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Italian Pages 260 [252] Year 2001
Capitolo I Premesse storiche e culturali
Ll.l. Dell’impresa scientifica
L’immaginario urbano nel cinema delle origini rientra in quella cartografia dai confini quanto mai labili segnata dall’accostamento fra l’arte del cinema e quella dell’architettura: tenitori che rendono incerto il rilievo scientifico, lande attraversabili con mezzi di trasporto lento, curiosando, spulciando, smarrendosi in fascinosi e a volte inospitali anfratti. Qualcuno ha parlato del viaggio come antidoto alle mediocri certezze dei sedentari e, forse, l’idea un po’ antica dell’errare - nel suo duplice senso, quello del vagare con incerta meta e l’altro, riferito piuttosto allo sbagliarsi - ha accompagnato la ricerca. Mi pare lo abbia fatto non solo metaforicamente, se è vero che questi sono stati anni di soggiorni all’estero, di seminari di studio in paesi diversi, di liberi scambi intellettuali con l’universalistica comunità dei ricercatori1. Questo vagare ha anche sfiorato altre discipline: arduo è risultato isolare la specificità fìlmica dalla molteplicità di pratiche «artistiche e dal complesso di relazioni culturali nel quale pulsano, e dal quale si nutrono, i primi tempi del cinema. Schizzare una mappa sulla città nella veduta Lumière risulta un buon esercizio di relatività disciplinare, perché evidenzia, apertamente, i rischi della specializzazione. Molto è già stato scritto sugli “inventori del cinema” e ciò ha significato una proliferazione letteraria a diversi livelli d’astrazione, da biografie romanzate a pamphlet meramente celebrativi, da tascabili a larga diffusione popolare a opere rigorosamente scientifiche. Ma moltissimo è già stato detto anche sulla città, meglio, sull’idea e la rappresentazione di città fra Otto e Novecento, e ciò rende fondamentale la messa a punto di strumenti concettuali in grado di lavorare “in transferta”, alla frontiera fra tali domini del sapere. Forse il problema sta proprio nel fissare un oggetto ibrido - l’immagine della città - capace di attraversare diversi ambiti disciplinari, per cui il curiosare diviene quasi necessità, al di là delle filmografie, delle specifiche tecniche, delle storie del cinema, nella speranza che i precari modelli ai quali mi affido consentano perfettibilità e corto circuiti ignoti ai profeti dei paradigmi
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stabili. Mi toma alla mente la chiosa di Cesare De Seta nella presentazione al bel volume sul paesaggio curato per la Storia d’Italia della Einaudi: Con questa ricerca si è tentato un abbozzo di quel che si potrebbe fare se gli steccati disciplinari si fossero d’incanto dissolti e ciascuno, con umiltà, avesse vestito il saio della penitenza (disciplinare) alla ricerca di nuove relazioni ed aggregazioni nel vasto campo del sapere storico2.
Nella prima parte del lavoro indicherò quindi gli accorgimenti e le precauzioni metodologiche per tarare categorie estetiche “di confine”; sfumando pur invitanti paesaggi ermeneutici, cercherò di calibrare il concetto di immaginario urbano, riferendolo specificatamente alle vues Lumière. Ne esplorerò l’evoluzione aH’intemo della visionarietà “precinematografica”, affrontando il cammino della veduta di città dalla camera oscura alla cronofotografia. Le strade seguite dalla ricerca hanno consentito a questa parte del lavoro di crescere quasi per accumulo, in un accostamento paratattico di fonti documentali che parevano ridistribuire certe temporalità, attutire qualche primigenia, dilatare percorsi iconografici dei quali non era possibile ignorare aspetti antichi e ricorrenti. Lavorare alile origini del cinema ha poi significato confrontarsi con un certo disagio della memoria. L’origine non pare quasi mai cosciente della sua essenza, sono i modi di guardarla della storia a costruirne la consapevolezza. Per alcuni studiosi l’ombra del passato grava sul panorama dei futuri immaginabili. Non esistono lacerazioni violente e l’osservare la “continuità” delle origini consente di predisporre ipotesi per il domani. Per altri, le origini risultano invece una sorta di riscatto del nuovo, un salto, uno dei tanti cui ci ha abituato il tempo non lineare della storia, col quale librarsi a valicare l’inerzia della tradizione. In tale prospettiva, le origini sono la scoperta di mondi nuovi, un’invenzione rivoluzionaria, il peso degli antenati spazzati via per ricollocarsi al centro della riflessione storiografica. La questione fondamentale che mi accompagnerà nella seconda parte del lavoro riguarda proprio il significato delle supposte origini del cinema. Quali debiti, oltre che quali fratture, il cinema contrae con precedenti manifestazioni del vedere strumentale? Quali modelli utilizza la storiografia per tratteggiare la nascita della settima arte? E perché la rappresentazione di città può contribuire a delineare prestiti e specificità del cinema nascente? Le ipotesi delineate risulteranno basi necessarie per osservare dialetticamente le idee di città emergenti nella terza parte del lavoro, quando affronterò specificatamente le vedute della collezione Lumière: a questo punto tenterò di coniugare il cinema osservato in prospettiva storico-estetica, cioè come storia dell’arte cinematografica, col cinema soggetto di tracce di una storia più generale, una lunga storia della cultura nella quale sono custodite idee e rappresentazioni della città.
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1.1.2. Lo sguardo nuovo della storia
Le origini e la storia, il cinema e la città, la veduta e l’immaginario: un territorio impervio che inizio a topografare a vista, giusto una base sulla quale riportare misurazioni e cifre più precise. In anni nei quali gran parte delle categorie analitiche definite dalla teoria (dal concetto di “autore” a quello di “opera”) paiono rivelare una discreta incapacità nell’evidenziare l’“impurezza” della settima arte, la storiografia del cinema assorbe concetti guida e modalità di ricerca già ampiamente utilizzati dalla nouvelle histoire. La nuova storia al cinema Un primo, semplice concetto, coinvolge l’idea di lunga durata o, meglio, la definizione della convivenza fra una storia quasi immobile (storia misurata da mentalità, pratiche, territorialità resistenti ai tempi lunghi), una storia contrassegnata da forze dotate di una certa permanenza e, terza, una storia dei cambiamenti, giocata piuttosto sull’irruzione di nuove tecnologie e mezzi di comunicazione: una prospettiva importante per la ricerca e sulla quale non mancherò di tornare3. Un altro concetto introdotto dalla nuova storia e scarsamente, pur se a volte con risultati apprezzabili, utilizzato dalla riflessione cinematografica, è l’introduzione di modalità d’analisi antropologiche, quali lo studio delle mentalità e degli immaginari. Tali prospettive emergono chiaramente negli anni del rapporto fra cinema e storia, con le ricerche di Marc Ferro (Cinéma et histoire) e di Pierre Sorlin (Sociologie da cinéma)\ in particolare, oltre a introdurre un modello strutturato di cinema come fonte4, il film viene pienamente considerato quale “opera immaginativa”, capace cioè di superare la distinzione fra fiction e documentario già profeticamente individuata da Morin nel suo II cinema o l’uomo immaginario5. Dunque, valutazione di fenomeni legati alle mentalità e inserimento di prospettive di lunga durata. Da questo belvedere il cinema scruta plurisecolari vicende della visione strumentale, il succedersi metamorfico di esperienze che consentono alla veduta cinematografica dei Lumière di rappresentare un condensatore di tempi e di storie antiche, ma anche di tempi e di storie modernissime. L’ampiezza di questa prospettiva nasconde qualche insidia: la difficoltà nel ricomporre i tasselli di un mosaico interdisciplinare, una certa ambiguità ed indefinitezza dei concetti, la taratura di altri - si pensi all’uso di nozioni quali “approccio socio-culturale”, “civiltà industriale”, “modernità”. Ma la storia che “meravigliosamente funziona” è storia da manuale, frutto della cultura positivista, storia nella quale il contesto resta un telone dipinto, sul quale il momento assiologico presenta i suoi attori: una storia di artisti e capolavori che Michèle Lagny relaziona al modello della Storia dell’arte di Gombrich6. D’altronde, la cultura scolastica necessita di scelte esemplificative, dove il cinema offre lo “spunto” per un discorso contenutistico che lo valica e,
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al tempo stesso, lo rappresenta artisticamente. Il problema pare allora quello di garantire una dialettica fra ambiti differenti, per cui Vhistoire panthéon (in realtà storia semplice di date e gerarchie, capolavori e grandi cineasti) sappia spogliarsi dell’aura nobiliare per aggiornare continuamente i suoi cataloghi e garantire l’idea della complessità formale, tecnica, sociale, produttiva del cinema e, dal canto suo, la ricerca universitaria e post universitaria sulla storia, sull’estetica e sulla teoria, riesca a far partecipe la storia semplice dei nuovi territori esplorati7. L’approccio socio-culturale Un altro filone in crescita di studi sul cinema riguarda i cosiddetti approcci socio-culturali. Esemplare è la ricerca di Tom Gunning sul concetto di cinema delle attrazioni, con il quale i primi tempi del cinema vengono osservati in relazione ai più vasti fenomeni della modernità e del consumo8. La messa in crisi di modelli storiografici precedenti avviene attraverso un’attenta analisi dei cambiamenti sensoriali indotti dall’avvento della civiltà industriale, analizzati nel sistema planetario delle nuove comunicazioni di massa. Il concetto di cinema delle attrazioni si pone, congiuntamente, quale indagatore di modalità ricettivo spettatoriali, come modello teorico-estetico (alternativo o complementare a quello narratologico), come messa in discussione della storica dicotomia fra arti nobili e arti popolari, come passe-partout fenomenologico per l’analisi di categorie della modernità quali il transitorio, il fuggitivo, il contingente. Insomma, esperienze visuali adaptées au rythme nerveux de la réalité urbaine moderne... un environnement fragmenté et atomisé, un regard qui, au lieu de contempler le paysage, semble ètre sollicité de toutes parts, bousculé, intensifié, et qui perd par consequent sa cohérence et son ancrage9.
Lavoro spesso citato in ambiti teorico ed estetico, forse sottostimato per gli aspetti socio-culturali, è La Lucarne de l’infìni, di Noèl Burch. Per illustrare il passaggio fra un modo di rappresentazione definito “primitivo” (MRP) e un cosiddetto mode de représentation institutionnel (MRI), Burch affronta i rapporti fra cinema e società in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Anche se la prospettiva marxista pare privilegiare la dicotomia spettatore popolare/spettatore borghese, il lavoro di Burch ha il merito di congiungere riflessione storica, teorica ed estetica, collocando il cinema al centro del sistema di relazioni sociali che ne contraddistinguono gli anni dello sviluppo10: in Francia, con l’influenza di un anarco-sindacalismo su temi dal carattere spesso populista; in Gran Bretagna, per la continuità con la tradizione spettacolare delle lanterne magiche - distrazione razionale da un lato e grandi capacità tecniche dall’altro; negli Stati Uniti, per la massiccia componente di immigranti - in difficoltà innanzi alle sottigliezze linguistiche del Vaudeville
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teatrale - fra il pubblico dei nickelodeon. Un lavoro che tenta di coinvolgere l’immaginario urbano quale elemento fondamentale per una storia culturale del cinema è Streetwalking on a Ruined Map di Giuliana Bruno, tradotto in italiano col titolo suggestivo di Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notori^. Nell’analisi della produzione della Dora film, l’autrice compulsa fonti eterogenee - fotografiche, pittoriche, letterarie, architettoniche - in un modello che erige il cinema di Elvira Notari a rigoglioso, nonché rischioso, paesaggio ermeneutico, osservato in aperta frontiera fra femminismo, psicanalisi e pensiero decostruzioni sta. Un capitolo è dedicato all’iconografìa della città partenopea; dalla pittura Caravaggesca agli influssi spagnoli di Jusepe De Ribeira, dalla tradizione vedutista sino allo stereotipo turisticocartolinesco, l’autrice tenta di ricostruire l’iconosfera di una mother-city del cinema dei primi tempi, scenario non indifferente per i film dal vero di Elvira Notari. Ormai numerosi sono dunque gli studi che “rischiano” un approccio socio-culturale alla storia del cinema: ricordo The Last Machine. Early Cinema and the Birth of the Modern World, programma televisivo della BBC e pubblicazione relativa curata da Ian Christie; The Ciné Goes to Town. French Cinema 1896-1914, seconda tappa di Richard Abel alle prese col cinema muto francese; Cinema sans frontières 1896-1918. Images Across Borders, antologia sugli Aspects de l’internationalité dans le cinéma mondial: représentations, marchés, influences et réception, curata da Roland Cosandey e Francois Albera12.
“Gli occhi come remi” Di recente pubblicazione è II viaggio deU’icononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière13, con il quale Gian Piero Brunetta porta a compimento una serie di ricerche inserite nel crescente interesse per gli antichi tempi della settima arte. Il viaggio deU’icononauta parte dal riconoscimento di plurisecolari giacimenti del vedere per condurci alla scoperta di territori segnati dall’accostamento di discipline diverse - geografia, antropologia visuale, arti dello spettacolo, storia dell’immaginario e delle mentalità - attraversate, senza soluzione di continuità, dal desiderio vorace dell’uomo di nutrirsi di immagini, poi di fame spettacolo, scienza e religione. E un viaggio che precede il cinema, viaggio composito di teatri e carnevali, cantastorie e ciarlatani, pitture di vedute e laboratori d’ottica, senso della fede e fiducia nella scienza. Brunetta tratteggia una selva ermeneutica che valica la tradizionale storia del “precinema” - storia semplice di apparecchi, dispositivi, brevetti, tentativi fallimentari - per compierne una traduzione in termini iconologici e socio-culturali. La tesi del libro è che esiste una storia della visione con apparecchio che prima dell’avvento del cinema struttura un mercato comune delle immagini e degli immaginari. Il suo protagonista è Vicononauta, i
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cui “poteri” sono illustrati in dodici punti14: fra il primo, «quello di muoversi nell’iconosfera... facendone un habitat e una fonte primaria di alimentazione emotiva e culturale» e l’ultimo, che consente all’icononauta di «diventare un punto di riferimento fondamentale per qualsiasi processo di secolarizzazione del sapere», emergono l’assimilazione di forme di cultura diverse, la sovranazionalità del “culto”, la colonizzazione del tempo e dello spazio, la disposizione alla meraviglia e all’invasiione interiore di immagini archetipiche, l’apprendimento di un nuovo linguaggio, l’aspirazione alla totalità della visione. In una immagine dell’autore, emergono “gli occhi come remi” per navigare al di là delle apparenze. Il battesimo dell’icononauta avviene con un gesto semplice, individuato nella madre che in diverse vedute d’ottica solleva il bambino verso il foro del pantascopio: un’iniziazione senza scampo, per un imprinting che richiama miti platonici e antichi riti sacrificali. Da questa Mater imaginwn il piccolo viaggiatore di sguardi diparte «iconofago, iconodipendente e iconolatra, affamato e assetato di spettacoli, desideroso di elevarsi e andare alla conquista del mondo grazie alle immagini»15. Fra i dispositivi - camera oscura, mondo niovo, lanterna magica, panorama, stereovisore, cinematografo e le esperienze, le sensazioni, i racconti difficili da raccogliere, le passioni “indegne” di finire nella storia, emergono i luoghi della memoria, le tracce costitutive di una grande mitologia collettiva, capace di sospingere gli atteggiamenti normativi legati al visus verso l’affermazione del privilegio dello sguardo alla base del secolo del cinema. Sin da ora, si pone il quesito sul rapporto fra questa avventura dell’immaginazione popolare europea e il viaggio che gli spettatori del XX secolo condurranno nelle oscure sale del più grande dispositivo immaginifico della modernità. Lì, a cavallo fra due secoli, sulle mitiche spalle dei Lumière, i termini del confronto si pongono maestosi e riaprono il dibattito sull’invenzione, sui diversi modi d’intendere la storia e, in ultima analisi, sulla stessa essenza filosofica dell’arte del cinema. Proprio nell’importante lavoro di Brunetta, emerge l’irrisolto “problema delle origini”, la difficoltà di attestare l’indipendenza del “precinema” (quando l’autore dice di voler compiere un viaggio a ritroso «tutt’altro che teleologicamente orientato»), concordandone una sorta di sudditanza alla settima arte (in quanto viaggio fra dispositivi che avrebbero «preceduto e preparato la strada all’invenzione del cinematografo»)16.
1.1.3. Tracce per la ricerca Lo stesso autore, introducendo cinema italiano e il primo volume della ricorda come la molteplicità delle voci e di paradigmi unificanti e l’emergenza
l’ultima edizione della Storia del recente Storia del cinema mondiale, delle prospettive di ricerca, l’assenza di metodologie differenti possano
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illuminare una sorta di consapevolezza della moderna complessità disciplinare17. Se incerto e perfettibile risulta anche il mio vagare nel cinema dei primi tempi, cercherò di offrire qualche indicazione di partenza, qualche picchetto di riferimento storico-teorico per orientare la traccia dei confini che ci apprestiamo a rilevare18. 1) Nel cinema nascente (generando una sorta d’inestricabile matassa immaginifica) confluiscono e si confondono aspetti delle più antiche tradizioni del teatro e della letteratura, della pittura e dell’illustrazione, della fotografìa e degli strumenti magico e scientifico visionari. Fra le metafore utilizzate dagli storici, quella gastrica pare ben illustrare l’attività di un grande ventre digerente, il cinema nascente, per nutrire di nuova linfa la storia secolare della visualità. Ne consegue che il cinema, quello delle origini in particolare, parla spesso di altro dal sé e necessita d’una sorta di strabismo - sguardi di traverso, qualcuno la chiama lettura contropelo - capace di supporre la vastità di queste contaminazioni. 2) Non esiste una storia del cinema ma si può pensare al mutare dei suoi paesaggi come alla produzione di storie assai diverse, all’intemo di dipartimenti popolati da razze di studiosi che, a volte, faticano a comprendersi, dediti a oggetti d’analisi tutt’altro che omogenei. E il tentare di segnalare confini fra realtà eteroclite ed una empirica centralità-autonomia disciplinare (la quale risiederebbe di volta in volta nelle opere o negli apparecchi, nelle sale o nei pubblici, nell’arte o nella industria, nei registi o nei linguaggi) che illumina territori di ricerca in continua trasformazione, luoghi di sperimentazione di nuove ed inusitate “storie”. 3) Ne consegue che queste storie non possono più parlare di oggetti prestabiliti ed immobili, preesistenti alla analisi, ma solo di oggetti ricostruiti, frammentari, in continua balia e relazione gravitazionale con altri oggetti analoghi. Scienza, politica, cultura, società, religione, economia, magia costituiscono l’imponente sostrato geologico di continue interferenze, innanzi alle quali la ricerca tenta affannosamente d’isolare oggetti di studio omogenei, definire controllabili simulacri, sottrarre genericità per iniettare parvenze di specificità. Nella metamorfica stratificazione delle falde interpretative, il lavoro dello studioso delle origini pare allora coniugare le monacali perizie dell’archeologo alle controllate creazioni dell’architetto. 4) Lo smarrimento cresce alla deriva del tempo lineare e all’introduzione dei tempi lunghi. Per lo storico il rispetto della cronologia è un dovere fondamentale. Ma l’esistenza di tempi differenziali - infinite serie di tempi, tempi divergenti, tempi sospesi, tempi dilatati, tempi morti - risulta evidente se pensiamo al cinema come complessa macchina socio-culturale. Michèle Lagny illustrava questi ritmi differenziali attraverso un modello bipartito intemo/estemo19. Nel primo caso emerge l’articolazione multitemporale delle strutture cinematografiche - in questa ricerca potremmo
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pensare all’evoluzione dell’immaginario urbano interno al cinema, alla sua articolazione temporale nei film, alla maturazione o alla scomparsa di temi iconografici ricorrenti. E un’ottica importante ma, presa singolarmente, è anche un’ottica parziale, rendendo inspiegabile, ad esempio, la persistenza della veduta all’interno di palinsesti già ricchi di opere fìnzionali: un percorso completamente rimosso dalla Grande Storia del Cinema per cui «le produzioni documentaristiche del 1900, 1910 e fino al 1920, vengono accumunate nella stessa prospettiva critica, nella stessa “ingenuità” dei primi tentativi Lumière» . La incapacità di riconoscere alla prassi vedutista una propria specificità cinematografica ha condotto all’oblio storiografico vastissimi territori estetici e produttivi. Lo ricordava anche Tom Gunning: «a parte il riconoscimento dovuto ai fratelli Lumière, l’enorme produzione non-fiction precedente a Flaherty viene praticamente ignorata - o piuttosto resta sepolta ...71 sotto un velo di amnesia collettiva» . Nel secondo caso, quello dei tempi esterni, on peut se demander comment le cinéma se developpe par rapport à d’autres secteurs concurrents (qu’il les remplace, comme le music-hall, les concurrence sans les détruire comme le theatre, ou par lesquels il peut ótre à la fois dépassé et soutenu, comme pour la télévision ou la vidéo), ou encore comment les discours que tiennent les films dans le domaine des representations sociales et politiques, les formes qu’ils affectent sont en synchronic ou en décalage avec des discours tenus ailleurs, des formes ailleurs conceptualisées ou mises en pratiques (comme pour le problème de la modemité ou de la post-modemité par exemple)22.
La questione della multitemporalità sottrae certezze, soprattutto alla visione teleologica della storia positivista. Il ritmo sincopato, a volte un succedersi stocastico della temporalità, risulta estraneo e incomprensibile a una storia del “progresso cinematografico”; una storia che per giustificare i propri intendimenti organizza la recita della “maturazione linguistica” attraverso stretti rapporti di causa/effetto, vero/falso, inventore/plagiatore, primo/ultimo, successo/fiasco. Nella Teoria della conoscenza e del progresso, Benjamin avanzava una piccola proposta metodica per una dialettica della storia della cultura. È molto facile operare per ogni epoca, nei suoi differenti “ambiti”, bipartizioni secondo punti di vista determinati, di modo che da un lato si situi la parte dell’epoca “fertile”, “colma di futuro”, “vitale” e positiva, e dall’altro quella inutile, arretrata e morta... Per questo è di decisiva importanza riapplicare alla parte negativa, che prima era stata eliminata, una divisione, di modo che, con uno spostamento dell’angolo visuale (ma non dei criteri di misura!) riemerga anche in essa un lato positivo e diverso da quello prima designato. E così via all’infinito, fino a che tutto il passato sia immesso nel presente in una apocatastasi storica23.
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Un ristabilimento dell’ordine investirebbe una storia del cinema in cui la fiducia negli artifici retorici della parola, più che l’appartenenza ad un metodo, non garantirebbe più nessun “progresso” e nessuna epoca di “decadenza”: due facce della stessa medaglia, sosteneva Benjamin24. 5) Questo lavoro si fonda sull’irrinunciabile integrazione tra fonti di diversa provenienza. Necessario risulta inventarsi le proprie, porre loro domande inusuali, incrociarle ripetutamente; procedere più in virtù delle risposte possibili che dell’omogeneità e dell’assoluta pertinenza col mezzo indagato . Semplicistica appare l’idea che giungere alle fonti aiuti a trovare ciò per cui ci si mise in cammino, soprattutto se scarsa risulta la propensione ad azzardare originali percorsi interpretativi. Condivido la posizione illustrata da Michèle Lagny quando sostiene che «c’est dans un jeu permanent de va-et-vient entre sources accessibles et problématique construite que se forge l’instrument de l’analyse historique» . Ciò che le storie e le teorie del cinema paiono domandare ai loro studiosi non è più il soddisfacimento di modelli precostituiti né, tantomeno, una sorta di ascetico misticismo del dato, quanto un’elasticità capace d’ammettere continui va e vieni - e probabili cortocircuiti! - fra documenti ed interpretazioni. In una comunità scientifica sempre più cosmopolita e sempre meno rappresentabile dall’idealtipo studioso di cinema, crescono la volontà di lavorare in ambiti di frontiera, la contaminazione fra esperienze eterogenee, la moltiplicazione degli interrogativi, dei campi di ricerca, delle aree interstiziali; crescono quelle che Francesco Casetti definisce teorie di campo, modelli che paiono costruire il «proprio cammino come , 27 un avventura» . 6) La filologia viene in aiuto all’organizzazione critica della crescente varietà di fonti documentali. Scienza di ricostruzione del testo, affrancata dalla storica appartenenza ad altre aree disciplinari, è ripensata in relazione alle tipicità del testo filmico . Per questo lavoro - interessato all’esplorazione storico-estetica di opere ritenute preziosi incunaboli iconologici e culturologici -la restitutio textus e le operazioni ad essa correlate costituiscono un orizzonte teorico a cui tendere. Ma questa utile tensione alla “correttezza” non può emergere quale centro dell’indagine. Si osservi la voce “filologia” offerta da Armando Bai duino sul Manuale di filologia italiana'. disciplina che si propone di ricostruire nella sua integrità e nella sua veste autentica (intesa come unica espressione legittima della volontà dell’autore) il testo di opere antiche e moderne, compiendo ogni sforzo per eliminare (e in pari tempo documentare) guasti, fraintendimenti e arbitrarie deformazioni che nel corso del tempo e per disparate cause, possono essersi introdotti nelle alterne vicende di una più o meno vasta fortuna e diffusione29.
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La presenza di concetti come “veste autentica”, “unica espressione legittima”, “volontà dell’autore”, “eliminare... guasti” evidenzia la difficoltà di traslare un tale apparato disciplinare all’analisi del cinema dei primi tempi, il quale, paradossalmente e per motivi che emergeranno ripetutamente nel corso dell’esposizione, pare piuttosto configurarsi come territorio di contaminazioni reiterate, saltabeccando fra prestiti e plagi, furti belli e buoni e citazioni a ruota libera, interventi pittorici e musicali, tagli di scene e inserimenti in palinsesti eterogenei: garantendo insomma, almeno sino al periodo qui indagato, scarsissime certezze testuali. Il problema è complesso e valica gli interessi di una trattazione nella quale il passe-partout dell’immaginario urbano pare vibrare fenomenologicamente piuttosto che filologicamente, e i percorsi esplorati condurre a intertestualità iconografiche piuttosto che a ricostruite integrità testuali.
L’equilibrio precario fra il dato e l’idea Si è già accennato all’avanzamento interpretativo come impresa fondata, ma non esautorata, dal dato. Spesso non esiste proporzionalità fra ricchezza delle fonti e qualità della ricerca; sfuggendo alla mera “oggettività” documentale la produzione di “storie possibili” risulta difficilmente controllabile. Certo, nuove prospettive si aprono alla storia quantitativa grazie alle performance delle tecnologie più recenti: ma le idee che governano l’organizzazione, la gestione, l’elaborazione dei dati, ancor prima della loro interpretazione, dipendono dalla qualità del lavoro, dall’ingegno del ricercatore e dal contesto storiografico nel quale egli è immerso. Si pensi a come fosse normale, in anni antecedenti gli approcci della nuova storia, proiettare sulle origini modelli registico-autoriali sconosciuti allo spettatore a cavallo fra i due secoli: Ian Christie ricorda come no one went to see a particular film until around 1907 at the very earliest. They went to the biograph, the cinematograph, the moving pictures, the nickelodeon: it was a place and an experience long before identifiable works and their makers emerged to claim their niche in history30.
E un problema che investe profondamente Louis Lumière, unico vedutista dei primi tempi a essere stato considerato un autore.31 Affronterò nei dettagli una questione che rimanda alla già citata revisione dell’armamentario epistemologico dello storico del cinema. Prendiamo i generi: la messa in crisi di «suddivisioni di comodo, quasi esistessero fin dalle origini diversi tipi di cinema, il documentaristico, il narrativo, il fantastico, ecc.» è ricordata anche da Gianni Rondolino: né è determinante il carattere apparente della rappresentazione (naturale o ricostruita) per una catalogazione per generi e specie, in rapporto a una
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differente fruizione dei prodotti. Al limite, non è neppure possibile o utile rintracciare in quei brevissimi film i caratteri strutturali di quelli che saranno in seguito i vari modi della narrazione cinematografica, perché la loro natura era al tempo stesso nai*rativa e documentaria, drammatica e fantastica, naturalistica e irreale32.
Il rischio è allora che i documenti siano utilizzati per confermare scelte, giustificare passioni, istruire percorsi teorico-estetici nei quali, aprioristicamente, crediamo. Osservare diversi panorami da un crinale frastagliato diviene alfine un problema di metodo, lo stesso che a scala più ampia sta investendo la politica dei festival delle origini: Pordenone e Bologna si trovano a gestire rilevanti ricchezze documentali, innanzi alle quali pare sempre più necessario riflettere sul come e sul perché delle proposte, superando la lodevole fase pionieristica del “mostrare perché salvato”33. Dominique Paini si domandava recentemente «que faire de la mémoire du cinéma quand celled est garantie matériellement?»34. In via di superamento l’emergenza intellettuale e fisica della salvaguardia - restaurare e conservare tutto, ogni pellicola è un documento - si pone il problema di fare uscire i film dai luoghi di conservazione, di vederli e farli vedere. E un’arte nuova, un ulteriore “montaggio delle attrazioni”: la scelta di antichi eventi, la loro organizzazione critica per costruire visioni eccentriche, la combinazione di tracce residuali capaci d’innescare nuovi processi conoscitivi.
