozione assoluta al proprio dovere. Soldato nell’anima, esperto di ogni arte di guerra, avrebbe potuto facilmente procurarsi successi militari con le sue le gioni del Reno; non ne vide l’utilità per Roma, e solo attese alla opera modesta e silenziosa di assicurare quel confine con lavori di fortifica zione, con tracciamenti di strade, con opportuna dislocazione di trup pe, con acconci negoziati diplomatici. Nè la porpora imperiale cadu tagli inattesa sulle spalle lo ritrasse da quel suo compito. Roma lion assistè alla pompa di uno di quei trionfi sui Germani che spesso la sciavano insoluta ogni questione ; vide giungere a piedi il suo impe ratore quasi due anni dopo la sua elezione, ma potè ritirare dalla frontiera già così mal sicura del Reno un terzo delle sue truppe, e per oltre un secolo non ebbe necessità alcuna di spedizioni militari in quelle regioni, mentre centri fiorenti di vita civile si costituivano sin quasi sulle linee di confine, sorgevano fiorenti flottiglie commerciali del Reno e del Danubio, e merci e monete romane giungevano fin nel cuore della Germania, nella Danimarca, e nella Scandinavia. Assunto l ’impero, dato immediatamente il senso, che egli non avrebbe tollerato prepotenze di pretoriani, ristabiliti cordiali e sinceri rapporti di collaborazione col Senato, spazzata via quell’aria di so spetto e di timore che aveva fatto fiorire intorno al trono di Domi ziano la mala pianta dei delatori,, favorito il pubblico benessere non tanto con le distribuzioni gratuite di frumento, quanto col procurare con ogni sorta di provvidenze l’aumento della produzione, la facilità degli scambi e l’abbassamento dei prezzi, diminuite o abolite alcune imposte e resane più umana la esazione, iniziati grandi lavori pub-
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blici specialmente di porti e di strade, la pace regnò sovrana e be nefica su tutto il vasto Impero. Ma la raggiunta serena prosperità non accontentava il sagace, infaticabile imperatore. Occorreva provvedere a perpetuare questa sa lutare, questa prodigiosa -pax romana, occorreva pensare al futuro, di fendere cosi grande bene da nemici esterni ed interni. Nemico interno era principalmente l’adagiarsi nel benessere con tutte le sue conse guenze: mollezza di costumi, vuota spensieratezza di vita, sostitu zione della villa deliziosa ma sterile ai campo fecondo, scarsezza della prole. Nemici esterni le popolazioni meno felici, talora addirittura fa meliche tutt’intorno ai confini dell’Impero, e tra queste specialmente le due costituite in Stati unitari vasti e possenti : i Daci e i Parti. A l primo più grave malanno di scadimento interno si cercarono ogni sorta di rimedi: più originale forse d ’ogni altro come concetto e come attuazione quello delle insiitutiones alimentariae. Due grandi iscrizioni trovate l’una presso Parma, l’altra presso Benevento ci infor mano della geniale trovata. Destinava dunque Traiano cospicue som me della cassa imperiale, perchè fossero date in prestito a mite inte resse a proprietari terrieri di città italiane ; i mutuatari dovevano far iscrivere nei registri municipali uno o più dei loro fondi quale g a ranzia del prestito, e gli interessi erano devoluti a favore di fanciulli e fanciulle povere della città. Il principio e la linea della istituzione erano doppiamente benefici, perchè non solo per essi si soccorrevano le famiglie bisognose, aiutandole nella educazione della prole, ma si fornivano capitali a miti condizioni alle piccole