1.1.4. Il Projet Lumière Un’intenzionalità che accompagna il lavoro risiede nella consapevolezza che la storia d’Europa sia in gran parte legata alla storia delle sue città. Affrontare il cinematografo - dispositivo moderno - quale depositario di un immaginario antico, quello legato al sentimento della civitas e alla rappresentazione della forma urbis, è una impresa che ritengo capace di ampliare le prospettive della storia socio-culturale del cinema, per ora particolarmente attenta agli immaginari urbani del nostro secolo. In questo territorio che si dilata sento la necessità d’istituire nuovi punti d’appoggio. Avanziamo lentamente. Di cosa stiamo parlando? La ricostituzione del corpus Quella dei Lumière costituisce una delle più rilevanti imprese produttive dell’epoca35. Fra il 1895 e il 1907, anno in cui è già terminata la produzione cinematografica ed esce l’ultimo catalogo36, vengono girate più di duemila vues: la quasi totalità è su bande pellicolari larghe 35 millimetri e lunghe 17 metri, per una durata di circa cinquanta secondi l’una, a una velocità di proiezione compresa fra i 16 e i 18 fotogrammi al secondo. Alla data del
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convegno intemazionale Lumière, tenutosi a Lione nel giugno 1995, risultano conservate 1402 delle 1422 vedute dell’ultimo catalogo, custodite negli Archives du Film del Centre National de la Cinématographie. A queste vedute vanno aggiunte le opere fuori catalogo che, per motivi diversi, i Lumière decisero di non commercializzare: pellicole ritenute di scarso interesse tematico o dalla scadente qualità tecnica; film girati col Cinématographe da operatori non Lumière; versioni differenti di vedute già esistenti in catalogo; opere pubblicitarie la cui funzione si riteneva esaurita nel soddisfacimento delle richieste della committenza. Insomma, più di duemila pellicole, raccolte grazie alla concertazione di organismi pubblici e privati in vista delle commemorazioni del “centenario”. Obbiettivo primario: ricostituire l’integrità del corpus. Passi successivi: coordinarne le operazioni di restauro, gestirne la conservazione, garantirne la diffusione in Francia e all’estero, tutelarne i diritti patrimoniali. A questi fini nasce U Association Frères Lumière che riunifica i patrimoni della Cinémathèque franqaise, dell’Institute Lumière e del Musée du Cinéma di Lione, degli Archives du Film e della famiglia Lumière stessa. Altri contributi consentono l’arricchimento del materiale: ricordiamo, fra gli altri, i depositi effettuati dal Centre National de l’Audiovisuel du Luxemburg e dai privati William Day, Maurice Bessy e Madamoiselle Price. Numerose iniziative parallele accompagnano la nascita dell’associazione e lo sviluppo di un più vasto progetto culturale. Si ricorda, per tutto il 1995, la programmazione quotidiana di Un film Lumière par jour, sulla rete nazionale France 2; l’organizzazione del simposio intemazionale Lumière di Lione; la pubblicazione del catalogo ragionato delle vedute, nato dalla collaborazione fra gli Archives du Film e l’Università Lumière Lyon 2 . Insomma, una serie di iniziative specifiche sui Lumière inserite nell’ancor più vasto fuoco di fila del “centenario” francese: mostre, convegni, dibattiti, pubblicazioni, emissioni postali, trasmissioni televisive, radiofoniche, cinematografiche. Ma torniamo in archivio. noIl lavoro di restauro viene eseguito nei laboratori degli Archives du Film . La priorità va alla ricostituzione del catalogo: ogni elemento filmico e non filmico raccolto in seno al Projet Lumière viene analizzato a questo scopo. In certi casi, non disponendosi del negativo originale ma di positivi in differente stato di conservazione, si tratta di ricostituire l’opera attraverso la scelta dei migliori frammenti di ogni copia, utilizzando stampatrici in grado di intervenire su formati non standard - diversi per natura o perforazione - o su supporti alterati dimensionalmente dall’inesorabile azione del tempo sulla pellicola al nitrato di cellulosa. L’appello ai film Lumière consente il recupero di materiale quanto mai vario, per l’analisi del quale una solida prospettiva filologica definisce i campi teorici e le relative modalità d’intervento. Esemplare è il caso delle perforazioni: sappiamo che quelle dei film Lumière erano circolari, ma il modello a quattro perforazioni rettangolari per fotogramma non garantisce l’appartenenza a film
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non Lumière, in quanto frequente risultava la “traduzione” su supporti diversi da quelli originari, soprattutto dei film di successo. Al fine di consentire la visione a singoli spettatori o a sale dotate di proiettori della concorrenza, non si esitava a riprodurre lo stesso film-opera su un diverso film/supporto. L’approccio stratigrafico consente ai neanche tanto metaforici domini dell’archeologia cinematografica di osservare oggi le tracce delle antiche perforazioni circolari emergere come ombra dalla pellicola contraffatta. Similmente, tracce di perforazione Edison su pellicola a perforazione rotonda indicano una contraffazione di originali Méliès, Edison, Pathé, ecc. verso i dispositivi Lumière, attuate per garantire maggiori possibilità “visionarie” ad amatori o esercenti dotati di apparecchi della casa lionese. Non a caso, già dal primo catalogo, i Lumière ricordano che «Ces vues peuvent étre livrées soit avec notre perforation, soit avec la perforation américaine». Nel secondo catalogo, sempre del 1897, sono ancora più espliciti: dopo il «Prix de chaque vue 50 Fr.» e l’avvertimento che «la reproduction de nos vues est interdite» perché «Toutes nos vues sont déposées», ricordano infatti che «Nos vues peuvent étre livrées soit avec notre perforation (un trou par image), soit avec la perforation américaine (quatre trous par image)»39.
1.1.5. L’organizzazione del lavoro di visione
Grazie alla disponibilità dell’intera équipe del Projet Lumière^, ho avuto la possibilità di visionare il materiale di ricerca condividendo spazi, strutture e tempi organizzati per la più vasta impresa del centenario. Agli Archives si sono giustamente valsi del principio per cui «plus les supports visionnés sont fragiles et leur manipolation coùteuse, plus la sélection avant visionnage doit étre sevère»41. Lavorare fianco a fianco ai tecnici responsabili del progetto è stata cioè una sudata fortuna. Ciò ha consentito l’analisi diretta di 430 vues Lumière, la consultazione di altre fonti primarie non-film e di parte della bibliografia di riferimento, l’osservazione, sul campo, delle rilevanti problematiche inerenti l’intero processo di lavoro, dal reperimento delle vedute ai tentativi di ricostruzione testuale. L’analisi delle opere è stata effettuata grazie alle attrezzature video del laboratorio, su copie telecinemate dai documenti originali: problemi di tempo e di costi insostenibili, necessità tecniche, organizzative e di controllo avrebbero reso impossibile l’analisi in pellicola di una tale quantità di materiali42. Quotidiana, ma non sistematica, è stata tuttavia l’osservazione dei film originali in nitrato, durante il lavoro degli operatori che perseguivano la normale opera di identificazione: decine di altre vedute Lumière sono state inoltre visionate in sala, alcune più di una volta, durante i convegni, le presentazioni, i festival succedutisi negli anni della ricerca. Certo, l’analisi approfondita necessita di una disponibilità totale del
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documento, per affrontarne visioni ripetute, osservazioni comparate, soste per la redazione di note e disegni, I dispositivi di videoriproduzione e videoconsultazione hanno dunque consentito una ottimizzazione fra necessità della ricerca, possibilità della consultazione e costi di accesso alle fonti. Qualche considerazione ulteriore su questo problema sarà espressa nel prossimo capitolo. L’analisi del corpus si è così sviluppata attraverso quattro grandi tappe: la scelta preliminare delle opere, la relativa visione, la redazione della scheda di analisi, la gestione e l’utilizzo del materiale. La scelta delle opere è stata effettuata incrociando esigenze diverse, innanzitutto iconografiche. Fondamentale si è rivelata la raccolta fotografica realizzata dall’équipe Lumière - uno strumento di lavoro interno al laboratorio di restauro - nella quale ogni opera in catalogo è testimoniata dalla riproduzione a stampa di un fotogramma. Questa raccolta, più del titolo o della sommaria descrizione che accompagna diverse vedute nell’ultimo catalogo del 1907, ha consentito una prima, importante cernita. Al di là dei cosiddetti panoramas, bisogna infatti ricordare che la macchina da presa degli operatori Lumière resta immobile, sul cavalletto, inquadrando il soggetto in un’unità di luogo, tempo e azione pressoché aristotelica43. Osservare soggetto e composizione del quadro attraverso una riproduzione fotografica risulta dunque un primo, rappresentativo, strumento di selezione. Certo, nell’impossibilità di visionare l’intero corpus, la discrezionalità della scelta su un tema come l’immaginario urbano pone evidenti problemi metodologici. Cosa scegliere di visionare dopo aver riscontrato in fotografia la massiccia presenza della città? E corretto privilegiare vedute dichiaratamente urbane, piuttosto che affrontare ricostruzioni storiche, vues comiques o defilé militari? Evidente che l’immaginario urbano non emerge solo dalla rappresentazione diretta dell’wràs, ma ne coinvolge la sua ricostruzione scenografica, le quinte prospettiche di numerose sfilate, i palcoscenici naturali di feste e di carnevali, i luoghi del lavoro e dello svago. Tale consapevolezza è risultata così alla base del secondo criterio di scelta: l’importanza di campionare tutte le sezioni del catalogo (quelle che oggi, con larga approssimazione, definiremmo i generi) garantendo la possibilità di osservare la rilevanza quantitativa e la pregnanza qualitativa della rappresentazione urbana nei confronti dell’intera tassonomia Lumière. Un terzo criterio ha riguardato infine la presenza di città simbolo, luoghi che nonostante l’ancor fragile tessuto ermeneutico d’inizio lavori, pareva risultassero “non indifferenti” all’indagine. Con una sorta di rete a maglie variabili ho dunque scandagliato le vedute coloniali, le principali città europee ed extraeuropee, nonché la totalità di vedute disponibili per Parigi, per le città italiane e per quelle degli Stati Uniti d’America.
1.1.6. Considerazione sulla “purezza”
Bisogna essere riconoscenti a Paolo Cherchi Usai per la sua guida all’esplorazione del cinema muto44. Un manuale utilissimo per l’approccio al film, ricco di consigli - anche molto pratici - e di dati. Una pubblicazione che pare sintomatica di quelle mutazioni storiografiche sulle quali mi sono dilungato nel primo capitolo: una sorta di manifesto dei nuovi orizzonti della ricerca, strumento prezioso per superare la cosiddetta critica impressionista. La scheda d’analisi dei film - non inserita in questa opera per motivi editoriali - è stata approntata cercando di fare tesoro delle sue indicazioni, vere e proprie regole che dovrebbero guidare l’impostazione di qualsiasi ricerca sul cinema delle origini: come, ad esempio, la necessità di preservare l’antinomia generalità/specificità, cercando di tarare le voci sulle specificità del corpus analizzato, lasciando comunque aperte le porte alle suggestioni, imprevedibili, di ciascun testo45. Nonostante ciò, a volte mi sono trovato in difficoltà nel tradurre in comportamenti fattuali certi validissimi principi teorici espressi nell’opera di Cherchi Usai. Uno di questi, lo accennavo poca fa, illustrando l’organizzazione del lavoro di visione, è il predominio assoluto che l’autore concede alla visione del film in pellicola. Predominio comprensibile, condizione auspicabile, principio sacrosanto, ma che ritengo vada meglio specificato. Essenzialmente per due motivi. Il primo riguarda gli obbiettivi. Perché stiamo svolgendo una ricerca sul cinema delle origini? A quali domande vogliamo rispondere? Quali nuove conoscenze ci auguriamo di abbracciare? Nel caso di un lavoro in cui preminente risulta l’aspetto filologico la visione dell’originale non è condizione auspicabile ma addirittura necessaria. L’indagine compiuta da Michele Canosa su Carnevalesca, scritto da Lucio D’Ambra e diretto da Amleto Palermi nel 1918, risulta impraticabile su qualsiasi altro supporto che non sia quello specifico oggetto film, ritrovato alla cineteca di Montevideo, di una lunghezza di 1755 metri, con notate sulla pellicola le specifiche cromatiche previste per le imbibizioni ed i viraggi originali46. La ricerca di una corrispondenza drammaturgica fra storia e colore, l’ancoraggio metaforico di quest’ultimo ai cicli stagionali e all’età dell’uomo narrati nel film ma, soprattutto, le inequivocabili indicazioni per la fase di restauro dell’opera, emergono dal lavoro su quella, e solo quella, specifica copia. Prendiamo invece un caso opposto, l’esigenza di predisporre un’indagine quantitativa su una determinata filmografia. L’ipotesi potrebbe riguardare l’esplorazione degli spazi interstellari nei film Pathé del 1907 da presentare all’inaugurazione di un convegno di astrofisica. Siamo sicuri che nell’ipotesi esistessero riversamenti video del corpus sarebbe conveniente - in termini di ricerca ma anche economici, temporali, di salvaguardia - visionare comunque i film in pellicola? Fin dove la passione infiammabile impone la “purezza” del nitrato? Dove inizia il
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purgatorio delle copie sul supporto safety? Quali i limiti infernali del video? Ed è vero, per tornare al manuale di Cherchi Usai, che l’analisi dei film in video è come l’analisi di «un’architettura presentata mediante disegni o simulazioni»47? Personalmente penso non sia così, proprio perché vivissima è la mia “passione infiammabile”. Al di là delle vedute Lumière, mi è capitato di visionare con attrezzature video film conservati in cineteche lontane migliaia di chilometri che, certo, non avrei avuto i mezzi per raggiungere diversamente. A volte è stato possibile vedere il film in sala e rivederlo, per studiarlo, in video. Spesso ho osservato frammenti filmici in organismi di conservazione museale dotati di apparecchiature ipermediali: cito il sistema FAKIR del Musée Albert Khan di Boulogne o i materiali della Mediathèque de La cité des Sciences et de 1'Industrie., al parco tecnologico de La Villette di Parigi. Mi pare dunque che il problema non consenta radicali antinomie fra supporti, quanto valutazioni capaci d’associare a domande e obbiettivi della ricerca storica i migliori dispositivi possibili. Il secondo punto investe un problema di tutt’altra natura: la mancanza di regole inerenti la consultazione. Per un giovane ricercatore il percorso per giungere alla visione del film si rivela spesso un’odissea. Mentre la diffusione di nuove sensibilità storico-filologiche pare consentire il progressivo abbandono della pionieristica fase dell'emergenza, il nodo della consultabilità resta assolutamente sottostimato. Al ricercatore “normale” vengono riservati trattamenti assai diversi: si va da una disponibilità totale e gratuita, alla sgradevole impressione del favore personale, alla necessità dello scambio di favori, al diniego puro e semplice. Comunque vada, non si può essere certi della fondatezza della risposta. Insemina, non è facile impresa né «conquistare la fiducia di chi vi lavora [in cineteca]» né «l’applicazione di alcuni elementari diritti: informazione sul patrimonio della cineteca; accesso ai materiali di consultazione; possibilità di prendere visione delle notizie correlate agli oggetti in possesso della cineteca; opportunità di ricerca su copie di qualità comparabile agli originali»48. Voglio essere chiaro: quello che propongo non è un’apertura indiscriminata ai preziosi cellari delle cineteche o delle istituzioni del non-film ma l’auspicio che al tipo di utenza A, B o C sia “normalmente” associabile la visione delle opere X, Y, Z. E da questo si parta per le eccezioni, i casi particolari, le emergenze. La mancanza di regole internazionali - un’idea di lavoro per la FIAF potrebbe riguardare proprio la creazione di una “carta della consultazione” - di più, la disparità di trattamento all’intemo di organismi dello stesso paese, divengono variabili incontrollabili, capaci di minare il miglior piano di lavoro del giovane e “volenteroso” ricercatore. Un dato generale: gli organismi di conservazione americana risultano spesso più aperti di quelli europei.
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Note al capitolo I 1 Sul valore del pluralismo per la ricerca scientifica contemporanea si veda Giulio Giorello, Tullio Regge, Salvatore Veca, Europa Universitas. Tre saggi sulla ricerca scientifica, Milano, Feltrinelli, 1993. 2 Cesare De Seta, Presentazione alla Storia d’Italia, Annali V, “Il paesaggio”, Torino, Einaudi, 1982, p. XXXII. 3 Si vedano gli interventi raccolti da Jacques Le Goff (sous la direction de), La Nouvelle histoire, Paris, RETZ-CEPL, 1979, tr. it. di Tukery Capra, La nuova storia, Milano, Arnoldo Mondadori, 1990 (led. it. 1980). 4 Fonte diretta, in quanto testimone di un’epoca, fonte indiretta, quale riflesso dell’immaginario di una cultura, fonte diretta e indiretta insieme, quale agente di propaganda e di consenso, fonte secondaria, quale tentativo di riscrittura storica. Rimando a Marc Ferro, Cinema et histoire. Le cinéma, agent et source de l’histoire, Paris, Denoèl/Gonthier, 1977, tr. it. Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980; Pierre Sorlin, Sociologie du cinéma, Paris, Ed. Aubier Montaigne, 1977, tr. it. di Luca S. Budini, Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979. Si vedano anche: Marc Ferro, Analyse de film analyse de sociétés. Une source nouvelle pour l’histoire, Paris, Hachette, 1975 e Film et histoire, Paris, Ed. de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, 1984; Pierre Sorlin, The Film in History. Restaging the Past, Oxford, Basil Blackwell, 1980, tr. it. a cura di Gianfranco [Miro] Gori, La storia nei film. Interpretazioni del passato, Firenze, La Nuova Italia, 1984. Di Gianfranco Miro Gori (a cura di) ricordo anche: Passato ridotto. Gli anni del dibattito su cinema e storia, Firenze, La casa Husher, 1982 e La storia al cinema. Ricostruzione del passato interpretazione de! presente, Roma, Bulzoni, 1994. Si vedano, inoltre, Christian Delage, Nicolas Roussellier (presentation par), Cinéma. Le Temps de l’histoire, “Vingtième Siècle”, n. 46, 1995 e Lino Miccichè, Il cinema, la Storia, la storia del cinema, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Venezia, La Biennale di Venezia/Marsilio, 1997, pp. 15-23. 5 Edgar Morin, Le Cinéma ou l’homme imaginaire. Essai d’anthropologie sociologique, Paris, Ed. de Minuit, 1956, tr. it. di Gennaro Esposito, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Milano, Feltrinelli, 1982 (I ed. it. 1962). 6 Michèle Lagny, De l’Histoire du cinéma. Méthode historique et histoire du cinéma, Paris, Armand Colin, 1992, p. 129. La critica al modello pare non considerare la specificità della Storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, nata, secondo l’autore, come «favola per ragazzi». Si veda Didier Eribon e Ernst H. Gombrich, Ce qui l’image nous dit, Adam Biro, 1991, tr. it. di Maria Perosino, Il linguaggio delle immagini, Torino, Einaudi, 1994, da p. 46. 7 II concetto di histoirepanthéon viene definito da Michèle Lagny, in De l’Histoire du cinéma, cit.: «La propension à introduire des critères de normativité ou de hiérarchisation, la conjonction entre reflexion historique et analyse critique, font souvent de l’histoire du cinéma cette “histoirepanthéon” ou cette histoire sainte qui privilègio les “grands auteurs” et les “films-phares”, ou bien favorise “la découverte rare” d’un chef-d’oeuvre inconnu, d’un cinéaste à réhabiliter», p. 136. Nella difficoltà di costituire un paradigma sistematico, i nuovi territori esplorati riguardano anche recenti approcci autoriali, per cui riflessioni sulla poetica - citiamo Godard, Rohmer, Wenders aiutano a sfrondare il mito della storia oggettiva, riportandoci alla problematica dell’analisi comparativa espressa dalla Lagny, cit., alle pp. 153-154 e alle pp. 273-276. 8 II concetto di cinema delle attrazioni è stato introdotto nel 1985 da André Gaudreault e Tom Gunning agli incontri di storia e teoria del cinema di Cerisy. L’intervento è stato pubblicato in Le cinéma des premiers temps: un défì à l’histoire du film?, in Jacques Aumont, André Gaudreault, Michel Marie (sous la direction de), Histoire du cinéma. Nouvelles approches, Paris, Publications de la Sorbonne, 1989. Il concetto è definito da Tom Gunning anche in The Cinema of Attractions: Early Film, Its Spectator and the Avant-Garde, nell’antologia curata da Thomas Elsaesser, Early Cinema: Space-Frame-Narrative, London, British Film Institute, 1991; nel saggio Cinéma des attractions et modernité, in “Cinémathèque”, n. 5, 1993. Anche gli interventi di Tom Gunning agli incontri “Domitor” di New York (1994), al convegno di Udine su “Cinema e Colore” (1995)
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e al convegno ‘‘Lumière” di Lione (1995) si collocano nella stessa prospettiva. 9 Tom Gunning, Cinéma des attractions et modernità, cit, p. 134. 10 Noèl Burch, Life to Those Shadows, London, British Film Institute, 1990, tr. fr. La Lucanie de Tinfini. Naissance du langage cinématographique, Paris, Nathan, 1991, tr. it. Il lucernario delTinfmito. Nascita del linguaggio cinematografico, Parma, Pratiche, 1994. 11 Giuliana Bruno, Streetwalking on a Ruined Map. Cultural Theory and the City Films of Elvira Notari, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1993, tr. it. Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari, Milano, La Tartaruga, 1995. Si veda, in particolare, la quarta parte, The Metropolitan Texture e il capitolo City Views: Filmic Cityscape, Artistic Perspective, and Touristic Travel., pp. 201-229. Ricordo anche il saggio di Enza Troianelli, Elvira Notari pioniera del cinema napoletano (1875-1946), Roma, Euroma, 1989. 12 Ian Christie, The Last Machine. Early Cinema and the Birth of the Modern World, London, British Film Institute, 1994; Richard Abel, The Ciné Goes to Town. French Cinema 1896-1914, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1994; Roland Cosandey e Francois Albera, Cinéma sans frontières. Images Across Borders 1896-1918 - Aspects de Finternationalité dans le cinéma mondial: representations, marchés, influences et réception Internationality in World Cinema: Representations, Markets, Influences and Reception, Quèbec/Lausanne, Nuit Blanche/Payot, 1995. 13 Gian Piero Brunetta, Il viaggio delFicononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Venezia, Marsilio, 1997. 14 Ivi, pp. 15-17. 15 Ivi, p. 282. 16 Ivi, p. 17. 17 Gian Piero Brunetta, Introduzione 1993. Eredità del passato e nuove frontiere per la storia del cinema, in Storia del cinema italiano - Il cinema muto (1895-1929), Roma, Editori Riuniti, 1993, si vedano soprattutto le pp. XIV e XV; Gian Piero Brunetta, Introduzione, in Gian Piero Brunetta (a cura di). Storia del cinema mondiale, I, L’Europa - Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, pp. XXI-XLI. Guy Fihman sostiene che «cette histoire dont nous avons hérité a été écrite il y a plus de cinquante ans: il va falloir déterminer aujourd’hui d’autres critères», L 'invention du marche, in AA. VV., Histoire économique du cinéma franqais, atti del seminario organizzato all’interno del “Programme de recherche du Premier siècie du cinéma”, Paris, Collège de Polytechnique/Centre national de la cinématographie, 1993, p. 14. 19 Michèle Lagny, De l’histoire au cinéma: méthode historique et histoire du cinéma, in AA. VV., Histoire économique du cinéma fran^ais, cit., pp. 6 e 7. 20 William Cricchio, Il patrimonio rappresentativo dei documentari, in “Bianco & Nero”, n. IV, 1988, p. 57. 21 Tom Gunning, Prima del documentario: il cinema non-fìction delle origini e l'estetica della veduta, in “Cinegrafie”, n. 8, 1995, p. 13. 22 Michèle Lagny, De l'histoire au cinéma: méthode historique et histoire du cinéma, cit., p. 7. 23 Walter Benjamin, Das Passegen - Werk (a cura di Rolf Tiedemann), Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1982, tr. it. Parigi, capitale del XIXsecolo. I “passages" di Parigi (ed. it. a cura di Giorgio Agamben), Torino, Einaudi, 1986, p. 594. 24 Ivi, p. 596. Riporto un altro frammento benjajniniano relativo alla Teoria della conoscenza e del progresso, quando, in merito al pathos del lavoro su Parigi, puntualizza: «non ci sono epoche di decadenza. Un tentativo di guardare al secolo XIX in modo affatto positivo, così come nel lavoro sul dramma barocco mi sono sforzato di vedere il XVII. Nessuna fede in epoche di decadenza. Similmente (fuori dai suoi confini) per me è bella ogni città ed è inaccettabile ogni discorso sul maggiore o minore valore di una lingua» (p. 592). 25 Oltre all’analisi delle vedute Lumière e di una più generale filmografia delle origini, sono stati consultati documenti della precedente tradizione del vedere con strumento, come vedute ottiche e lastre per lanterne magiche, panorami e vedute stereoscopiche; motivi iconografici ricorrenti sono emersi dallo studio delle coeve espressioni fotografiche, dell’illustrazione e della nascente cartolina illustrata; fondamentale è risultato lo spoglio di cataloghi e bollettini di produzione.
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alcuni dei quali dotati di riproduzioni fotografiche d’accompagnamento al testo; giornali, riviste e pubblicazioni scientifiche hanno costituito altre fonti documentali. Quanto mai eterogenee le fonti secondarie: dalle principali storie alle grandi esposizioni sul cinema delle origini, dalle conferenze ai dibattiti, dalle navigazioni ipermediali, approntate ormai in molte istituzioni museali, all’esplosione saggistica del “centenario”. Affronterò dettagliatamente la descrizione dei documenti al procedere della ricerca: per ora mi preme evidenziarne l’eterogeneità e la necessità di prospettare orizzonti di estrema contaminazione disciplinare. 26 Michèle Lagny, De / 'histoire au cinema: méthode historique et histoire du cinéma, cit., p. 10. 27 Francesco Casetti, Le teorie del cinema nel dopoguerra: tre paradigmi, tre generazioni, in “La scena e lo schermo”, Anno 1, nn. 1 e 2, Università di Siena, p. 113. L’autore riassume i principali modelli della teoria cinematografica nella suddivisione attuata fra teorie “ontologiche”, teorie “metodologiche” e teorie “di campo”, relative rispettivamente a un approccio estetico, un approccio scientifico-analitico e un approccio ermeneutico. Questi temi sono ampiamente sviluppati nel successivo Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993. 28 Per i rapporti fra filologia, testualità e cinema si veda il numero 63 di “Cinema & Cinema”, curato da Michele Canosa, La tradizione del film. Testo, filologia, restauro, 1992, con interventi di Jesùs Gonzàlez Requena, Michele Canosa, Giovanni Beni e Clelia Sedda, Bianca Pini, Nicola Mazzanti e Gian Luca Farinelli, Alberto Boschi, Leonardo Quaresima, Raymond Borde. Cfr. anche i capitoli 11 concetto di originale e la ricostruzione del testo e 11 testo e l’evento: problemi filologici e di attualizzazione, in Gian Luca Farinelli e Nicola Mazzanti (a cura di) Il cinema ritrovato. Teoria e metodologia del restauro cinematografico, Bologna, Gratis, 1994. 29 Armando Balduino, Manuale di filologia italiana, Firenze, Sansoni, 1989, p. 8. 30 Ian Christie, The Last Machine. Early Cinema and the Birth of the Modern World, cit., p. 8. 31 Si vedano i numeri 2 e 3 (1995 e 1996) di “Fotogenia. Storie e teorie del cinema”, entrambi dedicati al problema dell’autore. 32 Gianni Rondolino, Storia del cinema, Torino, UTET, 1988, pp. 41-42. 33 Cfr. Michèle Lagny, L 'Archive à la féte. Trois festivals pour une mémoire du cinéma, in “Cinémathèque”, n. 7, 1995, pp. 98-105. 34 Dominique Paini, Conserver, Montrer. Oh l'on ne craint pas d’édifier un musée pour le cinéma, Crisnee, Yellow Now, 1992, p. 17. La prospettiva illustrata dal direttore della Cinémathèque francai se riguarda l’organizzazione di un Museo vivente del cinema - sul modello dell’organismo da lui presieduto a differenza, ad esempio, da Les Archives du Film, luogo di sola conservazione - e risulta interessante perché reintroduce l’idea che si possano costruire “storie del cinema” molteplici in virtù di scelte documentali diverse. Questo montare percorsi originali non vale solo per un Museo vivente del cinema: alle storie proiettate possiamo associare le storie scritte, medesimo il modello, comune un’intenzionalità teorica e, soprattutto, estetica. 35 Laurent Mannoni ricorda la vastità di imprese precedenti l’affermazione del Cinématographe: ad esempio, la Cinémathèque fran^aise conserva circa quattrocento film negativi di Etienne-Jules Marey (e Georges Demeny). Inoltre, fra il 1891 e il 1893, Edison e Dickson producono circa 150 film. Si vedano Laurent Mannoni, Glissements progressifs vers le plaisir. Remarque sur l'oeuvre chronophotographique de Marey’ et Demeny, in “1895”, n. 18, 1995, curato da Thierry Lefebvre, Images du réel. La non fiction en France (1890-1930), p. 12. Per Edison si veda la filmografia curata da Charles Musser, Filmaking for Edison 's Kinetoscope, 1890-1895: A Filmography with Documentation, per il convegno “Domitor” di New York, 1994, ampliata nell’esaustiva pubblicazione Edison Motion Pictures, 1890-1900. An Annotated Filmography, Gemona, Le Giornate del cinema muto/Smithsonian Insitution Press, 1997. 36 Sociéte Anonyme des Plaques et Papiers Photographiques A. Lumière et ses Fils LyonMonplaisir, Catalogue des vues pour cinématographe, Lyon, Imprimerle J. Boulud, 1907. 37 Michelle Aubert et Jean-Claude Seguin (sous la direction de), La Production cinématographique des Frères Lumière, CNC/B1FI, Paris, 1996. 38 Dall’equipe diretta da Michèlle Aubert, coordinata da Jean-Louis Cot, e composta da JeanMarc Lamette, Anne Gautier, Robert Poupard e Nathalie Leplongeon. 39 Auguste et Louis Lumière, Cinématographe. Catalogue des vues. Première Liste, Lyon, Imprimerie L. Decleris et Fils, 1897, p. 19; Auguste et Louis Lumière, Cinématographe.
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Catalogue des vues, Première, Deuxième, Troisième et Quatrième Liste Réunies, (N. 1 à 694), Lyon, Imprimerie-Papeterie L. Siliand, 1897, p. 28. 40 E, in particolare, di Michelle Aubert, direttrice degli Archives du Film e di Eric Le Roy, responsabile delle relazioni esterne. 41 Catherine Foumial, L 'analyse documentaire des images animées, in Dominique Saintrille (sous la direction de), Panorama des archives audiovisuelles, INA, La Documentation Fran^aise, 1986, p. 188. 42 Ricordo soltanto i problemi relativi al controllo, rispetto ai quali la fiducia dei cinetecari si è a volte scontrata con una sorta di trasandatezza degli storici. Nel caso di ricercatori esterni, un addetto del servizio archivistico dovrebbe essere impiegato costantemente per le operazioni di reperimento dei film, per coadiuvare il lavoro alla moviola o al girofilm manuale, per vigilare sul rispetto di quella sorta di contratto non scritto che regola lo “scambio culturale” fra chi conserva film e chi ne riscrive la storia. 43 Ma esiste qualche eccezione a queste modalità. In diversi film l’operatore attua una sorta di montaggio interno alla veduta, arrestando la manovella per qualche attimo, avendo probabilmente constatato l’impossibilità di riprendere l’evento desiderato con i soli 17 metri di pellicola a disposizione. ÀH’intemo di queste vedute osserviamo cioè uno stacco corrispondente alla frantumazione dell’unità temporale fra il ripreso e la sua rappresentazione cinematografica. Del problema si sta occupando André Gaudreault, sin dal simposio del centenario “Lumière” di Lione con Le montage dans la production Lumière, conferenza tenuta 1’08/06/1995. L’ultimo suo intervento sulla questione è Frammentazione e assemblaggio nelle vedute Lumière, in Leonardo Quaresima, Alessandra Raengo, Laura Vichi (a cura di), I limiti della rappresentazione. Censura, visibile, modi di rappresentazione nel cinema, Udine, Forum, 2000, pp. 23-48. 44 Paolo Cherchi Usai, Una passione infiammabile. Guida allo studio del cinema muto, Torino, UTET, 1991. Il libro è stato anche pubblicato in lingua inglese, in edizione rivista e allargata, con il titolo Burning passions. An introduction to the Study of Silent Cinema, London, British Film Institute, 1994. 45 Lo schizzo di un disegno per ogni veduta ha inoltre consentito di visualizzare presenze, linee di forza, particolarità compositive, tensioni fra campo e fuori campo, sfriggenti ad analisi prettamente linguistico-verbali: una sorta di congelamento iconografico dell’immagine in movimento, un arresto del tempo simile all’ontologia pittorica dell’attimo pregnante che nella veduta, più che nel film, istituisce notevoli risonanze col testo analizzato. La successiva gestione delle schede ha comportato la realizzazione di uno specifico programma informatico, con cui è risultato possibile semplificare i procedimenti d’analisi quantitativa, individuare percentuali di ricorrenza di determinate categorie estetiche e focalizzare il lavoro interpretativo attorno a parole o a concetti chiave. Un esempio, per tutti, riguarda l’individuazione della voce “modelli di città”, lemma attraverso il quale ha tentato di esprimersi la mia sintesi sulla forza di specifici immaginari urbani presenti in ciascuna veduta analizzata. 46 La ricerca di Michele Canosa Carnevalesca di Lucio D'Ambra è stata presentata al “II Convegno intemazionale di studi sul cinema” Il colore nel cinema muto, Udine, 23 marzo 1995. Di Michele Canosa si veda anche Ritorno d'immagine, muta, in Dario Zanelli e Cristiana Querzè (a cura di) “Atti del convegno di studio” tenutosi a Bologna il 27 e 28 novembre 1993 sul tema Quale futuro per i festival del cinema, Roma, FAC, 1995, pp. 108-115; di Paola Cristalli si veda invece "Straight Shooting": i colori dello sguardo, in “Cinegrafie”, n. 6, 1993, pp.98-104. 47 Paolo Cherchi Usai, Una passione infiammabile, cit., p. 104. 48 Ivi, p. 54.
Capitolo II
L’IMMAGINARIO URBANO. UNA DIMENSIONE SOTTILE FRA CINEMA E ARCHITETTURA
1.2.1. Sulle ali dell’immaginario Nell’organizzazione teoretica dei nostri territori la definizione di immaginario riveste una particolare importanza. Nella sua Storia dell’immaginario Evelyne Patlagean lo definisce come l’insieme delle rappresentazioni che superano il limite posto dai dati dell’esperienza e dalle associazioni deduttive ad esse legate. Ciò significa che ogni cultura, quindi ogni società, e addirittura ciascun livello di una società complessa ha il proprio immaginario1.
Annidato fra il reale e la fantasia, la verità e la rappresentazione, la cosa e il simulacro, rimmaginario pare costituire un’astrazione dotata di una certa ambiguità. La sua immaterialità gli consente di aleggiare sui domini del sapere e della storia, prestandosi ad usi e discipline assai diversi. Per Lacan l’immaginario risulta legato ad uno “scacco”, a quel luogo psicologico delle false immagini che l’“Io” si fa di se stesso a partire dalla fase delle specchio; Bachelard è attratto dall’immaginario quale forma di conoscenza e dalle sue relazioni con l’impresa scientifica; Durand rivisita invece le concezioni sartriane de L’Imagination (1936) e de l’Imaginaire (1940) sulla capacità della coscienza di trascendere il mondo dato, per affrontare le strutture antropologiche degli archetipi2. L’etimo è chiaro - da immagine - ma ciò non impedisce un costante slittamento verso orizzonti semantici indifferenti a rappresentazioni sensibili, ben oltre la scena, privilegiata, della visività. Semiologicamente, rimmaginario pare dunque costituire un “concetto ombrello”, una specie di luogo incantato sotto il quale riparano significati molteplici, genericamente legati al mentale o all’artistico, all’antropologico o al letterario. Insomma, una specie di surplus del senso, individuale e collettivo, un imprendibile e un po’ evanescente tappeto volante sui dilatati paesaggi del simbolico, un doppio, un po’ più leggero, dell’originale mondo concreto, un ibrido in cui elementi reali e finzionali si confondono e mischiano le carte della storia positiva, quella legata ai “fatti tangibili”. Normale che tale storia nutra
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una sorta di diffidenza rispetto a questo concetto, normale anche che negli ultimi anni questa limitazione sta forse per essere superata, e ci si può attendere un arricchimento e un ampliamento della problematica in direzione delle nuove società sorte dall’urbanizzazione industriale e dallo sviluppo dei mass media. Sin d’ora, invero, gli studi di queste culture compiuti da un Edgar Morin o da un Roland Barthes assumono il valore di una storia per il futuro3.
La prospettiva iconologica Da questo concetto “vago”, si sviluppano alcuni dei più fecondi terreni di ricerca contemporanea. Seguendo gli illuminanti distinguo prospettati da Jacques Le Goff nell’introduzione a L’immaginario medioevale, proviamo ad osservare questa «dimensione della storia che da qualche anno ha catturato sempre più il mio interesse»4. Primo quesito: cosa separa l’immaginario dalla rappresentazione! Per Le Goff è l’aspetto creativo, «poetico in senso etimologico»: naturalmente, nell’immaginario c’è rappresentazione ma, occupandovi spazi non meramente riproduttivi, riesce a trascinare quest’ultima sui territori dell’artisticità. Per evocare una cattedrale immaginaria bisogna far ricorso alla letteratura o all’arte: a Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, alle quaranta tele della Cathédrale de Rouen di Claude Monet, alla Cathédral Engloutie dei Préludes di Claude Debussy5.
Altra distinzione prospettata da Le Goff è fra l’immaginario e il simbolico, in cui l’accento è spostato piuttosto su una convenzione sociale, un credo religioso, un sistema di valori in grado di rinviare a significati non direttamente iconici. La bilancia è simbolo di giustizia, il x di moltiplicazione, il gatto di oscurità, cupidigia e pigrizia per i cristiani ma, quale attributo di Iside, Dea Madre, e di Bast, dea della luna, di protezione e di favori costanti per gli egizi. Interessante risulta la considerazione di Le Goff su due categorie dello spirito immaginario e simbolico - che pare «possano unirsi, perfino sovrapporsi in parte, senza che sia necessario rinunciare a distinguerle, proprio per pensarle nel modo giusto»6. Il dizionario di semiotica di Greimas e Courtés diffida del “simbolo” in quanto rinvierebbe «ora al carattere pluri-isotopo del discorso, ora ai meccanismi ancora poco esplorati della connotazione. L’impiego di questo tennine sincretico è ambiguo in semiotica e provvisoriamente da evitare»7. Poi Videologico. Ecco intervenire un quadro concettuale legato all’imposizione, al preconcetto: un territorio mentale nella cui struttura sarebbe snaturato «tanto il “reale” materiale, quanto l’altro “reale”, l’immaginario»8. Ideologica è la visione politica o religiosa che chiude il senso all’interno di verità preconfezionate, negando la pluralità del pensiero: è la tomba del simbolico
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illustrata da Cesare Viviani, «un ideale comunicabile e condividisile: propagandabile»9. Un riferimento centrale nell’indagine sull’immaginario è costituito dall’analisi di documenti particolari, ai quali lo storico tradizionale ha sempre riservato un certo sospetto. Per Le Goff tutti i documenti contengono una parte di immaginario ma le opere fondamentali per una storia che lo privilegi risultano le opere letterarie e quelle artistiche. Sfuggendo alla tentazione di inoltrarmi in uno dei problemi fondamentali dell’estetica contemporanea, l’indecidibilità e la polisemia dell’opera d’arte10, affronto invece un punto che mi sembra nodale, laddove Le Goff illustra l’idea che «nell’immaginario c’è immagine» e che «le vere immagini sono concrete e costituiscono ormai da tempo l’oggetto di una scienza specifica: l’iconografia»11. Il problema pare dunque la relazione fra realtà sociale e sistemi rappresentazionali di cui essa si dota, secondo quell’estensione ampliata dal modello iconologico inaugurato da Aby Warburg con la sua biblioteca “per la storia della cultura”, e proseguita dagli studi di Panofsky, Gombrich, Focillon, Francastel, ecc.12. Passare dall’identificazione e classificazione del documento artistico all’analisi dei suoi significati profondi significa non ridurre l’arte a fondale dipinto di una società quanto, piuttosto, fare i conti con gli atteggiamenti normativi di una cultura e con la permanenza di quelle temporalità lunghe o medio lunghe che avevamo già osservato nell’approccio della nouvelle histoire. D’altronde, De Seta, ricorda che «ogni monumento visivo... discorre di qualcosa, narra una sua storia e offre una sua qualità dello spazio»13.
1.2.2. Della sua dimensione urbana
Con un percorso circolare, la premessa storico-teorica si riallaccia alle convergenze fra immaginario ed iconologia: ribadire l’importanza della veduta Lumière nell’evoluzione della visualità dinamica permette di porre l’accento sulla persistenza secolare dell’interscambio fra cultura dotta e cultura popolare, a cavallo fra l’arte antica del vedutismo e l’arte moderna del cinema. Senza privilegiare una storia contenutistica - una delle accuse cui fu sottoposta l’iconologia, nel nostro caso potremmo tradurla nella ricerca di temi e concetti sulla città, al di là delle specificità dei media, dei tempi e delle forme indagate la prospettiva emergente si delinea come viaggio fra entità immaginifiche diverse, nelle quali la molteplicità di rappresentazioni dell’wrfo quale “icona” del sentimento collettivo della civitas, costituisce un fecondo e scarsamente esplorato territorio di ricerca. Con un discreto pericolo in agguato, insito al documento cinematografico, e ben evidenziato da Lucian Boia in Pour une histoire de l’imaginaire'. quello di
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presenter un haut degré de credibilità, en tant que reflet irrefutable de la “realità”. Disposant de cette précieuse qualità, le documentaire est devenu le meilleur allià des idàologies, et tout particulièrement de la propagande totalitaire, nazie ou communiste. Quoi de plus astucieux que d’illustrer les mythes avec un matàriel incontesablement vrai?14
L’idea del cinema quale testimone infallibile esibisce lo statuto rassicurante dell’immagine realista, il noto “profluvio degli effetti di realtà”, in una missione di (auto) certificazione veridittiva, apparentemente senza scampo. Si tratta di un paradigma ricorrente, prossimo a quel discorso critico sui Lumière in difficoltà nell’ammettere che la griglia dell’immaginario si frappone fra il mondo di pietra ripreso e i balugini! ammirati al cinématographe. Urbanistiche sottili Nel brillante saggio su L’immaginario urbano nell’Italia medievale, Jacques Le Goff compulsa, trattatistica., laudes civitatum, mirabilia, documenti iconografici, resti archeologici, cronache cittadine per illustrare la già citata duplicità: da un lato la città materiale, dall’altro gli ideali, le estetiche, gli immaginari a lei sottesi 15. Ecco evidenziarsi la scomparsa dell’ordine romano a favore del “disordine” medievale, il fervore nella costruzione delle chiese e dei conventi, la salita sulla scena pubblica del cittadino borghese, l’autonomia politica della città e il rapporto contraddittorio instaurato con la campagna, la rivalità e la sete di potenza fra le città. I fattori che nell’onda lunga della storia permeano la coscienza cittadina medioevale vengono ricercati in eredità antiche - innanzitutto biblica e romana, quindi cristiana (torri campanarie e mura urbiche come espressioni delle antinomie alto/basso e interno/estemo) - come fra gli attori sociali del periodo: clero - soprattutto gli ordini mendicanti borghesia, nuova amministrazione pubblica16. Per la nostra prospettiva è ribadita l’importanza della intersezione fra forze storiche dai tempi differenziali, facendo tesoro di immaginari appartenenti a respiri apparentemente diacronici. Risulta cioè importante intendere la città come una di quelle “strutture globalizzanti” di cui parla lo storico francese, un luogo mentale rispetto al quale contesti geografici e culturali differenti determinano una serie di immaginari costanti. Per Le Goff l’immaginario urbano è dunque quell’insieme di rappresentazioni, di immagini e di idee, attraverso le quali una società urbana - o parte di essa, o i suoi ideologi e i suoi artisti, che non di rado sono la stessa cosa costruisce per se stessa e per gli altri un autopersonaggio, un autoritratto. Ciò che importa, per lo storico, è capire che questo personaggio ha due facce: una materiale, reale, rappresentata dalla struttura e dall’aspetto della città stessa; l’altra mentale, incarnata nelle rappresentazioni artistiche, letterarie e teoriche della città. L’immaginario urbano consiste insomma nel dialogo fra queste due realtà, fra la città e la sua immagine17.
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Anche La città come luogo mentale di Maria Corti è un saggio che garantisce una serie di generalità necessarie a una prima definizione18. L’autrice utilizza fonti letterarie per analizzare l’evoluzione delle trasformazioni immaginifiche legate a Babele, Gerusalemme, San Pietroburgo, Parigi, Milano e Roma. Emerge il concetto che in questa “edilizia della mente” la città reale, quella di pietra, Vurbs, può essere perfettamente sconosciuta. Illuminante è l’analisi del topos filoparigino e antiparigino nei secoli XII e XIII, attraverso le componenti riformiste e conservatrici della chiesa cattolica: il giudizio di chi non ha mai visto la città - perché, ad esempio, rinchiuso a vita in un monastero - non impedisce affatto il formarsi di un preciso immaginario, spesso di totale denigrazione19. Altro punto interessante: l’alternanza di elementi positivi e negativi nel giudizio sulla città cristallizza la disputa su un luogo indifferente, una sorta di città virtuale che non ha più riferimenti con alcuna specificità urbana. A questo livello non sono più in discussione Parigi o Milano, Babilonia o Gerusalemme, ma la città tout court, coi suoi valori, i suoi comportamenti, le sue immagini più generali: ciò che consente a Lotman di sostenere che «la città occupa un posto particolare nel sistema dei simboli elaborati dalla storia della cultura»20. Toma la relazione fra simbolo e immaginario, ma ciò che più colpisce è il processo per cui la città, una per tutte, diviene un grande inventario di mondi possibili, «un insieme pieno, o per usare una espressione che circola nella letteratura in argomento, un mondo ammobiliato»2'. La Corti, tralasciando il simbolismo legato al nome - pensiamo alla De civitate Dei di S. Agostino o alla Sankt Peterburg dell’imperatore Pietro - amplia la categoria lotmaniana di “città come spazio” alla dimensione temporale. Ecco sorgere l’idea di Roma città eterna o di Roma caput mundi'. là dove la memoria collettiva storico-culturale acquista un grande volume nei riguardi di una città, tale città diviene un meccanismo di recupero, che è volto al presente, ma dietro cui affiora di continuo l’immagine del passato... La città come simbolo è perciò fuori dal tempo reale, oltre che fuori dello spazio reale22.
Costanza di spazi, permanenza e rincorsa di tempi sembrano confermare che il pensiero della città quale struttura globalizzante della cultura europea garantisce una coerenza storico-epistemica in grado di condurci con più ampi strumenti metodologici all’interno della veduta Lumière. Ci torneremo presto: per ora si osservi la convivenza fra immaginari generali ed immaginari specifici, in un riflesso continuo fra architetture mentali riservate all’idea generale di città e costruzioni immaginifiche relative a determinati organismi urbani. Ogni urbs conserva cioè i caratteri generale e locale, in balia di un’idea vasta e di un’idea limitata sulla sua essenza.
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Particolare forma dell’immaginaire la città amata emerge con la laus civitatis, alla quale anche la Corti dedica parte del suo saggio. Bonvesin de la Riva celebra Milano come paradiso di delizie, luogo della perfezione, della bellezza e della gloria, sino a rivendicarne il titolo di “seconda Roma” e la stessa sede pontificia23. De magnalibus Mediolani (Le meraviglie di Milano) è una lode che ci riporta ai semplici ed efficaci sillogismi del Varchi, citati da Ludovico Zorzi ne II teatro e la città'. di tutte le regioni d’Italia la Toscana è la più bella; di tutte le città di Toscana Firenze è la più bella; di tutti e quattro i quartieri di Firenze, Santo Spirito è il più bello; di tutte le vie del quartiere di Santo Spirito, via Maggio è la più bella24.
Sono eccellenze urbanistiche ampiamente immortalate in pittura. Dal Ghirlandaio, ad esempio, che nella cappella Sassetti di Santa Trinità, con il ciclo delle Storie della vita di San Francesco, sembra riprendere le parole del Varchi: l’ambiente della Resurrezione del fanciullo di Casa Spini, è proprio la prospettiva di piazza Santa Trinità, delimitata dai palazzi Spini e Gianfigliazzi e Bertolini-Salimbeni, con l’occhio a perdersi nel pozzo prospettico di Via Maggio25. NeH’affresco compaiono il committente, Francesco Sassetti, il Ghirlandaio stesso e suo cognato, Francesco Mainardi: scena autoriflessiva, frequente per il Ghirlandaio e la Firenze dell’epoca, in cui motivi celebrativi, artistici e urbanistici paiono fondersi in una veduta che, in via provvisoria e con un po’ di leggerezza, vorremmo accostare a “quadri” - realistici e stupefacenti anche loro - di certe vedute familiari dei Lumière. E che «ogni dipintore dipinge se», secondo un motto alla moda nella Firenze medicea, indicativo di un processo di sottrazione delle arti alla meccanicità riproduttiva e di consegna a un dominio dotato di “spirito”, quello delle arti “liberali”26; un “se” dipinto tracciato fra gli estremi di riconoscibilità artistica personale (dunque, non solo presenza fisica in atto), più vaste prerogative stilistiche e ancora più universali appartenenze storico culturali. Chi è, dunque, il soggetto “dipinto” nelle ultime vedute, quelle cinematografiche, realizzate fra XIX e XX secolo? Chi sono il padre (creatore) e il figlio (opera) convocati in questa assemblea di uomini e di città? Insomma, quali figure d’autore - se di autore possiamo parlare traspaiono e s’incarnano nella prima grande impresa produttiva della storia del cinema?
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1.2.3. Seduzioni e fenomenologia di uni rapporto complesso Durante un’emissione radiofonica di “France Culture”27, all’interno delle manifestazioni su “L’Art et la ville” tenute nel 1994 al Centro Pompidou di Parigi, viene ricordata un’affermazione di Eric Rohmer; a chi gli chiedeva cosa l’architettura apportasse al cinema e cosa quest’ultimo alla disciplina architettonica, il regista francese avrebbe risposto che l’architetto prende il mondo per quello che è, mentre il cineasta lo affronta per modificarlo. E una affermazione suggestiva ma potremmo anche supporre l’esatto contrario; forse è questione di poetiche, probabilmente di approcci disciplinari, indubbiamente di prospettive politiche, ma è indubbio che, osservando il ruolo dell’architetto nella storia, l’utopia del cambiamento e, all’opposto, la mera rispondenza ai desideri della committenza hanno sempre segnato gli opposti confini delle sue pratiche. Pensiamo ai desideri e alle speranze del Movimento moderno, quando gli architetti ritenevano di poter cambiare la società attraverso il “progetto”: un architetto “regista” della vita e dell’utopia, dotato, sino agli anni Settanta, di una carica ideale che valicava la fattualità edilizia per investire una vera e propria teorica del cambiamento sociale. Ricordiamo, proprio in quegli anni, La speranza progettuale di Thomas Maldonado o l’acuta critica al disimpegno professionale offertaci da Paolo Sica nel saggio L’immagine della città da Sparta a Las Vegas . Contigua a certi ambiti della nostra riflessione si colloca anche la precedente indagine di Kevin Lynch su L’immagine della città, testo “classico” per più di una generazione di architetti e urbanisti affascinati dal tentativo di gestire la “figurabilità” dell’ambiente urbano29. Sul lato opposto, quello dell’architetto che prende il mondo per quello che è, tornano alla mente le immagini di Bucarest, la mémoire mutiléeyQ, un drammatico film sui progetti di “Ceausescu urbanista”. Nella sistematizzazione imposta dal regime, il ruolo dei pianificatori è ridotto all’impotenza e all’asservimento totale: fare tabula rasa delle culture di confine attraverso la distruzione di intere città; esercizio della pratica urbanistica dal “vivo”, senza piani regolatori, attraverso un cenno del dittatore o della moglie; espropri attuati senza preavviso, con cambiamenti in corso d’opera o demolizioni di complessi edilizi appena realizzati; impiego di 20.000 lavoratori nel cantiere e di altri 480.000 per l’indotto - per l’edificazione del più grande edificio del mondo, quella Casa del Popolo nella quale i rubinetti d’oro mostratici dalle immagini televisive del dicembre 1989 non sono che l’aspetto folkloristico; distruzione di gran parte dei monumenti - ricordiamo il grido sommesso degli storici rumeni per salvare almeno 100 dei 1000 metri quadrati di affreschi del più importante monastero del paese, poi completamente raso al suolo;
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deterritorializzazione degli edifici religiosi, attraverso surreali opere ingegneristiche, quali argani leonardeschi o giganteschi binari di scorrimento; tracciamento del Boulevard della Vittoria del Socialismo, quel cannocchiale urbano verso la Casa del Popolo che ha letteralmente tagliato in due la città, separando sud e nord di Bucarest con un’arteria invalicabile. Tornando a Rohmer e al regista cinematografico capace di modificare la realtà, potremmo supporre un percorso analogo a quello appena tracciato per l’architetto: la visione del regista e teorico francese presuppone la libertà e l’autorevolezza dell'Autore, ma gran parte del cinema pare rappresentare comunque un adattamento alla realtà, forse una realtà più evanescente di quella architettonica, una realtà fatta di valori, di atteggiamenti e di immagini, piuttosto che di pietre e di cemento, ma pur sempre delimitata da un humus culturale e da componenti mercantili di produzione nelle quali il regista “medio” è immerso e dalle quali risulta, egli stesso, “guidato” interprete. Risulta, in sostanza, uno dei capisaldi retorici nell’analisi della differenza fra sistema produttivo hollywoodiano e cinema europeo31. Interessante, per altri versi, è anche l’approccio “oculistico” di Jean Louis Comolli. Egli ricorda che la ville du cinéaste n’est celle ni de l ’urbaniste ni de l’architecte. On sait, et on oublie, que l’oeil unique de la caméra, machine cyclopéenne, s’oppose au système binoculaire qui est le nòtre32.
Il suo percorso parte dall’ottica ma la con siderazione non è affatto priva di ripercussioni filosofiche; la monocularità del cinema impone un punto di vista limitato, parziale, ricostruito, punto di vista che taglia la realtà meccanicamente, opponendosi alla continuità della visione binoculare dell’uomo. Grazie a ciò «la ville du cinéaste ne serait done pas seulement le visible de la ville. Il se peut, mème, que cet écart par rapport au visible soit la dimension juste du cinéma»33. Il cinema riesce dunque a mostrare ciò che risulta impossibile all’urbanista; di più, da quando ha cominciato a filmare la città le réve de ville s’est confondu avec la ville révée du cinéma, la ville s’est mise à jouer au film, sans pellicule ni machine, mais avec tout le reste, avec du regard, des regards, des mouvements, des fixes, des plongées, des contre-plongées, des clairs-obscurs, des contre-jours34.
Assorbimenti, contaminazioni, risemantizzazioni: le considerazioni di Rohmer e di Comolli - ma potremmo elencarne altre, di registi, architetti, storici, estetologi - appartengono all’incontrollabile deriva semantica scaturita dall’endiadi cinema e architettura. Le testimonianze, infinite, le pubblicazioni, in espansione, tracciano rapsodiche intersezioni fra le due arti*35 , amplificate da recenti, grandi esposizioni. Attraverso le due puntate di Cités-Cinés (la prima
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alla Villette, la seconda alla Défense) e grazie a La Ville. Art et architecture en Europe 1870-1993, mostra tenutasi nel 1994 al Centro Pompidou, Parigi ha tentato di indagare il gioco di relazioni fra cinema e architettura con risultati differenti, ibridando l’esposizione allo spettacolo, l’architettura di scena a quella filmica, l’elaborazione teorica a quella scenografica36.
Antinomia fra costruire e decostruire Cinema e architettura risultano associabili, ad esempio, quali luoghi di una progettualità necessaria. Componente strutturale di entrambe le discipline, la necessità del pre-vedere accomuna il disegno di architettura alla sceneggiatura per il cinema: l’architetto che schizza un edificio “fa del cinema” come l’autore cinematografico “progetta” un film. Dall’estetica emerge un’altra produttiva intersezione, laddove comuni esigenze di “rottura” ingenerano il dissolversi di medesime categorie estetiche: prendiamo la classicità. Se certe facciate post-modem degli anni Ottanta ricordano le scenografìe in cartapesta dei colossal degli anni Dieci, ai contemporanei architetti decostruzionisti*37 potremmo associare il tentativo di “riscrivere” l’architettura con la stessa passione che animava i registi della Nouvelle vague per la caméra stylo, superando una classicità (il cinema della trasparenza da un lato, l’architettura moderna e la svolta postmoderna dall’altro) raggelata nella perfezione di consolidati formalismi. Liberare il fluire temporale all’interno degli spazi fìlmici o architettonici risponde unicamente a riconoscibilità ipotetiche e a personalissime ermeneutiche, tanto che on pourrait presque dire que sa valeur filmique [dell’architettura] s’accroìt dans la mesure où l’intentionnalité de 1’architecture réelle... n’est plus perdue par le spectatuer. C’est ainsi que devient possible l’utilisation, dans des films, et d’architectures réelles et d’architectures de studio38.
Essenze, contaminazioni, seduzioni, smarrimenti. Questo essere sulla torretta di controllo delle arti, il concorso totale richiesto alla realizzazione finale dell’opera, l’utilizzo molteplice di discipline indipendenti, può rendere cinema e architettura “autoritarie”, a volte insopportabili. Ma l’architettura ripresa al cinema soggiace completamente alla volontà del testo filmico? Per Lino Miccichè l’architettura è costretta a piegarsi al discorso del film, quale uno degli elementi costitutivi il testo in questione: a differenza della musica possiamo ascoltare una colonna sonora di un film senza vederne le immagini l’architettura perde le prerogative proprie e diviene funzionale all’opera cinematografica. Antonio Costa rileva anche la possibilità che lo spazio architettonico mantenga una sua (relativa) autonomia. Autonomia che va ricondotta alla riconoscibilità, storica e stilistica, dell’architettura e
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alla complessità delle sue determinazioni che solo in parte verrebbero investite e controllate dalla significazione filmica39.
In quello che appare come un problema di risemantizzazione, in qualche modo di traduzione fra semiotiche differenti, l’anima eclettica del cinema “sfrutta” l’architettura come qualsiasi altro strumento produttore di senso. Ma l’arte del costruire è ormai in grado di rielaborare le componenti dinamico-compositive del cinema: pensiamo, ad esempio, alle architetture sensibili di Jean Nouvel, dalle decorazioni fotodinamiche dell’Institut du Monde Arabe di Parigi alla successione schermica delle finestre-veduta sul paesaggio lacustre osservato dal Kultur undKongresszentrum di Lucerna. E proprio in merito alla rielaborazione di motivi cinematografici per la definizione di nuovi spazi urbani, Jean-Louis Comolli sostiene che «depuis le temps que le cinéma filme la ville - depuis le frères Lumière -, les villes ont fini par ressembler à ce qu’elles sont dans les films»40.
1.2.4. Il cinema, architetto suo malgrado La settima arte crea immediatamente un legame indissolubile con lo spazio antropizzato, evidenziandone gli elementi di attrazione spettacolare, producendo oppure occultando determinati valori estetici, definendo le costanti geo-antropologiche e i caratteri originali delle cinematografie nazionali, donando ai primi “autori” la possibilità di elaborare personalissime geografìe sentimentali41. Architetto (metonimico, da arredatore a urbanista) il cinema lo è da subito, lungo tre direttrici che corrispondono ad altrettante scale del progetto. Innanzitutto è urbanista, anzi, urbanista/paesaggista, capace di incidere profondamente sulle strutture territoriali a grande scala, inserendosi nei violenti fenomeni di urbanizzazione e mutandone la percezione. Con una presenza fisica effettiva: nel dinamismo della città che muta, le periferie industriali ospitano le officine delle nascenti case di produzione. Del 1899 è una descrizione degli stabilimenti Pathé alla periferia di Parigi nella quale l’area di Vincennes appare ancora in tono dimesso: Imaginez un terrain vague, bordé de planches assez hautes pour décourager la curiosité des passants. Au milieu, une grande estrade avec des portants, des toiles de fond suspendues à des perches. A gauche et à droite, deux cabanes rudimentaires: l’une pour les hommes, l’autre pour les femmes42.