proprietà private. Dei nemici esterni minacciosi apparivano i Daci, costituiti in potente Stato a nord del Danubio, violatori frequenti del confine ro mano e cresciuti di potenza e d’orgoglio durante l’ultimo regno di D o miziano per aver sconfitto due eserciti romani e aver ottenuto dal l’imperatore un trattato di pace oltremodo favorevole con annuo pa gamento di somme in denaro e impegno di fornire istruttori militari e tecnici al Re barbaro. Scarsa efficienza bellica offriva la piatta pro vincia romana di Mesia (Valacchia moderna) di fronte alla boscosa e montuosa Dacia (Transilvania) e insufficiente sbarramento era il Danubio, grande corso d’acqua, ma che in inverno ha la cattiva abi tudine di gelare e di offrire perciò ai barbari facile passaggio. Non solo, ma la Mesia aveva di fronte i Daci ed alle spalle i Traci, popola zione montanara incompletamente assoggettata ed affine ai Daci per stirpe e per linguaggio. E ra poi esiziale al prestigio romano l’aver comperato la pace con un annuo pagamento quasi di un tributo, men-
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tre le ossa di due generali romani biancheggiavano insepolte e inven* dicate nelle foreste di Dacia, e l’aquila di una distrutta legione or nava la Reggia del sovrano barbaro. L a guerra era necessaria, e a prepararla validamente Traiano dette subito opera. L e larghezze e la megalomania di Domiziano non avevano lasciato m floride condizioni il tesoro romano, nè la politica finanziaria di Traiano, molto generosa verso i contribuenti, poteva mettere riparo a tale condizione di cose. Con soldatesca baldanza pensava Traiano, che la conquista della Dacia e delle sue ricche miniere di ferro e d’oro avrebbe ristabilito la saldezza del bilancio, ma per le immediate necessità della guerra occorreva denaro liquido. L a semplicissima vita dell’imperatore potè provvederlo. Non solo le spese di corte furono enormemente ridotte, ma si provvide a larghe vendite della ingente massa di beni che confische, doni, legati testamentari, acquisti ave vano attribuito al patrimonio imperiale. Per tal modo non solo si ot tenne la copia di denaro necessaria, ma si restituì alla vita quello che la gelosa avidità di un solo mal poteva sottrarre all’abbandono e alla improduttività. L e guerre contro i Daci furono oltremodo dure, diffìcilissimo il terreno boscoso e montuoso da percorrere, nuovo ai romani invasori, ben noto ai valorosi e tenaci difensori, grande condottiero il loro so vrano Decebalo. L a prima spedizione durata due anni dal lo i al 102 aveva condotto a parziali occupazioni e a riconoscimento di pro tettorato romano. Ma la risorgente protervia dei barbari rese neces saria la seconda spedizione e il completo assoggettamento della re gione, ridotta tra il 105 e il 107 a provincia romana. G li avvenimenti delle due guerre sono raffigurati sulla insigne colonna scolpita di Roma, e i caratteri essenziali di tale celebrazione è d’uopo che siano rilevati. Quello spirito d i sin«rità e di giustizia, che spira da tutti gli atti di Traiano, animò anche la glorificazione artistica delle gesta di lui, che fu illustrazione fedele, veridica, lontana da ogni enfasi e da ogni esagerazione, generosa e cavalleresca coi vinti, piena di nobiltà e di umanità. L a verità storica è rispettata fino al punto di esprimere anche episodi spiacevoli e ingloriosi : prigionieri romani torturati da donne dace, soldati romani feriti che gettano grida di dolore sotto i ferri dei medici, persino legionari che volgono le spalle. Con la più grande signorilità è reso ogni omaggio al valore sfortunato dei vinti : i principi Daci che si avvelenano per non cadere prigionieri, il vec chio che raccoglie sul campo di battaglia il cadavere del figlio, e