Cine-città Sette anni dopo, le officine di Vincennes producono 20 chilometri di pellicola al giorno, un analogo complesso della stessa capacità produttiva è già in funzione a Joinville-le-Pont, comincia l’edificazione dello stabilimento di
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rue des Vignerons e il provvisorio teatro di posa di Montreuil - dotato anche di una piscina per le scene acquatiche - è divenuto ormai permanente. Léon Gaumont chiama invece “Cité Elgé” la vasta area in rue des Alouttes sulla quale termina, nel 1905, la costruzione del suo Théàtre cinématographique. Non è un’iperbole pubblicitaria: nel corso degli anni la Gaumont si dota di un insieme straordinario di edifici che ne fanno una vera e propria cittadella: attorno al più grande teatro di posa del mondo43, sorgono i laboratori di scenografia e di stampa, di montaggio e di coloritura, nonché nuovi stabilimenti di produzione degli apparecchi e una tipografia per la produzione di materiale pubblicitario, cataloghi, brochures, afjìches. Nel catalogo del gennaio 1908, Projections Parlantes - Etablissements Gaumont, la veduta de / ’Ensemble des Usines è posta prima dell’indice: mostra l’ampiezza dell’area urbanizzata, con tre ciminiere fumanti e i diversi stabilimenti industriali, alcuni dei quali - con trasparenze da esposizione universale - in ferro e vetro. Quelques mots sur nos moyens de production è il capitolo in cui vengono illustrate le caratteristiche, l’ampiezza e la qualità di queste officine modello. A pagina 159 dello stesso catalogo troviamo altre due immagini: Nos Ateliers en 1906 e Nos agrandissements en 1907. Risulta evidente che gli aspetti promozionali sono intimamente legati alla qualità e alla quantità degli interventi architettonici realizzati44. In Italia, la Cines costruisce il suo nuovo stabilimento nel 1907 su un’area dell’estensione di oltre 2000 metri quadrati e comprende un grande teatro di posa, una vasca immensa per i soggetti acquatici, parecchie camere oscure, molte sale apposite per la coloritura, in una parola tutto l’occorrente a riprodurre, con meticolosa esattezza di particolari, qualunque scena, qualunque avvenimento reale, fantastico ed umoristico45.
Ma anche la Comerio alla Bovisa di Milano, l’Ambrosio, la Rossi e l’Aquila Films a Torino hanno già avviato, nel 1907, stabilimenti produttivi in grado di incidere urbanisticamente sul territorio. Soprattutto per “Filmopoli” Torino, la nuova cinematografia sfrutta la vivacità imprenditoriale e le economie di scala di uno dei futuri vertici del triangolo industriale46. La città si trasforma all’arrivo del cinema ma, certo, non muta solo per esso: l’impatto degli stabilimenti cinematografici va collocato all’interno delle più vaste dinamiche di crescita della città industriale, nel flusso della produzione capitalistica delle merci, nella vertiginosa diminuzione dei tempi e incremento dei mezzi di trasporto. Uno degli aspetti dell’internazionalità del cinema è proprio il suo carattere mercantile: la moderna produzione di “officine modello” (secondo la definizione della Gaumont) necessita di spazi ed infrastrutture che solo le periferie sono in grado di offrire.
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La scala architettonica Se l’impatto urbanistico della produzione è evidente soprattutto nelle periferie industriali o, in misura minore, nelle trasformazioni di complessi edilizi preesistenti, l’esercizio pare investire, all’opposto, il cuore dei centri urbani, attuandovi vaste trasformazioni a livello architettonico, sottraendo spazio ad altre attività spettacolari, ai commerci, alle abitazioni. La centralità è una delle esigenze del cinematografo, giacché difficilmente uno si propone di andare al cinematografo, come farebbe per il teatro, ma vi entra quando, passando davanti, è attratto dal titolo dello spettacolo, e dal pensiero che la durata di esso non è troppo lunga. E però anche un’esigenza che ostacola la costruzione di fabbricati appositi data la difficoltà e talvolta l’impossibilità di trovare nel centro cittadino aree disponibili, a meno di ricorrere a demolizioni troppo onerose per essere effettuate47.
Sembra il caso di uno dei primi cinematografi aperti a Mosca, in via Tverskaìa, nel 1904: «Buchiamo un tramezzo; soppressa la porta, mettiamo una tenda. Lo spettatore entra direttamente nella sala lasciando la tromba delle scale; la vendita dei biglietti e l’apparecchio di proiezione trovano posto in sala»48. E la fine del padiglione ambulante e non solo per la nascita di sale permanenti: l’organizzazione stessa della moderna città risanata impedisce la promiscuità foranea dei baracconi, il caos incontrollabile delle fiere, la magia e la ciarlataneria di spettacoli che, guardati con sospetto dalla borghesia urbana, resisteranno per qualche decennio ancora nella piazze di provincia. In Francia è Charles Pathé che en 1906, marque la fin de l’exploiration foraine, la fin du voyage et de l’aventure. De la périphérie au centre, les salles se déplacent vers un nouveau public. Le Cinéma Pathé, sur les boulevards, avec sa salle très luxueuse, est le symbole d’un àge nouveau, sédentaire49.
Nel periodo che Aldo Bernardini definisce come seconda fase di sviluppo del cinema nazionale, la proliferazione delle sale è rapidissima anche in Italia50. Il clima aleggiante all’Edison di Firenze o al Nuovo Cinematografo Moderno di Roma è vivacemente illustrato dalla nota descrizione di Giovanni Papini: I cinematografi, colla loro petulanza luminosa, coi loro grandi manifesti tricolori, e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli delle loro orchestrine, i richiami stridenti dei loro boys rossovestiti invadono le vie principali, scacciano i caffè, s’insediano dove erano già gli halls di un restaurant o le sale di un biliardo, si associano ai bars, illuminano d’un tratto con la sfacciataggine delle lampade ad arco le misteriose piazze vecchie, e minacciano a poco a poco
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di spodestare i teatri, come le tranvie hanno spodestato le vetture pubbliche, come i giornali hanno spodestato i libri, i bars hanno spodestao i caffè51.
Un’archeologia stilistica conduce dalle lampadine colorate dei padiglioni, dagli ori di esotiche decorazioni zoo e fitomorfe, dalle loggette in cui, sbraitando fra l’organo e la cassa, l’imbonitore reclama il suo gentilissimo pubblico, sino alle eclettiche facciate dei primi cinematografi. La perdita dell’aura è descritta da Salvagnini nella «mescolanza di stratificazioni artistiche appartenenti ad epoche diverse» nella «miriade di luci, che nei loro multicolori sfolgorìi prefiguravano l’effetto ‘pop’ delle insegne luminose delle grandi città», nella «presenza di animali e attrazioni varie»52. Si va verso la definizione di una nuova tipologia edilizia e, non a caso, la sala cinematografica diviene uno dei temi prediletti dal movimento moderno: nessuna tradizione “evidente” alle spalle, disposizione assembleare - dunque “democratica” - dello spettatore, rilevanza dei caratteri distributivi e funzionali. Ma essere luogo dei sogni, santuario della fascinazione individuale e collettiva, consente ai prospetti e agli arredi dei cinematografi di valicare l’austerità stilistica del modernismo, dotandosi di abbondanti concessioni formali. Se le immagini dei primi nickelodeons mostrano ancora sale molto semplici - dotate tutt’al più di qualche lampadina ai bordi dello schermo o di un rimando alla classicità attraverso una facciata archivoltata - i cinema nascenti nelle gallerie e nei boulevards delle capitali europee paiono ben presto appellarsi al binomio prestigio (del locale) - artisticità (del mezzo), risemantizzando il vasto repertorio di simboli ed allegorie di una più lunga tradizione spettacolare53.
Scene e balocchi L’ultima direttrice del cinema “architetto” conduce alla sua progettualità scenografica. Oltre a mutare il paesaggio urbano e ad istituire un tipo edilizio, il cinema nascente si misura cioè col décor, creando o individuando nuovi spazi per la messa in scena54. Il cammino intrapreso verso una propria specificità, rielaborando saperi scenografici di antecedenti arti dello spettacolo, è sintomatico del passaggio di testimone fra teatro e cinema al volgere del secolo. Il ruolo della scena è decisivo e, per certi versi, paradossale. Il cinema esplode come spettacolo di massa quando giunge a rappresentare spazi e alterità che il teatro stava “macchinosamente” tentando d’inseguire: la veduta cinematografica, prima del film, è al centro dello stupore per l’illusione del movimento e per la profusione dell’effetto di realtà che il teatro, nonostante l’utilizzo di navi, aerostati, cavallerie., vulcani “veri” sul palcoscenico, non riusciva a suscitare con altrettanta pregnanza55. Nei primissimi anni è come se la scena - finalmente il movimento della natura e, soprattutto, delle città! possa godere di una stupefacente autonomia espressiva, irraggiungibile da qualsivoglia macchineria teatrale. Per Georges Méliès
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les opérateurs, après avoir pris au début des sujets fort simples, qui étonnaient seulcment par la nouveauté du mouvement dans des épreuves photographiques que l’on avait toujours vues figées dans l’imobilité, sont arrives aujourd’hui, en voyageant dans toutes les parties du monde, à nous dormer des spectacles fort intéressants, en nous montrant, sans nous déranger, des contrées que nous n’aurions probablement jamais vues, avec leurs costumes, leurs animaux, leurs rues, leur population, leurs moeurs56.
L’irrisolto scarto fra desideri dinamici, mezzi tecnici e possibilità “dal vero” è illustrato da Théodore de Banville, nel sogno di un teatro ideale che possa mettere a disposition du poète tous les palais, toutes les villes, toutes les foréts, tous les paysages, et... doit changer de lieu aussi vite que la pensée, sans imposer à notre attention l’abominable refroidissement des entr’actes57.
Dunque cinema, un fortissimo desiderio di cinema; che, pure, nel momento in cui amplifica la sua capacità di raccontare storie, riadotta dalle pratiche teatrali più popolari - il music-hall per l’Inghilterra, il café-chantant e gli spettacoli d’arte varia per la Francia, il vaudeville per gli Stati Uniti, il varietà per l’Italia - le modalità della scena dipinta, lasciando al corpo e alle peripezie dell’attore, all’esile intreccio narrativo e allo sperimentalismo di un linguaggio in via di formazione gli stupori della nuova rappresentazione58. Mentre con Adolphe Appia e Gordon Craig la scenografia teatrale delle pratiche “alte” intraprende un percorso severamente antinaturalistico - uno degli assunti: scenografia che denunci la propria finzione - il cosiddetto teatro per illetterati segue al massimo le indicazioni di Georges Méliès sull’utilizzo di scenografie in bianco e nero, per consentire una migliore colorazione manuale delle pellicole: perché «tout est necessaire pour dormer l’apparence de la vérité à des choses entièrement factices»59. In un improbabile raffronto, la genialità di Méliès pare anticipare - ed espandere, grazie ai “poteri” del cinematografo - la moderna progettazione ambientale della scena, una stratigrafia dello spazio teatro capace di amplificarne i possibili espressivi, sezionandone i volumi, diversificando il piano d’azione degli attori, utilizzando botole e piani inclinati, aprendo agli spazi demisurati del cielo, oltre la macchineria, al di là della torre scenica60. Nonostante ciò, per lunghi anni ancora, il teatro costituisce un’arte di riferimento, scrigno di metafore utilizzate sia in ambito cinematografico che nell’analisi e nella progettazione urbana. Il paradigma “scenografico” investe cioè categorie come “scena” e “palcoscenico”, “attore” e “teatralità”, ampiamente utilizzate e risemantizzate dalle altre arti61.
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1.2.5. Una fonte per la storia delle città
Una prospettiva che risente dello statuto autorevole donato al cinema come fonte documentale è quella dello studio del “caso”, in cui l’analisi abbraccia una realtà urbana specifica. L’incrocio fra il nuovo spettacolo e la vita di una comunità consente di racchiudere fisicamente la “contaminata” vastità relazionale del dispositivo, riproducendo o differenziando istanze, processi, modalità della storia più generale. Al tempo stesso, il discorso non può che valicare problematiche inerenti il visivo, il testuale, l’autoriale, per coinvolgere territori appartenenti alla storia urbana. Anche perché, fra Otto e Novecento rimmaginario urbano è del tutto ridisegnato nella testa della gente. Le popolazioni cominciano a dimostrare una fame e un bisogno di divertimenti differenziati, di maggiore socializzazione, un desiderio di consumare ore di vita capaci di provocare una serie di emozioni visive, tattili, olfattive, inedite .
Affrontare lo studio di casi specifici aiuta, allora, a ridefinire il rapporto fra storie più vaste - del cinema, dell’urbanistica, dell’immaginario - e microstoria locale. Ma come organizzare una simile ricerca? Su quali fonti basarsi? Come interpretarle? In effetti, paiono emergere approcci differenti. Nel più seguito potremmo definirlo “della reciprocità” - le tipicità del locus gareggiano ad armi pari con quelle del dispositivo in arrivo; le fonti utilizzate riguardano giornali locali, depliant e locandine degli spettacoli, carteggi amministrativi di enti prefettizi o comunali, memorie e testimonianze orali. L’indice di questi lavori prevede solitamente un’agile introduzione di carattere generale; una premessa sugli spettacoli luminosi precinematografici; un capitolo sull’arrivo e la competizione dei primi apparecchi per la fotografìa animata - in Italia, solitamente, il cinematografo Lumière e il Vitascope Edison; una descrizione di commenti e reazioni della stampa - meraviglie tecniche da un lato, immaginario “espanso” e fenomeni di costume dall’altro; un’analisi della triade produzione, distribuzione, esercizio attraverso i precursori locali (operatori, ambulanti, gestori) - dal primo cinema “errabondo” sino alla configurazione di una vera e propria tipologia architettonica; i rapporti con l’istituzione ecclesiastica, educativa, prefettizia; i tipi di pubblico. La parola magica è “locale”. I rischi: da una parte il prevalere, appunto, di una concezione localista, dall’altra l’accumulazione di dati e vicende pressoché identiche. Punto di forza: la capacità di influire, attraverso contributi parziali, sull’intero sistema delle “Storie del cinema”. Ricordo qualche studio. In No magic, No Mystery, No Sleight of Hand: The First Ten Years of Motion Pictures in Rochester, George C. Pratt illustra l’arrivo delle proiezioni animate nella città americana attraverso gli spettacoli
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deìVEidoloscope63, i commenti del Democrat & Chronicle, le reazioni dell’audience. In Neapolitan Cinema: The First Years, Aldo Bernardini traccia le tappe di un rapporto particolarmente fecondo fra Napoli e l’arrivo del cinema: dalle prime cronofotografie di Marey e dalle proiezioni Lumière al Salone Margherita, si sviluppa una cinematografia in cui il rapporto con i luoghi e i miti di una capitale valica la semplice metafora di “città palcoscenico”64. Un altro, interessante studio è quello di Jacques e Marie André sulla città di Montpellier. Attraverso l’analisi della stampa locale, la ricerca osserva l’installazione del cinematografo Lumière il 22 aprile 1896, gli spettacoli a\VExposition Générale et Nationale de Montpellier, la rivalità fra esercenti di attrazioni differenti, il conflitto commerciale fra cinematografo e panorami65. Un’identità regionale, pur se analizzata nelle sue realtà cittadine, è invece indagata ne II cinema arriva in Romagna. Ambulanti, sale permanenti, spettacoli e spettatori tra Otto e Novecento, in cui Gianfranco Gori scruta la vastità di un modello che abbiamo definito della reciprocità, riservando una particolare attenzione alla relazione fra cinema, nascente balnearità e città di Rimini66. Grandi città, grandi immaginari Osserviamo ora come un approccio diverso - forse più generale percorre le città attraverso eventi già scritti sui libri di storia del cinema, un percorso che compulsa fonti prevalentemente secondarie attraverso la lente d’ingrandimento “città”. E un approccio meno interessato a risarcire dall’oblio la storia degli uomini, delle mentalità, delle tecniche e invece più attento a ciò che il “grande” immaginario cinematografico ha già prodotto, spesso attraverso modalità autoriflessive, a volte glorificanti. Certo, le origini si prestano male a questo gioco: le belle fotografie scarseggiano, le grandi distruzioni di cui parlava Raymond Borde hanno scavato profondi solchi fra lo storico e le sue fonti primarie67; ma vi sono realtà - pensiamo a New York o a Parigi - in cui è comunque possibile realizzare un’indagine del genere. Analizziamo ad esempio Paris Cinéma. Une ville vue par le cinéma de 1895 à nos jours. Nella parte dedicata alle origini, Jean Douchet e Gille Nadeau sono più interessati a riproporre narrazioni consolidate che a identificare nuovi legami con Parigi. Emergono gli stereotipi dell’invenzione - la notte insonne durante la quale Louis Lumière avrebbe trovato la soluzione miracolosa per la scoperta del cinema, le scarse preoccupazioni dei Lumière per gli onori e le medaglie, il fatto che i fratelli Lumière «se contentent de travailer la base scientifique de leur invention»[!]68. La relazione con la città appare successivamente, ma sembra ancora rifarsi alla ricerca di orizzonti gloriosi e di valutazioni assiologiche: polemica con Lione su quale città risultasse fondamentale per i Lumière (in questo caso è Parigi, se fosse stato un libro su Lyon et le cinéma sarebbe stato, probabilmente, l’inverso); nascita del linguaggio, scoperta della
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temporalità e della drammaturgia grazie all’arresto dell’apparecchio di Méliès in procinto di riprendere una veduta all’opera; l’incendio al Bazar de la Charité «féte ultra-mondaine» che «fit une centaine de morts dont quelques-unes des plus hautes dames de l’aristocratie»69. Al di là di già noti pilastri storiografici, le ipotesi prospettate dagli autori fanno comunque emergere qualche percorso interessante. Ricordiamo l’idea che il mancato insediamento parigino dei Lumière - mentre le imprese di Charles Pathé e di Léon Gaumont stavano conquistando nuovi territori urbani e mercantili - possa risultare alla base della loro scarsa tenuta commerciale; o, ancora, l’analisi sul film a inseguimento come frattura delle riprese in studio, ed ampliamento a una scena di città in cui primeggiano i protagonisti del microcosmo parigino, les héros d’une nouvelle Commedia Dell ’Arte70.
1.2.6. Il cinema, o la città immaginaria
Due suggestioni benjaminiane introducono quest’ultima parte del capitolo: sono frammenti di un gigantesco ed eteroclito assemblage - la sua opera, soprattutto Parigi, capitale delXIXsecolo - all’interno di una più vasta peripezia storica. Il cinema: estrinsecazione (risultato?) di tutte le forme di visualizzazione, dei tempi e dei ritmi prefigurati dalle macchine moderne, di modo che tutti i problemi dell’arte contemporanea trovano solo nell’ambito del cinema la loro formulazione definitiva71.
O, ancora Le mille insidie della topografia cittadina di cui si è vittima potrebbero trovare collocazione, nel loro succedersi appassionante, unicamente in una sequenza cinematografica: la città si mette alla difesa, si maschera, sfugge, inganna, chiama a percorrere i suoi meandri sino all’estenuazione72.
Con le riflessioni di Benjamin, lacerti di città divengono sineddoche di una intera società: i passages, il flaneur, Vintérieur, le esposizioni, i diorami, sono tasselli di una storia al tempo stesso emozionale ed economica, una sorta di archeologia del moderno, per una ricostruzione piena di risonanze individuali e di passioni collettive, di costellazioni filosofiche e di lucidissime anamnesi . Parigi visionaria Parigi capitale del XIX secolo narra la storia di una società in cui il cinema deve arrivare. Fra Otto e Novecento la capitale francese è un palcoscenico dello sguardo: lo sviluppo dei dispositivi ottici collettivi - dalle
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fantasmagorie ai panorami, dai diorami al théàtre optique - l’incremento della vita notturna baciata dallo scintillio dell’illuminazione pubblica, gli sfolgorìi delle vetrine o delle insegne nei passages o sui boulevards moltiplicano le seduzioni della città. Sul Boulevard des Capucines, oltre al mitico Grand Café della prima proiezione Lumière, ecco il Musée Oller, luogo di cartomanti e disegnatori express, con musica, grotta con cascata e fontane luminose; al Café de la Paix si insedia invece un cinematografo concorrente ai Lumière, quello di Eugène Pirou, “Photographe des Célebirités contemporaines”. Il Boulevard des Italiens ospita il teatro fantastico di Jean-Eugène Robert-Houdin, diretto da Georges Méliès negli anni fra il 1888 e il 1914 - con spettacoli di prestidigitazione, lanterna magica, teatro d’ombre; a lato del teatro si apre il Passage de l’Opéra, una galleria a ferro di cavallo tempestata di piccoli esercizi commerciali, fra i quali si scorge la Galerie du Baromètre, sede di spettacoli in aperta concorrenza con il teatro Robert-Houdin. Sempre nel Passage de l’Opéra, Gabriel Kaiser (dal 1896) apre i laboratori e gli studi della “Manufacture frammise des apareils Kinématographes” e, ancora nello stesso passage, hanno sede i servizi commerciali della Star Film, la casa di produzione di Méliès. Al Café des Variétés del Boulevard Montmartre si può assistere a proiezioni di lanterna magica mentre poco distante, al n. 10, ha sede il celeberrimo Musée Grévin dove, fra statue di cera, spettacoli d’arte varia e ricostruzione di sbalorditivi fatti di cronaca, si ammirano le pantomime luminose proiettate dal Praxinoscope di Emile Reynaud. Dall’agosto del 1894, un negozio scintillante di luce elettrica attira la curiosità dei passanti in Boulevard Poissonière: è l’esercizio dei fratelli Werner, venditori del Kinétoscope di Edison, mobile visore di scenette in movimento al costo di venticinque centesimi; da lì a poco si inaugurano le proiezioni cinematografiche del Café Frontin, sul luogo in cui sorgerà poi l’edificio del quotidiano “Le Matin”. Altro museo delle cere è aperto in Boulevard de Bonne Nouvelle, nella sala che dal 1900 promette anche «Scènes d’actualités historiques, humoristiques. Attractions diverses. Cinématographe Lumière, Théàtre, Radioscopie, Phonographe». Al 6 del Boulevard Saint-Denis si trova, invece, “Le Cercle Fantastique”, sala di prestidigitazione con dimostrazioni scientifiche e pseudo scientifiche di physique amusante, trasformato in teatro delle marionette dal 1876 e in Cinéma Lumière vent’anni dopo74. Il fuoco di fila di spettacoli legati alle proprietà della luce e alla prestidigitazione, alle nuove scoperte scientifiche come ai faits divers, conferma l’intreccio di esperienze e di saperi convolti nella matassa epistemica alla base del Cinématographe', un “estenuante” processo di ibridazione magico-scientifica, che ha nel palcoscenico urbano irrorato dalla nuova fata elettricità il suo “naturale” luogo elettivo. In questo teatro dilatato dall’esperienza urbana, l’incremento di velocità percettiva nell’occhio del flàneur rappresenta il punto di arrivo di una certa arte
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del guardare, ben illustrata da Benjamin in Di alcuni motivi in Baudelaire15: dalle reazioni del paralitico berlinese - che guarda la folla dalla propria finestra senza potere immergervisi (Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, La finestra d’angolo del cugino) - a L’uomo della folla di Edgar Allan Poe, in cui la visione dalla vetrina di un locale pubblico diviene il prologo al successivo bagno di folla76. Il cinema nascente riprende questi dinamismi urbani: spettacolo di uno spettacolo, rappresentazione al quadrato in cui il movimento del profilmico - primo livello, la città - si intreccia, amplificandolo, al movimento delle immagini - secondo livello, il cinema. Se nella eteroclita commistione della topografia benjaminiana la città diviene il locus in cui racchiudere la storia di una società, il cinema, in un intreccio di essenze, dispiega questo immaginario agli occhi del quotidiano: le città sognate, antiche e moderne, invadono il mondo degli uomini77. In questo senso il cinema, forse più di ogni altra arte, emerge come banco di prova per una teoria sull’immaginario urbano fra Otto e Novecento.
Territori della veduta In queste prime pagine abbiamo più volte incontrato il termine “veduta”, termine scelto dai Lumière stessi per definire i loro brevi film. Osserviamone qualche definizione. Assente Enciclopedia Universale dell’Arte della Sansoni, assente anche dall’Enciclopedia dell’Arte della Garzanti come dalla “storica” Enciclopedia Universo dell’istituto Geografico De Agostini, appare invece nel piccolo Dizionario dei termini d’arte di Edward Lucie-Smith: «Pittura di paesaggio topograficamente accurata, opposta a una pittura di fantasia, come il capriccio. Tipica dell’arte italiana del XVII secolo»78. L’assenza colpisce in quanto il termine, con i suoi derivati “vedutismo” e “vedutista”, è invece ampiamente utilizzato nelle stesse opere, come in tutta la manualistica storico-artistica, illustrando l’attività di Gaspar Van Wittel o di Luca Carlevarijs, dell Canaletto o di Bernardo Belletto, di Francesco Guardi o di Giovanni Piranesi. Il vocabolo pare cioè scontare una mancata riflessione estetica e teorica: dato come acquisito nel lessico, assume una valenza artistica all’interno dell’universo discorsivo “pittura”. Spesso le enciclopedie dell’arte non lo riportano, in quanto considerato genere minore, tecnica meramente riproduttiva o sottogenere della pittura di paesaggio; e questo pur se la filogenesi artistica del vedutismo affonda le proprie radici nell’acquisizione della prospettiva scientifica e nelle successive esperienze del quadraturismo e della scenografia teatrale. E un percorso in cui le facoltà del vedere, dell’affacciarsi, del comprendere, del riprodurre, dell’interpretare, dell’intendere - in breve, lo spettro semantico mediamente riportato in un qualsiasi dizionario di lingua - garantiscono la «rappresentazione grafica o figurativa, specialmente pittorica o fotografica, di un paesaggio o di un ambiente in cui esso predomina»79. L’immagine che definiamo con l’imperfetta
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ma comodissima espressione di veduta sembra dunque appartenere ai territori sottostimati delle Storia dell’Arte (ancora in difficoltà innanzi a criteri non propriamente assiologici?), quei generi minori che per Antonio Banfi, fanno valere la propria specificità nella struttura dell’arte stessa, le impongono una nuova problematica, aprono nuove vie di sviluppo, rompendo in un punto o nell’altro l’aureo cerchio dell’arte bella®.
Partendo dall’analisi dei dispositivi genericamente definiti “scatole ottiche”, una stupefacente circolazione di città e di paesaggi emerge agli occhi del ricercatore, vedute per un viaggiar stando fermi del quale solo da pochi anni si sta comprendendo la rilevanza della diffusione:81 il suo impatto massivo investe la fascia d’Europa che va dall’Inghilterra all’Italia, attraverso la Francia, le Fiandre e la Germania, territori che si estendono ad est sino alle lontane Mosca, Pietroburgo, Costantinopoli e a ovest inglobano la penisola iberica. Questo enorme mercato di sguardi si avvale, congiuntamente, di contributi autoriali e di centri “industriali” di produzione - Bassano del Grappa, Ausgburg, Parigi, Londra - di cataloghi intemazionali e dii pubblici diversi, uniti dalla medesima «chimica delle passioni» . I Lumière, definendo vues i loro film, si inseriscono, più o meno consapevolmente, nella tradizione di un’arte popolare che ha ormai abbandonato gli spettacoli di piazza, ma che ha, congiuntamente, amplificato la sua presenza nella storia “acquisita” dell’arte. Così le vedute persistono: nel collezionismo della buona borghesia, nei suoi benjaminiani interieurs arricchiscono controllati desideri di alterità e di Grand Tour . Assopite fra l’esotico e il pittoresco, collocate fra animali impagliati e comò in stile cavalleresco, sopra un cristallo di Boemia o a fianco dell’armadietto numismatico, testimoniano l’appartenenza e il desiderio del sentire medio borghese all’arrivo delle avanguardie artistiche. Chiara l’incomprensione con queste ultime, netta la preferenza per «la nature méme prise sur le fait» del Cinématographe™. Naturalmente, si tratta di delimitare l’emergenza dell’immaginario urbano ai dispositivi comunemente assegnati alla “archeologia” del cinema, mantenendone specifiche appartenenze - pittoriche, letterarie, teatrali - quali scenari di riferimento, nei quali pulsano più vaste rappresentazioni . Ma nessuno storico contemporaneo potrebbe limitare l’appartenenza dell’immaginario urbano precinematografico a questi, certo più consolidati, percorsi storiografici. L’avventura della città nei trois siècle du cinéma ricordati da Langlois non si limita alla storia di una rappresentazione minore, quella di un’arte che testimonia, documenta, immagina e trasfigura il tema città espresso altrove con una “maniera” grande: la sua storia non può essere quella di un’arte in formazione che apprende dalle “arti maestre” i modi “corretti” d’illustrare il tema, perché nel gioco Ira condizioni espressive e innovazioni tecnico-scientifiche il lungo percorso veduta-film gode di specificità proprie e
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apporta ben più di un contributo formale e percettivo. William Uricchio ricordava che la documentazione urbana, sia nell’attività fotografica ottocentesca, sia nel primo periodo della produzione documentaristica, ha una presenza relativamente forte e costante e offre una solida base per valutare le strategie rappresentative86.
Topoi da un lato e apparatus dall’altro garantiscono cioè una inestricabile ragnatela di migrazioni iconografiche fra arti e fra tecniche differenti, secondo una pratica di influenze e confluenze, citazioni, riprese e reincontri in grado di inscrivere le origini del cinema fra i luoghi di massima contaminazione simbolica a cavallo fra XIX e XX secolo. Questi scontri, queste armonie, tracceranno l’instabile geometria del prossimo capitolo.