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sopratutto le ultime scene in cui appare Decebalo, sono fra le più patetiche e le più umane di tutta la colonna. Decebalo dall’alto di un monte parla ai suoi. Tutto è perduto, non solo ogni più lieto sogno di grandezza e di potenza, ma resi stenza stessa della patria, del regno dacico, così faticosamente riu nito, è rotta e spezzata per sempre. Intere tribù si sono arrese ai Romani, e nel tristo oblio della patria, hanno accettato, pur di vi vere, altre residenze e sudditanza entro i confini dell’Impero, o, dalla viltà passate al tradimento, militano nelle file degli oppressori. E l ’avanzata romana procede sicura, implacabile, estirpando dalla ra dice ogni più tenue speranza di una futura riscossa. Tenta ancora una volta il re col suo discorso dal monte di riani mare lo spento coraggio dei suoi? Ma non v’ha ricordo di gloriose unprese insieme compiute, non v’ha rievocazione di antichi sogni di grandezza, non v’ha fervida parola di possente e geniale dominatore, che possa ormai vincere lo scoramento dei Daci. L e case e le città distrutte, le famiglie uccise o disperse, la inesorabilità della ferrea stretta romana appaiono a quegli spiriti come sventure non più su perabili dalle forze umane. E alcuni, i più vili, si prostrano all’in vasore, e ne implorano la pietà, altri solo nel micidiale misticismo delle loro idee religiose trovano l’ultima soluzione. iLa religione dacica di Zamolxis concede il suicidio come l’ultimo conforto ai troppo gravemente percossi dalla sventura, lo esalta anzi, e lo sublima con soprannaturali promesse. I Daci che hanno ascoltato il discorso del loro re, si sbandano e si uccidono. Soltanto l’indomito re, più grande del suo Iddio, non si arrende, nè cerca nella morte robiìo, ma tenta di sottrarsi ai Romani, nella magnanima speranza di trovare forse ancora nelle montagne più remote o tra le imprati cabili foreste il mezzo di preparare la riscossa e la vendetta. Senonchè la cavalleria romana Io insegue instancabile, e, circondatolo da ogni parte, lo ha già quasi nelle sue mani, superbo ornamento della pros sima pompa trionfale. Allora soltanto, inesorabilmente caduta ogni speranza, un rapido colpo di spada inferto con mano sicura alla gola toglie con la vita la minaccia dell’estremo disonore. L a scena del ri lievo ci mostra i cavalieri romani, che si gettano da cavallo per ar restare il gesto suicida di colui che essi avevano ordine di portare vivo, ma non giungono in tempo. Raramente l’arte di un popolo vincitóre, celebrando la propria vittoria, ha saputo trovare accenti di così nobile rispetto per i vinti. Non parliamo delle arcaicissime arti egizia e assira che con barbarica
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ferocia si compiacciono di rendere quanto più possono sconcia e ridicola la strage e la fuga dei vinti. Non parliamo delie ingenue rappresentazioni medioevali, ma perfino la nostra grande arte italiana non ha saputo rendere con tanta generosa nobiltà onore al nemico. I grandi pittori veneziani, celebrando sulle pareti delle saie del P a lazzo Ducale le glorie della Serenissima, non si astengono dal dare ai nemici, quasi solo attributo, bocche urlanti e corpi oscenamente ruz zolanti.