Note al capitolo II 1 Evelyne Patlagean, Storia dell 'immaginario, in Jacques Le Goff, La nuova storia, cit., p. 291. 2 Per Jacques Lacan si veda Ideale dell'io e Io-Ideale, in II Seminario, Libro I, Torino, Einaudi, 1978; di Gaston Bachelard si vedano La Poétique de l'espace (1957) e La Poétique de la reverie (1960), recentemente ripubblicati nella collana “Quadrige”, Paris, Presses Universitaires de France; di Gilbert Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris, Bordas, 1969. Uno studio sull’immaginario legato alla nozione di dispositivo cinematografico è di Lucilla Albano, La caverna dei giganti. Scritti sull 'evoluzione del dispositivo cinematografico, Parma, Pratiche, 1992. 3 Evelyne Patlagean, in Jacques Le Goff, La nuova storia, cit., p. 312. L’autrice si riferisce ai celebri saggi di Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, cit., e al saggio di Roland Barthes, Mythologies, Parigi, Le Seuil, 1957, tr. it. Afzti d’oggi, Milano, Lerici, 1966. 4 Jacques Le Goff, L’imaginaire médiéval, Parigi, Gallimard, 1985, tr.it. di Anna Salmon Vivanti, L’immaginario medioevale, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. VI. 5 Ivi. 6 Ivi, p. VII. 7 Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, Sétniotique, dictionnaire raisonné de la thèorie du langage, Paris, Hachette, 1979, tr.it. a cura di Paolo Fabbri, con la collaborazione di Angelo Fabbri, Renato Giovannoli, Isabella Pezzini, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Firenze, La casa Usher, 1986, p. 324. 8 Jacques Le Goff, L’immaginario medievale, cit., p. VII. 9 Cesare Viviani, Il sogno dell’interpretazione, Genova, Costa e Nolan, 1989, p 53. In un altro passo dell’acuta analisi di Viviani, un’indicazione valica la prospettiva psicanalitica del testo e coinvolge apertamente qualsiasi sistema ideologico-veridittivo: «chiunque cerchi di accompagnare l’analisi con normative, controlli, verifiche, valutazioni oggettivanti, riscontri di competenze, giudizi, uccide in quel momento stesso l’esperienza d’analisi», p. 112. 10 Per un inquadramento sulle teorie e gli sviluppi del pensiero estetico in merito alla polisemia dell’opera d’arte si veda Luciano Nanni, Contra dogmaticos, Bologna, Cappelli, 1987. 11 Jacques Le Goff, L’immaginario medievale, cit., p. X. Anche Evelyne Patlagean sostiene che «l’iconografia appare in effetti la più evidente testimonianza deH’immaginario delle società passate», in Jacques Le Goff, La nuova storia, cit., p. 293. 2 Di Erwin Panofsky si vedano: Die Perspective als “Symbolische Form”, Vortrage der
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Bibliothek Warburg, Leipzig-Berlin, 1927, tr. it. di Enrico Filippini, La prospettiva come forma simbolica, Milano, Feltrinelli, 1984 (I ed. it. 1961); Studies in Iconology, 1939, tr. it. Studi di iconologia. I temi umanistici nell'arte del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1975; Meaning in the Visual Arts. Papers in and on Art History’, Princeton, 1955, tr. it. Il significato nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1962. Di Henri Focillon ricordiamo Art d’Occident. Le Moyen Age roman et gothique, tr. it. L’arte dell’occidente, Torino, Einaudi, 1965. Di Pierre Francastel si veda Peinture et Sociéte. Naissance et destruction d’une espaceplastique, Paris, Gallimard, 1977 (I ed. 1951). 13 Cesare De Seta, Presentazione alla Storia d’Italia, cit., p. XXVII. 14 Lucian Boia, Pourune histoire de l’imaginaire, Paris, Les belles lettres, 1998, p. 47. 15 Un primo problema: come studiarne la materialità se non attraverso l’integrazione di fonti dirette — la città arrivata ai nostri giorni — e di fonti indirette — rappresentazioni urbane, che pur nello sforzo realista contengono già modelli immaginari ? 16 «Quando nel 1256 il comune di Bologna prende la celebre decisione di affrancare tutti i servi viventi nel suo contado... fa subito riferimento al Paradiso terrestre e alla libertà originale che vi regnava, come se Bologna si sforzasse di ricreare quel Paradiso di libertà», Jacques Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia medievale (secoli V-XV), in Storia d'Italia, Annali V, “Il paesaggio”, Torino, Einaudi, 1982, p. 18. Nella pagina seguente, Le Goff ricorda che «Roma divenne soprattutto un modello per molte città medievali, in Italia e fuori d’Italia. Padova, Firenze, Pisa, Milano si presentano come un’“altira Roma”, una “seconda Roma”». 17 Ivi, p. 9. 18 Maria Corti, La città come luogo mentale, in “Strumenti critici”, n. 1, 1993, pp. 1-18; cito anche i saggi di Jacques Le Goff, Guerrieri e borghesi rampanti. L’immagine della città nella letteratura francese del secolo XII e Una metafora urbana di Guglielmo d ’Alvernia, entrambi pubblicati in Jacques Le Goff, L'immaginario medievale, cit. 19 «È il punto di vista, non la geografia reale a determinare la fisionomia dell’oggetto descritto, che può essere quindi assente». Maria Corti, La città come luogo mentale, cit., p. 1. Per una più ampia trattazione sulla Parigi medioevale si veda, della stessa autrice, Parigi nel medioevo come luogo mentale, in Studi di cultura francese ed europea in onore di Lorenza Maranini, Foggia, Schena, 1983, pp.63-72. 20 Juri Lotman, Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi di semiotica della città, in La semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985, pp. 225-243. Paradigmatica è la storia di San Pietroburgo, città nuova voluta dall’imperatore Pietro I di Russia, costruita in “pietra” quando vigeva il divieto di farlo nel resto del paese. La città vuole fondere aspirazioni politiche (San Pietroburgo come terza Roma), utopiche (la mitologia del divenire legata alla speranza di una città ideale) e religiose (dall’apostolo Pietro all’idea di santità, attraverso la simbologia dello stemma che richiama quello del Vaticano). 21 Umberto Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1986, p.123. 22 Maria Corti, La città come luogo mentale, cit., p. 4. 23 Ivi, p. 16; Bonvesin de la Riva, De magnalibus Mediolani — Le meraviglie di Milano, testo a fronte, tr. di Giuseppe Pontiggia, intr. e note di Maria Corti, collana “Nuova Corona”, n. 1, Milano, Bompiani, 1992. Fra le laudes civitatum ricordo anche: Opicinus de Canistris, Il libro delle lodi della città di Pavia, Pavia, Logos International, 1984 (1339); Leonardo Bruni, Laudatio florentinae urbis, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (1401-1403). 24 Ludovico Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, p. 102, cita il Varchi in merito ai dispositivi scenici per l’allestimento della Cofanaria di Francesco d’Ambra, messa in scena il 26 dicembre 1565 per le nozze del principe Francesco con Giovanna d’Austria. La citazione è tratta da L'Hercolano — Dialogo di Messer Benedetto Varchi, Nel qual si ragiona generalmente delle lingue e in particolare della Toscana, e della fiorentina..., In Vinetia, MDLXXX, appresso Filippo Giunti, e Fratelli, p. 279. Sul Varchi si veda anche lo studio di Umberto Pirotti, Benedetto Varchi e la cultura del suo tempo, Olschki, Firenze, 1971. 25 Negli anni in cui piazza Santa Trinità è uno dei topoi urbanistico-prospettici della città, il suo rapporto con la rappresentazione teatrale, pittorica e letteraria è un esempio illuminante sull’importanza delle fonti artistiche per lo studio dell’immaginario. Il ciclo di affreschi è
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realizzato da Domenico Bigordi, detto Domenico Ghirlandaio (Firenze 1449-1494), fra il 1483 e il 1485. 26 Cfr. Daniel Arasse, Le sujet dans le tableau, Paris, Flammarion, 1997. 27 Michel Boujut, Le cinéma et / ’architecture, nel quadro del programma “Au passage du siècle, la ville”, Paris, Centro Georges Pompidou, 19/02/94. 28 Thomas Maldonado, La speranza progettuale, Torino, Einaudi, 1970; Paolo Sica, L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Roma-Bari, Laterza, 1970. Ecco le direttrici dell’architetto “disimpegnato” secondo l’analisi di Paolo Sica: fughe storiche, aggrappate all’ordine di una rimpianta età dell’oro, o fughe tecnocratiche, nel mito di un salvifico progresso scientifico; dimensione catastrofica attratta dall’inevitabilità di un fosco divenire; sottrazione all’impegno disciplinare attraverso la feconda direttrice architetto-artista; costruzione di un universo parallelo del pensiero «in cui ipotesi e risposte da provetta continuano a muoversi autonomamente postulando una teleologica perfezione della ricerca», (p. 337). 29 Kevin Lynch, The Image of the City, Massachusetts Institute of Technology, 1960, tr. it. di Gian Carlo Guarda, L’immagine della città, Venezia, Marsilio, 1985 (I ed. it. 1964). 30 Sophie Martre, Bucarest, la mémoire mutilée, 1990, presentato alla rassegna La Ville. Visions urbaines, Paris, Centro Pompidou, 02/03/1994. 31 Per la quale rimando a due recenti pubblicazioni: Leonardo Gandini, La regia cinematografica. Storia e profdi critici, Roma, Carocci, 1998 e Lucilla Albano, Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema, Venezia, Marsilio, 1999. 32 Jean Louis Comolli, La ville fìlmée, in Gérard Althabe e Jean Louis Comolli, Regards sur la ville, Paris, Editions du Centre Pompidou, 1994, p.13. 33 Jean-Louis Comolli, La villefìlmée, cit., p. 17. 34 Ivi, p.19. 35 Cfr. le interviste di Fran^oise Puaux a quattro noti architetti intemazionali sulle relazioni fra cinema ed architettura, Paroles d’architectes: Paul Chemetov, Ricardo Porro, Roland Castro, Jean Nouvel, in Fran^oise Puaux (sous la direction de) Architecture, décor et cinéma, “CinémAction”, n. 75,1995. 36 Si vedano i cataloghi: AA.VV., Cités-Cinés, Paris, Ramsay e La Grande Halle/La Villette, 1987; Cité-Cinés 2. La guide de votre visite, fascicolo speciale di “Télérama”; AA.VV. CitésCinés 2. L’Exposition spectacle, Paris, Atlas, 1995; Jean Dethier e Alain Guiheux (sous la direction de) La Ville. Art et architecture en Europe 1870-1993, Paris, Centre Georges Pompidou, 1994. 37 Lo scetticismo innanzi alla tradizione del moderno e alla sua evoluzione nel post accompagna le composizioni di Peter Eisenmann o di Frank Gehry, di Zaha Hadid o di Bernard Tschumi. Lode al caos e alla discontinuità, squilibrati soffi grafici, instabili lamiere ondulate e minacce di crolli strutturali segnano questa architettura. Il pensiero di Jacques Derrida sulla decostruzione ha avuto vasta eco nella cultura americana degli anni Ottanta, influenzando, soprattutto attraverso l’opera dei cosiddetti “Yale Critics”, vasti ambiti della ri flessione letteraria, psicanalitica ed architettonica del paese. Sul decostruzionismo in architettura si vedano: Carl Jencks (ed. by) Deconstruction in Architecture, in “Architectural Design”, nn. 3-4, 1988; P. Noever, Architecture in Transition between Deconstruction and New Modernism, Monaco di Baviera, Prestel, 1991; Bianca Bottero (a cura di) Decostruzione in architettura e filosofìa, Milano, CittàStudi, 1991. 38 Paolo Cherchi Usai e Franck Kessler, Avant-propos, in Paolo Cherchi Usai e Franck Kessler (sous la direction de) Cinéma et Architecture, “Iris”, n. 12, 1991, p. 8. 39 Antonio Costa, Architetture nel film: istruzioni per l'uso, in Antonio Costa (a cura di) Cinema e Architettura, “Cinema & Cinema”, n. 66, 1993, p. 11. 40 Jean-Louis Comolli, Za villefìlmée, cit., p. 17. 41 Mi baso sulla proposta di classificazione dei rapporti fra cinema e paesaggio descritta da Antonio Costa in Paesaggio e cinema, in AA. VV., Paesaggio: immagine e realtà, Milano, Electa, 1981, pp. 339-357. 42 Georges Monca, in L ’image, 1932, citata da Henri Bousquet, L ’age d’or, in Jacques Kermabon ta cura di) Pathé. Premier empire du cinéma, Paris, Editions du Centre G. Pompidou, 1994. 43 Secondo Jean Louis Capitarne, Les Premières feuille de la marguerite. Affiches Gaumont 1905-
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1914, Paris, Gallimard, 1994, p. 69, lo resterà sino al 1914: Giampiero Brunetta, in Cent’anni di cinema italiano, Roma/Bari, Laterza, 1991, p. 30, riportava un’analoga considerazione per i coevi stabilimenti della Milano Film, per i quali «Comerio acquista la tettoia della stazione Trastevere di Roma», p. 30. In effetti anche Barry Salt sostiene che «gli studi italiani tendevano però ad essere più grandi della media degli studi costruiti altrove», forse per sfruttare appieno le condizioni di luminosità naturale particolarmente favorevoli rispetto al centro e al nord Europa. Si veda Barry Salt, Il cinema italiano dalla nascita alla Grande Guerra: un ’analisi stilistica, in Renzo Renzi (a cura di), con la collaborazione di Michele Canosa, Gian Luca Farinelli, Nicola Mazzanti, Sperduto nel buio. Il cinema muto italiano e il suo tempo (1905-1930), Bologna, Cappelli, 1991, p. 49. 44 Nella Revue Mensuelle des Nouveautés Cinématographique, Collection ELGÉ, anno I, n. 2, apr. 1905, un Avis important comunica che «Étant donné l’accroissement continu de nos affaires in Cinématographie, nous avons été amenés, pour satisfaire les besoins de notre clientèle, à établir une usine modèle qui nous permettra de donner une extension nouvelle à l’industrie cinématographique». In Cinématographie — Société des Etablissements Gaumont, Paris, 1907, troviamo ugualmente due pagine di Quelque mots sur nos Usines... 45 Gian Piero Brunetta, Cent 'anni di cinema italiano, cit., p. 28. Per la storia della Cines si veda Riccardo Redi, La Cines. Storia di una casa di produzione italiana, Roma, CNC, 1991. 46 Per il rapporto fra Torino e sviluppo dell’industria cinematografica si vedano Gianni Rondolino, Torino come Hollywood. Capitale del cinema italiano 1896-1915, Bologna, Cappelli, 1980; Fabri Castronovo, Prono Frutterò Liberti, Termine Serale, Le fabbriche della fantasticheria. Atti di nascita del cinema a Torino, Torino, Testo e Immagine, 1997. 47 Daniele Donghi, Manuale dell’architetto, vol. II, Torino, UTET, 1930, p. 30. Sileno Salvagnini riporta questa citazione sostenendo che, per esplicito chiarimento dell’autore, le osservazioni riguardano il cinematografo sin dalla sua comparsa. Si veda Luoghi dello spettacolo urbano tra Otto e Novecento in Italia, in Antonio Costa (a cura di) La meccanica del visibile. Il cinema delle origini in Europa, Firenze, La casa Husher, 1983, pp. 55-56. 48 Oksana Bulgakova, Chapeaux de dame et distributeurs automatiques de petits pains, in Institut Lumière (sous la direction de), Lumière le cinéma, Lyon, Institut Lumière, 1992, p. 83. Da notare che proprio Rue Twerskaja è soggetto di una veduta Lumière, la n. 307. 49 Fran^oise Puaux, La salle de cinéma: du music-hall au temple, in Fran^oise Puaux (sous la direction de), Architecture, décor et cinéma, cit. 50 Aldo Bernardini, Cinema muto italiano. I. Ambiente, spettacoli e spettatori 1896-1904, RomaBari, Laterza, 1980. Di Aldo Bernardini (a cura di), cfr. anche Cinema e storiografìa in Europa, Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia, 1984. Giampiero Brunetta riporta il commento comparso sul primo numero della “Rivista Fono-Cinematografica”, nell’aprile 1907: «Se Berlino conta 340 cinematografi, Parigi 120, Napoli 70, Roma 52, Milano ne conterebbe 1000 se i signori proprietari di case non fossero tanto restii a concedere i loro locali. Difatti sono legione gli interessati che vanno alla pesca di locali per uso cinematografico, e sappiamo che taluno ha offerto perfino mille lire di regalo a chi gli procura un locale», in Cent ’anni di cinema italiano, cit., p. 20. 51 Giovanni Papini, La filosofia del cinematografo, in “La stampa”, 18/05/1907. Cfr. Maria Adriana Proio, Storia del cinema muto italiano, Milano, Poligono, 1951, pp. 27-29. 52 Sileno Salvagnini, Luoghi dello spettacolo urbano..., cit., p. 44. 53 Per una più vasta disamina sulle architetture cinematografiche si veda Francis Lacloche, Architectures du cinéma, Paris, ed. du Moniteur, 1981; Ben M. Hall, The Best Remaining Seats: the Golden Age on the Movie Palace, New York, Capo Press, 1988; John Margolis e Emily Gwathmey, Ticket to Paradise; American Movie Theatres, Little Brown and Company, 1991; Jean-Jacques Meusy, Paris — Palaces ou le temps des cinémas (1894-1918), Paris, CNRS e AFRHC, 1995. 54 Rilevante è l’analisi della componente scenografica attuata nella più vasta disamina di 42 film Pathé delle origini in André Gaudreault (sous la direction de), Pathé 1900. Fragments dune filmographie analytique du cinéma des premiers temps, Paris/Sainte Foy — Presses de la Sorbonne Nouvelle/Les Presses de l’Université Lavai, 1993. Nell’indice delle particolarità
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formali del corpus, alla voce Décors compaiono ben 36 categorie differenti, suddivise in Esthétique generale des décors, Toiles de fond et panneaux peints, Accessoires et arrangements scéniques, Utilisation de la machinerie de scène e Mentions écrites à / 'intérieur des décors. 55 Consiglio Hassan El Nouty, Théàtre et Pré-cinéma. Essai sur la problématique du spectacle au XlXsiècle, Paris, Nizet, 1978, soprattutto il capitolo Le Projet du cinéma, pp. 89-114. 56 Georges Méliès, Le vues cinématographiques, in Annuario Génèral et International de la Photographic, Paris, Librairie Plon, 1907, pp. 363-392; ripubblicato in Georges Méliès — Propos sur les vues animées, in “Les Dossiers de la Cinémathèque”, La Cinémathèque Québécoise/Musée du Cinéma, n. 10, 1982. 5' Théodore de Banville, L'Ante de Paris, Paris, 1890, p. 20, cit. in Hassan EI Nouty, Théàtre et Pré-cinéma, cit., p. 108. 58 André Bazin ricordava che «Au principe de l’hérésie du théàtre filmé réside un complexe ambivalent du cinéma devant le théàtre: complexe d’infériorité à l’egard d’un art plus ancien et plus littéraire, que le cinéma surcompense par la “supériorité” techinique de ses moyens, confondue avec une supériorité esthétique», in Théàtre et cinéma, Esprit, 1951. Nuova edizione in Qu ’est-ce que le cinéma?, Paris, Cerf, 1990, pp. 129-178. L’ultima edizione italiana, tradotta da Adriano Apra è del 1999, Che cos 'è il cinema?, Milano, Garzanti. 59 Georges Méliès, Le vues cinématographiques, cit., p. 12. Méliès raccomandava di utilizzare scenografie cromaticamente comprese nella gamma dei grigi, per evitare la distruzione degli effetti coloristici attuati con la coloritura manuale della pellicola. 60 Per i rapporti fra cinema delle origini e teatro si veda Glynne Wickam, A history of the Theatre, Oxford, Phaidon Press Limited, 1985, tr. it. di Clelia Faletti, Storia del teatro, Bologna, il Mulino, 1988, cap. XIII, “Il teatro e il cinema delle origini”. Per la scenografia il capitolo VI, “La scenografia”, in Franca Angelini, Teatro e spettacolo nel primo novecento, Roma-Bari, Laterza, 1991. 61 Cfr. Jean-Pierre Gamier e Odile Saint-Raymond, Un rendez-vous manqué?, in “Espaces et sociétés”, n. 86, “Villes et cinéma”, 1996, p. 9. 62 Gian Piero Brunetta, Cent ’anni di cinema italiano, cit., p. 10. 63 L’Eidoloscope fu messo a punto nella primavera - estate del 1895 dalle ceneri del Pantoptikon, apparecchio per proiezioni di cui si hanno notizie già dall’aprile 1895. Realizzato da Eugene Lauste, Enoch Rector e W.K.. Dickson, col finanziamento e la direzione di Woodville Latham, il Pantoptikon subì gli strali di Edison, il quale minacciò azioni legali qualora non fossero cessate le proiezioni dell’apparecchio, ritenuto un plagio del suo Kinetoscope. Rinominato Eidoloscope, abbiamo testimonianze di proiezioni pubbliche a Broadway, nel settembre 1895, riportate dal “The Photographic Times”: «Instead of viewing the tiny pictures on a travelling film, they are projected upon a screen by means of the optical lantern, and we see the figures, life size, moving about with life-like motion. Even this idea is by no means a novel one, although to Mr. Latham belongs the credit of making several improvements», cit. in George C. Pratt, Firsting the First, in Marshall Deutelbaum (a cura di) Image on the Art and Evolution of the Film. Photographs and Articles from the Magazine of the International Museum of Photography, New York/Rochester, Dover Publications/Intemational Museum of Photography, 1979. pp. 173-174. 64 Aldo Bernardini, Neapolitan Cinema: The First Years, in Adriano Apra (a cura di) Napoletana. Images of a City, Milano, Fabbri, 1993. 65 Jacques et Marie André, Une saison Lumière a Montpellier, Perpignan, Institut Jean Vigo, 1987. 66 Gianfranco Miro Gori, Il cinema arriva in Romagna. Ambulanti, sale permanenti, spettacoli e spettatori tra Otto e Novecento, Rimini, Maggioli, 1987. Molti altri studi hanno visto la luce negli ultimi anni di ricerche. Per quanto riguarda città italiane, oltre ai già citati lavori su Torino, ricordo: Flavia De Lucis (a cura di), C’era il cinema. L’Italia al cinema tra Otto e Novecento — Reggio Emilia 1896-1915, Modena, Panini, 1983; Paolo Cherchi Usai, Maurizio Ferretti (a cura di), Le origini del cinema a Genova, vol. 1: 1896', voi. 2: 1897, Genova, Cineteca Griffith, 19841985; Raffaele De Berti, Elena Mosconi, Il cinema delle origini a Milano, in “Comunicazioni sociali”, nn. 3-4, 1994; Gian Gabriele Cau, Pionieri del cinematografo in Sardegna 1897-1907, Ozieri, Circolo Arci Nova/Gian Gabriele Cau, 1995; Paolo Foglia, Ernesto Mazzetti, Nicola
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Tranfaglia, Napoli ciak. Le origini del cinema a Napoli, Napoli, Colonnese, 1995; Dejan Kosanovic, Trieste al cinema 1896-1918, Gemona, La Cineteca del Friuli, 1995. Sul cinema delle origini in Sicilia si rimanda ai numerosi saggi di Nino Genovese e Nila Noto, un elenco dei quali è in Elena Dagrada, Bibliographic internationale du cinéma des premiers temps/International Bibliography on Early Cinema, Domitor, 1995, pp. 175-177. Non limitandoci alle origini si vedano: Roberto Ellero, L'immagine e il mito di Venezia nel cinema, Venezia, Comune di Venezia, 1983; Gianfranco Miro Gori (a cura di) Rimini et le cinéma. Images, cinéastes, histoires, Paris/Rimini, Centre Pompidou/Comune di Rimini, 1989; AA.VV., Genova in celluloide. Luoghi, protagonisti, storie, Genova, Comune di Genova; Roberto Campari, Parma e il cinema, Parma, Silvana, 1986; Elisabetta Bruscolini (a cura di) Ritratto di Roma, Roma, Ministero del Turismo e Spettacolo, Istituto Luce, Cinecittà International, 1993; Ettore Pasculli, Milano cinema prodigio. Anticipazioni e primati in un secolo di avventura, Milano, Canal & I nodi, 1998. 67 Raymond Borde, Storia delle distruzioni, in Michele Canosa (a cura di). Testo, fdologia, restauro, cit., traccia un’appassionata requisitoria contro «la distruzione lecita, ordinaria, incoraggiata, obbligatoria e trionfante» delle opere cinematografiche dai tempi delle origini ad oggi, indicandone le principali tappe storiche. “Tornerò su questi aspetti nel secondo capitolo della seconda parte. La citazione è in Jean Douchet e Gille Nadeau, Paris Cinéma. Une ville vue par le cinéma de 1895 à nos jours, Parigi, Editions du May, 1987, p. 12. 69 Jean Douchet e Gille Nadeau, Paris Cinéma, cit., p. 17. 70Ivi, p. 24. Ecco un punto di perfetto equilibrio fra scena di cartapesta e scena di città: il film a poursuites, in cui il «principe de base est qu’il faut s’échapper du décor dans lequel on se trouve» (p. 23). 71 Walter Benjamin, Parigi, capitale delXIXsecolo, cit., p. 516. 72 Walter Benjamin, Stàdtebilder, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955, tr. it. di Marisa Bertolini, Immagini di città, Torino, Einaudi, 1971, p. 10. 73 Ricordo qualche oggetto della sua infanzia berlinese esposto alla mostra Walter Benjamin. Le passant, la trace, Bilbiothèque Publique d’Information, Centro Georges Pompidou, 23 febbraio 23 maggio 1994: le costruzioni in legno Ankersteinbaukasten, (collezione Margarethe Gerber, Berlino); i libri d’immagini metamorfiche Verwandlundlungsbilderhuch oder das Buch der Metamorphosen, (Sonderhausen, Neuse, 1863, Johan Wolfang Goethe - Università!, Francoforte); i libri d’immagini e figurine di Auguste Kòhler, Die immerwàhrende Versetzung, Berlino, Thiele, 1865 (Staatsbibliothek di Berlino, PreuBischer Kulturbesitz); gli automi, come la gallina che deposita l’uovo al girare della manovella (1905, antiquario Werner Dralle, Berlino) o l’elefante Stollwerk (1900, antiquario Werner Dralle, Berlino). 74 Le indicazioni sono tratte da Jacques Deslandes, Le Boulevard du Cinéma à l'époque de Georges Méliès, Paris, Ed. du Cerf, 1963. In questa prospettiva ricordo anche Antonio Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Bologna, CLUEB, 1995 (I ed. 1989). 75 Sull’intensificarsi degli stimoli nervosi, all’interno di un più vasto quadro psichico del cittadino metropolitano, celeberrimo è il saggio di Georg Simmel, Die Grosstddte und das Geistesleben, in “Jahrbuch der Gehestiftung”, IX, 1903, tr. it. di Renato Solmi, Le metropoli e la vita spirituale, in Thomas Maldonado (a cura di), Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 65-79. L’idea è stata più volte ripresa negli studi di storia del cinema: ad esempio, Giorgio Tinazzi sostiene che la nuova dimensione spazio-temporale introdotta dal film «trova una sorta di inerenza originaria nelle nuove esperienze, nelle nuove forme di percezione del cittadino metropolitano», in Giorgio Tinazzi, La sinfonia della metropoli, in Germano Celant e Claudio Bertetto (a cura di), Velocittà. Cinema e futurismo, Milano, Bompiani, 1986, p. 68. 76 Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, pp. 102-105. 77 Definendo l’immaginario quale realtà fondamentale dell’uomo e il cinema come il maggiore dispositivo di creazione ed espressione dell’immaginario collettivo, Morin arriva a sostenere che «tutto fa perno sull’immagine, perché l’immagine non è solo il punto di incontro tra reale e immaginario ma è l’atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell’immaginario». Edgar
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Morin, Il cinema o l’uomo immaginario..., cit., p. 19. 78 Enciclopedia Universale dell'Arte, Istituto per la Collaborazione Culturale Venezia/Roma, Firenze, Sansoni, 1963; Enciclopedia dell’Arte, Milano, Garzanti, 1973; Enciclopedia Universo, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1963; Edward Lucie-Smith, The Thames and Hudson Dictionary of Art Terms, Londra, Thames and Hudson, 1984, tr. it. di Donata Battilotti, Dizionario dei termini d’arte, Padova, Muzzio, 1988, p. 264. 79 Voce “Veduta”, Vocabolario della lingua italiana, Il nuovo Zingarelli, XI ed., Bologna, Zanichelli, 1986. 80 Antonio Banfi, Opere — Volume V, Vita dell'arte. Scritti di estetica e filosofìa dell 'arte, Reggio Emilia, Istituto Antonio Banfi, Reg. Emilia Romagna, 1988, p. 293. 81 Ricordo le ricerche di Gian Piero Brunetta e di Carlo Alberto Zotti Minici: Il giro del mondo con le macchine ottiche, in “Cinegrafie” n. 8, 1995, pp. 187-196; l’Introduzione della guida alla mostra Geografia del precinema, Bologna, Grafts, 1994, pp.8-14. Di Gian Piero Brunetta, oltre al citato II viaggio deU’icononauta, si vedano: The Long Journey of the Icononaut, in “Cinemas”, nn. 2-3, 1992, pp. 9-17; Il precinema, in Cinema e Film, Roma, Armando Curcio, 1986; Per una carta del navigar visionario, in Carlo Alberto Zotti Minici (a cura di), Il mondo nuovo. Le meraviglie della visione dal ‘700 alla nascita del cinema, Milano, Mazzetta, 1988 (con saggi di Franco Fido, Maria Adriana Proio, Paola Marini, Alberto Milano e Wolfang Seitz). Di Carlo Alberto Zotti Minici, oltre all’appena citata, ricordo la curatela di Prima del cinema. Le lanterne magiche, Marsilio, Venezia, 1988 e del catalogo Le stampe popolari dei Remondini, Vicenza, Neri Pozza, 1994; ricordo inoltre la sua approfondita ricerca sui Dispositivi ottici alle origini del cinema: immaginario scientifico e spettacolo nel XVII e XVIII secolo, Bologna, CLUEB, 1998. 82 Gian Piero Brunetta, The Long Journey of the Icononaut, cit., p. 13 (trad. mia). 83 Brillanti risultano le considerazioni di Walter Benjamin in Parigi, capitale del XIX secolo, cit. Si vedano soprattutto i capitoli relativi a II collezionista ea£ ’interferir, la traccia, pp. 266-299. 84 La frase è ampiamente riportata in tutta la bibliografìa concernente i Lumière: si veda, ad esempio, Georges Sadoul, Histoire du cinéma mondial des origines a nos jours, Paris, Flammarion, 1949, p. 22. 85 Per quanto riguarda il vedutismo pittorico, grandi esposizioni ripropongono periodicamente il genere. Segnalo I vedutisti veneziani del Settecento e il relativo catalogo di Pietro Zampetti (Venezia, Alfieri, 1967), l’esposizione milanese sulle Vedute italiane del 700 in collezioni private, (catalogo a cura di Marco Magnifico e Mariella Utili, Milano, Electa, 1987), il catalogo All 'ombra del Vesuvio. Napoli nella veduta europea dal Quattrocento all 'Ottocento (AA. VV., Electa, 1990), la manifestazione di forte Belvedere su Firenze e la sua immagine. Cinque secoli di vedutismo (Marco Chiarini e Alessandro Marabottini, Venezia, Marsilio, 1994), la mostra romana dedicata al Grand Tour. Ilfascino dell 'Italia nel XVIII secolo (catalogo a cura di Andrew Wilton e Ilaria Bignamini, Milano, Skira, 1997), la recente esposizione napoletana su L'immagine delle città italiane dal XV al XIX secolo (catalogo a cura di Cesare De Seta, Roma, De Luca, 1998). 86 William Uricchio, Il patrimonio rappresentativo dei documentari, cit., p. 43.
Capitolo I PER UNA ICONOGRAFIA DEL VEDUTISMO URBANO NEL “PRECINEMA”
Muovo i primi passi alla ricerca di un legame antico fra scena di città e visione dell'uomo, sentieri dai quali risulterà difficile osservare panorami unitari e sui quali, probabilmente, sarò soggetto a qualche distrazione. Vasti e irregolari, i territori della giovane archeologia del cinema paiono consentire molteplici percorsi esplorativi. Il quadro proposto risulta quindi una semplice traccia: offre spunti sulla costanza di un legame, osservazioni che, se non saranno in grado di registrare tutti i fatti fondamentali, cercheranno almeno di individuare qualche “modello di città” fra gli avamposti del Cinématographe'.
ILI.1. La città in camera
In un torrione della Rocca Sanviitale di Fontanellato, a pochi passi da un episodio della metamorfosi di Ovidio affrescata dal Parmigianino, è possibile sostare qualche minuto al buio, osservando il curioso fenomeno della camera oscura. Il principio è semplice: attraverso un foro praticato nel torrione della rocca, il paesaggio esterno si proietta, rovesciato, all’interno. Su due tavoli in legno leggermente concavi, ricoperti da un tappetino bianco, il duplice dispositivo della camera oscura di Fontanellato consente la visione degli scenari di Piazza Matteotti e delle vie Luigi e Jacopo Sanvitale: l’immagine è raddrizzata da un prisma ottico, posto alla sommità di una tramoggia lignea ancorata alle feritoie murali del bastione. Osservo un gruppo di ragazzi rincorrersi attorno alla fontana, un’automobile perforare l’isola pedonale attorno alla fortezza, le fronde degli alberi muoversi sui prospetti un po’ sbrecciati di un’architettura perticata: poi la sera in arrivo si mangia la luce, i contorni delle figure si fanno più labili e i colori non si distinguono quasi più. Al passare dei minuti, nonostante l’illusione del movimento, nessuna analogia emerge con i dispositivi contemporanei della visualità dinamica. Quando l’auto entra in piazza, l’impressione è quella di un piccolo animale che attraversa il tavolino. Strano che qualcosa si muova in questo buio silenzio: ancor oggi non
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mi abbandona l’idea che quelle immagini nitide, colorate, perfette non fossero che un inganno ipertecnologico.
«Tutto quello che si fa fuori in piazza...» Minimi sono gli accorgimenti tecnici per accrescere la qualità della visione alla camera oscura: si limitano, ormai da secoli, all’utilizzo di una lente per concentrare i raggi luminosi, di uno specchio per ribaltarli, di una superficie bianca - un lenzuolo, un foglio - come schermo. Sono migliorie di un fenomeno noto fin dall’antichità ma che, allo stato attuale delle ricerche, risulta ben compreso e documentato dai tempi delle esperienze leonardesche. Nella sua ricerca Verso il cinema, Donata Pesenti Campagnoni riporta un passo tratto dal Codice D, in cui Leonardo descrive come attraverso un «picolo spiraculo rotondo» sia possibile ricevere «in una carta bianca posta dentro a tale abitazione alquanto vicina a esso spiraculo» la molteplicità di oggetti «colle lor proprie figure e colori»2. Si tratta di una rappresentazione scientifica del fenomeno, antecedente al successo di Giovanni Battista Della Porta ritenuto da molti - anche fa\V Encyclopédie di Diderot e d’Alambert3 - l’inventore ufficiale dello strumento. L’approccio di Della Porta è comunque interessante perché abbandona l’esperienza scientifica per entrare nel dominio dell’artifìcio: nell’edizione della Magiae Naturalis pubblicata a Napoli nel 15894, egli illustra come si possa ricreare lo spettacolo naturale delle cose attraverso la disposizione di elementi scenografici e di attori in prossimità del foro. La camera oscura, a osservatore interno, è utilizzata per spettacoli simili alle moderne proiezioni di un film con la differenza che alla fine “aprendo le porte” agli spettatori sbalorditi, “faceva conoscere l’artificio”, ovvero che le scene animate apparse sullo schermo si svolgevano contemporaneamente fuori, alla luce del sole5.
Si tratta di un momento nella storia della visione in cui i rapporti scienza/spettacolo e documento/finzione paiono emergere come suggestive e problematiche antinomie6: un momento fondamentale per l’osservazione della città. Attraverso l’utilizzo di camere oscure - a osservatore interno, come quella di Fontanellato o a osservatore esterno, analoga a quella attribuita a Canaletto, custodita al Museo Correr di Venezia, a portantina o a padiglione, a lenti e ottiche quanto mai diversificate - l’analisi scopica dell’organismo urbano risulta pratica consolidata già dalla seconda metà del XVI secolo. Una testimonianza di Gerolamo Cardano, datata 1550, ricorda che «se vi piace osservar quel che succede in strada quando il sole brilla, sistemate nella finestra un disco di vetro e, a finestra chiusa, vedrete le immagini proiettate attraverso l’apertura apparire sul muro opposto»7. Medesima è l’esperienza descritta dal prelato veneziano Daniel Barbaro ne La pratica della perspettiva'. «vedrai le forme nella carta come sono et le digradazioni et i colori et le ombre et
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movimenti, nubi, il tremolar delle acque, il volare degli uccelli e tutto quello che si può vedere»8. La veduta urbis attraverso la camera oscura diviene anche spettacolo pubblico. A Parigi, attorno al 1630, è attivo una sorta di casotto ottico in prossimità della grande fontana della Samaritaine, installée sur pilotis depuis 1603 près de la seconde arche du Pont-Neuf, du coté du Louvre. Elle fut malheureusement détruite sous l’Empire. Ainsi placée, la chambre noire de la Samaritaine captait le Louvre, le ciel et les oiseaux, la Seine, toute l’animation du pont: un joyeux spectacle, ouvert à 9 tous .
L’abate di Vallemont, Pierre Le Lorrain, conferma l’incantesimo della camera posta in città: «Si cette expérience se fàit dans une chambre qui donne sur un beau parterre ou dans une place publique où il y ait beaucoup de gens, elle a quelque chose de ravissant et qui tient de l’enchantement»10. Lorenzo Selva illustrerà lo stesso intrattenimento per i veneziani, circa centocinquant’anni dopo, sulle pareti inteme della grande camera oscura posta in Piazza San Marco durante le feste carnevalesche. Sono i decenni in cui la camera - strumento di mediazione fra l’uomo e il mondo - esce lentamente dalle riflessioni magicoscientifiche per conquistare i territori pittorici del vedutismo: «Quell’uso che fanno gli Astronomi del cannocchiale, i Fisici del microscopio, quel medesimo dovrebbero fare della Camera Ottica i pittori»11.
Paesaggi del rappresentare: arte e “scaraboti ” Se l’auspicio dell’Algarotti trova un fertile terreno nel vedutismo italiano del XVIII secolo - ricordiamo, fra gli altri, gli esperimenti bolognesi di Giuseppe Maria Crespi o le magistrali vedute viennesi e tedesche di Bernardo Belletto12 - una strada europea alla topografia e alla rappresentazione del paesaggio era già stata tracciata, nel secolo precedente, dai cartografi olandesi. Dipingere paesi era diventato un mestiere nelle regioni del Nord dell’Europa, una nuova specializzazione che consentiva di non lavorare più sulla base di incarichi avuti da specifici committenti ma di lavorare per un mercato di consumatori anonimi, nella speranza di incontrarne il gusto13.
Come ricorda Maria Chiara Zerbi, il termine paesaggio era presente nel linguaggio scritto del XVI secolo con il significato di «estensione di un paese che si vede con un solo sguardo»14; un’estensione che informa i giochi illusionistici delle “quadrature” dipinte da Pellegrino Tibaldi o Tommaso Laureti, le lucide vedute con rovina di Viviano Codazzi, i luminosi e atmosferici paesaggi di Marco Ricci, le scenografie realizzate da Giovan Battista Crosato al servizio della corte Sabauda.
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È Vredeman de Vries, disegnatore di città tedesche e fiamminghe, progettista di fortificazioni, pittore e incisore, che documenta un particolare tipo di prospettiva nel suo Perspective. Id est Celeberrima Ars, pubblicato a Leida nel 1604. Le tavole del trattato esemplificano modalità rappresentative di estrema efficacia: tuttavia, la rapida immissione dello sguardo nel pozzo dell’asse prospettico pare mancare di un orizzonte lontano in cui l’occhio riesca a smarrirsi. Le vedute risultano cioè perfettamente a fuoco, definite da architetture, giardini, nature rigidamente tracciate, quali geometrici fondali di una scena ancora da riempire con la vita dell’uomo. Risulta assente - come sarà per la costruzione semplificata di tante vedute ottiche fra Sette e Ottocento quella che Leonardo aveva definito “prospettiva di spedizione”, l’origine del suo caratteristico “non finito” e di quel l’atmosferico senso di profondità che le vedute ottiche tentano di recuperare - con risultati parziali - attraverso accentuati cromatismi15: restando tuttavia lontane dai risultati pittorici del grande vedutismo con camera, un manifesto del quale è la splendida Veduta di Delft di Vermeer16. L’uso della camera oscura per ii pittori (torna l’auspicio dell’Algarotti) consente a Canaletto di redigere una sorta di catalogo figurativo delle bellezze architettoniche veneziane a uso dei suoi committenti inglesi. Nel 1735, per il console britannico a Venezia, Joseph Smith, esce il Prospectus Magni Canalis Venetiarum, una serie di 14 vedute incise da Antonio Visentini. L’effetto città, ottenuto con la rappresentazione a nastro degli edifici affacciati sul Canal Grande, pare nutrirsi di un ineccepibile rilievo topografico e anticipare future visioni panoramatiche. La città del Prospectus è restituita in una continuità spaziale che sottende una moltiplicazione della temporalità, amplificando la puntualità monumentale di precedenti esperienze vedutiste: ricordo Le fabbriche e vedute di Venezia, disegnate poste in prospettiva et intagliate (1703) di Luca Carlevarijs. Come Della Porta ricrea lo spettacolo naturale delle cose per la visione alla camera oscura, anche Canaletto risulta sensibile alla trasgressione della veduta realista: più dei rari paesaggi tra l’arcadico e il pittoresco, eseguiti per committenti inglesi desiderosi di qualche “capriccio”, il pittore veneziano realizza una serie di vedute del Canal Grande nelle quali appaiono architetture palladiane estranee al contesto veneziano17. L’idea del capriccio - veduta di fantasia, veduta pittoresca - è mirabilmente utilizzata per definire un nuovo, pittato palcoscenico urbano, una sorprendente scena di città in cui rilievo e progetto confondono, ancora una volta, le carte della partita realistica18. Il rapporto fra l’opera di Canaletto e la camera oscura è stato oggetto di diversi studi, tendenzialmente protesi alla verifica scientifico-topografica del procedimento canalettiano19. Nel 1959 Carlo Ludovico Ragghianti esplora l’opera del vedutista veneziano ai fini della ricostruzione dell’intimo processo creativo, nel suo celato farsi spazio-temporale: una costante teorica della critica
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di Ragghianti - evidente anche nella realizzazione dei critofilm d’arte - che in questo caso risulta particolarmente stimolante per osservare i processi reinterpretativi di un autore storiograficamente associato ai modelli della rappresentazione realistica di città20. Ragghianti riporta gli esperimenti di Terisio Pignatti il quale, armato della camera custodita al Museo Correr di Venezia, ripercorre i luoghi dell’esperienza canalettiana, verificandone le analogie coi disegni del famoso “Quaderno”. Il passaggio dallo “scaraboto” (scarabocchio), realizzato con la camera oscura, al disegno preparatorio grandangolare, ottenuto accostando panoramicamente schizzi diversi, sino al disegno finito o al dipinto, si attuava spesso attraverso una rivisitazione degli elementi realistici. Ando Gilardi ricorda l’utilizzo del pantografo per ingrandire gli schizzi ottenuti con la camera oscura, uso testimoniato sia dalla puntinatura di certe vedute che dall’appartenenza di Antonio Canal a una famiglia di scenografi teatrali: una delle tecniche per mantenere le proporzioni del soggetto era infatti costituita dal pantografo, semplice e utilissimo braccio meccanico per l’esecuzione di quinte e scenografìe teatrali21. Davanti alla rappresentazione del paesaggio veneziano, i punti di vista di Canaletto potevano variare sia in distanza che in angolatura, rendendo necessaria un’elasticità restitutiva capace di compressioni e dilatazioni di parti del rilievo. Tale reinterpretazione consentiva di soddisfare esigenze opposte e complementari: da un lato permetteva quegli aggiustamenti necessari per eliminare vistosi errori nella giustapposizione di rilievi non omogenei, dall’altro riordinava il materiale secondo lo spirito, la fantasia e le più vaste intenzioni dell’autore, capace paradossalmente di negare le stesse regole prospettiche attraverso una moltiplicazione dei punti di fuga o una variazione delle grandezze laterali della veduta.
ILI.2. Pantascopi per l’Europa
Fra le semplificazioni della manualistica alla de Vries e i modelli alti del Canaletto (di Van Wittel o del Guardi, di Belletto o dello Zocchi) stanno le vedute conservate al Département des estamps et de la photographie della Biblioteca Nazionale di Parigi. Il settimo tomo della raccolta è dedicato all’Italia. Sfilano La piazza del Mercato nuovo in Brescia, la Vue Perspective du Pont de la Trenité de Florence, VHotellerie de Plaisance et vue vers la mer a Livorne, la Vue Perspective de la grande rue de Naples, la Vue General de la ville de Venise, una Veduta del Ponte delle Navi di Verona, la Vue Perspective du dedans de l’Eglise des Chartreux de Pavie, St. Pierre de Rome e decine di altre vedute analoghe: una stupefacente ricchezza di soggetti, in gran parte colorati, spesso con indicazioni in due o più lingue e con legende dense di informazioni topografico-architettoniche, a volte dall’intestazione rovesciata,
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per consentirne una normale lettura dopo il ribaltamento visivo dell’apparecchio. Altri volumi conservano vedute di Parigi: per ammirare “segretamente” le imponenti masse architettoniche del Louvre non è più necessario entrare nella camera ottica della Samaritaine. E il Louvre stesso a circolare, assieme all’adiacente rue de Rivoli, al Jardin du Palais Royal, al Pont Neuf, analogamente a Les environs de Paris (terzo volume), alle Villes de France - Pologne, Russie, Suisse (quarto) e alle città spagnole, tedesche, mediorientali, africane, asiatiche, americane. I soggetti paiono moltiplicarsi autonomamente, quali frammenti di una infinita e immateriale biblioteca di città edificata per lo spettatore del nuovo mercato comune degli immaginari. Scatole di sguardi, modelli di progetto Non risulta vi fossero editori specializzati nelle vedute ottiche. I cataloghi contenevano piuttosto varie collezioni di stampe: per garantirsi mercati più vasti, gli editori preferivano soggetti e formati che consentissero sia l’osservazione diretta che quella con apparecchio. Dalle vetrine delle grandi città alla diffusione porta a porta del commercio ambulante, la rete di scambi intemazionali è confermata sia dal multilinguismo delle vedute che dalla ricorrenza di medesimi temi iconografici, oggi documentabile attraverso l’analisi di collezioni pubbliche e private in diversi paesi europei. Allo stato attuale degli studi, i centri principali di produzione dovevano essere Londra, dove nel 1717 compaiono le prime vedute nel catalogo di Overton; Parigi, dal 1740 circa, con i produttori concentrati in rue St. Jacques; Augsburg, già dal Seicento uno dei centri dell’arte grafica tedesca e, dal 1760, luogo di stampa di vedute specificatamente ottiche; Bassano del Grappa, con l’impresa dei Remondini22. Le vedute sono osservabili utilizzando svariati modelli di scatole ottiche, a volte finemente decorate e colorate. L’aspetto di certi mondi niovi, ad esempio, induce in tentazione. La rassomiglianza con i modelli realizzati per la progettazione delle grandi architetture rinascimentali è evidente e consente di ipotizzare un’ancora inesplorata filogenesi23: come plastici di palazzi signorili, osserviamo pantascopi in stile neoclassico, gotico fiorito, veneziano-bizantino24. Le ampie aperture circolari permettono l’affaccio dello spettatore verso altre facciate, piazze, città sconosciute: notevole la rassomiglianza fra il visore di una qualsiasi scatola ottica e l’occhio del tamburo nei modelli per Santa Maria del Fiore o, forse ancor più, con Inocchio” sulla città del celeberrimo corridoio vasariano. L’esterno del mondo niovo si pone cioè come mirabile informante degli stupori a venire, quelli osservati scrutando l’interno della scatola ottica. Nelle scatole più elaborate, gli occhi per mirare si moltiplicano e le lastre si succedono meccanicamente, attraverso una leva o un anello azionato dall’imbonitore, salendo o scendendo da un magazzino di vedute comparabile a una torre scenica teatrale25. La veduta mostrata può essere montata su un
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cartoncino, amplificata e/o ribaltata dal gioco di lenti e specchi, impreziosita da luministici effetti giomo/notte, narrativizzata dalle intromissioni verbali dell’imbonitore: l’immagine quotidiana di una piazza, di una architettura, di una scena di vita osservata dal foro di un pantascopio risulta spettacolare proprio perché isolata dai disturbi visivi dell’intomo. E quel microcosmo dello sguardo ben descritto dall’Algarotti nella Raccolta di lettere sopra la pittura e l’architettura: quando noi volgiamo l’occhio ad un oggetto per considerarlo, tanti altri ce ne sono d’attomo, i quali raggiano ad un tempo medesimo nell’occhio nostro, che non ci lasciano ben distinguere le modulazioni tutte del colore e del lume che è in quello, o almeno ce le mostrano mortificate e più perdute, quasi tra il vedi e il non vedi. Dove per contrario nella Camera Ottica la potenza visiva è tutta intesa al solo oggetto che le è innanzi, e tace ogni altro lume che sia26.
Gli scenari urbani divengono soggetti di una meraviglia racchiusa, “messa in quadro”, eppure in continua espansione. Osservare vedute diviene pratica comune di classi e nazioni lontane fra loro e ogni città consente stupori diversi. Venezia, ad esempio, che a fine settecento si presta esattamente alla metafora di città palcoscenico si mette in scena e riesce a far coincidere il tempo astronomico e i ritmi della vita collettiva e dello spettacolo... Ridotta ai margini della scena economica, commerciale e marittima intemazionali, Venezia non rinuncia alle proprie vocazioni di conquistatrice e al proprio ruolo di protagonista .
La vivace umanità di Piazza San Marco rappresenta l’ultimo stadio - una sorta di “società dello spettacolo” ante litteram - di quella Piazza Universale di tutte le professioni del mondo descritta nel 1616 da Tommaso Guerzoni da Bagnacavallo, elencando la variopinta casistica delle professioni ambulanti : ai tradizionali acrobati, alchimisti, burattinai, barattieri, ciarlatani, forzuti, si aggiungono i lantemisti e i colporteurs di mondi niovi: «In sta cassela mostro el Mondo Nuovo con dentro lontananze, e prospettive, vogio un soldo per testa, e ghe la trovo» ricorda Gaetano Zompini nella raccolta Le arti che vanno per le vie nella città di Venezia, del 1753 . I mondi niovi stazionano in piazza, la rappresentano, ne illustrano migliaia di altre ma, a loro volta, divengono soggetti di un immaginario urbano che elegge la categoria dello spettacolo a cardine di una precisa identità collettiva: anche pittura e teatro, con Tiepolo e Goldoni30, illustrano i dispositivi di fonme spettacolari del vedere che hanno in Piazza San Marco il loro naturale palcoscenico, luogo fervente di varia umanità e di mirabili apparecchi, di moltiplicazione vedutista e di visionaria coabitazione di congiunte pulsioni dell ’occhio31: come Piazza della Signoria o Santa Maria del Fiore per Firenze, il Colosseo o Castel Sant’Angelo per Roma,
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il Pont Neuf o l’Hotel de Ville per Parigi, soggetti di un turismo concesso dall’atto semplice e antichissimo del guardare.
Composizione e punto di vista La maggior parte delle vedute esaminate al gabinetto delle stampe parigino gode di un punto di vista privilegiato, posto sopra i cinque metri d’altezza, spesso con il fuoco all’incrocio delle diagonali: un esempio è proprio Le grand Canal de Venise ayant à droite le Couvent de St.e Claire et l’Eglise des Carmes Des chaussés, et à gauche celle de St. Simon et St. Jude . Nelle prospettive a volo d’uccello, il punto di vista si alza invece considerevolmente, sino a comprendere l’intero complesso architettonico, il paesaggio circostante, una città. Sono i casi delle vedute The Church of St. Peter at Rome/Vue de l’Eglise de St. Pierre de Rome\ Vueperspective de l’Allée à gauche du Jardin de Plaisance du Pape aux environs de Rome\ o di Rome, realizzata fra il 1789 e il 1796 da Jean Baptiste Crépy, custodita alla Cinémathèque fran^aise33. Raramente il punto di vista è ad altezza d’uomo, quasi mai è un punto qualunque. La lenta acquisizione della libertà dello sguardo è un paradigma a venire. L’immediatezza e la relatività dell’esperienza visiva non appartengono a queste vedute, spesso geometrizzate attraverso rigide griglie prospettiche, non lontane dalle proposte del trattato di De Vries: ciò, naturalmente, non placa il desiderio di rimembrare modelli alti, esempi che paiono abbracciare gli aulici manifesti di città ideali del Rinascimento italiano come il vedutismo europeo settecentesco, da Van Wittel a Piranesi, dallo Zocchi a Canaletto. In merito al rapporto fra vedute pittoriche e vedute d’ottica, Alberto Milano sostiene che le prime furono il modello utilizzato per costruire le seconde, almeno nei soggetti topografici. Si può parlare di una forma di divulgazione che utilizza un linguaggio semplificato e più immediato, adatto al più vasto pubblico al quale era destinata la veduta ottica. L’accentuazione della veduta prospettica, la eliminazione di dettagli e di particolari troppo minuti, la colorazione violenta, con il cielo degradante verso l’orizzonte dal blu intenso al bianco e al rosa, tutti questi accorgimenti sono gli elementi essenziali del linguaggio divulgativo34.
Ricordo come la celebre veduta romana di Van Wittel II Tevere a Castel Sant’Angelo, del 1683, ripresa con leggere varianti da Piranesi nel 1754, viene poi tradotta in veduta d’ottica per il catalogo Remondini. D’altronde, Henri George ricorda come le image d’Epinal francesi avessero come modello «l’imagerie parisienne de la rue Saint-Jacques», strada in cui si concentravano i produttori parigini di vedute, d’ottica e non35. Le immagini emigravano quindi senza vergogna, subendo piuttosto un processo di progressiva schematizzazione. L’emergenza di una città irrigidita da tali semplificazioni risulta evidente nei temi monumentali: sia La Grande Procession de Florence,
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Ie jour de la Féte de Dieu che la veduta di St. Pierre du Vatican a Rome offrono una eccessiva geometrizzazione degli isolati urbani attorno ai fulcri della visione. In bilico fra rappresentazione e ricomposizione appare, ad esempio, uno splendido richiamo al metamorfismo urbano di fiorentina memoria37: il Prospectus ingressus ad aulam et platae de Arno Florentiae/Prospectiva de l’entrada de la corte et de la calle de Arno à Florencia è una veduta sintomatica dei suddetti processi di semplificazione . Palazzo Vecchio, all’orizzonte, è collocato su una linea parallela alla facciata degli Uffizi quando, in realtà, risulta in una posizione discretamente inclinata; ancora, ben più clamoroso, lo stesso palazzo è posto sul lato sinistro della piazza mentre dovrebbe essere rappresentato sul lato opposto (e l’ipotesi del ribaltamento non è suffragata da nessuna scritta rovesciata)39. Disastri e teatri Dal vedere in città, allo stupore del riflesso nella camera ottica, alla rivisitazione dei luoghi planetari nei pantascopi, la memoria del mondo espande i domini della propria visività. Molte sono le rappresentazioni legate al pittoresco paesaggistico, dal golfo di Napoli alle rovine pompeiane, dai giardini di Versailles ai romantici paesaggi all’inglese. Più rari gli scenari del nascente turismo balneare. Ma al di là dei soggetti, un inusitato turismo del vedere accompagna l’edificazione di nuovi immaginari: l’emozione estetica si trasmette allo spettatore del mondo niovo o delle Boites optiques grazie alle geografie tracciate dal vagare dei colporteurs. Spettacoli poveri, per viaggi sentimentali che dei modelli colti di Goethe, di Sterne, di Stendhal conservano l’acutezza e la curiosità dell’osservazione, nonché il senso interiore del vagare, quell’allargamento della coscienza consentito dalla visione di città e paesaggi sconosciuti40. Certo, si tratta di attimi, il corpo immobile nella piazza di sempre, la vita di tutti i giorni che incombe al di là della veduta: ma l’avidità del vedere accomuna lo spettatore in diretta, quello colto che può permettersi il Grand Tour, allo spettatore in differita, introdotto ai piaceri di viaggio dalle urla di un mestierante “maledetto”. Salvo resta il moto individuale verso città immaginate, condiviso il desiderio di vedere oltre, analogo il percorso psichico fra il dentro e il fuori, il noto e l’ignoto. Con il tema del disastro, ad esempio. L’evento calamitoso, intrinsecamente spettacolare, è proposto con una vasta gamma di soggetti. Nella Vue du Feu prit à la salle de l’Opéra de Paris le 6 Avril 1763 il tempo dell’incendio e il tempo della stima dei danni convivono nella stessa rappresentazione. Nella Vue de la Ville de Regio dii Messinae et ces alentour detruite par le terrible tremblement de Terre arrivée le Cinq Fevrier de l’année 1783 la calma irreale di molte vedute lascia il posto al dramma del terremoto. La città è distrutta, gli abitanti fuggono, gridano, si disperano su un terreno ormai accidentato e impraticabile. Strana risulta invece La Peste de Marseille.
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La malattia pare non sconvolgere la città, il punto di vista e l’organizzazione prospettica sono assai più rassicuranti della precedente città terremotata. L’impressione è di una veduta preesistente, riadattata al soggetto con l’aggiunta di scene di benedizione di cadaveri o di moribondi trascinati sui carri41. Anche la relazione con il luogo teatrale risulta assai spettacolare. Uno dei topoi è costituito da vedute di interni teatrali “sfondati” verso il palco grazie al raddoppiamento della profondità consentito dalla scenografia a carattere urbano. Si tratta di un modello la cui morfogenesi è rintracciabile nella trama di relazioni fra spettacoli di piazza, rappresentazioni di corte e modelli di città ideali: tipologia in nuce fra le corti di Urbino, di Firenze e di Ferrara, e testimoniata dai sopravvissuti gioielli teatrali di Vicenza, Sabbioneta e Parma42. Ecco la Vue du fameux Théàtre de la Ville de Naples en Italie', un interno con tre ordini di palchi, sormontati da un loggiato a colonne archivoltate, in cui il cannocchiale prospettico a fuoco centrale è ribaltato ed esploso all’infinito, nell’interno della città in scena. Meno “sparata”, ma altrettanto interessante, la Salle de l’Opéra à Paris per Polyoramapanoptique, doppia litografia, colorata e perforata, per effetto giomo/notte43. Le stesse vedute sono generalmente osservabili in strumenti diversi, quasi a incrementarne la circolazione e a garantirne l’estrema visibilità. Il Polyorama panoptique, dell’ottico parigino Lefort, è una scatola in legno finemente lavorata, con il collo a fisarmonica, nella quale viene illuminata una lastra trasparente. La provenienza della sorgente luminosa segna lo scorrere del tempo: l’illuminazione anteriore dona una leggibilità diurna mentre la notte è ottenuta attraverso l’illuminazione posteriore della litografia. La pratica, già frequente nei pantascopi e nelle lanterne magiche sin dal secolo precedente, era utilizzata anche in pittura. Ricordiamo gli oli su tela di Thomas Patch: nel Ponte Santa Trinità di notte una Firenze incantata assiste allo spettacolo pirotecnico realizzato sulla torre di Palazzo Vecchio, mentre altre luminarie brillano sul Campanile di Giotto ed il chiarore lunare filtra fra le nuvole, sino ad invadere le increspate acque deH’Amo. Visione assai più “cinematografica” del corrispondente L’Arno al Ponte Santa Trinità, copia in pieno giorno, dipinta successivamente44. Il topos urbano pare dominare anche le vedute polioramatiche. Nei polyorama esposti alle grandi mostre parigine del centenario e al Musée du Cinéma, i monumenti di Parigi sono ampiamente rappresentati: TAssemblée Nationale, le Palais Royale, l’Opéra Gamièr, l’Hotel de Ville, Notre Dame, Rue de Rivoli valgono in quanto tali, meraviglie architettoniche degne di sguardo ma, al tempo stesso, cortine di rappresentanza urbana per sfilate ufficiali, per incoronazioni e funerali, entrate solenni o commemorazioni ufficiali: scenari, dunque, consacrati aH’autoglorificazione del potere. La grande varietà di questi soggetti consente d’immaginare la rilevanza delle vedute per l’educazione morale del cittadino: si va da VArriveé de l’Empereur
Napoléon le Grand à la Basilique de Notre Dame de Paris alla Féte de S. M. Louis Dix-huit au jardin des Tuileries le 25 aout 1815; da L’Entrée triumphale des Troupes royales a Nouvelle York alla Vue Perspective de la Procession de l’Abbaye Royale de S. Denis en France .