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Immediata e fervidissima opera si diede alla organizzazione del nuovo territorio ; sostituito con costruzione in pietra l’ardito ponte in legno gettato durante la guerra sul Danubio, portate nella nuova pro vincia larghe masse di coloni, aperte strade, fondate città, Traiano riusciva in brevi anni a creare nell’iEuropa orientale una civiltà latina, così come Giulio Cesare e Augusto l’avevano fondata nella occidentale. E sì vivace e profonda fu la impronta di romanità, che corso di secoli e mutar di vicende non valsero a cancellarla. Poco più di un secolo durò l’occupazione romana della Dacia, nè molto di più quellfi della Mesia Inferiore, tre o quattro generazioni adunque in tutto; eppure un intero popolo, il romeno, attraverso secoli di miserie inau dite, d i servitù obbrobriose, di abbrutimento, di ritorno alla barbarie, vedendo inaridire e spegnersi ogni sua fonte di vita e di ricchezza, distruggersi ogni cultura e ogni intellettualità, perdersi qualunque con tatto, anche quello religioso, con la madre antica, ha serbato illesa e vivida la nobile fiamma della sua romanità, e in essa ha trovato la sua estrema difesa per non perire. Il vago ricordo d i essere stati Ro mani ha infranto la violenza slava, la tartara, l’ungherese e la turca, ha ricomposto a dignità di nazione un disperso gregge di schiavi, e nelle pianure danubiane e sui monti di Transilvania Roma eterna ancor oggi è con trepida passione acclamata madre grande, possente e benefica. Non mancarono nobili e utili celebrazioni del trionfo dacico. Gli immensi lavori del nuovo porius Traianus, scavato entro terra presso le foci del Tevere, dei mercati traianei sapientissimamente adattati entro le viscere del Quirinale, del Foro Traiano, diedero a Roma co spicue comodità e insuperate magnificenze. U na posizione alquanto più netta e decisa di quelle tenute dai predecessori dovette Traiano assumere rispetto ai Cristiani, numerosi ormai in tutto l’impero e chiaramente distinti dai seguaci di altre religioni ; e un cospicuo documento deiratteggiamen.to di lui ci è ri masto nella corrispondenza di lui con Plinio il Giovane, governatore
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della Bitinia. Chiede Plinio, come deve regolarsi coi cristiani, nume rosi nella sua provincia, non sapendo perchè e in base a quale dispo sizione di legge essi siano stati talvolta puniti. Risponde l ’imperatore, non esservi una norma generale, non doversi perciò i cristiani ricer^ ca re , se però siano denunciati, e invitati a prestare ossequio alle divinità dell’impero, non obbediscano, siano puniti. Non si accolgano però denunzie anonime. Traiano non presta fede alle calunniose voci che accusavano i Cristiani di ogni sorta di delitti, riconosce però, che essi non sono in perfetta armonia con le direttive dello Stato, e li punisce se rifiutano di obbedire. Questo fondamento giuridico delle persecu zioni contro i Cristiani è rimasto presso a poco inalterato fino a nuove sanzioni più decise e più generali stabilite dall’imperatore Decio (v. appresso pag. 71). U n ultimo grave problema restava : quello della frontiera orien tale. -Gravava su quella frontiera il potente impero dei Parti, erede del già immenso impero persiano. Barriera chiusa ai commerci con l’India difficilmente intrattenuti attraverso il Mar Rosso e l’Egitto, minaccia perenne alla sicurezza delle provincie di Siria e d’A sia Minore, già antichi possessi persiani. Roma e la Partia, unici due grandi imperi nel mondo antico, da dije secoli si toccavano e si urtavano sui confini di Armenia, di Cappadocia, del deserto siriaco, e la instabilità di equilibrio tra le due grandi forze presentava non meno vivace e dram matico interesse d i quello che nella storia più a noi vicina abbia pre sentato o presenti la sempre viva questione d’Oriente. Come un ultimo dovere ritenne il vecchio imperatore di affrontare ora nella pienezza delle forze dell’Impero anche questo problema. E g li era riuscito per mezzo del legato Cornelio Palma ad organizzare in provincia l’Arabia, attanagliando così i Parti dal sud, e guadagnando ai Romani tm nuovo sbocco commerciale verso oriente col G olfo di Acaba. Poi credette giunto il momento opportuno per