II .1.3. Il fascino della proiezione
New York, giugno 1994: al convegno di Domitor “Cinema turns 100”, David Francis presenta una grande lanterna composta da tre apparecchi sovrapposti45. La proiezione si colloca in una prospettiva storiografica che cerca di comprendere i debiti del cinematografo nei confronti di uno dei suoi più accreditati progenitori: debiti tecnici e debiti narrativi di una discendenza ormai nota, confermati dall’osservare in successione spettacolo di lastre e spettacolo per cinematografo46. Indubbiamente, Curfew must not ring tonight, The Wilier and the Sweep, Buy your own cherries sono tre storielle che saranno riprese alle origini del cinema: la donna appesa alle campane per salvare il proprio amore, uno spazzacamino e un fornaio che si azzuffano dopo essersi inavvertitamente sporcati, la triste storia di una famiglia distrutta dal padre alcolista, saranno prodotti da più di una compagnia cinematografica47. Lo spettacolo presenta un ampio programma: ecco un bugiardo cui si allunga clamorosamente il naso, un pesce che ingurgita uno sprovveduto ometto, un mago che predice il futuro attraverso la lanterna magica, il buon San Bernardo che salva miracolosamente un disgraziato morente sul ghiacciaio. La magia della rappresentazione gode di precisi corrispettivi tecnologici: a leva, a maschera, a tiretto, per rotazione o per scorrimento, per commistione di supporti pittorici e fotografici, la lastra della lanterna consente “viaggi” compositi. Si parte da Southampton, direzione Napoli, il Cairo ed Alessandria d’Egitto. Dal golfo partenopeo spicca il Vesuvio illuminato dal sole, poi l’arrivo delle tenebre, quindi l’eruzione, coi lapilli che striano di bianco lo scuro della notte. Ora i panorami delle altre città, con architetture finissime: la decorazione di una cattedrale gotico-bizantina che prende improvvisamente fuoco, un castello medioevale al sopraggiungere della sera e al mutare delle stagioni. Di seguito, appaiono la Tour Eiffel e A Ramble Round the Paris Exhibition - Paris 1899, con i padiglioni espositivi sul lungo Senna. Quindi Liverpool - 1892, illustrata attraverso lastre fotografiche trasparenti: i quartieri popolari con i lavoratori in strada, una madre che abbraccia il bambino, un anziano venditore di pesce secco, gruppi di ragazzini che giocano.
Deboli iconografìe dell ’urbano Un’impressione mi accompagna: se nei mondi niovi, come nelle altre Boites d’optique, le vedute architettonico-urbanistiche determinano il palinsesto
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grazie alla loro elevata qualità e, soprattutto, ad una presenza massiva, l’immaginario urbano della lanterna magica pare diluirsi nella molteplicità di percorsi narrativi e presentativi. Anche Gian Piero Brunetta afferma che le vedute per scatola ottica dichiarano, a prima vista, parentele più altolocate e selezionate. Dall’immensa iconosfera popolare attingono in modo quasi inavvertibile, mentre pescano a piene mani nei territori contigui della pittura, dell’architettura e della scenografia teatrale48.
Possiamo dunque affermare che la lanterna magica è debole fotofora dell’urbano? O, piuttosto, che l’urbano risulta uno dei tanti percorsi mostrativi del dispositivo? In effetti, sino ai primi decenni del XIX secolo, poco frequenti risultano i vetrini con vedute di città49. Durante la ricerca effettuata alla collezione del Musée du Cinéma, Laurent Mannoni condivideva questa idea: prima delle vedute urbane appartenenti alla vecchia collezione di Wilfred Day50 o alle Vues de Paris fabbricate da Lapierre nel 1843, la rappresentazione di città pare languire. Sul perché, provo ad avanzare qualche ipotesi. La prima riguarda i caratteri della lanterna. La nascita e lo sviluppo avvengono in ambiti scientifici (Christian Huygens) e religiosi (Athanase Kircher) che privilegiano usi e contenuti lontani dal vedutismo. L’iniziale serie da proiezione di Huygens pare essere costituita da «disegni in pose differenti di uno scheletro che gioca con la sua testa»51. Kircher illustra invece la lanterna della seconda edizione dcll’/lrs' Magna lucis et umbrae con un programma iconografico che sembra scaturire direttamente dai ministeri della Compagnia di Gesù: un’anima imprigionata tra le fiamme del purgatorio e la rappresentazione della morte scheletrica con la falce e la clessidra . Inferi, mostruosi animali, apparizioni sataniche e sovrannaturali: ecco l’imprinting di una tradizione affascinata più dagli aspetti magico-taumaturgici che dalle problematiche estetiche legate al concetto di veduta, tradizione che troverà nelle lezioni dell’abate Nollet - versante scientifico - nelle missioni di padre Claude-Philippe Grimaldi - aspetti evangelizzatori - e nelle fantasmagorie di Robertson - utilizzo magico-visionario - momenti di grande notorietà53. Certo, nel corso del Settecento, i soggetti si moltiplicano. Dal famoso Traité de l’Expression di Charles Le Brun (1678) vengono ripresi temi dell’anatomia artistica, appaiono soggetti legati alla rivoluzione francese, si amplifica la traduzione in immagini del vasto repertorio favolistico dell’Europa centrale. Fenomeni legati al gusto (come l’orientalismo), il proliferare della letteratura di viaggio, i generali progressi della fisica sperimentale e lo sviluppo deH’illuminismo, determinano, già dalla seconda metà del XVIII secolo, una prima diversificazione dalle tradizionali “mostruosità” della lanterna: a Torino sono custodite lastre del periodo quali Veduta della città di Fiesole una volta famosa ed ora quasi distrutta o Veduta della città di Gerusalemme e una gran
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prateria - Barca efiume. Ma le rare vedute di città sopravvissute ed anteriori al XIX secolo paiono piuttosto appartenere al genere “corteo”: Laura Zotti Minici conserva otto lastre di fine Settecento dal titolo La visita dell’arcivescovo54, mentre il collezionista inglese John Jones ha ritrovato numerose lastre riproducenti cortei per l’incoronazione dei re d’Inghilterra tradotte, secondo Laurent Marinoni, da modelli di incisioni preesistenti55. All’inizio dell’ottocento la prevalenza degli originali aspetti magico-taumaturgici della lanterna cede il passo all’accrescersi di un uso “illuminista” del dispositivo ed a palinsesti strutturati in vere e proprie serie, prodotte a larga scala per la moderna società mercantile: le missioni dei padri evangelizzatori, le aule universitarie di Bologna, Torino, Parigi, Berlino, le dimostrazioni dei colporteurs trentini o savoiardi non sono più le uniche depositarie delle “magiche” proiezioni. La produzione diviene industriale, strumenti familiari presentano ricchi corredi di lastre con repertori didattici nei quali il viaggio, la scoperta e la descrizione dell’alterità mostrano finalmente città e paesaggi di tutto il mondo56. La limitata presenza di vedute urbane precedente l’industrializzazione dei repertori per lanterna si spiega anche con un motivo essenzialmente tecnico: un conto è realizzare vedute su grandi fonnati, altro rappresentare la complessità di una città in pochi centimetri quadrati. Ancorché mediata dall’interpretazione dell’artista, la precisione raggiunta dal vedutismo settecentesco è difficilmente comparabile con la pur eccelsa maestria dei miniatori di vetrini: attraverso la strumentazione ottica e topografica, grazie al ricco apparato informativo delle legende e al respiro con cui grandi palazzi civili e religiosi venivano inseriti nella civitas brulicante, la restituzione della forma urbis raggiunge livelli difficilmente compatibili con le ridottissime scale della lanterna. Come, d’altronde, nei primi strumenti capaci di realizzare la sintesi di un movimento breve a partire da un disco finestrato: dal Phénakistiscope di Plateau allo Zootrope di Homer osserviamo sfilate di animali e di streghe, di diavoli e di cacciatori, di pattinatori e di ballerini57. Le trasformazioni riguardano un esteso campionario nel quale il dinamismo sviluppato - dalla visione di semplici movimenti corporei all’interrelazione dinamica di soggetti diversi - pare indifferente alla contestualizzazione spaziale. Funambolici giocolieri o topastri birichini, soldatini in uniforme o donne dall’invecchiamento precoce risultano tutt’al più associati a lemmi di un immaginario paleo-industriale, quali una macchina infernale, un treno in corsa, una pressa in azione o l’immancabile fabbro, topos di una delle più fervide migrazioni testuali nel cinematografo nascente. Insomma, ciò che appare riguarda il mondo disordinato e rustico degli attori: «città fittissime di case e CO palazzi» saranno lasciate ad altre, forse più consone, tecnologie del vedere .
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E poi le città... Dicevamo che qualcosa muta nei primi decenni dell’ottocento. Lo spirito del tempo pare coniugare esigenze scientifiche - dunque il viaggio e la scoperta come conoscenza - e istanze romantiche, per le quali le metafisiche Fantasmagorie alla Robertson si accompagnano alle suggestioni archeologicovedutiste del Grand Tour, marcando la definizione di nuove geografie sentimentali. Legate a tale espansione estetica risultano sia la produzione industriale di lastre e di lanterne - Philip Carpentier dal 1823, Lapierre e Aubert verso la fine degli anni Quaranta, realizzano prodotti in serie nei quali la veduta di città, come quella paesaggistica, diviene uno dei generi in catalogo59 - sia la grande attività della Royal Polytechnic Institution. Nelle sue sale londinesi, aperte nel 1838, lo spettatore può assistere a corsi e dimostrazioni scientifiche, curiosare fra gli strumenti del museo della tecnica e ammirare gli spettacoli di lanterna magica, realizzati con le migliaia di lastre componenti la collezione, tutte accuratamente dipinte a mano. Nella raccolta gentilmente apertami da Laurent Mannoni alla Cinémathèque fran?aise, ho osservato diverse lastre a soggetto urbano. La prima di queste proviene proprio dall’istituzione londinese: si tratta di Malte, un vetrino dipinto a mano da C.W. Collins, che raffigura la città fortificata della Valletta, con grandi velieri in porto60. Classificata come Villes et Monuments. Sites célèbres, ecco Clermont, ben inserita nel paesaggio agrario circostante, dove contadini al lavoro in una bucolica atmosfera paiono confermare che la città «est renommé depuis longtemps pour sa beauté». L’esotismo si fa quindi strada verso Damascus, dove resti archeologici e una carovana introducono alla distesa urbana della città, «probablement la plus vieille cité du monde». L’amore per i resti appartiene anche alla lastra circolare Ruines de Thèbes. Temple de Jarnac, rupestre rappresentazione di due cavalieri in una valle trapuntata da mirabili templi in rovina61. Altro gruppo di lastre, bande con due immagini per vetrino, è prodotto da Lapierre, nel 1843. I titoli sono riportati in una comicetta sulla parte destra della veduta e rappresentano noti monumenti parigini: la Place de la Concorde, VEglise de la Madeleine, La Porte St. Denis, La Colonne de Juillet, il Palais des Tuileries, La Porte St. Martin. Analoghe vedute parigine sono conservate anche al Museo del Cinema di Torino .
11. 1.4. Immersi nel Panorama Nel cammino dell’illusione realistica si collocano le considerazioni della brochure per lo spettacolo parigino raffigurante la Chapelle de la Trinità (Cathédrale de Cantorbery) e Une vue de la vallèe de Sarnen (Suisse).
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L’art de reproduire dans de grandes proportions les aspects de la nature et les monuments pittoresques, semble avoir etc ignore de nos pères. Quelques tableaux executes sur de pctites échelles, et par consequent très inexact dans le details de localité et d’architecture, se prétaient seulement aux illusion de l’optique et donnaient des notions trompeuses aux spectateurs63.
Il Diorama in questione viene realizzato da Louis Jacques Mandé Daguerre e Charles Marie Bouton e aperto, con grande successo, nel 1822. Natura e architettura vengono amplificate per pulsare al cuore di una rappresentazione fiduciosa: grande immaginario di una modernità analitica, per la quale la freccia del tempo scorre senza ambiguità e garantisce il lavoro di “purificazione” dall’irrazionale iconografico precedente (gli angeli nelle carte geografiche). Del vedere in tondo Diorami e panorami emergono fra XVIII e XIX secolo quali condensatori di molteplici problematiche estetiche. Per Benjamin «i diorami subentrano alla lanterna magica, cui era sconosciuta la prospettiva, ma con la quale la magia della luce si insinuava certamente in un modo del tutto diverso nelle case ancora scarsamente illuminate»64. In Parigi, capitale del XIXsecolo, il filosofo tedesco illustra le caratteristiche di queste grandi tele dipinte. Si guarda da una piattaforma sopraelevata e cinta da una balaustra verso le superfici disposte di fronte e in basso. La scena dipinta, lunga circa 100 m e alta 20, scorre lungo una parete cilindrica. I principali panorami di Prévost, il grande pittore di panorami: Parigi, Tolone, Napoli, Amsterdam, Tilsit, Wagram, Calais, Anversa, Londra, Firenze, Gerusalemme, Atene...65.
Fra auspici di corrette restituzioni topografiche e romantiche pitture di paesaggio, sguardi in stile vedutista o illusione da macchineria teatrale, la stesura di queste enormi tele richiede ancora l’ausilio della camera oscura. Anzi, vista la configurazione dell’impresa - rappresentare città, paesaggi, battaglie a 360° - si approntano strumenti speciali, come la «camera oscura che giri a volontà su un perno senza cambiare orizzonte», illustrata nel 1800 da Dufoumoy nel suo Raport sur le Panorama^. La rispondenza al “vero” è l’obiettivo primario e una valida strumentazione tecnica garantisce, almeno teoricamente, assolute omologie. D’altronde, l’illusione dello sfondamento parietale non costituisce una esperienza nuova. Nella villa settecentesca inglese è frequente la landscape room o la painted room. In Italia, il genere della decorazione murale sul modello della “stanza paese” è assai diffuso nei palazzi signorili dell’Emilia, del Veneto, della Toscana e del Lazio67, amplificando modalità illusorie inaugurate dal Mantegna nella Camera degli sposi di Palazzo Gonzaga, proseguite dal Correggio per la Cupola del Duomo di Parma, da Pietro da Cortona negli affreschi della Villa Sacchetti a Castelfusano o da
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Andrea Pozzo nelle mirabolanti azioni sceniche della Gloria di Sant ’Ignazio a Roma. Nei panorami e nei diorami il gusto scenografico seicentesco, la tradizione quadraturista e del trompe l’oeil barocco vengono asciugate dallo spirito analitico dell’illuminismo: a fine Settecento sfondare le pareti significa fare i conti con la rappresentazione “oggettiva” del reale e isolare una tradizione iconografica attratta dalTz/r/zv in termini mitici, storici o archeologici: «mai come in questo periodo furono annullate le frontiere tra i disegni di paesaggi artistici e i disegni topografici»68. Mentre Constable, con i suoi bozzetti atmosferici, inaugura una sorta di “liberazione” del punto di vista, il panorama garantisce ancora una posizione privilegiata dello sguardo, anzi, la enfatizza, isolando lo spettatore nella ristretta area-fulcro della visione. Per Dolf Stemberger «l’arte della prospettiva, un tempo sinonimo di una nuova epoca... ha prodotto infine il panorama, dotandolo di tutti i suoi precedenti elementi. Il panorama fu il suo ultimo prodigio»69. La rilevanza estetica e sociale del fenomeno riconduce alla promiscuità filosofica di un dispositivo che pare annullare l’idea di “immaginarsi la città”, nell’aspirazione, apparentemente non raggiunta dalla pittura, di ricostruzione oggettiva del visibile: Panorama garante del rilievo e della restituzione scientifica, controllo del mondo attraverso la monopuntuale gestione dello sguardo. Si tratta del primo spettacolo di massa legato al predominio della visione, un dispositivo che, a differenza di quelli sin qui analizzati, determina anche la nascita di una precipua tipologia architettonica. Antonio Costa ricorda che in tal modo il “paesaggio” della tradizione pittorica si colloca programmaticamente “oltre la pittura”, entra in un circuito di consumi di massa come uno degli elementi di attrazione, accanto ad altri come l’illustrazione giornalistica, I’arredamento urbano, la merce spettacolarizzata nelle esposizioni universali, le curiosità scientificotecnologiche, le “macchine”, ecc.; e l’attrazione del “contenuto” stesso della visione risulta complementare a quello della tecnica che la rende possibile70.
In effetti, nel panorama pare di essere librati sulla più alta torre della città: condizione eccelsa per dominarla, come fa Thomas Homor nel 1823, approfittando dei lavori in corso alla cupola di St. Paul Cathedral. “Appeso” al cielo, fissato alla croce da un traballante intreccio di corde, centine e scalette, si sistema con gli strumenti da disegno per rilevare il Panorama di Londra. Nonostante le condizioni atmosferiche non consentano una visibilità perfetta la leggenda narra che Hornor discendesse dalla cupola per raggiungere personalmente i luoghi e rappresentarli da vicino - realizza circa 2000, minuziosi disegni. L’aiuto del banchiere Rowland Stephenson risulta fondamentale: il progetto prevede la ricostruzione della sommità di St. Paul, circondata dal paesaggio londinese osservato dalla cupola, dentro al Colosseum
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di Regent’s Park. Un’impresa titanica, dal cui “romanzo” estraggo due frammenti71. Per la stesura della pittura Homor si rivolge a Edmund Thomas Parris, il quale si avvale di una équipe di pittori ben presto “accusati” di non restituire omogeneamente il rilievo. I settori del panorama nei quali viene divisa la città sono ricostruiti con tratti, colori, sfumature leggermente dissonanti: per cui la direzione esige il cambio dei collaboratori, «assumendo pittori con aspirazioni artistiche meno accentuate» . L’episodio risulta significativo per la comprensione delle mitologie inerenti l’idea di rappresentazione oggettiva e non mancheremo di riprenderlo. Per ora, tengo a sottolineare l’aspetto “perturbante” di un dispositivo ibrido, che ben si presta a evidenziare i paradossi e le contaminazioni nell’antinomia natura/cultura. Il secondo frammento riguarda invece la messa in scena del dispositivo. Homor ritiene doveroso inserire nel panorama gli strumenti del suo lavoro, quasi a far vacillare l’impressione di realtà della veduta. Il meccanismo metalinguistico - le impalcature per il rilievo, gli operai disegnati all’opera paiono coinvolgere il cittadino-spettatore in un’ingegneristica allegoria del farsi urbano, una sorta di gigantesco e autoreferenziale cantiere collettivo. Lo sguardo si perde nella prima città “moderna” deH’occidente, in cui le forme dell’antico stanno lasciando il passo alle esigenze della civiltà industriale: la metropoli si annuncia, e ciminiere, officine, periferie trapuntano una forma urbis in rapida evoluzione. Il panorama di Londra è un caso isolato. Le altre città paiono ancora sottostare al mito della forma: non solo in quanto città “chiuse” ma per l’idillio della convivenza con la natura amica, regnante sulle visioni panoramatiche del XIX secolo.
Dall urbs alle battaglie Immergersi nelle capitali del mondo, nei luoghi costruiti dalla storia, oltreché dagli uomini, diviene esperienza condivisibile: dal primo panorama edimburghese di Robert Barker (1788) diparte un secolo di grandi rappresentazioni urbane, nel quale possiamo essenzialmente distinguere tre fasi. L’appartenenza alla civitas segna i primi grandi successi del dispositivo: osservare per intero, quasi penetrare in un sol colpo la fisicità espressa dalle piazze, dalle torri o dalle antiche porte, dalla trina del tessuto edilizio “minore” come dalle ultime realizzazioni architettoniche della propria urbs, riconduce l’abitare all’appartenere, al sentire poetico e politico di una storia secolare, quella che in Europa riguarda il discorso sul “noi”, su “la nostra città”. Poi gli altri. Le forme degli altri. Roma innanzitutto, la città eterna, la città principe del Grand Tour, la città delle rovine e dei papi, la più rappresentata, seguita da Londra, l’esempio opposto, la modernità ripresa da Homor neH’ultimo grande panorama sulla propria città e, naturalmente, da Parigi.
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Nei nuovi edifici per il panorama - un po’ Pantheon e un po’ Colosseo, un po’ Partenone e un po’ galleria - le città si moltiplicano73; ecco Firenze (R. Reinagle, Londra, 1812) e Venezia (H.A. Barker, Londra, 1822); Amsterdam (P. Prévost, Parigi, 1804) e Anversa, (P. Prévost, Parigi, 1811); Praga (W. Barton, Vienna, 1805) e Pietroburgo (J. Stòger, Vienna, 1922); Algeri (H. A. Barker, Londra, 1818) e Gerusalemme!^. Prévost , Parigi, 1819); Calcutta (R. Burford, Londra, 1830) e Bombay (R. Burford, Londra, 1831); Sidney (R. Burford, Londra, 1830) e New York (R. Burford, Londra, 1834). Amplificato è anche lo spettacolo della catastrofe: L’evacuazione di Tolone (P. Prévost, Parigi, 1799), L’incendio di Mosca (C. Langlois Parigi, 1837), Gli ultimi giorni di Pompei (C. Castellani, Napoli, 1882)74. La terza fase della città nei panorami vede attenuarne la rappresentazione a favore dell’evento bellico: i due temi avevano convissuto sin dalle origini del dispositivo, ma nella seconda metà del secolo il panorama urbano cede lentamente il passo75. La moltiplicazione delle scene di guerra avviene soprattutto negli anni degli scontri franco-prussiani. Al panorama della Battaglia di Sedan16, Dolf Stemberger dedica il primo capitolo del suo Panorama del XIX secolo. Ambiti di riflessione privilegiata: le modalità percettive dello spettatore, l’esaltazione o l’insoddisfazione per l’illusione deH’artificio pittorico, il dibattito sull’artisticità del panorama.
IL I.5. Il mondo in rilievo, il mondo profondo
Il Kaiserpanorama è approntato da August Fuhrmann, fotografo e imprenditore berlinese che dagli anni Ottanta sviluppa nella sua città, e ben presto nel resto della Germania, la fabbricazione e l’installazione di “rotonde” per la visione stereofotografica. Era uno scampanellio che echeggiava pochi secondi avanti che l’immagine si ritraesse per lasciar posto prima a un vuoto e poi alla successiva. Ed ogni volta, quando esso risuonava, una struggente qualità d’addio impregnava profondamente le montagne fin nelle loro radici, le città con tutte le loro lucenti finestre, i remoti pittoreschi abitanti, le stazioni dal giallo pennacchio, i declivi vigneti fin nella più minuscola fronda77.
La malinconica atmosfera d’addio, sovrana sui luoghi dell’anamnesi benjaminiana, è scandita dall’improvviso tintinnio della campanella. Eine Lappenfamille se ne va, mentre il velluto rosso del balconcino su cui si appoggiano i gomiti può finalmente dilatarsi. Lo fa di tanto in tanto, quando, fra una visione stereoscopica e l’altra, il capo e il corpo si sollevano, quasi impauriti dallo scatto del meccanismo: ecco i 35 Togo Neger, la Valle del Nilo, 7R il Canale di Panama, il Circolo polare artico...
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Panorami e fotografìe “imperiali ” Il meccanismo permette la visione in rilievo di vedute successive79, secondo il principio di sovrapposizione binoculare studiato da Charles Wheatstone già negli anni Trenta e da David Brewster negli anni a venire. Un analogo Giro del mondo in camera viene aperto anche a Torino, in via della Zecca, al n. 25: però uno che offra tante, si svariate, e si perfette vedute d’ogni parte del mondo non ne avemmo mai... Il nuovo salone è una vera scuola d’istruzione di cui ogni abitante dovrebbe approfittare onde formarsi un’esatta idea delle principali città ed interessantissime vedute delle Indie, della Turchia, Nubia, Spagna, Inghilterra, Francia, Austria, Germania, China, Giappone, Russia, Svezia, Norvegia, Italia, ecc...80.
Oltre a tali avvisi, e a una raccolta di vedute stereoscopiche di vario soggetto, il Museo Nazionale del Cinema di Torino conserva anche mobili-visori che paiono proseguire la tradizione architettonica delle migliori scatole ottiche del secolo precedente: mirabile è il castelletto in stile gotico-lombardo realizzato dal fotografo Domenico Bossi, con l’apparato binoculare mimetizzato sulla torretta merlata dell’edificio . Una sorta di campionario dei campionari è invece il panorama imperiale Sull’Esposizione Universale parigina del 1900: un viaggio stereoscopico fra i padiglioni dell’Expo e l’immaginario urbano di fine secolo, allestito per una mostra bolognese sul “precinema”82. Oltre ai classici monumenti della capitale francese ammiriamo la casa araba, la casa romana, la casa giapponese, la Kampong giavanese e i vari palazzi nazionali di Bolivia, Paraguay, Salvador, Norvegia, Nicaragua, Cile, ecc... Insomma, nella seconda metà dell’ottocento la stereoscopia è di gran moda: sono della tua opinione - conferma un Dialogue Parisien del 1855 - così quest’estate, invece d’andare a visitare la Svizzera, come tu mi avevi chiesto, ti comprerò delle vedute fotografiche e tu ti divertirai ad ammirarle attraverso le lenti83.
Di questo mondo che si avvicina, delle città e dei paesaggi “a portata d’occhio”, ma anche delle diableries o delle scenette ricostruite, delle riproduzioni artistiche, del vedere autoreferenziale o del voyeurismo pomografico, la nuova tecnologia riaggiorna antichi campionari. Il vedutismo urbano si struttura in vere e proprie serie: miriadi di “città in rilievo” riempiono sezioni dedicate ai viaggi {Italie au Stéréoscopie, Vues de France, Views of the Pyrenees), alle esposizioni intemazionali {L’Exposition Universelle de 1867, Exposition Universelle de 1889, L Exposition de 1900), ai moti rivoluzionari {Le Sabbat rouge, Siège de Paris), ai nuovi interventi urbanistici (Paris Nouveau), al costume {Paris instantané), alle attività marittime e portuali, alle catastrofi
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urbane, alla storia dell’arte, alle feste, ai defilé militari e all’industria84. Anche fra i soggetti delle stereofotografie americane l’urbano è il tema più rappresentato: l’indagine di William Durrah conferma l’interesse primario per il paese e lo scenario regionale, seguito dalla rappresentazione di città e metropoli, villaggi e immediati dintorni, mete e località turistiche, modi di vita e di lavoro della popolazione . Un particolare utilizzo della fotografia è dato dall’intreccio con l’idea di panorama pittorico. Nel momento in cui le grandi tele dipinte abbandonano la città per gli scenari di guerra, il panorama fotografico pare sostituirne le abilità mimetiche. Non è necessario toccare i 360° della visione circolare: l’obbiettivo è realizzare una visione comunque ampia, grazie al montaggio di scatti successivi - sul modello illustrato per il Canaletto in pittura - oppure utilizzando apparecchi speciali in grado di riprendere e restituire un giro completo d’orizzonte. Dopo un primo tentativo effettuato nel 1877, Muybridge realizza il famoso Panorama di San Francisco, con tredici lastre in vetro di grande formato (50 x 60), trattate al collodio umido. L’opera, esposta nel 1994 al Musée Camevalet di Parigi , vicino ad un analogo panorama scattato sulla città più di cento anni dopo dal fotografo Mark Klett, supera i cinque metri di lunghezza. Altrettanto spettacolari risultano il Panorama di Mosca della collezione Bonnemaison, realizzato verso il 1870 da Sherrer e Nabolz, che misura 6,2 metri; il Grand panorama de Naples di Giorgio Sommer; l’anonimo Grand Panorama d’Athènes o le sei stampe all’albumina della Veduta panoramica di Firenze a 360° dal Piazzale Michelangelo . Spettacolare, quanto sfortunata, è l’esperienza aereo-panoramatica del Cinéoramadi Raoul Grimoin-Sanson , presentato all ’Exposition Universelie Paris - 1900. All’interno di una immensa hall oscurabile, Grimoin-Sanson invita gli spettatori a salire sulla navicella centrale. I tendaggi dal soffitto simulano un pallone aerostatico, le corde, gli attacchi, le ancore ed i sacchi di sabbia fanno il resto. Al calare dell’oscurità commence une merveilleuse ascension. Parti de Paris, le ballon dcvait tour à tour atterrir à Bruxelles, Londres, Barcelone, Tunis... Les films devaient projeter sur les parois des vues animées de ces villes et donner ainsi 1 ’illusion d’une tournée de capitales88.