una più energica e definitiva azione. (La spedizione, mossa da Antiochia e guidata personalmente dal l’Imperatore, portò a brillanti vittorie, ma anche a gravi sacrifici del l’esercito e al logorìo completo delle forze di Traiano che più che ses santenne aveva per tre anni marciato" a piedi, come egli era solito di fare, vecchio fante romano, tra i gelidi monti di Armenia e tra le torride pianure di Mesopotamia. Antiche forme morbose aggravatesi nelle durissime fatiche di guerra e inacerbite forse da una serie di avversità: guerra non mai finita, disastrosi terremoti nella provincia romana di Siria, furiosa insurrezione giudaica alle spalle dell’esercito operante, trionfarono del robustissimo organismo, e in una cittadina
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di Cilicia, sopravvenuto probabilmente un colpo apopletico, l’impera tore quasi improvvisamente morì. L a tradizione storica degli antichi, quasi sempre malevola per l ’impero, suggerisce il sospetto, che l’adozione di Adriano quale figlio non sia stata compiuta dal morente Traiano, ma sia stata inventata dalla vedova di lui Plotina. Se anche sia stato così, fu molto saggio consiglio lasciar credere a una adozione di Traiano; la successione si ottenne cosi, senza urti e senza difficoltà, nella persona più vicina e investita del cornsindo della più grande adunata di truppe allora in piedi. Publio Elio Adriano, nato anche lui ad Italica, era parente del defunto imperatore, gli era stato affidato orfanello decenne, e aveva sposato una nipote di lui. ADRIANO
Con Adriano sembrò salisse sul trono dei Cesari il prodotto' più squisito delle due grandi civiltà del mondo classico, la greca e la la tina. Bello e vigoroso, intelligentissimo, di vasta cultura letteraria, filosofica, scientifica, appassionato di cose d’arte e di più arti egli stesso ottimo cultore, ammiratore e ricercatore studioso di ogni ma nifestazione del genio greco, e al tempo stesso soldato e capitano di alti talenti militari, sperimentato in uffici 'di governo di grave re sponsabilità, amministratore avveduto e sagace, lavoratore e viaggia tore indefesso, universalmente conosciuto e apprezzato. Non gli man cavano difetti, quelli specialmente propri ai troppo favoriti dalla sorte : concezione troppo esclusivamente estetica della vita, inconten tabilità, scetticismo, volubilità, disprezzo degli altri. Ciò non ostante, anch’egli fu un grande imperatore. Il primo problema che gli si presentò fu quello della situazione lasciata da Traiano. L e vittorie riportate sui Parti erano state splen dide, ma, come avviene nell’immenso Oriente, nulla era stato defini tivo, i trionfi erano rimati sterili, il nemico ancora in piedi, inaffer rabile, la rivolta alle spalle dell’esercito. Tutto era da ricominciare e d a continuare per qualche anno; ora un imperatore già sicuro del proprio trono e circondato da generale ammirazione come Traiano aveva potuto trascorrere lontano dalla capitale gli ultimi tre anni della propria vita, ma era prudente, che il nuovo nominato continuasse ad essere assente? T ali considerazioni poterono sull’animo di Adriano più che il miraggio di glorie militari; se già Traiano aveva rinunciato al primitivo disegno di assoggettare completamente la Partia, e si era
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Nell ordinamento giuridico e amministrativo dell’impero Adriano lasciò tracce profonde. Fissò e codificò la interpretazione e la appli cazione delle leggi, per antica consuetudine determinata anno per anno con un editto del pretore urbano, diede grande importanza al consiglio imperiale a scapito delle facoltà del senato, diede forme di pubblici 'dicasteri diretti da cavalieri romani ad uffici di corte finora di funzione quasi privata di aiuto all’imperatore e retti perciò da suoi liberti e schiavi, fu sagace e accorto nell’amministrazione finanziaria, in tutto volle portare ordine e chiarezza. Appassionato di architettura, costruì molto in tutte le province, più diretta opera sua furono in Roma il tempio di Venere e Roma, e la propria grandiosa tomba (C a stel S . Angelo); a Tivoli la propria fastosa villa, nella quale sembrò sbizzarrirsi così nel riprodurre monumenti che lo avevano interessato nei suoi viaggi, come nel cercare singolari soluzioni a problemi di statica e d i pianta di edifici. Non gli fu gradito il soggiorno nella splendida villa; malato, d i venuto triste e sospettoso, inviso al senato, senza conforti familiari, finì miseramente nel 138 una vita per tanti anni coronata da ogni successo. ANTONINO
PIO
Non molto prima di morire aveva Adriano adottato quale figlio e designato con ciò alia successione il senatore Tito Aurelio Antonino, nato cinquant’anni prima a Lanuvio. L a scelta fu ottima, il nuovo imperatore cdie in svariati alti uffici pubblici aveva dato rare prove di intelligenza, bontà, rettitudine, maturità e saggezza di preparazione, affinò ancora tali doti in ventitré anni d'impero, e niuno gli avrebbe forse tolto la fama di ottimo tra tutti gli imperatori romani, se il suc cessore di lui ilarco Aurelio non lo avesse superato, se non altro per la notorietà delle ammirevoli pagine dei suoi Ricordi. In ogni modo il periodo di governo di Antonio Pio (138-161) segna l’epoca più felice dell’impero per tranquilla prosperità, sicuro prestigio, indisturbata pace. Qualche molestia di tribù indipendenti ai confini della Mauretania e della Britannia fu facilmente repressa, e in Britannia la linea fortificata di frontiera verso la Scozia, già fis sata e munita da Adriano, fu portata innanzi per un centinaio di chi lometri nel tratto meno largo della regione tra la foce del Fortfi e qudia del Clyde. Prudente e ritenuto nel campo delie rifoim e legisla tive dopo le grandi innovazioni di Adriano, temperò sempre che
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potè le rigidità del diritto con un largo senso d i indulgente umanità, fu amministratore sagace e oculato, devoto conservatore della reli gione ufficiale, deferente e cordiale verso il senato. Seguendo un desiderio manifestato da Adriano, adottò come figli Marco Annio Vero, il futuro Marco Aurelio, e Lucio Elio Aurelio Comodo, il futuro Lucio Vero. Morì nella sua villa di Lorium il 7 marzo del 161. MARCO
AURELIO
Antonino Pio vicino a morire aveva fatto trasportare neU’appartamento di Marco Aurelio la statua d’oro della Fortuna, segno del potere imperiale, e aveva con ciò dimostrato, quale dei due figli adot tivi egli riteneva più degno del trono. Ma la scrupolosa integrità di Marco Aurelio non volle fossero trasandati i diritti del fratello adotti vo, e lo fece riconoscere dal senato suo collega nell’impero. I due A u gusti, che per la prima volta con poteri assolutamente uguali sedevano sul trono di Roma, erano molto diversi come uomini. Marco Aurelio inclinato agli studi speculativi e con sincero fervore devoto agli ideali stoici della virtù e del dovere, Lucio Vero assai preoccupato della propria non comune bellezza fisica, indolente e frivolo. Per fortuna questa stessa indolenza e un senso di rispetto che la dignitosa vita di Marco imponeva a chiunque, fecero sì che per lo meno egli non creasse imbarazzi. Il peso de! governo de! mondo rimase tutto sulle spalle di Marco, e fu oltre modo difficile e grave. Ogni sorta di calamità si abbattè sull’ impero, sicché può dirsi, che proprio ora comincia quel fatale declinare dello stato di Roma, che sarà sì ritardato dalla devozione e dalla virtù militare di alcuni dei suoi uomini migliori, ma che non potrà più essere arrestato. Terremoti, mondazioni, carestie, pestilenze, nessun flagello mancò a questi anni, e ad essi si aggiunsero irruzioni sempre più numerose e frequenti e vio lente di popoli barbari contro le frontiere romane, che per quanto respinte portarono però a immensi disastri e a gravi difficoltà finanzia rie. A questo cumulo di sciagure l’uomo di studio, che per tempera mento e per educazione sarebbe stato alieno da attività pratiche e da cose di guerra, oppose l’eroico senso del dovere, e fu, si può dire, quasi costantemente in armi, ^ di fronte al nemico morì dopo otto inverni trascorsi ai gelidi confini del Danubio. Appena morto Antonino cominciarono a muoversi Germani e Bri tanni, e subito dopo il nemico più potente : il grande regno dei Parti.
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Scacciarono questi il re di Armenia amico e cliente di Roma, e inva sero le province romane di Cappadocia e di Siria. L a situazione divenne tanto grave, che Lucio Vero fu m