Il complesso dispositivo del Cinéoramaprevede l’utilizzo di dieci proiettori disposti a stella ai piedi della navicella: i film girati da Grimoin-Sanson stesso vengono proiettati senza soluzione di continuità, illustrati dal capitano della navicella, imbonitore di turno a metà fra lo steward e la guida turistica: «Mesdames et Messieurs, nous aliens partir du bassin des Tuileries... Làchez tout!» Oppure, nel minuto di pausa fra il “decollo” da una città e l’“arrivo” in un’altra: «Mesdames et messieurs, nous atterrissons sur la Grande Place de Bruxelles». Le città toccate sono luoghi del vicino esotismo nordafricano, mete
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del turismo balneare, come Nizza o Biarritz, città europee, come Southampton o Barcellona. Naturalmente, lo spettacolo prevede il ritorno, e la circolarità è garantita dal dispositivo stesso, retroproiettando il decollo dalle Tuileries: «Et c’est peut-étre cette vue de Paris qui étonnait et charmait le plus, car elle mettait, le mieux en relief toute l’ingéniosité du procédé» . Il Cinéoramasi rivela esperienza brevissima: dopo solo tre spettacoli l’attrazione è sospesa per incidenti tecnici e per l’effettivo rischio d’incendio provocato dalle elevate temperature raggiunte dagli apparecchi di proiezione90: non finisce, naturalmente, il desiderio di sguardi dall’alto, di panorami su città e paesaggi scrutati dal cielo. Un altro dispositivo del vedere panoramatico è brevettato in quegli anni dai fratelli Lumière. Si tratta di una macchina a dodici obbiettivi, Le Photorama, in grado di proiettare gigantografie su una superficie circolare. Lo spettacolo è garantito dall’altemanza di un migliaio di vedute urbane: una figurina della originale brochure esplicativa illustra una città - probabilmente Parigi - inserita circolarmente nel tamburo del dispositivo, pronta per essere proiettata91. I Lumière inaugurano la sala parigina per questo dispositivo nel 1901, al 18 di rue de Clichy. Louis ricorda: «Vi avevo sistemato uno schenno per proiezioni circolare, cilindrico, che aveva un diametro di venti metri, un’altezza di sei metri, e vi proiettavo dei panorami con l’orizzonte completo»92. L’effetto illusorio del procedimento e la “bellezza” della rappresentazione si intrecciano. Meraviglie della tecnica e veduta di città: da cosa è stupito lo spettatore? Album di città Dopo le esperienze di Niepce, dopo Daguerre, che concretizza e commercializza la daghcrrotipia, la nuova tecnica fotografica consente nuovi sguardi sull’architettura; tanto che John Ruskin (prima) e Heinrich Wòlfflin (poi) manifestano dubbi sulla effettiva utilità del mezzo e sull’incontrollabile moltiplicazione dei soggetti artistici. Il procedimento è ritenuto ambiguo: se, da un lato, consente di ampliare il metodo comparativo della moderna storia dell’arte, dall’altro rischia di banalizzare il lavoro descrittivo e analitico dell’esperto93. Volenti o nolenti, la fotografia diviene il dispositivo principe nell’inarrestabile percorso di diffusione dell’immagine di città. Mitica o veritiera essa sia, l’espansione è costante: un importante prologo è segnato dai soggetti della tipografia Blanquart-Evrard, vicino a Lille, che fra il 1851 e il 1855 dà alle stampe i primi album con fotografie di Bruxelles, Parigi ed altre città francesi, poi d’Italia, Spagna, Germania e Belgio94. Sono vedute storiche, nelle quali la città contemporanea viene spesso trascurata alla ricerca dell’antico monumento o del rudere pittoresco, secondo modalità turisticoricettive che prevarranno per qualche decennio e sulle quali si innesterà la cartolina illustrata negli anni Novanta. Fotografie turistiche - e non solo - sono
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quelle proposte a Venezia da Carlo Ponti, secondo una tradizione ormai storicizzata da pittori di vedute-souvenir come Giacomo Guardi. Meravigliose le fotografie all’albumina di Ponti, con soggetti quali il Ponte di Rialto o la Serenata sul Canal Grande osservabili anche al megaletoscopio, una scatolaingranditrice in legno, progettata da lui stesso e brevettata nel 186295. La specializzazione dell’ottico e fotografo veneziano è proprio l’architettura. Compone album intitolati Ricordo di Venezia da vendere ai turisti in laguna: una ventina di vedute urbane, a volte scelte dai clienti stessi prima di venire rilegate, montate su cartoncini, spesso decorati. Sul retro compare qualche indicazione sui soggetti fotografati, il nome del monumento o della piazza, una succinta storia. Le indicazioni sono in italiano, francese o inglese96. Nella città che muta, oltre l’immobilità dello stereotipo turistico, la fotografia appare la sola capace di seguire il ritmo delle rapide trasformazioni urbane: «inventée, maìtrisée au moment mème où naissent les métropoles européennes, Londres, Paris, Berlin, la photographic est appelée à rendre compte de ces transformations structurelles profondes et rapides»97. Già nel 1852, Henri Le Secq aveva realizzato qualche fotografia sulle prime distruzioni dei vecchi quartieri parigini. Ma è l’opera di Charles Marville, incaricato di documentare le fasi di intervento del progetto di Haussmann, a costituire un immenso archivio storico-visivo sul cambiamento della città, riprendendo, per circa un quarto di secolo, gli sventramenti dei borghi “insalubri”, il tracciamento di moderni assi viari, l’allargamento di piazze monumentali, l’edificazione dei nuovi blocchi edilizi98: un po’ come sarà per Thomas Annan, incaricato dal City Improvment Trust di conservare la memoria della vecchia Glasgow, o per Max Missmann, che documenterà un quarantennio di trasformazioni berlinesi a partire dal 1899". Il nome di Marville si lega alle grandi trasformazioni parigine della seconda metà del XIX secolo: già illustratore per Le magasin pittoresque, fotografo per i Musei del Louvre, per le edizioni Blanquart-Evrard di Lilla, per il Services des Promenades et Plantations di Parigi, riceve nel 1865 l’incarico del Service des Travaux historiques per 425 vedute inerenti vie condamnées: un reportage unico sulla Parigi di Victor Hugo ed Eugène Sue prima della demolizione100. Lo spirito che guida Marville in questa opera di documentazione “realistica” - e che lo guiderà anche nell’Album di vedute di Torino realizzato fra il 1865 e il 1870 - è quello della risposta ai bisogni della committenza: con altissima perizia tecnica e compositiva, le fotografie di Marville dimostrano la necessità degli interventi demolitori. La scelta del punto di vista asimmetrico ed estremamente basso spesso in corrispondenza di rigagnoli d’acqua o selciati dalle pietre consunte di particolari ore della giornata e di scorci decadenti, consente di fissare una città di suggestive facciate in ombra, prospettanti su strette vie e piazzette dalle misere attività lavorative. Ricordiamo, di metà anni Sessanta, l’angusta Rue Chanoinesse\ del 1874, la Cour du Dragon e l’Impasse Larrey (oggi boulevard
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Saint-Germain); La Bièvre et ses tanneries, veduta di un canale scomparso scattata dall’attuale boulevard Arago; Rue Beurriere, con un gigantesco 21 di una casa chiusa nell’attuale rue de Rennes101. John Thomson e Adolphe Smith, in una delle prime esperienze di collaborazione fra un fotografo e un giornalista (Street Life in London) coeva all’opera di Mandile, sostengono che «L’indiscutibile precisione di queste testimonianze ci permetterà di presentare veritieri tipi di poveri londinesi e ci eviterà l’accusa di sottostimare o esagerare la situazione»102. Un’attenzione particolare verso i sofferenti della città è anche quella del fotografo Heinrich Zille che fra il 1880 ed il 1914 realizza nei parchi, nei mercati, nelle strade di Berlino, diverse serie fotografiche di documentazione sociale, interessandosi anche allo sfruttamento della donna103. Per la trama dei molteplici rapporti città-fotografìa rimando senz’altro alle indicazioni bibliografiche in nota: voglio però ricordare gli incredibili sforzi di Nadar per scattare le sue vedute aeree di Parigi, dalle navicelle di mongolfiere cariche di materiali fotografici, ancora estremamente pesanti e dai lunghi tempi di esposizione104. Siamo negli anni Sessanta del XIX secolo: la prospettiva a volo d’uccello, fino allora lungimirante astrazione geometrica del modello prospettico rinascimentale, diviene visibile “dal vero”. Fra aerostato e camera fotografica una simbiosi scientifico/spettacolare accompagna lo sviluppo deH’aerofotogrammetria. Grazie al vedere zenitale il nuovo rilievo topografico espande la conoscenza: altre prove del frammento minano il sentire dell’wràs, perdite d’orizzonte, all’orizzonte, segnalano l’irruzione d’inarrestabili dinamismi.
ILI.6. Dimenticate cronofotografìe
L’espandibilità dei fenomeni iconici, una sorta di inedita elasticità delle apparenze, caratterizza tutto il XIX secolo, determinando il continuo scivolamento del patema riproduttivo verso strumenti di rappresentazione sempre più realistici. Il tentativo di scrutare nuove visibilità si formalizza in dispositivi quanto mai eterogenei. Il suffisso in rama è il più utilizzato: ciclorama, naturorama, cosmorama, stereorama, cinematorama, mareorama sono solo alcuni dei brevetti che cercano di amplificare questa curiosa “verità del vedere”. Vedere più lontano, vedere più vicino, vedere attraverso, vedere congiunto, in una parola vedere ciò che non è presente e che a occhio nudo risulta occultato dalla limitatezza sensoriale marca il contesto epistemologico della fine del secolo105. Nel decennio precedente il brevetto Lumière, le ricerche sulla cronofotografia paiono concentrarsi in ambiti relativi alla fisiologia. Il fondo Marey, circa quattrocento film negativi conservati alla Cinémathèque fran^aise, è costituito da pellicole nelle quali risulta dominante l’analisi del movimento,
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umano e animale: atleti, ciclisti, schermitori, soldati, poi asini, conigli, uccelli, gatti, pesci, cani106. L’interesse scientifico della Station physìologique del Bois de Boulogne contraddistingue questa rilevante (e ancora scarsamente studiata) produzione delle origini, almeno sino alla frattura fra Marey e Demeny, quando la fuoriuscita del Phonoscope dai confini del laboratorio segna una diversificazione dei soggetti rappresentati. Analoghi interessi - con una preferenza degli aspetti iconografico-patologici su quelli teorico-fisiologici sono documentati dalla cronophotographie médicale di Albert Londe, direttore del service photographique de la Salpétrière, l’ospedale psichiatrico parigino107. Verso la fine degli anni ottanta sono comunque già state prodotte vedute urbane, sia da William Friese-Greene che da Louis Aimé Augustin Le Prince. Ne L ’Invention du cinéma, Georges Sadoul riporta qualche fotogramma di vedute riprese dall’ottico inglese: la prima, su carta sensibile, è datata 1888 e mostra il passeggio cittadino di due uomini e una donna. Nell’altra, supporto in celluloide, 1890, osserviamo invece il passaggio di una carrozza. Il punto di vista è analogo, la strada e le architetture sembrano le stesse, entrambi gli spezzoni risultano a perforazione rotonda. Nella cronologia finale Sadoul indica un altro film di Friese-Greene: «1889. Janvier. Prises de vues sur celluloid perforò: “Hyde Park Corner”» . Pare rilevante osservare che sul modello degli apparecchi tendenti a unire l’illusione di movimento a quella di profondità - percorso di ricerca in cui si colloca lo stereofantascopio, o bioscopio, di Jules Duboscq - l’apparecchio di Friese-Greene vuole essere stereoscopico, utilizzando coppie di fotogrammi gemelli. Sadoul riporta l’aneddoto della sua prima proiezione sperimentale «sur le mur blanc de sa boutique, à Piccadilly» quando meravigliato per i risultati ottenuti «sortit dans la rue pour trouver un passant. Il ètait minuit. Il ne put ramener qu’un policeman qui contempla ce spectacle avec admiration»109. Dell’ex pittore di panorami Le Prince, Sadoul illustra due film in esterni, uno dei quali riportato anche da Deslandes nel primo volume della sua Histoire comparée du cinéma110. Girati su carta sensibile nell’ottobre del 1888, senza perforazioni, con una camera a obbiettivo unico - Le Prince aveva già realizzato diversi apparecchi a obbiettivi multipli - sono attualmente conservati al Science Museum di Londra. E Laurent Mannoni che offre datazione e ambientazione dei soggetti: «sa belle-mère dans le jardin de John Whitley, et une vue de la circulation sur le pont de Leeds, prise à partir d’une fenétre des quincaillers Hick Brothers, dont l’immeuble existe toujours»111.1 fotogrammi di questa seconda veduta illustrano un’animata città fin de siècle, con carri merci, carrozze a cavallo, pedoni sui marciapiedi, illuminazione pubblica: una rappresentazione che, per soggetto e taglio dell’inquadratura, anticipa di sette anni le analoghe vues urbaines dei fratelli Lumière. Proprio i Lumière vengono premiati all’Esposizione Intemazionale di Parigi del 1889: Auguste e Louis, ancora lontani dall’interesse per le immagini in movimento, ottengono un
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prestigioso riconoscimento per 1’Etiquette Blue, la lastra fotografica super sensibile messa a punto quattro anni prima. All’Esposizione Universale sono invitati i protagonisti della coeva ricerca fotografica nonché gli “appassionati” di immagini cinetiche, animate, dinamiche, del tempo o in movimento che dir si voglia. Oltre ai Lumière, visitano infatti i padiglioni dell’Expo Etienne Jules Marey, Emile Reynaud e Thomas Alva Edison. L’anno successivo, Marey e Demeny realizzano una cronofotografia dal titolo Chevai trainarti une charette, attualmente conservata alla collezione della Cinémathèque fran^aise112. L’inquadratura risulta eccentrica, parte del cavallo, del traino e dell’albero sono mozzati. Degli anni seguenti è Vague, baie de Naples, (dove Marey passava diversi mesi all’anno e si era attrezzato con un laboratorio dotato di camera per lo studio dei pesci e degli anfibi): la costa del golfo è ripresa in prossimità di ruderi emergenti dalle acque, fra gli scogli battuti dalle onde di un mare leggermente mosso. Sulla costa, sopra una massicciata, si ergono signorili ed eclettici villini113. In Francia, con un cronofotografo più leggero dei precedenti, messo a punto fra il 1893 ed il 1894, Demeny riprende invece i paraggi della Station physiologiquen\ immortalando figure che guardano sorridendo in macchina, simbolo di quell’apertura al mondo “non scientifico” che Marey aveva sempre osteggiato. Fra il 1894 e l’anno seguente Demeny cronofotograta Un train passe sur un poni (tigne de ceinture à Paris) del quale restano 52 immagini stampate su carta, custodite al Musée du Cinéma. Al centro della composizione, un treno procede lentamente, sopra un ponte archivoltato115, mentre qualche pedone cammina sul marciapiede di destra. Improvvisamente uno stacco, forse un’interruzione nella ripresa, mostra il treno invertire il senso di marcia: osservando la riproduzione dei fotogrammi si nota infatti che al quarantesimo c’è un cambio repentino del soggetto inquadrato116. Più tarda, datata attorno al 1899, è la cronofotografia panoramica di Place de la Concorde, recentemente ritrovata da Laurent Mannoni nei depositi della collezione francese: si tratta della veduta dinamica del ponte de la Concorde, in prossimità del quale un signore col cappello attraversa la strada, seguito da due carri a cavalli. Nessuna veduta di città compare invece nella produzione di Edison antecedente il 1895. La recente filmografia di Charles Musser conferma questa assenza: il laboratory e gli studi della Black Maria privilegiano quel mondo “disordinato e rustico” degli attori, già osservato nei palinsesti di altre tecnologie. Che l’altra metà del cielo, lo spettacolo deU’wr/w, non voglia abbandonare la “vecchia Europa”?
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ILI.7. Città ideali e occhi principeschi
Soggetti “terrificanti”: grida disperate dei superstiti al terremoto di Messina, desolate visioni della peste a Marsiglia (con gente morente per strada e mucchi di cadaveri sui carretti per il trasporto a mare), l’inferno di New York, sconvolta dall’incendio notturno che il 10 settembre 1776 distrugge 1600 abitazioni con uomini, donne, vecchi, bambini imprigionati da spettacolari lingue di fuoco117; nulla a che vedere coi fuochi artificiali alla corte di San Pietroburgo o nei regali giardini di Versailles, con l’atmosfera principesca, il senso di misurata perfezione e gli intenti celebrativi di tali immagini. Mirabili prospettive Eppure, un analogo uso della prospettiva lineare, riconduce soggetti diversi a medesime composizioni. L’ho già ricordato: epurata dalle dimensioni atmosferiche di stampo pittorico, la prospettiva nel vedutismo precinematografico risulta estremamente semplificata. Il monoculare punto di vista si colloca sugli assi di una irrigidita griglia geometrica, riconducibile ai modelli di una visionarietà sintonizzata sugli aulici schemi tramandati dai pannelli di “città ideale”, i più noti dei quali sono oggi custoditi nei musei di Baltimora, Berlino ed Urbino118. Si toma all’enigma di queste tavolette, al carattere di modello per l’utopia urbana, all’acquisizione scientifica della prospettiva lineare, all’evidente relazione con le successive rappresentazioni teatrali della scena di città, al loro valore paradigmatico per la riflessione umanistica di derivazione neoplatonica. La tensione speculativa del gruppo di artisti legati al mondo della rinascenza urbinate-fiorentina, probabili autori delle città ideali, esibisce l’acquisizione “scientifica” della Perspectiva pingendi (o artificialis}, così come stava maturando attraverso le esperienze brunelleschiane, le codificazioni di Leon Battista Alberti e gli esempi di Piero della Francesca119; se l’inevitabile difficoltà di attuare nella città reale le meraviglie dell’artifìcio prospettico provoca lo slittamento dalla possibilità fattuale al ludico illusionismo scenografico, ciò non impedisce, anzi, probabilmente rafforza, il carattere modellizzante di questi esempi per la produzione vedutista successiva120. Il nostro dispositivo originale, la madre delle “magiche” scatole del vedere e rappresentare la città, diviene l’agile strumento con cui Filippo Brunelleschi, verso il 1415, si pone nelle fiorentine Piazza San Giovanni e Piazza della Signoria, “mirando” le prospettive del Battistero e di Palazzo Vecchio. Numerose le affinità con gli sguardi in scatola dei pantascopi, analoghi i requisiti soddisfatti da quel famoso sbirciare in città. L’esperimento merita di essere ricordato anche perché, come sostiene Paolo Rossi,
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alcuni dei procedimenti dei quali si servono gli uomini per produrre oggetti d’uso o per costruire macchine, per modificare e alterare la natura mediante il lavoro delle mani, giovano alla effettiva conoscenza della realtà naturale assai più di quelle costruzioni intellettuali o di quei sistemi filosofici che finiscono per impedire o limitare la attiva esplorazione, da parte dell’uomo, delle cose naturali121.
Brunelleschi, grazie a un semplice marchingegno, tenta di verificare l’omologia fra realtà e sua rappresentazione. Utilizzando le regole della nascente prospettiva, disegna su una piccola tavoletta una veduta del Battistero di Firenze osservato dal portale maggiore di Santa Maria del Fiore; al centro di questa tavoletta pratica un foro, attraverso il quale l’occhio scruta la facciata, quella vera, quella in pietra, del Battistero stesso. Con la parte pittata della tavoletta rivolta verso la facciata stessa del Battistero, l’osservatore può scegliere se scrutare questa immagine, riflessa verso lo spettatore da uno specchio sostenuto con l’altra mano, o mirare direttamente la facciata di San Giovanni, abbassando semplicemente Ho specchio. Brunelleschi tenta cioè di verificare la perfetta corrispondenza fra l’oggetto e la sua rappresentazione. Lo specchio occulta la visione della realtà, ci rimanda la sua immagine e se la sovrapposizione risulta perfetta significa che le regole stilate per la nuova prospettiva sono corrette122. Mi piace pensare a una piccola folla, curiosa ed eccitata per l’esperimento, intorno a Brunelleschi: quale pubblico di uno spettacolo del vedere analogo a quelli osservati nella lunga e controversa storia del “precinema”, la tavoletta e lo specchio passano di mano in mano, consentendo allo spettatore di verificare la “mirabile” rispondenza con la facciata di San Giovanni. L’unicità topografica del punto di vista è necessaria; così la folla, seguendo il basculante incedere del fortunato, momentaneo spettatore si sposta leggermente, barcolla alla ricerca dell’assoluta corrispondenza di “punti di vista”. Come sarà per gli occhi dei mondi niovi, per le osservazioni gettate dal balconcino centrale alle grandi tele del panorama, per gli stupori stereofotografici evocati da Benjamin negli esotici Gran Tour al Kaiserpanorama di Berlino, perché lo spettacolo funzioni è necessario occupare una sorta di locus amoenus del visus, un punto preciso, quell’illusorio sguardo principesco sul mondo ampiamente garantito all’avvento di ogni nuova tecnologia del vedere. In effetti, le idee di riproduzione “scientifica” e di oggettività della veduta (dunque di arte come mimesis) accompagnano il nostro percorso sino alla messa a punto del cinematografo Lumière, ultima “finestra sul mondo” con l’ambizione - più volte ribadita dai suoi artefici - di riprendere la vita stessa nel suo fluire, la réalité tnéme colta sul fatto. E in questo senso che la definizione di occhio del principe pare riassumere e conglobare una estesa molteplicità semantica nel paradigma di lungo respiro della perspectiva pingendi. Cos’è il punto di vista fissato nel Panorama ottocentesco se non l’idea di uno “sguardo principesco”, capace di sovrintendere e mirabilmente
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ricomporre la perfezione della veduta urbis? Non rappresenta forse l’esasperazione del modello - il momento «in cui la perfezione arriva sino alla soglia della banalità ma non la supera» - punto critico di una matassa immaginifica fatta di città, pitture e teatri? L’occhio del “principe” Brunelleschi osserva l’immagine monopuntuale dal buco della tavoletta come altri e più “veri” principi osserveranno la città dai corridoi vasariani della Firenze medicea o scruteranno i “teatri segreti” acutamente descritti da Ludovico Zorzi. Tra gli oggetti della scenicità ipocrita e sofisticata della corte, il tratto è rappresentato dalla grata che vela lo stanzino dal quale il granduca, assieme ai suoi familiari e ai suoi ospiti, assiste, celato agli sguardi del pubblico che assiepa il Teatro di Baldracca, alle recite della commedia degli zanni, dopo osservisi recato in incognito, raggiungendo la sala da Pitti “lungo il corridore”... Se il principe può ostentare la propria immagine pubblica nella pompa ufficiale della spettacolo di corte, del quale la sua persona diviene il centro, egli non può svelare la propria presenza (se non come eventualità percepita e potenzialmente ammonitoria) a uno spettacolo che della prosopopea della corte rappresentava il contrario124.
Dalla veduta di strada alla veduta teatrale Duplice risulta la rappresentazione degli eventi teatrali. Il percorso vedutista consente in primis di focalizzare lo sguardo sull’antica tradizione degli spettacoli di piazza e di strada, sia sacri che profani. Un’occasione per reinventare la città è La Grande Procession de Florence, le jour de la Fète de Dieu come la Fète de S. M. Louis Dix-huit au jardin des Tuileries le 25 aout 1815 o la Vue Perspective de la Procession de l’Abbaye Royale de S. Denis en France à celle aussi Royale de Montmartre, qui se fait tous le 7 ans le ler May : il panorama degli spettacoli è variegato, un campione delle più vaste rappresentazioni civili o religiose dell’urbano sentire collettivo. Il carnevale romano e quello veneziano, il San Giorgio Ferrarese e il San Giovanni Battista fiorentino sono occasioni per una serie di gare e di sfilate, di banchetti, balli e mascherate; come altre “pubbliche liturgie” suggellano l’unione fra città e apparati effimeri e vengono ampiamente riprese dalle vedute ottiche. Gli spazi pubblici maggiormente frequentati, i percorsi viari più noti, fanno da sfondo a feste dove un pubblico estremamente eterogeneo - dai delegati delle corporazioni ai rappresentanti del clero, dagli ospiti stranieri agli umili sudditi della signoria - perpetua il complesso sentimento identitario della civitas. Una lunga tradizione di spettacoli che “non entrano mai in teatro” accompagna il metamorfismo urbano del rinascimento italiano sino alle soglie del Novecento : il vedutismo per strumento testimonia l’elezione a palcoscenico dell’ambiente cittadino, attraverso la realizzazione di apparati stradali ed ornamenti posticci quali archi, fontane., scenofronti. Un motivo, quest’ultimo, che non sarà mai abbandonato, accompagnando dipinti, cartografie, progetti d’architettura e iconografie della trattatistica più varia: oltre alla Piazza degli
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Uffizi inquadrata dal Prospectus ingressus ad aulam et platae de Arno Florentiae altre vedute di fine XVIII secolo mostrano lo stesso trattamento126. L’arco a incorniciare un paesaggio - questa volta il Vesuvio in eruzione appare anche in teatro, nella scenografìa di Sanquirico realizzata alla Scala per Gli ultimi giorni di Pompei™: e Luigi Maggi manterrà la stessa impostazione per E omonimo film della Ambrosio, nel 1908. Composizioni di paesaggi e città intravisti dalle arcate in primo piano appartengono anche alla pittura: ricordiamo il Paesaggio con arcate gotiche (1812) di Karl Friedrich Schinkel e numerose tele - pittoriche, dioramatiche - realizzate da Daguerre. Altro percorso vedutista è all’interno di quello che Fabrizio Cruciani definiva «il teatro che abbiamo in mente», un immaginario capace di ottimizzare «quel che pensiamo del teatro nelle componenti scena e sala e consente anche di pensare unitariamente le storie separate dell’architettura teatrale, della scenografia, del luogo dell’azione rappresentativa»128. È il teatro come “normale” rappresentazione in una determinata tipologia architettonica, quell’edificio che informa funzioni sviluppatesi da una serie di esperienze riconducibili al Rinascimento italiano: la riflessione di Sebastiano Serlio con il secondo dei Sette libri dell’Architettura (pubblicato a Parigi nel 1545), gli spettacoli di corte del Vasari e del Buontalenti - ai quali potremmo associare analoghi spazi allestiti a Urbino, Ferrara, Mantova, Venezia, Milano, Roma, ma anche a Parigi o Bruges, Gand o Barcellona -, i prototipi dell’olimpico di Vicenza (Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi, 1580), del Ducale di Sabbioneta (Vincenzo Scamozzi, 1588), del Farnese di Parma (Giovanni Battista Aleotti, 1618). È quel teatro all’italiana che dagli anni Quaranta del XVII secolo si impone nelle città europee come luogo privilegiato del fare spettacolo. La mobilità di intere dinastie di architetti, scenografi, pittori e macchinisti contribuisce alla “stabilizzazione” del modello come, d’altronde, la circolazione dei materiali di progetto: dipinti, bozzetti, prospetti degli allestimenti. Sulla stampa delle scene, ad esempio, costruì la sua fama il Torelli nel primo Seicento; e così fece Giuseppe Bibiena nel Settecento, pubblicando ad Augusta in fascicoli (ne usciranno sei tomi) una raccolta di architetture e prospettive. Agli inizi dell’ottocento si moltiplicano le pubblicazioni di scene (si ricordi che sempre più lo scenografo crea le scene solo per la “prima”): a Milano l’editore Sonzogno pubblicò nel 1816, a fascicoli, i “Fasti” della Scala; e tra il 1820 e il 1830 l’incisore Stucchi divulgò a prezzi “tenui” le scene teatrali fatte in Milano129.
Uno spaccato di teatro all’italiana è all’interno di un grande mondo niovo veneziano (XVIII secolo, Museo del Cinema di Torino): dai tre fori circolari della scatola lignea appaiono ordini sovrapposti di palchetti, gli spettatori nei balconcini si affacciano sulla platea, il boccascena incornicia lo spettacolo
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accompagnato dalle concitate parole di un mestierante errabondo, “architetto” di altre mirabili città immaginate. Città infinite Il rapporto è circolare: la scatola, pregevole modello di architettura, rimanda al teatro, luogo dei possibili scenici, sul palcoscenico del quale s’illumina una micro drammaturgia fatta di altre, mirabili, architetture: la veduta n. 14, ad esempio, è il Giardino, che porta al Teatro del Ré di Spagna™. Introdotte dall’imbonitore, si susseguono città in festa e scenari urbani, palcoscenici veri, verosimili o metaforici, teatri con scene di città e città con architetture teatrali. Deboli sfumature fra immaginari contigui: ecco II lago di Pietro Burgo, fiancheggiato da Giardini Imperiali, e Palazzi di delizie, ed in faccia la gran città, ecco / ’Anfiteatro con un combattimento di due Gladiatori, ecco il Palazzo antico del Re di Granata. Scene con trasparenze e abili effetti luminosi, sul modello del vedutismo per scatola ottica, sono effettivamente utilizzate come scenari teatrali. Uno dei topoi della scenografia teatrale italiana è anche l’illusione di estrema profondità della scena che, sul modello dell’olimpico di Vicenza, ha nella rappresentazione urbano-architettonica notevoli potenzialità di “sfondamento”. Catherine Join-Diéterle ricorda che aux XVII et XVIII siècles, les Italiens ont élaboré des procédés créateurs d’espaces démesurés, démultipliés el: done irréels. Le proscenium qui n’en constituait qu’une infime partie réservée au jeu des acteurs, était seul praticable131.
Il tema è evidente negli infiniti prospettici della Vue du fameux Théàtre de la Ville de Naples en Italie, nella Vue Perspective de l’interieure de la Salle du Spectacle de Veronne en Italie , o nella meno “sparata”, ma interessante per la scenografia neogotica, Salle de l’Opéra à Paris per Polyorama panoptique. Hassan El Nouty ricorda che Servandoti sembre avoir été en plus un précurseur des spectacles d’optique du XIX siècle. Dans la salle des machines aux Tuileries, doti la construction, commencée par Richelieu, avait été complétée par Mazarin, il avait exposé des pré-dioramas aux sujets religieux ou historiquees: en 1738 il représentait l’église Saint-Pierre de Rome; en 1739 c’était l’Histoire de Pandore'33.
Scenari teatrali sono riprodotti già dal 1720 nella Boite à perspective d’Engelbrecht, una scatola in cartone di forma estremamente allungata, nella quale vengono inseriti cartoncini disegnati e colorati, aventi per soggetto scenette di vario genere. Questi diorami costituiscono vere e proprie ricostruzioni di palcoscenici in miniatura, con figurine e scenografie intagliate a riprodurre opere teatrali, osservabili in prospettiva centrale dal foro posizionato
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sul fronte della scatola ottica: una centralità che rimanda, ancora una volta, agli accennati sguardi principeschi134. Nella boite osservata all’esposizione parigina della Pathé, la prospettiva lineare governa una composizione di canali e giardini incorniciati da due scenofronti. An authentic view of the great industrial exhibition Palace of 1851, veduta per diorama a soffietto della collezione David Robinson, mostra il rivoluzionario edificio di Paxton inserito in volute e decorazioni fitomorfe stile Beaux arts'35. Un teatrino a sei quinte successive introduce lo spettacolo della visione all’intemo del palazzo in ferro e vetro, gremito di lampadari di cristallo. La luce dorata vuole probabilmente ricreare la stupefacente luminosità che coglieva i visitatori del primo edificio di architettura moderna: ma l’ampiezza, la leggerezza e la luminosità del Cristal Palace vengono piuttosto mostrate dal fotografo Peter Henry Delamotte, testimoniando, dieci anni dopo l’esposizione, il trasbordo dell’edificio a Sydenham. La fotografìa d’architettura trova nel mito del palazzo di cristallo una “radiosa” esemplificazione delle sue possibilità. Per Philippe Nèagu e JeanFran